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Italian Pages 700 Year 2008
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VOLUME SPROVVISTO DEL TALLONCINO A FRONTE
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(VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI ART. 17, I.V.A. (D.P.R. 26.10.1972, N. 633, ART. 2, LETT. D).
C .2
L.
Le Unità: il profilo di storia della filosofia con i testi da leggere I Laboratori di lettura I Percorsi tematici I Laboratori sul lessico. Filosofia e vita quotidiana Le Tesi a confronto Configurazione dell’opera 1. Filosofia antica e medievale 2. Filosofia moderna 3. Filosofia contemporanea
ISBN 978-88-00-20484-2 ISBN 978-88-00-20485-9 ISBN 978-88-00-20486-6
Guida per l’insegnante
ISBN 978-88-00-20709-6
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
Le ragioni della filosofia
M. Vegetti | L. Fonnesu
Q UESTO
1 Filosofia antica e medievale
Mario Vegetti | Luca Fonnesu Franco Ferrari | Stefano Perfetti | Emidio Spinelli
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 1 - Filosofia antica e medievale
www.edusophia.it
Prezzo al pubblico Euro 25,80
0 I-II Vegetti-Filosofia 1
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Mario Vegetti - Luca Fonnesu Franco Ferrari - Stefano Perfetti - Emidio Spinelli
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 1 Filosofia antica e medievale
© 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it www.pianetascuola.it
Prima edizione : gennaio 2008 Edizioni 11 2012
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L’opera è frutto della collaborazione fra gli autori. In particolare: Mario Vegetti ha curato l’Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica e i Percorsi tematici Che cos’è la giustizia?, Le ragioni della scienza Mario Vegetti e Franco Ferrari hanno curato le Unità 3 Platone, 4 Aristotele, 5 Il pensiero scientifico antico Franco Ferrari ha curato le Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici, 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate, 7 I platonismi e Plotino e il Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto Emidio Spinelli ha curato l’Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo e il Percorso tematico Che cos’è il piacere? Stefano Perfetti ha curato l’Introduzione Dal mondo antico al Medioevo, le Unità 8 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino, 9 Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto, 10 Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino, 11 Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo e il Percorso tematico Il mondo è eterno? Luca Fonnesu ha curato i Laboratori sul lessico Bene/Buono, Giustizia/ Giusto, Felicità Claudio La Rocca ha curato i Laboratori sul lessico Verità, Essere Redazione Impaginazione Progetto grafico Copertina Ricerca iconografica
Andrea Bencini, Marco Solinas, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) Polaris Studio redazionale (Firenze) Alfredo La Posta Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Alberto Mori
In copertina
Vaso attico a figure rosse (particolare) proveniente dalla Necropoli della Penna, V secolo a.C. Civita Castellana, Museo dell’Agro Falisco – Foto Archivio Seat/Archivi Alinari
Revisione testi e apparati didattici
Alessandro Becchi, Annalia Celli, Luciana Ceri, Francesco Cirri
Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità.
Per informazioni e segnalazioni: Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] tel. 199122171 (euro 0,12 + Iva al minuto senza scatto alla risposta; per cellulari il costo varia in funzione dell’operatore)
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Presentazione
Le ragioni della filosofia. Il titolo di questo corso può venire interpretato in due sensi diversi. Il primo di essi ha orientato la modalità di costruzione del nostro racconto storico, mentre il secondo esprime la sua destinazione, il compito che ci siamo posti. Nel primo senso, dunque, «le ragioni della filosofia» designa l’ordine degli argomenti, delle intenzioni, insomma appunto delle «ragioni» che hanno governato nel tempo la formazione delle prospettive teoriche proposte dai diversi filosofi, e anche quelle che hanno motivato le critiche ad esse rivolte da altri filosofi, in quella discussione incessante (ma non arbitraria o inconcludente) che costituisce la «storia della filosofia». Non pensiamo che la storia della filosofia vada concepita, e narrata, come una «filastrocca delle opinioni» che si snoda nei secoli (come diceva Hegel a proposito del cattivo uso di questa disciplina). Crediamo invece che essa costituisca lo scenario di un serrato dibattito fra tentativi diversi, e spesso contrapposti, di rispondere razionalmente a una serie di domande fondamentali che gli uomini si sono posti nel corso della loro storia, e in forme diverse tuttora si pongono: che cosa è il mondo, e come possiamo conoscerlo? esiste una divinità, e, se sì, qual è il suo rapporto con il mondo e con gli uomini? qual è il senso dell’esistenza umana, quali sono le condizioni che possono assicurarle una piena fioritura, quali sono le norme e i valori morali che garantiscono il buon ordine della vita associata? E infine: se intorno a questi e ad altri analoghi problemi si possono formulare tesi diverse, quali sono i criteri che ci permettono di sceglierne alcune rispetto ad altre? O in altri termini, come è possibile decidere della loro validità? Per chi ritiene che alle domande fondamentali intorno al mondo, alla conoscenza, al senso e al valore della vita individuale e collettiva, esista una sola risposta possibile, e che essa sia rivelata da un’autorità estranea e superiore alla ragione umana, ai suoi metodi di indagine e di argomentazione, lo sforzo secolare della riflessione filosofica può apparire inutile; ma anche chi possiede questa convinzione, se vuole vivere nella comunità umana, deve poi fare lo sforzo di convincere chi non la condivide, e ancora una volta – come spesso è accaduto nel corso della storia – deve ricorrere a questo fine agli argomenti della filosofia. Chi invece crede che si tratti di domande aperte, di risposte alternative fra le quali decidere e orientarsi con le sole forze della riflessione razionale, non può che trovare nella storia della filosofia l’affascinante spettacolo degli sforzi del pensiero umano per procedere lungo un percorso di conoscenza, di chiarezza, di progressivo approfondimento critico delle conquiste via via conseguite. Raccontare la storia della filosofia ha dunque significato per noi in primo luogo ricostruire ed esporre il gioco delle argomentazioni contrapposte, il progressivo accumularsi delle conoscenze oppure il conflitto fra «ragioni» alternative, con l’attenzione rivolta più alla ricostruzione della discussione razionale che alla semplice successione cronologica delle opinioni. Proprio per questo, abbiamo cercato, nell’analisi dei testi filosofici qui proposti alla lettura, di richiamare l’attenzione sulla loro tessitura dimostrativa, sul senso teorico delle prospettive proposte; senza mai dimenticare, d’altro canto, che ogni forma di riflessione filosofica si svolge in una situazione storica e sociale determinata, e che le sue «ragioni» sono in primo luogo riferite ai problemi propri del mondo in cui essa nasce e si sviluppa. III
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Prefazione
Ogni filosofia, dunque, ha le sue proprie «ragioni», e il primo compito che ci siamo proposti è stato quello di ricostruirle e renderle comprensibili, tanto dal punto di vista della loro concatenazione argomentativa, quanto da quello del loro particolare contesto storico. Ma, si diceva, l’espressione «le ragioni della filosofia» ha anche un altro senso. Si tratta, a nostro avviso, delle (buone) ragioni per le quali la filosofia e la sua storia meritano ancora oggi di venire insegnate e apprese. Siamo in effetti convinti che gli strumenti offerti dalla riflessione filosofica siano utili per articolare correttamente le domande che ognuno si pone intorno alla comprensione del mondo in cui viviamo, al senso della nostra esistenza, alla giustizia e alla felicità, al nostro rapporto con gli altri, con le vicende politiche, sociali e morali che ci coinvolgono. Siamo inoltre convinti che quegli stessi strumenti siano indispensabili per vagliare criticamente la validità e il senso delle risposte che a queste domande vengono suggerite dall’ambiente culturale che ci circonda, dalle tradizioni, dai mezzi di comunicazione e dalle forme di autorità che vi sono dominanti. L’esercizio della riflessione filosofica ha dunque a nostro avviso una doppia e preziosa funzione. In senso critico, essa serve a proteggere l’autonomia di giudizio e di valutazione del soggetto dalla pressione di credenze diffuse, di pregiudizi sociali, di proposte informative che possono essere intese a suscitare un’accettazione passiva e conformistica. In senso positivo, la riflessione filosofica può aiutare a orientarsi di fronte alle questioni decisive di verità e di senso, di conoscenza e di condotta personale e collettiva che si pongono alla vita di ognuno; può dunque servire a costruire profili di personalità libera e consapevole, capace di interagire positivamente con gli altri in un mondo sociale sempre più complesso. La storia della filosofia – se appunto non viene studiata come mera «filastrocca delle opinioni» – può allora costituire una sorta di repertorio ragionato di questi strumenti critici e costruttivi. Essa continua dunque a meritare, a nostro avviso, il suo posto in qualsiasi programma di formazione dei futuri cittadini in quanto soggetti in grado di esprimersi razionalmente e liberamente nel discorso e nell’azione, rifiutando le tentazioni della coercizione e della violenza, privilegiando invece l’ascolto, la comprensione, lo sforzo di convincere delle proprie ragioni e di accettare quelle altrui. Mario Vegetti e Luca Fonnesu
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Indice 3. Zenone: la difesa logico-argomentativa di Parmenide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Melisso: l’essere è il cosmo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parte prima
L’età antica
48 49
Melisso, Sulla natura o sull’essere: T19 fr. 1a (p. 49)
Introduzione
Dalle origini al declino della filosofia antica 1. 2. 3. 4.
La nascita della filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Perché in Grecia? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chi erano i filosofi? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La fine della filosofia antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5 6 9 13 20
Sommario (p. 23), Parole chiave (p. 23), Questionario (p. 24) ◆ La
parola al critico: Vernant legge le origini della filosofia in Grecia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Empedocle, Anassagora, Democrito: il naturalismo dopo Parmenide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
50 51
1. Empedocle: tra antichi e nuovi saperi . . . . . . . . . . Empedocle, Sulla natura: T20 fr. 8 (p. 52); T21 frr. 21 e 26 (p. 53); Purificazioni: T22 fr. 117 (p. 54)
2. Anassagora: i semi infiniti e l’Intelletto . . . . . . . .
54
Anassagora, Sulla natura: T23 fr. 1 (p. 55); T24 frr. 12 e 13 (p. 55)
3. Democrito: gli atomi e il vuoto . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
56
Democrito, Sulla natura: T25 fr. 11 (p. 58); T26 fr. 9 (p. 58) Sommario (p. 61), Parole chiave (p. 62), Questionario (p. 63)
Unità 1
Laboratorio di lettura: Eraclito, Sulla natura . . . . . . . . . .
Gli inizi della filosofia: i presocratici
Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
......
29
1. Chi sono i presocratici? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
30 30
1. Il problema delle fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. La scuola di Mileto e la cosiddetta physiologhìa
..
1. Talete, saggio tra i sapienti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
33 34
T1 Talete (da Aristotele), Sul cielo (p. 34)
2. L’illimitato di Anassimandro . . . . . . . . . . . . . . . . . .
34
T2 Anassimandro, Sulla natura fr. 1 (p. 35)
3. Anassimene: l’aria origine del tutto . . . . . . . . . . . .
35
Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 2
La filosofia della città: i sofisti e Socrate . .
71
1. Il luogo della filosofia: Atene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. I sofisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
72 73 74
T1 L’uomo è misura di tutte le cose (p. 75)
...............................
36
Eraclito, Sulla natura: T4 fr. 34 (p. 37); T5 fr. 29 (p. 37); T6 fr. 89 (p. 37); T7 fr. 51 (p. 37); T8 fr. 88 (p. 38); T9 fr. 53 (p. 38); T10 fr. 50 (p. 38); T11 fr. 1 (p. 38); T12 fr. 67 (p. 39)
4. L’anima e il numero: Pitagora e il pitagorismo
Laboratorio di lettura: Empedocle, Sulla natura . . . . . . . . .
1. Protagora e il relativismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
T3 Anassimene (da Simplicio), Commento alla Fisica frr. 24,26 (p. 35)
3. Eraclito l’oscuro
64 67 68 70
....
2. La potenza della parola: Gorgia . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La sofistica e l’illuminismo greco . . . . . . . . . . . . . . T2 La «giustizia di natura» secondo Callicle (p. 81); T3 L’astuta invenzione della religione (p. 82)
39
3. Socrate e la filosofia
40 41
T4 Socrate: l’incantamento della filosofia (p. 86); T5 Socrate: l’interpretazione dell’oracolo delfico (p. 87)
5. L’essere e la verità: Parmenide e l’eleatismo . . . . . .
44
1. Senofane: fiducia nella ragione e critica alla religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Il metodo filosofico socratico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Il rapporto tra virtù, conoscenza, felicità . . . . . . . .
44
88 90
T6 Quel qualcosa di divino e demoniaco… (p. 92)
4. Il bene, la vita e la felicità del filosofo . . . . . . . . . .
Senofane, Silli: T13 fr. 11 (p. 44); T14 fr. 15 (p. 44); Sulla natura: T15 fr. 23 (p. 45) Parmenide, Sulla natura: T16 fr. 1 (p. 45); T17 fr. 3 (p. 46); T18 fr. 8 (p. 46)
84 85
............................
1. Il programma filosofico socratico . . . . . . . . . . . . . . .
1. L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Le dottrine matematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Parmenide: la verità contro l’opinione . . . . . . . . . .
77 79
92
T7 Socrate contro Antifonte: la felicità del filosofo (p. 93)
45
5. L’eredità di Socrate: le cosiddette «scuole socratiche» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Sommario (p. 98), Parole chiave (p. 99), Questionario (p. 100)
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Indice
Laboratorio di lettura: Gorgia, Encomio di Elena . . . . . . . . 101 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 LABORATORIO SUL LESSICO
Filosofia e vita quotidiana: Bene / buono
. . . . . . 105
Esercitiamoci sul bene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108
3. L’edificio del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 4. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204 T1 Suono, segno, significato (p. 205); T2 La dimostrazione (p. 208); T3 Principi propri e comuni (p. 209); T4 Dire qualcosa di sensato (p. 210); T5 L’intelletto principio della scienza (p. 212)
5. Le categorie e il primato della sostanza . . . . . . . . . 213 T6 Le dieci categorie (p. 214); T7 Sostanze seconde (p. 215); T8 Sostrato, specie e generi (p. 216)
Unità 3
Platone
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111
1. Platone e le ragioni della filosofia . . . . . . . . . . . . . . 112 2. Il maestro, il dialogo, la maturità . . . . . . . . . . . . . . 113 3. Virtù, desiderio, felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116
7. La struttura dell’universo: cosmologia e teologia . 223
8. I viventi e l’anima: biologia e psicologia . . . . . . . . 229
4. La giustizia nella pòlis: i filosofi-re . . . . . . . . . . . . 120 T5 La divisione del lavoro (p. 120); T6 Poeti al bando (p. 122); T7 L’onda più grande (p. 123); T8 Le insidie della proprietà privata (p. 125); T9 «Mio» e «non mio» (p. 125)
T15 La natura provvede al meglio (p. 230)
9. La filosofia prima o metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . 233
5. L’anima e la giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 T10 Le passioni del corpo (p. 126); T11 Il mito della biga (p. 128); T12 Sudditanza e costrizione (p. 131)
T16 I requisiti della sapienza (p. 234); T17 L’essere in quanto essere (p. 235); T18 L’essere e la sostanza (p. 236); T19 Causa è la forma (p. 238); T20 La scienza teologica (p. 240)
10. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241
6. Verità, conoscenza e discorso: le idee . . . . . . . . . . . 132 T13 Filosofi veri e falsi (p. 133); T14 Dal bel corpo all’idea del bello (p. 136); T15 Matematica e dialettica (p. 138); T16 Il segmento quadripartito (p. 140)
T21 Il bene maggiore: la felicità (p. 241); T22 L’opera propria dell’uomo (p. 242); T23 Il medio tra eccesso e difetto (p. 243); T24 La via di mezzo (p. 244)
11. La politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246 T25 Le sei costituzioni (p. 248)
7. Dialettica, idee, principi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 T17 La contrarietà: dalle cose alle idee (p. 142); T18 Il diverso ovvero il non essere (p. 145)
12. La retorica e la poetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 T26 Poesia e storia (p. 251)
8. Il cosmo e le sue cause . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 T19 Modello, copia, verosimiglianza (p. 148)
13. La scuola di Aristotele: il Peripato . . . . . . . . . . . . . 252 14. Un bilancio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 Sommario (p. 255), Parole chiave (p. 256), Questionario (p. 257)
9. Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione . . . 151 T20 Eros: ruvido, misero, instancabile cacciatore di sapienza (p. 152); T21 Ascesa e discesa del filosofo (p. 154)
10. L’eredità: l’Accademia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 Sommario (p. 157), Parole chiave (p. 158), Questionario (p. 159)
Laboratorio di lettura: Il Fedro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166 Tesi a confronto Platone: governo totalitario o governo democratico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174
Laboratorio di lettura: L’Etica nicomachea (1) . . . . . . . . . . 258 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263 Laboratorio di lettura: L’Etica nicomachea (2) . . . . . . . . . . 264 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 Tesi a confronto Aristotele: la natura ha un fine? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274
Percorso tematico • Platone e Aristotele: un confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 286
. . . . . . . . . . 175
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Giustizia / giusto . . . . 191 Esercitiamoci sulla giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194
Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 5
Il pensiero scientifico antico
. . . . . . . . . . . . . . . . 287
1. Scienze e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 288 2. La medicina antica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289 1. Gli inizi e il Corpus Hippocraticum . . . . . . . . . . . . . 289 2. Il sapere medico come modello culturale . . . . . . . 291
Unità 4 197
1. Il primo professore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 2. Le ragioni di Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202
VI
T9 Le cose per natura (p. 217); T10 Le quattro cause (p. 220); T11 Il fine nella natura (p. 222) T12 Movimenti rettilinei o circolari (p. 224); T13 Il luogo degli dèi (p. 225); T14 Il primo motore immobile (p. 227)
T1 Callicle: la virtù dei forti e la temperanza dei mezzi uomini (p. 117); T2 Contro la quiete socratica (p. 118); T3 Trasimaco: l’utile del potere costituito (p. 118); T4 Il patto dei deboli (p. 119)
Percorso tematico • Che cos’è la giustizia?
6. Il divenire del mondo: principi e cause . . . . . . . . . 216
T1 Autopropaganda della medicina «ippocratica» (p. 291); T2 Il compito del medico (p. 292); T3 Il medico dei liberi e il medico degli schiavi (p. 292); T4 «Giuro su Apollo medico…» (p. 292)
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3. Il sapere dei medici ippocratici . . . . . . . . . . . . . . . . 293 T5 Ambiente e malattie (p. 294); T6 La terapia dei ricchi e la terapia dei poveri (p. 295); T7 La centralità della prognosi (p. 296)
4. La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297 5. Le scuole mediche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 298 6. Galeno e la rifondazione della medicina . . . . . . . . 300
T23 La natura del cosmo (p. 368); T24 La ragione divina (p. 369); T25 Il ritorno dell’identico (p. 370) T26 L’unitarietà delle virtù (p. 372); T27 La grandezza del saggio (p. 373); T28 Il cane e il carro (p. 374)
5. Lo stoicismo medio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 374
3. Matematiche e filosofia
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 306 1. I greci e la matematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 306
2. Prima di Euclide: la nascita della matematica greca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 3. La svolta assiomatica: l’Accademia platonica, Aristotele ed Euclide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 308 T15 Le definizioni aritmetiche di Euclide (p. 309); T16 Le definizioni geometriche di Euclide (p. 310); T17 Principi indimostrabili (p. 311)
T29 La mitezza di Panezio (p. 375); T30 L’anima tripartita (p. 377)
6. Lo stoicismo romano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 377 T31 Sulla morte (p. 380); T32 La natura distruttrice (p. 380); T33 Il potere della filosofia (p. 381); T34 Le cose in nostro potere e le altre (p. 382); T35 Tener fermi i principi (p. 383); T36 L’abisso del tempo infinito (p. 383); T37 L’incessante dileguarsi dell’esistente (p. 384)
4. Scetticismi antichi
4. L’astronomia matematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 312 5. L’assiomatizzazione dell’ontologia: Proclo e il neoplatonismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 316 Sommario (p. 318), Parole chiave (p. 319), Questionario (p. 320) . . . . . . . . 321
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 338
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 385 1. Le ragioni di Pirrone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 386
T38 È e non è (p. 387); T39 Relativismo e distacco (p. 387)
2. Lo scetticismo nell’Accademia . . . . . . . . . . . . . . . . 388 T40 Il ritorno all’aporia socratica (p. 388); T41 Sospendere l’assenso (p. 389); T42 Rappresentazione e giudizio (p. 390); T43 Un ingegno sbalorditivo (p. 391); T44 Cause e volontà (p. 392); T45 Verità incerte (p. 392); T46 Rappresentazioni e circostanze (p. 393)
3. L’eredità pirroniana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
Unità 6
L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. La fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 367
4. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 370
T8 L’affermazione a Roma (p. 300); T9 Lo spettacolo anatomico (p. 300); T10 A confronto con i testi dei maggiori anatomisti (p. 301); T11 Contro Marziale (p. 301); T12 Competizioni tra medici (p. 301); T13 La terapia dell’anima (p. 303); T14 La malvagità involontaria (p. 304)
Percorso tematico • Le ragioni della scienza
T17 Le due rappresentazioni (p. 363); T18 La rappresentazione comprensiva (p. 363); T19 Il paragone di Zenone (p. 363); T20 La centralità dell’esperienza (p. 364); T21 Gli argomenti dimostrativi (p. 367); T22 I cinque ragionamenti indimostrati (p. 367)
339
1. L’ellenismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340 2. L’epicureismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343 1. Le ragioni di Epicuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 343 T1 La coesione dottrinaria (p. 344); T2 Non ci si stanchi di filosofare (p. 344)
2. Il sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345
T47 I dieci tròpi (p. 395); T48 Si logorano invano (p. 395); T49 I cinque tròpi dell’epochè (p. 396); T50 Il linguaggio quotidiano (p. 399); T51 Terapie per i dogmatici (p. 400) Sommario (p. 402), Parole chiave (p. 403), Questionario (p. 404)
Laboratorio di lettura: I Lineamenti pirroniani di Sesto Empirico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 405 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 414
Percorso tematico • Che cos’è il piacere?
. . . . . . . . . . . 415
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 428
T3 Le prolessi (p. 346)
3. I principi della fisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 347 T4 L’esistenza del vuoto (p. 348); T5 L’eternità di atomi e vuoto (p. 349); T6 Il clinamen (p. 349); T7 La serenità e il verosimile (p. 351)
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Felicità . . . . . . . . . . . . . 429 Esercitiamoci sulla felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 432
4. L’annuncio di felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351 T8 Paura e conoscenza (p. 352); T9 La negazione della provvidenza (p. 352); T10 La morte non è nulla (p. 353); T11 Il calcolo dei piaceri (p. 354); T12 La tetraphàrmakos (p. 355); T13 Le gioie del ricordo (p. 356); T14 L’amicizia (p. 357)
5. L’eredità epicurea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357 T15 Divino Epicuro (p. 358)
3. Lo stoicismo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 1. Nascita e sviluppo dello stoicismo antico . . . . . . . 359
T16 L’unità del sapere filosofico (p. 361)
2. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362
Unità 7
I platonismi e Plotino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 435
1. Platonismi a confronto: un campo di battaglia . . . . 436 2. Il medioplatonismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 1. La rinascita dello spirito sistematico all’interno della scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 2. Dio e le idee: teologia e ontologia nel medioplatonismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 439 3. L’uomo e la sua anima: l’etica medioplatonica . . . 441 T1 L’anima non è monolitica (p. 442)
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4. Un terreno di scontro: il mondo è eterno o ha un inizio? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 443
3. Plotino: fra innovazione e tradizione
3. Il giovane Agostino: l’ordine, il male e la felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 501 T7 La non-sostanzialità del male (p. 502)
. . . . . . . . . . . . . 445
4. La teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 503
T2 Discorsi antichi (p. 445)
T8 L’anima agisce su ciò che il corpo subisce (p. 505); T9 Il metodo dell’interiorità (p. 507); T10 La verità dimora nell’uomo interiore (p. 508)
1. Al di là dell’essere e del pensiero c’è l’Uno . . . . . 446 T3 Tutti gli esseri sono esseri per l’Uno (p. 447); T4 L’anima è l’Uno? (p. 447); T5 Al di sopra della dualità (p. 449); T6 L’Uno: al di là dell’essenza (p. 450); T7 Il principio che permane in sé e tuttavia genera altro da sé (p. 452)
5. La teoria del tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 508 6. Teologia della storia e filosofia politica . . . . . . . . . . 510 T11 Due amori, due città (p. 510); T12 Una banda di pirati su larga scala (p. 512)
2. L’Intelletto, l’Anima, il mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . 453 T8 Il divenire del molteplice (p. 453); T9 La genesi del tempo (p. 454)
7. Etica e teologia morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 512 T13 La volontà buona (p. 513); T14 La giustificazione viene da Dio (p. 514)
3. Il ritorno all’Uno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 456
4. Il neoplatonismo dopo Plotino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 459
Sommario (p. 463), Parole chiave (p. 464), Questionario (p. 465)
Laboratorio di lettura: Le Enneadi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 466 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 470
. 516
Sommario (p. 518), Parole chiave (p. 519), Questionario (p. 520)
Laboratorio di lettura: Le Confessioni di Agostino . . . . . . . 521 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 525 Tesi a confronto Predestinati o liberi? . . . . . . . . . 526 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 530
Parte seconda
L’età tardoantica e il Medioevo
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Verità . . . . . . . . . . . . . . . 531 Esercitiamoci sulla verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 536
Introduzione
Dal mondo antico al Medioevo
8. L’eredità di Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 515
5. L’autunno della patristica: il corpus dionysianum
. . . . . . . . . . . . . 475
1. I ‘confini’ del Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 476 2. I percorsi della filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 477 ◆ La
parola al critico: Identikit della filosofia medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 479
Unità 8
Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
481
1. Cristianesimo e filosofia tardoantica . . . . . . . . . . . . . 482 2. La rivelazione biblica e il cristianesimo . . . . . . . . . . 483 1. I temi fondamentali della Bibbia ebraica . . . . . . . . 483 T1 I dieci comandamenti (p. 484)
2. La predicazione di Gesù di Nazaret . . . . . . . . . . . . 484 T2 La casa sulla sabbia (p. 485); T3 «Beati quelli che…» (p. 485)
3. Il Nuovo Testamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 486 T4 Il Lògos (p. 488)
3. I padri della Chiesa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 489 1. I padri apologisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 490
T5 Ricerca e Lògos (p. 490)
2. La scuola di Alessandria: Clemente e Origene . . . 492 T6 Animali allegorici (p. 493)
3. Impero e ortodossia nell’età dei concili . . . . . . . . . 494
Unità 9
Medioevo cristiano, Medioevo islamico e Medioevo ebraico: tre mondi a confronto . .
539
1. L’alto Medioevo: filosofia nei monasteri e nelle corti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 540 1. 2. 3. 4. 5.
V-VI secolo: i due ‘inizi’ del Medioevo . . . . . . . . . Severino Boezio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Compilazioni ed enciclopedie . . . . . . . . . . . . . . . . . La rinascita carolingia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eriugena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
540 541 543 544 546
T1 La divisione della natura (p. 546); T2 Le cause primordiali (p. 547); T3 Il ritorno in Dio (p. 548); T4 Ragione e autorità (p. 549)
6. L’XI secolo e Anselmo d’Aosta . . . . . . . . . . . . . . . . 549 T5 Credo per capire (p. 551)
2. Abelardo e le scuole nel XII secolo . . . . . . . . . . . . . . 554 1. La civiltà urbana nel XII secolo . . . . . . . . . . . . . . . 554 2. Pietro Abelardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 555 T6 L’arrivo a Parigi (p. 555); T7 L’anteriorità della legge di natura (p. 559); T8 L’educazione forgia le credenze (p. 560)
3. La filosofia della natura e il platonismo della scuola di Chartres . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 561 4. La filosofia politica di Giovanni di Salisbury . . . . . 562 5. La teologia della storia di Gioacchino da Fiore . . 563 T9 Le tre epoche storiche (p. 564)
4. Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 497
3. La filosofia islamica ed ebraica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 565
1. Il percorso biografico e intellettuale . . . . . . . . . . . . 498 2. Credere e sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 500
1. Contesto storico e caratteri generali . . . . . . . . . . . 565 2. L’Islam orientale: al-Farabi e Avicenna . . . . . . . . . 566
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Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 627
T10 L’uomo volante (p. 571)
3. L’Islam occidentale e Averroè . . . . . . . . . . . . . . . . . 572 4. La filosofia ebraica: ibn Gabirol e Mosè Maimonide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 575 T11 Credere e pensare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 576 Sommario (p. 578), Parole chiave (p. 579), Questionario (p. 580)
Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 632
Percorso tematico • Il mondo è eterno?
. . . . . . . . . . . . . 633
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 646
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Essere . . . . . . . . . . . . . . 647 Esercitiamoci sull’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 652
Unità 10
Filosofia e università: il XIII secolo e Tommaso d’Aquino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tesi a confronto Come ha fatto Dio a creare il mondo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 628
581
1. Il XIII secolo: le traduzioni e le università
. . . . . . . 582 1. Il movimento delle traduzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . 582 2. La nascita delle università . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 583 3. La didattica universitaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 585
2. L’eredità di Aristotele; Alberto Magno
. . . . . . . . . . . 586 1. La riscoperta di Aristotele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 586 2. Alberto Magno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 588
T1 Rendere comprensibile la fisica aristotelica (p. 588)
3. Gli «aristotelici radicali»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 590 1. Sigieri di Brabante: da Averroè alle censure . . . . . 591 2. Boezio di Dacia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 591
T2 Il sommo bene possibile per l’uomo (p. 592); T3 Sommo bene speculativo e sommo bene pratico (p. 593); T4 La beatitudine (p. 593)
4. Tommaso d’Aquino
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 594 1. Teologia e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 595
T5 Due argomenti contro la scientificità della teologia (p. 596); T6 La teologia è scienza (p. 596)
2. Che cosa significa «Dio»? Le cinque vie . . . . . . . . 597 T7 La prima via (p. 597)
3. Ipsum esse subsistens: la natura di Dio . . . . . . . . . . 599 T8 L’atto creatore di Dio (p. 600)
4. L’essere di Dio e quello delle creature. Essenza ed esistenza. Il principio di individuazione . . . . . . 601 5. L’anima umana e la conoscenza intellettuale . . . . . 602 T9 Il pensiero individuale (p. 604)
6. L’etica: aristotelismo e cristianesimo a confronto . . 604 7. La politica: la naturale necessità della vita associata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 605 T10 L’uomo animale sociale e politico (p. 605); T11 Salvaguardare l’interesse comune (p. 607); T12 Il diritto dei poveri (p. 607)
5. Parigi e Oxford
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 608 1. Bonaventura: il secondo fondatore dell’ordine . . . 609
T13 Molte luci, un’unica sorgente: Dio (p. 610)
2. Roberto Grossatesta a Oxford: geometria e metafisica della luce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 613 3. Ruggero Bacone: riforma del sapere e rinnovamento religioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 614 T14 Le straordinarie opere della tecnica (p. 616) Sommario (p. 620), Parole chiave (p. 621), Questionario (p. 622)
Laboratorio di lettura: Somma teologica: la verità secondo Tommaso d’Aquino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 623
Unità 11
Scolastica in trasformazione: dal 1277 al XIV secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
655
1. Le censure all’aristotelismo nell’università di Parigi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 656 2. Tomismo e antitomismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 658 3. Giovanni Duns Scoto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 659 1. Teologia e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 659 2. Metafisica: l’univocità dell’essere . . . . . . . . . . . . . . 660 T1 L’essere come concetto univoco (p. 661)
3. Parlare metafisicamente di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . 661 4. La natura comune, gli individui e gli universali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 662 T2 L’indifferenza della natura comune (p. 663)
5. Intuizione e astrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 663 6. L’etica: volontà e libertà nell’uomo . . . . . . . . . . . . . 664 T3 La volontà come causa indeterminata . . . . . . . . . . . . . . 664
4. La mistica speculativa di Meister Eckhart . . . . . . . . 665 T4 La generazione interiore (p. 666); T5 Liberi da Dio in Dio (p. 667)
5. Guglielmo di Ockham
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 668 1. Ontologia: il primato degli enti singolari . . . . . . . . 669 2. Teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 669 3. I concetti universali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 670
T6 Natura e origine degli universali (p. 671)
4. Come funziona il discorso scientifico . . . . . . . . . . . 672 T7 La scienza verte sugli universali (p. 672)
5. Il nesso causale e i limiti delle scienze naturali . . 673
6. L’eredità di Ockham
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 674 1. Il dibattito epistemologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 675 2. La nuova filosofia della natura . . . . . . . . . . . . . . . . . 676
T8 La relatività della percezione del moto (p. 677); T9 L’impetus e il moto dei corpi celesti (p. 678)
7. Il potere, lo Stato e la Chiesa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 680 1. Dante Alighieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 681 2. Marsilio da Padova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 681
T10 La collettività come causa efficiente della legge (p. 682)
3. Ockham politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 684 T11 La legittimità del potere imperiale (p. 685); T12 Il ruolo dei laici nella Chiesa (p. 685) Sommario (p. 688), Parole chiave (p. 689), Questionario (p. 690)
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Indice delle opere antologizzate L’indice fa riferimento ai testi presenti nelle Unità e nei «Percorsi tematici»
ABELARDO Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano: p. 559, p. 560; Storia delle mie disgrazie: p. 555 AGOSTINO Confessioni: p. 502, p. 507; Il libero arbitrio: p. 513; La città di Dio: p. 510, p. 512; La natura e la grazia: p. 514; La vera religione: p. 508; Musica: p. 505 ALBERTO MAGNO Fisica: p. 588 ANASSAGORA Sulla natura: p. 55 ANASSIMANDRO Sulla natura: p. 35 ANASSIMENE (da Simplicio) Commento alla Fisica: p. 35 ANSELMO D’AOSTA Proslogion: p. 551 ANTICO TESTAMENTO, ESODO p. 484 ARISTOTELE Analitici secondi: p. 208, p. 209, p. 212, p. 311; Categorie: p. 214, p. 215, p. 216, p. 279; Dell’interpretazione: p. 205; Etica eudemia: p. 284; Etica nicomachea: p. 187, p. 241, p. 242, p. 243, p. 244, p. 277, p. 284, p. 425; Fisica: p. 217, p. 220, p. 222; Le parti degli animali: p. 230, p. 327; Metafisica: p. 210, p. 227, p. 234, p. 235, p. 236, p. 238, p. 240, p. 280, p. 282; Poetica, p. 251; Politica: p. 189, p. 248, p. 285; Sul cielo: p. 224, p. 225 AVICENNA De anima: p. 571 BACONE RUGGERO I segreti della tecnica e della natura: p. 616 BOEZIO DI DACIA Il sommo bene: p. 592, p. 593; L’eternità del mondo: p. 643 BONAVENTURA DA BAGNOREGIO Commento alle Sentenze: p. 638; Riconduzione delle arti alla teologia: p. 610 BURIDANO Questioni sul De caelo: p. 677, p. 678 CICERONE De finibus: p. 375; Dell’oratore, p. 388; Lucullo: p. 363; Sul fato: p. 392; Varrone: p. 389 CORPUS HIPPOCRATICUM Luoghi dell’uomo: p. 291 CRIZIA Sisifo: p. 82 DEMOCRITO Sulla natura: p. 58 DIOGENE LAERZIO Vite dei filosofi: p. 346, p. 361, p. 363, p. 367, p. 368, p. 372; In Pirrone, Testimonianze: p. 387 DUNS SCOTO GIOVANNI Additiones magnae: p. 664; Ordinatio: p. 661, p. 663
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EMPEDOCLE Purificazioni: p. 54; Sulla natura: p. 52, p. 53 EPICURO Epistola a Erodoto: p. 349; Epistola a Idomeneo: p. 356; Epistola a Meneceo: p. 344; p. 353, p. 354, p. 427; Epistola a Pitocle: p. 351; Massime capitali: p. 352, p. 355, p. 357, p. 428 EPITTETO Manuale: p. 382, p. 383 ERACLITO Sulla natura: p. 37, p. 38, p. 39 ERIUGENA Periphyseon: p. 546, p. 547, p. 548, p. 549 EUCLIDE Elementi: p. 309, p. 310 EUSEBIO In Pirrone. Testimonianze: p. 387 FOZIO Biblioteca: p. 395 GALENO Come riconoscere il miglior medico: p. 301; Il miglior medico è anche filosofo: p. 329; I miei libri: p. 301, p. 336; Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi: p. 303, p. 304; L’utilità delle parti: p. 330; Procedimenti anatomici: p. 300; In Testimonianze e frammenti: p. 377 GIOACCHINO DA FIORE Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento: p. 564 GIUSTINO Seconda Apologia: p. 490 GROSSATESTA ROBERTO Esamerone: p. 635 GUGLIELMO DI OCKHAM Commento alla Fisica di Aristotele: p. 672; Dialogo: p. 685; Questioni sulla Fisica: p. 671 IPPOCRATE Antica medicina: p. 326; Epidemie: p. 292; Il giuramento: p. 292; Il male sacro: p. 323; Le arie, le acque, i luoghi: p. 294; Prognostico: p. 296 IPPOLITO In Stoici antichi: p. 374 LUCREZIO La natura: p. 349, p. 358 MARCO AURELIO A se stesso: p. 383, p. 384 MARSILIO DA PADOVA Il difensore della pace: p. 682 MEISTER ECKHART Sermoni: p. 666, p. 667 MELISSO Sulla natura o sull’essere: p. 49 MOSÈ MAIMONIDE La guida dei perplessi: p. 576
NEMESIO In Stoici antichi: p. 370 NUMENIO DI APAMEA fr. 24 Des Places: p. 344 NUOVO TESTAMENTO, VANGELO DI GIOVANNI p. 488 NUOVO TESTAMENTO, VANGELO DI MATTEO p. 485 ORIGENE Omelie sulla Genesi: p. 493 PARMENIDE Sulla natura: p. 45, p. 46 PECKHAM GIOVANNI Sarebbe stato possibile creare il mondo dall’eternità?: p. 640 PLATONE Apologia: p. 87, p. 92; Fedone: p. 86, p. 126, p. 420; Fedro: p. 128; Filebo: p. 423; Gorgia: p. 81, p. 117, p. 118, p. 419; Leggi: 292; Parmenide: p. 142; Protagora p. 178, p. 418; Repubblica: p. 118, p. 119, p. 120, p. 122, p. 123, p. 125, p. 131, p. 133, p. 138, p. 140, p. 154, p. 180, p. 181, p. 182, p. 183, p. 185, p. 295, p. 332, p. 422; Simposio: p. 136, p. 152; Sofista, p. 145; Teeteto: p. 75; Timeo: p. 148, p. 282 PLOTINO Enneadi: p. 445, p. 447, p. 449, p. 450, p. 452, p. 453, p. 454 PLUTARCO Cato Maior: p. 391; La virtù etica: p. 442; In Stoici antichi: p. 369 SENECA Lettere a Lucilio: p. 381; Ricerche sulla natura: p. 380 SENOFANE Silli: p. 44; Sulla natura: p. 45 SENOFONTE Memorabili: p. 93 SESTO EMPIRICO Contro i logici: p. 348, p. 363, p. 364, p. 390, p. 392, p. 393; Contro i matematici: p. 399; Lineamenti pirroniani: p. 352, p. 367, p. 395, p. 396, p. 400 STATUTI DEL 1° APRILE 1272: p. 642 STOBEO In Stoici antichi: p. 373 TALETE (da Aristotele) Sul cielo: p. 34 TOLOMEO Almagesto: p. 335 TOMMASO D’AQUINO Il governo dei principi: p. 605; L’eternità del mondo: p. 641, p. 642; L’unicità dell’intelletto: p. 604; Questioni sulla potenza di Dio: p. 600; Somma teologica: p. 596, p. 597, p. 607 IV CONCILIO LATERANENSE: p. 634
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Parte prima L’età antica
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Roma
Bisanz Abdera Elea
Stagira
Taranto
Pergamo Colofone
Crotone
Efeso
Cheronea Agrigento
Siracusa Lentini
Elide
Samo Atene
Mileto
Sparta
Cirene
Alessa
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Bisanzio
Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Bene / buono
amo
Unità 3 Platone
one
Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
Afrodisia
feso
Antiochia Mileto
Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Giustizia / giusto Unità 4 Aristotele
Cizio
Damasco Percorso tematico
Platone e Aristotele: un confronto Unità 5 Il pensiero scientifico antico
Gerusalemme Alessandria
Percorso tematico Le ragioni della scienza Unità 6 L’età ellenistica: epicureismo, stoicismo, scetticismo Percorso tematico Che cos’è il piacere? Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana: Felicità Unità 7 I platonismi e Plotino
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
1. 2. 3. 4.
La nascita della filosofia Perché in Grecia? Chi erano i filosofi? La fine della filosofia antica
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ La parola al critico: Vernant legge le origini della filosofia in Grecia
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Parte prima L’età antica
1 Filosofia: amore del sapere
Dall’antica sapienza del VI secolo alla filosofia del V
Gli oggetti specifici della filosofia sono cambiati nel tempo
La nascita della filosofia È noto a molti, e tutti i libri lo confermano, che la filosofia è nata nella Grecia antica nel VI secolo prima di Cristo. Le cose diventano però più complicate se ci si chiede che cosa è davvero ‘nato’ in quel luogo e in quel secolo. Certamente non la parola «filosofia». Essa risulta da un composto del verbo greco philèin, che significa «amare, desiderare» e del sostantivo sophìa, che significa «sapienza, sapere». Filosofia vale perciò «amore, desiderio della sapienza e del sapere»: il termine indica dunque una tensione, una ricerca verso una conoscenza che ancora non si possiede, e forse non si possiederà mai completamente. In questo senso (che comporta una distinzione polemica nei riguardi di quegli antichi ‘sapienti’, sophòi, che pretendevano di possedere la sapienza, di conoscere tutto quello che c’era da conoscere) la parola «filosofia» è nata probabilmente nella seconda metà del secolo seguente, il V, all’interno del gruppo di intellettuali che facevano capo a Socrate e poi a Platone (vedi Unità 2 e 3). Possiamo dire allora che nel VI secolo è nata una forma particolare e nuova di ‘sapienza’, diversa per qualche ragione dalle altre, che sarebbe in seguito stata considerata come l’antenata, o la matrice, della filosofia. Ma di che cosa si tratta esattamente, e in che cosa consiste questa differenza? Il problema non è qui più di nomi ma di concetti, e in sostanza rinvia alla domanda «che cos’è la filosofia?». Se noi discutessimo, per esempio, delle origini della geometria, dei caratteri che la differenziano da altre forme di sapere e ne assicurano la riconoscibilità attraverso i secoli e le epoche, potremmo dire che si tratta, grossomodo, dello studio delle proprietà delle figure piane (triangoli, poligoni, circonferenze) o solide (cubi, piramidi, sfere ecc.). La geometria può venire dunque definita, e riconosciuta, sulla base degli oggetti su cui verte la sua ricerca. Ma esistono oggetti specifici della filosofia? Le risposte a questa domanda sono state tanto diverse, e spesso contrapposte, da configurare nel corso della storia della riflessione filosofica immagini di questo sapere radicalmente diverse fra loro. In realtà, la risposta alla domanda «che cosa è la filosofia?» non può essere così lineare come quella relativa alla geometria. Sarebbe corretto dire che questa risposta consiste nell’insieme delle diverse risposte che sono state date nel corso della storia della riflessione filosofica; dunque la determinazione della specificità del sapere filosofico coincide con la sua storia. Filosofia è ciò che via via nel corso del tempo i filosofi hanno considerato come tale: un’ampia gamma di possibilità di pensiero non riducibile a una definizione univoca e invariante. Per un’adeguata risposta alla nostra domanda, dovremmo dunque attendere la fine del nostro racconto sulla storia della filosofia.
La nascita della filosofia secondo Aristotele Aristotele ci guida nella comprensione delle origini
6
Noi però stiamo cercando di capire che cosa è accaduto all’inizio di questa storia, e che in un certo senso le ha dato origine. Disponiamo in questa ricerca di una guida preziosa ma anche molto tendenziosa. Si tratta di Aristotele, l’uomo che, nel IV secolo a.C., definì per la prima volta con rigore sistematico i confini e gli oggetti di una disciplina che fino ad allora (almeno ai suoi occhi) non aveva ancora raggiunto la sua maturità (vedi Unità 4).
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Si inizia con la filosofia della natura
L’influenza di Aristotele
Alle origini: uno sguardo generale sul mondo
La questione del rapporto tra mito e lògos
La sapienza antica
Per Aristotele, dunque, una parte importante della filosofia (benché non l’unica) era costituita dalla filosofia della natura: suoi oggetti specifici erano gli elementi primi di cui sono composti i corpi naturali, e soprattutto le cause capaci di spiegare i processi che riguardano questi corpi, e dunque l’intero universo fisico. Sulla base di questa definizione, Aristotele poteva ricostruire la dinastia degli antenati, i suoi predecessori che avevano avuto qualcosa da dire intorno alla questione degli elementi e delle cause. Così egli individuava una genealogia della filosofia, che cominciava con un antico sapiente ionico, Talete, continuava con altri pensatori ionici come Anassimene e Anassimandro, includeva poi sapienti della Magna Grecia come Pitagora e i suoi discepoli, per concludersi con Platone. Qui finiva la preistoria della filosofia e iniziava – naturalmente con Aristotele stesso – la sua vera e propria storia. L’influenza di Aristotele è stata tanto grande che ancora oggi i libri di storia della filosofia accettano la sua impostazione e ne ripercorrono le stesse fasi, elencano gli stessi personaggi e gli stessi problemi. Ma certamente le cose non sono così semplici. Per esempio, Talete è stato senza dubbio un sapiente curioso dei fenomeni naturali e interessato alla loro spiegazione, nonché dotato di notevoli abilità tecniche e pratiche. Ma se qualcuno si fosse potuto complimentare con lui perché era stato l’iniziatore della ‘teoria delle cause’, e pertanto il primo filosofo, egli non avrebbe certamente compreso né la parola né la cosa di cui gli si attribuiva il merito. Più in generale, gli antichi sapienti delle origini avevano certo un interesse complessivo sulla natura, gli uomini, gli dèi, e lo sguardo che rivolgevano al mondo, le ipotesi che formulavano, avevano senza dubbio il carattere della generalità. Ma questo non è ancora un carattere distintivo della filosofia. Anche i poeti fondatori della cultura greca, Omero ed Esiodo, avevano concezioni molto generali sul mondo, sulla vita degli uomini, sulle origini e la natura della divinità, eppure essi erano appunto poeti, non filosofi. I due gruppi, poeti e filosofi, non possono neppure venire distinti sulla base della forma (orale o scritta, in poesia o prosa) delle loro opere. Se è vero che i poemi omerici furono all’inizio composti e recitati solo oralmente (vennero infatti trascritti molto più tardi), anche uno di coloro che sono annoverati fra i primi filosofi, Pitagora, tramandò il suo insegnamento solo per via orale, e lo stesso fece, un secolo più tardi, anche Socrate, il maestro di Platone. Se poi è vero che alcuni dei primi filosofi scrissero in prosa (come Anassimandro, Eraclito e più tardi Anassagora), è anche vero che alcuni dei più importanti fra loro – Parmenide ed Empedocle – scrissero invece in versi esattamente come Omero ed Esiodo. Tutto questo rende molto incerta la linea di confine che separa la sapienza dei poeti antichi da quella dei primi filosofi. Si è spesso sostenuto che questa linea consiste nella differenza fra il mito e il lògos, cioè fra il racconto delle imprese degli dèi e degli uomini (che i poeti facevano risalire all’ispirazione divina delle Muse) e il ‘discorso razionale’ sulla realtà naturale e la vita umana, costruito dai filosofi con la sola forza del pensiero. C’è sicuramente del vero in questa ipotesi, ma anch’essa va meglio delimitata. Da una parte, anche gli antichi poemi sono ricchi di insegnamenti e di conoscenza, al punto che Omero fu per secoli considerato (come diceva ancora Platone) «il maestro di tutti i greci», che non cessarono mai di studiare le sue opere per apprendere come si deve vivere una vita davvero degna di un uomo. Del 7
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Parte prima L’età antica
resto, la teologia dei greci (cioè le idee intorno alla divinità sulle quali si basava la loro religione e una parte del loro modo di vivere) non aveva altre fonti e altre autorità se non appunto i poemi di Omero e di Esiodo. D’altra parte, anche molti importanti filosofi, come Parmenide ed Empedocle, pretendevano che il loro discorso fosse basato su di una sorta di ispirazione divina; Eraclito scriveva brevi ed enigmatiche sentenze che somigliavano nella forma a quelle pronunciate dagli oracoli divini, come quello di Apollo nel santuario di Delfi.
Le peculiarità del lògos filosofico
È un discorso che riflette su se stesso, fondato sulla sola razionalità
È un discorso argomentativo
Riflessività e argomentazione delimitano l’ambito della filosofia
➥ Sommario, p. 23
8
La differenza fra il mito poetico e il lògos della filosofia, quindi il carattere specifico che definisce quest’ultima, vanno allora individuati in un modo un po’ più complesso. Fin dai suoi incerti inizi, il nascente discorso filosofico si distinse non tanto per i suoi contenuti sapienziali, per la generalità delle sue asserzioni intorno alla realtà, o per il modo con cui esse venivano formulate. Piuttosto, questo discorso venne progressivamente definendosi per due aspetti decisivi. 1) Si tratta di un discorso che riflette su se stesso, cioè, in un certo senso, di un discorso di secondo grado. Per spiegarci meglio: il discorso della filosofia non si limita ad asserire tesi intorno alla realtà, alla natura, agli uomini e agli dèi, ma si pone la questione di come sia possibile la conoscenza di questi oggetti intellettuali, di che cosa garantisca la verità di queste tesi, e inoltre la loro preferibilità di fronte ad altre tesi alternative e contrapposte. Le condizioni di verità del discorso mirano a garantire la sua autonoma validità e autorità indipendentemente da chi lo pronunci e da chi l’abbia ispirato. Quando Eraclito scriveva «non seguite me, ma il lògos» affermava precisamente l’indipendenza, l’autonomia, la validità universale di questo discorso-ragione in cui la filosofia veniva riconoscendo il suo compito specifico. E ancora. Il discorso della filosofia non si limita a descrivere come gli uomini vivono, o a ingiungere il modo in cui dovrebbero vivere, come avevano fatto Omero ed Esiodo. Esso punta anche a formulare le ragioni per le quali un modo di vita è preferibile a un altro, a chiarire le norme, i criteri, i valori universalmente validi ai quali ci si dovrebbe conformare per condurre una vita buona e giusta. 2) In conseguenza di tutto questo, il discorso della filosofia deve inoltre argomentare la validità delle proprie tesi: cioè mostrare, in modo che risulti persuasivo e incontrovertibile, se possibile per tutti e per sempre, che le sue asserzioni intorno allo stato del mondo e alle norme di vita, sono in grado di offrire di per se stesse, senza ricorso ad alcuna autorità esterna, la garanzia della propria verità. Sulla base di questi due caratteri (riflessivo e argomentativo), che certo non sono comparsi d’un tratto e per miracolo, ma si sono venuti definendo progressivamente, ci è possibile delimitare l’ambito specifico di quella forma, di quello stile intellettuale che si darà il nome di filosofia. Ed è sempre a partire di qui che ora possiamo porci una seconda domanda: perché la filosofia è nata in Grecia, e non nelle più antiche culture mediterranee e orientali che precedettero di millenni quella greca? La risposta a questa domanda ci fornirà ulteriori chiarimenti sulla natura specifica del discorso filosofico.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Mito e lògos: somiglianze e differenze
Elementi comuni a mito e lògos
Uno sguardo generale sul mondo
Forma letteraria
Orale o scritta
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Assenza di uno Stato centralizzato
Assenza di un’autorità religiosa unificata e di libri sacri
Assenza dell’autorità di una tradizione culturale secolare
Ispirazione divina
Elementi peculiari del lògos
Discorso riflessivo o di II grado
Autonomia e universalità
Uso della argomentazione
Poesia o prosa
Perché in Grecia? Le condizioni in cui si svilupparono la società e la cultura greche a partire dal IX-VIII secolo a.C. si possono identificare – in comparazione con l’ambiente confinante del vicino Oriente (Mesopotamia, Persia, Egitto) e se si vuole anche dell’estremo Oriente (India, Cina) – sulla base di una importante serie di assenze. 1) Non esisteva in Grecia un forte apparato statale centralizzato: né monarchia, né esercito, né potere giudiziario (dopo il crollo dei regni micenei che avevano costituito in piccola scala una continuazione in terra greca delle grandi monarchie orientali). 2) Non esistevano in Grecia né una Chiesa né un casta sacerdotale unificate e dotate di potere sullo Stato e sulla società; neppure esistevano uno o più Libri sacri che contenessero verità dogmatiche di cui i sacerdoti fossero interpreti autorizzati. La religione greca era fatta di miti e di culti locali, e i suoi soli testi di riferimento sono opera di poeti come Omero ed Esiodo, non derivando quindi da alcuna ‘rivelazione’ divina, come accade invece per la Bibbia o più tardi per il Corano, i testi fondatori delle grandi religioni monoteistiche che si presentano come dettati direttamente dalla divinità a profeti da essa scelti per comunicarli agli uomini. 3) Non esisteva in Grecia l’autorità di una tradizione culturale secolare. L’unica tradizione cui tutti i greci facevano riferimento è quella della cosiddetta «guerra di Troia», ma si tratta di un’invenzione letteraria elaborata nei poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, qualche secolo dopo il presunto svolgersi di quegli eventi. Platone racconta che il primo legislatore di Atene, Solone, vissuto alla fine del VII secolo a.C., avrebbe visitato l’Egitto, e che i sacerdoti di quell’antico Paese gli avrebbero detto: «voi greci siete sempre bambini!», cioè privi della memoria di una lunghissima tradizione. E in effetti, rispetto alle società e alle culture del vicino e del lontano Oriente, quelle greche erano davvero ‘infantili’, per la brevità del loro passato storico, e per la novità della loro formazione. 9
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Parte prima L’età antica Nascono comunità indipendenti e autolegittimate
➥ La parola al critico, p. 25
La specificità della cultura greca: la capacità persuasiva del discorso
Anche la filosofia deve autolegittimarsi
Rivalità teoriche e pluralità di verità possibili
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I greci vivevano dunque in un certo senso in un vuoto: vuoto di statualità, di autorità sacerdotale, di tradizione. All’interno di questo spazio vuoto, la società greca si venne organizzando in piccole comunità indipendenti, le città-stato (pòleis). In ognuna di esse, il potere venne conquistato dalle aristocrazie locali: ma si produssero immediatamente conflitti sia all’interno dei diversi gruppi aristocratici, sia fra essi e il popolo dei cittadini che non ne accettavano la supremazia. La cosa più interessante dal nostro punto di vista è che in queste comunità il potere non era legittimato da alcuna garanzia esterna (né umana, come è per esempio il diritto ereditario nelle dinastie monarchiche, né divina, come lo può essere l’investitura da parte di un sacerdozio autorevole). La pretesa al potere doveva dunque autolegittimarsi: per il valore in guerra, o per la capacità di governare nell’interesse della comunità, o, nelle democrazie che nacquero in Grecia nel V secolo a.C., per il fatto di rappresentare la volontà della maggioranza dei cittadini. La società greca si formò dunque nel contesto di un’assenza di sovranità. Questa assenza era surrogata dal confronto – che ora si può definire propriamente politico – fra parti diverse e contrapposte: un confronto che si svolgeva nelle assemblee cittadine, e che era basato non sull’autorità ma soprattutto sulla forza persuasiva della parola, sugli argomenti formulati nel discorso. Lo stesso si può dire per l’amministrazione della giustizia. Il giudizio non era affidato al sovrano o al sacerdote in virtù della loro autorità. A giudicare erano invece i rappresentanti della comunità cittadina, che godevano di uguali diritti: dunque prevaleva l’opinione di chi disponeva di prove e di argomenti migliori, più validi, più persuasivi. Anche qui, la forza della parola sostituiva quindi quella dell’autorità. È nelle assemblee politiche e nelle giurie dei tribunali che prese forma il carattere specifico della cultura greca: fatta di competizione, di confronto fra tesi contrapposte, che richiedevano dunque una decisione presa sulla base della forza degli argomenti, della capacità persuasiva del discorso. Questo non escludeva, naturalmente, in casi di crisi estreme, il ricorso alla forza delle armi, ben noto alla società greca; ma l’uso della forza militare fu considerato sempre come una patologia sociale, uno stato di malattia del corpo della comunità. Del resto, anche il ricorso alle armi nei conflitti fra cittadini conferma l’assenza di autorità statali o sacerdotali superiori ed esterne rispetto alla comunità stessa, un’assenza che costringeva i cittadini a dirimere i loro conflitti con la forza se ogni altro modo si era rivelato impraticabile. Torniamo ora al nostro problema: le origini del pensiero filosofico. La riflessione filosofica nacque nello stesso spazio vuoto di autorità statale, sacerdotale, tradizionale, in cui nacque la società greca. Se la verità sul mondo, gli dèi, la natura, la giustizia, la vita umana fosse stata codificata e imposta dall’autorità dello Stato, dei sacerdoti, di una tradizione immutabile, non ci sarebbe stato alcun posto per il discorso filosofico. Al contrario, esso nacque quando la ricerca della verità si pose come una possibilità aperta, un compito, un progetto. Ma la pretesa del nascente discorso filosofico di dire la verità doveva – proprio come il discorso della politica e del potere – legittimarsi da sé, affermare la propria autorità in virtù delle sue sole forze, che sono quelle del ragionamento argomentato, della prova razionale (e perciò persuasiva). Questa necessità di autolegittimazione si poneva tanto nei confronti del pubblico cui il discorso della filosofia si rivolgeva, quanto nei confronti dei rivali: quelli tradizionali, come la sapienza dei poeti, e quelli nuovi, le tesi contrapposte nel cam-
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
po della stessa filosofia. L’esistenza di rivalità teoriche, di una pluralità di verità possibili, fa parte della natura stessa della filosofia: poiché non ci sono dogmi da rispettare, né alcuna ortodossia (ortodossia significa «opinione giusta») imposta dall’esterno, è inevitabile che la ricerca filosofica dia luogo a una pluralità di approcci diversi alla verità, di visioni del mondo alternative, che possono dipendere dalla posizione sociale dei singoli filosofi, dalla loro collocazione politica, dalle loro convinzioni religiose, dal loro ambiente culturale. Tutte le posizioni hanno però, e devono avere, un tratto comune, e cioè lo sforzo di trovare buone ragioni, argomenti validi per sostenere la propria preferibilità rispetto alle tesi rivali.
Il mondo greco e la nascita della filosofia
Politica e società
Assenza di un potere statuale centrale
Cultura
Tendenza all’autolegittimazione della sovranità
Persuasione al posto dell’autorità
Assenza di una tradizione secolare
Religione
Assenza di un potere religioso / istituzionale centrale
Omero ed Esiodo: fonti della tradizione e della religione
Capacità persuasiva del discorso
Nessun dogma né ortodossia
Comunità aperte, indipendenti, autolegittimate
Nascita del pensiero filosofico
Metodi di fondazione del discorso filosofico I modi sperimentati dalla filosofia delle origini per sostenere la validità delle proprie tesi si possono riassumere in tre tipi principali. Le forme mitiche 1) Il primo accomuna la filosofia alle forme mitiche della sapienza poetica. Si o sapienziali tratta del riferimento a una ispirazione divina (Parmenide), alla rivendicazione di doti personali sovrumane e semidivine dello stesso filosofo (Pitagora, Empedocle), o della proposizione di tesi presentate nella forma suggestiva di sentenze oracolari (Eraclito). La filosofia nascente si muove qui ancora sullo stesso terreno delle forme di sapienza consolidate e note al suo pubblico, benché i contenuti del suo messaggio si differenzino nettamente da esse per il carattere astratto (cioè non narrativo, ma universalmente valido) delle asserzioni formulate intorno al mondo, alla natura, alla vita. 11
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Parte prima L’età antica L’inferenza logica
La matrice primaria della logica: la tautologia
L’analogia
Spiegazioni analogiche
L’analogia: potenzialità esplicative e immaginazione teorica
Tratti essenziali del discorso filosofico
➥ Sommario, p. 23
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2) Il secondo tipo è specificamente filosofico. Si tratta dell’inferenza logica, che mira a produrre enunciati la cui verità risulti oggettiva (cioè indipendente da fattori esterni alla forma stessa dell’enunciato) e dunque incontrovertibile. La forma primaria di questa inferenza – che costituisce anche la ‘matrice’ da cui si svilupperà la complessità del futuro pensiero logico – è quella della tautologia, che consiste nel predicare l’identità del soggetto a se stesso e nell’esclusione di predicazioni contrarie. «L’essere è, e non è possibile che non sia» (Parmenide): cioè A è uguale ad A, e se B è diverso da A non si può dire che A sia uguale a B. Circa due secoli più tardi, Aristotele avrebbe costruito una teoria dei modi di inferenza logica enormemente più articolata rispetto alla forma originaria della tautologia, ma anche questa teoria si sarebbe basata su di essa in quanto, appunto, matrice primaria di ogni discorso vero. 3) C’è poi un altro tipo di argomentazione, altrettanto proprio della filosofia delle origini, meno rigoroso dell’inferenza logica ma più flessibile di essa, più adatto a interpretare la varietà e complessità dei fenomeni del mondo. Si tratta dell’analogia: il procedimento analogico consiste nell’analizzare la struttura di un fenomeno noto per derivarne la comprensione di uno ignoto. Per esempio, se si tratta di capire la composizione dei corpi naturali a partire dagli elementi primari della natura, si può pensare all’opera del pittore, che mescolando i colori primi della tavolozza può tracciare un numero infinito di figure (Empedocle). Oppure: gli astri del cielo possono essere pensati come frammenti di metallo incandescente, come quelli che il fabbro produce quando lavora martellando il ferro sull’incudine (Anassagora). I filosofi delle origini ricorsero a una vastissima serie di questi procedimenti analogici, basati spesso sull’esperienza tecnica o su quella psicologica e politica (per esempio Empedocle attribuiva alle due forze contrapposte di Amore e Odio rispettivamente il ruolo di mantenere il cosmo coeso e quello di frantumarlo in una pluralità di oggetti). Qualche volta, semplici esperimenti venivano escogitati in funzione del problema da risolvere. Questi procedimenti analogici hanno una forte capacità euristica (dal greco heurìsko, «trovo»), sono cioè in grado di trovare spiegazioni plausibili per fenomeni in sé ignoti. Naturalmente, essi si basano sul presupposto, difficilmente dimostrabile, che i fenomeni e i processi messi a confronto abbiano strutture identiche o simili. Quello che conta, tuttavia, è che l’analogia costituisce un prezioso strumento di analisi e di scoperta messo al servizio di quell’enorme sforzo di immaginazione teorica che con grande audacia la filosofia delle origini mise all’opera per comprendere l’infinita complessità di un mondo naturale fino ad allora inesplorato. L’ipotesi di strutture analoghe per tutti gli ambiti dei fenomeni di questo mondo è quindi necessaria per ridurre questa complessità, altrimenti incomprensibile, a una serie controllabile e pensabile di processi che possono venire analizzati a partire da quelli già noti e spiegabili. I caratteri che distinguono il discorso filosofico ai suoi inizi – generalità delle tesi formulate, sforzo di argomentazione razionale della loro verità, immaginazione produttiva di teorie – continueranno a costituire i tratti fondamentali anche della filosofia matura, quella che verrà costruita da Platone e Aristotele, benché naturalmente a un livello di complessità e di articolazioni concettuali molto più elevato.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Tipi di fondazione del discorso filosofico
Tipi di fondazione
Forme mitiche o sapienziali
Forme di attuazione
Ispirazione divina
Parmenide
Doti personali o semidivine del filosofo
Pitagora Empedocle
Sentenze oracolari
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Nell’antichità la filosofia era anche un modo di vita
Le comunità filosofiche
Filosofi
Eraclito
Inferenza logica
Tautologia, ovvero la predicazione dell’identità del soggetto a se stesso, ed esclusione di predicazioni contrarie
Parmenide
Analogia
Comprensione dell’ignoto attraverso ciò che è noto
Empedocle Anassagora
Chi erano i filosofi? Se ci chiedessimo oggi «chi sono i filosofi?», potremmo rispondere «le persone che insegnano filosofia nelle scuole e nell’università». Magari con qualche eccezione, sarebbe una buona risposta. Ma il percorso che ha portato a una quasi completa istituzionalizzazione scolastica della filosofia ha avuto una durata secolare: esso è cominciato sì verso la fine dell’epoca greco-latina, ma si è compiuto soltanto in età moderna, fra Ottocento e Novecento. Questa risposta sarebbe invece completamente sbagliata se riferita agli inizi della filosofia. La figura del filosofo era allora del tutto diversa da quella cui siamo oggi abituati. Una prima e fondamentale differenza tra i filosofi antichi e quelli del nostro tempo è questa: per i primi, la filosofia non era soltanto una professione o un tipo specializzato di lavoro intellettuale fra i tanti altri. La filosofia era anche un modo di vita: il filosofo cioè si distingueva dagli altri uomini non soltanto per quello che pensava, che scriveva e che insegnava, ma anche per il modo in cui conduceva la propria intera esistenza. Questo aspetto vale in modo particolare per i filosofi delle origini, ma avrebbe continuato a caratterizzare l’intera storia della filosofia antica. Un carattere costante era la tendenza dei filosofi a vivere in comunità fra loro: una comunità che per alcuni dei filosofi delle origini, come i pitagorici, ebbe addirittura la forma di una setta religiosa, e più tardi divenne il gruppo dei maestri e dei loro discepoli (come accadde, in modi diversi, per Platone, Aristotele, gli stoici, gli epicurei, gli stessi neoplatonici). Questa forma di vita comunitaria rese spesso i filosofi antichi personaggi sospetti, accusati di arroganza e di spirito antisociale ed eversivo, a volte anche ridicoli, agli occhi dei loro contemporanei 13
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Parte prima L’età antica
e concittadini, ma al tempo stesso facilmente riconoscibili rispetto agli uomini ‘comuni’ che vivevano nella stessa città. Inoltre, si riteneva che il modo di vita dei filosofi dovesse rispecchiare fedelmente il loro pensiero, e ogni trasgressione nella condotta quotidiana rispetto alle idee professate veniva percepita come uno scandalo, una inaccettabile contraddizione: anche questo induceva i filosofi a tentare di rendere conformi tra loro vita e pensiero. Ma, a parte queste costanti, la figura del filosofo ha conosciuto tutta una serie di trasformazioni già lungo la durata storica del mondo antico. È importante ripercorrerne le tappe, perché non esiste ovviamente filosofia senza filosofi, e la collocazione sociale e culturale dei filosofi risulta decisiva per la stessa configurazione del loro lavoro intellettuale.
I maestri di verità L’audacia dei fondatori
La sfida sapienziale all’ignoranza dei ‘mortali’
I destinatari del messaggio
La pretesa di verità porta con sé la pretesa al potere sulla comunità
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I ‘filosofi’ degli inizi erano personaggi consapevoli della novità e dell’audacia del loro messaggio. Pretendere di dire la verità sul mondo e sulle sue origini, sugli dèi e sul loro rapporto con gli uomini, sul significato e il destino della vita umana – una verità diversa e spesso opposta a quella trasmessa dai vecchi racconti dei miti e dei poeti famosi – era un’impresa degna di personaggi eccezionali, e che solo personaggi che si ritenevano tali potevano perseguire. Essi si sentivano quindi e si presentavano come ‘maestri di verità’, come profeti ispirati, come uomini dotati di qualità e di intelligenza più che umane (questo vale certo più per personaggi come Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, che per i sapienti ionici, Talete, Anassimandro e Anassimene, della cui posizione sociale e del cui ruolo intellettuale sappiamo troppo poco). Questi uomini lanciavano dunque il loro messaggio sapienziale come una sfida rivolta contro l’ignoranza e la cecità mentale dei loro contemporanei, che essi spesso definivano «mortali», lasciando quindi intendere che la propria era una condizione vicina all’immortalità tipica degli dèi. E, in effetti, Pitagora era considerato dai suoi discepoli un discendente di Apollo, Empedocle si presentava come un uomo ‘divino’, prossimo a rinascere come divinità, Parmenide si dichiarava depositario di una rivelazione trasmessagli direttamente da una dea (la Verità personificata), Eraclito pronunciava sentenze simili a quelle dell’oracolo di Apollo. A chi si indirizzavano il messaggio e la sfida di questi protofilosofi? In primo luogo, a un gruppo ristretto di seguaci e discepoli, che in certi casi, come in quello già ricordato dei pitagorici, poteva trasformarsi in una vera e propria setta di tipo religioso, con i suoi rituali e le sue gerarchie interne. Ma, in secondo luogo, essi si rivolgevano agli uomini in generale, in cui però non è difficile riconoscere la comunità cittadina in cui questi sapienti agivano, predicando forse nelle sue piazze (come Empedocle), o davanti ai suoi templi, o nel corso delle sue festività politiche e religiose (come forse Eraclito e Parmenide). Una cosa è comunque certa. La potenza e l’importanza del messaggio lanciato da questi maestri di verità, la condizione sovrumana che essi si attribuivano e che veniva loro riconosciuta dai discepoli, facevano sì che la loro pretesa di verità fosse immediatamente accompagnata da una pretesa al potere sulla comunità umana. Comprendere, accettare e seguire il loro messaggio significava mutare la vita di individui e città, riconoscere nuove norme morali, politiche, religiose, nuove concezioni del mondo. Dunque i maestri di verità non potevano che essere anche ‘maestri di vita’, e perciò destinati al comando sulla vita degli uomini.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica Regalità filosofica e azione di governo
Violente reazioni cittadine alle pretese politiche dei filosofi
La ‘vocazione imperiosa’ della filosofia
In alcuni casi, e per un certo periodo di tempo, questa pretesa di regalità filosofica ebbe successo. Così, Pitagora e i pitagorici esercitarono per qualche decennio il governo su alcune città della Magna Grecia; Parmenide fu probabilmente legislatore della sua città, Elea. Una sorte meno felice toccò probabilmente a Eraclito, ignorato dai suoi concittadini di Efeso, benché vantasse una discendenza dagli antichi sovrani della città. Incerto è anche il destino di Empedocle, per quanto egli fosse circondato da un numeroso gruppo di seguaci entusiasti. Queste pretese al potere sulla città oltre che sulla verità non ebbero lunga durata, anche se lasciarono una traccia profonda ancora nel ri-fondatore della filosofia, Platone. Anzi esse destarono alla fine una reazione violenta da parte delle comunità cittadine. I pitagorici furono in parte massacrati, in parte espulsi da Crotone e Metaponto, dove avevano governato, e nelle altre città che abbiamo menzionato non restò alcuna traccia di ‘potere filosofico’. Altre accuse, culminate in processi famosi, colpirono in seguito la filosofia: nel V secolo, Anassagora fu esiliato da Atene, e all’inizio del IV Socrate fu addirittura condannato a morte nella stessa città. Benché entrambi questi processi fossero basati su accuse di empietà religiosa, i loro veri motivi erano in realtà politici (attraverso Anassagora si voleva colpire Pericle di cui egli era amico, e attraverso Socrate la cerchia aristocratica, antidemocratica, che egli aveva frequentato). Più chiaramente politico fu il processo con il quale, verso la fine del IV secolo, si tentò, vanamente, di mettere al bando da Atene le grandi scuole filosofiche, quella platonica e quella aristotelica, accusate entrambe di tramare contro la democrazia e l’indipendenza della città. Nonostante queste traversie, talvolta anche tragiche, una memoria della sua ‘vocazione imperiosa’ non avrebbe abbandonato la filosofia, in forme diverse, durante tutta la sua esistenza nel mondo antico, anche se la sua capacità di controllo veniva sempre più restringendosi al solo ambito dei discorsi.
Luoghi e protagonisti della filosofia delle origini (VI-V secolo a.C.) Intorno al 530 a.C. vi insegnò Pitagora di Samo
Nel 460 circa a.C. vi nacque Democrito
Nel 500 a.C. vi nacque Anassagora Nel 570 a.C. vi nacque Senofane
Vi nacquero Parmenide, nel 515 a.C., e Zenone, nel 490 a.C.
Abdera Elea
Crotone Agrigento
Nel 493 a.C. vi nacque Empedocle
Tebe
Clazomene Colofone Efeso Atene Micene Samo Mileto Argo Sparta
Vi nacquero Melisso, nel 485 a.C., e Pitagora, nel 570 a.C.
Nel 540 a.C. vi nacque Eraclito
Vi nacquero Talete, nel 625 a.C., Anassimandro, nel 610 a.C., e Anassimene, nel 586 a.C.
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Parte prima L’età antica
La ri-fondazione: i libri e la scuola Platone: tra i maestri di verità e la ricerca di verità parziali
Miti antichi e argomentazioni razionali
Platone: il primo grande corpo di scritti filosofici
L’Accademia, la prima scuola di filosofia
Aristotele: una nuova figura del filosofo
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Vissuto a cavallo fra il V e il IV secolo, Platone (vedi Unità 3) rappresenta una figura di transizione, quasi un crinale, nella storia della figura del filosofo antico. Alla tradizione dei maestri di verità lo accomunavano una condizione sociale eccezionale (apparteneva a una famiglia aristocratica che faceva risalire la sua discendenza a Codro, l’ultimo re di Atene, e a Solone, il primo legislatore della città), e la convinzione che il filosofo – per le sue doti straordinarie e per il suo sapere – potesse vantare un diritto alla sovranità, al governo della comunità umana. D’altra parte, il suo modo di praticare la filosofia si distingueva profondamente da quello dei predecessori: non più la pretesa di possedere una sapienza totale, e dunque la proclamazione di un messaggio definitivo sulla verità, ma invece la ricerca complessa e laboriosa indirizzata alla possibile conquista di verità parziali e non definitive. Come i vecchi sapienti, Platone ricorreva ancora a raffigurazioni mitiche del mondo, ma l’aspetto dominante del suo lavoro filosofico consisteva nell’argomentazione razionale, nella confutazione delle dottrine altrui e talvolta anche delle proprie, sempre suscettibili di revisione e di ulteriori sviluppi. Questa ricerca instancabile non pretendeva di essere ispirata dalla rivelazione divina, ma si fondava sulle sole forze della ragione: per questo aspetto ‘moderno’ della sua filosofia, Platone più che ai maestri di verità era vicino all’esperienza dei sofisti, che egli combatteva sul loro stesso terreno della discussione razionale e del confronto fra argomenti. Allievo di un maestro, Socrate, che non aveva scritto nulla, Platone fu invece l’autore del primo grande corpo di scritti filosofici della storia dell’Occidente (i suoi predecessori si erano per lo più limitati a scrivere un unico libro, in cui ognuno di essi aveva esposto il suo messaggio: così Eraclito, Parmenide, Empedocle, Anassagora). Ma anche qui Platone è in una posizione di transizione: i suoi scritti non sono trattati filosofici ma dialoghi, cioè rappresentazioni di discussioni svoltesi tra diversi interlocutori in cui le rispettive tesi vengono esposte, dimostrate o confutate, in un aperto confronto di pensiero che non raggiunge mai conclusioni chiuse e definitive. Anche la scuola fondata da Platone, l’Accademia, occupò un simile luogo di crinale fra epoche diverse. Da un lato, essa somigliava alle antiche comunità di sapienti come la setta pitagorica: non si limitava cioè all’insegnamento e all’apprendimento ma nutriva inoltre aspirazioni al potere politico, e manteneva una certa ispirazione anche religiosa, presentandosi come un gruppo dedito al culto delle Muse. D’altro lato, l’Accademia fu certamente la prima scuola di filosofia moderna, con un suo programma di ricerca e di studio, tanto che ad essa si sarebbero ispirate tutte le successive scuole dei filosofi. Il grande allievo di Platone, Aristotele (vedi Unità 4), attraversò invece con decisione la linea di crinale fra le due epoche, inaugurando così una nuova fase della storia della figura del filosofo, una fase di cui egli va certamente considerato il vero fondatore. Aristotele abbandonò ogni sogno e desiderio di sovranità dei filosofi sulla città: il dominio della filosofia poteva ora riguardare solo il campo della conoscenza e del sapere. Il pubblico cui Aristotele si rivolgeva era in primo luogo quello dei discepoli, destinati a diventare a loro volta filosofi di professione. Certo Aristotele parlava anche della città e della politica, ma ormai nella forma di oggetti di riflessione e di conoscenza teorica (una conoscenza che poteva avere anche effet-
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Distinzione di ambiti e discipline
Il trattato filosofico
Il Liceo e il corso di studi
ti nella conduzione della politica, ma solo indirettamente, cioè tramite l’opera di professionisti della politica la cui forma di vita era ora nettamente distinta da quella filosofica). Distinguendosi ormai drasticamente non solo dai maestri di verità, ma dallo stesso Platone, Aristotele articolò inoltre il campo della filosofia in una pluralità di ambiti e discipline diverse (la logica, la fisica o filosofia della natura, la filosofia pratica – etica e politica –, la psicologia, la metafisica, la teologia), ognuna delle quali aveva principi e metodi propri che non andavano sovrapposti e confusi, come accadeva nella globalità indistinta dei messaggi sapienziali ma anche nelle complesse discussioni dialogiche di Platone. A ognuno di questi campi disciplinari Aristotele dedicava uno o più scritti, che avevano ormai la forma del trattato, cioè di un’esposizione organica che partiva dalla discussione delle tesi precedenti e dalla formulazione del metodo adeguato di ricerca, esaminava ordinatamente il materiale di conoscenza disponibile, e giungeva infine alle conclusioni teoriche pertinenti. Ognuno di questi trattati costituiva la base, o il risultato, di corsi di lezioni tenuti da Aristotele nella sua scuola, il Liceo, che manteneva l’antico carattere di una comunità di vita e di lavoro fra studiosi, ma si organizzava ormai come una istituzione dedicata alla formazione regolare di specialisti nei vari ambiti del sapere filosofico. Con Aristotele, la filosofia antica è così entrata nella fase della sua maturità. Ma, senza saperlo e forse senza volerlo, Aristotele costituiva inoltre la premessa per ulteriori trasformazioni nella figura del filosofo.
La filosofia in Platone e Aristotele
Passaggio dalla figura del maestro di verità a quella del filosofo Ricerca complessa e mai finita Uso dell’argomentazione Platone Dialogo Primo corpus organico di scritti Prima scuola: l’Accademia Filosofia come conoscenza Ambiti disciplinari definiti Aristotele
Trattato Corsi istituzionali: il Liceo Formazione di filosofi specialisti
Le scuole, le tradizioni e il commento Dopo Aristotele: l’istituzionalizzazione della filosofia
Dopo Aristotele, negli ultimi decenni del IV secolo a.C. e nei primi del III, la filosofia antica assunse la configurazione istituzionale che l’avrebbe caratterizzata fino alla fine del suo percorso. È questa l’epoca delle scuole e dei loro maestri, 17
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Parte prima L’età antica
Le quattro scuole e lo scetticismo
Capiscuola e ortodossia
La rivalità tra le scuole e le sue conseguenze
Irrigidimento delle posizioni filosofiche
Il commento come spiegazione e difesa dei testi antichi
La trasformazione in sistemi filosofici
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ormai propriamente professori di filosofia (va però rilevato che soltanto in epoca imperiale romana alcuni di questi maestri-capiscuola avrebbero ricevuto un regolare stipendio da parte dello Stato; prima di allora, essi vivevano dei propri mezzi e dei contributi versati dai loro allievi, in modo del tutto privato). Si consolidarono le due prime scuole, l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico. Ne nacquero, anch’esse ad Atene, due nuove, quella stoica (fondata da Zenone) e quella di Epicuro. Si formò anche un’altra corrente di pensiero, lo scetticismo fondato da Pirrone, che però non avrebbe mai costituito una vera e propria scuola regolarmente organizzata. Queste scuole, vecchie e nuove, presentavano alcuni importanti caratteri comuni. Erano dirette da un caposcuola, e i successivi capiscuola formarono una specie di ‘dinastia’ filosofica. Erano vincolate al rispetto del pensiero del fondatore, dando così luogo per la prima volta a forme di ortodossia filosofica (più accentuata per stoici ed epicurei, meno per i platonici). La secolare persistenza delle grandi scuole filosofiche produsse effetti di grande rilievo. In primo luogo, esse costituivano il veicolo attraverso il quale si trasmettevano e si consolidavano le tradizioni di pensiero alle quali facevano capo: si costituirono così le tradizioni del platonismo, dell’aristotelismo, dello stoicismo e dell’epicureismo. In secondo luogo, si assisté a un’accesa rivalità fra le diverse scuole, ognuna delle quali tendeva a stabilire la superiorità della propria dottrina, in vista di un successo sia in campo teorico sia in campo pratico (l’acquisizione di un numero crescente di discepoli e studenti). Questa rivalità dette luogo a secolari discussioni intorno ai problemi centrali delle tradizioni filosofiche, e alla produzione di un sempre più ricco (e talvolta anche capzioso) armamentario di argomenti a favore e contro le rispettive dottrine. Rivalità e controversie ebbero come proprio effetto anche un irrigidimento delle opposte posizioni filosofiche, ognuna delle quali tese a fortificarsi contro le critiche dei rivali. Questo irrigidimento dette luogo a sua volta ad alcune forme del tutto nuove del pensiero filosofico e della sua produzione di testi, che risultano tipiche della filosofia nella sua fase ‘scolastica’ (cioè dal III secolo a.C. fino alla fine dell’età antica). Il commento ai testi del fondatore caratterizzò soprattutto la scuola platonica e quella aristotelica. Commentare un testo significava renderlo disponibile ai discepoli: spiegarlo, chiarirne le oscurità, mostrarne il rapporto con altri testi eliminando anche quelle lacune e quelle contraddizioni che in molti casi erano effettivamente presenti nei testi antichi, ma che ora potevano apparire come punti deboli della dottrina, criticabili dagli avversari. Commentare un testo significava in un certo senso tradurlo in un linguaggio filosofico più aggiornato, più comprensibile e più agguerrito nella situazione di competizione fra scuole rivali. Non bisogna pensare che il lavoro del commento sia privo di originalità filosofica: al contrario, sotto l’apparenza della dichiarata fedeltà al maestro fondatore, i commenti sono spesso ricchi di analisi filosofiche innovative, proprio nella misura in cui l’esigenza di chiarimento e di aggiornamento del pensiero degli antichi induce a svilupparne potenzialità teoriche che vi erano rimaste implicite, o prospettive che erano loro estranee (esemplari in questo senso i commenti ad Aristotele di Alessandro di Afrodisia nel II secolo d.C.: vedi Unità 4). La necessità di normalizzare i testi fondatori delle diverse tradizioni, eliminandone le contraddizioni, le oscillazioni fra tesi diverse, l’apertura problematica, per disporre di insiemi di tesi filosofiche lineari, ordinate, difendibili, comportò
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
La nascita del manuale filosofico e il suo ruolo
Nascita di un linguaggio tecnico e specialistico
Nascita di una cultura rivolta ai libri e lontana dalla realtà
Rilevanza delle questioni propriamente filosofiche
la progressiva trasformazione di quei testi in un sistema; ossia in un corpo dottrinale compatto, coeso, definitivo, chiuso. Né Platone né Aristotele, e neppure Zenone avevano composto un simile corpo dottrinale; il compito della sistematizzazione delle loro dottrine spettò invece ai loro seguaci nell’età scolastica della filosofia, che disponevano a tal fine del lavoro compiuto nei commenti di cui si è parlato. Il ‘sistema’ delle teorie di Platone, di Aristotele, di Zenone e dei suoi successori come Crisippo, diventò così la base dell’insegnamento nelle scuole di filosofia, e un’arma potente di difesa e di offesa di cui esse si dotarono per affrontare il conflitto con le scuole rivali. Più dei testi originali, e anche più dei complessi commenti a loro dedicati, il sistema filosofico si prestava a esposizioni riassuntive e schematiche, che vennero elaborate nei manuali di scuola. L’esigenza di disporre di questi strumenti per un insegnamento rapido e chiaro fu particolarmente forte fra i seguaci della tradizione platonica: i testi del maestro, dato il loro complesso carattere dialogico, si prestavano male a una facile comprensione e a un rapido apprendimento. I manuali filosofici, che spesso somigliavano molto poco al pensiero originale del fondatore (è soprattutto il caso di Platone), svolsero però un ruolo prezioso per il consolidamento e la resistenza delle tradizioni filosofiche. Questa serie di complesse operazioni attuate dalle scuole di filosofia (commenti, sistematizzazione, manuali) ebbero un effetto profondo sulla stessa configurazione della ricerca filosofica e sulle sue forme di pensiero. In primo luogo: la necessità di disporre di testi scritti in un linguaggio uniformato, in cui ogni termine avesse un significato ben definito e univoco, determinò la formazione di un linguaggio tecnico e specialistico della filosofia, sempre più lontano da quella lingua normale, di uso comune, che Platone, Aristotele, Zenone, Epicuro, avevano usato in prevalenza. Questo linguaggio tecnico contribuì ad allontanare la filosofia dalla possibilità di comprensione di un pubblico certo colto ma non specialistico, quindi a distanziarla sempre di più dalla vita e dalla comunicazione quotidiana fra gli uomini, riducendone il pubblico agli studiosi appartenenti alle scuole filosofiche. In secondo luogo: la pratica del commento ai testi della tradizione e la specializzazione del linguaggio filosofico produssero un altro effetto, molto durevole nel corso della storia della filosofia. L’interesse, lo sguardo, si rivolsero sempre di più verso i libri, i testi dei classici, e parallelamente si allontanarono dal mondo reale, cioè dalla natura, dalla vita associata degli uomini, dai problemi di spiegazione e di comprensione che essi ponevano. Per esempio: quando si poneva la questione di capire e magari di migliorare l’organizzazione politica della vita umana, Platone aveva osservato la città, la sua storia, i suoi conflitti e i suoi problemi; ora, di fronte allo stesso ordine di questioni, si leggevano invece la Repubblica di Platone o la Politica di Aristotele. Quest’ultimo, per spiegare la struttura del corpo degli animali, era ricorso all’osservazione diretta, giungendo fino alla dissezione anatomica. Ora si studiavano, invece che il delfino o la scimmia, le pagine che Aristotele aveva dedicato a questi animali nei suoi scritti zoologici. Anche questo contribuiva a specializzare la filosofia facendone un ambito autonomo di discorsi e di problemi. Era perciò naturale che in questo quadro assumessero un rilievo centrale le questioni specificamente filosofiche, come quelle relative alla teologia, alla metafisica, alla cosmologia, alla teoria dell’anima, mentre i problemi relativi al mondo esterno (come le scienze della natura o la politica) passavano in secondo piano, e comunque raggiungevano il discorso filosofico solo attraverso la mediazione dei testi che ne avevano trattato in passato. 19
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Parte prima L’età antica Il controcanto dello scetticismo
➥ Sommario, p. 23
A queste tendenze si accompagnò, fino ai primi decenni del III secolo d.C., una specie di controcanto, l’indirizzo scettico: esso continuava a mettere tenacemente in dubbio la possibilità che la ragione umana raggiungesse verità definitive (dunque dogmatiche) su argomenti (come Dio, l’anima, l’universo, l’essere) non suscettibili di un controllo empirico, cioè basato sull’osservazione diretta. Ben lungi dal costituire una posizione irrazionalistica, lo scetticismo può venire considerato come una delle ultime difese della razionalità antica contro lo slittamento verso forme, queste sì irrazionali, di misticismo e fideismo religioso. Le scuole filosofiche: luoghi e fondatori (IV secolo a.C. - V secolo d.C.) Nel 384 a.C. vi nacque Aristotele
In epoca imperiale diventò sede di numerose scuole filosofiche: stoica, platonica, epicurea
Nel 360 circa a.C. vi nacque Pirrone, fondatore dello scetticismo
Nel 341 a.C. vi nacque Epicuro, fondatore dell’epicureismo
Roma
Costantinopoli Stagira
Elide Atene
Dalla fine del IV secolo d.C. fu la capitale dell’impero d’Oriente e centro della cultura cristiana ortodossa
Samo Cizio
Alessandria
Nel 428 a.C. vi nacque Platone. Vi ebbero sede la scuola platonica (Accademia), aristotelica (Liceo), epicurea e stoica
4 Dalla libera pòlis all’autorità di uno Stato centralizzato
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Nel 333 a.C. vi nacque Zenone, fondatore dello stoicismo
Fu per secoli il massimo centro della scienza greca: Museo e Biblioteca di Alessandria
La fine della filosofia antica La filosofia era nata in Grecia, come abbiamo visto, in un’epoca di crisi di sovranità, cioè nell’assenza di forti autorità statali, religiose, e di una tradizione dominante; nell’epoca, cioè, in cui si era formata la pòlis, la piccola comunità politica libera e indipendente. Nelle fasi successive dello sviluppo della società antica, quella crisi venne colmata prima dalle monarchie ellenistiche, poi dalla repubblica di Roma e soprattutto dallo Stato imperiale romano. Queste nuove strutture di potere disponevano di una solida autorità statale (il monarca ellenistico, il Senato repubblicano, l’imperatore romano), che a sua volta si appoggiava a un forte apparato burocratico, militare e giudiziario. Era nata, insomma, una forma di Stato più vicina a quella che noi conosciamo a partire dalla modernità occidentale.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Istituzionalizzazione del pluralismo scolastico e riassestamento sistematico
L’inizio del declino: saldatura fra impero e religione
529 d.C.: chiusura della scuola di Atene
642 d.C.: distruzione della Biblioteca di Alessandria
Fine delle società antiche, fine della filosofia antica
➥ Sommario, p. 23
Per quanto riguarda il pensiero filosofico, la formazione di forti Stati centralizzati e autoritari aveva prodotto effetti di diversa natura. Da un lato, essa aveva definitivamente reso irrealistica e anacronistica l’antica pretesa della filosofia (ancora viva in Platone) di assurgere direttamente al potere politico, e di farne uno strumento per la riforma morale della società. Questo aveva contribuito alla trasformazione del filosofo da profeta e maestro di verità, aspirante alla regalità (ormai detenuta da chi aveva ben altri mezzi di comando e di potere), in professore insegnante di una disciplina particolare, per quanto importante e prestigiosa. Dall’altro lato, gli Stati ellenistici e quello romano avevano messo a disposizione dei filosofi importanti risorse per i loro studi (prime fra tutte le grandi biblioteche pubbliche), e avevano accettato il pluralismo delle opinioni filosofiche, fino al punto di istituire, come abbiamo visto, cattedre statali di filosofia destinate alle principali tradizioni di pensiero. Questo pluralismo non era stato abolito neppure quando, con Costantino all’inizio del IV secolo d.C., il cristianesimo era diventato la religione ufficiale dell’impero romano. Alla nuova situazione politica e sociale la filosofia aveva reagito organizzando un proprio riassestamento sistematico, imperniato sulla difesa delle sue grandi tradizioni di pensiero e sviluppando soprattutto il versante metafisico e teologico della propria ricerca (anche in rapporto alla sfida che il cristianesimo portava a quelle tradizioni, ora considerate pagane). Ma la filosofia antica si trovava ormai in una situazione precaria, stretta com’era fra uno Stato imperiale sempre più autoritario e militarizzato e una crescente intolleranza religiosa verso ogni forma di pensiero non ortodossa (ortodossia, come sai, significa «opinione giusta», e la sua giustezza per le religioni è garantita dalla rivelazione divina e dal Libro sacro che la contiene, come la Bibbia e il Corano). Il momento della crisi e del collasso, per una forma di pensiero che era nata e cresciuta proprio nell’assenza di entrambe queste dimensioni storiche, non poteva essere lontano. Possiamo collocarlo intorno a due date, che hanno un valore simbolico. Nel 529 d.C. l’imperatore Giustiniano, rigido custode dell’ortodossia cristiana, chiuse di autorità la scuola filosofica di Atene (lontana erede dell’Accademia platonica), considerata ormai come un intollerabile covo di paganesimo e di libertà di pensiero. I filosofi platonici di Atene cercarono allora rifugio in Persia. Ma un secolo più tardi anche il regno persiano venne travolto dall’espansione araba in Oriente, che era animata dalla nuova religione islamica. Intorno al 642, gli arabi invasero l’Egitto e distrussero definitivamente la grande Biblioteca di Alessandria (in realtà già gravemente danneggiata a più riprese durante le guerre dell’impero romano). Secondo un aneddoto, il califfo conquistatore avrebbe detto: «se i libri di questa biblioteca dicono le stesse cose del Corano, sono inutili, e vanno distrutti; se dicono cose diverse, sono empi, e a maggior ragione vanno distrutti». La frase è sicuramente leggendaria, ma essa esprime bene l’incompatibilità fra il pensiero filosofico antico e l’insorgere delle opposte intolleranze religiose, quella cristiana e quella islamica, con le rispettive ortodossie. Con il crollo delle società antiche, prima quella della pòlis poi quella monarchica e imperiale, finiva dunque anche la stagione del pensiero filosofico che ne aveva accompagnato lo sviluppo. In seguito, la filosofia avrebbe faticosamente cercato la via per una ricostruzione, seguendo un percorso intermedio tra la fedeltà alla propria tradizione originaria e i vincoli imposti dal nuovo contesto sociale, politico e religioso. 21
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Parte prima L’età antica Società, cultura e filosofia nel mondo antico
Società e cultura
Filosofia
Comunità libere e indipendenti: le pòleis greche
Nascita della filosofia
Monarchie ellenistiche e Stato romano (repubblica, impero)
Istituzionalizzazione della filosofia nelle scuole
Nuove forme di sovranità e religioni monoteiste
Attacco dei nuovi poteri a un pensiero autonomo, universale, non dogmatico: fine della filosofia antica
Suggerimenti bibliografici Sulle origini della filosofia resta un classico J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma 1984. Un’ampia e sintetica panoramica sull’intero pensiero antico, di taglio etico-politico, è offerta da M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2004. Una chiara esposizione complessiva del pensiero antico è offerta da P. Donini e F. Ferrari, L’esercizio della ragione nel mondo classico, Einaudi, Torino 2005. Un quadro dell’evoluzione della figura del filosofo viene tracciato da G. Cambiano, La filosofia in Grecia e a Roma, Laterza, Roma-Bari 1983.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Sommario 1. LA
NASCITA DELLA FILOSOFIA
La filosofia, letteralmente «amore del sapere», affonda le sue radici nella Grecia del VI secolo a.C., per poi definirsi sempre più chiaramente nel V e nel IV. Il primo a fornirci una chiave di lettura della storia della filosofia, ancora oggi attuale, è Aristotele, che la fa iniziare con la filosofia della natura. Il pensiero filosofico ha inizialmente in comune con l’antica sapienza greca, e in particolare con il mito, un carattere di generalità; ciò che invece contraddistingue il lògos filosofico è la sua riflessività e l’uso dell’argomentazione razionale. 2. PERCHÉ
IN
GRECIA?
Le condizioni politiche e culturali della Grecia antica permettono il formarsi delle pòleis, le città-stato che si autolegittimano attraverso il libero confronto di opinioni. Questo primato della parola, del confronto dialogico, è anche ciò che caratterizza la filosofia, dove una pluralità di verità possibili si combattono sul piano delle buone ragioni, delle argomentazioni razionali. I tipi di fondazione della verità filosofica alle origini sono tre: forme mitiche e sapienziali, inferenza logica, originata dalla tautologia, e analogia. 3. CHI
ERANO I FILOSOFI?
I filosofi delle origini si presentano come ‘maestri di verità’, avanzando nel contempo una pretesa di rega-
lità sulla società, e formando delle comunità filosofiche. Con Platone il filosofo assume progressivamente il ruolo di maestro dell’argomentazione e della ricerca di verità parziali e mai definitive, con l’adozione del dialogo quale forma di scrittura filosofica. Con Platone abbiamo il primo grande corpo di scritti filosofici e la prima scuola: l’Accademia. Il suo maggior discepolo, Aristotele, restringe l’ambito della filosofia alla conoscenza, definisce i campi disciplinari e utilizza nella sua scuola, il Liceo, libri di testo organici, i trattati. Dopo Aristotele, le correnti della filosofia si istituzionalizzano in quattro scuole: platonica, aristotelica, stoica ed epicurea, cui si affianca la corrente dello scetticismo. L’attività scolastica produce via via un sempre maggior irrigidimento delle dottrine, creando un’ortodossia filosofica attraverso nuove modalità di pensiero e nuovi tipi di testi: il commento, il sistema e il manuale. La filosofia diventa un sapere sempre più specialistico, libresco e autonomo. 4. LA
FINE DELLA FILOSOFIA ANTICA
Nei secoli che vanno dal III a.C. al IV d.C., con l’affermarsi di forme statali centralizzate, la filosofia accentua i suoi caratteri sistematici e specialistici. Quando poi lo Stato si salda all’ortodossia religiosa, il declino della filosofia diventa inevitabile.
Parole chiave Analogia. Dal greco anàlogos, che significa «che ha relazione, simile». Ragionamento che, da alcune somiglianze tra due fenomeni, trae la conseguenza che abbiano anche altri aspetti in comune. Discorso di secondo grado / Riflessività. Riflessione e argomentazione che ha per oggetto il discorso (le sue condizioni di possibilità, la validità delle sue tesi, la plausibilità delle sue conclusioni, la correttezza delle argomentazioni ecc.). Filosofia della natura. Riflessione che ha per oggetto la natura, ossia l’insieme dei fenomeni fisici. Il filosofo della natura non descrive solo i fatti ma spiega le cause, cercando di comprendere le componenti fondamentali dell’universo fisico (gli elementi primi). Inferenza. Termine che deriva dal latino inferre, significa «portare contro, verso». In senso figurato «dedurre, trarre da», e indica il procedimento che perviene a una conseguenza da uno o più antecedenti. Lògos. Termine greco che significa «parola, discorso, calcolo» e che è diventato sinonimo di «ragione». In
opposizione a «mito» indica il discorso filosofico, connotato dal pensare argomentativo e dalla riflessività. Mito. Termine derivante dal greco my`thos, che significa «parola, discorso, narrazione». In opposizione a lògos, indica il discorso che non richiede argomentazione o dimostrazione. Ortodossia. Termine derivante dal composto greco orthòs, «retto, giusto», e dòxa, «opinione», indica l’atteggiamento di chi ritiene un insieme di teorie o di dottrine assolutamente vere e indiscutibili. Sistema. Dal greco sy`stema, che deriva da synistànai, «porre (histànai) insieme (syn)». In filosofia indica un insieme compatto e integrato di concetti, teorie e ambiti disciplinari. Tautologia. Dal greco tautò, crasi di to autò («il medesimo») più lògos («discorso»), quindi «discorso dell’uguale». Indica una proposizione in cui il predicato esprime lo stesso significato presente nel soggetto; o, detto altrimenti, il predicato è già incluso nel soggetto. 23
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Parte prima L’età antica
Questionario LA
NASCITA DELLA FILOSOFIA
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Per quale aspetto la filosofia si distingue dalle altre forme di sapienza? (max 1 riga)
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In un massimo di 3 righe indica in cosa consiste l’interpretazione aristotelica della filosofia delle origini.
3
PERCHÉ
CHI
Illustra in un massimo di 6 righe le caratteristiche del discorso filosofico, sottolineando gli elementi comuni e le differenze con il mito. IN
GRECIA?
4
Riassumi in un massimo di 3 righe i fattori che favorirono la nascita della filosofia.
5
Spiega quanti e quali sono i vari tipi di fondamento del discorso filosofico delle origini. (max 6 righe)
LA
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Di che cosa si consideravano portatori i primi filosofi? Qual era il loro rapporto con il potere? (max 4 righe)
8
Quali novità introdusse Platone all’interno del modo di fare filosofia? (max 6 righe)
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Quali sono le caratteristiche della filosofia aristotelica che segnano una svolta nel modo di concepire la filosofia? (max 6 righe)
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Che cosa caratterizzava la filosofia delle scuole rispetto alla tradizione precedente? (max 3 righe)
FINE DELLA FILOSOFIA ANTICA
11
Quali fattori determinarono la fine del mondo antico? Quali conseguenze ebbero sulla filosofia? (max 3 righe)
12
Quali furono i due eventi storici che segnarono la fine del mondo culturale classico? (max 1 riga)
ERANO I FILOSOFI?
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Spiega in un massimo di 2 righe in che senso la filosofia delle origini era anche uno modo di vivere e quali conseguenze aveva questo fatto.
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
LA PAROLA AL CRITICO Vernant legge le origini della filosofia in Grecia In queste pagine, tratte dal libro Le origini del pensiero greco, il grande storico e antropologo francese Jean-Pierre Vernant (1914-2007) mostra con chiarezza la stretta connessione fra lo sviluppo della pòlis (città-stato) e la nascita della riflessione filosofica.
Il lògos filosofico nasce dall’esperienza politica da J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco
La preminenza della parola nella pòlis: strumento di potere e pubblica discussione
Lo sviluppo del lògos: dalla politica alla logica del vero
L’apparizione della pòlis costituisce, nella storia del pensiero greco, un avvenimento decisivo. Certo, sul piano intellettuale come nel campo delle istituzioni, esso produrrà solo per gradi tutte le sue conseguenze; la pòlis conoscerà fasi molteplici, forme variate. Tuttavia, fino dagli inizi, che si possono situare tra l’VIII e il VII secolo, essa segna un punto di partenza, una vera invenzione; grazie ad essa, la vita sociale e le relazioni tra gli uomini assumono una forma nuova, di cui i Greci sentono pienamente l’originalità. Il sistema della pòlis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su altri. Questa potenza del linguaggio – di cui i Greci fecero una divinità: Peithò, la forza di persuasione – ricorda l’efficacia delle parole e delle formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai «detti» del re quando egli pronuncia sovranamente la thèmis, la sentenza; in realtà, tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. Il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l’argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario. Tutte le questioni d’interesse generale che il sovrano aveva la funzione di regolare e che definiscono il campo dell’archè («potere») sono ora sottomesse all’arte oratoria e devono essere decise al termine di un dibattito; occorre dunque che possano essere fuse nella matrice di dimostrazioni an-
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Parte prima L’età antica
La dimensione pubblica e visibile della vita sociale nella pòlis
Democratizzazione e divulgazione del sapere aristocratico
La dimensione pubblica delle conoscenze
Le origini della filosofia: dal mito alla razionalità
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titetiche, di argomentazioni opposte. Tra la politica e il lògos c’è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L’arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio; e il lògos, all’origine, prende coscienza di se stesso, delle sue regole, della sua efficacia, attraverso la sua funzione politica. Storicamente, sono la retorica e la sofistica che, mediante l’analisi da esse intrapresa delle forme del discorso quale strumento di vittoria nelle lotte dell’assemblea e del ‘tribunale’, aprono la strada alle ricerche di Aristotele, definendo le regole della dimostrazione, accanto a una tecnica della persuasione, e ponendo una logica del vero, propria del sapere teorico, di fronte alla logica del verosimile o del probabile che presiede ai dibattiti aleatori della pratica. Un secondo aspetto della pòlis è il carattere di piena pubblicità dato alle manifestazioni più importanti della vita sociale. Si può anche dire che la pòlis esiste soltanto nella misura in cui si è riservata un dominio pubblico, nei due sensi, diversi ma solidali, del termine: un settore d’interesse comune, opposto agli affari privati; pratiche aperte, stabilite alla luce del sole, opposte alle procedure segrete. Questa esigenza di pubblicità conduce a confiscare progressivamente a profitto del gruppo, e a porre sotto gli sguardi di tutti, l’insieme dei comportamenti, delle procedure, delle conoscenze che all’origine costituivano il privilegio esclusivo del basileùs («re»), o dei gène («famiglie») detentori dell’archè («potere»). Questo duplice movimento di democratizzazione e di divulgazione avrà conseguenze decisive sul piano intellettuale. La cultura greca si costituisce aprendo a una cerchia sempre più larga – e infine all’intero dèmos («popolo») – l’accesso al mondo spirituale riservato in origine a un’aristocrazia di carattere guerriero e sacerdotale (l’epopea omerica è un primo esempio di questo processo: una poesia di corte, cantata dapprima nelle sale dei palazzi, evade da essi, si allarga, e si muta in poesia di festa). Ma questo allargamento comporta una profonda trasformazione. Divenendo elementi di una cultura comune, le conoscenze, i valori, le tecniche mentali sono a loro volta portati sulla piazza pubblica, sottomessi a critica e a controversia. Non sono più conservati, come garanzie di potenza, nel segreto di tradizioni familiari; la loro pubblicazione susciterà esegesi, interpretazioni diverse, opposizioni, dibattiti appassionati. Ormai la discussione, l’argomentazione, la polemica diventano le regole del gioco intellettuale come del gioco politico. Il controllo costante della comunità si esercita sulle creazioni dello spirito come sulle magistrature dello Stato. La legge della pòlis, in opposizione al potere assoluto del monarca, esige che le une e le altre siano ugualmente sottoposte a una «resa dei conti». Esse non s’impongono più mediante la forza di un prestigio personale o religioso: devono dimostrare la loro giustezza mediante processi di ordine dialettico. La parola forma, nel quadro della città, lo strumento della vita politica; e la scrittura fornirà, sul piano propriamente intellettuale, il mezzo di una cultura comune, e permetterà una divulgazione completa di conoscenze dapprima riservate o interdette. […] Nella storia dell’uomo, di solito, gli inizi ci sfuggono. Tuttavia se l’avvento della filosofia, in Grecia, segna il declino del pensiero mitico e il principio
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Introduzione Dalle origini al declino della filosofia antica
Spiegazioni razionali di tutti i fenomeni naturali
Tutto è natura, niente è soprannaturale
Dal mistero al familiare
La filosofia si libera del mito: la desacralizzazione della conoscenza
di un sapere di tipo razionale, si può fissare la data e il luogo di nascita della ragione greca, stabilire il suo stato civile. All’inizio del VI secolo, nella ionica Mileto, uomini come Talete, Anassimandro, Anassimene inaugurano un nuovo modo di riflessione concernente la natura, che essi prendono come oggetto di una ricerca sistematica e disinteressata, di una historia, e di cui presentano un quadro d’insieme, una theoria. Dell’origine del mondo, della sua composizione, del suo ordinamento, dei fenomeni meteorologici, essi propongono spiegazioni sgombre di tutte le immagini drammatiche delle teogonie e cosmogonie antiche: le grandi figure delle Potenze primordiali si sono ora cancellate; non più agenti soprannaturali, le cui avventure, lotte, imprese formavano la trama dei miti della genesi, che narravano il nascere del mondo e l’istituzione dell’ordine; non più, inoltre, allusioni agli dèi che la religione ufficiale associava, nelle credenze e nel culto, alle forze della natura. Presso i «fisici» della Ionia la positività invade immediatamente la totalità dell’essere. Nulla esiste che non sia natura, phy`sis. Gli uomini, il divino, il mondo formano un universo unificato, omogeneo, tutto intero sullo stesso piano; essi sono le parti o gli aspetti di una sola e medesima phy`sis che dappertutto mette in gioco le stesse forze, manifesta la stessa potenza di vita. Le vie sulle quali questa phy`sis è nata, si è diversificata e organizzata, sono perfettamente accessibili all’intelligenza umana: «all’inizio» la natura non ha operato in modo diverso da come fa ancora, ogni giorno, quando il fuoco asciuga un vestito bagnato o quando, in un crivello agitato dalla mano, le parti più grosse, isolate, si radunano. Come c’è una sola phy`sis, che esclude la stessa nozione di soprannaturale, così c’è una sola temporalità. L’originario, il primordiale si spogliano della loro maestà e del loro mistero; essi hanno la banalità rassicurante dei fenomeni familiari. Per il pensiero mitico, l’esperienza quotidiana s’illuminava e acquistava un senso in rapporto agli atti esemplari compiuti dagli dèi «all’origine». Presso gli Ioni il polo della comparazione si rovescia. Gli avvenimenti primi, le forze che hanno prodotto il cosmo sono concepiti a immagine dei fatti che si osservano oggi e richiedono una spiegazione analoga. Non è più l’originale che illumina e trasfigura il quotidiano; è il quotidiano che rende intelligibile l’originale, fornendo modelli per comprendere come il mondo si è formato e ordinato. […] Tra il mito e la filosofia non c’è realmente continuità. Il filosofo non si contenta di ripetere in termini di phy`sis («natura») ciò che il teologo aveva espresso in termini di Potenza divina. Al cambiamento di registro, all’utilizzazione di un vocabolario profano, corrispondono un nuovo atteggiamento spirituale, un clima intellettuale diverso. Con i Milesi, per la prima volta, l’origine e l’ordine del mondo prendono la forma di un problema esplicitamente posto, al quale occorre dare una risposta senza mistero; a misura dell’intelligenza umana, suscettibile di essere esposta e dibattuta pubblicamente, davanti all’insieme dei cittadini, come le altre questioni della vita corrente. Così si afferma una funzione di conoscenza liberata da ogni preoccupazione di ordine rituale. I «fisici», deliberatamente, ignorano il mondo della religione. La loro ricerca non ha più niente a che fare con le procedure del culto alle quali il mito, malgrado la sua relativa autonomia, restava sempre più o meno legato.
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Parte prima L’età antica L’ordine della città diviene l’ordine del discorso filosofico
La costruzione della ragione greca e la sua essenza politica
Desacralizzazione del sapere, avvento di un tipo di pensiero esterno alla religione, non sono fenomeni isolati e incomprensibili. Nella sua forma, la filosofia si ricollega in modo diretto all’universo spirituale che ci è sembrato definire l’ordine della città, caratterizzato appunto da una laicizzazione, da una razionalizzazione della vita sociale. Ma la dipendenza della filosofia dalle istituzioni della pòlis si manifesta anche nel suo contenuto. Se è vero che i Milesi hanno preso a prestito dal mito, essi hanno anche trasformato molto profondamente l’immagine dell’universo, l’hanno integrata in un quadro spaziale, l’hanno ordinata secondo un modello più geometrico. Per costruire le nuove cosmologie, essi hanno utilizzato le nozioni elaborate dal pensiero morale e politico, hanno proiettato sul mondo della natura quella concezione dell’ordine e della legge che, trionfando nella città, aveva fatto del mondo umano un kòsmos. […] Avvento della pòlis, nascita della filosofia: tra i due ordini di fenomeni i legami sono troppo stretti perché il pensiero razionale non appaia, alle sue origini, solidale con le strutture sociali e mentali peculiari della città greca. Così reinserita nella storia, la filosofia abbandona quel carattere di rivelazione assoluta che talvolta le si è attribuito, salutando nella giovane scienza degli Ioni la ragione sovratemporale venuta ad incarnarsi nel Tempo. La scuola di Mileto non ha visto nascere la Ragione: ha costruito una Ragione, una prima forma di razionalità. Questa ragione greca non è la ragione sperimentale della scienza contemporanea, orientata verso l’esplorazione dell’ambiente fisico, i cui metodi, strumenti intellettuali, quadri mentali, sono stati elaborati nel corso degli ultimi secoli nello sforzo laboriosamente perseguito di conoscere e dominare la Natura. Quando Aristotele definisce l’uomo un «animale politico», sottolinea ciò che separa la Ragione greca da quella di oggi. Se per lui l’homo sapiens è un homo politicus, è perché la Ragione stessa, nella sua essenza, è politica. (trad. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 41 ss., 90 ss.)
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici 1. Chi sono i presocratici? 1. Il problema delle fonti
2. La scuola di Mileto e la cosiddetta physiologhìa 1. Talete, saggio tra i sapienti 2. L’illimitato di Anassimandro 3. Anassimene: l’aria origine del tutto
3. Eraclito l’oscuro
2. Parmenide: la verità contro l’opinione 3. Zenone: la difesa logico-argomentativa di Parmenide 4. Melisso: l’essere è il cosmo
6. Empedocle, Anassagora, Democrito: il naturalismo dopo Parmenide 1. Empedocle: tra antichi e nuovi saperi 2. Anassagora: i semi infiniti e l’Intelletto 3. Democrito: gli atomi e il vuoto
4. L’anima e il numero: Pitagora e il pitagorismo 1. L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni 2. Le dottrine matematiche
5. L’essere e la verità: Parmenide e l’eleatismo 1. Senofane: fiducia nella ragione e critica alla religione
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Eraclito, Sulla natura; Empedocle, Sulla natura
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Parte prima L’età antica
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Chi sono i presocratici? Rintracciare le origini di qualsiasi fenomeno – e dunque anche della filosofia – costituisce un compito tutt’altro che facile. La parola philosophìa è attestata solo a partire da Pitagora e forse da Eraclito (ma in entrambi i casi non è affatto certo che i due pensatori abbiano effettivamente utilizzato il termine); l’oggetto, ossia la disciplina filosofia, nella sua complessità e in particolare nella capacità di riflettere su se stessa (sulle proprie procedure, sul proprio linguaggio, sui propri limiti: vedi «Introduzione», p. 6) nasce solo con Platone (vedi Unità 3). Sarebbe però difficile negare che nei due secoli che hanno preceduto la comparsa di Platone siano presenti consistenti tracce di uno stile di pensiero, di modelli di ragionamento, e per certi aspetti di vere e proprie dottrine, che noi siamo portati a considerare filosofici. Insomma, se è vero che la filosofia nasce veramente solo con Platone, è altrettanto vero che la sua incubazione dura almeno due secoli e che in questa lunga fase gli elementi di interesse filosofico sono numerosi e di notevole rilevanza. Le domande Del resto esistono problemi e domande che sembrano in qualche modo connatudella filosofia rati all’uomo e che presentano di per se stessi un carattere in qualche modo filosofico: interrogativi come quelli relativi alla struttura dell’universo, alla collocazione in esso dell’uomo, al rapporto tra quest’ultimo e la divinità, al modo di associarsi in comunità politiche, alla natura e ai limiti della conoscenza, pur se formulati in un linguaggio ancora lontano da quello astratto della filosofia platonica e aristotelica, appartengono inevitabilmente all’orizzonte del domandare filosofico. Da questo punto di vista si può parlare – e si è effettivamente parlato – di una filosofia dei poemi omerici, di una filosofia delle opere di Esiodo e dei grandi poeti arcaici, come Pindaro. I presocratici Bisogna però anche riconoscere che solo a partire da certe figure questi interrogativi, e le riflessioni con le quali si è tentato di fornire ad essi risposte consistenti, hanno assunto le modalità tipiche del pensiero filosofico. Queste figure, questi autori sono solitamente indicati con il termine «presocratici». Una lunga e consolidata consuetudine, dunque, riunisce gli autori di interesse filosofico attivi tra la fine del VII e gli inizi del IV secolo sotto la denominazione di presocratici, ossia «precedenti Socrate». In verità, alcuni di essi sono contemporanei di Socrate (Democrito nacque nel 460, cioè dieci anni dopo Socrate), ma la denominazione possiede un significato culturale piuttosto che storico, intendendo sottolineare che gli autori in questione appartengono a una fase in qualche modo ancora di gestazione della filosofia, destinata a vedere definitivamente la luce con Socrate (il quale, come si dirà più avanti, non scrisse nulla) e con il suo grande allievo Platone.
La nascita della philosophìa
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Il problema delle fonti Il primo dato che occorre tenere presente quando si parla di presocratici è quello relativo alla mancanza delle loro opere. A differenza di Socrate molti dei pre-
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Aristotele come fonte
Testimonianze ‘tendenziose’
Un pensiero lontano ma ricostruibile
Due tipi di informazioni: le testimonianze…
socratici compongono scritti (trattati, raccolte di aforismi, poemi), ma nessuno di essi è giunto integro fino a noi; in effetti, la letteratura di interesse filosofico precedente Platone è andata completamente perduta. Come possiamo allora ricostruire il pensiero di questi autori? In un modo insieme semplice e complesso: ossia attraverso le informazioni che ci trasmettono gli autori successivi, in primo luogo Platone e Aristotele (soprattutto quest’ultimo, il quale costituisce una fonte davvero preziosa sulla riflessione filosofica che lo ha preceduto). Perché questa ricostruzione si presenta semplice e insieme complessa? Essa è semplice perché Aristotele (e in misura minore anche Platone) sembra conoscere abbastanza bene le dottrine dei pensatori presocratici e le riporta in modo apparentemente preciso; dice, per esempio, che il tal filosofo – nel nostro caso Talete – affermava che principio (archè) di tutte le cose fosse l’acqua (o in generale l’elemento umido). La difficoltà risiede nel fatto che Aristotele trasferisce nel suo linguaggio, ossia nella sua terminologia e nei suoi schemi mentali, le concezioni dei suoi predecessori. In riferimento al caso appena menzionato, ossia l’attribuzione a Talete della dottrina secondo cui l’acqua è principio di tutte le cose, risulta infatti del tutto improbabile che Talete abbia effettivamente usato la parola archè; e poi quest’ultima può significare sia «principio» (ossia elemento costitutivo di una data cosa, la materia di cui è fatta) – e questo è il senso in cui verosimilmente la utilizza Aristotele –, sia «inizio» (per esempio di un determinato processo), sia ancora fondamento su cui le altre cose poggiano (vedi Unità 4, p. 216 ss.). Casi come questi sono numerosissimi e riguardano praticamente ogni testimonianza in nostro possesso sugli autori presocratici. Insomma, in generale sembra difficile stabilire con esattezza il significato di una dottrina, anche quando colui che la trasmette lo fa con una certa precisione, appunto perché egli è portato, più o meno consapevolmente, a trasferire le concezioni che sta citando all’interno dei propri schemi concettuali e linguistici. Senza poi contare il fatto che un autore come Aristotele – sempre per fare l’esempio più significativo – è solito attribuire agli autori di cui sta parlando più di quanto essi abbiano effettivamente sostenuto; egli infatti è convinto che il compito del filosofo non sia tanto quello di riportare fedelmente quanto un suo predecessore ha affermato, bensì quello di fare emergere quanto quel certo pensatore avrebbe dovuto dire in base ai suoi stessi presupposti: insomma Aristotele tende a far dire a ogni suo predecessore di più di quanto questi abbia effettivamente detto. Questa discussione ha lo scopo di mettere in guardia chi si avvicina al pensiero di autori di cui noi non possediamo le opere dai pericoli impliciti in un approccio eccessivamente disinvolto. Quando leggiamo notizie sul pensiero dei presocratici dobbiamo tenere presente che si tratta non solo di un pensiero lontano da noi (e forse per questo ci appare tanto misterioso e affascinante), ma anche lontano e diverso da quello degli autori che lo riportano. Sarebbe però ugualmente sbagliato abbandonarsi al pessimismo e ritenere che il senso della riflessione dei presocratici debba risultare per noi del tutto inattingibile. Si tratta solo di affrontare ogni informazione con attenzione e cautela, nella convinzione che l’eco dei primi filosofi arriva a noi attenuata e non sempre comprensibile al primo ascolto. Prima di passare all’esposizione delle concezioni degli autori presocratici, occorre fare un’ultima precisazione. Le informazioni relative ad essi di cui siamo in possesso (grazie alle opere dei pensatori successivi) sono di due tipi. 31
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Le prime consistono in resoconti nei quali un certo autore, per esempio il solito Aristotele, riporta con le proprie parole il pensiero di un suo predecessore; egli dice, per esempio, che Talete ritiene che la Terra poggi sull’acqua e che per questo rimanga a galla. Informazioni di questo tipo, nelle quali non vengono riportate le parole dell’autore presocratico ma ne viene riassunto il senso (una specie di parafrasi), vengono chiamate «testimonianze». … e i frammenti In altri casi, invece, il nostro informatore riporta una citazione letterale dell’opera dell’autore presocratico (che evidentemente ha davanti agli occhi); in questo caso egli cita direttamente una parte dello scritto e si comporta in modo simile a noi quando, per riportare le parole di qualcuno, le collochiamo tra virgolette. Le informazioni di questo secondo genere vengono chiamate «frammenti» e sono chiaramente distinte dalle testimonianze. È chiaro che i problemi sopra sollevati riguardano primariamente le testimonianze; ma anche i frammenti non ne sono immuni: basti pensare al fatto che spesso il frammento dell’autore presocratico in nostro possesso è di poche righe (talora anche di una sola riga) e questo rende molto difficile ricostruire il contesto originario nel quale era inserito. Il senso di questa lunga premessa consiste dunque nell’invito ad avvicinarsi ai presocratici con prudenza; senza però abbandonare la speranza di assaporare il senso di un pensiero misterioso e affascinante. Tutte le cautele sopra formulate non devono indurci a rinunciare a cogliere le linee essenziali di una riflessione ➥ Sommario, p. 61 che talora non manca di colpire la sensibilità dell’uomo contemporaneo.
