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Italian Pages 924 Year 2008
29-03-2011
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Q UESTO
Pagina 1
VOLUME SPROVVISTO DEL TALLONCINO A FRONTE ( O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO
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Le Unità: il profilo di storia della filosofia con i testi da leggere I Laboratori di lettura I Percorsi tematici I Laboratori sul lessico. Filosofia e vita quotidiana Le Tesi a confronto Configurazione dell’opera 1. Filosofia antica e medievale 2. Filosofia moderna 3. Filosofia contemporanea
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LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA
Le ragioni della filosofia
L. Fonnesu | M. Vegetti
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LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA Con un percorso sulla filosofia contemporanea di Remo Bodei
3 - Filosofia contemporanea
0 I-II Vegetti-Filosofia 3
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Luca Fonnesu - Mario Vegetti Elena Castellani - Claudio La Rocca S. Filippo Magni - Roberta Picardi
LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 3 Filosofia contemporanea
© 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati © 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano www.mondadorieducation.it Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it Prima edizione : marzo 2008
Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attività di: progettazione, realizzazione di testi scolastici e universitari, stru6 5 4 menti didattici multimediali e dizionari. Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attivi2015 2014 2013 2012 2011 Edizioni di: progettazione, realizzazione testi scolastici e universitari, struLetà fotocopie per uso personale del lettoredipossono essere effettuate nei limiti del 15% 1Questo 0 9 8 7materiale 6 protetto 5 ciascundidattici volume/fascicolo ditrasferito, periodico dietrodistribuito, pagamento allanoleggiato, SIAE del compenso prementi multimediali e dizionari. ebook contiene da4copyright e non può esseredicopiato, riprodotto, licenvisto di dall’art. 68, commi 4 e 5,specificamente della legge 22 aprile autorizzato 1941 n. 633. Le riproduzioni diverziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione quanto è stato dall’editore, 2015 volume 2014 è stampato 2013 2012 2011 se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto ai termini e alle condizioni alleda: quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla applicabile. Qualsiasi distribuLe fotocopie per uso opersonale dellegge lettore possono essere nei limiti del 15% il limite del effettuate 15%) potranno avvenire solo merciale, economico professionale – e/o oltre LTV La Tipografica Varese S.p.A, Varese ciascun di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso prezione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul dei costituiadi seguito divolume/fascicolo specifica autorizzazione rilasciata daregime AIDRO, Corso didiritti Porta Romana 108, visto dall’art. commi 4 e 5, della legge 22e sito aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni diverStampato in Italia - Printed in Italy sce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente ee-mail penalmente secondo quanto previsto dalla Legge Milano 20122,68, [email protected] web www.aidro.org. se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto volume è stampato da: 633/1941 e successive modifiche.
Edizioni 1Prima 0 edizione 9 : marzo 8 2008 7
merciale, economico o professionale – e/o oltre il limite del 15%) potranno avvenire solo
LTV - La Tipografica Varese S.p.A, Varese a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, Questo ebook non potrà in prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso Stampato in Italia - Printed in alcun Italy modo essere oggetto di scambio, commercio, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui L’opera frutto della collaborazione fraincluse gli autori. particolare: l’opera èèstata pubblicata e le condizioni allaIn presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti del volume, ha curato le Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard (la parte su Kierkegaard), 4 Marx, 5 Nietzsche, 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e L’opera è frutto della ecollaborazione autori. In particolare: , 9 Freud la psicoanalisifra , 14gliCapitalismo e teoria della società (la parte su Weber) e il Percorso tematico Novecento Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti Immagini critiche della scienza e della tecnica . del volume, ha curato le Unità 2 Due critici dell’idealismo: (la parte su nuova Kierkegaard ), 4matematica Marx, 5 Nietzsche Europa tra Ottocento e Schopenhauer Kierkegaard scienza: e fisica,, 618LaLafilosofia filosofiaindella scienza . Elena Castellanieha curato le Unità 10 La 9 Freud la psicoanalisi 14Husserl Capitalismo e teoria della società (la parte su Weber ) e il La Percorso Novecento , 12 Heidegger e l’ermeneutica , i Percorsi tematici natura tematico del linguaggio, Claudio La ,Rocca ha ecurato le Unità ,11 Immagini della scienzacervello, e della tecnica . e i Laboratori sul lessico Bello / brutto, Oggettivo / soggettivo. Che cos’è critiche la filosofia? , Mente, macchina La nuova matematica fisicadell’idealismo: , 18 La filosofia della scienza.e Kierkegaard Elena Castellani ha curato curato le le Unità Unità 110Con Roberta Picardi ha Hegel, scienza: contro Hegel , 2 Due ecritici Schopenhauer , 12 Heidegger e l’ermeneutica i Percorsi tematici La natura del linguaggio, Claudio ha curato),le7 Unità 11 Husserl (la parteLa suRocca Schopenhauer La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il, neoidealismo (la parte su Il neoidealismo Che cos’è la filosofia? , Mente, cervello, macchina e i Laboratori sul lessico Bello / brutto , Oggettivo / soggettivo. inglese), 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile, 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo e il Percorso tematico Roberta Picardi ha la curato le Unità 1 Con Hegel, contro Hegel La «morte di Dio»: crisi della coscienza religiosa europea . , 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard (la Filippo parte su Schopenhauer La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo (la parte Il neoidealismo , 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il su neoidealismo S. Magni ha curato ),le7Unità 3 Il positivismo ), 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile , 17 Dallo strutturalismo al decostruzionismo e il Percorso tematico inglese (tranne Il neoidealismo inglese), 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre, 14 Capitalismo e teoria della società La «morte di Dio»: crisi),della religiosa europea . Russell, Wittgenstein, 16 Dall’empirismo logico (tranne la parte su la Weber 15 Icoscienza padri dell’empirismo: Moore, , 7 La efilosofia il pragmatismo neoidealismo S. Filippo Magni ha curato le ,Unità 3 Il positivismo 19 Etica, filosofia politica bioeticaanglo-americana: , il Percorso tematico Utilitarismoeeiloltre all’empirismo contemporaneo (tranne Il neoidealismo inglese ), 13 La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre , 14 Capitalismo e teoria della società e i Laboratori sul lessico Libertà, Responsabilità, Relativo. (tranne la parte su Weber), 15 I padri dell’empirismo: Moore, Russell, Wittgenstein, 16 Dall’empirismo logico presenti e futuri una rielaborazione delecapitolo avanti, del libro di Remo La parte Scenari , 19èEtica, filosofia politica bioeticaX, , ilGuardando Percorso tematico Utilitarismo e oltreBodei, La filosofia all’empirismo contemporaneo , ©lessico 1997, Libertà 2006 Donzelli editore, ,Roma, riprodotto per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore. nel Novecentosul e i Laboratori , Responsabilità Relativo . Laedazione parte Scenari R
presenti e futuriAndrea è una rielaborazione del capitolo X, Polaris Guardando avanti , del libro (Firenze) di Remo Bodei, La filosofia Bencini, Elisabetta Zappia, Studio redazionale nel Novecento , © 1997, 2006 Donzelli editore, Roma, riprodotto per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore. Impaginazione Polaris Studio redazionale (Firenze) Progetto grafico Redazione Copertina Impaginazione Ricerca iconografica Progetto grafico In copertina Copertina Ricerca iconografica In copertina Revisione testi e apparati didattici
Alfredo La Posta Andrea Bencini, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Polaris Studio redazionale (Firenze) Alberto Mori Alfredo La Posta Marcel Duchamp, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli (o Il grande vetro), 1915-23 Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Filadelfia, The Philadelphia Museum of Art - © 2007 Foto The Philadelphia Alberto Mori Museum of Art/Art Resource/Scala (Firenze) / © Marcel Duchamp, by Siae 2008 Marcel Duchamp, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli (o Il grande vetro), 1915-23 Filadelfia, The Philadelphia Museum of Art - © 2007 Foto The Philadelphia Museum of Becchi, Art/Art Resource/Scala (Firenze) / ©Francesco Marcel Duchamp, by Siae 2008 Alessandro Annalia Celli, Luciana Ceri, Cirri
Revisione testi e apparati didattici
Alessandro Becchi, Annalia Celli, Luciana Ceri, Francesco Cirri Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità.
Per informazioni e segnalazioni: Servizio Clienti Mondadorinon Education Per eventuali e comunque volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità. e-mail [email protected] Per informazioni segnalazioni: numero verde 800e 123 931 Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] numero verde 800 123 931
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Indice Parte prima L’Ottocento dopo Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 2 1
Introduzione
1. Schopenhauer
La filosofia dell’Ottocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5
1. La società e la storia come «seconda natura» . . . . 2. La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6
parola al critico: Löwith legge la crisi dello hegelismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Con Hegel, contro Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
4. La cosa in sé come volontà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
13
T4 La volontà come essenza del corpo (p. 47); T5 I caratteri della volontà come cosa in sé (p. 48); T6 La volontà divora le sue oggettivazioni (p. 50); T7 La vita umana è un pendolo tra il dolore e la noia (p. 51)
1. Destra e Sinistra hegeliana
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 1. Hegel come l’«Alessandro il Grande» della filosofia: seguaci e nemici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 2. La spaccatura della scuola hegeliana . . . . . . . . . . . 15 3. Il dibattito sulla religione: Strauss e Bauer . . . . . . 17
T1 La filosofia hegeliana come dissoluzione del cristianesimo (p. 18)
4. Il dibattito politico: Ruge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
19
2. Uomo, Dio e natura nel pensiero di Feuerbach
....
1. Filosofo della religione e «anti-Hegel» . . . . . . . . .
T12 L’egoista che crea dal nulla (p. 33) Sommario (p. 36), Parole chiave (p. 37), Questionario (p. 38)
59 59 61
...................................
1. La filosofia e l’esistenza individuale . . . . . . . . . . . 2. Vita estetica e vita etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
23
Sommario (p. 70), Parole chiave (p. 71), Questionario (p. 72)
27
65
T14 Hegel e la vita etica (p. 66); T15 La fede come paradosso (p. 67); T16 Abramo e l’eroe tragico (p. 67)
Laboratorio di lettura: Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione . . . . . . . . . . . . . . . . .
73
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Bello / brutto . . . 29
T8 La differenza tra la vecchia e la nuova filosofia (p. 30); T9 La coincidenza di verità, realtà e sensibilità (p. 30); T10 La funzione ontologica dell’amore (p. 31); T11 L’umanesimo della nuova filosofia (p. 32) ..............
54
T9 Motivi, carattere e necessità dell’agire (p. 54); T10 Dovere e compassione (p. 57)
3. La religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
T6 Sistole e diastole religiosa (p. 27); T7 Religione, antropologia e filosofia (p. 29)
4. La filosofia nuova: sensibilità, intersoggettività e amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
22 22
T4 La critica del «cominciamento» della filosofia hegeliana (p. 24); T5 Il nucleo teologico della filosofia moderna (p. 25)
3. La critica filosofica della religione . . . . . . . . . . . . .
51
T8 Il piacere estetico (p. 53)
T11 La scelta e la vita etica (p. 63); T12 Il lavoro esprime l’universale (p. 64); T13 La destinazione dell’uomo (p. 65)
T3 L’insegnamento di Hegel (p. 23)
2. La critica della «filosofia teologizzante» . . . . . . . .
46
5. L’arte e la catarsi estetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. Kierkegaard
T2 Il nocciolo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria (p. 21)
40 40 40 43
..................................
T1 Il mondo come rappresentazione (p. 43); T2 Le forme a priori e il principio di ragion sufficiente (p. 44); T3 Il carattere illusorio del mondo fenomenico (p. 46)
Unità 1
39
1. La crisi del razionalismo ottocentesco . . . . . . . . . . 2. L’eredità kantiana e il sistema . . . . . . . . . . . . . . . . 3. I fenomeni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7
◆ La
3. Dall’uomo all’«Unico»: Max Stirner
Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
81 85
Esercitiamoci sul bello / brutto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Unità 3
Il positivismo 32
..................................
87
1. La filosofia del positivismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
88
T1 Saint-Simon: verso una filosofia «positiva» (p. 90)
2. Comte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
91
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Indice
1. La legge dei tre stadi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
91
T2 I tre stadi (p. 92); T3 Lo stadio teologico o fittizio (p. 92); T4 Lo stadio metafisico o astratto (p. 93); T5 Lo stadio positivo o scientifico (p. 93)
2. La filosofia positiva e l’ordine delle scienze . . . . .
5. L’economia politica e l’alienazione . . . . . . . . . . . . . 137 94
T6 La formulazione di leggi generali (p. 94); T7 Conoscenza delle leggi e azione sulla realtà (p. 95); T8 Il sistema delle scienze fondamentali (p. 95)
3. La sociologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
96
T9 La fisica sociale e le sue applicazioni (p. 97); T10 La «statica sociale» come teoria positiva dell’ordine (p. 97); T11 La «dinamica sociale» e il progresso (p. 98); T12 L’epoca positiva e industriale (p. 98)
4. La religione positiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
T3 Ricondurre la religione alle cause mondane (p. 135); T4 La religione come «oppio del popolo» (p. 135); T5 Il proletariato e la sua carica emancipativa (p. 137) T6 Le leggi e i presupposti dell’economia politica (p. 139); T7 Il lavoro come vita attiva (p. 140); T8 Hegel: l’uomo come risultato del proprio lavoro (p. 141); T9 Il prodotto del lavoro e l’annullamento dell’operaio (p. 142); T10 Il lavoro alienato: mortificazione e perdita di sé (p. 143); T11 Il comunismo come umanismo e come naturalismo (p. 144)
6. La concezione materialistica della storia . . . . . . . . 144
99
T13 Dalla filosofia positiva alla religione positiva (p. 99); T14 Il nuovo culto positivista (p. 99)
3. Mill
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 1. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
T15 Natura e campo di applicazione della logica (p. 101); T16 Natura e funzione delle proposizioni generali (p. 102); T17 L’assunzione di ogni inferenza induttiva (p. 103)
2. Le scienze morali e la politica . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 T18 Complessità della scienza sociale (p. 104); T19 Il sentimento della libertà morale (p. 105); T20 La sovranità dell’individuo su se stesso (p. 106); T21 Le condizioni di una società libera (p. 106); T22 Il pregiudizio della ‘natura femminile’ (p. 107)
T12 La storia come successione di generazioni (p. 146); T13 La produzione: base della storia e della specie umana (p. 147); T14 Vita reale e coscienza (p. 148); T15 Struttura e sovrastruttura (p. 148); T16 Dall’acuirsi delle contraddizioni alla rivoluzione (p. 150); T17 Due condizioni della rivoluzione (p. 150); T18 Il comunismo (p. 151); T19 I presupposti del capitalismo (p. 152)
7. La critica dell’economia politica . . . . . . . . . . . . . . . 152 T20 Iniziamo dalla merce… (p. 153); T21 Il valore d’uso depositario materiale del valore di scambio (p. 153); T22 Il rapporto di scambio delle merci (p. 154); T23 Al di là del valore d’uso: il lavoro astratto (p. 154); T24 L’assurdità delle crisi (p. 158)
8. Verso il comunismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 T25 La storia è storia di lotte di classi (p. 160); T26 La ricchezza umana (p. 161)
9. Engels . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
3. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 T23 Scienza e arte (p. 108); T24 I capisaldi dell’utilitarismo (p. 108); T25 Il valore della qualità del piacere (p. 109)
4. L’evoluzionismo: Darwin e Spencer
. . . . . . . . . . . . . . . 110 1. Darwin e l’evoluzione delle specie animali . . . . . . 110
T26 Il processo della selezione naturale (p. 111); T27 Intelligenza umana e intelligenza animale (p. 112); T28 La genesi del senso morale (p. 113)
Sommario (p. 164), Parole-chiave (p. 165), Questionario (p. 166)
Laboratorio di lettura: Il manifesto del partito comunista . . 167 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172 Tesi a confronto Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178
2. Spencer e il sistema di filosofia sintetica . . . . . . . . 114
Unità 5
T29 La funzione unificatrice della filosofia (p. 114); T30 La dinamica dell’evoluzione universale (p. 115); T31 L’accordo tra scienza oggettiva e religione (p. 117)
Nietzsche
3. Spencer e i principi delle scienze . . . . . . . . . . . . . . 117
T1 Problemi filosofici e intuizione (p. 181); T2 Nietzsche e l’antisemitismo (p. 181)
T32 L’evoluzione dell’organismo sociale (p. 118); T33 Peculiarità dell’organismo individuale (p. 118)
5. Altri esponenti del positivismo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120
Sommario (p. 124); Parole chiave (p. 125); Questionario (p. 126)
Unità 4
Marx . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
127
1. Marx e il marxismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128 2. Tra teoria e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128 3. La critica della politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130 T1 La scissione tra dimensione comunitaria e privata (p. 133); T2 I diritti dell’uomo e l’egoismo (p. 134)
4. Critica della religione come critica sociale . . . . . . 134
IV
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179
1. Il filosofo e il moralista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180
2. Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 3. La tragedia e la storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 184 T3 Filologia e contemporaneità (p. 184); T4 Il contrasto tra apollineo e dionisiaco (p. 185); T5 La cacciata di Dioniso (p. 187); T6 Contro la filosofia hegeliana (p. 189); T7 L’igiene della vita contro la malattia storica (p. 190)
4. La critica della metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 T8 L’illusione del soggetto (p. 192); T9 Necessità e innocenza (p. 193); T10 La pretesa essenza eterna dell’uomo (p. 194); T11 Duplicazione del mondo e disprezzo per la vita (p. 195)
5. La critica della morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 T12 La mancata critica della morale (p. 197); T13 La chimi-
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Indice
6. La metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261 7. Morale e religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 262
ca delle idee e dei sentimenti (p. 198); T14 Valutazione ed esistenza (p. 199); T15 Il nesso originario tra bontà e potenza (p. 200); T16 La morale degli schiavi come reazione (p. 202); T17 La genesi dell’interiorità (p. 204); T18 L’essenziale violenza della vita (p. 205); T19 Dall’uomo ‘semplice’ all’uomo ‘profondo’ (p. 206); T20 L’interpretazione ascetica della sofferenza (p. 207)
T10 Morale chiusa e morale assoluta (p. 264) Sommario (p. 266), Parole chiave (p. 267), Questionario (p. 268)
Unità 7
6. Il superuomo e l’eterno ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . . 207 T21 Innalzamento dell’uomo e aristocrazia (p. 208); T22 L’annuncio dell’eterno ritorno dell’identico (p. 208) Sommario (p. 210), Parole chiave (p. 211), Questionario (p. 212)
Laboratorio di lettura: Genealogia della morale . . . . . . . . . 213 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 218 Tesi a confronto Nietzsche e la questione della verità: la verità esiste o è solo un mito della metafisica? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224
Percorso tematico • La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 270
1. Il significato come effetto pratico . . . . . . . . . . . . . . 271 T1 La ricerca attraverso il dubbio (p. 272); T2 La definizione di «credenza» (p. 272); T3 Credenza e regole d’azione (p. 273)
2. Il metodo scientifico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273 T4 Il valore di verità dei quattro metodi per consolidare una credenza (p. 274); T5 I caratteri dell’abduzione (p. 275)
3. La semiotica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 T6 La formazione dei segni (p. 276)
3. James
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277 1. La verità come efficacia pratica . . . . . . . . . . . . . . . . 278
2. La volontà di credere e l’etica . . . . . . . . . . . . . . . . 279 237
1. Mondo naturale e mondo umano . . . . . . . . . . . . . . . . . 238 2. Il ritorno a Kant e il neocriticismo . . . . . . . . . . . . . . . 239 1. Tornare a Kant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239 2. Il ritorno a Kant su base «fisiologica» . . . . . . . . . . 240 3. Il neocriticismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 T1 Andare oltre Kant (p. 241)
4. La scuola di Marburgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242 5. Cassirer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242 T2 La fisica come teoria simbolica (p. 244)
6. La scuola del Baden . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245 T3 Le regole del conoscere, del volere e del sentire (p. 245)
7. Rickert . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246
3. Lo storicismo tedesco
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248 1. I caratteri dello storicismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248 2. Dilthey . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249
T4 Il mondo spirituale come mondo della libertà (p. 250); T5 L’importanza dell’esperienza interna (p. 250)
3. Simmel e la filosofia della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . 252
4. Bergson
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 1. Lo spiritualismo francese dell’Ottocento . . . . . . . . 253 2. Tra scienza e metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254 3. Il tempo e la durata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 256
T6 Dalla fisica alla psicologia (p. 256); T7 L’orologio e la durata (p. 257); T8 La libertà (p. 259)
4. Percezione e memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 5. Conoscenza utile e stabilità del mondo . . . . . . . . . 261 T9 Lo spirito ha bisogno di stabilità (p. 261)
1. Il pragmatismo americano 2. Peirce
. . . . . . . . . . . 269
T7 Oggetti di pensiero e loro effetti pratici (p. 278); T8 Il valore pratico delle idee vere (p. 278)
Unità 6
La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo
T9 La legittimità delle scelte religiose (p. 280); T10 Il fondamento dei giudizi morali (p. 281)
3. La psicologia e l’empirismo radicale . . . . . . . . . . . 281 T11 L’interazione tra mente e ambiente (p. 282); T12 L’esperienza pura è priva di riflessione (p. 282)
4. Dewey
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283 1. L’esperienza e la storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283
T13 Il confronto critico con l’empirismo tradizionale (p. 284); T14 L’identificazione tra esperienza e storia (p. 285)
2. Lo strumentalismo e la conoscenza . . . . . . . . . . . . . 286 T15 La risoluzione di un problema attraverso la riflessione (p. 286); T16 Fatti e idee hanno «natura operazionale» (p. 287)
3. La relazione con l’ambiente e il problema mente-corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 288 T17 La «realtà corporeo-mentale»: l’unione di due forme di esperienza (p. 289)
4. L’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289 T18 Nessun dualismo tra fatti e valori (p. 289); T19 Le valutazioni etiche come calcolo del rapporto mezzi / fini (p. 290); T20 La relazione mezzi / fini non è unilaterale (p. 291)
5. La politica e la pedagogia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291 T21 La scuola come forma di vita di comunità (p. 292)
5. Il neoidealismo inglese
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 292 1. Green . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293
T22 L’autorealizzazione non riguarda solo l’individuo (p. 294)
2. Bradley . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295 T23 Contraddizione e apparenza (p. 296) Sommario (p. 300), Parole chiave (p. 301), Questionario (p. 302)
V
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Unità 8
Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Parte seconda Le filosofie del Novecento
. . . . . . . . . . . . . . 367
303
1. Croce e Gentile: dal sodalizio alla rottura . . . . . . . . 304 2. Croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 1. La filosofia dello spirito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 307 T1 La critica della tesi hegeliana della «morte dell’arte» (p. 313); T2 La forma economica è condizione della forma etica (p. 316)
2. Lo «storicismo assoluto» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 318
Introduzione
Le filosofie del Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
371
1. La ricerca di uno statuto per la filosofia . . . . . . . . . . . 372 2. Due tradizioni? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 373 ◆ La parola al critico: La filosofia contemporanea secondo Paolo Rossi . . . . . . . . . . . 375
T3 La filosofia come metodologia della storiografia (p. 319)
3. Crisi della civiltà e crisi del sistema: il «vitale» . 322 T4 Vitalità e dialettica (p. 324)
3. Gentile
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325 1. L’attualismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325
T5 L’idealismo attuale e il divenire hegeliano (p. 327)
2. Storia, filosofia e storia della filosofia . . . . . . . . . . 329 T6 L’identità di filosofia e storia della filosofia (p. 330)
3. Una riforma pedagogica e politica . . . . . . . . . . . . . 331 Sommario (p. 333), Parole chiave (p. 334), Questionario (p. 335)
Laboratorio di lettura: Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 340 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Libertà . . . . . . . . . . . . . 341 Esercitiamoci sulla libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 344
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345
1. La rivoluzione psicoanalitica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 346 T1 Le tre umiliazioni del narcisismo umano (p. 346)
2. La natura della psicoanalisi e la scienza . . . . . . . . 349 3. L’origine della psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 350 T2 Il fatto traumatico e i sintomi dell’isteria (p. 351); T3 Rappresentazioni inconsce (p. 351); T4 Verità e invenzione nei racconti dei pazienti (p. 353)
4. Il complesso di Edipo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 353 T5 L’autoanalisi e la figura di Edipo (p. 353); T6 La psiche e la morale (p. 355); T7 I tabù come divieti morali (p. 356)
5. Il sogno e la vita quotidiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 357 T8 La perdita del padre (p. 357); T9 Censura e deformazione del sogno (p. 358); T10 La dimenticanza dei nomi (p. 358)
6. La sessualità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 T11 L’opinione comune sulla sessualità infantile (p. 359); T12 Principio di piacere e principio di realtà (p. 361)
7. L’estensione dell’orizzonte: il disagio della civiltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 361 8. Gli sviluppi della psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . 362 Sommario (p. 364), Parole chiave (p. 365), Questionario (p. 366)
VI
La nuova scienza: matematica e fisica . . . . .