Le opere perdute: frammenti e testimonianze Una gran quantità dei testi di interesse filosofico composti dall’età arcaica fino agli inizi dell’epoca imperiale sono andati perduti. Tuttavia i filologi (ossia gli studiosi che si occupano della ricostruzione e dell’interpretazione dei testi) sono in grado di ricostruire almeno in parte il contenuto di queste opere. A tale scopo essi si servono, come si è detto, di due tipi di documenti: 1) della tradizione indiretta, ossia di documenti in cui vengono riportati passi delle opere perdute (i frammenti). Si utilizzano per esempio le citazioni fatte da Platone, da Aristotele e, più tardi, da Plutarco (I-II secolo d.C.), Diogene Laerzio (III secolo d.C.) e altri. 2) della tradizione «dossografica», ossia dei resoconti
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delle dottrine forniti dagli autori successivi (testimonianze). La parola «dossografia» significa «scrittura (graphè) delle opinioni (dòxai)»; questo genere di pratica acquisì un’importanza rilevante all’interno della scuola aristotelica, soprattutto grazie a Teofrasto (IV secolo a.C.), il quale compose una raccolta in diciotto libri di Opinioni dei fisici (Physikòn dòxai). Dal momento che per Aristotele la discussione di ogni problema doveva essere preceduta dalla presentazione delle opinioni dei predecessori, egli stimolò i suoi allievi a comporre delle vere e proprie raccolte di queste opinioni. Dall’opera di Teofrasto, andata perduta, dipendono probabilmente le raccolte successive, composte tra la fine dell’epoca ellenistica e gli inizi dell’era cristiana; molto importante dovette essere lo scritto di un certo Aezio – I secolo a.C. – che aveva per titolo Placita philosophorum, ossia Opinioni dei filosofi.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
La scuola di Mileto e la cosiddetta physiologhìa
2 I testi
Talete da Aristotele, Sul cielo: 294a28, T1 Anassimandro Sulla natura: fr. 1, T2 Gli inizi nelle colonie greche dell’Asia Minore
Autonomia e scambi culturali
I fisiologi o fisici: studiosi della natura a tutto campo
La ricerca dei principi universali
Anassimene da Simplicio, Commento alla Fisica: 24,26, T3
Le prime tracce di un pensiero dotato di caratteri in qualche modo riconducibili alla dimensione della filosofia si trovano tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo all’estremo limite orientale del mare Mediterraneo, in Ionia, nell’Asia Minore (l’odierna Turchia). A Mileto, città situata sulle coste ioniche del Mediterraneo, si sviluppa una tradizione di pensiero abbastanza unitaria, anche se non deve trattarsi di una vera e propria scuola. Personaggi come Talete, Anassimandro e Anassimene entrano quasi certamente in contatto, sebbene è poco probabile che esistano tra loro rapporti di discepolato simili a quelli che si incontreranno nei secoli successivi. Ma perché gli inizi della filosofia (o di qualcosa che le assomiglia) si situano proprio in Ionia, in una regione colonizzata dai greci, e non nella madrepatria, ossia in Grecia? È probabile che un certo influsso sia stato esercitato dall’autonomia di queste città e dallo spirito genericamente democratico che vi si respira (vedi «Introduzione», p. 9 s.). Non bisogna tuttavia dimenticare che l’Asia Minore presenta una collocazione geografica particolarmente favorevole ai contatti con altre civiltà: l’egiziana, la fenicia, la mesopotamica. È dunque possibile che proprio in questa regione abbiano cominciato a circolare nuclei di sapere – per esempio la geometria (fiorente in Egitto) e l’astronomia (straordinariamente sviluppata presso i babilonesi) – destinati a venire ripresi e approfonditi dai greci. Aristotele, quando si riferisce ai pensatori ionici, non li chiama «filosofi», bensì «fisiologi» (physiòlogoi) o «fisici» (physikòi), ossia studiosi della natura (phy`sis). Questo perché i loro interessi sono essenzialmente incentrati intorno alla natura, intesa nel significato più ampio del termine. La parola «natura» comporta infatti un riferimento all’insieme dei processi di nascita, di generazione (il verbo phy`o, da cui deriva il sostantivo phy`sis, significa infatti «nascere, generarsi») e in generale di movimento delle cose. I fisiologi ionici sono dunque interessati a tutto ciò che accade nel mondo: ai movimenti degli astri e al cambiamento delle stagioni (sono astronomi e meteorologi), alla descrizione della configurazione delle terre (sono anche geografi), ai processi biologici che riguardano i viventi; ma anche ai principi della geometria e perfino alle modalità di associazione tra gli uomini (non mancano infatti interessanti spunti di carattere politico e sociale). In tutti questi campi essi si impegnano nel tentativo di reperire principi esplicativi universali, validi in campi diversi. Tentano spesso di operare generalizzazioni, per esempio da un fatto noto a uno ignoto: si tratta dell’applicazione di un ragionamento di tipo analogico, sul quale torneremo tra breve. 33
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1 Emblematica ampiezza di interessi
Talete, saggio tra i sapienti Talete esprime in forma emblematica l’estrema articolazione degli interessi dei fisiologi ionici; le sue conoscenze, prima ancora che filosofiche, appaiono di natura sapienziale (non a caso il suo nome compare nella lista dei Sette sapienti; vedi sotto). Ha interessi in campi molto svariati, spaziando dall’astronomia, alla meteorologia, alla geometria e alla biologia. In ciascuno di questi ambiti acquisisce conoscenze di notevole importanza. Sappiamo che stabilisce il principio secondo cui il diametro divide un cerchio in due parti uguali (anche se forse non fornisce di questo teorema una vera e propria dimostrazione); studia la natura dell’eclissi solare, stabilendone la causa nell’interposizione della Luna tra il Sole e la Terra. Ma sa anche, almeno se prestiamo fede a una famosa testimonianza di Aristotele, fare fruttare economicamente le sue conoscenze meteorologiche: infatti, avendo previsto un abbondante raccolto di olive, acquista tutti i frantoi della zona, che poi può affittare a prezzo estremamente vantaggioso.
La vita Talete (625-550 ca. a.C.) nacque nella colonia ionica di Mileto. Secondo la tradizione viaggiò in Egitto e in Mesopotamia, riportando in Grecia vaste conoscenze di astronomia e di geometria; gli vengono attribuiti vari teoremi e l’invenzione del metodo per misurare l’altezza delle piramidi sulla base della loro ombra, misurata nel momento del giorno in cui essa rispecchia l’altezza del corpo. Si occupò di meteorologia, di biologia e studiò i L’acqua, principio di tutte le cose
T1
Talete
da Aristotele, Sul cielo, 294a28
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fenomeni del magnetismo. Secondo Erodoto fu anche ingegnere militare e uomo politico, promuovendo una federazione delle città ioniche contro i persiani. Per queste sue molteplici scoperte fu definito da Diogene Laerzio «il più saggio dei Sette sapienti», ossia quegli individui semileggendari, vissuti fra il VII e il VI secolo a.C., ai quali erano attribuite sentenze che riassumono il pensiero morale greco delle origini. Non sappiamo se scrisse o meno delle opere.
Non c’è dubbio, comunque, che la sua concezione più nota è quella secondo la quale l’acqua è principio (archè) di tutte le cose. Si è già avuto modo di osservare quanto sia difficile stabilire il significato di una simile affermazione. È probabile che con essa Talete non voglia sostenere tanto che l’acqua è l’elemento da cui derivano tutte le cose, quanto che la vita si accompagna spesso alla presenza dell’elemento umido (e si tratta di un’osservazione alla quale noi stessi possiamo pervenire). La supremazia dell’acqua ha in Talete anche un’applicazione di carattere cosmologico nella concezione secondo la quale la Terra poggia sull’acqua. Si tratta di un caso tipico di applicazione della procedura dell’analogia, attraverso la quale si riferisce a un caso ignoto una spiegazione che funziona in un caso noto e osservabile (vedi «Introduzione», p. 12). Aristotele attribuisce infatti a Talete il seguente ragionamento: La Terra resterebbe al posto per via del suo stare a galla, come un legno o qualcosa del genere; infatti nessuna di queste cose ha la natura di restare per aria, bensì sull’acqua.
L’illimitato di Anassimandro Mentre Talete non scrive probabilmente nulla, il suo concittadino Anassimandro compone quasi certamente un libro, poi intitolato, secondo un uso destinato a im-
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
porsi nei secoli successivi, Sulla natura. Di esso possediamo un frammento, che restituisce dunque le prime parole del pensiero occidentale. Esse suonano misteriose e piene di fascino:
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Anassimandro Sulla natura, fr. 1
L’illimitato: origine e fine di tutto
Principio degli enti è l’illimitato […] e ciò da cui le cose hanno generazione, proprio lì si dissolvono, secondo la necessità. Esse infatti si rendono reciprocamente giustizia della loro ingiustizia secondo l’ordine del tempo. Non è davvero facile intuire il senso di questa strana affermazione che sembra parlare di una questione fisico-cosmologica (generazione e dissoluzione delle cose) con un linguaggio etico e giuridico (giustizia e ingiustizia). Il termine centrale è senz’altro àpeiron, che significa «privo di limite» (composto dal prefisso privativo a e pèras «limite»), ossia appunto «illimitato» e forse «infinito». Probabilmente Anassimandro intende sostenere che tutte le cose nascono da una sorta di magma originario, l’illimitato appunto, e in esso sono destinate a tornare, forse per rigenerarsi ancora. Egli poi sembra sostenere che nel momento stesso in cui nascono, e dunque si affermano nella loro individualità, le cose commettono una sorta di ingiustizia (forse a danno dell’illimitato, forse delle altre cose) e per questo pagano una pena, consistente nel ritorno all’illimitato originario.
La vita e le opere Anassimandro (610-540 ca. a.C.) nacque a Mileto ed ebbe probabilmente stretti contatti con il concittadino Talete. Fu attivo in politica e guidò la fondazione di una colonia. Si occupò di problemi naturali e a lui vengono attribuite la dottrina dell’origine del tutto dall’illimitato (àpeiron), la convinzione che la vita si sia originata dal Il principio di ragion sufficiente
3 Condensazione e rarefazione all’origine del mondo
T3
Anassimene
da Simplicio, Commento alla Fisica, 24,26
fango marino, la scoperta dell’inclinazione dello zodiaco, un modello geometrico dell’universo in cui la Terra è di forma cilindrica e occupa il centro di vari cerchi dove si trovano il Sole, la Luna e le stelle. Disegna la prima carta geografica del mondo conosciuto e introduce in Grecia l’orologio solare, o gnomone. Scrive un’opera in prosa più tardi intitolata Sulla natura.
Sappiamo poi che anche Anassimandro si interessa di cosmologia e astronomia. Sembra che a lui si debba l’utilizzo, forse per la prima volta, del principio di ragion sufficiente, quando sostiene che la Terra resta al suo posto in virtù della posizione centrale nella quale si trova; essendo esattamente al centro dell’universo, non esistono ragioni per cui essa dovrebbe spostarsi in una direzione piuttosto che in un’altra.
Anassimene: l’aria origine del tutto Il terzo rappresentante della cosiddetta scuola di Mileto è Anassimene, attivo nella seconda metà del VI secolo a.C. Se Talete vede nell’acqua l’elemento da cui si origina la vita, Anassimene osserva che i processi naturali risultano meglio comprensibili ipotizzando la centralità dell’aria. Il ragionamento che dovrebbe supportare questa concezione sembra sintomatico del modo di procedere dei fisiologi di Mileto: secondo Anassimene gli elementi fisici si producono a causa di processi di condensazione e rarefazione dell’aria, la quale costituisce dunque una sorta di sostrato originario. Nella prima testimonianza a lui relativa leggiamo infatti: L’aria rarefacendosi diviene fuoco, condensandosi vento, e poi nube, e, se si condensa ancora di più, acqua, poi terra, e poi pietre, e da queste altre cose ancora. 35
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➥ Sommario, p. 61
Come si vede, siamo di nuovo di fronte a una procedura analogica, che tende a universalizzare un nesso esplicativo in qualche modo osservabile a livello microcosmico. La physiologhìa ionica rappresenta il primo serio tentativo di stabilire cause naturali (l’acqua, l’aria, l’illimitato) per i fenomeni, annullando o riducendo di molto il ruolo delle divinità tradizionali, alle quali Omero ed Esiodo avevano assegnato il primato nella determinazione degli accadimenti dell’universo.
La vita e le opere Anassimene (586-528 ca. a.C.) nacque a Mileto ed ebbe molto probabilmente occasione di ascoltare Anassimandro. Si occupò prevalentemente di meteorologia e astronomia. Individuò come principio unico dell’universo l’a-
La scuola di Mileto
Contesto storico-culturale
ria, che dà origine a tutto attraverso i processi di rarefazione e di condensazione: in questo modo le differenze qualitative tra i fenomeni sono riportate a differenze di tipo quantitativo. Scrisse un’opera in prosa più tardi intitolata Sulla natura.
Città autonome e libere
Contatti con altre civiltà
Fisiologi con interessi naturalistici molto ampi: astronomia, biologia, fisica, meteorologia
La scuola di Mileto
Identificazione di un principio originario, l’archè. Ragionamento fondato sull’analogia a partire da fatti e fenomeni conosciuti e osservati
I fisiologi ionici
Talete Elemento umido: l’acqua. Processi di generazione e dissoluzione
Anassimandro Magma originario illimitato, l’àpeiron. Processi di generazione e dissoluzione
Anassimene Elemento aria. Processi di rarefazione e condensazione
Eraclito l’oscuro
3 I testi
Eraclito Sulla natura: fr. 34, T4; fr. 29, T5; fr. 89, T6; fr. 51, T7; fr. 88, T8; fr. 53, T9; fr. 50, T10; fr. 1, T11; fr. 67, T12 Un pensatore misterioso e aristocratico
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Sulle coste dell’Asia Minore, a Efeso, non lontano da Mileto, vive e opera una delle figure più affascinanti e misteriose della filosofia antica: Eraclito. Misterioso Eraclito deve apparire anche agli antichi, visto che si merita l’appellativo di «oscuro»: un epigramma contenuto nell’Antologia Palatina (la principale raccolta di epigrammi dell’antichità) invita a «non volgere troppo in fretta i fogli di Eraclito di Efeso, sono tenebre oscure come la notte; ma se ti guida un iniziato,
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la luce è più chiara di quella del sole». In queste poche parole è contenuto il senso del messaggio di Eraclito: esso deve apparire oscuro ai molti, i quali vivono nell’ignoranza delle loro opinioni private, ma, se correttamente inteso, è in grado di disvelare verità profonde e inaccessibili alla moltitudine, verità capaci di trasformare l’esistenza degli uomini.
La vita e le opere Eraclito (540-470 ca. a.C.) nacque a Efeso, colonia ateniese nella Ionia, da una famiglia aristocratica che si diceva discendesse da antichi re. Al primogenito erano per questo attribuiti privilegi sacerdotali e civili cui Eraclito rinunciò in favore del fratello minore. Ferocemente antidemocratico, rifiutò di partecipare alla stesuIl solo sapiente e i molti stolti ➥ Laboratorio di lettura, p. 64
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Eraclito
Sulla natura, fr. 34
ra della nuova costituzione; secondo una tradizione, è per i suoi rapporti politici con il re Dario che la sua città non aderì alla rivolta delle città greche contro i persiani del 499 a.C. Scrisse un libro di sentenze oracolari in prosa – cui venne attribuito il titolo Sulla natura – che lasciò come dono votivo nel tempio di Artemide Efesia.
L’opposizione tra l’unico sapiente (sveglio e saggio) e la molteplicità degli stolti (dormienti e ignoranti), che è destinata ad attraversare in varia forma la riflessione dei presocratici (la ritroveremo in Parmenide, Empedocle, ma anche nel pitagorismo), conosce con Eraclito la sua più radicale formulazione. Nel frammento 34 leggiamo a proposito dei molti, ossia della maggioranza degli uomini: Ascoltando privi di intelligenza assomigliano ai sordi; a loro si riferisce il detto «pur presenti, sono assenti». Un’altra sentenza recita impietosa:
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Eraclito
Sulla natura, fr. 29
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Gli aforismi e il principio
Lo stesso genere letterario scelto da Eraclito per comunicare le verità profonde alle quali è pervenuto esprime in modo emblematico il carattere generale del suo pensiero: questo scritto, infatti, al quale viene assegnato successivamente il consueto titolo Sulla natura, è costituito per lo più da brevi ed enigmatiche sentenze, veri e propri aforismi, che hanno lo scopo di celare alla moltitudine il loro significato recondito. Secondo Eraclito gli uomini si ostinano a muoversi all’interno di orizzonti privati e individuali; essi non sono in grado di comprendere la legge profonda del reale, che rappresenta una sorta di principio universale al quale tutto l’essere si adegua. Recita Eraclito nel frammento 89:
Eraclito
Per coloro che sono svegli il cosmo è comune e unico, ma quando dormono ciascuno si rivolge a ciò che gli è proprio.
Sulla natura, fr. 89
L’armonia degli opposti
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Preferiscono i migliori un’unica cosa a tutte le altre, fama perenne su tutte le cose mortali; la maggioranza pensa invece a saziarsi come bestie.
Eraclito
Sulla natura, fr. 51
Gli uomini «dormienti» credono che il significato delle cose risieda nella loro individualità e che esso possa dunque venire compreso se tali cose vengono considerate individualmente, ossia separando le une dalle altre. Nulla di più ingenuo e falso, secondo Eraclito: Non comprendono come pur differendo, in realtà concordi. Armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira. 37
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Così recita un po’ misteriosamente il frammento 51. Eraclito vuole dire che le cose che gli uomini ritengono opposte e inconciliabili – come la salute e la malattia, la vita e la morte – non sono che due aspetti di una medesima cosa, anche in considerazione del fatto che l’una non può esistere senza l’altra. In uno degli aforismi più celebri leggiamo:
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Eraclito
Sulla natura, fr. 88
Tutto scorre: permanenza del mutamento
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Eraclito
Sulla natura, fr. 53
Il lògos: legge cosmica universale
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Eraclito
Sulla natura, fr. 50
La medesima cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando sono quelli, e quelli di nuovo mutando divengono questi. Quest’ultima affermazione ci mette di fronte a un altro motivo centrale della riflessione di Eraclito: l’idea che le cose siano interessate da un processo incessante di divenire, in cui l’unico elemento di permanenza, ossia di stabilità, è costituito proprio dal mutamento. Eraclito ritiene che la guerra (pòlemos) rappresenti in un certo senso l’essenza stessa delle cose: nel conflitto si scontrano e si armonizzano gli opposti in un processo di perpetuo divenire, espresso dalla formula pànta rèi, ossia «tutto scorre». La natura in qualche modo fondante della guerra o conflitto viene enunciata nel frammento 53: Conflitto è padre di tutte le cose, di tutte è re: alcuni dimostrò essere dèi altri uomini, alcuni fece schiavi e altri liberi. La parola centrale della riflessione di Eraclito è però un’altra. Si tratta della parola lògos, che possiede in lui (come in generale nella lingua greca) una pluralità di significati. Il lògos di Eraclito è la legge cosmica universale, ossia l’identità e la co-implicazione degli opposti; è il pensiero razionale in grado di cogliere questa legge; ma è anche il discorso sapienziale che la enuncia: Prestando attenzione non a me, ma al lògos, è saggio convenire che tutte le cose sono uno, afferma il pensatore di Efeso nella sentenza 50. Del resto, il suo scritto si apre con una dichiarazione di fede nella profonda verità del lògos, che è anche un’ammissione delle difficoltà che gli uomini hanno di comprenderlo:
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Eraclito
Sulla natura, fr. 1
Il lògos come fuoco
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Di questo lògos [legge, discorso], che è vero, mai possiedono gli uomini intelligenza, né prima di udirlo né subito dopo averlo udito; per quanto ogni cosa infatti accada secondo questo lògos, sembra non ne abbiano avuto esperienza. Il lògos rappresenta dunque il principio universale della realtà, la legge cosmica che regola gli accadimenti e che consente di pensare alla pluralità delle cose e degli accadimenti come la manifestazione di un’unica realtà. Secondo Eraclito questo lògos possiede anche una sorta di espressione fisica, che è costituita dal fuoco. Quest’ultimo rappresenta l’elemento visibile che esprime in modo emblematico il carattere intrinsecamente contraddittorio della realtà: per vivere, ossia per essere, il fuoco deve bruciare, cioè annullare, qualcosa; in lui vita e morte coincidono. Questo lògos-fuoco viene poi identificato con la divinità, anticipando una concezione destinata ad affermarsi in modo organico nello stoicismo (vedi Unità 6).
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Sulla natura, fr. 67
Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: muta come il fuoco quando si unisce agli odori, e prende il nome dal sapore di ognuno di essi.
➥ Sommario, p. 61
È indubbio che il pensiero di Eraclito presenti tratti oracolari, che lo rendono in molti punti quasi incomprensibile. Esso esercita tuttavia un’influenza significativa sulla filosofia antica; il grande Platone, il quale entra in contatto con un eracliteo del suo tempo (un certo Cratilo), non manca di restarne affascinato; gli stoici, poi, costruiscono il loro complesso sistema fisico proprio sulla base dei concetti fondamentali di Eraclito, e in particolare sull’identità tra la ragione universale e il fuoco cosmico.
Eraclito
Il lògos di Eraclito
Continuo divenire come elemento di stabilità: «tutto scorre»
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Unità degli opposti che si svela ai sapienti attraverso il lògos
Lògos come legge cosmica
Espressione fisica del lògos attraverso il fuoco, elemento mutevole e in perenne movimento
L’anima e il numero: Pitagora e il pitagorismo Sul versante opposto del Mediterraneo, dunque in Occidente, nella Magna Grecia (l’odierna Italia meridionale), vive e opera tra la Calabria e la Puglia Pitagora, il quale è però anch’egli nato in Oriente, e precisamente nell’isola di Samo.
La vita e le opere Pitagora (570-490 ca. a.C.) nacque a Samo, un’isola greca vicino alla costa della Ionia. Abbandonò la sua città per motivi politici trasferendosi a Crotone, colonia greca posta sul versante ionico dell’attuale Calabria, dove fondò una scuola filosofica che avrebbe avuto una vasta influenza politica, giungendo a governare Crotone e altre città della Magna Grecia. Nelle numerose Vite di Pitagora che sono giunte fino a noi è difficile distinguere fra notizie storiche ed elementi mitici e leggendari: non sapIl maestro di verità e la cerchia pitagorica
piamo, per esempio, se è vero che abbia viaggiato in Egitto e in Oriente. Secondo una tradizione, una rivolta democratica abbatté a Crotone il governo dei pitagorici, considerati una setta di tendenze aristocratiche, e il maestro fuggì a Metaponto, colonia del golfo di Taranto, dove si sarebbe lasciato morire di fame nel tempio delle Muse. Non lasciò scritti. Gli sono stati attribuiti I tre libri: educazione, politica, fisica e i Versi aurei, ma probabilmente entrambi sono falsificazioni composte all’inizio dell’era cristiana.
Pressappoco contemporaneo di Eraclito, Pitagora presenta più di un elemento in comune con il pensatore di Efeso e poi con Parmenide, anch’egli attivo nella Magna Grecia, in Campania. Questi tre filosofi incarnano in modo emblematico la figura del maestro di verità (vedi «Introduzione», p. 14). Essi si dichiarano in possesso di un sapere eccezionale, precluso agli uomini comuni; un sapere che, se acquisito, consentirebbe di condurre una vita, sia privata che pubblica (ossia 39
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Parte prima L’età antica
politica), virtuosa e quasi divina. In misura maggiore che in Eraclito e Parmenide, il messaggio di Pitagora assume i connotati di una vera e propria rivelazione divina, tanto che la cerchia pitagorica si profila quasi subito come una setta religiosa, oltre che come un gruppo politico. Del resto, se la tesi secondo la quale le filosofie antiche (soprattutto quelle dei primissimi secoli) si prefiggono l’obiettivo di trasmettere un modello di vita più che delle dottrine è vera in generale (vedi «Introduzione», p. 13 s.), essa è ancora più vera nel caso del pitagorismo, il quale si configura fin da subito come un bìos, ossia come un modello di vita. La vocazione politica Sappiamo con certezza che i pitagorici tentano a più riprese – talora anche con successo – di prendere il potere e applicare nelle città dove si trovano i dettami filosofico-religiosi della loro setta, spesso alleandosi con i settori più aristocratici e conservatori delle stesse città. Per questo subiscono anche significativi rovesci, vengono cacciati (per esempio da Crotone) e in alcuni casi addirittura massacrati. La loro vocazione politica è ereditata da Platone, il quale, con la sua Accademia, si propone un compito di rifondazione intellettuale, politica e religiosa non dissimile da quello perseguito dai pitagorici (vedi Unità 3). Pitagora fra storia Su Pitagora molto si è scritto a cominciare dall’antichità. Si tratta certamente di e leggenda una figura che sconfina nel mito e nella leggenda, anche se la sua esistenza storica non viene più revocata in dubbio. L’autorità e il prestigio di cui fu circondato risultarono tali che per secoli i pitagorici attribuirono a lui tutte le loro dottrine, rendendo in questo modo a noi quasi impossibile stabilire con precisione quali fossero effettivamente le concezioni formulate da Pitagora (il quale, tra l’altro, non compose alcuna opera scritta). Sembra comunque di poter dire che già in Pitagora siano presenti i due motivi centrali del pensiero pitagorico successivo, vale a dire: 1) una concezione, più o meno definita, dell’anima come entità diversa e separata, ossia indipendente, dal corpo; 2) un certo interesse per il numero, alla cui natura venivano ricondotti molteplici fenomeni fisici.
1
L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni
Esaminiamo questi due motivi separatamente. Sembra certo che a Pitagora si debba l’introduzione nella cultura greca di alcune credenze di origine orientale (probabilmente egiziana o addirittura indiana) concernenti l’immortalità dell’anima. In realtà anche la religione orfica (quella cioè fondata dal leggendario poeta tracio Orfeo nel VI secolo a.C.) gioca un ruolo significativo nella diffusione di queste credenze relative alla natura dell’anima, ma è indubbio che solo all’interno del pitagorismo esse sono oggetto di una riflessione veramente approfondita. Trasmigrazione Dunque i pitagorici (e prima di loro i seguaci di Orfeo) credono che l’anima sia dell’anima un’entità diversa dal corpo e indipendente da quest’ultimo. Una volta cessata la vita di un corpo, l’anima si incarnerebbe in un altro, dando così luogo a un processo di vera e propria trasmigrazione. Si tratta della concezione della metempsicosi («passaggio delle anime»), da altri chiamata anche metemsomatosi («passaggio nei corpi», ossia trasmigrazione delle anime in corpi sempre diversi).
Influenze esterne e pitagorismo
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Lo storico Erodoto (V secolo a.C.) scrive (Storie, 2,123): Gli Egizi furono i primi a fare questo discorso secondo cui l’anima è immortale e con il venire meno del corpo essa penetra in un altro essere vivente via via che nasce, e dopo che li abbia girati tutti, terrestri, marini e volatili, di nuovo penetrerebbe nel corpo nascente di un uomo e il giro completo avverrebbe in 3000 anni. […] Convengono con questa dottrina Orfici, seguaci di Bacco e pitagorici. Immortalità dell’anima
Trasmigrazione e purificazione
Pitagora mago e sciamano
2 La scuola pitagorica: l’esempio di Filolao
All’interno di un simile quadro, l’anima viene concepita come un’entità immortale, destinata dunque a sopravvivere al corpo nel quale si trova di volta in volta a essere incarnata. Secondo Pitagora l’elemento veramente proprio dell’individuo non è dunque il suo corpo, bensì la sua anima. All’anima, di conseguenza, e non al corpo si rivolge il messaggio sapienziale dei pitagorici. Secondo Pitagora, poi, i corpi nei quali l’anima si può trovare non sono solamente quelli degli uomini, ma anche quelli di altri esseri viventi, per esempio degli animali. Si spiega in questo modo il divieto, formulato nell’ambito delle prescrizioni morali e religiose della setta, di cibarsi di carne, dal momento che nell’animale ucciso potrebbe esserci stata l’anima che era stata precedentemente di un uomo e che in un uomo si sarebbe potuta incarnare in una successiva fase. In verità, basterebbe prestare attenzione all’insieme delle prescrizioni pitagoriche, per rendersi conto che l’intero modo di vita della setta è finalizzato al conseguimento di una vera e propria purificazione dalle istanze della corporeità (non manca neppure l’invito all’astinenza sessuale). I discepoli di Pitagora vedevano nel maestro una sorta di sciamano, un individuo dotato di capacità e poteri eccezionali (si narrava, per esempio, che fosse in grado, conosciuto un individuo, di elencarne le precedenti venti incarnazioni). Era in possesso di qualità divinatorie, era cioè capace di predire il futuro. La sua autorevolezza risultava tale che gli adepti della setta ne parlavano senza in realtà nominarlo, ma indicandolo con espressioni quali «colui», «il divino» ecc.; il motto «lo ha detto lui» (in latino ipse dixit) si riferisce proprio a Pitagora.
Le dottrine matematiche Se l’attribuzione a Pitagora di una concezione dell’immortalità dell’anima, della sua alterità rispetto al corpo e in generale della trasmigrazione, sembra abbastanza sicura, più complessa si presenta la questione per quanto concerne le dottrine numeriche. In realtà molte delle concezioni matematico-scientifiche attribuite dalla tradizione a Pitagora sorsero all’interno della sua scuola in un’epoca successiva, soprattutto grazie all’opera di Filolao di Crotone. Ma un certo interesse per i numeri e per le loro qualità dovette quasi certamente caratterizzare anche il primo pitagorismo, e forse l’insegnamento dello stesso Pitagora.
La vita Filolao (470-390 ca. a.C.) nacque a Crotone e, secondo una tradizione, lasciò la città dopo la rivolta antipitagorica, trasferendosi a Tebe per poi ritornare in Italia. Tra i suoi discepoli è indicato il tarantino Archita. Oltre alla
dottrina dei numeri egli avrebbe sostenuto una teoria astronomica secondo la quale al centro dell’universo c’è un Fuoco attorno al quale ruotano la Terra e gli altri pianeti, all’esterno dei quali c’è un’orbita di Fuoco esterno composto dalle stelle.
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Occorre tenere presente che quando si parla di numeri a proposito dei pitagorici non si deve pensare a entità astratte e separate dalla realtà fisica; i numeri dei pitagorici sono quasi certamente entità concrete, che vengono rappresentate attraverso dei sassolini (con i quali risultano in qualche modo equivalenti). L’aritmetica pitagorica prende per questo la denominazione di psephìzoria, ossia «studio dei sassi» (psèphos in greco significa appunto «sassolino»). La natura concreta – si direbbe fisica – dei numeri trova espressione proprio nel fatto che ogni numero viene rappresentato visivamente per mezzo di questi sassolini e possiede una precisa forma geometrica (che il 9 sia un quadrato viene, per esempio, espresso per mezzo della sua raffigurazione tramite 9 sassolini disposti nella forma di un quadrato). Numeri, musica, In un secondo tempo si fa strada l’idea che la realtà sia costituita di numeri e raparmonia porti numerici. A questa convinzione i pitagorici pervengono anche grazie a una serie di osservazioni relative ad alcuni fenomeni fisici. Si rendono conto, per esempio, che i principali accordi musicali (noi diremo le principali note) sono prodotte da precisi rapporti numerici tra le corde degli strumenti (la quarta = 4/3, la quinta = 3/2 e l’ottava = 2/1); concludono dunque che i numeri stanno alla base dei fenomeni musicali, ossia delle armonie. In un secondo tempo, proprio con Filolao, arrivano addirittura ad attribuire ai moti celesti, cioè ai movimenti degli astri, un carattere armonico, sostenendo però che si tratta di un’armonia che produce un suono che le orecchie umane non sono in grado di udire. La tetrade L’importanza del numero, e in particolare dei numeri sui quali si fondano i principali accordi musicali, vale a dire 1, 2, 3, 4, induce i pitagorici ad attribuire una particolare importanza alla figura che rappresenta questi numeri (la cui somma, tra l’altro, è uguale a 10, altro numero significativo). Sembra addirittura che i pitagorici giurassero fedeltà alla setta proprio in nome della tetrade (tetrakty`s), ossia il gruppo dei primi quattro numeri, che essi rappresentano in questo modo:
Numeri e geometria
● ● ● ● ● ● ● ● ● ●
Secondo i pitagorici in questa figura (e nei numeri che essa rappresenta) era contenuta, o compressa, l’intera realtà: in effetti la sequenza 1-2-3-4 riproduce la successione punto (1: l’unità puntuale), linea (2: perché la linea è delimitata da due punti), figura (3: perché la figura geometrica minima, il triangolo, è circoscritto in tre punti) e solido (4: la piramide, il solido minimo, necessita di quattro punti). Le scoperte L’interesse dei pitagorici per la matematica è del resto ampiamente confermato matematiche dal fatto che a questa scuola si è soliti fare risalire la formulazione del celebre teorema di Pitagora (difficilmente dovuta allo stesso fondatore), e la scoperta delle grandezze incommensurabili (come la diagonale rispetto al lato del quadrato) e dei numeri irrazionali (come √2). Sembra che queste due ultime scoperte avessero provocato drammatici problemi teorici all’interno della setta, tanto che ne fu vietata la diffusione (la leggenda vuole che un adepto, tale Ippaso, il quale aveva infranto il divieto, morisse annegato in mare). È probabile che entrambe queste scoperte, con il riconoscimento di numeri non riconducibili all’unità e di grandezze tra loro non comparabili, mettessero in qualche modo in pericolo l’e42
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dificio teorico complessivo dei pitagorici, secondo i quali la realtà è numero e quest’ultimo presenta una natura perfettamente intelligibile. Numeri limitati L’importanza assegnata ai numeri induce i pitagorici, almeno quelli delle genee illimitati razioni successive, a vedere nei principi dei numeri i principi di tutte le cose. Essi dividono i numeri in due classi, quelli limitati e quelli illimitati; limitati risultano essere i numeri dispari (perché nella rappresentazione fisica operata con i sassolini essi ammettono un limite), illimitati quelli pari (per la ragione opposta). Ecco come sono rappresentati i numeri 4 (illimitato) e 5 (limitato): ●● ●●
(illimitato)
●● ● (limitato) ●●
In questo contesto, dunque, il limite (pèras) e l’illimitato (àpeiron) vengono considerati, almeno a partire da Filolao, come principi di tutte le cose (una simile dottrina, approfondita e modificata, sarà ripresa da Platone nelle sue ultime opere e nelle dottrine non scritte: vedi Unità 3, p. 147). Una setta elitaria Il carattere elitario della setta pitagorica viene, infine, confermato dalle numerose notizie che narrano di una distinzione che vi era in vigore. Si tratta della separazione tra acusmatici, o uditori (àkousma, «ascolto»), e matematici, o esperti nelle conoscenze (màthema significa «conoscenza»). I primi sono semplici ascoltatori, i quali limitano la loro adesione alla setta all’ascolto e all’osservanza dei precetti morali fondamentali formulati da Pitagora; i secondi, invece, costituiscono un gruppo di studio avanzato, dedito probabilmente allo sviluppo delle dottrine scientifiche (matematiche, astronomiche, musicali) più complesse. L’eredità secolare L’influenza del pitagorismo sulla storia del pensiero antico è stata enorme e straordinariamente duratura (troviamo importanti scuole pitagoriche anche dopo il III secolo d.C.). L’eccezionale prestigio della figura di Pitagora (mago, sciamano, ma forse anche filosofo-scienziato) rappresenterà per quasi un millennio l’au➥ Sommario, p. 61 tentico collante di tutta la tradizione pitagorica successiva.
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L’essere e la verità: Parmenide e l’eleatismo
5 I testi
Senofane Silli: fr. 11, T13; fr. 15, T14 Sulla natura: fr. 23, T15
Parmenide Sulla natura: fr. 1, Il proemio, T16; fr. 3, T17; fr. 8, T18 Melisso Sulla natura o sull’essere: fr. 1a, T19
Nello stesso periodo in cui Pitagora e i pitagorici operano, prima in Calabria e poi in Sicilia, a Elea (l’odierna Ascea), in Campania, si forma una scuola, quella eleatica, destinata ad avere un limitato successo istituzionale, ma una straordinaria influenza filosofica su tutto il pensiero occidentale.
1 Le radici dell’eleatismo
Senofane: fiducia nella ragione e critica alla religione Il fondatore della scuola eleatica è Parmenide (il quale è anche legislatore della sua città), ma, secondo Platone, già con Senofane di Colofone sono individuabili motivi tipici di quella che lui definì la «stirpe eleatica».
La vita e le opere Senofane (570-460 ca. a.C.) nacque a Colofone, nella Ionia, ma abbandonò la sua città dopo la conquista persiana e viaggiò a lungo, stabilendosi infine a Elea.
Le sue opere, di cui ci sono giunti circa quaranta frammenti, comprendono poesie di vario genere (elegiache, conviviali, satiriche) e due poemi epici, La fondazione di Colofone e La fondazione della colonia di Elea.
La ragione principale per la quale Senofane può venire considerato un antesignano dell’eleatismo risiede nella fiducia da lui riposta nelle capacità della ragione e nella radicale critica alla tradizione. In particolare Senofane si scaglia con forza e ironia contro l’antropomorfismo della religione greca tradizionale (quella di Omero ed Esiodo). Ai suoi occhi l’abitudine di rappresentare gli dèi come se fossero uomini, sia pure immortali – e dunque in possesso degli stessi difetti di questi ultimi – costituisce il retaggio di una mentalità arcaica che la ragione si deve incaricare di smascherare. In una delle sue opere Senofane afferma:
T13
Senofane Silli, fr. 11
Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e biasimo: rubare, commettere adulterio, ingannarsi reciprocamente. Ancora più ridicola è però ai suoi occhi l’abitudine di rappresentare gli dèi con sembianze umane:
T14
Senofane Silli, fr. 15
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Se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e potessero con queste disegnare […] i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili a cavalli, e i buoi simili a buoi […]
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Nei pochi frammenti rimastici di Senofane sembra contenuta anche una prudente professione di scetticismo, o almeno un coraggioso riconoscimento dei limiti conoscitivi dell’uomo. Nel frammento 23 si legge infatti:
T15
Senofane
Sulla natura, fr. 23
Il certo nessuno mai lo ha colto, né ci sarà qualcuno che lo colga, sia relativamente agli dèi sia relativamente a tutte le cose di cui parlo. Egli sembra dunque ammettere che la conoscenza certa e assoluta risulta in qualche modo preclusa all’uomo, in assenza di una rivelazione divina. Proprio quella rivelazione divina che Parmenide dichiara di avere avuto.
2
Parmenide: la verità contro l’opinione
Parmenide è un pensatore straordinario per profondità e influenza. È anche il primo autore presocratico al quale sia Platone che Aristotele sembrano riconoscere la caratura del filosofo vero e proprio. L’atteggiamento che i due grandi maestri del pensiero antico hanno verso Parmenide è duplice: da un lato, essi rimangono colpiti dalla radicalità e dalla profondità delle sue riflessioni; ma dall’altro, non mancano di metterne in luce gli eccessi teorici, quasi che alla sua straordinaria profondità teorica non corrispondesse un’uguale capacità di gestire con moderazione questo acume (Platone definisce Parmenide «venerando e insieme terribile»). Il richiamo Parmenide consegna il proprio pensiero a un poema (dal solito titolo Sulla natualla tradizione ra), scritto in esametri omerici e di cui ci restano diciannove frammenti (alcuni sapienziale dei quali abbastanza estesi). Nella scelta di scrivere in poesia e in particolare nell’utilizzo dell’esametro omerico si cela probabilmente l’intento di presentare una concezione che vuole riallacciarsi a forme di comunicazione sapienziale e arcaica: in questo senso, anche Parmenide – esattamente come Eraclito e Pitagora, e dopo di lui Empedocle – intende presentarsi come un maestro di verità.
Un pensatore «venerando e terribile»
La vita e le opere Parmenide (515-445 a.C.; secondo Apollodoro, meno attendibile, la nascita risalirebbe intorno al 540) nacque a Elea (l’attuale Ascea) in Magna Grecia da una famiglia aristocratica. Di lui sappiamo solo che svolse l’attività di
legislatore nella propria città, acquisendo un discreto prestigio, e che forse si recò ad Atene, ormai anziano, accompagnato dal discepolo Zenone (450 ca.). Del suo poema Sulla natura restano diciannove frammenti per un totale di 154 versi.
La rivelazione della dea L’atmosfera sapienziale e volutamente arcaicizzante del poema è rafforzata dal fatto che a parlare al poeta, ossia a Parmenide, è una dea, che gli comunica una rivelazione profonda, alla quale gli uomini comuni non hanno accesso. Dice dunque la dea:
T16
Parmenide
Sulla natura, fr. 1, Il proemio
Verità e opinioni
Bisogna che tu tutto sappia, sia della verità ben rotonda il sapere incrollabile, sia le opinioni dei mortali, prive di vera certezza. Fin dall’apertura del poema, dunque, Parmenide segnala la struttura generale del suo pensiero e della sua opera: da una parte si colloca la «verità ben roton45
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da» (ossia perfettamente coerente), conosciuta dal filosofo, dall’altra, le opinioni degli uomini (alle quali bisogna pure prestare attenzione, ma non allo scopo di accettarle, bensì per comprenderle ed eventualmente per renderle almeno plausibili, ossia sensate, visto che non potranno mai risultare vere). Le parole della dea assumono poi un andamento davvero misterioso, anche se dietro di esse si intuisce la grandezza di un pensiero che tenta di conciliare la logica (l’argomentazione stringente), l’ontologia (la teoria dell’essere) e l’epistemologia (la dottrina della conoscenza). Afferma dunque la dea:
T17
Parmenide
Sulla natura, fr. 3
Ecco ora che dico, e tu fa’ tesoro del detto, quali sono le sole due vie di ricerca pensabili: l’una che è e che è impossibile che non sia, è la strada della persuasione poiché si accompagna alla verità, l’altra che non è e che è necessario che non sia, che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere; mai potresti conoscere ciò che non è, né potresti parlarne, è cosa impossibile.
Le due vie: l’essere e il non essere L’intero discorso di Parmenide è costruito a partire da questa disgiunzione primaria e fondamentale: da una parte la via dell’essere – che dice l’essere e che va percorsa fino in fondo –, dall’altra quella del non essere, che va rifiutata come impossibile, appunto perché non è possibile né conoscere né nominare il non essere. Dire e pensare il non essere comporta, da una parte, la perdita di ogni riferimento (dire e pensare il nulla), dall’altra, il naufragio nella contraddizione (dire di una cosa che non è, significa attribuire ad essa contemporaneamente l’essere, in quanto ‘è’ una cosa, e il non essere, in quanto ‘non è’). La difficoltà Che cosa significa tutto ciò? È davvero difficile, forse addirittura impossibile, dell’interpretazione stabilirlo con esattezza. Parmenide si esprime in un linguaggio fortemente conciso; ogni parola può venire intesa in modi differenti, e lo fu effettivamente già a partire da Platone e Aristotele. La ragione della difficoltà che i frammenti di Parmenide comportano risiede anche nel fatto, sopra segnalato, che in lui l’aspetto logico, quello ontologico e quello epistemologico risultano strettamente connessi, mentre noi siamo portati a distinguerli. Le affermazioni contenute nel frammento sopra riportato devono la loro difficoltà anche all’assenza dell’indicazione del soggetto al quale si riferiscono. Per fortuna, in un frammento successivo, l’ottavo, Parmenide indica esplicitamente il soggetto del suo discorso: si tratta dell’ente o essere (to eòn). Qui la dea, dopo avere ancora una volta messo in guardia il suo ascoltatore dal pensare e dal dire il non essere, afferma: L’impossibilità del non essere
T18
Parmenide
Sulla natura, fr. 8
46
[…] resta soltanto una via, ossia che è. Su questa ci sono numerosi segnali: che l’essere è ingenerato e senza morte, tutto intero, di un unico genere, immobile e non è mai stato incompiuto o lo sarà, perché è tutto insieme ora, uno, continuo. Quale nascita, infatti, cercherai di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perciò è necessario che sia per intero o che non sia per nulla. […] Per questa ragione né il nascere né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo: o è o non è. Si è quindi deciso come necessario che una via si deve lasciare […]
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
E come l’essere potrebbe esistere nel futuro? Come potrebbe essere nato? Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro. […] E neppure è divisibile, perché tutto intero è simile a sé; né esiste da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito, né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere. Perciò è tutto intero, continuo: l’essere infatti si stringe con l’essere. […] E rimanendo identico nell’identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane saldo.
L’essere L’interpretazione cosmologica dell’essere
L’identità dell’essere con se stesso
Il divieto di dire e pensare il non essere
Dunque il discorso di Parmenide verte sull’essere. Ma che cosa rappresenta questo essere? E che cosa significa che esso è, e poi che è ingenerato, eterno, intero, di un unico genere, immobile? Anche qui le interpretazioni divergono. L’essere di cui parla Parmenide potrebbe indicare il cosmo, ossia l’universo; e il significato delle affermazioni ad esso relative potrebbe consistere nel fatto che l’universo, al di là di tutte le sue apparenti molteplici articolazioni (le cose che lo occupano), è in realtà unitario, immobile, ingenerato. Questa, più o meno, fu l’interpretazione che diede alle parole di Parmenide Melisso, l’ultimo grande rappresentante dell’eleatismo (vedi p. 49). Ma Parmenide potrebbe anche voler sostenere che ogni cosa, per essere veramente una cosa, deve risultare unitaria, identica a se stessa, perfettamente immobile, ossia del tutto inalterabile. Solo così essa potrà anche risultare perfettamente conoscibile, perché solo ciò che è (vale a dire che è ingenerato, immobile, di un unico genere, cioè dotato di un’unica caratteristica) può essere conoscibile e nominabile. Se si negassero le caratteristiche dell’essere – cioè quelle qualità che Parmenide chiama i segnali, gli indicatori (sèmata) – entrerebbe inevitabilmente in scena il non essere. Infatti, se fosse generato, l’essere dovrebbe, prima di generarsi, risultare non essere; allo stesso modo, se non fosse di un unico genere (cioè se avesse molte caratteristiche), l’essere sarebbe composto anche dal non essere, dal momento che una certa qualità non è identica a un’altra. In tutti questi casi l’essere si trasformerebbe in non essere, infrangendo il perentorio divieto di dire e pensare il non essere. Si cadrebbe così in contraddizione, affermando in qualche modo che il non essere è, determinando così il naufragio della logica e dello stesso pensiero. Come si vede, la filosofia di Parmenide sembra articolarsi intorno al divieto di dire e pensare il non essere. Vedremo come una simile radicale posizione non fu priva di influenza nella successiva indagine sulla natura, che del non essere (inteso come divenire, come mutamento e come molteplicità) sembrava non poter fare a meno. Ma lo stesso Parmenide ammette che la maggior parte degli uomini (i «mortali»), seguono la seconda via: quella che porta all’errore di accettare la molteplicità della realtà e il divenire nel tempo, e quindi ammette il non essere. Questa via è imposta dall’inganno dei sensi, che ci mostrano cose molteplici e mutevoli: si tratta non di «verità» ma di «opinione» (dòxa). Nella seconda parte del suo poema, dedicata appunto alla dòxa, Parmenide espone al suo discepolo una versione se non vera, almeno verosimile del mondo dell’opinione. Alla maniera dei fisiologi egli costruisce quindi una concezione della natura come derivata dal contrasto (e dalla mescolanza) fra la luce e la tenebra (o, nell’interpretazione che ne diede Aristotele, fra il caldo e il freddo); la cosmologia ‘verosimile’ di Parmenide appare quindi una versione di quella pitagorica, basata sui due principi del limite e dell’illimitato. 47
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3 L’inventore della dialettica
Zenone: la difesa logico-argomentativa di Parmenide Allievo e seguace di Parmenide è Zenone di Elea. Il senso dell’opera di questo affascinante autore (una raccolta di complessi argomenti miranti a confutare gli avversari del suo maestro) consiste nel tentativo di difendere Parmenide dagli attacchi che inevitabilmente vennero mossi a un pensiero, quello contenuto nel poema, tanto radicale quanto controintuitivo (ossia contrario, o diverso, da come ci aspetteremmo che fosse a intuito). Per questa ragione Zenone viene considerato da Aristotele (e in qualche misura già da Platone) come l’inventore della dialettica, ossia del metodo confutatorio.
La vita e le opere Zenone (490-440 a.C., ma la data della morte non è sicura) nacque a Elea e fu allievo di Parmenide, con il quale forse si recò ad Atene. La dimostrazione per assurdo
La non esistenza del movimento
Il paradosso di Achille: la dimostrazione dell’immobilità dell’essere
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Scrisse un’opera in prosa, di cui restano solo cinque frammenti, nella quale difende il pensiero del maestro attraverso argomentazioni che riducono all’assurdo le tesi dei suoi avversari.
Zenone procede pressappoco in questo modo. Prende uno degli assunti di Parmenide, cioè una delle affermazioni di quest’ultimo relative alla natura dell’essere (i famosi sèmata); poi si mette nei panni di un avversario di Parmenide e nega questo stesso assunto, sostenendo, per esempio, che l’essere non è uno ma molteplice, oppure che non è immobile ma in moto; quindi dimostra che dalla negazione di questo assunto discendono conseguenze assurde, oppure in contrasto con la stessa premessa, o semplicemente paradossali; in questo modo può concludere che l’assunto parmenideo, dal momento che la sua negazione determinava esiti inaccettabili, deve essere per forza vero. Per inciso, occorre segnalare che la dimostrazione della verità dell’affermazione A attraverso la messa in luce della falsità dell’affermazione contraddittoria non-A rappresenta la struttura del metodo dialettico, e in questa forma verrà ripresa da Platone e Aristotele. Vediamo alcuni degli esempi più noti. Per soccorrere l’affermazione parmenidea relativa alla non esistenza del movimento (cioè la tesi che l’essere è immobile), Zenone inizia con l’ammettere per ipotesi che il movimento esiste. Dunque, se c’è movimento, il mobile M partendo dal punto A raggiungerà il punto B. Per raggiungere B, però, dovrà prima arrivare al punto C collocato esattamente a metà strada da A e B; prima che in C dovrà inevitabilmente arrivare in D, che si trova tra A e C e così via all’infinito. È evidente che l’argomento di Zenone mira a dimostrare che il movimento neppure può iniziare, perché per raggiungere qualsiasi punto occorre trovarsi in un punto precedente e così via all’infinito. Ancora più celebre dovette essere il paradosso di Achille e della tartaruga. Se il movimento esiste, ossia se l’essere non è immobile (come invece postulava Parmenide), Achille ‘piè veloce’ raggiungerà la tartaruga. Poniamo allora che Achille si trovi nel punto dello spazio S0 e che la tartaruga sia un poco più avanti in S1; nel tempo (T1) in cui Achille ha raggiunto il punto S1 in cui si trovava la tartaruga, questa avrà compiuto un piccolo movimento e si sarà spostata in S2, evitando così di essere raggiunta; anche nel lasso di tempo successivo (T2) Achille non riuscirà a raggiungere la tartaruga perché questa si sarà spostata, sia pure di pochissimo. Il processo è destinato a proseguire all’infinito, senza che Achille riesca mai a raggiungere la tartaruga.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici S = Spazio
paradosso di IlIlParadosso di Achille Achille e la tartaruga e la tartaruga
T = Tempo
S0
S1
S2
S3
S4
T1 T2 T3 T4 0 0S1,1 S1 1S2,2 S2 2S3,3 … e, per percorrere Per raggiungere la tartaruga Achille deve percorrere gli infiniti segmenti S Per raggiungere la tartaruga Achille deve percorrere gli infiniti segmenti S S , S S , S S ,... e, per percorrere infiniti la tartaruga. tartaruga. infiniti segmenti, segmenti, dovrà dovrà impiegare impiegare un un tempo tempo infinito: infinito; Achille Achille dunque dunque non non raggiungerà raggiungerà mai mai la
Dunque Zenone può concludere che il movimento è impossibile o che la sua ammissione conduce a conseguenze ancora più ridicole di quelle derivanti dall’ipotesi dell’immobilità dell’essere. Dall’indagine Analoghi ragionamenti fa Zenone a proposito del molteplice e del divenire. In sulla natura generale di lui si può dire che sposta l’indagine sulla natura dal piano fisico e alla dialettica sensibile (nel quale l’avevano collocata i fisiologi ionici) a quello logico-dialettico, radicalizzando spunti effettivamente presenti nel poema di Parmenide.
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Melisso: l’essere è il cosmo L’ultimo rappresentante dell’eleatismo (anche se forse non soggiornò mai a Elea) è Melisso di Samo.
La vita e le opere Melisso (485-430 ca. a.C.) nacque a Samo, dove svolse attività politica. In seguito a una rivolta del partito aristocratico la città si ribellò ad Atene nel 442 a.C. e Melisso guidò la flotta contro quella ateniese, comandata L’essere in senso fisico-cosmologico
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Melisso
Sulla natura o sull’essere, fr. 1a
da Pericle, sconfiggendola. Egli si inserisce nella scuola eleatica, anche se non sappiamo se abbia avuto contatti diretti con Parmenide. Ci restano alcuni frammenti della sua opera in prosa intitolata Sulla natura o sull’essere.
La sua operazione è esattamente inversa a quella di Zenone. Se quest’ultimo ha fornito un’interpretazione del pensiero di Parmenide di carattere logico-dialettico, Melisso intende l’essere parmenideo in senso fisico-cosmologico. Per lui l’essere altro non è che il cosmo, ossia l’universo. Tuttavia questo essere, per poter risultare effettivamente unico, dovrà inevitabilmente essere anche privo di limite, ossia illimitato (àpeiron) e infinito (a differenza dell’essere parmenideo che era invece equiparato a una sfera perfetta, e che risultava dunque finito); l’essere è per Melisso privo di limiti non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Scrive infatti all’inizio del suo trattato Sulla natura o sull’essere: Sempre era e sempre sarà, perché se fosse generato sarebbe necessario che, prima che fosse generato non fosse nulla, ma se prima era nulla, per nessuna ragione nulla si sarebbe potuto generare dal nulla. 49
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Parte prima L’età antica Nulla può nascere dal nulla
➥ Sommario, p. 61
L’interesse di questa affermazione risiede soprattutto nel fatto che in essa si trova la prima esplicita formulazione del principio secondo il quale «nulla può nascere dal nulla» (nihil ex nihilo). Per comprendere quanto questo principio, in qualche modo implicito già nel poema parmenideo, abbia influito sulla riflessione naturalistica successiva, sarà sufficiente leggere la prossima sezione.
Empedocle, Anassagora, Democrito: il naturalismo dopo Parmenide
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I testi Empedocle Sulla natura: fr. 8, T20; frr. 21 e 26, T21 Purificazioni: fr. 117, T22
Anassagora Sulla natura: fr. 1, T23; frr. 12 e 13, T24 Democrito Sulla natura: fr. 11, T25; fr. 9, T26
L’irruzione dell’eleatismo nel pensiero greco non è davvero senza conseguenze per il successivo corso della riflessione sulla natura. Si può anzi dire che le dottrine di Parmenide (e dei suoi seguaci) sconvolgono come un vero e proprio terremoto il modo di accostarsi all’indagine naturalistica. Ci si rende immediatamente conto che non sarebbe stato più possibile condurre la ricerca intorno alla phy`sis (alla sua struttura, ai processi che la attraversano) con i metodi dei fisiologi ionici. Bisogna tenere conto del perentorio divieto di Parmenide relativo al non essere e al divenire, che rappresenta pur sempre, come abbiamo visto, una forma di non essere. «Mai potrai conoscere e nominare il non essere, è cosa impossibile», dichiara, implacabile, il venerando e terribile Parmenide; «nulla si può generare dal nulla», aggiunge, sulla medesima linea, Melisso, non facendo che esplicitare una posizione largamente implicita nel poema parmenideo. Come può la natura L’applicazione alla natura della stringente logica eleatica comporta dunque il riessere mutevole? fiuto tanto della generazione, ossia della nascita, dal nulla, quanto del divenire, cioè della trasformazione di qualcosa in qualcos’altro. E ancora: l’essere parmenideo è uno, perché, se fosse molteplice, concederebbe diritto di cittadinanza anche al non essere, infrangendo il divieto. Ma la natura – lo vediamo tutti noi – manifesta continuamente processi di generazione e di trasformazione, e appare intrinsecamente molteplice. Come è possibile indagare sensatamente intorno ad essa negandole i tre aspetti (generazione, trasformazione, molteplicità) che sembrano caratterizzarla in quanto natura (non si dimentichi che, come detto, la parola phy`sis deriva dal verbo phy`o, che significa appunto «nascere, generarsi»)? L’influenza dell’eleatismo nella riflessione sulla natura
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Logica eleatica e osservazione della natura
1 Naturalista, mago, filosofo, medico e politico
Non è azzardato vedere nell’intero corso del naturalismo posteleatico il tentativo di conciliare, almeno in parte, i divieti parmenidei con la possibilità di indagare effettivamente intorno alla natura. La concezione elementaristica di Empedocle, la dottrina dei semi originari di Anassagora e la teoria atomistica di Leucippo e Democrito non rappresentano altro che lo sforzo di inglobare la riflessione logica di Parmenide nel cuore dell’indagine naturalistica, tentando di conciliare due esigenze apparentemente opposte: il rigore della logica eleatica e il carattere molteplice e diveniente della natura.
Empedocle: tra antichi e nuovi saperi Empedocle di Agrigento, discendente da una famiglia prestigiosa e influente, rappresenta forse la figura più straordinaria – o semplicemente la più complessa – tra quelle che si affacciarono nel teatro della filosofia nelle prime fasi della sua storia. Egli è un grande naturalista (erede della tradizione fisiologica ionica); ma è anche un sapiente alla maniera di Eraclito e di Pitagora (dal quale riprende i tratti oracolari del mago e dello sciamano, e la teoria della trasmigrazione delle anime); ha contatti con l’eleatismo (da cui eredita l’attenzione per gli aspetti logico-razionali dell’indagine sulla natura); ma è anche medico e guaritore; e uomo politico, visto che ha un ruolo significativo nel processo di transizione alla democrazia che interessa anche la sua patria; infine, come detto, è anche adepto del pitagorismo. Come si vede, una figura complessa, ricca di tensioni e forse di ambiguità; ma proprio per questo capace di affascinare gli uomini di ogni tempo.
La vita e le opere Empedocle (493-432 ca. a.C.) nacque ad Agrigento da una famiglia ricca e prestigiosa di parte democratica. Aveva fama di mago, taumaturgo e naturalista; secondo la tradizione era sempre seguito da gruppi di discepoli. Sulla sua morte sorsero varie leggende, la più famosa
Conciliare naturalismo ed eleatismo
➥ Laboratorio di lettura, p. 68
delle quali, riferita da Diogene Laerzio, narra che si uccise gettandosi nel cratere dell’Etna. Le sue opere sono in versi e ce ne sono pervenuti circa quattrocento del suo poema Sulla natura, dedicato alla cosmologia, e centoventi del poema Purificazioni o Carme lustrale in cui viene espressa una concezione mistica ispirata alla religione orfica e al pitagorismo.
L’opera più significativa di Empedocle, un poema in esametri dal titolo Sulla natura, intende rifarsi alle due grandi tradizioni della riflessione precedente, tentando di conciliarle: quella naturalistica di matrice ionica (presente nel tema dell’opera, la natura appunto) e quella parmenidea (in qualche modo evocata nella scelta del genere letterario, quello della poesia in esametri). Empedocle si propone dunque di inglobare la riflessione parmenidea nel cuore dell’indagine naturalistica. Per prima cosa, dunque, egli accetta i divieti eleatici relativi all’inammissibilità del non essere e della generazione dal nulla. Ma tenta di adattarli a una ricerca che sia immune dall’astrazione e dal radicalismo di Parmenide e di Zenone. Per Empedocle è vero che nulla si genera dal nulla, ed è anche vero che il divenire 51
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Parte prima L’età antica
(ossia la trasformazione di qualcosa in qualcos’altro) a rigore non esiste. Non è vero, invece, che l’essere presenta una configurazione del tutto unitaria, perché, se così fosse, non si comprenderebbe la ricchezza della natura e dell’universo.
I quattro elementi, l’Amicizia e la Contesa Le quattro radici: acqua, aria, terra e fuoco
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Empedocle
Sulla natura, fr. 8
Empedocle postula l’esistenza di quattro radici (rìzai) fondamentali, i celebri quattro elementi (stoichèia) della tradizione successiva; quindi afferma che tutte le cose non sono che una mescolanza di questi quattro elementi primari: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco (già individuati, almeno in parte, dai fisiologi ionici). Ciò che gli uomini comuni chiamano generazione e divenire altro non è che la mescolanza di questi quattro elementi, i quali, aggregandosi e disgregandosi, danno origine alle diverse realtà individuali. Non esiste dunque una vera e propria nascita, perché i quattro elementi (i quali corrispondono in qualche modo all’essere parmenideo) sono eterni e ingenerati; le cose appaiono originarsi e dissolversi, ma in realtà ciò che esiste veramente, ossia le radici fondamentali, non è soggetto a nascita e a morte, ma soltanto a mescolanza (mìxis) e a separazione (diàllaxis). Con uno stile maestoso e oracolare Empedocle dichiara: Ma ti dirò un’altra cosa: non esiste generazione di nessuno fra tutti i mortali, né termine alcuno di morte funesta, ma solo esiste mescolanza e separazione di quanto si è mescolato; ma queste cose dagli uomini sono chiamate generazione.
È molto ingenuo – tipico dei fanciulli, dice Empedocle – ritenere che i processi naturali consistano in nascita e morte; il sapiente è in grado di cogliere ciò che permane al di là dell’apparente divenire delle cose. L’essere parmenideo si è trasformato in Empedocle nelle quattro radici, le quali di quell’essere possiedono più di una caratteristica: sono ingenerate e incorruttibili, sempre esistenti (come l’essere di Melisso), identiche a sé, dotate, ciascuna, di un’unica caratteristica. La differenza rispetto a Parmenide sembra consistere nel fatto che esse sono molteplici, ossia quattro; perché solo ipotizzando una molteplicità originaria e irriducibile, Empedocle crede di poter salvaguardare il carattere molteplice e articolato della natura. Amicizia e Contesa: All’ammissione dei quattro elementi originari Empedocle aggiunge l’ipotesi che forze cosmiche i processi di aggregazione (cioè di mescolanza) e di disgregazione (ossia di seprimordiali parazione) delle radici siano causati da due forze cosmiche primordiali, alle quali egli assegna il nome di Amicizia o Amore (Philìa) e Contesa o Odio (Nèikos). La prima agisce come una sorta di forza di attrazione, la seconda come un principio di repulsione e allontanamento. Secondo Empedocle l’azione di Philìa determina l’aggregazione degli elementi e la formazione delle cose, mentre la presenza di Nèikos è causa dei processi di disgregazione e scomposizione. L’azione di questi due principi non è limitata alla formazione delle singole cose, ossia dei corpi individuali; essa si estende sul piano cosmico. A questo livello Empedocle sembra individuare due fasi estreme: quella del dominio assoluto dell’Amicizia, che comporta l’unità assoluta e perfetta degli elementi (i quali risultano compressi e unificati in una sfera); e quella in cui si impone la Contesa, la quale determina il totale isolamento delle quattro radici. Il ritmo del Le radici originarie e incorruttibili
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
processo cosmico è scandito da queste due fasi estreme, tra le quali si collocano gli stadi intermedi in cui il dominio di una delle due forze primarie non è assoluto (in una di queste fasi si situa l’attuale momento della storia del mondo). Afferma Empedocle:
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Empedocle
Sulla natura, frr. 21 e 26
Durante il regno della Contesa ogni cosa ha forma distinta e sta separata, mentre quando regna Amicizia si uniscono e si desiderano l’una con l’altra. Da essi infatti tutte quante le cose erano, sono e saranno: hanno avuto origine gli alberi, uomini, donne, e fiere, e uccelli, e pesci che vivono in acqua; ed anche gli dèi dalla lunga vita, eccellenti nel rango: solo queste, infatti, sono le cose che esistono veramente. Corrono l’una attraverso l’altra, diventano oggetti di vario aspetto: tanto vasto è lo scambio prodotto dalla mescolanza. […] Solo queste [le quattro radici] sono le cose che esistono; precipitando l’una nell’altra, nascono gli uomini e le altre stirpi di fiere, una volta riuniti ad opera dell’Amicizia in un solo cosmo, una volta separati ciascuna per sé ad opera dell’Odio che nasce dalla Contesa. Fino a che, intimamente congiunti, il tutto torni ad essere uno.
Il ciclo cosmico in Empedocle Unità assoluta e perfetta dei quattro elementi. Dominio assoluto di Amicizia
Azione di Contesa e di Amicizia
Inizia la disgregazione: gli elementi cominciano a separarsi
Prevale Amicizia
Il mondo attuale è in una di queste due fasi
Prevale Contesa
Gli elementi iniziano nuovamente ad aggregarsi
Azione di Amicizia e di Contesa
Massima disgregazione: fino all’isolamento delle quattro radici. Dominio assoluto di Contesa
La concezione dei quattro elementi non riveste, per Empedocle, solamente una funzione fisico-cosmologica. Ai suoi occhi essa è in grado di spiegare anche i processi conoscitivi. A lui si deve la prima formulazione del principio secondo il quale «il simile viene conosciuto dal simile»; dunque, se noi conosciamo le cose, le quali sono composte dalle quattro radici fondamentali, è perché noi stessi di queste radici siamo formati: con l’acqua che è in noi percepiamo l’acqua presente nelle cose, con il fuoco conosciamo il fuoco ecc. La trasmigrazione Empedocle – lo si è detto – è una personalità complessa e variegata: naturadelle anime lista, ma anche mago e adepto della concezione orfico-pitagorica della metempsicosi. Il titolo della sua seconda opera parzialmente conservata (ci restano una quarantina di frammenti) è sintomatico di quest’altro aspetto del La teoria della conoscenza: il simile conosce il simile
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Parte prima L’età antica
suo pensiero: Katharmoì significa infatti «Purificazioni» (siamo, come si vede, in un contesto tipicamente pitagorico). Qui troviamo affermata la credenza nella concezione della trasmigrazione delle anime (anche se Empedocle preferisce forse parlare di demoni); in un frammento il poeta arriva a dire di se stesso:
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Empedocle
Purificazioni, fr. 117
Una volta già io nacqui ragazzo, ed un’altra fanciulla, ed arbusto ed uccello e muto pesce del mare. Come per i pitagorici, anche per Empedocle esiste una sostanziale comunanza fra tutti gli esseri viventi (le cui anime trasmigrano da un corpo all’altro); ma se è così, si impone inevitabilmente il divieto di cibarsi di carne e di fare sacrifici animali. L’anima di chi è vissuto secondo le norme di purificazione ascetica finirà per uscire dal ciclo delle reincarnazioni e tornerà a unificarsi col mondo divino da cui proviene. Al contrario, le anime «impure» si reincarneranno in forme di vita sempre più basse e degenerate. Empedocle, naturalista alla maniera ionica e mago alla maniera pitagorica, esprime in sé le tensioni e le ambiguità della riflessione presocratica, ma anche il fascino e la grandezza di questo pensiero.
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Anassagora: i semi infiniti e l’Intelletto
Anche Anassagora, esattamente come Empedocle, si pone il problema di conciliare i divieti logici parmenidei con un’indagine sulla natura che sia sensata e in qualche modo rispettosa dei dati fenomenici. A lui, tuttavia, le radici empedoclee devono apparire insufficienti a dare conto della infinita varietà del mondo e delle cose che lo abitano. I semi originari Per questo postula una sorta di stadio primordiale in cui tutto si trova in tutto; si e la loro aggregazione tratta di un magma primitivo costituito di un numero infinito di semi originari (sèmata), i quali esprimono le qualità delle cose. In questo stadio primordiale si trovano i semi di tutte le cose, per esempio, dell’oro, del grano, della carne, della pelle ecc.; attraverso la separazione dalla massa primordiale e l’aggregazione dei semi della stessa specie si sono originate le cose, così come noi le conosciamo. Tuttavia, spiega Anassagora, le cose di cui il mondo è fatto non sono mai purissime, dal momento che non sono costituite solo dai semi che le caratterizzano. Per esempio, in un pezzo di carne ci saranno in prevalenza semi di carne, ma non solo; in verità in quel pezzo si trovano i semi di tutte le cose, anche se a prevalere sono naturalmente quelli di carne. Così è per qualsiasi altra cosa.
La vita e le opere Anassagora (500-428 a.C.) nacque a Clazomene, in Ionia, non lontano da Mileto. La sua importanza è soprattutto legata al fatto che fu il primo filosofo attivo ad Atene, dove la sua opera venne letta e discussa. Qui Anassagora fece parte del gruppo di intellettuali che gravitavano intorno a Pericle, leader del partito demo-
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cratico. Questo legame costò ad Anassagora l’espulsione da Atene, formalmente determinata dall’accusa di empietà, dovuta al fatto che egli considerava gli astri, invece che divinità, corpi composti di terra (la Luna), e di fuoco (il Sole). Morì a Lampsaco in Asia Minore. Ci restano diversi frammenti della sua opera intitolata Sulla natura.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Molteplicità e trasformazione
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Anassagora
Sulla natura, fr. 1
In questo modo Anassagora ritiene di essere in grado di spiegare alcuni fenomeni apparentemente paradossali, come, per esempio, il fatto che il pane, una volta ingerito, si trasformi in ossa, sangue ecc. Come è possibile che una cosa si trasformi in un’altra qualitativamente così diversa? La risposta di Anassagora è semplice e ingegnosa: nel pezzo di pane che mangiamo sono contenuti, in quantità minima, anche semi di tutte le altre cose; dunque semi di carne, di sangue, di ossa ecc. In questo modo si spiega il fatto che ingerendo un certo alimento, esso si trasformi, andando ad accrescere le parti del nostro corpo: in quell’alimento sono semplicemente contenuti i semi delle parti del corpo. Insomma, per Anassagora la molteplicità delle cose è spiegabile solo postulando che essa si trovi già nello stato originario del cosmo e poi in tutte le fasi dello sviluppo di questo, e soprattutto in tutti gli oggetti che lo compongono. Il trattato Sulla natura si apre con un’affermazione clamorosa: Tutte le cose erano insieme, illimitate per quantità e per piccolezza, perché anche il piccolo era illimitato. E stando tutte insieme, nessuna era discernibile a causa della piccolezza. Su tutte predominavano l’aria e l’etere, essendo entrambi illimitati: sono infatti queste nella massa totale le più grandi per quantità e per grandezza.
Dal momento che l’elemento più diffuso nell’universo è l’aria, di aria dovevano risultare un gran numero dei semi originari. Per Anassagora, tuttavia, l’ipotesi dei semi non è ancora sufficiente a spiegare come i corpi si siano formati. Essa è sufficiente a dare conto della varietà delle cose (perché la varietà è già data nello stadio primordiale) e del fatto che una possa trasformarsi in un’altra (perché in ogni composto sono presenti i semi di tutte quante le cose). Ma sul piano cosmico occorre postulare una sorta di motore che interviene sul magma originario, dando avvio al processo di separazione dei semi e all’aggregazione di quelli simili in modo da formare le cose così come noi le vediamo. L’Intelletto ordinatore Per Anassagora questo motore – ma sarebbe più corretto parlare, come il nostro autore effettivamente fa, di un ordinatore – è l’Intelletto (nous). Anche esso è composto di semi, tuttavia non mescolati, ma puri, nel senso che è formato dai soli semi di intelletto non mischiati a quelli delle altre cose. Afferma perentoriamente Anassagora a proposito di questo Intelletto:
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Anassagora
Sulla natura, frr. 12 e 13
Tutte le altre cose hanno parte a tutto, mentre l’Intelletto è qualcosa di illimitato e di separato e a nessuna cosa è mischiato, ma solo, lui in se stesso […] Dopoché l’Intelletto dette inizio al movimento, dal tutto che era mosso cominciavano a formarsi le cose per separazione, e quel che l’Intelletto aveva messo in movimento, tutto si divise.
Se per Empedocle il mondo, e le cose che vi si trovano, nascono quando gli elementi si mescolano, per Anassagora ciò si produce in primo luogo quando i semi si separano dal magma originario, per poi unirsi (in base al principio della somiglianza) grazie all’intervento dell’Intelletto ordinatore. Ma anche per Anassagora, esattamente come per Empedocle, non esiste veramente generazione e corruzione delle cose, ma solo trasformazione, dal momento che ciò che veramente esiste, ossia i semi, non nascono né periscono, essendo eterni e immortali. Un modello politico- Non è mancato chi ha voluto ricondurre l’ipotesi anassagorea dell’Intelletto ordisociale per il nous? natore a un’esigenza di natura politico-sociale. Per alcuni, infatti, il nous che seLa trasformazione dei semi eterni
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Parte prima L’età antica
para e ordina i semi rappresenta qualcosa di analogo all’artigiano (fabbro, calzolaio) che modella e ordina la materia; Anassagora, esponente del partito democratico di Pericle, non avrebbe fatto altro che costruire un’immagine cosmica dell’artigiano ateniese del V secolo, referente politico e sociale della democrazia periclea. Il mondo di Anassagora Nous separato, immortale ed eterno, che ordina il magma
Dà inizio al movimento e alla generazione
Magma originario composto da un numero infinito di semi eterni e immortali
Si formano le cose, ma ognuna contiene tracce di ogni seme
3 La nascita dell’atomismo
Democrito: gli atomi e il vuoto Il terzo grande tentativo di produrre una riflessione sulla natura che sia rispettosa dei divieti formulati dagli eleati, si deve a Democrito e al suo maestro Leucippo (seconda metà del V secolo a.C.). La concezione atomistica da loro proposta costituisce l’esperimento intellettuale più compatto e sistematico tra quelli emersi nei primi secoli della filosofia greca. La sua influenza sul pensiero antico fu considerevole, visto che l’atomismo venne ripreso e approfondito in epoca ellenistica da Epicuro (vedi Unità 6, p. 347 ss.), e grazie alla scuola epicurea si affermò nel mondo greco e soprattutto in quello romano (per merito della mediazione del grande poeta latino Lucrezio, I secolo a.C.).
La vita e le opere Democrito (460-380 ca. a.C.) nacque ad Abdera, sulle coste greche nord-orientali; visse a lungo e compose molte opere, di cui conserviamo i titoli e circa trecento frammenti (per lo più molto brevi). Numerose e ampie Gli atomi e i caratteri dell’essere
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sono le testimonianze, che consentono di ricostruire il suo pensiero con una certa precisione. Aveva moltissimi interessi (fisica, cosmologia, etica, politica, linguaggio, società), ma è nel campo della fisica e della cosmologia che il suo contributo appare più significativo e influente.
Secondo Democrito i caratteri dell’essere parmenideo (eternità, assenza di generazione, immodificabilità, assoluta identità con sé ecc.) appartengono agli atomi (il termine àtomos significa «indivisibile»). Questi ultimi rappresentano entità piccolissime, invisibili e impossibili da percepire, e l’assoluta indivisibilità costituisce la loro caratteristica principale. Essi rappresentano i ‘mattoni’ fondamentali di cui sono costituite le cose, ossia i corpi che possiamo vedere. In effetti, questi ultimi si formano a partire dall’aggregazione di atomi e cessano di esistere nel momento in cui gli atomi si disgregano per dare origine a una nuova aggregazione, vale a dire a un nuovo corpo. Gli atomi, però, sono sottratti tanto alla generazione quanto alla dissoluzione, essendo appunto eterni e ingenerati (come le radici di Empedocle e i semi di Anassagora).
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Forma, direzione e ordine degli atomi
Il vuoto
Un universo meccanico e necessario privo di finalità
Il mondo di Democrito
Dal momento che le cose presentano caratteristiche diverse le une dalle altre, occorre postulare, secondo Democrito, una differenza originaria che concerne i loro costituenti, ossia gli atomi. Questi sono infiniti di numero e si distinguono gli uni dagli altri sulla base di tre fattori: la forma, la direzione e l’ordine. Per forma (in greco schèma, che significa anche «figura»), A si distingue da N; per posizione (thèsis) o direzione, N si distingue da Z (essendo la figura la medesima, ma mutando appunto l’orientamento); per ordine, infine, il composto AN si distingue da quello NA. L’ultimo parametro menzionato è in grado di spiegare come due composti costituiti dagli stessi atomi possano presentare caratteristiche differenti. Perché gli atomi si possano aggregare dando così origine alle cose è però necessario postulare l’esistenza del vuoto. Nel vuoto infatti gli atomi si muovono, si incontrano e si scontrano. Sembra che, a differenza degli atomi di cui parlerà un secolo dopo Epicuro, gli atomi di Democrito siano sprovvisti di peso. Essi si muovono anche spinti da un vortice che talora si determina (per esempio a causa del vuoto improvviso di una certa regione dello spazio). È molto importante tenere presente che i processi cui i movimenti atomici danno luogo (con le aggregazioni e le disgregazioni corporee) risultano del tutto privi di un fine; l’universo democriteo (che era costituito da infiniti mondi) è ateleologico (privo di un tèlos, ossia di un fine); si tratta di un universo meccanico e necessario, ma senza una finalità (tanto interna, quanto imposta dal di fuori). L’universo coincide con lo spazio
Presenza del vuoto che crea improvvisi vortici
Nello spazio ci sono infiniti atomi: eterni, ingenerati, immodificabili, uguali a se stessi; distinguibili per forma, direzione, ordine
Aggregazione e disgregazione degli atomi. Il cosmo risulta essere dominato dalla necessità e privo di ogni scopo
La teoria della conoscenza democritea La natura fortemente sistematica del modello atomistico si manifesta nel tentativo di spiegare il maggior numero di fenomeni ricorrendo alla dottrina degli atomi. Un caso emblematico è rappresentato dalla teoria della percezione. Gli èidola Secondo Democrito la percezione si produce in virtù del fatto che dagli oggetti si staccano incessantemente atomi sottilissimi, chiamati immagini (èidola), i quali 57
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Parte prima L’età antica
conservano e riproducono la configurazione delle cose alle quali appartengono; questi èidola raggiungono gli organi di senso, entrando nel nostro corpo attraverso i pori di cui la superficie di quest’ultimo è cosparsa. Se nel corso del loro tragitto queste immagini non subiscono modificazioni, esse danno luogo a percezioni sostanzialmente corrispondenti all’oggetto quale realmente è. Per Democrito anche fenomeni percettivi come il gusto e il tatto hanno una spiegazione all’interno della teoria atomistica. Il sapore aspro, per esempio, viene prodotto dalla presenza di atomi aguzzi e dotati di angoli; al contrario il dolce rimanda ad atomi di forma tondeggiante. Da Parmenide Democrito sembra riprendere la distinzione tra un sapere autentico e uno solo doxastico, ossia opinativo (da dòxa, «opinione»). Egli afferma infatti:
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Democrito
Sulla natura, fr. 11
Vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a quella oscura appartengono tutte quante queste cose: vista, udito, odorato, gusto, tatto; l’altra forma è genuina e gli oggetti di questa sono nascosti. Quali siano gli oggetti di questa conoscenza genuina si sarà facilmente capito. Si tratta naturalmente degli atomi e del vuoto, come Democrito spiega in un altro frammento:
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Democrito
Sulla natura, fr. 9
Una prima distinzione fra qualità primarie e secondarie
La percezione e le diverse qualità secondo Democrito
Convenzione il dolce, convenzione l’amaro, convenzione il caldo, convenzione il freddo, convenzione il colore; verità gli atomi e il vuoto. Così egli anticipa in qualche modo la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, destinata a fare la sua comparsa in forma sistematica nell’ambito della filosofia europea del Seicento. La dimensione profonda e autentica della realtà è costituita dalle configurazioni degli atomi (la loro forma e grandezza), che sono inaccessibili ai sensi e conoscibili solo attraverso la facoltà intellettuale (il nous); mentre l’universo delle sensazioni si limita a restituire un livello derivato, ossia secondario, della realtà (i colori, i sapori ecc.).
Livello epistemologico (ciò che conosciamo)
Livello ontologico (ciò che è)
Sensazioni Percezione qualitativa: odori, sapori, colori ecc. Qualità secondarie: soggettive e non misurabili. Corpi composti di atomi
Eìdola (ombre) emessi dal corpo
Organi di senso Ragione Percezione quantitativa: forma e grandezza degli atomi. Qualità primarie: misurabili e oggettive.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Democrito si interessa anche di etica e morale. Ma i frammenti relativi alle opere da lui dedicate a questi temi sono eccessivamente brevi e le dottrine appaiono di non facile ricostruzione. Accenna probabilmente alla distinzione tra natura e legge, spiegando che le differenze nel linguaggio e nei costumi tra i diversi popoli si giustificano in virtù del loro carattere convenzionale (è questo un motivo destinato ad assumere una rilevanza centrale nell’ambito della riflessione della sofistica). La tranquillità Nel campo della morale Democrito stabilisce il fine dell’uomo nel conseguimendell’animo to della tranquillità dell’animo (euthymìa), ossia in una sorta di controllo e misurazione delle passioni (va tenuto presente che per lui anche l’anima è composta di atomi, sia pure molto sottili). Con Democrito dovettero fare i conti sia Platone (nel Timeo, vedi Unità 3, p. 148 ss.) sia Aristotele (nella Fisica e nel Cielo, vedi Unità 4, p. 216 ss.), a conferma dell’importanza di questo autore, la cui influenza, grazie all’epicureismo, sarà ➥ Sommario, p. 61 enorme su tutto il pensiero antico, e non solo su quello.
La convenzionalità delle leggi
Luoghi e protagonisti della filosofia presocratica (VI-V secolo a.C.) Qui si rifugiò e morì Pitagora
Vi nacque e visse Democrito, uno dei fondatori dell’atomismo
Vi nacque Senofane
Vi si stabilì Senofane e qui nacquero Parmenide e Zenone
Abdera Elea
Lampsaco Metaponto Crotone
Agrigento
Vi nacque e visse Empedocle
Qui morì Anassagora
Pitagora di Samo vi fondò la sua scuola. Nel 470 a.C. vi nacque Filolao
Anassagora vi si trasferì e vi venne processato per empietà ed esiliato
Tebe
Clazomene Colofone Efeso Corinto Atene Samo Micene Mileto Argo Sparta
Vi nacquero Melisso, nel 685 a.C., e Pitagora
Vi nacque e visse Eraclito
Vi nacque la riflessione dei primi filosofi: Talete, Anassimandro, Anassimene. Nella seconda metà del V secolo a.C. vi nacque Leucippo
Vi nacque Anassagora
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Parte prima L’età antica Suggerimenti bibliografici I frammenti e le testimonianze di tutti i presocratici sono raccolti e tradotti in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 20048. Una rigorosa introduzione al pensiero dei primi fisiologi ionici è offerta da R. Laurenti, Introduzione a Talete, Anassimandro e Anassimene, Laterza, Roma-Bari 19953. Su Pitagora e i pitagorici è agile e preciso il testo di B. Centrone, Introduzione ai Pitagorici, Laterza, Roma-Bari 19992. Un’introduzione sintetica e rigorosa al pensiero di Parmenide è offerta da A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Laterza, Roma-Bari 19953. Un testo corposo ed esaustivo su Empedocle è quello di R. Laurenti, Empedocle. Saggio critico, testimonianze e frammenti, D’Auria, Napoli 1999. Un’agile e attuale introduzione complessiva a Democrito è offerta da S. Martini, Democrito: filosofo della natura o filosofo dell’uomo?, Armando, Roma 2002. Ai presocratici è stata dedicata anche una serie di lezioni, tenute da alcuni dei maggiori storici degli ultimi decenni, nell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche edita dalla Rai, reperibile in videocassetta. I brani antologizzati sono tratti da: Aristotele, Sul cielo, trad. di F. Ferrari. Anassimandro, Sulla natura, in I Presocratici, Testimonianze e frammenti, cit. Simplicio, Commento alla Fisica, trad. di F. Ferrari. Eraclito, I frammenti. Eraclito, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 1989. Senofane, Silli, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Senofane, Sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Parmenide, Poema sulla natura: i frammenti e le testimonianze indirette, trad. di G. Reale modificata leggermente da F. Ferrari, Bompiani, Milano 2003. Melisso, Sulla natura o sull’essere, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Empedocle, I frammenti. Empedocle, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 1987. Anassagora, Sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Democrito, Sulla natura, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. Il brano di Erodoto citato a p. 41 è tratto da Erodoto, Storie, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1994, 2 voll.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Sommario 1. CHI
SONO I PRESOCRATICI?
In Grecia, tra il VII e il VI secolo a.C. nasce una nuova forma di pensiero, legata alla tradizione sapienziale ma nel contempo innovatrice. Questo movimento rappresenta le radici della nascita della filosofia in senso stretto, che avviene con Socrate e con Platone; per tale ragione gli esponenti di queste nuove forme di pensiero sono convenzionalmente detti «presocratici». Abbiamo molte difficoltà a ricostruire il loro pensiero poiché delle loro opere ci sono pervenuti soltanto frammenti e testimonianze. [par. 1] 2. LA SCUOLA DI MILETO E LA COSIDDETTA PHYSIOLOGHÌA
Le prime tracce del pensiero filosofico si trovano a Mileto, nella Ionia (attuale Turchia), dove si inizia a indagare la natura, la phy` sis. Per questa ragione Aristotele definisce i pensatori ionici «fisiologi»: essi cercano i principi in grado di spiegare l’origine e lo sviluppo dei fenomeni naturali. Il primo è Talete, che individua il principio, ovvero l’archè, di tutte le cose nell’acqua. [par. 1] Seguono Anassimandro, che indica come origine il principio dell’«illimitato», l’àpeiron, [par. 2] e poi Anassimene, che spiega la natura a partire dall’aria. [par. 3] 3. ERACLITO L’OSCURO
Non lontano da Mileto, a Efeso, visse Eraclito, soprannominato «l’oscuro» per la sua scelta di esprimersi attraverso aforismi brevi ed enigmatici. Il suo pensiero, sia dal punto di vista etico che politico, ha un taglio decisamente aristocratico: egli contrappone diametralmente la figura solitaria del saggio alla stoltezza della massa. All’origine di tutto Eraclito colloca il lògos che rappresenta la legge cosmica unitaria; al di là dell’apparente contrapposizione degli opposti, è così rinvenibile un’armonia insita nel continuo divenire del tutto (espresso dalla formula pànta rèi). Il lògos eracliteo, sul piano fisico, si incarna nel fuoco, in cui vita e morte si compenetrano incessantemente. 4. L’ANIMA
E IL NUMERO:
PITAGORA
E IL PITAGORISMO
A Samo, un’isola della Ionia, nasce Pitagora, fondatore della scuola omonima a Crotone, nella Magna Grecia. La cerchia pitagorica, una sorta di setta religiosa, seguiva uno stile di vita (bìos) rigidamente regolato dagli insegnamenti del maestro e svolgeva un’intensa attività politica. La dottrina pitagorica ha due fondamentali nuclei tematici: la concezione dell’anima immortale, sottoposta al ciclo delle reincarnazioni [par. 1]; e la teoria del numero, rappresentato geometricamente e posto a principio della realtà. Questo secondo aspetto è probabilmente frutto dell’elaborazione interna alla scuola nella
quale, fin dalle origini, i discepoli si dividevano in acusmatici (semplici uditori) e matematici (coloro che conoscevano la verità). [par. 2] 5. L’ESSERE
E LA VERITÀ:
PARMENIDE
E L’ELEATISMO
Un’altra corrente presocratica è l’eleatismo, anticipato da Senofane, un pensatore che in nome della ragione criticava la tradizionale concezione antropomorfa degli dèi greci. [par. 1] Il vero iniziatore è però Parmenide, che in un linguaggio sapienziale formula la sua dottrina: l’unica realtà è l’essere, mentre il non essere è impossibile, quindi impensabile. L’essere è eterno, unitario, immobile, ingenerato mentre qualsiasi cosa sembri avere le qualità opposte (molteplicità, movimento, generazione) non è. [par. 2] Difendendo le tesi di Parmenide, il discepolo Zenone elabora argomentazioni dialettiche che dimostrano l’impossibilità del movimento, del molteplice, del divenire. [par. 3] Melisso di Samo invece dà dell’eleatismo un’interpretazione fisico-cosmologica identificando l’essere con il cosmo e affermando l’impossibilità della generazione dal nulla. [par. 4] 6. EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO: IL NATURALISMO DOPO PARMENIDE
La riflessione sulla natura viene condizionata dai due divieti eleatici: non pensare né dire il movimento, il divenire; la generazione dal nulla è impossibile. Empedocle postula l’esistenza di quattro radici o elementi eterni la cui mescolanza e separazione producono la realtà apparentemente mutevole. Su di essi operano due forze cosmiche, Amicizia e Contesa, il cui avvicendarsi spiega l’eterno ciclo del cosmo. La dottrina dei quattro elementi è anche alla base della sua teoria della conoscenza, tale per cui il simile conosce il simile. Empedocle abbraccia anche credenze orfico-pitagoriche come la trasmigrazione delle anime. [par. 1] Anassagora spiega la realtà attraverso un numero infinito di semi, che mescolandosi originano le differenze fra le cose: tutti sono presenti in tutto. Al di sopra di questi principi fisici egli pone un Intelletto (nous) separato e ordinatore che governa il cosmo. [par. 2] L’ultima grande filosofia presocratica è l’atomismo, iniziato da Leucippo e da Democrito: la realtà è composta da infiniti piccoli corpi immodificabili e indivisibili, gli atomi, diversi per qualità, distinguibili secondo i tre fattori della forma, della posizione e dell’ordine. Essi formano aggregati grazie alla presenza del vuoto. L’immagine che ne consegue è quella di un cosmo meccanico e necessario, privo di ogni finalità. Dal movimento degli atomi Democrito deriva anche una teoria della conoscenza fondata sulla percezione sensibile degli atomi stessi. [par. 3]
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima. Traduzione del greco psychè, «anima» deriva dal latino anima (dal greco ànemos, «vento»), che significa «respiro, soffio vitale». Indica quel principio della vita che in alcune religioni antiche (orfica, egiziana, babilonese) è distinto e contrapposto al corpo. Riprendendo tale contrapposizione, i pitagorici esasperano il conflitto tra anima e corpo, adottando uno stile di vita incentrato sulla purificazione del corpo ed elaborando una dottrina incentrata sulla trasmigrazione (metempsicosi) delle anime. Antropomorfismo. Dal greco ànthropos («uomo») e morphè («forma»), significa «che ha una forma umana». Indica la tendenza dell’uomo a pensare altre realtà (la natura, la divinità, le forze fisiche ecc.) modellandole su se stesso e attribuendo loro il proprio comportamento. Una delle prime critiche a tale atteggiamento è quella di Senofane, incentrata sull’antropomorfismo delle antiche divinità greche. Archè. Termine greco che significa «principio, origine». Viene usato, a partire da Platone e Aristotele, per indicare una duplice realtà: «ciò che viene prima per importanza, per valore»; «ciò che viene prima in senso temporale». La ricerca di questo principio è, nell’interpretazione inaugurata da Aristotele ma ancor oggi attuale, il punto di partenza della riflessione dei presocratici. Atomo. Dal greco a- (prefisso che indica privazione) e il tema di tèmnein, «tagliare», significa «ciò che non può essere tagliato, diviso» e indica le particelle elementari, i principi di Leucippo, Democrito e poi di Epicuro, posti alla base della realtà fisica. Dialettica. Dal greco dialèghesthai, «discutere, argomentare». Indica l’arte della discussione e del confronto che, secondo Aristotele, nasce con il metodo argomentativo di Zenone di Elea.
le tesi del maestro. Nell’ultimo grande esponente dell’eleatismo, Melisso, l’essere viene a coincidere con il cosmo fisico. Fisiologi / Phy` sis. I physiòlogoi sono coloro che studiano la phy`sis, ovvero la natura. Il termine è utilizzato da Aristotele per riferirsi ai pensatori ionici, i cui interessi sono essenzialmente incentrati sulla natura nel senso più ampio del termine. La parola phy`sis comporta infatti un riferimento all’insieme dei processi di nascita, di generazione (il verbo phy`o, da cui deriva il sostantivo phy`sis, significa infatti «nascere, generarsi») e in generale di movimento delle cose. Generazione / Dissoluzione. Opposizione che indica i due momenti estremi, l’originarsi e il terminare, di un fenomeno fisico. Mescolanza / Separazione. Opposizione che nella teoria di Empedocle indica i due momenti, l’aggregazione e la disgregazione degli elementi, che spiegano il mutamento e la molteplicità della realtà. Nous. Termine greco che significa in origine «intuizione, comprensione immediata», e viene poi a indicare ciò che è usualmente tradotto con il termine «intelletto», «pensiero». Anassagora designa con nous l’Intelletto ordinatore che dà origine al movimento e sovrintende all’ordine dei fenomeni. Paradosso. Termine greco formato da parà («contro») e dòxa («opinione») ossia «ciò che va contro l’opinione». Zenone, designato da Aristotele come inventore della dialettica, costruisce argomentazioni i cui esiti paradossali, ovvero assurdi, mostrano l’erroneità delle tesi da cui tali paradossi discendono logicamente.
Divenire. Fin dalla riflessione delle origini indica il flusso ininterrotto delle cose, opposto a ciò che è immutabile, immobile.
Presocratici. Definizione storiografica e culturale con cui si indicano i filosofi che precedono Socrate, non tanto dal punto di vista cronologico (alcuni sono a lui contemporanei), quanto per la loro riflessione che si colloca prima della ‘rivoluzione socratica’.
Essere / Non essere. L’essere è ciò che è, ciò che esiste ed è privo di ogni determinazione. In Parmenide l’essere indica la totalità immobile e identica in sé, il principio unico e unitario del reale; è contrapposto al non essere, che risulta impossibile e dunque impensabile. L’allievo di Parmenide, Zenone, costruisce dei celebri paradossi tesi a dimostrare la correttezza del-
Principio di ragion sufficiente. Principio logico che venne rigorosamente definito e formulato per la prima volta da Leibniz nel XVII secolo ma è in verità presente fin dal pensiero presocratico. Una sua formulazione può essere la seguente: «niente esiste, accade o può essere considerato vero senza una ragione sufficiente».
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
Questionario CHI
1
LA
Lavoriamo sui testi
SONO I PRESOCRATICI?
In un massimo di 2 righe spiega chi erano i presocratici.
13
In T2 quale fenomeno è collegato per analogia alla giustizia e quale all’ingiustizia, secondo Anassimandro? (max 2 righe)
14
In quali categorie suddivide gli uomini Eraclito nei frammenti T4, T5 e T6? (max 2 righe)
15
Perché, secondo Senofane in T13 e T14, la concezione greca degli dèi è da condannare? (max 2 righe)
16
Spiega in un massimo di 4 righe qual è la relazione fra lògos e divenire nel pensiero di Eraclito.
Quale divieto esprime Parmenide in T17? (max 1 riga)
17
Attraverso quale forma letteraria Eraclito esprime il suo pensiero? Per quali motivi sceglie tale forma? (max 3 righe)
Sulla base di quale principio Parmenide nega che si possa attribuire la nascita all’essere in T18? (max 2 righe)
18
Qual è la conclusione dell’argomentazione di Melisso in T19? (max 2 righe)
E IL NUMERO:
19
Che cos’è che gli uomini chiamano «generazione» secondo Empedocle in T20? E così facendo sbagliano o ragionano correttamente? Motiva la tua risposta. (max 10 righe)
20
Secondo Empedocle in T21 quali sono le uniche cose che esistono? (max 2 righe)
21
Anassagora in T23 dice che in origine nessuna cosa era discernibile; per quali ragioni? (max 3 righe)
22
In T25 Democrito distingue due forme di conoscenza. Quali sono? Di quali oggetti si occupa il secondo tipo? (max 5 righe)
SCUOLA DI
2
3
MILETO
E LA COSIDDETTA PHYSIOLOGHÌA
In un massimo di 6 righe indica quali erano le caratteristiche comuni e quali le differenze tra i filosofi della scuola di Mileto. In alternativa puoi costruire uno schema di confronto. Illustra in 1 riga che cos’è l’àpeiron di Anassimandro.
ERACLITO L’OSCURO 4
5
L’ANIMA
PITAGORA
E IL PITAGORISMO
6
Esponi in un massimo di 4 righe la teoria pitagorica dell’anima.
7
Che cosa intendono i pitagorici affermando che il numero è l’origine di tutte le cose? Quali caratteristiche attribuiscono ai numeri? (max 10 righe)
L’ESSERE 8
9
E LA VERITÀ:
PARMENIDE
E L’ELEATISMO
Illustra in un massimo di 3 righe le differenze fra essere e non essere secondo Parmenide. Spiega in un massimo di 10 righe il paradosso di Achille e la tartaruga e quali sono le sue conseguenze per il problema del movimento.
EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO: IL NATURALISMO DOPO PARMENIDE 10
Illustra in un massimo di 10 righe quali sono i tratti eleatici e quali quelli naturalistici della concezione del mondo naturale di Empedocle.
11
Qual è la differenza tra gli elementi di Empedocle e i semi di Anassagora? (max 4 righe)
12
Spiega in un massimo di 3 righe come ha origine il movimento degli atomi secondo Democrito.
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Eraclito, Sulla natura Lo scritto di Eraclito di Efeso raccoglie una serie di brevi e misteriose sentenze. Lo stile oracolare che lo anima manifesta l’intento dell’autore di nascondere alla maggior parte degli uomini le verità profonde che contiene. Gli aforismi sono attraversati dai motivi fondamentali della riflessione di questo affascinante e misterioso pensatore: la contrapposizione tra l’unico saggio e la moltitudine degli stolti; l’idea che, al di là dell’apparente pluralità delle cose (le quali sembrano possedere un’individualità propria), esista un’unità di fondo; la concezione del lògos (legge cosmica, ragione, discorso sapienziale) come principio profondo e unitario della realtà; la convinzione che tutte le cose siano coinvolte in un divenire incessante, che rappresenta l’unico elemento di stabilità nel mondo; l’idea, infine, che questo lògos profondo (e quasi inaccessibile) si presenti fisicamente nella forma del fuoco cosmico.
Il lògos, unica legge della realtà La voce del lògos
2. Bisogna seguire ciò che è comune. Comune è il lògos vero, ma la maggior parte degli uomini vive come se possedesse una saggezza privata. [A]
La stoltezza dei più
4. Se la felicità consistesse nei piaceri del corpo, potremmo dire felici i buoi quando trovano delle lenticchie da mangiare. 9. Sceglierebbero gli asini paglia piuttosto che oro. [B] 10. Relazioni: intero non intero, concordante discordante, consonante dissonante, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. 13. Ricavano piacere i porci più dal fango che dall’acqua limpida. 22. Quelli che cercano l’oro scavano molta terra e poco ne trovano.
Commento e interpretazione
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A. Il frammento 2 esprime il nucleo della riflessione eraclitea: gli uomini si muovono, pensano e si comportano come se vivessero in tanti universi privati e non sanno ascoltare la voce del lògos, che è unica per tutti. Questa voce contiene il messaggio fondamentale della filosofia di Eraclito: esiste una sola legge e una sola ragione nel mondo (vedi anche fr. 41). B. I frammenti 4 e 9, insieme a molti altri (per esempio 13, 29, 34, 49 e soprattutto 121), esprimono la tonalità fortemente elitaria del messaggio eracliteo. Per il filosofo di Efeso gli uomini comuni sono simili agli asini che si accontentano della paglia e rinunciano all’oro della vera saggezza. C. Il lògos universale, la legge che regola tutto il divenire cosmico, si manifesta fisicamente sotto forma di fuoco. Il fuoco rappresenta l’elemento fisico che meglio esprime la natura contraddittoria e costantemente in divenire della realtà. Esso è insieme vita e morte, e soprattutto è movimento incessante. Si tratta di una legge che non è prodotta dalle rappresentazioni soggettive degli uomini e che neppure un dio può modificare. Negando
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
27. Attendono gli uomini quando muoiono cose che non sperano né credono. 29. Preferiscono i migliori un’unica cosa a tutte le altre, fama perenne su tutte le cose mortali; la maggioranza pensa invece a saziarsi come bestie. Il fuoco perenne
30. Quest’ordine universale, che per tutte le cose è il medesimo, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà, fuoco perenne, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne. [C] 34. Ascoltando privi di intelligenza somigliano ai sordi; a loro si riferisce il detto, che «pur presenti, sono assenti».
Tutto scorre
36. Per le anime è morte divenire acqua, per l’acqua è morte divenire terra; ma dalla terra nasce l’acqua, e dall’acqua l’anima. [D]
Contro la falsa sapienza
40. Il molto sapere non insegna ad avere intelletto. L’avrebbe infatti insegnato a Esiodo, a Pitagora, e poi a Senofane e a Ecateo. 41. Esiste una sola cosa saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso tutte le cose. 42. È degno di Omero di essere espulso dagli agoni e frustato, e così pure Archiloco. [E]
L’anima e il lògos
45. I confini dell’anima, per quanto tu vada, non potrai trovare, dovessi pure percorrere tutte le strade; essa possiede un lògos così profondo. [F] 49. Uno per me vale diecimila, purché sia il migliore. 50. Prestando ascolto non a me, ma al lògos, è saggio convenire che tutte le cose sono uno.
Unità e armonia degli opposti
51. Non comprendono come, pur differendo, in realtà concordi con se stesso. Armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira.
che la legge cosmica, il fuoco perenne, sia il prodotto di una divinità, Eraclito sembra polemizzare con le concezioni che ammettono l’intervento divino nei processi fisici. D. Vita e morte non sono che due facce di una medesima medaglia e non possono venire trattate separatamente. Ciò che è vita per un elemento è morte per l’altro (fr. 76). Nulla permane se non l’incessante processo del divenire: pànta rèi, «tutto scorre». E. Nei frammenti 40, 41 e 42 Eraclito polemizza con la cosiddetta polymathìa, ossia con la pretesa di identificare il sapere con la conoscenza di molte cose (vedi anche fr. 57). La saggezza autentica è, ai suoi occhi, qualcosa di più profondo e al contempo di più semplice: essa si identifica con l’ascolto della legge universale, dell’unico lògos (valido per tutti e per tutte le cose), del fuoco cosmico. F. Qui forse Eraclito intende dire che l’anima possiede il medesimo lògos dell’universo, ossia la stessa legge e la stessa razionalità. Proprio per questo essa, se si pone all’ascolto della voce profonda che si trova in lei, può conoscere quell’unica legge che regola tutte le cose. Sul tema dell’ascolto del lògos vedi anche il frammento 50. 65
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53. Conflitto è padre di tutte le cose, di tutte è re: alcuni dimostrò essere dèi e altri uomini, alcuni fece schiavi e altri liberi. [G] 54. Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare. Identità degli opposti: giorno e notte
57. La maggior parte degli uomini ebbe per maestro Esiodo, ed è sicura che egli sapesse moltissime cose, lui che non conosceva neppure il giorno e la notte; sono infatti una sola cosa. 60. Una e la stessa è la via che sale e la via che scende. 61. Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci potabile e fonte di vita, imbevibile e mortale per gli uomini. 62. Immortali mortali, mortali immortali: vivono gli uni la morte degli altri, e muoiono questi la vita dei primi. 66. Il fuoco sopraggiunge, giudicherà e condannerà tutte le cose. 67. Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: muta come il fuoco quando si unisce agli odori, e prende il nome del sapore di ognuno di quelli.
Ciò che è vita per un elemento è morte per l’altro
76. Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra dell’acqua. Nascita del fuoco è morte per l’aria, e morte dell’aria è nascita per l’acqua. Morte della terra è divenire acqua, morte dell’acqua divenire aria, e il fuoco dell’aria, e così di nuovo. G. I frammenti 51, 53, 54, 60, 61, 62, 67, 80 e 88 contengono riferimenti al tema dell’unità degli opposti. Vita e morte, veglia e sonno, gioventù e vecchiaia, sono facce di una stessa medaglia. Sia perché nessuno di questi termini esisterebbe senza l’altro; sia perché nell’incessante processo del divenire cosmico l’uno si trasforma nell’altro. Per questo Eraclito può affermare che il conflitto (pòlemos, che significa propriamente «guerra») è il padre di tutte le cose. In una simile ottica, però, gli opposti rappresentano poli di una totalità armonica. L’armonia, quella profonda e invisibile (fr. 54), è infatti uno degli aspetti della legge universale. H. Di nuovo il motivo della contrapposizione tra i desti e i dormienti. Questi ultimi vivono in universi privati e non sono in grado di riconoscere l’unità del tutto. Con accentuazioni e modalità diverse il motivo della contrapposizione tra il saggio e la massa degli stolti ritorna spesso tra i pensatori presocratici (oltre che in Eraclito, lo troviamo in Parmenide, nel pitagorismo e anche in Empedocle). Si tratta di una delle strategie discorsive attraverso le quali viene costruita la figura del maestro di verità. I. Si tratta di una delle sentenze più celebri di Eraclito. Il fluire incessante della realtà non consente una vera e propria stabilizzazione, per cui la stessa identità delle cose viene messa in discussione. L’immagine del fiume le cui acque continuano a scorrere e non consentono di considerare il fiume come un’entità stabile e ri-identificabile, esprime in modo plastico e suggestivo l’idea eraclitea del perenne flusso delle cose. Radicalizzando questo motivo si potrebbe arrivare a dire – come in effetti alcuni eraclitei dissero – che neppure l’individuo che entra nel fiume è sempre lo stesso, perché risulta anch’esso sottoposto alla legge del divenire universale.
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici
80. Occorre sapere che il conflitto è comune, che la contesa è giustizia, e che tutte le cose accadono secondo contesa e necessità. 82. La più bella delle scimmie, paragonata al genere umano, è brutta. 83. Il più sapiente degli uomini appare una scimmia di fronte a dio, sia per sapienza che per bellezza. 88. La medesima cosa il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando sono quelli, e quelli di nuovo mutando questi. Desti e dormienti
89. Per coloro che sono svegli il cosmo è comune e unico, ma quando dormono ciascuno si rivolge a ciò che gli è proprio. [H] 90. Con il fuoco si scambiano, in alterna vicenda, tutte le cose, e tutte le cose con il fuoco; come i beni con l’oro e l’oro con i beni.
Il flusso continuo
91. Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume. [I] 102. Per la divinità tutte le cose sono belle e buone e giuste, gli uomini invece alcune le considerano ingiuste, altre giuste. 103. Come è nel cerchio il principio e la fine. 113. Pensare è comune a tutti. 116. A tutti gli uomini è consentito conoscere se stessi ed essere saggi. 121. Sarebbe bello che gli Efesi vadano tutti a impiccarsi, quanti sono di età adulta, e lascino lo stato ai fanciulli, essi che hanno mandato in esilio Ermodoro, l’uomo fra loro più abile, dicendo: «Non ci sia fra di noi un singolo uomo che sia più abile di tutti; e se per caso ve n’è uno, vada a stare altrove e con gli altri». (aforismi tratti da Eraclito, I frammenti, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 19912)
Questionario sull’argomentazione 1
Che cosa esprime Eraclito attraverso le opposizioni presenti nei frammenti 4, 9, 10, 13, 22, 27, 29? (max 3 righe)
2
In cosa consiste l’armonia di cui Eraclito parla nel frammento 54? (max 2 righe)
3
Nel frammento 76 Eraclito si esprime attraverso
l’idea del passaggio fra vita e morte, nel frammento 88 attraverso l’idea di identità. Cosa accomuna queste due diverse immagini? (max 3 righe) 4
A quali altri frammenti puoi collegare il frammento 121? Qual è la posizione politica di Eraclito e che legame c’è tra essa e la sua filosofia? (max 4 righe) 67
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Empedocle, Sulla natura Il poema di Empedocle rappresenta uno dei documenti più affascinanti che il pensiero presocratico abbia prodotto. In esso convergono la tradizione naturalista (sorta in Ionia) e quella sapienziale (sviluppatasi soprattutto nell’Italia meridionale). Del resto la stessa figura di Empedocle, «scienziato» e «mago», sembra compendiare magnificamente questi due indirizzi. L’oggetto della sua indagine è il medesimo dei naturalisti, ossia la phy`sis (la totalità del cosmo, i processi che lo percorrono, le cose che lo abitano); il metodo è, almeno in parte, quello del grande Parmenide, dal quale Empedocle eredita l’esigenza di sottoporre ogni discorso alle ferree leggi della logica e del principio di non contraddizione (la nascita, in quanto passaggio dal non essere all’essere, non è pensabile); lo stile, infine, è quello iniziatico di Eraclito, ma anche di Parmenide, dal quale Empedocle riprende la forma poetica (maestosi esametri omerici) del suo scritto.
L’eterno ciclo del divenire Tesi: la generazione non è altro che mescolanza e separazione
8. Ma ti dirò un’altra cosa: non esiste generazione di nessuno fra tutti i mortali, né termine alcuno di morte funesta, ma solo esiste mescolanza e separazione di quanto si è mescolato; ma queste cose dagli uomini sono chiamate generazione.
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9. Essi, quando in forma di uomini gli elementi si mescolarono alla luce eterea, oppure d’animali silvestri, o d’arbusti, o di uccelli, questo ritennero che fosse generarsi; allorché poi si separano nuovamente, era questo all’opposto sventurato destino. Danno nomi così come è d’uso, ed anch’io a tale legge acconsento.
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Antitesi: la falsa credenza della maggioranza
11. Bambini! Certo non appartengono loro lungimiranti pensieri, essi che attendono il generarsi di ciò che innanzi non era, e che qualcosa possa morire e si distrugga del tutto.
Commento e interpretazione
A. I frammenti 8, 9, 11 e 12 contengono il medesimo pensiero. Si tratta del rifiuto di considerare i processi di generazione e corruzione che avvengono nel cosmo come se fossero vere e proprie nascite e morti. Questo è semplicemente il punto di vista della maggioranza, che si comporta come fanno i fanciulli. Empedocle recepisce da Parmenide e da Melisso il principio per cui nulla può generarsi dal nulla (nihil ex nihilo). Dunque, ciò che si presenta come un processo di generazione non è altro che la trasformazione di qualcosa in qualcos’altro; o meglio, è la mescolanza e la separazione delle uniche realtà veramente esistenti, ossia i quattro elementi primordiali: acqua, aria, terra e fuoco. Di conseguenza, per Empedocle tutte le cose – uomini, piante, animali – costituiscono il prodotto della mescolanza (mìxis) e della separazione (diàllaxis) delle radici cosmiche, le quali, invece, esistono sempre, ossia sono eterne (proprio come l’essere degli eleatici). B. L’ultima parte di questo lungo frammento riprende quasi alla lettera espressioni contenute nel frammento 8 di Parmenide (vedi p. 46 s.). Anche per Empedocle la generazio-
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Unità 1 Gli inizi della filosofia: i presocratici Tesi: nulla può generarsi dal nulla
12. Infatti da ciò che mai è esistito è inattuabile il generarsi, e vano e impensabile è che perisca quello che esiste; in eterno infatti sarà, dove ogni volta qualcuno lo avrà collocato. [A]
Argomenti: unione e dissoluzione, mescolanza e separazione degli elementi L’eterno ciclo del divenire
17. Doppia sarà la mia esposizione; ora infatti l’uno si accresce dal molteplice derivando, ora all’inverso il molteplice dall’uno si genera. E doppia è la nascita dei mortali, doppia la dissoluzione. L’unione infatti di tutti gli elementi genera la nascita e a un tempo la fa perire, e all’inverso l’unione, separandosi gli elementi, dilaniata si dilegua. E queste cose mutando eternamente non si fermano mai, in un tempo convengono tutte quante nell’uno per opera dell’Amicizia; in un tempo sono travolte al contrario, separatamente ciascuna, dall’inimicizia che nasce dalla Contesa. E poi di nuovo, dissolvendosi l’uno, risultano molti; in questo modo divengono, e non è immota la loro eterna durata. Ma poiché interamente mutando non si fermano mai, immobili in questo modo sono in eterno, secondo il ciclo. Ma orsù, ora ascolta queste parole; il sapere ti arricchisce l’animo. Così come dissi anche prima chiarendo i limiti del mio discorso, doppia sarà la mia esposizione; ora infatti l’uno si accresce dal molteplice derivando, così da essere solo, ora all’inverso il molteplice dall’uno si genera, fuoco e acqua e terra e l’immensa altezza dell’aria, e la Contesa funesta a parte di essi, simile ovunque; e l’Amicizia in essi, uguale in altezza e in ampiezza; tu guardala con la mente e non lasciarti sbigottire dagli occhi. [...] Questi elementi infatti si equivalgono tutti, ed hanno avuto generazione coeva, ciascuno si occupa del suo compito, secondo quanto spetta ad ognuno, e a vicenda governano il ciclo del tempo. E oltre ad essi nessuna cosa si genera né alcuna cosa finisce: fossero infatti perite completamente, ora non sarebbero più. Oppure questa cosa che è l’universo potrebbe in qualche modo aumentare? E giungendo da dove? E come potrebbe perire se solitaria non è nessuna di queste cose? Ma solo queste sono le cose che esistono, correnti l’una verso l’altra a vicenda si generano, sempre uguali in continuo. [B]
La forza attrattiva dell’Amicizia e la forza dissolutrice della Contesa
Gli elementi sono eterni perciò l’universo non può né diminuire né aumentare ma soltanto trasformarsi di continuo
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115. Esiste, come fatto di necessità, un antico decreto degli dèi, sigillato con ampiezza di giuramenti, se uno contamina nei delitti le proprie membra con il sangue, ed è questo: colui che macchiato di colpa violò il giuramento promesso […] tre volte diecimila stagioni dai beati dovrà allonne dal nulla è impensabile, così come è impensabile che l’universo si accresca o diminuisca, ossia che sorgano in esso cose che prima non c’erano e scompaiono cose esistenti. Dunque il divenire non può essere altro che mescolanza e separazione degli elementi. Per Empedocle, tuttavia, l’ipotesi dei quattro elementi non è sufficiente a spiegare i processi che avvengono nel cosmo. Occorre postulare l’azione di due cause, che determinano la formazione e la dissoluzione delle cose. Queste forze cosmiche sono rappresentate dalla Amicizia (philìa, che significa anche «Amore») e dalla Contesa (nèikos, che vuol dire anche «Odio»). L’Amicizia agisce come una sorta di calamita che attrae gli elementi dando così origine alle cose; l’Odio funge da forza di repulsione e determina l’allontanamento degli elementi e il dissolversi dei composti (naturalmente non può non colpire la nostra sensibilità il fatto che le due forze cosmiche presentino caratteri quasi psicologizzati). Empedocle sembra immaginare il divenire cosmico come l’alternarsi di fasi in cui predomina l’unità e di fasi in cui il molteplice prende il sopravvento: quando la forza di attrazione 69
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Parte prima L’età antica
tanarsi, errabondo, nascendo nel tempo in figura di ciascun essere mortale, percorrendo i sentieri di una vita penosa. Infatti il potere del cielo con violenza li sospinge nel mare, il mare li risospinge nel suolo terrestre, la terra contro i raggi sfavillanti del sole, e questi li scaglia in vortici d’aria. Con alterna vicenda essi li accolgono, ma ciascuni li aborre. Ed ora anche io sono fra costoro, bandito da dio e vagabondo, fedele dell’odio impazzito. [C]
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(brani tratti da Empedocle, I frammenti. Empedocle, trad. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 19912)
generata dall’Amicizia si impone senza resistenza, tutto si unifica e nasce lo Sfero (in cui il cosmo si presenta come un’unità perfetta); quando, invece, il dominio viene esercitato dalla forza di repulsione prodotta dalla Contesa, gli elementi si isolano tra loro. Bisogna però aggiungere che la natura dei processi cosmici, e in particolare il tipo di effetti che l’azione dell’Amicizia e della Contesa producono sul piano cosmico, sono ancora oggi oggetto di accese dispute tra gli studiosi, i quali non sembrano giunti a risultati del tutto concordanti. C. Questo frammento deriva dall’opera Purificazioni, in cui Empedocle riprende la concezione pitagorica della metemsomatosi, ossia della trasmigrazione delle anime. Pitagorico dovrebbe essere il divieto di macchiarsi di sangue, ossia di uccidere (anche gli animali), formulato nelle prime righe. Senza dubbio pitagorica è poi la credenza che le anime impure subiscano un lungo processo di incarnazioni in corpi sempre diversi (non solo di animali ma anche di piante). Del resto, lo stesso Empedocle aveva dichiarato di essere stato «ragazzo, fanciulla, e arbusto e uccello e muto pesce del mare» (fr. 117, p. 54). Interessante è qui la concezione secondo la quale gli ambiti in cui le anime si possono incarnare corrispondono sostanzialmente agli elementi di cui è costituito l’universo: mare = acqua, terra, sole = fuoco, vortice = aria.
Questionario sull’argomentazione 1
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In che senso la generazione viene spiegata attraverso i concetti di mescolanza e di separazione nel frammento 8? (max 2 righe) Qual è il principio eleatico ripreso da Empedocle nel frammento 12? (max 2 righe) 70
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Qual è il ruolo di Amicizia e Contesa nell’universo descritto nel frammento 17? (max 4 righe)
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Quali sono i quattro ambiti nei quali per Empedocle avviene la trasmigrazione delle anime (metemsomatosi)? (max 5 righe)
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
1. Il luogo della filosofia: Atene
2. Il metodo filosofico socratico 3. Il rapporto tra virtù, conoscenza, felicità
2. I sofisti 1. Protagora e il relativismo 2. La potenza della parola: Gorgia
4. Il bene, la vita e la felicità del filosofo 5. L’eredità di Socrate: le cosiddette «scuole
socratiche»
3. La sofistica e l’illuminismo greco
3. Socrate e la filosofia 1. Il programma filosofico socratico
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Gorgia, Encomio di Elena
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Parte prima L’età antica
Il luogo della filosofia: Atene
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I sofisti e Atene
La supremazia di Atene
Clistene e le riforme
Pericle e la svolta democratica
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Per comprendere lo sviluppo della riflessione filosofica nel periodo che va dalla seconda metà del V fino alla prima parte del IV secolo a.C. occorre avere presenti le linee essenziali del quadro storico al cui interno questa riflessione si colloca. E prima di tutto occorre conoscere il luogo in cui essa si svolge; perché qui sta il punto: la filosofia di questo periodo non è dissociabile dalla città in cui si sviluppa. E questa città è naturalmente Atene. È vero che alcuni dei principali protagonisti di questa fase della riflessione filosofica non sono ateniesi (basti pensare ai due maggiori sofisti, Protagora e Gorgia); ma è altrettanto vero che essi soggiornano nella capitale dell’Attica e qui conseguono fama e prestigio (soprattutto Protagora, perché Gorgia, come vedremo, rimane ad Atene per poco tempo). Ancora più importante è però il fatto che i sofisti formano una vera generazione di intellettuali, allievi e adepti, la cui attività – politica e culturale – si svolge unicamente ad Atene. Risulta dunque fondamentale fornire una breve descrizione del contesto storico in cui sorge il pensiero sofistico (e, di riflesso, quello socratico e platonico). Nel corso del V secolo Atene era andata acquisendo una posizione di primo piano nell’ambito delle città-stato, le pòleis, greche. Il ruolo che essa giocò nelle vittoriose guerre contro i persiani (490-478 a.C.) le consentì di ottenere una posizione di supremazia, che nei decenni successivi venne rafforzata attraverso una spregiudicata politica di stampo ‘imperialista’ (diremmo noi oggi), ossia attraverso il sostanziale assoggettamento (politico ed economico) di altre città e regioni (attuato soprattutto per mezzo di un accorto sistema di alleanze, nelle quali Atene si attribuiva una funzione egemone, mentre i suoi partner risultavano in posizione subordinata). Imperialismo ed egemonia rappresentarono solo una faccia della medaglia. Atene conobbe per una lunga fase del V secolo una vera e propria svolta democratica della sua politica interna. In effetti già a partire dalla fine del VI secolo, con le riforme di Clistene, la città si era dotata di una serie di istituti di stampo tendenzialmente democratico. Particolarmente significativa fu, per esempio, l’introduzione della Boulè, un’assemblea generale formata, per elezione democratica, da cinquecento membri; ancora più importante fu l’estensione dei diritti politici a tutti i cittadini (naturalmente maschi, maggiorenni e liberi); le cariche pubbliche, ossia le magistrature, potevano venire affidate, per sorteggio o per votazione, a chiunque; dunque, un minimo di competenza politica era richiesto a tutti. Per questo lo Stato prevedeva un piccolo indennizzo (lontano antenato delle nostre indennità di rappresentanza) per quei cittadini che partecipavano alla vita pubblica (e che erano dunque costretti a tralasciare momentaneamente i loro affari). Se le riforme di Clistene – giunte al termine di un lungo processo di democratizzazione della vita cittadina che era iniziato quasi un secolo prima con Solone – garantirono, per così dire, il quadro istituzionale della trasformazione in senso democratico di Atene, solo con Pericle (al potere quasi ininterrottamente dal 460 al 429 a.C.) si impose nella politica ateniese una vera e propria svolta democratica anche di natura sostanziale.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Una contraddizione apparente
L’esigenza del consenso politico
➥ Sommario, p. 98
Pericle, leader del partito democratico, fu una sorta di autocrate che governò Atene sostanzialmente nell’interesse dei ceti subalterni (artigiani e in generale lavoratori), relegando ai margini l’aristocrazia tradizionale. Atene fu dunque imperialista nella politica estera e democratica in quella interna. Si tratta di una contraddizione? Solo apparentemente. Perché in realtà fu proprio l’atteggiamento aggressivo in politica estera che rese possibile all’interno una relativa pace sociale. I proventi economici che derivavano dalla politica egemonica nei confronti di molte regioni della Grecia (sia continentale che colonizzata) consentirono infatti di sostenere i cosiddetti ‘costi della democrazia’. Il pagamento delle indennità e la stessa realizzazione del complesso di iniziative collegate alla vita democratica (per esempio la costruzione di imponenti opere pubbliche, come il Partenone, l’allestimento di grandi feste e di spettacoli teatrali) furono resi possibili proprio grazie alla natura aggressiva della politica estera. L’elemento più significativo della democrazia dal punto di vista politico-culturale fu però rappresentato dal sorgere di una nuova esigenza: quella di acquisire il consenso. In effetti, in un regime democratico la legittimazione al potere non viene più garantita dall’appartenenza a una determinata famiglia particolarmente prestigiosa e influente, ma deve essere conquistata attraverso l’ottenimento del consenso intorno alle proprie idee e alle proprie proposte. In una parola, bisogna essere in grado di persuadere gli altri cittadini nelle assemblee e nei tribunali; bisogna acquisire una competenza che renda capaci di condurre nel migliore dei modi la vita pubblica e quella privata.