379
1. Perché si parla di ‘nuova scienza’ . . . . . . . . . . . . . . . . 380 2. Le premesse matematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 381 1. Le geometrie non euclidee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 382 2. Geometria e spazio fisico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 386 T1 Gli assiomi come convenzioni (p. 389)
3. Gli sviluppi dell’algebra e la nascita della logica moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 389 T2 Il calcolo booleano (p. 391)
4. Il problema del continuo e l’aritmetizzazione dell’analisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 391 T3 I numeri come creazioni (p. 392); T4 Il principio di continuità di Dedekind (p. 393)
3. Il dibattito sui fondamenti della matematica
. . . . . . 394 1. Il riduzionismo di Frege e l’antinomia di Russell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
T5 Senso e denotazione (p. 395)
Unità 9
Freud e la psicoanalisi
Unità 10
2. Il logicismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 396 3. L’intuizionismo di Brouwer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 397 4. Il formalismo di Hilbert e i teoremi di Gödel . . . . 399
4. Le premesse fisiche
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 402 1. Dove arriva la fisica classica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 402
T6 La formula del mondo (p. 403)
2. I due principi della termodinamica . . . . . . . . . . . . . 404 3. La nascita della meccanica statistica . . . . . . . . . . . 405 T7 Entropia e probabilità (p. 407)
4. L’elettromagnetismo di Maxwell . . . . . . . . . . . . . . . . 407 T8 La teoria del campo elettromagnetico (p. 409)
5. Le rivoluzioni della fisica
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 410 1. Einstein, la figura chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 410
T9 I principi della fisica prima di Einstein (p. 410); T10 La meccanica classica come base di tutta la fisica (p. 410)
2. La relatività ristretta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 413 T11 Il paradosso da cui parte la costruzione della relatività einsteiniana (p. 413); T12 Il paradosso della relatività galileiana (p. 414); T13 Le asimmetrie nell’elettrodinamica di Maxwell (p. 415); T14 L’idea fondamentale della relatività ristretta (p. 415); T15 Il continuo quadridimensionale nella fisica classica (p. 417)
3. La relatività generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 417
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T16 La relatività del campo gravitazionale (p. 418); T17 Il principio di equivalenza e la teoria della relatività generale (p. 419)
4. I quanti di luce e la nascita della meccanica quantistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 421 T18 La discontinuità della luce (p. 423) Sommario (p. 426), Parole chiave (p. 427), Questionario (p. 428)
T5 Il baratro tra ideale e reale (p. 486); T6 La cattedra e il mondo (p. 487); T7 I sensi nell’esperienza del mondo-ambiente (p. 489); T8 Intuizione di situazioni come interpretazione (p. 490); T9 Filosofia e critica storica (p. 492)
5. Il capolavoro incompiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 492 T10 La filosofia e Dio (p. 493); T11 Il problema dell’essere e l’Esserci (p. 494); T12 L’Esserci e l’esistenza (p. 495)
Unità 11
Husserl
4. Fenomenologia e fatticità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 485
6. Essere-nel-mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 497 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 429
1. La filosofia come scienza autonoma e rigorosa . . . 430 2. Un funzionario dell’umanità in lotta per la ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 431 T1 La responsabilità del filosofo (p. 433)
3. Lo psicologismo e il suo superamento . . . . . . . . . . 434 T2 La macchina calcolatrice e le leggi ideali (p. 436); T3 Il relativismo specifico e il senso di «vero» (p. 437)
4. La dimensione dell’ideale e la fenomenologia della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 T4 La teoria fenomenologica della conoscenza (p. 438); T5 La fenomenologia pura (p. 439)
5. L’espansione e l’approfondimento del progetto fenomenologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 440 T6 Intenzionalità e coscienza (p. 441); T7 Fenomeno puro e riduzione fenomenologica (p. 443); T8 Il mondo in una considerazione trascendentale (p. 444)
6. L’indagine fenomenologica oltre il lògos . . . . . . . . 445 T9 Dalla teoria alla vita prelinguistica (p. 447); T10 L’oggetto singolo e il mondo (p. 448)
7. Il mondo della vita e il destino della ragione . . . . 449 T11 La crisi delle scienze obiettive (p. 450); T12 Il mondo della vita e l’intersoggettività (p. 452); T13 L’uomo e la ragione (p. 453) Sommario (p. 455), Parole chiave (p. 456), Questionario (p. 457)
Laboratorio di lettura: La filosofia come scienza rigorosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 458 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 467 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana Oggettivo / soggettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 469 Esercitiamoci sull’oggettivo / soggettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 474
T13 Conoscenza ed essere-nel-mondo (p. 498); T14 La totalità di mezzi (p. 500); T15 La significatività precede il linguaggio (p. 502)
7. La comprensione e l’essere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 502 T16 Comprendere come apertura preliminare (p. 504); T17 La comprensione dell’essere (p. 505); T18 Comprendere l’essere (p. 506); T19 L’interpretazione e l’asserzione (p. 507)
8. Chi siamo e chi possiamo essere . . . . . . . . . . . . . . 508 9. L’orizzonte del tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 510 T20 Difficoltà col tempo (p. 513); T21 La temporalità e la Cura (p. 513); T22 Storicità, destino, destino-comune (p. 515)
10. Il progetto incompiuto e la «svolta» . . . . . . . . . . . 516 11. Poesia, storia, verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 518 T23 Linguaggio e storia (p. 518); T24 Linguaggio e poesia (p. 519); T25 Verità e velatezza (p. 520); T26 Il tempio e la Terra (p. 521)
12. La tecnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 522 T27 La tecnica e il mondo (p. 523); T28 La verità dell’essere (p. 525)
13. L’ermeneutica di Gadamer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 526 T29 Situazione storica e comprensione (p. 528); T30 Il linguaggio e il senso non detto (p. 530) Sommario (p. 532), Parole chiave (p. 533), Questionario (p. 534)
Laboratorio di lettura: Una lezione di Heidegger . . . . . . . . 535 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 542
Unità 13
La filosofia dell’esistenza: Jaspers e Sartre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
543
1. Jaspers e la filosofia dell’esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . 544 1. Caratteri generali dell’esistenzialismo . . . . . . . . . . 544 2. Jaspers: la filosofia e la scienza . . . . . . . . . . . . . . . . 545 T1 La ricerca scientifica e il suo senso (p. 546)
3. Situazione e libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 547
Unità 12
Heidegger e l’ermeneutica
. . . . . . . . . . . . . . . . . 475
1. Storicità e metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 476 2. Un metafisico nella tempesta . . . . . . . . . . . . . . . . . 478 T1 Il pensiero (p. 480)
3. Il giovane Heidegger: fenomenologia, ontologia, vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 481 T2 Logica, teoria della conoscenza, ontologia (p. 483); T3 Il contesto «translogico»: metafisica e azione (p. 484); T4 Lo spirito vivente (p. 485)
T2 L’io di fronte alla situazione-limite (p. 547); T3 Scelta e riconoscimento dell’identità (p. 548); T4 L’angoscia di fronte alla morte e la certezza d’essere (p. 549)
4. Il naufragio e la trascendenza . . . . . . . . . . . . . . . . . 549 T5 Il naufragio della metafisica (p. 550); T6 Trascendenza e autenticità dell’essere (p. 550); T7 Azione e consapevolezza dell’essere (p. 551)
2. Sartre e l’esistenzialismo francese
. . . . . . . . . . . . . . . . 552 1. Le origini dell’esistenzialismo in Francia: Marcel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 552
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2. L’essere in-sé e l’essere per-sé . . . . . . . . . . . . . . . . . 552 T8 Il nulla come possibilità propria dell’essere (p. 553); T9 L’intenzionalità costitutiva della coscienza (p. 554)
3. La libertà e la malafede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 555 T10 L’esistenza umana come progettualità (p. 555); T11 L’uomo di fronte alle proprie responsabilità (p. 556); T12 L’angoscia e il sentimento di responsabilità (p. 557)
4. L’essere per-altri e la morale dell’impegno . . . . . . 557 T13 Vergogna e riconoscimento (p. 557); T14 Libertà umana e creazione dei valori (p. 558);
5. Merleau-Ponty . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 559 T15 Il tutto della percezione e le coscienze altrui (p. 560)
6. Mounier e il personalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 561 Sommario (p. 562), Parole chiave (p. 563), Questionario (p. 564)
Unità 14
Capitalismo e teoria della società
. . . . . . . . . . 565
1. Analisi del capitalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 566 2. Weber . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 567 1. La comprensione del mondo moderno . . . . . . . . . . 567 2. Protestantesimo e spirito del capitalismo . . . . . . . 569 T1 Il tempo è denaro (p. 570); T2 L’attività economica come scopo in se stessa (p. 571)
3. La religione e il disincantamento del mondo . . . . 572 T3 Il problema della teodicea (p. 573); T4 Il significato della razionalizzazione (p. 576); T5 La scienza moderna e il senso del mondo (p. 577)
4. La razionalità del capitalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 577 T6 Razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo (p. 578); T7 I tipi del potere legittimo (p. 579); T8 La «gabbia d’acciaio» (p. 581)
5. La filosofia dei valori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 582 T9 Grecia antica e ordinamento dei valori (p. 583); T10 La filosofia dei valori non può essere un sistema (p. 584)
6. Etica e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 584 T11 Principi e responsabilità (p. 585)
3. Il marxismo occidentale: Gramsci e Lukács
. . . . . . . 586 1. Gramsci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 587
T12 Il rifiuto dell’idealismo e del marxismo naturalistico (p. 587); T13 La realtà è un fatto storico (p. 589); T14 Superamento della filosofia della prassi (p. 590); T15 Le ideologie sono strumenti di dominio (p. 591); T16 Il rapporto tra intellettuali e gruppo sociale dominante (p. 592)
2. Lukács . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 592 T17 Le contraddizioni appartengono all’essenza della società capitalistica (p. 594); T18 La contrapposizione tra l’individuo e il suo lavoro (p. 595); T19 La coscienza di classe del proletariato tende alla verità (p. 596); T20 Il pensiero irrazionalistico è espressione della borghesia (p. 597)
4. La Scuola di Francoforte
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 598 1. Horkheimer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 599
T21 La ricerca sociale è interdisciplinare (p. 600); T22 Due
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tipi di ragione (p. 601); T23 La società industriale trasforma gli uomini in cose (p. 603)
2. Adorno e Benjamin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 603 T24 Il divertimento è rinuncia alla riflessione sulla realtà sociale (p. 604); T25 La dialettica deve far emergere le contraddizioni della realtà (p. 605); T26 La valutazione della musica è una finzione (p. 606); T27 All’unicità degli oggetti si è sostituita la loro ripetibilità (p. 607)
3. Marcuse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 608 T28 Negazione del principio di prestazione e liberazione degli istinti (p. 609) Sommario (p. 612), Parole chiave (p. 613), Questionario (p. 614)
Laboratorio di lettura: Weber, La politica come professione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 615 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 620 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Responsabilità . . . . . . 621 Esercitiamoci sulla responsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 624
Percorso tematico • Immagini critiche della scienza e della tecnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 625 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 634
Unità 15
I padri dell’empirismo: Moore, Russell, Wittgenstein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
635
1. L’empirismo e la filosofia analitica . . . . . . . . . . . . . . . . 636 2. Moore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 637 1. La difesa del senso comune . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 637 T1 L’esistenza degli oggetti esterni (p. 638); T2 Colore, forma, spazialità (p. 639)
2. L’analisi dell’etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 640 T3 La chiarificazione dei problemi filosofici (p. 640); T4 La domanda fondamentale dell’etica (p. 641); T5 L’indefinibilità di «buono» (p. 641)
3. La fallacia naturalistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 642 T6 L’irriducibilità di «buono» (p. 642)
4. I criteri della condotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 643 T7 Buono come mezzo e buono in se stesso (p. 644); T8 La critica filosofica dell’edonismo (p. 644)
3. Russell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 645 1. La logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 646 T9 Logica delle relazioni e logica dei predicati (p. 647)
2. L’epistemologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 649 T10 Atomismo logico e senso comune (p. 650); T11 Un linguaggio logicamente perfetto (p. 650); T12 Conoscenza per esperienza e conoscenza per descrizione (p. 651); T13 Evoluzione umana e limiti dell’empirismo (p. 652)
3. L’impegno politico e la riflessione etica . . . . . . . . . 652 T14 Valutazione etica ed espressione delle emozioni (p. 653)
4. Wittgenstein
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1. Il linguaggio e il mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 654 T15 Fatti, stati di cose e oggetti (p. 655); T16 Natura delle proposizioni (p. 656); T17 La verità come concordanza con i fatti (p. 657)
2. Logica, scienza e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 658 T18 Tautologie e contraddizioni (p. 658); T19 Induzione e causalità (p. 659); T20 Natura, scopo e limite della filosofia (p. 659)
3. Le Ricerche filosofiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 661 T21 La molteplicità dei «giuochi linguistici» (p. 661); T22 La «famiglia» dei giuochi linguistici (p. 663); T23 Il carattere descrittivo della filosofia (p. 663); T24 La dissoluzione dei problemi filosofici (p. 664) Sommario (p. 666), Parole chiave (p. 667), Questionario (p. 668)
Laboratorio di lettura: Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 669 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 676
T10 Esperienza e costituzione degli oggetti (p. 729); T11 Controllo e conferma degli enunciati (p. 731)
4. Reichenbach e Neurath . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 732 T12 L’utilità dell’induzione (p. 733); T13 Scienza e filosofia (p. 734); T14 Proposizioni e coerenza del sistema (p. 735)
3. Gli sviluppi dell’empirismo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 736 1. Popper e il falsificazionismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 736
T15 L’elemento creativo dell’attività scientifica (p. 737); T16 Scientificità e confutabilità (p. 738); T17 Gli incerti fondamenti della scienza (p. 739); T18 Teorie scientifiche, confutabilità, realtà oggettiva (p. 740)
2. Quine e i due dogmi dell’empirismo . . . . . . . . . . . . 740 T19 I «due dogmi» dell’empirismo moderno (p. 741); T20 Critica della nozione di «analiticità» (p. 741); T21 Il «campo di forza» della scienza e le sue dinamiche (p. 742); T22 La sottodeterminazione empirica del riferimento (p. 743); T23 L’epistemologia come parte della psicologia sperimentale (p. 744)
3. Putnam e il realismo interno . . . . . . . . . . . . . . . . . . 745 T24 Prospettiva «esternista» e prospettiva «internista» (p. 745)
Percorso tematico • La natura del linguaggio
. . . . . . . . 677 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 689
Sommario (p. 748), Parole chiave (p. 749), Questionario (p. 750)
Percorso tematico • Mente, cervello, macchina
. . . . . . 751
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 764
Parte terza Verso la filosofia contemporanea
. . . 691
Unità 17
Dallo strutturalismo al decostruzionismo
Introduzione
Il dibattito filosofico contemporaneo
. . . . . . 695
1. Gli sviluppi della filosofia contemporanea . . . . . . . 696 2. Analitici e continentali: una distinzione legittima? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 698 3. La filosofia morale e politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 699
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 765
1. Genesi e diffusione dello strutturalismo
. . . . . . . . . . 766 1. De Saussure e il Circolo di Praga: la rivoluzione strutturalista in campo linguistico . . . . . . . . . . . . . . 766 2. Lévi-Strauss: la diffusione dello strutturalismo nelle scienze umane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 767
T1 Il pensiero senza soggetto (p. 769)
Percorso tematico • Che cos’è la filosofia?