I sofisti
2 I testi
Platone Teeteto: L’uomo è misura di tutte le cose, T1 Gorgia: La «giustizia di natura» secondo Callicle, T2
L’arte della persuasione
Crizia Sisifo: L’astuta invenzione della religione, T3
Non ci dovrebbe risultare difficile comprendere che in un simile quadro – del tutto nuovo per la vita ateniese – cominciano ad assumere un ruolo sempre più rilevante coloro che sono in grado di insegnare (dietro compenso) ai cittadini l’arte di discorrere nelle assemblee e nei tribunali, l’arte cioè di persuadere. Costoro altri non sono che i famosi «sofisti». Essi si presentano come gli unici capaci di insegnare l’arte politica (la tèchne politikè), ossia l’insieme delle competenze – soprattutto linguistiche, ma anche comportamentali – che consentono a un cittadino di svolgere nel migliore dei modi la sua attività all’interno della vita associata. I sofisti si vantano di sapere «rendere forte un discorso debole», vale a dire di argomentare in modo così efficace da trasformare una tesi inizialmente poco ap73
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Parte prima L’età antica
Professionisti della cultura
Dall’indagine della natura all’indagine dell’uomo
La rivoluzione culturale e filosofica dei sofisti
Ambito Trasferimento dell’indagine filosofica dalla natura all’uomo e all’ambiente sociale in cui vive (la città)
1 L’uomo «misura di tutte le cose»
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petibile in una attraente (inducendo la maggioranza dei cittadini di un’assemblea o dei giudici di un tribunale a preferirla). Ma chi sono i sofisti? Si tratta di veri e propri professionisti (la parola sofista significa «maestro di sapere» e, dunque, «sapiente») della cultura, i quali prestavano i propri servigi ricevendo in compenso del denaro (i loro clienti erano generalmente i rampolli delle famiglie più facoltose). In un primo tempo i sofisti più popolari provengono da fuori Atene (i già menzionati Protagora e Gorgia); ma non tarda a formarsi una vera e propria generazione autoctona di sofisti (Crizia, Antifonte e altri ancora, come Ippia che, seppure non ateniese di nascita, ad Atene acquisisce fama e prestigio). Dalle descrizioni contenute all’interno dei dialoghi di Platone sembra di poter concludere che i sofisti divengono vere e proprie star mediatiche, e che la loro presenza domina la vita culturale ateniese per alcuni decenni. Sarebbe sbagliato tuttavia vedere nella sofistica una scuola o un indirizzo filosofico unitario e compatto. Si tratta piuttosto di un movimento, di un indirizzo generale, che i singoli autori sviluppano poi in maniera autonoma (non mancano divergenze anche significative su questioni importanti). Detto ciò, si possono comunque individuare alcuni denominatori comuni, che sembrano applicabili a quasi tutti i sofisti. Una diffusa tesi storiografica (in buona parte rispondente al vero) attribuisce, per esempio, al movimento sofistico il merito (o la colpa) di avere trasferito l’indagine filosofica dalla natura alla città e all’uomo. Si sostiene, infatti, che, se i fisiologi ionici e poi i naturalisti posteleatici si sono interessati principalmente della natura (dei processi che vi accadono, degli elementi che la compongono), i sofisti rivolgono la loro attenzione essenzialmente all’uomo (alle condizioni e ai modi della sua vita associata) e al linguaggio, ossia allo strumento principale della comunicazione umana. Come detto, questa immagine è in larga parte rispondente al vero, anche se non mancarono tra i sofisti coloro che proposero tesi relative alla struttura (o alla mancanza di struttura) del mondo. Un altro motivo che sembra accomunare molti sofisti consiste nella tendenza a collocare il fine della riflessione nell’utilità pratica (soprattutto sul piano politico e giudiziario) piuttosto che nella conoscenza teoretica. Quella sofistica è, come vedremo, una vera e propria rivoluzione culturale (prima ancora che filosofica), dalla quale non potranno prescindere neppure coloro che ad essa si opporranno tenacemente, ossia Socrate e soprattutto Platone. Strumento Centralità dello studio del linguaggio e delle sue potenzialità come strumento di intervento sul reale
Scopo Il fine della riflessione filosofica non è soltanto conoscitivo bensì (e soprattutto) pratico
Protagora e il relativismo Protagora di Abdera è senz’altro il sofista più celebrato e popolare. Platone lo presenta come un vero e proprio maître à penser, e non c’è dubbio che egli eserciti un ruolo significativo nella cultura ateniese dell’età di Pericle. La sua opera più importante si intitola Verità (Alètheia). Essa si apre con una sentenza che è
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
rimasta famosa: «di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». Quella centralità dell’uomo di cui si diceva sopra sembra esplicitamente evocata nelle parole di Protagora.
La vita Protagora nacque ad Abdera nel 485 circa a.C. Egli esercitò ben presto un ruolo significativo sia sulla vita culturale che sulla scena politica ateniese. Secondo la tradizione tramandataci egli aderì infatti alla fazione democratica capeggiata da Pericle, il quale gli affidò incarichi delicati e importanti, come quello di redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi (fondata
Non esistono verità assolute
Relativismo conoscitivo e relativismo etico
T1
L’uomo è misura di tutte le cose Platone, Teeteto, 166 D-167 D
nel 444 a.C.). Esercitò dunque ad Atene la professione di sofista per oltre quarant’anni. Tuttavia, a causa delle sue tesi agnostiche riguardo alla divinità, le sue opere vennero pubblicamente bruciate nell’agorà ed egli fu condannato all’esilio con l’accusa di empietà (come Anassagora, suo contemporaneo). Morì nel 420 circa a.C. in un naufragio, mentre si stava recando in Sicilia come esule.
Ma in che senso l’uomo sarebbe misura di tutte le cose? E poi, di quali cose esattamente? Bisogna riconoscere che una risposta univoca a questi due interrogativi non si presenta affatto agevole (del resto gli stessi antichi forniscono soluzioni diverse). A un primo livello la sentenza intende negare l’esistenza di verità e di norme assolute; le cose – così è stata spesso interpretata la formula protagorea – sono solo come e nel momento in cui appaiono agli uomini: non esistono un bene assoluto, un giusto assoluto, ma un bene e un giusto per gli uomini, e dunque un bene e un giusto che si modificano nella misura in cui cambiano i soggetti che li giudicano. È possibile che Protagora intendesse sostenere anche una sorta di sensismo universale, in base al quale le cose sono così come appaiono di volta in volta alla percezione dei singoli individui. Ma dietro le parole del sofista si cela quasi certamente un preciso significato politico: l’uomo, di cui si dice che rappresenta la misura di tutte le cose, non è solo il singolo individuo, ma anche una determinata comunità. Dunque, a questo livello, Protagora sostiene che ciò che appare giusto e buono per una certa comunità (ossia per i cittadini di una città), costituisce anche la norma per la suddetta comunità. Insomma, il sistema dei valori (cioè delle cose) vigente ad Atene (valido per gli uomini di Atene) non è lo stesso che circola a Sparta e al quale si uniformano gli spartani. Il relativismo di Protagora, come si vede, non concerne solo la dimensione conoscitiva, ma – e forse soprattutto – il piano etico e morale. Egli si dimostra consapevole che nel campo delle cose umane non si può acquisire una conoscenza certa e assoluta; bisogna accontentarsi del giudizio che appare di volta in volta migliore. Il compito del sofista consiste allora, secondo Protagora, nell’educare gli uomini a scegliere l’opzione che di volta in volta apparirà migliore, ossia più conveniente. Leggiamo un brano del dialogo Teeteto nel quale Platone immagina che sia Protagora stesso a parlare: Io affermo che la verità sta così come ho scritto: e cioè che ciascuno di noi è misura tanto delle cose che sono, quanto di quelle che non sono, e che noi siamo enormemente diversi l’uno dall’altro, perché per uno appaiono e quindi sono alcune cose, mentre per un altro appaiono e sono altre cose. Sono ben lungi dal dire, poi, che non esistano sapienza e uomini sapienti: definisco tale, piuttosto, colui che, trasformando uno di noi, per il quale una cosa appaia e sia brutta, riesca a fargliela apparire ed essere bella. E tu non attaccare di nuovo il mio ragionamento, prendendolo alla lettera. Cerca di comprendere ancora più chiaramente, piuttosto, ciò 75
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Parte prima L’età antica
che intendo dire. Ricordati, infatti, di quel che si è detto nei ragionamenti precedenti: a una persona malata appare amaro ciò che mangia e, in effetti, così è per lei, mentre per una persona sana è e appare il contrario. Nessuno dei due va considerato più sapiente – non è nemmeno possibile, infatti – e non si deve affermare che chi è malato è ignorante, perché ha simili impressioni, mentre chi è sano è sapiente, perché ne ha di diverse: è necessario, piuttosto, far sì che questa condizione muti nell’altra, dato che la seconda è migliore. E così anche nell’educazione: bisogna cambiare un certo carattere in un altro migliore; solo che il medico attua il mutamento attraverso i farmaci, mentre il sofista adopera i discorsi. Perché non è che qualcuno abbia fatto sì che un’altra persona, che prima aveva impressioni false, dopo il mutamento ne abbia di vere. E non è possibile formarsi opinioni su ciò che non è, né provare impressioni diverse da quelle che si provano: queste ultime, invece, sono sempre vere. Credo piuttosto che, migliorando la sua disposizione d’animo, si siano fatte avere opinioni diverse a una persona che, proprio a causa della sua cattiva disposizione d’animo, aveva opinioni conformi a questa condizione: e alcuni, per inesperienza, chiamano vere queste nuove apparenze, mentre io definisco le une migliori delle altre, ma nient’affatto più vere. […] Ciò che a ciascuna città sembra essere giusto e bello, tale è anche per essa, fintanto che continui a pensarla così: ma il sapiente ha fatto sì che, per i cittadini di ognuna di quelle città, siano e appaiano giuste cose convenienti invece di cose cattive. Secondo lo stesso ragionamento, anche il sofista, capace di fornire questa educazione ai suoi allievi, è sapiente e degno di ricevere ingenti retribuzioni da parte di coloro che ha educato. Dal relativismo al pragmatismo
Il relativismo di Protagora
In questa pagina Platone espone dunque efficacemente la tesi del relativismo e di conseguenza del pragmatismo di Protagora. Se lo stesso cibo appare dolce al sano e amaro al malato, non si può dire che la situazione del primo sia vera e la seconda falsa: sono in effetti entrambe «vere» nella misura in cui il soggetto prova queste esperienze (cioè ne è la «misura»). Ma siccome lo stato di salute è migliore (cioè praticamente preferibile) di quello della malattia, il medico cercherà di riportare le sensazioni del malato a quelle del sano. Così, le decisioni politiche e morali su ciò che è giusto e buono dipendono dalle valutazioni dei singoli e da quelle collettive delle città: anche qui, non si può dire che una di queste decisioni sia più «vera» di un’altra (per esempio: i greci seppelliscono i loro morti, altri popoli bruciano i cadaveri). Il compito del buon consigliere (cioè il sofista) è quello di convincere individui e comunità a prendere non le decisioni più vere (che sarebbe impossibile) ma quelle più utili, più efficaci ai fini della prosperità personale e collettiva («pragmatismo»).
«Di tutte le cose è misura l’uomo»
Non esistono verità o norme assolute indipendenti dall’uomo
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Relativismo conoscitivo
Relativismo etico-politico
«sensismo universale»: essere = apparire
«buono» e «giusto» sono relativi a una certa comunità
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
La natura democratica della città Protagora sembra sostenere la tesi secondo la quale tutti gli uomini sono in grado di prendere parte all’attività politica, in quanto tutti possiedono la virtù politica (aretè politikè). Questa tesi – che taluni hanno considerato una sorta di principio di legittimazione della democrazia ateniese – viene probabilmente sostenuta da Protagora attraverso il celebre mito di Prometeo ed Epimeteo (magnificamente esposto da Platone nel dialogo che porta il nome del grande sofista). Zeus – racconta dunque Protagora – aveva affidato a Epimeteo (che significa «poco preveggente») il compito di distribuire agli esseri viventi le dotazioni naturali con le quali avrebbero affrontato la vita. Con scarsa accortezza costui aveva esaurito tutte le dotazioni (forza, velocità, folto mantello per proteggersi dal freddo) distribuendole tra gli animali, e si era trovato senza più capacità da attribuire all’uomo. Gli era allora giunto in soccorso Prometeo (colui che «vede prima» e che dunque è previdente), il quale aveva assegnato agli uomini l’abilità tecnica, che nel mito prendeva la forma del dono del fuoco. Anche così, tuttavia, gli uomini non erano in grado di sopravvivere per la semplice ragione che non erano portati ad associarsi tra di loro formando delle comunità (tendevano anzi a entrare in conflitto gli uni con gli altri). Intervenne infine Zeus, il quale distribuì a tutti gli uomini (dunque non solo ad alcuni) la giustizia (dìke) e il rispetto reciproco (aidòs), che vengono a formare, secondo Protagora, la virtù politica. Quest’ultima, dunque, non appartiene a un gruppo circoscritto, ma a tutta l’umanità, o meglio a tutti i cittadini di una pòlis. Tutti sono perciò in possesso di quella minima competenza politica che li rende in grado di prendere parte agli affari pubblici. L’educazione impartita dal sofista consisterà in una sorta di affinamento di questa disponibilità alla vita politica che tutti gli uomini possiedono. Una posizione di questo tipo verrà contestata radicalmente da Platone (vedi Unità 3). Le «antilogie» Protagora compone anche uno scritto dal titolo Antilogie, in cui dimostra, probae l’agnosticismo bilmente per confermare la sua tesi circa la natura relativa della verità, che per ogni questione è possibile fornire due lògoi, ossia due ragionamenti, in contrasto fra loro. Questo atteggiamento scettico deve caratterizzare anche l’opera Sugli dèi, nella quale è contenuta una coraggiosa professione di agnosticismo. Afferma infatti Protagora: «intorno agli dèi non posso sapere nulla, né che esistono né che non esistono, e neppure di che natura sono, opponendosi a tale conoscenza molte cose: in particolare l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita».
Il mito di Prometeo ed Epimeteo: il dono della virtù politica
2 L’opera principale e le tre tesi
La potenza della parola: Gorgia Tra i sofisti solo Gorgia di Lentini può competere con Protagora per profondità filosofica e per influenza sulla tradizione successiva. Lo scritto Sul non essere o sulla natura manifesta già nel titolo l’intento che doveva animarlo; si tratta di un’opera polemica indirizzata contro l’eleatismo, e in particolare contro Melisso (il cui scritto ha per titolo Sulla natura o sull’essere, vedi p. 49). Gorgia vi sostiene tre tesi: 1) nulla è (o nulla esiste); 2) se anche qualcosa esistesse, esso sarebbe inconoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, risulterebbe comunque incomunicabile. 77
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Parte prima L’età antica
La vita e le opere Gorgia nacque a Lentini, presso Siracusa, nel 480 circa a.C. Secondo alcune fonti egli fu per un certo periodo discepolo di Empedocle, anche se abbandonò ben presto gli interessi naturalistici che caratterizzano il maestro. Viaggiò moltissimo, per lo più in tutta la Grecia e soggiornò ad Atene, dove guidò forse un’ambasciata per conto della sua città. Fu uno scrittore estremamente proPrima tesi: nulla esiste
Seconda tesi: se anche qualcosa esistesse, sarebbe inconoscibile
Terza tesi: se anche qualcosa esistesse e fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile
lifico, grazie anche alla sua estrema longevità. Assieme a Protagora divenne ben presto uno degli esponenti di spicco della sofistica. Compose numerosi manuali di retorica che ebbero grande diffusione negli ambienti filosofici e letterari del tempo. Di lui ci restano ampie sezioni della sua opera maggiore, Sul non essere o sulla natura, nonché dell’Encomio di Elena e dell’Apologia di Palamede. Morì nel 370 circa a.C.
Proviamo ad analizzare distintamente le tre tesi sopra indicate. Per Gorgia, dunque, nulla esiste. È probabile che egli intenda sostenere che intorno a nessuna cosa possiamo affermare un predicato determinato, possiamo cioè dire che possiede una certa qualità piuttosto che un’altra. Se qualcosa esistesse – afferma Gorgia – esso sarebbe, per esempio, o generato oppure ingenerato. Se fosse generato, dovrebbe essersi generato dal nulla; ma, come sappiamo proprio da Melisso e da Parmenide, nulla si può generare dal nulla; tuttavia non può neppure risultare ingenerato, perché, se lo fosse, non avrebbe principio e dunque sarebbe infinito; e ciò che è infinito (nello spazio e nel tempo) non può essere in nessun luogo. Dunque, conclude Gorgia, nulla è. Ammesso (e non concesso) che qualcosa fosse (ossia esistesse e possedesse una qualità determinata), non sarebbe però conoscibile. Secondo Gorgia, infatti, il nostro pensiero risulta del tutto inadeguato a cogliere l’esistenza di qualcosa che si trova al di fuori di esso. Questo sarebbe dimostrato, tra l’altro, dal fatto che molte nostre rappresentazioni mentali (per esempio cocchi che corrono sul mare, oppure chimere ecc.) non corrispondono a qualcosa di effettivamente esistente. Essere e pensiero appartengono per Gorgia a due universi in qualche modo incomunicabili. Ammesso (e naturalmente non concesso) che qualcosa esistesse e fosse conoscibile, esso non sarebbe però comunicabile, per la semplice ragione che il linguaggio rappresenta un dominio estraneo alla realtà. Per comunicare ci serviamo di nomi; ma questi sono irriducibili alle cose. Esiste insomma, agli occhi di Gorgia, uno scarto ineliminabile che separa l’ordine della realtà e l’ordine del discorso intorno ad essa. Siamo, come si sarà capito, agli antipodi dell’eleatismo (per il quale l’essere è, è perfettamente conoscibile dal pensiero e limpidamente comunicabile dalla parola). Non è chiaro quale forza dimostrativa Gorgia attribuisca effettivamente a questi argomenti e che genere di filosofia (relativistica, scettica, oppure nichilista) miri a costruire tramite essi, ma è molto probabile che egli li consideri persuasivi almeno quanto quelli opposti degli eleati, finalizzati a dimostrare la necessità dell’essere, la sua assoluta conoscibilità e il legame inscindibile tra esso e il linguaggio. Utilizzando procedure di tipo deduttivo molto simili a quelle di cui si è servito per esempio Melisso, Gorgia si propone di dimostrare la possibilità di pervenire a risultati del tutto opposti, che siano comunque ugualmente persuasivi.
La funzione persuasiva del linguaggio Linguaggio e realtà
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Per il grande sofista siciliano, tuttavia, il fatto che il linguaggio (il lògos) sia eterogeneo e incommensurabile rispetto alla realtà (o a ciò che presumiamo essere tale) non costituisce un elemento di debolezza; anzi rappresenta in un certo senso la ragione della sua straordinaria forza.
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Questo perché, secondo Gorgia, il linguaggio viene svincolato dalla realtà: non è più costretto a riprodurla, ma può muoversi liberamente e costruire qualcosa di simile a degli ‘universi paralleli’. In particolare la parola, ormai svincolata dall’obbligo di dire la realtà, può rivolgersi all’anima di chi ascolta, allo scopo di persuaderla, di commuoverla, di calmarla, di infonderle coraggio e naturalmente anche di spaventarla. In un simile contesto si comprende facilmente come la retorica, ossia l’arte della parola, acquisisca una rilevanza assoluta, finendo per rappresentare la disciplina più importante. Per Gorgia la parola è il «gran dominatore» («che con un piccolissimo corpo sa compiere cose divinissime») perché da essa, e dalla capacità di usarla, dipendono i destini dell’uomo (e in qualche modo anche la possibilità di raggiungere la felicità). Uno straordinario esempio di capacità di usare la parola viene fornito da Gorgia nel suo splendido Encomio di Elena. L’Encomio di Elena Costei, come è noto, era considerata la responsabile dello scoppio della guerra di Troia e dunque dei terribili lutti che essa arrecò ai greci e ai loro avversari troia➥ Laboratorio di lettura, ni. Gorgia mostra con il suo encomio di poter smontare questa accusa, dimop. 101 strandone l’infondatezza. Elena, sostiene Gorgia, non è responsabile di ciò che ha fatto, perché la causa del suo comportamento, ossia l’abbandono del tetto coniugale a seguito dell’amante Paride, risiede: 1) nel disegno del caso (ty`che); oppure 2) nel volere degli dèi; oppure 3) nel decreto della necessità; oppure ancora 4) nella violenza di chi la rapì; oppure 5) nella potenza irresistibile di Eros (ossia del richiamo amoroso); oppure, infine, 6) nelle capacità persuasive del lògos. In tutti questi casi Elena non è affatto responsabile e non può venire accusata. L’Encomio di Elena rappresenta uno degli esempi più suggestivi dell’abilità retorica dei sofisti e della loro straordinaria capacità di mettere in discussione ciò che veniva considerato vero e affidabile in virtù di una tradizione consolidata e apparentemente inattaccabile.
3
La sofistica e l’illuminismo greco
Protagora e Gorgia sono i massimi rappresentanti del movimento sofistico, ma non gli unici. La ricchezza e l’originalità di questa tendenza culturale non si esauriscono con loro. Figure come Prodico di Ceo, Ippia di Elide, Trasimaco di Calcedonia, Crizia, Antifonte e altre ancora, segnano profondamente la vita culturale e politica dell’Atene della seconda metà del V secolo. Del resto, come si è detto, la sofistica non è una vera e propria scuola filosofica, bensì un movimento complesso al cui interno convivono, accanto a importanti denominatori comuni, anche divergenze altrettanto significative. La separazione Uno dei motivi teorici intorno a cui si sviluppa la riflessione di molti sofisti è sentra natura e legge za dubbio costituito dalla consapevolezza della separazione tra «natura» (phy`sis) e «legge» (nòmos), o meglio della irriducibilità della seconda alla prima. A originare (o forse solo a rafforzare) questa consapevolezza intervengono sicuramente i contatti con altre popolazioni, determinatisi a seguito delle guerre con i persiani. Ci si rende inevitabilmente conto di quanto differiscano non solo le leggi (che dunque non sono affatto naturali), ma addirittura gli stessi codici morali degli uomini. Ciò che appare giusto per un popolo, viene considerato profonda79
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Parte prima L’età antica
Antifonte: l’opposizione tra le tendenze naturali umane e le norme giuridiche
mente ingiusto (e perciò perseguito) da un altro. Questo vale, come detto, sia per le leggi sia per i valori. L’autore di un’operetta dal titolo Discorsi doppi (Dissòi lògoi) può affermare: «se si ordinasse a tutti gli uomini di radunare in uno stesso luogo tutte le cose che essi ritengono vergognose, e una volta fatto ciò si ordinasse poi a ciascuno di prendere dal mucchio ciò che ritiene bello, non ne resterebbe neppure una, ma tutti si dividerebbero tutto». Una professione più esplicita di ‘relativismo culturale’ non potrebbe davvero venire formulata. La sofistica, al cui ambiente l’autore di questo trattato appartiene, sembra sostituire l’oggettivismo etico di matrice arcaica (per cui i valori sono dati nella natura) con un vero e proprio relativismo descrittivo che investe tutti gli aspetti (bene-male, giusto-ingiusto, vero-falso, bello-brutto). La riflessione intorno al rapporto tra natura e legge assume in alcuni sofisti un’importanza davvero centrale. Antifonte, per esempio, oppone in forma radicale i due termini, sostenendo che la legge prescrive una serie di norme che sono sostanzialmente contrarie alla tendenza naturale degli uomini.
La vita e le opere Antifonte nacque nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene, dove operò e insegnò negli anni della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), in un periodo di contrasti molto accesi tra opposte fazioni che ebbe certo un ruolo nell’elaborazione delle sue teorie sulla natura umana e
La sopraffazione, principio guida degli individui
Il patto sociale
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sulla vita in società. Sostenitore della netta contrapposizione tra convenzione (quindi legge) e natura, scrisse un’opera su La verità, forse in due libri, e una su La concordia. Fu anche matematico: secondo la testimonianza di Aristotele si deve infatti a lui il primo tentativo di soluzione del problema della quadratura del cerchio.
Gli uomini, secondo Antifonte, sarebbero portati per natura ad acquisire il massimo di soddisfazione e di benessere personale, anche a scapito degli altri individui. I sistemi giuridici, invece, frenano questa tendenza naturale, costringendo gli uomini a non danneggiarsi a vicenda. Di conseguenza ciascuno di noi si attiene a queste norme non perché le reputa naturali (e dunque consone al proprio intimo sentire), ma solo perché teme di subire le conseguenze che deriverebbero dalla loro trasgressione. Se si potesse commettere ingiustizia – pare che arrivasse a sostenere Antifonte – senza doverne pagare le conseguenze (per esempio rendendosi invisibili), lo si farebbe senza alcuna remora morale. Questo perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi, essendo il principio naturale che guida le loro azioni quello della pleonexìa, ossia appunto della sopraffazione. Tuttavia, temendo di finire vittime della sopraffazione altrui, essi decidono di stipulare una sorta di «patto di non aggressione», che viene garantito dalle norme giuridiche. Sembra, insomma, che Antifonte argomenti più o meno in questo modo: i sistemi giuridici (cioè le leggi) rappresentano il frutto di un patto tra gli uomini, i quali, temendo gli effetti che si produrrebbero nel caso di un perenne conflitto di tutti contro tutti (che è la condizione naturale), decidono di stipulare delle norme finalizzate alla loro conservazione. Tutto ciò significa che gli uomini rispettano le leggi solo perché temono le conseguenze derivanti dalla loro trasgressione; tuttavia, se avessero la certezza dell’impunità, seguirebbero i loro istinti naturali, dando libero sfogo alla tendenza a sopraffarsi a vicenda. Il «patto sociale» viene dunque percepito come una violenza imposta alla natura. Non è sicuro che Antifonte sviluppi per intero il ragionamento che abbiamo riportato; non ci sono però dubbi che a partire dalla distinzione, da lui accettata e
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
approfondita, tra natura e legge, tesi come quelle appena menzionate circolassero negli ambienti culturali della sofistica e siano state riprese e confutate da Platone (vedi Unità 3, p. 116 ss.).
L’estremizzazione del dibattito su natura e legge Callicle: critica radicale della democrazia
Le posizioni sopra ricostruite vengono ulteriormente radicalizzate da alcuni sofisti. Si arriva, per esempio, a sostenere che le leggi non sono solamente una dolorosa necessità alla quale gli uomini ricorrono per scongiurare i rischi di un perenne conflitto generalizzato, ma addirittura che esse rappresentano una vera e propria perversione della natura, dal momento che consentono a coloro che sono naturalmente più deboli di imporsi sugli individui più forti. Una tesi di questo genere viene attribuita da Platone al misterioso Callicle, la cui esistenza storica non è sicura, ma che deve costituire, agli occhi del grande filosofo, il prototipo del radicalismo sofistico. Secondo Callicle (o chi per lui) le leggi non sono altro che ipocriti stratagemmi orchestrati dai più deboli allo scopo di sottomettere i più forti, impedendo loro di dare libero sfogo alla superiorità naturale di cui sono dotati. La norma naturale, che le leggi ipocritamente riescono a pervertire, prevede invece il dominio dei più forti, ossia di coloro che sono in grado di imporre il loro istinto di sopraffazione. Merita di venire riportata la pagina del Gorgia in cui Platone riassume le tesi del misterioso Callicle.
T2
Che le cose stiano così [ossia che i più forti debbano per natura comandare sui più deboli] è facilmente dimostrabile; basta guardare quel che succede fra gli animali e fra gli uomini, sia nelle città che nelle famiglie, per capire che questo è il criterio di giustizia: chi vale di più comanda a chi vale di meno, e possiede più cose. Per esempio, con quale criterio Serse fece una spedizione contro la Grecia e suo padre contro gli Sciti? […] Ti dico, per Zeus, che chi agisce così agisce secondo la natura della giustizia, ossia secondo la legge della natura, anche se forse non secondo la legge convenzionale degli uomini. Infatti che cosa facciamo noi uomini? Prendiamo i migliori e i più forti fra noi, e cerchiamo di addestrarli fin da piccoli, come si fa con i leoncini: con formulette e incantesimi li trasformiamo in schiavi, insegnando che tutti devono avere la stessa parte e che il bello e il giusto consistono in questo. Ma se nascesse uno con le doti adatte, un vero uomo, si strapperebbe di dosso, spezzerebbe e allontanerebbe tutte queste pastoie: calpesterebbe le nostre scritture, i trucchi e gli incantesimi e tutte le leggi contro la natura. Lui, lo schiavo, alzerebbe la testa e diventerebbe il nostro padrone, e allora brillerebbe la giustizia di natura.
La «giustizia di natura» secondo Callicle Platone, Gorgia, 483 D-484 B
Attacco più radicale alle tesi democratiche non potrebbe davvero venire portato. La sofistica, che è nata in un contesto sostanzialmente vicino alle posizioni democratiche (basti pensare a Protagora), presenta nella sua seconda generazione tesi di chiara impronta aristocratica, a ulteriore dimostrazione della natura variegata e non monolitica di questo straordinario movimento di pensiero. Trasimaco: la giustizia Sulla linea teorica cui fanno riferimento le posizioni appena ricostruite, ma opecome l’utile rando un’ulteriore radicalizzazione, si muove Trasimaco di Calcedonia, il grande del più forte avversario di Socrate nel I libro della Repubblica (vedi Unità 3, p. 118 s.). 81
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Parte prima L’età antica
La vita e le opere Nato nel 459 a.C. a Calcedonia, in Bitinia, antica regione situata nella parte nord-occidentale dell’Asia Minore, Trasimaco visse nell’Atene della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e la scelse come sede della sua attività di
Il diritto è dunque fondato sulla forza, ossia sul potere
Crizia: la religione come strumento del potere
maestro di oratoria; suo campo di interesse furono infatti, in particolare, l’oratoria civile e lo studio della politica. Fu noto nel mondo antico soprattutto per le sue conoscenze di tecnica retorica, tema su cui scrisse un manuale, il Trattato oratorio o Grande trattato.
Secondo Trasimaco la giustizia consiste effettivamente nell’osservanza delle leggi; giusto, dunque, è fare ciò che nei vari Stati le leggi prescrivono. Tuttavia, osserva Trasimaco, questo è solo il primo passo verso la comprensione del fenomeno. Perché a stabilire di volta in volta che cosa è giusto, ossia a formulare le norme giuridiche, è sempre il più forte (il più ricco, il più potente, o semplicemente la maggioranza). Dunque, chi detiene il potere (in quanto è il più forte) decide che cosa è giusto e lo fa nel proprio esclusivo interesse. Si comprende così la celebre tesi di Trasimaco secondo la quale la giustizia non è altro che «l’utile del più forte». Di conseguenza, se in una determinata città i più forti sono gli aristocratici, costoro stabiliranno delle leggi a proprio vantaggio, ossia delle leggi di carattere aristocratico; ma la medesima situazione si determina in un regime democratico, dove la maggioranza, che detiene il potere, emanerà normative di stampo democratico, al solo scopo di conservare e rafforzare il proprio potere. Il diritto dunque, secondo Trasimaco, si fonda in realtà sulla forza, ossia sul potere. Sostenere che le leggi possiedono un carattere neutrale rispetto ai conflitti reali costituisce, per Trasimaco, un’ingenuità intollerabile, oltre che una profonda falsità: la legge non regola i conflitti, bensì dipende da questi ultimi (e si limita a codificare il risultato di rapporti di forza reali). Nel contesto di radicalismo teorico e politico di cui stiamo ragionando si inserisce anche la riflessione di Crizia, zio di Platone e membro influente del partito oligarchico.
La vita e le opere Aristocratico di nascita e membro di una delle famiglie più nobili di Atene, Crizia vi nacque nel 455 a.C. Non praticò l’insegnamento ma finalizzò la sua abilità retorica all’esercizio della politica. Ebbe infatti un ruolo rilevante negli avvenimenti politici dell’Atene degli ultimi anni del V secolo. Nel 411 fece parte del governo oligarchico, caduto il quale fu costretto all’esilio. Soggiornò in Tessaglia, dove continuò ad appoggiare l’oligarchia e Sparta contro la de-
mocrazia ateniese. Rientrò ad Atene, sconfitta da Sparta e dai suoi alleati, nel 404; qui fu uno dei Trenta tiranni che insanguinarono la città ed ebbe l’incarico di stendere la nuova costituzione a carattere oligarchico-spartano. Perse la vita nel 403 in seguito alla rivolta contro i tiranni organizzata dal democratico Trasibulo. Fu scrittore molto fecondo e compose opere di argomento morale e politico, nonché poesie liriche e drammatiche. Si ricordano le quattro tragedie Tennes, Rabdamanto, Piritoo, Sisifo.
Secondo Crizia, la stessa religione, ossia la credenza nell’esistenza degli dèi e nelle punizioni che attendono i malvagi dopo la morte, non è altro che uno strumento di cui il potere si dota allo scopo di preservarsi. Chi governa si serve della paura che la religione trasmette agli uomini per indurre i governati al rispetto delle leggi (stipulate forse nel solo interesse dei governanti medesimi). Ecco come Crizia argomenta la sua tesi nel dramma Sisifo:
T3
L’astuta invenzione della religione Crizia, Sisifo
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Dal momento che le leggi non bastavano a tenere gli uomini lontani dal commettere violenze […] ma essi continuavano a commetterne di nascosto, ritengo che allora per la prima volta un uomo astuto e saggio nella mente inventò per i mortali il timore degli dèi, così da ingenerare timore nei cattivi anche se facessero o dicessero o semplicemente pensassero qualcosa di nascosto. […]
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Così credo che all’origine qualcuno persuadesse gli uomini a credere che esista il divino.
L’universalismo conoscitivo di Ippia
I sofisti e l’«illuminismo greco»
➥ Sommario, p. 98
Agli occhi del sofista, dunque, la religione costituisce una sorta di instrumentum regni («strumento del potere assoluto»), finalizzato a estendere il potere coercitivo delle leggi anche dove esse rischiano di risultare impotenti (ossia nelle coscienze e nell’oscurità dei comportamenti sottratti alla visibilità pubblica). Di questa grande stagione di intellettuali fa parte anche Ippia che, a dare retta a Platone, assume la fisionomia di una vera star. Nato nel 443 circa a.C., in Elide, nel Peloponneso, fece molti viaggi ad Atene, Sparta, Olimpia e in Sicilia per conferenze e per impegni politici, in qualità di ambasciatore. Brillante e colto, è il prototipo dell’universalismo conoscitivo, dal momento che pretende di essere esperto in tutti i campi del sapere (si vanta, tra l’altro, di essere in grado di fabbricarsi da solo i propri vestiti e calzari). La sua abilità oratoria dipende soprattutto dal possesso della capacità di imparare a memoria interi discorsi (a lui si deve la formulazione di una vera e propria mnemotecnica). A proposito del movimento sofistico si è parlato di «illuminismo greco». In effetti, molti sofisti mettono in discussione convinzioni radicate, nel campo della realtà (soprattutto Gorgia), della conoscenza (ancora Gorgia e Protagora), della politica e in particolare della natura del potere (Antifonte, Callicle, Trasimaco), della religione (Protagora e Crizia), imponendo in tutti questi ambiti i diritti della ragione. Si tratta, molto spesso, di una ragione spregiudicata, che finisce per mettere in discussione (e addirittura per sconvolgere) schemi teorici e comportamentali profondamente radicati nella tradizione. La fase successiva della riflessione filosofica si impone l’obiettivo di ricostruire un orizzonte teorico e politico consistente, in grado di fare fronte alla grandiosa sfida lanciata dai sofisti. Esattamente a questo compito di rifondazione si accinsero Socrate e soprattutto Platone. I luoghi dei principali sofisti Città d’origine di Trasimaco, uno dei più spregiudicati esponenti della sofistica, celebre per la sua concezione della giustizia come utile del più forte
Città di nascita del sofista Protagora (e, in precedenza, di Democrito). Protagora si spostò poi ad Atene dove risiedette a lungo prima di esserne bandito, forse per le sue dottrine agnostiche; è sua la tesi relativistica per cui «l’uomo è misura di tutte le cose» Città di nascita di Gorgia, che viaggiò poi moltissimo, pressoché in tutta la Grecia, soggiornando per un breve periodo ad Atene; anche grazie alle sue eccezionali doti retoriche, egli divenne uno dei sofisti in assoluto più celebri
Calcedonia Abdera
Atene Lentini
Regione di nascita di Ippia; giunto ad Atene, vi riscosse uno straordinario successo, divenendo il prototipo dell’universalismo conoscitivo proposto dai sofisti
Elide
Sono di Atene Crizia, uno dei Trenta tiranni e zio di Platone, e Antifonte, celebre per la sua teoria del «patto di non aggressione»
Nel corso del V secolo, anche per il ruolo giocato nelle vittoriose guerre contro i persiani, Atene raggiunse una posizione di supremazia sulle altre città-stato greche. Con Pericle, al potere dal 460 al 429 a.C., essa giunse a una piena democrazia
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Parte prima L’età antica
Socrate e la filosofia
3 I testi
Platone Fedone: Socrate: l’incantamento della filosofia, T4 Apologia: Socrate: l’interpretazione dell’oracolo delfico, T5; Quel qualcosa di divino e demoniaco…, T6
Senofonte Memorabili: Socrate contro Antifonte: la felicità del filosofo, T7
Socrate è probabilmente il filosofo più famoso dell’intera storia del pensiero occidentale. La sua vita, il suo insegnamento e soprattutto la sua morte ne fanno una sorta di profeta della filosofia. A Socrate si sono rifatte pressoché tutte le correnti successive della filosofia antica: in qualche misura «socratici» furono i cinici, i cirenaici, i megarici, e poi, durante l’ellenismo, gli scettici e gli stessi stoici; e successivamente sia i medioplatonici che i neoplatonici e perfino i tardi pitagorici. A fare da contrappunto a questa straordinaria influenza interviene l’assoluta mancanza di certezza circa il suo reale pensiero. Socrate non scrisse nulla (come Pitagora); e il suo pensiero venne interpretato in modi diversi già dai suoi allievi diretti (Platone, Antistene, Senofonte, Euclide di Megara, Aristippo di Cirene). Come se non bastasse, i resoconti più importanti intorno all’attività e alla riflessione di Socrate offrono immagini tra loro diverse e a tratti perfino contrastanti: Aristofane, il grande commediografo, nella sua opera Le Nuvole sembra dipingere Socrate come un sofista; Platone, al contrario, lo presenta come l’avversario più pugnace dei sofisti; Senofonte ne parla come se fosse il cittadino esemplare, sempre rispettoso della morale e dei costumi della pòlis; Aristotele lo dipinge invece come un filosofo iper-razionalista, sostenitore di tesi spregiudicate e paradossali soprattutto nel campo della morale e dell’etica. Chi ha ragione? Una personalità Probabilmente tutti. Socrate è queste cose insieme, perché il suo insegnamento poliedrica presenta effettivamente tratti che possono venire intesi in ciascuno dei sensi sopra elencati. Con i sofisti condivide, per esempio, la convinzione che la riflessione filosofica debba concentrarsi sull’uomo e sulle modalità del suo stare insieme agli altri uomini; ma è anche un avversario dei sofisti perché tenta di superarne il relativismo etico, stabilendo norme universali del pensare e dell’agire; inoltre si oppone tenacemente all’idea, tipicamente sofistica, secondo la quale la competenza politica risulta sostanzialmente generalizzata (avversa in questo modo la tendenza della democrazia ad affidare le cariche pubbliche a chiunque); è anche un cittadino modello, disposto ad accettare addirittura la condanna a morte, pur di non sottrarsi a una decisione della sua città; infine, egli si fa anche portavoce di un certo radicalismo intellettualistico nel campo dell’etica e della morale (vedi p. 90), secondo la presentazione che ne fa Aristotele (e che presenta numerosi punti di contatto con concezioni che lo stesso Platone attribuisce al suo maestro).
Il ‘caso Socrate’
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
La vita Socrate nacque ad Atene nel 470 a.C. da uno scultore e una levatrice, come ci è testimoniato da Platone (Teeteto, 149 A). Trascorse la sua gioventù in quel crocevia culturale che fu l’Atene di Pericle, interessandosi inizialmente alla filosofia del tardo naturalismo ionico (Anassagora) e intrattenendo probabilmente alcuni rapporti con Parmenide e Zenone, nonché con l’ambiente pitagorico. Successivamente abbandonò l’orientamento naturalistico-metafisico per compiere ricerche sugli stessi temi dei sofisti (l’uomo, il linguaggio, la pòlis), attivi in Atene in questo stesso periodo, al punto che molti contemporanei guardarono a Socrate come a un sofista. Con i sofisti Socrate entrò tuttavia presto in polemica, negando recisamente il valore della loro sapienza e della loro educazione, e iniziando a partire dal 430 circa la propria ‘missione educativa’ nei confronti dei suoi concittadini, che ebbe luogo in modo informale (per strada, nelle case, nell’agorà, ossia nella piazza delle assemblee cittadine) e gratuito, a differenza dell’insegnamento sofistico. Durante la guerra del Peloponneso (431-404) prese parte come oplita alle operazioni militari, dando prova di
grande valore. Nonostante il suo atteggiamento di cittadino modello, ebbe rapporti abbastanza problematici, anche se mai veramente conflittuali, con il potere politico, sia democratico che oligarchico. Durante il regime dei Trenta tiranni (404) ebbe il coraggio di opporsi all’ordine di arrestare un loro nemico. Ma dai democratici fu spesso avvertito come un potenziale avversario, anche perché molti dei suoi discepoli furono importanti esponenti della fazione aristocratica. Durante il regime democratico che seguì a quello oligarchico dei Trenta gli venne intentata nel 399, da Anito e Meleto, l’accusa di corrompere i giovani, di non riconoscere le divinità tradizionali e di introdurne di nuove. Il processo politico e l’autodifesa di Socrate, narrati dal suo allievo Platone nell’Apologia, ci mostrano un cittadino-filosofo che, in nome della giustizia e della sottomissione alle leggi del suo Stato, accetta la condanna a morte rifiutando di patteggiare una pena alternativa (come pure sarebbe stato possibile). La sentenza venne eseguita nella primavera dello stesso anno con una bevanda a base di cicuta, che Socrate assunse mentre discuteva con i suoi discepoli sul destino dell’anima.
Si è osservato che le immagini di Socrate sorte immediatamente dopo la sua morte furono diverse e parzialmente contrastanti. Tutte, però, restituiscono aspetti e motivi effettivamente presenti nell’attività e nell’insegnamento di Socrate. Non c’è dubbio, comunque, che la testimonianza più significativa sia quella contenuta nei dialoghi platonici, soprattutto in quelli giovanili, che infatti vengono definiti «dialoghi socratici». Essi non restituiscono solo alcune specifiche concezioni sostenute da Socrate, ma anche (e soprattutto) un elemento centrale della sua attività filosofica: la straordinaria freschezza e mobilità del suo modo di intendere la filosofia. La stessa forma del dialogo – in cui gli interlocutori si incontrano in un ben preciso contesto e iniziano ad affrontare le questioni filosofiche quasi a partire da un grado zero di profondità teorica – rende nel modo migliore il modello di insegnamento socratico. La filosofia come cura Prima di dare avvio all’esposizione del pensiero socratico – almeno nella misura dell’anima in cui esso risulta ricostruibile – occorre fare una premessa di ordine generale. Occorre cioè precisare che l’intero discorso filosofico di Socrate è incentrato intorno a un protagonista ben preciso, un protagonista che aveva già fatto la sua comparsa sulla scena della riflessione greca. Si tratta dell’anima (psychè), alla quale già i pitagorici avevano assegnato una collocazione centrale. Per Socrate ciò che è veramente proprio dell’uomo, il suo sé, non è il corpo, non sono i beni che appartengono a quest’ultimo, bensì l’anima. La filosofia socratica assume i contorni di un grande progetto di cura dell’anima (epimèleia tes psychès). La testimonianza platonica
1 L’Apologia di Socrate
Il programma filosofico socratico Nell’Apologia di Socrate Platone riporta i discorsi che il suo maestro avrebbe pronunciato dinanzi ai giudici, per difendersi dalle accuse che gli erano state mosse. Questo scritto è stato spesso considerato come una sorta di testamento 85
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Parte prima L’età antica
spirituale di Socrate, ma esso è qualcosa di più: l’Apologia espone qualcosa di simile al programma filosofico di Socrate. A proposito di ciò di cui gli uomini devono veramente prendersi cura, Socrate afferma con decisione: «sono andato ad elargire in privato, individuo per individuo, quello che ritengo essere il massimo beneficio: ho cercato di persuadere ognuno di voi a non curarsi di alcuna delle proprie cose prima che di se stesso, del modo di diventare il più possibile buono e saggio, né delle cose della città prima che della città stessa» (Platone, Apologia, 36 C). In questa affermazione è condensato il senso del programma socratico, che sembra consistere nel tentativo di unificare due importanti tradizioni della riflessione precedente: quella pitagorica, dominata dalla cura per l’anima, e quella sofistica, incentrata sui temi della città. Il programma filosofico socratico
La concezione socratica dell’anima
T4
Socrate: l’incantamento della filosofia
Platone, Fedone, 114 D
Tradizione pitagorica Filosofia come cura dell’anima: ricerca della virtù e conoscenza del bene
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Tradizione sofistica Indagine sull’uomo in rapporto alla pòlis: definizione della giustizia e ruolo del cittadino nello Stato
Il sé di cui ciascun uomo dovrebbe primariamente curarsi non è altro che la sua anima. Socrate sembra condividere con i pitagorici tanto l’opinione che l’anima costituisca un’entità diversa ed eterogenea rispetto al corpo, quanto la convinzione che essa sopravviva alla morte del corpo e sia dunque immortale (athànatos). Le ultime ore di vita di Socrate – raccontate da Platone nel Fedone – sono interamente dedicate a convincere i suoi amici che ciò che l’attende, ossia la morte, non è in realtà un male, perché non riguarda ciò che lui ha di più proprio, vale a dire la sua anima. È difficile stabilire se le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima che Platone attribuisce a Socrate in questo dialogo risalgano effettivamente al filosofo, e soprattutto se egli le ritenesse davvero definitive (le considerasse, cioè, vere e proprie dimostrazioni rigorose). Appare però certo che Socrate attribuisca alla credenza nell’immortalità dell’anima un valore morale, perché tale credenza si rivela ai suoi occhi un significativo sostegno al comportamento virtuoso. Poco prima di morire, dopo avere esposto un grande mito relativo ai premi e alle punizioni che attendono le anime degli uomini dopo la morte del corpo, Socrate precisa: Certo insistere a sostenere che le cose stiano proprio così come le ho esposte non si addice a persona che abbia senno; ma che sia così o qualcosa del genere riguardo alle anime nostre e alle loro dimore, dopo che è risultato che l’anima è immortale, questo mi pare si addica e anche che, per chi crede che le cose stiano così, valga la pena correre il rischio – giacché questo rischio è bello –; ed è indispensabile con cose di questo tipo quasi farsi l’incantamento, ed è per questa ragione che da un pezzo mi dilungo in questo mito. Il modo di fare filosofia di Socrate sembra presentarsi come un grandioso incantamento rivolto all’anima degli ascoltatori. Non si tratta però di un incantamento indirizzato agli elementi irrazionali, bensì alla ragione, perché, per Socrate, l’anima è essenzialmente ragione. La filosofia deve dunque persuadere, incantare, indirizzare l’anima verso la scelta della vita giusta.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate L’oracolo delfico
Dai politici agli artigiani
La sapienza come «sapere di non sapere»
T5
Socrate: l’interpretazione dell’oracolo delfico Platone, Apologia, 21 B - 22 E
Nel presentare il proprio percorso filosofico Socrate spiega che esso ha preso inizio avendo un obiettivo preciso: quello di smentire la celebre sentenza dell’oracolo delfico, secondo il quale lui, Socrate, è il più sapiente degli uomini. Dal momento che egli ritiene di non sapere nulla, si mette in cerca di qualcuno che sia effettivamente sapiente, in modo da potere smentire il verdetto divino. Si rivolge allora ai politici, per rendersi subito conto che costoro si reputano sapienti, senza esserlo veramente perché non possiedono una precisa conoscenza intorno a ciò che è bello e buono. Quindi interroga i poeti per valutare il grado di conoscenza che essi hanno delle cose intorno alle quali scrivono; anche in questo caso comprende immediatamente che costoro risultano addirittura meno adeguati di chiunque altro a spiegare il contenuto delle loro opere, dimostrando così che a guidarli non è la sapienza (sophìa) ma semmai la dote naturale (phy`sis) e l’entusiasmo (enthousiasmòs). Infine si indirizza agli specialisti delle arti manuali, vale a dire ai technìtai, per rendersi conto che costoro erano sì sapienti, in quanto dotati di un sapere oggettivo controllabile e riproducibile, ma che perdono ogni diritto a essere considerati tali nel momento in cui pretendono, del tutto illegittimamente, di estendere il campo di applicazione delle loro conoscenze al di là dei limiti fissati dall’oggetto di cui si occupano. La loro è una conoscenza tecnica, che nulla ha a che fare con la virtù. Al termine di questa indagine Socrate si trova dunque costretto a riconoscere la validità del verdetto divino: egli è davvero il più sapiente degli uomini, ma la sua sapienza consiste essenzialmente nel riconoscimento della propria ignoranza, ossia nel «sapere di non sapere», inteso come punto di partenza di ogni indagine che voglia professarsi autenticamente filosofica. Socrate è ignorante esattamente come lo sono coloro che si proclamano sapienti; la sua sapienza dipende dalla consapevolezza della propria ignoranza. Vale la pena leggere questa celebre pagina dell’Apologia. Badate che vi racconto queste cose per spiegarvi finalmente donde è nata la calunnia contro di me. Allorché ho saputo di quel responso [quello che lo decretava il più sapiente degli uomini], naturalmente mi è venuto di riflettere: «Che mai vuol dire il dio, a cosa alluderà? Io per me sono consapevole di non essere affatto sapiente, per cui mi domando che cosa mai intende quando dichiara che sono il più sapiente di tutti: perché senza dubbio non sta mentendo, non gli è lecito». E dopo essere stato a lungo incerto sul significato del responso, alla fine, per quanto malvolentieri, mi decisi all’indagine di cui ora vi dirò. Andai da uno di coloro che hanno fama di essere sapienti, convinto che lì meglio che altrove, con la forza dell’evidenza, avrei potuto smentire l’oracolo: «Vedi, questo qui è più sapiente di me, mentre tu avevi detto che lo ero io». Esaminando dunque costui (non occorre che ne faccia il nome, era ad ogni modo uno dei nostri politici), mi parve che quest’individuo apparisse, sì, sapiente a molti e soprattutto a se stesso, ma non lo fosse realmente. Allora cercai appunto di fargli notare che si credeva sapiente senza esserlo, attirandomi così l’ostilità non solo sua ma di gran parte dell’uditorio. Nel tornarmene via mi resi conto che sì, più sapiente di quell’uomo lo ero: forse nessuno di noi due sapeva alcunché di bello e di buono, ma almeno, mentre lui riteneva di sapere e non sapeva, io non sapevo ma neanche presumevo di sapere: mi sembrava perciò di essere, come minimo, più sapiente di lui per il semplice fatto che, quel che non so, neanche m’illudo di saperlo. Recatomi poi da un altro, scelto fra quelli con fama di essere più sapienti del precedente, ne ricavai la stessa impressione e anche lì mi attirai l’ostilità sua e di parecchi altri. Dopodiché, 87
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già che c’ero, continuai il mio giro. Mi accorgevo sì, con tristezza e preoccupazione, che mi stavo rendendo antipatico, purtuttavia mi sembrava necessario tenere nella massima considerazione la parola del dio: ben occorreva andare da tutti quelli che avessero fama di sapere, tentando di capire il significato dell’oracolo. Per il cane! Ateniesi, vi devo dire la verità: mi è capitato che coloro che godevano della più alta stima risultavano a me, guidato dal dio nella mia ricerca, quasi i più inadeguati, là dove altri ritenuti mediocri erano di fatto più dotati intellettualmente. Bisogna davvero che vi descriva il mio vagabondare, le fatiche enormi affrontate per convincermi dell’irrefutabilità dell’oracolo. Dopo i politici, infatti, sono andato dai tragici, dai compositori di ditirambi e dagli altri poeti, aspettandomi di cogliere in flagrante me stesso, lì, come più ignorante di loro. E prendendo in mano, fra i poemi, quelli che mi parevano più elaborati, chiedevo loro di spiegarmeli, contando fra l’altro di imparare qualcosa. Ho qualche ritegno a confessarvi la verità, o cittadini, ma devo farlo: quasi tutti i presenti, si può dire, commentavano meglio di loro le cose che essi stessi avevano scritto! Non ci volle molto per capire che anche i poeti facevano quel che facevano non per sapienza, ma per un qualche talento naturale e trascinati dall’entusiasmo, come gli indovini e i vaticinatori, i quali dicono appunto molte cose belle, senza però saperne nulla. […] Alla fine andai dai lavoratori manuali: mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E qui non mi sbagliavo, nel senso che possedevano nozioni a me ignote e in ciò erano più sapienti di me. Ma, Ateniesi, scoprii che anche i buoni artigiani incorrevano nello stesso errore dei poeti, ossia per il fatto di esercitare bene la propria arte, ognuno si credeva bravissimo anche in materie di massima importanza, con una presunzione che finiva per offuscare il loro effettivo sapere. Cosicché mi chiesi, per salvare il senso dell’oracolo, se preferivo rimanere così come ero, senza essere sapiente di quel loro tipo di sapienza ma neppure ignorante della loro ignoranza, o di condividerle con loro entrambe. A me stesso e all’oracolo, risposi che mi conveniva rimanere come ero. I limiti dei saperi diffusi e la nuova fondazione della morale
2 La critica dei falsi saperi
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Il risultato della lunga investigazione socratica è dunque negativo. I saperi diffusi nella città o non sono per niente saperi (come quelli del cui possesso si vantano i politici), o sono saperi limitati e irriflessi (come quelli dei poeti), oppure ancora sono circoscritti a un ambito tecnico e non concernono ciò che l’uomo ha di più proprio, ossia la sua anima (come nel caso degli artigiani). Ma questo risultato negativo può venire interpretato come il punto di partenza di ogni ricerca autentica. Il sapere di non sapere socratico si configura, dunque, come il presupposto (libero da presupposti) di qualsiasi indagine il cui scopo sia quello di fondare in modo del tutto razionale un comportamento morale, scelta o decisione che sia.
Il metodo filosofico socratico L’intera attività di Socrate sembra configurarsi come una radicale messa in discussione delle pretese di conoscenza avanzate dalle diverse figure intellettuali del tempo. Egli si impegna a dimostrare che il sapere di cui si vantano i suoi interlocutori (sofisti, uomini politici, poeti, esperti nelle varie tecniche) è un sapere non reale. Tre sono gli strumenti di cui il filosofo si avvale per conseguire que-
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
sto risultato: l’ammissione (ironica) del proprio non sapere, la maieutica e la confutazione (èlenchos). Ironia e maieutica Dichiarandosi ignorante, Socrate costringe i suoi interlocutori a mettere in gioco il loro presunto sapere. Essi non possono tirarsi indietro e infatti espongono con grande sicurezza la loro opinione sulla natura dell’oggetto intorno al quale verte la discussione: la virtù, il bene, il coraggio, la giustizia, la conoscenza. Socrate non si limita però ad ascoltare ciò che costoro hanno da dire. Egli li induce a un lavoro di introspezione, attraverso il quale essi estraggono dalla loro anima le opinioni che vi si trovano, e dichiara che, comportandosi in questo modo, egli è simile a una levatrice, la quale aiuta la partoriente a generare. La confutazione A questo punto entra in scena la procedura confutatoria, per mezzo della quale Socrate dimostra l’inconsistenza di queste opinioni. Lo fa inducendo i suoi interlocutori in contraddizione, mettendo in luce di volta in volta i falsi presupposti da cui le loro risposte dipendono, oppure ancora dimostrando il carattere parziale e non universalizzabile di queste risposte. Il risultato della confutazione socratica consiste nella messa in chiaro della natura solo apparente dei saperi diffusi nella città. Socrate si serve di un procedimento molto simile a quello utilizzato da Zenone (vedi Unità 1, p. 48): in un primo tempo egli accetta la tesi dell’interlocutore, poi ne esamina tutte le implicazioni, e infine la confuta, mettendone in luce l’intima contraddittorietà, oppure l’inaccettabilità delle conclusioni da essa ricavabili (si tratta di una delle possibili versioni del metodo dialettico). La ricerca dell’essenza Gli interlocutori di Socrate non conoscono veramente ciò di cui si pretendono esperti; essi non sono infatti in grado di fornire una definizione dei concetti sui quali ragionano, o meglio non fanno altro che presentare pseudo-definizioni del tutto inadeguate perché incapaci di cogliere il «che cosa è» (ti èsti) della cosa, ossia la sua essenza (ousìa). Quest’ultima deve possedere il carattere dell’universalità (to kathòlou, ma Socrate preferisce parlare di koinòn, cioè di «comune»), deve cioè risultare applicabile a tutti i casi particolari. Viceversa le varie definizioni proposte dai suoi interlocutori, quando non sono autocontraddittorie, risultano parziali e non generalizzabili: per esempio, definire la giustizia come «la restituzione di ciò che è stato prestato» non tiene conto del fatto che colui che ha prestato armi può nel frattempo essere impazzito e dunque causare danni qualora entrasse nuovamente in possesso delle stesse. Se non si conosce esattamente che cosa è una certa virtù, ossia se non si è capaci di fornire un discorso proposizionale (lògos) relativo ad essa, non si può stabilire se un’azione sia o meno virtuosa, vale a dire se soddisfi le condizioni richieste da quella definizione. Se non so che cosa è la giustizia, per esempio, come posso pretendere, oltre che di insegnarla (come molti sofisti facevano), di stabilire se quella determinata azione sia o meno giusta? Il metodo socratico
Ammissione ironica del proprio non sapere
L’interlocutore espone le proprie opinioni
Maieutica
L’interlocutore è indotto all’introspezione
Confutazione
Viene dimostrata l’inconsistenza delle opinioni prima sostenute
Ricerca dell’essenza
Si giunge a una definizione universale (o ‘comune’) dei concetti in gioco
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3 Conoscenza della virtù e comportamento virtuoso
➥ Laboratorio sul lessico, Bene / buono, p. 105
La tesi della virtù come conoscenza e la questione dell’incontinenza
L’intellettualismo etico socratico
La conoscenza del bene implica la sua attuazione
➥ Percorso tematico, p. 415
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Il rapporto tra virtù, conoscenza, felicità L’esigenza, da Socrate costantemente manifestata, di conoscere ciò di cui si parla rinvia a un altro dei motivi centrali della sua riflessione. Secondo Socrate il comportamento virtuoso non può prescindere dal sapere. Solo se si conosce che cosa è la virtù, si possono attuare comportamenti veramente virtuosi, ossia fondati su una piena consapevolezza del proprio agire. Sembra di poter dire che il fondamento di ogni comportamento morale risieda nella conoscenza della virtù corrispondente a questo comportamento. Per essere autenticamente coraggiosi, occorre conoscere che cosa sia il coraggio, perché la virtù – ogni virtù – è collegata in modo inscindibile alla consapevolezza che il soggetto deve possedere nell’atto di agire. Essere coraggiosi senza saperlo equivale a non esserlo affatto, tanto che Socrate arriva a formulare il paradosso in base al quale è preferibile fare il male volontariamente piuttosto che il bene in modo inconsapevole (appunto in considerazione del fatto che, per lui, chi conosce il bene, è irresistibilmente portato a farlo). Su questo punto è però opportuno soffermarsi brevemente. Sembra che per Socrate la conoscenza della virtù (e dunque del bene) sia di per sé sufficiente a essere virtuosi e buoni. Chi conosce il bene non può non attuarlo; se assume comportamenti non virtuosi, è solo perché non sa che cosa siano la virtù e il bene. Si tratta della controversa tesi secondo la quale «la virtù è conoscenza», una tesi che valse a Socrate l’accusa, mossagli da Aristotele, di avere ignorato il fenomeno dell’incontinenza o debolezza della volontà (akrasìa), che fa sì che, pur conoscendo il bene, spesso gli uomini mettano in atto comportamenti malvagi (o comunque non virtuosi) secondo il motto latino: video meliora, proboque, deteriora sequor («riconosco le cose migliori, le approvo, ma poi seguo le peggiori»). Secondo Socrate la forza di attrazione del bene risulta così pressante che è sostanzialmente impossibile sottrarvisi. La ragione per cui si compie il male risiede nell’ignoranza del bene: se un certo individuo si comporta ingiustamente, è perché non conosce che cosa sia la giustizia; se lo sapesse, non potrebbe che attuarla. Questa forma di intellettualismo (l’intelligenza, ossia la conoscenza, è sufficiente alla virtù) comporta, come detto, una serie di paradossi, divenuti celebri. Uno di questi recita: «nessuno compie il male volontariamente», che implica appunto la tesi secondo la quale l’errore morale dipende in ultima analisi da un deficit conoscitivo. Si tratta di posizioni effettivamente sostenute da Socrate nei dialoghi di Platone; esse rinviano, come detto, alla convinzione che il bene, una volta conosciuto razionalmente, non possa che venire attuato praticamente. Per questo, se l’uomo compie il male, lo fa solo per ignoranza del bene. Se un certo individuo sa che x è per lui bene, compie x; se egli mette invece in atto l’azione y, è perché crede erroneamente che y sia per lui un bene. Scegliendo y anziché x, egli reputa erroneamente che y gli procurerà più piaceri di x; in questo modo, un simile individuo risulta vittima di una sorta di confusione, prodotta in realtà dalla sua ignoranza intorno a ciò che è per lui veramente bene. Si tratta dell’errore tipico in cui incorre, per esempio, l’edonista, il quale crede che sia per lui bene abbuffarsi di cibo e non tiene conto (per ignoranza) dei danni che un simile comportamento è destinato a procurargli.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate Conoscenza del bene e comportamento virtuoso
Assioma
Corollario 1
Corollario 2
Se x è un bene e A lo conosce, allora A (necessariamente) compie x (intellettualismo etico di Socrate: conoscenza → bene)
Se A non compie x, allora o x non è un bene oppure A non lo conosce (se si conosce il bene è impossibile non compierlo)
Se y è un male e A compie y, allora A crede erroneamente che y sia un bene (se si compie il male è solo per ignoranza del bene)
Quanto detto finora a proposito del bene e della virtù deve essere riferito, come si è visto all’inizio, non al corpo bensì all’anima, che costituisce il vero protagonista del discorso socratico. Socrate non parla di un bene del corpo o di una virtù del corpo, ma del bene e della virtù dell’anima. Il suo ragionamento dovette essere pressappoco il seguente: gli uomini desiderano essere felici; in effetti il conseguimento della felicità costituisce il fine di ogni comportamento (in questo senso Socrate si pone all’origine delle etiche eudaimonistiche, le quali sostengono che il fine dell’azione risiede nell’acquisizione della eudaimonìa, cioè della felicità); la felicità non è separabile dal bene; e in particolare da ciò che è buono per l’anima, visto che il sé dell’uomo è rappresentato dalla sua anima; dunque, per essere felici, si deve essere buoni e virtuosi, ossia realizzare il bene dell’anima, che si identifica con la virtù. Virtù e felicità tendono, per Socrate, a coincidere, e in ogni caso formano una coppia di elementi non separabili. Il problema dell’unità Un altro tema centrale della riflessione socratica dovette essere quello dell’unità della virtù della virtù. Egli si chiese se la virtù è unica oppure se esistono molte virtù tra loro diverse: saggezza, coraggio, giustizia, santità, temperanza sono nomi diversi di una medesima cosa, la virtù appunto, o sono invece parti di un concetto generale, oppure ancora entità indipendenti l’una dall’altra? La risposta socratica fu probabilmente articolata e non priva di una certa raffinatezza. Egli sostenne la tesi secondo la quale esiste una sorta di coimplicazione pragmatica tra le virtù. In parole più semplici, affermò che le virtù sono diverse l’una dall’altra per quanto concerne il loro contenuto concettuale (la definizione del coraggio, per esempio, è diversa da quella della giustizia o della temperanza); tuttavia, le virtù nella pratica si implicano, nel senso che chi ne possiede una, possiede anche le altre: non si può essere coraggiosi, senza contemporaneamente essere anche giusti e temperanti. Noi diremmo che l’unità della virtù va intesa in senso estensionale e non intensionale: la virtù non è unica in senso intensionale (perché le definizioni delle singole virtù sono differenti), ma l’estensione è la stessa, perché pragmaticamente, ossia nei casi concreti, l’individuo coraggioso è anche temperante e giusto, dal momento che le virtù nella prassi si implicano vicendevolmente. Il «dèmone» socratico Tra l’anima, la virtù e il bene sembra che Socrate collocasse un’altra, importante figura teorica. Si tratta del celebre dèmone (daimònion), al quale egli deve la pesante accusa di introdurre nuove divinità. Socrate allude infatti a una sorta di voce interiore (precorritrice forse della nostra coscienza), derivante direttamente dalla divinità, che lo mette in guardia dal compiere determinate azioni. Leggiamo, a pagina seguente, quanto Socrate racconta, per esempio, a proposito della rinuncia a svolgere direttamente attività politica. La convergenza di virtù e felicità
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Quel qualcosa di divino e demoniaco… Platone, Apologia, 31 C-D
Potrà sembrare forse strano, che io vada in giro e mi impicci degli affari altrui dando i miei consigli in privato, mentre in pubblico non oso farmi avanti, al cospetto della vostra assemblea, per consigliare la città. Il motivo di questo comportamento, cui mi avete sentito accennare spesso e in più luoghi, è che c’è in me qualcosa di divino e demoniaco (a questo certo si sarà riferito Meleto, prendendosi gioco di me, nel testo dell’accusa). Mi capita fin da quando ero ragazzo, sotto forma di una specie di voce che, quando si fa sentire, è sempre per distogliermi dal fare quello che sto per fare, mai per incitarmi. È questo che si oppone a che io mi impegni nell’attività politica. Con il richiamo al dèmone Socrate pare collegare l’ambito dell’anima, di cui il dèmone sembra rappresentare una sorta di parte o istanza divina, a una dimensione superiore, quasi a stabilire una relazione privilegiata tra la ragione e la divinità. Per Socrate, dunque, il fine dell’azione consiste nel conseguimento della felicità. E tale acquisizione dipende dalla conoscenza – e dalla conseguente inevitabile messa in pratica – della virtù e del bene (magari prestando ascolto alla voce divina del dèmone).
4 Che cosa è il bene?
Il bene come ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale
Il dialogo: attuazione della ricerca filosofica e strumento maieutico
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Il bene, la vita e la felicità del filosofo Ma che cosa è il bene che l’uomo dovrebbe conoscere e attuare? Che cosa è la virtù corrispondente a questo bene? Finora non lo si è detto. Si tratta però di un silenzio non dipendente da una nostra colpa, perché è Socrate stesso a non avere definito chiaramente il bene. Egli preferisce impegnarsi a confutare i punti di vista dei suoi interlocutori piuttosto che sostenere una tesi in forma assertoria. Ma ciò non significa che non avesse un’opinione precisa sulla natura del bene. In un passo dell’Apologia questa opinione emerge in maniera abbastanza esplicita laddove il filosofo afferma: «Ancora meno mi crederete se vi dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere o esaminare me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo» (Platone, Apologia, 38 A). Ecco dunque il bene al quale deve aspirare ogni uomo: la ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale; una ricerca che metta in gioco tutti i presupposti, che non sia mai paga dei risultati di volta in volta conseguiti, comporta già di per sé l’acquisizione della virtù e del bene, perché, come Socrate dichiara, una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Si comprende allora la scelta socratica del dialogo come strumento della ricerca del bene e della virtù. Si tratta di uno strumento che nella concreta attività filosofica di Socrate rischia di identificarsi con il fine per il quale viene utilizzato. Ma per Socrate il dialogo non è solo il movimento effettivo della filosofia, intesa come ricerca incessante delle condizioni razionali dell’agire in modo virtuoso. Esso è il metodo che consente di estrapolare dall’anima degli interlocutori ciò che di autentico essa nasconde. Socrate dichiara, come si è visto, di non avere opinioni proprie, ma di essere capace, come una levatrice, di aiutare a nascere
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Il lascito: il modello di vita socratico
La testimonianza di Senofonte
L’accusa di Antifonte
Gli argomenti di Socrate
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Socrate contro Antifonte: la felicità del filosofo Senofonte, Memorabili, 1,6
le opinioni degli altri. In questo senso la filosofia socratica si configura come maieutica, ossia esercizio di recupero di quella dimensione veritativa (cioè razionale e virtuosa) che si cela dentro ciascuno di noi. Come si sarà capito, l’eredità socratica si presenta, da un lato, davvero imponente, ma, dall’altro, estremamente difficile da gestire. Socrate incarna per secoli il modello della vita filosofica, ossia il bìos philosophikòs (un modello di vita opposto al tipo di vita attiva del politico). Nella sua stessa vicenda biografica è del resto facilmente leggibile lo scontro con la città, i suoi valori, le sue dinamiche associative e i suoi meccanismi di consenso. Socrate è stato dunque per secoli il modello del saggio isolato, messo a morte dalla città, ma mai veramente sconfitto dai suoi tribunali. Questo tipo di eredità è raccolto in larga parte dalle scuole socratiche (vedi p. 95) e attraverso di esse passa nella filosofia ellenistica, dominata dalla figura del saggio autarchico. Tuttavia, questa immagine isolata e autosufficiente della saggezza è anche avvertita come la ragione della sconfitta storica del socratismo. In questa direzione si muove il maggiore degli allievi di Socrate, Platone, il quale tenta di ricalibrare l’insegnamento del maestro in direzione di un progetto complessivo in cui la virtù del singolo individuo sia inserita in un quadro più ampio, quello della città giusta: l’etica (l’esistenza virtuosa dell’individuo) troverà allora compimento nella politica (la vita associata con gli altri uomini). Lo storico ateniese Senofonte (430-355 a.C.) fu uno dei principali allievi di Socrate, e nei suoi Memorabili offrì una preziosa testimonianza della vita e del pensiero del maestro. Sebbene assai meno filosoficamente profonda dell’interpretazione che di Socrate dette Platone, la testimonianza di Senofonte fornisce l’immagine di un Socrate ‘morale’ che influenzò profondamente le successive generazioni di socratici ‘minori’ (s’intende rispetto a Platone). Nel dialogo con il grande sofista Antifonte riportato sotto, Socrate si difende dall’accusa di essere un «maestro di infelicità» perché è povero, non ha alcun successo sulla scena sociale, non monetizza il suo insegnamento vendendolo dietro compenso. A queste accuse Socrate risponde con una serie di argomenti, centrati sull’idea della libertà e dell’autonomia del saggio, che con la sobrietà della sua vita si mette al riparo dal ricatto della ricchezza e dei piaceri. Riducendo i falsi bisogni, il filosofo si libera dalla dipendenza sociale, può dedicarsi ai veri amici e al bene della comunità, ai piaceri semplici di una vita sobria. La «virtù» del saggio gli garantisce così la vera felicità, che non consiste nel possesso e nel consumo di ricchezze, ma nell’autonomia, nella radicale libertà di pensiero e di azione. Queste convinzioni socratiche influirono profondamente sulla morale dei cinici e successivamente su quella degli stoici. Leggiamo dunque il brano. Merita anche che non si dimentichino le sue discussioni con Antifonte sofista. Antifonte infatti una volta si recò da Socrate con l’intenzione di portargli via i compagni e, alla presenza di questi ultimi, gli disse: «Io pensavo che quelli che si dedicano alla filosofia, o Socrate, dovessero diventare più felici; ma mi pare che dalla filosofia tu ottenga risultati opposti. Per esempio, tu conduci un tipo di vita, come non la sopporterebbe neanche uno schiavo messo a rigore dal padrone. Mangi e bevi cibi e bevande modestissimi, indossi un mantello che non solo è di cattiva qualità, ma è lo stesso estate e inverno e vivi costantemente senza scarpe e senza chitone [la tunica]. E per di più non accetti il denaro, che porta 93
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gioia a chi lo acquista e fa vivere in modo più conveniente a un uomo libero e più piacevole chi lo possiede. Se dunque, come i maestri delle altre discipline fanno diventare i propri scolari loro imitatori così intendi anche tu con i tuoi, sappi che sei un maestro di infelicità». E Socrate in risposta: «Mi pare, o Antifonte, che tu presuma che la mia vita sia così insopportabile, che sono sicuro tu preferiresti morire piuttosto che vivere come me. Allora, via, vediamo che cosa hai trovato di tanto brutto nella mia vita. Forse il fatto che mentre quelli che accettano denaro hanno l’obbligo di fare ciò per cui sono pagati, io invece, che non ne accetto, non sono costretto a discorrere con qualcuno se non lo voglio? O disprezzi il mio stile di vita perché mangio alimenti meno sani di te o che danno meno vigore? O perché i miei cibi sono più difficili da reperire dei tuoi, in quanto rari e pregiati? O perché quelli che ti procuri ti danno più piacere di quanto ne diano a me i miei? Non sai che colui che mangia con più appetito ha meno bisogno del condimento e chi beve con più gusto prova meno desiderio della bevanda che non c’è? Quanto poi ai mantelli, tu sai che quelli che li cambiano lo fanno per via del caldo e del freddo, e indossano calzature perché i piedi non siano impediti nel camminare da qualcosa che possa far loro dolore. Hai mai notato allora che io sia rimasto a casa più a lungo di altri per via del freddo, o che a causa del caldo abbia litigato con qualcuno per l’ombra, o che non sia andato dove volevo perché avevo male ai piedi? Non sai che, se si esercitano, quelli che sono fisicamente più deboli, negli esercizi in cui hanno fatto allenamento, diventano superiori ai più robusti, che non si sono allenati? E non pensi che io, che mi esercito a sopportare qualunque cosa capiti al mio corpo, sia capace di sopportare tutto più facilmente di te, che non fai questo esercizio? Credi che ci sia qualcosa di meglio per evitare la schiavitù del ventre, del sonno e della lascivia che non avere altri piaceri, più gradevoli dei primi e tali che non procurino gioia solo nel momento in cui li si vive, ma offrano anche speranza di benefici durevoli? Tu sai certamente che quelli che credono che niente andrà bene per loro, non provano gioia, ma quelli che pensano che le cose procederanno per loro con successo, nell’agricoltura, nella navigazione, o in qualsiasi altra opera si trovino a intraprendere, essi sono contenti perché si aspettano un buon esito. Credi dunque che da tutti questi godimenti ti verrà un piacere tanto grande quanto quello che viene dall’idea di pensare di migliorare se stessi e di acquistare amici migliori? Io vivo appunto con questo pensiero. Se poi gli amici o la città hanno bisogno di aiuto, ha forse più disponibilità per impegnarsi in questo, chi vive come me ora o chi vive nel modo che tu definisci felice? Chi potrebbe partecipare a una spedizione militare con più facilità, chi non può vivere senza uno stile di vita lussuoso o uno a cui basti quello che c’è? E chi si potrebbe espugnare più in fretta, chi ha bisogno delle cose più difficili da reperire o chi si contenta di utilizzare ciò che è più facile da ottenere? Mi sembra, o Antifonte, che tu creda che la felicità sia lusso e ricercatezza, io credo invece che non avere bisogno di niente sia proprio degli dei e l’aver bisogno del meno possibile sia la condizione più vicina al divino e siccome il divino è il migliore, ciò che è più vicino a lui è più vicino al migliore». In un’altra discussione con Socrate Antifonte disse: «O Socrate, io penso tu sia un uomo retto, ma sapiente proprio per nulla. E mi sembra che tu stesso te ne renda conto; infatti non accetti denaro in cambio della tua compagnia. Tuttavia certamente il mantello, la casa o qualunque altra cosa possiedi, poiché pensi che valga del denaro, non la cederesti a nessuno, non dico gratis, ma neanche rice94
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vendo un prezzo inferiore al suo valore. È chiaro dunque che se attribuissi un qualche valore alla tua compagnia, anche per essa pretenderesti un prezzo corrispondente al valore. Perciò tu puoi ben essere giusto, perché non imbrogli per avidità, ma sapiente no, perché ciò che tu sai non vale nulla». E Socrate rispose: «O Antifonte, presso di noi è convinzione diffusa che della bellezza e della sapienza allo stesso modo si possa disporre in maniera decente e indecente. Se uno vende infatti la sua bellezza per denaro a chi la vuole, lo chiamano prostituta, se uno invece si fa amico qualcuno che sa essere amante virtuoso, lo giudicano assennato. Lo stesso vale per quelli che mettono in vendita la propria sapienza a chi la vuole in cambio di denaro: li chiamano sofisti; invece chi insegna ciò che ha in sé di buono a uno che conosce essere naturalmente dotato e se lo fa amico, pensiamo che costui faccia quello che conviene a un cittadino e a un gentiluomo. Come un altro, o Antifonte, si compiace di un bel cavallo, o di un cane o di un uccello, così, e ancora di più, io traggo piacere dai buoni amici, e se so qualcosa di buono lo insegno loro e li introduco presso altre persone dalle quali credo otterranno benefici per il conseguimento della virtù; e i pensieri preziosi dei sapienti del passato, che essi hanno lasciato scritti sui loro libri, li ripercorro leggendoli e commentandoli con gli amici. E quando troviamo qualcosa di valido, lo scegliamo e consideriamo un gran guadagno il diventare reciprocamente amici». Certo quando sentivo questi discorsi mi pareva che egli fosse felice e che conducesse i suoi ascoltatori alla virtù.
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L’eredità di Socrate: le cosiddette «scuole socratiche»
Platone è senza dubbio il più importante dei discepoli di Socrate, ma non l’unico. Come detto, l’eredità del socratismo è complessa e articolata. Essa ha dato vita a delle correnti di pensiero autonome, le quali riprendono e sviluppano motivi effettivamente presenti nell’insegnamento del maestro. Si è soliti indicare questi indirizzi con l’espressione «scuole socratiche», aggiungendo spesso l’aggettivo «minori» (ovviamente allo scopo di distinguerle da Platone e dalla sua scuola). In generale va osservato che tali scuole (ma sarebbe più corretto parlare di indirizzi di pensiero) recuperano l’eredità individualista della riflessione socratica, concentrando quasi tutte la loro attenzione sull’idea del saggio, inteso come figura autonoma e indipendente nei confronti sia dei beni esterni sia delle istituzioni cittadine. La ricerca Il più anziano dei discepoli «minori» di Socrate è probabilmente Antistene dell’universale (436 ca. - 366 ca. a.C.). Egli si concentra in particolare su due aspetti dell’indi Antistene segnamento socratico: la ricerca dell’universale, ossia della definizione delle realtà intorno alle quali verte la discussione (la virtù, il bene, l’uomo ecc.), e l’idea del saggio come individuo autarchico, privo di bisogni e di ambizioni. Lo studio del problema della definizione, ossia la ricerca del «che cosa è» ciascuna cosa, lo porta a negare la possibilità stessa di formulare vere e proprie definizioni universali. Sembra che sia arrivato a sostenere che di ogni cosa è legittimo solo ripetere il nome, senza pretendere di fornirne una definizione. Si scaglia dunque contro la teoria platonica delle idee (vedi Unità 3, p. 132 ss.), affermando, secondo una testimonianza, «o Platone, vedo il cavallo, ma non la cavallinità».
Le scuole socratiche minori e l’idea del saggio
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Nel campo della morale Antistene sostiene un ideale molto radicale, che, partendo dall’identità tra virtù e felicità (stabilita da Socrate), nega con decisione la desiderabilità dei beni esterni (la ricchezza, la bellezza ecc.). Ancora più in là si spinge il suo allievo Diogene di Sinope (413-323 ca. a.C.), al quale si deve il nome di «cinismo», che solitamente viene usato per indicare questo movimento. Sembra che Diogene conducesse un’esistenza simile a quella dei cani (in greco ky`on, da cui il nome «cinici»), noncurante delle consuetudini e delle norme civili: era solito mangiare e bere senza ciotola e addirittura svolgere davanti a tutti le proprie funzioni fisiologiche. Al di là di questi aneddoti, l’elemento più significativo dal punto di vista filosofico consiste nel rifiuto delle convenzioni (e dunque delle dinamiche associative ad esse connesse) e nella fiducia assoluta attribuita alla virtù interiore, intesa come unica via per il conseguimento della felicità. L’edonismo di Aristippo Apparentemente diverso è il percorso intrapreso da Aristippo di Cirene (in Libia, e dei cirenaici 435-366 a.C.) e dal movimento che a lui si richiama (quello dei cirenaici). Anche Aristippo partì dall’equazione socratica tra virtù e felicità, ma ne ricava conclusioni sostanzialmente opposte a quelle dei cinici. Socrate aveva stabilito che il bene possiede una forza di attrazione alla quale non è possibile resistere (tanto che, per lui, la conoscenza del bene costituisce una garanzia della sua realizzazione); Aristippo osserva che il bene al quale gli uomini tendono è rappresentato dal piacere (hedonè), che costituisce dunque il principale centro di attrazione dei comportamenti individuali: bene e piacere perciò vanno senz’altro identificati. Per questo si è soliti vedere in Aristippo il primo rappresentante della tradizione edonistica dell’etica greca, destinata a venire sviluppata e approfondita nel corso dell’ellenismo da Epicuro (vedi Unità 6). Tutto ciò sembra fortemente antisocratico; occorre però precisare che per Aristippo l’uomo non deve essere dominato dai piaceri, bensì dominarli, ossia non diventarne mai schiavo, ma saperne godere, restando padrone di se stesso (e quest’ultimo motivo lo riconduce nell’alveo del socratismo).
Da Antistene a Diogene: il cinismo
Le scuole socratiche
Antistene
Diogene
Indirizzo cinico Ricerca dell’universale
Rifiuto dei beni esterni
Rifiuto delle convenzioni e perseguimento della sola virtù interiore
Aristippo
Cirenaici e tradizione edonistica
Bene = piacere, controllo di sé
Ricerca del piacere
Indirizzo cirenaico
Centralità e autonomia del saggio
➥ Sommario, p. 98
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Al di là delle autonome prospettive sviluppate, il tratto che accomuna le scuole socratiche minori risiede senza dubbio nella centralità attribuita all’individuo e nell’idea che il saggio sia autonomo dalle istituzioni cittadine e dal corso degli eventi esterni. Proprio a questo livello si situa ciò che del socratismo è destinato a essere ereditato dalle filosofie ellenistiche.
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate Suggerimenti bibliografici Per un’introduzione agile ed esaustiva vedi G.B. Kerferd, I sofisti, il Mulino, Bologna 1997. Un’ampia e distesa trattazione dell’intera sofistica è offerta da M. Untersteiner, I sofisti, Bruno Mondadori, Milano 1996 (seconda edizione ampliata e riveduta). Un’ormai classica introduzione al pensiero socratico, precisa e sintetica, è quella di F. Adorno, Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1999 (nuova edizione ampliata e aggiornata). Prospettive ardite e stimolanti sono offerte in G. Vlastos, Socrate. Il filosofo dell’ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998. I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Teeteto, trad. di L. Antonelli, Feltrinelli, Milano 1994. Platone, Gorgia, trad. di G. Zanetto, BUR, Milano 1994. Crizia, Sisifo, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 20048. Platone, Fedone, trad. di P. Fabrini, BUR, Milano 1996. Platone, Apologia, trad. di M.M. Sassi, BUR, Milano 1993. Senofonte, Memorabili, trad. di A. Santoni, Rizzoli, Milano 1989.
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Parte prima L’età antica
Sommario 1. IL
LUOGO DELLA FILOSOFIA:
ATENE
Dalla seconda metà del V secolo fino alla prima parte del IV secolo a.C. lo sviluppo della filosofia risulta strettamente dipendente dai mutamenti politici e culturali che ebbero luogo ad Atene. In particolare, lo sviluppo in senso democratico della pòlis (culminato con Pericle) apre la strada a una folta schiera – abbastanza eterogenea quanto a orientamenti teorici e metodologici – di ‘professionisti della politica’, i sofisti. Al centro del loro insegnamento, rivolto ai giovani che volessero (e potessero) intraprendere la carriera politica, vi è la retorica, ossia l’arte di persuadere l’interlocutore. La riflessione filosofica dei sofisti risulta incentrata sull’uomo e sul suo rapporto con la pòlis. Ciò determina una certa rottura con la stagione filosofica dei presocratici, interessati soprattutto alla natura. 2. I
SOFISTI
Il tema della centralità dell’uomo trova in Protagora, il sofista più celebre assieme a Gorgia, la sua piena teorizzazione. La sua sentenza «di tutte le cose è misura l’uomo» esprime una forma di relativismo sia conoscitivo, secondo il quale non esistono verità assolute, sia etico, secondo il quale non esistono norme morali o giuridiche valide per ogni cultura o società. Compito del sofista è dunque quello di educare gli uomini a scegliere l’opzione (teorica o pratica) più conveniente rispetto alle circostanze concrete; il sofista deve quindi adottare una forma di pragmatismo. L’orientamento democratico di Protagora lo porta anche a sostenere che tutti gli uomini possiedono la virtù politica, e che dunque tutti sono in grado di accedere alle cariche pubbliche. [par. 1] La riflessione filosofica di Gorgia si incentra soprattutto su due questioni (interrelate): la polemica contro la scuola eleatica e la riflessione sulla natura del linguaggio e le sue potenzialità. Quanto alla prima questione Gorgia sostiene, contro gli eleati e in particolare Melisso, la tesi dell’inesistenza, inconoscibilità e incomunicabilità dell’essere. Quanto alla seconda, egli sostiene una sostanziale incommensurabilità tra linguaggio e realtà che, lungi dall’essere una limitazione per la parola, fonda il potere stesso della parola di creare universi indipendenti dalla realtà, all’interno dei quali la retorica può plasmare l’animo dell’ascoltatore. [par. 2] Uno dei nodi teorici attorno a cui si orienta la riflessione di molti sofisti è quello del rapporto tra natura (phy`sis) e legge (nòmos). Sebbene tutti i sofisti accettino la distinzione tra questi due concetti, diverse sono le loro concezioni riguardanti il cittadino, il potere, la funzione delle leggi. Antifonte sostiene un sostanziale conflitto tra tendenze naturali umane e norme giuridiche e vede lo Stato come il risultato di un «patto di 98
non aggressione» stipulato tra gli uomini. Posizioni più radicali sono quelle di Callicle, per cui le leggi sono una perversione dell’ordine naturale; di Trasimaco, per cui la giustizia consiste nell’utile del più forte; di Crizia, per cui la religione è uno strumento di potere. [par. 3] 3. SOCRATE
E LA FILOSOFIA
Socrate non scrisse nulla. Il suo pensiero deve perciò essere ricostruito dai resoconti della sua vita e dei suoi discorsi. Il ‘caso Socrate’ è inoltre complicato dal fatto che anche il suo pensiero è difficilmente incasellabile: se è vero che egli pone al centro della sua riflessione la cura dell’anima, è anche vero che il suo programma e il suo metodo filosofico si prestano a interpretazioni divergenti. La cura per Socrate significa anzitutto rendere prima se stesso e poi i propri concittadini più buoni, più saggi, più giusti. Concezione che poggia su una dottrina dell’immortalità dell’anima. Questo programma viene realizzato a partire dalla sentenza dell’oracolo delfico secondo la quale Socrate sarebbe l’uomo più sapiente; interpretata nel senso che egli è consapevole della propria ignoranza, alla luce del detto di «sapere di non sapere». [par. 1] A partire da questo nodo, Socrate sviluppa il suo metodo filosofico per eccellenza: il dialogo, condotto rigorosamente attraverso domande e risposte. Grazie ad esso egli può mostrare la falsità e l’inconsistenza dei saperi diffusi. Operazione che realizza attraverso gli strumenti dell’ironia, a iniziare dall’esplicita dichiarazione di ignoranza, della maieutica, con la quale aiuta figurativamente l’interlocutore a partorire le opinioni insite nella propria anima, e infine della confutazione, ovvero della demolizione delle tesi avversarie. In questo procedimento resta centrale la ricerca di una definizione dei concetti in grado di cogliere l’essenza della cosa, ovvero il carattere universale o ‘comune’ del concetto in gioco. [par. 2] Sul piano morale, Socrate stabilisce una fondamentale coincidenza tra sapere e bene, tale per cui la conoscenza, ovvero la verità, conduce necessariamente ad agire bene (intellettualismo etico). La virtù inoltre tende a coincidere per Socrate con la felicità. [par. 3] Rispetto al concetto del bene cui aspirare, Socrate sostiene infine una posizione tale per cui è la stessa ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale a determinare la meta ultima della sua filosofia e del suo stile di vita. [par. 4] Eredi del pensiero e del modello socratico di vita filosofica sono sia la scuola cinica di Antistene e Diogene, incentrata soprattutto sulla ricerca della virtù interiore, sia quella di Aristippo e dei cirenaici, per i quali il bene coincide con il piacere (edonismo). [par. 5]
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Parole chiave Agnosticismo (dal greco a-, prefisso che indica privazione, e gnòsis, «conoscenza»). Dottrina filosofica che afferma l’incapacità umana di conoscere l’assoluto, in quanto fuori dalla portata della ragione. Per quanto riguarda gli dèi – sostiene l’agnostico – non possiamo affermare con certezza né la loro esistenza né la loro inesistenza, poiché entrambe queste risposte vanno al di là delle capacità della ragione. Anima (in greco: psychè). L’oggetto principale della filosofia socratica in quanto ‘cura dell’anima’. Per Socrate, che riprende in questo l’insegnamento pitagorico, l’anima costituisce un’entità diversa ed eterogenea rispetto al corpo ed è immortale. Essa è vista come ciò che costituisce il vero ‘sé’ di ogni individuo, ciò di cui ogni individuo dovrebbe primariamente prendersi cura. Confutazione. Procedimento attraverso cui Socrate, nel corso del dialogo, arriva a mostrare l’insostenibilità della tesi dell’interlocutore, o perché essa ha conseguenze assurde o perché si rivela contraddittoria rispetto ad altre tesi sostenute dall’interlocutore stesso. Definizione. Espressione verbale che coglie l’essenza di ciò che è l’oggetto della discussione. Socrate spinge continuamente l’interlocutore a fornire una definizione che abbia il carattere dell’universalità, ossia che possa essere applicabile a ognuno dei singoli oggetti che ricadono sotto il concetto di cui si sta parlando. Dialogo (dal greco diàlogos). Per Socrate il dialogo è il metodo stesso della filosofia. In esso l’interlocutore viene stimolato continuamente a precisare le proprie tesi al fine di stabilirne la validità o meno, in un processo di ricerca della verità che si configura come mai finito. Essenza (in greco: ousìa). È il «che cos’è» di un cosa, ciò che fa sì che una cosa sia quello che è; in altri termini, ciò che è comune a un certo insieme di cose. Ironia (dal greco eironèia). È l’atteggiamento attraverso cui Socrate si pone di fronte al proprio interlocutore fingendosi assolutamente ignorante in merito all’argomento che verrà affrontato nel corso del dialogo. Linguaggio (in greco: lògos). Per il sofista Gorgia l’incommensurabilità tra il linguaggio e il reale, ossia l’incapacità del linguaggio di rendere conto della realtà delle cose e di rapportarsi ad esse, lungi dal costituire una limitazione per il linguaggio, rappresenta il suo punto di forza. Il linguaggio difatti, svincolato dalla realtà, è assurto a strumento principe per la costruzione di ‘universi paralleli’, capaci di stimolare in
molteplici modi l’anima dell’ascoltatore. Anche in Socrate il linguaggio ha un ruolo centrale in quanto strumento per il dialogo; esso è però teso non alla persuasione ma alla conoscenza della verità. Maieutica (dal greco maieutikè tèchne, «arte ostetricia»). In senso figurato, tecnica del dialogo socratico. Attraverso domande precise Socrate cerca di far ‘partorire’ all’interlocutore quelle conoscenze che sono già presenti nella sua anima ma che egli non sa di possedere. Il termine allude anche al fatto che la ricerca della verità può essere un processo doloroso, nel senso che non siamo facilmente disposti a disfarci delle nostre credenze. È significativo che la madre di Socrate fosse una levatrice. Pòlis. «Città-stato» della Grecia classica. Le pòleis sorgono attorno al VII-VI secolo a.C. e sono caratterizzate dai sistemi di governo più disparati. Atene, in particolare, costituisce nella sua fase di transizione democratica (V-IV secolo a.C.) il principale teatro in cui si sviluppa la filosofia dei sofisti e di Socrate. Relativismo / Pragmatismo. Il relativismo rifiuta l’esistenza sia di verità assolute sia di norme valide universalmente; nel primo caso si parla di relativismo teoretico o conoscitivo; nel secondo di relativismo morale. L’atteggiamento relativista, adottato da Protagora, lo condusse a sostenere una forma di pragmatismo: individui e comunità non debbono mirare ad assumere delle decisioni che siano «vere», ma piuttosto che risultino infine utili ed efficaci rispetto agli obiettivi perseguiti. Retorica (dal greco retorikè tèchne, «arte dell’eloquenza»). L’eloquenza come disciplina del parlare o dello scrivere bene, finalizzata alla persuasione dell’interlocutore. In quanto tale costituisce il nucleo dell’insegnamento impartito dai sofisti e la sua potenza viene esaltata sia da Protagora che da Gorgia. Virtù (in greco: aretè). In generale, essa rappresenta nel pensiero della Grecia classica ciò che rende qualcosa o qualcuno ciò che dovrebbe essere, ossia che realizza la sua essenza. Nell’ambito della filosofia socratica l’essenza dell’uomo, ciò che egli ha di veramente proprio, è la sua anima, che ha un carattere razionale. La virtù per Socrate si configura dunque come conoscenza del bene, da ricercare tramite il metodo del dialogo con tutti gli strumenti che esso comporta. Vita filosofica. Lo stile di vita del saggio, dedito alla ricerca filosofica. Socrate, seguito poi dalle scuole socratiche minori, incarna il modello di tale stile di vita, sostenendo che la ricerca della verità è ciò che, sola, rende la vita degna di essere vissuta. 99
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Parte prima L’età antica
Questionario IL
LUOGO DELLA FILOSOFIA:
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2
I
ATENE
Come sono da mettere in relazione tra loro l’evoluzione in senso democratico delle pòleis nel V secolo a.C. e il diffondersi dell’insegnamento sofistico? (max 5 righe) Quali discipline erano al centro dell’insegnamento dei sofisti e a chi si rivolgevano? (max 3 righe)
SOFISTI
3
4
In che senso la famosa affermazione di Protagora secondo cui «di tutte le cose è misura l’uomo» può essere considerata una professione di relativismo? (max 2 righe) Attraverso quale genere di argomento Protagora difese la propria concezione democratica della politica? (max 2 righe)
5
Qual è il rapporto tra il linguaggio e la realtà secondo Gorgia e cosa ne consegue dal punto di vista dell’utilizzo della lingua? (max 3 righe)
6
Come si configura il rapporto tra natura (phy`sis) e legge (nòmos) nel pensiero di Antifonte e cosa consegue da tale rapporto? (max 4 righe)
7
8
In che senso le posizioni di Callicle e Trasimaco rappresentano, ognuna a modo proprio, delle posizioni estreme rispetto alla natura delle leggi? (max 5 righe) Illustra brevemente la tesi sostenuta da Crizia riguardo alla genesi delle credenze religiose. (max 4 righe)
SOCRATE 9
14
Qual è la tesi fondamentale difesa da Protagora in T1, e quali sono gli argomenti principali che la sorreggono? (max 10 righe)
15
Qual è il rapporto tra la legge della natura e la legge degli uomini secondo la concezione di Callicle così come essa emerge in T2? (max 5 righe)
16
Qual è la conseguenza dell’invenzione della religione dal punto di vista del governo, secondo quanto sostiene Crizia in T3? (max 4 righe)
17
A quale «rischio» si riferisce Socrate in T4, e perché sostiene sia un bene correrlo? (max 6 righe)
18
In che cosa consiste la sapienza di Socrate così come risulta in T5? (max 1 riga)
19
Sempre in riferimento a T5, in cosa consiste l’ignoranza di coloro (politici, poeti, artigiani) che si ritengono sapienti? (max 2 righe)
20
In cosa consiste il ‘vantaggio conoscitivo’ di Socrate rispetto ai suoi interlocutori, stando a quanto emerge in T5? (max 3 righe)
21
Qual è il passo di T5 in cui Socrate mostra di avere finalmente compreso il significato dell’oracolo? (max 2 righe)
22
In cosa consiste la funzione della «voce interiore» di cui Socrate parla in T6? (max 2 righe)
23
Qual è l’apparente contraddizione riguardo al proprio comportamento cui Socrate allude in T6? (max 3 righe)
24
In cosa consiste la prima accusa avanzata da Antifonte nei confronti di Socrate e quali sono i principali argomenti che egli adduce a sua difesa stando a T7? (max 12 righe)
25
Qual è la tesi principale che sorregge la seconda critica di Antifonte, in T7, e come si sviluppa la strategia difensiva adottata da Socrate? (max 8 righe)
E LA FILOSOFIA
In che senso la filosofia socratica si configura come un grande progetto di «cura dell’anima»? (max 2 righe)
10
Che ruolo svolge l’oracolo delfico nel programma filosofico socratico? (max 2 righe)
11
In che rapporto stanno nel dialogo socratico i tre strumenti dell’ironia, della maieutica e della confutazione? (max 5 righe)
12
Che cosa si intende con «intellettualismo» socratico a proposito del rapporto tra conoscenza e virtù? (max 4 righe)
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Da quale caratteristica risultano accomunate le scuole socratiche minori? (max 2 righe)
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Lavoriamo sui testi
www.edusophia .it
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
Laboratorio di lettura Gorgia, Encomio di Elena
➥ Laboratorio di lettura, p. 264
Nella tradizione culturale greca, Elena – che aveva abbandonato il marito Menelao, re di Sparta, per seguire Alessandro (altro nome di Paride) a Troia, determinando quindi la spedizione di rappresaglia dei greci – era considerata responsabile di aver suscitato la guerra di Troia. Il grande sofista Gorgia, con una provocatoria arringa difensiva in un immaginario processo storico, si propone di far assolvere Elena da questa accusa dimostrandone l’irresponsabilità. Il comportamento di Elena può infatti essere stato determinato da uno di questi fattori: 1) il volere ineluttabile della divinità o un destino altrettanto ineluttabile; 2) la costrizione della forza (il rapimento); 3) la persuasione esercitata dalla potenza invincibile della parola; 4) l’amore suscitato dal fascino irresistibile di Alessandro. In ognuno di questi casi, Elena avrebbe ceduto a una forza cui non poteva opporsi, e dunque la sua decisione non può venire considerata libera e perciò responsabile. Nel linguaggio giuridico moderno, Elena sarebbe da considerarsi come «incapace di intendere e di volere». È facile vedere come nella brillante retorica di Gorgia sia implicito un importante problema filosofico: solo l’azione liberamente decisa può essere considerata moralmente responsabile e giuridicamente imputabile. Ma si può dire che noi siamo veramente liberi di decidere delle nostre azioni, visto che siamo esposti alla costrizione del destino, della forza altrui, del condizionamento persuasivo, della potenza incontrollabile di passioni, emozioni, desideri? Vedremo nell’Unità 4 come Aristotele, riprendendo la discussione sul problema della libertà, volontarietà e responsabilità dell’azione, elaborerà una soluzione assai diversa da quella del grande sofista.
Gorgia: non siamo responsabili delle nostre azioni Esordio
Tesi: Elena è accusata ingiustamente
Analisi delle cause del comportamento
(1) È decoro allo stato una balda gioventù; al corpo, bellezza; all’animo, sapienza; all’azione, virtù; alla parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola e opera, e città e azione conviene onorar di lode, chi di lode sia degno; ma sull’indegno, riversar onta; poiché è pari colpevolezza e stoltezza tanto biasimare le cose lodevoli, quanto lodare le riprovevoli. (2) È invece dovere dell’uomo, sia dire rettamente ciò che si addice, sia confutare i detrattori di Elena, donna sulla quale consona e concorde si afferma e la testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo delle fortunose vicende. Pertanto io voglio, svolgendo il discorso secondo un certo metodo logico, lei così diffamata liberar dall’accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e svelata la verità, far cessare l’ignoranza. […] (5) Ma chi fu, e per qual motivo, e in che modo appagò l’amore colui che conquistò Elena, non lo dirò: ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge fi-
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Parte prima L’età antica
Prima causa: Elena non si è potuta sottrarre alla volontà di forze imperscrutabili
Seconda causa: Elena ha subito violenza, quindi chi l’ha rapita è colpevole
Terza causa: la potenza della parola e la sua fascinazione hanno soggiogato Elena
Commento e interpretazione
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ducia, ma non porta diletto. E però, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia. (6) Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione di Dèi, o decreto di Necessità [A]; oppure rapita per forza; o indotta con parole, o presa da amore. Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; e il più forte guidi, il più debole segua. E la Divinità supera l’uomo e in forza e in saggezza e nel resto. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata. (7) E se per forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subì una sventura. Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’accusa; legalmente, l’infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e della patria privata, e dei suoi cari orbata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? ché quello compì il male, questa lo patì; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti. [B] (8) Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. (9) Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. (10) Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. (11) E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un
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A. Gorgia indica qui tre modi possibili per individuare la subordinazione delle vicende umane a forze imperscrutabili che reggono il mondo: o la volontà deliberata degli dèi, o la cieca opera del caso (Ty`che), o un destino universale e necessario (Anànke). Ad ogni modo, l’individuo non può sottrarsi al potere di queste forze, che determinano anche gli eventi della sua vita. B. Se Elena è stata vittima di una violenza umana, la colpa dei fatti non ricade su di lei, ma sul rapitore che le ha usato violenza (Gorgia potrebbe però ripetere la sua arringa difensiva anche a favore di Alessandro, sostenendo per esempio che questi non poteva resistere all’attrazione amorosa suscitata in lui dalla bellezza di Elena). C. È questa la parte più interessante del discorso gorgiano. La parola persuasiva può esercitare una fascinazione irresistibile sui suoi ascoltatori, condizionandone le decisioni. Ne
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Unità 2 La filosofia della città: i sofisti e Socrate
La forza della persuasione più forte della volontà di Elena
Quarta causa: Elena non si è potuta sottrarre alla forza irresistibile dell’amore
finto discorso! Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo, delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di eguale efficacia sarebbe il medesimo discorso, qual è invece per quelli, che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare sul presente, né a divinare il futuro; sicché nel più dei casi, i più offrono consigliera all’anima l’impressione del momento. La quale impressione, per esser fallace e incerta, in fallaci ed incerte fortune implica chi se ne serve. (12) Qual motivo ora impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e così poco di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Così si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente che ha persuaso, e a credere nei detti, e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla forza della parola, a torto vien diffamata. (13) E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce anche a dare all’anima l’impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i ragionamenti dei meteorologi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’incredibile e l’inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità [politici e giudiziari], nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suol dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con che rapidità l’intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’opinione. (14) C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmachi e la natura del corpo. Come infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche nei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano. [C] (15) Ecco così spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata. Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’amore a compiere il tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’accusa del fallo attribuitole. Infatti la natura delle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna; e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. [D]
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vengono addotte numerose prove: la commozione suscitata dalla poesia; le paure e le speranze destate dai discorsi sul futuro; i dibattiti politici e giudiziari, nei quali prevale chi meglio sa usare non la verità ma la persuasione retorica; persino le stesse discussioni degli scienziati (che qui Gorgia chiama «meteorologi», cioè studiosi dei fenomeni celesti), che possono distruggere o sostenere tesi facendo credere persino l’incredibile, e quelle dei filosofi, che fanno mutare di opinione con grande facilità grazie all’abilità retorica. Come i farmaci, i discorsi possono dunque «avvelenare l’anima». D. Gorgia menziona infine il desiderio d’amore, destato in primo luogo dall’affascinante visione della bellezza: una passione (Eros) che condivide secondo i greci la potenza degli dèi, e alla quale dunque nessuno può resistere.
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Parte prima L’età antica La vista ha un ruolo nel suscitare sentimenti negativi e positivi
L’amore ha la potenza degli dèi
Conclusione: Elena è, in ognuno dei casi esaminati, esente da colpa
(16) Per esempio, se mai l’occhio scorge nemici armarsi contro nemici in nemica armatura di bronzo e di ferro, l’una a offesa, l’altra a difesa, subito si turba, e turba l’anima, sicché spesso avviene che si fugge atterriti, come fosse il pericolo imminente. Poiché la consuetudine della legge, per quanto sia salda, viene scossa dalla paura prodotta dalla vista, il cui intervento fa dimenticare e il bello che risulta dalla legge, e il buono che nasce dalla vittoria. (17) E non di rado alcuni, alla vista di cose paurose, smarriscono nell’attimo la ragione che ancora possiedono: tanto la paura scaccia e soffoca l’intelligenza. Molti poi cadono in vani affanni, e in gravi malattie, e in insanabili follie; a tal punto la vista ha impresso loro nella mente le immagini delle cose vedute. E di cose terribili molte ne tralascio; ché sono, le tralasciate, simili a quelle anzidette. (18) D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesellate sogliono offrire agli occhi un gradito spettacolo. Sicché certe cose per natura addolorano la vista, certe altre l’attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone inspirano l’amore e il desiderio. (19) Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro, inspirò all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? e se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente; e per ineluttabilità d’amore, non per artificiosi raggiri. (29) Come dunque si può ritener giusto il disonore gettato su Elena, la quale, sia che abbia agito come ha agito perché innamorata, sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza, sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa? (21) Ho distrutto con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico.
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(da Gorgia, Encomio di Elena, trad. di M. Timpanaro Cardini, in G. Giannantoni, a cura di, I presocratici, Laterza, Roma-Bari 1993, vol. 2)
Questionario sull’argomentazione 1
Qual è la tesi generale avanzata da Gorgia e quale la conclusione a cui perviene? (max 5 righe)
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Con quali argomenti Gorgia dimostra la potenza della parola? (max 8 righe)
Quali sono le principali cause che spiegano secondo Gorgia il comportamento di Elena, mostrandone la non colpevolezza? (max 10 righe) 104
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Che funzione svolge la figura di Eros nella strategia argomentativa di Gorgia? (max 6 righe)
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana BENE / BUONO 1. «Bene» e «buono» come valutazione positiva Il termine «bene» e il corrispondente aggettivo «buono» rientrano senz’altro tra le parole più comunemente usate nel linguaggio quotidiano. E pur ammettendo tutte le ambiguità, le ambivalenze e le difficoltà che possiamo incontrare nel loro uso, normalmente questi termini vengono usati per esprimere valutazioni positive, per lodare, per raccomandare, ossia per pronunciare giudizi di valore positivi. Ciò che è bene, ciò che è buono è valutato positivamente: questo è l’uso più generale che si possa immaginare. Naturalmente, è sempre possibile trovare usi di questi termini che non siano valutazioni («Ha lasciato ai poveri tutti i suoi beni»), ma l’uso valutativo è sicuramente prevalente, e anche all’interno di quest’uso ci sono molte differenze. Valutazioni morali «Bene» è in generale ciò che merita l’aggettivo «buono», ovvero ciò che possiee non morali de la bontà, senza naturalmente che questa attribuzione della bontà debba avere un significato morale. In generale, queste parole vengono utilizzate per attribuire un valore positivo a qualcosa o a qualcuno, e in particolare si può dire che nella maggior parte delle occasioni in cui le utilizziamo non pensiamo a un significato morale, che corrisponde piuttosto a un uso molto particolare. E i due usi vanno distinti attentamente. Non c’è niente di «morale», per esempio, nel pronunciare il giudizio «Queste ciliege sono buone», mentre è del tutto verosimile che io stia esprimendo un giudizio morale quando pronuncio l’espressione «Maria è buona».
Problemi: 1) esiste il bene in sé? 2) è un unico bene o sono più beni? 3) qual è o quali sono?
2. Bene in sé e bene in vista di altro La prima distinzione importante quando si parla del bene e del termine «buono» non è tuttavia quella tra bene morale e bene non-morale, sulla quale torneremo, ma la distinzione tra ciò che è bene in sé e ciò che è bene in vista di altro, o come strumento per raggiungere un altro bene (che potrebbe essere un bene in sé) o come qualcosa che contribuisce, come parte, a un bene più ampio, per esempio una nota all’interno di un pezzo musicale. Questa distinzione è molto importante, ma non è completamente scontata. A questo riguardo ci possiamo infatti porre tre tipi di problemi. Ci possiamo innanzitutto chiedere, infatti, se in realtà ci sia qualcosa che è un bene in sé, indipendentemente dal rapporto con qualcos’altro. E non manca chi lo nega. Ma per quanto riguarda questo aspetto del bene, ci possiamo anche chiedere, in secondo luogo, se, ammettendo che esista qualcosa che è un bene in sé, un bene assoluto, si tratti di un unico bene o se invece non possano essere più beni a costituire, ciascuno di essi, un bene in sé. Un terzo problema potrebbe poi essere quello di indicare quale sia questo bene in sé o quali siano, se devono essere più d’uno. Le indicazioni possono naturalmente essere molto diverse. Si può per esempio pensare che il piacere, ivi inclusa l’assenza di dolore, abbia questo carattere di assolutezza, ma qualcuno po105
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Parte prima L’età antica
trebbe pensare invece che l’unica cosa che abbia valore in se stessa sia la virtù morale, o la bellezza, o l’amore. Nel caso, poi, che i beni in sé siano più di uno, la verità potrebbe consistere nell’esistenza di diverse cose che siano beni in sé, assoluti, e che l’errore sia proprio volere indicare un unico bene in sé, dando ad esso un’assolutezza che invece spetterebbe a ciascuno di una molteplicità di beni. Il problema Al problema appena visto si collega del resto anche il problema dell’oggettività dell’oggettività del bene del bene: il bene – o i beni – è qualcosa che nasce nelle valutazioni che vengono date, è quindi una creazione della valutazione, per quanto importante, oppure è qualcosa di valido anche indipendentemente dalle valutazioni, e che le valutazioni sono in grado semplicemente di scoprire, perché è indipendente dai soggetti che valutano e giudicano?
Oggetto della valutazione morale è l’individuo o il gruppo nelle componenti della sua personalità
Il motivo dell’azione è alla base del giudizio di «bontà» della stessa ➥ Laboratorio sul lessico, Giustizia / giusto, p. 191
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3. Bene morale e bene non morale Un’importante distinzione nel modo di usare le parole «bene» e «buono» consiste, come si è detto, nella distinzione tra un uso morale e un uso non morale. L’attribuzione di bontà o di valore nel caso morale e nel caso non-morale si distingue però almeno per due diversi aspetti. Innanzitutto, nei due casi sono diversi gli oggetti che chiamiamo «buoni»; inoltre, sono diversi i criteri, e quindi le ragioni che vengono date per un giudizio di valore di tipo non morale in confronto con un giudizio di valore di tipo morale. Di regola, quando attribuiamo la bontà morale la attribuiamo agli esseri umani e quando parliamo della bontà degli esseri umani parliamo della bontà morale. Anche in questo caso, è possibile prevedere eccezioni. Se per esempio un dialogo si svolge tra cannibali, il giudizio di valore «Maria è buona» potrebbe volere indicare qualcosa di diverso dalla sua bontà morale, ma bisogna ammettere che si tratta di un’ipotesi che fuoriesce dalle interpretazioni probabili o verosimili, almeno per la nostra cultura. In particolare, noi pensiamo che possano essere detti moralmente buoni gli esseri umani nella loro individualità o anche gruppi di esseri umani. E cos’è che valutiamo degli esseri umani, quando li chiamiamo «buoni»? Di solito, si parla della bontà morale degli esseri umani riferendoci a qualche elemento della personalità, a qualche tratto specifico di essa. Quando diciamo «Maria è buona» intendiamo riferirci a qualche tratto della personalità morale di Maria, per esempio al suo carattere, o alle sue intenzioni in un comportamento determinato che ha magari avuto un esito negativo (è, questo, il significato di «buono» nel proverbio «di buone intenzioni è lastricato l’inferno»), ai motivi del suo agire. Il riferimento, in generale, al motivo per cui si compiono le azioni, sembra essere uno degli elementi principali grazie ai quali diciamo di qualcuno che è buono in senso morale. Non sembra bastare, cioè, per essere «buono», un comportamento corretto, quello che qualcuno chiamerebbe un comportamento «giusto»: secondo un esempio che viene fatto spesso, è un’azione giusta, e secondo alcuni un dovere, aiutare una signora anziana ad attraversare la strada. Si può essere tutti d’accordo che si tratti di un’azione giusta, che rimane tale qualunque sia lo stato d’animo del soggetto che compie l’azione. Ma per giudicare la bontà di quest’azione, il riferimento decisivo è proprio a questo stato d’animo: se la signora è stata aiutata per vanagloria, l’azione rimarrà giusta, ma se questo è il motivo (e, naturalmente, se siamo in grado di scoprirlo) non sarà più considerata buona.
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Laboratorio sul lessico Bene / buono Ragioni e criteri della valutazione morale
La condivisione dei criteri
Gli oggetti della valutazione non morale: qualsiasi cosa o persona
Esseri umani buoni in senso non morale
Valutazione non morale e criteri di eccellenza
L’oggetto della valutazione morale, e quindi del bene morale, è allora, come si è detto, un aspetto particolare che consiste in qualche elemento della personalità di un essere umano o di più esseri umani. Ma sono particolari, nelle valutazioni di tipo morale, anche le ragioni o i criteri che noi adduciamo per spiegare la nostra valutazione: questi sono giustificazioni, argomenti di tipo morale, che magari consideriamo impliciti e che crediamo, spesso, che siano condivisi da chi ci ascolta, se non ci soffermiamo a spiegarli ulteriormente. La ragione o la giustificazione che diamo di un certo giudizio di bontà morale presuppone quindi che si accettino certi criteri di bontà morale. Se mi venisse richiesto di fornire una ragione per avere giudicata «buona» l’azione della persona che accompagna la signora al di là della strada, probabilmente risponderei che questa «bontà» che attribuisco a quell’azione e, di conseguenza, a quella persona, consiste nel suo essere altruista o, più esplicitamente, nell’avere questa persona procurato un sollievo o attenuato un disagio alla signora aiutandola ad attraversare la strada. Naturalmente, ciò è valido in un contesto in cui gli altri, chiunque questi siano, condividono i criteri ai quali io dichiaro di ispirarmi e che adduco come ragione per il mio giudizio. Se gli altri non condividono questi criteri o questo orizzonte di valori, la mia ragione, molto semplicemente, non sarà una ragione, non sarà cioè una giustificazione o una spiegazione del mio giudizio, o almeno non lo sarà per gli altri. Ciò che qui si vuole dire è però innanzitutto che il giudizio sulla bontà morale deve essere giustificato con ragioni a sua volta morali, secondo certi criteri che hanno natura morale. La maggior parte delle volte che noi utilizziamo i termini «bene» e «buono» non li intendiamo in senso morale, ma in un senso non morale. È per esempio in questo significato che noi pronunciamo il giudizio «Queste ciliege sono buone». E qui emerge ancora la distinzione a cui si è accennato sopra: gli oggetti del giudizio sono le ciliege, e le ragioni che adduciamo sono ragioni di tipo non morale, per esempio che queste ciliege sono molto dolci, consistenti, saporite. Gli oggetti del giudizio, comunque, nel caso di un giudizio di bene non morale, sono molto, infinitamente, più numerosi di quelli del giudizio di bene morale, che sono invece limitati alla natura delle componenti della personalità. Molte cose e molti oggetti possono essere giudicate / giudicati buone / buoni in questo senso. Naturalmente, non è affatto detto che i giudizi sul bene non morale non abbiano come oggetto del giudizio degli esseri umani, ma in questo contesto gli esseri umani oggetto del giudizio lo sono per caratteristiche che non sono di tipo morale. Un buon professore, un buon pilota o un buon dentista possono tutte essere persone che non sono «buone» in senso morale, ma rimangono buoni professori, piloti e dentisti, in un giudizio di valore che noi adesso dobbiamo giustificare non attraverso criteri morali, perché non sono questi, qui, i criteri rilevanti, ma attraverso un altro tipo di ragioni riferite in modo specifico ad aspetti non morali come le qualità del professore, del pilota e del dentista: il buon professore non sarà necessariamente un buon pilota o un buon dentista, perché le caratteristiche del buon professore sono diverse da quelle del pilota e del dentista, e se anche lo fosse sarebbe un caso, non qualcosa che ci aspetteremmo come ovvia, e nemmeno come probabile. Il giudizio di bene non morale è in questo caso relativo a un oggetto determinato ma anche a un certo criterio di, chiamiamola così, eccellenza di quel tipo di oggetto. Nel giudizio non morale parlare di uomini non è la caratteristica più importante: il giudizio di bontà viene dato costantemente su un oggetto o un’istitu107
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Parte prima L’età antica
zione qualunque, ed è un giudizio che accomuna una buona ciliegia, una buona automobile, un buon coltello o un buon pilota. Tutti questi sono oggetti che, nella propria categoria di oggetti e soltanto in essa, vengono detti «buoni». Naturalmente, le ragioni che vengono date presuppongono anche in questo contesto una condivisione di criteri con coloro ai quali le ragioni vengono date: come non è una ragione il criterio dell’altruismo per coloro che non riconoscono l’altruismo come criterio della bontà morale, così non è una ragione per valutare come «buono», per esempio, un professore, il criterio della capacità di spiegare bene la propria materia per coloro che credono che un buon professore non si valuta secondo questo criterio ma, per esempio, secondo il criterio di saper mantenere la disciplina, o secondo il criterio di vestire in giacca e cravatta. Giudizi di valore: I giudizi di valore o di bontà, di qualunque tipo essi siano, presuppongono semoggettività pre criteri comuni di giudizio, se questo giudizio vuole essere condiviso da altri. e criteri comuni Qui torna a essere importante, se si è alla ricerca di criteri condivisi, il problema accennato sopra dell’oggettività dei giudizi che riguardano il bene, cioè dei giudizi di valore: c’è un bene oggettivo e assoluto che qualcuno è in grado di riconoscere e che, se non viene riconosciuto da altri, implica che questi ultimi siano in errore? Oppure il giudizio sul bene è un giudizio che non scopre il valore, ma lo attribuisce, ed è quindi un giudizio che dipende, per la sua validità, dal soggetto che pronuncia il giudizio?
Esercitiamoci sul bene 1. Rifletti e completa
BENE = ciò che merita l’aggettivo «____________»
Concetto problematico BUONO: aggettivo corrispondente a «____________»
Giudizi di valore positivi _______________________ ci sono eccezioni (usi diversi), ma è prevalente l’uso valutativo di «bene» e «buono» Giudizi di valore morale: uso morale di «bene» e «buono»
Giudizi di valore non morale: uso non morale di «bene» e «buono»
Oggetto: solo aspetti della personalità di esseri umani
Oggetto: può essere qualsiasi cosa o persona
Criteri (giustificazioni, ____________, _________) di tipo morale
Criteri (giustificazioni, ____________, _________) di tipo non morale
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Bene (buono) in sé (assoluto)
Parte di _____________ ____________________
Bene (buono) in vista di altro
_______ per raggiungere ____________________
Problema dell’oggettività delle valutazioni
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Laboratorio sul lessico Bene / buono
2. Spunti per il dibattito: io e… il bene 1
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Dopo aver letto il testo e completato la mappa rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Ritieni possibile ammettere l’esistenza di almeno un bene morale assoluto o ‘in sé’? Quale? – Secondo te è possibile che ciò che rende una persona buona in un senso non morale ne faccia allo stesso tempo una persona non buona in senso morale? Se sì, come ti regoleresti in un simile caso di conflitto tra giudizi di valore di tipo diverso? Immagina che qualcuno ti chieda di giustificare i tuoi giudizi morali ‘a oltranza’. Ogni volta che tu dai una risposta, ti viene chiesto di nuovo il perché: «perché questo è buono?». Ogni volta sei invitato a menzionare un bene più grande di cui quello che hai citato fa parte, o un bene ulteriore, da considerare come il fine del bene citato (per esempio: «È bene fare l’elemosina» «Perché?» «Perché è bene essere generosi» ecc.). – Quanto potresti andare avanti a rispondere? – Pensi che un dialogo di questo tipo possa procedere all’infinito o abbia comunque un termine? – Supponi ora di essere tu a fare le domande e un altro a rispondere. Quando il soggetto interrogato arriva a una risposta che per lui è l’ultima, dopo la quale non sa più cosa dire, pensi che que-
sto voglia dire necessariamente che quello, almeno per lui, è buono ‘in sé’? 3
Considera il caso di un uomo singolarmente sfortunato: ogni volta che intraprende un’azione importante, con le migliori intenzioni e in perfetta buona fede, ottiene degli effetti catastrofici per sé e per molte altre persone. – Le sue azioni possono ancora definirsi moralmente buone? – Supponi che una di queste catastrofi fosse stata accuratamente prevista da un suo amico e che l’uomo, nonostante ciò, abbia voluto agire secondo quello che a lui pareva il bene. Questo cambierebbe qualcosa nella tua valutazione?
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Supponi che gli abitanti di un piccolo paese si siano messi d’accordo tra loro per violare sistematicamente le regole del codice della strada. – Quella che fuori da quel paese è una buona manovra è ancora una buona manovra all’interno del paese? – Parlando tra loro, gli abitanti di un paese confinante, hanno l’abitudine di dire «quelli là sono dei pessimi guidatori». Hanno ragione? – E se un abitante del paese incriminato si presentasse da loro e dicesse «io guido bene, perché è mia intenzione non seguire il codice» avrebbe ragione?
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Unità 3 Platone 1. Platone e le ragioni della filosofia 2. Il maestro, il dialogo, la maturità 3. Virtù, desiderio, felicità 4. La giustizia nella pòlis: i filosofi-re 5. L’anima e la giustizia 6. Verità, conoscenza e discorso: le idee 7. Dialettica, idee, principi 8. Il cosmo e le sue cause 9. Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione 10. L’eredità: l’Accademia
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Il Fedro ♦ Tesi a confronto: Platone: governo totalitario o governo democratico?
I testi Gorgia: Callicle: la virtù dei forti e la temperanza dei mezzi uomini, T1; Contro la quiete socratica, T2 Repubblica: Trasimaco: l’utile del potere costituito, T3; Il patto dei deboli, T4; La divisione del lavoro, T5; Poeti al bando, T6; L’onda più grande T7; Le insidie della proprietà privata, T8; «Mio» e «non mio», T9; Sudditanza e costrizione, T12; Filosofi veri e falsi, T13; Matematica e dialettica, T15; Il segmento quadripartito T16; Ascesa e discesa del filosofo, T21
Fedone: Le passioni del corpo, T10 Fedro: Il mito della biga, T11 Simposio: Dal bel corpo all’idea del bello, T14; Eros: ruvido, misero, instancabile cacciatore di sapienza, T20 Parmenide: La contrarietà: dalle cose alle idee, T17 Sofista: Il diverso ovvero il non essere, T18 Timeo: Modello, copia, verosimiglianza, T19
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Parte prima L’età antica
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Platone e le ragioni della filosofia
Chiunque legga anche poche pagine dei dialoghi di Platone è in grado di comprendere – e forse di condividere – il celebre giudizio del logico e matematico inglese Alfred North Whitehead (1861-1947), secondo il quale l’intera tradizione filosofica occidentale non è altro che una serie di note a Platone. In effetti, leggendo gli scritti di Platone sembra davvero di assistere a qualcosa di simile all’atto di nascita della filosofia. E si tratta di una nascita con la quale hanno poi fatto i conti pressoché tutti i successivi sviluppi, anche quelli degli autori che si sono proposti di criticare e superare Platone. Sostenere che con Platone ha inizio la speculazione filosofica occidentale significa affermare che nei suoi scritti la filosofia entra per la prima volta nel proprio terreno. Questo è vero per due ordini di ragioni: 1) perché Platone sembra formulare e tentare di risolvere tutti i problemi che siamo abituati a considerare filosofici (che cosa e come esiste? che cosa posso conoscere? perché devo comportarmi bene? quali principi devono regolare il mio rapporto con gli altri uomini?); 2) perché nei suoi dialoghi viene per la prima volta costruita l’immagine del «fare» filosofico, inteso come un’attività peculiare che possiede un linguaggio, un metodo, uno stile di pensiero propri, differenti da quelli di altre forme di sapere e conoscenza come la scienza, l’arte, la poesia. I concetti, protagonisti I grandi protagonisti teorici della filosofia platonica sono anche i grandi protagonisti del pensiero filosofico del pensiero filosofico in quanto tale: l’essere, la verità, la giustizia, l’anima, l’uomo, in quanto tale la città e il cosmo. I dialoghi di Platone contengono il primo grandioso tentativo di organizzare in un complesso unitario e coerente (ma non per questo sistematico) i rapporti tra questi protagonisti: il che significa che in essi trovano posto, spesso strettamente connesse le une alle altre, l’ontologia (teoria dell’essere), l’epistemologia (teoria della scienza e della conoscenza), l’antropologia, la psicologia, l’etica, la teoria politica e la cosmologia, prima ancora di diventare discipline autonome. L’inizio della speculazione filosofica occidentale
La sfida della sofistica
Il relativismo sofistico di Gorgia
Protagora: l’uomo misura di tutte le cose
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In verità questo spettacolare progetto filosofico rappresenta una formidabile risposta alla sfida che nel corso del V secolo i sofisti lanciarono alla cultura tradizionale (vedi p. 73 ss.). Per poter parlare nuovamente di essere, verità, bene, giustizia, occorreva respingere il poderoso attacco che la sofistica aveva mosso a queste nozioni, operandone una sostanziale relativizzazione. Un autore come Gorgia aveva negato, come si è visto, la stessa esistenza di una realtà oggettiva esterna al soggetto, e comunque la possibilità per l’uomo di conoscerla e di comunicarla agli altri uomini. Se non esiste la realtà, non esiste una verità assoluta che si riferisca ad essa. Ma se le cose stanno in questi termini, anche il linguaggio sarà svincolato dalla realtà e potrà costituirsi come un universo indipendente e a sé stante. Il destinatario del suo messaggio sarà l’anima, ma il contenuto di questo messaggio non avrà più vincoli oggettivi esterni ai quali obbedire. In poche parole: l’eliminazione del riferimento del discorso alla verità apre la strada al suo uso efficace, come strumento disponibile a chiunque per convincere gli altri ad agire come si desidera, cioè alla persuasione retorica. Anche Protagora aveva scosso dalle fondamenta l’idea di una verità assoluta, valida per tutti. Ai suoi occhi l’uomo (inteso sia come individuo sia come comunità politica) costituiva la vera misura delle cose.
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Unità 3 Platone
L’obiettivo del discorso del sofista non è in Protagora quello di affermare la verità delle cose, ma di persuadere gli ascoltatori, eventualmente di spingerli a scegliere ciò che è bene non in assoluto bensì per loro, cioè a scegliere l’utile. Conseguenze Gli esiti di un’impostazione di questo tipo potevano però essere ancora più radiincontrollabili cali. Quando il criterio dell’utile acquista un’importanza tanto rilevante, la radelle teorie sofistiche gione in base alla quale si agisce in un modo piuttosto che in un altro può diventare quella del soddisfacimento indiscriminato dei propri desideri e dei propri impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria sopraffazione degli altri. Abbiamo visto come alcuni rappresentanti della sofistica, quali Antifonte, Callicle e Trasimaco, arrivarono ad affermare con vigore le ragioni del potere e della forza, finendo addirittura per identificare la giustizia con l’utile del più forte. Del resto una posizione del genere rispecchiava in larga misura la situazione di perenne conflitto in cui si agitava la vita politica dell’Atene del V secolo, dominata dallo scontro tra ricchi e poveri, oligarchici e democratici. Venuta meno una realtà oggettiva da conoscere, sfumati i valori pubblici da condividere e ai quali conformarsi, l’individuo rischia di smarrire anche la propria identità. L’anima – che da qualche decennio era diventata il protagonista di questa identità – diviene preda del discorso più seducente, dell’oratore più abile, e finisce così con l’adeguarsi in modo acritico ai valori che di volta in volta le vengono presentati.
Diagnosi e terapia filosofiche
Il progetto platonico: guarire verità, città e anima attraverso il discorso filosofico
➥ Sommario, p. 157
2 La gioventù e il maestro
Malata è, dunque, la verità; ma malate sono anche la città (in preda a conflitti non mediabili) e l’anima (ormai vittima di un conformismo irrazionale). Solo tenendo presente questo quadro, si può comprendere il senso del progetto filosofico di Platone. Per rispondere alla sfida dei sofisti, ai quali egli addebita in larga misura le cause della crisi appena descritta, occorre essere in grado di approntare una grandiosa terapia filosofica che guarisca verità, città e anima. Occorre sostituire all’universo soggettivistico e parcellizzato dei sofisti un mondo unitario, stabile e coeso. Ma agli occhi di Platone occorre anche predisporre un discorso che sia in grado di persuadere le anime alle quali si rivolge. Del resto la filosofia non è assimilabile né all’atto di dare la vista a un cieco né al riempimento di un vaso vuoto, ma richiede necessariamente il concorso di chi apprende, perché prevede un vero e proprio rivolgimento dell’anima. In questo risiede il nocciolo della risposta di Platone alla grande sfida sofistica: nella costruzione di un discorso che riesca a persuadere, indirizzando le anime verso la conoscenza (finalmente dotata di oggetti stabili), verso la virtù (fondata su valori assoluti, criteri di valutazione non soggettivi) e verso la politica (definitivamente rifondata). I dialoghi di Platone intendono attuare questo grande progetto filosofico.
Il maestro, il dialogo, la maturità Platone nacque intorno al 428-427 a.C. da una delle più prestigiose, ricche e autorevoli famiglie dell’aristocrazia ateniese. La madre apparteneva a una famiglia di cui aveva fatto parte il grande legislatore Solone, mentre il padre poteva addi113
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rittura vantare una discendenza che risaliva fino a Codro, leggendario ultimo re di Atene. Zio materno di Platone era Crizia, importante politico di parte aristocratica e membro del regime dei Trenta tiranni (404-403) destinato a insanguinare Atene alla fine della guerra del Peloponneso. L’impegno politico era dunque parte integrante dell’ambiente familiare e sociale in cui Platone nacque e trascorse i primi tre decenni della sua vita. Tuttavia due eventi segnarono in modo decisivo il corso della sua esistenza e determinarono in lui il rifiuto di prendere parte attiva alla vita politica ateniese: il sanguinoso governo dei Trenta tiranni (che mise a nudo l’arroganza e la ferocia dell’oligarchia) e il processo intentato dal regime democratico a Socrate (che evidenziò i limiti anche di questa parte politica). Quest’ultimo evento, in particolare, che portò alla condanna a morte del maestro nel 399, condizionò l’esperienza intellettuale di Platone e le ragioni stesse del suo progetto filosofico.
Il dialogo
La pòlis, teatro del dialogo
Socrate protagonista dei dialoghi con la confutazione
L’immedesimazione tra lettore e personaggi: un invito al pensiero filosofico
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L’Atene della fine del V secolo si presentava agli occhi di Platone come una città drammaticamente scissa, lacerata da profondi conflitti sociali ed economici, culturalmente e moralmente degenerata, malata. Solo una radicale rifondazione delle ragioni del vivere insieme, dei valori e dei fini dell’agire, in una parola dell’etica e della politica, poteva consentire di rigenerarla. La decisione di scrivere dialoghi, anziché trattati sistematici, è perfettamente riconducibile a tale prioritaria esigenza: i dialoghi platonici sono rivolti anzitutto ai suoi concittadini, ed è per questo che ad Atene sono ambientati e che i protagonisti che li animano sono spesso ateniesi o personaggi comunque noti al pubblico ateniese. Quasi sempre Socrate vi recita il ruolo principale. Molto spesso il dibattito si presenta nella forma di una confutazione operata dal maestro sulle opinioni dei suoi interlocutori. Costoro – uomini politici, generali, sofisti, retori, esperti in una qualche particolare tecnica – credono di conoscere un determinato tema, del quale sono reputati specialisti. Tuttavia le incalzanti domande di Socrate, brevi e dirette, dimostrano in modo inequivocabile che si tratta di un sapere solo apparente: i sostenitori delle diverse opinioni cadono continuamente in contraddizione, dimostrando nel migliore dei casi di conoscere solo alcuni esempi del campo di cui si vantano di essere esperti: i sofisti che affermano di sapere che cosa sia la virtù, in realtà riescono solo a fornire alcuni casi di comportamento virtuoso, non generalizzabili. In questo modo essi dimostrano di non sapere che cosa sia realmente la virtù. Platone, mettendo in scena il presunto sapere di personaggi facilmente riconoscibili dai suoi lettori, induce questi ultimi a mettere in discussione le proprie certezze, che sono poi perlopiù quelle maggiormente diffuse nella società ateniese. Il dialogo produce, dunque, un effetto di identificazione o quantomeno di riconoscimento tra il lettore e i personaggi che vi prendono parte. Quando un lettore assiste alla confutazione di un’opinione che lui stesso reputa vera, viene in un
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certo senso confutato insieme a quell’opinione e al personaggio che nel dialogo la sostiene; inoltre, questo lettore viene anche avviato da Platone (attraverso Socrate) alla filosofia, intesa come modo corretto e razionale di porre e tentare di risolvere i problemi. Si può dunque dire che l’insieme dei dialoghi platonici costituisce contemporaneamente un grande sforzo di confutare le opinioni correnti, l’immagine di un percorso di apprendimento che interessa i personaggi che vi prendono parte e insieme a loro il lettore, e un vero e proprio invito al pensiero filosofico.
La maturità: l’Accademia, l’impegno politico, la scienza
L’Accademia come centro di ricerca filosofica e di formazione politica
L’impegno politico: i viaggi a Siracusa e i tentativi di fondazione della città giusta
La problematica scientifica: i dialoghi dialettici
➥ Sommario, p. 157
Il dialogo non è tuttavia l’unico strumento al quale Platone ha affidato il compito di rifondare la città avviando i suoi concittadini alla filosofia. I dialoghi sono in un certo senso il primo stadio del progetto di cui si è detto. Poi viene la scuola, che vorrebbe contemporaneamente essere un centro di ricerca filosofico-scientifica e un luogo di formazione delle classi dirigenti, ossia dei politici. All’età di circa quarant’anni (nel 388-387), Platone fonda l’Accademia. Si tratta di un’istituzione che si presentava esteriormente come una fondazione religiosa deputata al culto delle Muse (il nome Accademia deriva da Academo, una sorta di eroe locale al quale era intitolato il bosco in cui l’Accademia si trovava). In realtà, all’interno di questa istituzione Platone teneva veri e propri seminari in cui venivano sviluppati e approfonditi i temi filosofici e scientifici contenuti nei dialoghi. Inoltre, vi veniva proposto il programma educativo che, secondo le indicazioni formulate nella Repubblica, avrebbe dovuto formare i celebri filosofi-re (vedi p. 120 ss.). In questo senso l’Accademia costituisce qualcosa di simile a una moderna «scuola di partito», in cui si preparavano coloro che avrebbero dovuto gestire il potere nella città rifondata. La prova che l’obiettivo di creare le condizioni per realizzare effettivamente uno Stato nuovo, fondato sul sapere e sulla filosofia, rappresentò una preoccupazione costante e mai abbandonata dell’impegno filosofico di Platone, è fornita in modo inequivocabile dai tre viaggi a Siracusa che egli intraprese nell’arco di quasi tre decenni, successivi alla fondazione dell’Accademia. Con l’appoggio di un suo allievo, Dione, imparentato con i tiranni di Siracusa (Dionisio I e suo figlio Dionisio II), Platone tentò a più riprese di instaurare nella città siciliana un regime improntato ai principi filosofici esposti nella Repubblica. I tre tentativi fallirono – non da ultimo a causa delle invidie che Platone suscitò presso la corte siracusana – ma testimoniano di quanto a Platone premesse l’attuazione concreta (e non solo la teorizzazione) della kallìpolis, ossia della città perfetta e giusta. Naufragato anche il terzo tentativo di instaurare un potere filosofico a Siracusa (361), Platone si ritirò definitivamente ad Atene, consacrando gli ultimi decenni della vita alla stesura di importanti dialoghi in cui risultavano dominanti la problematica teoretica e scientifica (come il Parmenide, il Timeo, il Sofista, il Filebo), senza però abbandonare la questione del governo razionale e dell’ordinamento della città, temi ai quali dedicò rispettivamente il Politico e i dodici libri delle Leggi, che costituiscono l’ultima sua opera, l’unica da cui Socrate risulti del tutto assente. 115
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La vita Platone nacque ad Atene intorno al 428-427 a.C. da una importante famiglia aristocratica. Da giovane prese probabilmente parte a tre campagne militari (409-407) e, all’incirca ventenne, divenne discepolo di Socrate (408407). I suoi interessi politico-filosofici e la sua stessa esistenza furono tragicamente segnati prima dal sanguinoso governo dei Trenta tiranni (404) poi dal processo e dalla condanna a morte del maestro Socrate (399). Dopo un periodo di intenso studio praticato ad Atene e dedicato a questioni eminentemente morali, in questi anni scrisse i cosiddetti dialoghi «socratici». Pressoché quarantenne (389-388), compì un viaggio a Taranto, dove incontrò Archita, filosofo pitagorico. Proseguì poi per Siracusa, dove soggiornò presso il tiranno Dionisio I; qui si legò di strettissima amicizia all’allievo Dione, parente del tiranno. Questo viaggio, al quale ne seguiranno altri due (nel 367-366 e nel 361-360), attesta quanto a Platone premesse rifondare il vivere comune secondo i principi filosofici esposti nella Repubblica. Come spiega lui stesso: la prima volta salpò convinto che «mai le generazioni degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali, fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti della città non diventassero, per destino divino, filosofi» (Lettera VII, 326 A-B). Anziché aspettare il destino però, Platone osserva: «se mai avessi avuto una opportunità di sperimentare le mie idee in materia di legislazioni e costituzioni politiche, quella era l’occasione buona per tentare: convincere un solo uomo era sufficiente per assicu-
rare all’impresa il più felice degli esiti», anche perché, confessa, «mi vergognavo enormemente di rivelarmi a me stesso uomo capace solo di parole, ma inconcludente sul piano pratico» (Lettera VII, 328 B-C). Per realizzare i suoi principi Platone si espose dunque a gravissimi rischi – tra i quali una sorta di prigionia nella quale incorse nel secondo viaggio – anche se, fra intrighi, minacce, deposizioni, condanne e omicidi, tutti e tre i tentativi fallirono. Di ritorno dal primo viaggio Platone fondò l’Accademia (388-387), istituzione che avrebbe dovuto espletare una doppia funzione: intellettuale e politica. E fu nell’Accademia che, abbandonato infine il progetto siracusano (360), Platone si ritirò. Gli ultimi tredici anni della sua vita li dedicò soprattutto all’approfondimento di questioni scientifiche e teoretiche, scrivendo i dialoghi cosiddetti «dialettici», senza però abbandonare il terreno etico e politico, come mostra il suo ultimo grande dialogo, le Leggi. Platone morì ad Atene, all’incirca ottantenne (347), circondato dai suoi allievi.
Opere Per Platone, come per molti filosofi antichi, a causa della scarsità o incoerenza delle fonti, è assai difficile stabilire con precisione la datazione delle opere, e talvolta perfino la loro autenticità (questione importante per capire l’origine, lo sviluppo e le trasformazioni della sua filosofia). Uno schema approssimativo della cronologia dei principali dialoghi che riscuote un certo consenso tra gli specialisti è il seguente.
Cronologia presunta dei principali dialoghi Dialoghi giovanili o socratici, scritti presumibilmente nel periodo che dalla morte di Socrate giunge alla fondazione dell’Accademia:
Dialoghi maturi, dalla fondazione dell’Accademia al terzo viaggio:
Dialoghi tardi, dal definitivo ritorno ad Atene alla morte:
I fase: Ione; Ippia minore; Apologia di Socrate; Lachete; Eutifrone; Ipparco; Carmide; Critone; Liside; Ippia maggiore; Repubblica libro I; II fase: Protagora; Gorgia; Menesseno; Eutidemo
Menone; Fedone; Simposio; Repubblica libri II-X; Cratilo; Fedro; Teeteto; Parmenide
Sofista; Politico; Filebo; Timeo; Crizia; Leggi (ultimo); vanno aggiunte le lettere VII e VIII (di cui è discussa l’autenticità)
3 La giustizia e il desiderio
➥ Laboratorio sul lessico Giustizia / giusto, p. 191
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Virtù, desiderio, felicità In ampi settori degli ambienti intellettuali ateniesi della seconda metà del V secolo si era fatta strada l’idea che la virtù non paghi affatto in termini di felicità individuale. Il controllo virtuoso dei desideri veniva considerato in taluni casi come una manifestazione di debolezza; la pratica della stessa virtù politica (cioè interpersonale) per eccellenza, ossia della giustizia, poteva rappresentare, almeno per le frange più radicali del pensiero sofistico, un vero e proprio impedimento all’acquisizione della felicità individuale. Si arrivava ad ammettere che la giustizia fosse una sorta di male minore, che veniva accettato solo per scongiu-
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rare i rischi di un male ancora peggiore, consistente nel subire ingiustizia ad opera degli altri. La felicità per i sofisti: Nel Gorgia Platone assegna al sofista Callicle una serie di tesi da cui emerge l’il’appagamento dea che l’uomo è naturalmente portato a soddisfare i propri desideri e che la fedei desideri licità consiste in tale soddisfacimento. A Socrate, che aveva argomentato in favore della temperanza, della capacità di autoregolarsi tenendo a freno le passioni e i desideri, Callicle oppone la convinzione ➥ Percorso tematico, p. 415 che i cosiddetti temperanti sono in realtà gli individui più sprovveduti e infelici.
T1
Callicle: la virtù dei forti e la temperanza dei mezzi uomini Gorgia, 491 E-492 C
Come può essere felice un uomo che è schiavo di qualcuno? In tutta franchezza, il comportamento giusto e bello per natura si riduce a questo: chi vuol vivere bene deve lasciare che i suoi desideri crescano a dismisura, senza frenarli, e poi deve essere abbastanza coraggioso e intelligente da realizzarli, per grandi che siano; deve soddisfare qualunque capriccio gli salti in testa. È chiaro che la massa non è capace di agire così: e talora criticano quelli che ci riescono, e dicono che l’intemperanza è una cosa riprovevole; ma la verità è che si vergognano e cercano di nascondere la loro incapacità. Te lo dicevo anche poco fa: la gente vorrebbe domare gli uomini che hanno doti naturali superiori; siccome non sono capaci di soddisfare i loro piaceri, predicano la temperanza e la giustizia. Tutto perché sono dei mezzi uomini. Ma prendi quelli che fin dall’inizio hanno avuto la fortuna di essere figli di re o quelli che con le loro doti si sono costruiti una posizione di potere e sono diventati re o tiranni: per questi uomini, in realtà, che cosa potrebbe essere più brutto e più vergognoso della temperanza e della giustizia? Ma come? Possono avere tutto quello che vogliono, senza che nessuno glielo impedisca, e dovrebbero loro stessi imporsi un padrone e accettare le leggi della gente comune, le loro chiacchiere e le loro critiche? Non sarebbe una gran scalogna per loro vivere secondo giustizia e temperanza, che a te sembrano così belle? Non potrebbero in nessun modo favorire gli amici rispetto ai nemici, pur detenendo il potere nelle loro città? Visto che dici di amare la verità, Socrate, diciamola, questa verità: la virtù e la felicità consistono nel lusso, nella sfrenatezza e nella libertà, a patto beninteso di poterla realizzare. Tutto il resto, le belle chiacchiere e le convenzioni umane contro natura, non sono che buffonate senza valore. Si tratta di un attacco davvero formidabile all’idea socratica di virtù. Per Callicle, come per molti sofisti dell’epoca, la virtù di Socrate è adatta solo agli uomini deboli, ossia a coloro che non sono in grado di perseguire la vera felicità, che è data dal soddisfacimento pieno e continuo dei desideri, di qualsiasi tipo essi siano.
L’otre forato: il flusso dei piaceri Certo, Socrate tenta di rispondere a Callicle osservando che l’incessante soddisfacimento dei desideri non può produrre felicità perché è simile al riempimento di una botte forata, che richiede continuamente di essere riempita senza tuttavia raggiungere mai una condizione di pienezza. La felicità per Socrate: Invece, la felicità autentica dovrebbe consistere in uno stato di autonomia dai del’autonomia sideri esterni, simile alla condizione di una botte senza buchi, la quale non ha dai desideri bisogno di venire continuamente riempita. Per Socrate l’uomo di Callicle è simile al caradrio, un uccello talmente ingordo da mangiare mentre evacua. 117
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A un simile argomento il terribile Callicle può replicare che la felicità socratica rischia davvero di essere simile alla felicità che possono provare le pietre o i morti. Egli pensa infatti alla felicità come a una condizione dinamica e non statica.
T2
Contro la quiete socratica Gorgia, 494 A-B
Non mi persuadi, Socrate. Quel tale che ha riempito i vasi una volta per tutte, poi non prova più nessun piacere. È come ti dicevo prima: una volta che li hai riempiti, poi vivi come un sasso, senza godere e senza soffrire. E invece il piacere della vita consiste in questo, in un flusso continuo di beni. È indubbio che la risposta di Socrate presenta una certa analogia con quella che sarà la risposta di Platone. Anche per quest’ultimo la superiorità dell’uomo virtuoso, ossia giusto, di fronte a quello vizioso e ingiusto consiste in una certa quiete o autosufficienza dell’anima, ossia nel fatto che egli non ha bisogno di soddisfare continuamente bisogni determinati da una mancanza. Ma è altrettanto vero che Platone potrà pervenire a questa conclusione solo al termine di un complesso processo argomentativo nel quale viene fatta intervenire una nuova nozione di anima (tripartita e non unitaria) e viene introdotta l’idea che la virtù e la felicità individuali non possano prescindere dalla virtù e dalla felicità collettive, cioè della città.
La giustizia come legge del più forte L’attacco di Callicle all’idea socratica di virtù viene ripreso e radicalizzato da un altro personaggio dei dialoghi platonici, il celebre sofista Trasimaco. La sfida di Trasimaco: Costui arriva ad affermare che la giustizia non è altro che l’utile del più forte, giustizia = utile cioè di chiunque detenga il potere. Chi ha il potere (si tratti del più ricco o deldel più forte la maggioranza) è nella condizione di legiferare, ossia di promulgare leggi. E lo farà a proprio esclusivo vantaggio, con l’obiettivo di perpetuare il potere di cui è in possesso. Gli altri cittadini si adeguano alle leggi e in questo senso si comportano secondo giustizia, ma non ne hanno alcun tornaconto. Con una veemenza che non ha uguali negli altri personaggi platonici, Trasimaco sostiene la sua radicale tesi relativa all’equivalenza tra giustizia e utile del più forte (vedi anche Unità 2, p. 81 s.).
T3
Trasimaco: l’utile del potere costituito
Repubblica, 1,338 E-339 A
Ogni forma di potere stabilisce le leggi in funzione del proprio utile: la democrazia le farà democratiche, la tirannide tiranniche, e similmente le altre. E una volta stabilite, sanciscono che giusto per i sudditi è ciò che è utile ai detentori del potere, e puniscono i trasgressori come colpevoli di illegalità e ingiustizia. Questo è dunque, eccellente amico, ciò che io sostengo sia giusto nello stesso modo in tutte le città: l’utile del potere costituito.
È davvero difficile non essere colpiti dalla forza, ma per certi versi anche dall’attualità, delle posizioni esposte da Trasimaco. Si tratta di tesi che sembrano sviluppare in forma radicale un sentimento che doveva risultare abbastanza diffuso nei circoli intellettuali vicini alla sofistica. Eliminazione Il senso teorico dell’operazione trasimachea consiste in una sorta di neutralizzaziodella componente ne della componente morale della giustizia: essa non ha a che fare con il bene delmorale della giustizia la collettività, ma solo con l’utile di chi detiene il potere. Inoltre, la tesi di Trasimaco può essere considerata alla stregua di una sorta di «teorema generale del potere» 118
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perché prescinde del tutto dal tipo di governo, dal momento che pretende di essere valido per ogni forma costituzionale (la tirannide, l’aristocrazia e la democrazia). Per Callicle moderazione e giustizia non sono che ostacoli al conseguimento della felicità. Per Trasimaco la giustizia non è altro che l’utile di chi detiene il potere e non ha nulla a che fare con il bene comune; è solo uno strumento (abilmente camuffato) attraverso il quale chi governa si prefigge di perpetuare il proprio dominio.
Le leggi, un patto tra deboli Sulla medesima linea si collocano le tesi esposte dai fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, nel II libro della Repubblica. Qui i sistemi giuridici, ossia gli insiemi delle leggi, vengono concepiti come il risultato di una sorta di patto al quale gli uomini pervengono al fine di evitare la condizione di belligeranza permanente nella quale essi per natura si trovano. Ogni individuo è naturalmente portato a conseguire il massimo di benessere per se stesso a discapito degli altri. L’impulso naturale che lo anima è dunque quello della sopraffazione (pleonexìa), che gli consente di soddisfare tutti i desideri, imponendosi sui suoi simili. Tuttavia, dal momento che anche gli altri individui sono mossi dal medesimo impulso, egli corre costantemente il rischio di venire sopraffatto, ossia di essere vittima della pleonexìa altrui. La condizione ideale consisterebbe nell’arrecare ingiustizia agli altri senza subirla a propria volta; ma il rischio più grande è naturalmente quello di essere vittima dell’ingiustizia degli altri senza potersi vendicare. Di qui l’esigenza di stabilire una sorta di patto che riduca al minimo questo rischio. Le leggi – e la giustizia che deriva dal loro rispetto – possono essere equiparate a una sorta di male minore, collocato a metà strada tra la suprema felicità data dall’attuazione dell’istinto a imporsi a danno degli altri e la massima infelicità prodotta dal subire ingiustizia. Un mito sulla giustizia: Tuttavia, se potessero praticare l’ingiustizia senza subirne le conseguenze (per l’anello magico di Gige esempio rendendosi invisibili), gli uomini lo farebbero senza indugio, come dimostra il mito del pastore Gige, il quale, trovato un anello che aveva il potere di renderlo invisibile, commise le peggiori scelleratezze, uccidendo il re, seducendone la moglie e impadronendosi del potere. Platone espone questo punto di vista con notevole rigore (vedi anche Unità 2, p. 80 s.). Glaucone e Adimanto: l’impulso umano alla sopraffazione e il patto per arginarla
T4
Il patto dei deboli
Repubblica, 2,358 E-359 B
Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene, e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente commesso e subito ingiustizia, e hanno provato il sapore dell’una e dell’altra, a coloro che non possono sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda. Dal quel momento in poi si cominciarono a stabilire leggi e patti fra gli uomini, e l’ordine imposto dalla legge fu chiamato legittimo e giusto. Affermano dunque che questa è la genesi e l’essenza della giustizia, che si trova ad essere intermedia tra la possibilità migliore – compiere ingiustizia senza pagarne il fio – e quella peggiore – subire ingiustizia nell’impotenza di vendicarsi. Il giusto allora, in quanto medio tra questi due estremi, non viene amato come un bene, ma è apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia, visto che chi potesse farlo e fosse dunque un vero uomo non stipulerebbe mai con nessuno il patto di non fa119
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re né subire ingiustizia: sarebbe davvero pazzo. La natura della giustizia è dunque questa e siffatta, e queste sono le condizioni onde essa si origina. L’aldilà
➥ Sommario, p. 157
4 La nascita della pòlis: consapevolezza di bisogni e divisione dei compiti
T5
La divisione del lavoro Repubblica, 2,370 B-371 D
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La vita ingiusta è dunque preferibile a quella giusta perché è la sola che possa garantire la felicità. Non solo in questo mondo ma addirittura nell’aldilà. Infatti, chi attraverso l’ingiustizia ha acquisito cospicue ricchezze può, tramite i sacrifici, ingraziarsi gli dèi, garantendosi in questo modo la felicità anche in un’eventuale vita ultraterrena. L’attacco alla virtù e alla giustizia è davvero formidabile e a Platone bisogna riconoscere il merito di avere esposto con grande obiettività e rigore le ragioni dei suoi avversari. La radicalità della sfida richiede un notevole impegno teorico che Platone profonde a piene mani nel grande dialogo dedicato al tema della giustizia, la Repubblica.
La giustizia nella pòlis: i filosofi-re La prima mossa di Platone intende rispondere direttamente alla tesi sofistica (probabilmente di Antifonte) relativa all’origine dello Stato, ossia dell’associazione tra gli uomini. Questi ultimi, secondo Platone, si riuniscono in società dandosi dei codici giuridici da rispettare (nei quali risiede la giustizia) non a causa della paura bensì del bisogno. Gli individui acquistano cioè consapevolezza del fatto di non essere autosufficienti rispetto ai bisogni elementari. Essi si rendono conto che è più economico (in termini di tempo e più in generale di efficienza) se ciascuno svolge solo il mestiere per il quale è naturalmente portato, scambiando poi l’eccedenza del suo lavoro con quella prodotta dagli altri lavoratori. In questo modo il calzolaio produrrà più scarpe di quante ne occorrano a lui e alla sua famiglia e scambierà questa eccedenza con gli abiti preparati dal sarto, i cibi forniti dal contadino, la casa costruita dal muratore. Per Platone il nucleo primordiale di ogni società sorge nel momento in cui gli individui cominciano a dividersi i compiti fondamentali. Le prime figure professionali saranno quelle dell’agricoltore, del muratore, dell’operaio tessile e del calzolaio, i quali potranno soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo: nutrirsi, abitare e vestire. Anche i commercianti avranno un ruolo decisivo in questa città primitiva dal momento che solo la loro esistenza consentirà di affrancare le altre figure dal compito di vendere i loro prodotti e renderà così più efficiente il sistema produttivo e distributivo. Ma dunque penso che anche questo sia chiaro: se ci si lascia sfuggire il momento opportuno per un lavoro, lo si rovina. Non penso perciò che l’opera potrà attendere il tempo comodo per chi la esegue, e che invece sia necessario che il produttore segua il suo lavoro fino in fondo, non a tempo perso. – È necessario. – Da questo risulta che si fa più, meglio e più facilmente allorché un solo uomo faccia una cosa sola, secondo la propria natura e nel momento opportuno, non dovendosi occupare di nient’altro. – È assolutamente così. – C’è bisogno dunque di più di quattro cittadini per soddisfare le esigenze di cui
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parlavamo. Il contadino infatti, a quanto pare, non si costruirà da solo l’aratro, se deve essere ben fatto, né la zappa, né gli altri strumenti utili all’agricoltura. E neppure il muratore. […] Ma se un contadino che porta al mercato uno dei suoi prodotti, o qualche altro artigiano, non vi arrivano contemporaneamente a coloro che hanno bisogno di far scambio con ciò che essi offrono, si siederanno in attesa nel mercato trascurando il loro lavoro? – Assolutamente no, disse lui. Vi sono invece persone che se ne avvedono e si assumono in proprio questo servizio; nelle città ben organizzate si tratta quasi sempre di chi ha il corpo più debole ed è inutile per qualsiasi altra funzione. Devono infatti restare lì, intorno al mercato, aspettando di comprare prodotti contro denaro da chi ha bisogno di vendere qualcosa, e viceversa di cedere prodotti contro denaro a quanti hanno bisogno di acquistare. – È dunque questo bisogno, dissi io, che determina la genesi dei commercianti nella nostra città. Non chiamiamo forse commercianti quelli che svolgono i servizi di acquisto e vendita stando installati nel mercato, mercanti invece quelli che si spostano di città in città? – Certo. Il principio collaborativo alla base della giustizia
Il principio in base al quale gli uomini si associano è dunque di natura collaborativa e non conflittuale: ci si riunisce in base a regole alle quali tutti devono conformarsi, non per paura ma per bisogno. Secondo Platone già a questo livello primordiale di organizzazione umana si può intravedere una traccia della giustizia. Si tratta del fatto che ognuno svolge solo l’attività professionale per la quale è naturalmente portato. La divisione del lavoro costituisce una forma embrionale di giustizia perché fa in modo che le capacità di ogni individuo siano finalizzate al bene comune. Per Platone, tuttavia, la divisione dei compiti può costituire solo una traccia di giustizia dal momento che prescinde ancora da tre fattori fondamentali: l’analisi dello sviluppo della città con la genesi di nuove figure professionali; l’esigenza, costantemente avvertita da Platone, di stabilire un vincolo stretto tra virtù (e dunque giustizia e felicità) e sapere; una nuova e rivoluzionaria concezione dell’anima. Vediamo nel dettaglio come vengono sviluppati questi tre temi.
La degenerazione della pòlis Lo sviluppo della città originaria determina il sorgere di nuove figure sociali, assenti dalla prima organizzazione sociale. Le patologie Alla città autosufficiente e frugale sopra descritta si sostituisce una città gonfia del superfluo di lusso, in cui non vengono più soddisfatti i soli bisogni primari (nutrirsi, vestirsi, abitare), ma anche quelli superflui. Si assiste allora alla nascita di nuove figure professionali, come gli specialisti della cosmesi, i parrucchieri, gli artigiani di prodotti di lusso e di suppellettili per la casa, i cuochi e infine i medici, incaricati di curare le malattie provocate dai nuovi eccessi alimentari. Non è difficile vedere in questa descrizione un’allusione, neppure troppo velata, all’Atene del V secolo, che agli occhi di Platone altro non è che una città gonfia di lusso e per questo profondamente malata (non bisogna dimenticare che nell’elenco delle nuove professioni Platone include anche i poeti, specialmente quelli tragici, emblema della vita culturale ateniese del V secolo). 121
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Parte prima L’età antica I militari, custodi della città
Con l’insorgere di nuovi bisogni si determina anche l’esigenza di allargare i confini del territorio cittadino, che appare ormai insufficiente a soddisfare le necessità nate nel passaggio dalla città primitiva a quella gonfia di lusso. Di qui la genesi di un’altra figura professionale, quella dei militari, il cui compito consiste sia nell’estendere il territorio della città, sia nel difendere quest’ultima dalle mire espansionistiche delle altre città.
La terapia: la paidèia Per sorprendente che possa apparire, secondo Platone proprio a partire dalla figura professionale del militare, sorta al culmine della città lussuosa e malata, può iniziare il processo che conduce alla città perfetta, ossia alla città fondata sulla giustizia. In effetti, se i membri del ceto militare vengono sottoposti a un rigoroso processo educativo, che ne rafforzi le doti fisiche, morali e intellettuali, essi possono rappresentare il punto di svolta nella direzione della costruzione della kallìpolis, la città bella e buona. L’educazione: al primo Il fondamento dell’educazione (paidèia) dei custodi o guardiani della comunità livello ginnastica (phy`lakes) deve essere costituito secondo Platone dalla ginnastica e dalla musie musica… ca alle quali spetta il compito di irrobustire rispettivamente le qualità fisiche e quelle morali e intellettuali dei nostri guardiani. Platone fa riferimento qui soprattutto alla letteratura (che è parte della musica, comprendendo questa al suo interno tanto il testo quanto il ritmo e l’armonia), proponendo un diverso modello di formazione letteraria che si fonda sulla clamorosa messa al bando della poesia epica e di quella tragica, che erano state entrambe fondamentali nella tradizione culturale ed educativa dei greci, e che vengono invece escluse dall’educazione dei futuri custodi. Entrambe sono colpevoli, agli occhi di Platone, di fornire un’immagine falsa e pericolosa degli dèi, ai quali vengono attribuiti sentimenti (come l’invidia) e comportamenti (come l’inganno) tipicamente umani. Inoltre la tragedia, con le storie drammatiche e gli eventi truci che racconta, rischia di provocare una vera e propria scissione dell’io (cioè dell’anima) dello spettatore, che si identifica con i personaggi della rappresentazione e come loro viene turbato e sconvolto. Platone si dimostra ancora una volta particolarmente attento ai rischi che l’ingresso dell’irrazionalità e delle passioni provoca alla salute dell’anima. Il ruolo dei militari nella costruzione della città giusta
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Poeti al bando Repubblica, 2,377 E-378 E
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Si deve criticare in primo luogo e soprattutto quando il discorso presenta una cattiva immagine di quel che sono dèi ed eroi, al modo di un pittore che dipinge ritratti per nulla somiglianti a coloro che voleva raffigurare. – E infatti, disse, è corretto criticare questo genere di cose. Ma in che senso facciamo questa critica e a cosa precisamente è rivolta? – In primo luogo, dissi, verso la menzogna maggiore e che riguarda le cose più importanti, di chi non bene ha mentito raccontando che Urano ha commesso le azioni attribuitegli da Esiodo, e come dal canto suo Crono si sia vendicato di lui. Quanto poi alle gesta di Crono e a quel che patì a causa del figlio, neppure se queste storie fossero vere penserei che si debbano così facilmente raccontare a dei giovani ancora privi della ragione ma che vadano per quanto possibile passate sotto silenzio; se poi ci fosse necessità di parlarne, le devono ascoltare in segreto pochissime persone. [Crono, figlio di Urano e Gaia, evirò il padre. Egli cercò
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poi di divorare il proprio figlio Zeus, che, scampato, riuscì infine a sconfiggere e a ridurre in catene il padre.] – E infatti, disse, questi discorsi sono ardui. – E comunque non vanno narrati, dissi, nella nostra città, come non va raccontato a un giovane ascoltatore che commettendo estrema ingiustizia, fosse anche per punire in ogni modo un padre ingiusto, egli non farebbe nulla di sorprendente, ma anzi si comporterebbe proprio come i primi e i più grandi fra gli dèi. – Ma per Zeus, disse lui, neanche a me sembra siano cose convenienti a dirsi. – E tanto meno, dissi, che gli dèi fanno guerra agli dèi e complottano e combattono tra loro, perché non è vero, se almeno i nostri futuri difensori della città devono ritenere estremamente vergognoso il lasciarsi facilmente andare ad odi reciproci. […] Le storie di Era incatenata dal figlio, di Efesto gettato giù dal padre mentre si accingeva a difendere la madre percossa, e tutte quelle battaglie degli dèi composte da Omero, non devono venire ammesse nella città, che abbiano o meno un senso nascosto. Un giovane infatti non è in grado di giudicare quel che è il senso nascosto e quello che non lo è, ma ciò che ha accolto a questa età tra le sue opinioni suole diventare incancellabile e inalterabile. Proprio in vista di questo bisogna far sì in ogni modo che i primi racconti da loro ascoltati siano i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori alla virtù. … al livello superiore matematica e filosofia
Secondo Platone la ginnastica e la musica (ormai depurata dalla poesia epica e da quella tragica) costituiscono solo il primo livello dell’educazione che occorre impartire ai guardiani. Esse occupano per così dire i gradini più bassi, quelli elementari, del programma educativo. Dopo ginnastica e musica i custodi devono venire introdotti in un rigoroso curriculum di studi matematici, formato dall’aritmetica, dalla geometria piana, dalla geometria solida, cioè dalla stereometria, dall’astronomia, dall’armonia musicale e infine dalla filosofia (o dialettica). Solo così potrà emergere all’interno del ceto dei guardiani un gruppo di individui particolarmente dotati dal punto di vista morale e intellettuale. Si tratta proprio dei celebri filosofi-re, ai quali va affidato il compito di governare le città. Come si vede, la paidèia, ossia l’educazione, immaginata da Platone risulta essenzialmente di natura matematica e non retorico-letteraria, e si oppone così a quella propagandata nello stesso periodo dall’oratore Isocrate, la cui scuola fu rivale e concorrente dell’Accademia platonica.
I filosofi-re Un progetto rivoluzionario
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L’onda più grande
Repubblica, 5,473 C-E
Platone si dimostra perfettamente consapevole della natura persino eversiva della sua proposta relativa al governo dei filosofi, ma non rinuncia per questo a esporla con grande chiarezza. – Eccomi giunto, dissi io, a quel punto che abbiamo paragonato all’onda più grande. Lo si dica dunque, anche se è probabile che come un’onda di derisione mi annegherà semplicemente nel ridicolo e nel disprezzo. Vedi quel che sto per dire. – Parla. – A meno che, dissi io, i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora sono 123
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detti re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia, e ancora quei molti, la cui natura ora tende a uno di questi poli con esclusione dell’altro, non vengano obbligatoriamente impediti, non vi sarà, caro Glaucone, sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del genere umano. Né mai prima d’allora questa costituzione, che il nostro ragionamento è venuto delineando, potrà nascere nei limiti della sua possibilità e vedere la luce del sole. Ecco dunque ciò che da gran tempo un’esitazione mi tratteneva dal dire, vedendo quanto paradossali sarebbero risultate le mie affermazioni: arduo è infatti comprendere che nessun altro tipo di città potrebbe essere felice né nella vita privata né in quella pubblica. Secondo Platone solo il governo dei filosofi, cioè degli individui intellettualmente e moralmente meglio attrezzati all’interno del gruppo dei custodi, può garantire, attraverso l’instaurazione della giustizia, la felicità della città. L’educazione dei filosofi-re
Primo livello
Secondo livello (matematica)
Terzo livello
Selezione finale
Musica epurata da poesia epica e tragica
Aritmetica Geometria piana Geometria solida (stereometria) Astronomia Armonia musicale
Filosofia o dialettica
Dal gruppo dei custodi vengono selezionati i pochi che hanno raggiunto, per doti morali e intellettuali, il più alto grado della conoscenza, ovvero i filosofi-re
Ginnastica
L’abolizione della proprietà privata Tuttavia, il nostro filosofo è ben consapevole dei rischi impliciti in ogni forma di potere. In particolare la brama di ricchezza gli appare come la principale fonte di pericoli per il benessere e la felicità collettivi. Del resto la stessa lezione del terribile Trasimaco andava esattamente in questa direzione: chi detiene il potere emana le leggi a proprio esclusivo vantaggio, con l’unico obiettivo di perpetuare il potere e consolidare la ricchezza. Per ovviare a questo genere di pericoli Platone arriva a stabilire il divieto per i governanti e per gli ausiliari (cioè i militari) di possedere qualsiasi forma di proprietà privata. Tutto in comune Si tratta di un divieto che non concerne solo i beni materiali (casa, terreno, deper il bene proprio naro), ma si estende addirittura agli affetti, ossia alla famiglia: governanti e cue della comunità stodi non potranno possedere né beni, né mogli, né figli. Tutto dovrà essere messo in comune. Alle spese per il loro sostentamento provvederanno gli altri cittadini, cioè i produttori, ai quali viene invece consentito l’accesso alla dimensione privatistica. La vita in comune che i governanti sono chiamati a condurre determinerà anche un rafforzamento dei vincoli di amicizia e solidarietà, garanzia di unità e coesione del gruppo dirigente, e grazie ad esso anche dell’intera comunità politica. I rischi del potere
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Le insidie della proprietà privata Repubblica, 3,416 D-417 B
In primo luogo nessuno possieda nessun patrimonio privato salvo lo stretto indispensabile: poi nessuno disponga di un’abitazione che non sia accessibile a chiunque voglia entrarvi. Quanto alle provviste […] ne riceveranno dagli altri cittadini, come compenso convenuto per la loro funzione di governo, in una quantità che basti loro per un anno, senza eccedere né scarseggiare. […] E così potranno salvarsi e salvare la città. Ma se essi possedessero privatamente terre e case e denaro, diventeranno amministratori di un patrimonio e agricoltori invece che difensori della città, padroni ostili anziché alleati degli altri cittadini; e passeranno la vita intera odiando, certo, e venendo odiati, tramando e subendo insidie, temendo molto di più i nemici interni piuttosto che quelli esterni, e allora correranno ormai verso la rovina imminente, loro e tutta la città. In un altro passo emblematico leggiamo:
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«Mio» e «non mio»
Repubblica, 5,464 C-D
➥ Sommario, p. 157
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La città nella quale i più dicono della stessa cosa e secondo lo stesso punto di vista proprio questo, «mio» e «non mio», non sarà quella meglio governata? […] Ma allora, tanto le norme stabilite in precedenza quanto quelle di cui ora stiamo discutendo non contribuiranno ancora di più a farne veri governanti, e a evitare che essi spezzino la città parlando del «mio» non in riferimento alla stessa cosa, ma a cose diverse l’uno dall’altro – sicché questo trascinerà nella propria casa ciò di cui ha potuto impadronirsi separatamente dagli altri, quello in una casa diversa e sua propria, e considereranno come propri moglie e figli diversi, che, vivendo essi nella privatezza, procureranno piaceri e dolori privati –, invece di condividere un’unica opinione su ciò che è «proprio», tendendo tutti allo stesso fine, in modo da provare nella misura del possibile le stesse esperienze di dolore e di piacere? Si è osservato come Platone fosse consapevole della natura paradossale della sua tesi relativa alla necessità del governo dei filosofi. In realtà, per poterla argomentare e comprendere compiutamente, occorre fare riferimento a un’altra celebre concezione platonica, quella relativa alla natura complessa e articolata dell’anima. Solo in questo modo risulterà più chiara la ragione per la quale i filosofi vengono investiti del compito di guidare lo Stato.
L’anima e la giustizia
Platone ereditò da Socrate e dai pitagorici l’idea che l’anima (psychè) sia un’essenza unitaria, e che in essa risieda la dimensione del valore e del bene per l’individuo. Il corpo Nel Fedone Socrate riprende la formula di origine pitagorica secondo la quale il carcere dell’anima corpo (sòma) è il carcere (sèma) dell’anima e che il conseguimento della virtù deve passare attraverso l’annullamento delle esigenze e dei desideri che provengono dal corpo. A quest’ultimo, infatti, appartengono i desideri (del cibo e del sesso, e anche del denaro), ma anche le paure e ogni forma di turbamento. Si tratta di veri e propri ostacoli alla conoscenza e all’acquisizione della virtù. 125
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Le passioni del corpo Fedone, 66 B-E
Ascetismo del corpo e virtù dell’anima
Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura per la necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci capitano addosso, ci impediscono la caccia alle cose che sono; e poi esso ci riempie di amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere e insomma di tante vacuità e frivolezze che veramente, finché siamo sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si dice, fermare la mente su alcuna cosa. Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è causa se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per acquisto di ricchezze; e le ricchezze siamo costretti a procurarcele per il corpo e per servire ai bisogni del corpo. E così non abbiamo modo di occuparci di filosofia, appunto per tutto questo. […] Sicché insomma non è possibile, finché si è sotto l’influenza del corpo, vedere la verità: e ci appare chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua purezza, dovremo spogliarci del corpo e guardare con la nostra anima la realtà delle cose. Una simile posizione, con il rifiuto che essa comporta dell’elemento corporeo, finisce inevitabilmente per condurre a una concezione ascetica del conseguimento della virtù: solo nella sua assoluta purezza l’anima può acquisire la virtù e per fare questo essa deve abbandonare del tutto le ragioni della corporeità, con i desideri e i turbamenti che porta con sé. Una posizione del genere fu sostenuta dai pitagorici e quasi certamente anche da Socrate, il grande maestro di Platone.
La rivoluzione psicologica: l’anima scissa e conflittuale Lo studio dell’anima attraverso lo studio delle istanze del corpo
Il conflitto con se stessi risultato della scissione dell’anima
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Platone operò una mossa teorica tanto spettacolare quanto sconvolgente dal punto di vista della tradizione socratico-pitagorica, una mossa destinata a segnare il successivo corso del pensiero occidentale. Un’attenta analisi delle motivazioni che determinano l’agire umano lo condusse infatti a introdurre nel cuore dell’anima le istanze della corporeità. Platone osserva che, se l’anima è il motore delle nostre azioni, essa non può essere considerata come un’essenza unitaria, dal momento che appare spesso portatrice di esigenze tra loro opposte. Chi di noi non si è trovato, e certamente non una sola volta, in una situazione di apparente conflitto con se stesso, magari desiderando in modo irrazionale qualcosa e contemporaneamente valutando (questa volta in modo razionale) i rischi che comporta il soddisfacimento di quel desiderio? La nostra anima ci fa desiderare qualcosa di piacevole (per esempio abbuffarci di patatine fritte), ma la stessa nostra anima ci mette in guardia dai pericoli che la salute corre se ponessimo in atto questo proposito. Secondo Platone questa situazione di conflitto si spiega ipotizzando che nell’anima sono presenti elementi (che egli chiama «parti» o «specie») tra loro diversi: l’uno irrazionale che ci spinge a soddisfare desideri connessi al corpo (cibo, bevande, sesso); l’altro razionale e calcolativo che ci induce a valutare le conseguenze del nostro comportamento. Questo significa una sola cosa: che all’interno dell’anima è presente quell’elemento irrazionale che Socrate e i pitagorici avevano relegato nel recinto del corpo. L’analisi platonica opera poi un’ulteriore distinzione, anch’essa prodotta dall’osservazione delle motivazioni che determinano il comportamento umano.
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Platone osserva che non tutti i desideri irrazionali sono tra loro riconducibili a una medesima fonte: infatti non tutti sono desideri direttamente collegabili al corpo; esistono desideri di altra natura, come per esempio quelli collegati al riconoscimento sociale, all’ambizione di gloria e di successo. Anche in questo caso il confronto con la nostra esperienza può esserci di aiuto per comprendere il pensiero di Platone: chi di noi non ha desiderato il riconoscimento sociale derivante, per esempio, dal successo in qualche sport? Per esemplificare questo genere di desideri, Platone menziona il caso degli eroi omerici, soprattutto del più valoroso tra essi, il grande Achille, che in battaglia cerca gloria e riconoscimento. Si tratta anche in questo caso di pulsioni irrazionali, ma qualitativamente diverse da quelle legate al soddisfacimento degli istinti corporei. L’anima non è dunque unitaria, ma presenta al suo interno una struttura composta in cui sono riconoscibili tre elementi, ossia tre centri motivazionali: due irrazionali e uno razionale e calcolativo. I tre centri Quello connesso ai desideri corporei viene chiamato epithymetikòn, ossia promotivazionali priamente «desiderante» (da epithymìa, che significa «desiderio»); quello rivolto al riconoscimento sociale viene definito thymoeidès, cioè «impulsivo», «animoso», «volitivo» o anche «collerico» (da thymòs, che vuol dire «impulso animoso», ma anche «collera», «desiderio di vendetta»); l’elemento razionale, infine, è chiamato da Platone loghismòs o loghistikòn, ossia «elemento calcolativo» (lògos significa «ragione» e «calcolo razionale»).
I desideri irrazionali riconducibili a fonti qualitativamente diverse
La rivoluzione psicologica
Prima distinzione (Repubblica)
Seconda distinzione (Repubblica)
Anima
Anima
Elemento irrazionale: spinta al soddisfacimento dei bisogni
Elemento razionale: valutazione delle conseguenze dei comportamenti
Conflittualità
Elemento desiderante (irrazionale): desideri corporei
Elemento impulsivo (irrazionale): riconoscimento sociale
Elemento razionale: calcolo razionale
Conflittualità superabile
Scontri e alleanze nell’anima: la biga alata
Elemento razionale e impulsivo insieme contro elemento desiderante
La vita psichica di ogni individuo è dunque caratterizzata dal conflitto tra queste tre istanze. L’instaurarsi di una condizione virtuosa nell’anima è legata alla capacità dell’elemento razionale di imporsi sugli altri due. D’altra parte, Platone è perfettamente consapevole che la ragione è costantemente soggetta alle immani pressioni dei desideri e corre il rischio di soccombere. Essa tuttavia può trovare un alleato nell’elemento irrazionale non desiderante, ossia nella parte impulsiva e collerica, la quale, se guidata dal principio razionale, è in grado di tenere a freno le istanze della parte inferiore. Platone è infatti convinto che l’elemento impulsivo e impetuoso può venire persuaso dalla ragione e utilizzato da quest’ultima per le proprie finalità. 127
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Vedremo tra breve come questa convinzione abbia importanti ricadute di natura politica. La psicologia platonica assume dunque i caratteri di un sottile gioco di alleanze, che ha come posta in gioco l’acquisizione della virtù. Differenza tra elemento La differente natura dei due principi irrazionali, quello desiderante e quello imdesiderante e impulsivo pulsivo, in rapporto alla ragione emerge in tutta evidenza nella celebre immagine del carro alato e dei cavalli che lo conducono, attraverso la quale Platone si propone di esprimere in forma mitica, narrando il celebre viaggio dell’anima nell’iperuranio, la sua struttura tripartita.
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Il mito della biga
Fedro, 246 A-248 A
La biga alata
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Pensiamo, dunque, che l’anima assomigli a una forza per sua natura composta da un carro alato a due cavalli e di un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e discendono da buoni, invece quelli degli altri [cioè degli uomini] sono misti. In primo luogo, in noi l’auriga guida un carro a due cavalli; inoltre, tra i due cavalli, uno è bello e buono e discende da belli e buoni; l’altro, invece, deriva da opposti ed è opposto. Difficile e disagevole, di necessità, nel nostro caso, è la guida del carro. […]. Quando l’anima è perfetta e dotata di ali, vola in alto e governa tutto quanto il mondo. Ma una volta che ha perduto le ali, viene trascinata giù fino a quando non si aggrappi a qualcosa di solido […]. Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le cose e si prende cura di esse. A lui tiene dietro un esercito di dèi e demoni, ordinato in undici schiere. […] Molti e beati sono, dunque, le visioni e i percorsi dentro il cielo, che compie la stirpe degli dèi beati, mentre ciascuno di loro adempie il proprio compito. Tiene dietro agli dèi chi sempre lo vuole e ne ha capacità: l’invidia rimane fuori dal coro divino. Quando essi vanno a banchetto per prendere cibo, procedono verso l’alto fino a raggiungere la sommità della volta del cielo. Là i veicoli degli dèi, che sono ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente; gli altri, invece, procedono con fatica. Il cavallo che è partecipe del male, infatti, cala, piegando verso terra e opprimendo l’auriga che non abbia saputo allevarlo bene. […] Questa è la vita degli dèi [la visione perfetta e completa delle virtù della temperanza, della giustizia e della conoscenza]. Quanto alle altre anime, una, seguendo il dio nel modo migliore possibile e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell’auriga verso il luogo che sta al di fuori del cielo e viene trasportata nel moto di rotazione, ma a stento contempla gli esseri, perché turbata dai cavalli. Un’altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo abbassa; ma poiché i cavalli le fanno violenza, vede alcuni esseri, altri invece no.
Auriga
Cavallo bianco
Cavallo nero
Parte psichica
Razionale
Impulsiva
Desiderante
Funzione corretta
Comando
Alleanza
Subordinazione
Immagine
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Mentre l’anima degli dèi è priva di elementi irrazionali e i suoi cavalli sono entrambi docili e soggetti al comando dell’auriga, il principio di razionalità, quella degli uomini è costantemente preda degli impulsi provocati dai due cavalli, ossia delle istanze irrazionali. Una di queste (quella indicata dal cavallo bianco, cioè buono) è però riconducibile al comando della ragione e può aiutare quest’ultima a reprimere le pretese dell’altra (quella espressa dal cavallo nero, cioè cattivo).
Il parallelismo tra anima e città
Tre tipologie caratteriali, tre diverse funzioni nello Stato
Il parallelismo tra anima e città
Le tre virtù: sapienza, coraggio e moderazione
Abbiamo già avuto modo di anticipare che la concezione dell’anima tripartita gioca un ruolo centrale nella teoria platonica dello Stato. È venuto il momento di approfondire la questione. Secondo Platone le anime di tutti gli uomini possiedono i tre centri motivazionali di cui si è detto. Ma tendenzialmente nell’anima di ogni uomo è una parte che prende il sopravvento sulle altre due. Questo fa sì che quell’uomo possa essere considerato, a seconda dei casi, razionale, impetuoso o desiderante. Platone fa poi un ulteriore passo. Afferma che esiste una sostanziale corrispondenza tra la natura psichica degli individui e l’attività professionale che essi sono chiamati a svolgere all’interno dello stato. Gli uomini nei quali è dominante la parte razionale dell’anima non potranno che essere quelli ai quali è affidato il compito di governare la città. Essi possiedono infatti le qualità raziocinanti e calcolative, oltre a quelle morali, che li rendono capaci di agire nell’interesse di tutti gli altri cittadini, ossia dello Stato nel suo complesso. Gli uomini in cui è dominante l’anima impulsiva e collerica vengono identificati con i guerrieri veri e propri, cioè con coloro ai quali viene affidato il compito di proteggere la città dai nemici esterni e di sedare eventuali rivolte interne (provenienti, per esempio, dal terzo gruppo). La stragrande maggioranza dei cittadini, infine, presenta un’anima che è dominata dalla parte desiderante; costoro sono per Platone i produttori (contadini, artigiani, commercianti), ossia coloro che sono deputati a fornire i beni necessari alla sopravvivenza materiale dell’intera comunità. Come si vede, Platone ha istituito una sorta di parallelismo tra anima e città. Entrambe presentano una struttura tripartita e la loro vita è caratterizzata da conflitto e alleanze. Infatti, come l’anima razionale può controllare i desideri della parte inferiore alleandosi con il principio volitivo e impetuoso, così i governanti (i filosofi-re) possono tenere a freno le pretese della maggioranza irrazionale e dominata dai desideri peggiori e riuscire così a guidare lo Stato nell’interesse di tutti i cittadini (non solo nel proprio), solo alleandosi con l’apparato militare. Allo scopo di rafforzare questa analogia tra microcosmo (l’anima) e macrocosmo (la città), Platone mette in evidenza un ulteriore parallelismo, consistente nel fatto che le virtù peculiari di ciascuna parte dell’anima sono le stesse dei gruppi sociali che corrispondono a queste parti. Così la virtù (aretè) propria dell’anima razionale (e dei governanti filosofi) sarà la sapienza (sophìa), ossia la conoscenza dei valori assoluti cui occorre ispirare la pratica politica; la virtù della parte impetuosa (e dei militari) non potrà che essere il coraggio (andrèia), cioè la capacità di sacrificarsi nell’interesse di tutta la 129
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città; infine, la virtù del principio desiderante (e del ceto produttivo) si identifica con la moderazione o temperanza (sophrosy`ne), che è la capacità di tenere a freno e controllare gli istinti corporei. A differenza delle altre due virtù, quest’ultima appartiene in realtà a tutti i cittadini, sia pure in modo diverso: infatti, mentre nel caso dei produttori la moderazione consiste nel controllo dei desideri e nell’accettazione del comando degli altri due gruppi, nel caso dei militari essa risiede nella capacità di obbedire agli ordini dei governanti e in questi ultimi nella disponibilità a prendere decisioni non nel proprio interesse bensì in quello della comunità. Il parallelismo anima-pòlis
Anima
Parte razionale
Parte impulsiva
Parte desiderante
Virtù
Sapienza
Coraggio
Temperanza
Città giusta
Filosofi-re
Militari
Massa dei lavoratori
L’essenza della giustizia
Il proprio compito naturale
Rapporto gerarchico e armonico tra le parti
Virtù, felicità, salute
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Questo lungo percorso attraverso la struttura dello Stato e dell’anima e attraverso le specifiche virtù delle loro parti conduce infine Platone a individuare l’essenza della giustizia, che era appunto l’obiettivo della nostra riflessione. La giustizia nell’anima sarà analoga alla giustizia nella città e consisterà nel principio in base al quale ciascuna parte (dell’anima e della comunità) svolge il compito per il quale è naturalmente portata. Così un’anima giusta sarà un’anima in cui governa la parte migliore, ossia quella razionale, e in cui il principio collerico si allea alla ragione per tenere a bada le istanze provenienti dalla parte desiderante. Allo stesso modo una città sarà giusta se a governarla saranno i filosofi, se il ceto militare seguirà le indicazioni dei governanti e se i produttori accetteranno il comando che viene imposto nel loro stesso interesse. Da tutto ciò risulta chiaro che agli occhi di Platone la giustizia – nell’anima come nella città – equivale a una sorta di rapporto gerarchico e armonico tra le parti, ossia a una condizione in cui ciascuna parte svolge la sua funzione naturale. Si tratta della celebre formula del «fare le proprie cose» (ta heautoù pràttein), cioè realizzare pienamente la virtù propria di ciascun elemento. A conclusione del suo ragionamento Platone può riprendere l’antica equivalenza socratica tra virtù e felicità, avendola però fondata su basi molto più solide e, in questo modo, resa immune dagli attacchi dei sofisti. A Callicle, il quale sosteneva che la felicità dell’uomo veramente libero consiste nel pieno soddisfacimento di tutti i desideri, Platone può ora rispondere che una simile condizione è in realtà quella in cui si trova chi è schiavo della parte peggiore di sé, ossia del principio desiderante. Il tiranno rappresenta l’individuo dominato dalla ricerca spasmodica e mai sod-
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➥ Tesi a confronto, p. 167
disfatta dei piaceri; ma proprio per questo egli è schiavo di se stesso, cioè dei propri desideri: la sua anima è incurabilmente malata. Sana, e dunque felice, è invece l’anima di chi riesce a imporre il governo della parte migliore, ossia della ragione. Discorso analogo vale naturalmente per lo Stato. Sarà felice, perché sana e veramente libera, solo quella comunità in cui governeranno coloro che sono naturalmente portati a governare: i filosofi-re. Gli altri individui potranno essere veramente liberi solo adeguandosi alle indicazioni che provengono dai governanti.
Libertà e sudditanza L’idea platonica di libertà non potrebbe risultare più lontana da quella implicita nella nostra sensibilità individualistica e democratica.
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Sudditanza e costrizione
Repubblica, 9,590 C-D
Aristocrazia del sapere
Ora, perché anche l’artigiano sia governato da un elemento simile a quello che governa l’individuo migliore, non dobbiamo dire che deve essere schiavo di quell’ottimo individuo che racchiude in sé il governatore divino? Con ciò non si deve credere che la sua sudditanza debba risolversi in un danno per lo schiavo, come pensava Trasimaco parlando dei sudditi. La ragione è che per ognuno è meglio essere governati da ciò che è divino e intelligente, soprattutto se si tratta di connaturato in lui; se non è così, se ne accettino le direttive dall’esterno, affinché, per quanto è possibile, siamo tutti simili e amici, retti dal medesimo principio. Come si vede, quella platonica è un’idea aristocratica della legittimità al potere. Non si tratta però di un’aristocrazia della nascita, bensì del sapere. I filosofi sono chiamati a governare non perché appartengono a una stirpe di antica nobiltà, ma perché sono gli unici in possesso del sapere che consente di dirigere lo Stato nell’interesse di tutti e di portarlo così al conseguimento della giustizia e della felicità.
Tra laicità e giudizio divino Giustizia = armonia = felicità
Le considerazioni svolte fin qui hanno dimostrato come Platone costruisca la sua risposta alla grande sfida portata alla giustizia e alla vita giusta dai sofisti. Egli riesce al termine di un lungo percorso teorico a dimostrare che la vita giusta è davvero preferibile a quella ingiusta in quanto paga in termini di felicità individuale. Come si vede, siamo all’interno di una prospettiva strettamente laica, perché la preferibilità della virtù è garantita da ragioni interne alla vita dell’uomo: l’uomo giusto è felice perché la giustizia equivale all’armonia e alla salute dell’anima, e un’anima sana è anche un’anima felice. Tutto ciò non è però ancora sufficiente a garantire alla giustizia una vittoria incontrovertibile sull’ingiustizia. Occorre fare un passo ulteriore e chiarire che anche nella vita dell’aldilà il giusto riceverà premi meravigliosi mentre l’ingiusto è destinato a patire ogni sorta di castighi. 131
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Parte prima L’età antica L’immortalità dell’anima
➥ Sommario, p. 157
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Per sostenere quest’ultima tesi Platone deve ovviamente anche dimostrare che l’anima è immortale e sopravvive alla morte del corpo. Quello dell’immortalità dell’anima rappresenta un tema tipicamente socratico, derivato, come si è visto, dal cuore della tradizione pitagorica. Nei dialoghi platonici si trovano numerosi tentativi di argomentare in favore dell’immortalità dell’anima, anche se bisogna ammettere che non sempre questi tentativi appaiono veramente convincenti. In realtà è difficile stabilire se e in che misura Platone li considerasse davvero definitivi. Probabilmente ai suoi occhi le cosiddette prove in favore dell’immortalità dell’anima hanno l’obiettivo di persuadere e indirizzare verso comportamenti virtuosi più che quello di convincere razionalmente. A questo proposito va tenuto presente ciò che Platone fa dire a Socrate alla fine della lunga sezione del Fedone dedicata ai premi e ai castighi che attendono le anime dopo la morte. Il filosofo spiega che sarebbe poco razionale pretendere che le cose stiano esattamente come sono state descritte nel mito; tuttavia, credere che l’anima sia immortale è un rischio che vale la pena di correre, non perché si sia certi che le cose stiano effettivamente così, ma perché ritenerlo aiuta a conseguire la virtù.
Verità, conoscenza e discorso: le idee
La ragione per la quale i filosofi vengono investiti del compito di dirigere lo Stato risiede, come si è visto, nel loro sapere, ossia nel fatto che essi soli sono in possesso della sapienza (sophìa). Essi dispongono di conoscenze eccezionali, ignote agli altri cittadini. Non si è ancora detto però in che cosa consista esattamente questo sapere. Che cosa conoscono veramente i filosofi che li rende adatti a governare le città? La risposta platonica a questo interrogativo è molto nota e viene di solito considerata una delle tesi più celebri e importanti del nostro pensatore. I filosofi conoscono i modelli perfetti e assoluti dei valori che occorre mettere in pratica nella vita dello Stato: in una parola essi conoscono le idee o forme. Solo se si conosce esattamente che cosa è la giustizia, si è poi in grado non solo di applicarla nella concreta attività politica, ma anche di stabilire se e in che misura un certo comportamento sia giusto. Funzione normativa In quanto paradigmi le idee hanno una duplice funzione: normativa (in quanto e parametrica stabiliscono le norme assolute dell’agire morale e politico) e parametrica (in delle idee quanto costituiscono i parametri in base ai quali valutare il valore di una certa azione). Come si ricorderà, i sofisti avevano posto in dubbio l’esistenza di valori autenticamente universali. Ai loro occhi il giusto, il bello, il bene e persino il vero, risultavano nozioni di carattere relativo che potevano mutare di significato a seconda dei contesti, delle situazioni, dei luoghi e dei tempi in cui occorrevano. Ciò che è giusto in un certo momento, per una certa persona o in una certa città non lo è più in un altro momento o in un’altra città. Platone è consapevole della potenzialità dirompente che l’affermazione di un simile relativismo (morale ed epistemologico) contiene in sé.
Il sapere dei filosofi
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Per questo avverte in modo pressante l’esigenza di stabilire in via definitiva la natura assoluta e non contrattabile dei valori.
Il bello in sé come paradigma Contro l’inconsistenza mediatica
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Filosofi veri e falsi Repubblica, 5,475 D-476 D
Se i sofisti, i retori, gli uomini politici dell’Atene del V secolo credono all’esistenza di molte cose belle, di molti comportamenti giusti e trascorrono il loro tempo a osservare questa molteplicità (nei tribunali, nei teatri, nelle riunioni di folla), il filosofo è invece colui che è davvero in grado di distinguere la natura unitaria del bello, del giusto e degli altri valori dalla molteplicità delle cose considerate belle e giuste. Le parole di Platone suonano attuali, perché sembrano alludere alla natura instabile e variegata del mondo dei mass media e dello spettacolo. – Tutti gli appassionati di spettacoli possono sembrare filosofi perché si rallegrano d’imparare, e poi gli appassionati di audizioni, gente certo ben strana da collocare fra i filosofi, che non vorrebbero proprio andare spontaneamente ad ascoltare discorsi razionali, ma che, quasi avessero affittato le orecchie, corrono dietro alle feste per ascoltare tutti i cori, senza trascurare né quelle di città né quelle di campagna. – Dunque tutti questi e quanti altri si applicano ad apprendere questo genere di cose ed altre tecnicucce, li chiameremo filosofi?, chiese Glaucone. – Su questa base, dissi io, opero la divisione, ponendo da una parte coloro che poco fa chiamavi appassionati di spettacoli, di tecniche e dell’attività pratica, dall’altra invece coloro su cui verte il discorso, i quali soltanto si possono correttamente chiamare filosofi. – Che cosa intendi? disse. – Gli appassionati di suoni e di spettacoli, risposi, amano certo la bellezza delle voci e dei colori e delle figure e di tutte le opere prodotte con questi ingredienti, ma quanto al bello in sé, il loro pensiero è incapace di vederne e amarne la natura. – È certamente così, disse. – Quelli invece che sono capaci di puntare diritto verso il bello in sé e di vederlo in se stesso non sono forse rari? – Rarissimi. – Ora, chi riconosce l’esistenza di cose belle ma non quella della bellezza in sé, e non è in grado di seguire chi lo volesse guidare verso la conoscenza di essa, ti sembra vivere nel sogno o da sveglio? Perché, vedi, il sognare altro non è se non ritenere, sia nel sonno sia nella veglia, che una cosa simile a un’altra non sia appunto simile, ma identica a quella cui assomiglia. – Quanto a me, disse lui, mi sembra proprio che sta sognando chi ritenga questo. – Ma allora, chi al contrario ritiene che vi è un bello in sé ed è in grado di vedere sia il bello stesso sia le cose che partecipano di esso, e non scambia queste per il bello, né il bello per le cose che ne partecipano, costui ti sembra a sua volta vivere desto o nel sogno? – Desto certamente, disse. – Il pensiero di costui, in quanto conosce, lo chiameremo dunque correttamente conoscenza, mentre quello dell’altro, opinione, in quanto egli opina? – Senz’altro. 133
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Parte prima L’età antica I filosofi sanno distinguere le idee dalle loro immagini
Per Platone, dunque, la legittimazione al governo deriva ai filosofi dal possesso di un sapere speciale, rivolto a oggetti speciali, le idee appunto. In realtà, Platone non sostiene che i filosofi conoscano solo le idee, ma afferma che essi sanno distinguere le idee e le cose che di queste partecipano. Ciò significa che anche la conoscenza delle idee va messa in rapporto con la questione dell’applicazione pratica di questi modelli, ossia con il problema di come, una volta distinta l’idea del giusto dalle molte azioni giuste, l’idea del giusto possa trovare applicazione nella vita della città.
La natura delle idee Ma cosa sono queste famose idee? Si tratta di entità unitarie e indivisibili, fuori dal tempo, immobili, ingenerate e imperiture, non percepibili con i sensi ma conoscibili con il solo pensiero. Esse costituiscono la vera realtà, sono cioè il vero essere. Le cose sensibili, che secondo la maggior parte degli uomini rappresentano l’unica realtà esistente, costituiscono per Platone solo delle copie e delle immagini delle idee. Soffermiamoci su queste tesi. Le idee sono invisibili, mentre le cose particolari sono visibili. Questo significa che le idee non possono venire percepite (con gli occhi o uno qualsiasi degli altri organi sensoriali); ciò non comporta, però, che esse risultino inconoscibili; il fatto è che le idee sono visibili per mezzo di occhi particolari, quelli dell’anima e dell’intelletto. Unicità dell’idea, Nella stessa parola greca èidos (e anche idèa) è contenuto un riferimento alla molteplicità delle cose visibilità (i due termini significano infatti «aspetto», «forma»); si tratta, per che ne partecipano Platone, di una visibilità intellettuale e non fisica. Le idee sono essenze unitarie e indivisibili. Questo significa che, mentre esistono molte cose belle, esiste una sola idea del bello; essa permane sempre identica a se stessa, a differenza delle molte cose belle, le quali possono trasformarsi in brutte. Quando Platone afferma che solo le idee sono veramente, mentre le cose particolari sono e non sono, egli intende sostenere che le idee sono interamente ciò che sono, mentre le molte cose sensibili possono essere un determinato carattere ma anche non esserlo: l’idea del bello è in se stessa bella, le molte cose belle sono e non sono belle. Definizione delle idee come vero essere
Perché le idee? Per comprendere meglio il significato della teoria delle idee è utile indicare due delle ragioni che hanno indotto Platone a postulare la loro esistenza. Conoscenza La prima ragione è relativa all’epistemologia, è legata cioè al tema della conocerta e universale: scenza. Platone parte dalla constatazione che esiste una conoscenza certa e uniun esempio matematico versale. L’esempio più evidente gli viene fornito dalle discipline matematiche. Noi sappiamo che una proposizione come la seguente «la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è uguale a 180°» è universalmente vera. Proprio per essere tale, tuttavia, una simile conoscenza non può rivolgersi a nessuno dei molti triangoli empirici, quelli cioè che disegniamo sulla lavagna o su un foglio di carta. Nessuno di essi possiede i caratteri di perfezione richiesti dalla definizione appena riportata. 134
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Ciò significa che quando sosteniamo che gli angoli di un triangolo sommano due angoli retti (180°), ci riferiamo in realtà a un triangolo ideale, un triangolo perfetto che realizzi completamente l’essenza dell’essere triangolo, la quale consiste appunto nel possedere angoli interni la cui somma equivale a 180°. Le cose sensibili sono per Platone mutevoli e instabili; questa è la ragione per la quale intorno ad esse non può esserci una vera e propria conoscenza, appunto perché mutano costantemente e non possono venire fissate da una proposizione avente validità universale. La conoscenza deve invece rivolgersi a entità stabili, sottratte al flusso delle cose sensibili: le idee (immobili, ingenerate, incorruttibili ed eterne) costituiscono appunto le realtà alle quali si rivolge il sapere scientifico. La predicazione La seconda ragione ha a che fare con la semantica, ossia con la questione del sipresuppone l’esistenza gnificato dei nomi che utilizziamo. dell’idea del predicato Quando assegniamo uno stesso predicato – per esempio «bello» – a molte cose, dicendo che una certa ragazza è bella, una statua è bella, una costituzione è bella, ci serviamo del predicato nominale «bello» assegnandogli implicitamente lo stesso significato. Per Platone ciò è possibile solo ipotizzando l’esistenza di qualcosa che è bello in se stesso, di qualcosa cioè che corrisponde al significato del predicato «bello»: questo qualcosa è esattamente il bello in sé, l’idea del bello.
Idee e mondo sensibile
– –
Caratteristiche
– – –
Epistemologia
Copie sensibili
Idee
Ontologia
Invisibili Indivisibili Ingenerate Imperiture Fuori dal tempo
Oggetti stabili
=
Conoscenza certa e universale (verità), scienza
– – – – –
Visibili Divisibili Generate Mutevoli Nel tempo
Oggetti instabili
=
Conoscenza incerta (verosimiglianza), opinione
Il bello in sé: l’ascesa erotica Nell’idea del bello la bellezza in se stessa
Per Platone l’unica realtà assolutamente bella è l’idea del bello perché, mentre le altre cose (un corpo, un discorso, una costituzione) sono belle in forma derivata, il bello in sé è bello in forma originaria. Inoltre, le altre cose possono risultare belle in quanto partecipano dell’idea del bello, e dunque possiedono la bellezza; viceversa il bello in sé non partecipa della bellezza, ma risulta in qualche modo identico ad essa: nell’idea del bello la bellezza non si trova più in altro, bensì in se stessa, come risulta dalla celebre concezione dell’ascesa erotica esposta dalla sacerdotessa Diotima nel Simposio. 135
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Parte prima L’età antica
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Dal bel corpo all’idea del bello Simposio, 210 A-211 C
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Ora, fino a questo grado dei misteri d’amore, o Socrate, tu avresti forse potuto iniziarti anche da te; ma in quelli perfetti e contemplativi […] non so se saresti capace. Te ne parlerò quindi io, e ci metterò tutto l’impegno: tu cerca di seguirmi, se ti riesce. Dunque, chi vuol tendere rettamente a tal fine deve cominciare fin da giovane ad andare verso i bei corpi, e anzitutto, se chi lo guida lo guida bene, amarne uno solo, e ivi generare bei ragionamenti; in seguito, comprendere che la bellezza di ogni corpo è sorella di quella di ogni altro corpo, e che quindi, se bisogna perseguire ciò che è bello nell’aspetto esterno, sarebbe grande stoltezza il non ritenere unica e identica la bellezza in tutti i corpi. Compreso questo, deve diventare un innamorato di ogni bel corpo, e calmare quella sua eccessiva passione per uno solo di essi, spregiandola e considerandola vile; poi, stimare più preziosa la bellezza che si trova nelle anime rispetto a quella che è nel corpo, sicché se uno, nobile d’animo, abbia un aspetto poco leggiadro, egli se ne contenti e lo ami e ne sia sollecito e crei e ricerchi ragionamenti tali, che rendano migliori i giovani: per essere così indotto a contemplare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi, constatando come esso è dappertutto affine a se stesso, e a ritenere quindi che quello corporeo non è che piccola cosa. Dopo le istituzioni, poi, deve passare alle scienze, affinché contempli la loro bellezza, e, mirando a questo bello ormai così vasto, e non servendo più, come uno schiavo, al particolare, nell’amore per un singolo fanciullo o uomo o istituto, cessi dall’avere animo vile e misero, e invece, rivolto al largo mare del bello, procrei, contemplandolo, molti belli e splendidi ragionamenti e pensieri, in un infinito amore di sapienza; finché, rafforzatosi e sviluppatosi in esso, non arrivi a scorgere quell’unica scienza che ha per oggetto tale bellezza. E ora cerca, disse, di fare attenzione a me più che puoi. Infatti, colui che sia stato edotto fin qui nella scienza relativa all’amore, attraverso la contemplazione progressiva e giusta del bello, giunto ormai al termine di questa sapienza, scorgerà una bellezza per sua natura meravigliosa, quella stessa, o Socrate, in grazia della quale erano stati sofferti tutti i precedenti travagli: una bellezza che anzitutto è in eterno, e non nasce né muore, e non cresce né diminuisce; e poi, non è bella per un verso e per un verso brutta, né ora sì e ora no, né bella rispetto a una cosa e brutta rispetto a un’altra, né qui bella e là brutta, come se fosse bella per alcuni e brutta per altri. Né, ancora, gli si raffigurerà questa bellezza come un volto o come mani o come null’altro in cui il corpo abbia parte, e neppure come un discorso o una scienza, né come qualcosa che stia in altro, per esempio in un animale o nella terra o in cielo o altrove; bensì essa stessa in sé e per sé, uniforme in eterno; e tutte le altre cose partecipino di essa in tal modo, che mentre queste nascono e muoiono, essa non cresce né diminuisce per nulla, né subisce alcuna mutazione. Dunque, quando uno […] cominci a scorgere questa bellezza, allora può dirsi che quasi tocchi la mèta. Perché in ciò risiede appunto il procedere rettamente, da sé o con la guida di altri, nella via dell’amore: cominciando dalle bellezze di quaggiù ascendere sempre più in alto, in vista di quella suprema, servendosi dei gradi inferiori come di gradini: da uno a due e da due a tutti i bei corpi, e dai bei corpi alle belle istituzioni, e dalle belle istituzioni alle belle scienze, finché dalle belle scienze si culmini in quella scienza che non è scienza di altro se non di quella pura bellezza, e così, pervenendo al termine, si conosce ciò che è, in sé, il bello.
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Per Platone, dunque, la stessa bellezza corporea, percepita dai sensi, rappresenta un primo passo in direzione della conoscenza dell’idea del bello; quest’ultima poi rappresenta in modo esemplare la conoscenza di tutte le idee.
La partecipazione del sensibile alle idee Partecipazione e causalità
Dal brano sopra riportato si ricava anche che le molte cose belle sono tali, come si è detto, in virtù della partecipazione (methèxis) all’idea del bello. Questo significa che l’idea del bello, come tutte le altre idee, esercita un ruolo causale nei confronti delle molte cose che di essa partecipano, perché risulta in qualche modo causa del fatto che esse possiedono una determinata proprietà. Non è facile tuttavia precisare in che senso le idee sono cause delle altre cose, anche perché Platone non lo dice con chiarezza. Si potrebbe ritenere che esse siano cause logiche, cioè che rivestano il ruolo di spiegazioni delle cose: le singole cose belle sono belle in quanto la conoscenza dell’idea del bello consente a noi di riconoscerle come belle, cioè come in possesso di quella determinata qualità. Ma si potrebbe anche sostenere che le idee sono cause in quanto producono effettivamente le proprietà delle cose che di esse partecipano: in questo caso l’idea del bello sarebbe in qualche modo presente nelle cose belle, causando in loro il possesso della proprietà di essere belle. La questione va comunque lasciata aperta, anche perché Platone potrebbe avere inteso la causalità delle idee in entrambi i modi menzionati.
La reminiscenza o anàmnesis Secondo Platone la conoscenza che noi abbiamo delle idee è di natura intellettuale e non sensibile. Tuttavia, egli sembra riconoscere che anche la sensazione può giocare un ruolo significativo nel processo che conduce alla conoscenza delle idee. Infatti, essa può risvegliare in noi una conoscenza sopita, ma in qualche modo presente nella nostra anima. Quando percepiamo due oggetti che crediamo uguali – osserva Platone – ci formiamo la nozione di uguaglianza. Quest’ultima, tuttavia, non può derivarci dalla percezione di due cose uguali appartenenti al mondo sensibile, per la semplice ragione che in questo mondo non si danno casi di uguaglianza perfetta. Secondo Platone, noi tendiamo a considerare uguali due realtà sensibili solo perché possediamo già una nozione di uguaglianza, la quale non può essere derivata dall’esperienza sensibile. Le nozioni a priori Si tratta di una nozione a priori, ossia indipendente dall’esperienza. Per spiegare come essa sia presente in noi, Platone sostiene, in forma mitica, che la nostra anima prima di incarnarsi in un corpo ha visto (conosciuto) il mondo delle idee, e dunque anche l’idea dell’uguale. Questa conoscenza si è poi sopita nel corso della vita e tuttavia essa può venire risvegliata dall’esperienza di casi sensibili di uguaglianza. Questi non possono essere perfetti e tuttavia risvegliano in noi il ricordo della vera uguaglianza, quella ideale. La conoscenza Così per Platone ciò che comunemente si crede conoscenza non è altro che il riè reminiscenza cordo o la reminiscenza (anàmnesis) di qualcosa di cui noi eravamo già da sempre in possesso, sia pure in modo inconsapevole. Ecco spiegata la celebre tesi secondo la quale la conoscenza è reminiscenza. Il ruolo della sensazione nella conoscenza delle idee
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Parte prima L’età antica
Dialettica e matematica a confronto
Metodo ipotetico della matematica: dalle ipotesi alle conclusioni
Metodo non ipotetico della dialettica: dalle ipotesi al principio assoluto alle conclusioni
Uso di figure sensibili nella matematica, di idee nella dialettica
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Matematica e dialettica Repubblica, 6,510 C-511 C
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La conoscenza relativa alle idee, ovvero la dialettica, costituisce per Platone la forma suprema di conoscenza. Essa presenta analogie con la matematica, dalla quale però si differenzia perché la razionalità matematica ha un andamento discorsivo (viene infatti chiamata diànoia, ossia «pensiero discorsivo»); la dialettica ha invece una natura intuitiva e noetica (solitamente viene indicata con il termine nòesis, cioè «intuizione intellettiva»). Ciò significa che vi sono due caratteristiche essenziali che distinguono il sapere matematico-dianoetico da quello filosofico-dialettico: la natura ipotetica o non ipotetica del metodo, e l’utilizzo di figure sensibili. La matematica è una disciplina ipotetica perché, spiega Platone, i matematici partono da ipotesi ammesse come evidenti (ossia i principi, i postulati, gli assiomi), e da esse deducono una serie di conseguenze (ovvero i teoremi), coerenti con le ipotesi poste all’inizio, ma proprio per questo da esse dipendenti. Ciò significa che tali conseguenze non possono essere considerate vere in assoluto, ma solamente nel caso in cui le ipotesi iniziali siano vere. Il matematico tuttavia, secondo Platone, non si preoccupa di stabilire se le ipotesi sono vere, ma si limita a servirsene, una volta che esse risultano evidenti e dunque accettate. Per questo il sapere matematico non può venire considerato una conoscenza nel senso autentico del termine (visto che non è certo di cogliere la verità), ma solo una sorta di convenzione (homologìa). Il dialettico, invece, risale al di là delle ipotesi verso un principio non ipotetico che dovrebbe garantire la verità delle ipotesi di cui di volta in volta si serve. Anch’egli parte da ipotesi ma, a differenza del matematico, non le considera come dei principi indimostrabili, bensì tenta di risalire al di sopra di esse, fino a raggiungere il principio non ipotetico, che, come si vedrà, è rappresentato dall’idea del bene. La differenza tra il filosofo e il matematico concerne quindi la direzione stessa del ragionamento messo in atto: entrambi partono dallo stesso punto (le ipotesi), ma il dialettico risale verso l’alto, ossia verso un’ipotesi superiore e non si ferma finché non ha raggiunto il principio assoluto, non più ipotetico; il matematico, invece, muove verso il basso e si limita a dedurre le conseguenze che derivano dalle ipotesi ammesse, senza preoccuparsi della verità delle stesse. La seconda differenza consiste nel fatto che i matematici, e specialmente gli studiosi di geometria, si servono nelle loro dimostrazioni di figure sensibili. Essi, per dimostrare un certo teorema, ricorrono a delle vere e proprie costruzioni (prolungano un lato, costruiscono una figura a partire da un’altra ecc.) e con ciò palesano il loro debito nei confronti della dimensione sensibile. Viceversa il dialettico opera sulla base delle sole idee, stabilendo tra esse relazioni di dipendenza, di inclusione ed esclusione, senza mai ricorrere alla sensazione e alla costruzione. Il brano in cui Platone spiega le differenze tra il pensiero dianoetico e quello dialettico è giustamente famoso. – Ricominciamo allora, io dissi: comprenderai più agevolmente quando avrò esposto queste premesse. Penso infatti che tu sappia che coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di scienze simili, dopo avere ipotizzato il pari e il dispari, le figure, i tre tipi di angolo, e le altre cose di questo genere secondo le esigenze di ciascuna disciplina, danno tutto questo per noto e lo assumono come ipotesi, né ritengono di doverne dar conto a se stessi e agli altri, quasi fosse chia-
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ro a tutti; partendo poi da queste ne svolgono le conseguenze e convengono sulle conclusioni intorno a ciò su cui verteva l’indagine. – Conosco perfettamente, disse, questo procedimento. – Dunque sai anche che si servono di forme visibili e su di esse conducono le dimostrazioni, pur non pensando a quelle ma alle forme cui esse assomigliano; le dimostrazioni cioè sono svolte in vista del quadrato in sé e della diagonale in sé, non di quella che disegnano, e così via per le altre […] – Capisco, disse, che ti riferisci al campo della geometria e delle tecniche che le sono sorelle. – Capisci dunque anche che intendo per l’altra sezione del noetico quella su cui la ragione stessa fa presa con la potenza del discorrere dialettico; essa non tratta più le ipotesi come principi, ma realmente come ipotesi, cioè come punti di appoggio e di partenza per procedere fino a ciò che non è ipotetico, verso il principio del tutto; e quando ha fatto presa su di esso, segue tutte le conseguenze che ne dipendono, e così ridiscende verso una conclusione, non servendosi mai di alcun dato sensibile, ma solo delle idee attraverso le quali procede e verso le quali si dirige, e conclude a idee.
I quattro gradi della conoscenza Secondo Platone l’intero universo della conoscenza presenta una simmetria rigida con il mondo dell’essere, perché a ogni forma di conoscenza corrisponde un ben determinato tipo di oggetti. Egli immagina di collocare lungo un segmento le quattro forme cognitive alle quali l’uomo ha accesso, e spiega come ciascuna di queste forme si rivolga a uno specifico genere di oggetti. In primo luogo divide il segmento in due parti, la prima corrispondente alla conoscenza intelligibile, la seconda a quella sensibile. Poi opera un’ulteriore partizione, spiegando che il segmento noetico si divide in due sottosezioni, la prima corrispondente alla conoscenza dialettica, la seconda a quella matematica; la dialettica si rivolge alle idee, mentre il sapere matematico, cioè la diànoia, ha per oggetto le entità matematiche (numeri e figure). Anche la sezione sensibile presenta due sottosezioni: nella prima si trova la credenza (pìstis), i cui oggetti sono costituiti dalle cose sensibili; nella seconda si colloca l’immaginazione (eikasìa) che dovrebbe rivolgersi alle copie degli oggetti sensibili, dunque, molto probabilmente, ai prodotti artistici, che sono appunto imitazioni delle cose sensibili. In generale, nella parte inferiore del segmento si trovano forme di conoscenza che appartengono alla opinione (dòxa), mentre nella parte superiore hanno posto le conoscenze vere e proprie (ragionamento matematico e sapere dialettico). L’epistemologia dipende Il punto veramente importante di questo schema consiste nella convinzione, dall’ontologia tipicamente platonica, che l’epistemologia, cioè il tipo di conoscenza, dipende dalla ontologia, ossia dalla natura degli oggetti ai quali essa si rivolge. Mentre noi siamo abituati a pensare che dello stesso oggetto si possano avere diverse forme di conoscenza (a seconda del metodo con il quale questo oggetto viene studiato), per Platone, a un livello generale, se ci sono due conoscenze diverse – per esempio l’una opinabile (doxastica), l’altra scientifica (epistemica) –, la causa risiede essenzialmente nel fatto che esse si rivolgono a due generi di oggetti differenti: nel nostro caso, rispettivamente, agli oggetti sensibili e alle idee. Il segmento
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Parte prima L’età antica Modalità e gradi della conoscenza Intellezione
Conoscenza Gradi di conoscenza Oggetti Ontologia
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Il segmento quadripartito Repubblica, 7,533 E-534 B
Opinione
Dialettica
Matematica
Credenza
Immaginazione
Idee
Enti matematici
Oggetti naturali
Manufatti artistici
Mondo soprasensibile, essere
Mondo sensibile, divenire
– È dunque accettabile, dissi io, chiamare, come abbiamo fatto prima, «scienza» la prima parte, «pensiero discorsivo» la seconda, «credenza» la terza, «immaginazione» la quarta; e le ultime due insieme «opinione», le altre due «pensiero»; dire che l’opinione verte sul divenire, il pensiero sull’essenza; il pensiero sta all’opinione come l’essenza sta al divenire, e la scienza sta alla credenza, il pensiero discorsivo all’immaginazione, come il pensiero sta all’opinione. […] Chiami inoltre «dialettico» colui che coglie la spiegazione razionale dell’essenza di ogni singola cosa? E di chi non la coglie, nella misura in cui non è in grado di renderne ragione a sé e agli altri, non dirai che non è in grado di pensarla? – E cosa potrei dire altrimenti? rispose.
L’idea del buono
L’idea del buono è la suprema categoria etica
L’idea del buono attiva le potenzialità conoscitive dell’individuo
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Nel corso di queste pagine si è spiegato a più riprese che il sapere dei filosofi è primariamente rivolto alle idee e che dal possesso di questo sapere dipende il loro diritto a governare lo Stato nell’interesse di tutti i cittadini. In verità, secondo Platone, a legittimare i filosofi a dirigere lo Stato è soprattutto la conoscenza di un’idea particolare, l’idea del buono (o del bene), che rappresenta il vertice dell’intero mondo delle idee. Il possesso di tutte le altre conoscenze, e in particolare il possesso delle virtù (giustizia, coraggio ecc.), acquista rilevanza solo se viene messo in rapporto alla conoscenza dell’idea del buono. Quest’ultima è infatti in grado di rendere utili, ossia applicabili, tutte le altre forme di virtù e conoscenza. In questo senso il buono costituisce la suprema categoria pratica perché rappresenta il principio in riferimento al quale i filosofi devono prendere le decisioni per il complesso della comunità dei cittadini. Inoltre il buono è il vero fine dell’azione, perché ogni attività ha in vista il bene, si pone cioè l’obiettivo di realizzare qualcosa che viene considerato come un bene, un bene però che non sia apparente, ma reale. L’importanza dell’idea del buono non è solo di natura etica: la stessa conoscenza delle idee è resa possibile dalla presenza dell’idea del buono. Quest’ultima si comporta nell’ambito del mondo intelligibile come il sole all’interno del mondo sensibile. La presenza del sole, il quale è causa della luce, consente ai colori di essere visti e ai nostri occhi di vederli; allo stesso modo agisce il buono: esso rende conoscibili le idee e permette alla nostra anima di conoscerle. Questo significa che l’idea del buono attiva la nostra potenzialità conoscitiva, induce cioè la nostra anima a rivolgersi verso il mondo delle idee. Essa è dunque causa di conoscenza e verità. Ma non solo.
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Unità 3 Platone Ontologia: causa trascendente
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7 Gli ultimi dialoghi: le interrelazioni tra le idee
Parmenide, Sofista, Politico, Filebo
La contraddittorietà delle idee
I predicati opposti
Come il sole è la causa della generazione delle cose sensibili, senza identificarsi con la generazione, il buono è la causa dell’essere delle idee, senza tuttavia identificarsi con l’essere, bensì trascendendolo, ossia collocandosi al di là di esso. Dunque, l’idea del buono è anche causa dell’essere, ossia causa ontologica. Quest’ultimo punto rappresenta uno dei nodi teorici più complessi e irti di difficoltà dell’intera filosofia platonica. Intorno al suo significato già gli interpreti antichi si scontrarono, e ancora oggi esso è oggetto di continue dispute tra gli studiosi. Platone vuole probabilmente dire che le stesse idee – che sono entità eterne, ingenerate e incorruttibili, perfette e identiche a sé – prevedono un principio, che risulta ad esse in qualche modo superiore. Si tratta però di una sorta di primus inter pares: per un verso il buono appartiene all’universo ontologico, in quanto è esso stesso un’idea (sia pure particolare); per un altro verso, invece, esso è superiore alle altre idee, probabilmente perché non presenta una struttura simile a quella di una normale idea. In questo senso si dovrebbe riconoscere che il buono è al di là dell’essenza (che è il carattere tipico di ogni idea), ma non al di là dell’essere. Il punto è che a questo livello teorico, cioè al vertice della filosofia platonica, sembrano coesistere elementi in parte contraddittori; ciò dipende dalla natura stessa di un principio – l’idea del buono appunto – che ha una funzione etica e ontologica: in quanto principio etico, cioè di valore, esso si colloca al di là dell’esistente (deve infatti rappresentare un fine non ancora realizzato); in quanto principio ontologico, invece, esso appartiene all’essere perché non può risultare causa di qualcosa con cui non ha alcun rapporto.
Dialettica, idee, principi I dialoghi successivi alla Repubblica sembrano indicare un certo spostamento di prospettiva teorica da parte di Platone; in particolare sembra assumere una rilevanza sempre maggiore la questione dei rapporti tra le idee. Gli scritti composti nella fase centrale della sua vita (Fedone, Simposio, Repubblica) trattano sovente della relazione tra le idee intelligibili e le cose sensibili, sostenendo che queste ultime partecipano delle idee, oppure che ne sono copie, immagini o manifestazioni spazio-temporali. In molti dei dialoghi composti da Platone negli ultimi tre decenni di vita (soprattutto Parmenide, Sofista, Politico e Filebo) il problema del rapporto tra idee e cose particolari, pur non scomparendo, perde leggermente di importanza e viene affiancato e talora sostituito dalla questione di come le idee entrino in relazione fra loro. Nell’ultimo periodo Platone sembra interessato soprattutto al fatto che la contraddizione, relegata alle cose sensibili ma di cui le idee apparivano immuni, si insinua nel cuore stesso dell’essere, cioè del mondo delle idee. Si è visto che le cose sensibili presentano una natura contraddittoria, in quanto ciascuna di esse è, e contemporaneamente non è: Elena, per esempio, è bella in rapporto a una comune donna, ma brutta nei confronti di una dea; viceversa, le idee dovrebbero risultare immuni da questa natura contraddittoria. A un esame più accurato, tuttavia, anche le idee presentano al loro interno una struttura contraddittoria, perché anch’esse possono possedere predicati opposti: 141
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Parte prima L’età antica
Le idee partecipano delle idee: il simile è dissimile, l’uno è molteplice
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La contrarietà: dalle cose alle idee
Parmenide, 128 E-130 A
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l’idea del simile, per esempio, è anche dissimile, appunto perché è dissimile da altre entità. Un altro esempio: l’idea dell’uno è anche molteplice dal momento che ammette più di una caratteristica (per esempio, oltre all’unità, l’esistenza) così come l’idea del molteplice è unitaria, appunto in quanto essa è una singola idea. Secondo Platone l’esistenza di una pluralità di determinazioni all’interno di ciascuna idea si spiega per mezzo della concezione della interrelazione tra le idee, ossia del fatto che non solo i sensibili partecipano delle idee, ma anche queste ultime hanno rapporti di partecipazione reciproca. In questo modo si spiega perché l’idea del simile sia anche dissimile: essa ricava infatti il possesso di questa proprietà dalla partecipazione all’idea della dissomiglianza, che la rende dissimile dalle altre idee. Analogamente l’idea dell’uno è molteplice perché partecipa dell’idea del molteplice. Insomma, per Platone a partecipare delle idee non sono solamente le cose sensibili ma le stesse idee (ciò corrisponde a una specie di «prodigio» teorico). Rispondimi su questo punto: non ritieni che esista una forma in sé e per sé della somiglianza, e un’altra ad essa contraria, ciò che è realmente dissimile; e che di queste due entità partecipiamo tu ed io e le altre cose che chiamiamo molte? E non ritieni che ciò che partecipa della somiglianza diventi simile in virtù di essa e nella misura in cui ne partecipa, e ciò che partecipa della dissomiglianza diventi dissimile, e ciò che partecipa di entrambe diventi entrambe le cose? Che cosa c’è di straordinario se tutte le cose partecipano di ambedue le forme, che sono tra loro contrarie, e in virtù di questa doppia partecipazione esse sono sia simili che dissimili a se stesse? Se si provasse, invece, che i simili in sé diventano dissimili e i dissimili simili, questo, penso, sarebbe un prodigio. Ma se si provasse che ciò che partecipa di entrambe queste entità risulta simile e dissimile, ebbene questo, Zenone [l’allievo di Parmenide], non mi sembra affatto assurdo, e neppure se si provasse che tutte le cose sono «uno» perché partecipano dell’uno, e che le stesse sono molte perché partecipano anche della molteplicità. Invece, se si dimostrerà che ciò che è uno, è esso stesso molti, e viceversa i molti sono uno, allora sì che avrò di che meravigliarmi. E questo ragionamento vale anche per tutte le altre cose: se si riuscisse a provare che i generi in sé e le forme risultano affetti in se stessi da queste proprietà contrarie, ecco che sarebbe legittimo meravigliarsi. Ma cosa c’è di straordinario nel dimostrare che io sono uno e molti, sostenendo, quando si vuole provare che sono molti, che una cosa è la parte destra un’altra quella sinistra, una cosa il davanti un’altra il dietro, e così diversi sono anche l’alto e il basso: questo perché, penso, partecipo della molteplicità; quando invece si vuole provare che sono uno, si dirà che tra noi che siamo sette io sono un uomo perché partecipo anche dell’uno. Così facendo si prova che entrambe le asserzioni sono vere. Dunque, se qualcuno tentasse di provare in riferimento a simili entità che la stessa cosa è molti e uno, mi riferisco a pietre, legni e cose di questo tipo, noi diremo che dimostra che una certa cosa è molteplice e unitaria, non che l’uno è molti e i molti sono uno, e che non afferma nulla di straordinario, ma cose sulle quali tutti potremmo essere d’accordo. Se invece, a proposito delle cose di cui parlavo poco fa, egli in primo luogo divide le forme in sé e per sé, considerandole separatamente, ad esempio somiglianza e dissomiglianza, molteplicità e uno, quiete e movimento, e tutte le altre di questo tipo, e prova che queste forme in se stesse hanno la capacità di mescolarsi e separarsi, ebbene, – disse – io ne sarei straordinariamente ammirato, Zenone.
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Unità 3 Platone
Ritengo che questi temi tu li abbia trattati con coraggio. Ma, come dico, sarei certamente molto più ammirato se si fosse in grado di dimostrare che questa stessa aporia è implicata in vari modi nelle forme stesse, di dimostrare cioè che si trova anche nelle cose conoscibili razionalmente, così come avete fatto a proposito delle cose visibili. Il principio della partecipazione viene dunque esteso anche alle idee. Esse si relazionano le une alle altre in un complesso intreccio di rapporti che è compito del dialettico ricostruire. In effetti, nei dialoghi posteriori alla Repubblica, non a caso chiamati spesso «dialettici», il tema della dialettica come studio delle relazioni interne al mondo delle idee acquista una rilevanza assolutamente centrale.
La dialettica come sintassi ideale Inclusione ed esclusione reciproca: idee che comunicano e idee che non comunicano
Se si accetta l’assunto secondo il quale le idee comunicano tra di loro, risulterà inevitabile concepire la dialettica – che è la scienza delle idee – come una sorta di sintassi eidetica, ossia come un’indagine relativa ai rapporti di inclusione ed esclusione reciproca tra le idee. Platone si chiede infatti quali idee comunichino tra loro e quali invece non possano comunicare. Egli osserva, per esempio, che l’idea di uomo può partecipare dell’idea di camminare, mentre non può avere rapporti di comunicazione positiva con l’idea di volare. La proposizione «Socrate vola» è falsa, prima ancora che per la sua evidente falsità empirica, perché l’idea di uomo (di cui Socrate costituisce una manifestazione) è logicamente inconciliabile con quella del volare, appunto a causa dell’assoluta assenza di una relazione di partecipazione tra le due. Si direbbe che lo studio dei rapporti di inclusione ed esclusione tra le idee rappresenti una sorta di analisi delle condizioni necessarie (ma non sufficienti) della verità delle asserzioni empiriche: prima ancora di stabilire se Socrate stia camminando oppure stia volando, occorre essere in grado di valutare se le idee in questione possono o meno comunicare tra di loro. L’eventuale comunicazione rappresenta la condizione necessaria (non sufficiente) della verità dell’asserto «Socrate cammina», mentre l’assenza di comunicazione è già in se stessa condizione necessaria e sufficiente della falsità dell’asserto «Socrate vola».
Generi e specie, divisione e ricomposizione Lo studio della natura attraverso il quadro teorico della dialettica
L’indagine delle relazioni di inclusione ed esclusione tra le idee riveste una notevole importanza nello studio delle realtà naturali perché l’analisi delle articolazioni dei generi nelle specie (e di inclusione delle specie nei generi) fornisce il quadro teorico generale per la conoscenza della natura. Platone e i suoi allievi dedicarono grande attenzione alle divisioni interne dei singoli generi, ossia a come un genere (per esempio animale) si divide nelle sue specie (per esempio vertebrati e invertebrati), e per converso all’appartenza di una specie a un certo genere (per esempio uomo ad animale): si tratta rispettivamente dei metodi della diàiresis, ovvero della divisione del genere nelle sue specie, e della sy`nthesis, ovvero della riconduzione della specie al proprio genere di appartenenza, che tanta fortuna hanno avuto nella scuola di Platone e poi in quella aristotelica. Secondo Platone la dialettica forni143
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sce, dunque, il quadro teorico di riferimento alle ricerche particolari. La meticolosità di queste ricerche ha suscitato la sarcastica reazione degli avversari di Platone, come dimostra un celebre aneddoto riportato dal comico Epicrate (in Ateneo, Deipnosofisti, 2,59 D-F). – Che mi dici di Platone, Speusippo e Menedemo? Di che vanno discutendo in questi tempi? Quali pensieri, quali discorsi vengono indagati nella loro scuola? – Sono in grado di dirtelo con certezza. Alle Panatenaiche ho visto un branco di ragazzotti […] e nel ginnasio dell’Accademia ho udito discorsi indicibili, incredibili. Analizzando la natura, dividevano le forme di vita degli animali, la natura degli alberi, i generi degli ortaggi. E in queste ricerche indagavano a che genere appartenesse la zucca. – E che definizione ne hanno dato, a qual genere appartiene la pianta? – All’inizio, tutti in silenzio, immobili, a testa china riflettevano a lungo. Poi all’improvviso, mentre ancora i giovanotti erano curvi sulla loro ricerca, uno disse che era un ortaggio rotondo, un altro un’erba, un terzo un albero. Li ascoltava un medico che veniva dalla terra di Sicilia, e mollò un peto per schernirli, come fossero fuori di testa. […] Ma i ragazzi non ci fecero caso. E Platone, che assisteva molto sereno, per nulla turbato, li invitò a ritentare dal principio di definire a quale genere appartiene la zucca. E quelli continuarono a dividere.
I cinque generi sommi I generi sommi, le idee presenti in tutte le idee
Essere, identico, diverso; moto e quiete
I generi sommi come le vocali
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Lo studio sistematico dei rapporti di partecipazione reciproca tra le idee conduce poi Platone a individuare alcune idee alle quali tutte le altre partecipano. Si tratta di idee generalissime, le quali sono presenti in tutte le idee, oltre che nelle cose sensibili. In virtù di questa loro generalità, le idee in questione sono state chiamate «generi sommi», mèghista ghène. Il ragionamento attraverso il quale Platone perviene a isolare queste idee, sebbene abbastanza complesso e tortuoso, può venire riassunto nei termini seguenti: 1) ogni idea, per il fatto stesso di essere (cioè di esistere e di essere quella determinata idea), deve partecipare del genere dell’«essere»; 2) essa, in quanto è identica a se stessa, deve partecipare anche del genere dell’«identico»; 3) dal momento che essa è anche diversa da tutte le altre idee, ha un rapporto di partecipazione con il diverso, cioè con l’idea della «diversità». Dunque, essere, identico e diverso costituiscono i primi tre generi sommi isolati. Differente il caso delle idee di moto e immobilità: esse sono meno inclusive perché, se una cosa partecipa del moto non può contemporaneamente partecipare anche dell’immobilità, e viceversa. Inoltre, moto e immobilità, a differenza di essere, identico e diverso, non possono ammettere una partecipazione reciproca. Platone arriva dunque ad ammettere cinque idee generalissime (i generi sommi): le prime tre assolutamente universali, ossia l’essere, l’identico, il diverso; le altre due, il moto e la quiete, dotate di un grado di universalità minore. La funzione di queste idee somme (e in particolare delle prime tre) è stata equiparata da alcuni studiosi a quella esercitata nelle nostre lingue dalle vocali, le quali sono presenti in tutte le parole. Come le vocali, anche i generi sommi sono presenti dappertutto e regolano la trama dei rapporti interni al mondo delle idee.
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Unità 3 Platone I cinque generi sommi
Assolutamente universali Universali
L’essere
L’identico Il moto
Il diverso La quiete
Il parricidio di Parmenide: la riammissione del non essere L’analisi condotta da Platone sui generi sommi e in particolare l’esame di uno di essi, il diverso, ha importanti conseguenze relative alla natura del non essere. Ricorderai che Parmenide aveva escluso ogni forma di non essere dal discorso vero (vedi p. 45 ss.). Egli era arrivato a formulare un vero e proprio divieto di dire e pensare il non essere. Platone giunge invece, al termine di un complesso ragionamento, a riammettere il non essere nel cuore del discorso filosofico. Il non essere relativo Non si tratta più, tuttavia, del non essere assoluto al quale si riferiva Parmenide, bensì di un non essere relativo, ossia del non essere di cui ci serviamo quando sosteniamo che una certa cosa non è una determinata altra cosa: il movimento, per esempio, non è l’immobilità, è cioè diverso da essa. A un livello più generale, poi, il fatto che una qualsiasi idea sia, ossia esista e sia quella determinata idea, significa immediatamente che essa è diversa da tutte le altre, cioè non è nessuna delle altre. Ecco perciò fare la sua comparsa il non essere, inteso non in senso assoluto, ma appunto relativo: essere diverso da / non essere una determinata cosa o qualità. Platone si rende conto della portata anti-parmenidea del suo ragionamento e infatti chiama «parricidio» (uccisione del padre), l’introduzione del non essere nel cuore della dialettica: Parmenide era considerato da Platone una sorta di proprio padre spirituale. Del resto, l’ammissione del non essere nel cuore dell’essere (cioè delle idee) sembra costituire l’esito inevitabile di una concezione che intende la dialettica come la scienza dei rapporti di inclusione ed esclusione tra le idee. Il punto di vista platonico presuppone l’idea che ogni determinazione implichi in qualche modo una negazione. Nel dialogo Sofista lo Straniero di Elea, il protagonista del dialogo al posto di solito assegnato a Socrate, afferma:
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Il diverso ovvero il non essere Sofista, 254 B-256 B
– Poiché dunque abbiamo convenuto che alcuni generi ammettono di entrare in comunicazione fra loro, altri no, e alcuni in brevi limiti, altri in una molteplicità di relazioni, e ancora ce ne sono alcuni che nulla impedisce a che si colleghino con tutti gli altri in tutte le cose, noi, tutti insieme, tiriamo le conseguenze del nostro ragionamento e vediamo, non certo per tutti i generi, per non essere noi tutti messi in confusione dalla loro moltitudine, ma scegliendo alcuni fra quelli che sono detti i più importanti, vediamo prima di tutto che cosa è ciascuno di questi che sceglieremo, e poi vediamo quale potenza di comunicazione reciproca essi hanno, affinché, anche se non possiamo cogliere con perfetta chiarezza ciò che è e ciò che non è, almeno non lasciamo in nulla incompleto il nostro discorso […] Tra i generi, dunque, i più importanti sono quelli di cui noi abbiamo trattato poco fa, ciò che è, in quanto tale, la quiete e il moto. […] E noi affermiamo che due di questi non si possono mescolare fra di loro. […] E ciò che è mescolabile a ambedue: ambedue infatti sono. […] Quindi vengono ad essere tre. […] Ciascuno di essi, allora, è diverso dagli altri due e identico a se stesso. […] 145
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– Ma che cosa abbiamo mai inteso dire ora, dicendo identico e diverso? Sono questi forse due generi, altri dai tre di prima, sempre necessariamente misti a quelli? Dobbiamo così ricercare su cinque e non su tre, perché sono appunto cinque, oppure invece noi ci inganniamo chiamando coi nomi di identico e diverso qualcuno di quei generi? – Forse. – Ma il moto e la quiete non sono per niente né il diverso né l’identico. – Perché? – Perché qualsiasi termine noi attribuiamo insieme sia alla quiete sia al moto, questo termine non può indicare né l’uno né l’altro di essi due, quiete e moto. […] Partecipano quindi ambedue dell’identico e del diverso. […] Non diciamo dunque che il moto è l’identico o il diverso e neppure, d’altra parte, diciamo così della quiete. […] Ma forse dobbiamo pensare come una sola cosa l’essere e l’identico? – Forse. – Ma se non significano nulla di diverso l’essere e l’identico, allora dicendo che sia il moto che la quiete sono, di nuovo noi verremmo così a dire che ambedue sono la stessa cosa. […] È quindi impossibile che l’identico e l’essere siano una cosa sola. […] Poniamo come quarto genere, oltre ai primi tre, l’identico? – Certamente. – Dobbiamo poi dire che il quinto è il diverso? O dobbiamo pensare che questo e l’essere sono due denominazioni che si riferiscono a un solo genere? – Forse. – Ma io credo che tu mi conceda che tra le cose che sono si danno due tipi, alcune si dicono essere quello che sono sempre in relazione a se stesse, altre sempre in relazione ad altro. […] Il diverso è sempre in relazione al diverso. […] – Ciò non avverrebbe se l’essere e il diverso non differissero totalmente; […] Dobbiamo dunque porre la natura del diverso come quinto fra i generi da noi prescelti. […] Ed essa è diffusa attraverso tutti gli altri, dobbiamo affermare; infatti ciascuno di essi è diverso dagli altri, non per sé, ma per il fatto che partecipa al carattere proprio del diverso. […] Allora bisogna che noi conveniamo, senza protestare, che il moto è identico e pure non identico. Infatti quando diciamo che esso è identico e non è identico, non diciamo ciò dal medesimo punto di vista, ma quando diciamo che è identico lo diciamo così per la sua partecipazione all’identico, quando diciamo che non è identico, lo diciamo per la sua comunicazione con il diverso.
Unità e molteplicità Le conseguenze dell’interconnessione tra le idee
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L’esistenza di una interconnessione tra le idee ha come inevitabile conseguenza che ciascuna di esse, pur essendo un’entità unitaria (le idee sono chiamate anche «monadi»), presenta una sorta di articolazione interna, determinata appunto dai rapporti di partecipazione con le altre idee. La concezione delle idee come entità complesse, strutturate dalla relazione con le altre idee, comporta l’importante conseguenza teorica di attenuare la rigida separazione fra le idee stesse e le cose empiriche, che era propria della forma originaria della teoria, in cui la «semplicità» invariante delle idee era contrapposta alla «pluralità»
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Unità 3 Platone
Idee e numeri: la ricerca delle determinazioni di ogni singola idea
mutevole delle cose. Ora, il mondo ideale resta certo distinto da quello delle cose sensibili, ma funge più da modello di pensabilità di queste che da alternativa ontologica rispetto ad esse. Per esempio, l’idea di uomo, che ha le proprietà di esistere, di essere identica a se stessa, diversa dalle altre, in moto o immobile, e che inoltre appartiene ai generi di «animale», «terrestre», «bipede» appare come uno strumento per la comprensione dell’essenza dell’uomo concreto piuttosto che un altro esemplare di «uomo» ideale senza rapporti con il primo. In quest’ultima fase della sua riflessione sembra inoltre che Platone abbia equiparato le idee ai numeri, proprio a causa della natura in qualche modo complessa della loro costituzione. L’idea di uomo, per esempio, è indubbiamente una realtà unitaria, esistente in se stessa, separata e indipendente dai molti uomini che di essa partecipano. Tuttavia, essa è anche in qualche modo molteplice, proprio in virtù del fatto che ammette relazioni con altre forme, per esempio quella di animale, o quella di bipede: l’essenza dell’uomo si definisce infatti come «animale bipede». Non è chiaro in che misura Platone abbia sviluppato l’equiparazione tra idee e numeri, ma è indubbio che in un dialogo tardo come il Filebo egli afferma con tutta chiarezza che il compito del dialettico consiste nello stabilire l’esatto numero di determinazioni che entrano a fare parte di ogni singola idea. Almeno in questo senso si può effettivamente dire che per l’ultimo Platone le idee sono numeri, cioè risolvibili e interpretabili in «formule» numeriche.
Le dottrine non scritte: l’uno e la diade La questione della natura complessa delle idee – e dunque del loro rapporto con i numeri – ritorna a proposito di un’altra questione. Si tratta del fatto che le idee ammettono in qualche modo dei principi ad esse superiori. In effetti, Aristotele sembra attribuire al suo maestro una concezione che non si trova formulata chiaramente nei dialoghi, ma che forse Platone espose nelle sue lezioni all’interno dell’Accademia. I principi superiori: In base a questa dottrina – che noi conosciamo soprattutto grazie alla testimol’uno e la diade nianza di Aristotele – le idee deriverebbero da due principi ad esse superiori: l’uno e la diade indeterminata. Dal momento che ogni idea è una realtà unitaria, essa partecipa dell’uno; poiché essa, d’altra parte, è anche molteplice, dipende da un principio di molteplicità, la diade appunto. Le idee dunque si generano (ove la generazione non è temporale ma logica) quando una molteplicità di determinazioni viene raccolta in un’unità, quella della singola idea. Aristotele aggiunge poi che l’uno sarebbe la causa del bene, la diade quella del male. Anche a proposito di questa affermazione bisogna dire che essa non si ritrova nei dialoghi. Ma, almeno per la sua prima parte (l’identificazione dell’uno e del bene), essa non sembra contrastare con ciò che Platone scrive nei dialoghi, soprattutto nella Repubblica, dove l’idea del buono presenta qualche analogia con il principio dell’unità. In ogni caso, bisogna riconoscere che gli sviluppi della riflessione platonica intorno alla natura complessa e articolata delle idee poté dar luogo alla teoria dei principi e alla concezione delle idee-numeri di cui parla Aristotele a proposito ➥ Sommario, p. 157 delle misteriose «dottrine non scritte» (àgrapha dògmata). 147
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Il Timeo La verosimiglianza criterio di indagine del cosmo
Prime relazioni tra mondo ideale e mondo sensibile
Il cosmo e le sue cause Lo studio approfondito delle relazioni logiche e ontologiche interne al mondo delle idee non ha fatto mai perdere di vista a Platone l’importanza di una trattazione filosofica del mondo fisico. A questo tema è dedicato uno dei suoi dialoghi più lunghi e complessi, il Timeo. Qui Platone si propone di indagare l’origine e la struttura del cosmo. A tale proposito occorre fare una considerazione preliminare, che è esattamente quella che fa anche Platone. Egli dichiara – fedele al principio epistemologico più volte richiamato – che la forma di ogni trattazione dipende dalla natura dell’oggetto intorno al quale essa verte. Questo significa che solo del mondo dell’essere, ossia delle idee, si potrà avere una trattazione propriamente scientifica che consenta di giungere alla verità; viceversa, del mondo fisico, il quale è soggetto a mutamento e instabilità, l’unico discorso possibile dovrà essere di natura probabile e verosimile: questo discorso è quindi presentato come un racconto mitico simile alla verità ma non coincidente del tutto con essa. Ove tra la verità e la verosimiglianza vige il medesimo rapporto che si stabilisce tra l’essere e la generazione, cioè tra le idee e il mondo sensibile. Si tratta per la precisione della relazione che lega il modello alla sua copia. Questo significa che come la generazione (copia) sta all’essere (modello) così la verosimiglianza (copia) sta alla verità (modello). Da tutto ciò consegue che i discorsi relativi al mondo fisico – che è per sua natura mutevole e instabile – non potranno che risultare essi stessi instabili e comunque privi del carattere della certezza, che compete solamente alla conoscenza delle idee. Idee
Modello
Essere
Verità
Cosmo
Copia
Divenire
Verosimiglianza
Il riconoscimento dell’esistenza di questi vincoli epistemologici non deve però indurre a ritenere che lo studio del mondo fisico rappresenti qualcosa di poco significativo, relegato all’ambito dell’azzardo. Nulla sarebbe più distante dal punto di vista di Platone. Egli si sforza anzi di fornire un’analisi accurata della struttura del mondo. È però un’analisi che non rinuncia mai a riconoscere i propri limiti, dipendenti appunto dall’oggetto di studio.