. . . . . . . . . . 703
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 716
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 770 1. Archeologia del sapere e morte dell’uomo . . . . . . 772
T2 L’«archeologia» e le condizioni di possibilità della conoscenza (p. 773)
Unità 16
Dall’empirismo logico all’empirismo contemporaneo
2. Foucault
2. Genealogia del potere, «assoggettamento» e «soggettivazione» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 775 . . . . . . . . . . . . . . 717
1. L’empirismo e la scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 718 2. L’empirismo logico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 719 1. Il Circolo di Vienna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 720 T1 La genesi del ‘manifesto’ (p. 720); T2 La natura delle asserzioni metafisiche (p. 721); T3 Gli errori della metafisica tradizionale (p. 722); T4 La negazione dei giudizi sintetici a priori (p. 723); T5 Il principio di verificazione (p. 724)
2. Schlick e la svolta della filosofia . . . . . . . . . . . . . . . 725 T6 La natura del giudizio (p. 725); T7 La metafisica come insieme di pseudo-problemi (p. 726); T8 La filosofia «regina delle scienze» (p. 727); T9 L’etica come scienza dei fatti della coscienza (p. 728)
3. Carnap e la costruzione logica del mondo . . . . . . . 729
3. Derrida e il decostruzionismo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 777 1. Il primato della scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 779 2. Decostruzione e «differance» . . . . . . . . . . . . . . . . . . 781 3. Decostruzione etico-politica e «democrazia a venire» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 783
T3 Fraternità, amicizia e «democrazia a venire» (p. 784) Sommario (p. 786), Parole chiave (p. 787), Questionario (p. 788)
Unità 18
La filosofia della scienza
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 789
1. Scienza e filosofia della scienza . . . . . . . . . . . . . . . . 790 2. Il metodo scientifico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 793 T1 L’asserzione scientifica (p. 803); T2 L’asimmetria tra ve-
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Indice
rificabilità e falsificabilità (p. 803); T3 Storia e filosofia della scienza (p. 809); T4 L’osservazione non è neutrale (p. 810)
3. La questione del realismo scientifico . . . . . . . . . . . 813 T5 L’empirismo costruttivo (p. 814)
quilibrio riflessivo (p. 841); T19 Intesa intersoggettiva e soluzione dei conflitti (p. 843)
3. Le teorie dei diritti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 844 T20 Lo Stato minimo (p. 845)
Sommario (p. 816), Parole chiave (p. 817), Questionario (p. 818)
3. La bioetica
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 846 1. Etica applicata e bioetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 846
T21 Etica tradizionale e filosofia applicata (p. 847)
Unità 19 . . . . . . . . . . 819
2. Etica della disponibilità e della non-disponibilità della vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 847
. . . . . . . . . . . . . 820 1. L’intuizionismo di Ross . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 820
3. I problemi della bioetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 850
Etica, filosofia politica e bioetica 1. La discussione sulla natura dell’etica
T1 Intuizione della verità morale (p. 821); T2 Doveri prima facie e doveri effettivi (p. 822); T3 Un atto è giusto in virtù della sua stessa natura (p. 823); T4 Importanza morale delle relazioni personali (p. 824)
2. L’emotivismo di Ayer e Stevenson . . . . . . . . . . . . . . 824 T5 I giudizi morali non asseriscono fatti (p. 826); T6 Sentimenti e attitudini (p. 827); T7 Disaccordo tra credenze e disaccordo tra attitudini (p. 828)
3. Il prescrittivismo di Hare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 829 T8 I giudizi morali non hanno una funzione persuasiva (p. 830); T9 Regole del ragionamento morale (p. 831); T10 L’uguale peso delle preferenze uguali (p. 832)
T22 La ragione creatrice e l’uomo (p. 848) T23 Tutela nelle fasi dello sviluppo embrionale (p. 851); T24 Questione di principio e questione di prudenza (p. 854); T25 Illiceità dell’eutanasia (p. 856)
4. Gli animali e la natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 857 T26 Principio dell’eguale considerazione degli interessi (p. 858); T27 La comunità morale è la terra (p. 859) Sommario (p. 862), Parole chiave (p. 863), Questionario (p. 864)
Tesi a confronto Osservare e valutare: dobbiamo continuare a distinguere questi due tipi di giudizi nell’uso linguistico? . . . . . . . 865 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 868
4. Il naturalismo di Foot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 833 T11 Bontà e difetto dipendono dalla forma di vita della specie (p. 833); T12 Il difetto morale è una forma di difetto naturale (p. 834)
2. La filosofia politica
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 835 1. Arendt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 835
T13 L’azione è una seconda nascita (p. 836)
2. Le teorie della giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 837 T14 La giustizia sociale (p. 837); T15 I beni primari (p. 838); T16 I principi di giustizia sono frutto di un accordo (p. 840); T17 L’ignoranza garantisce l’imparzialità (p. 840); T18 L’e-
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Percorso tematico • Utilitarismo e oltre
. . . . . . . . . . . . . 869
Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 880
LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Relativo . . . . . . . . . . . . 881 Esercitiamoci sul relativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 884
Scenari presenti e futuri a cura di Remo Bodei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 885
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Indice delle opere antologizzate L’indice fa riferimento ai testi presenti nelle Unità e nei «Percorsi tematici»
ADORNO T.W. Dialettica negativa: 605; Il carattere di feticcio della musica e la sua regressione nell’ascolto: 606 ARENDT H. Vita activa: 836 AYER A.J. Linguaggio, verità e logica: 826 BAUER B. La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum: 18 BENJAMIN W. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: 607 BERGSON H. Introduzione alla metafisica: 261; Le due fonti della morale e della religione: 264; Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903: 256; Saggio sui dati immediati della coscienza: 257, 259 BOOLE G. Indagine sulle leggi del pensiero: 391 BRADLEY F.H. Apparenza e realtà: 296 BREUER J. - FREUD S. Studi sull’isteria: 351 CARNAP R. Autobiografia intellettuale: 729; Controllabilità e significato: 731; Sintassi logica del linguaggio: 709 CASSIRER E. Filosofia delle forme simboliche: 244; Il linguaggio e la costruzione del mondo oggettivo: 681 COMTE A. Corso di filosofia positiva: 92, 94, 95, 97, 98; Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società: 92, 93; Sistema di politica positiva: 99 CROCE B. Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: 313; Hegel e l’origine della dialettica: 324; La filosofia della pratica: 316; Teoria e storia della storiografia: 319 DARWIN C. L’origine delle specie: 111; L’origine dell’uomo e la selezione sessuale: 112, 113 DEDEKIND R. Che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i numeri?: 392; Continuità e numeri irrazionali: 393 DE MARCO J.P. - FOX R.M. Nuove direzioni in etica: 847 DENNETT Pensiero veloce: 759, 760 DERRIDA J. Le politiche dell’amicizia: 784 DEWEY J. Come pensiamo: 286; Esperienza e natura: 285, 289; Il mio credo pedagogico: 292; Logica: teoria dell’indagine: 287; Necessità di un risana-
mento della filosofia: 284; Teoria della valutazione: 289, 290, 291 DILTHEY W. Introduzione alle scienze dello spirito: 250; L’essenza della filosofia: 705, 706 DUMMETT M. La natura e il futuro della filosofia: 715 EINSTEIN A. Autobiografia scientifica: 410, 413, 414, 415, 417; Concetti fondamentali e metodi della teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo: 418; Fondamenti della fisica teorica: 419; L’elettrodinamica dei corpi in movimento: 415; Scienza e società: 632; Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce: 423 FEUERBACH L. Feuerbach e Hegel: 23; L’essenza del Cristianesimo: 27, 29, 228; Principi della filosofia dell’avvenire: 24, 25, 30, 31, 32 FOOT P. La natura del bene: 833, 834 FOUCAULT M. Le parole e le cose (Intervista con Raymond Bellour): 773 FRAASSEN B.C. VAN L’immagine scientifica: 814 FRANK P. La scienza moderna e la sua filosofia: 720 FREGE G. I fondamenti dell’aritmetica: 395 FREUD S. Il disagio della civiltà: 628; Introduzione alla psicoanalisi. Prima e seconda serie di lezioni: 361; L’avvenire di un’illusione: 628; Lettere a Wilhelm Fliess: 353; L’interpretazione dei sogni: 357, 358; L’Io e L’Es: 355; Psicopatologia della vita quotidiana: 358; Studi sull’isteria: 351; Totem e tabù: 356; Tre saggi sulla teoria sessuale: 359; Una difficoltà della psicoanalisi: 346 GADAMER H.-G. Uomo e linguaggio: 686; Verità e metodo: 528, 530 GENTILE G. Il circolo della filosofia e della storia della filosofia: 330; La riforma della dialettica hegeliana: 327 GIOVANNI PAOLO II Veritatis splendor: 848 GRAMSCI A. Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura: 592; Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce: 589, 590, 591 GREEN TH.H. Etica: 294 HABERMAS J. Etica del discorso: 843
HAHN H. - NEURATH O. - CARNAP R. La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna: 721, 722, 723 HANSON N.R. I modelli della scoperta scientifica: 810 HARE R.M. Come decidere razionalmente le questioni morali: 832; Il linguaggio della morale: 830; Libertà e ragione: 831, 876 HEIDEGGER M. Dell’essenza della verità: 520; Dell’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone: 506; Essere e tempo: 494, 495, 498, 500, 505, 507, 513, 515; Hölderlin e l’essenza della poesia: 518, 519; Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica: 493; I problemi fondamentali della fenomenologia: 711; La dottrina del giudizio nello psicologismo: 483; La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto: 484, 485; Lettera sull’«umanismo»: 525; Logica. Il problema della verità: 486, 504, 513, 684; L’origine dell’opera d’arte: 521; Ontologia. Ermeneutica della fatticità: 492; Ormai solo un Dio ci può salvare. (Intervista con lo «Spiegel»): 480; Perché i poeti?: 523, 686; Per la determinazione della filosofia: 487, 489; Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20): 490; Prolegomeni alla storia del concetto di tempo: 502 HORKHEIMER M. Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale: 601, 633; L’Istituto per la ricerca sociale e la sua rivista: 600 HORKEIHMER M. - ADORNO T.W. Dialettica dell’illuminismo: 603, 604 HUSSERL E. Esperienza e giudizio: 448; Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica: 441; Kant e l’idea della filosofia trascendentale: 444; La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: 433, 450, 452, 453, 630; Lezioni sulla sintesi passiva: 447; L’idea della fenomenologia: 443; Ricerche logiche: 436, 437; Ricerche logiche. Ricerche sulla fenomenologia e sulla teoria della conoscenza: 438, 439 JAMES W. Il filosofo morale e la vita morale: 281; Il pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare: 278;
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Indice delle opere antologizzate
La volontà di credere e altri saggi: 280; Principi di psicologia: 282; Saggi sull’empirismo radicale: 282 JASPERS K. Filosofia: 546, 547, 548, 549, 550, 551; La situazione spirituale del nostro tempo: 629 KIERKEGAARD S. L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità: 63, 64, 65; Timore e tremore: 66, 67 KUHN T.S. La struttura delle rivoluzioni scientifiche: 809 LABRIOLA A. La concezione materialistica della storia: 587 LAPLACE P.-S. Saggio filosofico sulle probabilità: 403 LECALDANO E. Bioetica. Le scelte morali: 851 LEOPOLD A. L’almanacco di Sand County e appunti qua e là: 859 LÉVI-STRAUSS C. Il cotto e il crudo: 769 LUCAS LUCAS R. Bioetica per tutti: 856 LUKÁCS G. La distruzione della ragione: 597; Storia e coscienza di classe: 594, 595, 596 MARCUSE H. Eros e civiltà: 609 MARX K. Il capitale: 152, 153, 154; La questione ebraica: 133, 134, 135; Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica: 161; Manoscritti economico-filosofici: 139, 140, 141, 142, 143, 144; Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: 135, 137, 231; Per la critica dell’economia politica: 148, 150 MARX K. - ENGELS F. Il manifesto del partito comunista: 158, 160; L’ideologia tedesca: 146, 147, 148, 150, 151 MAXWELL J.C. Gli articoli scientifici di James Clerk Maxwell: 409 MERLEAU-PONTY M. Fenomenologia della percezione: 560 MILL J.S. La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne: 106, 107, 108, 109, 870, 871; Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica: 108; Sistema di logica deduttiva e induttiva: 101, 102, 103, 104, 105
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MOORE G.E. Etica: 644, 873; La prova dell’esistenza del mondo esterno: 638; Natura e realtà degli oggetti della percezione: 639; Principia Ethica: 640, 641, 642, 644, 873 NAGEL TH. Che effetto fa essere un pipistrello?: 761, 762, 763 NEURATH O. Fisicalismo: 734; Proposizioni protocollari: 735 NIETZSCHE F. Al di là del bene e del male: 197, 208; Così parlò Zarathustra: 199; Genealogia della morale: 192, 200, 202, 204, 205, 206, 207; Il crepuscolo degli idoli: 195; La gaia scienza: 181, 208, 232, 233; La nascita della tragedia: 185, 187; Lettera a Theodor Fritsch del 29 marzo 1887: 181; Sull’utilità e il danno della storia per la vita: 184, 189, 190; Umano, troppo umano: 193, 194, 198 NOZICK R. Anarchia, stato e utopia: 845 PEIRCE CH.S. Come rendere chiare le nostre idee: 272, 273; Il fissarsi della credenza: 272, 274; Scienza e pragmatismo: 275, 276 POINCARÉ J.-H. La scienza e l’ipotesi: 389 POPPER K. La logica della scoperta scientifica: 737, 739, 803; Problemi, scopi e responsabilità della scienza: 738; Tre punti di vista sulla conoscenza umana: 740 PUTNAM H. Due prospettive filosofiche: 745 QUINE W.V.O. Due dogmi dell’empirismo: 741, 742; Epistemologia naturalizzata: 744; Parola e oggetto: 743 RATZINGER J. Presentazione a Veritatis splendor: 848 RAWLS J. Due concetti di regola: 875; Una teoria della giustizia: 837, 838, 840, 841, 878 REICHENBACH H. L’empirismo logico in Germania e lo stato attuale dei suoi problemi: 733 ROSS W.D. Il giusto e il bene: 821, 822, 823, 824, 874 RUGE A. I nostri ultimi dieci anni: 21
RUSSELL Icaro o il futuro della scienza: 627; I problemi della filosofia: 651; La conoscenza umana. Le sue possibilità e i suoi limiti: 652; La filosofia dell’atomismo logico: 650; La nostra conoscenza del mondo esterno: 647; Religione e scienza: 653 SAINT-SIMON C.-H. DE Memoria sulla scienza dell’uomo: 90 SARTRE J.P. L’esistenzialismo è un umanismo: 555, 557, 558; L’essere e il nulla: 553, 554, 556, 557 SCARPELLI U. Bioetica laica: 854 SCHLICK M. La svolta della filosofia: 726, 727; Problemi di etica: 728; Significato e verificazione: 724; Teoria generale della conoscenza: 725 SCHOPENHAUER A. Il mondo come volontà e rappresentazione: 43, 44, 46, 47, 48, 50, 51, 53, 57; La libertà del volere umano: 54 SEARLE J. Menti, cervelli e programmi: 757 SEN A.K. Lo sviluppo è libertà: 879 SIDGWICK H. I metodi dell’etica: 872 SINGER P. Liberazione animale: 858 SPENCER H. I primi principi: 114, 115, 117; Principi di sociologia: 118 STEVENSON C.L. Etica e linguaggio: 827, 828 STIRNER M. L’Unico e la sua proprietà: 33 TURING A.M. Calcolatori e intelligenza: 754 WEBER M. Economia e società: 578, 579; Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche: 584; La politica come professione: 573, 585; La scienza come professione: 235, 576, 583; L’etica protestante e lo spirito del capitalismo: 570, 571, 581; Sociologia della religione: 577 WINDELBAND W. Preludi: 241, 245 WITTGENSTEIN L. Libro blu: 753; Ricerche filosofiche: 661, 663, 664, 682; Tractatus logico-philosophicus: 655, 656, 657, 658, 659, 678, 706
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
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Cambridge Harvard University
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Yale University
New York Columbia University
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Marburgo Heidelberg Tubinga Cambridge Oxford Copenaghen Friburgo Danzica Parigi Berlino Basilea Gottinga Torino Bologna Montpellier Firenze Roma Napoli
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Introduzione La filosofia dell’Ottocento Unità 1 Con Hegel, contro Hegel Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Laboratorio sul lessico Bello / brutto Unità 3 Il positivismo Unità 4 Marx Unità 5 Nietzsche Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo Unità 8 Il neoidealismo italiano: Croce e Gentile Laboratorio sul lessico Libertà Unità 9 Freud e la psicoanalisi
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Introduzione La filosofia dell’Ottocento
1. La società e la storia come «seconda natura» 2. La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze
♦ La parola al critico: Löwith legge la crisi dello hegelismo
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
1 Settecento e natura umana
Ottocento: società e storia, la seconda natura
La graduale affermazione della storicità
La centralità di Hegel
Il positivismo e la sociologia
La psicologia come scienza sperimentale e la rivoluzione della psicoanalisi La novità della teoria di Darwin
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La società e la storia come «seconda natura» Se la filosofia del Settecento è stata una filosofia della natura umana, ivi inclusa l’analisi della razionalità che trova il suo coronamento nella rivoluzione kantiana, si potrebbe dire che, a partire da Hegel, la filosofia dell’Ottocento è in gran parte una filosofia della «seconda natura» nel significato hegeliano della dimensione sociale e storica della vita umana e dello «spirito». Dopo i grandi sistemi metafisici del Seicento che, da Cartesio a Leibniz, vedevano in Dio il grande garante delle capacità della mente dell’uomo, l’età dei Lumi aveva messo al centro dell’orizzonte la natura umana. Con Hegel interviene in modo decisivo una considerazione dell’uomo che lo vede incluso in un orizzonte più ampio della sua individualità. L’uomo viene inserito in un tessuto che diventa indispensabile per l’indagine filosofica e politica e per capire l’uomo stesso: la società, con i suoi rapporti economici e sociali e con le sue istituzioni, e la storia. Questa è ora la «seconda natura» con la quale ci si deve confrontare. Anche se è ingiusto vedere nel Settecento un’età in cui la riflessione si accontenta di categorie astratte e «astoriche» – basta pensare al Voltaire storico, a Montesquieu o all’eccezionale e antimoderna riflessione di Giambattista Vico – non v’è dubbio che gli anni a cavallo tra fine del XVIII secolo e inizio del XIX vedono il presentarsi della storicità come nuova forma di considerazione della vita degli uomini e dei contesti sociali e istituzionali in cui essi agiscono. In questa prospettiva emergente, il ruolo svolto da Hegel è certamente fondamentale per gran parte del secolo, sia per coloro che in qualche forma a lui si ispirano, anche criticamente, sia per quelli che vedono in Hegel, e nello hegelismo, il principale avversario. Sul fronte opposto all’idealismo, una stessa «seconda natura» (cioè l’importanza della società e della storia) è al centro della riflessione del pensiero positivistico, la cui passione per la scienza e per il progresso del sapere è strettamente legata alla promozione del benessere e del progresso sociale, come dimostrano Auguste Comte (1798-1857) o Herbert Spencer (1820-1903). È infatti caratteristica dell’atteggiamento positivistico l’idea di un avanzamento progressivo del sapere e delle capacità tecniche che investa direttamente le condizioni di vita dell’uomo. È in questo contesto, non a caso, che nasce la «sociologia» come studio scientifico dei fenomeni sociali che troverà un grande sviluppo nel secolo successivo (vedi Unità 3, p. 96). Alla fine del secolo una sorte analoga toccherà alla psicologia, che si distaccherà dalla filosofia per costituirsi come scienza sperimentale autonoma, collegata alle ricerche di neurologia e di fisiologia: da questo ambiente, poi, prenderà le mosse anche la rivoluzione di Sigmund Freud (1856-1939), che pure in breve tempo assumerà una configurazione originale, allargando incredibilmente i confini dell’indagine sulla psiche con lo studio dei fenomeni inconsci (vedi Unità 9, p. 347). Ma non si può tacere dell’altro grande aspetto che rivela la nuova importanza della storia. Intorno alla metà dell’Ottocento (1859) viene infatti pubblicato uno dei libri più importanti e più significativi del secolo, L’origine delle specie di Charles Darwin (1809-1882): le tesi evoluzionistiche corrispondono a un mutamento di mentalità e di prospettiva che arriva fin nel senso comune, scuote l’orgoglio dell’uomo rispetto al mondo animale e torna a preoccupare i difensori della verosimiglianza del racconto biblico già tante volte messo in discussione dalla tradi-
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Introduzione La filosofia dell’Ottocento
L’avvento della società capitalistica, le sue crisi e la riflessione di Marx
La richiesta di uguaglianza della società di massa e la reazione antiegualitaria di Nietzsche
2 Il sistema hegeliano come ultimo sistema metafisico
La critica a Hegel e la scissione tra pensiero e realtà
La controversia tra gli hegeliani
zione filosofica e scientifica. Questa volta, le tesi evoluzionistiche sembrano scuotere le fondamenta della teologia cristiana, mettendo chiaramente in dubbio la stessa ipotesi della creazione. La storia, il grande tema del secolo, investe così l’ambito stesso della natura, e il formarsi di una seconda natura si interseca con le vicende della prima. L’ingresso prepotente dei temi storici e sociali nella riflessione teorica corrisponde del resto a mutamenti profondi della società: l’Ottocento ai suoi inizi vede la nascita dell’industria capitalistica moderna e si conclude con un capitalismo ormai affermato in gran parte del mondo occidentale e con i primi segni di crisi economiche e sociali che periodicamente lo attraverseranno, ma alle quali saprà sempre reagire. È il mondo così acutamente descritto da Karl Marx (18181883), la cui profondità di analisi non è stata messa in discussione nemmeno dai più decisi critici. Si affaccia così sulla scena pubblica il proletariato, con le forme organizzative e politiche che vedono nelle riflessioni di Marx il proprio strumento teorico principale (vedi Unità 4, p. 137). La dimensione sociale e collettiva della vita – anch’essa «seconda natura» – assume un ruolo preponderante e impone a tutti una nuova riflessione, magari spingendo a rivendicare i diritti dell’individuo che vive una propria peculiare crisi di fronte all’importanza delle «masse» e alla crescente richiesta di un’uguaglianza non solo giuridica, ma che coinvolga gli aspetti concreti della vita, dei bisogni e del lavoro, come richiedono i movimenti socialisti. Un esempio alto di questa reazione individualistica è il pensiero di Friedrich Nietzsche (18441900), che da questo punto di vista esprime allo stesso tempo la percezione della crisi del ruolo degli individui e il tentativo di opporre agli ideali di uguaglianza una prospettiva antiegualitaria (vedi Unità 5, p. 201).
La crisi dei sistemi filosofici e lo statuto delle scienze Hegel come punto di partenza, quindi. Ma Hegel è anche un punto di arrivo, perché rappresenta l’ultimo grande sistema metafisico, l’ultimo enorme tentativo di condensare in una costruzione filosofica la realtà e la sua storia: in ciò sta del resto la sua grandezza e, per i critici già del suo tempo, il suo limite. Se la storicità segna di sé gran parte della filosofia dell’Ottocento, non si può dire lo stesso di questo secondo aspetto della filosofia hegeliana: sembra che il tempo dei grandi sistemi della filosofia sia passato, e viene addirittura messo in discussione lo statuto della filosofia. Lo si vede in filosofi significativi del XIX secolo, profondamente in debito verso Hegel ma al tempo stesso radicalmente critici, come Marx o Søren Kierkegaard (1813-1855) o, alla fine del secolo, lo stesso Nietzsche. Dopo che Hegel aveva cercato di presentare l’avvenuta «conciliazione» di pensiero e realtà, i decenni successivi mostreranno con forza che la conciliazione è un equivoco del pensiero, e metteranno il dito sulle piaghe di nuove fratture e tensioni della società, della politica, della religione. Il dibattito pro e contro Hegel animerà la riflessione su questi temi anche tra coloro che, in maniera diversa e spesso su fronti teorici opposti, si dichiareranno comunque suoi discepoli o prosecutori. Ma la palma dell’originalità filosofica va comunque riconosciuta a coloro che fecero della riflessione sullo hegelismo il fattore determinante di un pensiero critico e spesso rivoluzionario 7
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Il rapporto tra filosofia e università
Il positivismo e la metodologia delle scienze sociali
Il ritorno a Kant e l’autonomia delle scienze dello spirito
Bergson e i limiti della scienza
come Ludwig Feuerbach (1804-1872), Bruno Bauer (1809-1882), Arnold Ruge (1802-1880) e Max Stirner (1806-1856). La filosofia del XIX secolo ha come punto di riferimento le università: molti dei filosofi significativi sono docenti universitari, anche se l’immagine della filosofia accademica funziona in parte come riferimento polemico, come dimostrano Arthur Schopenhauer (1788-1860), che tuona contro di essa, Kierkegaard o ancora Nietzsche, brillante docente di filologia che finisce per abbandonare la propria cattedra e il cui primo scritto significativo – La nascita della tragedia (1872) – costituisce quanto di più lontano da un esercizio di filologia accademica si possa immaginare. Il grande sviluppo delle scienze naturali, insieme con il maturare della storiografia e della riflessione sulla storia, pone ai filosofi dell’Ottocento il problema dei rapporti tra le diverse discipline. In questa prospettiva, il positivismo cerca di trasferire sul piano delle scienze sociali – anche in nome della loro «scientificità» – il modello metodologico delle scienze naturali, considerate come un ideale da perseguire in tutti i campi del sapere (vedi Unità 3, p. 88). Ma si battono anche altre strade. Nell’ambito di un rinnovato interesse per la filosofia di Kant, che comincia a manifestarsi nella seconda metà del secolo e che in polemica con la metafisica idealistica torna a considerare essenziale per la filosofia la teoria della conoscenza, matura una riflessione metodologica che intende sottolineare la diversa natura delle discipline storico-sociali rispetto alle scienze naturali, e utilizza a questo fine la filosofia kantiana. Nasce così, con Wilhelm Dilthey (1833-1911) (vedi Unità 6, p. 249), la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, che intende difendere l’autonomia della ricerca sul mondo umano da quella che riguarda le scienze esatte e il mondo naturale. Una stessa esigenza antipositivistica, mirante in questo caso a sottolineare l’importanza della scienza ma anche i suoi limiti, è presente nell’indagine di Henri Bergson (1859-1941) sul tempo e sulla coscienza, polemica verso l’immagine del tempo consegnata dalla fisica moderna (vedi Unità 6, p. 256).
Suggerimenti bibliografici Per la filosofia dell’Ottocento, oltre al libro di K. Löwith da cui è tratto il brano riportato alle pagine seguenti, vedi P. Rossi - C.A. Viano (a cura di), Storia della filosofia, vol. 5. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1997; per una particolare lettura, in chiave marxista, della filosofia da Schelling all’inizio del XX secolo, vista come «irrazionalismo», vedi G. Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959.
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Introduzione La filosofia dell’Ottocento
La parola al critico Löwith legge la crisi dello hegelismo Nel brano che segue, il filosofo e storico della filosofia Karl Löwith (18971973) – allievo di Martin Heidegger (1889-1976) ma poi costretto all’emigrazione durante il nazismo perché di origine ebraica – traccia il fallimento del tentativo hegeliano di conciliare ragione e realtà vedendo nei filosofi successivi a Hegel, e in particolare in Marx e Kierkegaard, le espressioni filosofiche della «frattura del pensiero» che Hegel aveva cercato di comporre in unità. Hegel ritiene di aver mostrato la conciliazione tra filosofia e politica e tra filosofia e religione, mentre in Marx e in Kierkegaard si trovano le espressioni del rifiuto delle pretese hegeliane, per il primo sul piano socialepolitico, per il secondo sul piano esistenziale-religioso.
La dissoluzione dello hegelismo da K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del pensiero nel secolo XIX
L’atteggiamento critico di Marx e Kierkegaard
La concezione hegeliana della realtà dello Stato e il suo rapporto con la Logica
La conciliazione di ideale e reale
La Filosofia del diritto di Hegel, apparsa contemporaneamente al primo corso sulla filosofia della religione, è la realizzazione concreta della tendenza di principio a conciliare la filosofia con la realtà in genere: come filosofia dello Stato con la realtà politica; come filosofia della religione con quella cristiana. In entrambi i campi non soltanto Hegel si concilia con la realtà, ma vi combacia addirittura, per quanto solo nel «comprendere». A questo punto culminante della sua attività, egli ha compreso il mondo reale come «conforme» allo Spirito e, d’altra parte, lo Stato prussiano-protestante si è impadronito della filosofia nella persona di Hegel. Nella prefazione alla Filosofia del diritto, Hegel spiega in modo chiaramente polemico «la posizione della filosofia di fronte alla realtà». Qui sta il punto problematico, cui si sono attaccati Marx e Kierkegaard con la loro tesi, secondo cui la filosofia dev’essere realizzata. La teoria filosofica diventò in Marx «il cervello del proletariato» e in Kierkegaard il pensiero puro divenne il «pensatore esistente», poiché la realtà effettuale non sembrò loro né razionale né cristiana. La filosofia dello Stato di Hegel si volge contro l’opinione che nella realtà non si sia ancora mai visto uno Stato razionale, e che il vero Stato sia un semplice «ideale» e un «postulato». La vera filosofia in quanto «approfondimento del razionale» è per ciò stesso anche la comprensione dell’«attuale e del reale»: non già un postulare qualcosa di trascendente, uno Stato ideale, che debba soltanto essere, ma non esista mai. Egli intendeva lo Stato prussiano del 1821 come una realtà nel senso definito dalla Logica, cioè come un’unità divenuta immediata di essenza interna e di esistenza esterna, come una realtà nel senso «enfatico» della parola. In questa «maturità della realtà» ormai raggiunta – matura quindi anche per tramontare
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Contingenza e realtà
Le critiche a Hegel
La verità del cristianesimo in Hegel: conciliazione di umano e divino
Analogie tra Marx e Kierkegaard
In Hegel conformità tra Stato e religione
Il rifiuto della «religione del cuore»
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– il pensiero non si oppone più criticamente alla realtà, ma le si trova «di fronte» conciliato, come l’ideale al reale. La ragione cosciente di sé – cioè la filosofia dello Stato – e la ragione in quanto realtà sussistente – cioè in quanto Stato reale – sono unite l’una con l’altra, e «nella profondità» dello spirito sostanziale del tempo sono la stessa cosa. Quanto per altro sta «tra» la ragione come spirito autocosciente e la realtà sussistente, quanto cioè separa ancora quella da questa e contrasta alla conciliazione, è spiegato da Hegel, tanto apoditticamente quanto indeterminatamente, come «la catena di qualche astrazione che non si è ancora liberata nel concetto». La sua chiarificazione del concetto di realtà razionale supera questo hiatus irrationalis attraverso la distinzione tra «apparenza» ed «essenza», «corteccia variopinta» e «polso interiore», casuale esistenza esterna e necessaria realtà intima. L’esclusione hegeliana dell’esistenza «casuale» e solo passeggera dal campo di interesse della filosofia, quale conoscenza della realtà, si volse tuttavia contro lui stesso, nel rimprovero mossogli di un «accomodamento» proprio alla realtà transeunte. Questo adattarsi alla realtà effettuale viene mascherato nell’intendimento hegeliano di quel «che è», per la circostanza che quel «che è» comprende tanto ciò che soltanto sussiste quanto anche ciò che è veramente reale. […] La verità filosofica del cristianesimo consisteva per Hegel nel fatto che Cristo ha conciliato la scissione dell’umano e del divino. Questa riconciliazione può realizzarsi per l’uomo solo in quanto s’è già avverata in sé nella persona di Cristo; essa deve però essere prodotta attraverso di noi e per noi stessi per diventare in sé e per sé la verità che è. Questa unità della natura divina ed umana in genere, confermata per Hegel dall’umanizzarsi di Dio, fu nuovamente dissolta tanto da Marx quanto da Kierkegaard. Il deciso ateismo di Marx e la sua fede assoluta nell’uomo come tale sono, quindi, per quanto concerne i principi, più distanti da Hegel che da Kierkegaard, la cui fede paradossale ha come presupposto la differenza tra Dio e l’uomo. Per Marx, il cristianesimo è un «mondo falso»; per Kierkegaard, uno stare lontano dal mondo «dinanzi» a Dio; per Hegel, un essere nella verità, sulla base dell’umanizzarsi di Dio. Una natura divina e umana «in uno solo» è sì un’espressione dura e scabrosa, ma solo in quanto la si intenda rappresentativamente e non la si comprenda spiritualmente. Nella «prodigiosa connessione» «uomo-dio» si presenta all’uomo come una certezza il fatto che la debolezza finita della natura umana non è inconciliabile con tale unità. […] Poiché Dio comprende ontologicamente, partendo dallo Spirito come Assoluto, tanto lo Stato quanto il cristianesimo, anche religione e Stato sono conformi l’una all’altro. Egli discute il loro rapporto badando alla loro differenza e mirando alla loro unità. L’unità sta nel contenuto, la differenza nella forma diversa di un medesimo contenuto. Poiché la natura dello Stato è una «volontà divina in quanto presente», uno spirito sviluppantesi nell’organizzazione reale di un mondo, e poiché, d’altro canto, la religione cristiana non ha altro contenuto che l’assoluta verità dello Spirito, Stato e religione possono e debbono ritrovarsi sul terreno dello spirito cristiano, pur separandosi in Chiesa e Stato nella formazione del medesimo contenuto. Una religione puramente del «cuore» e dell’«interiorità», che sia «polemica» nei confronti delle leggi e delle istituzioni dello Stato e della ragione
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Introduzione La filosofia dell’Ottocento
Accordo essenziale tra Stato e religione
Hegel come ultimo filosofo cristiano
Le critiche atee della sinistra hegeliana: Feuerbach e Ruge
La critica religiosa di Kierkegaard
Diversità di ambiti tra filosofia e cristianesimo
pensante, oppure che subisca solo passivamente la mondanità dello Stato, non testimonia la forza, ma la debolezza della certezza religiosa. «La vera fede è serena, priva di riguardi e di rapporti con la ragione, sia o no questa ragione in accordo con essa; la fede polemica vuole invece credere contro la ragione». Quest’ultima fede è propria della «nostra epoca», e ci si potrebbe domandare se sorga da un «vero bisogno» oppure da una «vanità insoddisfatta». La vera religione non ha nessuna tendenza negativa verso lo Stato esistente, ma lo riconosce e lo conferma, così come d’altro canto lo Stato riconosce il «controllo ecclesiastico». Ciò che al concetto di fede estremamente polemico di Kierkegaard sembrava un condannabile compromesso, era per Hegel un accordo essenziale. […] Mentre Hegel concepisce assolutamente, e insieme storicamente, il cristianesimo in connessione con il mondo e con lo Stato, egli è l’ultimo filosofo cristiano, prima della rottura tra filosofia e cristianesimo. Questa rottura è stata constatata e condotta a termine in due sensi opposti da Feuerbach e da Kierkegaard. Secondo Feuerbach, una mediazione tra la dogmatica cristiana e la filosofia dev’essere negata nell’interesse tanto della filosofia quanto della religione. Se, infatti, si prende il cristianesimo nella sua realtà determinata storicamente, e non lo si guarda come «idea» indeterminata, ogni filosofia è allora necessariamente irreligiosa, poiché essa indaga il mondo con la ragione e nega il miracolo. Nello stesso spirito, anche Ruge ha sostenuto che ogni filosofia, a partire da Aristotele, è «atea», poiché indaga e comprende la natura e l’uomo in generale. D’altro canto, neppure il cristianesimo può voler essere semplicemente un momento nella storia del mondo ed un puro fenomeno umano. «Filosofia e cristianesimo non potranno mai venire unificati»: così comincia un appunto del diario di Kierkegaard. Se, infatti, vogliamo affermare qualcosa dell’essenza del cristianesimo, la necessità della redenzione dovrà estendersi a tutta quanta l’umanità, anche cioè al suo sapere. Si può, è vero, pensare una filosofia «secondo il cristianesimo», quando cioè qualcuno sia diventato cristiano, ma non si tratta allora del rapporto della filosofia con il cristianesimo, bensì di quello del cristianesimo con la conoscenza cristiana: «a meno che non si voglia credere che la filosofia, posta di fronte al cristianesimo oppure nel suo ambito, non debba giungere al risultato che non è possibile risolvere l’enigma della vita». In tal caso, però, la filosofia, giunta al culmine della sua perfezione, determinerebbe la propria fine, e neppure potrebbe servire come ponte di passaggio verso il cristianesimo, dovendo essa arrestarsi a questo risultato negativo. Tutto sommato, qui sta l’abisso spalancato: il cristianesimo stabilisce che la conoscenza dell’uomo sia manchevole in seguito ai peccati, e venga rettificata dal cristianesimo; il filosofo cerca, proprio in quanto uomo, di rendersi conto del rapporto tra Dio ed il mondo: il risultato potrà quindi essere considerato come limitato, in quanto l’uomo è un essere limitato, ma al tempo stesso come il massimo per l’uomo in quanto tale (Kierkegaard, Diario).
L’errore di Hegel secondo Kierkegaard
Il filosofo, giudicato cristianamente, deve «o accogliere l’ottimismo, oppure disperare», perché, come filosofo, non conosce la redenzione per opera di Cristo. In antitesi a questo «aut-aut», Hegel ha divinizzato aristotelicamente la ragione, e ha determinato attraverso Cristo il divino.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La frattura della conciliazione hegeliana produce esiti diversi
La fine del mondo borghese-cristiano e l’estraniazione dell’uomo da sé
La conciliazione di Hegel, sulla base della filosofia, della ragione con la fede e del cristianesimo con lo Stato fu spezzata intorno al 1840. La storica rottura con la filosofia hegeliana significò per Marx una rottura con la filosofia dello Stato e per Kierkegaard con la filosofia della religione: in entrambi i casi con l’unificazione di Stato, cristianesimo e filosofia. Questa rottura venne compiuta con decisione pari a quella di Marx e di Kierkegaard, per quanto in modi differenti, anche da Feuerbach e da Bruno Bauer. Feuerbach riduce l’essenza del cristianesimo all’uomo sensibile; Marx alle contraddizioni del mondo umano; Bauer spiega la sua origine dalla decadenza del mondo romano; e Kierkegaard, abbandonando lo Stato cristiano, la Chiesa e la teologia cristiane, in breve tutta questa realtà storica di portata mondiale, riduce tale essenza al paradosso di un salto disperato nella fede. Comunque divergano le loro soluzioni particolari, tutti insieme essi distruggono il mondo borghese-cristiano, e con ciò anche la teologia filosofica della conciliazione di Hegel. La realtà non appariva loro più nella luce della libertà dell’essere presso di sé, ma nell’ombra dell’estraniarsi dell’uomo da sé. Nella chiara coscienza della piena conclusione della filosofia cristiana di Hegel, Feuerbach e Ruge, Stirner e Bauer, Kierkegaard e Marx, in quanto veri eredi della filosofia hegeliana, proclamarono una «trasformazione» negante decisamente lo Stato ed il cristianesimo esistenti. (trad. di G. Colli, Einaudi, Torino 1949, pp. 81-88)
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
1. Destra e Sinistra hegeliana 1. Hegel come l’«Alessandro il Grande» della filosofia: seguaci e nemici 2. La spaccatura della scuola hegeliana 3. Il dibattito sulla religione: Strauss e Bauer 4. Il dibattito politico: Ruge
2. Uomo, Dio e natura nel pensiero di Feuerbach 1. 2. 3. 4.
Filosofo della religione e «anti-Hegel» La critica della «filosofia teologizzante» La critica filosofica della religione La filosofia nuova: sensibilità, intersoggettività e amore
3. Dall’uomo all’«Unico»: Max Stirner ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Destra e Sinistra hegeliana
1 I testi
B. Bauer La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum: La filosofia hegeliana come dissoluzione del cristianesimo, T1
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A. Ruge I nostri ultimi dieci anni: Il nocciolo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria, T2
Hegel come l’«Alessandro il Grande» della filosofia: seguaci e nemici
Si è già accennato al significato epocale della filosofia hegeliana, che può essere considerata un vero e proprio spartiacque nella storia della filosofia occidentale; lo dimostra il fatto che, dopo la morte di Hegel, si è a lungo filosofato, e ancora oggi si continua a filosofare, pro e contro il suo pensiero. Anche dove non è esplicito il richiamo a quest’ultimo, e perfino quando si è cercato di opporsi apertamente alla sua influenza, Hegel ha finito spesso con l’imporre temi e motivi che hanno largamente caratterizzato l’orizzonte e i metodi della discussione filosofica negli ultimi due secoli. Prescindendo dall’eredità hegeliana di lungo periodo, occorre innanzitutto considerare l’influsso di Hegel in un raggio di tempo più breve, cioè negli ultimi anni della vita del filosofo e nei decenni immediatamente successivi alla sua morte. A partire dall’arrivo a Berlino, Hegel condiziona profondamente il panorama filosofico e culturale tedesco. La forza d’attrazione della sua filosofia è dovuta soprattutto alla grandiosa sintesi che essa era stata in grado di realizzare, attraverso il metodo della sistemazione enciclopedica, aggregando assieme i contenuti più disparati, dalla politica alla religione, dall’arte alla scienza. La scuola hegeliana È lo stesso Hegel, d’altronde, a preoccuparsi di diffondere il proprio pensiero, formando, a Berlino, la scuola che porta il suo nome – cioè la cosiddetta «scuola hegeliana» –, nella convinzione che presupposto indispensabile della penetrazione della propria filosofia in tutti i campi del sapere fosse la collaborazione disciplinata di molte energie. La scuola si diede anche un organo ufficiale, gli «Annali della critica scientifica», che furono fondati nel 1827 da un discepolo di Hegel, il giurista liberale Eduardo Gans (1797-1839), e raccolsero le pubblicazioni dei membri più autorevoli, come Karl Ludwig Michelet (1801-1893), autore, tra l’altro, di un’opera dal titolo significativo, uscita nel 1870: Hegel, il filosofo non contraddetto. Emblematico del rapporto dei discepoli con il maestro è il discorso tenuto alla sepoltura di Hegel da uno dei membri della scuola, Friedrich Cristoph Förster (1791-1868): in esso Hegel è paragonato ad Alessandro il Grande e i suoi allievi sono invitati a disporsi nei vari settori del suo regno, quasi come dei «diadochi» («successori») filosofici, per amministrarli secondo il suo spirito.
L’influenza del pensiero di Hegel
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel La scuola hegeliana non è dogmatica
Il realismo di Herbart
Ineliminabile contraddittorietà della realtà empirica
Studio scientifico della coscienza
Questa metafora militare e dinastica, pur esprimendo molto bene il clima intellettuale che Hegel lasciava morendo, non deve però far pensare né a una scuola dogmatica, fondata sulla acritica subordinazione al maestro, né a un dominio del tutto incontrastato della filosofia hegeliana nel mondo culturale tedesco. Per quanto riguarda il primo punto, la scuola hegeliana costituiva piuttosto un luogo di confronto critico, che avrà per esito una profonda spaccatura e, infine, la dissoluzione stessa dello hegelismo. Per quanto concerne il secondo aspetto, sarebbe un errore considerare l’epoca dell’idealismo tedesco e del trionfo della filosofia hegeliana come un blocco monolitico: anche nel momento di massima diffusione dell’idealismo non mancarono, infatti, voci dissenzienti, che cercavano di mantenere vive istanze realistiche. Nella prospettiva di una radicale opposizione alla filosofia idealistica merita di essere ricordato almeno il realismo di Johann Friedrich Herbart, che esercita una notevole influenza nella Germania ottocentesca. Il realismo di Herbart si fonda sulla rivendicazione dell’irriducibilità del carattere contraddittorio dei concetti forniti dall’esperienza, in polemica con la pretesa fichtiana o hegeliana di potere conciliare i termini opposti, riducendo l’essere all’agire dell’Io oppure arrivando alla sintesi assoluta e conclusiva del sapere assoluto. Questa contraddittorietà dei concetti empirici è per Herbart ineliminabile e incomponibile. Dunque alla filosofia come metafisica (ossia come scienza sull’essere) spetta unicamente il compito di riconoscerla, in quanto essa deriva dal fatto che l’intera realtà è costituita da una serie di «reali» (entità semplici e immutabili) tra i quali intercorrono rapporti di reciproca «perturbazione», a cui segue, da parte di ciascuno di essi, uno sforzo di autoconservazione. In questa prospettiva, anche le nostre rappresentazioni sono ridotte a forme di autoconservazione della coscienza, che è un reale in relazione con altri: quest’ultima appare dunque come il risultato di un processo storico e culturale che dà luogo a manifestazioni sempre diverse. Lo studio di queste manifestazioni deve secondo Herbart essere compiuto attraverso gli strumenti della matematica, che soli consentono di individuare leggi rigorose sui rapporti tra le diverse rappresentazioni, e di costruire così una vera e propria «statica» e «meccanica» della coscienza, le quali danno la conoscenza degli stati, per così dire, di equilibrio e di movimento di essa. In questo modo, Herbart pone le basi per la psicologia scientifica, che sarà realizzata tra Ottocento e Novecento.
La vita e le opere Johann Friedrich Herbart nacque a Oldenburg nel 1776. Fu allievo di Fichte a Jena, ma prese poi le distanze dal pensiero del maestro. Dopo aver interrotto gli studi fece il precettore in Svizzera, dove ebbe modo di conoscere l’opera del pedagogista Johann Heinrich Pestalozzi. Nel 1806 apparve lo scritto Pedagogia generale.
2 Destra e Sinistra nella scuola hegeliana
Nel 1809 ottenne la cattedra di filosofia e pedagogia nella città di Königsberg. Nel 1813 uscì l’Introduzione alla filosofia; nel 1824-1825 fu pubblicata l’opera Psicologia come scienza e pochi anni dopo, nel 1828-1829, Metafisica generale. Dal 1833 insegnò a Gottinga; nel 1835 uscì il Disegno di lezioni di pedagogia. Morì a Gottinga nel 1841.
La spaccatura della scuola hegeliana Pochi anni dopo la morte di Hegel (avvenuta nel 1831) la schiera dei suoi seguaci fu attraversata da violente contrapposizioni che ne determinarono la spaccatura in correnti antagoniste, denominate con i termini «Destra» e «Sinistra», 15
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Mantenimento o rinnovamento del sistema hegeliano
Argomenti del dibattito nella scuola hegeliana
desunti dal Parlamento francese, in cui venivano utilizzati per designare rispettivamente i conservatori e i progressisti. La distinzione, formulata per la prima volta da David Friedrich Strauss – che con la pubblicazione della sua Vita di Gesù contribuì in maniera decisiva alla radicalizzazione e alla cristallizzazione delle opposizioni – è in seguito entrata largamente nell’uso. Gli esponenti della cosiddetta Destra sono conservatori in quanto, prendendo le mosse da un’interpretazione letterale dell’identificazione del pensiero hegeliano con la fine della filosofia – prospettata da Hegel nelle lezioni di Storia della filosofia – si attribuiscono come unico compito quello di mantenere il sistema (l’insieme organizzato di concetti) del maestro, e al massimo di arricchirlo con ricerche storiche, senza rinnovarlo in modo sostanziale. Gli esponenti della cosiddetta Sinistra sono invece accomunati da un atteggiamento più critico nei confronti della filosofia hegeliana e dalla tendenza a un rinnovamento radicale, che sfocerà nella dissoluzione dello hegelismo. La divisione ha radici teoriche, ma corrisponde, sul piano biografico, alla frattura generazionale tra i discepoli di Hegel più anziani e quelli più giovani – per questo motivo si parla anche di «vecchi hegeliani» e «giovani hegeliani» – e a una netta contrapposizione sociale. Mentre i teorici della Destra occupano posizioni di primo piano nel mondo accademico tedesco, gli esponenti della Sinistra, per le loro posizioni radicali ed eterodosse, restano al di fuori dell’università o ne vengono espulsi, e sono costretti a vivere della loro penna, cioè della loro attività pubblicistica, giornalistica o letteraria. Gli argomenti che catalizzano il dibattito sull’eredità hegeliana sono principalmente due, in periodi successivi: 1) la questione del rapporto tra la filosofia hegeliana e il cristianesimo, su cui si focalizza l’attenzione nel corso degli anni trenta; 2) il problema del significato politico della filosofia hegeliana, che diventa il problema centrale a partire dagli anni quaranta. In entrambi i casi, com’è stato a ragione osservato, il dibattito tra la Destra e la Sinistra fu reso possibile e alimentato dalla «fondamentale equivocità dei ‘superamenti’ dialettici hegeliani». Tale equivocità consiste nel fatto che nella dialettica hegeliana il superamento ha al tempo stesso il significato del togliere e del conservare, in quanto in esso i due termini opposti sono tolti nella loro separazione, ma conservati in una superiore unità: questa ambivalenza fa sì che esso possa essere interpretato sia in senso conservatore sia in senso rivoluzionario.