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Modello, copia, verosimiglianza Timeo, 29 B-D
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Ma la cosa più importante è cominciare ogni esame prendendo le mosse dal suo principio naturale. Così, dunque, bisogna distinguere fra l’immagine e il suo modello, poiché i discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e solidi […] e inconfutabili, invincibili e non mancanti di nulla; dall’altro, i discorsi su ciò che imita il modello, e che non è che una sua imitazione, bisogna che siano, rispetto ai primi, verisimili; l’essere è rispetto al divenire nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza. Se dunque, Socrate, non saremo in grado di proporti, su molti aspetti e riguardo a molte questioni, sugli dèi e sulla generazione dell’universo, dei ragionamenti perfettamente e compiutamente coerenti con se stessi e del tutto esatti, non stupirti; ma se ti presenteremo dei ragionamenti non
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meno verisimili di altri, dovremo esserne soddisfatti, ricordandoci che io che parlo e voi che siete i miei giudici apparteniamo alla natura umana, sicché, se ci si offre un racconto verisimile su questi argomenti, conviene non cercare ancora oltre.
Le cause dell’origine dell’universo
Il modello ideale, causa del cosmo
Il demiurgo, l’artigiano divino che fabbrica il cosmo
Lo spazio-materia e la copia imperfetta
Secondo Platone il fatto che l’universo sensibile sia una realtà generata comporta una importante conseguenza: esso deve avere una causa, proprio perché ogni realtà generata possiede una causa. La causa del cosmo è rappresentata dal modello ideale, cioè dal mondo delle idee. Tuttavia quest’ultimo va in un certo senso messo in movimento, va cioè attivato, perché solo in questo modo può effettivamente rappresentare la causa del mondo fisico. Per alludere al movimento causale del modello ideale Platone ricorre a una celeberrima immagine, quella del demiurgo. Egli dice che un artigiano divino, il demiurgo appunto, vuole che il cosmo sensibile assomigli il più possibile al modello intelligibile, cioè al mondo delle idee, e per questo fabbrica un prodotto che riproduce i caratteri di completezza e perfezione del modello. Il mondo, infatti, è una copia del modello ideale, fabbricato da un dio buono. Quest’ultimo non è però un dio creatore, come quello ebraico e cristiano (che infatti genera dal nulla), ma appunto un dio artigiano, che agisce su un materiale preesistente. Ecco in estrema sintesi il ragionamento di Platone. Il demiurgo è buono (forse perché partecipa dell’idea del buono); dal momento che è buono, risulta anche del tutto privo di invidia; ciò significa che egli desidera che l’universo generato sia anch’esso buono e bello; dunque lo fabbrica avendo come modello il mondo delle idee, che è infatti perfetto e divino. Tuttavia, il fatto di dovere agire su un materiale preesistente, una specie di spazio-materia, che è invece disordinato e instabile, lo costringe a fare i conti con una sorta di resistenza. Ciò fa sì che il mondo non sia del tutto identico al suo modello, ma solamente simile, sia cioè una copia inevitabilmente deformata.
Le due cause: intelligente e necessaria Vi sono, dunque, due cause fondamentali che spiegano la genesi e la struttura dell’universo. La prima è la causa intelligente, costituita insieme dal demiurgo e dalle idee. La seconda è una sorta di causa «necessaria», cioè indispensabile alla costituzione dei corpi ma dotata di una sua inerzia, che offre quindi una certa resistenza all’azione della ragione. Tutto ciò che è corporeo, irrazionale e disordinato nel mondo dipende dalla presenza di questa seconda causa, che esprime in qualche modo la dimensione della necessità, intesa come un ambito opposto a quello dell’intelligenza. Il principio intelligente Il mondo che noi conosciamo non è altro che il prodotto della mescolanza tra e la persuasione queste due cause, le quali non vanno però collocate sullo stesso piano, dal modella necessità mento che il principio intelligente e razionale (demiurgo e idee) esercita una certa prevalenza e riesce a «persuadere» la necessità (anànke). La formazione del mondo somiglia dunque, metaforicamente, all’opera del buon politico, che deve convincere i cittadini della bontà delle sue proposte. 149
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Parte prima L’età antica La formazione del cosmo
Stadio iniziale
Intervento del demiurgo
Mondo ideale completo e perfetto
Imitazione del modello
Materia corporea instabile e caotica
Tentativo di persuasione della materia
Cause Idee + demiurgo = causa intelligente Materia = causa necessaria
Stadio finale
Universo sensibile, copia imperfetta di quello ideale
La supremazia della razionalità La supremazia della causa razionale nei confronti di quella necessaria si esprime attraverso il ruolo giocato dall’anima. Il cosmo per Platone è un essere vivente. Come tale, possiede un’anima, oltre che un corpo costituito dai quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. L’anima esercita il comando sul corpo e ne guida il movimento. La presenza di quest’anima cosmica risulta massimamente evidente al livello dei movimenti degli astri, che si comportano in conformità a precise leggi matematiche (razionali). Il ragionamento di Platone segue il seguente andamento: il cosmo sensibile è un essere vivente. Questo risulta palese dal fatto che esso si muove, ossia che al suo interno accadono processi (di crescita per esempio) e vere e proprie traslazioni locali (pensa al moto degli astri). Ma se un essere si muove lo può fare solo perché possiede un’anima. Dunque, il mondo ha un’anima. Quest’ultima è stata collocata dal demiurgo al centro del mondo, per guidarlo e regolarne i movimenti. Essa compenetra il corpo cosmico dappertutto e arriva ad avvolgerlo dall’esterno. In questo senso, l’anima cosmica assolve al ruolo di mediatrice tra la perfezione delle idee e il caos della materia precosmica (la quale costituisce un aspetto della necessità). I quattro elementi La prevalenza dell’intelligenza sulla necessità trova espressione in un secondo e i poliedri aspetto. Si tratta del fatto che i corpi fisici elementari, ossia i quattro elementi propri della fisica di Empedocle (vedi Unità 1, p. 52 s.), presentano al loro interno una struttura matematica, per la precisione geometrica. Ciascun corpo risulta difatti composto da poliedri regolari: il fuoco da tetraedri (piramidi), l’acqua da icosaedri, l’aria da ottaedri, la terra da cubi. Essi a loro volta risultano scomponibili in triangoli, che, infine, si formano a partire da due tipi di triangoli fondamentali, il triangolo isoscele rettangolo e il triangolo scaleno rettangolo. Ciò significa che la materia è in ultima analisi costituita da strutture geometrico-matematiche, dunque da entità intelligibili. È facile constatare come la fisica-matematica del Timeo si ponga in alternativa sia all’elementarismo di Empedocle sia all’atomismo di Democrito: per Platone la sfera della materia non è veramente autonoma ma rimanda a un piano fondativo ad essa superiore, rappresentato dalle figure geometriche, cioè da entità ideali. Una tesi come questa presenta più di un’analogia con posizioni della fisica del Novecento, e infatti alcuni fisici, come il premio Nobel Werner Heisenberg, hanno fatto del Timeo un punto di riferimento per le loro riflessioni filosofiche; per le stesse ragioni, molto prima, il grande dialogo esercitò un’influenza determinante nella Ri➥ Sommario, p. 157 voluzione scientifica seicentesca, quando, con Galileo, nacque la fisica moderna.
L’anima del cosmo ne guida il movimento
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Unità 3 Platone La struttura geometricomatematica della materia
Forme elementari
Triangolo scaleno rettangolo
Triangolo isoscele rettangolo
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Intervento del demiurgo Con sei triangoli scaleni rettangoli forma un triangolo equilatero
Con quattro triangoli isosceli rettangoli forma un quadrato
Con i triangoli equilateri forma:
Con sei quadrati forma:
Poliedri regolari
I quattro elementi
Tetraedro (piramide)
Fuoco
Ottaedro
Aria
Icosaedro
Acqua
Cubo
Terra
Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione
Nelle pagine precedenti si è visto come la riflessione platonica prenda le mosse dalla constatazione dell’esistenza di scissioni apparentemente inconciliabili: tra l’essere (le idee) e il divenire (le cose sensibili), tra l’intelligibile e il sensibile, tra la ragione e la sensazione, tra la conoscenza e l’opinione, tra l’anima e il corpo. Essa però è costantemente percorsa dal tentativo di mediare tra questi estremi, di stabilire dei punti di incontro tra gli opposti. La tensione Si direbbe anzi che l’essenza stessa della filosofia platonica consista esattamente neltra gli estremi l’immane sforzo di fare incontrare l’alto e il basso, l’intelligibile e il sensibile, ossia di innalzarsi verso l’‘alto’ della verità e dei valori, e poi di trasferire quaggiù ciò che si trova lassù: di conoscere le idee e di applicare nella città le norme ideali, di costruire nel nostro mondo un’imitazione della kallìpolis, cioè della città perfetta, ideale, dunque utopica, ma, proprio per questo, modello cui si deve orientare l’agire politico.
Conciliare l’inconciliabile
Eros demone mediatore La funzione mediatrice che Platone assegna alla filosofia trova l’espressione più straordinaria nella descrizione della figura di Eros, solitamente considerato il dio dell’amore. Secondo Platone, infatti, in Eros si manifesta la stessa natura del filosofo, che consiste nel riconoscimento della propria mancanza, del proprio deficit, e nello sforzo di colmare, ovviamente nei limiti del possibile, questa mancanza. Nel Simposio, il grande dialogo dedicato all’amore, Platone spiega che, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, Eros non è un dio, quindi perfetto e autosufficiente, bensì un demone, ossia un’entità intermedia collocata tra gli uomini e gli dèi. Desiderio e mancanza: Questa intermedietà spiega l’aspetto più significativo di Eros, ossia la sua natura la tensione verso tensionale, il fatto che egli aspiri a qualcosa di cui non è in possesso. Eros deve la la conoscenza sua natura intermedia alla combinazione delle caratteristiche dei suoi genitori, il padre Pòros (espediente) e la madre Penìa (privazione, povertà). Dal padre Eros riceve il desiderio delle cose belle e buone e soprattutto la capacità di procurarsele; dalla madre egli eredita lo stato di mancanza, cioè l’assenza del bene e del bello. Ciò significa che Eros non è un dio – il quale possiede in modo perfetto e compiuto il bene e proprio per questo non deve aspirare ad esso – ma un demone, cioè un’essenza intermedia che desidera ciò che non ha ed è in possesso delle capacità che gli consentono di aspirare e di raggiungere l’obiettivo. Vediamo, nel testo che segue, come la sacerdotessa Diotima racconta a Socrate il mito della nascita di Eros. Simposio: Eros entità intermedia
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Eros: ruvido, misero, instancabile cacciatore di sapienza
Simposio, 203 B-204 A
In occasione della nascita di Afrodite, gli dèi si trovavano a banchetto, e tra questi c’era anche il figlio di Saggezza, cioè Espediente (Pòros). Dopo che ebbero pranzato, venne a chiedere l’elemosina, come accade quando c’è una festa, Povertà (Penìa); e stava vicino alla porta. Espediente, ubriaco di nettare (ché il vino ancora non c’era), entrato nel giardino di Zeus, era stato colto da un sonno profondo. Allora Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Espediente, gli si sdraia accanto e concepisce Eros. Ecco perché Eros, generato durante le feste natalizie di Afrodite, è fin dalla nascita suo seguace e ministro, ed è insieme, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite. E come figlio di Espediente e Povertà, ecco che destino gli è capitato. Anzitutto è povero sempre, e tutt’altro che delicato e bello, come credono i più, ma anzi è ruvido, ispido, scalzo e senza tetto; e abituato a sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire sotto il cielo sulle soglie e per le strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua convivenza con la miseria. Per parte del padre, invece, è ardente insidiatore del bello e del buono, e valoroso, impavido e veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di conoscere e ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore, esperto di filtri e sofista. […] Eros non è né povero né ricco. Anche tra sapienza e ignoranza egli sta nel mezzo. E la ragione è questa: nessuno degli dèi filosofa né aspira a diventare sapiente perché lo è già […]. D’altra parte nemmeno gli ignoranti filosofano, né desiderano diventare sapienti, perché proprio questo l’ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno.
La filosofia come tensione erotica Il filosofo platonico non è, dunque, né il sapiente (sophòs) arcaico, alla maniera di Parmenide e di Eraclito, né l’uomo comune, ignorante e privo di tensione verso la conoscenza. Come indica la stessa parola, la philo-sophìa è amore e tensione verso la sapienza (philèin significa «tendere», «desiderare», «amare»; sophìa significa «sapienza»); essa è la constatazione di una condizione di insufficienza e mancanza, e contemporaneamente è il desiderio di colmare questa assenza. Il filosofo, come Eros, è in possesso delle capacità per realizzare il proprio obiettivo, perché in se stesso ha le qualità per superare la condizione di partenza e per accedere alla conoscenza. Fuor di metafora, questo significa che l’uomo possiede nella sua anima un principio, quello razionale, che, se correttamente valorizzato, gli consente di arrivare a conoscere il mondo delle idee e di applicare le norme di quel mondo anche alla vita politica. La filosofia, mediazione La filosofia comporta dunque per Platone un aspetto erotico, cioè tensionale. Estra mondo ideale sa è investita del compito di operare quelle mediazioni di cui si diceva. Si tratta e mondo reale di mediazioni sia verso l’alto, sia verso il basso. Verso l’alto: attraverso la conoscenza del bello corporeo si raggiunge il bello ideale, rappresentato dall’idea del bello; lo stimolo fornito dalla bellezza dei corpi e poi delle costituzioni politiche spinge l’anima a desiderare di conoscere la bellezza in se stessa. Verso il basso: la conoscenza delle idee induce il filosofo, giunto finalmente al termine del suo cammino ascensionale, ad applicare nel mondo di quaggiù la perfezione delle norme ideali; l’impegno politico del filosofo-re non è altro che l’esigenza di costruire nella città concreta un’immagine il più possibile simile alla città perfetta, giusta e felice pensata nel grande dialogo sulla giustizia, ossia nella Repubblica. Il filosofo come Eros: l’amore per la sapienza
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La caverna Per Platone la filosofia non è solo il cammino verso la conoscenza (delle idee), ma è anche lo sforzo di applicare nel mondo ciò che si è conosciuto. Questo aspetto emerge molto chiaramente in un altro grande mito platonico, quello della caverna. Repubblica: Platone immagina che la condizione esistenziale degli uomini sia simile a quella di la liberazione prigionieri incatenati nel fondo di una caverna. Alle loro spalle si trova un muretto dalle opinioni comuni sopra il quale altri uomini fanno passare delle statuette; un fuoco collocato dietro i prigionieri fa sì che le ombre delle statuette vengano proiettate davanti ai prigionieri. Costoro, incatenati fin da bambini, credono che la realtà consista solamente nelle ombre che vengono proiettate davanti a loro. Se uno di essi viene liberato dalle catene può rendersi conto, con grande sorpresa, che ciò che reputava essere l’unica realtà (le ombre) altro non è che il riflesso di qualcos’altro (le statuette), ossia l’immagine e la copia di qualcosa che è più reale. Se poi gli viene permesso di uscire dalla caverna, potrà vedere le cose effettivamente esistenti, ossia gli uomini veri e le altre cose naturali, potrà poi rivolgere lo sguardo agli astri del cielo e infine verso il sole. Si renderà così conto che la vera realtà è quella che si trova al di fuori della caverna. Attraverso questo celebre mito Platone intende alludere alla situazione dell’uomo rispetto alla conoscenza: la vera conoscenza è quella delle idee, relativa a oggetti che, esattamente come quelli collocati al di fuori della caverna, sono fuori dalla portata dell’uomo prigioniero delle opinioni comuni. Essa culmina con la visione dell’idea del bene, espressa nel racconto dal sole, che costituisce il punto culminante del processo conoscitivo. Il mito della caverna
Scrive Platone: «Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna; qui stanno fin da bambini, con le gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti, giacché la catena impedisce loro di poter girare la testa; fa loro luce un fuoco acceso alle loro spalle, in alto e lontano […]» (Repubblica, 514 AB); con queste parole si apre il mito che forse più di ogni altro ha segnato la storia del pensiero filosofico occidentale e dietro al quale si nasconde uno dei nodi concettuali più pregnanti della teoria delle idee platonica, quello dell’idea del buono.
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Il mito suggerisce un secondo elemento, del tutto fondamentale per il nostro discorso. Platone precisa che il prigioniero liberato, una volta conosciuta la vera realtà che si trova al di fuori della caverna, ha il dovere di fare ritorno nella caverna e tentare in tutti i modi di educare gli altri uomini sulla base delle conoscenze che egli nel frattempo ha acquisito. Il ritorno o discesa Ancora una volta per Platone non è sufficiente l’anàbasis, ossia il cammino verso del filosofo l’alto; occorre anche la katàbasis, cioè il percorso verso il basso, che è il sentiero nella caverna che il filosofo deve percorrere per applicare nel nostro mondo i principi acquisiti per mezzo della conoscenza delle idee. Platone arriva ad ammettere che colui che ha contemplato la vera realtà, ossia le idee e l’idea del Bene, preferirebbe trascorrere la sua vita contemplando questi oggetti; proprio per questo deve venire costretto a fare ritorno nella caverna, cioè nella città degli uomini, per educare anche questi ultimi. Nel riassumere il senso del mito della caverna Platone scrive:
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Ascesa e discesa del filosofo Repubblica, 7,517 B-E
Il dovere del ritorno per trasmettere il sapere agli altri
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– Questa immagine pertanto, caro Glaucone, io dissi, va applicata tutta intera a quel che dicevamo prima: la regione che ci appare tramite la vista è da paragonare alla dimora dei prigionieri, la luce del fuoco che sta in essa alla potenza del sole; ponendo poi la salita quassù e la contemplazione di quel che vi è quassù come l’ascesa dell’anima verso il luogo del noetico non ti ingannerai sulla mia aspettativa, dal momento che vuoi conoscerla. Dio solo sa se può esser vera. Questo è comunque quel che a me appare: all’estremo confine del conoscibile vi è l’idea del buono e la si vede a stento, ma una volta vistala occorre concludere che essa è davvero la causa di tutto ciò che vi è di retto e di bello, avendo generato nel luogo del visibile la luce e il suo signore, in quello del noetico essendo essa stessa signora e dispensatrice di verità e di pensiero; e che deve averla vista chi intenda agire saggiamente sia nella vita privata sia in quella pubblica. – Sono d’accordo anch’io, disse, almeno come mi è possibile. – Sì allora, dissi io: convieni anche su questo fatto, che non c’è da sorprendersi se chi è giunto fino a tal punto non voglia poi occuparsi delle faccende degli uomini, e la sua anima aspiri sempre a restare lassù: è in effetti del tutto verosimile che sia così, se anche questo sta nel modo descritto dalla nostra immagine. – Verosimile, certo, disse. – E allora pensi che in questo ci sia qualcosa di sorprendente, dissi io: che un uomo, passato da divine contemplazioni alle umane sventure, agisca goffamente e appaia molto ridicolo, se, quando ancora vede male perché non si è assuefatto abbastanza all’oscurità che lo circonda, viene costretto a contendere, nei tribunali o altrove, sulle ombre del giusto o sulle statuette che proiettano queste ombre, e a disputare sul modo in cui tutto ciò vien concepito da coloro che mai hanno visto la giustizia in sé? – Per nulla affatto sorprendente, disse. Platone è dunque consapevole delle difficoltà che il filosofo incontra nel mondo della politica. Ma è anche perfettamente convinto che solo tornando nella caverna, ossia nella città, chi ha contemplato le idee può essere utile agli altri uomini. Per questo arriva a stabilire per i filosofi una vera e propria costrizione al governo, anche contro la loro volontà. Con il grande racconto del ritorno nella caverna del prigioniero liberato Platone allude quindi al dovere del filosofo di tornare tra gli uomini e di guidarli sulla
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base dei modelli ideali da lui appresi. In questo modo la costrizione al governo, inizialmente presentata nella forma di un’imposizione (stabilita per legge), si trasforma in una sorta di dovere morale – quello di liberare anche gli altri uomini – al quale il filosofo non può sottrarsi.
Irrazionalità, persuasione, mito Tanto il mito della nascita di Eros quanto l’immagine della caverna esprimono in modo plastico la condizione del filosofo. In realtà Platone ricorre spesso allo strumento del mito per presentare in forma compiuta tesi che sarebbe difficile articolare ricorrendo alle normali procedure argomentative. Questo non significa però che ciò che Platone dice attraverso il mito non possa venire detto anche in forma assertiva. Il mito della caverna, per esempio, non fa che presentare in una visione d’insieme concezioni che erano già state formulate nel corso del dialogo. La forza del mito consiste piuttosto nella sua capacità di generare un maggiore coinvolgimento dell’ascoltatore e del lettore e, dunque, nella capacità di persuadere con più forza. Del resto, gli stessi miti relativi ai premi e alle punizioni che attendono l’uomo nell’aldilà hanno proprio la funzione di esortare alla virtù e lo possono fare con una forza maggiore di quella che è in grado di esibire una dimostrazione razionale. L’irrazionalità umana Il grande progetto di persuasione che percorre l’intera filosofia platonica non può lasciare fuori gli aspetti irrazionali; in questo senso, il mito assolve a una funzione ben precisa. Il richiamo a quest’ultimo aspetto testimonia di quanto Platone fosse consapevole della natura doppia dell’uomo: razionale e insieme irrazionale. La straordinaria potenza del discorso filosofico platonico risiede proprio nella capacità di indirizzarsi a tutti gli elementi in campo. La posta in gioco – che è la rifondazione dell’uomo (del suo sapere, dei suoi valori, del suo modo di vivere insieme agli altri uomini) – è troppo alta perché qualcosa di veramente importante venga lasciato ai margini. Per condurre l’uomo verso la verità, cioè verso la ragione e la co➥ Sommario, p. 157 noscenza, è inevitabile rivolgersi anche agli aspetti non razionali del suo essere. La forza persuasiva del mito
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L’eredità: l’Accademia
L’Accademia, l’istituzione fondata da Platone intorno al 388 a.C., costituiva, oltre che una sorta di scuola per la formazione dei futuri politici, un importante centro di ricerca filosofico-scientifica. Al suo interno vennero effettivamente condotte ricerche specialistiche di alto livello, soprattutto nel campo delle discipline matematiche, da Platone considerate un vero e proprio preludio alla dialettica, ossia alla filosofia. Tra le scienze matematiche studiate all’interno dell’Accademia un posto di primo piano spetta all’astronomia, di cui si occuparono in particolare Filippo di Opunte (l’autore dell’Epinomide) e il grande Eudosso di Cnido. Eudosso: lo studio A quest’ultimo si deve la formulazione del primo modello planetario su basi madel movimento tematiche. Eudosso tentò infatti di costruire un meccanismo matematico che fosdei pianeti se in grado di ricondurre i movimenti dei pianeti, apparentemente irregolari, alla composizione di più moti regolari e uniformi. Se un certo pianeta, per esempio Marte, presentava nel corso del suo moto intorno alla Terra (vista come il centro dell’universo) delle evidenti irregolarità (variazioni di velocità, retrogradazioLe discipline matematiche
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Speusippo: il primato delle entità matematiche
Senocrate: l’identità tra idee platoniche e numeri
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ni), Eudosso cercò di dimostrare come il suo moto fosse in realtà la composizione di più movimenti, ciascuno dei quali risultava in se stesso regolare e uniforme. Il sistema si presentava estremamente complesso dal punto di vista matematico, ma anche notevolmente raffinato. Altrettanto significativo fu l’apporto di Eudosso nel campo della matematica; a lui si deve sia la sistematizzazione della teoria delle proporzioni, sia la scoperta del metodo di esaustione, tramite il quale si arriva a calcolare lunghezze, aree e volumi di difficile determinazione. Entrambi i contributi verranno a far parte del grandioso edificio degli Elementi che Euclide costruirà di lì a pochi decenni (vedi anche Unità 5, p. 309 ss.). Alla morte di Platone, avvenuta come detto nel 348, la guida dell’Accademia fu assunta dal nipote di lui, Speusippo. Anch’egli manifestò un notevole interesse per le scienze matematiche. Arrivò anzi a considerare gli enti matematici (i numeri e le figure) come le uniche realtà intelligibili realmente esistenti. Ciò significa che Speusippo rifiutò le idee platoniche e le sostituì al vertice della gerarchia ontologica con le entità matematiche. Il successore di Speusippo, Senocrate, tentò invece una soluzione conciliatoria, sostenendo che le idee platoniche fossero in realtà identiche ai numeri matematici. In questo modo egli pose le basi di qualcosa di simile a un sapere universale (màthesis universalis), in cui tutti i rapporti ontologici (quelli studiati dalla dialettica di Platone) potessero venire espressi in forma matematica, cioè quantificati. Una posizione di questo genere verrà spesso ripresa dai platonici successivi, sia antichi che moderni, ma verrà anche combattuta da tutti coloro che non saranno disposti a rinunciare al carattere aperto e problematico del platonismo. L’affermarsi di soluzioni così differenti a proposito di una delle concezioni più importanti della filosofia platonica – quella delle idee che viene rifiutata da Speusippo e modificata in misura considerevole da Senocrate – dimostra quanto notevole fosse il grado di apertura che caratterizzava la vita dell’Accademia e soprattutto quanto Platone fosse aperto alla critica e alla messa in discussione delle proprie convinzioni filosofiche. Suggerimenti bibliografici Per avere una panoramica a trecentosessanta gradi sull’intero pensiero di Platone sintetica e aggiornata si può consultare M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003. Chiaro ed esauriente il libro di G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 1991. Sulla teoria delle idee è estremamente chiaro e agile il testo di D. Ross, Platone e la teoria delle idee, il Mulino, Bologna 2001. I miti platonici sono raccolti e commentati in F. Ferrari, I miti di Platone, BUR, Milano 2006. Sulla Repubblica un quadro completo e sintetico è offerto da M. Vegetti, Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone, Laterza, Roma-Bari 1999. I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Gorgia, trad. di G. Zanetto, BUR, Milano 1994. Platone, La repubblica, trad. di M. Vegetti, BUR, Milano 2007. Platone, Fedone, trad. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 2000. Platone, Fedro, trad. di G. Reale, Mondadori, Milano 1998. Platone, Simposio, trad. di F. Ferrari, BUR, Milano 1985. Platone, Parmenide, trad. di F. Ferrari, BUR, Milano 2004. Platone, Sofista, trad. di A. Zauro, Laterza, Roma-Bari 1971. Platone, Timeo, trad. di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. Il brano di Epicrate citato a p. 144 è tratto da Epicrate, in Ateneo, Deipnosofisti, trad. di F. Ferrari.
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Unità 3 Platone
Sommario 1. PLATONE
E LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
I grandi protagonisti teorici della filosofia platonica sono anche i grandi protagonisti del pensiero filosofico in quanto tale: l’essere, la verità, la giustizia, l’anima, l’uomo, la città e il cosmo. Alla poderosa sfida della sofistica, con la sua relativizzazione dei concetti morali e dei criteri di verità, Platone risponde con la sua teoria delle idee, dottrina sulla quale imposta la propria terapia filosofica della verità, della città e dell’anima. 2. IL
MAESTRO, IL DIALOGO, LA MATURITÀ
La vita di Platone, segnata dall’incontro con Socrate, mostra un continuo e instancabile impegno filosofico, politico e culturale, caratterizzato nella maturità dalla fondazione dell’Accademia e dai tre viaggi a Siracusa. La scelta di scrivere dialoghi, anziché trattati, mostra inoltre il suo sforzo costante di modificare mentalità e comportamenti collettivi. 3. VIRTÙ,
DESIDERIO, FELICITÀ
La sfida della sofistica viene interpretata da Platone fino alle sue più estreme conseguenze. Le tesi di sofistipersonaggi quali Callicle (nel Gorgia) e Trasimaco (nella Repubblica) mostrano limpidamente come la giustizia fosse considerata nei crudi termini della utilità e del vantaggio del più forte, conformemente a un’antropologia e a un’etica che legittimavano pienamente la soddisfazione incontrollata dei desideri individuali e, quindi, la sopraffazione altrui (pleonexìa). 4. LA
GIUSTIZIA NELLA PÒLIS: I FILOSOFI-RE
L’analisi-diagnosi della nascita e della degenerazione della pòlis conduce Platone ad approntare una terapia incentrata sull’educazione (paidèia), tale da permettere la formazione di un ceto dirigente, e in particolare di filosofi in grado di governare la città, ovvero i filosofire; al loro interno viene abolita ogni forma di proprietà privata. 5. L’ANIMA
E LA GIUSTIZIA
La psicologia platonica presenta due stadi. Nel primo, elaborato nel Fedone, si presenta un irriducibile e insanabile conflitto tra l’anima e un corpo prigione (sòma-sèma). Nel secondo, elaborato nella Repubblica, l’anima viene invece analizzata attraverso le istanze della corporeità, individuando in essa una parte razionale e una irrazionale e articolandola in tre centri motivazionali. Il giusto equilibrio tra essi conduce insieme alla virtù e alla felicità. Platone istituisce poi uno stretto parallelismo tra anima e città: all’ordine gerarchico fra i tre centri dell’anima – razionale, impulsivo e desiderante –, deve corrispondere quello fra i tre gruppi nei quali viene articolata la città giusta, perfetta e utopica (la kallìpolis): rispettivamente governanti, militari, lavoratori.
6. VERITÀ,
CONOSCENZA E DISCORSO: LE IDEE
In risposta al relativismo della sofistica, la teoria delle idee postula delle entità, le idee o forme (da idèa o èidos), indivisibili, ingenerate, imperiture, che costituiscono il vero essere e che permettono la conoscenza della verità. Tale mondo rappresenta il modello o il paradigma del mondo sensibile, divisibile, generato e corruttibile, legato al primo da un rapporto di partecipazione (come nel caso dell’idea del bello). Il mondo ideale è accessibile grazie alla reminiscenza o anàmnesis. A tale dottrina corrisponde una partizione quadripartita dei gradi della conoscenza: dialettica, ovvero scienza delle idee, affine ma distinta dalla matematica, credenza e immaginazione. È infine centrale l’idea del buono, causa stessa dell’essere. 7. DIALETTICA,
IDEE, PRINCIPI
Negli ultimi dialoghi Platone affronta le possibili interrelazioni tra le idee, sviluppando un’analisi dei rapporti di inclusione ed esclusione reciproca tra le idee. Con ciò egli delinea anche le possibili articolazioni dei generi e delle specie della realtà naturale. Egli stabilisce altresì i cinque generi sommi, riammettendo la pensabilità del non essere inteso come «diverso». 8. IL
COSMO E LE SUE CAUSE
Nel Timeo Platone presenta un’analisi della realtà fisica, la cui validità epistemologica è quella della verosimiglianza, non della verità, secondo la quale il demiurgo, guardando al modello ideale, perfetto e completo (causa intelligente), plasma e persuade la materia (causa necessaria), generando così un cosmo per quanto possibile vicino al primo. I quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) vengono poi ricondotti a una struttura geometrico-matematica. 9. EROS
E FILOSOFIA: ALLA RICERCA DI UNA MEDIAZIONE
Le molteplici contrapposizioni dualistiche platoniche, quali essere e divenire, intelligibile e sensibile, trovano infine una mediazione. L’esempio più esplicito è fornito da Eros, demone mediatore tra il livello idee-verità e quello oggetti sensibili-credenza. Lo stesso filosofo (philò-sophos), in quanto aspirante alla sapienza della quale è privo, si configura quale figura intermedia, mancante e desiderante. Anche l’allegoria della caverna, imponendo al filosofo l’obbligo del ritorno o discesa (katàbasis) dopo l’ascesa conoscitiva (anàbasis), mostra come i due piani della giustizia ideale e delle norme legislative della politica debbano infine trovare una cruciale mediazione. 10. L’EREDITÀ: L’ACCADEMIA
La fortuna e i successi dell’Accademia successivi alla morte del suo fondatore mostrano quanto l’istituzione fosse fertile e aperta. 157
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima-corpo. Traduzione del greco psychè-sòma. Nella prima fase, e soprattutto nel Fedone, Platone contrappone diametralmente e irriducibilmente le due sfere. Nella psicologia della Repubblica, invece, le istanze pertinenti alla sfera somatica vengono direttamente trasposte all’interno dell’anima stessa. Demiurgo. In greco «artigiano», «architetto», «scultore». Egli è colui che, imitando il mondo ideale e plasmando la materia fisica preesistenti, si sforza di costruire un mondo sensibile, il nostro, il più possibile simile a quello ideale, del quale risulta però essere una copia imperfetta a causa della materia sensibile. Desiderio. Il desiderio, traduzione di epithymìa, svolge un ruolo cruciale nella psicologia e nell’etica di Platone. Dal punto di vista psicologico, mentre nel Fedone esso è ricondotto prevalentemente alla sfera fisica, nella psicologia tripartita della Repubblica ogni istanza psichica ha desideri propri (quella razionale la giustizia, quella impulsiva la gloria, quella desiderante il piacere). Dialettica-credenza. Per Platone la dialettica è la scienza stessa (epistème), ovvero lo studio delle idee e dei loro rapporti reciproci. Essa è dunque l’unica via che conduce alla verità, raggiungendo i fondamenti ultimi dell’essere. Le altre forme di conoscenza, che non hanno a che fare con gli oggetti ideali, ricadono nel regno del verosimile, della credenza o opinione (dòxa). Dialogo. Per i suoi scritti Platone sceglie la forma del dialogo, anziché quella del trattato sistematico, per meglio rispondere all’esigenza di coinvolgere direttamente i propri lettori, grazie all’effetto di immedesimazione prodotto dalla forma dialogica, inducendoli a mettere in dubbio le proprie certezze. Eros. In greco vi è sia il dio o demone Eros, sia l’analogo del nostro «amore» o «eros». Anche in Platone ritroviamo i due tipi di eros. Come il demone Eros è un insaziabile amante del bello, così l’eros umano è quella energia che spinge senza posa alla ricerca della verità. Felicità. Traduzione del greco eudaimonìa, indica la vita buona o realizzata. La filosofia etico-politica di Platone, al contrario delle istanze individualistiche poste dalla sofistica, cerca strenuamente di far convergere la felicità individuale con il bene comune. Generi sommi. In greco mèghista ghène. Sono i cinque generi di idee delle quali tutte le altre partecipano: «essere», «identico», «diverso», «moto» e «quiete». Giustizia. Traduzione del greco dikaiosy`ne. La ricerca e la definizione della giustizia rappresenta uno dei temi centrali della filosofia platonica. Politicamente, es158
sa è garantita da un ordinamento della città ove ognuno fa le cose che gli sono proprie per natura. Dunque, i sapienti filosofi governano, e gli altri svolgono i compiti da loro affidatigli. Psicologicamente, è garantita dal governo intrapsichico della parte razionale. Idea del buono. È l’idea sulla quale si regge l’intera impalcatura morale platonica: è l’idea del buono a innervare ogni tipo di azione virtuosa, costituendone il fine. Essa gioca un ruolo di assoluta rilevanza anche sul piano epistemologico: la conoscenza stessa delle idee è resa possibile dall’idea del buono. Infine, sul piano ontologico, l’idea del buono è la causa dell’essere delle idee, pur trascendendole. Idea / Forma. Dal greco èidos o idèa, «forma», «figura», «idea». Le idee per Platone sono le realtà soprasensibili atemporali, invisibili, indivisibili e immutabili, sulle quali viene fondato, ontologicamente ed epistemologicamente, il mondo sensibile, copia di quello ideale. Esse inoltre forniscono il modello, il paradigma sul quale commisurare e rifondare sia il vivere politico-sociale sia la propria anima. Paidèia. La paidèia, in greco «educazione», assume in Platone un ruolo etico-politico nevralgico: è solo attraverso una corretta formazione che si può dar vita a una classe dirigente in grado di condurre la città verso la giustizia. Partecipazione. Traduzione del greco methèxis, essa esprime il rapporto che le cose sensibili intrattengono con le idee. Tale rapporto diverrà sempre più importante nella filosofia platonica, estendendosi anche ai rapporti reciproci tra le idee. Reminiscenza o anàmnesis. La teoria secondo la quale, essendo la scienza conoscenza delle idee, ed essendo le idee entità eterne conosciute dall’anima in una dimensione spazio-temporale pre-natale, la conoscenza è in verità ricordo delle idee precedentemente «viste». Utopia. Dal greco ou, «non», e tòpos, «luogo», ovvero «luogo inesistente». La kallìpolis delineata nella Repubblica ha carattere utopico ma anche normativo: il modello deve informare e innervare ogni agire politico, dimodoché la realtà possa avvicinarsi quanto più possibile al paradigma. Virtù. Traduzione del greco aretè, che vale anche «eccellenza»; essa esprime soprattutto qualità morali. Se i dialoghi socratici sono incentrati sulla ricerca delle definizioni di molteplici virtù, diverranno poi fondamentali le quattro virtù della sapienza (sophìa), del coraggio (andrèia), della temperanza o moderazione (sophrosy`ne) e della giustizia (dikaiosy`ne).
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Questionario PLATONE
A cosa si rivolge la terapia filosofica platonica? (max 2 righe)
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IL
VIRTÙ,
Per quali ragioni Platone scelse la forma del dialogo? (max 5 righe)
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Analizza le relazioni tra T1 e T3: in quale senso Trasimaco opera una radicalizzazione delle tesi di Callicle? (max 6 righe)
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Quali sono i concetti-chiave esposti in T5 che mostrano come per Platone gli uomini si riuniscano in comunità sulla base di un principio collaborativo e non conflittuale? (max 6 righe)
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Su quali basi in T6 Platone mette al bando i poeti classici? (max 5 righe)
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In che senso l’abolizione della proprietà privata per i guardiani può sottrarli ai rischi insiti nella detenzione del potere stando a T8 e T9? (max 7 righe)
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In T14 la sacerdotessa Diotima disegna una scala ascensionale che conduce gradualmente verso il bello in sé; riepiloga le singole fasi nelle quali essa si snoda. (max 10 righe)
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In T15 il matematico è detto rivolgersi alle figure in sé, tuttavia il suo procedere dimostrativo è differente da quello del dialettico, perché? (max 5 righe)
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In T17 viene mostrato come le problematiche legate alla contrarietà possano essere estese dalle cose alle idee; quali sono le differenze essenziali che distinguono i due ambiti? (max 10 righe)
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Qual è la differenza fondamentale tra i generi del moto e della quiete da una parte e i generi dell’identico e del diverso dall’altro esposta in T18? (max 5 righe)
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Ricostruisci uno schema che renda conto delle relazioni fondamentali esposte in T19 tra i sei concetti seguenti: modello, verità, copia, essere, divenire, verosimiglianza. (max 4 righe)
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In T21 l’idea del buono è paragonata al sole; Platone scrive che «una volta vistala» occorre giungere a una conclusione, quale? (max 5 righe)
DESIDERIO, FELICITÀ
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Quali i punti di contatto e quali le differenze tra le tesi di Trasimaco, di Callicle e il mito di Gige? (max 10 righe)
GIUSTIZIA NELLA PÒLIS: I FILOSOFI-RE
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L’ANIMA 5
VERITÀ, 6
Per quali ragioni Platone istituisce una rigida censura della poesia classica? Inoltre, quali sono i quattro livelli nei quali si articola il processo educativo (paidèia) che conduce alla formazione dei filosofi-re? (max 15 righe) E LA GIUSTIZIA
Esponi i cardini concettuali sui quali ruota la ‘rivoluzione psicologica’ che intercorre tra il Fedone e la Repubblica e spiega il rapporto tra l’immagine della biga alata del Fedro e l’anima tripartita della Repubblica. (max 20 righe) CONOSCENZA E DISCORSO: LE IDEE
Descrivi le caratteristiche fondamentali dell’idea del buono. (max 6 righe)
DIALETTICA, 7
IL
Lavoriamo sui testi
MAESTRO, IL DIALOGO, LA MATURITÀ
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LA
E LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
IDEE, PRINCIPI
Platone compie un ‘parricidio’: riammette la pensabilità del non essere. Esso però non è più inteso, come in Parmenide, in senso assoluto, ma relativo; che cosa significa? (max 10 righe)
COSMO E LE SUE CAUSE
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EROS
Che cosa intende Platone con i concetti di «causa intelligente» e di «causa necessaria»? Quali sono i componenti fondamentali (geometrici) della materia? (max 10 righe)
E FILOSOFIA: ALLA RICERCA DI UNA MEDIAZIONE
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In che senso l’intera filosofia di Platone può esser letta quale immane tentativo di conciliare e mediare contrapposizioni apparentemente inconciliabili? (max 10 righe)
L’EREDITÀ: L’ACCADEMIA 10
Quali furono le discipline principali dell’Accademia dopo la morte di Platone? (max 3 righe)
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura Il Fedro Platone vive e scrive in una fase di passaggio, nella quale la cultura tradizionale fondata sull’oralità, ossia sulla trasmissione orale del sapere e delle conoscenze, viene lentamente affiancata (e solo dopo Platone definitivamente soppiantata) da quella scritta. Orale è la cultura dei poemi omerici, i quali vengono recitati da aedi nelle corti; orale è la cultura aristocratica della grande lirica (per esempio Pindaro), fondata anch’essa in larga parte sulla performance recitativa del poeta; ma orale è soprattutto la pratica di trasmissione delle informazioni utili alla vita e dei valori ai quali gli uomini dovrebbero conformarsi. Nel corso del V secolo a.C. questa situazione viene lentamente mutando; l’alfabetizzazione comincia a diffondersi, determinati saperi vengono trasmessi sempre più per mezzo della stesura di trattati scritti (pensa alla medicina con il corpus ippocratico o alla storiografia con le opere di Erodoto e Tucidide). Inoltre l’estensione della pratica della democrazia in città come Atene risultava inevitabilmente collegata alla diffusione di codici legislativi o almeno di leggi scritte che, da un lato presupponevano, dall’altro incoraggiavano, lo sviluppo dell’alfabetizzazione. Insomma: Platone sembra trovarsi in una situazione per certi aspetti analoga a quella nella quale ci troviamo noi; una situazione di passaggio tra una forma tradizionale di trasmissione del sapere, quella orale, e una nuova, quella fondata sul testo scritto (tavolette di cera e solo in un secondo tempo rotoli di papiro), proprio come noi stiamo vivendo una fase di passaggio segnata dall’avvento di nuovi strumenti di comunicazione del sapere e delle informazioni (internet, ma anche l’uso dei telefoni cellulari con gli SMS) che stanno soppiantando la cultura del libro. Platone si dimostra straordinariamente consapevole delle implicazioni che l’avvento, o meglio la definitiva affermazione di questo nuovo modo di trasmettere il sapere comporta. Nelle pagine conclusive del Fedro egli analizza le potenzialità e i pericoli della scrittura, e lo fa partendo dal racconto mitico dell’origine di questa pratica di comunicazione. La scrittura sarebbe nata – insieme ad altre arti come l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, gli scacchi e i dadi – nell’antico Egitto, grazie alla scoperta del dio Theuth, il quale sottopone poi le sue invenzioni a Thamus, il re degli dèi. Il racconto dell’invenzione della scrittura costituisce uno dei brani più affascinanti e attuali di Platone, perché in esso il filosofo argomenta in favore di una tesi che anche noi siamo probabilmente disposti a condividere: l’idea cioè che il mezzo con il quale comunichiamo non è affatto neutrale rispetto al messaggio che intendiamo trasmettere.
Platone: l’invenzione della scrittura Esordio: il mito di Theuth e la scoperta della scrittura
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SOCRATE – Io posso narrarti una storia tramandataci dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO – La tua domanda è ridicola! Ma narrami questa storia che hai udito. SOCRATE – Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli antichi dèi di quel luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di questo dio era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia e poi il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, anche in quel tempo, re di tutto l’Egitto era Thamus e abitava nella grande città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava inse-
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Tesi di Theuth: la scrittura è un rimedio perché aiuta a ricordare Tesi di Thamus: la scrittura indebolisce la memoria perché chi se ne serve si accontenta di fermarsi ai segni senza appropriarsi interiormente del contenuto
Commento e interpretazione
gnarle a tutti gli Egizi. E il re gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti, e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che, su ciascun’arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o in lode, e per esporle sarebbe necessario un lungo discorso. Ma quando si giunse alle lettere dell’alfabeto, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora, essendo padre delle lettere, per affetto tu hai detto proprio il contrario di quello che esse valgono. La scoperta della scrittura, infatti, avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con loro, perché sono diventati conoscitori di opinioni invece che sapienti». [A] FEDRO – O Socrate, ti è facile narrare racconti egiziani, o di quale altro paese tu vuoi. SOCRATE – Ma se ci sono stati alcuni, mio caro, che hanno creduto che i primi vaticini di Zeus venissero dai discorsi di una quercia! Gli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, nella loro semplicità, si accontentavano di ascoltare «una quercia o una rupe», purché dicessero la verità; ma per te, forse, fa differenza chi parla e di dove è; infatti, tu non guardi solamente a questo, se le cose stanno come egli dice oppure se stanno diversamente. FEDRO – Hai colpito giusto: anche a me pare che, riguardo alla scrittura, le cose stiano come dice il re tebano.
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A. Secondo il suo inventore Theuth, la scrittura è un rimedio (phàrmakon) della memoria, perché aiuta, mediante i segni scritti, a ricordare le cose apprese. Tuttavia per il re Thamus le cose non stanno affatto così. Essa non costituisce un vero ausilio alla memoria (mnème), anzi ne provoca un indebolimento, perché chi si serve della scrittura è portato a trascurare la memoria e, credendo di conoscere veramente ciò che sta scritto, non si impegna nello sforzo di appropriarsene con la sua anima. Platone vuole dire che il sapere che si accompagna alla scrittura è estrinseco all’anima, è cioè un sapere dell’esteriorità, mentre il vero sapere appartiene alla dimensione dell’interiorità, ossia all’anima. In altre parole, noi possiamo ripetere all’infinito il contenuto di un testo scritto, ma ciò non significa che lo abbiamo veramente appreso, vale a dire che ce ne siamo impossessati interiormente. Nel contrapporre l’elogio fatto da Theuth alle qualità della scrittura alla consapevolezza di Thamus dei limiti di questa forma di trasmissione del sapere, Platone allude alla distinzione fondamentale tra le tecniche di produzione (l’invenzione della scrittura) e le tecniche d’uso (la capacità di valutare con consapevolezza i rischi dell’utilizzo di una certa scoperta) e si schiera apertamente in favore della superiorità di queste ultime. 161
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Parte prima L’età antica Prima tesi di Socrate: lo scritto è utile soltanto a richiamare alla memoria di chi già lo conosce il sapere che in esso viene trasmesso Argomento: il discorso scritto non è commisurato alla capacità di comprensione del lettore e può quindi essere frainteso
Seconda tesi di Socrate: il discorso orale è superiore al discorso scritto Argomento: il discorso orale, il lògos tra maestro e discepolo, sa difendersi da sé e sa commisurarsi al suo destinatario
SOCRATE – E allora, chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità e ignorare veramente il vaticinio di Ammone, se ritiene che i discorsi messi per iscritto siano qualcosa di più di un mezzo per richiamare alla memoria di chi sa le cose trattate nello scritto. [B] FEDRO – Giustissimo. SOCRATE – Perché, o Fedro, questo ha di terribile la scrittura, simile, per la verità, alla pittura: le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa, se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola da per tutto, nelle mani di coloro che se ne intendono e così pure nelle mani di coloro ai quali non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi né di aiutarsi da solo. [C] FEDRO – Anche questo che hai detto è giustissimo. SOCRATE – E allora? Vogliamo considerare ora un altro discorso, fratello legittimo di questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca, e, per sua natura, quanto sia migliore e più potente di questo? FEDRO – Qual è questo discorso, e in quale modo tu dici che nasca? SOCRATE – È il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell’anima di chi impara, e che è capace di difendersi da sé e sa con chi deve parlare e con chi deve tacere. FEDRO – Intendi dire il discorso di chi sa, il discorso vivente e animato, del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine. [D] SOCRATE – Sì, appunto. Ora, dimmi un po’ questo: l’agricoltore che ha senno, farà sul serio seminando d’estate nei «giardini di Adone» i semi che gli
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B. La scrittura può avere solo una funzione di ausilio per chi già conosce il sapere che in essa viene trasmesso. Infatti essa non è un ausilio alla memoria (mnème), che anzi viene indebolita dalla pratica della scrittura, bensì del richiamare alla memoria (hypòmnesis), che consiste nell’atto di servirsi del testo scritto per farsi tornare in mente ciò che si è appreso con l’anima e dunque si conosce veramente. Chi già sa, può utilizzare un testo scritto allo scopo di rammentarsi di una conoscenza che egli ha effettivamente interiorizzato e che dunque possiede veramente. Viceversa, chi crede di potere acquisire ex novo una conoscenza servendosi della sola scrittura, si espone al rischio di ottenere l’apparenza esteriore del sapere (esteriore perché espresso nella forma di segni, appunto le lettere, esterne all’anima), che risulta agli occhi di Platone ancora più pericolosa dell’ignoranza. C. Secondo Platone il limite più significativo della scrittura consiste nella sua immobilità, ossia nel fatto che un testo scritto è incapace di commisurare la forma del messaggio alla natura del destinatario, cioè del lettore. Questa mancanza determina due conseguenze, entrambe devastanti. Da un lato, il testo scritto ripete sempre la stessa cosa, esso non è cioè in grado di modulare il messaggio a seconda delle capacità di comprensione del lettore. Questo significa che corre costantemente il rischio di venire frainteso. Se interpretato in modo scorretto, infatti, un testo scritto non può autocorreggersi, indicando quale sia l’interpretazione esatta. Inoltre – e veniamo alla seconda devastante conseguenza – una volta scritto un testo può finire nelle mani di chiunque, sia di chi è in grado di
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Argomento: con la dialettica si seminano discorsi che generano conoscenza
stanno a cuore e dai quali vuole che nascano frutti, e si rallegrerà nel vederli crescere belli in otto giorni, o lo farà per gioco e a motivo della festa, se pure lo farà? Invece, i semi dei quali si preoccupa sul serio li seminerà in luogo adatto, seguendo tutte le regole dell’arte dell’agricoltura, contento che quanti ne ha seminati giungano al loro termine in otto mesi? FEDRO – Così farà, Socrate, in quest’ultimo caso seriamente, nell’altro non seriamente, come tu dici. SOCRATE – E chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono, dovremo dire che abbia meno senno di un agricoltore per le sue sementi? FEDRO – No, assolutamente. SOCRATE – E allora, se vorrà fare sul serio, non le scriverà sull’acqua nera, seminandole mediante la cannuccia da scrivere, facendo discorsi che non sono capaci di difendersi da soli col ragionamento, e che non sono nemmeno capaci di insegnare la verità in modo adeguato. FEDRO – No, almeno non è verisimile. SOCRATE – No, infatti. Ma i giardini di scritture li seminerà e li scriverà per gioco, quando li scriverà, accumulando materiale così da richiamare alla memoria per sé medesimo, quando giunga alla vecchiaia che porta all’oblio, se mai giunga, e per chiunque segua la medesima traccia, e gioirà nel vederli crescere freschi. E quando gli altri si dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili a questi, egli allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi nelle cose che io dico. FEDRO – Ed è un gioco molto bello, Socrate, in confronto dell’altro che non vale nulla, questo di chi è capace di dilettarsi con i discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE – Così è in effetti, caro Fedro, ma molto più bello diventa l’impegno su queste cose, credo, quando si faccia uso dell’arte dialettica e con essa, prendendo un’anima adatta, si piantino e si seminino discorsi con conoscenza, discorsi che siano capaci di venire in soccorso a sé e a chi li ha
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comprenderlo e apprezzarlo, sia di chi non possiede questa capacità. È inevitabile, poi, che quest’ultimo finirà con il disprezzarlo e disprezzare con esso anche la filosofia. Il fatto è – spiega Platone – che un’opera scritta ha costante bisogno dell’aiuto (boètheia) del padre, ossia dell’autore, la cui presenza consentirebbe di evitare, o almeno ridurre al minimo, i rischi di fraintendimento connessi a una circolazione incontrollata. Il vero ‘difetto’ di una composizione scritta consiste allora nella sua assoluta incapacità di calibrare le modalità comunicative al livello di preparazione del destinatario: ripetendo sempre la stessa cosa, lo scritto non opera distinzione tra chi sa e chi non sa; in una parola: non è costitutivamente capace di commisurare il messaggio al fruitore. D. Esiste però un discorso (lògos) fratello di quello scritto, ossia simile a quest’ultimo, ma in grado di sfuggire, almeno in parte, ai limiti sopra evidenziati. Si tratta del discorso orale, ossia del vivo colloquio tra il maestro e i suoi discepoli, discorso di cui quello scritto è, per Platone, una copia (e in un certo senso gli stessi dialoghi sono un’imitazione di discorsi reali). Nel rapporto diretto con i discepoli il maestro, dietro il quale si può vedere il filosofo platonico, può stabilire con chi e in che modo parlare, evitando così i fraintendimenti ai quali si espone il testo scritto. Il maestro conosce l’anima del suo discepolo e dunque può stabilire che tipo di discorsi (lògoi), cioè di argomenti, utilizzare, in modo che essi siano effettivamente in grado di generare conoscenza nel destinatario. Inoltre, la parola orale è in grado di difendersi, appunto perché si avvale della presenza del padre, cioè dell’autore.
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Conseguenza: l’insegnamento filosofico deve basarsi su una conoscenza approfondita dell’oggetto del discorso e tenere conto della persona a cui si rivolge
piantati, che non restino privi di frutto, ma portino seme, dal quale nascano anche in altri uomini altri discorsi, che siano capaci di rendere questo seme immortale e che facciano felice chi lo possiede, quanto più all’uomo sia possibile. FEDRO – Molto più bello è questo che dici. [E] SOCRATE – E una volta d’accordo su questo, siamo ora in grado di giudicare, Fedro, le questioni di prima. FEDRO – Quali? SOCRATE – Quelle che volevamo chiarire e per cui siamo giunti a questo punto: esaminare il rimprovero fatto a Lisia circa lo scrivere discorsi, e i discorsi medesimi, quali fossero scritti a norma d’arte e quali fossero invece scritti senza arte. Quanto a ciò che sia a norma d’arte e quanto a ciò che non lo sia, mi pare che lo abbiamo chiarito in maniera conveniente. FEDRO – Sì, mi è parso. Ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE – Prima bisogna che uno sappia il vero su ciascuna delle cose sulle quali parla o scrive, e sia in grado di definire ogni cosa in se stessa, e, una volta definita, sappia dividerla nelle sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più ulteriormente divisibile; e dopo essere penetrato nella natura dell’anima, ritrovando allo stesso modo la specie adatta per ciascuna natura, bisogna che costruisca e ordini il suo discorso in modo corrispondente, dando a un’anima complessa discorsi complessi e che comprendano tutte le armonie, e a un’anima semplice discorsi semplici. Prima di questo, non sarà possibile che si tratti con arte, in quanto convenga per natura, il genere dei discorsi, né per insegnare, né per persuadere, come tutto ciò che si è detto in precedenza ci ha ricordato. [F] FEDRO – Su questo punto proprio questo risulta. SOCRATE – E poi, sulla questione se è bello o brutto pronunciare e scrivere discorsi, e quando il biasimo sia fatto a ragione e quando a torto, non ce l’ha forse chiarito il discorso che abbiamo fatto poco fa? FEDRO – Che cosa abbiamo detto? SOCRATE – Che se Lisia, o chiunque altro, ha scritto o scriverà su cose di interesse privato o di interesse pubblico, proponendo leggi, scrivendo ope-
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E. I «giardini di scrittura», ossia la pratica della composizione di opere scritte, appartengono alla dimensione del divertimento (paidià), non della serietà (spoudè), che è invece appannaggio dell’oralità. Questo non significa, tuttavia, che scrivere sia un’attività indegna di un filosofo. Il fatto è – spiega Platone – che la composizione di testi potrà costituire un’attività nobile solo se accompagnata dalla piena consapevolezza dei limiti di una simile pratica e della natura in qualche modo giocosa che la caratterizza. Del resto, Platone stesso ha scritto discorsi sulla giustizia (la Repubblica), sul bello (il Simposio) e sulle altre virtù; il valore di queste opere va tuttavia valutato alla luce dei limiti della scrittura e va comunque considerato inferiore rispetto all’attività dialettica vera e propria, che consiste nella capacità di scegliere un’anima adatta (cioè dotata per la filosofia) e di immettervi ragionamenti che siano in grado di fare sorgere in essa la vera conoscenza. Come si vede, ritorna il tema, molto caro a Platone, della natura attiva dell’apprendimento filosofico, che richiede una qualche forma di collaborazione anche da parte del discepolo. F. Platone tratteggia i caratteri che deve possedere l’insegnamento filosofico. Esso si deve basare su una conoscenza accurata dell’oggetto intorno al quale verte il discorso; non può che trattarsi dunque di una conoscenza dialettica, capace di definire l’oggetto e di dividerlo nelle sue specie. Inoltre occorre avere una nozione precisa dell’anima del destina-
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Prima conclusione: il vero filosofo è consapevole che lo scritto ha solo la funzione di richiamare alla memoria ciò che si sa già e che la vera conoscenza è quella che si scrive nell’anima di chi apprende
Seconda conclusione: è un filosofo dialettico colui che ha una conoscenza che va oltre le cose che ha scritto ed è capace di soccorrere il contenuto della sua opera
re politiche, nella convinzione che in queste opere scritte vi sia una grande stabilità e chiarezza, allora questo, per chi scrive, sarà di grande vergogna, sia che qualcuno lo dica sia che non lo dica. Intorno al giusto e all’ingiusto, al male e al bene, non distinguere la veglia dal sonno non può non essere vergognosissimo, anche se la moltitudine lo loda. FEDRO – Non può di certo. SOCRATE – Chi ritiene, invece, che in un discorso scritto, qualunque sia l’argomento su cui verte, vi sia necessariamente molta parte di gioco, e che nessun discorso sia mai stato scritto in versi o in prosa con molta serietà (e nemmeno sia mai stato recitato, come i discorsi che vengono recitati dai rapsodi, che senza possibilità di esame e senza nulla insegnare mirano solamente a persuadere), ma che, veramente, i migliori di essi non sono altro che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno; e ritiene che solamente nei discorsi detti nel contesto dell’insegnamento e allo scopo di fare imparare, ossia nei discorsi scritti realmente nell’anima intorno al giusto e al bello e al bene, ci sia chiarezza e compiutezza e serietà; e inoltre ritiene che discorsi di questo genere debbano essere detti suoi, come se fossero figli legittimi, e prima di tutto il discorso che egli reca in se stesso, se mai lo abbia trovato, e poi quelli che, o figli o fratelli di questo, sono nati in ugual modo in altre anime di altri uomini a seconda del loro valore, e saluta tutti gli altri e li manda a spasso; ebbene, Fedro, appunto un uomo di questo genere è probabile che sia colui che tu e io ci augureremmo di diventare. [G] FEDRO – Lo voglio davvero, e mi auguro quel che dici. SOCRATE – E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’ da Lisia e digli che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi, e a Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica, e, in terzo luogo, a Solone e a chiunque in discorsi politici, che chiama leggi, ha composto opere scritte, che se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in grado di dimostrare la debolezza degli scritti, ebbene,
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tario del discorso, in modo che le forme della trasmissione si adattino effettivamente alle capacità ricettive di chi si ha di fronte: a un’anima complessa – spiega Platone – si potranno assegnare ragionamenti (lògoi) complessi, mentre un’anima semplice dovrà venire avvicinata da argomenti semplici. L’educazione per Platone è una pratica situazionale e, per essere condotta in modo corretto, richiede una conoscenza adeguata della concreta situazione che si deve affrontare. G. Con questa descrizione Platone allude all’insegnamento dialettico. Il vero filosofo non è colui il quale compone opere scritte credendo che in esse sia contenuto un sapere solido e autentico. Se egli scrive – e abbiamo visto che Platone effettivamente ha scritto – lo fa con la consapevolezza che i suoi scritti potranno nel migliore dei casi servire da supplemento alla memoria di chi già sa, senza pretendere in alcun modo di indottrinare chi è a digiuno degli argomenti intorno ai quali queste opere vertono. Del resto la vera conoscenza è quella che si scrive nell’anima di chi apprende, e può venire suscitata solo da chi possiede un sapere autentico intorno al bene, al giusto e al bello (ossia alle idee) in chi è adatto a ricevere questo genere di conoscenze. Solo in questo modo si genererà un sapere affidabile, perché non destinato a scomparire con il tempo bensì in grado di rimanere per sempre nell’anima di chi lo ha acquisito.
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Parte prima L’età antica
un uomo del genere va chiamato non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato con verità. FEDRO – E quale è questo nome che tu gli dai? SOCRATE – Chiamarlo sapiente, Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga solamente a un dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato. FEDRO – E non sarebbe per nulla fuori luogo. SOCRATE – Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore di discorsi, o scrittore di leggi? FEDRO – E come no? [H]
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(da Platone, Fedro 274 C-278 E, trad. di G. Reale, Valla, Milano 1998)
H. In conclusione di questa approfondita discussione intorno all’opportunità di scrivere, viene fornita una risposta precisa alla questione se sia o meno corretto avere composto e comporre opere scritte. Tutto dipende dal tipo di conoscenza che si ha delle cose intorno alle quali si scrive e soprattutto dalla capacità di venire in aiuto ad esse. Il filosofo dialettico si distingue dall’oratore (come Lisia), dal poeta (come Omero) e dal grande legislatore (come Solone) perché possiede cose di maggior valore rispetto a ciò che ha scritto, e attraverso queste cose di maggior valore è in grado di soccorrere il contenuto della sua opera. Egli è cioè in grado di mostrare che ciò che ha scritto è un gioco – sebbene nel caso di Platone si tratti di un gioco meraviglioso – e che la serietà, ossia la vera conoscenza, può venire trasmessa solo all’interno di un rapporto diretto tra maestro e discepolo. Colui che è in grado di fare ciò non è un sapiente (sòphos), qualifica che spetta solo al dio, ma un filosofo (philò-sophos), ossia un amante della sapienza, che è esattamente la denominazione che spetta al dialettico.
Questionario sull’argomentazione 1
Che rapporto corre tra la tesi del re egizio Thamus e quella di Socrate? (max 5 righe)
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Quali sono gli argomenti adottati da Socrate per dimostrare i limiti del discorso scritto? (max 10 righe)
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Quali sono le caratteristiche principali del discorso orale e che rapporto corre tra esso e la dialettica filosofica? (max 10 righe)
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Con quali argomenti Socrate dimostra infine che il discorso orale è superiore al discorso scritto? (max 10 righe)
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Unità 3 Platone
Tesi a confronto Platone: governo totalitario o governo democratico? Karl Raimund Popper (1902-1994) è stato uno dei maggiori filosofi della scienza del secolo appena trascorso. Nel suo libro più noto, La logica della scoperta scientifica (1934), ha posto le basi di molti dei successivi sviluppi dell’epistemologia e della storia della scienza del Novecento. Ma, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, Popper è stato anche uno dei massimi esponenti del liberalismo politico europeo. In realtà le sue tesi in favore del liberalismo, inteso come forma di governo che si oppone alle differenti varianti del totalitarismo (statalismo, fascismo, comunismo), furono esposte per la prima volta in un celebre libro, pubblicato sul finire della seconda guerra mondiale, La società aperta e i suoi nemici. Per Popper i grandi nemici della società aperta – che è appunto la società espressa dalle grandi democrazie liberali (Stati Uniti e Inghilterra soprattutto) – sono Platone, Hegel e Marx, i quali vengono accomunati nell’esaltazione del principio della superiorità dello Stato (o della classe) nei confronti dell’individuo. Il primo volume dell’opera di Popper si intitola non a caso Platone totalitario ed è in buona parte dedicato al grande filosofo ateniese. La critica Secondo Popper Platone, specialmente nella Repubblica, si sarebbe opposto a alla Repubblica quelle tendenze, in parte emergenti nell’ambito della riflessione sofistica, le quali miravano ad assegnare il primato all’individuo ed esprimevano in questo modo in forma embrionale un punto di vista vicino a quello delle moderne democrazie liberali. Agli occhi di Popper la Repubblica platonica sarebbe il grandioso tentativo di neutralizzare e sconfiggere questo liberalismo democratico nascente in favore di un collettivismo radicale. Gli strali del filosofo austriaco si indirizzano soprattutto contro la proposta platonica di un governo sottratto alle regole della democrazia e affidato a una casta di sapienti, i celebri filosofi-re, i quali governerebbero per conto degli altri cittadini, in se stessi incapaci di regolamentare razionalmente il proprio agire. Il vero e proprio incubo di Popper è il concetto di utopia, espresso per la prima volta nell’opera di Platone, inteso come un progetto di «ingegneria sociale»: cioè come un piano di trasformazione artificiale e forzosa della vita umana, inteso a migliorarla secondo criteri, metodi e valori che sono conosciuti soltanto da un piccolo gruppo di governanti-sapienti.
Popper, filosofo liberale
Prima risposta
I pericoli dell’utopia da Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario
L’ingegneria utopica platonica
La scelta del fine
È inerente al programma di Platone un tipo di approccio alla politica che è, a mio giudizio, estremamente pericoloso. La sua analisi è di grande importanza pratica dal punto di vista di una ingegneria sociale razionale. L’approccio platonico al quale alludo può essere considerato come tipico dell’ingegneria utopica […] L’approccio utopico presenta le seguenti caratteristiche. Ogni azione razio167
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Parte prima L’età antica
Lo Stato Ideale, fine politico ultimo
Utopia e dittatura
Autoritarismo e soppressione delle critiche
La questione della successione al potere
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nale deve avere un determinato fine. Essa è razionale nella misura in cui persegue il suo fine consapevolmente e coerentemente, e nella misura in cui stabilisce i suoi mezzi in funzione di questo fine. Scegliere il fine è quindi la prima cosa che dobbiamo fare se vogliamo agire razionalmente; inoltre dobbiamo far attenzione a determinare i nostri fini reali o ultimi, dai quali dobbiamo distinguere chiaramente quei fini intermedi o parziali che, di fatto, sono soltanto mezzi, o fasi lungo la via che porta al fine ultimo. Se rinunciamo a tale distinzione, dobbiamo anche rinunciare a chiederci se questi fini parziali sono verosimilmente idonei ad avvicinarci al fine ultimo e, quindi, non possiamo agire razionalmente. Questi principi, se applicati al campo dell’attività politica, richiedono da noi la determinazione del nostro fine politico ultimo, cioè dello Stato Ideale, prima che sia intrapresa qualunque azione pratica. Soltanto quando questo fine ultimo è determinato, almeno nelle sue linee essenziali, soltanto quando siamo in possesso di una specie di modello della società alla quale aspiriamo, soltanto allora possiamo cominciare a considerare i mezzi e i metodi migliori per la sua realizzazione e a stendere un piano per l’azione pratica. Questi sono i presupposti necessari di qualsiasi iniziativa politica che si possa chiamare razionale, e specialmente dell’ingegneria sociale. Questo è, in sintesi, l’approccio metodologico che chiamo ingegneria utopica. Esso è convincente e attraente. Di fatto, è proprio il genere di approccio metodologico che è capace di attrarre tutti coloro che o non sono influenzati dai pregiudizi storicistici o che reagiscono contro di essi. Ma appunto ciò lo rende ancor più pericoloso e rende ancor più necessaria la sua critica. […] Il tentativo utopico di realizzare uno stato ideale, usando un modello globale di società, è tale da richiedere un forte potere centralizzato di pochi e, quindi, da portare verosimilmente all’instaurazione di una dittatura. Questa, io la ritengo una critica dell’approccio utopico; infatti, ho tentato di dimostrare […] che un potere autoritario è la più contestabile forma di governo. […] Una delle difficoltà che incontra un dittatore buono è di stabilire se gli effetti delle misure adottate sono conformi alle sue buone intenzioni […]. La difficoltà deriva dal fatto che l’autoritarismo è per sua natura destinato a scoraggiare la critica e, quindi, il dittatore buono non verrà facilmente a conoscenza delle lamentele suscitate dalle misure che ha preso. Ma, senza siffatto controllo, egli non può sapere se le sue misure conseguono il desiderato fine buono. La situazione diventa necessariamente ancora peggiore per l’ingegnere utopico. La ricostruzione della società è una grossa impresa che deve determinare considerevoli incomodi a molti e per un considerevole periodo di tempo. Quindi, l’ingegnere utopico dovrà mostrarsi sordo a molte lamentele; in realtà, sarà parte del suo compito la soppressione di irragionevoli obiezioni. (Egli dirà, come Lenin: «Non si può fare una frittata senza rompere le uova».) Ma, insieme con esse, egli finirà inevitabilmente col sopprimere anche le critiche ragionevoli. Un’altra difficoltà dell’ingegnere utopico è quella connessa con il problema del successore del dittatore. […] L’ingegneria utopica solleva una difficoltà analoga, ma ancora più seria di quella che deve fronteggiare il buon tiranno
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Il modello alla prova del tempo
Difficoltà di applicazione dei presupposti platonici
Ideali realizzabili
che cerca di trovare un successore altrettanto buono […]. La portata stessa di una tale impresa utopica rende improbabile che essa possa conseguire i suoi fini durante la vita di un ingegnere sociale o di un gruppo di ingegneri. E se i suoi successori non perseguono lo stesso ideale, allora tutte le sofferenze patite dalla popolazione per amore dell’ideale risulteranno vane. Una generalizzazione di questo argomento porta a un’ulteriore critica dell’approccio utopico. Simile approccio, ovviamente, può avere valore pratico soltanto se partiamo dal presupposto che il modello originario, forse con alcuni aggiustamenti, resti la base del lavoro fino al suo completamento. Ma ciò richiederà del tempo. Sarà un tempo di rivoluzioni, sia politiche che spirituali, e di nuovi esperimenti ed esperienze in campo politico. Bisogna quindi aspettarsi che idee e ideali cambieranno. Quello che era apparso come lo stato ideale alle persone che elaborarono il modello originario, può non apparire più tale ai successori. Se si ammette ciò, allora l’intero approccio finisce in pezzi. Il metodo di stabilire dapprima un fine politico ultimo e poi di cominciare a muoversi verso di esso è vano, se ammettiamo che il fine possa essere considerevolmente modificato durante il processo della sua realizzazione. Può in qualsiasi momento risultare che i passi finora compiuti hanno di fatto allontanato dalla realizzazione del nuovo fine. E se noi cambiamo la nostra direzione in conformità col nuovo fine, allora ci esponiamo di nuovo allo stesso rischio. Nonostante tutti i sacrifici fatti, possiamo non approdare a nulla. Coloro che preferiscono un passo verso un ideale lontano alla realizzazione di un compromesso gradualistico dovrebbero tenere sempre presente che, se l’ideale è molto lontano, può riuscire anche difficile dire se il passo fatto ci avvicina o invece ci allontana da esso. Ciò, in modo particolare avviene se la marcia deve procedere a passi zigzaganti o, per dirla con Hegel, «dialetticamente» o se non è pianificata in maniera assolutamente chiara. […] Vediamo, a questo punto, che l’approccio utopico può essere riscattato solo dalla fede platonica in un ideale assoluto e immutabile, accompagnato da due altri presupposti: a) che ci sono dei metodi razionali in grado di stabilire una volta per tutte che cosa sia questo ideale; b) quali sono i mezzi migliori per la sua realizzazione. Soltanto codesti presupposti di vasta portata possono trattenerci dal dichiarare assolutamente futile la metodologia utopica. Ma anche lo stesso Platone e i più ardenti platonici devono ammettere che non è certamente vero che ci sia un metodo razionale per determinare il fine ultimo e che, ammesso che qualche metodo ci sia, esso si riduce solo a una qualche forma di intuizione. Qualsiasi differenza di opinione fra ingegneri utopici deve quindi portare, in mancanza di metodi razionali, all’uso della forza invece che della ragione, cioè alla violenza. Se qualche progresso si compie in determinati casi particolari, allora bisogna dire che ciò avviene a dispetto del metodo adottato e non grazie ad esso. Il successo può essere dovuto, per esempio, all’eccellenza dei leader; ma non dobbiamo mai dimenticare che eccellenti leader non possono essere prodotti da metodi razionali, ma solo dalla fortuna. È importante afferrare esattamente il senso profondo di questa critica: io non critico l’ideale proclamando che un ideale non può mai essere realiz169
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Parte prima L’età antica
L’impossibilità di una pianificazione globale
La replica di Schofield
Seconda risposta
zato, che sempre deve restare un’utopia. Questa non sarebbe una critica valida, perché sono state realizzate molte cose che erano state prima dogmaticamente proclamate irrealizzabili, per esempio l’instaurazione di istituzioni atte ad assicurare la pace civile, cioè la prevenzione del crimine all’interno dello stato; ed io penso che, per esempio, l’instaurazione di analoghe istituzioni per la prevenzione del crimine internazionale, cioè dell’aggressione armata, benché spesso dichiarata utopica, non sia in realtà un problema assolutamente insolubile. Quella che io critico sotto il nome di ingegneria utopica è la pretesa di una ricostruzione globale della società, cioè di cambiamenti di immensa portata, le cui conseguenze pratiche è impossibile prevedere, data la limitatezza delle nostre esperienze. Essa pretende di pianificare razionalmente la società nella sua interezza, benché non si disponga neanche in minima parte della conoscenza fattuale che sarebbe necessaria per legittimare una pretesa così ambiziosa. Noi non possiamo possedere siffatta conoscenza perché abbiamo insufficiente esperienza pratica di questo genere di pianificazione e la conoscenza dei fatti deve essere fondata sull’esperienza. Allo stato delle cose, la conoscenza sociologica per l’ingegneria in larga scala è semplicemente inesistente. Molti studiosi hanno replicato alle critiche di Popper, mostrando come esse non colgano in realtà il vero pensiero di Platone. Fra le risposte più recenti, e più efficaci, vi è quella di un importante studioso inglese di Platone, Malcolm Schofield, che in queste pagine insiste soprattutto su due punti: 1) l’utopia, come progetto di un mondo possibile, alternativa critica alla realtà presente, è una forma di pensiero necessaria al miglioramento delle prospettive storiche dell’umanità; 2) Platone non propone un modello coercitivo, un piano ingegneristico di trasformazione dell’umanità, ma solo un paradigma ideale, al quale ispirarsi nella concreta azione politica e morale. Al centro di questo modello non sta il «totalitarismo» condannato da Popper, ma un’idea forte della comunità. Condividere scopi, interessi e bisogni comuni, partecipare attivamente alla soluzione dei problemi di tutti (anziché rinchiudersi nell’individualismo egoistico) è ancora oggi, secondo Schofield, il modo migliore per realizzare davvero la democrazia. Quello di Platone, conclude Schofield, è dunque da considerare un utopismo realistico.
L’utilità dell’utopia da Malcolm Schofield, Plato. Political Philosophy
Contro l’utopia Un vicolo cieco?
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Ciò che tutti sanno della Repubblica è che è il primo grande lavoro di utopismo politico mai scritto – anche se fu soltanto 2000 anni più tardi che la parola «utopia» venne inventata (da Tommaso Moro, all’inizio del sedicesimo secolo). Già questo, per alcuni, equivale a un campanello d’allarme: non rappresentava la costruzione di un’utopia un vicolo cieco per il pensiero politico e (ancor di più) per la ricerca della felicità? E non è questa
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Gli orrori dell’utopismo
un’attività – letteraria o politica – di cui ci siamo finalmente liberati? […] L’utopismo talvolta sembra l’incubo nel quale, da più di due secoli, hanno preso forma molte delle vicende storiche europee – che ora è terminato, per venir sostituito da un diverso repertorio globale dei traumi politici e sociali del nostro tempo. Leggiamo qui di seguito un verdetto particolarmente sintetico e pregnante (C. Grey e C. Garsten, Organized and disorganized Utopias: An essay on presumption, in M. Parker, a cura di, Utopia, Ideology and Organization, Blackwell, Oxford 2002): Il sogno di una società razionale e organizzata fece presa non solo sugli stalinisti: fin dall’Illuminismo esso albergava infatti ostinatamente all’interno delle società occidentali. Come in Saint-Simon, la visione di una società controllata nella quale predomina l’efficienza è ciò che unisce i patriarchi vittoriani e i socialdemocratici del XX secolo, gli statalisti, i corporativisti e i tecnocrati. Il cimitero dove è stata sepolta questa versione dell’utopia è rappresentato dal lavoro schiavista e dai campi di sterminio di Auschwitz, Dachau, Treblinka, Bergen-Belsen e Ravensbruck – la lista completa dell’orrore che ha indelebilmente infangato e falsato le pretese di civilizzazione europee.
La presunzione di sapienza dell’utopismo
Il Platone di Popper
Gli autori citano quindi l’analisi di Zygmunt Bauman dell’olocausto come una espressione propria della civiltà moderna «nel suo genocidio industrializzato e burocratizzato». La tesi è che l’ideazione dell’olocausto, il suo sviluppo e la sua realizzazione sono in gran parte dovuti al prevalere di una concezione della società come di «un insieme di così tanti “problemi” da risolvere, come “natura” da “controllare”, “dominare” e “migliorare” o “rifondare”, come un legittimo target di ingegneria sociale, e in generale come un giardino da disegnare e mantenere con la forza nella forma pianificata.» Alla base di ciò che caratterizza la concezione utopista vi è una presunzione di sapienza: i suoi fautori presupposero un sapere intorno al mondo e rispetto a quanto è meglio per gli altri che non poteva essere mai messo in discussione né criticato (si può dire che ogni utopia è una distopia), e che ora, con il collasso finale del comunismo, è percepito generalmente come una illusione. L’interpretazione più nota del XX secolo della visione politica della Repubblica di Platone si colloca precisamente nel suddetto contesto. Il libro di Karl Popper La società aperta e i suoi nemici venne pubblicato per la prima volta alla fine della seconda guerra mondiale (1945); ed esso è, tra le altre cose, una risposta alle ideologie fascista e marxista di un profugo dell’Austria nazista: un tentativo di esporre ciò che egli considerò come il grave errore delle loro fondamenta intellettuali. Il primo volume dell’opera è in gran parte dedicato a Platone, poiché Popper vide nella Repubblica il primo progetto razionalizzato su vasta scala nella tradizione occidentale di una società chiusa e autoritaria. Egli considerò il dialogo come teso a patrocinare l’uso di metodi totalitari, anzitutto per fortificare un sistema di classe arcaico e regressivo, e poi per proteggerlo dalla possibilità di trasformazioni successive. Popper era certo che Platone delineasse un piano d’azione, in verità per prendere il potere nelle proprie mani in qualità di re-filosofo. […] 171
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Un futuro per l’utopia L’utopismo, un piano per un mondo ideale
Utopia come ricerca delle alternative migliori
Come interpretare la Repubblica?
La delineazione del modello
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Ora, il pensiero utopico deve necessariamente essere allontanato dal presente e collocato nel passato, così che la dimensione utopica della Repubblica risulti a noi aliena, non solo nei contenuti ma in quanto tale? Oppure – come io vorrei mostrare – il pensiero utopico sta semplicemente assumendo nuove forme, come del resto sarebbe logico aspettarsi se ci fosse una ragione per considerarlo un ingrediente irrinunciabile per la vita intellettuale di ogni società politica forte e raffinata? Iniziamo con una definizione. Io propongo, banalmente, che noi si definisca in linea di massima il pensiero utopico come l’immaginazione di un piano per un mondo ideale che ciò nondimeno si riferisca al giorno d’oggi e non escluda necessariamente, ma consideri secondarie le questioni inerenti alla sua praticabilità e legittimità. E ora l’argomento che avvalora l’idea che l’utopismo sarà sempre in noi. Potrebbe suonare così: il pensiero umano intrattiene sempre una relazione con il possibile così come con il reale. Dove il pensiero si impegna con la dimensione pratica – che cosa devo fare? Qual è, per noi, la cosa migliore da fare? – spesso non si tratta di una scelta ma piuttosto di una ricerca delle alternative. Prospettarsi possibilità alternative è una delle fondamentali attività umane, è qualcosa in cui noi tutti, virtualmente, siamo continuamente impegnati, si tratti di giungere a delle decisioni concernenti noi stessi, la famiglia, gli amici, e talvolta il paese, o le nostre professioni e occupazioni come idraulici, dottori, rappresentanti di cellulari, musicisti, ingegneri o qualsiasi altra cosa. Il pensiero utopico potrebbe essere considerato come un esercizio particolarmente ambizioso e pregnante nell’immaginare delle alternative: il tentativo di prevedere come l’intera struttura della società – la sua organizzazione spaziale, i suoi sistemi di comunicazione, i suoi modelli di lavoro e di utilizzo del tempo libero, il ruolo che essa assegna alla scelta individuale – possa essere fondata in modo diverso e migliore. Senza la dimensione utopica, la speranza è esposta al rischio di essere troppo modesta per il nostro proprio bene. […] Senza dubbio taluni scrittori utopisti, in periodi diversi, hanno formulato quanto essi concepirono come un piano di azione, anche se i loro critici li giudicarono nello stesso modo in cui vi si riferì, sprezzantemente, Karl Marx: «ricette […] per le trattorie dell’avvenire», oppure, per dirla con la più prosaica formulazione di Hegel: «istruzioni su come il mondo dovrebbe essere». Eppure talvolta (e talvolta simultaneamente), sull’utopismo è stata fatta una presupposizione contraria – se è corretto descrivere come utopistico un insieme di idee, allora ciò implica che esse siano impossibili da realizzare nella pratica: «dovere» qui non implica «potere». La presupposizione può o meno essere congiunta con l’opinione secondo la quale gli autori utopisti intesero soltanto comporre una fantasia. Quali opzioni interpretative sono suggerite dal testo della Repubblica? Una volta posta la questione, diventa subito chiaro che al suo stesso autore era più che familiare la possibilità che le idee comuniste introdotte nel libro V potessero apparire fantastiche, come in una commedia di Aristofane. […] Ora, le cose più importanti che Platone ha da dire rispetto alla possibilità di realizzare l’utopia emergono nel brano del dialogo che precede quello
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in cui Socrate introduce l’idea dei re-filosofi (5.472B-473B). In risposta alle sempre più pressanti domande di Glaucone inerenti alla questione della possibilità [di realizzare il progetto], Socrate gli ricorda il nodo dell’intera discussione. Presentando un’indagine che verte su che cosa è la giustizia, e su come sarebbe l’uomo perfettamente giusto qualora esistesse, essi hanno tentato di delineare un modello o paradigma: non per mostrare che il modello possa esistere, bensì per giungere ad un accordo quanto al fatto che colui che si avvicina il più possibile ad esso sarebbe anche colui che si avvicina il più possibile alla felicità. Similmente alla città buona (472D-E): – E allora? Non possiamo dire anche noi di aver tracciato nel discorso un modello di una buona città? – Certo. – E pensi che da questo punto di vista si sia meno ben detto, se non fossimo in grado di dimostrare che è possibile che una città sia governata così come siamo venuti dicendo? – Certo no – disse.
La centralità dell’idea della comunità e della partecipazione
Prassi, discorso e verità
Un modello fantastico o realizzabile?
Qui, inoltre, Socrate suggerirà (473A-B) che una approssimazione sarà sufficiente. In quanto tale questo passaggio, collocato com’è in posizione cruciale nell’argomentazione di Platone, è sufficiente a controbattere l’interpretazione della Repubblica sia di Popper sia di Strauss [secondo quest’ultimo Platone intendeva negare la realizzabilità del modello]. Per Popper e per Strauss in modo eguale, infatti, il nodo centrale dell’interpretazione è l’applicabilità o l’inapplicabilità del suo ideale politico alla società umana. Popper considera il dialogo come un manifesto per l’azione. […] Il brano del dialogo tra Socrate e Glaucone appena riassunto e citato rende però assolutamente chiaro che la questione della possibilità o impossibilità non è, in definitiva, ciò su cui noi dovremmo concentrarci. Allora, che cos’è ciò su cui dovremmo invece concentrarci? In una parola: la comunità – l’idea della comunità (koinonìa); l’idea – articolata in tutte le specifiche caratteristiche del libro V – che la partecipazione è ciò che rende una città reale o buona. Come per la giustizia, così avviene per la città buona: la cosa principale che la Repubblica si sforza di offrire è la comprensione filosofica. È nella natura delle cose, dice Socrate (473A), che la prassi si accosti alla verità meno del discorso (il dialogo filosofico) – la verità è evidentemente ciò che più lo interessa. […] Ma perché, nell’altra parte del brano cruciale intorno alla verità (473A-B), Socrate insiste su varie questioni inerenti alla possibilità, non solo alla desiderabilità, in modo talmente ostinato? Ciò è spiegato dall’apprensione che egli manifesta in merito al fatto che la sua idea possa essere accantonata come niente più di una fantasia. Platone si trova così a navigare tra Scilla e Cariddi. Per mostrare che le sue proposte comuniste rappresentano un serio contributo alla comprensione della vita sociale e politica, ha bisogno di dimostrare che esse sono più o meno realizzabili. Allo stesso tempo però egli deve sottolineare che il punto centrale del dialogo filosofico rappresentato nella Repubblica non è di fornire una garanzia sul fatto 173
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Un arduo compito
che la loro esecuzione possa essere programmata – poiché la praticabilità è soltanto un segno fallibile della verità, non ciò che la costituisce, anche nella sfera dell’etica e della politica. In breve, Platone sviluppa lo stesso tipo di problema che virtualmente affronta ogni filosofo che scrive (parla) di uguaglianza o giustizia o democrazia. Questi sono ideali che noi vogliamo perseguire nelle nostre attività sociali e politiche. Allo stesso tempo vogliamo riconoscerne la validità in quanto ideali, pur ammettendo che è immensamente difficile offrire una spiegazione adeguata di come una società egualitaria o giusta o democratica dovrebbe effettivamente essere o di come ciò possa essere effettivamente realizzato.
I brani antologizzati sono tratti da: K. Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario, Armando, Milano 19962, vol. 1, pp. 195-200. M. Schofield, Plato. Political Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 194-240.
Per seguire il dibattito 1
Qual è il presupposto dell’agire razionale nell’approccio utopico, secondo l’analisi di Popper? (max 5 righe)
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Qual è il presupposto dell’ingegneria sociale, utopica, secondo Popper? (max 5 righe)
3
Quali difficoltà incontra l’ingegnere utopico nella realizzazione dello Stato ideale, secondo Popper? (max 5 righe)
Secondo Schofield, alla base dell’interpretazione di Popper della Repubblica platonica come modello di 174
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attuazione di uno Stato totalitario vi è il principio utopico della «presunzione di sapienza». Spiegane il significato. (max 5 righe) 5
Qual è la definizione di utopia proposta da Schofield e in che cosa si differenzia da quella di Popper? Sottolinea il passo nel testo, poi scrivi le tue riflessioni. (max 5 righe)
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Qual è la questione centrale da ricercare nella Repubblica di Platone, secondo Schofield? (max 8 righe)
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
1. Breve storia del termine «giustizia» 2. Platone: la necessità sociale e individuale della giustizia 3. Aristotele: giustizia, legge e natura
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Che cos’è la giustizia? Che cos’è la giustizia, nella vita individuale e collettiva? Che cosa permette di considerare ‘giusta’ una persona o un’azione? Queste domande si ponevano in modo particolarmente acuto in una società, come quella greca, in cui non esistevano né una forte autorità religiosa né un forte potere statale (che avrebbero imposto di rispondere: «giustizia è il rispetto dei comandamenti della religione», oppure «giustizia è ubbidire ai voleri del sovrano»). A queste domande, cui non era possibile dare risposte così semplici, se ne aggiungeva un’altra, tipicamente greca: perché dovrei essere giusto invece che ingiusto? In altri termini: c’è una remunerazione degli sforzi richiesti dal rispetto delle norme di giustizia, «la giustizia paga»?
Breve storia del termine «giustizia»
1 Omero: le norme condivise dalla comunità
Equivalenza tra «giusto» e «legale»
Platone: giustizia come virtù individuale e sociale
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Per comprendere gli sviluppi di questa riflessione, che è stata al centro del pensiero morale greco, bisogna prima di tutto chiarire il senso dei termini che vengono messi in questione. Giustizia (dìke) significa già in Omero l’insieme delle norme condivise da una comunità che regolano i comportamenti e i rapporti fra gli uomini, norme alle quali tutti devono dunque adeguarsi. Queste norme costituiscono i principi della condotta sociale, e chi non le accetta si pone al di fuori della società umana. Con la nascita della legislazione pubblica – che si fa risalire a Solone – «giustizia» indica quindi le regole preposte al funzionamento dei tribunali (dikastèria) e le sanzioni che essi comminano ai trasgressori della legge della città. Viene così a stabilirsi una stretta equivalenza fra «giustizia» e «legge» (nòmos): l’azione giusta è quella conforme alla legge, il «giusto» (dìkaion) e il «legale» (nòmimon) coincidono. Questa posizione era molto diffusa nel pensiero filosofico fra V e IV secolo, ed essa era accettata anche da un filosofo molto critico come Socrate. Sono da notare due aspetti importanti di questa tesi dell’equivalenza fra giustizia e legalità: da una parte, essa comporta una rilevante politicizzazione della giustizia (perché la legge è espressione della volontà della comunità, e i tribunali greci rappresentavano appunto l’intera comunità cittadina); dall’altra parte, la giustizia riguardava soprattutto la sfera dell’azione, e in particolare di quelle azioni che attenevano ai rapporti sociali. Gli sviluppi del pensiero morale greco, soprattutto con Platone, fecero in seguito della giustizia (ora indicata con un nuovo nome, dikaiosy`ne) anche una «virtù» individuale. Questo significa che il problema della giustizia riguardava non più
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soltanto le azioni compiute, ma il soggetto agente. Per comportarsi in modo giusto, occorreva essere una persona giusta, moralmente virtuosa. Platone avrebbe cercato di saldare l’aspetto soggettivo e quello sociale del problema della giustizia concependo anche la comunità politica (la pòlis) come un soggetto collettivo, che doveva essere giusto e virtuoso come l’individuo. Una città giusta si sarebbe di conseguenza comportata in modo giusto sia verso i propri cittadini sia verso le altre comunità. Questo era, come vedremo, un tentativo di rispondere a molte importanti questioni che erano state dibattute nella filosofia greca fra il V e il IV secolo; un dibattito che aveva mostrato l’insufficienza e la problematicità della semplice equivalenza fra «giusto» e «legale». Cominciamo qui con il darne un primo elenco orientativo. Quali sono le origini delle norme di giustizia? Esse corrispondono, o confliggono, con la natura originaria dell’uomo? Sono davvero necessarie alla vita sociale? Che cosa significa che giustizia equivale a legge, se possono esistere leggi ingiuste, come quelle che i tribunali ateniesi applicarono condannando a morte un uomo giusto come Socrate? Se le leggi sono espressioni della volontà politica di una città, e quindi possono mutare con il cambiamento di questa volontà e delle maggioranze che la esprimono, la norma morale della giustizia (se essa non è altro che osservanza della legge) è altrettanto mutevole? L’uomo giusto non sarà allora altro che chi è più pronto a conformarsi al corso variabile delle vicende politiche nella sua città?
Platone: la necessità sociale e individuale della giustizia
2 I testi
Platone Protagora: La legge di Zeus, T1 Repubblica: La giustizia è l’utile del più forte, T2; Il patto
1
reciproco e il desiderio di sopraffazione, T3; Le maschere dell’ingiusto, T4; Giustizia è una città che canta all’unisono, T5; La giustizia è equilibrio fra le parti dell’anima, T6
Origini e necessità della giustizia: il ‘mito’ di Protagora Nel suo dialogo intitolato Protagora, Platone introduceva fra i personaggi questo grande sofista, Protagora appunto, che narrava un ‘mito’ (cioè un racconto immaginario) sulle origini dell’umanità e sulla nascita della giustizia. È probabile che questo mito, benché naturalmente rielaborato da Platone, rappresentasse abbastanza da vicino le concezioni proprie del sofista (sul quale vedi Unità 2, p. 74 ss.). 177
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Nella sua forma narrativa, il mito contiene precisi elementi di una teoria sullo sviluppo dell’umanità e sulla formazione della società. Possiamo riassumerli in questo modo: 1) l’uomo per natura è un animale debole e indifeso di fronte agli altri animali e all’ambiente in cui vive («fase di Epimeteo»); 2) l’uomo è però in grado di inventare tecniche che lo proteggono dall’ambiente naturale, in primo luogo la costruzione di armi di offesa e di difesa. Ma l’uomo è per natura propenso all’ingiustizia, alla violenza e alla reciproca sopraffazione (in greco, pleonexìa). L’aggressività naturale mette dunque gli uomini gli uni contro gli altri, rendendo impossibile la convivenza nella società («fase di Prometeo»: secondo i miti greci, Prometeo era stato una figura semi-divina che aveva donato agli uomini il fuoco e con esso lo sviluppo delle tecniche); 3) gli uomini sono però in grado, nello sviluppo della civiltà, di acquisire le doti morali del reciproco rispetto (aidòs) e della giustizia (dìke), cioè dell’osservanza delle regole della convivenza sociale. Queste doti morali formano quella che Protagora chiama la «virtù politica»: grazie alla sua diffusione fra tutti gli uomini, possono nascere le comunità politiche (pòleis), basate sulla collaborazione e non sull’aggressività («fase di Zeus»). Giustizia e comunità Da questa visione sostanzialmente ottimistica della nascita del senso della giupolitica stizia, che permetteva il formarsi della civiltà e della società umana, Protagora traeva conseguenze di notevole rilievo: 1) poiché tutti gli uomini possiedono la virtù politica, essi hanno un pari diritto a partecipare alla formazione delle decisioni politiche della comunità cui appartengono: si tratta del principio base della democrazia greca; 2) con le sue istituzioni e le sue leggi, la città opera per l’educazione dei cittadini, in ogni fase della loro vita, in modo da consolidare lo spirito di giustizia da cui dipende la sua esistenza, e da prevenire il ritorno degli impulsi aggressivi e dell’ingiustizia reciproca. La giustizia è insomma per Protagora la condizione di possibilità della vita sociale. Il senso della giustizia viene progressivamente formandosi nel corso dello sviluppo della civiltà umana, e il fatto che esso sia stato acquisito è provato dall’esistenza delle comunità politiche.
Una teoria sulla nascita della società
T1
La legge di Zeus
Platone, Protagora, 321 B-323 A
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Orbene, Epimeteo, che non era troppo sapiente, non si accorse di aver esaurite tutte le facoltà per gli animali: ma a questo punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre egli si trovava in questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la distribuzione, e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientemente fornite di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. E ormai si avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo, in questa imbarazzante situazione, non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l’uomo, ruba a Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell’acropoli, dimora di Zeus; per giunta, c’erano anche le terribili guardie di Zeus. Entra dunque furtivamente nella officina di
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Atena e di Efesto, in cui essi praticavano insieme la loro arte, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la dona all’uomo. Di qui vennero all’uomo le sue risorse per la vita. […] Provvisti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano Città. Pertanto perivano a opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse, e la perizia pratica che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando Città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi, nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto: «Devo distribuire questi come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l’arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un’arte. Ebbene, anche la giustizia e il rispetto debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a tutti quanti?» E Zeus rispose: «A tutti quanti! Che tutti quanti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere Città, se solamente pochi uomini ne partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come legge in mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso come un male della Città». Così, Socrate, e appunto per queste ragioni, gli Ateniesi, e anche gli altri allorché sia in questione l’abilità dell’arte di costruire o di qualche altra arte, ritengono che pochi debbano prender parte alle deliberazioni. E se qualcuno che non sia di questi pochi vuol dare consigli, non lo sopportano, come tu dici: e di buona ragione, aggiungo io. Ma quando si radunano in assemblea per questioni che riguardano la virtù politica, e si deve quindi procedere esclusivamente secondo giustizia e temperanza, è naturale che essi accettino il consiglio di chiunque, convinti che tutti, di necessità, partecipino di questa virtù, altrimenti non esisterebbero Città. Questa, Socrate, ne è la ragione.
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La giustizia come strumento del potere: la Repubblica
Nel I libro della Repubblica di Platone compare un personaggio, Trasimaco (vedi Unità 3, p. 118 s.), che va considerato come il portavoce di una corrente di pensiero critico ben presente nella cultura ateniese del IV secolo. Il teorema di Trasimaco Trasimaco accetta la tesi di Protagora e di Socrate secondo la quale la giustizia è conformità alle leggi della città, che costituiscono la condizione della vita sociale. Egli però formula un ‘teorema’ del tutto innovativo, e sconvolgente per la sua radicalità critica. Questo teorema è così articolato: 1) giustizia è rispetto della legge; 2) ma in ogni comunità politica (non importa se retta da un regime tirannico, de179
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mocratico o aristocratico) le leggi sono promulgate da chi detiene il potere e sono finalizzate alla conservazione di questo potere; 3) dunque il rispetto delle leggi da parte dei sudditi (in cui consiste la giustizia) è nell’interesse del potere e della sua conservazione da parte dei governanti, che detengono la forza; 4) la giustizia non è allora altro che l’utilità, o lo strumento, del potere e di chi lo detiene; i sudditi sono «giusti» per la costrizione delle leggi, ma questo per loro è un male (perché significa asservimento) mentre è un bene per i potenti. Confutare lo stringente teorema di Trasimaco è molto difficile anche per Platone. Egli pensa che la struttura dell’argomentazione sia valida; ritiene però che possa esistere un gruppo di governanti che non eserciti il potere nel proprio interesse, ma in quello della comunità. In questo caso, il rispetto delle leggi (la giustizia) non sarebbe utile al potere ma a tutta la comunità, sudditi compresi (vedi pp. 182-184).
T2
La giustizia è l’utile del più forte
Platone, Repubblica, 1,338 A-339 A
3
Ogni forma di potere stabilisce le leggi in funzione del proprio utile: la democrazia le farà democratiche, la tirannide tiranniche, e similmente le altre. E una volta stabilite, sanciscono che giusto per i sudditi è ciò che è utile ai detentori del potere, e puniscono i trasgressori come colpevoli di illegalità e ingiustizia. Questo è dunque, eccellente amico, ciò che io sostengo sia giusto nello stesso modo in tutte le città – l’utile del potere costituito. Ma è poi questo a essere forte, sicché ne segue per chi ragioni correttamente che dovunque giusto è lo stesso: l’utile del più forte.
La giustizia come convenzione
Nel II libro della Repubblica entrano in scena altri due personaggi, Glaucone e Adimanto (erano entrambi fratelli di Platone). Essi propongono una versione diversa della tesi di Trasimaco, sostenendo che si tratta di una teoria diffusa nella cultura dell’epoca; pur dichiarando di non condividerla personalmente, ritengono tuttavia che si tratti di una sfida importante, alla quale Socrate dovrebbe rispondere con argomenti adeguati. Glaucone: un patto La tesi esposta da Glaucone si può così riassumere: per frenare 1) come pensavano Protagora e Trasimaco, l’istinto primario, radicato nella natura l’ingiustizia umana, consiste nell’aggressività e nel desiderio di sopraffazione, che spinge ogni uomo a ‘recare ingiustizia’ a tutti gli altri, a far loro violenza, nell’intento di prevalere su di loro nella competizione per il potere, il successo, la ricchezza; 2) ma ogni uomo si rende conto che il rischio di subire ingiustizia e violenza da tutti gli altri è molto superiore alla sua possibilità di avere successo nella sopraffazione restando impunito. Per paura e debolezza, dunque, gli uomini hanno stretto un patto, in base al quale rinunciano al ricorso reciproco all’ingiustizia. Si stabilisce così l’obbligo della giustizia, sancito dalle leggi comuni; 3) ma questa rinuncia non cancella l’istinto primario della natura umana. Chiunque, se potesse commettere ingiustizia senza temere ritorsioni, lo farebbe. La giustizia è dunque solo una ‘maschera’ sociale che gli uomini sono costretti a indossare per paura, nascondendo la loro vera natura. Al contrario di quanto pensava Protagora, la nascita della comunità politica e della legge non cancella così le pulsioni aggressive e di sopraffazione (vedi anche p. 118 ss.). 180
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T3
Il patto reciproco e il desiderio di sopraffazione Platone, Repubblica, 2,358 E-359 C
Adimanto: l’ingiusto non teme neppure gli dèi
E ora ascolta ciò che avevo annunciato di voler discutere in primo luogo: quale sia e onde si origini la giustizia. Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene, e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente commesso e subito ingiustizia, e hanno provato il sapore dell’una e dell’altra, a coloro che non possono sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima, sembra vantaggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né subire ingiustizia a vicenda. Da quel momento in poi si cominciarono a stabilire leggi e patti fra gli uomini, e l’ordine imposto dalla legge fu chiamato legittimo e giusto. Affermano dunque che questa è la genesi e l’essenza della giustizia, che si trova ad essere intermedia tra la possibilità migliore – compiere ingiustizia senza pagarne il fio – e quella peggiore – subire ingiustizia nell’impotenza di vendicarsi. Il giusto allora, in quanto medio fra questi due estremi, non viene amato come un bene, ma è apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia, visto che chi potesse farlo e fosse dunque un vero uomo non stipulerebbe mai con nessuno il patto di non fare né subire ingiustizia: sarebbe davvero pazzo. La natura della giustizia, Socrate, è dunque questa e siffatta, e queste sono le condizioni onde essa si origina, stando al discorso. Che poi anche chi la pratica lo faccia contro la sua volontà, per l’impotenza di commettere ingiustizia, ce ne accorgeremo nel modo più evidente se costruiremo col pensiero la seguente situazione: concediamo ad entrambi, il giusto e l’ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, poi seguiamoli osservando dove il desiderio conduce ciascuno dei due. Sorprenderemo dunque il giusto nell’atto di avviarsi per la stessa strada dell’ingiusto, a causa del desiderio di sopraffazione che ogni singola natura naturalmente persegue come un bene, mentre per la violenza della legge è ricondotta al rispetto dell’eguaglianza. Interviene a questo punto Adimanto, che trae le conclusioni dal ragionamento di Glaucone: 1) la cosa migliore è avere pubblicamente fama di essere giusti, in modo da godere la stima dei concittadini, e insieme tramare segretamente azioni ingiuste, usando persuasione e violenza per sopraffare gli altri senza doverne rendere conto; 2) non ha senso, sostiene Adimanto, agitare la minaccia delle punizioni divine contro gli ingiusti. Infatti si danno le seguenti possibilità: o gli dèi non esistono, o se esistono non si occupano delle cose umane (in questi casi, non c’è motivo di temerli); oppure gli dèi esistono e si occupano delle cose umane. Ma tutto quello che sappiamo di loro ci viene dai poeti come Orfeo, Omero ed Esiodo, e questi poeti ci dicono anche che gli dèi sono sensibili ai sacrifici, alle offerte votive, alle preghiere, ai riti di iniziazione: o non si crede affatto ai poeti, e si torna al primo caso, o si deve accettare anche questo. Dunque gli ingiusti, grazie alle ricchezze accumulate con le loro trame segrete, saranno più degli altri in grado di propiziarsi il favore divino, e non dovranno temerne le punizioni. Con questi argomenti, Glaucone e Adimanto, sulla scia di Trasimaco, propongono una formidabile sfida ai sostenitori della giustizia. Socrate (cioè Platone) dovrà dimostrare che la giustizia è desiderabile e vantaggiosa, sia nella sfera pubblica sia in quella individuale. 181
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Le maschere dell’ingiusto
Platone, Repubblica, 2,365 B-366 D
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Le opinioni diffuse dicono che se io sarò giusto, se non appaio anche tale, non me ne verrà alcun vantaggio, bensì fatiche e pene sicure; ma se sarò ingiusto procurandomi la fama di giustizia, si parla di una vita simile agli dèi. […] «Ma via, dice qualcuno, non è facile esser sempre cattivo in segreto». Infatti, risponderemo, nessuna grande impresa è agevole: ma tuttavia, se ci prepariamo ad esser felici, bisogna andare in questa direzione, dove ci portano le tracce dei discorsi. Per restar nascosti organizzeremo cospirazioni e società segrete ed esistono maestri di persuasione che offrono la capacità di parlare al popolo e nei tribunali – con tutto ciò, useremo ora la persuasione, ora la violenza, in modo da poter sopraffare senza renderne giustizia. «Ma non è possibile restar nascosti agli dèi né usar loro violenza». Ma allora, se gli dèi non esistono o se nulla loro importa delle cose umane, perché mai ci dovremmo preoccupare di restare nascosti? Se invece esistono e se ne occupano, li conosciamo o ne abbiamo sentito parlare da nessun’altra fonte se non dai costumi rituali e dai poeti autori di genealogie; ma questi stessi dicono che gli dèi sono disponibili a farsi influenzare e convincere da ‘sacrifici, amabili suppliche’ e offerte votive. Ad essi si deve prestar fede o su entrambe le cose o su nessuna delle due. Se dunque bisogna crederci, si commetta ingiustizia e si sacrifichi con i proventi delle ingiustizie. Essendo giusti, infatti, ci limiteremo a non subire le punizioni degli dèi, ma rinunceremo ai guadagni che vengono dall’ingiustizia; ma da ingiusti otterremo questi guadagni e insieme, pregando mentre commettiamo sopraffazioni e colpe, li convinceremo a lasciarci impuniti. «Ma nell’Ade pagheremo il fio delle ingiustizie commesse quassù, noi stessi o i figli dei figli». Però, amico, dirà calcolando razionalmente, di nuovo hanno molto potere le iniziazioni e gli dèi liberatori, come confermano le maggiori città e i figli degli dèi che sono diventati poeti e profeti, i quali attestano che le cose stanno così. Per quale altra ragione allora sceglieremo la giustizia invece della più grande ingiustizia, visto che, se riusciremo a praticarla insieme con gli orpelli della rispettabilità, realizzeremo le nostre intenzioni, e presso gli dèi e presso gli uomini, sia da vivi sia dopo morti, secondo il discorso condiviso dai più e dai più eccellenti? Sulla base di tutto quanto si è detto, Socrate, quale mai espediente resta perché voglia onorare la giustizia colui il quale disponga di un qualche potere d’anima o di corpo o di ricchezze o di stirpe, invece di mettersi a ridere sentendo le sue lodi? Sicché se qualcuno è tuttavia in grado di mostrare che quanto abbiamo detto è falso, e sa con sufficiente sicurezza che la giustizia è la cosa migliore, prova molta comprensione per gli ingiusti e non si adira con essi, bensì è consapevole […] che nessuno è giusto volontariamente, semmai biasima il compiere ingiustizia perché è incapace di farlo per mancanza di coraggio, vecchiezza o qualche altra debolezza. Che sia così è evidente: appena uno di tali uomini ne ottiene il potere, subito commette ingiustizia, nella misura in cui ne è capace.
La giustizia come ordine sociale Platone condivide in parte le tesi di Protagora, Trasimaco e Glaucone: è insita in effetti nella natura umana una tendenza alla sopraffazione, alla prepotenza, quindi all’ingiustizia. Ma secondo lui la giustizia imposta dal patto sociale non è soltanto uno strumento del potere o una maschera che cela questa tendenza insopprimibile.
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L’anima di ogni uomo è composta da tre parti: due sono irrazionali, e tendono rispettivamente alla soddisfazione insaziabile dei piaceri e all’affermazione aggressiva di sé, quindi all’ingiustizia. Ma c’è nell’anima anche una parte razionale, il cui impulso ci orienta verso comportamenti equilibrati e in armonia con se stessi e con gli altri. L’uomo in cui prevale questo principio razionale, a cui gli altri elementi si sottomettono in modo consensuale, è un uomo giusto, alieno dalla smodatezza dei piaceri e dall’istinto di sopraffazione, e invece attento a condurre una vita serena e rispettosa di sé e degli altri. La società tripartita Analogamente, la società è composta da tre tipi di uomini: quelli in cui prevale il principio razionale, quelli in cui comanda il principio aggressivo e prepotente, e infine quelli che sono dominati dal desiderio dei piaceri. Una società giusta – cioè in pace al suo interno e all’esterno – sarà quella in cui governa il primo tipo di uomini, con l’alleanza e il consenso, o almeno con la sottomissione volontaria, degli altri due tipi. A quello aggressivo si addice non l’attività di governo ma quella militare: essi dovranno dunque essere combattenti agli ordini dei governanti razionali. Al tipo dedito ai piaceri si addicono le attività rivolte al guadagno (commercio, industria, agricoltura) che dovranno comunque venir svolte sotto il controllo del gruppo razionale governante. Platone formula dunque il principio secondo il quale la giustizia, nell’individuo e nella società, consiste nel «fare le cose proprie»: cioè nell’accettazione, da parte di ogni componente dell’anima e della comunità, di svolgere il ruolo e la funzione per i quali è naturalmente dotato, senza pretendere di assumere posizioni di comando per le quali è inadatto. Insomma la giustizia consiste per Platone nell’instaurazione di una gerarchia di potere condivisa, cioè accettata anche dai sudditi, e governata da un gruppo che non agisce nel proprio interesse (come Trasimaco pensava fosse inevitabile) ma in quello di tutta la società. Giustizia è, in poche parole, un potere giusto esercitato con il consenso di tutto il corpo sociale. Le parti dell’anima
T5
Giustizia è una città che canta all’unisono
Platone, Repubblica, 4,431 A-434 C
– E ancora, se in una qualsiasi città i governanti e i governati condividono la stessa opinione su chi debba comandare, lo stesso accadrà anche in questa. Non credi? – Certo, disse, nel modo più assoluto. – E in quale gruppo di cittadini, quando si trovano in questa condizione, diresti che è presente l’atteggiamento di moderazione? nei governanti o nei governati? – In un certo senso in entrambi, disse. – Vedi dunque, dissi io, che poco fa eravamo bravi indovini supponendo che la moderazione sia simile ad una sorta di armonia? – Ma perché? – Perché, a differenza del coraggio e della sapienza, la cui presenza in una sola parte della città basta a renderla rispettivamente sapiente e coraggiosa, non così agisce la moderazione, bensì si estende senz’altro attraverso l’intera città, facendo cantare insieme all’unisono lo stesso canto ai più deboli e ai più forti e a quelli di mezzo, per intelligenza, se vuoi, o se vuoi per forza, o anche per numero o ricchezze o altre simili cose: sicché nel modo più corretto possiamo dire che questa concordia è moderazione, accordo conforme a natura fra chi è peggiore e migliore su chi debba comandare nella città e in ciascun individuo. […] – Allora senti, dissi, se c’è qualcosa in quel che intendo. Ciò che fin dall’inizio abbiamo stabilito si debba fare in ogni circostanza, quando fondavamo la città – in 183
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questo consiste, mi pare, o in qualche sua forma, la giustizia. Abbiamo in effetti stabilito, e ripetuto più volte, se ben ricordi, che ciascuno debba svolgere una sola delle attività comprese nella città, quella per la quale la sua natura risulti più adatta. – Lo si diceva, sì. – E dunque che la giustizia consista nel fare le proprie cose senza moltiplicare le proprie attività, questo almeno l’abbiamo sentito da molti altri e noi stessi l’abbiamo detto più volte. – L’abbiamo detto, infatti. – Proprio questo, amico, dissi io, il «fare le proprie cose», praticato in un certo modo, c’è il caso che sia la giustizia. Sai da quali indizi lo suppongo? – No, ma dimmi, rispose. – Mi sembra, io dissi, che quel che resta nella città dopo le qualità che abbiamo esaminato, moderazione, coraggio, intelligenza, sia ciò che assicura a tutte loro la possibilità di svilupparsi, e una volta sviluppate ne garantisce la salvaguardia finché è presente. D’altronde si diceva che quella restante, una volta che avessimo scoperto le altre tre, sarebbe risultata la giustizia. – Ed è necessario, disse. – E inoltre, dissi io, se si dovesse giudicare quale fra queste è più capace con la sua presenza di rendere buona la nostra città, sarebbe difficile decidere se si tratti del consenso fra governanti e governati, o della salvaguardia dell’opinione basata sulla legge che si è formata nei soldati circa ciò che è da temere o no, o la vigile intelligenza presente nei governanti, oppure se ciò la cui presenza nel bambino, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano, nel governante, nel governato, è la più importante per render buona la città, consiste nel fatto che ogni singolo individuo svolga il compito che gli è proprio senza moltiplicare le proprie attività. – Decisione difficile, come no, disse. – Compete dunque a quanto pare per il primo posto nel contribuire alla virtù della città, insieme con la sua sapienza, la moderazione e il coraggio, l’attitudine di ciascun cittadino a svolgere il suo proprio ruolo. – Certo, disse. – E questa attitudine che compete con le altre verso la realizzazione della virtù della città non dovresti riconoscerla come giustizia? […] – Guarda ora se continui a concordare con me. Se un falegname si mette a fare il lavoro del calzolaio, o un calzolaio del falegname, scambiandosi magari i rispettivi strumenti e compensi, oppure se la stessa persona cerca di fare entrambi i mestieri, o insomma se tutto il resto viene scambiato, ti pare che ciò recherebbe un gran danno alla città? – Proprio no, disse. – Ma, penso, quando qualcuno che per natura è un artigiano o qualche altro tipo di affarista, e poi, esaltatosi per la ricchezza o il sostegno della massa o la forza o qualcos’altro del genere, tenta di passare nella forma del guerriero, uno dei guerrieri in quella di chi ha il potere di deliberare in difesa della città, pur essendone indegno; e se costoro si scambiano i rispettivi strumenti e le ricompense, oppure se la stessa persona tenta di fare contemporaneamente tutte queste cose, allora penso che anche tu ritenga che un tale sovvertimento, una tale proliferazione di attività, siano rovinose per la città. – È assolutamente così. – Poiché dunque vi sono tre gruppi, l’accavallarsi e lo scambio reciproco delle 184
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
loro funzioni costituiscono il danno più grande per la città, che assai correttamente potrebbe venir chiamato senz’altro un delitto. – Senza dubbio. – E non dirai che il maggior delitto contro la propria stessa città è ingiustizia? – Come no?
5 Giustizia, armonia, felicità
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La giustizia è equilibrio fra le parti dell’anima
Platone, Repubblica, 4,444 D-C
La giustizia come garanzia di felicità A questo punto, Platone è pronto a rispondere alla sfida di Trasimaco e di Glaucone. La giustizia non è l’interesse dei forti, come pensava il primo, o la protezione dei deboli, come aveva suggerito il secondo, e non è, come credevano entrambi, contraria alla natura umana. In realtà secondo Platone la giustizia, intesa come ordine e come corretta distribuzione di ruoli secondo le capacità, è per l’anima individuale e per la comunità quello che la salute è per il corpo in cui ogni parte svolga la propria funzione. La salute dei corpi è l’equivalente, per l’individuo e la società, del benessere e della felicità. Vale dunque la pena di perseguire la virtù della giustizia nella vita privata e in quella pubblica, perché essa, in quanto ordine e armonia dei rapporti con se stesso e con gli altri, è l’unica garanzia della felicità. Insomma, sostiene Platone contro i suoi avversari, «la giustizia paga». – Ma produrre salute significa istituire fra gli elementi del corpo un rapporto reciproco, conforme a natura, di comando e sottomissione; malattia, invece, una situazione in cui gli uni esercitano e gli altri subiscono il potere contro natura. – È così. – E dal canto suo, dissi, produrre giustizia non significa istituire fra le parti dell’anima un rapporto reciproco, conforme a natura, di comando e sottomissione; ingiustizia, invece, una situazione in cui le une esercitano e le altre subiscono il potere contro natura? – Certo, disse. – La virtù dunque, a quanto sembra, è una sorta di salute, di bellezza, di vigore dell’anima, il vizio malattia, bruttezza, debolezza. – Così è. – E non accade anche che le belle attività conducano all’acquisizione della virtù, quelle vergognose al vizio? – Per forza. – Sembra che resti a questo punto da indagare se è vantaggioso compiere azioni giuste e dedicarsi a belle occupazioni, insomma esser giusti, che si sia o meno riconosciuti come tali, oppure commettere ingiustizia ed essere ingiusti, a condizione di non doverne pagare il fio (e quindi anche senza venir resi migliori dalla punizione). – Ma Socrate, disse, mi pare che a questo punto si tratti di un’indagine ridicola. Se, una volta guastata la natura del corpo, la vita non sembra più possibile neppure se accompagnata da tutti i cibi e le bevande, da ogni possibile ricchezza e potere, come si potrebbe vivere quando fosse sconvolta e corrotta la natura di ciò stesso grazie a cui viviamo, anche se si potesse fare tutto ciò che si vuole – salvo quello che potrebbe liberarci da vizio e ingiustizia e ci permetterebbe di acquisire giustizia e virtù: tanto più ora che la natura dell’una e dell’altra è risultata chiara dall’analisi che abbiamo condotta. 185
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Parte prima L’età antica
Aristotele: giustizia, legge e natura
3 I testi
Aristotele Etica nicomachea: La virtù del giusto e la legge, T7 Politica: La virtù del cittadino è la stessa dell’uomo buono?, T8
1 I tre ambiti della giustizia
La dimensione politica
Giustizia politica e giustizia secondo natura
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La giustizia ‘perfetta’: l’Etica nicomachea Aristotele fu il primo, tra i filosofi antichi, ad analizzare e distinguere le varie accezioni e i diversi significati con cui viene usato il concetto di giustizia. Egli tracciò dunque la distinzione tra sfera giudiziaria, o ‘giustizia correttiva’, relativa alle pene comminate dai tribunali a chi trasgredisce la legge; sfera economica, relativa all’equità dei rapporti nella società civile, o ‘giustizia distributiva’; infine, la ‘giustizia perfetta’, la giustizia in senso pieno, che si attua nella sfera della politica, cioè dei rapporti fra cittadini. Quest’ultimo aspetto della giustizia è trattato nei capitoli 2, 3 e 10 del V libro dell’Etica nicomachea. La tesi principale di Aristotele è che la giustizia consiste nell’osservanza della legge, perché questa prescrive le norme politiche e morali del comportamento avendo di mira la felicità collettiva e di conseguenza anche individuale. Nella dimensione politica, la giustizia è una virtù di relazione fra persone, ed è quindi un «bene per gli altri», come diceva Trasimaco, ma in un senso opposto al suo: chi agisce in modo giusto, cioè legale, reca vantaggio agli altri, oltre che a se stesso, mentre il sofista pensava che l’uomo giusto recasse vantaggio ai potenti e perciò danno a se stesso in quanto loro suddito. Aristotele ammette tuttavia che alcune leggi possono essere stabilite in modo non corretto, e questo può aprire un contrasto fra l’uomo giusto, che obbedisce alla legge in ogni caso, e l’uomo buono, che segue la virtù morale, come vedremo più avanti (pp. 187-189). Nel capitolo 10, Aristotele stabilisce un rapporto fra giustizia politica e giustizia secondo natura. Quest’ultima non è però contrapposta all’altra, come avevano sostenuto molti sofisti. La giustizia secondo natura ricade anch’essa nella sfera politica, ma si distingue per la sua generalità, nel senso che si applica agli uomini che vivono in società in ogni luogo e in ogni tempo. La giustizia legale invece può variare da luogo a luogo e secondo i tempi. In ogni caso, poiché per Aristotele l’uomo è per natura un «animale politico», e tende dunque a vivere in società politiche governate dalla legge, c’è una sostanziale coincidenza fra dimensione politica, legge come norma delle relazioni fra gli uomini, e giustizia come virtù morale che consiste nell’osservanza della legge.
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
T7
La virtù del giusto e la legge
Aristotele, Etica nicomachea, 5,1129 B ss.