La scuola hegeliana
Scuola hegeliana Destra = vecchi hegeliani
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Sinistra = giovani hegeliani
È conservatrice
È critica
Mantiene il sistema hegeliano senza introdurre innovazioni
Tende al rinnovamento della filosofia e conduce alla dissoluzione dello hegelismo
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
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Necessità del superamento della religione
Destra hegeliana: fondazione filosofica del cristianesimo
Sinistra hegeliana: umanizzazione del cristianesimo
➥ Percorso tematico, p. 225
Ateismo della filosofia di Hegel
Il dibattito sulla religione: Strauss e Bauer Quanto si è appena detto appare in maniera evidente nel caso della concezione hegeliana della religione e del dibattito relativo alla sua interpretazione. Si è visto che Hegel indica nell’Assoluto (ossia nella realtà razionale e infinita) il contenuto comune di religione e filosofia. Al tempo stesso, però, Hegel afferma la necessità di superare la prima nella seconda, a causa dell’inadeguatezza della forma rappresentativa attraverso la quale l’Assoluto si manifesta nella religione: in quanto contingente e immediata, la rappresentazione non è adatta, nella prospettiva hegeliana, a esprimere il movimento necessario di mediazione in cui consiste l’Assoluto. Insistendo sul duplice significato del termine «superamento» nella dialettica hegeliana (che può essere inteso come conservazione o come eliminazione), gli esponenti della Destra – come Karl Friedrich Göschel (1781-1861) o Georg Andreas Gabler (1786-1853) – concepiscono la filosofia come giustificazione razionale del contenuto delle religioni rivelate, affermando la perfetta coerenza tra il cristianesimo e il pensiero hegeliano. Secondo gli hegeliani di Destra, dunque, la tesi dell’identità di «razionale» e «reale» non equivale né a una concezione panteistica – secondo la quale Dio è in tutto – né a una concezione immanentistica – secondo la quale Dio è nel mondo. A partire da questi presupposti, i «vecchi hegeliani» utilizzano il pensiero di Hegel al fine di offrire una fondazione filosofica dei dogmi cristiani, come l’immortalità dell’anima; ad essa è dedicato, per esempio, lo scritto di Göschel Sulle prove dell’immortalità dell’anima alla luce della filosofia speculativa (1835). Nell’ambito della «Sinistra hegeliana» il superamento filosofico della religione è inteso, al contrario, nel senso di una radicale umanizzazione del suo contenuto. Emblematica è in proposito la posizione sostenuta da Strauss nella Vita di Gesù. Riprendendo la tradizione di critica biblica risalente a Gotthold Ephraim Lessing e applicando all’interpretazione del Vangelo la teoria hegeliana della religione come «rappresentazione», Strauss arriva a ridurre il racconto evangelico della vita, morte e resurrezione di Cristo a «mito». Con questo termine Strauss intende l’espressione di un’idea metafisica nella forma del racconto, attraverso immagini: il mito evangelico – fondato su fatti storici realmente accaduti, miticamente trasfigurati dall’attesa messianica del popolo ebraico – esprime l’idea metafisica dell’unione di finito e infinito (Gesù Cristo è l’immagine dell’unità dell’uomo e di Dio). Tale idea, però, nella forma inadeguata del racconto, viene riferita a un singolo individuo, mentre in verità si realizza solo nell’intero genere umano. Il dibattito seguito alla pubblicazione della Vita di Gesù lascia emergere il possibile significato non cristiano, o addirittura ateo, della filosofia hegeliana, apertamente proclamato nello scritto di Bruno Bauer La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum. In esso Bauer – che, dopo aver esordito con scritti rigidamente ortodossi e aver sostenuto energicamente le posizioni della Destra, si era avvicinato alla Sinistra – finge un atteggiamento scandalizzato dinanzi all’ateismo della filosofia hegeliana, proponendone, con questo artificio letterario, un’interpretazione radicale. 17
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
La vita e le opere di F. Strauss e B. Bauer nuta l’abilitazione in teologia, si dedicò principalmente David Friedrich Strauss nacque a Ludwigsburg nel 1808. Compì i propri studi a Tubinga e divenne poi allievo del filosofo e teologo tedesco Friedrich Schleiermacher e di Hegel. Tra il 1832 e il 1835 insegnò all’università di Tubinga. Nel 1835-1836 pubblicò la Vita di Gesù e nel 1842 La fede cristiana nel suo sviluppo e nella lotta con la scienza moderna. Trent’anni dopo, nel 1872, uscì lo scritto L’antica e la nuova fede. Morì a Ludwisgburg nel 1874. Bruno Bauer nacque a Eisenberg, in Sassonia, nel 1809. Compì studi di filosofia e teologia a Berlino; otte-
alla storia e alla critica biblica. Dopo aver aderito alla Destra hegeliana, a partire dagli anni quaranta mutò radicalmente la propria posizione e si schierò con la Sinistra hegeliana. Nel 1840 uscì la Critica della storia evangelica di Giovanni; nel 1841 apparve invece, anonima, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum; nel 1842, La questione ebraica. A causa della radicalità delle sue tesi religiose fu sospeso dall’insegnamento universitario. Prese quindi a occuparsi di studi storici e politici. Morì a Rixdorf (presso Berlino) nel 1882.
In netta opposizione rispetto all’orientamento degli esponenti della Destra, che avevano affermato la piena concordanza tra la filosofia di Hegel e i dogmi cristiani, Bauer si sforza piuttosto di mostrare che questi ultimi, nell’interpretazione hegeliana, acquisiscono un significato completamente differente rispetto a quello che essi hanno nel cristianesimo: la Trinità, intesa come «rappresentazione» del movimento dialettico dell’auto-coscienza – che deve uscire al di fuori di sé e scindersi, per potere acquisire consapevolezza di sé, ritrovando la propria unità attraverso il suo ritorno in se stessa – risulta svuotata di ogni senso religioso e non ha nulla a che fare con il mistero oggetto di fede per i credenti. Riduzione della storia La concezione hegeliana della religione come «rappresentazione» implica dunsacra a illusione que, secondo Bauer, la riduzione dell’intera storia sacra, dall’incarnazione alla morte e resurrezione di Cristo, a mera illusione, o meglio a fiaba infantile e giovanile, di cui l’umanità e il singolo hanno bisogno solo fino a quando non hanno raggiunto il «concetto», cioè solo fino a quando non si sono elevati alla filosofia. Essa, dunque, ben lungi dall’offrire una giustificazione razionale della religione, la rende piuttosto superflua. La filosofia di Hegel, infatti, mostra che Dio non è altro se non il pensiero che ritrova la propria unità nello Spirito, dopo essersi distinto nel Figlio. La storia narrata dalla religione è una storia immaginaria vissuta dall’auto-coscienza, un’illusione analoga a quelle che gli uomini hanno nello stato tra il sonno e la veglia; essa è una sorta di fantasia, tipica dell’età giovanile. L’individuo adulto, invece, è cosciente di sé e delle proprie forze: non ha bisogno di affidarsi alla guida di un altro essere e sa di essere in grado, da solo, di dominare il mondo. Svuotamento di senso religioso dei dogmi in Hegel
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La filosofia hegeliana come dissoluzione del cristianesimo
B. Bauer, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, 12
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È vero, Hegel chiama «assoluta» la religione cristiana. Ma in quale significato? Solo perché essa rappresenta la esposizione e lo svolgimento puri della autocoscienza religiosa, cioè perché in essa mancano tutti quegli impulsi vivi, etici e artistici, che sono l’attrattiva e il contenuto delle altre religioni. […] la conseguenza è che il rapporto religioso si afferma e mantiene nella sua purezza, e che i filosofi possono quindi dissolverlo con tanto maggior facilità. Per Hegel la religione cristiana è la religione astratta. Saremmo assai sciocchi se a questo punto volessimo immaginarci che Hegel, quando parla del regno del padre e delle determinazioni del padre, del figlio e dello spirito intenda parlare della trinità della fede cristiana. Non ha forse egli detto, con tutta chiarezza, che Dio, questa rappresentazione della religione, non è altro che l’universalità dell’autocoscienza, nient’altro che il pensiero che acquista coscienza della sua universalità […]? Ed a questa impostazione egli ri-
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mane fedele anche quando espone la sua idea della trinità […]. Il padre è l’universale che si distingue in sé (nel figlio) e che toglie di nuovo nello spirito la differenza, tornando a essere unità. […] Queste sono le teorie di Hegel sulla religione. La trinità è considerata da lui il mondo immaginario dell’autocoscienza, e così anche la storia sacra del Redentore, secondo lui, è una di quelle illusioni che si verificano di solito in uno stato intermedio tra la veglia e il sonno; l’uomo reale e sveglio si ha soltanto nell’autocoscienza che si trova sola nel mondo e trova il mondo in se stessa. […] La trinità è la fiaba infantile, la storia sacra il romanzo della giovinezza, mentre l’uomo, il concetto, l’autocoscienza hanno ormai superato i giuochi della fanciullezza e la fantasia della giovinezza – l’uomo può contare ormai su se stesso e sulla sua forza interiore, con la quale egli sa di essere signore del mondo, e supera e si sottomette il mondo senza uscire da sé. Dunque, laddove la Destra hegeliana sostiene la piena concordanza tra la religione e la filosofia di Hegel, gli esponenti della Sinistra (in particolare, Strauss e Bauer) interpretano in senso radicale il tema hegeliano del superamento della religione nella filosofia: la storia sacra è un mito o una fiaba che non trova alcuna giustificazione razionale nel pensiero filosofico. Dibattito tra Destra e Sinistra hegeliana sulla religione
Hegel È necessario il superamento della religione nella filosofia Ambivalenza del concetto di superamento
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Due diverse interpretazioni del rapporto tra razionalità e realtà
Conservazione
Eliminazione
Destra: coerenza tra la filosofia di Hegel e i dogmi cristiani
Sinistra: contrasto tra la filosofia di Hegel e i dogmi cristiani
La filosofia è la giustificazione del contenuto della religione
La filosofia rende superflua la religione
Il dibattito politico: Ruge Come il dibattito sul rapporto tra il pensiero hegeliano e il cristianesimo affonda le sue radici nell’ambiguità del superamento filosofico della religione, allo stesso modo la discussione sul significato politico della filosofia hegeliana può essere ricondotta all’ambivalenza dell’equazione tra razionale e reale, che Hegel stesso pone a fondamento della sua concezione dello Stato, nella prefazione alla Filosofia del diritto. Gli esponenti della Destra fanno leva sull’affermazione della razionalità del reale per legittimare l’ordine politico esistente. Di contro, gli hegeliani di Sinistra sono accomunati da un atteggiamento di critica radicale nei confronti dell’esistente, fondata o sul rifiuto dell’identificazione tra razionalità e realtà oppure sul19
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la sottolineatura del significato rivoluzionario del celebre detto hegeliano («ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale»), al di là del suo carattere apparentemente reazionario e delle intenzioni del suo autore. Infatti, nella logica hegeliana, dove il termine «reale» non designa ciò che esiste casualmente, ma solo il movimento dello Spirito che va incessantemente formando se stesso, l’affermazione hegeliana secondo cui tutto ciò che è reale è razionale può essere intesa anche nel senso che tutto ciò che esiste deve essere modificato e negato, per lasciare spazio al realizzarsi del razionale.
La vita e le opere Arnold Ruge nacque a Bergen (Rügen) nel 1802. Dopo essere stato incarcerato a causa delle sue idee liberali, divenne professore di filosofia a Halle. Nel 1832 uscì L’estetica platonica e nel 1837 Nuova scuola preparatoria di estetica. Dopo la divisione della scuola hegeliana Ruge fornì alla Sinistra un organo con gli «Annali di Halle»; per sottrarsi alla censura prussiana fu però costretto a trasferirli nella città di Dresda (dove vennero pubblicati fino al 1843).
La dialettica hegeliana è una critica della realtà
La contraddizione tra sistema e metodo in Hegel
Legame tra critica filosofica della realtà e azione rivoluzionaria
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Nel 1842 apparve La filosofia del diritto hegeliana e la critica del nostro tempo. Entrato in contatto con Marx, durante l’esilio in Francia curò con lui la pubblicazione degli «Annali franco-tedeschi», avvenuta a Parigi nel 1844. Dopo il ritorno in Germania nel 1848 fu eletto deputato nello schieramento dei democratici al Parlamento nazionale. Durante l’esilio successivo in Inghilterra, invece, si avvicinò sempre di più alla politica di Bismarck. Morì a Brighton nel 1880.
La figura più importante nella transizione della Sinistra hegeliana dalla critica della religione alla critica politica è Arnold Ruge. Nei suoi scritti emerge in modo chiaro l’atteggiamento di molti esponenti della Sinistra hegeliana nei confronti della concezione politica del maestro: un’aspra critica, condotta però in nome dei principi della stessa filosofia hegeliana, dei quali viene rivendicato il significato profondamente rivoluzionario, contraddetto dal conservatorismo della filosofia del diritto di Hegel, che si pone come unico obiettivo la comprensione del nucleo razionale dello Stato moderno. In primo luogo, Ruge formula un argomento destinato ad avere larga fortuna, notando in Hegel la contraddizione tra il sistema – con la sua pretesa di definitività e compiutezza – e il «metodo», cioè la «dialettica», che individua la legge necessaria del pensiero e della realtà nel «movimento» di continua negazione dell’esistente. In quanto tale, la dialettica può essere identificata con la «critica rivoluzionaria» della realtà, superamento di essa e scoperta di una realtà nuova, che verrà a sua volta superata. Essa emerge dunque come il «nocciolo più intimo del sistema hegeliano»; nocciolo che, a rigore, avrebbe dovuto portare alla dissoluzione stessa del sistema. In secondo luogo, Ruge esprime l’istanza fondamentale della Sinistra hegeliana a partire dagli anni quaranta, cioè l’esigenza di spostare la dialettica dall’«etere logico» al campo della storia, trasformando la filosofia da semplice strumento di comprensione della realtà – «nottola di Minerva» che si limita ad apprendere «il proprio tempo» in «pensieri», secondo la definizione hegeliana – in critica teoretica dell’esistente, mirante a un rivolgimento rivoluzionario. In questo modo la Sinistra hegeliana abbandona l’idea della filosofia come contemplazione fine a se stessa e la conseguente divaricazione tra teoria e prassi, che aveva dominato una tradizione millenaria di pensiero, da Aristotele in poi, a favore dell’affermazione di un nesso inscindibile tra critica teorica e azione innovatrice e rivoluzionaria.
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel Il significato della filosofia hegeliana
Hegel: equazione tra razionale e reale Ambivalenza dell’equazione
T2
Il nocciolo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria
A. Ruge, I nostri ultimi dieci anni
➥ Sommario, p. 36
Ciò che è razionale è reale
Ciò che è reale è razionale
Ciò che esiste è razionale
Ciò che esiste non è razionale e deve essere modificato
Legittimazione dell’ordine politico esistente
Critica dell’ordine politico esistente
Destra hegeliana
Sinistra hegeliana
Il passaggio da un pensiero all’altro è incessante, la dialettica non si ferma mai, in nessun momento; ogni nuova parola è critica di quella che l’ha preceduta, ma soltanto per essere a sua volta criticata da quella che segue. Questo incessante movimento dei pensieri, il moto del pensiero, ha una sua forma determinata, un suo «metodo». […] Facciamo un esempio. «Essere», «Nulla», «Divenire», sono le prime categorie della logica hegeliana […] Dai due estremi, dall’Essere come dal Nulla, noi ci vediamo respinti nello stesso modo, e questo ci dà il puro movimento, che si svolge in un senso come nell’altro, la riflessione o il divenire (che è la genesi dello stesso pensiero). Questa è la prima categoria di Hegel. Prima del movimento del divenire – dal Nulla all’Essere, o «generarsi», e dall’Essere al Nulla, ossia «perire» – non è possibile alcun pensiero. Pensare è questo movimento della riflessione, che è insieme generarsi e perire, poiché ogni pensiero nuovo è il togliere un pensiero vecchio. Il nocciolo più intimo del sistema hegeliano è la critica rivoluzionaria – la libertà. […] Ma non perdiamoci nell’«etere» logico in cui noi poveri tedeschi, come fumatori d’oppio, siamo stati trascinati in cerchio per trent’anni senza poter intravedere, nemmeno in questa zona celeste del filosofare, la libertà reale. […] Rettamente intesa la dialettica stessa, che non è altro che il pensare e la perenne posizione critica, sarebbe quindi la dissoluzione di ogni sistema. Manca soltanto che in testa a questo processo venga posto il pensatore che dissolve, l’uomo della storia, il creatore di una vita spirituale eternamente giovane. Chi è in grado di farlo, scopre un nuovo mondo: e ce n’è sempre uno da trovare. Questa conseguenza è stata tratta dalla più recente filosofia tedesca. Fin qui, dunque, si è visto che sia riguardo alla religione, sia riguardo alla sfera politica gli esponenti della corrente innovatrice della scuola hegeliana interpretano in senso rivoluzionario il metodo della dialettica di Hegel: la filosofia porta al superamento della religione e svolge la funzione di critica della realtà. Alla critica deve però essere unita l’azione tesa alla trasformazione dello stato di cose esistente: teoria e prassi sono strettamente legate l’una all’altra.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Uomo, Dio e natura nel pensiero di Feuerbach
2 I testi
L. Fueberbach Feuerbach e Hegel: L’insegnamento di Hegel, T3 Principi della filosofia dell’avvenire: La critica del «cominciamento» della filosofia hegeliana, T4; Il nucleo teologico della filosofia moderna, T5; La differenza tra la vecchia e
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Filosofo della religione e «anti-Hegel»
La vita e le opere Ludwig Andreas Feuerbach nacque a Landshut, in Baviera, nel 1804. Fece studi teologici a Heidelberg e a Berlino; qui seguì le lezioni di Hegel ed essendone rimasto profondamente colpito passò dalla facoltà di teologia a quella di filosofia. Nel 1829 iniziò a tenere corsi come libero docente all’università di Erlangen; dopo l’uscita dei Pensieri sulla morte e sull’immortalità (pubblicati anonimi nel 1830) dovette però interrompere la carriera universitaria. Nel 1838 iniziò la sua collaborazione agli «Annali di Halle» con alcune recensioni e il saggio Per la critica della filosofia hegeliana (pubblicato nel 1839). Nel 1841
Concezione materialistica della religione
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la nuova filosofia, T8; La coincidenza di verità, realtà e sensibilità, T9; La funzione ontologica dell’amore, T10; L’umanesimo della nuova filosofia, T11 L’essenza del Cristianesimo: Sistole e diastole religiosa, T6; Religione, antropologia e filosofia, T7
uscì L’essenza del Cristianesimo, a cui seguirono, nel 1843, le Tesi preliminari per la riforma della filosofia e i Principi della filosofia dell’avvenire. Nel 1845 fu pubblicato un altro importante saggio, L’essenza della religione. Tra il 1848 e il 1849 tenne a Heidelberg un corso di lezioni, pubblicate nel 1851 col titolo Lezioni sull’essenza della religione. L’anno seguente apparve la Teogonia. Nel 1860, a causa di gravi difficoltà economiche, dovette trasferirsi con la famiglia a Rechenberg, presso Norimberga. Nell’ultimo periodo della sua vita curò l’edizione delle proprie opere e si occupò di scienze naturali. Morì a Rechenberg nel 1872.
Nel dibattito sul significato della religione che anima la Sinistra hegeliana la figura di maggiore spicco è Ludwig Andreas Feuerbach, che, a differenza di Strauss e Bauer, conduce la propria critica della religione non sul terreno della esegesi biblica, bensì su un terreno esclusivamente filosofico. Il risultato è l’elaborazione di una filosofia della religione su basi radicalmente materialistiche, la cui importanza va ben oltre i limiti della discussione interna alla Sinistra hegeliana: le sue principali opere di argomento religioso – cioè L’essenza del Cristianesimo e L’essenza della religione – hanno avuto una larghissima risonanza e continuano ancora oggi a costituire un punto di riferimento imprescindibile nel dibattito filosofico e teologico sull’ateismo. La radicalità della sua posizione in materia di religione impedisce a Feuerbach di entrare a fare parte del mondo universitario tedesco, come la maggior parte degli hegeliani di sinistra: la sua carriera accademica, iniziata con la libera docenza in filosofia presso l’università di Erlangen, viene troncata a seguito della pubblicazione dei Pensieri sulla morte e sull’immortalità – uno scritto che, malgrado l’anonimato, gli fu subito attribuito –, in cui è negata l’immortalità personale e ogni forma di trascendenza. Fallito il tentativo di ottenere una
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
cattedra universitaria, Feuerbach si ritira a Rechenberg, dove trascorre il resto della sua vita. Critica della filosofia L’incontro con Hegel costituisce il momento più significativo della sua biograhegeliana fia intellettuale: come Feuerbach stesso riconosce nella testimonianza riportata sotto, è solo per l’influenza delle lezioni hegeliane che egli approda allo studio stesso della filosofia, abbandonando la facoltà di teologia, cui si era inizialmente iscritto. Sin dall’inizio della propria attività filosofica Feuerbach non condivide l’impostazione astrattamente logica e metafisica del pensiero hegeliano, mostrando un vivo interesse per il particolare, la corporeità e i rapporti intersoggettivi, nella loro dimensione fisica. Questo interesse lo induce, tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta, ad assumere la posizione di un vero e proprio «antiHegel», sottoponendo la filosofia hegeliana a un’aspra critica, i cui documenti più significativi sono il saggio Per la critica della filosofia hegeliana, le Tesi preliminari per la riforma della filosofia e i Principi della filosofia dell’avvenire. Tale critica costituisce un passaggio fondamentale di quella dissoluzione dello hegelismo cui partecipano tutti i principali esponenti del pensiero dell’epoca, da Kierkegaard a Schopenhauer. In realtà, al di sotto di questa presa di distanza, resta chiaramente riconoscibile, anche nel pensiero del Feuerbach maturo, l’impronta della formazione hegeliana. Lo stesso Feuerbach afferma che all’inizio della propria attività filosofica, pur non condividendo appieno la posizione hegeliana, ha messo consapevolmente a tacere il proprio senso critico nei suoi confronti.
T3
L’insegnamento di Hegel
L. Feuerbach, Feuerbach e Hegel
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[…] Io mi sentii legato ad Hegel assai più intimamente, e fui più aperto alla sua influenza che a quella di qualsiasi altro dei nostri predecessori spirituali; lo conoscevo infatti personalmente e fui per due anni suo uditore, il suo uditore più attento, più esclusivista, più entusiasta. Quando io andai a Berlino ero così stordito e incerto che non sapevo cosa volevo, cosa dovevo fare; ma bastò che per un semestre seguissi le sue lezioni e la mia testa ed il mio cuore furono rimessi sulla loro via; io seppi ciò che dovevo e volevo: non teologia, ma filosofia! Non vaneggiare e fantasticare, ma imparare! Non credere, ma pensare! Fu in lui che io acquistai coscienza di me e del mondo […]. Fu l’unico uomo che mi fece sentire direttamente ciò che è un maestro […]. Quando iniziai la mia attività di scrittore mi trovavo sulle posizioni della filosofia speculativa in generale, e della filosofia hegeliana in particolare […]. Certo, già allora, l’anti-Hegel era dentro di me; ma io gli imponevo di tacere proprio perché era soltanto un mezzo uomo. Però già allora la mia impostazione non era puramente logica o metafisica […].
La critica della «filosofia teologizzante» Alla luce di quanto appena detto è opportuno esaminare innanzitutto le critiche che Feuerbach rivolge alla filosofia hegeliana, nell’ambito di una considerazione complessiva della filosofia moderna, maturata nel corso dei diversi studi di storiografia filosofica. A partire dalla fine degli anni trenta, Feuerbach individua nella filosofia hege23
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
La filosofia moderna separa il pensiero dalla realtà
Solo attraverso i sensi si può cogliere la realtà
Il «questo reale» è il fondamento del diritto
T4
La critica del «cominciamento» della filosofia hegeliana L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire
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liana il compimento della filosofia moderna, che, in quanto tale, esprime nella maniera più evidente e radicale i due tratti negativi di quest’ultima, tra loro strettamente intrecciati: 1) la frattura del pensiero nei confronti della sensibilità; 2) il significato essenzialmente teologico. Per quanto riguarda il primo punto, Feuerbach si riferisce alla prassi dei filosofi moderni di costruire il proprio sistema filosofico partendo non dalla natura reale, bensì da presupposti esclusivamente teorici, cioè dai sistemi precedenti. Questa prassi rende la storia della filosofia moderna una semplice partenogenesi (una sorta di riproduzione senza che ci sia stata fecondazione) di teorie filosofiche l’una dall’altra, completamente avulsa dalla realtà e dai bisogni degli uomini. La filosofia hegeliana – nata dalla confutazione dell’idealismo fichtiano e schellinghiano – costituisce per Feuerbach l’espressione emblematica di questo tradimento della sensibilità, intesa sia come passività, sia come attività: il «cominciamento» del sistema hegeliano, cioè l’Essere della prima triade logica, non è, infatti, un essere sensibile, concreto e determinato, bensì un Essere astratto, privo di determinazioni, che è lontanissimo dal reale; lo stesso vale a proposito della «certezza sensibile» con cui inizia la Fenomenologia dello spirito. Il «qui» e «ora», il «questo» della certezza sensibile – che nella prospettiva hegeliana costituisce il grado più basso del percorso fenomenologico, in quanto dà una conoscenza povera e vuota di determinazioni – non sono un «questo» reale, bensì sono pure astrazioni: un «questo logico», cioè un «questo» del pensiero ed espresso dalla parola; esso può valere indistintamente per tutti gli oggetti proprio in quanto è un mero pensiero, e il pensiero è la sfera dell’universale. Il «questo reale» è invece un’entità che, a differenza delle parole e dei concetti, è sempre individuale, unica e irriducibile, e non può essere colta attraverso il pensiero, ma solo attraverso i sensi. A conferma di queste osservazioni critiche, Feuerbach richiama l’attenzione sul fatto che quando qualcuno parla della propria casa adoperando l’aggettivo «questa», ciò non significa affatto che egli sarebbe disposto a cederla con qualsiasi altra casa, per quanto ogni casa possa essere definita con lo stesso aggettivo. Al contrario, ciascuno è pronto a ricorrere ai mezzi della legge per difendere la propria proprietà individuale, qualora qualcuno gliela voglia sottrarre: l’intero diritto è fondato sul riconoscimento dell’esistenza di una differenza reale tra gli oggetti in possesso dei diversi individui. Di conseguenza, se si prendesse l’aggettivo «questo» nell’accezione in cui lo usa Hegel all’inizio della Fenomenologia, il risultato sarebbe la soppressione di ogni diritto. 28: […] L’essere con cui incomincia la Fenomenologia, non meno dell’essere con cui comincia la Logica, si trova nella più diretta contraddizione con l’essere reale. Questa contraddizione si manifesta nella Fenomenologia sotto la forma del contrasto tra il «questo» e l’«universale», perché l’individuo appartiene all’essere e l’universale al pensare. Nella Fenomenologia questo confluisce in questo altro, ed il pensiero non è in grado di discernere l’uno dall’altro; ma c’è una grossa differenza tra il questo in quanto oggetto del pensare astratto e lo stesso questo in quanto oggetto della realtà. Questa donna, per esempio, è la mia donna, questa casa è la mia casa, benché ognuno dica, come dico io, della sua casa e della sua donna, «questa casa», «questa donna». L’indifferenza e l’indistinzione del «questo logico» viene, in questo senso, spezzata e superata dal senso giuridico. Se noi applicassimo il «questo» logico nel diritto naturale, arriveremmo direttamente al-
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
la comunanza dei beni e delle donne, nella quale non c’è alcuna differenza tra questo e quello, ognuno possiede ogni donna; ma è assai più probabile che arriveremmo alla soppressione di ogni norma giuridica; il diritto infatti si fonda unicamente sulla realtà della differenza tra questo e quello. Il disconoscimento del valore della sensibilità che caratterizza la filosofia moderna è da ricondurre all’influsso della religione e della teologia cristiane. Esse, secondo Feuerbach, hanno imposto temi e materiali ai sistemi filosofici susseguitisi in età moderna – da Cartesio a Hegel – contribuendo a distogliere l’attenzione dalla sfera mondana dei bisogni concreti e materiali dell’uomo. Il cristianesimo costituisce dunque uno spartiacque tra il pensiero moderno e il pensiero antico che, a differenza del primo, aveva posto al centro della propria indagine non Dio, bensì l’uomo, sia pure in maniera ancora parziale. Feuerbach riconosce che il rapporto tra la teologia e la filosofia moderna è apparentemente un rapporto di opposizione: nello sforzo di liberare la teologia cristiana dalle contraddizioni derivanti in essa dalla sua base sentimentale e immaginativa, il pensiero moderno attua, infatti, una graduale dissoluzione del teismo, cioè della concezione di Dio come Ente personale e trascendente rispetto ➥ Percorso tematico, p. 225 all’uomo. Questa dissoluzione culmina nell’identificazione hegeliana tra Dio e Lògos, che fa di Dio un principio impersonale e immanente alla ragione umana. La filosofia idealistica Tuttavia, ciò non significa che la «filosofia speculativa» degli idealisti, che porta è una forma razionale a compimento questa dissoluzione del teismo, superi l’orizzonte della teologia: di teologia presentando il Pensiero come una Sostanza reale – indipendente rispetto agli uomini e completamente immateriale, allo stesso modo del Dio tradizionale – essa non fa altro che proporre una nuova forma di teologia, diversa da quella antica solo per il suo carattere completamente razionale. Questo carattere segna un ulteriore allontanamento dalla natura sensibile, già negletta dalla teologia tradizionale. In altri termini, la filosofia moderna ha sì trasformato Dio in «ragione», ma conferendo a quest’ultima lo stesso carattere astratto del Dio tradizionale, cioè separando in maniera netta la ragione dalla sensibilità. Proprio perché è, in realtà, una teologia, Feuerbach definisce la filosofia moderna «filosofia teologizzante»; l’astrazione della sensibilità è infatti una condizione necessaria della filosofia come lo è per la teologia (che è appunto scienza di un essere privo di passioni e immateriale, ossia Dio). Influenza negativa della teologia sulla filosofia moderna
T5
Il nucleo teologico della filosofia moderna
L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire
4: La filosofia speculativa è l’assimilazione e la dissoluzione razionale e teoretica del Dio che la religione considera ultraterreno […]. 5: L’essenza della filosofia speculativa non è altro che l’essenza di Dio razionalizzata, realizzata, resa presente. La filosofia speculativa è la teologia vera, conseguente, razionale. 9: Le proprietà o predicati essenziali dell’essenza divina sono le proprietà o predicati essenziali della filosofia speculativa. 10: Dio è puro spirito, pura essenza, pura attività – actus purus senza passioni, senza determinazioni esterne, senza sensibilità, senza materia. La filosofia speculativa è questo puro spirito, questa pura attività, realizzata come atto del pensiero – l’assoluta essenza come assoluto pensiero. Una volta la condizione necessaria della teologia era l’astrarre da ogni dato sensibile e materiale: e questa è anche la condizione necessaria della filosofia speculativa […]. 25
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Teologia e filosofia moderna
Teologia
Filosofia moderna
Ha carattere sentimentale
Ha carattere razionale
Concepisce Dio come essere privo di determinazioni, immateriale e trascendente
Identifica Dio con la ragione
Separano la ragione dalla sensibilità umana
Il punto della critica feuerbachiana a Hegel destinato a esercitare maggiore influenza anche sugli autori posteriori – e in particolare su Marx (vedi Unità 4, p. 140 – è la critica del metodo del «rovesciamento» (Umkehrung), cioè della dialettica della contraddizione. Per Feuerbach la dialettica hegeliana è un procedimento rovesciato o contorto, perché capovolge i rapporti di predicazione realmente esistenti, ponendo come Soggetto un Universale e un astratto, cioè l’Idea, e riducendo gli individui concreti (ossia il soggetto vero e proprio) a semplici determinazioni e attributi di quest’ultima. Nella realtà, invece, è esattamente il contrario, poiché il primum, il soggetto, non può che essere un individuo che, tra i suoi possibili attributi, ha anche quello del pensiero. La restaurazione dei reali rapporti di predicazione richiede dunque come presupposto un «rovesciamento» del «rovesciamento» attuato dalla filosofia hegeliana, attraverso il quale l’individuo concreto venga ricollocato nella sua posizione di soggetto. Feuerbach utilizza Al di sotto della polemica aperta nei confronti del maestro, proprio in questo pungli strumenti teorici to emerge chiaramente come Feuerbach continui a servirsi degli strumenti teoridi Hegel ci approntati da Hegel: il rovesciamento del rovesciamento cui egli allude non è altro, infatti, che la «negazione della negazione», cuore della dialettica hegeliana. Dunque, la filosofia hegeliana è un esempio significativo della separazione prodotta dalle teorie filosofiche tra il pensiero e la realtà. All’Essere, così come Hegel lo concepisce – ossia come entità astratta e priva di qualificazioni –, Feuerbach contrappone l’essere reale, un’entità concreta e dotata di sensibilità. Il disconoscimento dell’importanza della sensibilità è, a suo avviso, un effetto dell’influenza esercitata dalla teologia cristiana sull’idealismo, che peraltro è a sua volta una teologia (benché razionale). Per ristabilire il valore della sensibilità, e riportare al centro dell’attenzione filosofica l’individuo concreto (il soggetto), occorre allora un rovesciamento della dialettica hegeliana. Occorre un rovesciamento della dialettica hegeliana
Rovesciamento del rovesciamento hegeliano
Hegel
Feuerbach
Rovesciamento dei rapporti di predicazione reali
Rovesciamento della dialettica hegeliana
Pensiero = soggetto
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Individuo = attributo
Individuo concreto = soggetto
Pensiero = attributo
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
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Le religioni hanno origine nell’alienazione dell’uomo
T6
Sistole e diastole religiosa L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Introduzione
Tre cause dell’alienazione religiosa dell’uomo
La critica filosofica della religione La critica della filosofia moderna procede di pari passo, in Feuerbach, con la critica della religione, cui è strettamente intrecciata. La categoria fondamentale della critica feuerbachiana della religione è una categoria di chiara derivazione hegeliana, cioè la categoria di «alienazione». Feuerbach riconduce, infatti, la genesi di tutte le religioni a un processo di alienazione articolato in due momenti, che possono essere paragonati alla sistole e alla diastole della circolazione arteriosa: nel primo, l’uomo allontana da sé la propria essenza, trasferendola in un altro, cioè in Dio; nel secondo, egli si sforza di recuperarla, credendo che quel Dio esista per lui e per la sua salvezza. La religione ha, così, una forza repulsiva (allontana gli uomini da se stessi) e una forza di attrazione (poiché presenta Dio come principio della salvezza umana). Le religioni sarebbero dunque anch’esse fondate – al pari della dialettica hegeliana – su un vistoso rovesciamento della realtà, in quanto, presentando Dio come il creatore degli uomini, avrebbero invertito l’ordine di causa-effetto: per Feuerbach è piuttosto l’uomo ad avere creato Dio, alienando e oggettivando la propria essenza. Perciò tutte le caratteristiche che l’uomo attribuisce a Dio sono, in realtà, caratteristiche umane. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio, l’essenza dell’uomo, purificata, liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui distinta, particolare – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono perciò determinazioni umane. […] Dio è il suo sé alienato che però nel contempo egli di nuovo rivendica a sé. Come la circolazione arteriosa spinge il sangue fino alle più lontane estremità, mentre quella venosa lo riporta indietro, come la vita in genere consiste in una perenne sistole e diastole, così è anche la religione. Nella sistole religiosa l’uomo espelle lontano da sé la sua propria essenza, respinge, rigetta se stesso; nella diastole religiosa riprende nel suo cuore l’essenza espulsa. Dio è soltanto l’essenza che agisce da sé, che opera da sé – questo è l’atto della facoltà repulsiva della religione; Dio è l’essenza che agisce in me, con me, attraverso di me, su di me, per me, il principio della mia salvezza […] – questo è l’atto della facoltà di attrazione della religione. Feuerbach ha offerto diverse spiegazioni delle cause del processo di alienazione religiosa. Nell’Essenza del Cristianesimo la riconduce principalmente allo squilibrio ontologico (concernente cioè l’essere) tra la finitezza dell’uomo – se considerato in quanto individuo fisico – e l’infinitezza della sua essenza, cioè la «ragione», la «volontà» e il «cuore», le tre facoltà che lo determinano come specie: la consapevolezza di questo squilibrio fa sorgere nell’uomo il desiderio di trascendere la propria finitezza, spingendolo a separare da sé la propria essenza e a proiettarla fuori di sé in un’essenza distinta e indipendente. Un’ulteriore causa dell’alienazione religiosa è individuata da Feuerbach nella contraddizione tra l’infinitezza dell’uomo – in quanto essere desiderante – e la limitatezza delle sue capacità di perseguire ciò che desidera: contraddizione che viene risolta attraverso l’alienazione e l’oggettivazione dei propri desideri, realizzati in un Ente esterno che è appunto Dio. 27
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Dissoluzione della teologia nell’antropologia
Il ruolo della filosofia
Infine, nell’Essenza della religione Feuerbach descrive la genesi dell’idea di Dio non più come l’alienazione dell’essenza o dei desideri umani, bensì piuttosto come il frutto dell’ipostatizzazione del sentimento di dipendenza dell’uomo dalla natura: il potere che la natura esercita sugli esseri umani viene da essi ricondotto a un essere ben definito (Dio), considerato il creatore del mondo naturale e delle leggi che lo regolano. Questa tesi equivale ad affermare, in netta rottura con il teismo tradizionale, che non è Dio ad avere creato la natura, ma è piuttosto Dio ad avere il fondamento della sua esistenza nella natura. L’interpretazione dell’alienazione religiosa offerta nell’Essenza del Cristianesimo implica la riduzione della teologia ad antropologia: se Dio non è altro che il frutto dell’alienazione dell’essenza umana, allora l’uomo – che nella religione e nella teologia crede di attingere la conoscenza di un Ente autonomo ed esterno a sé – in realtà raggiunge esclusivamente una prima forma di conoscenza di sé. Poiché Dio non è che una proiezione dell’essenza umana, avere coscienza di Dio equivale ad avere coscienza di sé, ossia autocoscienza; e conoscere Dio equivale a conoscere se stessi. Si tratta però di una conoscenza indiretta e inconsapevole, in quanto il fondamento dell’essenza della religione consiste nel fatto che, in essa, l’uomo sia e resti ignaro dell’identità tra sé e Dio in quanto sua produzione. Nella storia delle religioni può sì essere riscontrato un progresso, cioè una graduale riappropriazione della propria essenza da parte dell’uomo: ogni religione riconosce che quella precedente ha adorato come divino qualcosa che è solamente umano, accusandola di idolatria; tuttavia, nessuna è disposta a riconoscere in se stessa questo nucleo antropologico, perché ciò significherebbe annullare se stessa. Soltanto il filosofo ha il sufficiente distacco critico per cogliere la «natura della religione» come produzione umana, avviando così il processo di dissoluzione della teologia nell’antropologia, necessario affinché l’uomo possa attingere una conoscenza verace e compiuta di sé.
L’origine dell’idea di Dio in Feuerbach
Uomo Contraddizione tra l’infinitezza dei propri desideri e i limiti della propria capacità di soddisfarli
Consapevolezza dello squilibrio tra i propri limiti fisici e l’infinitezza della propria essenza
Ipostatizzazione del sentimento di dipendenza dalla natura
Alienazione dell’uomo dalla propria essenza
Primo momento = sistole religiosa
Secondo momento = diastole religiosa
L’uomo allontana da sé la propria essenza e la proietta in Dio
L’uomo si sforza di recuperare la propria essenza attraverso la credenza che Dio esista per salvarlo
Dio è una proiezione della mente umana
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
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Religione, antropologia e filosofia
L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Introduzione
➥ Percorso tematico, p. 225
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Nel modo in cui all’uomo è oggetto se stesso, così gli è oggetto Dio; com’egli pensa, sente, così è il suo Dio. Tanto valore ha l’uomo, altrettanto e non di più ha il suo Dio. La coscienza di Dio è l’autocoscienza dell’uomo, la conoscenza di Dio è l’autoconoscenza dell’uomo. Dal suo Dio puoi riconoscere l’uomo e viceversa dall’uomo il suo Dio; ambedue i lati si identificano […]. Se però la religione, la coscienza di Dio, è designata come l’autocoscienza dell’uomo, tale espressione non va intesa come se l’uomo religioso fosse direttamente consapevole del fatto che la sua coscienza di Dio sia la autocoscienza della propria essenza, infatti la mancanza di questa consapevolezza fonda appunto la differentia specifica della religione. Per evitare questo fraintendimento è meglio dire: la religione è la prima, indiretta conoscenza che l’uomo ha di sé. […] Per la religione successiva quella precedente è idolatria: l’uomo ha adorato la sua propria essenza. L’uomo si è obbiettivato, ma non ha riconosciuto l’oggetto come propria essenza; la religione successiva compie questo passo. Ogni progresso nella religione è perciò una più profonda conoscenza di sé. Tuttavia, ogni religione determinata, che designa come idolatre le sue sorelle più vecchie, eccettua se stessa – e fa questo necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione – dal destino, dall’essenza universale della religione; essa imputa solo alle altre religioni quanto invece è colpa – se si tratta peraltro di colpa – della religione in genere. […] Viceversa però a scorgere l’essenza della religione, a lei stessa nascosta, è il pensatore, al quale la religione è oggetto, come non può esserlo per la religione stessa. La critica che Feuerbach fa della religione ne mette in luce l’origine, che va ricercata nel processo di alienazione dell’uomo e nella proiezione dell’essenza umana in Dio. Poiché Dio è un prodotto umano, attraverso la religione l’uomo può conoscere se stesso; si tratta però di una conoscenza solo indiretta, e possibile a condizione che rimanga oscura l’origine dell’idea di Dio. È soltanto grazie alla filosofia, capace di scoprirla, che l’uomo può raggiungere una conoscenza di sé vera e completa.
La filosofia nuova: sensibilità, intersoggettività e amore
Feuerbach attribuisce dunque alla filosofia il compito di superare la teologia e costruire una vera antropologia, che egli carica di una forte valenza emancipatrice: l’alienazione religiosa è, infatti, un processo attraverso il quale l’uomo si immiserisce, trasferendo su un altro Ente la parte migliore di sé. Cogliere la radice umana dell’idea di Dio e offrire una conoscenza verace dell’essenza umana non costituisce, dunque, solo un progresso teorico, bensì significa restituire all’umanità la sua piena dignità. La sensibilità è il punto È evidente che per Feuerbach la filosofia in grado di attuare questo compito dedi partenza ve essere completamente diversa rispetto a quella del passato, da lui etichettata di una filosofia nuova – come si è visto – con la formula di «filosofia teologizzante», per denunciarne il residuo nucleo teologico. Un superamento verace, cioè non teologico, della teologia è possibile per Feuerbach soltanto attraverso una «filosofia nuova», che nasca cioè da un atto di rottura: questo atto di rottura consiste nel prendere le mosse dalla sensibilità, cioè dall’ele-
La filosofia deve restituire all’uomo la sua dignità
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mento contro il quale, nella interpretazione feuerbachiana, ha peccato tutto il pensiero filosofico post-cristiano, dal neoplatonismo fino a Hegel, contraddistinto dalla scissione tra pensiero e materia; solo partendo dalla sensibilità e ponendo al centro l’uomo inteso come individuo vivente – cioè non solo come soggetto pensante, bensì come «ragione imbevuta del sangue» umano – è possibile assorbire e dissolvere la teologia in un’antropologia totale e consapevole. L’essenza dell’uomo non è il pensiero – gli esseri umani non sono entità astratte –, ma il corpo e i sensi.
T8
La differenza tra la vecchia e la nuova filosofia
L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire
36: La vecchia filosofia partiva da questo assioma: «Io sono una essenza soltanto pensante, astratta; il corpo non è costitutivo della mia essenza»; la nuova filosofia incomincia invece con l’assioma: «Io sono un’essenza reale, sensibile: il corpo è costitutivo della mia essenza; anzi, il corpo nella sua totalità, è il mio io, la mia essenza stessa». Il filosofo di un tempo pensava quindi in continua contraddizione, in continua contesa con i sensi, per schermirsi dalle rappresentazioni sensibili, per non contaminare i concetti astratti; il filosofo nuovo invece pensa in accordo ed in pace con i sensi. […]
In netta opposizione rispetto alla filosofia hegeliana – basata sull’identificazione tra realtà, razionalità e verità – la nuova filosofia assume la sensibilità come fondamento e criterio di ogni verità e realtà: reale non è l’oggetto dato con il pensiero, che è appunto solo un pensiero; soltanto un pensare che si interrompe con l’intuizione sensibile, invece di continuare a muoversi in se stesso, può cogliere anche teoreticamente che cos’è la realtà. Per evitare di cadere nel soggettivismo (ossia nell’idea che la verità coincida con ciò che il soggetto sente, con i suoi stati soggettivi) occorre però spiegare come dalla sensazione – che ha sempre un carattere individuale e determinato – si possa giungere a una verità universalmente valida, anche senza l’intervento di mediazione della ragione. L’intersoggettività Feuerbach risolve questo problema attraverso una teoria dell’intersoggettività, che nella teoria ricorda molto da vicino quella fichtiana, di cui costituisce una sorta di traduzione di Feuerbach materialistica. Come per Johann G. Fichte l’uomo può acquisire coscienza di sé solo attraverso il rapporto con un altro uomo – cioè incontrando un limite omogeneo alla propria razionalità –, così per Feuerbach possiamo percepire un oggetto solo entrando in un rapporto intersoggettivo: e questo perché la sensibilità è ai suoi occhi un’azione reciproca, un rapporto bilaterale in cui ciascun membro è al tempo stesso attivo e passivo, cioè «io» e «tu». Da un lato, sono io a sentire, ma dall’altro il sentire è un’affezione, in quanto ciò che sento mi limita, per cui l’io senziente – come anche l’ente sentito – è al tempo stesso soggetto e oggetto, io e non-io. La conoscenza di un oggetto è possibile solo attraverso la percezione di qualcosa che agisce su di noi: per conoscere un oggetto è necessario, per così dire, uscire dal pensiero e incontrare l’oggetto, che solo i sensi possono darci. Dunque, ciò che rende possibile la conoscenza è la sensibilità; essa è anche il fondamento della realtà: è reale, sostiene Feuerbach, solo ciò che viene sentito. La sensibilità è il fondamento della verità
T9
La coincidenza di verità, realtà e sensibilità
L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire
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Il reale nella sua realtà o in quanto reale è il reale come oggetto del senso: è il sensibile. Verità, realtà, sensibilità sono identici. Solo un ente sensibile è un ente vero, reale. Solo attraverso i sensi un oggetto viene dato in senso autentico – non attraverso il pensare per se stesso. L’oggetto dato col pensare o identico al pensare è soltanto pensiero. Un oggetto, un oggetto reale, mi viene dato cioè soltanto quando io percepisco un
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ente che agisce su di me, quando la mia autoattività – ammesso che io proceda dal punto di vista del pensare – trova una resistenza, e quindi il suo limite, nell’attività di un altro ente. Il concetto dell’oggetto, se si va a fondo, non è altro che il concetto di un altro io – per questo nella fanciullezza l’uomo ritiene che tutte le cose siano enti forniti di libertà e di volontà –; per questo il concetto dell’oggetto è in generale mediato dal concetto di tu, l’io oggettivato. Per dirla in termini fichtiani, un oggetto, cioè un altro io, non è colto dall’io, ma dal non-io che è in me; perché solo quando vengo trasformato da io in tu, solo quando io sono passivo, si forma la rappresentazione di una attività esistente fuori di me, cioè della oggettività. Ma l’io può diventare non-io solo attraverso il senso. Ciò fonda una universale comunicazione reciproca di particolari (i vari «io»), che recide alla base ogni rischio di deriva soggettivistica: i sensi hanno sì un carattere individuale e determinato, ma ciò che è oggetto di sensazione è contemporaneamente per me e per gli altri, e questo mi offre una garanzia dell’esistenza reale dell’oggetto al di fuori di me. Collegandosi l’uno con l’altro, tutti i «questi» individuali costituiscono quella realtà che, dal punto di vista conoscitivo, è l’unico criterio del vero e del falso. L’amore In questo modo, Feuerbach assegna alle sensazioni una centrale funzione ontologica. In particolare, nell’antropologia feuerbachiana spetta un ruolo di primo piano soprattutto all’«amore», inteso non come vago sentimento spirituale, bensì come autentico bisogno fisico: tra le varie sensazioni l’amore è, infatti, quello che meglio ci permette di cogliere sia la differenza tra essere e non-essere – perché a chi ama importa che qualcosa esista o no – sia quella tra soggettivo e oggettivo; la mancanza dell’oggetto amato, presente solo nella nostra mente, ci provoca infatti dolore, mentre la sua presenza effettiva ci procura una gioia che è la migliore prova ontologica dell’esistenza di un essere determinato.