Si deve quindi comprendere in quanti modi si dice «l’uomo ingiusto». Pare che chi va contro la legge sia ingiusto, e lo sia anche chi è avido e disonesto, cosicché, chiaramente, sarà un uomo giusto chi rispetta la legge e chi è onesto; quindi ciò che è giusto corrisponde al lecito e all’onesto, mentre ciò che è ingiusto corrisponde all’illecito e al disonesto. […] Siccome si è detto che chi va contro la legge è ingiusto, e chi rispetta la legge è giusto, è chiaro che tutto ciò che è secondo legge è giusto, in un certo senso: ciò che viene stabilito dall’arte del legislatore è secondo la legge, e ciascuna di tali disposizioni la diciamo giusta. Le leggi si pronunciano su tutto e tendono all’utile comune, per tutti o per i migliori, o comunque per chi governa secondo virtù, o secondo qualche altro criterio consimile, di modo che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo giusto ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politica. La legge prescrive di compiere le opere tipiche dell’uomo coraggioso, per esempio non lasciare la schiera, non fuggire e non gettare via le armi, quelle tipiche del temperante, per esempio non commettere adulterio o violenza, o dell’uomo mite, per esempio non picchiare e non insidiare nessuno; allo stesso modo secondo tutte le altre forme di virtù e cattiveria, la legge prescrive le prime e proibisce le seconde, in modo corretto quando è stabilita correttamente, meno bene quando è stabilita in modo affrettato. Ora questo tipo di giustizia è virtù completa, non in generale, ma rispetto al prossimo. […] È virtù completa, soprattutto, perché è attuazione della virtù completa, ed è completa dato che colui che la possiede è capace di servirsi della virtù anche nei riguardi del prossimo, e non solo in relazione a se stesso; molti infatti sono in grado di far uso della virtù in ciò che li riguarda, ma non lo sono nei riguardi degli altri. […] Per questo stesso motivo la giustizia, sola tra le virtù, pare essere un bene per gli altri, perché è rivolta al prossimo, infatti il giusto compie azioni utili all’altro, sia esso un governante o un cittadino comune. Come l’uomo peggiore di tutti è colui che esercita la sua cattiveria sia verso se stesso sia verso gli amici, così il migliore non è colui che esercita la sua virtù in relazione a se stesso, ma colui che lo fa in relazione all’altro: questo è davvero un compito difficile. […] Non ci deve sfuggire che l’oggetto della nostra ricerca è sia ciò che è giusto in generale, sia ciò che è giusto relativamente alla sfera politica. Quest’ultimo è quello che riguarda coloro che vivono insieme per realizzare l’autosufficienza, liberi e proporzionalmente o numericamente uguali; di conseguenza tra le persone che non hanno tra loro questa forma di vita comune non si dà il giusto ‘politico’, nei loro rapporti reciproci, ma si dà una qualche altra specie di giusto, che è solo simile a quello. Infatti il giusto si dà nei rapporti di coloro che sono sottoposti alla legge, e la legge si dà per le persone tra cui si può avere ingiustizia, dato che la giustizia è il distinguere tra giusto e ingiusto; quindi per coloro tra cui si dà ingiustizia, si dà anche l’agire ingiusto. […] Per questo non permettiamo che governi una persona qualsiasi, ma diamo il potere alla ragione, perché l’uomo governa a suo vantaggio e si trasforma in un tiranno. Il governante è custode del giusto, e, se è custode del giusto, lo è anche dell’uguaglianza. Siccome si ritiene che il governante, se è uomo giusto, non de187
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ve avere per sé nulla di più degli altri – infatti non attribuirà a se stesso una quantità superiore di beni in assoluto, tranne nel caso in cui ciò conservi la proporzione rispetto al suo status, e per tale motivo è uno che lavora per gli altri; perciò la gente dice: «la giustizia è un bene per gli altri», come abbiamo ricordato anche prima – allora si deve dare al governante una ricompensa di un qualche tipo, la quale consisterà in onore e privilegi; chi non se ne accontenta, è di quelli che diventano tiranni. […] Il giusto relativo alla sfera politica si divide in naturale e legale. Naturale è quello che ha dovunque lo stesso potere e non dipende dall’opinare o dal non opinare, legale è quello che in origine non fa differenza se sia in un certo modo o in un altro, ma, quando viene formulato, fa differenza (per esempio, quando si stabilisce che il riscatto sia due mine, o di sacrificare una capra e non due pecore) e inoltre ciò che è stabilito legalmente riguardo ai casi singoli (come di sacrificare a Brasida) e quanto viene stabilito per decreto.
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Politica e morale
Come abbiamo visto, per Aristotele la giustizia politica («virtù perfetta») consiste sostanzialmente nell’ossequio alla legge della comunità. Nel trattato sulla Politica, Aristotele si pone però il problema del rapporto fra politica e morale. Il «buon cittadino» è colui che svolge il ruolo assegnatogli dalla comunità in cui vive, e ne rispetta le leggi: in questo consiste la sua «virtù». La virtù del buon cittadino è dunque diversa secondo le sue funzioni (il governo, la guerra, il lavoro e così via) e soprattutto secondo le forme costituzionali della comunità politica cui appartiene: in una democrazia sarà buon cittadino chi rispetta le leggi democratiche, in una tirannide colui che accetta le leggi tiranniche. La virtù morale (quella propria dell’«uomo buono») è invece unica e uguale per tutti; essa, per esempio, proibisce le azioni tiranniche imposte dal regime tirannico con le sue leggi, azioni che invece deve compiere il «buon cittadino» che vive sotto una tirannide. Ci sono casi, si chiede Aristotele, in cui sia possibile colmare questa separazione fra virtù morale e virtù politica, in cui cioè il buon cittadino coincida con l’uomo moralmente buono? Le possibilità indicate da Aristotele sono molto problematiche. L’identificazione fra morale e politica sarebbe possibile nella «costituzione perfetta», le cui leggi prescrivano solo ciò che è moralmente buono, e in cui tutti i cittadini siano buoni: ma Aristotele non sembra ritenere possibile una comunità politica di questo tipo, che era propria dell’utopia di Platone. Oppure, la coincidenza potrebbe essere possibile non in tutti i cittadini ma soltanto nei buoni governanti, abili politici e uomini virtuosi nello stesso tempo. Ancora una volta, è un’idea platonica, che però contraddice una tesi fondamentale della politica aristotelica, secondo la quale tutti i cittadini devono a turno essere governanti e governati; questa prospettiva introdurrebbe invece una differenza insuperabile fra i «buoni» governanti e gli altri cittadini, che non possono essere tutti altrettanto virtuosi. Il dilemma di Aristotele Aristotele lascia aperto questo grave problema, che deriva direttamente dall’accettazione del principio secondo il quale la giustizia è rispetto della legge. Rispettando questo principio, si è certamente buoni cittadini (cioè anche conforIl rapporto fra virtù politica e virtù morale
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Percorso tematico Che cos’è la giustizia?
misti), ma difficilmente uomini moralmente giusti, perché le leggi sono conformi alle costituzioni, e le costituzioni storicamente esistenti non rispecchiano di solito l’ideale della costituzione moralmente perfetta. O ci si pone (alla maniera platonica) il problema di rifiutare le costituzioni storiche per realizzare quella ideale, o ci si rassegna all’imperfezione delle leggi e quindi alla separazione fra «virtù politica» e «virtù morale»: questo sembra essere il dilemma entro il quale si muove Aristotele.
T8
La virtù del cittadino è la stessa dell’uomo buono?
Aristotele, Politica, 3,1276 B
Collegata a quanto si è detto adesso è l’indagine se la virtù dell’uomo buono si debba ritenere la stessa che quella del bravo cittadino o non la stessa. Ma se è giusto che questo punto sia sottoposto a esame, si deve prima fissare sia pure in abbozzo la virtù del cittadino. Ora, come il marinaio fa parte d’una comunità, così pure diciamo del cittadino. E sebbene i marinai abbiano funzioni diverse (uno è rematore, uno pilota, uno ufficiale di prua, un altro infine ha un’altra designazione del genere) è chiaro che la definizione più esatta della loro eccellenza riguarderà ciascuno in particolare, e tuttavia ce ne sarà una comune che si adatta a tutti. La sicurezza della navigazione è opera di tutti loro: a questo tende ciascun marinaio. Lo stesso riguardo ai cittadini: sebbene differenti tra loro, la sicurezza della comunità è opera loro e questa comunità è la costituzione: per ciò la virtù del cittadino è necessariamente in rapporto alla costituzione. Ma se ci sono più forme di costituzione, evidentemente non è possibile che esista una sola virtù del bravo cittadino, quella perfetta, mentre noi diciamo che l’uomo buono è tale in rapporto a una sola virtù, quella perfetta. È chiaro allora che si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono. Non solo, ma, prospettando la difficoltà in altro modo si può pure studiare lo stesso problema in rapporto alla costituzione migliore. Se è impossibile che tutti i componenti dello stato siano buoni, tuttavia ciascuno deve assolvere bene la sua funzione in rapporto alle sue possibilità, e questo procede da virtù, ora, siccome è impossibile che tutti i cittadini siano uguali, non potrà essere una sola la virtù del cittadino e dell’uomo buono. Infatti la virtù del bravo cittadino deve trovarsi in tutti (perché in questo modo lo stato sarà di necessità il migliore) ma quella dell’uomo buono non lo può, a meno che i cittadini d’uno stato buono non siano tutti necessariamente buoni. Inoltre lo stato risulta di elementi differenti, come il vivente, ad es. d’anima e di corpo, e l’anima di ragione e d’appetito, e la famiglia di uomo e di donna, e la proprietà di padrone e di schiavo: allo stesso modo anche lo stato è formato di tutti questi elementi e, oltre essi, di altre specie differenti: è necessario quindi che la virtù di tutti i cittadini non sia una sola, come non lo è tra i coreuti, quella del corifeo e del parastato. È evidente da ciò che non è assolutamente la stessa la virtù dell’uomo buono e del buon cittadino. Ma ci sarà uno nel quale la virtù del bravo cittadino sia la stessa che la virtù dell’uomo bravo? Noi diciamo che il bravo governante è buono e saggio, che il cittadino, invece, non è di necessità saggio. […] Ora se la virtù del buon governante e dell’uomo buono è la stessa e se cittadino è pure chi è comandato, non sarà assolutamente la stessa la virtù del cittadino e dell’uomo, o solo d’un determinato cittadino: e, infatti, non è la stessa la virtù di chi comanda e del semplice cittadino. […] E tuttavia si tiene in pregio la capacità di comandare e di obbedire e ‘par’ che 189
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sia virtù del cittadino rispettabile un’adeguata capacità a ben comandare e ad obbedire. Ora se ammettiamo che virtù dell’uomo buono è quella del comando, e virtù del cittadino entrambe, le due virtù non saranno egualmente pregiate.
I brani antologizzati sono tratti da: Platone, Protagora, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2001. Platone, La Repubblica, trad. di M. Vegetti, BUR, Milano 2007. Aristotele, Etica nicomachea, trad. di C. Natali, Laterza, Roma 2001. Aristotele, Politica, trad. di R. Laurenti, Laterza, Roma 1993.
Questionario 1
Sintetizza il mito raccontato da Protagora in T1 e spiega il significato politico-filosofico che il sofista gli attribuisce. (max 12 righe)
3
Ricostruisci l’argomentazione con cui Platone sostiene, in T6, che la giustizia è garanzia di felicità. (max 8 righe)
2
Quali sono i motivi che spingono gli uomini a contrarre un patto sociale delle leggi comuni esposti da Glaucone nel brano T3 tratto dalla Repubblica? (max 8 righe)
4
Quale tipo di virtù Aristotele attribuisce al buon cittadino in T8? Che cosa hanno in comune un buon cittadino e un marinaio? (max 10 righe)
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana GIUSTIZIA / GIUSTO I termini «giustizia» e «giusto» si presentano di continuo nel linguaggio quotidiano, a proposito degli argomenti più diversi. La giustizia è tradizionalmente, nel cristianesimo, una virtù (una virtù «cardinale»), ma ci riferiamo alla giustizia anche quando parliamo, per esempio, della magistratura, o comunque dell’apparato repressivo e penale («assicurare un individuo alla giustizia», o «è stata una pena giusta») o della giustizia umana e, magari, divina, come una facoltà di giudicare, di punire e di premiare. Si parla spesso, poi, di un’azione giusta, di una persona giusta, di una legge giusta, di una società giusta (o più giusta di quella attuale), ma anche di una misura giusta di un vestito, di una giusta richiesta o di un giusto prezzo. Le accezioni Ci sono quindi molti modi per parlare di giustizia e di cose giuste, e molti sipiù rilevanti gnificati di questi termini, anche se non possiamo trattarli tutti. Qui ne affrontiamo solo alcuni che sembrano più importanti. Parlare della «misura giusta» di un vestito, per esempio, significa semplicemente parlare dell’adeguatezza del modo in cui è stata tagliata una certa stoffa rispetto a un certo corpo, il che, di regola, non sembra una cosa particolarmente importante nella vita di un individuo. Particolarmente importanti sono invece gli usi di «giusto» e «giustizia» che rimandano a due principali significati: la correttezza morale da un lato e la distribuzione (dei beni o di un trattamento) o la retribuzione (di una colpa o di un merito), dall’altro.
I molteplici usi dei termini
1. La giustizia come correttezza morale Quando diciamo che un’azione è giusta intendiamo dire che un’azione è conforme a certi criteri di valutazione morale o, più semplicemente, a certi criteri morali. Nella lingua italiana, il contrario di «giusto» in questo significato non è tanto «ingiusto» – che usiamo più frequentemente per un altro significato del termine – quanto «sbagliato». Si potrebbe addirittura dire che la coppia più adeguata da utilizzare per parlare del «giusto» o della «giustizia» in questo significato sia la coppia «moralmente corretto» / «moralmente sbagliato». Usi non morali Dire a qualcuno che ha compiuto un’azione giusta significa in questo senso dire di «giusto» a qualcuno che ha compiuto l’azione, o un’azione, moralmente corretta (anche se, naturalmente, questo significato di «giusto» come «corretto» ha un’applicazione anche al di fuori della morale, come quando si parla di un gioco e delle mosse «giuste» all’interno di esso, per esempio una mossa nel gioco degli scacchi o nel gioco del calcio: «era la mossa giusta da fare», «ha fatto il passaggio giusto», «da quella posizione era giusto tirare in porta», e così via). Giustizia e bontà Il giudizio su un’azione, quando si tratta di un giudizio morale («hai compiuto l’azione giusta»), riguarda di solito l’aspetto esterno delle azioni, ovvero la loro giu➥ Laboratorio sul lessico stizia e non la loro «bontà»: un’azione giusta rimane tale anche se non viene fatBene / buono, p. 105 ta con uno spirito o per un motivo particolarmente nobile. La «giustizia» o cor-
Azioni «moralmente corrette» o «sbagliate»
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Parte prima L’età antica
rettezza morale di un’azione non dipende dal fatto che dietro di essa ci sia un motivo buono, ciò che invece sarebbe importante per valutare la bontà dell’azione e quindi dell’individuo che la compie. Se l’azione giusta viene compiuta per interesse personale, vanagloria, esibizionismo, essa rimane un’azione giusta anche se esiteremmo – a dir poco – a giudicarla un’azione buona. 2. Assolutezza della giustizia Un problema che si può porre, se ci interroghiamo sulle azioni che possono essere giuste o sbagliate, è se ci siano azioni giuste assolutamente oppure se la valutazione morale, e in particolare la valutazione delle azioni, dipenda da un atteggiamento soggettivo di chi giudica o da una certa educazione o da una certa cultura e così via. Assolutismo Secondo una certa interpretazione della moralità, ci sono azioni che sono ase relativismo morale solutamente giuste o assolutamente sbagliate, e rimangono giuste o sbagliate in qualunque contesto e in qualunque situazione, anche se si dà raramente il caso che non si prevedano affatto eccezioni. Secondo alcuni, per esempio, è assolutamente sbagliato uccidere un essere umano, e quindi queste azioni sono vietate in modo assoluto, anche se poi ci sono almeno alcune eccezioni (nel caso del divieto di uccidere, molti di coloro che condividono l’assolutezza di questa norma riconoscono per esempio la possibilità, cioè il permesso morale, di uccidere per legittima difesa, se si è un soldato in guerra o un militante rivoluzionario o, se la si sostiene, nel caso della pena di morte). Un’interpretazione diversa è quella che vede invece la giustizia o meno delle azioni dipendere da fattori soggettivi, storici o culturali: qualcuno può giudicare in questo senso giusta, cioè corretta moralmente, un’azione che qualcun altro giudica sbagliata, con differenze anche radicali tra diverse persone, tra diversi periodi storici o tra diverse civiltà e culture (anche in uno stesso periodo storico). 3. Azione giusta e dovere «Giusto» e «doveroso» L’idea di un’azione giusta è senz’altro collegata con il concetto di «dovere». Suonerebbe in effetti paradossale e strano affermare che l’azione che in un certo contesto è un dovere non sia un’azione anche giusta, nel senso di «moralmente corretta»: tutti i doveri sono, per chi li considera tali, almeno azioni giuste, cioè moralmente corrette. Estensione dei concetti Ma non è detto che tutte le azioni giuste siano doveri, ovvero azioni obbligadi «giusto» e «dovere» torie: ci possono essere azioni giuste che non sono doveri. Può essere questo il caso, per esempio, di una situazione in cui ci sono diverse azioni giuste che io posso compiere, senza poterle compiere tutte: io ho il dovere di compierne una, ma non tutte queste azioni giuste sono doveri. Il mio dovere effettivo è compiere almeno una tra queste azioni. Ciò vale tanto più se il mio dovere è raggiungere un certo scopo o un certo risultato: se io devo – cioè ho il dovere di – nutrire mio figlio, ci possono essere diverse azioni alternative che sono altrettanto giuste e che fanno sì che io adempia con esse al mio dovere (per esempio scegliendo un’alternativa tra cucinare e portare mio figlio in trattoria). Detto in altre parole: il significato di «giusto» è più ampio di quello di «dovere», e ci sono più azioni «giuste», rispetto a quante ce ne siano che sono veri e propri doveri. 192
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Laboratorio sul lessico Giustizia / giusto
La giustizia come «equità»
Giustizia sociale e distribuzione dei beni
Il problema dei criteri della distribuzione
Uguaglianza di trattamento a parità di condizioni
4. A ciascuno il suo Un significato importante della «giustizia» e del termine «giusto» riguarda l’equità, ovvero l’idea di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta, secondo una definizione tradizionale della giustizia. È un significato decisamente diverso da quello che abbiamo visto finora di «moralmente corretto»: ora si tratta di giudicare giusto quel comportamento o anche quell’uomo che realizzi un ideale di giustizia riguardante, per esempio, la distribuzione di determinati beni o la retribuzione con determinati premi o con determinate punizioni. È in questa circostanza che il contrario di giusto, almeno nella maggior parte dei casi, è più adeguatamente espresso con il termine «ingiusto». Nella lingua inglese, la giustizia nel senso della «correttezza morale» è detta rightness, mentre in questo secondo significato è detta justice. Anche nel primo caso appena descritto, quello della distribuzione dei beni, ci saranno numerosi pareri radicalmente discordanti tra loro, a seconda dei diversi ideali, appunto, di «giustizia»; è curioso che a questo proposito si accetti più facilmente una differenza di opinioni perché si pensa che sia abbastanza naturale che ci siano opinioni diverse in materie più esplicitamente dipendenti dalla divergenza di posizioni politiche: sembra diffusa l’opinione, infatti, che la morale sia qualcosa di necessariamente condiviso, e che il disaccordo su questioni politiche sia sostanzialmente meno grave. Si tratta in questo caso della distribuzione dei beni, e differenti concezioni della giustizia sociale prevedono diversi modi di distribuirli (ciò che spesso si chiama, in politica e in economia, «distribuzione del reddito»). Questo è un significato molto importante del termine «giustizia» che coinvolge molti aspetti della vita sociale, e che rientra nella concezione della giustizia come problema dell’assegnazione a ciascuno di quello che gli (o le) spetta: suum cuique tribuere, secondo un detto antico. È chiaro che la formulazione generale del problema enunciata nel detto non dice in che modo e secondo quali criteri si possa determinare che cosa o quanto concretamente spetti a ciascuno. Si può infatti pensare che a ciascuno spetti una certa quantità di beni uguale, approssimativamente uguale, oppure anche molto diversa, a seconda del criterio che viene utilizzato per stabilire che cosa sia «giusto». Ma questo significato non ha semplicemente una dimensione economica, può riguardare anche la giustizia nel trattare le persone. Di frequente ci troviamo a valutare come ingiusto un comportamento che per esempio, senza un’apparente giustificazione, tratti in modo diverso soggetti che in linea di principio ci sembrano avere diritto a un trattamento uguale: almeno secondo certi criteri in linea di principio ampiamente diffusi nelle società occidentali, tutti i cittadini hanno diritto a un trattamento analogo quando si trovino nelle medesime condizioni, salvo eccezioni motivate. E verrebbe di solito ritenuto ingiusto, per esempio, che a qualcuno venisse permesso di passare con il rosso a un semaforo, dato che tutti gli altri devono fermarsi al rosso e lasciare passare quelli che hanno il verde (un’eccezione motivata sarebbe che si trattasse di un’autoambulanza con la sirena accesa e un ferito grave a bordo). Un esempio classico di ingiustizia, vera o almeno percepita come tale, riguarda l’ambito familiare, e la consueta protesta da parte dei figli sulla disparità di trattamento: l’obiezione rivolta ai genitori è solitamente di essere «ingiusti» proprio nel senso di offrire un trattamento diverso a persone che hanno lo stesso status e le stesse pretese. Ma gli esempi e i parallelismi potrebbero continuare estendendosi a molte altre situazioni. 193
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Parte prima L’età antica Retribuzione di premi e punizioni
L’idea che a ciascuno spetti il suo è importante anche in un ambito particolare, quello della pena o della punizione: non è un caso che si parli di punizioni o di pene giuste e ingiuste e di premi giusti e ingiusti: normalmente, la giustizia o l’ingiustizia della punizione (o del premio) è valutata o rispetto all’effettivo compimento dell’azione o del comportamento da premiare o da punire, o rispetto all’entità del premio o della punizione. Lo stesso principio vale in ambito giuridico: per pene eccessivamente lievi o eccessivamente severe noi utilizziamo infatti l’aggettivo «ingiusto».
Esercitiamoci sulla giustizia 1. Rifletti e completa DOVERI
CORRETTEZZA MORALE
_______________ MORALE
(«corretto» contro GIUSTIZIA / GIUSTO
«__________________»)
RELATIVISMO MORALE
nella DISTRIBUZIONE (di __________________, EQUITÀ Usi quotidiani («giusto» come «___________» ecc.)
___________________ ecc.)
(«_________________» contro «ingiusto»)
nella _________________ (di denaro, premi, _________________ ecc.)
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Laboratorio sul lessico Giustizia / giusto
2. Spunti per il dibattito: io e… la giustizia 1
Dopo aver letto il testo e completato lo schema, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Credi vi sia qualcosa in comune tra tutte le azioni giuste? Se sì, che cosa? – Ritieni che i criteri per stabilire che cosa è giusto (o meno) siano gli stessi per chiunque, in ogni tempo e luogo? – Pensi che la giustizia di un’azione dipenda soltanto dalle conseguenze che tale azione comporta oppure dipenda anche dalle intenzioni di chi la fa? – Credi che sia sostenibile un’idea di giustizia ‘disinteressata’, ossia tale che non sia previsto alcun tipo di ‘premio’ (neanche sul piano psicologico) per chi la attua?
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Immagina due distinte situazioni, A e B. Nella situazione A un nipote assiste con cura la propria nonna, malata terminale, durante gli ultimi due mesi di vita e fa ciò mosso soltanto dal profondo affetto che nutre verso l’anziana parente. Nella situazione B, lo stesso nipote compie esattamente quanto messo in pratica nella situazione A, ma fa ciò mosso dalla speranza di essere designato dalla nonna quale erede di un ingente patrimonio. – Ti sentiresti di poter affermare che l’azione svolta nella situazione A è giusta mentre non lo è quella svolta nella situazione B? Perché? – Non si potrebbe sostenere che anche la mera gratificazione sul piano psicologico derivante dall’azione svolta nella circostanza A rappresenti già di per sé un ‘interesse’ da parte del nipote? – Supponi che il nipote in questione sia l’unico erede dell’anziana signora: vedresti ancora una qualche differenza tra la situazione A e la situazione B per quanto riguarda la giustizia dell’azione? Perché?
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Immagina che Paola abbia ricevuto da un amico la richiesta di aiutarlo a fare un trasloco (A) e dal fratello la richiesta di aiutarlo a preparare un’interrogazione di latino che avrà il giorno seguente (B). Paola non può fare entrambe le cose: – Quale pensi che sia, tra A e B, l’azione che è giusto compiere? Pensi che una delle due richieste sia più importante? – Supponiamo che Paola decida di fare A e, quindi, di non aiutare suo fratello. Il giorno dopo l’interrogazione va male; pensi che il fratello di Paola avrebbe ragione a dire che, non aiutandolo, Paola non ha fatto ciò che avrebbe dovuto fare? – Supponiamo che, prima di ricevere la richiesta di fare A, Paola abbia promesso di fare B e faccia B. Pensi che in tal modo si comporti in modo moralmente corretto?
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Immagina per un attimo due mondi possibili, M1 ed M2, identici tra loro da ogni punto di vista eccetto per il fatto che in M1 gli individui sono dotati di una volontà libera (o libero arbitrio), mentre in M2 no (qui essi sono rigidamente predeterminati nelle loro azioni). Tuttavia ogni azione compiuta da un qualunque abitante di M1 è identica all’azione compiuta nelle stesse circostanze dal corrispondente individuo di M2. – Pensi che nel mondo M2 continuerebbero ad avere senso i concetti di «dovere» e di «giusto» (sia nell’accezione morale che in quella distributiva e retributiva)? Perché? – Immagina che in M1 e in M2 sia in vigore lo stesso sistema di diritto penale: ti sembra ragionevole che tanto l’omicida in M1 quanto il corrispondente omicida in M2 subiscano lo stesso trattamento da parte della giustizia? Perché?
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Unità 4 Aristotele 1. Il primo professore 2. Le ragioni di Aristotele 3. L’edificio del sapere 4. La logica 5. Le categorie e il primato della sostanza 6. Il divenire del mondo: principi e cause 7. La struttura dell’universo: cosmologia e teologia 8. I viventi e l’anima: biologia e psicologia 9. La filosofia prima o metafisica 10. L’etica 11. La politica 12. La retorica e la poetica 13. La scuola di Aristotele: il Peripato 14. Un bilancio ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: L’Etica nicomachea ♦ Tesi a confronto: Aristotele: la natura ha un fine? I testi Dell’interpretazione: Suono, segno, significato, T1 Analitici secondi: La dimostrazione, T2; Principi propri e comuni, T3; L’intelletto principio della scienza, T5 Metafisica: Dire qualcosa di sensato, T4; Il primo motore immobile, T14; I requisiti della sapienza, T16; L’essere in quanto essere, T17; L’essere e la sostanza, T18; Causa è la forma, T19; La scienza teologica, T20 Categorie: Le dieci categorie, T6; Sostanze seconde, T7; Sostrato, specie e generi, T8 Fisica: Le cose per natura, T9; Le quattro cause, T10; Il fine nella natura, T11
Sul cielo: Movimenti rettilinei o circolari, T12; Il luogo degli dèi, T13 Le parti degli animali: La natura provvede al meglio, T15 Etica nicomachea: Il bene maggiore: la felicità, T21; L’opera propria dell’uomo, T22; Il medio tra eccesso e difetto, T23; La via di mezzo, T24 Politica: Le sei costituzioni, T25 Poetica: Poesia e storia, T26
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Parte prima L’età antica
1 La sistematizzazione del sapere
Il rapporto con Platone
➥ Percorso tematico, p. 275
Dal platonismo giovanile al naturalismo della maturità?
Distanze nella vicinanza
Il primo professore Nell’Unità precedente abbiamo visto che l’atto di nascita della filosofia risale a Platone. Ora si deve aggiungere che solo con il più grande allievo di Platone, Aristotele, la filosofia assume i contorni di un imponente edificio teorico, nel quale ogni singolo segmento di sapere occupa una posizione ben precisa nell’economia complessiva della conoscenza. In questo senso sembra di poter dire che, se Platone è il primo grande filosofo, Aristotele è senza dubbio il primo «professore di filosofia», perché è colui che tenta di organizzare in modo coerente e sistematico tutto il campo del sapere allora accessibile, in modo da rendere disponibile questo immenso patrimonio alle future generazioni. Se Platone scrive i dialoghi anche allo scopo di trasformare le anime e di indirizzarle verso l’amore per la filosofia, Aristotele compone i suoi trattati essenzialmente con l’obiettivo di insegnare, ossia di trasmettere un sapere in qualche modo consolidato. Naturalmente le differenze tra Aristotele e Platone non si riducono a quella appena richiamata. Esse sono numerose e verranno ampiamente evidenziate nel corso di questa Unità. Tuttavia, occorre precisare subito che tali differenze, anche quelle più radicali, non possono in alcun modo oscurare il fatto che Aristotele non cessa mai veramente di sentirsi e, per molti aspetti di essere, un platonico. In verità, nel momento stesso in cui si parla di Aristotele e dei suoi rapporti con il grande maestro, bisogna fare i conti con un’importante tesi storiografica, particolarmente in voga durante la prima parte del XX secolo. Secondo i fautori di questa tesi, il pensiero di Aristotele avrebbe nel corso dei decenni subito una radicale trasformazione: a un periodo iniziale caratterizzato da un’adesione pressoché totale al platonismo sarebbe succeduta una fase più matura, segnata invece da un distacco sempre più marcato dalle tesi platoniche. Insomma, mentre il giovane Aristotele, allievo di Platone presso l’Accademia, avrebbe aderito a tutte le principali dottrine del suo maestro (per esempio alla teoria delle idee e a quella dell’immortalità dell’anima), l’Aristotele maturo si sarebbe trasformato in una sorta di filosofo della natura fedele all’esperienza, cioè empirista, profondamente avverso al platonismo. Le ricerche condotte in questi ultimi decenni hanno però dimostrato che questa ipotesi storiografica non è più sostenibile. In realtà, già quello che sappiamo sulla produzione del giovane Aristotele dimostra che egli non è mai veramente «platonico», se con questo termine si intende indicare un pensatore che aderisce in modo completo alla filosofia di Platone (sappiamo, per esempio, che Aristotele criticò fin da subito la teoria delle idee). Egli tuttavia non si distanzia mai del tutto dal platonismo e dunque è sempre in certa misura «platonico», se con ciò ci si riferisce al modo complessivo di fare filosofia e soprattutto al riconoscimento di alcuni aspetti essenziali del platonismo.
La formazione, i viaggi, l’insegnamento Per comprendere lo sviluppo del pensiero di Aristotele è utile ricostruire le fasi principali della sua vita. Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, nel Nord della Grecia; suo padre, Nicomaco, era molto probabilmente medico della corte mace198
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Unità 4 Aristotele
L’Accademia
In viaggio
Il Peripato
Eubea
done, e alla famiglia reale macedone la vita di Aristotele rimase sempre legata. Se per Platone l’episodio decisivo della sua formazione fu l’incontro con Socrate, per Aristotele questo evento decisivo non poté che essere l’ingresso nell’Accademia platonica, avvenuto a soli diciassette anni. Qui Aristotele rimase per venti anni, dapprima come allievo e poi come collaboratore di Platone. Sappiamo che durante la sua permanenza nell’Accademia Aristotele non solo tenne lezioni di retorica e logica, ma compose anche alcuni importanti scritti (tra i quali si segnalano il trattato Sulle idee, molti libri della Fisica, lo scritto Sul cielo, alcuni libri della Metafisica, tra i quali il libro XII di cosmologia e teologia, e alcune tra le opere di logica, come le Categorie e i Topici). Alla morte di Platone, avvenuta nel 348 a.C., la direzione dell’Accademia venne assunta da Speusippo, nipote del maestro. Aristotele, che, in quanto meteco (ossia cittadino non ateniese), non poteva ambire a guidare l’istituzione fondata da Platone, lasciò Atene e trascorse più di dieci anni lontano dalla capitale dell’Attica. Sappiamo che soggiornò ad Asso, in Asia Minore, insieme ad altri accademici (riuniti grazie all’interessamento del tiranno Ermia); fu poi a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove conobbe il più importante dei suoi allievi, Teofrasto, e iniziò con lui un periodo di collaborazione destinato a durare tutta la vita; molto importanti furono poi gli anni trascorsi presso la corte macedone a Pella, dove venne chiamato dal re Filippo II come precettore del figlio Alessandro, futuro signore della Grecia e vincitore dei persiani. A questa fase itinerante risale la raccolta del materiale che darà origine alle grandi opere biologiche e zoologiche. Nel 335 a.C. Aristotele fece ritorno ad Atene, ormai sotto il controllo dei macedoni. Qui aprì una sua scuola, il Peripato (così chiamato per la presenza di una passeggiata, in greco perìpatos) e iniziò a tenervi regolari corsi di lezioni, oltre a organizzare un’attività di ricerca estremamente ricca e articolata. A questo periodo risale la composizione di alcuni tra i più importanti libri della Metafisica (IV, VI, VII-IX), dei libri più recenti della Politica, dello scritto Sull’anima, e la stesura dei grandi trattati biologici (Le parti degli animali, La generazione degli animali). Con la morte di Alessandro, nel 323 a.C., riprese vigore ad Atene il partito antimacedone e Aristotele preferì lasciare nuovamente la città (sembra che fosse accusato di empietà e volesse evitare di fare la fine di Socrate). Riparò in Calcide, nell’isola di Eubea, dove morì dopo un anno, nel 322 a.C.
Gli scritti e il loro ordinamento Prima di parlare degli scritti di Aristotele, bisogna premettere che la forma in cui noi oggi li leggiamo non è dovuta al loro autore (come invece accade per i dialoghi di Platone). In verità il corpus aristotelico deve la sua attuale struttura ad Andronico di Rodi, un seguace di Aristotele vissuto nel I secolo a.C. Egli sistematizza il materiale attribuito ad Aristotele allora in circolazione, lo ordina raggruppandolo in opere unitarie e lo dispone secondo una ben precisa sequenza. La logica L’edizione di Andronico si apre con le opere di logica, raggruppate sotto il titolo di Organon, cioè strumento: Categorie, Sull’interpretazione, Analitici primi in due libri, Analitici secondi in due libri, Topici in otto libri, Confutazioni sofistiche. La natura Seguono gli scritti dedicati alla natura e al mondo fisico: Fisica in otto libri, Sul e la Metafisica cielo in quattro libri, Generazione e corruzione in due libri, Meteorologia in quatL’ordinamento di Andronico
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Parte prima L’età antica
Etica, politica, arti e Costituzione
Il titolo «Metafisica»
Raggruppamenti arbitrari?
Appunti per le lezioni
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tro libri, Sull’anima in tre libri e poi una serie di operette minori di argomento vario; sempre a questo gruppo appartengono i grandi trattati dedicati alla biologia e alla zoologia: Ricerche sugli animali in dieci libri, Le parti degli animali in quattro libri, Il moto degli animali e La generazione degli animali in cinque libri. Nell’ordinamento di Andronico agli scritti consacrati alla fisica segue la Metafisica, un’opera in quattordici libri (di cui si dirà più avanti). Dopo la Metafisica trovano collocazione opere di argomento etico: Etica nicomachea in dieci libri ed Etica eudemia in otto libri; e politico: Politica in otto libri. Chiudono il corpus gli scritti consacrati alle scienze poietiche (pòiesis significa in greco «produzione»), ossia alle arti: Retorica in tre libri e Poetica di cui è conservato il solo I libro. Alla fine dell’Ottocento è stato rinvenuto un papiro contenente uno scritto di Aristotele dedicato alla Costituzione degli Ateniesi (che faceva parte di un’opera nella quale si dava conto di ben 158 costituzioni). Come si vede, la produzione di Aristotele è davvero sterminata; e le opere a noi pervenute (raccolte da Andronico) non sono che una parte di quelle effettivamente composte dal grande filosofo di Stagira. Il corpus degli scritti di Aristotele – lo si è già osservato – si presenta in una forma che non è quella stabilita dal suo autore. Il caso più clamoroso è certamente costituito dalla Metafisica, da molti considerata il capolavoro di Aristotele e uno dei libri più importanti dell’intera storia della filosofia. Se per avventura qualcuno di noi, dopo avere letto la Metafisica, incontrasse Aristotele e si complimentasse con lui per avere scritto quest’opera, il nostro filosofo rimarrebbe stupefatto, non solo perché lui non scrisse nessuna opera con quel titolo, ma soprattutto perché la parola stessa gli era del tutto ignota. In effetti, Metafisica è il titolo coniato (o utilizzato) da Andronico per indicare quell’opera che nella sua sistemazione segue gli scritti di argomento fisico (ta metà ta physikà significa infatti «cose che vengono dopo i libri di fisica»). È anche vero che molti dei quattordici libri che compongono la Metafisica sfiorano tematiche relative a questioni non fisiche (per esempio la questione dell’esistenza di sostanze immobili); da qui la parola «metafisica» ha preso a indicare anche un discorso che verte intorno a entità non fisiche, oppure intorno ai principi e alle cause delle realtà fisiche. Quello che vale per la Metafisica vale in realtà anche per le altre opere di Aristotele. Per la forma in cui ci sono oggi note, esse devono molto al lavoro di sistemazione di Andronico, il quale raggruppa i libri di argomento affine facendo di essi un’opera unitaria. Questo tuttavia non significa che gli scritti di Aristotele che noi leggiamo siano dotati di un’unitarietà del tutto estrinseca (derivata cioè dal difuori). In effetti già Aristotele ha avvicinato molti libri di argomento affine, considerandoli parti di una medesima trattazione. Bisogna però tenere presente che la forma attuale dei suoi scritti è essenzialmente il frutto dell’opera editoriale di un aristotelico vissuto oltre trecento anni dopo la morte di Aristotele. Il discorso appena fatto vale per le opere di scuola. In effetti, tutti gli scritti che compongono l’attuale corpus aristotelico non sono pensati e composti per venire pubblicati (alla maniera dei dialoghi platonici). Essi costituiscono in realtà appunti, schemi e canovacci approntati come ausilio all’attività di insegnamento, alla quale era destinata la maggior parte degli sforzi di Aristotele (che è, in questo senso, davvero il «primo professore di filosofia»). Ciò spiega un certo disordine che li caratterizza; spiega inoltre la presenza di ripetizioni e di uno stile che si adatta più alla lezione orale che alla trasmissione scritta. Si è soliti indicare
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Unità 4 Aristotele
questo tipo di opere con l’aggettivo «esoteriche» (destinate cioè all’interno della scuola: èso in greco significa «interno») o «acroamatiche» (da akròasis che significa «lezione», «ascolto»). I dialoghi perduti In verità Aristotele, soprattutto nel periodo della sua permanenza nell’Accademia di Platone, compone anche scritti destinati alla pubblicazione. Alcuni di questi sono dialoghi (come l’Eudemo), composti certamente sul modello di quelli platonici. Tuttavia nessuna di queste opere ci è pervenuta (possediamo solo ampi frammenti). Dunque, per una sorta di paradosso della tradizione, noi abbiamo le opere che Aristotele non ha pensato di destinare alla pubblicazione, ossia gli scritti esoterici, ma non possediamo quelli che sono stati composti per venire pubblicati, e che si è soliti definire essoterici, ossia destinati all’esterno della scuola (èxo in greco significa appunto «fuori»). La ragione di questo sta nel fatto che i dialoghi, considerati troppo inferiori a quelli platonici, non vennero più trascritti, mentre la scuola conservò i trattati per la loro ricchezza di ➥ Sommario, p. 255 dottrine.
La vita e le opere Aristotele nacque a Stagira, nella penisola Calcidica (Grecia settentrionale), nel 384 a.C., da genitori greci; il padre, Nicomaco, era probabilmente medico della corte macedone, la madre, Festide, era originaria di Calcide, nell’isola di Eubea. A diciassette anni Aristotele si recò ad Atene ed entrò a far parte dell’Accademia di Platone, ove restò per venti anni, fino alla morte del maestro (367348/347), vivendo sempre nella pòlis come meteco, ovvero come straniero residente stabilmente in città ma privo di diritti politici. Alla morte di Platone Aristotele si recò presso Ermia, tiranno di Atarneo (Asso), alleato del re macedone Filippo (ragione per la quale Ermia verrà ucciso nel 341 dai persiani), del quale sposò una parente chiamata Pizia. Nel 345/344 si recò a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove strinse amicizia con Teofrasto, il suo più brillante collaboratore. Nel 343/342 venne chiamato alla corte del re macedone Filippo, che gli affidò l’educazione del giova-
ne figlio Alessandro, il futuro Alessandro Magno, signore della Grecia e conquistatore dell’impero persiano. Probabilmente Aristotele lasciò la corte nel 335, quando, dopo la morte di Filippo, Alessandro gli succedette al trono. Tornato ad Atene, Aristotele, cinquantenne, vi fondò la sua scuola, chiamata Peripato (per la presenza di una passeggiata) o Liceo (perché sita nel giardino dedicato ad Apollo Licio). Alla morte di Alessandro, in Persia, nel 323, Aristotele, ormai più che sessantenne, subì la reazione del partito antimacedone ateniese, scontando così la storica vicinanza con Filippo e Alessandro, e soprattutto lo stretto legame con Antipatro, governatore di Atene per incarico del re; venne così minacciato un processo nei suoi confronti che lo avrebbe accusato di empietà. Temendo questa eventualità, Aristotele abbandonò Atene, trasferendosi nell’isola di Eubea, in Calcide, nella vecchia casa materna, dove morì l’anno successivo (322/321).
L’ordinamento del corpus di Andronico Logica (Organon) Categorie; Sull’interpretazione; Analitici primi in due libri; Analitici secondi in due libri; Topici in otto libri; Confutazioni sofistiche Natura Fisica in otto libri; Sul cielo in quattro libri; Generazione e corruzione in due libri; Meteorologia in quattro libri; Sull’anima in tre libri e una serie di operette minori di argomento vario; Ricerche sugli animali in dieci libri; Le parti degli animali in quattro libri; Il moto degli animali e La generazione degli animali in cinque libri Metafisica Metafisica in quattordici libri Etica Etica nicomachea in dieci libri; Etica eudemia in otto libri; le due etiche hanno in comune tre libri Politica Politica in otto libri; a questo gruppo va aggiunto lo scritto rinvenuto nel 1890 dedicato alla Costituzione degli Ateniesi (che faceva parte di un’opera nella quale si dava conto di 158 costituzioni) Opere poietiche Retorica in tre libri; Poetica in due libri, di cui è però conservato solo il primo
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Parte prima L’età antica
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Aristotele: avvicinare la filosofia alla realtà quotidiana
Salvare il mondo, non costruirne uno a parte
Le ragioni di Aristotele Prima di esporre in tutta la sua vastità l’impresa filosofica di Aristotele, è opportuno tentare di comprendere le ragioni che motivarono questo immenso sforzo intellettuale, e il suo senso nel quadro della costruzione della filosofia occidentale. Platone ha fondato la filosofia come ambito di sapere autonomo e come una nuova e specifica forma di razionalità. Ha inoltre conferito alla figura intellettuale del filosofo una legittimità culturale, un prestigio sociale, addirittura un’autorevole pretesa al governo della città. Ma, dal punto di vista di Aristotele, Platone ha corso, in questo suo sforzo di fondazione della filosofia, rischi eccessivi. Essi consistono soprattutto in una separazione della filosofia dal mondo in cui gli uomini vivono e di cui hanno esperienza. Dotare la filosofia di un suo ambito di sapere autonomo e alternativo (l’ambito delle idee), pretendere che la filosofia abbia il diritto e il dovere di cambiare radicalmente il modo di vita tradizionale degli uomini, evocare scenari estranei al comune patrimonio di conoscenze (la genesi demiurgica del mondo, l’immortalità dell’anima), tutto questo rischia secondo Aristotele di rinchiudere la nuova forma di sapere e di vita in una specie di ghetto, certamente nobile ma troppo lontano dalla realtà della vita. Per lui, occorre insieme «salvare la filosofia» ma anche «salvare il mondo» che l’esperienza comune ci permette di conoscere, salvare i saperi che intorno a questo mondo si sono venuti costituendo, le forme di vita collettiva che la tradizione ci ha consegnato: si tratta, in una parola, di far sì che la filosofia abiti nel nostro mondo e non in un suo mondo a parte costruito dalla potente immaginazione teorica del maestro.
I cinque capisaldi della filosofia di Aristotele
Un solo mondo, quello sensibile
Un mondo ordinato in sé
L’enciclopedia del sapere, computo della filosofia
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Questo straordinario programma aristotelico può essere anticipato in alcuni punti, che verranno in seguito esposti in modo più analitico. 1) C’è un solo mondo, quello che conosciamo attraverso i sensi, quello di cui parla il nostro linguaggio quotidiano; la conoscenza di questo mondo è stata progressivamente acquisita dagli uomini, ed essa si è accumulata nella tradizione del sapere. È illusorio e fuorviante introdurre, accanto o sopra a questo mondo, un altro livello di realtà, come quello delle idee platoniche. 2) Questo mondo è in sé ordinato; c’è una legalità insita sia nei processi della natura sia nella società umana. Questa legalità garantisce la regolarità dei fatti naturali e umani e il loro orientamento verso la condizione migliore possibile. Non c’è alcun bisogno di interventi esterni (come sono in Platone quello divino del demiurgo e quello umano del filosofo-re) per assicurare l’ordine del mondo. 3) Le conoscenze di cui disponiamo intorno al mondo possono venire organizzate in un’enciclopedia del sapere, in grado di spiegare la struttura di ognuno dei campi diversi in cui il mondo è diviso. Compito della filosofia è quello di costruire e chiarificare queste conoscenze, disporle ordinatamente nel piano generale dell’enciclopedia, individuare gli elementi concettuali che garantiscono l’unità e la coerenza del sistema dei saperi, e quindi del mondo che essi descrivono.
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4) La filosofia non deve cambiare il mondo né inventare mondi possibili, ma comprendere e spiegare l’unico mondo esistente: spiegare vuol dire capire le cause e le ragioni per le quali le cose stanno così come sono, sia nell’ambito dei processi naturali sia in quello dei comportamenti umani. La filosofia: una sobria 5) In questo modo, la filosofia non risulta più separata dal mondo, torna ad abisupremazia tare nel campo dei saperi sulla natura e sull’uomo; in quanto capace di organizzare e chiarificare questi saperi, mantiene la sua supremazia sulle conoscenze (come ha preteso Platone), ma non si presenta più come alternativa radicale rispetto ad esse, e rinuncia all’ambizione di governare direttamente la vita degli uomini. Il primato della filosofia è dunque in Aristotele meno ambizioso, più sobrio e misurato, rispetto alla pesante eredità trasmessagli dal ➥ Sommario, p. 255 maestro. Comprendere e spiegare cause e ragioni
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Autonomia dei saperi
La realtà e i suoi ambiti: la rinuncia a un sapere assoluto
L’edificio del sapere Per accostarsi in maniera corretta al pensiero di Aristotele occorre avere chiaro il modo in cui egli concepisce il complesso edificio del sapere. A differenza di Platone, il quale vede nella dialettica un sapere dotato di un carattere universale e in qualche modo egemone nei confronti di tutte le altre discipline, Aristotele stabilisce fin da subito un notevole grado di autonomia per le diverse forme di conoscenza. La realtà risulta ai suoi occhi divisa per generi, ossia per ambiti, relativamente autonomi (per esempio la natura vivente, le matematiche, i fenomeni celesti, l’etica e la politica). Questo fa sì che si debba rinunciare alla pretesa di individuare un sapere assoluto e universale. Ogni ambito dell’essere, cioè ogni genere della realtà, possiede suoi principi, del tutto indipendenti rispetto a quelli propri degli altri ambiti. Vedremo che Aristotele non rinuncia del tutto a proporre elementi di unificazione (e questo è senz’altro uno degli aspetti in cui si manifesta la sua fedeltà al platonismo); e tuttavia si tratta di un’unificazione indubbiamente più debole rispetto a quella cui ambisce la dialettica di Platone.
La classificazione delle scienze Si è detto dunque che per Aristotele il sapere, esattamente come la realtà che esso si propone di conoscere, si presenta articolato in diversi ambiti. In verità, se si osserva con attenzione la divisione degli scritti di Aristotele operata da Andronico, si può constatare che questo aristotelico del I secolo a.C. segue con scrupolo la classificazione delle scienze prospettata da Aristotele ed è dunque, almeno sotto questo aspetto, fedele al pensiero del grande filosofo. La tripartizione In effetti la successione delle opere di Aristotele presentata da Andronico predelle scienze vede, dopo le opere di logica (di cui si dirà tra breve): 1) l’insieme degli scritti concernenti le discipline teoretiche (fisica, cosmologia, biologia, metafisica); 2) le opere dedicate alle discipline pratiche, vale a dire essenzialmente l’etica e la politica; 203
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Parte prima L’età antica
Le discipline teoretiche: fisica, matematica, metafisica
Le discipline pratiche: l’universo del contingente
Le discipline poietiche: la produzione finalizzata al contingente
➥ Sommario, p. 255 La tripartizione delle scienze
4 Lo strumento dell’indagine
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3) le opere consacrate alle scienze poietiche, ossia alle arti (e qui il riferimento è alla retorica e alla poetica). Ora, questa tripartizione tra discipline teoretiche, pratiche e poietiche è esattamente quella sostenuta da Aristotele. Le discipline teoretiche (da theorìa, che significa «contemplazione») si occupano di quelle realtà che non possono essere diverse da come sono; si potrebbe dire che l’ambito al quale si rivolgono le scienze teoretiche è costituito dall’insieme degli enti necessari, cioè appunto quelli che sono necessariamente come sono. Secondo Aristotele le discipline teoretiche sono tre, ossia la fisica o filosofia seconda (che studia l’insieme delle cose che appartengono alla natura, cioè la phy`sis), la matematica (che si occupa degli enti matematici: numeri e figure) e la filosofia prima (che, come detto, prenderà in seguito il nome di metafisica). Se le scienze teoretiche studiano le cose che non possono essere diversamente da come sono, le discipline pratiche si rivolgono all’ambito dell’azione (pràxis appunto), che è esattamente costituito da cose che possono risultare anche diverse da come sono, in quanto hanno a che fare con la deliberazione, cioè la scelta, degli uomini. Io posso decidere di comportarmi in un certo modo (per esempio di votare un partito piuttosto che un altro, di andare o non andare a trovare un mio amico), mentre una realtà fisica (come una pianta) o una matematica (come un triangolo) non possono certamente essere diverse da come sono. In altre parole, le discipline pratiche attengono all’universo del contingente (ciò che può essere o anche non essere), mentre quelle teoretiche all’ambito del necessario. Mentre le azioni propriamente dette, oggetto delle scienze pratiche, hanno in se stesse il proprio fine (cioè nell’esecuzione stessa di una certa azione), le produzioni sono azioni che hanno il loro fine al di fuori di sé, ossia nella cosa che esse producono. Si tratta per Aristotele del campo delle tecniche, cioè delle arti. Discipline di questo tipo sono dette «poietiche» perché risultano finalizzate alla produzione di qualcosa (pòiesis significa «produzione»). Le produzioni, esattamente come le azioni, possono essere e non essere e appartengono dunque al dominio del contingente. Discipline teoretiche
Fisica o filosofia seconda, matematica, filosofia prima o metafisica
Concernono le realtà che non possono essere diverse da come sono (la theorìa è la «contemplazione»), dunque gli oggetti necessari
Discipline pratiche
Etica e politica
Concernono l’ambito dell’azione (pràxis) e dunque del contingente (non necessario)
Discipline poietiche
Retorica e poetica
Concernono l’ambito della produzione (pòiesis) dunque del contingente
La logica Dalla suddetta classificazione restano fuori, come avrai notato, le opere che si trovano all’inizio dell’ordinamento di Andronico, cioè gli scritti di argomento logico. Questo accade perché la logica non è una disciplina a parte, non si occupa cioè di una regione determinata dell’essere, ma costituisce lo strumento di cui si
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Unità 4 Aristotele
servono le altre discipline. Si spiega così la denominazione di Organon (òrganon significa «strumento») con cui si è soliti indicare l’insieme degli scritti logici di Aristotele. Il linguaggio, strumento Le scienze, tutte le scienze, si servono di discorsi, ragionamenti, inferenze, dedudi comunicazione zioni; e, ancora prima, esse si servono di nomi, verbi, proposizioni, cioè del lindella verità guaggio. La logica di Aristotele si propone esattamente di indagare la natura di tutte queste cose e in primo luogo del linguaggio, inteso come strumento di espressione e comunicazione della verità.
L’analisi delle proposizioni Il primo livello dell’analisi deve dunque riguardare i componenti elementari del discorso, ossia i termini di cui sono costituite le proposizioni (e di conseguenza i ragionamenti, le inferenze e le deduzioni). Nomi e verbi Ogni proposizione è formata da nomi e da verbi (gli aggettivi vengono considerati nomi).
T1
Suono, segno, significato Dell’interpretazione, 2,16a19-4,17a4
I discorsi dichiarativi gli unici o veri o falsi
Il nome è un suono emesso con la voce, significativo per convenzione, senza indicazione di tempo, di cui nessuna parte è significativa, presa separatamente dal resto. […] Il nome è significativo per convenzione, poiché nessuno dei nomi è tale per natura, ma si ha un nome quando un suono emesso con la voce diventa simbolo; infatti indicano qualcosa anche i suoni inarticolati, per esempio quelli emessi dalle fiere, nessuno dei quali però è un nome. […] Verbo è ciò che significa, in aggiunta, il tempo […] esso è un segno di cose che si dicono di qualcos’altro. Quando dico che significa, in aggiunta, il tempo, intendo dire, per esempio, che «salute» è un nome, «sta in salute» è un verbo: infatti ciò significa in più che la salute c’è ora. […] Il discorso è suono emesso con la voce, significativo, del quale una qualunque delle parti, presa isolatamente, è significativa, come espressione ma non come affermazione. Intendo dire che «uomo», per esempio, significa qualcosa, ma non che è o che non è [qualcosa]. […] Ogni discorso è significativo, ma non ogni discorso è dichiarativo, ma solo quello in cui vi è verità o falsità. Non in tutti i discorsi vi è verità o falsità; per esempio la preghiera è un discorso, ma non è né vera né falsa. Le ultime considerazioni contenute nel passo appena riportato sono di importanza straordinaria. Aristotele sostiene che non tutti i discorsi, ossia non tutte le proposizioni costituite da nomi e verbi, sono dichiarativi, ossia apofantici (apòphansis significa «dichiarazione»). Esistono infatti discorsi che non dichiarano nulla; per esempio la preghiera oppure il comando. Mentre le proposizioni dichiarative (o enunciative) sono soggette alla logica vero-falso, sono cioè o vere (se esprimono uno stato di cose reale) o false (se dicono qualcosa che non esiste nella realtà), i comandi e le preghiere risultano sottratti a questa dicotomia. Un comando può essere o non essere rispettato, ma di esso non si può dire che è vero o falso (se un tale dice che una persona sta mangiando un biscotto, io posso rispondergli che è vero o falso, ma se mi ordina di chiudere la porta io posso farlo o non farlo, ma certamente non posso dire che è falso). 205
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Parte prima L’età antica
La quantità delle asserzioni: universalità, particolarità e individualità
Rapporti di esclusione
Contrarie e contraddittorie
Universale affermativa (per esempio: «Ogni uomo è mortale») Subalterne
Il quadrato degli opposti
Stabilito che solo i discorsi dichiarativi sono soggetti all’alternativa vero-falso, Aristotele aggiunge che simili discorsi possono essere affermativi, se affermano qualcosa di qualcosa o qualcuno (per esempio «Socrate è bianco»), o negativi, se negano che a qualcosa o a qualcuno appartenga una certa caratteristica (per esempio «Socrate non è allievo di Platone»). Il discorso dichiarativo più semplice è quello nel quale a un nome viene assegnato un verbo (per esempio «Socrate corre»). Secondo Aristotele un discorso di questo genere è vero se esprime uno stato di cose esistente, ossia se collega cose che risultano collegate anche nella realtà (la proposizione «Socrate corre» è vera se Socrate effettivamente corre). Vera è però anche quella proposizione che nega un collegamento quando anche nella realtà questo collegamento non si dà (per esempio l’asserzione «Socrate non è nero» è vera perché nega un collegamento, quello tra Socrate e l’essere nero, che nella realtà in effetti non c’è). False sono invece quelle proposizioni che collegano ciò che non è collegato e negano un collegamento laddove esso esiste. Nell’analisi che Aristotele conduce della natura delle proposizioni, l’affermazione e la negazione costituiscono le qualità delle asserzioni. Molto importante è poi la quantità che ha a che fare con il grado di universalità del soggetto di cui si afferma o si nega qualcosa. Se dico, per esempio, che «tutti gli uomini sono bipedi» esprimo una caratteristica che si riferisce a un soggetto universale (tutti gli uomini); se invece affermo che «qualche uomo è nero» mi riferisco a un soggetto particolare (qualche uomo); se, infine, sostengo che «Socrate è bianco» sto parlando di un soggetto individuale (Socrate). Le proposizioni possono dunque essere, a seconda della loro quantità, universali, particolari o individuali. A partire dalle distinzioni appena menzionate, le quali attengono alla qualità (affermativa o negativa) e alla quantità (universale, particolare e singolare) delle asserzioni, Aristotele stabilisce poi dei rapporti di esclusione tra i giudizi relativi al medesimo soggetto. Egli osserva, per esempio, che le proposizioni universali affermative («tutti gli uomini sono bianchi») e le corrispondenti universali negative («nessun uomo è bianco») possono essere entrambe false, sono cioè contrarie, ma non contraddittorie (cioè necessariamente una vera e l’altra falsa). Le asserzioni particolari affermative («qualche uomo è bianco») e quelle particolari negative («qualche uomo non è bianco») possono risultare entrambe vere, e dunque non sono né contrarie (entrambe false) né contraddittorie (l’una vera e l’altra falsa). Contraddittorie, ossia una vera e l’altra falsa, devono invece risultare le proposizioni universali affermative («tutti gli uomini sono mortali») e particolari negative («qualche uomo non è mortale»), oppure quelle universali negative («tutti gli uomini non sono quadrupedi») e particolari affermative («qualche uomo è quadrupede»).
Particolare affermativa (per esempio: «Qualche uomo è mortale»)
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Contrarie orie ditt d a ntr Co Co ntr add itto rie
Non contrarie
Universale negativa (per esempio: «Nessun uomo è mortale») Subalterne
Le qualità delle asserzioni: affermazione e negazione
Particolare negativa (per esempio: «Qualche uomo non è mortale»)
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Unità 4 Aristotele
La teoria del sillogismo Una volta stabilita la natura delle asserzioni, Aristotele si impegna ad analizzare i rapporti che legano le asserzioni quando esse si collegano le une alle altre all’interno di un ragionamento. La teoria aristotelica del sillogismo (sylloghismòs significa appunto «ragionamento conclusivo»), sviluppata negli Analitici primi, costituisce senz’altro una delle concezioni più importanti del filosofo. Premesse e conclusione Il sillogismo è formato da tre proposizioni, due premesse e una conclusione, la quale deriva in modo necessario dalle premesse. Perché si dia un sillogismo è necessario che le due premesse abbiano un termine comune, il quale deve risultare soggetto in una e predicato nell’altra (almeno nel caso del sillogismo perfetto). Tale termine viene chiamato «medio», proprio in quanto collega, ossia media, i due estremi, i termini che si trovano in ciascuna delle due premesse per poi ricomparire insieme nella conclusione. Un esempio renderà facilmente comprensibile il meccanismo immaginato da Aristotele: Sillogismo di prima figura
La conclusione è una deduzione
La prima figura
La seconda figura
Sillogismo di seconda figura
Prima premessa
Medio (soggetto): Tutti gli animali
Estremo: sono mortali
Seconda premessa
Estremo: Tutti gli uomini
Medio (predicato): sono animali
Conclusione
Tutti gli uomini sono mortali
Come si vede, il termine «animale» compare nelle due premesse, e in posizione diversa, essendo soggetto della prima («tutti gli animali») e predicato della seconda («sono animali»). Esso fornisce dunque la mediazione tra i due estremi («uomini» e «mortali»), i quali vengono collegati nella conclusione. È molto importante tenere presente che la conclusione non rappresenta una novità rispetto alle due premesse, ma risulta in qualche modo implicita in esse. Il meccanismo del sillogismo si limita a esplicitarla attraverso un procedimento deduttivo. Questa è infatti la natura del sillogismo: di essere una deduzione che, date due premesse, ricava in modo necessario la conclusione che in esse è in qualche modo implicita. Aristotele si impegna poi in una complessa e articolata serie di distinzioni tra i differenti tipi di sillogismo. A seconda della posizione occupata e della funzione esercitata dal termine medio si hanno differenti tipi di sillogismo, che Aristotele chiama «figure». Se, come nell’esempio sopra riportato, il termine medio funge da soggetto della premessa maggiore (così chiamata perché più universale) e da predicato di quella minore, avremo un sillogismo di prima figura (ossia un sillogismo perfetto). Se invece il termine medio risulta predicato in entrambe le premesse, avremo un sillogismo di seconda figura. Ecco un esempio: Prima premessa
Estremo: Nessun uomo
Medio (predicato): è immortale
Seconda premessa
Estremo: Ogni dio
Medio (predicato): è immortale
Conclusione
Nessun uomo è un dio
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Parte prima L’età antica
Il termine medio, «immortale», è predicato in entrambe le premesse. Esso media, cioè lega, i due termini estremi, «uomo» e «dio», che ricorrono insieme nella conclusione. La terza figura Esiste poi una terza figura di sillogismo, ed è quella in cui il medio risulta soggetto in entrambe le premesse; per esempio il seguente sillogismo, dove il medio è il termine «greci»: Sillogismo di terza figura
Esplicitare, non scoprire
Prima premessa
Medio (soggetto): Tutti i greci
Estremo: sono bianchi
Seconda premessa
Medio (soggetto): Tutti i greci
Estremo: sono uomini
Conclusione
Qualche uomo è bianco
Al di là di queste distinzioni, la cosa veramente importante è rappresentata dalla natura consequenziale del ragionamento sillogistico. Nella conclusione non viene scoperto qualcosa di nuovo rispetto alle premesse, ma semplicemente esplicitato ciò che in esse risultava implicito (tra l’altro in un ragionamento sillogistico formalmente perfetto si può ricavare una conclusione falsa, se false sono le premesse). Questo significa che il sillogismo non rappresenta uno strumento euristico, ossia un mezzo per trovare nuove conoscenze, bensì un apparato dotato di finalità essenzialmente espositive. Attraverso il sillogismo, in particolare il sillogismo scientifico (di cui si parlerà immediatamente) noi non troviamo nuove verità, ma esplicitiamo quelle che sono contenute nelle premesse.
La dimostrazione e i principi delle scienze Secondo Aristotele il sillogismo – che è, lo ripetiamo, un ragionamento conclusivo – costituisce lo strumento espositivo principale di cui dovrebbero servirsi le scienze. Premesse vere In effetti, un tipo particolare di sillogismo è costituito dalla dimostrazione (apòe universali deixis), che si ha quando le premesse del sillogismo sono proposizioni vere, prime, universali e necessarie (oppure riconducibili in ultima analisi a premesse dotate delle caratteristiche appena menzionate). Se un ragionamento sillogistico, osserva Aristotele, parte da premesse vere e universali, allora esso potrà considerarsi una dimostrazione. La forma di conoscenza che si ha in questo caso è la scienza vera e propria (epistème).
T2
La dimostrazione Analitici secondi, 1,2,71b17-72a8
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Intendo per dimostrazione il sillogismo scientifico e chiamo scientifico il sillogismo in base al quale, per il fatto di possederlo, noi abbiamo scienza. Se dunque il sapere è quale abbiamo posto che fosse, è necessario che la scienza dimostrativa si costituisca a partire da premesse vere, prime, immediate, più note e anteriori rispetto alla conclusione e dunque cause di essa. In questo modo, infatti, anche i principi saranno propri di ciò che è dimostrato. Si potrà avere un sillogismo anche senza premesse di questo tipo, ma non sarà una dimostrazione, perché non produrrà scienza. […]
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Unità 4 Aristotele
Partire da premesse prime significa partire da principi appropriati. Dico, infatti, che primo e principio sono la stessa cosa. Principio è la premessa immediata di una dimostrazione, e immediata è quella premessa di cui non esiste altra anteriore. Premesse prime e principi
I principi propri a ciascuna scienza
I principi comuni, per analogia, a più scienze
T3
Principi propri e comuni Analitici secondi, 1,10,76a37-b10
Le premesse vere e universali sono per Aristotele principi della dimostrazione sillogistica. Esse rivestono anzi il ruolo di principi delle diverse scienze. Se le singole scienze presentano un andamento deduttivo, nel quale le conseguenze derivano dalle premesse e queste ultime sono a loro volta conclusioni di sillogismi precedenti, occorre riconoscere che al vertice di ogni scienza si collocano delle premesse prime e immediate, ossia non ulteriormente ricavabili da altre premesse. Queste premesse prime sono appunto i principi. Secondo Aristotele i principi delle scienze possono essere di diverso tipo. Esistono principi propri a ciascuna scienza, ossia principi che solo una determinata scienza possiede (tali sono, per esempio, l’assunzione di esistenza degli oggetti intorno ai quali la scienza verte, che Aristotele chiama ipotesi, oppure le definizioni di questi oggetti). Dal momento che, come si è già detto, la realtà si divide in generi, ossia ambiti, autonomi, i principi di ciascun genere non potranno essere derivati da quelli di un altro. Questo tuttavia non esclude che ci possano essere principi comuni a più scienze (per esempio, quello che afferma che «sottraendo uguali ad uguali si ottengono uguali», il quale trova applicazione sia nell’aritmetica che nella geometria). In questo caso, essi sono comuni «per analogia», nel senso che svolgono la medesima funzione in ambiti diversi. Scrive in proposito Aristotele: Alcuni dei principi dei quali si fa uso nelle scienze dimostrative sono propri di ciascuna scienza, mentre altri sono comuni, ma comuni per analogia, dal momento che di essi è utile solo quanto rientra nel genere sottoposto a quella scienza. Per esempio, principi propri sono che la linea sia tale e che il retto sia tale, mentre sono principi comuni che, se da eguali si tolgono eguali, i resti sono eguali. […] Sono principi propri quelli dei quali si assume che siano e a proposito dei quali la scienza studia le proprietà inerenti di per sé; per esempio, l’aritmetica studia le unità e la geometria i punti e le linee. Di queste, infatti, esse assumono che siano e che siano in un certo modo, mentre delle loro affezioni inerenti per sé assumono che cosa significhi ciascuna di esse; per esempio l’aritmetica che cosa significhino pari e dispari, […] mentre la geometria che cosa significhino l’intersecare o il convergere.
I principi comuni a tutte le scienze: principio di non-contraddizione e principio del terzo escluso Accanto ai principi propri a una singola scienza (per esempio la definizione di numero pari per l’aritmetica o quella di retta per la geometria) e ai principi comuni a più scienze (per esempio la citata norma che dice che «sottraendo uguali a uguali si ottengono uguali»), esistono addirittura principi comuni a tutte le scienze, ossia a ogni sapere. Si tratta del principio di non-contraddizione e del principio del terzo escluso (in realtà queste due denominazioni sono posteriori ad Aristotele). Ogni ragionamento sensato, e dunque anche il ragionamento scienti209
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Parte prima L’età antica
Il principio di non-contraddizione
Il «principio del terzo escluso»
Non deducibilità dei principi
La prova per via indiretta: la confutazione della negazione
T4
Dire qualcosa di sensato
Metafisica, 4,4,1006a 18-26
fico e la dimostrazione sillogistica (che è il metodo attraverso il quale prende forma la scienza), presuppongono questi due principi. Il primo principio, quello di non-contraddizione, afferma che «è impossibile allo stesso tempo e nel medesimo senso affermare e negare qualcosa in riferimento allo stesso soggetto», ossia è impossibile attribuire e non attribuire allo stesso soggetto l’identico predicato nello stesso tempo e nel medesimo significato (per esempio di Socrate dire che è bianco e che non è bianco nello stesso tempo e nel medesimo significato di «bianco»). Il secondo principio generale della logica, chiamato più tardi «principio del terzo escluso», sostiene che di un medesimo soggetto si deve affermare o negare il possesso di una certa determinazione, senza che ci sia una terza possibilità tra l’affermazione e la negazione (di Socrate si deve dire che è bianco o che non è bianco, senza che ci sia una terza possibilità). I principi della scienza – sia quelli propri sia quelli comuni a più scienze sia, infine, quelli comuni a tutte – non possono evidentemente venire ricavati da altri principi, perché, se così fosse, non sarebbero veramente principi (ossia premesse prime, essendo invece ricavabili da qualcosa di anteriore). La loro verità dovrà dunque venire garantita per mezzo di una procedura diversa dalla dimostrazione sillogistica. Nel caso dei principi comuni a tutte le scienze – ma sarebbe più corretto dire: comuni a ogni tipo di ragionamento sensato – Aristotele sostiene che la loro verità può essere provata per via indiretta, mostrando l’insostenibilità del loro rifiuto. Il principio di non-contraddizione, per esempio, viene difeso mostrando che anche colui che non lo accetta, ossia lo rifiuta, se ne serve in qualche modo, nel momento stesso in cui pretende di respingerlo. Infatti, sostiene Aristotele, ogni discorso sensato, e dunque anche il discorso che pretende di respingere il principio di non-contraddizione, deve presupporre questo principio, proprio in quanto intende essere un discorso sensato, ossia un discorso in cui le parole ricorrono sempre in un senso preciso. Insomma, è sufficiente che l’ipotetico avversario del principio di non-contraddizione dica qualcosa, e la sua stessa posizione viene confutata, perché egli è immediatamente costretto a usare le parole in un significato preciso (fosse anche un significato che solo lui conosce) e dunque a servirsi, sia pure implicitamente, del principio di non-contraddizione. Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica che qualcosa o è oppure non è […] ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con gli altri; se, invece, l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E il responsabile della petizione di principio non sarà colui che dimostra [il principio di non-contraddizione], ma colui che provoca la dimostrazione. Infatti, proprio allo scopo di distruggere il ragionamento […] egli si avvale di un ragionamento. Proprio in virtù dell’assoluta impossibilità di condurre un discorso senza ricorrere al principio di non-contraddizione, Aristotele definisce questo principio come l’archè bebaiotàte, ossia il principio più saldo.
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Unità 4 Aristotele L’argomentazione dialettica parte da opinioni
La dimostrazione della sua verità non viene attuata per via diretta (il che sarebbe, come si è detto, impossibile), bensì per via indiretta, ossia per confutazione della sua negazione. Una procedura di questo genere viene considerata da Aristotele, erede in questo di una tradizione che affonda le sue radici già nell’eleatismo (vedi gli argomenti di Zenone, Unità 1, p. 48 s.), di tipo dialettico. L’argomentazione dialettica, infatti, non parte da premesse vere e prime (come la dimostrazione sillogistica), bensì da opinioni, e per la precisione da opinioni diffuse o particolarmente autorevoli (che Aristotele chiama èndoxa). Esse devono risultare tali da poter essere accettate anche da colui con il quale si sta discutendo e che eventualmente si vuole convincere o confutare. Nel caso della dimostrazione dialettica del principio di non-contraddizione, il punto di partenza consiste addirittura nel concedere all’avversario di questo principio l’opinione che egli sostiene, ossia che il principio possa venire respinto. Nell’atto stesso in cui lo respinge, dicendo qualcosa, egli se ne serve, e dunque finisce con il confutare la sua stessa posizione iniziale.
I principi propri e comuni a più scienze: l’induzione Quale prova per gli altri principi scientifici?
I principi e l’atto dell’intelletto
Sensazione, ricordo, esperienza
Intelletto e universalizzazione dell’esperienza
Induzione e intelletto
Dunque i principi comuni a tutte le scienze vengono provati dialetticamente, ossia tramite la confutazione della loro negazione. E i principi propri a ciascuna scienza o comuni a più scienze? Ovviamente neppure essi possono venire dimostrati attraverso il sillogismo, perché, come si è detto, il sillogismo scientifico, cioè la dimostrazione, deve partire da premesse vere e prime, e in quanto prime esse non possono venire ricavate da altre premesse. Aristotele dimostra di essere perfettamente consapevole che i sistemi assiomatico-deduttivi non sono in grado di auto-fondarsi, dal momento che richiedono l’ammissione di principi esterni al sistema stesso (vedi Unità 5, p. 311 s.). Del resto, osserva Aristotele, se anche i principi primi fossero ricavabili da premesse ad essi antecedenti, si rischierebbe di proseguire all’infinito nella ricerca di un inizio. Se dunque i principi delle varie scienze non possono venire dimostrati, come si arriva a una conoscenza intorno ad essi? Ecco la risposta di Aristotele: egli sostiene che i principi vengono conosciuti per mezzo dell’intelletto (nous, vedi avanti, p. 227), ossia di un atto, in qualche modo infallibile, che giunge al termine di un complesso processo iniziatosi dalle sensazioni. Aristotele immagina un processo di questo tipo: la sensazione (àisthesis) si riferisce a realtà particolari (per esempio alla percezione della figura di Socrate); la ripetizione di molte sensazioni produce il ricordo (che gli uomini hanno in comune con altri animali), mentre la successione di ricordi inerenti a uno stesso oggetto genera l’esperienza (empeirìa), che è invece propria dei soli esseri umani. L’esperienza di un certo oggetto induce a cogliere in esso determinate caratteristiche universali: per esempio, l’esperienza, derivata dalla sensazione e dal ricordo, di molti uomini, induce a cogliere in essi la caratteristica universale che sono animali razionali o bipedi; l’intelletto consiste proprio nella capacità di cogliere l’aspetto universalizzabile di molte osservazioni. L’asserzione «l’uomo è un animale razionale», colta attraverso l’atto di universalizzazione dell’esperienza, cioè appunto attraverso l’intelletto, può valere come principio della dimostrazione scientifica. Aristotele chiama induzione (epagoghè) questo processo di universalizzazione che è in grado di cogliere, a partire da molti casi particolari, una caratteristica 211
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Parte prima L’età antica
universale. Ai suoi occhi l’intelletto, in quanto facoltà capace di determinare i principi della scienza, risulta in una certa misura superiore alla scienza stessa. Scrive infatti negli Analitici secondi: Poiché tra le disposizioni concernenti il pensiero, con le quali cogliamo la verità, alcune sono sempre vere, altre invece ammettono il falso, per esempio l’opinione e il ragionamento, mentre la scienza e l’intelletto sono sempre veri e poiché nessun altro genere di conoscenza è più esatto della scienza, eccetto l’intelletto, e i principi della dimostrazione sono più conoscibili e ogni scienza richiede il ragionamento, non sarebbe possibile una scienza dei principi. Ma poiché non è possibile che ci sia nulla di più vero della scienza se non l’intelletto, sarà l’intelletto a concernere i principi; da ciò risulta che principio della dimostrazione non è un’altra dimostrazione e che pertanto neppure principio della scienza è un’altra scienza. […] L’intelletto sarà principio della scienza. E questo sarà il principio del principio.
T5
L’intelletto principio della scienza Analitici secondi, 2,19,100b5-17
I principi delle scienze
Principi
Esempi
Metodo di conoscenza
Comuni a tutte le scienze
Principio di non-contraddizione e principio del terzo escluso
Argomentazione dialettica (principi provati per via indiretta)
Comuni a più scienze
Il principio per cui sottraendo uguali a uguali si ottengono uguali
Propri di ciascuna scienza
La definizione dell’uomo come bipede e razionale
Induzione (principi non dedotti)
Le scienze: struttura, pratica, esposizione Andamento dimostrativo e indimostrabilità dei principi
La scienza concreta non parte dai principi
Distinzione metodologica tra scoperta ed esposizione
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In questo modo Aristotele presenta un panorama epistemologico insieme complesso e coerente. Le scienze assumono per lui un andamento dimostrativo e si servono di sillogismi; le conclusioni dei sillogismi non fanno che esplicitare il contenuto informativo implicito nelle premesse. Ogni scienza deve però possedere premesse prime, ossia principi non dimostrabili sillogisticamente. Questi principi vengono conosciuti attraverso una disposizione esterna alla scienza, che Aristotele chiama intelletto, e che consiste in una sorta di universalizzazione induttiva dei dati empirici. Al termine di questo lungo discorso sulla struttura della scienza aristotelica bisogna però constatare che nella maggior parte delle sue opere scientifiche Aristotele non procede secondo i dettami epistemologici presentati negli scritti di logica. La scienza concreta praticata da Aristotele molto raramente assume la forma deduttiva propria della dimostrazione sillogistica (che parte da principi generali). In realtà questa discrepanza si spiega facilmente se si tiene presente che il metodo finora descritto riguarda un momento particolare della scienza, vale a dire il momento espositivo, ossia la presentazione dei risultati. Questi vengono effettivamente presentati nella forma di una catena deduttiva di proposizioni, connesse in modo consequenziale le une alle altre. Ma quando si tratta di scoprire nuove verità, ossia nell’ambito del momento euristico, Aristotele procede in ma-
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Unità 4 Aristotele
➥ Sommario, p. 255
5 La premessa nei Topici
La predicazione
Come definizione Come genere Come proprietà
Come accidente
niera sostanzialmente diversa. Egli parte dai fenomeni, sia quelli percettivi sia quelli linguistici, ossia le opinioni relative ai fenomeni, gli èndoxa; ed esamina attraverso argomentazioni di natura dialettica questi èndoxa, cercando di saggiarne la consistenza (per esempio valutando l’accettabilità delle conclusioni che derivano da certe assunzioni). In questo modo egli stabilisce, sia pure implicitamente, una fondamentale distinzione nell’ambito della scienza: la distinzione tra il momento euristico e il momento espositivo, cioè tra la scoperta e la presentazione dei risultati.
Le categorie e il primato della sostanza Alle opere di logica appartiene anche lo scritto Categorie, dal quale si possono ricavare importanti spunti circa la concezione aristotelica della realtà. Per comprendere la natura delle concezioni sviluppate in quest’opera, occorre però avere in chiaro il senso di alcune riflessioni che Aristotele presenta in un altro scritto di logica, i Topici. Aristotele si concentra sulla natura del rapporto di predicazione, quello nel quale di qualcosa (soggetto) si predica qualcosa (predicato). Al termine di un esame approfondito di tutti i casi possibili di predicazione, egli arriva a sostenere che un predicato può appartenere a un soggetto in uno di questi quattro modi: 1) come sua definizione, quando, per esempio, si dice che «l’uomo è un animale razionale»; 2) come suo genere, nel caso in cui si dice dell’uomo che è un animale (essendo animale genere della specie uomo); 3) come sua proprietà, ossia quando il predicato non esprime l’essenza, cioè la definizione, del soggetto, ma una proprietà, che, pur non essendo essenziale, appartiene solo a quel soggetto (se diciamo dell’uomo che è grammatico, ossia capace di scrivere e leggere, indichiamo una proprietà che appartiene solo all’uomo ma non a tutti gli uomini, anche se non ne costituisce l’essenza, che invece è animale razionale e appartiene a tutti gli uomini); 4) infine come suo accidente, cioè come una proprietà che può appartenere al soggetto, ma può anche non appartenergli (per esempio se diciamo dell’uomo che è bianco, ne indichiamo una proprietà che può appartenergli, ma anche non appartenergli, visto che l’uomo può essere anche nero, o diventare nero una volta che sia abbronzato).
Le dieci categorie I predicabili e le categorie
L’analisi dei tipi di predicazione non si ferma però qui. Aristotele arriva a sostenere – al termine di un esame accuratissimo dei modi in cui un predicato può relazionarsi a un soggetto nelle forme del linguaggio comune, cioè nel modo in cui noi parliamo spontaneamente delle cose –, che i quattro tipi di predicazione sopra menzionati (definizione, genere, proprietà e accidente) devono ricadere in uno di dieci casi generalissimi, ovvero in una delle dieci categorie aristoteliche (kategorìa significa appunto «predicazione»), ossia dei dieci modi in cui si può dire qualcosa di qualcos’altro, che sono: sostanza, quantità, qualità, relazione, 213
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Parte prima L’età antica
luogo, tempo, giacere, avere, agire, patire. Secondo Aristotele, dunque, i quattro predicabili ricadono per forza in una delle dieci categorie.
T6
Le dieci categorie
Categorie, 4,1b25-2a4
Delle cose che vengono dette [in se stesse] ciascuna significa o sostanza, o quantità, o qualità, o relazione, o dove, o quando, o giacere, o avere, o agire, o patire. In breve: sostanza è, ad esempio, «uomo», «cavallo»; quantità, ad esempio, «di due metri» […]; qualità, ad esempio, «bianco», «grammatico»; relazione, ad esempio, «doppio», «mezzo», «maggiore»; dove, ad esempio, «nel Liceo», «in piazza»; quando, ad esempio, «ieri» […]; giacere, ad esempio, «è sdraiato», «è seduto»; avere, ad esempio, «ha i calzari», «è armato»; agire, ad esempio, «tagliare», «bruciare»; patire, ad esempio, «essere tagliato», «essere bruciato».
Le dieci categorie Sostanza
La sostanza, la prima delle categorie, separata dalle altre
Quantità
Qualità
Relazione
Luogo
Tempo
Giacere
Avere
Agire
Patire
La natura delle categorie e il tipo di relazione che le lega viene investigato con scrupolo nello scritto dedicato a questo tema. Aristotele osserva che le dieci categorie non sono sullo stesso piano, dal momento che una di esse possiede una significativa priorità nei confronti delle altre. Questa categoria gode infatti di un’assoluta indipendenza, perché può esistere anche senza le altre, mentre queste non possono esserci senza di essa; ciò significa che una delle categorie risulta separata, ossia indipendente, dalle altre. Inoltre, aggiunge Aristotele, questa prima categoria non può venire detta delle altre, ossia non può venire predicata delle altre, mentre queste ultime sono dette, cioè predicate, di questa. In altre parole, la prima categoria è soggetto e non predicato (vedremo tra breve il caso in cui anche essa può risultare predicato), mentre le altre nove sono predicati di essa. A questo punto possiamo svelare il nome di questa categoria principale, che può essere senza le altre, mentre le altre non possono essere senza di lei (ciò significa che la presuppongono sempre). Si tratta della sostanza (ousìa). Scrive Aristotele: «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né si trova in qualche soggetto: ad esempio un certo uomo o un certo cavallo» (Categorie, 5,2a11-14).
Sostanze prime e seconde L’enfasi che Aristotele pone sulla natura primaria della sostanza, ossia sul fatto che essa è la prima delle categorie, è notevole. La sostanza prima: Ancora più importanti sono gli esempi di sostanza menzionati nel passo sopra riun individuo portato: «un certo uomo», «un certo cavallo». La sostanza è per Aristotele prideterminato mariamente un individuo, ossia una realtà singola (e non universale), un «questo» determinato. La struttura grammaticale del linguaggio (soggetto individuale + predicati) rivela così la struttura stessa della realtà oggettiva. Senza qualcosa di individuale e determinato verrebbe meno il termine di rife214
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rimento primario intorno a cui parlare e dire qualcosa. In effetti, senza il mio amico Alberto (sostanza), io non posso predicare che è bianco (qualità), che è alto un metro e ottanta (quantità), che è fratello di Paola (relazione), che si trova al bar dietro l’angolo (luogo), alle 12.30 del 28 gennaio (tempo), che sta giocando a biliardo (agire) e che per questo prenderà un’ammonizione dal professore (patire). Le sostanze seconde: Aristotele osserva però che non esistono solo le sostanze prime, ossia gli individui, specie e genere ma anche le sostanze seconde, le quali possono venire predicate delle sostanze prime (e solo di quelle). Per esempio, se del mio amico Alberto dico che è un uomo e dell’uomo che è un animale, predico di un soggetto (sostanza prima) la sua specie (sostanza seconda) e della specie il suo genere (ancora sostanza seconda, ma più generale). Il punto è che, per Aristotele, la priorità spetta alla sostanza prima, ossia all’individuo, nei confronti della sostanza seconda (specie e genere).
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Sostanze seconde
Categorie, 5,2a14-2b14
Sono invece dette sostanze seconde le specie nelle quali esistono quelle che vengono dette sostanze in senso primario; queste e poi i generi di queste specie. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, il genere di questa specie è animale. Pertanto sono queste che sono dette sostanze seconde, ad esempio uomo e animale. […] Se dunque non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Infatti tutte le altre cose o sono dette di queste o sono in esse; cosicché, se non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Delle sostanze seconde, la specie è maggiormente sostanza del genere, giacché è più vicina alla sostanza prima. Se infatti si esplicasse che cos’è la sostanza prima, se ne darà una nozione più precisa e più propria esplicando la specie piuttosto che il genere. Ad esempio, si darebbe una conoscenza più precisa di un certo uomo esplicando che è uomo piuttosto che animale – la prima cosa infatti è maggiormente propria di un certo uomo, la seconda è più comune – ed esplicando un certo albero si darà una nozione più precisa esplicando che è albero piuttosto che vegetale.
Questo brano mette in luce un aspetto molto importante della filosofia aristotelica. Nel momento in cui afferma che la specie (per esempio uomo) è più sostanza del genere (per esempio animale) in quanto più vicina alla sostanza prima (per esempio Socrate), Aristotele indica in modo chiaro l’indirizzo generale della sua impostazione, che consiste nel costante richiamo al primato dell’individuo, ossia della entità determinata e concreta, nei confronti delle entità universali. In questo motivo risiede indubbiamente uno degli elementi che lo allontanano dal suo maestro Platone, il quale ha manifestato la sua preferenza per l’universale nei confronti del particolare, quindi, in termini aristotelici, per i predicati nei con➥ Percorso tematico, p. 275 fronti dei loro soggetti. La sostanza, ossia il livello dotato di maggiore consistenza ontologica (ciò che è essere in senso primario e principale), è dunque rappresentata per Aristotele dall’individuo concreto (Socrate, questo cavallo determinato, il tavolo sul quale si trova il libro che sto leggendo). Il primo criterio che fa di una sostanza una sostanza è perciò la sua individualità, l’essere un individuo. La sostanza: soggetto Abbiamo anche notato che la sostanza si caratterizza per un elemento linguistio sostrato co, consistente nel fatto di essere soggetto e non predicato (con l’eccezione delIl primato dell’individuo, entità concreta e determinata
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le sostanze seconde che sono predicato di quelle prime: per esempio «uomo» di «Socrate»). Aristotele esprime questa idea affermando che la sostanza è soggetto o sostrato (hypokèimenon, che significa appunto «ciò che sta sotto», «ciò che soggiace») di predicazione:
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Sostrato, specie e generi Categorie, 5,2b15-22
Il linguaggio, via di accesso alla comprensione della struttura della realtà
➥ Sommario, p. 255
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Inoltre le sostanze prime, per il fatto di essere sostrato a tutte le altre cose e che tutte le altre si predicano di esse, per questo sono dette sostanze in senso principale. Ma come le sostanze prime si rapportano alle altre cose, così anche la specie si rapporta al genere: infatti la specie è sostrato al genere: poiché i generi sono predicati delle specie, mentre le specie non sono a loro volta predicati dei generi. Di conseguenza anche da queste considerazioni la specie risulta essere sostanza maggiormente del genere. Individuo, soggetto o sostrato di predicazione, indipendente dalle altre cose: la sostanza aristotelica è tutte queste cose. Vedremo più avanti come la teoria della sostanza subirà delle modifiche nel corso della riflessione aristotelica; si tratta però di modifiche che non metteranno in discussione questi tre parametri. In conclusione di questa esposizione della concezione delle categorie è necessario fare una considerazione di ordine generale. Avrai notato come Aristotele costruisca la sua dottrina delle categorie, e in particolare la sua concezione del primato della sostanza, a partire dall’analisi del linguaggio. La sostanza, egli dice, è soggetto e non predicato; la sostanza è ciò di cui si dicono le altre cose, ma essa non viene detta di queste. Per Aristotele l’analisi della struttura del linguaggio, ossia essenzialmente l’analisi della struttura soggetto-predicato, costituisce un’eccellente via di accesso alla comprensione della struttura della realtà. Questo dipende da una sua importante convinzione, quella secondo la quale il linguaggio rappresenta una sorta di specchio del mondo, nel senso che nella struttura del linguaggio si rispecchia in qualche modo la struttura ontologica della realtà. Per questo Aristotele assegna spesso allo studio dei fenomeni linguistici relativi a un certo ambito il ruolo di punto di partenza per la comprensione di quel determinato ambito della realtà.
Il divenire del mondo: principi e cause
A questo punto siamo nelle condizioni di dare effettivamente avvio all’esposizione delle dottrine aristoteliche relative al mondo. Nell’ordinamento degli scritti dovuto ad Andronico, dopo le opere di logica (che come ricorderai non riguardano un aspetto determinato della realtà, ma costituiscono uno strumento per lo studio di tutti i suoi ambiti) trovano posto i trattati di fisica, ossia gli scritti dedicati alla natura (phy`sis, appunto). La Fisica: gli aspetti La prima e più importante di queste opere è la Fisica, nella quale Aristotele pregenerali della natura senta gli aspetti più generali della sua concezione della natura (per riservare ad altri scritti lo studio dei singoli campi che la costituiscono). Prima di tutto occorre avere chiaro che cosa intenda Aristotele per «natura», o meglio a quali entità egli restringa l’ambito di ricerca della fisica. Ecco, nel brano che segue, come la questione viene impostata. 216
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Tra le cose che sono alcune sono per natura, altre per altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti, le piante e, tra i corpi, quelli semplici, cioè terra, fuoco, aria e acqua. Infatti diciamo che sono per natura queste cose e quelle a queste affini. Ma tutte queste cose manifestamente sono differenti rispetto a quelle che non sono costituite per natura. Ciascuna di esse infatti ha in se stessa il principio di mutamento e di stasi, alcune rispetto al luogo, altre rispetto alla crescita e alla decrescita, altre rispetto all’alterazione; un letto e un mantello invece, e qualunque altro tipo di cosa a queste affine, […] non hanno nessun impulso connaturato di cambiamento. […] Ciò sembra dire che la natura è una sorta di principio e causa del mutare e dello stare in quiete. […] Del pari nessuna delle altre cose che sono prodotte ha in se stessa il principio della propria produzione, bensì tale principio risiede in cose altre ed esterne.
Enti per natura ed enti per altre cause: il principio del mutamento
Per Aristotele gli enti per natura sono quelle realtà che hanno in se stesse il principio del mutamento (kìnesis, «movimento» / «mutamento»), o quello della stasi, e si distinguono dalle cose che non sono per natura, ma per altre cause, come per esempio in virtù dell’arte. Un prodotto dell’arte, ossia della tecnica (tèchne), è, per esempio, un letto; esso non ha in se stesso il principio del proprio essere, ossia del fatto di diventare un letto; infatti a fabbricarlo è il falegname. Viceversa una pianta rappresenta un ente «per natura» perché possiede in se stessa il principio del proprio divenire (da ogni seme di quercia nasce sempre una quercia). È molto importante tenere presente che per Aristotele il mutamento non è solamente il moto di traslazione locale, ossia il movimento spaziale; anche la crescita e la diminuzione sono una forma di mutamento, così come lo è l’alterazione (per esempio il fatto che i capelli da neri divengano bianchi). La fisica è la disciplina che si propone di studiare le realtà soggette a mutamento nel senso che abbiamo appena visto, ossia quelle entità che hanno in se stesse il principio e la causa del mutamento. Per Aristotele la conoscenza della natura, così come la conoscenza di qualsiasi altra cosa, coincide con la conoscenza delle cause e dei principi dell’ambito in questione. La fisica si propone dunque di stabilire i principi del movimento, essendo quest’ultimo il tratto che definisce le cose naturali.
Le cose per natura
Fisica, 2,1,192b8-29
Oggetto della fisica è la realtà soggetta al mutamento
Cause e principi
I principi del movimento Prima di indagare il numero e la qualità di questi principi, Aristotele deve sgombrare il campo dagli eccessi dell’eleatismo, il quale aveva negato che il divenire, ossia il movimento, facesse parte della natura (vedi Unità 1, p. 47 ss.). In realtà Aristotele non si imbarca in una vera e propria confutazione dell’immobilismo parmenideo; egli si limita a osservare che il movimento è parte integrante della phy`sis, come attestano ampiamente i sensi (l’accettazione dell’evidenza fenomenica costituisce uno dei punti in cui Aristotele si distingue da Platone). Indagine sui principi Stabilito che il mutamento (sia nel senso del movimento locale, sia in quello più del divenire: i contrari generale del divenire) costituisce l’elemento caratterizzante della natura, Aristotele ha il problema di reperire i principi (archài) di questo divenire. A tal fine, egli inizia con il prendere in considerazione le opinioni dei suoi predecessori, secondo un metodo di indagine per lui tipico. Egli constata che, per molti di coloro che pri-
In difesa del movimento
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I contrari secondo Aristotele: privazione e forma
Il sostrato o soggetto: ciò che permane nel processo del divenire
Il sostrato o sostanza
La materia: l’elemento soggiacente
I principi del divenire
ma di lui hanno indagato la natura, i principi del divenire sono i contrari (caldo e freddo, amicizia e contesa, condensazione e rarefazione). Dal momento che le opinioni – soprattutto se dotate di un elevato grado di condivisione – difficilmente risultano del tutto errate, anche a proposito dei principi del divenire la tesi che li individua nei contrari ha buone possibilità di essere, almeno in parte, corretta. In effetti, afferma Aristotele, i contrari sono principi del divenire. Non si tratta, tuttavia, degli elementi stabiliti dai suoi predecessori, ma di due contrari dotati della massima generalità. Dal momento che ogni processo di cambiamento presenta una fase iniziale, in cui l’entità che diviene è priva del carattere che acquisirà alla fine del processo, e una fase finale, in cui questo carattere risulta finalmente presente, Aristotele arriva a sostenere che la privazione (stèresis) e la forma (èidos) rappresentano i contrari al cui interno avviene ogni processo naturale. La forma è esattamente quella condizione che l’ente soggetto a divenire assume alla fine del processo, mentre la privazione costituisce lo stadio in cui questa forma è ancora assente. Tuttavia, sostenere che i contrari, ossia forma e privazione, sono principi del divenire non è ancora sufficiente. Aristotele osserva infatti che se non si ammette tra i principi anche ciò che diviene, il processo del divenire perderebbe di unità. Non basta dunque avere individuato la forma e la privazione; occorre postulare un terzo principio, ossia quel qualcosa che passa da una condizione di mancanza di forma, cioè di privazione, a una condizione di pieno possesso della forma stessa. Per Aristotele questo terzo principio è il sostrato o soggetto (hypokèimenon, vedi «Parole chiave», p. 256), ossia quel termine che permane nel passaggio dalla privazione alla forma. Se, per fare il solito esempio, dobbiamo spiegare il fatto che il nostro amico Alberto da bianco diventa nero (perché ha trascorso l’estate al mare), ossia dobbiamo individuare i principi di un determinato processo naturale, potremo dire che Alberto è il soggetto-sostrato del mutamento, che non-nero è la privazione e che nero è la forma, ossia la condizione finale assunta dal sostrato al termine del processo. Aristotele chiama il terzo principio anche sostanza (ousìa, vedi «Parole chiave», p. 256), riallacciandosi in questo modo alla teoria sviluppata nello scritto sulle Categorie. In effetti, il sostrato è proprio ciò senza di cui non si potrebbe parlare di mutamento, perché non esisterebbe nulla che muta. In questo senso si comprende la sua vicinanza con la nozione di sostanza, che è la categoria senza la quale neppure le altre potrebbero esistere. Per spiegare la natura del sostrato, che in un certo senso è anche la materia (hy`le) del divenire, Aristotele ricorre all’esempio della statua di bronzo: la figura che questa statua assume, per esempio quella del guerriero Achille, è appunto la forma; lo stato iniziale, ossia quello del bronzo non ancora lavorato, rappresenta la privazione, mentre il bronzo stesso è la materia, ossia ciò che permane dall’inizio alla fine del divenire (l’elemento soggiacente). Fasi del divenire
Principi contrari
Fase iniziale
Privazione (stèresis): stadio in cui la forma è ancora assente
Fase finale
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Forma (èidos): condizione che l’ente assume alla fine del processo
Elemento che permane (terzo principio): Sostrato (hypokèimenon) o sostanza (ousìa)
La natura del sostrato è in un certo senso anche la materia (hy`le) del divenire
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Unità 4 Aristotele Principi identici per analogia, ossia in senso funzionale
Un esempio
La ricerca della funzione, ossia il ruolo delle entità
È molto importante avere ben chiaro che i principi del divenire non sono vere e proprie entità, identiche in tutti i processi. Non si deve infatti credere che ci siano un’unica materia, un’unica privazione e un’unica forma. Questi tre principi sono gli stessi in tutti i processi solo per analogia, nel senso che l’elemento che funge da privazione in un certo processo non è lo stesso di quello che svolge la stessa funzione in un altro; essi, dice Aristotele, sono gli stessi non numericamente, ma per analogia, ossia funzionalmente. Tutto ciò risulterà chiaro con un esempio. Se devo spiegare il processo che riguarda il diventare grammatico di Socrate, ossia il fatto che Socrate impara a leggere e a scrivere, dirò che la forma è rappresentata dall’essere grammatico, la privazione dal non essere grammatico, mentre il soggetto-sostrato è ovviamente costituito da Socrate stesso. Se poi devo spiegare la formazione di una statua di bronzo raffigurante Zeus, dirò che la statua con la forma del dio è la forma, la massa di bronzo priva di forma è la privazione, mentre il bronzo stesso non può che identificarsi con la materia-sostrato. Come si vede, i principi dei due processi non sono i medesimi in senso assoluto, ma lo sono in senso funzionale, dal momento che, per esempio, il bronzo nel secondo processo svolge la medesima funzione di materia svolta da Socrate nel primo (e questo vale anche per gli altri due principi). Questo aspetto è molto importante, perché mette bene in evidenza la tendenza di Aristotele a interpretare la realtà attraverso un’analisi che potremmo chiamare trasversale. Non è tanto importante stabilire quali entità svolgano un certo ruolo, bensì il ruolo stesso, ossia la funzione.
Potenza e atto Quanto appena detto viene poi confermato dal fatto che Aristotele utilizza un’altra coppia di nozioni per comprendere i processi del divenire. Egli osserva, prima di tutto, che non ogni materia è destinata ad assumere qualsiasi tipo di forma finale: per esempio, un insieme di mattoni può diventare una casa, ma non una nave. Ciò significa, secondo Aristotele, che il divenire è in verità retto da una sorta di tendenza che trasforma una certa potenzialità in realtà; in altre parole, a diventare una casa potrà essere solo quella materia che è potenzialmente in grado di assumere quella certa forma. Potenza e atto Ecco dunque introdotte due ulteriori nozioni: quella di potenza (dy`namis) e quella di atto (enèrgheia o entelècheia). Una certa cosa assume una certa forma, ossia diventa qualcosa di determinato (per esempio una casa), se la materia da cui il processo è partito risulta potenzialmente in grado di diventare ciò che è diventata (nel nostro caso i mattoni sono in potenza ciò che diventeranno in atto, ossia la forma che assumeranno: nel nostro esempio una casa). Le tendenze della materia
Dalla potenza all’atto
Potenza (dy`namis)
Atto (enèrgheia o entelècheia)
Una certa materia è potenzialmente in grado di assumere una data forma
La materia assume la forma finale che possedeva in potenza
Esempio: i mattoni sono potenzialmente in grado di diventare una casa
Esempio: i mattoni formano effettivamente una casa
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Parte prima L’età antica Il divenire naturale tende a uno scopo (finalismo)
L’introduzione delle nozioni di potenza e atto è molto importante perché intorno ad esse Aristotele costruisce la sua concezione del divenire naturale, che ai suoi occhi è esattamente il passaggio dalla potenza all’atto, ossia la realizzazione di una potenzialità contenuta già nella materia. Vedremo, infatti, come i processi fisici che accadono nel mondo sono per Aristotele l’espressione di un finalismo o teleologismo (dal greco tèlos che significa «fine», «scopo») che caratterizza la natura, il quale si realizza nel passaggio dalla potenza all’atto. Ma prima di tornare su questo punto, è giunto il momento di esaminare da vicino la sua concezione delle quattro cause.
Le cause
La natura, come l’arte, muove in vista di un fine
L’arte imita la natura: stessa struttura causale Le quattro cause
Materiale Formale Motrice
Finale
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Le quattro cause Fisica, 2,3,194b23-35
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Il divenire si spiega dunque attraverso il ricorso a tre principi: la materia, la privazione e la forma. Secondo Aristotele, una comprensione ancora più approfondita della dinamica che regola il divenire, ossia la nascita e la trasformazione delle cose, può venire raggiunta per mezzo della teoria delle quattro cause, la quale non è che uno sviluppo della concezione dei principi. In effetti, l’introduzione della teoria delle cause consente ad Aristotele di mettere in luce la natura finalisticamente orientata dei processi fisici che accadono nel mondo. Il punto decisivo del ragionamento di Aristotele consiste nel richiamare il fatto che anche la natura, esattamente come l’arte, muove in vista di un fine (solo che nell’arte questo finalismo è immediatamente visibile, mentre nella natura appare in qualche modo celato). Il presupposto da cui prende avvio l’argomentazione di Aristotele è che l’arte imita la natura, ossia presenta una struttura causale simile a quest’ultima. Ma se è così, per comprendere come si comporta la natura, può essere utile indagare la struttura causale della produzione artistica, ossia della tèchne. Prendiamo dunque un qualsiasi manufatto. Per esempio, il tavolo sul quale è appoggiato il libro che sto leggendo. Secondo Aristotele il suo essere tavolo è prodotto in virtù dell’intervento di quattro cause: 1) la prima è la materia di cui esso è fatto, poniamo il legno: questa è la causa materiale; 2) abbiamo poi la forma che il tavolo assume, cioè la sua struttura formale (il modo in cui la materia è disposta): si tratta della causa formale; 3) il terzo componente che interviene è rappresentato da ciò che ha prodotto il tavolo, ossia da colui che ha impresso il movimento e ha fatto sì che quella data materia assumesse quella determinata forma (nel caso del tavolo sarà il falegname): si tratta della causa motrice o efficiente; 4) infine, gioca un ruolo fondamentale il fine per cui il tavolo è stato costruito (per esempio sorreggere libri e computer): e questa è la causa finale. Ecco come Aristotele presenta questa sua teoria: Ora, in un modo è detto causa ciò da cui, come costituente interno, una cosa viene ad essere: per esempio, il bronzo è causa della statua, l’argento del calice. […] In un altro modo sono detti causa la forma e il modello, cioè la definizione in cui consiste l’essere: per esempio il rapporto 2/1 e in generale il numero sono causa dell’ottava. […] Altrimenti ancora, è detto causa ciò da cui è dato il principio primo del cambia-
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mento: per esempio è causa chi ha preso la decisione, il padre del figlio, in generale ciò che produce di ciò che è prodotto e ciò che fa cambiare di ciò che cambia. Altrimenti ancora, è detto causa il fine, cioè «ciò in vista di cui»: per esempio, la salute del passeggiare. Infatti, perché uno passeggia? Rispondiamo: per essere sano, e così dicendo riteniamo di avere reso la causa. Ampiezza e completezza della nozione di causa
Le quattro cause
Da quanto appena detto, e soprattutto dalle parole di Aristotele sopra riportate, risulta chiaro che il grande filosofo aveva un’idea di causa sostanzialmente diversa da quella con la quale noi siamo abituati a fare i conti. La nostra idea di causa è limitata a ciò che produce qualche cosa come suo effetto; viceversa la nozione di causa aristotelica è molto più ampia e comprende tutte le componenti (materiali, formali, efficienti e finali) che fanno sì che una certa cosa esista (nel modo in cui esiste) o che un certo processo si sia determinato. Causa
Definizione
Esempio del tavolo
Materiale
La materia di cui l’ente è costituito
Il legno
Formale
La forma assunta dall’ente, ovvero il modo in cui la materia è disposta
La forma specifica (tonda, quadrata ecc.)
Motrice o efficiente
Ciò che ha determinato il mutamento
Il falegname che l’ha prodotto
Finale
Il fine, lo scopo per il quale è avvenuta la produzione
Il poter sorreggere qualcosa (un libro, un computer ecc.)
Arte e natura È altresì evidente che la dottrina delle cause rappresenta non un’alternativa alla concezione dei principi, ma uno sviluppo e un approfondimento; basterà notare che le due teorie sono strettamente connesse: il principio della forma racchiude in sé la causa formale e quella finale; il principio della materia-sostrato risulta sostanzialmente identico alla causa materiale; l’unica novità è costituita dalla causa motrice, la cui introduzione è dovuta, come detto, all’analogia con la produzione tecnica. Anche le cause, esattamente come i principi, non sono le stesse per tutte le cose, ma sono identiche solo per analogia (nel senso sopra spiegato per cui ciascuna delle quattro cause di una certa cosa, per esempio un letto, risulta funzionalmente analoga alla corrispondente causa di un’altra cosa, per esempio una casa: il legno corrisponde ai mattoni, il falegname al muratore, il sorreggere all’abitare). Enti naturali Secondo Aristotele il ricorso all’esempio dell’arte è funzionale a chiarire la nae manufatti tura delle cause che agiscono nell’ambito della natura (appunto perché l’arte non fa che imitare la natura). Gli enti naturali presentano dunque le medesime cause individuate nel caso dei manufatti. Un esempio Facciamo un esempio e prendiamo il nostro solito amico Alberto. Si tratta di un essere vivente, e dunque anche di un’entità fisica, ossia naturale (esistente per natura). Anche Alberto avrà una causa materiale: si tratta della materia di cui è fatto il suo corpo, cioè le ossa, il sangue, la pelle ecc.; la sua causa formale sarà
Stretta connessione tra principi e cause
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Parte prima L’età antica
La coincidenza di tre cause
Nella natura, come nell’arte, c’è un fine
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Il fine nella natura
Fisica, 2,8,199a15-32
➥ Tesi a confronto, p. 268
➥ Sommario, p. 255
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il modo in cui quella data materia è organizzata, ossia appunto il principio di organizzazione della materia; trattandosi di un essere vivente, questo principio di organizzazione non può che essere, come vedremo (p. 229 ss.), l’anima; la causa efficiente o motrice di Alberto sarà invece ciò che ha dato avvio alla sua generazione, il principio primo del movimento; nel suo caso i genitori, e in particolare il padre, il quale, secondo Aristotele, è il responsabile della trasmissione della forma specifica di Alberto (cioè del suo essere un uomo), mentre alla madre si deve la responsabilità della materia (da lei trasmessa per mezzo del sangue mestruale); infine la causa finale di Alberto non può che essere la piena realizzazione della sua forma, ossia dell’anima; questa piena realizzazione sarà, come vedremo più avanti, la felicità, che è il fine dell’uomo (oltre che, come per tutti gli esseri viventi, la riproduzione della specie). Aristotele non manca di osservare che nel caso degli esseri viventi tre cause su quattro finiscono con il coincidere. In effetti, la forma e il fine sono già immediatamente la stessa cosa, trattandosi dell’anima e della sua piena realizzazione (ossia del pieno sviluppo delle sue potenzialità); ma anche la causa motrice appartiene al medesimo ambito, perché, se è vero che il padre non è identico al figlio, è però vero che la forma, pur non essendo identica dal punto di vista numerico (l’anima del padre di Alberto non è la stessa di Alberto), è identica dal punto di vista della specie (essendo l’anima di un uomo). Dunque, dal punto di vista specifico, anche la causa motrice è identica a quella formale e finale. L’analogia tra natura e arte serve ad Aristotele soprattutto per dimostrare che anche nella natura è attivo un orientamento finalizzato, cioè teleologico. Nell’arte questo orientamento è chiaramente percepibile. Ma il fatto che nella natura sia meno immediatamente evidente, non significa che vi sia assente. Quindi l’agire tecnico è in vista di ciò che è naturale. In generale, talora la tecnica completa le cose che la natura non può portare a compimento, talora imita ciò che la natura compie. Quindi, se ciò che è secondo una tecnica è in vista di qualcosa, è chiaro che lo è anche ciò che è secondo natura. […] Ciò è manifesto soprattutto negli animali diversi dall’uomo, i quali fanno cose non per tecnica, né indagando, né deliberando. Di qui viene che alcuni sollevino la questione, se i ragni, le formiche e gli animali a questi affini operino con un’intelligenza o con qualcos’altro. Spingendosi un poco più avanti in questa direzione, anche nelle piante si vedono prodursi cose convenienti al fine (le foglie, per esempio, si producono per la protezione del frutto). Allora, se sia per natura sia in vista di qualcosa la rondine fa il nido e il ragno la tela, e se le piante fanno le foglie per i frutti e mandano le radici non in alto ma in basso per il nutrimento, è manifesto che c’è questo tipo di causa nelle cose che vengono ad essere per natura. E dato che la natura ha due aspetti, quello di materia e quello di forma, e quest’ultimo è il fine, mentre il resto è per il fine, la causa nel senso di «di ciò in vista di cui» sarà la forma. Dunque, ciò che accade nella natura accade in vista di un fine e la causa finale orienta il divenire naturale (al contrario di quanto pensavano gli atomisti, per i quali non esiste un fine nella natura). Vedremo (p. 229 ss.) come questa idea eserciti un ruolo decisivo nella concezione aristotelica degli esseri viventi e in generale della natura.
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La struttura dell’universo: cosmologia e teologia
Si è osservato che la nozione centrale dell’intera impalcatura della fisica aristotelica è quella di mutamento (kìnesis). Abbiamo anche constatato che per Aristotele il mutamento è di diversi tipi: accanto al movimento locale, ossia allo spostamento di luogo, c’è il mutamento secondo la sostanza, che equivale alla generazione di qualcosa che prima non esisteva (per esempio la nascita di un uomo o di un animale); il movimento può essere anche di natura quantitativa, interessare cioè la categoria della quantità (per esempio la crescita di un essere vivente); oppure di natura qualitativa e riguardare la categoria di qualità (pensa a un frutto che maturando cambia colore). Non c’è dubbio, comunque, che per Aristotele il movimento locale continua a occupare una posizione di primo piano nel complesso della sua trattazione. Tre nozioni Se il movimento è la nozione centrale della fisica aristotelica e se l’opera che si fondamentali: luogo, intitola Fisica si propone di studiare gli aspetti generali della natura, è ovvio che vuoto e tempo essa sia in larga misura dedicata al tema del movimento. In tale contesto si comprende come Aristotele si concentri a lungo su una serie di nozioni che riguardano il movimento, pur non essendo identiche ad esso. Troviamo così nella Fisica una lunga trattazione del luogo (tòpos), che rappresenta ciò in cui avviene il movimento; del vuoto, la cui esistenza viene, in polemica con gli atomisti, radicalmente negata; del tempo (chrònos), che Aristotele definisce come «il numero del movimento secondo il prima e il poi»; in effetti, senza la percezione da parte dell’anima del movimento di qualcosa non può esserci percezione del tempo, il quale risulta dunque inestricabilmente collegato al movimento.
Centralità del movimento nella fisica aristotelica
Dalla fisica alla cosmologia
Movimento circolare e rettilineo
La natura dei quattro elementi determina il tipo di moto
Gli strati dell’universo e i «luoghi naturali»
La teoria del movimento, e in particolare la concezione dei moti naturali, rappresenta poi l’ambito nel quale Aristotele tenta di stabilire una connessione tra la fisica e la cosmologia. Si tratta di una riflessione di importanza epocale, destinata a egemonizzare il pensiero occidentale fino alle porte dell’età moderna. Secondo Aristotele esistono due tipi di movimento naturale, quello circolare e quello rettilineo (stiamo ovviamente parlando del movimento di traslazione). Nel mondo terrestre i moti naturali sono di tipo rettilineo, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso (ogni altro movimento, per esempio quello parabolico, è forzato e non naturale, come nel caso del lancio di pietre o frecce). Dunque, nel mondo terrestre esistono solo due tipi di movimento rettilineo, quello dal centro (dal basso in alto) e quello verso il centro (dall’alto in basso). In questo stesso mondo ci sono, secondo Aristotele (che qui riprende una celebre concezione presocratica), quattro elementi primari, ossia quattro corpi semplici: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. Dunque, conclude Aristotele, la natura di ciascuno di questi corpi semplici determina il tipo di moto naturale delle cose composte in prevalenza di quell’elemento. Due di questi corpi tenderanno a muoversi verso l’alto (aria e fuoco), due verso il basso (acqua e terra). Aristotele immagina l’universo come una totalità piena di materia distribuita a strati. Il centro, ossia la parte più bassa, è occupato dalla terra; quindi si trova l’acqua; in alto hanno il loro luogo naturale l’aria e il fuoco (che è l’elemento si223
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Parte prima L’età antica
tuato più in alto). I moti naturali dei corpi si spiegano postulando il principio secondo cui gli elementi tendono a occupare il loro luogo naturale e ivi a restare. Dunque la terra e l’acqua (e i corpi che sono composti prevalentemente di esse, come le pietre, la pioggia, gli stessi organismi animali) tenderanno a dirigersi verso il basso, mentre il fuoco e l’aria verso l’alto (come le fiamme). Luoghi e movimento dei corpi
Luoghi naturali dei quattro elementi Alto
Fuoco (quello più in alto)
Movimento rettilineo dei corpi Verso l’alto (si allontana dal centro)
Aria Acqua Basso (centro dell’universo)
Il movimento circolare degli astri presuppone una diversa materia costitutiva
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Movimenti rettilinei o circolari
Sul cielo, 1,2,268b14269b17
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Terra (quello più in basso)
Verso il basso (va verso il centro)
Si è detto però che i moti naturali sono di due tipi: rettilineo (dal centro e verso il centro) e circolare. Ora, l’evidenza osservativa ci permette di constatare che gli astri (che sono corpi fisici) si muovono di moto circolare. Dal momento che il loro moto circolare non può che essere naturale (è infatti impensabile che gli astri si muovano perché forzati) e dal momento che il tipo di moto circolare dipende dalla natura del corpo di ciò che si muove, non si potrà evitare la seguente conclusione: gli astri sono composti di una materia diversa rispetto a quella di cui sono formati i corpi collocati nel mondo terrestre. Ecco il ragionamento di Aristotele: Noi diciamo che tutti i corpi e grandezze naturali sono di per sé capaci di mutamento di luogo; diciamo infatti che la natura è per essi principio di mutamento. Ogni mutamento di luogo è o rettilineo o circolare o misto di questi: soltanto questi due spostamenti infatti sono semplici. […] Circolare è lo spostamento intorno al centro, rettilineo quello verso l’alto e verso il basso. Chiamo «verso l’alto» lo spostamento che si allontana dal centro, «verso il basso» quello che va verso il centro. Di conseguenza ogni spostamento semplice è di necessità o dal centro o verso il centro o attorno al centro. […] Poiché tra i corpi gli uni sono semplici, gli altri composti di questi […], è necessario che anche i movimenti siano gli uni semplici, gli altri in qualche modo misti, e che i movimenti dei corpi semplici siano semplici, quelli dei corpi composti siano misti, ma determinati dalla componente dominante. Se dunque vi è un movimento semplice, il movimento circolare è semplice, e il movimento del corpo semplice è semplice e il movimento semplice è proprio di un corpo semplice (infatti, anche l’eventuale movimento semplice di un composto sarà determinato dalla componente dominante), di necessità vi è un corpo semplice tale da spostarsi del movimento circolare secondo la propria natura. Infatti è possibile che per una violenza un corpo si sposti di movimento proprio di un altro e diverso corpo, ma è impossibile che ciò avvenga secondo natura, se è vero che il movimento secondo natura di ciascuno dei corpi semplici è uno solo. […] E invero lo spostamento circolare è necessariamente anche primo. Infatti ciò che è compiuto precede nella natura ciò che è incompiuto. Ma il cerchio è una
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cosa compiuta, mentre nessuna linea retta lo è: non lo è la retta infinita (avrebbe infatti una fine e un compimento), né nessuna di quelle finite (infatti, poiché è possibile prolungare qualsiasi retta finita, tutte hanno qualcosa di esterno). Di conseguenza, se il movimento che precede è proprio di un corpo che precede nella natura, e se il movimento in linea retta è proprio dei corpi semplici (il fuoco si sposta infatti in linea retta verso l’alto, i corpi terrosi in basso verso il centro), di necessità anche il movimento circolare è proprio di uno dei corpi semplici: si è detto infatti che lo spostamento dei corpi è determinato dalla componente dominante nella mescolanza dei corpi semplici. Da queste considerazioni risulta chiaramente che oltre alle cose composte quaggiù vi è un’altra realtà corporea naturale, più divina di tutte queste e primaria rispetto a esse. La conclusione di Aristotele è abbastanza clamorosa. L’universo – questo è il senso del suo ragionamento – è diviso in due parti: il mondo terrestre, che viene solitamente chiamato «mondo sublunare» (ossia al di sotto della Luna), è materialmente composto dai quattro elementi della tradizione empedoclea; al di sopra di esso si trova il mondo astrale, che è costituito di una materia diversa da quella dei quattro corpi terrestri, il quinto elemento. Aristotele chiama questo quinto corpo etere; esso «è dotato di una natura tanto più nobile quanto più è distante dai corpi che si trovano quaggiù». A differenza dei corpi del mondo sublunare, l’etere non ha né pesantezza né leggerezza. Ma la cosa veramente importante è un’altra. Etere e incorruttibilità Abbiamo visto che l’ammissione dell’etere è anche motivata dall’esigenza di degli astri spiegare l’esistenza di un moto naturale, quello circolare, strutturalmente differente rispetto ai moti naturali del mondo sublunare (che sono rettilinei). In verità l’etere spiega un’altra caratteristica fondamentale dei corpi astrali, ossia la loro incorruttibilità. Astri eterni e divini Infatti – argomenta Aristotele – la composizione materiale dei corpi è causa non solo del tipo di movimento locale che li caratterizza, ma anche del mutamento in senso lato. I corpi terrestri, essendo costituiti dai quattro elementi empedoclei, risultano corruttibili (cioè suscettibili di trasformazione, decadenza, dissoluzione, nel caso dei viventi, di morte); viceversa, gli astri, composti di etere, sono incorruttibili. Questo significa che l’unico mutamento che conoscono è lo spostamento locale in circolo. Essi sono eterni, incorruttibili e per questo possono venire assimilati agli dèi. L’universo: mondo sublunare, costituito dai quattro elementi, e mondo astrale, costituito dal quinto elemento, l’etere
T13
Il luogo degli dèi Sul cielo, 1,3,270b4-24
È chiaro poi che sia il nostro discorso è testimone a favore delle opinioni comuni, sia queste lo sono a favore di quello. Tutti gli uomini infatti hanno una concezione degli dèi, e tutti assegnano al divino il luogo più in alto, sia Barbari che Greci (quanti almeno credono all’esistenza degli dèi), evidentemente in quanto pensano che ciò che è immortale è congiunto a ciò che è immortale; è impossibile altrimenti. Se dunque esiste – come esiste – un divino, anche ciò che si è detto ora sulla prima realtà corporea è stato detto correttamente. Anche l’osservazione sensibile è sufficiente a portare a questa conclusione: in tutto il tempo passato, infatti, in base alle memorie che gli uomini si sono tramandati gli uni agli altri, l’ultimo cielo [il cielo delle stelle fisse] non sembra avere subito nessun cambiamento né nel suo insieme né in nessuna delle parti che gli sono proprie. […] 225
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Parte prima L’età antica
Fu dunque in quanto pensavano che il primo corpo fosse qualcosa di diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, che essi chiamarono etere il luogo più alto, derivando per esso questa denominazione dal suo «correre sempre» [aèi thèin] per l’eternità.
Un universo pieno, finito e stratificato
Un universo unitario
L’eternità del mondo e la sua causa prima
Una causa eternamente in atto
La sfera delle stelle fisse
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Questa separazione tra terra e cielo sarà destinata a segnare l’intero corso della cultura e della scienza occidentali fino a Galileo, il quale si impegnerà a dimostrare che anche i corpi celesti (per esempio la Luna) sono composti dello stesso materiale della Terra. L’universo aristotelico è dunque un’entità piena (abbiamo visto che non esiste il vuoto), finita (per Aristotele non esiste neppure una sostanza infinita e dunque il mondo è, diversamente da quanto pensavano gli atomisti, finito) e in qualche modo stratificata. Nella regione sublunare si trovano, disposti dal centro alla periferia, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco; al di sopra, nella sfera astrale, l’etere, che è la sostanza di cui sono composti i corpi celesti. Naturalmente le quattro zone del mondo sublunare non sono affatto separate le une dalle altre; esiste una comunicazione incessante, uno scambio di posto tra gli elementi, che sono portati a tornare al loro luogo naturale. I fenomeni meteorologici sono l’esempio più evidente di questi processi di trasformazione degli elementi terrestri. D’altra parte, secondo Aristotele, anche il mondo astrale esercita una qualche influenza sui processi fisici che accadono nel mondo sublunare. Pensa, per esempio, all’azione esercitata dalla Luna sulle maree o a quella del movimento annuale del Sole, che determina il cambiamento delle stagioni. L’universo, sebbene diviso in due regioni ben distinte, costituisce comunque una realtà unitaria, la cui caratteristica fondamentale è costituita, come più volte sottolineato, dal mutamento. Secondo Aristotele il mondo è eterno: non ha avuto inizio e non avrà fine. Eterne e immodificabili sono, come diremo meglio a proposito degli scritti biologici, le specie che lo abitano. Dal momento che è eterno e si trova in costante movimento (generazione e corruzione, moto locale, alterazione ecc.), per conoscerlo in modo autentico occorre individuare la causa (prima) di questo movimento (non dimenticare che conoscere qualcosa vuole dire per Aristotele conoscerne la causa). Se il mondo è eterno ed eterno è anche il movimento che lo attraversa, la causa di questo movimento non potrà che essere eterna. Inoltre dovrà essere una causa eternamente in atto, dal momento che, se fosse in potenza, avrebbe bisogno di qualcosa che renda possibile il passaggio dalla potenza all’atto (per Aristotele solo ciò che è in atto può mettere in moto qualcos’altro, ossia consentire il passaggio dalla potenza all’atto). Abbiamo visto che l’esistenza del divenire nel mondo sublunare dipende in qualche misura dal movimento del cielo, ossia del mondo astrale. E il primo movimento del cielo è quello della sfera delle stelle fisse. Aristotele, seguendo un’opinione dominante tra gli astronomi antichi (almeno a partire dall’Accademia), immagina che le stelle della volta celeste siano «incastonate» su una sfera. Per questo, diventa fondamentale individuare la causa del movimento della sfera delle stelle fisse, da cui dipendono in varia misura tutti i movimenti del cosmo (dei pianeti, del Sole, della Luna – considerati pianeti dagli antichi) e poi i movimenti del mondo sublunare.