Le sensazioni rendono possibile la distinzione tra oggettivo e soggettivo
T10
La funzione ontologica dell’amore
L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire
L’umanesimo di Feuerbach
Solo nell’amore, e non nell’astratto pensare si dischiude il mistero dell’essere. L’amore è passione, e soltanto la passione è il marchio dell’esistenza. Esiste solo ciò che – sia esso reale e possibile – è oggetto della passione. Il pensare astratto, senza sensazione e senza passione, toglie la differenza tra essere e non-essere, ma per l’amore è realtà questa differenza che viene meno di fronte al pensiero. Amare non vuole dire altro che rendersi conto di questa differenza. Per chi non ama niente – e l’oggetto dell’amore qui non ci interessa – è assolutamente indifferente che qualcosa sia o no. Ma come io colgo, in generale, l’essere distinto dal non essere solo attraverso l’amore, attraverso la sensazione, così solo attraverso l’amore io colgo un oggetto come diverso da me. Il dolore è una sonora protesta contro l’identificazione di soggettivo ed oggettivo. Il dolore dell’amore ha la sua radice in questo, che ciò che è nella rappresentazione non è nella realtà. L’individuazione e la messa in rilievo del carattere intersoggettivo delle «sensazioni» sfocia nella costruzione di un umanesimo che, proprio per il suo fondamento sensibile, è stato da molti definito umanesimo naturalistico. La nuova filosofia approda all’umanesimo in quanto considera espressione dell’essenza umana non il singolo individuo, bensì esclusivamente la comunità e l’unità tra gli uomini. Questa unità non annulla, però, la particolarità sensibile – dalla cui difesa la nuova filosofia aveva preso le mosse – in quanto, al contrario, nasce proprio dai bisogni sensibili, dalla limitatezza, che fa del singolo un esse31
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
re dipendente dai suoi simili: l’unità del genere si fonda, dunque, sulla «differenza tra io e tu», che è al tempo stesso «necessità del tu per l’io». Ed è nell’unità dell’«io» con il «tu», ossia di ogni uomo (inteso sia come essere pensante, sia come essere che sente e ha delle passioni) con gli altri uomini, che ciascuno può superare i limiti della condizione umana. Così, solo attraverso l’unità con gli altri ciascuno può acquisire la forza e il potere che la religione attribuisce a Dio.
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L’umanesimo della nuova filosofia
L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire
➥ Sommario, p. 36
59: L’uomo singolo, preso per sé, né in quanto solo morale né in quanto solo pensante ha in sé l’essenza dell’uomo. L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo – una unità che però si fonda soltanto sulla realtà della differenza tra io e tu. 60: La solitudine è finitezza e limitatezza, la vita in comune è libertà e infinità. L’uomo per sé è uomo (nel senso comune del termine); l’uomo con l’uomo, cioè l’unità di io e tu, è Dio. Dunque, porre la sensibilità e le sensazioni – in particolare, l’amore – come fondamento della realtà e della verità non implica, in Feuerbach, una concezione soggettivistica di esse, poiché il filosofo insiste sul carattere intersoggettivo delle sensazioni: ciò che viene sentito da un individuo viene sentito anche dagli altri. Più in generale, Feuerbach sottolinea l’importanza della dimensione dell’intersoggettività nella vita umana, una dimensione che però non annulla l’individualità dei singoli uomini.
Dall’uomo all’«Unico»: Max Stirner
3 I testi
M. Stirner L’Unico e la sua proprietà: L’egoista che crea dal nulla, T12
➥ Percorso tematico, p. 225
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La religione dell’umanità di Feuerbach è oggetto di aspra critica da parte di Max Stirner, il cui pensiero conduce a un esito nichilistico l’interpretazione giovanehegeliana di Hegel. Stirner fa propria la critica feuerbachiana della religione, indicando in Dio una finzione creata dall’uomo attraverso una proiezione di sé. Tuttavia, egli prende le distanze sia da Feuerbach sia dagli altri esponenti della Sinistra hegeliana, ai quali imputa l’errore di avere riprodotto, in forme diverse, la medesima negazio-
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
L’Umanità è un’entità astratta quanto Dio
L’egoismo è l’unico movente delle azioni umane
ne dell’individuo singolo da essi criticata nel cristianesimo e nella filosofia moderna. L’Uomo e l’Umanità che Feuerbach, Bauer e Karl Marx hanno elevato a essere supremo sono, infatti, agli occhi di Stirner astrazioni alienanti quanto lo stesso Dio cristiano: quanto più si ritrova nell’uomo un essere supremo, tanto più «io» – come l’individuo unico e irripetibile – devo scoprire che questo uomo assoluto e generale è per me estraneo come il Dio cristiano o lo Spirito assoluto della filosofia hegeliana. Il vero superamento della teologia può dunque per Stirner essere realizzato solo a condizione di rinunciare a ogni riferimento a una dimensione universale. La conseguenza del rifiuto dell’orizzonte universalistico – espresso da concetti come quello di «storia universale», «missione» o «Provvidenza», tipici della mentalità cristiana e cristianeggiante – è il riconoscimento dell’egoismo come unico movente dell’uomo reale, cioè dell’individuo singolo, o meglio dell’«Unico», secondo il titolo della principale opera di Stirner, L’unico e la sua proprietà. L’«Unico» è appunto il singolo che, riconosciuta la vuotezza e la falsità degli ideali universali, agisce esclusivamente per realizzare se stesso, cercando di appropriarsi di ogni cosa. In quanto tale, l’Unico può forse apparire meno nobile rispetto all’«uomo» che è al centro delle filosofie degli altri hegeliani di Sinistra, ma è senza dubbio molto più reale: questo egoista particolarissimo si ritrova, infatti, in ciascun uomo, dal momento che ognuno pone se stesso al di sopra di tutto.
La vita e le opere Max Stirner, pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt, nacque a Bayreuth nel 1806. Dopo aver studiato filosofia a Berlino, dove seguì le lezioni di Hegel, e a Erlangen, dal 1839 insegnò in un collegio femminile. Collaborò poi con le riviEsito nichilistico del pensiero di Stirner
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L’egoista che crea dal nulla M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà
ste dei giovani seguaci di Hegel, divenendo una delle figure di maggior spicco all’interno della Sinistra hegeliana. Entrato in polemica con gli esponenti della corrente innovatrice della scuola hegeliana, nel 1845 pubblicò la sua opera maggiore, L’Unico e la sua proprietà. Ad essa seguirono la Storia della reazione, che apparve nel 1852,
L’esito ultimo di questa concezione è il nichilismo, ossia il rifiuto di qualunque forma di valore astratto: l’agire del singolo è per Stirner un «creare» dal nulla, in quanto – una volta negata ogni realtà a tutto ciò che è sopra-individuale, che si tratti di Dio o dell’Idea di umanità – esso risulta privo di ogni fondamento che sia diverso dalla brama di disporre di ogni cosa e di consumarla, annichilendola. Ciò che motiva le azioni dell’Unico è soltanto il desiderio di realizzare se stesso, non i progetti di Dio né valori condivisi da altri uomini (per esempio, la libertà). Del tutto indifferente alle conseguenze che i propri comportamenti hanno sugli altri, egli non sente alcun dovere nei loro confronti, né riconosce alcun essere superiore a se stesso. E la condizione solitaria nella quale opera è, per l’Unico, fonte della consapevolezza di essere unico; la solitudine è dunque, per Stirner, una condizione che rafforza l’individuo, contrariamente a ciò che sosteneva Feuerbach. Per il cristiano la storia universale è ciò che di più alto esista, perché essa è la storia di Cristo, ossia dell’«Uomo»; mentre l’egoista considera valida soltanto la sua storia, poiché egli vuole realizzare solo se stesso, non l’idea di umanità, non il piano di Dio, non i progetti della Provvidenza, non la libertà, o altre cose simili. Egli non si considera come uno strumento dell’Idea, o un vaso di Dio, egli non riconosce vocazione alcuna, non si illude di esistere per il progresso dell’u33
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manità, né di dovere portare a essa il suo obolo: egli invece se la gode, senza darsi pensiero se l’umanità ne tragga o no vantaggio. […] Io sono il padrone della mia forza, e sono tale se so di essere unico. Nell’Unico anche il padrone torna nel suo nulla creatore dal quale è generato. Ogni essere superiore, sia Dio, sia l’Uomo, indebolisce il senso della mia unicità […]. Se io fondo il mio destino su di me, sull’Unico, esso si fonda allora sul suo creatore, contingente e mortale, che consuma se stesso, ed io posso affermare: Ho fondato il mio destino su nulla (Goethe, Vanitas! vanitatum vanitas!) Sul piano politico la posizione di Stirner si traduce in un netto rifiuto sia del socialismo e del comunismo – accusati di volere sottoporre il singolo alla tirannia della collettività – sia del liberalismo, la cui tutela giuridica della libertà cela in realtà un completo assoggettamento dell’individuo allo Stato. L’unica forma di società appropriata, per l’Unico, non è dunque né lo Stato borghese né la società comunistica, bensì quella che egli definisce l’«unione degli egoisti». In essa il rapporto tra gli uomini, di amore o di forza che sia, è determinato esclusivamente dalla scelta del singolo. Concezione Per questo radicale rifiuto del principio di autorità a Stirner si fa solitamente riindividualistica salire l’anarchismo individualistico, che costituisce il principale filone dell’adella libertà narchismo ottocentesco, accanto a quello collettivistico del russo Michail Alek sandrovic Bakunin (1814-1876). Ad esso è accomunato per la stigmatizzazione dello Stato come strumento di oppressione, ma da esso differisce per la concezione radicalmente individualistica della libertà. Dunque, partendo dalla concezione feuerbachiana di Dio come proiezione umana, Stirner rifiuta la concezione astratta e alienante dell’uomo propria della Sinistra hegeliana e sottolinea invece l’unicità di ogni uomo. La negazione dell’esistenza di qualsivoglia entità superiore al singolo individuo e il rifiuto di qualunque forma di autorità conducono Stirner al nichilismo sul piano filosofico e all’a➥ Sommario, p. 36 narchismo individualistico sul piano politico.
Rifiuto di ogni autorità: l’anarchismo individualistico
La dimensione dell’individualità
Negazione dell’individualità
Teologia
Sinistra hegeliana
Stirner
Pone Dio come essere supremo
Pone l’umanità come essere supremo
È reale solo il singolo individuo
Alienazione dell’individuo
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Affermazione dell’individualità
Rifiuto di ogni entità sopra-individuale
nichilismo
Rifiuto di ogni forma di autorità
anarchismo individualistico
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel Suggerimenti bibliografici Il quadro più suggestivo e compiuto della dissoluzione dello hegelismo è tuttora quello offerto da K. Löwith in Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1941. Un approfondimento interessante su aspetti particolari del pensiero dei diversi esponenti della Sinistra hegeliana è contenuto nel libro di C. Cesa, Studi sulla sinistra hegeliana, Argalia Editore, Urbino 1972. Sulla filosofia di Bauer è uscita di recente, in italiano, la monografia di M. Tomba, Crisi e critica in Bruno Bauer. Il principio di esclusione come fondamento del politico, Bibliopolis, Napoli 2002. Per una visione complessiva del pensiero di Feuerbach, si consiglia l’Introduzione a Feuerbach di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1978. Sulla filosofia della religione di Feuerbach, si può vedere il libro di U. Perone, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Milano 1972. I brani antologizzati sono tratti da: B. Bauer, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo ed anticristo. Un ultimatum, cap. 12, in La sinistra hegeliana, a cura di K. Löwith, trad. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1966, pp. 208-209, 219-220. A. Ruge, I nostri ultimi dieci anni, in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 10-12. L. Fueberbach, Feuerbach e Hegel, in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 303-305. L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire: parr. 4-5 e 9-10 (T5), par. 28 (T4), par. 36 (T8), parr. 59-60 (T11), in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 313, 320, 353-354, 362, 363-364. L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 2007 (quarta ristampa): pp. 3638 (T7), pp. 38 e 48 (T6). M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, in La Sinistra hegeliana, cit., pp. 62-63.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Sommario 1. DESTRA
E
SINISTRA
HEGELIANA
L’influenza del pensiero di Hegel è stata notevole fin dagli ultimi anni della vita del filosofo; è lui stesso a fondare la scuola hegeliana, luogo di discussione e anche di critica dell’hegelismo. Contro l’idealismo Herbart sostiene la contraddittorietà dei concetti dati dall’esperienza. Secondo il realismo herbartiano la realtà è fatta di entità semplici e immutabili, i reali; tra essi ci sono rapporti di perturbazione reciproca, a cui ogni reale reagisce con un atto di autoconservazione. Anche la coscienza è un reale: il suo atto di autoconservazione genera le rappresentazioni; strumento di studio di esse è la matematica. Herbart pone così le basi per la psicologia scientifica. [par. 1] Alla morte di Hegel la scuola hegeliana si divide in due correnti: la Destra è conservatrice e mira a mantenere il sistema hegeliano; la Sinistra è critica verso di esso e conduce alla sua dissoluzione. I temi centrali del dibattito sulla filosofia hegeliana sono il rapporto tra essa e la religione e il significato politico del pensiero hegeliano. [par. 2] Destra e Sinistra interpretano in modi diversi l’ambiguo tema hegeliano della necessità del superamento della religione nella filosofia: l’una sostiene la coerenza tra la filosofia hegeliana e i dogmi cristiani, l’altra mira all’umanizzazione del cristianesimo. Tra gli esponenti della Sinistra Strauss sostiene che la storia sacra è un mito, trasposizione in forma di racconto dell’idea metafisica dell’unione di uomo e Dio; Bauer afferma, invece, che nella filosofia di Hegel i dogmi cristiani perdono il senso religioso; la storia sacra è ridotta a una fiaba, di cui l’uomo ha bisogno solo fin quando non si sia elevato alla filosofia. [par. 3] L’ambivalente equazione di Hegel tra razionale e reale è intesa dalla Destra come legittimazione dell’ordine politico esistente, dalla Sinistra come affermazione della necessità di trasformare la realtà. Con Ruge, che sottolinea la contraddizione tra sistema e dialettica di Hegel, emerge l’esigenza di unire critica filosofica della realtà e prassi. [par. 4] 2. UOMO, DIO
E NATURA NEL PENSIERO DI
FEUERBACH
Feuerbach critica la religione sul piano filosofico. Pur riconoscendo l’influenza di Hegel sul proprio pensiero, ne rifiuta l’impostazione logica e metafisica, contribuendo così alla dissoluzione dell’hegelismo. [par. 1] La filosofia hegeliana separa il pensiero dalla realtà e disconosce il valore della sensibilità, concependo l’Essere come entità priva di determinazioni. Al «questo logi-
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co» hegeliano, oggetto del pensiero astratto, Feuerbach oppone il «questo reale», entità individuale che solo i sensi possono cogliere. Il disconoscimento del valore della sensibilità è frutto dell’influenza esercitata dalla teologia sulla filosofia moderna. L’opposizione tra esse è solo apparente: la filosofia ha trasformato Dio in ragione, ma ha attribuito ad essa lo stesso carattere astratto conferito dalla teologia a Dio ed è quindi una filosofia teologizzante. Hegel ha rovesciato il rapporto tra soggetto e predicato, facendo del pensiero il soggetto e degli individui concreti un attributo di esso. Occorre quindi un rovesciamento della dialettica hegeliana. [par. 2] Le religioni hanno origine nell’alienazione dell’uomo: consapevole della propria finitezza e desideroso di trascenderla, egli proietta la propria essenza in Dio. Quindi conoscere Dio è conoscere se stessi. Ma la conoscenza data dalla teologia è incompleta, perché la religione è fondata sull’ignoranza, da parte dell’uomo, dell’identità tra sé e Dio. Solo con la filosofia l’uomo giunge alla piena conoscenza di sé. [par. 3] Compito della filosofia è superare la teologia; Feuerbach propone una filosofia nuova, che rivaluta la sensibilità e pone al centro dell’attenzione l’uomo come essere vivente. La sensibilità è il fondamento della realtà e della verità. Per evitare il soggettivismo Feuerbach elabora una teoria dell’intersoggettività: le sensazioni sono individuali, ma ciò che un individuo sente è sentito anche dagli altri. Le sensazioni, e in particolare l’amore, ci permettono di distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Per il rilievo dato all’intersoggettività la filosofia feuerbachiana è una forma di umanesimo: espressione dell’essenza umana è la comunità degli uomini; ma ciò non annulla la distinzione tra essi. [par. 4] 3. DALL’UOMO
ALL’«UNICO»:
MAX STIRNER
Stirner condivide con Feuerbach l’idea di Dio come produzione umana, ma ritiene che la Sinistra hegeliana, al pari della religione, abbia negato l’individualità dell’uomo. Per superare la teologia occorre rinunciare alla dimensione universale e all’idea di Umanità: l’uomo reale è l’Unico, essere irripetibile al di sopra del quale non esiste nulla e le cui azioni sono motivate soltanto dall’egoismo. Esito di questa concezione è il nichilismo. Il rifiuto di ogni autorità conduce invece, sul piano politico, all’anarchismo individualistico.
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Unità 1 Con Hegel, contro Hegel
Parole chiave Alienazione. Nella critica che Feuerbach fa della religione è il processo da cui essa ha origine. Tale processo è suddiviso in due momenti: nel primo l’uomo allontana la propria essenza da sé e la trasferisce in un essere diverso (Dio); nel secondo cerca di recuperarla attraverso la concezione di Dio come fonte di salvezza. Amore. Nella teoria di Feuerbach non è un sentimento di natura spirituale, ma una sensazione, il bisogno fisico che un individuo prova nei confronti di un altro. L’amore permette di cogliere la differenza tra essere e non-essere e ci dà la prova dell’esistenza dell’essere che amiamo. Destra. Termine con cui viene indicata la corrente conservatrice della scuola hegeliana. I suoi esponenti, che appartengono alla generazione più anziana dei discepoli di Hegel e occupano posizioni di rilievo nell’ambiente accademico, si propongono di mantenere inalterato il sistema di Hegel. Filosofia nuova. È la filosofia che Feuerbach contrappone alla filosofia teologizzante. Essa nasce da una rivalutazione della sensibilità umana e considera l’uomo non solo come essere pensante, ma come essere vivente, della cui essenza fanno parte il corpo e i sensi. Filosofia teologizzante. Con questa espressione Feuerbach indica la filosofia moderna, che ha conferito alla ragione lo stesso carattere astratto e la stessa distanza dalla natura sensibile e dagli uomini che la teologia ha attribuito a Dio. Mito. Strauss usa questo termine per indicare un’idea metafisica espressa in forma di racconto. Un esempio di mito è il racconto evangelico della vita, della morte e della resurrezione di Gesù Cristo: attraverso questo mito viene espressa l’idea dell’unione tra finito (l’uomo) e infinito (Dio). Nichilismo. Nella teoria di Stirner è la negazione di ogni forma di astrazione e, dunque, di concetti quali quelli di Dio e di Umanità: sono reali soltanto i singoli individui. Perturbazione. Con questo termine Herbart indica i rapporti che intercorrono tra le entità (i reali) che costituiscono la realtà. «Questo logico». Espressione con cui Feuerbach indica l’oggetto astratto del pensiero. Il «questo» così inteso è applicabile indifferentemente a tutti gli og-
getti concreti (in realtà molto diversi tra loro), perché il pensiero è universale. «Questo reale». Con questa espressione Feuerbach indica l’oggetto della realtà, ossia un’entità individuale, unica e irriducibile a qualunque altra. Essa si contrappone al «questo logico» (che è universale) e può essere colta solo attraverso i sensi, non con il pensiero. Reali. Nella filosofia di Herbart essi sono entità semplici e immutabili dalle quali è costituita la realtà. Tra queste entità ci sono rapporti di perturbazione reciproca, a cui ogni reale reagisce con un atto di autoconservazione. Rovesciamento. Questo termine indica sia il metodo della dialettica hegeliana della contraddizione, che capovolge i rapporti di predicazione che effettivamente esistono (trasformando il predicato in soggetto e il soggetto in predicato), sia il presupposto che Feuerbach considera necessario per ristabilire tali rapporti: a tal fine occorre un rovesciamento della dialettica hegeliana. Anche le religioni sono fondate su un rovesciamento della realtà, poiché in esse Dio (un prodotto del pensiero umano) viene presentato come creatore dell’uomo. Sensibilità. Caratteristica dell’essenza dell’uomo. La sensibilità, fondamento della realtà e della verità, non è mera passività, bensì è un’azione reciproca tra l’io che sente e ciò che viene sentito. Il valore della sensibilità degli individui e il loro carattere concreto vengono sottolineati da Feuerbach contro la concezione hegeliana dell’Essere come entità astratta e priva di determinazioni. Sinistra. Questo termine indica la corrente innovatrice della scuola hegeliana. In contrasto con la Destra, i suoi esponenti (che appartengono alla generazione più giovane dei discepoli di Hegel) hanno un atteggiamento critico nei confronti della filosofia hegeliana e tendono a un radicale cambiamento di prospettiva. Questa tendenza ha come esito la dissoluzione del sistema hegeliano. Unico. Termine con cui Stirner indica il singolo individuo: mosso esclusivamente dall’egoismo, egli pone se stesso al di sopra di tutto e mira a impadronirsi di ogni cosa per poi annientarla. Non riconosce alcun dovere verso gli altri uomini, né alcuna entità superiore a se stesso (sia essa Dio o l’Umanità), e trae dalla condizione solitaria in cui vive un rafforzamento del senso della propria unicità. 37
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Questionario DESTRA 1
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E
SINISTRA
Lavoriamo sui testi
HEGELIANA
Perché Hegel fondò la scuola che sarebbe stata chiamata scuola hegeliana? (max 2 righe) Qual è, secondo Herbart, il ruolo della matematica? (max 4 righe) Da che cosa fu alimentato il dibattito tra Destra hegeliana e Sinistra hegeliana? (max 4 righe) Spiega in un massimo di 5 righe perché secondo Bauer la filosofia hegeliana priva il dogma della Trinità del suo significato religioso. Qual è, secondo Ruge, la contraddizione tra il sistema hegeliano e la dialettica di Hegel? (max 4 righe)
UOMO, DIO
E NATURA NEL PENSIERO DI
Quale differenza emerge in T1 tra la concezione cristiana della Trinità e il modo in cui la intende Hegel? (max 4 righe)
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Perché, in T2, la dialettica hegeliana viene considerata rivoluzionaria? (max 3 righe)
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Come viene descritta, in T3, la differenza di impostazione tra Hegel e Feuerbach? (max 1 riga)
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Spiega in un massimo di 4 righe perché, in T4, Feuerbach sostiene che l’applicazione del «questo logico» conduce alla soppressione del diritto.