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Unità 4 Aristotele
Dalla cosmologia alla teologia
Il motore immobile, causa prima del movimento degli astri
Il nous: primo motore immobile
«Pensiero di pensiero»
Il primo motore «muove in quanto amato»
Amore come desiderio di imitazione della perfezione
T14
Il primo motore immobile Metafisica, 12,7,1072a22-b30
La soluzione escogitata da Aristotele rappresenta certamente una delle sue teorie più controverse. Egli la espone in modo compiuto nel XII libro della Metafisica (composto quasi sicuramente in età giovanile). Il problema a cui occorre trovare soluzione è dunque il seguente. Quale realtà può muovere il cielo delle stelle fisse, restando però immobile, perché, se si muovesse, occorrerebbe trovare anche per essa un ulteriore motore? Dunque: che cosa è e come muove un motore immobile? Deve trattarsi di qualcosa di immateriale, perché, se fosse materiale, si muoverebbe anch’esso (abbiamo visto infatti che sia i corpi composti dai quattro elementi terrestri, sia quelli composti di etere si muovono). Questo motore deve dunque essere atto puro (e non potenza), forma pura (e non materia), eterno (come il movimento che deve spiegare), ma immobile. L’unica realtà che risponde a tutte queste caratteristiche, che Aristotele chiama il primo motore immobile, è la divinità, concepita però non come persona, alla maniera degli dèi omerici, bensì come Intelletto, ossia pensiero (nous). Il pensiero è una realtà fisicamente immobile, muove senza contatto e non è materiale. L’attività dell’Intelletto è quella di pensare. Si tratta di un pensiero eterno e mai interrotto (a differenza di quello umano, che è intervallato). Ma un pensiero rivolto a che cosa? Non a una realtà inferiore, perché, se così fosse, vedrebbe irrimediabilmente sminuito il suo statuto ontologico, ossia il suo prestigio. Il pensiero del primo motore immobile non potrà che rivolgersi alla realtà più alta in assoluto, cioè a se stesso: sarà – come scrive Aristotele – «pensiero di pensiero». Ma come muove il primo motore immobile? La risposta aristotelica è che questo motore (atto puro, forma pura, pensiero di pensiero) muove in quanto è oggetto di amore da parte del cielo. L’attrazione prodotta dall’amore e dal desiderio pare infatti ad Aristotele l’unica modalità in cui un motore può muovere qualcosa senza risultare lui stesso mosso: se desidero un oggetto mi muovo verso di esso o comunque faccio qualcosa in funzione di esso, senza che quest’ultimo si muova. Il primo motore immobile, dice dunque Aristotele, «muove in quanto amato». Ma amato da chi? Probabilmente dagli astri o meglio dalle sfere in cui essi si trovano (le quali dovranno, per potere amare, possedere un’anima). «Amore» significa qui desiderio di imitare la perfezione, cioè l’assoluta immobilità, del primo motore; le sfere astrali, in quanto composte della materia eterea, non possono essere del tutto immobili, ma si avvicinano a questa condizione grazie al loro moto circolare, che è uniforme ed eterno, senza principio né fine. Tutto ciò significa che la causa efficiente del movimento del cosmo (ossia il suo motore) è in realtà una causa finale (cioè il fine che genera movimento nelle altre cose). Ecco il ragionamento che conduce Aristotele, una volta ammessa la natura eterna del movimento del cielo, a indicare nel motore immobile, pensiero di pensiero, la causa di questo movimento: C’è qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (ciò è evidente non solo dal ragionamento ma anche come dato di fatto); cosicché il primo cielo [quello delle stelle fisse] deve essere eterno. Pertanto, c’è anche qualcosa che muove. E poiché ciò che è mosso e muove è un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere mosso e 227
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che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza: muovono senza essere mossi. Ora, l’oggetto primo del desiderio e l’oggetto primo dell’intelligenza coincidono: infatti oggetto del desiderio è ciò che appare a noi bello e oggetto primo della volontà razionale è ciò che è oggettivamente bello […] Dunque il primo motore muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo a loro volta mosse. Ora, se qualcosa si muove, può anche essere diverso da come è. Pertanto, il primo movimento di traslazione [quello della sfera delle stelle], anche se è in atto, può tuttavia essere diverso da come è, almeno in quanto è un movimento. […] Ma poiché esiste qualcosa che muove essendo, esso medesimo, immobile ed in atto, non può essere in modo diverso da come è in nessun senso. Il movimento di traslazione, infatti, è la prima forma di mutazione, e la prima forma di traslazione è quella circolare: e tale è il movimento che il primo motore produce. […] Da un tale principio [il primo motore immobile] dipendono dunque il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. Invece in quello stato Egli era sempre. A noi questo è impossibile, ma a lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. […] Ora, il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza e intelligibile coincidono. L’intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. […] L’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. Se, dunque, in questa felice condizione noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente; e questo è meraviglioso. […] Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto questa attività. E la sua attività […] è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo è dunque Dio.
Un principio eternamente in atto Il primo motore immobile, causa motrice e finale Dio
Attività divina e attività filosofica
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Si tratta di una sequenza argomentativa davvero complessa e a tratti sconcertante. In estrema sintesi il suo significato filosofico potrebbe venire riassunto nei seguenti termini: 1) il divenire naturale, ossia il passaggio dalla potenza all’atto, necessita di un principio che sia eternamente in atto, cioè che sia sottratto al divenire stesso (il movimento ha bisogno di qualcosa che non si muova); 2) lo studio della natura culmina nell’ammissione di una sostanza non materiale, il primo motore immobile (che è pura forma senza materia), la quale costituisce la causa motrice e finale dell’intero movimento dell’universo e dunque dell’intera natura; 3) dal momento che il primo motore immobile viene senz’altro identificato con Dio, la cosmologia di Aristotele trova il suo apparente compimento in una sorta di teologia metacosmica (in quanto il principio supremo viene collocato al di là, in greco metà appunto, del cosmo); 4) la natura dell’attività della divinità è molto simile a quella del filosofo: Dio compie sempre e senza sosta ciò che il filosofo può fare solo in momenti limi-
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tati della sua vita (l’attività del pensiero, con la felicità che la accompagna); il Dio aristotelico sembra davvero rappresentare l’eternizzazione e la divinizzazione dell’attività del filosofo; Il divino e l’ordine 5) a differenza della divinità biblica e cristiana, quella aristotelica non crea il del movimento mondo e non lo ama (giacché pensa soltanto se stessa), e tanto meno interviene nelle sue vicende. Essa si limita ad assicurare l’ordine e la regolarità dei movimenti del cosmo: quelli degli astri in primo luogo, e tramite essi anche quelli del mondo sublunare (regolarità delle stagioni, del ritmo giorno / notte, ➥ Sommario, p. 255 della riproduzione delle specie animali).
8 Il finalismo e le specie viventi
I viventi e l’anima: biologia e psicologia Il carattere costitutivo della natura – lo si è detto più di una volta – è rappresentato dal suo finalismo, ossia dal fatto di essere orientata verso il bene o il meglio. Questo aspetto si manifesta sia a livello macrocosmico, ossia nel mondo considerato come totalità, sia a livello microcosmico, ossia nei singoli processi naturali e nella struttura delle singole specie viventi. A livello macrocosmico il finalismo è soprattutto evidente nella regolarità dei movimenti astrali, dai quali, come si è detto, dipendono anche i processi fisici del mondo sublunare. Ma l’orientamento teleologico della natura si esprime in modo massiccio e sistematico anche all’interno del mondo sublunare.
Biologia e zoologia
➥ Percorso tematico, p. 321
Indagini a tutto campo sulla materia costitutiva degli esseri viventi
Parti omogenee: i tessuti Parti non omogenee: gli organi
Per Aristotele la bellezza del mondo non è confinata all’ambito celeste, quello occupato dagli astri. Anzi, è proprio negli aspetti apparentemente più insignificanti del mondo sublunare che il finalismo (per Aristotele equivalente a ordine e bellezza) emerge in maniera più interessante. Proprio lo studio di quegli esseri che sembrano non presentare particolari attrattive offre «grandissime gioie a chi sia capace di comprenderne le cause», ossia a chi sia capace di cogliere la causa finale. È un merito indubbio di Aristotele quello di non avere confinato lo studio della natura agli aspetti più manifestamente «nobili»; in realtà, diversamente dal suo maestro, Aristotele ha mostrato di non disprezzare nessun aspetto della natura. Non si è fatto scrupolo di interrogare figure professionali solitamente poco considerate (se non addirittura disprezzate), come cacciatori, pescatori, macellai, pastori, allevatori, da cui ricavò una serie impressionante di informazioni su una quantità sterminata di specie viventi (inventariò oltre cinquecento specie animali). Secondo Aristotele la materia di cui sono costituiti gli esseri viventi si unisce in modo da dare luogo a due forme di organizzazione: 1) le parti omogenee, ossia quelle parti che, se suddivise, danno luogo a parti dello stesso tipo, e che vengono chiamate «omeomere» (ossia appunto parti simili) e corrispondono pressappoco ai nostri tessuti (le ossa, la carne); 2) le parti non omogenee («anomeomere»), le quali, se divise, non presentano parti simili al tutto (pensa, per esempio, alla mano, che si divide in dita e non in altre mani); le parti non omogenee corrispondono sostanzialmente ai nostri organi. 229
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Fine, funzione, organo
La natura non fa nulla invano
T15
La natura provvede al meglio
Le parti degli animali, 2,14,658a18-b2
È chiaro che la complessità di un essere vivente dipende dalla presenza in esso di un maggior numero di parti non omogenee, ossia di organi, i quali gli consentono di svolgere funzioni via via più complesse. È molto importante tenere presente che per Aristotele non è l’esistenza dell’organo a provocare lo sviluppo di una determinata funzione (non è la presenza dei denti canini a consentire lo sviluppo in certe specie animali dell’alimentazione carnea), ma accade esattamente il contrario: l’esigenza di adempiere a una certa funzione causa finalisticamente la presenza di quel determinato organo (al fine di poter mangiare carne certi animali hanno una dentatura appropriata). In poche parole: non sono gli organi a causare la nascita di determinate funzioni, ma al contrario sono le funzioni proprie di una certa specie a richiedere che essa possegga organi atti a compiere quelle funzioni. La natura, insomma, è finalizzata e – aggiunge Aristotele – non fa nulla invano. La struttura delle specie, ossia la configurazione che possiedono gli organismi, dipende finalisticamente dal tipo di attività che esse devono svolgere. Dal momento che una certa specie deve poter svolgere una determinata funzione, ecco che la natura dota quella specie di un organismo orientato a svolgere l’attività che le è propria. I peli, negli animali che ne hanno, servono da protezione: ora, nei quadrupedi il dorso richiede maggior protezione, mentre la parte inferiore, che è più importante, conserva comunque il suo calore grazie alla posizione reclinata; negli uomini invece, siccome a causa della posizione eretta le parti anteriori si trovano nella stessa posizione di quelle posteriori, la natura ha provveduto a portare aiuto alle parti più importanti: giacché sempre, nei limiti delle possibilità, essa è causa di ciò che è migliore. E per questo motivo nessuno dei quadrupedi ha ciglia sulla palpebra inferiore, né peli sotto le ascelle e nella zona del pube, come ne hanno gli uomini […]. Inoltre, negli animali che possiedono code di una certa lunghezza, la natura le ha ricoperte anch’esse di pelo, lungo per le code a stelo corto, come quelle dei cavalli, corto per quelle a stelo lungo, in rapporto comunque con la natura del resto del corpo: in ogni caso, infatti, quel che essa dà ad una parte lo toglie a un’altra. Gli animali cui la natura ha dato un corpo assai peloso mancano poi di peli sulla coda, come è, per esempio, il caso degli orsi.
L’impostazione finalistica della biologia e della zoologia conosce eccessi anche divertenti, almeno ai nostri occhi. A proposito della posizione della bocca degli squali (situata, come noto, nella parte inferiore del corpo), che di fatto rende più difficile la cattura di altri pesci, Aristotele osserva che anch’essa risulta stabilita dalla natura per il meglio; infatti, se lo squalo avesse una bocca che gli consentisse una facile introduzione di cibo, essendo il più potente e vorace dei pesci, non cesserebbe di abbuffarsi, con grave danno alla salute sua e alla sopravvivenza delle altre specie marine. La sopravvivenza Va tenuto comunque presente che per Aristotele la dinamica finalistica che goe l’eternità verna la natura agisce all’interno delle singole specie e non, salvo poche eccedella specie zioni, tra le specie. In altri termini, la struttura di ogni specie ha come fine la sopravvivenza della specie stessa e non quella di altre. Il mondo – lo si è detto – è per Aristotele eterno. Gli astri, composti di etere, sono individualmente eterni. I viventi del mondo sublunare, composti dei quattro
Un esempio curioso: lo squalo
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elementi tradizionali, non possono invece risultare individualmente eterni. Lo saranno però dal punto di vista della specie, che è infatti eterna e non soggetta a mutamenti (Aristotele non era certo un sostenitore dell’evoluzionismo).
Psicologia: l’anima Il principio di organizzazione della materia corporea
L’anima è atto: dal corpo in potenza all’essere vivente
L’anima è la forma dei viventi
Contro l’immortalità
Le tre funzioni vitali
Le funzioni dell’anima
Per comprendere la biologia e la zoologia di Aristotele occorre affrontare ora un altro importante tema: l’anima. Dal momento che gli esseri viventi sono tali in virtù del fatto di avere la vita e che quest’ultima viene garantita loro dall’anima, è chiaro che lo studio di questo ambito della realtà non può prescindere dalla trattazione dell’anima. Ciò che caratterizza tutti i viventi è dunque la presenza dell’anima, intesa però non come sostanza separata e indipendente dal corpo (alla maniera platonica), bensì come principio di organizzazione della materia corporea. Per Aristotele l’anima è «atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza»; ciò significa che la sua presenza fa sì che una certa materia, che ha la vita in potenza, diventi effettivamente un essere vivente. Secondo Aristotele i corpi che in potenza hanno la vita sono quelli dotati di organi adatti a esplicare le funzioni vitali: piante e animali. È importante tenere presente che l’anima di questi esseri viventi non è altro che il principio di organizzazione del corpo e, in quanto tale, non è separabile dalla materia corporea che organizza. Ricorderai che il principio di organizzazione di una data materia è per Aristotele la forma (èidos); ciò significa che l’anima è la forma degli esseri viventi. Contro Platone, dunque, Aristotele sostiene che non vi può essere alcuna immortalità dell’anima individuale; addirittura «ridicola» è poi considerata l’ipotesi della metempsicosi o reincarnazione delle anime: i corpi, osserva Aristotele, non sono vestiti che si possono indossare e cambiare, ma sono lo strumento di cui l’anima è la funzione: non c’è la vista senza l’occhio, né vita senza corpo. La vita presenta gradi e aspetti differenti, come l’osservazione fenomenica consente di constatare: accanto al livello riproduttivo, vegetativo e nutritivo, esiste un’attività vitale di tipo sensitivo e motorio e, da ultimo, addirittura intellettuale. Se le cose stanno in questi termini, non potranno che esistere diverse funzioni di organizzazione della materia corporea: una funzione vegetativa (propria delle piante), una sensitiva (caratteristica di tutti gli animali) e una intellettiva (propria dell’animale uomo): 1) la prima funzione, quella vegetativa, presiede all’attività di riproduzione, crescita e nutrimento; 2) la seconda, quella sensitiva e motrice, consente agli animali di percepire (tramite gli organi dei cinque sensi) e di muoversi; 3) la terza infine, quella intellettiva, permette agli uomini di pensare e di volere.
Funzione
Attività
Vegetativa
Riproduzione, crescita e nutrimento
Sensitiva
Percezione e movimento
Intellettiva
Pensiero e volontà
Esseri viventi Piante Animali Uomo
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Quando l’anima come principio di vita e organizzazione della materia è presente si ha un essere vivente, altrimenti si ha materia priva di vita (come una pietra oppure un cadavere, che è un corpo cui è venuto meno il principio di organizzazione vitale). La gerarchia funzionale Negli esseri in cui è presente una certa funzione superiore, sensitiva o intellettiva, è automaticamente presente anche quella inferiore. Così l’anima sensitiva degli animali comprende anche le funzioni dell’anima vegetativa (che è invece l’unica posseduta dalle piante); e analogamente nella funzione intellettiva sono attive anche le capacità funzionali dell’anima vegetativa e di quella sensitiva.
La percezione e l’intelletto L’attività dell’anima sensitiva
La percezione
Le analisi condotte da Aristotele nello scritto Sull’anima sono molto importanti, anche se non sempre facili da comprendere e riassumere in poche parole. Di notevole interesse risultano le sue considerazioni relative al fenomeno della percezione (che esprime l’attività dell’anima sensitiva). Essa avviene per opera dei cinque sensi e poi di un sesto senso, chiamato «senso comune», il quale consente di percepire stimoli comuni a più di un senso (per esempio il movimento). Secondo Aristotele la percezione consiste nell’assunzione da parte dell’organo di senso della forma sensibile dell’oggetto percepito; sia l’organo che la forma dell’oggetto sono in potenza, ossia, rispettivamente, l’uno è un senziente in potenza, l’altro un percepibile in potenza, e diventano in atto quando si incontrano. Nell’atto della percezione si forma nei nostri organi di senso un’immagine dell’oggetto percepito, un’immagine (phàntasma) che viene conservata dalla memoria. Soggetto
Atto della percezione
Oggetto
Organo di senso senziente in potenza
La forma sensibile viene assunta dall’organo
Oggetto sensibile la cui forma sensibile è percepibile in potenza
Nell’organo si forma una immagine (phàntasma) dell’oggetto percepito
L’immagine viene conservata nella memoria
Il pensiero, la formazione dei concetti
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Secondo Aristotele un procedimento pressappoco simile a quello della percezione avviene anche a proposito del pensiero (che, come si è detto, è una funzione propria ai soli uomini). I concetti, in effetti, si formano in maniera non dissimile dalle percezioni sensibili. L’intelletto (nous), che gioca a livello dell’intellezione un ruolo analogo a quello esercitato dai sensi nella percezione, è capace di cogliere nell’immagine sensibile delle cose la loro forma intelligibile (per esempio quella di «uomo» in Alberto). Ora, come i sensi sono senzienti in potenza e vengono attivati dall’incontro con la forma sensibile dell’oggetto percepito, allo stesso modo l’intelletto è in potenza e viene attivato nel momento in cui entrano in contatto con esso le forme intelligibili. L’intelletto viene assimilato da Aristotele a una tavoletta di cera, completamente liscia, ma disposta a ricevere le lettere
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che vengono in essa impresse (lo stadio in cui la tavoletta è vuota corrisponde evidentemente alla fase potenziale dell’intelletto). Intelletto passivo Fino a qui l’analogia con la percezione sensibile sembra esprimere abbastanza e intelletto attivo bene il funzionamento del meccanismo della formazione dei concetti. Ma a questo punto le cose si complicano ulteriormente e in un modo che sembra quasi impossibile da comprendere completamente. Infatti, Aristotele opera una successiva distinzione, davvero misteriosa. Egli sostiene che accanto all’intelletto passivo (nous pathetikòs), quasi certamente identico alla tavoletta di cera di cui si è appena detto, esiste anche un intelletto attivo, detto poi «produttivo» o «poietico» (da poièin, che significa «fare»), il quale sarebbe sempre in atto (e non passerebbe, come quello passivo, dalla potenza all’atto). Cos’è l’intelletto attivo? Ora, che cosa sia questo misterioso intelletto attivo è questione sostanzialmente ancora irrisolta (i commentatori aristotelici, sia antichi che moderni, hanno scritto montagne di pagine sulla questione, senza mai venirne completamente a capo). Si tratta di un intelletto separato, ossia indipendente dal corpo, mentre, come sappiamo, l’intelletto passivo è una funzione del corpo e non può esistere senza di esso. In quanto separato dal corpo e indipendente da esso, l’intelletto attivo potrebbe non essere individuale, potrebbe cioè non appartenere a ciascun uomo. Alcuni vi hanno voluto vedere un riferimento al primo motore immobile (che è infatti un intelletto separato ed eternamente in atto). Ma la questione non può dirsi veramente risolta. E forse non è poi così importante per la comprensione del percorso filosofico di Aristotele. Si può forse dire che quella dell’intelletto attivo è un’ipotesi necessaria a soddisfare lo schema atto-potenza che per Aristotele è indispensabile per spiegare qualsiasi attività (in questo caso quella del pensiero), come il motore immobile era un’ipotesi necessaria a spiegare l’e➥ Sommario, p. 255 sistenza del movimento nella natura del cosmo.
9 La Metafisica, opera composita
La filosofia prima o metafisica Più di una volta è accaduto, nel corso di questa esposizione, di accennare alla Metafisica, per dire, per esempio, che non si tratta di un’opera compiuta, ma di un insieme di trattati di argomento tra loro simile (ma non identico), raggruppati in uno scritto unitario dopo la morte di Aristotele. Si è anche osservato che la parola stessa «metafisica» è posteriore ad Aristotele. È arrivato il momento di analizzare più da vicino quest’opera e soprattutto le questioni filosofiche che essa tratta.
La natura della sapienza L’indagine sulle cause e i principi della sapienza
Nel I libro della Metafisica, che può essere considerato un’introduzione generale valida anche per numerosi altri libri, Aristotele dichiara che l’oggetto della sua ricerca è la natura della sapienza (sophìa), che corrisponde a un sapere dotato di una certa superiorità nei confronti delle altre forme di conoscenza. E dal momento che, come ben sappiamo, conoscere qualcosa significa per Aristotele conoscere le cause, anche la ricerca che egli si appresta ad affrontare dovrà riguardare le cause e i principi della sapienza. Ma che cosa è questa misteriosa sapienza? 233
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Parte prima L’età antica Difficoltà di definizione della sapienza
Le caratteristiche: universale e rivolta alle cose di rango superiore
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I requisiti della sapienza
Metafisica, 1,2,982a4-17
Diciamo subito che Aristotele chiama questa disciplina anche in altri modi: per esempio, la chiama filosofia prima (per distinguerla dalla filosofia seconda, che sarebbe la fisica); ma talvolta usa anche l’espressione «scienza ricercata», quasi per sottolineare che lui stesso, almeno all’inizio della ricerca, non sa bene dove la sua indagine andrà a parare, e in effetti molti libri della Metafisica presentano un andamento di ricerca e quasi aporetico (da aporìa, che significa «difficoltà», «incertezza»), non giungono cioè a una conclusione certa. In un’occasione, unica ma indubbiamente molto significativa, Aristotele definisce poi la disciplina di cui sta trattando con l’espressione «scienza teologica» (theologhikè epistème). Come si vede, la questione è complessa (molti nomi e forse molte caratteristiche) e va affrontata con grande prudenza. Prima di tutto bisogna stabilire quali sono le caratteristiche che questa disciplina deve possedere. A questo proposito Aristotele è abbastanza preciso. Egli dice, infatti, che la sapienza deve possedere, tra le altre, due proprietà ben definite; il problema è che queste due proprietà sembrano, almeno a prima vista, contraddirsi l’una con l’altra. Infatti la sapienza deve essere insieme: 1) universale e 2) occuparsi anche di oggetti dotati di rango superiore. Ma, se è universale, essa deve in un certo senso studiare tutte le cose in generale; se invece è rivolta alle realtà di rango superiore (più alte e dunque divine), deve limitarsi a studiare solo quel tipo di realtà. Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo esaminare di quali cause e di quali principi sia scienza la sapienza. […] Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapiente conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente che abbia scienza di ciascuna cosa considerata singolarmente. Inoltre riteniamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili e non facilmente comprensibili per l’uomo (infatti la conoscenza sensibile è comune a tutti e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, reputiamo che, in ciascuna cosa, sia più sapiente chi possiede maggiore conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Riteniamo anche che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è scelta per sé e al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado sapienza la scienza che è gerarchicamente sopraordinata rispetto a quella che è subordinata.
Secondo Aristotele, dunque, la sapienza (o filosofia prima) deve essere una conoscenza in qualche modo universale (cioè di tutte le cose, sia pure non prese una per una); deve rivolgersi alle cose più difficili, cioè le più lontane da noi e perciò divine; deve poi essere conoscenza delle cause; inoltre, deve essere una conoscenza disinteressata, ossia non perseguita in vista di qualcosa, ma per se stessa (Aristotele dice a tal proposito che tutte le altre conoscenze sono più necessarie, ma nessuna è superiore ad essa); infine – e forse proprio per le ragioni appena menzionate – essa deve risultare anche superiore rispetto alle altre conoscenze. L’eredità platonica Come si è visto, la maggiore difficoltà che deve affrontare chi voglia comprendere la natura della sapienza consiste nel conciliare il carattere universale di questa disciplina e il suo contemporaneo rivolgersi a degli oggetti particolari (le cose più difficili e più alte, ossia divine). In verità, l’esigenza di fare convergere 234
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Unità 4 Aristotele
questi due aspetti in una disciplina filosofica non è una novità di Aristotele; si tratta di una ben precisa eredità di Platone. Ricorderai infatti che la dialettica platonica era contemporaneamente la scienza più universale e quella rivolta agli oggetti di rango più elevato, vale a dire le idee. Aristotele rifiuta però le idee e non può di conseguenza identificare la sua sophìa con la dialettica. È però inevitabile osservare che la filosofia prima di Aristotele eredita esigenze tipiche del platonismo, anche se tenta di soddisfarle in un modo sostanzialmente diverso da come aveva fatto Platone.
Lo studio dell’essere Cerchiamo ora di costruire uno dei possibili percorsi teorici che stanno alle spalle della concezione aristotelica della filosofia prima, tenendo però sempre presente che si tratta di un percorso che siamo noi in qualche modo a costruire (certo sulla base di ciò che Aristotele dice). L’oggetto della filosofia Si è visto che una delle caratteristiche della sapienza è quella di essere un saprima è l’essere pere in qualche modo universale, ossia relativo all’universale. La cosa più uniin quanto essere versale di tutte è senza dubbio l’essere. Dunque la nostra scienza ricercata deve studiare l’essere. Tuttavia non una sezione determinata dell’essere (per esempio l’essere materiale) o un modo determinato di essere (per esempio quello della fisica che studia gli esseri in quanto hanno in se stessi il principio del movimento). La filosofia prima deve studiare l’essere in generale, ossia, come dice Aristotele con una formula destinata a divenire celebre, «l’essere in quanto essere».
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L’essere in quanto essere Metafisica, 4,1,1003a20-32
C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere dal punto di vista universale, ma, dopo avere delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte. Così fanno, ad esempio, le matematiche. Orbene, poiché ricerchiamo le cause e i principi supremi, è evidente che questi devono essere cause e principi di una realtà che è per sé. […] Dunque, noi dobbiamo ricercare le cause prime dell’essere in quanto essere.
L’evidenza linguistica e quella fenomenica inducono Aristotele a concludere che «l’essere si dice in molti modi». Si tratta di una tesi importante. Ma che cosa significa? Affermando che l’essere si dice in molti modi, Aristotele intende prima di tutto sostenere che quella di essere non è una nozione univoca, ossia dotata di un solo significato, valido per tutte le sue applicazioni. Univoci – ma Aristotele preferisce definirli sinonimi – sono quei termini che hanno il medesimo significato in tutte le occasioni in cui li adoperiamo. Il termine animale è univoco, perché significa la stessa cosa quando lo riferiamo a uomo e a bue. L’essere non è una nozione univoca, perché quando la usiamo intendiamo dire cose molto diverse (in espressioni quali «Alberto è un uomo», «è giorno», «è così», «Alberto è marito di Chiara» è facile rendersi conto che il verbo essere è usato in sensi abbastanza differenti). Unitarietà e molteplicità Tuttavia, osserva Aristotele, l’essere non è neppure così molteplice da non avere dell’essere la minima unitarietà. Non è, cioè, una nozione del tutto equivoca (Aristotele L’essere non è una nozione univoca
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Parte prima L’età antica
avrebbe detto che l’essere non è meramente omonimo). Equivoci sono infatti quei termini che hanno in comune solo il nome, senza condividere nulla del significato. Se dico, per esempio, che mia nonna ha perso i denti e che la forchetta ha tre denti, uso la parola denti in significati del tutto differenti. L’essere per Aristotele non è così molteplice da risultare del tutto equivoco.
L’essere e la sostanza Il senso primario e l’unitarietà dell’essere
L’essere, dunque, non è univoco, ma neppure equivoco. Non possiede un’unità forte, ma neppure è del tutto privo di unità. Il fatto è, secondo Aristotele, che l’unità dell’essere è più debole di quella del genere, per esempio «animale» (che è univoco), ma più forte di quella dei termini equivoci. Egli dice che l’essere si dice in molti modi, ma tutti in relazione a un senso principale. Per farsi capire si serve di un esempio. Quando noi usiamo il termine «sano» – dicendo che sana è una passeggiata, sana una certa dieta, sana la medicina – pensiamo implicitamente a un senso primario a cui tutti questi usi si riferiscono: la salute.
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L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad un’unità e ad una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo «sano» tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla. […] Così dunque l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze, altre perché affezioni della sostanza, altre perché vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause produttrici o generatrici sia della sostanza sia di ciò che si riferisce alla sostanza.
L’essere e la sostanza Metafisica, 4,2,1003a33-b10
La sostanza, senso primario dell’essere
La teoria del significato focale
La ricerca sulle cause e i principi della sostanza
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Ecco dunque il senso primario dell’essere al quale tutti gli altri si riferiscono e che tutti gli altri in qualche misura presuppongono: la sostanza (ousìa). Si tratta di una conclusione che non può però sorprenderci, perché già dalle Categorie sappiamo che la sostanza è la prima delle categorie, quella senza la quale nessuna delle altre può esistere. Oggi si è soliti definire la concezione aristotelica secondo la quale la sostanza rappresenta il senso primario dell’essere come «teoria del significato focale». In effetti, la sostanza è in un certo modo il «fuoco», ossia il centro, verso il quale convergono tutti gli usi della nozione di essere. Questo non significa – è bene precisarlo subito – che gli altri sensi dell’essere vengono dedotti dalla sostanza; significa però che essi presuppongono la sostanza: essere bianco, essere alto due metri, essere in riposo, essere parente di qualcuno ecc. presuppongono tutti che ci sia una sostanza alla quale appartengono e di cui vengono detti. Aristotele può dunque indirizzare la sua ricerca della sapienza o filosofia prima lungo una via più definita. Può dire, per esempio, che la ricerca delle cause e dei principi dell’essere in quanto essere – la quale appariva inizialmente così generale e indefinita – è in qualche modo circoscrivibile alla ricerca intorno alle cause e ai principi della sostanza, che è appunto il significato focale dell’essere. Chiedersi che cosa è l’essere – afferma Aristotele in modo perentorio – equivale a chiedersi che cosa è la sostanza.
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Unità 4 Aristotele
Lo studio della sostanza Limite della concezione di sostanza come individuo concreto
I candidati alla qualifica di sostanza
I criteri di sostanzialità: essere individuo, essere indipendente, essere soggetto
Esame della materia
Esame dell’universale
Esame del sinolo
Esame della forma o essenza
Ma che cosa è dunque la sostanza? Abbiamo già visto, studiando le Categorie, che la sostanza è qualcosa di individuale (è una cosa determinata); che è qualcosa che non si predica di altro, ma di cui le altre cose si predicano (è un soggetto e non un predicato). Insomma, le sostanze sono gli individui concreti che popolano il mondo (Alberto e non uomo in generale, Fido e non cane in generale). Aristotele non sembra però del tutto soddisfatto di questa concezione (che risale al periodo giovanile, quando si trovava nell’Accademia) e per questo la riprende con l’intenzione di approfondirla. Uno dei libri più importanti e difficili della Metafisica, il VII, è dedicato interamente alla questione di che cosa sia la sostanza. Aristotele esamina con grande scrupolo tutti i candidati possibili a questo titolo, analizzando, come è solito fare, le dottrine dei suoi predecessori. Secondo lui i candidati alla qualifica di sostanza (e dunque al titolo di senso primario e focale dell’essere) sono quattro: 1) la materia (sponsorizzata da alcuni filosofi presocratici); 2) la forma; 3) il sinolo (in greco sy`n-olon, cioè «totalità composita»), ossia l’unione di materia e forma; 4) l’universale (sponsorizzato da Platone). Aristotele rimane sempre convinto che la sostanza debba essere una realtà individuale. Inoltre continua a credere che essa sia separata, cioè indipendente, dalle altre cose (possa cioè esistere senza le altre, ma queste ultime non possano esistere senza la sostanza). Infine, non cessa di pensare che la sostanza sia un soggetto di predicazione e non un predicato. In base a questi tre fondamentali parametri, affronta l’esame dei quattro candidati al titolo di sostanza. Prima di tutto la materia. Per Aristotele essa è in qualche modo sostanza, come hanno creduto alcuni fisici presocratici (per esempio Talete con l’acqua e Anassimene con l’aria), perché è soggetto di predicazione, ma lo è in senso molto debole. La materia infatti non è separabile, non esiste in se stessa, ma è sempre accompagnata dalla forma (non è pensabile una «materia prima» del tutto informe: al massimo esistono gli elementi, in cui la materia ha già la forma di acqua, aria, terra o fuoco). Inoltre la materia non è veramente un individuo, ma può essere individuata solo dalla presenza di una forma. Il candidato più debole è senza dubbio l’universale, ossia l’idea platonica. Per Aristotele l’universale non è sostanza in nessun senso, neppure in quello tutto sommato debole della materia. Infatti, l’universale non è separabile (bianco non esiste senza quella determinata cosa bianca); è predicato e non soggetto e soprattutto non è e non può essere un individuo (l’universale è esattamente il contrario dell’individuo): Socrate può essere un uomo giusto, ma «giusto», detto di nessuno, non significa nulla. Restano dunque la forma e il sinolo di materia e forma. Tutti noi ci aspetteremmo da Aristotele una chiara e inequivoca presa di posizione in favore del sinolo, ossia dell’unione di materia e forma nella singola realtà individuale (il corpo e l’anima di Socrate costituiscono la sostanza Socrate). E in effetti Aristotele non ha nessuna difficoltà ad ammettere che il sinolo è sostanza in senso proprio. Tuttavia egli dedica una grande parte del libro VII della Metafisica a dimostrare che ancora più del sinolo di materia e forma è sostanza la forma o essenza. 237
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Parte prima L’età antica
La forma causa dell’essere Per potere pervenire a questo risultato, cioè che la forma o essenza è sostanza, il nostro filosofo deve fare intervenire un nuovo e fondamentale criterio di sostanzialità, oltre a quelli stabiliti nelle Categorie e confermati nella Metafisica: si tratta del fatto che la sostanza deve anche essere causa dell’essere della cosa di cui è sostanza. Ma se la sostanza è causa, allora sostanza in senso primario non è più l’unione di materia e forma, ma la forma, la quale riveste la funzione di causa del fatto che una certa materia assume le vesti di una determinata cosa. La forma organizza Perché – si chiede Aristotele – quell’insieme di materia formato da ossa, sane unifica la materia: gue, carne ecc. è il nostro amico Alberto? La risposta è chiara: perché una cerè causa dell’essere ta forma (nel caso di Alberto la sua anima) fa sì che quella materia si organizzi in quel determinato modo e dia origine a quell’individuo che noi conosciamo come Alberto. E ancora: perché quell’ammasso di mattoni e legno e acciaio è diventata la scuola che io frequento tutti i giorni? Perché quella materia è stata organizzata dalla forma della scuola ed è diventata questo determinato edificio. Insomma se una cosa è quello che è, lo deve primariamente alla forma, che organizza e unifica la materia, assumendo così la funzione di causa dell’essere. Nuovo criterio di sostanzialità: essere causa
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Causa è la forma Metafisica, 7,17,1041a6-b9
Ed ora diciamo, ancora una volta, che cosa si debba denominare sostanza e quale sia la sua natura, muovendo però da un diverso punto di partenza. […] Poiché, dunque, la sostanza è un principio e una causa, di qui dobbiamo prendere le mosse. Quando si ricerca il perché delle cose, si ricerca sempre il perché qualcosa appartiene a qualcos’altro. […] Per esempio, ricercare perché tuona equivale a ricercare perché si produce un rumore tra le nuvole. In questo modo, ciò che si ricerca è appunto questo: perché una cosa appartenga a un’altra. E, così, se si domanda: perché questo dato materiale, per esempio mattoni e pietre, sono una casa. È evidente dunque che si ricerca la causa. […] E poiché la cosa deve previamente essere data ed esistere, è evidente che si ricerca perché la materia sia una determinata cosa. Per esempio, questo materiale è una casa: perché? Perché è presente in esso l’essenza della casa. E si ricercherà così: perché questa data cosa è uomo? Oppure: perché questo corpo ha queste caratteristiche? Pertanto, nella ricerca del perché si ricerca la causa della materia, vale a dire la forma per cui la materia è una determinata cosa: e questa appunto è la sostanza.
La sostanza, in quanto identica alla forma, fornisce la ragione per cui una certa cosa è quella determinata cosa, per cui una certa materia è disposta in maniera tale da essere quella determinata cosa. Ma la forma di una cosa non è universale? La forma del tavolo, ossia ciò che consente al tavolo su cui è appoggiato il libro che sto leggendo di essere quel tavolo, non è la medesima del tavolo situato a fianco del mio? E se è la stessa, non si deve concludere che la forma è universale (essendo la medesima per due tavoli diversi) e non più individuale? Non aveva allora ragione Platone con le sue idee (che sono forme universali)? La forma è individuale: La risposta di Aristotele non lascia spazio a dubbi. Egli dichiara con molta netidentica per specie tezza che la forma è individuale (altrimenti non potrebbe essere sostanza). Cerma diversa per numero to, egli ammette che dal punto di vista della definizione la forma del tavolo A è identica alla forma del tavolo B, ma aggiunge che dal punto di vista numerico la La forma è universale o individuale?
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La forma rappresenta la sostanza perché individuale
La forma attua le potenzialità della materia
forma di A è diversa da quella di B. Insomma: esse sono identiche perché hanno la stessa definizione (sono cioè identiche per specie), ma diverse perché l’una non è l’altra. Del resto, basta pensare al caso degli esseri viventi, la cui forma sostanziale è l’anima. L’anima di Alberto non è la stessa di quella del suo amico Daniele, sebbene la definizione sia per entrambi la stessa (trattandosi di un’anima razionale). Per Aristotele la forma, ossia l’essenza di qualcosa, può rappresentare la sostanza, solo perché questa forma resta qualcosa di individuale (che è propria di un individuo e non comune a più individui). Sviluppando la sua concezione della forma come sostanza dell’individuo, Aristotele arriva a sostenere che la forma è anche atto, mentre la materia è potenza. Ma questo non può davvero sorprenderci: la forma è ciò che fornisce il principio di organizzazione a una data materia; se è così, allora la forma è proprio ciò che attua le potenzialità della materia, consentendo a quest’ultima di diventare qualcosa di determinato, ossia un individuo.
Una scienza teologica unificata?
Diversi tipi di sostanza: quale rapporto tra di loro?
La ricerca di ciò che è primo tra le sostanze
Una sostanza prima tra le sostanze materiali: la sostanza astrale
Il cammino di Aristotele verso la determinazione della natura della filosofia prima, la «scienza ricercata», si è snodato finora attraverso due tappe fondamentali: la dottrina dell’essere in quanto essere e la teoria della sostanza. Il collegamento tra queste due concezioni risulta abbastanza chiaro: l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in rapporto a un senso primario e principale, quello della sostanza; dunque, l’indagine intorno all’essere può legittimamente trasformarsi in un’indagine intorno alla sostanza. Ma le sostanze sono molte e diverse strutturalmente tra loro. Esistono sostanze fisiche soggette al movimento e alla corruzione, esistono sostanze fisiche prive di vita, esistono poi anche sostanze fisiche mobili ma incorruttibili (per esempio gli astri), ed esistono, forse, anche sostanze non fisiche, ossia né mobili né corruttibili. Qual è il rapporto tra queste sostanze? Esiste la possibilità di formulare una teoria unificata della sostanza? La risposta che Aristotele fornisce a quest’ultimo interrogativo non è chiara; o forse è semplicemente problematica, perché la domanda stessa è tale da non consentire una risposta inequivocabile. Vediamo con ordine. Anche a proposito della questione relativa ai rapporti tra le sostanze, Aristotele adotta il consueto metodo consistente nel tentare di individuare ciò che è primo in un certo ambito. Nel caso della trattazione dell’essere in quanto essere, egli aveva sostenuto che, poiché l’essere si dice in molti sensi, occorre individuare il senso primario e principale (che noi sappiamo essere la sostanza); a proposito della sostanza egli fa un ragionamento analogo: poiché esistono molte sostanze, occorre stabilire quali sono le sostanze prime, occorre cioè stabilire ciò che è primo nell’ambito delle sostanze. Sappiamo che esistono sostanze materiali, mobili e corruttibili: si tratta delle sostanze sensibili collocate nel mondo sublunare; sappiamo anche che esistono sostanze materiali, mobili e incorruttibili: si tratta dei corpi astrali, formati dall’etere. Tra questi due tipi di sostanza, a essere prima è senza dubbio la sostanza astrale incorruttibile, eterna e sempre identica a sé; tra l’altro, abbiamo anche visto che gli astri sono causa del movimento dei corpi del mondo sublunare. Se non 239
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Parte prima L’età antica
Le sostanze immateriali: i motori immobili
La scienza teologica studia le sostanze immobili
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La scienza teologica
Metafisica, 6,1,1025b251026a19
esistessero altre sostanze, la fisica (che studia i corpi fisici dotati di movimento) sarebbe la filosofia prima (e l’astronomia avrebbe una sorta di primarietà tra le discipline fisiche). Ma siamo sicuri – si chiede Aristotele – che non ci siano sostanze superiori a quelle fisiche? Siamo cioè sicuri che non ci siano sostanze immateriali e immobili? In verità noi sappiamo, proprio dalla trattazione della fisica e delle cause del movimento dell’universo (vedi p. 216 ss.), che queste sostanze immobili e incorruttibili in realtà esistono. Si tratta del primo motore immobile e degli altri motori (Aristotele crede infatti che ogni sfera abbia un motore immobile che la muova; e che il primo sia tale, perché è il motore della prima sfera, quella delle stelle fisse). Dunque, se queste sostanze immobili esistono – ed esse esistono – la filosofia prima non sarà la fisica, ma quella disciplina che studia queste sostanze: la sapienza, ossia la scienza ricercata. Dal momento però che queste sostanze sono divine (sono pure forme, puri atti e hanno la vita degli dèi), Aristotele arriva a dire che questa disciplina non è altro che la scienza teologica. Ecco il passo della Metafisica: Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica, la fisica deve essere conoscenza teoretica, ma conoscenza teoretica di quel genere di essere che ha la potenza di muoversi e […] della sostanza considerata come non separabile dalla materia. […] Ma se esiste qualcosa di eterno, immobile e separato, è evidente che la conoscenza di esso spetterà certamente a una scienza teoretica, ma non alla fisica, perché la fisica si occupa di esseri in movimento, […] bensì a una scienza anteriore. Infatti la fisica riguarda realtà separate [ossia sostanze] ma non immobili […] invece la filosofia prima riguarda realtà che sono separate e immobili. Tre sono dunque le branche della filosofia teoretica: la matematica [che però non studia le sostanze, ma le astrazioni quantitative delle sostanze], la fisica e la teologia.
La sapienza sembra dunque identificarsi con la scienza che si occupa delle sostanze immobili, ossia delle forme che esistono senza materia: i motori immobili. Aristotele aggiunge poi che questa scienza è anche universale perché si occupa delle cause e dei principi dell’essere in generale. Infatti, i motori immobili sono esattamente le cause dell’essere delle altre sostanze e la sostanza è il primo dei significati dell’essere. Problemi aperti Bisogna però ammettere che questa conclusione non sembra risolvere tutti i problemi collegati alla definizione della filosofia prima e della scienza dell’essere. Aristotele si limita a sostenere che le sostanze fisiche dipendono da quelle non fisiche (in questo senso «metafisiche», ossia al di là di quelle fisiche); aggiunge che i motori immobili causano il movimento delle sfere astrali (per mezzo del desiderio che provocano in questi ultimi); ma poi non costruisce una vera e propria scienza teologica, ossia una scienza dei rapporti tra le varie sostanze immobili, né una teoria che enunci chiaramente in che senso esse siano «cause» dell’essere delle altre sostanze (certo non le creano, e neppure ne determinano la struttura, che è interamente dovuta agli autonomi processi fisici della natura materiale). Resta il fatto che l’enorme complessità del progetto della filosofia prima (che da allora noi siamo abituati a chiamare metafisica) presenta elementi di unificazio➥ Sommario, p. 255 ne, i quali, tuttavia, non portano mai a una vera e propria sistematizzazione.
Una prima conclusione: sapienza = metafisica
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Unità 4 Aristotele
10 Le azioni umane oggetto delle scienze pratiche
Una regolarità relativa
➥ Laboratorio di lettura, p. 258
Volontarietà e deliberazione delle azioni considerate dall’etica
Il fine delle azioni: il conseguimento del bene
L’etica Nell’ordinamento del corpus aristotelico dopo le opere dedicate alle discipline teoretiche si trovano gli scritti consacrati alle scienze pratiche. Si tratta, come abbiamo sottolineato, di quelle discipline che hanno per oggetto realtà che possono essere anche diversamente da come sono, cioè in generale l’ambito soggetto alla scelta e alla decisione. È chiaro dunque che le scienze pratiche, cioè le scienze dell’azione (pràxis), hanno a che fare con l’uomo e con i suoi comportamenti. Aristotele è consapevole che la trattazione delle azioni non potrà pretendere di acquisire l’esattezza propria delle discipline teoretiche (le quali si rivolgono a realtà necessarie, ossia che non possono esser diverse da come sono); tuttavia egli è convinto che anche nell’ambito delle azioni umane siano presenti regolarità e tendenze che un’indagine scientifica è in grado di determinare con una certa precisione. La prima della discipline pratiche è l’etica, ossia la scienza che si occupa del carattere (èthos) e del comportamento degli uomini. All’etica sono dedicati due scritti sicuramente autentici, l’Etica eudemia e l’Etica nicomachea. L’etica studia dunque le azioni degli uomini. Si tratta in particolare delle azioni volontarie e perciò responsabili; ciò che faccio perché costrettovi da altri non appartiene alla sfera della valutazione etica; vi appartiene invece quello che faccio in stato di ubriachezza, perché ho comunque deciso di ubriacarmi. Si tratta inoltre delle azioni che comportano una scelta e una deliberazione; non posso decidere sul corso del Sole, ma se andare al cinema o studiare questa Unità, e solo questo secondo caso è suscettibile di valutazione morale. La prima domanda che l’etica si pone non può che essere la seguente: perché gli uomini agiscono? Qual è il fine delle loro azioni? La risposta è abbastanza semplice. Tutti infatti concordano nel ritenere che il fine di ogni azione è il conseguimento di un bene. Potrà trattarsi di un bene solo apparente (ossia di qualcosa che appare tale all’agente), ma comunque di un bene sempre si tratta. Ora, l’osservazione empirica delle azioni degli uomini induce a ritenere che i beni siano molti, essendo molti i fini delle azioni. Ci saranno beni in se stessi e beni che vengono perseguiti come mezzi per l’ottenimento di altri beni.
Il bene supremo: la felicità
➥ Laboratorio sul lessico Felicità, p. 429
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Il bene maggiore: la felicità
Etica nicomachea, 1,2,1095a14-19
Ma quale è il bene a cui tutto tende? In altri termini: quale è il bene supremo in vista del quale, in ultima analisi, tutte le azioni umane vengono fatte? Anche qui – secondo Aristotele – esiste un sostanziale consenso tra gli uomini: il bene supremo è costituito dalla felicità (eudaimonìa). Gli uomini agiscono allo scopo di essere felici, come l’esperienza mostra in modo evidente (il richiamo alla validità del dato fenomenico costituisce, anche qui, una caratteristica del modo aristotelico di procedere). Riprendendo il discorso dall’inizio, esponiamo, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta mirano a qualche bene, quale è quello a cui noi diciamo che tende la politica, ovvero quale è il più alto di tutti i beni che sono oggetto dell’azione. Ora, sul suo nome vi è pressoché accordo da parte della maggioranza degli uomini: infatti dicono che è la felicità sia il volgo che le persone raffinate, e concepiscono il vivere bene e l’avere successo come identici all’essere felici. 241
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Parte prima L’età antica Stili di vita e concezioni della felicità
➥ Percorso tematico, p. 415
Felicità e virtù: la realizzazione della propria natura
Felicità come sviluppo della capacità intellettiva
Felicità come vita contemplativa
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L’opera propria dell’uomo Etica nicomachea, 1,6,1097b22-1098a4
Felicità come esercizio della ragione
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Il disaccordo – e con esso i problemi – inizia quando si tratta di determinare che cosa sia la felicità. Per alcuni la felicità consiste nel piacere (hedonè); per altri nell’onore (timè); per altri ancora nella conoscenza e nella contemplazione (theorìa). In realtà queste tre opzioni esprimono tre differenti modi non solo di intendere la felicità, ma anche il senso stesso della vita. In effetti in questa contrapposizione è implicito il confronto tra forme di vita (bìoi) differenti: quella edonistica (dedita alla ricerca dei piaceri), quella politica (rivolta all’acquisizione dell’onore e del prestigio sociale) e infine quella teoretica o contemplativa (rivolta essenzialmente alla conoscenza). Per comprendere la scelta di Aristotele in favore di uno di questi stili di vita, occorre ricostruire il percorso che lo porta a quella conclusione. Prima di tutto, bisogna osservare che per lui la felicità consiste nella piena attuazione di una certa capacità; qualcosa è felice quando realizza pienamente la propria natura; in questo senso, è facile comprendere come la felicità sia collegata alla virtù (aretè), che coincide infatti con l’utilizzo pieno e perfetto di qualcosa. Dunque la felicità per l’uomo sarà la condizione completa di sviluppo delle capacità che gli sono proprie. Abbiamo visto che, in quanto vivente, l’uomo possiede un’anima, la quale presiede e organizza tutte le funzioni del suo essere. Abbiamo anche visto che l’anima umana sviluppa tre differenti funzioni: quella vegetativa (comune anche alle piante e agli animali), quella sensitiva e motrice (comune a tutti gli animali) e quella intellettiva (propria dei soli uomini). È dunque inevitabile concludere che la felicità per l’uomo dovrà corrispondere al pieno sviluppo della funzione più alta della sua anima, ossia quella intellettiva. Il senso del ragionamento di Aristotele sembra perciò il seguente: se la felicità è un’attività prolungata che consiste nell’esercizio pieno e perfetto delle funzioni dell’anima e se l’anima attiva differenti funzioni, la felicità suprema sarà quella consistente nell’esercizio della funzione più alta dell’anima. Dunque essa andrà identificata con la vita contemplativa o teoretica, ossia con l’esercizio pieno e perfetto dell’attività suprema dell’anima. Dire che la felicità è il bene supremo risulta certamente una cosa sulla quale si è tutti d’accordo, ma occorre esporre più chiaramente che cosa è. Forse questo potrebbe avvenire se si comprendesse l’attività propria dell’uomo. Infatti come per un suonatore di flauto e per uno scultore e per ogni artigiano e, in generale, per le cose di cui vi è un’opera ed un’azione, è nell’opera che, ad avviso unanime, risiedono il bene e la perfezione, se è vero che vi è un’opera proprio di lui. […] Come dell’occhio e della mano e del piede e, in generale, di ciascuna delle parti del corpo vi è manifestamente un’opera propria, così anche dell’uomo oltre a tutte queste si porrà un’opera propria. Pertanto quale mai potrebbe essere quest’opera? Infatti il vivere è in tutta evidenza una cosa comune anche alle piante, mentre si cerca ciò che è proprio dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita consistente nella nutrizione e nella crescita. Seguirebbe la vita sensitiva, ma è evidente che anch’essa è comune al cavallo ed al bue e ad ogni animale. Resta pertanto una certa attività della parte dell’anima che possiede la ragione. In verità nel passo che abbiamo appena letto Aristotele afferma che la felicità dell’uomo deve consistere nell’esercizio della ragione. Quest’ultima però non presenta un solo aspetto. Infatti è pratica e teoretica, in corrispondenza alla presenza di due elementi distinti: quello deliberativo (connesso alla dimensione pra-
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Unità 4 Aristotele
Diversi aspetti dell’animo, diverse virtù: virtù etiche e dianoetiche
tica) e quello propriamente conoscitivo (legato alla dimensione teoretica). Ma su questo punto si farà ritorno tra breve. Come si può arguire già sulla base di quanto detto finora, la virtù per Aristotele non può essere qualcosa di unico. Infatti esistono differenti aspetti dell’anima, ossia differenti modalità del suo agire; di conseguenza non potranno che esserci differenti virtù, ciascuna legata a un’attività propria dell’anima. In generale, l’anima presenta due funzioni principali, quella razionale e quella sensitiva o appetitiva (in cui si esprimono le nostre tendenze e i nostri desideri); dunque dovranno esserci due tipi di virtù: le prime proprie della funzione razionale e intellettiva – chiamate per questo «virtù dianoetiche» (da diànoia che significa «pensiero razionale») –, le seconde proprie invece della parte appetitiva – e definite «virtù etiche» (da èthos che significa «carattere»). Cominciamo da queste ultime.
Le virtù etiche Aristotele spiega che le virtù etiche costituiscono la piena realizzazione di una funzione dell’anima che non è propriamente razionale, ma che alla ragione può obbedire, seguendone i dettami. La virtù in generale rappresenta una disposizione stabile, ossia una sorta di abito perdurante (dunque non occasionale); la virtù etica costituisce per Aristotele una disposizione stabile capace di scegliere il giusto mezzo (mesòtes) tra due estremi. La scelta tra eccesso Si tratta di una delle concezioni più discusse di Aristotele. Per comprenderla, oce difetto corre pensare al campo dell’esperienza umana come a un continuum caratterizzato dalla presenza del più e del meno (pensiamo alla temperatura). In questo continuo di affezioni e passioni nel quale è immersa l’anima umana (non dimentichiamo che stiamo parlando della funzione appetitiva, cioè dei desideri che ci motivano all’azione), il soggetto deve essere in grado di cogliere il mezzo tra due estremi, l’uno segnato dall’eccesso, l’altro dalla mancanza. Partendo da questi presupposti, Aristotele arriva a considerare ogni virtù etica, ossia ogni virtù della parte appetitiva dell’anima, come un giusto mezzo tra due estremi, l’uno secondo l’eccesso l’altro secondo il difetto. Ecco il suo argomento: Funzione sensitiva e giusto mezzo
T23
Il medio tra eccesso e difetto Etica nicomachea, 2,5,1106a26-b4
Natura situazionale del giusto mezzo
Ora, in tutto ciò che è continuo, vale a dire divisibile, si può prendere il più, il meno e l’uguale; e queste determinazioni possono essere o secondo l’oggetto stesso o in relazione a noi. L’uguale è una sorta di medio tra l’eccesso e il difetto. Chiamo medio della cosa il punto che dista ugualmente da ciascuno dei due estremi, punto che è unico ed identico per tutti; chiamo invece medio rispetto a noi ciò che né eccede né difetta. Questo non è unico né identico per tutti. Ad esempio, se il 10 è troppo e il 2 è poco, si prende il 6 come medio secondo la cosa: infatti supera ed è superato di un’uguale quantità. Questo medio è secondo la proporzione aritmetica. Ma il medio rispetto a noi non va preso così: infatti se per un uomo mangiare 10 mine [antica unità di misura] è troppo e 2 mine è poco, il maestro di ginnastica non gli prescriverà 6 mine; forse infatti anche questa quantità è troppa o poca per la persona che la assorbe. Per Milone [un atleta famoso] infatti è poca, ma per un principiante di esercizi ginnici è troppa. Il giusto mezzo dell’etica aristotelica non è dunque di natura aritmetica, ossia quantificabile una volta per tutte. Si tratta, invece, di un giusto mezzo situaziona243
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le, connesso cioè al soggetto che agisce e alle condizioni concrete della sua azione. Un comportamento che risulta vizioso in un caso (per esempio fuggire di fronte all’avanzata dei nemici) può rivelarsi saggio, e dunque virtuoso, in un altro caso (se assume i caratteri di una ritirata tattica utile a preparare la controffensiva). Le singole virtù, giusto L’esame condotto da Aristotele delle diverse virtù etiche mira a mettere in luce mezzo tra due estremi come ciascuna di esse costituisca il giusto mezzo tra due estremi. Così il coraggio sarà il giusto mezzo tra la temerarietà (eccesso) e la codardia (difetto); la moderazione o temperanza sarà la medietà (situazionale e non aritmetica) tra l’incontinenza, ossia la ricerca sfrenata dei piaceri (eccesso), e l’insensibilità ai piaceri (difetto); la liberalità (o generosità) si collocherà in una posizione mediana tra la prodigalità (eccesso) e l’avarizia (difetto). Leggiamo alcuni esempi:
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La via di mezzo Etica nicomachea, 2,7,1107b4-1108a9
Esempi di virtù come giusto mezzo
Ambito
Difetto
Virtù (giusto mezzo)
Eccesso
Paure e ardimenti
Codardia (difetto di audacia ed eccesso di paura)
Coraggio
Temerarietà (eccesso di audacia)
Piaceri e dolori
Insensibilità (difetto nei piaceri)
Moderazione (temperanza)
Incontinenza (eccesso nei piaceri)
Ricchezze e averi
Avarizia (eccesso nel prendere e difetto nel dare)
Liberalità (generosità)
Prodigalità (eccesso nel dare e difetto nel prendere)
Onore e disonore
Meschinità
Magnanimità (fierezza)
Buffoneria
Ira
Indifferenza
Mitezza
Iracondia
Alimentazione
Anoressia
Dieta equilibrata
Ingordigia (bulimia)
Ruolo di abitudine ed educazione per l’esercizio della virtù
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Nel dominio dei piaceri e dei dolori […] la via di mezzo è la moderazione, l’eccesso l’incontinenza. Uomini che difettano in materia di piaceri non esistono affatto: per questo tali persone non hanno nemmeno ricevuto un nome, ma diciamo che sarebbero degli insensibili. Nel dominio del dare e del ricevere ricchezze la via di mezzo è la liberalità, l’eccesso e il difetto la prodigalità e l’avarizia. È in maniera opposta che in questi vizi si pecca per eccesso e per difetto. Il prodigo infatti eccede nel dare e difetta nel prendere, l’avaro invece eccede nel prendere e difetta nel dare. […] Nel dominio dell’onore e del disonore la via di mezzo è la magnanimità, l’eccesso quello che si può dire una sorta di buffoneria, il difetto la piccineria d’animo. […] Ci sono anche nel dominio dell’ira un eccesso, un difetto e una via di mezzo, ed essendo all’incirca queste disposizioni senza nome, poiché chiamiamo mite chi tiene il giusto mezzo, denomineremo mitezza la medietà. Di coloro che sono agli estremi, chi eccede chiamiamolo iracondo, ed iracondia il vizio corrispondente, chi difetta una sorta di indifferente ed indifferenza il difetto.
Secondo Aristotele – e siamo a un altro aspetto importantissimo della sua etica – a determinare la capacità di scegliere il giusto mezzo concorrono in maniera decisiva l’abitudine e l’educazione. In altre parole, per assumere un abito morale virtuoso è molto importante essere educati fin da piccoli alla virtù; è fondamentale poi che ci si abitui ad assumere determinati comportamenti, anche se, almeno inizialmente, essi non risultano del tutto interiorizzati. In ogni caso, per Aristotele la conoscenza di una certa virtù non garantisce affatto la sua realizza-
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Unità 4 Aristotele
Contro Socrate: conoscenza del bene e suo esercizio non coincidono
Imitazione e ruolo dei modelli
zione: si può sapere che cosa è la liberalità, senza poi riuscire a comportarsi in modo liberale. Non c’è dubbio che in quest’ultima posizione agisca una forte componente antisocratica (e anti-intellettualistica, vedi Unità 2, p. 90 ss.); Aristotele respinge l’idea che la conoscenza del bene sia garanzia di un comportamento virtuoso. Per lui è sempre possibile che il soggetto morale, pur conoscendo il bene, non lo persegua, a causa di una sorta di debolezza di carattere (esperienza, quest’ultima, che probabilmente ciascuno di noi nella vita avrà fatto). Nel contesto generale dell’etica aristotelica gioca un ruolo molto importante il tema dell’imitazione. Se un comportamento virtuoso può essere assunto anche grazie all’abitudine (almeno inizialmente), diventa decisiva la presenza di modelli concreti di comportamento virtuoso, ossia di cittadini che possano venire imitati dai giovani. In questo senso, la prima sfera pubblica in cui viene esercitata una forma di educazione alla virtù è senz’altro rappresentata dalla famiglia. Fondamentale diventa allora la funzione di modello del padre (tieni costantemente presente che per Aristotele il soggetto del discorso etico è un cittadino adulto, maschio e libero).
Le virtù dianoetiche Funzione intellettiva e saggezza
Saggezza e scelta
Saggezza come capacità pratica
Fini dell’azione e valori sociali condivisi
Il discorso fatto finora si riferisce sostanzialmente alle virtù etiche, ossia alle virtù della funzione sensitiva e appetitiva dell’anima. Abbiamo però visto che l’anima umana presenta anche una funzione dianoetica, ossia intellettiva. La virtù corrispondente a questa parte sarà in qualche modo superiore alla virtù etica, come la funzione intellettiva è superiore a quella appetitiva. In realtà, secondo Aristotele gli aspetti dell’anima intellettiva sono due, e due dovranno dunque essere le virtù ad essi corrispondenti: la sapienza (sophìa) e la saggezza (phrònesis). Qui diremo soprattutto della seconda. La saggezza (chiamata anche «prudenza») è la più importante delle virtù pratiche. Infatti, mentre la virtù dianoetica suprema, la sapienza, costituisce una sorta di ragione teoretica (di essa abbiamo parlato nel paragrafo precedente), in quanto si propone di conoscere le cose che non possono essere diversamente da come sono (cioè gli enti necessari), la saggezza costituisce la virtù conoscitiva relativa alle azioni e ai comportamenti umani, ossia alle cose che possono essere in un modo ma anche essere diversamente. In quanto virtù dianoetica, la saggezza sarà una forma di conoscenza; ed è una forma di conoscenza che ha per oggetto l’ambito della deliberazione, ossia quello della scelta. Ma in che cosa consiste precisamente questa suprema virtù pratica? La risposta di Aristotele è problematica. Egli sembra infatti considerare la saggezza come la disposizione permanente che consente a chi la possiede di individuare i mezzi atti al conseguimento di fini già stabiliti. Si tratta insomma di una capacità pratica (perché rivolta all’ambito delle azioni) che, accompagnata a una solida e duratura virtù etica, permette all’individuo di raggiungere la felicità, ossia il fine di ogni comportamento. Il problema – e in qualche modo la stessa natura aporetica di questa concezione – risiede nel fatto che, almeno apparentemente, l’ambito dello stabilimento dei fini viene sottratto alla razionalità pratica. I fini dell’azione sembrano infatti dipendere da un atto di volontà, che a sua volta dipende in larghissima misura dall’insieme delle tendenze e dei valori condivisi dal corpo sociale: da ciò che il padre, la legge, i cittadini insigni, la tradi245
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zione della società cui apparteniamo ci propongono come giusto e condivisibile. La decisione relativa alla bontà di una certa azione non viene prodotta da un ragionamento pratico (il quale si limita invece a stabilire i mezzi adeguati per conseguire un certo fine), ma viene presa da un soggetto morale che tende a conformarsi a ciò che la società reputa essere conveniente o virtuoso. Un’etica conservatrice Muovendo da considerazioni simili a queste, molti studiosi hanno accusato l’etie descrittiva? ca aristotelica di essere sostanzialmente conservatrice e comunque fortemente descrittiva. Conservatrice, perché si limiterebbe ad accettare come validi i valori condivisi da una data comunità (senza sottoporli al vaglio critico della ragione); descrittiva, perché si propone di descrivere come effettivamente si comporta il cittadino (eventualmente quello virtuoso), senza però prescrivere norme in grado di modificare in meglio lo stato delle cose (come ha fatto Platone). Normalità e normatività Si tratta di accuse che hanno una qualche legittimità. L’etica di Aristotele non manca infatti di una certa tendenza al naturalismo (a considerare cioè come naturale, cioè normale, immutabile e legittimo, ciò che esiste per il solo fatto che esiste). Bisogna però osservare che dalla sua idea di normalità (e dunque di naturalità) non è del tutto assente una certa normatività, ossia il tentativo di presentare, tra le varie opzioni in campo, quella che a lui appare effettivamente la migliore e dunque la preferibile (ossia quella che andrebbe messa in pratica nel ➥ Sommario, p. 255 caso non lo fosse al momento).
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L’uomo animale politico
La pòlis e la sua origine
La famiglia, primo nucleo associativo
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La politica Anche nel campo della sua riflessione politica Aristotele dimostra di essere contemporaneamente un erede e un critico di Platone. In ogni caso, il suo pensiero non sarebbe davvero comprensibile senza quello del grande maestro. Da Platone – e in polemica con molti autori vicini alla sofistica – Aristotele riprende l’idea secondo la quale l’uomo è naturalmente portato ad associarsi. La vita politica, ossia la vita comunitaria, non è dunque il frutto di un contratto (magari stipulato per paura di venire sopraffatti dagli altri), ma costituisce, in certa misura, la condizione naturale dell’uomo. Il quale – come recita una celebre definizione di Aristotele – è dunque un animale politico (zòon politikòn). Chi non vive con gli altri uomini – afferma perentoriamente Aristotele – è simile a un dio o a una belva, perché la condizione normale e naturale degli uomini è quella di vivere in forma associata. La forma di associazione politica che Aristotele ha in mente è quella costituita dalla pòlis, ossia dalla città-stato diffusa in Grecia da ormai qualche secolo. Tuttavia, la pòlis rappresenta la forma di associazione umana più complessa, ma non la prima, né in ordine di tempo né dal punto di vista strutturale. Infatti, la città rappresenta l’insieme di più villaggi e questi a loro volta nascono dal raggruppamento di più famiglie. Ciò significa che la famiglia costituisce il nucleo primitivo e fondamentale dell’associazione umana. La famiglia è fondata sul naturale istinto di un uomo e una donna a procreare, garantendo così la prosecuzione della specie. Essa è dunque composta, nella sua forma basilare, da un maschio adulto (che è capofamiglia), da una donna, dai loro figli (i maschi destinati a diventare a loro volta capi-famiglia) e da un numero variabile di schiavi.
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Unità 4 Aristotele Dipendenze e gerarchie, facoltà deliberativa e autorità
Famiglia ed economia
Contro Platone
➥ Percorso tematico, p. 275 Dalla famiglia alla pòlis: partecipazione politica dei cittadini liberi
Cittadini possidenti e capi-famiglia
Schiavi, donne, lavoratori non partecipano al governo
All’interno di questa struttura si vengono a instaurare relazioni di dipendenza naturale, che sono tuttavia diverse a seconda dei casi: l’uomo esercita il comando sulla donna, che è anch’essa libera e in possesso della facoltà deliberativa, ma che manca di autorità; il padre esercita la podestà sui figli, i quali, se maschi, sono destinati a succedergli; infine, il padrone comanda sullo schiavo, che è privo della facoltà deliberativa e che dunque ha interesse a essere comandato da chi la possiede; Aristotele ritiene infatti che gli schiavi siano dotati di ragione solo nella misura in cui questa serve loro per comprendere i comandi del padrone. Si deve osservare, di passaggio, che Aristotele sembra riconoscere alla schiavitù una sorta di naturalità (in realtà questo vale sostanzialmente per i barbari), anche se poi ammette che in alcuni casi gli schiavi sono tali non per natura ma per effetto di episodi determinati (per esempio i prigionieri di guerra). È molto importante tenere presente che per Aristotele la famiglia non è solo un nucleo di carattere affettivo; essa esercita anche una funzione economica fondamentale. L’òikos, ossia la casa comprensiva di tutti i suoi membri (schiavi inclusi) e dei beni materiali (terreni, attrezzi ecc.), costituisce agli occhi di Aristotele la cellula socio-economica fondamentale della città-stato (esiste anche una disciplina che la studia: l’oikonomìa appunto). In questo senso egli non manca di polemizzare anche aspramente con Platone, il quale, come ricorderai, aveva sostenuto l’esigenza di sopprimere la famiglia – sia sul versante affettivo (mogli e figli dovevano essere in comune) che su quello economico (la proprietà privata veniva eliminata) – dalla città perfetta (almeno per le classi dei governanti e dei guerrieri). Aristotele ritiene dannoso che tutto sia in comune, perché, se così fosse, nessuno se ne prenderebbe effettivamente cura. Se la famiglia costituisce la prima forma di aggregazione, lo Stato rappresenta certamente l’associazione umana compiuta e perfetta. La pòlis è per Aristotele una comunità composta da cittadini liberi, i quali esercitano a turno il comando. Tutti sono dunque impegnati nell’attività politica (la partecipazione è diretta e il potere non viene esercitato in forma rappresentativa, ossia attraverso dei rappresentanti democraticamente eletti, ma diretta, ossia dagli stessi cittadini); per poter svolgere attivamente le loro funzioni politiche, i cittadini devono disporre di un minimo di proprietà privata e soprattutto di schiavi in grado di lavorare al loro posto. L’intera riflessione politica di Aristotele sembra rivolgersi a cittadini mediamente abbienti, alieni da rivendicazioni economiche (tipiche di certe forme estreme di democrazia), non invidiosi della ricchezza altrui, e segnati dall’accettazione di un’ideologia sostanzialmente condivisa. Questi cittadini possidenti e capi-famiglia sono in grado, a turno, di governare i loro simili e di venirne governati. Esclusi dall’alternanza di potere sono invece, oltre che gli schiavi e le donne (per la loro carenza di un’autonoma razionalità politica) anche i lavoratori manuali (artigiani, operai, commercianti, contadini non proprietari). Essi sono necessari alla città per soddisfare i suoi bisogni materiali, ma non dovrebbero possedere i diritti politici di cittadinanza perché, secondo Aristotele, i lavori subalterni che essi svolgono non permettono loro di disporre di quel «tempo libero» necessario ad acquisire e a esercitare le virtù politiche (che si riconducono alla saggezza, phrònesis). Non sono cioè assimilabili, per carenza di qualità morale e di accettazione dei valori condivisi, al ceto dei veri «cittadini», dotati di prestigio sociale e della cultura indispensabile per governare. 247
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L’esercizio del potere: le forme costituzionali Il criterio guida: il numero di chi comanda
Monarchia, aristocrazia, politèia
Tirannide, oligarchia, democrazia
Lo schema delle costituzioni
T25
Le sei costituzioni
Politica, 3,7,1279a22-b10
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Al centro della riflessione politica di Aristotele si colloca, come già era accaduto in Platone, la questione dell’esercizio del potere, e in particolare il problema di chi debba comandare. Riprendendo e approfondendo posizioni platoniche, ma abbandonando decisamente l’idea platonica che i veri governanti siano i filosofi (ai quali può spettare il compito dell’analisi critica della politica, ma non il diretto esercizio del potere, perché essi sono dediti alla virtù teoretica e non a quella pratico-politica), Aristotele arriva a sviluppare una teoria delle forme costituzionali destinata a diventare classica. Egli individua un criterio fondamentale che gli serve per distinguere le differenti forme di governo: questo criterio è rappresentato dal numero di chi comanda. Se a governare è uno solo, avremo una monarchia; se a governare sono pochi e i migliori saremo di fronte a un regime di aristocrazia; se, infine, governeranno in molti, ossia la maggioranza dei cittadini, avremo una politèia, cioè una forma di costituzione mista nella quale sono presenti elementi aristocratici ed elementi democratici (che potremmo chiamare «governo ordinato della pòlis»). Queste tre forme di governo – monarchia, aristocrazia e politèia – si realizzano quando chi governa lo fa nel rispetto delle leggi e soprattutto nell’interesse della comunità (e non nel proprio). Viceversa, quando chi detiene il potere lo esercita a proprio vantaggio, si originano forme costituzionali degenerate: la tirannide (se governa uno solo nel proprio esclusivo interesse), l’oligarchia (se i pochi che hanno il potere lo gestiscono nel loro interesse) e la democrazia (se la maggioranza al potere comanda al solo scopo di avvantaggiare se stessa). È chiaro dunque che lo schema delle costituzioni immaginato da Aristotele presenta sei forme disposte in coppie di due (la prima forma di ogni coppia è sana, la seconda degenerata): monarchia-tirannide, aristocrazia-oligarchia, politèiademocrazia (vale la pena segnalare che per Aristotele la kallìpolis platonica rappresentava una forma di oligarchia). Stabilite queste premesse, bisogna indagare direttamente le costituzioni per stabilire quante e quali siano, annoverando prima le costituzioni rette, in quanto le degenerazioni verranno in luce dopo che saranno state definite le altre. Poiché costituzione e governo significano la stessa cosa ed il governo è il potere sovrano nella città, è necessario che il potere sovrano sia esercitato da uno solo, da pochi, o dai più. Quando uno solo, pochi o i più esercitano il potere in vista dell’interesse comune, allora si hanno necessariamente le costituzioni rette; mentre quando l’uno o i pochi o i più esercitano il potere nel loro privato interesse, allora si hanno le deviazioni. […] Abbiamo l’abitudine di chiamare regno quel governo monarchico che si propone il bene pubblico, e aristocratico il governo di pochi […] quando si propone il bene comune; quando la massa regge il governo in vista del bene pubblico, a questa forma di governo si dà il nome di politèia, con cui si designano in comune tutte le costituzioni. […] Le degenerazioni delle precedenti forme di governo sono la tirannide rispetto al regno, l’oligarchia rispetto all’aristocrazia e la democrazia rispetto alla politèia. Infatti la tirannide è il governo monarchico esercitato in favore del monarca, l’oligarchia mira all’interesse dei ricchi, la democrazia a quello dei poveri; ma nessuna di queste forme mira all’utilità comune.
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Unità 4 Aristotele Le costituzioni in Aristotele
Comando
Forma sana
Forma degenerata
Di uno
Monarchia
Tirannide
Di pochi
Aristocrazia
Oligarchia
Di molti
Politèia
Democrazia
Il quadro risulta in realtà leggermente complicato dalla questione della ricchezza. Aristotele osserva infatti che tanto l’oligarchia che la democrazia potrebbero venire definite non solo sulla base del numero di coloro che esercitano il comando, ma anche in riferimento alle condizioni economiche degli stessi; così l’oligarchia sarebbe il governo dei ricchi (anche nel caso – in realtà improbabile – in cui essi fossero la maggioranza), mentre la democrazia corrisponderebbe al governo dei poveri (anche nell’eventualità in cui essi fossero pochi a confronto della maggioranza dei ricchi). All’atto pratico, comunque, l’oligarchia finisce con l’essere il governo dei pochi ricchi esercitato nel loro esclusivo interesse, mentre la democrazia il governo della maggioranza dei poveri che prendono provvedimenti allo scopo di avvantaggiare se stessi. La superiorità Pur riconoscendo che, nel caso esistesse un singolo uomo straordinariamente dodella politèia tato, sarebbe giusto affidargli il potere monarchico, Aristotele sembra decisamente orientato a considerare la politèia, ossia la costituzione mista che governa la pòlis senza gli eccessi della democrazia radicale, come la forma migliore di costituzione. Essa consente meglio delle altre forme costituzionali un costante ricambio tra governati e governanti e per questo è la più adatta alla natura associativa e collaborativa dell’uomo. Optando per questo tipo di costituzione, Aristotele dimostra l’intento generale che anima la sua riflessione politica: quello di prendere le distanze tanto dal radicalismo progettuale della filosofia politica di Platone, quanto dagli eccessi ugualitaristi (soprattutto sul piano economico) di certe forme estreme di demo➥ Sommario, p. 255 crazia. Il criterio della ricchezza
12 Le discipline poietiche
La retorica e la poetica Nella classificazione delle conoscenze, dopo le discipline teoretiche (filosofia seconda, matematica e filosofia prima) e quelle pratiche (etica e politica) trovano posto le discipline poietiche, cioè produttive. Si tratta delle tecniche, ossia di quei saperi che hanno per fine non l’azione, ma la produzione di qualcosa (che deve essere esterno rispetto all’azione di produrlo). Due sono le opere dedicate alle discipline poietiche: la Retorica (in tre libri) e la Poetica (di cui è conservato solo il I libro).
L’arte della persuasione La retorica: persuasione e argomentazione
La retorica si propone di produrre discorsi persuasivi e, per questa ragione, risulta in qualche modo collegata alla politica (che di questi discorsi si serve). La 249
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Parte prima L’età antica
Gli strumenti della retorica: etica e dialettica
Deduzioni e induzioni abbreviate
Le applicazioni
persuasione alla quale la retorica tende si attua ovviamente attraverso la capacità di suscitare emozioni in chi ascolta; ma da essa non è aliena neppure la componente argomentativa, nel senso che la persuasione si attua anche grazie al ricorso ad argomentazioni (in questo senso essa presenta molti punti di contatto con la dialettica). L’effetto di persuadere viene prodotto secondo Aristotele sostanzialmente grazie a tre mezzi: le qualità morali dell’oratore (che dunque vanno costantemente sottolineate); i sentimenti di coloro che ascoltano (che vanno perciò ben conosciuti); e appunto la forza argomentativa del discorso. Per i primi due aspetti, ossia per le qualità morali dell’oratore e i sentimenti dell’uditorio, la retorica dipende largamente dall’etica, che infatti studia i caratteri e le passioni. Per quanto concerne, invece, il terzo aspetto, vale a dire la natura dell’argomentazione, la retorica si serve, esattamente come la dialettica, di procedure sillogistiche (ossia deduttive) e dell’induzione. Tuttavia, dal momento che il destinatario di un’orazione è meno preparato di quello al quale è rivolta un’argomentazione dialettica e che egli non interviene ma si limita ad ascoltare, le procedure retoriche devono risultare più semplici e in qualche modo abbreviate (le deduzioni semplificate sono chiamate «entimemi», mentre le induzioni abbreviate vengono definite «esempi» e consistono nel richiamo a casi particolarmente significativi). Il campo di applicazione della retorica è piuttosto vasto. Esso comprende i discorsi politici (cioè il genere deliberativo), quelli giudiziari (appunto il genere giudiziario) e i biasimi o le lodi pubbliche (ossia il genere epidittico o dimostrativo). Come detto, il sapere retorico esercita un’importante funzione trasversale, sia in quanto dipende da altri saperi, sia perché da altri saperi viene utilizzato.
La poesia tragica Poesia e imitazione
La tragedia, forma perfetta
Un racconto in forma drammatica
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Veniamo ora all’altra opera di argomento poietico. La Poetica è un’opera destinata a influenzare in modo duraturo per molti secoli la riflessione occidentale. Vediamo in estrema sintesi quali sono i punti principali toccati in questo scritto. La poetica è l’arte di produrre poesia. Aristotele riprende da Platone la convinzione che la poesia presenti una componente mimetica, sia cioè fondamentalmente imitazione (mìmesis). In realtà, la componente mimetica appartiene in modo essenziale all’essere umano; Aristotele osserva infatti che fin da fanciulli gli uomini sono portati a imitare (i bambini imitano gli atteggiamenti degli adulti) e che ricavano piacere da questo comportamento (che è, oltretutto, fonte per loro di conoscenza). Tra le forme di poesia mimetica la più perfetta e compiuta è secondo Aristotele la tragedia (senza dubbio la manifestazione sociale e artistica più significativa nell’Atene tra il V e il IV secolo a.C.). Pur accettando da Platone la tesi relativa alla natura mimetica della poesia e della produzione artistica in generale, Aristotele non si sente di condividere la clamorosa condanna inflitta alla poesia dal suo maestro (vedi Unità 3, p. 122 s.). Anzi, come vedremo, il giudizio aristotelico sulla poesia sembra sostanzialmente positivo. Ma procediamo con ordine. Per comprendere la natura e la funzione della poesia, si può tranquillamente limitarsi alla poesia tragica, la quale, come detto, rappresenta la forma più compiuta di poesia. Che cosa è dunque una tragedia? Prima di tutto essa è un racconto (my`thos), ossia un intreccio di eventi. I personaggi che vi appaiono com-
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Unità 4 Aristotele
La poesia, come conoscenza, sta tra filosofia e storia
L’universo del possibile ambito conoscitivo della poesia
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Poesia e storia
Poetica, 9,1451a36-b7
piono azioni serie, e si distinguono dai personaggi della commedia (alla quale era forse dedicato il II libro della Poetica, a noi non pervenuto), le cui azioni sono di poco conto e ridicole. La presentazione dei fatti e dei personaggi è ovviamente drammatica, ossia diretta (i personaggi prendono direttamente la parola), e non narrata come nell’epica. Ma in che cosa consiste l’elemento conoscitivo della poesia in generale e della tragedia in particolare? La risposta fornita da Aristotele a questo interrogativo è la seguente: la poesia si colloca, dal punto di vista del valore conoscitivo, a metà strada tra la filosofia e la ricerca storica (historìa). La filosofia e la ricerca scientifica in generale cercano di conoscere l’universale; la storia invece si interessa ai fatti singoli, ossia a casi particolari (gli eventi che sono effettivamente accaduti); la poesia ha per oggetto fatti singoli, ma nella loro portata universale. In altre parole essa conosce non ciò che è effettivamente accaduto, bensì ciò che potrebbe accadere: sequenze di eventi possibili, e le reazioni di fronte ad essi, che in ogni tempo sono proprie della natura umana. Come può reagire un uomo di fronte a una disgrazia, o a un’offesa, o a un destino imprevisto e crudele? Questo è quanto la tragedia ci insegna, ed essa è quindi utile a comprendere i segreti della natura umana. In questo senso la poesia e la tragedia possiedono una portata più universale rispetto alla conoscenza storica. Da ciò che si è detto è chiaro che il compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimento sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari.
La funzione conoscitiva non è però la sola esercitata dalla poesia. Secondo Aristotele infatti la poesia esercita anche un importante ruolo nel campo delle emozioni. Si tratta però di un ruolo tutt’altro che negativo, come invece credeva Platone. Per quest’ultimo, la poesia tragica andava bandita dalla città ideale anche in ragione del fatto che essa contribuiva a rafforzare le istanze irrazionali dell’anima (lo spettatore finiva con l’identificarsi con i personaggi tragici e pativa insieme a loro). Catarsi e formazione Al contrario, secondo Aristotele, proprio a questo livello si situa un elemento pomorale del cittadino sitivo della poesia tragica. È vero, infatti, che essa suscita nello spettatore passioni molto forti, come la pietà e il terrore; ma proprio nell’atto di suscitarle, essa mette in atto una sorta di processo di purificazione. Questa funzione catartica (kàtharsis significa «purificazione») dipende dal fatto che lo spettatore, assistendo alle sventure dei vari personaggi, prova per loro pietà (perché le considera ingiuste) e terrore (temendo di subirle lui stesso), ma il tutto depurato, per così dire, dall’aspetto egoistico: egli vede cioè che cosa può capitare a un essere umano, da quali terribili passioni può essere dominato, senza esserne lui stesso coinvolto personalmente. Comprendere dall’esterno la violenza delle emozioni può aiutare a controllarle meglio in noi stessi, e dunque la tragedia è utile per la stessa formazione morale del cittadino. L’unità dell’opera L’ultimo importante aspetto della Poetica di Aristotele che merita di essere seRuolo positivo delle emozioni
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Parte prima L’età antica
➥ Sommario, p. 255
13 Un Liceo enciclopedico
Teofrasto l’allievo e la tradizione dossografica
Teofrasto il maestro e l’interesse per il naturalismo
I successori
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gnalato, soprattutto per l’enorme influenza esercitata sulla tradizione drammatica posteriore (fino al Rinascimento), si riferisce al tema dell’unità dell’opera. Un testo drammatico, per risultare effettivamente unitario e organico, deve raccontare un’unica vicenda (principio dell’unità di azione), e deve farlo in modo che tutte le parti siano perfettamente inserite nel tutto: «Come nelle altre pratiche imitative l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così anche è necessario che il racconto, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di un’unica e insieme intera, e che le parti siano così connesse che, trasposta o sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato» (Poetica, 6,1450b30-35). Unica deve essere l’azione, così come unico il luogo e il tempo. A questi criteri si atterranno tutte le rappresentazioni fino al Rinascimento (ultimo esempio della straordinaria influenza esercitata da questo autore).
La scuola di Aristotele: il Peripato Aristotele fonda in Atene, verso il 335, una sua scuola, il Liceo o Peripato, che ha caratteri molto diversi dall’Accademia platonica. In questa, l’insegnamento centrale è dedicato alla dialettica e alle matematiche, e gli interessi teorici non sono mai separati dalle prospettive politiche di riforma della società. Nella scuola aristotelica, invece, l’insegnamento riguarda tutte le parti dell’enciclopedia del sapere tracciata dal maestro, con particolare attenzione per le discipline fisiche e biologiche, oltre che, s’intende, per la filosofia prima e la logica. Aristotele detiene una posizione indiscussa di caposcuola, ma affida le parti specialistiche dell’insegnamento ad allievi in esse preparati. La politica forma in questo quadro uno dei temi di studio teorico, ma è invece abbandonato ogni intento di intervento diretto nelle vicende della città (tra l’altro sia il caposcuola sia i suoi principali allievi sono stranieri in Atene, e non vi godono quindi di diritti politici). Alla guida della scuola viene nominato alla morte di Aristotele il più fedele e importante dei suoi allievi: Teofrasto di Asso (370-286 a.C. ca.). A lui si deve la composizione dei diciotto libri delle Opinioni dei fisici, una raccolta delle dottrine fisiche dei pensatori presocratici, dalla quale dipende una parte consistente della tradizione dossografica antica (vedi Unità 1, p. 32). Sappiamo che l’analisi e la discussione delle opinioni dei predecessori gioca un ruolo strategico nella filosofia aristotelica; si comprende dunque come il grande filosofo abbia potuto affidare al suo allievo più importante il compito di vagliare e raccogliere le opinioni di coloro che lo avevano preceduto nella ricerca della verità. Di Teofrasto sappiamo che ha spiccati interessi naturalistici. Scrive di botanica, biologia, meteorologia, fisica e anche di cosmologia e filosofia prima (compone per esempio un’opera dal titolo, certamente posteriore, di Metafisica, nella quale affronta problemi fisici, cosmologici e metafisici). Celebre è anche un suo scritto di argomento morale, I caratteri, nel quale fornisce una descrizione dei principali tipi umani. Nei due secoli successivi il Peripato non abbandona più l’impronta scientifica che gli ha dato Teofrasto. La figura forse più significativa è quella di Stratone di Lampsaco, successore di Teofrasto alla guida della scuola. Di lui sappiamo che si concentra sulla fisica (viene per questo soprannominato «il fisico»), interpre-
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Unità 4 Aristotele
tando i processi naturali soprattutto come il prodotto dell’azione del caldo e del freddo; sembra poi che Stratone abbia contatti con Alessandria, dove si trova il più importante centro scientifico dell’ellenismo. Peripatetico è anche Aristosseno di Taranto, la cui fama è legata ai suoi interessi musicali. Un’altra figura di rilievo è quella di Eudemo di Rodi, cui si deve, tra l’altro, un’importante storia della matematica. Rinascita e commento Una piena rinascita dell’aristotelismo in tutti i suoi aspetti si ha solo nel I-II secolo d.C. (anche a seguito della grande edizione di Andronico di Rodi), con personaggi come Alessandro di Afrodisia, che inaugura – ma sarebbe forse più corretto dire che sviluppa in modo decisivo – la stagione dei grandi commentatori ➥ Sommario, p. 255 delle opere del corpus aristotelico.
14 Il Filosofo
Ragioni della fortuna: pervasività, capacità persuasiva, apparente obiettività
Morte e rinascita
➥ Sommario, p. 255
Un bilancio Aristotele ha goduto nella tradizione occidentale di un’immensa autorità. Dante Alighieri lo chiamava «il maestro di color che sanno», e nel Medioevo ci si riferiva a lui semplicemente come al «Filosofo», quasi non ce ne fossero stati altri degni di portare questo nome. Non è difficile comprendere le ragioni di questo successo di Aristotele nella posterità. In primo luogo, esse stanno nella sua capacità di controllare tutti i campi del sapere, dalla fisica alla teologia, dall’etica alla poetica, e di offrire per ognuno di essi spiegazioni argomentate, ricche di analisi determinate e di prospettive d’insieme. In secondo luogo, lo stile filosofico di Aristotele è sempre improntato a una sobria ragionevolezza, che lo rende (almeno in apparenza) equilibrato, oggettivo, convincente. In terzo luogo, Aristotele mostra di riferirsi, in ogni campo, alla «natura» delle cose, cioè alla struttura invariante dei fenomeni e dei processi analizzati. In questo modo, egli dà l’impressione che i suoi risultati siano sottratti tanto ai mutamenti del tempo e della storia, quanto all’arbitrarietà dei punti di vista soggettivi. Il pensiero aristotelico è potuto quindi sembrare perennemente valido, perché non muta la natura del mondo che egli ha descritto. Noi oggi sappiamo, certamente, che anche la filosofia di Aristotele è il frutto di una determinata epoca storica, di specifici punti di vista che non possono venire considerati incontrovertibili. E, per uscire dal Medioevo, i filosofi del Rinascimento europeo hanno dovuto operare una vera e propria «rivoluzione» antiaristotelica. Ma ancora oggi molti filosofi (soprattutto nel campo dell’etica e della politica) si considerano «neoaristotelici», cioè continuano a condividere le idee fondamentali di Aristotele. E la sua logica è certamente una conquista altrettanto duratura quanto, per esempio, la geometria di Euclide.
Suggerimenti bibliografici Una esposizione esauriente, rigorosa e autorevole che spazia a trecentosessanta gradi è offerta in E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 20043. Agilissimo, chiaro, talvolta quasi avvincente è J. Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino 2002. Per chi volesse iniziare ad affrontare la Metafisica è sintetico e preciso P.L. Donini, La Metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 20002.
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Parte prima L’età antica Sulla politica, conciso e autorevole è W. Kullmann, Il pensiero politico di Aristotele, Guerini e Associati, Milano 1992. I brani antologizzati sono tratti da: Aristotele, Dell’interpretazione; Analitici, in P.L. Donini, La filosofia di Aristotele, Loescher, Torino 1982. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2002. Aristotele, Categorie, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1991. Aristotele, Fisica, libri 1-2, a cura di F. Franco Repellini, Bruno Mondadori, Milano 1996. Aristotele, Sul cielo, in F. Franco Repellini, Cosmologie greche, Loescher, Torino 1980. Aristotele, Le parti degli animali, in Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, UTET, Torino 1971. Aristotele, Etica nicomachea, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1994. Aristotele, Politica, a cura di C.A. Viano, Rizzoli, Milano 2002. Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, Rizzoli, Milano 1994.
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Unità 4 Aristotele
Sommario 1. IL
PRIMO PROFESSORE
Con Aristotele la filosofia assume i contorni di un imponente edificio teorico caratterizzato dalla sistematicità dell’ordine dei saperi. 2. LE
RAGIONI DI
ARISTOTELE
Rispetto a Platone, Aristotele riavvicina la filosofia all’esperienza comune e affida alle scienze il compito di spiegare l’ordine del mondo. 3. L’EDIFICIO
DEL SAPERE
Le scienze, relativamente autonome, sono tripartite in discipline teoretiche, pratiche e poietiche (delle arti). 4. LA
LOGICA
La logica, strumento (òrganon) delle scienze, concerne anzitutto il linguaggio: Aristotele analizza le proposizioni, dividendole in dichiarative (portatrici di un valore di verità) e non, e i rapporti di opposizione inerenti quantità e qualità. Segue la teoria del sillogismo, concernente l’andamento deduttivo dei discorsi e la dimostrazione. I principi scientifici, non deducibili, vengono provati per via indiretta o conosciuti per induzione. 5. LE
CATEGORIE E IL PRIMATO DELLA SOSTANZA
L’analisi del rapporto di predicazione, e l’individuazione dei quattro predicabili (definizione, genere, proprietà, accidente), conduce Aristotele a individuare le dieci categorie e a isolare tra esse la sostanza, realtà singola, determinata, soggetto o sostrato di ogni predicazione, dunque differente dalle sostanze seconde (specie e generi), di essa predicabili. 6. IL
DIVENIRE DEL MONDO: PRINCIPI E CAUSE
I principi del mutamento, propri degli enti naturali, sono la privazione, la forma e il sostrato o sostanza, ossia ciò che permane nel passaggio dalla privazione alla forma, e che in un certo senso è anche la materia del divenire. Il mutamento è spiegato altresì tramite le nozioni di potenza e atto. Infine, il divenire ha quattro cause: materiale, formale, motrice o efficiente e finale; in ciò emerge il finalismo aristotelico: agli enti naturali, al pari dei manufatti, viene attribuito un fine. 7. LA STRUTTURA DELL’UNIVERSO: COSMOLOGIA E TEOLOGIA
Attraverso la teoria del movimento, in particolare rettilineo e circolare, Aristotele passa dalla fisica alla cosmologia; ne emerge un universo bipartito tra un mondo sublunare e un mondo astrale, composto dall’etere, e nell’insieme pieno (non esiste il vuoto), finito, stratificato ed eterno. Per spiegare il movimento degli astri, Aristotele elabora la teoria del primo motore immobile: il pensiero (nous) di pensiero, l’entità divina garante dell’ordine del cosmo.
8. I
VIVENTI E L’ANIMA: BIOLOGIA E PSICOLOGIA
Nella biologia, concernente tutti gli esseri viventi, emerge il finalismo aristotelico, sia nella priorità attribuita alla funzione rispetto agli organi, sia nel postulare la sopravvivenza di ogni singola specie (considerata eterna) come fine. L’anima, forma di ogni essere vivente, viene studiata a fondo: dalla sua tripartizione all’analisi della percezione e dell’intelletto (nous). 9. LA
FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA
La filosofia prima o metafisica o sapienza è il sapere universale concernente gli enti superiori. Essa studia l’essere in quanto essere. Il senso primario in cui si dice l’essere è la sostanza, ovvero la forma: essa è infatti la causa dell’essere; forma individuale e atto della materia. Tra le sostanze, sono superiori i motori immobili (divini, eterni, incorruttibili); la filosofia prima diviene così una scienza teologica, concernente sostanze non fisiche ma «metafisiche». 10. L’ETICA
L’etica studia le azioni umane volontarie e deliberate; esse sono volte a raggiungere il bene supremo, la felicità. Le virtù etiche, inerenti alla parte sensitiva, si raggiungono grazie al giusto mezzo, e si formano tramite abitudine ed educazione. Le virtù dianoetiche, inerenti alle funzioni intellettive, sono sapienza e saggezza; soprattutto rispetto a quest’ultima, l’etica aristotelica si limita a descrivere i comportamenti. 11. LA
POLITICA
L’uomo è un animale politico, vive cioè per natura in comunità, della quale la pòlis è la forma compiuta; fondata sul nucleo familiare, allargato agli schiavi, e gerarchicamente ordinato sotto il comando del maschio adulto, libero e possidente. Contro Platone, Aristotele difende la proprietà privata e, individuate sei forme costituzionali, opta per la politèia che permette il ricambio al governo e tutela l’interesse collettivo. 12. LA
RETORICA E LA POETICA
Delle dottrine poietiche, la retorica pertiene alla produzione di discorsi persuasivi, la poetica tratta della poesia. Il racconto tragico, concernente non la storia ma l’ambito del possibile, grazie all’induzione della catarsi, ha un effetto moralmente positivo. 13. LA
SCUOLA DI
ARISTOTELE:
IL
PERIPATO
Il Liceo o Peripato si caratterizza per la sua impostazione enciclopedica; ad Aristotele succede Teofrasto. 14. UN
BILANCIO
Se molte dottrine di Aristotele sono state demolite, altre godono ancora oggi di ottima salute. 255
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Parte prima L’età antica
Parole chiave Anima. L’atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza; in quanto forma, essa è il principio di organizzazione del corpo ed è da esso inseparabile. È divisa in tre funzioni – vegetativa (piante), sensitiva (animali), intellettiva (uomo) – disposte gerarchicamente. Cause / Finalismo. Il divenire è spiegato da quattro cause: 1) materiale, che concerne la materia dell’ente; 2) formale, il modo in cui la materia è disposta; 3) motrice o efficiente, ciò che imprime il movimento; 4) finale, il fine per cui avviene il mutamento. Il finalismo (o teleologismo, da tèlos) di tale concezione è esplicito nello stretto parallelismo tra arte e natura. Esso emerge anche nelle dottrine biologiche. Dimostrazione. La dimostrazione (apòdeixis) è un sillogismo scientifico: le premesse devono essere o vere, prime, universali e necessarie, o a queste riconducibili; in questo caso si ha vera e propria scienza. Essere. L’essere è il predicato più universale e in quanto tale («l’essere in quanto essere») è oggetto di studio della metafisica. Dei molti sensi in cui si dice l’essere, quello primario è la sostanza, ovvero la forma. Giusto mezzo. La virtù etica è una disposizione stabile capace di scegliere il giusto mezzo (mesòtes) tra i due estremi dell’eccesso e del difetto. Induzione. L’induzione (epagoghè) è così articolata: dalla singola sensazione (àisthesis), attraverso il ricordo, si genera l’esperienza (empeirìa) che l’intelletto (nous) universalizza. In tal modo si giunge ai principi comuni a più scienze o propri delle singole scienze, ovvero alle premesse prime. Metafisica / Sapienza / Filosofia prima. La parola «metafisica» deriva dal nome dato da Andronico alla raccolta dei libri che venivano «dopo quelli di fisica» («ta metà ta physikà»). Aristotele chiama «sapienza» (sophìa, che è anche una virtù dianoetica) o «filosofia prima» (la «filosofia seconda» è la fisica), il sapere universale concernente gli enti superiori; essa si delinea come scienza teologica. Mondo sublunare / Mondo astrale / Etere. L’universo aristotelico è bipartito: al centro vi è il mondo terrestre (o sublunare), composto dai quattro elementi tradizionali, e segnato da movimenti rettilinei; al di sopra si staglia il mondo astrale, contraddistinto da movimenti circolari e composto dal quinto elemento, l’etere, sì che gli astri risultano incorruttibili, eterni e divini. Mutamento / Privazione / Forma / Materia. Il mutamento (kìnesis), cui si dedica la fisica, è incentrato su 256
tre principi, identici per analogia: 1) la privazione (stèresis) è lo stadio iniziale, in cui la forma è ancora assente; 2) la forma (èidos) è la condizione che l’ente assume alla fine del processo; 3) il sostrato o sostanza è ciò che permane, in un certo senso la materia (hy`le) del divenire. Nous. Il nous indica sia il pensiero e l’intelletto, attivo e passivo, che contraddistingue l’essere umano, sia l’Intelletto divino, che coincide con il primo motore immobile. Potenza / Atto. Le nozioni di potenza (dy`namis) e atto (enèrgheia o entelècheia) si riferiscono al mutamento: nella materia è presente in potenza la forma finale che essa assumerà al termine del processo. Predicazione / Categorie. Il rapporto di predicazione (kategorìa) concerne quello tra soggetto e predicato; un predicato può appartenere a un soggetto come sua definizione, genere, proprietà e accidente. Questi quattro casi cadono necessariamente in una delle dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, giacere, avere, agire, patire. Primo motore immobile. Esso è forma pura, quindi priva di materia, atto puro, eterno, divino, pensiero (nous) di pensiero; è la causa prima del movimento degli astri, che muove pur restando immobile. Saggezza / Felicità. La virtù dianoetica della saggezza (phrònesis) consiste nell’individuare i mezzi atti a raggiungere la felicità (eudaimonìa). Vi sono tre forme di felicità: quella propria della vita edonistica, quella propria della vita politica, e quella propria della vita contemplativa, consistente nell’esercizio della funzione intellettiva. Sillogismo. Il sillogismo (sylloghismòs) è composto da tre proposizioni: due premesse, con un termine comune detto «medio», e una conclusione, nella quale compaiono i due «estremi» delle premesse. La conclusione è la deduzione necessaria di quanto è implicito nelle premesse. Sostanza / Sostrato. Rispetto alla predicazione, la sostanza (ousìa) è sempre soggetto, non può cioè essere predicata, e niente può essere predicato senza che vi sia una sostanza che funga da soggetto; essa è perciò detta anche sostrato (hypokèimenon) della predicazione. La sostanza prima è sempre una realtà individuale, singolare, determinata; le sostanze seconde (specie e generi) possono invece essere predicate della sostanza prima. Nell’ambito metafisico e teologico, sostanza è la forma e sostanze prime sono i motori immobili.
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Unità 4 Aristotele
Questionario IL
PRIMO PROFESSORE
1
LE
Qual è la caratteristica fondamentale dell’edificio teorico aristotelico? (max 4 righe)
RAGIONI DI
2
LA
Aristotele analizza il rapporto tra le proposizioni (asserzioni) servendosi della teoria del sillogismo. Indica da quali parti è costituito e definisci il particolare tipo di sillogismo rappresentato dalla dimostrazione. (max 10 righe) Quale delle dieci categorie all’interno delle quali Aristotele definisce i rapporti di predicazione tra il soggetto e il suo predicato ha una posizione prioritaria rispetto alle altre e perché? (max 10 righe) Quale coppia di nozioni usa Aristotele per spiegare i processi del divenire e quale principio ne costituisce il fondamento? (max 10 righe) Quali sono le differenze tra mondo sublunare e mondo astrale e quale ruolo riveste nel mondo astrale il primo motore immobile? (max 15 righe)
VIVENTI E L’ANIMA: BIOLOGIA E PSICOLOGIA
8
LA
LA
13
UN
Spiega il rapporto che intercorre nella biologia aristotelica tra funzioni e organi e perché si può parlare di finalismo. (max 10 righe)
FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA
9
Perché la sapienza, o metafisica, o filosofia prima può essere considerata una scienza teologica? Quali oggetti concerne? (max 10 righe)
Quali sono le funzioni che Aristotele attribuisce alla poesia e perché essa ha un effetto moralmente positivo sull’individuo? (max 6 righe)
SCUOLA DI
ARISTOTELE:
IL
PERIPATO
Che impostazione ha il Liceo e chi ne prende la guida dopo Aristotele? (max 5 righe)
BILANCIO
14
Quali sono le ragioni del successo di Aristotele? (max 3 righe)
Lavoriamo sui testi 15
In che senso è possibile affermare che il filo rosso che lega i brani T1, T2, T3, T4 e T5 è l’analisi del linguaggio? (max 15 righe)
16
Qual è il rapporto tra sostanze prime e sostanze seconde così come si evince da T7? (max 5 righe)
17
Quali sono le cose per natura secondo T9 e qual è il principio che le definisce? (max 5 righe)
18
Aristotele paragona la natura all’arte al fine di dimostrarne un orientamento teleologico. Come viene espresso questo rapporto in T11? (max 6 righe)
19
La causa del movimento del cielo è il primo motore immobile. Spiega il ragionamento attraverso il quale Aristotele fa questa affermazione in T14. (max 10 righe)
20
Per quali ragioni la felicità rappresenta il bene supremo per l’uomo in T21 e T22 e che relazione essa ha con la teoria del giusto mezzo esposta in T23 e in T24? (max 15 righe)
STRUTTURA DELL’UNIVERSO: COSMOLOGIA E TEOLOGIA
7
I
12
Qual è la classificazione delle scienze aristoteliche, secondo la presentazione di Andronico, e quali sono gli ambiti che ognuna di esse concerne? (max 10 righe)
Analizza carattere, funzioni e scopo della famiglia nella teoria politica di Aristotele, sottolineando le differenze con la concezione di Platone. (max 10 righe)
RETORICA E LA POETICA
DIVENIRE DEL MONDO: PRINCIPI E CAUSE
6
LA
LA
DEL SAPERE
CATEGORIE E IL PRIMATO DELLA SOSTANZA
5
IL
11
LOGICA
4
LE
POLITICA
ARISTOTELE
Qual è la posizione di Aristotele rispetto alla teoria delle idee platonica? (max 10 righe)
L’EDIFICIO 3
LA
L’ETICA 10
In che senso si può dire che il giusto mezzo dell’etica aristotelica è di natura situazionale e non aritmetica? (max 6 righe) www.edusophia .it 257
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Parte prima L’età antica
Laboratorio di lettura L’Etica nicomachea (1) Per Aristotele la felicità (eudaimonìa) è un’attività secondo virtù; ciò significa che essa rappresenta la piena realizzazione della funzione propria di colui che agisce, dal momento che la virtù (aretè) di una cosa è esattamente costituita dalla realizzazione di ciò che è proprio e peculiare di quella determinata cosa. Ad agire è naturalmente l’anima; sappiamo però che l’anima presenta diverse funzioni e dunque diverse attività. La felicità sarà, dunque, la piena realizzazione dell’attività della funzione più alta dell’anima umana. Per Aristotele questa funzione è costituita dall’intelletto (nous); il che significa che la felicità sarà la piena realizzazione della funzione intellettiva dell’anima, ossia la contemplazione (theorìa). In effetti, secondo Aristotele, la funzione intellettiva dell’anima presenta almeno due aspetti: quello pratico, rivolto alle cose che possono essere anche diversamente da come sono (ossia le azioni), e quello teoretico o contemplativo, indirizzato invece alla conoscenza delle cose che non possono essere diversamente da come sono, ossia gli enti necessari. Si avranno allora due virtù dianoetiche, cioè due virtù della parte pensante e razionale dell’anima (appunto la diànoia). La prima, quella relativa alle azioni, è la saggezza (phrònesis); la seconda, cioè la virtù dianoetica suprema, è la sapienza (sophìa), la quale si esercita per mezzo della conoscenza, cioè della contemplazione, delle realtà immutabili. Si tratta, come ormai è evidente, del tipo di attività praticata esattamente dal filosofo e dallo scienziato. Per Aristotele, dunque, la felicità perfetta consiste nella conoscenza contemplativa, cioè nella sapienza. Essa possiede delle caratteristiche ben definite. È un’attività autosufficiente, ossia non bisognosa di altro, e in questo senso indipendente. Per esercitare le altre virtù, è necessario possedere una certa dotazione di beni (per esempio il denaro per praticare la generosità, la forza per praticare il coraggio); invece la conoscenza teoretica necessita in misura minima di beni esterni. Essa inoltre non viene praticata per gli eventuali vantaggi che può portare, ma solo per se stessa, ossia per il piacere che essa produce in chi la pratica. Infine, l’attività teoretica è direttamente collegata alla condizione della scholè, ossia alla mancanza di impegni e di oneri, che sono invece tipici di chi si dedica alla vita degli affari o a quella politica. Per tutte queste ragioni Aristotele può concludere che l’uomo, quando esercita l’attività contemplativa (acquisendo una condizione di perfetta felicità), è in un certo senso simile a un dio. In effetti, egli si allontana in qualche misura dalla condizione umana (caratterizzata per esempio dalla presenza della funzione appetitiva e desiderante dell’anima) per realizzare un tipo di vita simile a quella degli dèi: una vita affrancata dalla dimensione della prassi e della deliberazione (tipiche degli uomini), e scandita dalla pura contemplazione delle realtà eterne e immutabili.
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Unità 4 Aristotele
Aristotele: la superiorità della vita contemplativa Tesi: la felicità è l’attività secondo la virtù più alta
Primo argomento: l’intelletto è la facoltà più alta e il suo esercizio è l’attività più alta e la più continua Secondo argomento: l’esercizio dell’intelletto è anche l’attività più piacevole
Commento e interpretazione
Se la felicità è attività secondo virtù, è logico che sia secondo la virtù più alta; e questa sarà la virtù di ciò che vi è di migliore. Tanto dunque che questo sia l’intelletto, o qualcos’altro – qualcosa che, ad avviso di tutti, per natura comanda e dirige e ha conoscenza delle realtà belle e divine: o perché è in se stessa divina, o perché è la cosa più divina che è in noi –, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria costituirà la felicità perfetta. Ora, che questa attività sia un’attività contemplativa è stato detto. Questa conclusione si accorda sia con i risultati precedentemente guadagnati sia con la verità. [A] Infatti questa attività è la più alta: giacché anche l’intelletto, di ciò che è in noi, è quel che vi è di più alto e, delle cose che sono oggetto di conoscenza, le più alte sono proprio quelle intorno alle quali verte l’intelletto. In secondo luogo questa attività è la più continua: infatti possiamo contemplare con più continuità che compiere una qualsiasi azione. [B] Inoltre noi riteniamo che il piacere deve essere mescolato con la felicità: ora, fra tutte le attività secondo virtù, la più piacevole è, per consenso unanime, quella della sapienza. Tutti riconoscono che la filosofia possiede piaceri meravigliosi per purezza e stabilità, ed è logico che trascorrere il tempo sia più piacevole per chi conosce che per chi ricerca. [C]
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A. Viene qui presupposta la concezione relativa alle differenti funzioni dell’anima (vedi p. 231 ss.): quella riproduttiva e vegetativa, quella sensitiva e motrice, e quella razionale. Se la felicità rappresenta la piena realizzazione di una funzione propria dell’anima e se le funzioni sono molteplici, essa non potrà che identificarsi con l’attuazione della funzione superiore. Ora, che quest’ultima vada individuata nella conoscenza intellettuale, ossia nella contemplazione, viene riconosciuto, secondo Aristotele, pressoché da tutti (e in primo luogo proprio da Platone). Dunque, se le opinioni diffuse hanno buone possibilità di cogliere la verità (almeno in larga misura), bisognerà concludere che la felicità si identifica con l’attuazione della funzione conoscitiva dell’anima, ossia con la contemplazione. B. La contemplazione è la più alta delle attività dell’uomo, perché costituisce la realizzazione della funzione intellettuale, che rappresenta la funzione più alta dell’anima umana. Aristotele si dimostra sotto questo aspetto del tutto fedele a Platone, per il quale l’intelletto (nous) e l’intellezione (nòesis) si collocavano al vertice delle forme conoscitive descritte nell’immagine della linea (vedi Unità 3, p. 139 s.). La contemplazione è anche l’attività più continua, perché è quella che risulta per così dire meno intralciata. Infatti, secondo Aristotele, la fatica cui dà luogo la realizzazione di una certa attività dipende dalla necessità di passare dalla potenza all’atto; ma nel caso della contemplazione, non essendoci materia, non ci sarà neppure potenza (vedi p. 219 ss. e p. 233 ss.): dunque l’attività contemplativa è atto puro e può risultare continua e incessante. Inoltre, essa è causa di godimento e felicità per chi la pratica e, quando si compie un’azione che reca felicità, non ci si affatica. C. Secondo Aristotele la felicità non può essere disgiunta da un certo piacere (hedonè); in questo senso egli si fa portavoce di un’etica senza dubbio meno radicale e più realistica di quella propugnata da certe tendenze socratiche e poi ripresa in epoca ellenistica dagli stoici, per i quali la felicità del saggio risulterà del tutto indipendente dal piacere. Egli aggiunge poi che è più felice chi conosce rispetto a chi ricerca. Con ciò intende sottolineare che l’aspetto veramente decisivo non è tanto costituito dalla ricerca della verità quanto dalla sua definitiva acquisizione: la ricerca – ogni ricerca – acquista significato solo nella misura in cui è in grado di raggiungere la sua meta, ossia la conoscenza della
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Quarto argomento: la sapienza è amata per se stessa Quinto argomento: le attività pratiche negano il tempo libero
Prima conclusione: la felicità coincide con l’attività dell’intelletto; una vita secondo l’intelletto, che è divino, è essa stessa divina
Ancora: quella che viene chiamata «autosufficienza» riguarderà soprattutto l’attività contemplativa: infatti sia il sapiente che il giusto che gli altri uomini hanno bisogno delle cose necessarie per vivere; ma, fra coloro che sono sufficientemente provvisti di tali cose, il giusto ha bisogno di persone verso le quali e con le quali agirà con giustizia, e similmente anche il saggio e il valoroso e ciascuno degli altri uomini virtuosi; il sapiente, invece, anche restando solo con se stesso, è perfettamente capace di contemplare; e ne è più capace quanto più è sapiente. Senza dubbio è meglio se ha dei collaboratori, ma in ogni caso è pienamente bastevole a se stesso. [D] Inoltre tutti convengono che essa sola è amata per se stessa; da essa infatti non deriva nulla al di fuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo, al di fuori dell’azione, un vantaggio più o meno grande. [E] Inoltre è comunemente ammesso che la felicità risieda nella vita lontana dagli affari: infatti ci applichiamo intensamente a delle occupazioni allo scopo di avere poi tempo libero dagli affari, e facciamo guerra per trascorrere poi i nostri giorni in pace. Ora, l’attività delle virtù pratiche si esplica nelle faccende politiche o in quelle militari; ma ad avviso di tutti, le azioni che concernono queste faccende rappresentano la negazione del tempo libero da occupazioni. [F] […] Pertanto tra le azioni conformi alle virtù quelle politiche e militari eccellono per bellezza e importanza, ma esse sono la negazione del tempo libero da occupazioni, e tendono a un fine, e non sono desiderabili per se stesse. Se invece l’attività dell’intelletto, la quale è attività contemplativa, eccelle – ad avviso di tutti – per la serietà e non tende a nessun fine all’infuori di sé medesima, e ha il proprio piacere […]; se infine l’autosufficienza, il tempo libero da occupazioni, la mancanza di fatiche (per quel che è possibile all’uomo), e tutti gli altri caratteri che si attribuiscono all’uomo
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verità. In altre parole, il momento negativo dell’aporìa, ossia del dubbio e dell’investigazione, risulta chiaramente finalizzato a quello positivo dell’euporìa, vale a dire del raggiungimento del risultato. D. Un’altra caratteristica fondamentale della contemplazione, sulla quale Aristotele farà ritorno più avanti (vedi la nota H), è costituita dalla sua autosufficienza. Mentre l’esercizio delle altre virtù necessita costitutivamente della disponibilità di elementi esterni (la giustizia, per esempio, richiede che ci sia qualcuno verso il quale indirizzare gli atti giusti), l’esercizio della teoria ha solo bisogno di quel minimo di beni materiali che consentano al sapiente di sopravvivere. D’altra parte, nel sottolineare l’importanza che l’attività contemplativa si realizzi anche con l’apporto di collaboratori, Aristotele dimostra chiaramente di pensare al tipo di attività che si svolge all’interno di una scuola (l’Accademia dove si è formato o il Liceo da lui stesso fondato), dove la ricerca si compie in modo collaborativo attraverso il concorso di un gruppo di filosofi e scienziati. E. Già nella Metafisica, presentando i caratteri della sapienza (vedi p. 233 ss.), Aristotele aveva osservato che essa si distingue in qualche modo dalle altre discipline per la sua inutilità. A tal proposito osservava che «tutte le altre sono più necessarie, ma nessuna è superiore». In effetti per Aristotele la speculazione vera e propria, ossia la teoria pura, è inutile; tuttavia, proprio questo aspetto le garantisce una sorta di superiorità, in quanto conferma la sua natura auto-orientata, ossia il fatto che essa non ha il fine fuori di sé (nell’utilità dei risultati o nel guadagno che da essa si può ricavare), bensì in se stessa, vale a dire nel piacere che reca in chi la pratica. F. In questo passo emerge molto chiaramente un aspetto tipico di una parte della cultura
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Unità 4 Aristotele
Sesto argomento: la vita secondo l’intelletto è ciò che è più peculiare all’uomo Settimo argomento: chi si dedica all’attività contemplativa non ha bisogno dell’aggiunta di beni esteriori
beato sono, in tutta evidenza, i caratteri che si realizzano secondo questa attività: ebbene, quest’ultima sarà la felicità perfetta dell’uomo, quando si estende per la lunghezza completa della vita. Infatti nessuna delle caratteristiche della felicità è incompleta. Però una vita siffatta sarà superiore alla condizione dell’uomo; infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in lui è presente qualcosa di divino. […] Di conseguenza se l’intelletto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita dell’uomo. Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di dedicarsi, essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell’individuo, è la più alta. Seppure infatti essa è piccola per la massa, per potenza e dignità è di gran lunga superiore a tutte le cose. E si converrà anche che ciascun uomo è questa cosa, se è vero che essa è l’elemento principale e migliore. Sarebbe dunque un assurdo se l’uomo non si scegliesse la vita che ci è propria, ma quella di un altro essere. [G] Ciò che si è detto sopra si adatterà anche qui: infatti ciò che è proprio a ciascuno è per natura ciò che per ciascuno vi è di più alto e di più piacevole. E per l’uomo, dunque, sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che questo elemento è soprattutto l’uomo. Di conseguenza questa vita è anche la più felice. […] Si converrà anche che la virtù dell’intelletto in piccola misura ha bisogno dell’aggiunta di beni esteriori, o ne ha bisogno in misura minore rispetto alla virtù etica. Infatti tutte e due hanno bisogno delle cose necessarie per vivere – e ammettiamo pure, in egual misura (anche se chi vive in società deve curarsi maggiormente del corpo e di cose simili). Si avrà in-
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antica. Si tratta di privilegiare la condizione di scholè, ossia di affrancamento dai doveri e dagli affari. Aristotele arriva a sostenere che l’attività pratica risulta finalizzata alla sua stessa assenza: si fanno affari per poterne poi fare a meno, si fanno le guerre con l’obiettivo di instaurare la pace. Viceversa la teoria viene perseguita per se stessa, e non per la sua negazione. Del resto la stessa attività politica non ha per proprio fine se stessa; Aristotele spiega infatti che il suo fine consiste nell’assicurare la buona amministrazione della città e in ciò risiede il suo compimento. Viceversa, l’attività teoretica si compie nel momento stesso in cui viene praticata, e naturalmente nei risultati conoscitivi che questa pratica riesce a ottenere. G. In questo passo, e soprattutto nell’invito a immortalarsi, a rendersi cioè immortali (athanatìzo), è presente l’eco di posizioni platoniche. Prima di tutto Aristotele considera l’intelletto qualcosa di divino; e Platone, nel Timeo, aveva affermato che l’intelletto (nous) è per noi come un demone, che ci rende «piante celesti non terrestri». Nel momento in cui l’uomo si serve della funzione suprema della sua anima, egli in un certo senso cessa di essere uomo e si trasforma in un dio, comportandosi come quest’ultimo. In effetti, l’utilizzo della funzione intellettuale indipendentemente dagli altri elementi psichici, ossia gli aspetti pulsanti e desideranti dell’anima, rende l’uomo simile alla divinità, che è, per Aristotele, puro intelletto. D’altra parte, richiamando il motivo della natura in qualche modo divina dell’attività del filosofo, Aristotele si pone in linea di continuità con la grande tradizione del pensiero sacerdotale arcaico, che aveva avuto in Pitagora, Empedocle, Parmenide e in certa misura anche in Platone i suoi massimi rappresentanti (vedi Unità 1). Il filosofo teoretico di Aristotele finisce dunque per porsi come erede della condizio-
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vece molta differenza per quel che concerne la loro attività. Infatti l’uomo liberale avrà bisogno di ricchezza per compiere le sue opere di liberalità, ed anche il giusto per le restituzioni (infatti le volontà non sono manifeste ed anche coloro che non sono giusti fingono di voler agire con giustizia). E per parte sua il coraggioso avrà bisogno della forza, se compie alcuna delle azioni conformi alla sua virtù, ed il moderato avrà bisogno della possibilità d’agire liberamente: perché come sarà chiaro che si tratta o di un uomo dotato di questa virtù o di uno di quelli che possiedono le altre? Si discute se il fattore determinante della virtù siano la scelta deliberata o le azioni e si ritiene che essa consista in tutte e due. Ora, la perfezione si avrà evidentemente in entrambe, ma per compiere gli atti occorrono molte cose, e quanto più essi sono grandi e belli, cose in numero maggiore. All’opposto per chi contempla non vi è bisogno di nessuna di tali cose, ma, per così dire, esse gli sono addirittura di impedimento per la contemplazione. Ma, in quanto è uomo e vive con la massa della gente, sceglie di compiere ciò che è conforme alla virtù: quindi avrà bisogno delle cose di cui si è detto per vivere da uomo. [H] Ottavo argomento: Inoltre, che la felicità perfetta sia una certa attività contemplativa apparirà l’attività contemplativa chiaro anche da queste considerazioni. Noi immaginiamo che soprattutto è anche l’attività degli dèi gli dèi siano beati e felici. Ma quali azioni bisogna attribuire loro? Forse le azioni giuste? Ma, non apparirebbero ridicoli se stipulassero contratti e restituissero depositi? Saranno allora le azioni coraggiose: affrontare i pericoli esponendosi al rischio perché è bello? O le azioni liberali? Ma a chi elargiscono? E sarebbe davvero assurdo se essi avessero una moneta o
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ne sovrumana rivendicata da figure come Pitagora. Certo, il contesto in cui tutto ciò trova collocazione è più sobrio e accettabile ai nostri occhi; ma è indubbio che, se in Aristotele permane una qualche traccia della eredità della grande tradizione sapienziale, questa traccia è rinvenibile nel suo elogio della vita teoretica. H. Aristotele descrive con chiarezza i caratteri della vita filosofica, ossia della vita contemplativa, rispetto agli altri generi di vita. Egli precisa che essa richiede la presenza di un minimo di beni esterni (per esempio la salute e un certo benessere economico); tuttavia in misura minore rispetto alle altre attività: un politico, per esempio, dovrà curare maggiormente di uno scienziato il suo aspetto fisico e le sue doti oratorie. Questo non significa, tuttavia, che il filosofo non debba possedere anche le altre virtù e in particolare quelle etiche (ossia quelle relative alla parte appetitiva dell’anima). Nella mi-
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Unità 4 Aristotele
Nono argomento: solo l’uomo, tra gli animali, partecipa della contemplazione Seconda conclusione: la felicità consiste nella contemplazione, maggiore è questa più estesa sarà l’altra
qualcosa di simile. E gli atti di moderazione? Ma che significato avrebbe per loro? Non è forse grossolana la lode che essi non hanno cattivi desideri? Ora, facendo una rassegna, apparirà che tutto ciò che riguarda le azioni di poca importanza è indegno degli dèi. Ma non di meno tutti ammettono che vivono e che esercitano un’attività (giacché non si potrebbe certo ammettere che dormono, come Endimione). Pertanto, se a chi ha vita si toglie l’agire e, più ancora, il produrre, che cosa resta se non la contemplazione? Di conseguenza l’attività di Dio, la quale eccelle per beatitudine, sarà attività contemplativa. Pertanto anche fra le attività umane quella che le è più vicina sarà la più felice. [I] Ne è prova anche il fatto che gli altri animali non hanno parte alla felicità, essendo completamente sprovvisti di una attività di questo genere. Infatti per gli dèi tutta quanta la vita è beata, per gli uomini lo è nella misura in cui vi è in loro un’immagine di tale attività. Infatti nessuno degli altri viventi è felice, poiché non partecipa in nessun modo della contemplazione. Di quanto dunque si estende la contemplazione della stessa misura si estende anche la felicità, e coloro ai quali maggiormente compete il contemplare saranno anche maggiormente felici, non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa: giacché questa di per sé è degna di onore. Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione.
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(da Aristotele, Etica nicomachea, 10,7-8,1177a12-1178b32, trad. di M. Zanatta modificata, Rizzoli, Milano 1986)
sura in cui egli è un uomo in mezzo ad altri uomini, sarà provvisto delle virtù tipiche del genere umano (giustizia, generosità, coraggio). Ma in quanto filosofo, cesserà in qualche modo di essere uomo e assumerà la virtù tipica degli dèi: la sapienza prodotta dall’attività teoretica. I. In effetti gli dèi non possono praticare le virtù tipiche degli uomini, ossia le virtù etiche. Il motivo è facilmente comprensibile: essi non hanno una parte appetitiva dell’anima da guidare ed eventualmente da tenere a freno. Sarebbe infatti del tutto assurdo lodare un dio perché tiene a freno i suoi desideri (epithymìai). Egli non ne ha, non essendo in possesso della funzione appetitiva e desiderante dell’anima. L’Endimione al quale allude Aristotele era, secondo la leggenda, un pastore e cacciatore bellissimo, figlio di Zeus e di Calice, che fu condannato, per avere mancato di rispetto a Era, al sonno perpetuo.
Questionario sull’argomentazione 1
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Qual è la tesi da cui parte l’argomentazione di Aristotele, e quali sono i singoli argomenti concatenati gli uni agli altri che la compongono? (max 10 righe) Analizza i primi cinque argomenti adottati da Aristotele esplicitando la correlazione che hanno rispetto alla prima conclusione. (max 12 righe)
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Con quali virtù etiche viene confrontata l’attività contemplativa e che nesso logico lega gli argomenti settimo e ottavo? (max 6 righe)
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Che relazione corre tra gli argomenti sesto, settimo, ottavo e nono e la loro conclusione, e tra quest’ultima e la prima conclusione? (max 15 righe) 263
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L’Etica nicomachea (2) ➥ Laboratorio di lettura, p. 101
Nell’Etica nicomachea Aristotele riprende la discussione sul problema della libertà, volontarietà e responsabilità dell’azione. Gorgia, nell’Encomio di Elena, partendo dal presupposto che solo le azioni volontarie comportano una responsabilità morale e giuridica, giunge a sostenere la non colpevolezza di Elena e, con ciò, la non responsabilità della maggior parte delle nostre azioni. Aristotele è d’accordo con Gorgia sul fatto che solo le azioni liberamente decise, cioè volontarie, vanno considerate moralmente e giuridicamente responsabili. Ma, al contrario di Gorgia, Aristotele ritiene che la maggior parte delle nostre azioni siano precisamente di questo tipo. Aristotele accetta uno solo dei casi di involontarietà, quindi di irresponsabilità, menzionati da Gorgia: quello in cui si agisce sotto costrizione. Ma anche questo va ristretto: costrizione vera e propria si ha quando non possiamo agire liberamente, per esempio se siamo legati o sotto la minaccia delle armi. Al contrario, le azioni che si compiono per esempio sotto la minaccia di un ricatto (se non fai questo verranno uccisi i tuoi parenti) secondo Aristotele vanno considerate come volontarie (almeno entro certi limiti) perché possiamo comunque decidere se subire o no il ricatto. Aristotele aggiunge a quelli previsti da Gorgia un altro caso di involontarietà: l’ignoranza delle circostanze. Tale è il caso di Edipo narrato da Sofocle nella tragedia Edipo re. Cresciuto presso genitori adottivi, Edipo non aveva mai conosciuto il padre naturale, Laio. Edipo incontra casualmente Laio, ne viene sfidato a duello per una banale questione di precedenza e lo uccide. Secondo Aristotele, Edipo non può venire accusato di parricidio, appunto perché ignorava che lo sfidante fosse suo padre. Anche qui, però, Aristotele introduce una restrizione. Le azioni compiute per esempio in stato di ubriachezza (in cui chi agisce non si rende conto di quello che sta facendo) vanno comunque considerate responsabili, perché chi le compie era libero di decidere se ubriacarsi o no, e quindi deve subire le conseguenze della sua scelta. Quanto agli altri casi di involontarietà elencati da Gorgia, Aristotele non discute neppure la possibilità dell’intervento divino o del destino, perché non crede che gli dèi o il fato abbiano alcun ruolo nella vita degli uomini, e respinge decisamente l’idea che la persuasione, l’attrazione di ciò che è piacevole, l’impetuosità suscitata dal desiderio possano essere considerati fattori di involontarietà. Noi possiamo cedere oppure resistere a queste pressioni e a questi impulsi, e la nostra eventuale debolezza irrazionale non elimina quindi la nostra responsabilità né giustifica le azioni che compiamo a causa sua. Secondo la severa analisi di Aristotele, dunque, noi siamo liberi di decidere le nostre azioni nella grandissima parte dei casi, perciò dobbiamo esserne considerati responsabili, e risultiamo meritevoli di approvazione se agiamo secondo i dettami della virtù morale, di biasimo e di punizione se ci comportiamo diversamente. Le opposte posizioni di Gorgia e di Aristotele hanno, come è facile vedere, conseguenze di grandissima importanza sia sul piano morale sia su quello giuridico: un tribunale che si comportasse secondo i principi gorgiani sarebbe disposto ad assolvere quasi ogni imputato, e al contrario un tribunale di ispirazione aristotelica sarebbe piuttosto incline alla condanna. La discussione fra queste due posizioni estreme è ancor oggi di grande attualità.
Aristotele: l’azione volontaria è responsabile Tesi: distinguere tra atti volontari e atti involontari è utile sia al filosofo sia al legislatore
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(1) Dato che la virtù riguarda le passioni e azioni, e che lodi e biasimi vengono attribuiti per le azioni e le passioni volontarie, mentre per quelle involontarie si dà perdono e, a volte, pietà, distinguere il volontario dall’involontario è certo necessario, per coloro che esaminano il campo delle virtù, ed è utile anche ai legislatori, per quanto riguarda i premi e le puni-
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Unità 4 Aristotele
Primo argomento: sono dubbie le azioni compiute per paura di mali peggiori o a causa di qualcosa di bello
Prima conclusione: sono le circostanze a determinare la volontarietà o la involontarietà delle azioni
Seconda conclusione: solo se la causa dell’azione è esterna e l’agente non vi contribuisce affatto si può parlare di involontarietà
Commento e interpretazione
zioni. Si pensa che siano involontarie le azioni compiute per forza o per ignoranza. È compiuto per forza un atto di cui è esterno il principio, ed è tale che a esso non contribuisce per nulla colui che agisce o subisce, come per esempio se siamo trasportati da un vento, o da persone che si sono impadronite di noi. [A] È dubbio se siano volontarie o involontarie le azioni che vengono compiute per paura di mali peggiori, o a causa di qualcosa di bello – come, per esempio, nel caso in cui un tiranno che si sia impadronito dei nostri genitori e dei nostri figli ci comandi di compiere qualcosa di turpe, e se noi lo compiremo quelli si salveranno, mentre saranno messi a morte se non lo compiremo. Qualcosa di simile accade anche nei casi in cui si gettano fuori bordo oggetti pesanti durante le tempeste: in generale, nessuno fa questo volontariamente, ma tutte le persone ragionevoli lo fanno, per la salvezza propria e degli altri. Ora, azioni del genere sono miste, ma somigliano di più a quelle volontarie. Infatti nel momento in cui vengono compiute sono frutto di una scelta, e il fine dell’azione dipende dalle circostanze. [B] Allora è sulla base delle circostanze che si deve dire se un’azione è volontaria o involontaria; nel caso citato l’agente agisce volontariamente, infatti in azioni del genere il principio del movimento delle parti strumentali del corpo è in lui: dipende da lui il compiere, o no, le azioni il principio delle quali è in lui. Quindi cose di questo genere sono volontarie, anche se, forse, in assoluto sono involontarie: nessuno mai sceglierebbe di compiere alcuna di queste per se stessa. […] In certi casi non si fanno elogi, ma si perdona: quando uno compie ciò che non si deve, per cause tali da superare la natura umana e cui nessuno si sottoporrebbe. Ma di certo alcune cose non possono mai essere imposte e piuttosto si deve morire, anche sopportando le cose più terribili; inoltre è evidente che i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di Euripide a uccidere la madre fanno ridere. [C] A volte è difficile distinguere che cosa bisogna scegliere e a quale prezzo, e cosa si deve sopportare in vista di cosa, e anche più difficile è rimanere saldi nei giudizi, dato che per lo più i risultati sono dolorosi, e turpi le cose cui veniamo costretti. Da ciò nascono lodi e biasimi riguardo a coloro che hanno subìto la costrizione o non l’hanno subita. Quindi quali atti devono essere detti forzati? O non sono forse, in generale, tutti i casi in cui la causa è esterna e l’agente non contribuisce per nulla? Invece le cose che per sé sono involontarie, ma che sono scelte in questo momento, in cambio di tali risultati e il cui principio è in chi agisce, anche se per sé sono involontarie, in questo momento e in cambio di tali risultati risultano volontarie. […]
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A. È il caso dell’involontarietà per costrizione in senso stretto: queste azioni non sono responsabili. B. È il caso delle azioni compiute per costrizione in senso debole, che Aristotele tende, pur con qualche riserva, a considerare volontarie e quindi responsabili. C. Questo personaggio di Euripide aveva ucciso la madre perché il padre l’aveva pregato di farlo: giustificazione ridicola secondo Aristotele.
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Parte prima L’età antica Terza conclusione: dolore e piacere non escludono la responsabilità individuale
Primo argomento: occorre distinguere tra non volontario (che si fa per ignoranza) e involontario (che porta dolore e pentimento se lo si fa)
Secondo argomento: l’ignoranza del bene non esclude la volontarietà
Ma se uno affermasse che le cose piacevoli e quelle buone sono costrittive, dato che ci spingono necessariamente pur stando al di fuori, per costui le azioni verrebbero a essere forzate, infatti tutti fanno tutto in vista del piacevole e del bene. E chi agisce per forza e controvoglia lo fa con dolore, mentre chi agisce a causa del piacevole e del bello lo fa con piacere, quindi è ridicolo attribuire la responsabilità alle cose esterne e non a se stessi per essere facilmente preda di cose simili, ed è ridicolo anche attribuire a se stessi la responsabilità delle belle azioni e attribuire la responsabilità delle azioni turpi alle cose piacevoli. [D] Sembrerebbe quindi che ciò che è forzato sia ciò di cui il principio è esterno e cui non contribuisce affatto colui che viene costretto. (2) Tutto ciò che si fa per ignoranza è non volontario, ma involontario è solo ciò che porta dolore e che provoca pentimento: infatti chi compie una qualsiasi azione per ignoranza e non si sente affatto disgustato per la sua azione, sebbene non abbia agito volontariamente – infatti non sapeva quello che faceva – non ha agito nemmeno involontariamente, dato che non se ne addolora. Quindi, tra chi agisce per ignoranza, colui che lo fa con pentimento ci pare agire involontariamente, colui che non prova pentimento, dato che è diverso dal precedente, lo si chiamerà «uno che agisce non volontariamente». Infatti, essendo differente, è meglio che abbia un suo nome particolare. [E] Anche l’agire per ignoranza e l’agire ignorando sembrano essere cose diverse: infatti chi è ubriaco o infuriato non ci pare che agisca per ignoranza, ma agisce per una delle cause dette, ubriachezza o furore, senza sapere quello che fa, ignorandolo. Ora, tutti i cattivi ignorano ciò che si deve fare, e ciò da cui ci si deve astenere, ed è a causa di questo errore che diventano ingiusti e in generale viziosi; ma l’‘involontario’ non vuole essere attribuito al caso in cui uno ignori ciò che gli è utile. Infatti l’ignoranza che si annida nella scelta non è causa dell’involontarietà, ma della cattiveria, e nemmeno lo è l’ignoranza in universale, infatti la gente è biasimata a causa di questa ignoranza [F]; invece causa dell’involontarietà è l’ignoranza
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D. Qui Aristotele respinge il tipo di ragionamento gorgiano sulla forza irresistibile dell’attrazione per la bellezza e del desiderio amoroso. Con questo presupposto, verrebbe meno qualsiasi possibilità di valutazione morale e giudiziaria dei comportamenti. E. È interessante notare che Aristotele considera il pentimento per le azioni compiute nell’ignoranza delle circostanze (dopo che le si sia conosciute) come rilevante per la valutazione morale del soggetto (Edipo deve pentirsi una volta saputo che l’uomo che ha ucciso era suo padre). L’azione di chi si pente potrà venire considerata involontaria in senso pieno; se manca il pentimento, il soggetto, pur restando irresponsabile dell’atto compiuto, sarà meno degno di comprensione morale e di perdono. F. Qui Aristotele polemizza contro la nota tesi socratica secondo la quale «nessuno fa il male volontariamente», ma solo per ignoranza del bene. Questo tipo di ignoranza (al contrario di quella relativa alle circostanze) non elimina la responsabilità dell’azione. Ignorare il bene non giustifica l’azione cattiva, ma anzi costituisce il principio stesso della malvagità. Noi consideriamo cattivi, moralmente responsabili e giuridicamente punibili coloro che non sanno distinguere il bene dal male. La tesi socratica è inaccettabile secondo Aristotele perché in linea di principio l’educazione familiare, la società, le leggi mettono chiunque in grado di riconoscere le norme della giustizia e della virtù; ignorarle è dunque già in qualche modo l’esito di un atteggiamento immorale, ma non per questo meno responsabile.
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Prima conclusione: è involontaria l’azione di chi agisce per ignoranza dei singoli aspetti, e che causa a chi la commette dolore e pentimento; quindi l’azione volontaria è quella che ha il suo principio in chi agisce se chi agisce conosce gli aspetti nei quali l’azione si verifica
Seconda conclusione: pulsioni e desideri non escludono la responsabilità individuale
che riguarda i singoli aspetti, cioè le persone e le cose rispetto alle quali avviene l’azione: in questi casi, infatti, si danno pietà e perdono, dato che agisce involontariamente chi ignora qualcuno di questi elementi. […] Si dice quindi involontario l’agire secondo questo tipo di ignoranza, ma bisogna che in più l’azione produca dolore e ci getti in stato di pentimento. (3) Siccome è involontario ciò che avviene per forza o per ignoranza, il volontario ci sembrerà essere ciò il cui principio è in chi agisce, quando costui conosca i singoli aspetti nei quali l’azione si verifica. Infatti non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari. Per prima cosa, infatti, più nessuno degli altri animali agirebbe volontariamente, e nemmeno i fanciulli; inoltre, forse che non compiamo volontariamente nessuna delle azioni causate da impetuosità e da desiderio, oppure compiamo volontariamente quelle belle, e involontariamente quelle turpi? Non è da ridere questa idea, dato che il responsabile è uno solo? Di certo è assurdo affermare che sono involontarie le cose cui si deve aspirare: infatti dobbiamo adirarci per certe cose, e provare desiderio di certe altre, per esempio di salute e di conoscenza. Pare d’altronde che le cose involontarie siano dolorose, quelle secondo il desiderio, piacevoli. Inoltre, che differenza c’è, riguardo all’essere involontari, tra gli errori compiuti a causa del ragionamento, e quelli compiuti per impetuosità? Si devono fuggire entrambi, ma pare che gli errori irrazionali non siano meno umani degli altri, di modo che non lo sono neanche le azioni dell’uomo che derivano da impetuosità e desiderio; assurdo quindi porre che siano involontarie. [G]
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(da Aristotele, Etica nicomachea, 3, 1-3, 1109b-111b, trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999)
G. Secondo Aristotele, infatti, animali e bambini agiscono non sulla base di decisioni razionali ma di pulsioni e desideri; ma questo non rende le loro azioni involontarie e irresponsabili. Se un bambino ruba la marmellata perché è goloso (senza averlo deliberato sulla base di un ragionamento), lo fa comunque volontariamente e perciò è meritevole di biasimo e punizione. Questo vale, a maggior ragione, per i comportamenti degli adulti determinati da impulsi irrazionali e dal desiderio del piacere.
Questionario sull’argomentazione 1
In che senso possiamo affermare che Aristotele distingue tra la costrizione in senso pieno e quella in senso debole? (max 7 righe)
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In che senso specifico le azioni compiute per ignoranza e a cui segue pentimento sono considerate da Aristotele involontarie? (max 8 righe)
2
Qual è, in sintesi, la definizione delle «azioni compiute per forza» e che rapporto esse hanno con i concetti di volontarietà e involontarietà? (max 9 righe)
4
Con quali argomenti Aristotele sostiene che le azioni dettate da desideri e impulsi irrazionali non escludono la responsabilità di chi le compie? (max 10 righe) 267
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Parte prima L’età antica
Tesi a confronto Aristotele: la natura ha un fine? Il finalismo della natura: realizzazione spontanea di un programma che è già in essa
Finalismo e scienza
Finalismo cosmico e finalismo teologico?
Aristotele: un avversario della scienza?
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Il centro della filosofia della natura di Aristotele consiste nell’idea di finalismo (o teleologia, una parola che deriva dal greco tèlos, «fine»). Finalismo significa concepire, e spiegare, tutti i processi della natura vivente (piante e animali) come diretti a uno scopo, e non, al contrario, dipendenti dal caso o dalla necessità. Questo modo di interpretare la natura deriva dal modello di spiegazione più spontaneo per i comportamenti umani, e in particolare per i procedimenti delle tecniche. Perché esco di casa? Per lo scopo (il fine) di andare a scuola, oppure al cinema. Perché il muratore dispone i mattoni in un certo modo? Allo scopo di costruire una casa. Allo stesso modo, secondo Aristotele, vanno interpretati i processi della natura vivente: nascita, crescita, alimentazione, riproduzione. In essi certi strumenti (gli organi) lavorano per svolgere le rispettive funzioni in vista di uno scopo. Ovviamente, fra comportamenti umani e processi naturali c’è una differenza di fondo. I primi dipendono da una decisione: posso decidere di non uscire affatto di casa, o scegliere dove andare; il muratore può decidere se costruire oppure no la casa. La natura invece non decide: i suoi processi sono la realizzazione ‘spontanea’ di un programma che inerisce ad essa (utilizzando la coppia di concetti di potenza e atto, si può dire che il programma è la potenza – cioè la possibilità inscritta nella natura – della sua compiuta realizzazione nel tempo). Così, il seme di una quercia contiene in sé il programma la cui attuazione porterà alla crescita della quercia (esso non può decidere di diventare un abete o un cane). Il finalismo, come principio di spiegazione scientifica della natura, porta in ogni caso a chiedersi, per tutte le strutture dei corpi viventi, a che cosa servono, e a spiegare le ragioni per cui esse sono fatte così in rapporto alla funzione che devono svolgere, allo scopo da realizzare (i denti devono essere ossei per masticare; denti molli non servirebbero a nulla). In generale, il corpo di un animale deve possedere organi adatti alla locomozione, all’alimentazione, alla riproduzione, alla percezione e così via. Il punto di vista finalistico rappresenta così un potente strumento di spiegazione delle strutture e dei processi naturali, delle ragioni e degli scopi che permettono di pensarli come un insieme di fenomeni dotati di senso e di ordine. Ma fin dove si spinge la spiegazione finalistica? I denti sono in vista dell’alimentazione, l’alimentazione è in vista della salute individuale e dell’accrescimento del corpo fino alla maturità, questa è in vista della capacità riproduttiva che garantisce la perpetuazione della specie. Ci sono passi ulteriori in questa catena finalistica? Si può dire che le specie sono in funzione di altre specie, per esempio gli animali dell’uomo, e che l’uomo è in funzione della divinità? C’è in altri termini un finalismo cosmico, che coinvolge in un unico processo l’intera natura, e un finalismo teologico, che concepisce la natura in vista della divinità? Tenendo conto che Aristotele nella Metafisica parla della ‘sua’ divinità, il primo motore immobile, come principio supremo di ordine del mondo e come causa finale universale, una lunga tradizione (che viene esposta nelle pagine qui citate
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Unità 4 Aristotele
dello scienziato Ernst Mayr) ha dato una risposta affermativa a queste domande; così interpretato, il finalismo aristotelico è stato perciò considerato come uno dei principali avversari della scienza moderna, che non accetta l’idea di natura come interamente organizzata in funzione di scopi che dipendano da cause, da finalità o da decisioni che vadano oltre i confini della natura stessa.
Prima risposta
La natura non ha un fine da Ernst Mayr, Un lungo ragionamento
La concezione teleologica delle cause finali
Il meccanicismo, le leggi della natura e il ruolo di Dio
Gli scienziati teologi e lo studio del disegno divino
La centralità dell’uomo e la creazione come processo dinamico
Fin dai tempi dei primi filosofi, si è creduto che l’universo debba avere uno scopo: non aveva forse detto Aristotele: «La natura non fa niente invano»? Quell’affermazione veniva fatta propria dai pensatori di ispirazione cristiana, per i quali tutto risponderebbe a un disegno divino. Ogni cambiamento che avviene nel mondo – ripetevano – è dovuto a «cause finali» che spingono quel particolare oggetto o fenomeno verso una meta ultima. Da Aristotele in poi, lo sviluppo di un organismo, dall’uovo fecondato fino allo stadio adulto, è stato spesso citato come illustrazione di questo tendere a un fine. E «teleologi» o «finalisti» sono stati appunto chiamati coloro che aderivano a questa concezione. I protagonisti della rivoluzione scientifica del Cinque e Seicento erano affascinati dal movimento: l’enunciazione delle leggi della caduta dei gravi o del moto dei pianeti intorno al Sole. Il mondo di Galilei e Newton era un mondo di movimento, controllato da leggi eterne, le stesse che Dio aveva stabilito una volta per tutte all’atto della creazione. Egli restava la causa finale di tutto, ma si limitava a governare il mondo mediante le leggi, senza interventi continui. Cartesio fu uno dei principali interpreti di questa concezione rigidamente meccanicistica, che fu soprattutto dei fisici, ma venne fatta propria in varia misura anche da naturalisti come Buffon e portata alle sue estreme conseguenze da Holbach. […] L’insoddisfazione per una visione totalmente deterministica del mondo spinse taluni a ricercare uno schema esplicativo diverso: a Dio veniva assegnato un ruolo di gran lunga maggiore, al punto che ogni minimo mutamento verificatosi dalla creazione in poi risponderebbe al Suo volere. Ai teologi naturali ripugnava l’idea che Dio possa abdicare al suo ruolo di supremo reggitore dell’universo e che a sostituirlo possano bastare le «cause efficienti» delle Sue leggi. Del pari inaccettabile era per loro l’idea che l’armonia osservata in natura e tutti gli adattamenti reciproci degli organismi siano dovuti a una semplice causa meccanica. L’accento veniva dunque posto sulla complessità del disegno originario del mondo ben più di quanto avessero fatto i meccanicisti. Ovunque volgiamo lo sguardo, asserivano, troviamo nella natura le prove dell’infinita saggezza del Dio creatore, cosicché lo scienziato, che ne studia l’opera, è egli stesso un teologo, al pari di chi ne studia il Verbo (la Bibbia). A partire da John Ray (1691) e da William Derham (1713), lo studio della natura divenne teologia fisica o teologia naturale. Diventò lo studio del disegno divino. C’erano altri due elementi che rafforzavano la credenza nelle cause finali. Uno era la convinzione, sempre più forte, che l’universo sia stato creato nell’interesse esclusivo dell’uomo: un’idea che viene prefigurata in un pas269
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Parte prima L’età antica
La scienza dopo la sintesi evoluzionistica: la negazione della causa finale dell’evoluzione
Riepilogo e conclusione: la scienza moderna nega che la natura abbia un fine
Le nuove interpretazioni di Aristotele: limitazione del campo di applicazione del finalismo
so di Aristotele – «Se la natura non fa niente d’incompleto e niente invano, se ne deve dedurre che essa ha creato tutti gli animali nell’interesse dell’uomo»1 – e alla quale affermazioni analoghe nella Genesi prestavano autorevole avallo. L’altro elemento era l’affermarsi di una nuova teoria della creazione in conseguenza di quanto le osservazioni dei naturalisti andavano via via rivelando sulla storia della Terra, vista ora come un sistema dinamico, in perenne divenire. Secondo questa concezione, la creazione non fu un evento istantaneo né ebbe luogo in sei giorni, ma fu un processo graduale e lentissimo, culminato con la comparsa dell’uomo. […] Quando, negli anni quaranta del Novecento, si arrivò alla sintesi evoluzionistica, non rimase praticamente nessun biologo evoluzionista, di fatto nessun biologo competente, che credesse ancora a una causa finale dell’evoluzione. I pochi biologi che mantennero questa opinione o erano legati a un’impostazione teologica, come Teilhard de Chardin, o non avevano compreso le nuove scoperte della biologia nel Novecento, come Lecomte de Noüy. Per i non addetti ai lavori, tuttavia, le cause finali sono molto più plausibili e soddisfacenti del processo casuale e opportunistico della selezione naturale. Per questa ragione, la credenza nelle cause finali ha avuto una vita molto più lunga fuori della biologia che al suo interno. […] Fin dall’antichità classica, l’idea che vi sia «una finalità in tutto ciò che è e che accade in natura» (Aristotele) è stata condivisa dai più grandi filosofi. Questo concetto di teleologia cosmica, particolarmente quando si combinò con il dogma cristiano, finì col diventare la concezione dominante. È proprio questa teleologia che la scienza moderna rifiuta con decisione. Non esiste né è mai esistito alcun programma in base al quale si sarebbero verificate l’evoluzione cosmica o l’evoluzione biologica. A spiegare l’apparente progresso nell’evoluzione biologica, dai procarioti di due o tre miliardi di anni fa agli organismi superiori, basta infatti la considerazione delle pressioni selettive generate dalla competizione tra individui e tra specie e dalla colonizzazione di nuove zone adattative. Le più recenti tendenze nell’interpretazione di Aristotele (espresse con molta chiarezza nelle pagine del filosofo Jonathan Barnes) negano tuttavia che gli si debba attribuire questa concezione del finalismo naturale. Il ricorso alla spiegazione finalistica vale cioè per Aristotele solo all’interno del singolo organismo e della singola specie vivente: esso significa che ogni individuo, vegetale o animale, è organizzato nel modo migliore per sopravvivere e riprodursi nel suo specifico ambiente naturale. Insomma, dire che ‘la natura è organizzata secondo un fine’ significa soltanto dire che ogni organismo vivente è spiegabile, nella sua struttura e nei processi che lo riguardano, dal punto di vista dell’insieme delle funzioni che deve svolgere data la sua particolare forma di vita. Alla crescente complessità di funzioni corrisponde dunque una proporzionale complessità di strutture: animali immobili, come le ostriche, non hanno bisogno di occhi, che sono invece necessari agli animali che si muovono; animali che vivono in società, come soprattutto gli uomini, hanno bisogno di un linguaggio per comunicare fra di loro, e dei relativi organi, oltre che della facoltà del pensiero. 1. Politica, 1,8,1256a
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Unità 4 Aristotele Seconda risposta
I singoli organismi hanno un fine da Jonathan Barnes, Aristotele
La spiegazione delle cause finali in funzione del ‘bene’
L’esempio dei denti
Nel capitolo introduttivo delle Parti degli animali, Aristotele espone la sua cosiddetta concezione teleologica della natura. Le cause finali intervengono nelle opere di natura non meno che nei prodotti dell’abilità umana, e per spiegare i fenomeni naturali dobbiamo ricorrere a ‘ciò al fine di cui’ qualcosa avviene. La spiegazione in termini di cause finali è una spiegazione in funzione del ‘bene’, perché se le anatre hanno zampe palmate al fine di nuotare, allora è bene – cioè, bene per le anatre – avere zampe palmate. L’importanza preminente delle cause finali deriva dal loro identificarsi con ‘la spiegazione della cosa’: poter nuotare è parte dell’essenza dell’anatra, e una spiegazione appropriata di ciò che significa essere un’anatra dovrà tener conto della sua capacità di nuotare. Le cause finali non sono giustapposte alla natura per considerazioni teoriche; sono osservate in natura: ‘Possiamo osservare più di un tipo di causa’ (il termine «teleologia» è legato al greco tèlos, che Aristotele usa nel senso di ‘fine’: la spiegazione teleologica è quella che fa ricorso a fini o cause finali). In tutto il corso delle opere biologiche Aristotele è sempre alla ricerca di cause finali. Perché i denti, a differenza delle altre parti dure della struttura animale, continuano a crescere? La causa di questa crescita, nel senso del fine per cui avviene, deve essere cercata nella loro funzione. Infatti, essi si logorerebbero rapidamente, se non avessero una crescita costante – come avviene in certi animali vecchi che sono grandi mangiatori ma hanno denti piccoli, che i denti siano completamente logorati, perché si consumano più rapidamente di quanto crescano. Questa è la ragione per cui anche in questo caso la natura ha prodotto un eccellente rimedio; poiché fa sì che la caduta dei denti coincida con la vecchiaia e la morte. Se la vita durasse mille o diecimila anni, i denti dovrebbero essere inizialmente enormi e ricrescere spesso; perché anche se crescessero in continuazione, verrebbero nondimeno completamente appianati, e sarebbero perciò inutili alla loro funzione. Ecco la spiegazione del fine per cui essi crescono2.
Necessità e finalità non si escludono
[…] Spesso le cause finali sono contrapposte alla «necessità», in particolare ai vincoli imposti dalla natura materiale degli animali o delle parti degli animali in questione. Ma anche dove un fenomeno viene spiegato ricorrendo alla necessità, rimane sempre spazio per la spiegazione in termini di cause finali. Perché gli uccelli acquatici hanno zampe palmate? Per tali cause, li hanno di necessità; e per quanto riguarda la finalizzazione al meglio, hanno zampe simili in funzione del loro modo di vita, cosicché, vivendo nell’acqua, dove le loro ali sono inutili, hanno zampe adatte al nuoto. Infatti esse sono come i remi per il rematore o le pinne per i pesci; per tale ragione se ai pesci vengono tolte le pinne, o agli uccelli acquatici le membrane palmari, non possono più nuotare3. 2. Generazione degli animali, 2,6,745a27-b3 3. Parti degli animali, 4,12,694b6-12
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Parte prima L’età antica Non sempre esiste una causa finale: le parti senza scopo
La natura come artefice?
Il fine come funzione
Riepilogo e conclusione: nella natura vi sono fini / funzioni indispensabili per la sua conoscenza
La teleologia di Aristotele a volte viene riassunta nello slogan «la natura non fa nulla invano», e lui stesso fa spesso uso di aforismi di questo tenore. Ma benché Aristotele ritenga che si debbano ricercare cause finali in ogni aspetto del mondo naturale, non devono essere cercate letteralmente dappertutto. «La bile nel fegato è un residuo, e non ha alcuno scopo – come i sedimenti nello stomaco e negli intestini. Ora, la natura a volte utilizza anche i residui a scopi vantaggiosi; ma non c’è ragione di cercare una causa finale in ogni circostanza»4. Il libro V della Generazione degli animali è interamente dedicato a simili parti senza scopo degli animali. Il comportamento e la struttura naturale hanno di solito cause finali – perché la natura non fa nulla invano. Ma le cause finali sono vincolate dalla necessità – la natura fa il meglio che può fare «date le circostanze»; e a volte non c’è alcuna causa finale da scoprire. […] Ci sono parecchi passaggi in cui Aristotele parla della natura come dell’artefice intelligente del mondo naturale. «Come un buon economo, la natura non scarta nulla di cui si possa fare buon uso»5. Passaggi del genere non devono essere sottovalutati. Ma la teleologia di Aristotele non può ridursi all’idea della natura quale Artefice; perché nelle molte minuziose spiegazioni teleologiche che si possono trovare nei suoi scritti biologici raramente egli fa intervenire i piani della natura o gli scopi di un Grande Architetto. […] In generale, la maggior parte delle caratteristiche strutturali e dei tratti comportamentali di animali e piante hanno una funzione. Vale a dire, servono a svolgere attività essenziali, o comunque utili, per l’organismo – se l’organismo non svolgesse tali attività non sopravvivrebbe, o sopravvivrebbe solo con difficoltà. Per arrivare alla comprensione di una vita animale, dobbiamo individuare le funzioni associate al comportamento e alle parti della creatura. Anche sapendo delle anatre che hanno zampe palmate e che possono nuotare, non se ne possiede ancora una comprensione completa – ci si deve rendere conto, in aggiunta, che avere zampe palmate aiuta il nuoto, e che il nuoto è parte essenziale della vita delle anatre. Aristotele esprime questo punto dicendo che una risposta alla domanda «Perché le anatre hanno zampe palmate?» è «Al fine di nuotare». Se il suo «al fine di» ci suona strano è solo perché noi associamo eminentemente «al fine di» con l’azione intenzionale. Aristotele lo associa eminentemente con la funzione, e nella natura vede funzioni. Ha sicuramente ragione. Gli oggetti naturali contengono in effetti parti funzionali, e mostrano un comportamento funzionale; lo scienziato che ignori queste funzioni ignora una parte importante del suo oggetto di studio. «La natura non fa nulla invano» è un principio regolativo per la ricerca scientifica. Aristotele sa che certi aspetti della natura non hanno una funzione. Ma riconosce che la comprensione delle funzioni è indispensabile per la conoscenza della natura. I suoi slogan sull’accortezza della natura non sono residui di superstizioni infantili, ma un memento sul compito fondamentale dello scienziato naturale.
4. Parti degli animali, 4,2,677a14-18 5. Generazione degli animali, 2,6,744b16-17
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Unità 4 Aristotele Un limite all’aristotelismo: il finalismo non dipendente dalla provvidenza
Terza risposta
La suddetta limitazione dell’ambito del finalismo, che non lo fa dipendere dalla ‘provvidenza’, cioè dal disegno intenzionale di una divinità creatrice (a differenza di quanto ritiene il pensiero teologico ebraico e cristiano), è considerata da alcuni autori un limite e un errore della filosofia di Aristotele, che per questo può venire contrapposta al Platone del Timeo (è il parere dello storico Giovanni Reale nella pagina qui riprodotta).
Soltanto Dio rende conto del fine della natura da Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele
Causa finale, scopo e ragione del divenire
Il fine della natura si giustifica solo con l’Assoluto
La modernità di Aristotele nella vicinanza al pensiero scientifico moderno
Materia e forma sono cause intrinseche del divenire. Causa esterna è, invece, l’agente o causa efficiente: nessun mutamento ha luogo senza questa causa, perché non ci può essere passaggio da potenza ad atto senza che ci sia un motore già in atto. Infine, occorre la causa finale, che è lo scopo e la ragione del divenire. La causa finale indica sostanzialmente il senso positivo di ogni divenire che, agli occhi di Aristotele, è fondamentalmente un progredire verso la forma e un realizzare la forma. Lungi dall’essere l’ingresso del nulla, il divenire appare ad Aristotele come la via che porta alla pienezza dell’essere, cioè la via che le cose percorrono per attuarsi, per essere pienamente ciò che sono, per realizzare la loro essenza o forma (e in tal senso ben si comprende perché la phy`sis aristotelica sia, in ultima analisi, questa forma). A questo proposito va notato che la teleologia aristotelica resta monca […] per l’irrisolta aporia metafisica di fondo, per cui il mondo esiste non per un disegno dell’Assoluto, ma per un quasi meccanico e fatale anelito di tutte le cose alla perfezione, che dallo Stagirita è intuito e affermato, ma non è rigorosamente giustificato. Sulla ragione di fondo del finalismo universale l’ultimo Platone, con la dottrina del Demiurgo del Timeo, aveva visto più a fondo: e, in effetti, o si ammette un Essere che progetta il mondo e che lo fa essere in funzione del bene e del meglio, oppure il finalismo universale non regge. Da un altro punto di vista, infine, si può ritenere che proprio la suddetta limitazione avvicini sensibilmente la filosofia aristotelica della natura al pensiero scientifico moderno; il finalismo ha perciò costituito, nelle mani di Aristotele, un potente strumento concettuale per costruire un sapere biologico destinato a rimanere insuperato fino alle soglie della scienza moderna, e anche oggi ricco di interesse e di notevoli potenzialità esplicative. È difficile spiegare un oggetto senza chiedersi ‘a che cosa serve’, cioè a quale funzione è destinato, e comprendere un comportamento, naturale o umano, senza chiedersi quale sia il suo scopo: questo tipo di domande, e di spiegazioni, fanno parte dell’orizzonte proprio del finalismo aristotelico.
I brani antologizzati sono tratti da: Ernst Mayr, Un lungo ragionamento, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 63-65, 79-81. Jonathan Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino 2002, pp. 111-115. Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 76-77.
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Parte prima L’età antica
Per seguire il dibattito 1
In che cosa consiste l’idea di finalismo (o teleologia) propria della filosofia della natura di Aristotele? (max 3 righe)
4
Quale limitazione del finalismo aristotelico consente di avvicinarlo al pensiero scientifico moderno, secondo l’esposizione di Barnes? (max 5 righe)
2
Il finalismo come principio di spiegazione scientifica della natura quali principali domande pone? (max 5 righe)
5
Qual è il rapporto tra cause finali e bene per Aristotele, secondo quanto scrive Barnes? (max 3 righe)
3
Perché il finalismo aristotelico, inteso come finalismo cosmico e teologico, è considerato uno dei principali avversari della scienza moderna? Sintetizza le tesi esposte da Mayr. (max 10 righe)
6
Perché il finalismo aristotelico costituisce un limite della filosofia aristotelica secondo Reale e perché gli preferisce Platone? (max 6 righe)
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
I testi Aristotele Etica nicomachea: La verità sopra ogni cosa, T1; Il bene non è uno, T7 Categorie: La sostanza prima è una cosa individuale, T2 Metafisica: A che giovano le idee?, T3; Scienze matematiche e cose sensibili, T5
Platone Timeo: Il principio geometrico dei corpi, T4 Aristotele Etica eudemia: Il bene si dice in molti modi, T6 Politica: Bene dello Stato e interesse personale, T8
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Parte prima L’età antica
Platone e Aristotele: un confronto 1 Due vie filosofiche esemplari
Divergenze nella continuità
L’eredità platonica: stessi mattoni, nuovo edificio
Prescrizione platonica contro descrizione aristotelica
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Platone è amico ma ancora più amica è la verità Platone e Aristotele non furono solamente i maggiori filosofi dell’antichità. In un certo senso essi rappresentano due modi diversi ed emblematici di concepire la pratica filosofica. Come abbiamo visto, Platone e Aristotele fondarono due scuole filosofico-scientifiche destinate a durare quasi tre secoli. Ma anche dopo la chiusura di queste, all’inizio del I secolo a.C., continuarono a esistere platonici e aristotelici, e per molti secoli (nell’antichità ma anche dopo, nel Medioevo e agli inizi dell’età moderna) molti pensatori trovarono quasi naturale profilarsi come filosofi definendosi «platonici» o «aristotelici». Ci furono fasi in cui platonismo e aristotelismo si affrontarono in modo polemico, e le divergenze presero il sopravvento sulle convergenze (agli inizi della filosofia moderna Galileo, per esempio, come si dirà sotto, si servì del platonismo in funzione anti-aristotelica); ma non mancarono periodi in cui platonici e aristotelici fecero prevalere le ragioni della continuità e della convergenza tra i due grandi filosofi (basta pensare agli autori neoplatonici del IVVI secolo, i quali tentarono di armonizzare le due filosofie). In effetti, questi due atteggiamenti, pure tra loro opposti, non fanno che riflettere una condizione oggettiva, dal momento che anche le divergenze più marcate tra Platone e Aristotele, ossia i punti in cui quest’ultimo prese maggiormente le distanze dal suo maestro, si inseriscono in un contesto filosofico che accomuna i due pensatori. La maniera più efficace per affrontare la questione delle convergenze e delle divergenze tra Platone e Aristotele consiste nel valutare in termini generali l’atteggiamento filosofico di quest’ultimo, il quale – non dimentichiamolo – fu per venti anni (dai 17 ai 37) allievo e collaboratore di Platone all’interno dell’Accademia. Introducendo Aristotele nel capitolo a lui dedicato, abbiamo osservato che egli non fu mai del tutto platonico, se con questo termine pensiamo a un’adesione incondizionata al pensiero del maestro, ma in un certo senso lo fu sempre, se invece ci riferiamo al modo di porre i problemi, al linguaggio e alle categorie filosofiche utilizzati, e perfino all’attribuzione alla filosofia di un certo primato nei confronti delle altre discipline (sia pure mitigato rispetto a Platone). Con un’immagine che può forse aiutarci a comprendere il senso del rapporto di Aristotele con Platone, si può dire che l’allievo ereditò dal maestro i mattoni con cui quest’ultimo aveva costruito il suo edificio filosofico, ma li dispose in forma sostanzialmente differente, in modo da costruire un altro edificio. Le differenze tra i due grandi pensatori sono numerose e su alcune di esse ci soffermeremo in questo «Percorso tematico». Una però merita di venire segnalata subito, perché esprime in modo quasi emblematico la diversità dell’atteggiamento filosofico platonico e aristotelico, e proprio per questo è destinata a fare la sua comparsa in forme diverse tutte le volte che Aristotele prende le distanze da
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
Cambiare il mondo o conoscerlo?
Conoscere l’ordine del reale
Il rifiuto della dottrina delle idee
T1
La verità sopra ogni cosa Aristotele, Etica nicomachea, 1,4,1096a11-17
Platone. Si tratta del fatto che Platone privilegia un atteggiamento di carattere prescrittivo o normativo, mentre Aristotele si muove solitamente all’interno di un’ottica descrittiva. Che cosa significa? In estrema sintesi significa che Platone considera compito fondamentale della filosofia stabilire norme e valori in riferimento ai quali modificare l’esistente; mentre Aristotele reputa che la filosofia debba essenzialmente conoscere (e descrivere) l’esistente, senza pretendere di trasformarlo. Insomma, per esprimerci con il linguaggio del filosofo ottocentesco Karl Marx (che affermò in una celebre frase: «I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo, ora però si tratta di cambiarlo»), Platone vuole cambiare il mondo, Aristotele solo conoscerlo e descriverlo. Molto spesso quando Aristotele si discosta dal suo maestro, lo fa rimproverandogli appunto l’attribuzione alla filosofia di un eccesso di pretese: laddove essa deve solo conoscere come stanno le cose, Platone pretende che le trasformi. Pretesa che appare tanto più insensata ove si constati, come fa Aristotele, che le cose (sia quelle naturali che quelle umane) stanno già bene come stanno, sono cioè ordinate e razionali, senza che intervenga un fattore esterno a modificarle o addirittura a rivoluzionarle. Se il distacco di Aristotele da Platone è espresso in termini generali dal rifiuto dell’atteggiamento prescrittivo di quest’ultimo e dalla sostituzione con una posizione tendenzialmente descrittiva, questo stesso distacco trova una manifestazione specifica nel rifiuto di una ben precisa dottrina platonica, quella delle idee, nella quale Aristotele vede, come si dirà sotto, proprio il sintomo dell’eccesso normativo in cui cade a suo avviso la filosofia del maestro. C’è un passo molto noto in cui l’atteggiamento generale di Aristotele nei confronti di Platone emerge molto chiaramente. Trattando del bene, Aristotele sa di non poter affrontare la questione senza menzionare la posizione di Platone, il quale aveva individuato nell’idea del bene (o buono) l’unico e autentico bene che gli uomini perseguono (o devono perseguire). Scrive dunque Aristotele: È senz’altro meglio esaminare il bene universale e porre la questione su che cosa si vuol dire con esso; anche se una tale ricerca è ardua a causa del fatto che gli amici filosofi hanno introdotto le idee. Ma tutti senza dubbio converranno che è meglio ed è un preciso dovere, quando si tratta della salvezza della verità, eliminare gli aspetti personali, soprattutto se si è filosofi. Benché infatti ambedue le cose [cioè l’amicizia e la verità] siano care, è giusto preferire la verità. Ciò che qui Aristotele afferma viene solitamente riassunto per mezzo di una celebre formula latina, risalente all’alto Medievo: Amicus Plato sed magis amica veritas («Platone è amico ma ancora più amica è la verità»). L’amicizia con Platone è importante, così come è importante il debito che occorre riconoscere nei suoi confronti. Ma ancora più importante è il compito di conoscere la verità, e per assolvere a un simile compito bisogna avere il coraggio di anteporlo all’amicizia e alla riconoscenza nei confronti di Platone. Si direbbe che ogni indagine di Aristotele sembra muoversi all’interno del quadro metodologico stabilito da questa regola: per lui l’esame di ogni problema non può prescindere da Platone, ma deve anche sapere andare oltre Platone, alla ricerca della verità. 277
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Parte prima L’età antica
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Priorità del soggetto e del mondo reale
Platone: le idee, unica vera realtà
Le cose sensibili copie dei modelli
Aristotele: è l’individuo l’essere in senso pieno
L’individuo, sostanza primaria
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Che cosa esiste veramente? Idee contro individui Fin da giovane, durante i primi anni di permanenza presso l’Accademia platonica, Aristotele manifestò le sue riserve nei confronti della teoria delle idee. Alla questione egli dedicò un’opera dal titolo Sulle idee (che è andata perduta ma di cui restano alcuni significativi brani) e sezioni di alcuni libri della Metafisica (soprattutto i libri I e XIII). Aristotele muove a Platone due accuse: lo rimprovera di avere invertito il corretto rapporto tra soggetto e predicato e tra individuo e genere (o universale), assegnando la supremazia al predicato nei confronti del soggetto e all’universale nei confronti dell’individuo; e poi lo accusa di avere separato le idee dal mondo reale, rendendole sostanzialmente inutili e negando al mondo quell’ordine e quella razionalità intrinseci che esso invece possiede. Vediamo di che cosa si tratta. Per Platone a possedere piena realtà non sono le singole manifestazioni della giustizia o della bellezza, l’azione giusta compiuta da qualcuno (per esempio il rispetto delle leggi della città), o la bellezza della mia compagna di banco, bensì l’idea della giustizia e l’idea della bellezza. È grazie ad esse che le singole azioni giuste e le singole cose belle sono ciò che sono, ed è grazie ad esse che io posso riconoscerle come tali, posso cioè attribuire a un’azione o a una ragazza rispettivamente i predicati «giusto» e «bello» (in quanto conosco l’idea della giustizia e della bellezza e riconosco in certe azioni o in certe cose la manifestazione di queste idee). Inoltre agli occhi di Platone le singole cose sensibili possiedono una forma di esistenza inferiore rispetto alle corrispettive idee. L’albero che vedo dalla finestra della mia classe è una copia del vero albero, ossia dell’idea di albero. Un simile discorso vale per Platone per tutte le entità sensibili, sia naturali (come l’albero) sia artificiali (come la sedia sulla quale sono seduto). Esse sono ciò che sono in virtù della partecipazione all’idea corrispondente, alla quale spetta dunque il primato ontologico. Ciò che è in senso pieno e compiuto (ossia perfetto) è l’idea, mentre il particolare sensibile è solamente in modo derivato, vale a dire come manifestazione in qualche modo mancante rispetto al modello. Aristotele rovescia un simile quadro. Ai suoi occhi l’essere in senso pieno è quello posseduto dall’individuo (il cane che sta abbaiando, il mio compagno di banco); i predicati che a questo individuo si possono eventualmente attribuire («fedele» nel caso del cane o «simpatico» nel caso del mio compagno) esistono solo in quanto esistono gli individui ai quali appartengono, ma non indipendentemente da essi. Insomma non esiste la fedeltà in sé (l’idea di fedeltà) separata dal cane Fido, oppure la simpatia in sé (l’idea di simpatia) separata dal mio compagno di banco. Allo stesso modo non esiste l’umanità in sé, l’idea di uomo, separata e indipendente dai singoli individui come Socrate o il mio compagno di banco. L’individuo esiste in modo primario e indipendente, mentre i predicati (come «bello» o «brutto»), le specie (come «uomo» o «cane») e i generi (come «animale») esistono in forma derivata, ossia dipendono dall’esistenza degli individui concreti. Come abbiamo visto, per Aristotele questi individui meritano il titolo di sostanza (ousìa), cioè di essere, proprio quel titolo che in Platone spettava alle idee.
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
T2
La sostanza prima è una cosa individuale Aristotele, Categorie, 5,2a11-3b13
3 Il secondo errore di Platone: la separazione
Aristotele: le idee sono forme immanenti alla realtà
Le idee come cause formali
Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente; essa né si dice di qualche soggetto [cioè non si predica di qualcos’altro] né si trova in qualche soggetto. Sostanza è, ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo. Invece sono dette sostanze seconde le specie [che si predicano delle] sostanze in senso primario; sono sostanze seconde queste e i generi di queste. Ad esempio, un certo uomo esiste nella specie uomo, e il genere di questa specie è animale. Queste pertanto sono dette sostanze seconde: uomo e animale. […] Tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime, le quali sono soggetti, o si trovano in esse, intese come soggetti. Questo è chiaro dai singoli casi che ci si presentano. Ad esempio, animale si predica di uomo [sostanza seconda], dunque anche di un certo uomo [sostanza prima]. […] Se dunque non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. Infatti, tutte le altre cose o sono dette delle sostanze prime o sono in esse; cosicché, se non esistessero le sostanze prime, sarebbe impossibile che esistesse qualcuna delle altre cose. […] Inoltre le sostanze prime, per il fatto di essere sostrato a tutte le altre cose e che tutte le altre cose si predicano di esse, per questa ragione sono dette sostanze in senso principale. […] Carattere comune a ogni sostanza è il non essere in un soggetto [ma di essere essa stessa soggetto]. Infatti, la sostanza prima né è detta di un soggetto [cioè non è predicato di qualcosa], né si trova in un soggetto. […] Ogni sostanza sembra significare un certo questo [cioè un individuo]. Ora, nel caso delle sostanze prime è indiscutibilmente vero che significa un certo questo, giacché ciò che è manifestato è una cosa individuale e numericamente una.
Che cosa sono le idee? Trascendenza contro immanenza Platone non è solo colpevole di avere invertito il rapporto tra individuo e universale e quello tra soggetto e predicato. Secondo Aristotele gli va mosso anche un altro rimprovero, quello di avere collocato l’ordine e la perfezione al di fuori del mondo sensibile (e precisamente nelle idee), finendo con il concepire quest’ultimo come qualcosa di disordinato e imperfetto (e dunque bisognoso di un ordine proveniente dal di fuori). L’errore fondamentale di Platone consiste per Aristotele nella cosiddetta «separazione», vale a dire in quell’operazione filosofica che estrapola dall’unico mondo realmente esistente i caratteri che esso possiede per poi separarli e collocarli in un mondo superiore, il mondo delle idee. Non è necessario, per Aristotele, immaginare un secondo mondo, perché l’ordine si trova già in questo mondo, anche perché le idee non esistono separatamente (cioè in se stesse), ma sono immerse nella realtà sensibile, e anzi costituiscono il principio di intelligibilità di questa realtà. Per Aristotele (e per gli aristotelici) infatti le idee non sono entità separate, ma costituiscono piuttosto forme immanenti (ènyla èide, cioè forme immerse nella materia), e in questo modo possono rappresentare l’essenza autentica delle cose sensibili. Infatti, l’essenza o la sostanza di una cosa non può risultare separata dalla cosa di cui è sostanza; solo se immanente alla cosa, la forma può rappresentare una causa di questa stessa cosa (si tratta ovviamente della causa formale). Il più grave difetto delle idee di Platone consiste nella loro inutilità; infatti, in quanto separate, esse si rivelano sostanzialmente inutilizzabili. Molte di queste critiche trovano espressione nel I libro della Metafisica, dove Aristotele presenta e critica la concezione platonica delle idee. 279
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T3
A che giovano le idee?
Aristotele, Metafisica, 1,9,991a9-b2
Ma la difficoltà più grande che si potrebbe sollevare è la seguente: quale vantaggio apportano le idee agli esseri sensibili, sia a quelli sensibili eterni [cioè gli astri], sia a quelli soggetti a generazione e corruzione [le realtà del mondo sublunare]? Infatti le idee, rispetto a questi esseri, non sono causa né di movimento né di alcuna mutazione. Per di più le idee non giovano […] all’essere delle cose sensibili, in quanto non sono immanenti alle cose sensibili che di esse partecipano. Se fossero immanenti, potrebbe forse sembrare che fossero causa delle cose sensibili, così come il bianco è causa della bianchezza di un oggetto. […] Dire che le idee sono modelli e che le cose sensibili partecipano di esse significa poi parlare a vuoto e fare uso di mere metafore poetiche. […] Inoltre, sembra impossibile che la sostanza esista separatamente da ciò di cui è sostanza; di conseguenza, come possono le idee, se sono sostanza delle cose, esistere separatamente dalle cose?
Come ci si rende conto dopo avere letto questo passo, Aristotele si contrappone a Platone anche dal punto di vista dello stile intellettuale. Egli infatti rimprovera al suo maestro l’uso di metafore, ossia l’abitudine di abbandonare il rigore concettuale per rifugiarsi in un linguaggio metaforico, non abbastanza preciso e controllabile. Qui in realtà un platonico potrebbe forse obiettare ad Aristotele che talora l’uso di metafore (come quella della partecipazione) risulta inevitabile, quando si vogliono esprimere nessi teorici (per esempio quello che concerne il rapporto tra l’intelligibile e il sensibile) estremamente complessi e astratti, e comunque impossibili da concettualizzare con i consueti strumenti filosofici (e del resto poi, all’atto pratico, lo stesso Aristotele non fu immune dall’utilizzo di metafore). Contro l’orizzonte Si è osservato sopra che uno dei discrimini più evidenti tra platonismo e aristonormativo telismo consiste nell’atteggiamento prescrittivo del primo e in quello descrittivo del secondo. Un rapido esame delle critiche mosse da Aristotele all’ontologia platonica non fa che confermare che anche nella concezione della realtà e dell’essere i due filosofi manifestano differenti punti di vista: Platone costruisce un orizzonte normativo, rappresentato dalle idee (che sono perfette e razionali, all’opposto delle cose sensibili), mentre Aristotele riconosce già in questo mondo la presenza di un ordine e di una razionalità, che il filosofo deve sapere individuare e descrivere.
Critica del linguaggio metaforico
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Che cosa si può conoscere?
C’è un aspetto in cui emerge però il debito di Aristotele nei confronti del suo maestro, anche in un quadro apertamente polemico. Si tratta del fatto che, pur riconoscendo esistenza piena e autentica ai soli individui (che sono infatti «sostanze prime»), Aristotele finisce con il negare (fedele in questo a Platone) che la realtà individuale possa venire conosciuta in modo compiuto. Dei diversi individui si può conoscere completamente solo la componente specifica o generica, mentre quella propriamente individuale resta confinata nel campo dell’indeterminatezza. Un esempio Io posso conoscere pienamente il mio compagno Alberto in quanto sono in gradi indeterminatezza do di fornire una definizione precisa del suo essere uomo, che però è contenuti-
Un debito concettuale: l’indeterminatezza dell’individuale
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
sticamente identica alla definizione dell’altro mio compagno Luigi. Tuttavia non sono in grado di conoscere scientificamente le caratteristiche individuali di ciascuno di loro. Il livello compiuto di conoscenza al quale posso accedere riguarda la loro forma, il loro essere uomo, e non le caratteristiche individuali che ciascuno possiede. L’ambito individuale (ossia i caratteri individuali che Alberto e Luigi possiedono e che li distinguono) dipende dalla materia, non dalla forma (che è l’unico aspetto che può venire conosciuto pienamente). È vero, come si è visto nel capitolo su Aristotele, che la forma di Alberto è numericamente diversa da quella di Luigi, ma è altrettanto vero che la loro definizione è la stessa. Una critica ad Aristotele Tutto ciò ha indotto alcuni interpreti ad attribuire ad Aristotele una sorta di strabismo filosofico, dal momento che egli finirebbe con l’affiancare a un’ontologia degli individui (ossia una teoria dell’essere che riconosce pieno diritto di cittadinanza alle sole realtà individuali) un’epistemologia (platonizzante) degli universali (cioè una concezione del sapere che ammette la piena e compiuta conoscenza solo per cose comuni sotto l’aspetto della definizione).
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Matematica e fisica platoniche
La critica di Aristotele
Platone: la matematizzazione del reale
Che cosa sono i numeri e le figure geometriche? Esiste un altro motivo di divergenza tra Platone e Aristotele, la cui importanza non è limitata ai due grandi filosofi, ma attraversa l’intero corso della storia del platonismo e dell’aristotelismo. Si tratta del diverso atteggiamento nei confronti della matematica e dei suoi oggetti. Platone sembra sostenere non solo che le idee di entità matematica esistono (per esempio l’idea di triangolo o di quadrato, l’idea del 2 e del 3 ecc.), ma anche che la stessa realtà fisica risulta in ultima analisi riducibile a principi di ordine matematico (per l’esattezza a triangoli elementari). Aristotele rifiuta con decisione entrambe queste tesi. Prima di tutto nega che esistano idee di enti matematici (numeri e figure geometriche) per la semplice e ovvia ragione che egli rifiuta in blocco l’esistenza di idee separate. Inoltre, come vedremo, egli si oppone anche alla convinzione che gli enti matematici siano presenti in natura, e che anzi costituiscano i principi fondamentali della realtà naturale. Questa concezione, che tanto interesse ha suscitato sia nei protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento, come Galileo, sia nei fisici del Novecento, come Heisenberg, viene formulata da Platone nel Timeo (vedi Unità 3, p. 148 ss.). Qui si sostiene che la realtà materiale è analizzabile in prima istanza nei quattro elementi fondamentali della tradizione presocratica, ossia aria, acqua, terra e fuoco; tuttavia questi elementi non sono assimilabili alle lettere di cui è composta la realtà fisica, anzi, a rigore, non sono neppure simili alle sillabe. Infatti, prosegue Platone, ciascuno degli elementi fisici è scomponibile in poliedri regolari, e per la precisione il fuoco in piramidi, la terra in cubi, l’acqua in icosaedri e l’aria in ottaedri; questi poliedri risultano a loro volta composti da triangoli, i quali si costituiscono a partire da due tipi di triangolo fondamentali, il triangolo rettangolo isoscele e il triangolo rettangolo scaleno. Ciò significa che gli enti matematici, e in particolare quelli geometrici, rappresentano i principi costitutivi della realtà fisico-materiale, secondo una prospettiva che non doveva essere estranea al pitagorismo. Leggiamo, a pagina seguente, uno dei passi più significativi del Timeo. 281
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Il principio geometrico dei corpi
Platone, Timeo, 53 C-D
Aristotele: gli enti matematici sono astrazioni
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Scienze matematiche e cose sensibili
Aristotele, Metafisica, 13,2-3,1077a9-1078a5
Gli enti matematici non sono sostanze
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In primo luogo, certo, credo che sia chiaro a chiunque che fuoco, terra, acqua e aria sono corpi; ma ogni specie di corpo ha anche profondità. D’altra parte, è del tutto necessario che la profondità contenga la natura piana; ancora, la superficie piana e retta è composta da triangoli. Tutti i triangoli derivano da due triangoli, ciascuno dei quali ha un angolo retto e due acuti; di tali triangoli, l’uno ha da ogni parte una porzione di angolo retto diviso da due lati uguali, l’altro, invece, ha due porzioni disuguali di angolo retto diviso da lati disuguali. Supponiamo quindi che questo sia il principio del fuoco e degli altri corpi, procedendo secondo un ragionamento verosimile congiunto a necessità. Il pitagorismo implicito in questo schema teorico viene risolutamente rifiutato da Aristotele, il quale ritiene che gli enti matematici, numeri e figure, non siano sostanze, ossia non posseggano un’esistenza piena e compiuta, ma costituiscano astrazioni ricavate dalle sostanze. In altre parole, secondo Aristotele, le figure geometriche, triangoli e poliedri, non esistono veramente nella realtà fisica, ma vengono astratti concettualmente per mezzo di un’operazione del pensiero umano. Proviamo a fare un esempio: dalla realtà materiale io posso astrarre la forma del triangolo, la quale però non esiste in se stessa (come pensava Platone), ma solo nell’atto del mio astrarre e comunque non possiede esistenza separata, cioè indipendente, dalle cose in cui si trova. Il punto che ad Aristotele preme sottolineare è che gli enti matematici non esistono in quanto sostanze, ma solo in modo diverso e più debole. Essi esistono nella forma di astrazioni delle sostanze. Ecco alcune delle riflessioni aristoteliche in proposito. Per conseguenza, è evidente che, nell’ordine della sostanza, ciò che è risultato di astrazione non è superiore [a ciò che non lo è]. […] Si è dunque dimostrato a sufficienza che gli enti matematici non sono sostanze in più alto grado dei corpi […] e infine che essi non possono esistere separatamente [dai corpi]. […] Pertanto, poiché si può dire in generale e con verità che non solo le sostanze separate esistono, ma che anche le cose non separate esistono […], si potrà dire in generale e con verità anche che gli oggetti matematici esistono [ma in forma inferiore alle sostanze]. E come si può dire, in generale e con verità, che anche le altre scienze riguardano non ciò che è accidente nel loro oggetto (per esempio non il bianco [ma il sano] se il sano è bianco e la scienza in questione [la medicina] ha per oggetto il sano), ma che riguardano l’oggetto che è peculiare a ciascuna di esse (per esempio il sano se la scienza in questione ha per oggetto il sano), così si dirà anche per la geometria: anche se gli oggetti in questione hanno per accidente la caratteristica di essere sensibili, essa non li considera, tuttavia, in quanto sensibili [ma in quanto sono triangoli, poliedri ecc.]. Così le scienze matematiche non saranno scienze di cose sensibili, ma non saranno neppure scienze di altri oggetti separati dai sensibili [saranno cioè scienze di oggetti sensibili ma considerati non in quanto sensibili, bensì astratti dall’elemento sensibile]. Se la forma più alta di esistenza consiste nella separazione, ossia nell’esistere in modo indipendente da altro, gli enti matematici non possiedono questo tipo di esistenza. Ciò significa che essi non sono sostanze (alla maniera dei corpi fisici o dei motori immobili). La loro esistenza è prodotta da un atto di astrazione, che, se da un lato garantisce loro una certa forma di essere (non dimenticare che per
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Percorso tematico Platone e Aristotele: un confronto
Aristotele l’essere si dice in molti modi), dall’altro li esclude senza appello dal novero delle cose che esistono in senso primario (ossia le sostanze). Il libro della natura Il diverso atteggiamento di Platone e Aristotele nei confronti della matematica e di Galileo e il linguaggio dei suoi oggetti è destinato, come si è detto, ad attraversare molti secoli di storia della matematica del pensiero. Vale la pena di menzionare almeno il caso forse più celebre, quello della rivoluzione scientifica del Seicento, in cui un grande fisico come Galileo si richiamerà a Platone (e ai pitagorici) in funzione anti-aristotelica, proponendo di studiare la natura fisica attraverso i numeri e le figure, ossia la matematica, da lui concepita come la lingua con la quale il «libro della natura» è stato effettivamente scritto.
6 La critica a Platone in ambito etico e politico
Il Bene platonico compendio di tutte le prospettive filosofiche
Aristotele: non esiste un unico bene
Prescrivere o descrivere? Il bene Se c’è un campo del sapere dove più incisiva fu la critica di Aristotele al normativismo platonico, questo ambito è senza dubbio quello della filosofia pratica, comprendente l’etica e la politica. Aristotele non si stanca di polemizzare con le pretese platoniche di modificare l’esistente stabilendo principi normativi ai quali gli uomini e le città dovrebbero conformarsi. Anche in questo caso, Aristotele respinge l’idea che il valore e la razionalità siano collocati al di fuori del mondo, in un altro mondo (quello delle idee e della ragione). Tanto nel dominio dei valori morali ed etici che in quello delle costituzioni politiche, Aristotele rimprovera a Platone il mancato riconoscimento dell’esistenza di una razionalità intrinseca al reale, che merita di venire rintracciata e valorizzata (senza pretendere di stabilire norme assolute e trascendenti). Inoltre, agli occhi di Aristotele, a Platone fa difetto lo sforzo analitico volto a comprendere la complessità e l’articolazione della realtà. Un caso emblematico è rappresentato dalla celebre concezione del Bene (o Buono). Per Platone, come si è visto, il bene supremo e unico (l’unico che abbia senso perseguire) è costituito dall’idea del Bene. Essa compendia in sé tutte le prospettive filosofiche: quella etica (in quanto è il valore supremo e il fine di ogni azione); quella ontologica (in quanto costituisce il principio generatore delle idee, ossia dell’essere); quella epistemologica (in quanto attiva le potenzialità conoscitive dell’anima e consente a quest’ultima di conoscere le idee); e quella politica (perché il riferimento all’idea del Bene consente di universalizzare le scelte dei filosofi chiamati a governare la città per il bene di tutti gli altri cittadini). Di fronte a questa formidabile compressione filosofica Aristotele si muove con il consueto sforzo di analiticità. La sua prima mossa consiste nel sottoporre la stessa nozione di bene al vaglio del sistema delle categorie. Ciò gli consente di osservare che non esiste un unico bene, assoluto e valido per tutte le cose; il bene è esteso come l’essere e dunque, proprio come l’essere, si dice in molti modi. Esistono dunque molti beni, almeno tanti quante sono le categorie. Allora, dal punto di vista della prima delle categorie, la sostanza, il bene non potrà che identificarsi con Dio e con l’Intelletto supremo (ossia con il primo motore immobile); ma se analizzato dal punto di vista della qualità, il bene non sarà Dio (che è una sostanza), ma per esempio la virtù; nell’ambito della quantità bene sarà per esempio la misura, o meglio la giusta misura. Leggiamo, a pagina seguente, come Aristotele procede nel suo sforzo analitico volto a smontare il monolitismo del suo maestro. 283
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Il bene si dice in molti modi
Aristotele, Etica eudemia, 1,8,1217b14-1218b5
Cosicché il bene in sé sarebbe [per Platone] l’idea del bene; essa è appunto separata dalle cose che ne partecipano, come del resto anche le altre idee. Ora prendere in esame questa opinione è compito di un altro corso di studi, che avrà necessariamente un carattere più astrattamente dialettico; ma se bisogna pronunciarsi brevemente sull’argomento diciamo allora in primo luogo che affermare l’esistenza di un’idea non solo del bene, ma anche di qualsiasi altra cosa, equivale a dire cosa astratta e vacua. […] Poi, se anche ci sono realmente le idee e l’idea del bene, questa non è forse affatto utile per la vita buona né per le azioni. Il bene, infatti, si dice in molti sensi, tanti quanti sono quelli dell’essere. Come si è distinto in altra sede, l’essere significa o la sostanza, o la qualità, o il tempo e inoltre il muovere o l’essere mosso e il bene si trova in ciascuno di questi casi: nella sostanza è l’intelletto e il dio, nella qualità il giusto, nella quantità la misura, nel tempo l’opportunità e nel movimento chi insegna e chi riceve l’insegnamento. E come appunto nemmeno l’essere è qualcosa di uno nelle cose enumerate, così neanche il bene; né c’è una scienza unica né dell’essere, né del bene [come invece pensava Platone a proposito della dialettica]. Ma neppure i beni espressi nella stessa categoria spetta di considerarli a una sola scienza, per esempio una che studia l’opportunità o la misura; bensì una scienza diversa studia un’opportunità diversa, una scienza diversa una diversa misura: per esempio, quanto all’alimentazione, sono la medicina e la ginnastica che studiano l’opportunità e la misura, quanto alle azioni di guerra la strategia; e così c’è una scienza diversa per un diverso tipo di azione, sicché ben difficilmente proprio lo studio del bene in sé apparterrà a una sola scienza. […] Contro l’esistenza del bene in sé, dunque, ci sono difficoltà di questo genere e, inoltre, il fatto che non sarebbe utile alla politica, ma questa ha un suo bene particolare, proprio come anche le altre scienze, per esempio la ginnastica ha come bene la buona condizione fisica. […] Piuttosto il bene si dice in molti modi e c’è una parte di esso che è bella e un bene è oggetto di azione un altro no. In forma molto più concisa Aristotele esprime questo stesso punto di vista all’inizio dell’Etica nicomachea, l’altro suo scritto di argomento etico.
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Inoltre, poiché il bene si predica nella stessa estensione di significato dell’essere (infatti si predica nella sostanza, come Dio o come Intelletto; nella qualità, come virtù; nella quantità, come misura; nella relazione, come utilità; nel tempo, come opportunità; nel luogo, come residenza; e così via), è evidente che non potrebbe essere alcunché di comune, universale ed uno [come pensava invece Platone]: infatti non si predicherebbe in tutte le categorie, ma in una sola.
La molteplicità del bene nell’esistente
Nella scelta di sottoporre la nozione di bene alla griglia analitica del sistema delle categorie si misura la distanza di Aristotele da Platone: mentre quest’ultimo aveva fatto del bene (nella forma dell’idea del Bene) qualcosa di iperbolico ed eccedente, in quanto collocato costitutivamente in una dimensione altra rispetto all’essere e al sistema di valori degli uomini (il Bene era per Platone ciò che non è ancora, ciò che deve essere realizzato), l’allievo ricolloca questa nozione nel campo dell’esistente, ossia di ciò che è già, spiegando analiticamente la molteplicità dei suoi significati, ma smarrendone inevitabilmente la portata normativa e progettuale.
Il bene non è uno
Aristotele, Etica nicomachea, 1,4,1096a23-29
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Il ruolo politico-sociale della proprietà e della famiglia
Gli argomenti aristotelici contro il comunitarismo platonico
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Bene dello Stato e interesse personale Aristotele, Politica, 2,2-3,1261a12-1262a2
Prescrivere o descrivere? La città Il richiamo di Aristotele alle ragioni dell’esistente contro gli eccessi progettuali e normativi del platonismo conosce il suo culmine nell’ambito della riflessione politica. Alle pretese platoniche di abolire la proprietà privata e la stessa famiglia, Aristotele contrappone la convinzione che l’òikos, ossia la casa, il nucleo familiare (inteso sia in senso affettivo e parentale che in senso patrimoniale) non costituisce solamente un organismo naturale, ma riveste anche una funzione sociale importantissima, e non è affatto privo di un aspetto propriamente valoriale. In altre parole, che gli uomini sentano come propri la moglie e i figli, che siano in possesso di proprietà personali, non è solo naturale e perfino utile dal punto di vista socio-economico, ma si rivela per Aristotele anche giusto (e utile al conseguimento della virtù). Del resto – osserva Aristotele – se gli uomini non possedessero nulla di privato, non potrebbero esercitare per esempio la virtù della liberalità, non potrebbero cioè essere generosi. Inoltre, servendosi di un argomento destinato a venire ripreso tutte le volte che ci si proporrà di opporsi a progetti comunitari o propriamente comunisti, Aristotele osserva che gli uomini non dimostrano alcuna cura per le cose comuni, mentre si impegnano a salvaguardare e migliorare le cose che sono di loro proprietà. In generale ad Aristotele sembra davvero eccessivo il monolitismo platonico, ossia la pretesa che lo Stato sia uno, che gli uomini pensino e agiscano unitariamente, che tutto sia in comune. Nel II libro della Politica vengono esposti molti degli argomenti contro il comunitarismo platonico: Inoltre, rispetto al fine che egli [Platone] dice doversi assegnare allo stato, il suo piano è impossibile e non è precisato in che modo lo si deve interpretare: intendo cioè l’unità che lo stato intero deve raggiungere, come il suo bene supremo, la più completa unità […]. Eppure è chiaro che se uno stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà più neppure uno stato, perché lo stato è per sua natura pluralità e diventando sempre più uno si ridurrà da stato a una famiglia e da famiglia a singolo uomo: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più unitaria dello stato e l’individuo è più unitario della famiglia: di conseguenza, chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, poiché distruggerebbe lo stato. […] È evidente dunque da queste considerazioni che lo stato per sua natura non deve avere quell’unità di cui parlano alcuni e quel che si vanta come il più grande bene degli stati in realtà li distrugge. […] Ma se anche il bene supremo per una comunità fosse proprio di raggiungere l’unità più completa, tale unità non sembra dimostrarsi neppure dal modo di esprimersi dei cittadini, quando tutti dicano nello stesso tempo «è mio», «non è mio», il che, tuttavia, a parere di Socrate [cioè di Platone], è segno della perfetta unità di uno stato. […] Oltre a ciò, quel che si è detto presenta un altro inconveniente. Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto a quel che è proprietà loro, di meno a quel che è possesso comune o, tutt’al più, nei limiti del loro personale interesse: piuttosto se ne disinteressano, oltre al resto, perché suppongono che ci pensi un altro, come nelle opere dome285
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stiche molti servi talora eseguono gli ordini peggio che pochi. Così per ciascun cittadino ci sono un migliaio di figli, ma non nel senso che sono figli di ciascuno, ma uno qualunque sarà ugualmente figlio di uno qualunque, con la conseguenza che tutti ugualmente se ne disinteresseranno.
Un rischio delle critiche al platonismo: l’abbandono della portata critica del pensiero filosofico
Si tratta di argomenti indubbiamente sensati e per certi aspetti perfino condivisibili. Il richiamo alla dimensione privatistica, alla sua naturalità e utilità sociale non può non essere avvertito come uno dei tanti inviti alla ragionevolezza che attraversano le opere di Aristotele, in particolare nella sua polemica con Platone. Esiste tuttavia un rischio in questo come in simili richiami. Si tratta precisamente del pericolo di abbandonare la portata critica del pensiero filosofico. Nella convinzione che ciò che esiste sia di per sé razionale, che sia in possesso di una dimensione valoriale già data (i valori di una società hanno di per sé una componente razionale e positiva), si cela il rischio (corso forse più dagli aristotelici di ogni epoca che dallo stesso Aristotele) di smarrire la dimensione critica del pensiero filosofico. Di smarrire cioè il senso profondo del platonismo, che consiste proprio nella ricerca di qualcosa di altro rispetto all’esistente, di un luogo che sia altrove rispetto ai luoghi degli uomini e della storia.
I brani antologizzati sono tratti da: Aristotele, Etica nicomachea, trad. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1986. Aristotele, Categorie, trad. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1989. Aristotele, Metafisica, trad. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993. Platone, Timeo, trad. di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. Aristotele, Etica eudemia, trad. di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 1999. Aristotele, Politica, trad. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1996.
Questionario Quali sono i due atteggiamenti filosofici contrastanti che differenziano alla base il pensiero di Platone da quello di Aristotele? (max 5 righe)
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In che cosa si differenziano le concezioni di Platone e Aristotele rispetto alle scienze matematiche e agli enti da esse considerati? (max 10 righe)
Quali sono le principali critiche che Aristotele rivolge alla concezione delle idee di Platone e quali i punti salienti della sua teoria secondo la quale le idee sono immanenti alla realtà? (max 15 righe) 286
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Quali sono le principali differenze tra le concezioni etiche e politiche di Platone e quelle di Aristotele e perché è possibile, rispetto ad esse, parlare di atteggiamento descrittivo o prescrittivo? (max 20 righe)
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
1. Scienze e filosofia 2. La medicina antica 1. 2. 3. 4.
Gli inizi e il Corpus Hippocraticum Il sapere medico come modello culturale Il sapere dei medici ippocratici La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica 5. Le scuole mediche 6. Galeno e la rifondazione della medicina
3. Matematiche e filosofia 1. I Greci e la matematica 2. Prima di Euclide: la nascita della matematica greca 3. La svolta assiomatica: l’Accademia platonica, Aristotele ed Euclide 4. L’astronomia matematica 5. L’assiomatizzazione dell’ontologia: Proclo e il neoplatonismo ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte prima L’età antica
Scienze e filosofia
1 Interazione tra scienza e filosofia
➥ Percorso tematico, p. 321 Platone e la medicina come modello per la filosofia
Le matematiche e la filosofia platonica delle idee
Applicazioni delle matematiche e sviluppo tecnologico
Aristotele scienziato
➥ Sommario, p. 318
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Il pensiero scientifico giocò un ruolo decisivo nella formazione e nello sviluppo complessivo della cultura greca. Non ci fu, nell’ambito di questa, nulla di simile a quella che nel mondo di oggi viene chiamata la separazione fra «le due culture»: da una parte quella umanistica e filosofica, dall’altra quella scientifica. Ci fu invece fra pensiero scientifico e pensiero filosofico un rapporto molto stretto, un’interazione sempre produttiva anche se talvolta polemica (come vedremo in seguito). Platone vide per esempio nella medicina un sapere dotato di un metodo razionale e insieme efficace, capace di intervenire positivamente sulle vicende umane, e di usare il suo potere sui pazienti non nel proprio, ma nel loro interesse. La medicina offriva così alla filosofia un modello di sapere e di potere buono, razionale ed efficace: un modello, quindi, in grado di orientare la costruzione di una filosofia non solo teoricamente solida ma anche praticamente in grado di esercitare il potere sulla città (Platone paragonava spesso i filosofi ai medici di cui la società malata aveva bisogno). D’altra parte, anche le matematiche, con il loro rigore intellettuale, con la loro capacità di esercitare la mente al pensiero astratto, costituivano per Platone un modello decisivo per la sua concezione della filosofia come conoscenza di idee eterne e immutabili. È anche vero, reciprocamente, che l’invito rivolto da Platone alle discipline matematiche a diventare sempre più teoricamente rigorose, esercitò un profondo influsso sul loro sviluppo verso la costruzione di un sapere fortemente organizzato in senso assiomatico-deduttivo. Legate così da una parte alla filosofia, soprattutto platonica, le matematiche non cessarono mai dall’altra parte di avere stretti rapporti con le applicazioni tecnologiche. I grandi sviluppi della tecnologia antica, fra il III e il I secolo a.C., dall’architettura alle macchine da guerra, dai sistemi di sollevamento e trazione a quelli per la misura del tempo, fino alla costruzione di sorprendenti dispositivi automatici, non sarebbero stati possibili senza un massiccio ricorso ai metodi matematici di misura e di calcolo: basta riferirsi, in questo campo, alla grande figura di Archimede. Quanto ad Aristotele, oltre che filosofo fu egli stesso un grandissimo scienziato: a lui si devono ricerche in campo cosmologico, meteorologico, fisico, e soprattutto la creazione di nuove discipline scientifiche in campo biologico, come la zoologia e l’anatomia comparata. Si può dire che l’intera concezione aristotelica della natura è ispirata dal sapere biologico, e che d’altra parte gli sviluppi della biologia e della medicina dopo Aristotele, e fino a Galeno, si svolgono lungo il percorso che egli aveva aperto. Non si può dunque comprendere la storia della filosofia antica senza tener conto del suo rapporto con i saperi scientifici, né, reciprocamente, si possono comprendere gli sviluppi di questi senza aver presente la loro costante interazione con la filosofia. Del resto, una parte importante della rivoluzione culturale e intellettuale che accadde fra il 1400 e il 1500, e che va sotto il nome di Rinascimento europeo, consistette proprio nella riscoperta dei grandi testi scientifici antichi che erano rimasti ignoti al Medioevo: da Euclide a Tolomeo, dalle opere biologiche di Aristotele a Galeno, fino ai grandi tecnologi come Erone. Fu a partire di qui che la cultura europea iniziò la costruzione del mondo moderno.
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
Archimede: uno scienziato a tutto tondo Archimede, nato a Siracusa nel 287 a.C., dopo gli studi ad Alessandria con i successori di Euclide, tornò a Siracusa dove visse e lavorò. Dotato di una straordinaria capacità intuitiva, fu un matematico, un astronomo e un fisico originale, creativo e innovatore. Conseguì risultati notevolissimi in aritmetica, fisica e geometria, con la scoperta del π greco e del valore del peso specifico. Ma seppe anche applicare la propria intelligenza e le proprie conoscenze alla tecnologia, con invenzioni come gli specchi ustori, la catapulta e la vite a chiocciola e contribuì in modo molto rilevante alla difesa della città siciliana al tempo delle guerre puniche con l’ideazione di potenti macchine belliche. Ebbe fama di genio e sulla sua vita si raccontano numerosi aneddoti: celeberrimo quello secondo cui intuì la so-
luzione del problema del galleggiamento dei corpi – uno dei suoi maggiori contributi alla fisica – mentre faceva un bagno. Entusiasta saltò fuori dall’acqua correndo nudo ed esclamando «Èureka!» («Ho trovato!»). Dal punto di vista scientifico, oltre alle numerose scoperte, è notevole la sua originalità di metodo: nelle sue ricerche unì strettamente fisica e matematica e tra le altre novità introdusse nei suoi calcoli, per la prima volta nella storia, il concetto di infinitesimo. Alcune di tali idee sarebbero tornate in auge in epoca moderna, e con grande successo, ma nei secoli immediatamente successivi alla sua morte l’opera di Archimede non ebbe molto seguito, anche perché molti dei suoi scritti non furono più reperibili dopo l’incendio della Biblioteca di Alessandria. Morì a Siracusa nel 212 a.C. durante l’assedio della città da parte dei romani.
La medicina antica
2 I testi
Corpus Hippocraticum Luoghi dell’uomo: Autopropaganda della medicina «ippocratica», T1 Ippocrate Epidemie: Il compito del medico, T2 Platone Leggi: Il medico dei liberi e il medico degli schiavi, T3 Ippocrate Il giuramento: «Giuro su Apollo medico…», T4 Le arie, le acque, i luoghi: Ambiente e malattie, T5
1 Il medico nei poemi omerici
Platone Repubblica: La terapia dei ricchi e la terapia dei poveri, T6 Ippocrate Prognostico: La centralità della prognosi, T7 Galeno Procedimenti anatomici: L’affermazione a Roma, T8; Lo spettacolo anatomico, T9 I miei libri: A confronto con i testi dei maggiori anatomisti, T10; Contro Marziale, T11 Come riconoscere il miglior medico: Competizioni tra medici, T12 Le facoltà dell’anima seguono il temperamento dei corpi: La terapia dell’anima, T13; La malvagità involontaria, T14
Gli inizi e il Corpus Hippocraticum Pratiche di cura e di guarigione erano certo esistite da sempre nella società greca. Ne abbiamo qualche traccia nei poemi omerici: nell’Iliade si parla di due guerrieri-chirurghi, Podalirio e Macaone («che dardi estraggono, che ferite leniscono con farmachi succhi», cioè con estratti vegetali: 11,514). Nell’Odissea invece il medico compare in una veste più umile: si tratta di un artigiano itinerante, come l’indovino o il falegname, che va di villaggio in villaggio per offrire i suoi servizi ai malati (17,381 ss.). È certo che fra questi medici vaganti molti saranno 289
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➥ Percorso tematico, p. 321 Un percorso di formazione privato
Aspetti negativi e positivi
L’assoluta libertà di ricerca
La svolta del V secolo: i testi ippocratici e le associazioni professionali
stati i ciarlatani e i guaritori magici contro cui si scaglia la polemica del testo ippocratico sul Male sacro; c’erano poi i sacerdoti guaritori che operavano nei santuari di divinità come Apollo e più tardi di Asclepio. La formazione di questi primi medici era certamente del tutto privata: l’arte si trasmetteva, oralmente, nel rapporto fra padre e figlio, maestro e allievo. Una situazione, questa, che nel mondo antico non sarebbe mai del tutto cambiata. Va infatti tenuto presente che né nella società greca né in quella romana sono mai esistite facoltà di medicina, ospedali, o comunque istituzioni pubbliche che garantissero della formazione del medico, né una legislazione che ne regolasse l’attività. Chiunque lo desiderasse, e quale che fosse la sua preparazione professionale, poteva dunque presentarsi ai pazienti nella veste di medico. Questa situazione, per noi sorprendente, aveva effetti negativi ma anche positivi. Gli effetti negativi sono chiari: la professione medica era accessibile anche a chi era privo di qualsiasi competenza, a imbroglioni e orecchianti, con i relativi rischi per i pazienti che si affidavano loro. Ma gli aspetti positivi compensavano ampiamente quelli negativi. Per distinguersi dai loro concorrenti, i medici professionali dovevano mostrare di possedere una rigorosa preparazione scientifica, dedicandosi dunque per l’intera vita allo studio della medicina, e dovevano inoltre dotarsi di un preciso codice morale, cioè di una deontologia medica, come vedremo meglio più avanti. Un altro effetto positivo della mancanza di una regolamentazione legale consistette per la medicina antica in una piena e assoluta libertà di ricerca. Nella cultura egizia, la professione medica era minuziosamente regolamentata da un apposito sacerdozio, e ogni trasgressione alle norme stabilite una volta per tutte poteva venir punita anche con la morte. Nulla di simile per i medici greci e romani, del tutto liberi di esplorare nuovi metodi di cura, di elaborare teorie in conflitto fra loro, affidandone il successo solo al prevalere degli argomenti e all’efficacia terapeutica. Verso la metà del V secolo a.C. si assistette però a un mutamento radicale nel campo dell’elaborazione e della trasmissione del sapere medico. Gruppi di medici, che operavano nei centri di Cnido e soprattutto di Cos (dove dominava l’autorità del fondatore, il grande Ippocrate) cominciarono a mettere per iscritto le conoscenze fino ad allora accumulate. Venne così a formarsi una collezione di scritti medici (che furono più tardi tutti attribuiti allo stesso Ippocrate, onde il nome di Corpus Hippocraticum, anche se noi non sappiamo di quali opere egli sia stato realmente autore), che fornivano un punto di riferimento più sicuro e più unitario per l’esercizio e l’insegnamento della medicina, di quanto fossero state in precedenza le nozioni trasmesse oralmente e personalmente da maestro a discepolo. Si formò anche nello stesso periodo un’associazione professionale (o ‘corporazione’) dei medici, che presero il nome di «Asclepiadi» da Asclepio, la divinità guaritrice per eccellenza.
Ippocrate: la vita e le opere Ippocrate nacque a Cos nel 460 a.C. circa. Non esistono molte notizie attendibili sulla sua vita, se non che viaggiò a lungo in Grecia e altrove e che fu un medico di grande successo e un caposcuola. Si adoperò fortemente per rendere la medicina più ra-
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zionale e svincolata da pratiche rituali magiche e/o religiose. Fu considerato l’autore di circa settanta scritti di medicina; fra le opere autentiche sono forse da annoverare Antica medicina, Prognostico, Male sacro, Le arie, le acque, i luoghi. Morì a Larissa nel 370 a.C. circa.
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico Manualistica e propaganda
2 Prestigio culturale e ricerca del consenso
T1
Autopropaganda della medicina «ippocratica» Corpus Hippocraticum, Luoghi dell’uomo, 46
I più antichi scritti medici si possono dividere in due gruppi principali. Il primo comprende testi di carattere manualistico, promemoria per medici che viaggiano lontano dal loro caposcuola: si tratta quindi di raccolte di casi clinici esemplari, di prontuari sui sintomi e sulla relativa prognosi, di indicazioni terapeutiche. Il secondo gruppo include invece testi dal carattere per così dire propagandistico, destinati ad affermare presso il pubblico colto e i potenziali pazienti il prestigio e la competenza dell’arte medica emergente, in polemica contro i suoi rivali nel campo della guarigione e della conoscenza della natura umana.
Il sapere medico come modello culturale La medicina «ippocratica» ebbe presto un vastissimo impatto culturale, conquistandosi un rilevante prestigio nella cultura della seconda metà del V secolo. Essa si presentava come un sapere competente ed efficace nel campo più importante della vita umana, quello della salute e della malattia. Si trattava di un sapere interamente basato su procedure e metodi razionali, pubblicamente controllabili (al contrario della magia), e trasmissibili attraverso l’insegnamento; si trattava inoltre di una professione che veniva dotandosi di un rigoroso codice morale. In una prima fase, l’autopropaganda della medicina assume toni enfatici, proclamando l’infallibile successo terapeutico della nuova arte, che non ha affatto bisogno della buona sorte per venire a capo delle malattie. Leggiamo questa proclamazione in uno dei testi più antichi del Corpus Hippocraticum. Io credo invero che la medicina sia stata ormai tutta scoperta: la medicina così costituita da insegnare in ogni caso le forme e le opportunità. Chi conosce in questo modo la medicina non riposa per nulla sul caso, ma è in grado di agire correttamente sia con la fortuna che senza la fortuna. La medicina ha basi solide in ogni sua parte e le migliori conoscenze di cui consta non sembrano affatto aver bisogno della sorte: la sorte infatti è autonoma, non si lascia comandare e non le è proprio esaudire le preghiere. La scienza invece si lascia comandare ed ha buona fortuna, quando lo scienziato se ne vuole servire. E poi perché la medicina avrebbe bisogno della sorte? Se vi sono farmaci sicuri per le malattie, non aspettano certo la fortuna per risanarle, penso, se appunto i farmaci esistono. Se invece giova somministrarli con l’aiuto della sorte, allora non guariscono più i farmaci dei non farmaci, se si somministrano facendo affidamento sul caso.
Tuttavia, l’evidenza dei ripetuti insuccessi terapeutici – il più clamoroso fu riscontrato nel corso della pestilenza che colpì Atene nel 430-429, di fronte ai cui catastrofici effetti i medici si provarono del tutto impotenti – rese necessario un atteggiamento più cauto da parte dei medici. Da un lato, essi rinunciarono alla tesi che la medicina fosse ormai tutta scoperta, insistendo invece sul fatto che era stato scoperto il metodo corretto, seguendo il quale, «in lungo corso di tempo», la medicina sarebbe giunta alla sua compiuta realizzazione. Il rapporto tra medico Dall’altro lato, i medici fecero valere il loro impegno professionale e morale, e paziente lo sforzo di prendersi totalmente in carico la vita del paziente prima e duran-
Insuccessi terapeutici e certezza del metodo
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te la malattia. Leggiamo nello scritto ippocratico Epidemie queste bellissime parole:
T2
Il compito del medico
Ippocrate, Epidemie, 1,11
Descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: questo è il compito. Tendere nelle malattie a due scopi, giovare o non essere di danno. L’arte ha tre momenti, la malattia e il malato e il medico. Il medico è il ministro dell’arte: si opponga al male il malato insieme con il medico. Questa assidua collaborazione tra il medico e il suo malato sarebbe stata ben compresa da Platone, che nelle Leggi contrapponeva l’intervento frettoloso del medico degli schiavi all’opera paziente del ‘medico dei liberi’, attento a comprendere i problemi dei pazienti e a ‘educarli’ alla guarigione.
T3
Il medico dei liberi e il medico degli schiavi
Platone, Leggi, 4,720a ss.
La morale medica ippocratica
T4
«Giuro su Apollo medico…» Ippocrate, Il giuramento
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E certo hai anche notato che, essendovi nelle città malati sia schiavi sia liberi, di solito sono in effetti gli schiavi a curare gli schiavi, recandosi in giro oppure restando negli ambulatori; nessuno di tali medici dà ai servitori spiegazioni razionali sulla malattia di cui ognuno di essi soffre, né esse son richieste: poi, dopo aver prescritto quanto la pratica suggerisce loro, quasi ne avessero una rigorosa conoscenza, e con un’arroganza da tiranni, corrono a visitare un altro servitore malato, permettendo così al medico loro padrone di dedicarsi con calma alla cura dei suoi malati. Il medico libero, invece, cura e tien d’occhio di solito le malattie degli uomini liberi: egli le esamina a fondo fin dall’inizio e secondo il loro naturale sviluppo, e, discorrendo con il paziente stesso e con i suoi amici, da una parte s’informa personalmente presso i malati, dall’altra i malati stessi istruisce per quanto è possibile; nulla poi prescrive di cui non sia ben convinto egli stesso. Ed è allora, continuando a tenere il malato tranquillo grazie alla persuasione e a predisporlo favorevolmente, che egli cerca di completare la sua opera riconducendolo alla salute. Un documento interessante della morale medica è offerto dal famoso Giuramento ippocratico. Lo riportiamo qui integralmente; va tenuto conto che non si tratta di una posizione comune a tutti i medici dell’epoca (come provano il rifiuto dell’aborto e di operare i calcoli, procedure invece entrambe comuni nella pratica medica di quel tempo). Molto importante, tuttavia, è il rispetto quasi religioso che viene mostrato nei riguardi sia dei maestri sia dei pazienti. Giuro su Apollo medico e su Asclepio e su Igea e su Panacea e sugli dèi tutti e le dee, chiamandoli a testimoni, di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento e a questo patto scritto. Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, e metterò i miei beni in comune con lui, e quando ne abbia bisogno lo ripagherò del mio debito e i suoi discendenti considererò alla stregua di miei fratelli, e insegnerò loro quest’arte, se desiderano apprenderla, senza compensi né impegni scritti; trasmetterò gli insegnamenti scritti e verbali e ogni altra parte del sapere ai miei figli così come ai figli del mio maestro e agli allievi che hanno sottoscritto il patto e giurato secondo l’uso medicale, ma a nessun altro. Mi varrò del regime per aiutare i malati secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno e ingiustizia. Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio: ugualmente non darò alle donne pessari [supposte] per provocare
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l’aborto. Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma lascerò il posto ad uomini esperti di questa pratica. In quante case entrerò, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno, e specialmente da ogni atto di libidine sui corpi di donne e uomini, liberi o schiavi. E quanto vedrò e udirò esercitando la mia professione, e anche al di fuori di essa nei miei rapporti con gli uomini, se mai non debba essere divulgato attorno, lo tacerò ritenendolo alla stregua di un sacro segreto. Se dunque terrò fede a questo giuramento e non vi verrò meno, mi sia dato godere il meglio della vita e dell’arte tenuto da tutti e per sempre in onore. Se invece sarò trasgressore e spergiuro, mi incolga il contrario di ciò.
3
Lacune scientifiche
La struttura della medicina ippocratica
La medicina ippocratica e la ‘scatola nera’ del corpo umano
Il sapere dei medici ippocratici Se dunque la medicina degli inizi costituiva per la cultura dell’epoca un modello affascinante, tanto per il rigore dei metodi quanto per l’atteggiamento morale, quali erano poi i suoi effettivi contenuti scientifici e i suoi procedimenti terapeutici? Per rispondere a questa domanda, occorre prima di tutto tener conto di due fondamentali carenze del sapere medico nell’epoca ippocratica (V e IV secolo a.C.). In primo luogo, i medici non avevano alcuna conoscenza anatomica e fisiologica, insomma ignoravano struttura e funzionamento degli organi interni del corpo. Questa lacuna verrà colmata, come vedremo, solo nel III secolo a.C. In secondo luogo, essi non disponevano di rimedi farmacologici di tipo chimico, come quelli cui siamo abituati, e non potevano far altro che ricorrere a estratti e decotti di origine vegetale (piante curative), o più di rado animale (a questi si aggiungevano naturalmente gli interventi chirurgici, come l’amputazione delle parti infette o la cauterizzazione delle ferite). Queste due lacune aiutano a comprendere la particolare struttura della medicina ippocratica. I medici conoscevano gli elementi in ingresso nell’organismo (cibi, bevande, aria inspirata). Supponevano che all’interno del corpo – una sorta di ‘scatola nera’ per la fisiologia ippocratica – avvenisse un processo di ‘cottura’ di questi elementi, che li trasformava nei fluidi organici principali, gli «umori». Questi umori venivano riconosciuti in uscita: si trattava soprattutto di sangue (visibile nelle emorragie e nelle ferite), di flegma (muco o catarro), e della bile gialla e nera (riconoscibili nelle urine e nelle feci). Nello stato di salute, questi umori si presentavano in quantità proporzionata, fusi tra loro, non nocivi. Nella malattia invece l’organismo non riusciva a trasformare (‘cuocere’) adeguatamente gli elementi in entrata, che perciò si presentavano all’uscita in quantità eccessive e non bilanciate (bisogna pensare che i principali quadri patologici della medicina ippocratica erano costituiti dalle malattie dell’apparato respiratorio e di quello digerente). Elementi in ingresso Cibi Bevande Aria inspirata
Organismo
? (Processo di cottura)
Umori (principali fluidi organici) riconoscibili in uscita Sangue Flegma Bile gialla Bile nera
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Parte prima L’età antica Cause della malattia
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Ambiente e malattie
Ippocrate, Le arie, le acque, i luoghi, 1-2
La terapia del regime di vita
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L’insorgere della malattia era dovuto a una vasta gamma di fattori: la stagione, il clima, l’età, il tipo di alimentazione e il modo di vita del paziente. L’ambiente (per le arie inspirate e l’acqua bevuta) aveva una particolare importanza nello sviluppo delle patologie individuali e collettive, come appare in questa interessante pagina dello scritto su Arie, acque, luoghi, che è destinato al medico itinerante e che costituisce il più antico testo di medicina ambientalistica. 1. Chi voglia correttamente condurre indagini mediche, ha di fronte a sé questi problemi: in primo luogo deve studiare le stagioni dell’anno, gli influssi che ognuna di esse può esercitare (per nulla infatti si rassomigliano, ma molto differiscono reciprocamente sia in se stesse sia nei loro mutamenti); e inoltre i venti e caldi e freddi, innanzitutto quelli comuni a tutti i luoghi, poi anche quelli che sono tipici di ciascuna regione. Deve ancora indagare le proprietà delle acque, perché così come esse differiscono nel gusto e nel peso, altrettanto ne sono ben diverse le proprietà. Sicché quando un medico giunge a una città che gli è ignota, deve riflettere sulla sua posizione, sull’orientamento sia rispetto ai venti sia rispetto al sorgere del sole. Non ha davvero le stesse proprietà la città volta a settentrione di quella volta a mezzogiorno, né quella volta a levante di quella volta a ponente. Tutto ciò occorre indagare a fondo, e ancora quale sia la situazione riguardo alle acque, se ne sono usate di molli e stagnanti o piuttosto dure e scaturenti da luoghi elevati e pietrosi, o crude e ricche di sali, e il suolo, se è spoglio e arido o fertile di boschi e di acque, se è basso e soffocante oppure elevato e freddo; e quale modo di vita gradiscano gli abitanti, se sono amanti del vino e del cibo e avversi alle fatiche, o se invece amano l’esercizio ginnico e gli sforzi, mangiano molto e bevono poco. 2. Fondandosi su questi riferimenti, si devono studiare le singole questioni. Se infatti un medico ben li conosce, meglio se tutti, o almeno per la maggior parte, giungendo ad una città che gli sia ignota non gli sfuggirebbero né le malattie tipiche del luogo né la natura di quelle più comuni: e così non sarà incerto e non commetterà errori nella terapia, come senz’altro avviene se non si affrontano i singoli casi con una preliminare conoscenza di tali riferimenti. E col trascorrere del tempo e dell’anno egli sarà in grado di dire quali malattie epidemiche colpiranno la città e d’estate e d’inverno, e quali, proprie di ciascuno, rischieranno di derivargli da un mutamento del modo di vita. Conoscendo infatti i mutamenti delle stagioni e il sorgere e il tramontare degli astri, e in qual modo tutto ciò accada, prevederà la natura dell’annata a venire. Così chi abbia riflettuto e compreso in anticipo le circostanze del tempo, possiederà una piena conoscenza di ogni singolo caso, e molto otterrà nel difendere la salute e non piccoli successi conquisterà nella sua scienza. A qualcuno può sembrare che queste sian questioni di meteorologia: ma se cambiasse parere, apprenderebbe che non piccolo, grandissimo anzi, è il contributo che l’astronomia reca alla medicina. Insieme con le stagioni, infatti, mutano per gli uomini anche le malattie e le condizioni dell’apparato digerente. Il medico ippocratico, per prevenire la malattia o per curarla quando fosse insorta, doveva dunque agire sugli elementi in entrata nell’organismo, in primo luogo stabilendo una dieta alimentare accurata. Poteva inoltre migliorare la capacità di funzionamento dell’organismo stesso, ricorrendo alla regolazione degli esercizi fisici, dei bagni, del modo di vita nel suo insieme. La medicina si confi-
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gurava così come cura attenta ed estensiva del regime di vita del paziente, prima, durante e dopo la malattia, prendendosi in carico la sua intera esistenza. Bisogna pensare dunque a una situazione in cui il medico fosse interamente disponibile per uno o pochi pazienti, e che questi avessero il tempo e i mezzi per conformare l’intera giornata alle sue minuziose prescrizioni (l’ora del bagno, della passeggiata, della palestra, i diversi pasti accuratamente regolati, i massaggi e così via). Perplessità di Platone In una pagina della Repubblica, Platone avrebbe espresso la sua disapprovazione sulla terapia del regime per questo tipo di medicina, che finiva per distogliere i ricchi, cioè gli uomini cui di vita spettava la maggiore responsabilità politica e sociale, dai loro impegni pubblici, per dedicarsi soltanto alla cura interminabile delle proprie malattie presenti o future. Meglio, secondo Platone, la terapia dei poveri, che mirava a restituirli rapidamente alle loro attività lavorative, oppure, se questo era impossibile, li abbandonava al loro destino.
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La terapia dei ricchi e la terapia dei poveri
Platone, Repubblica 3,406c ss.
– Se si vive sotto una buona legge nella città a ciascuno è assegnata una funzione particolare che è necessario assolvere, e a nessuno è lecito di vivere in ozio da malato limitandosi a curarsi. È ridicolo che ce ne accorgiamo a proposito degli artigiani, e invece non ce ne accorgiamo se si tratta di ricchi che sembrano esser felici. – In che senso? –, disse. – Un falegname – dissi io, – se si ammala chiede al medico che gli faccia bere un farmaco emetico o un purgante in modo da evacuare la malattia, oppure che lo liberi da essa ricorrendo ad una cauterizzazione o a un’incisione. Ma se gli si prescrive una lunga dieta, gli si copre la testa con berretti di lana e via di seguito, dice subito che non ha tempo per restare malato e che non ci guadagna niente a vivere così, pensando solo alla malattia e trascurando il lavoro che lo aspetta. E dirà «arrivederci» a un tal medico, dopo di che tornerà alla sua dieta consueta, guarirà e vivrà occupandosi delle sue proprie mansioni; oppure, se il suo corpo non è in grado di resistere, morirà liberandosi dei suoi problemi. – E, almeno per un uomo di questo genere, par giusto servirsi così della medicina –, disse. – E non è forse perché – dissi io – gli è prefisso un compito, e se non lo assolve non gli giova più vivere? – Chiaro – disse. – Il ricco invece, stiamo dicendo, non ha di fronte a sé nessun compito tale che la sua vita sarebbe impossibile se fosse costretto a rinunciarvi. – In effetti non se ne sente parlare. – Perché – dissi – non ascolti quel che dice Focilide: una volta guadagnato il necessario per vivere, bisogna esercitare la virtù. – Anche prima, penso io –, disse. – Non litighiamo su questo con lui, – dissi – ma cerchiamo di spiegare a noi stessi se la virtù è cosa cui il ricco debba dedicare il suo impegno (salvo, in caso contrario, passare una vita insopportabile), o se l’«allevamento delle malattie», per la dedizione mentale che richiede, è d’impedimento per la falegnameria e le altre tecniche, ma non ostacola per niente il precetto di Focilide. – E sì, per Zeus –, disse lui – anzi si può dire che è l’ostacolo più grande di tutti questa smisurata cura del corpo che va ben oltre i limiti della ginnastica. Ed è d’impaccio sia per l’amministrazione della casa sia per gli impegni militari e quelli di governo nella città. 295
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La centralità della prognosi Ippocrate, Prognostico
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Nonostante la critica platonica, non del tutto immotivata, l’aspetto igienico, profilattico, dietetico, restò per secoli quello dominante, e il più efficace, nella medicina antica (ad esso si aggiungevano farmaci vegetali purganti, depurativi, astringenti). A fianco di questa straordinaria cura per il regime individuale dei loro pazienti, i medici ippocratici svilupparono un altro eccezionale talento, quello prognostico. L’osservazione dei segni o sintomi (l’aspetto del paziente, i suoi sudori o escrementi, il suo comportamento), li metteva in grado di prevedere con incredibile precisione il decorso della malattia (bisogna tener conto che si trattava spesso di febbri ricorrenti di tipo malarico). L’importanza di una prognosi esatta non serviva soltanto a basare su di essa l’intervento terapeutico. La previsione del futuro sviluppo della malattia (e anche dei precedenti clinici del paziente, che il medico doveva indovinare: di qui la curiosa espressione «predire il passato») serviva, se si provava esatta, a ottenere la fiducia del malato e dei suoi familiari, cioè ad assicurarli che il medico fosse un vero professionista e non un ciarlatano. La bellissima pagina iniziale del Prognostico ippocratico testimonia dell’importanza della prognosi per il medico antico, e la straordinaria penetrazione del suo sguardo clinico (qui viene descritta tra l’altro la celebre facies hippocratica, cioè l’aspetto del moribondo). 1. Per il medico – mi sembra – è cosa ottima praticare la previsione: prevedendo infatti e predicendo, al fianco del malato, la sua condizione presente e passata e futura, e descrivendo analiticamente quanto i sofferenti stessi hanno tralasciato, egli conquisterà maggior fiducia di poter conoscere la situazione dei malati, sicché essi oseranno affidarglisi. E potrà progettare un’eccellente terapia se avrà previsto i futuri sviluppi a partire dai mali presenti. Impossibile guarire tutti i malati: e questo sarebbe ancor meglio che prevedere il corso futuro degli eventi. Ma poiché gli uomini muoiono, gli uni soggiacendo alla forza del male prima di aver chiamato il medico, gli altri spirando subito dopo averlo chiamato (sopravvivono alcuni un giorno, altri poco più a lungo), prima che il medico con la sua scienza possa fronteggiare ciascuna malattia, occorre dunque di tali malattie sapere la natura, e di quanto soverchiano la resistenza del corpo, e imparare a prevederle. In tal modo si sarà giustamente ammirati e si diventerà buoni medici; tanto meglio infatti ci si potrà prender cura di chi è in grado di sopravvivere, quanto più tempo si avrà avuto per prepararsi a far fronte agli eventi, e ci si metterà al riparo da ogni rimprovero se si sarà previsto e predetto chi è destinato a perire e chi invece a salvarsi. 2. Nelle malattie acute occorre condurre l’indagine in questo modo: in primo luogo osservare il viso del malato, se è simile a quello dei sani, ma soprattutto se è simile a se stesso in condizioni normali, ché questo sarebbe il caso migliore, tanto più grave invece quanto più è dissimile. In quest’ultimo caso si presenterebbe così: naso affilato, occhi cavi, tempie infossate, orecchie fredde e contratte e con i lobi rivolti in fuori, la pelle del viso rigida e tesa e secca, il colore del viso tutto giallastro o nero. Se dunque all’inizio della malattia il viso si presenta in tal modo e non è ancora possibile formulare congetture sulla base degli altri sintomi, occorre chiedere al malato se ha trascorso notti insonni, se ha avuto evacuazioni molto liquide, o se avverte i morsi della fame. E se risponde affermativamente a taluno di questi quesiti, meno grave si considererà il male: vengono a crisi questi stati entro un giorno e una notte, se per tali ragioni il viso era così alterato. Ma se egli non confer-
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ma nessuna di esse, e se non si riprende nel tempo predetto, sappi che questo è sintomo mortale. Se poi, pur durando la malattia da più di tre giorni, il viso presenta lo stesso aspetto, si pongano gli stessi quesiti che già prima ho stabilito, – e s’indaghino gli altri sintomi, e quelli del corpo tutto e quelli degli occhi: se infatti rifuggono dallo splendore della luce, o lacrimano involontariamente, o si distorcono, o l’uno diviene più piccolo dell’altro, se hanno il bianco arrossato e livido o vi compaiono venuzze nere e catarro attorno alla pupilla, se sono irrequieti o sporgenti o troppo infossati, se il colore del viso intero trasmuta, tutti questi segni van considerati negativi e funesti. Anche occorre osservare la parte dell’occhio visibile nel sonno: se fra le palpebre chiuse s’intravvede una zona del bianco, e non ne è causa una diarrea o un purgante né l’abitudine del malato a dormir così, sfavorevole è il sintomo e del tutto mortale. Se poi, insieme con qualcuno degli altri sintomi, le palpebre o le labbra o il naso s’incurvano o s’illividiscono, bisogna sapere che il malato è prossimo a morte. Segno mortale è anche che le labbra si rilassino e restino pendenti e gelide e pallide. Il successo delle prognosi
4 La svolta anatomica e fisiologica
La fondazione aristotelica della zoologia
La Biblioteca e il Museo di Alessandria
Per questi diversi motivi, la capacità di interpretazione prognostica dei sintomi raggiunse nei medici ippocratici livelli davvero eccezionali. Ancora sette secoli più tardi, Galeno, che per la sua capacità di previsione veniva accusato di stregoneria da parte dei suoi rivali invidiosi, poteva semplicemente rispondere: «Nessuna stregoneria; ho soltanto studiato il Prognostico di Ippocrate».
La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica All’inizio del III secolo a.C. si verificò una svolta radicale nella storia della medicina antica: la scoperta anatomica della struttura interna del corpo, e dei relativi grandi processi fisiologici. Questa svolta – che portava a un decisivo progresso di conoscenze rispetto alla medicina dei tempi di Ippocrate – fu resa possibile da due fattori convergenti, benché molto diversi fra loro. Il primo di essi fu costituito dalla zoologia aristotelica: fondando questa nuova scienza, Aristotele aveva per la prima volta nella storia fatto ricorso in modo sistematico alla dissezione dei corpi degli animali, scoprendo in questo modo forma e funzioni degli organi interni. Cervello, polmoni, cuore, fegato, vene, muscoli, ossa diventano ora il nucleo centrale della ricerca biologica, in luogo degli «umori» che avevano dominato la fisiologia ippocratica. Pur limitandosi agli animali, Aristotele aveva dunque indicato l’anatomia come la principale via d’accesso alla comprensione della struttura e delle funzioni degli organismi, e anche la medicina non avrebbe più potuto sottrarsi a questo percorso d’indagine. Il secondo fattore fu invece di carattere istituzionale. A partire dall’inizio del III secolo a.C. regnava in Egitto un generale erede di Alessandro Magno, Tolomeo, cui era toccata questa parte dell’impero fondato da Alessandro. Per dare lustro al proprio regno, Tolomeo fondò nella capitale, Alessandria, due grandi istituzioni culturali: la Biblioteca, in cui venne progressivamente raccolta tutta la produzione libraria antica (compresi i testi medici attribuiti a Ippocrate), e il Museo, un luogo in cui i maggiori scienziati del mondo greco venivano invitati a risiedere per condurvi liberamente i loro studi a spese del re. 297
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Parte prima L’età antica Le ricerche anatomiche di Erofilo ed Erasistrato
Le nuove scoperte: sistema nervoso centrale, vene e arterie, pulsazione
La frattura tra nuovi saperi e vecchie pratiche terapeutiche
5 I medici «dogmatici» o «razionalisti» sulla scia di Erofilo ed Erasistrato
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Fu proprio nell’ambito del Museo che i grandi medici del III secolo a.C., Erofilo ed Erasistrato, poterono condurre le loro rivoluzionarie ricerche anatomiche. Qui essi disponevano del tempo e dei mezzi per dedicarsi agli studi senza la necessità di praticare quotidianamente la loro professione, come avevano sempre fatto i medici itineranti dell’epoca ippocratica; il re consentiva loro inoltre la dissezione dei cadaveri umani, fino ad allora proibita, nonché, per un certo periodo, anche la vivisezione dei corpi di criminali condannati a morte. Tutto ciò rese possibile raccogliere la sfida che Aristotele aveva lanciato alla medicina, e conseguire straordinarie scoperte che per molti aspetti superavano lo stesso Aristotele. Ne elenchiamo solo le principali: 1) venne scoperto il sistema nervoso centrale, con i suoi due sottosistemi, sensorio e motorio, che collegavano al cervello rispettivamente gli organi di senso e il sistema tendini-muscoli. Il cervello veniva così riconosciuto (contro Aristotele, che aveva assegnata questa funzione al cuore) come l’organo centrale della sensazione, del movimento e quindi di tutti i processi psico-fisiologici, compreso il pensiero; 2) venne riconosciuta la distinzione fra arterie e vene, e la connessione di entrambi questi sistemi ai diversi ventricoli del cuore, cui veniva assegnata la funzione di ‘pompa’ per il movimento del sangue nell’organismo; 3) venne riconosciuta l’importante funzione diagnostica della pulsazione (‘polso’); furono costruiti strumenti per la misura della temperatura corporea (‘termometri’). Queste scoperte resero possibili notevoli miglioramenti nelle tecniche chirurgiche per la cura delle malattie a carico del sistema nervoso e cardiovascolare. Va però detto che nella cura delle malattie tradizionali anche la medicina di epoca ellenistica non introdusse sostanziali innovazioni rispetto alle vecchie terapie ippocratiche. Profilassi, igiene, dieta, regime di vita, osservazione prognostica dei sintomi, continuarono a restare al centro delle pratiche terapeutiche, senza essere troppo influenzate dalle nuove scoperte in campo anatomico e fisiologico. Si veniva così producendo una frattura fra il livello teorico del sapere medico, rivoluzionato dalle innovazioni alessandrine in campo anatomico e fisiologico, e il livello pratico, terapeutico, che restava più o meno invariato rispetto alla tradizione ippocratica.
Le scuole mediche La frattura tra teoria e pratica determinò, a partire dal III secolo a.C., la formazione di diverse scuole o tendenze (‘sette’) nell’ambito della medicina antica. Sulla scia delle scoperte di Erofilo ed Erasistrato si formò la corrente dei «dogmatici» (o «razionalisti»). Essi sostenevano che i sintomi visibili (esterni) delle malattie andavano spiegati sulla base delle loro cause invisibili (interne), note attraverso l’anatomia; la cura doveva riguardare queste cause e non i sintomi. Per esempio, una febbre o un’emorragia potevano essere dovute a un’eccessiva pressione del sangue in certe vene, e quindi andavano curate diminuendo la quantità di sangue (mediante la riduzione dell’alimentazione o il salasso praticato incidendo le vene nei punti opportuni). L’anatomia e la fisiologia diventarono quindi
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Unità 5 Il pensiero scientifico antico
I medici «empirici» della scuola di Filino di Cos
I medici «metodici» della scuola di Tessalo
parti integranti della formazione del medico, rendendola molto più lunga, difficile e naturalmente anche costosa. Ai dogmatici razionalisti si oppose la corrente dei medici «empirici» (fondata nel III secolo a.C. da Filino di Cos). Essi sostenevano che la pratica medica poteva basarsi sulla sola esperienza, senza alcun bisogno di ricorrere alla spiegazione causale e allo studio anatomico. L’esperienza – quella personale del medico, e soprattutto quella depositata nei testi della tradizione ippocratica – bastava a conoscere quali fossero i rimedi efficaci di fronte ai diversi quadri sintomatici: se in tutti i casi noti, o nella maggior parte di essi, un farmaco astringente o un impacco freddo erano serviti a fermare l’emorragia, perché andare alla ricerca delle sue cause? La formazione del medico doveva dunque concentrarsi, invece che sulle difficili ricerche anatomiche, sullo studio dei testi della tradizione medica (gli empirici furono perciò autori di una vasta serie di commenti alle opere del Corpus Hippocraticum). Del resto, osservavano a ragione questi medici, i rimedi praticati dai dogmatici non erano poi molto diversi da quelli delle tradizionali terapie ippocratiche, il che confermava secondo loro l’inutilità delle conoscenze anatomiche in medicina. In ambiente romano, nel I secolo a.C., si formò infine una terza tendenza, quella dei «metodici» (il cui principale esponente, nel I secolo d.C., fu Tessalo, contro il quale Galeno polemizzò con violenza). Essi erano drasticamente ostili all’intera tradizione medica, che secondo loro aveva inutilmente complicato il quadro delle conoscenze richieste per la formazione del medico. Un buon medico poteva venire preparato in sei mesi, secondo i metodici, che in questo modo venivano incontro alla richiesta di un crescente numero di medici nelle grandi metropoli dell’impero. Le malattie in effetti potevano essere ridotte a due stati dell’organismo: quello «costipato» (da cui dipendevano per esempio tossi secche, stitichezze, anemie) e quello «rilassato» o «fluido» (responsabile di raffreddori, diarree, emorragie). Questi stati potevano venire diagnosticati a prima vista, e le relative terapie individuate immediatamente: fluidificanti per gli stati costipati, coagulanti per quelli fluidi. I metodici furono oggetto, per la faciloneria dell’approccio, per il rifiuto della tradizione medica, e anche per la dequalificazione dello statuto sociale della professione (cui potevano accedere, vista l’inutilità di studi lunghi e costosi, anche persone di umile condizione), di critiche feroci sia da parte dei razionalisti sia da parte degli empirici, ma la loro corrente sembra abbia ottenuto un notevole successo fino al II secolo d.C.
Dogmatici, empirici e metodici
Principi di metodo
Terapia
Dogmatici o razionalisti
Empirici
Metodici
La medicina si deve basare sulle conoscenze anatomiche e fisiologiche del corpo umano
La medicina si deve basare sull’esperienza terapeutica tramandata e su quella del medico
La medicina è ridotta alla diagnosi dello stato fluido o costipato
La terapia interviene sulle cause interne
La terapia interviene sui sintomi esterni
La terapia è limitata alla prescrizione di coagulanti per gli stati fluidi e di fluidificanti per gli stati costipati
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Parte prima L’età antica
6 Contro la divisione in sette
Galeno e la rifondazione della medicina L’esistenza di sette rivali nell’ambito della medicina appariva uno scandalo a Galeno, che fu il maggiore medico e uno dei più importanti filosofi-scienziati del II secolo d.C.
La vita e le opere Galeno era nato a Pergamo, in Asia Minore, nel 129 d.C. Suo padre, Nikon, era un architetto colto e facoltoso. Insegnò personalmente al figlio le matematiche, che restarono sempre per Galeno il modello di un sapere dimostrativo, unitario, esente da dispute settarie. Lo avviò poi agli studi di filosofia, che comportarono la frequentazione dei corsi tenuti dai maestri delle principali scuole (platonica, aristotelica, stoica ed epicurea): Galeno apprese molto da questi filosofi, ma restò anche disgustato dalle interminabili discussioni che opponevano fra loro le diverse scuole. Verso il 146 Galeno iniziò gli studi di medicina, prima a Smirne, poi ad Alessandria, dove, durante un lungo soggiorno, fu in grado di perfezionare le sue competenze anatomiche. Uno straordinario anatomista
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L’affermazione a Roma
Galeno, Procedimenti anatomici, 1,1 K 2.218
Giunse a Roma verso il 163, e qui iniziò una dura competizione con i medici rivali per la propria affermazione personale e per diffondere quell’ideale di una medicina rifondata al quale avrebbe dedicato la sua esistenza di studioso. Il successo arrise a Galeno quando, verso il 168, entrò nella cerchia dell’imperatore Marco Aurelio, che gli affidò la cura del figlio Commodo. Gli anni trascorsi a corte permisero a Galeno di dedicarsi alla scrittura dell’immenso corpo di opere che gli sono dovute: ci risultano 153 titoli di suoi scritti, alcuni dei quali molto ampi, dedicati soprattutto alla medicina e alla filosofia, ma anche alla letteratura e alla retorica. Tra i più diffusi e usati, soprattutto durante il Medioevo, ricordiamo il Metodo terapeutico detto anche Ars Magna, e l’Ars medica detta anche Ars Parva. Galeno morì nella città natale di Pergamo verso il 200 d.C.
Galeno riscosse un grande successo nel competitivo ambiente romano del II secolo d.C. e la ragione principale di ciò fu probabilmente la sua straordinaria abilità anat