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Qual è, in T5, l’elemento comune alla teologia e alla filosofia speculativa? (max 1 riga)
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Che cosa è la sistole religiosa descritta in T6? (max 4 righe)
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Spiega in un massimo di 3 righe perché, in T7, la religione viene definita conoscenza indiretta che l’uomo ha di sé.
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Qual è l’atteggiamento, descritto in T8, della vecchia filosofia verso i sensi? (max 2 righe)
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Quale condizione viene indicata in T9 come necessaria per la rappresentazione dell’oggettività? (max 2 righe)
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Come viene spiegata in T10 la differenza tra il pensiero e l’amore? (max 3 righe)
FEUERBACH
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Spiega in un massimo di 3 righe perché Feuerbach sostiene che nemmeno la filosofia di Hegel riconosce il valore della sensibilità.
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Qual è, secondo Feuerbach, l’elemento comune alla teologia e alla filosofia moderna? (max 4 righe)
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Qual è per Feuerbach il fine del rovesciamento attuato dalla dialettica hegeliana? (max 3 righe)
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Spiega in un massimo di 4 righe perché Feuerbach sostiene che la conoscenza di sé che l’uomo ottiene grazie alla religione è inconsapevole.
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Perché la teoria di Feuberbach corre il rischio di cadere nel soggettivismo? (max 3 righe)
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Qual è, in T11, il fondamento della comunità umana? (max 1 riga)
11
Qual è il ruolo attribuito da Feuerbach alla sensazione dell’amore? (max 2 righe)
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Come viene descritto in T12 l’atteggiamento dell’«Unico» nei confronti dell’idea di umanità? (max 3 righe)
DALL’UOMO
ALL’«UNICO»:
MAX STIRNER
12
Qual è secondo Stirner l’errore commesso sia dalla Sinistra hegeliana, sia dalla filosofia moderna che essa critica? (max 2 righe)
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Qual è la condizione necessaria per superare la teologia? (max 2 righe)
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Perché Stirner rifiuta il socialismo? (max 2 righe)
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard 1. Schopenhauer 1. 2. 3. 4. 5. 6.
La crisi del razionalismo ottocentesco L’eredità kantiana e il sistema I fenomeni La cosa in sé come volontà L’arte e la catarsi estetica L’etica
2. Kierkegaard 1. La filosofia e l’esistenza individuale 2. Vita estetica e vita etica 3. La religione ♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Schopenhauer
1 I testi
A. Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione: Il mondo come rappresentazione, T1; Le forme a priori e il principio di ragion sufficiente, T2; Il carattere illusorio del mondo fenomenico, T3; La volontà come essenza del corpo, T4; I caratteri del-
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la volontà come cosa in sé, T5; La volontà divora le sue oggettivazioni, T6; La vita umana è un pendolo tra il dolore e la noia, T7; Il piacere estetico, T8; Dovere e compassione, T10 La libertà del volere umano: Motivi, carattere e necessità dell’agire, T9
La crisi del razionalismo ottocentesco
La filosofia di Arthur Schopenhauer è in netta controtendenza rispetto al contesto culturale in cui nasce, cioè rispetto all’ottimismo razionalistico dei grandi sistemi idealisti, che dominano la scena filosofica tedesca nella prima metà dell’Ottocento. Ciò ha indotto molti interpreti a considerarla come una svolta determinante nella storia del pensiero ottocentesco, ovvero come il punto di partenza di una nuova stagione filosofica – caratterizzata dall’irrazionalismo e dal pessimismo – che si sarebbe sviluppata pienamente solo nel secolo successivo. Un pensatore ‘inattuale’ Una conferma significativa di questa tesi è costituita dalla fortuna tardiva di Schopenhauer: rimaste del tutto ignote al grande pubblico per circa un trentennio, le sue opere principali uscirono dall’oblio solo dopo il fallimento rivoluzionario del 1848, che aveva mostrato il carattere illusorio delle ideologie liberali e progressiste, destando in molti intellettuali – sconfitti e minacciati dalla reazione politica e ecclesiastica – il desiderio di estraniarsi dalla realtà e dalla storia. Di lì a poco Schopenhauer sarebbe poi stato consacrato – nelle pagine della terza Considerazione inattuale (1874) di Friedrich Nietzsche – come l’unico vero educatore della nuova Germania. Da quel momento in poi, il pensiero di Schopenhauer ha influenzato, in maniera diretta o indiretta, tutti i principali esponenti delle filosofie irrazionaliste. Analogie Una vicenda per molti versi analoga è quella dell’altro filosofo ‘inattuale’ della con Kierkegaard prima metà dell’Ottocento, Søren Kierkegaard, accomunato a Schopenhauer sia nella critica dell’idealismo che dall’anti-intellettualismo. In lui questo atteggiamento si esprime nella valorizzazione dell’esistenza umana individuale, concreta, eticamente impegnata e religiosamente orientata verso un rapporto tormentato e sofferto con Dio. E anche i temi della sua riflessione non influenzeranno i contemporanei, ma troveranno estimatori e seguaci nel XX secolo. Una filosofia in controtendenza
2 Tracce della cultura dell’epoca
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L’eredità kantiana e il sistema L’eccentricità di Schopenhauer rispetto al proprio tempo trova espressione anche nella vita del filosofo, trascorsa per la maggior parte in una sorta di ritiro appartato. Tuttavia, ciò non significa affatto che il suo pensiero sia il frutto geniale di
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard
L’esigenza sistematica
Un concetto di sistematicità diverso dagli idealisti
Tre esperienze fondamentali: lo studio della filosofia kantiana
l’influenza di Goethe
l’incontro con la filosofia indiana
Un radicale ripensamento del kantismo
una meditazione solitaria: al contrario, la filosofia di Schopenhauer reca tracce profonde della cultura del suo tempo. L’impronta più evidente è l’esigenza di sistema: pur concependo il proprio pensiero come una radicale alternativa rispetto alla filosofia idealistica di Fichte e, soprattutto, di Hegel, Schopenhauer condivide con i suoi avversari l’intento sistematico. Questa istanza trova compiuta espressione nel Mondo come volontà e rappresentazione (1818), da Schopenhauer stesso additato come la realizzazione della propria missione filosofica: i quattro libri in cui l’opera è articolata corrispondono ad altrettante parti del sistema, cioè la teoria della conoscenza, la metafisica, l’estetica e l’etica. Schopenhauer tiene, però, a differenziare la propria concezione sistematica da quella sostenuta dai filosofi idealisti. Nella sua prospettiva, la filosofia è sistematica non in quanto le parti che la compongono siano legate da una rigorosa concatenazione logica – come avviene per esempio nel caso di Fichte – ma in quanto esse illustrano in modo organico un «unico pensiero»: ogni elemento sostiene gli altri e viene da essi sostenuto, in modo tale che le varie dottrine risultano pienamente comprensibili solo dopo che si sia conclusa la lettura dell’intera opera; quest’ultima presenta, infatti, una struttura a spirale, dal momento che lo stesso oggetto è considerato sotto diversi punti di vista. All’elaborazione del sistema Schopenhauer giunge attraverso un periodo di formazione abbastanza breve, segnato da tre esperienze fondamentali: 1) lo studio della filosofia di Kant, cui Schopenhauer approda attraverso il filtro di Gottlob Ernst Schulze (1761-1833), il professore di Gottinga che tanta notorietà aveva acquisito con le sue critiche scettiche al pensiero kantiano. Il primo risultato del confronto con la filosofia kantiana è la dissertazione Sulla quadruplice ragione del principio di ragion sufficiente, presentata a Jena nel 1813: si tratta di un lavoro di chiara ispirazione kantiana, che ignora deliberatamente gli sviluppi idealistici della filosofia critica; 2) l’incontro e la collaborazione con Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) – durante il soggiorno a Weimar – che stimola in Schopenhauer l’interesse per le scienze naturali e lo orienta alla ricerca di un elemento originario comune ai vari esseri viventi: proprio in Goethe egli indicherà il nume tutelare del nuovo sistema, nonostante la rottura verificatasi tra i due poco prima della pubblicazione del Mondo, a causa di alcune divergenze relativamente alla teoria dei colori; 3) lo studio della civiltà indiana, intrapreso a Weimar – sotto la guida dell’orientalista Frederich Mayer – e approfondito negli anni trascorsi a Dresda. L’influenza del pensiero indiano sulla filosofia di Schopenhauer non deve, però, essere sopravvalutata. Innanzitutto, Schopenhauer non considerò mai il mondo orientale come qualcosa di radicalmente alternativo all’Occidente: ne apprezzò gli aspetti convergenti con il suo pensiero, ma ne stigmatizzò i difetti, soprattutto la propensione a rivestire di mitologia quella metafisica che egli riteneva di essere riuscito a esporre con chiarezza concettuale. Tra queste esperienze, la più importante resta senza dubbio il confronto con la filosofia kantiana, che costituisce il punto di partenza della riflessione di Schopenhauer in tutti gli ambiti del sistema, dalla gnoseologia all’etica. L’interesse della filosofia di Schopenhauer risiede, non da ultimo, proprio nella profonda rielaborazione cui egli sottopone temi e motivi kantiani, inserendoli in una cornice metafisica radicalmente diversa. 41
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Schopenhauer e il suo tempo
Esigenza sistematica comune con gli idealisti, ma non costruita attraverso una concatenazione logica Tre esperienze fondamentali
Sistema le cui parti illustrano un «unico pensiero», con un andamento a spirale in cui lo stesso oggetto è considerato da punti di vista diversi
Studio della filosofia kantiana e radicale ripensamento del criticismo
Influenza di Goethe: interesse per le scienze naturali e ricerca di un elemento originario comune ai vari esseri viventi
Studio della filosofia orientale, per gli aspetti convergenti con il suo pensiero
Schopenhauer
La vita e le opere Arthur Schopenhauer nacque a Danzica, uno dei maggiori porti della Prussia (attualmente città della Polonia) nel 1788 in una famiglia facoltosa: il padre Heinrich Floris era un ricco commerciante e la madre Johanna Henriette Trosiener una scrittrice di romanzi popolari e alla moda. Venne educato a Danzica e Amburgo, soggiornò per tre anni in Francia, dal 1797 al 1799, studiando nel collegio di Le Havre, e viaggiò in vari Paesi europei, Olanda, Svizzera, Inghilterra e Francia, tra il 1803 e il 1804. Dopo la morte del padre, avvenuta, forse per suicidio, nel 1805, mentre Arthur si occupava della ditta paterna, la madre si trasferì a Weimar dove il suo circolo letterario era frequentato dai fratelli Grimm, dagli Schlegel, da Goethe e dallo scrittore e letterato Christoph Martin Wieland. Due anni dopo il figlio la raggiunse e visse con lei per due anni, pur disapprovando la sua vita mondana e la sua condotta: poté però riprendere gli studi dedicandosi all’approfondimento della cultura classica. Nel 1809 Schopenhauer si iscrisse alla facoltà di medicina dell’università di Gottinga dove assistette alle lezioni del filosofo Gottlob Ernst Schulze che aveva assunto una posizione propria, ispirata allo scetticismo e alla filosofia di David Hume, all’interno dei dibattiti sul criticismo. Durante questo periodo Schopenhauer conobbe i due filosofi fondamentali per la sua formazione: Platone e Kant. Due anni dopo passò alla facoltà di filosofia dell’università di Berlino dove seguì i corsi di Fichte e di Friedrich Schleiermacher, maturando fin da allora una profonda avversione per la filosofia idealista. Allontanatosi da Berlino in seguito alle vicende della guerra contro Napoleone, conseguì la laurea in filosofia a Jena nel 1813 con la tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, pur non presentandosi personalmente a discutere
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la propria dissertazione. Questa venne pubblicata in quello stesso anno, mentre Schopenhauer tornò a Weimar dove ebbe un intenso scambio culturale con Goethe, all’origine della dissertazione Sulla vista e i colori (1816), e conobbe l’orientalista Frederich Mayer. Trasferitosi a Dresda dopo la rottura con la madre, tra il 1814 e il 1818 lavorò alla stesura del suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, che, pubblicato in quella città nel 1818, con la data dell’anno successivo, non venne ben accolto, tanto che buona parte dei volumi andò al macero. Il mondo è suddiviso in quattro libri: 1) il primo indaga su Il mondo come rappresentazione (fenomeno), ossia sulle forme a priori attraverso cui il soggetto conosce la realtà e se stesso come corpo (gnoseologia, scienza); 2) utilizzando come elemento unificante il corpo si passa poi al secondo libro, Il mondo come volontà, in cui si esaminano le oggettivazioni della volontà, e attraverso di esse si comprende che il reale non è un tutto regolato da leggi razionali ma che la sua essenza (la cosa in sé), anche quella dell’uomo, è la volontà, una forza oscura e priva di fini (metafisica); 3) nel terzo libro si torna a Il mondo come rappresentazione per comprendere come la volontà si oggettivi nelle idee, che forniscono una comprensione del reale più unitaria e profonda dei fenomeni, e la funzione liberatrice dell’arte (ancora metafisica, filosofia della natura ed estetica); 4) il quarto libro, intitolato ancora Il mondo come volontà indaga l’affermazione e la negazione di sé da parte della volontà che la porta alla piena liberazione e all’annullamento del dolore (etica). Nel 1819 Schopenhauer fece un viaggio in Italia e, tornato a Berlino nel 1820, ottenne la libera docenza pur scontrandosi duramente con Hegel durante la prova; iniziò così i suoi corsi universitari che fissò nel medesimo
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard
orario delle lezioni hegeliane, ma dovette ben presto interromperli per mancanza di studenti. Dopo vari viaggi, tentò inutilmente di riprendere l’attività universitaria a Berlino nel 1831, ma, anche in seguito al colera, abbandonò definitivamente la città e la carriera accademica e si trasferì a Francoforte sul Meno. Riprese a pubblicare nel 1836 con il saggio Sulla volontà della natura cui seguirono Sulla libertà del volere (1839) e Sul fondamento della morale (1840), raccolti poi insieme sotto il titolo I due problemi fondamentali dell’etica (1841). Nel 1844
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curò una seconda edizione del Mondo con l’aggiunta di un volume di Supplementi e ripubblicò anche la sua tesi di laurea, ma l’accoglienza fu egualmente fredda. Solo nel 1851 con la raccolta di saggi Parerga e paralipomena ottenne finalmente il successo e divenne un autore apprezzato e studiato sia in Germania che all’estero. Grazie alla fama raggiunta anche la sua opera maggiore ottenne finalmente riconoscimento e, esaurita la seconda edizione, ne venne pubblicata una terza nel 1859. L’anno successivo Schopenhauer morì a Francoforte.
I fenomeni Il nostro esame del pensiero di Schopenhauer segue la traccia della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione e quindi prende avvio dal primo libro, il cui oggetto è l’analisi della conoscenza che noi abbiamo dei fenomeni.
Il principio di ragion sufficiente e le sue forme Rieleborazione della teoria kantiana del fenomeno
T1
Il mondo come rappresentazione A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 1
Modifiche rispetto al kantismo: la centralità del principio di ragion sufficiente
La teoria della conoscenza di Schopenhauer deriva dal recupero e dalla profonda rielaborazione della nozione kantiana di fenomeno. Egli riprende, infatti, la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, affermando che il contenuto della conoscenza sono solo le cose come appaiono attraverso le forme a priori della facoltà conoscitiva (in cui egli unifica le varie facoltà che Kant distingue: sensibilità, intelletto e intuizione pura), non solo agli uomini, bensì a tutti gli esseri viventi: in questo senso, il «mondo» non è altro che una «rappresentazione», o meglio l’insieme delle rappresentazioni collegate tra loro dall’attività del soggetto, secondo principi a priori. Il mondo esiste quindi solo in rapporto a colui che se lo rappresenta e che diventa anche la condizione necessaria della sua esistenza. «Il mondo è mia rappresentazione»: – questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto sia capace di accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s’egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente la terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Schopenhauer modifica, però, la concezione kantiana del fenomeno sia in singoli punti sia nella sua ispirazione fondamentale. Per quanto riguarda il primo aspetto, la revisione principale della dottrina kantiana operata da Schopenhauer consiste nel fatto che egli riconduce tutte le strutture a priori della nostra facoltà conoscitiva a una radice unitaria, cioè al principio di ragion sufficiente nelle sue diverse forme, che, secondo la classificazione proposta nella dissertazione di laurea, sono quattro: 1) applicato alle rappresentazioni intuitive – attraverso le quali formiamo la no43
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zione di esperienza – esso è il principio di spiegazione del divenire (ratio fiendi), e coincide con la legge di causalità, secondo la quale «ogni cosa presuppone una causa per esistere»; 2) applicato ai concetti, che formano il contenuto totale della ragione, il principio di ragion sufficiente è invece principio del conoscere (ratio cognoscendi), cioè la premessa che è presupposta da una conseguenza; 3) in riferimento alle rappresentazioni di spazio e tempo – considerate separatamente dalla materia e applicate nell’ambito puro della matematica e della geometria – esso è il principio secondo il quale «tutte le parti di spazio e tempo si determinano reciprocamente sulla base dei loro rapporti», che fonda l’essere degli enti matematici (in questa forma, esso è dunque principio dell’essere o ratio essendi); 4) infine, in riferimento alle azioni, esso assume la forma di ragione dell’agire (ratio agendi), coincidente con la legge della motivazione della volontà, secondo la quale «tutte le azioni devono avere dei motivi». Riduzione delle forme Da tale principio derivano le forme a priori della conoscenza, che Schopenhauer a priori e principio riduce a tre: il principio di causa e lo spazio e il tempo, i quali insieme costituidi individuazione scono il principio d’individuazione, cioè l’insieme delle caratteristiche a priori che determinano e definiscono l’esistenza di ogni singolo individuo. Come Kant, anche Schopenhauer ritiene, dunque, che le forme del mondo reale siano le forme della facoltà conoscitiva del soggetto. Esse si trovano e sono conosciute a priori, in quanto – essendo condizioni di possibilità dell’esperienza – la loro conoscenza non può derivare da quest’ultima.
T2
Le forme a priori e il principio di ragion sufficiente A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 2
[…] le forme essenziali e perciò universali d’ogni oggetto, le quali sono tempo, spazio e causalità, possono, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell’oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto è un capitale merito di Kant, un immenso merito. Io affermo ora in più, che il principio di ragione è l’espressione comune per tutte queste forme dell’oggetto, delle quali siamo consci a priori. E che perciò tutto quanto noi sappiamo puramente a priori, non è nulla se non appunto il contenuto di quel principio e ciò che da esso deriva […]
Nelle intuizioni pure di tempo e spazio il principio di ragion sufficiente si manifesta rispettivamente come legge di successione e come posizione, cioè come reciproca determinazione di parti. Spazio e tempo sono per Schopenhauer il principio d’individuazione (principium individuationis), cioè il fattore che distingue e separa un individuo da ogni altro. La legge di causalità Nella legge di causalità il principio di ragione assume il significato di «ragione del divenire» (ratio fiendi), in base alla quale ogni mutamento deve avere una causa. L’applicazione del principio di causa alle modificazioni dei nostri organi sensoriali produce le nostre rappresentazioni empiriche complete, ed è dunque alla base della costituzione del mondo dell’esperienza: sulla base del principio di causa – che afferma che ogni mutamento deve avere una causa – l’intelletto non solo considera i mutamenti dei nostri sensi come effetti di una causa, bensì rappresenta questa causa come un oggetto collocato nello spazio, attraverso un procedimento inconscio; in questo modo, ha luogo il passaggio da ciò che è soggettivo a ciò che è oggettivo, da cui sorge l’esperienza.
L’origine delle forme pure di tempo e spazio
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Legge causale come unica forma a priori dell’intelletto
Sulla base di questi presupposti, Schopenhauer indica nel principio di causalità l’unica forma a priori dell’intelletto: una volta posto che esso basta da solo per spiegare la costituzione del mondo dell’esperienza, viene meno la necessità di ammettere le altre categorie dell’Analitica trascendentale. Inoltre, la deduzione kantiana delle categorie – che, partendo dal presupposto dell’identità tra pensare e giudicare, aveva ricavato la tavola delle categorie da quella dei giudizi – agli occhi di Schopenhauer risulta debole anche per un altro motivo: dato che il principio di causalità è applicato ai dati sensoriali in modo intuitivo e al di sotto della soglia della coscienza, è assurdo sostenere, come afferma Kant, che l’oggettività dell’esperienza si produca solo mediante l’intervento di concetti e giudizi.
I principi della conoscenza in Schopenhauer
Ripresa della distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé Il «mondo» non è altro che una «rappresentazione», o meglio l’insieme delle rappresentazioni collegate tra loro dall’attività del soggetto, secondo principi a priori Principio di ragion sufficiente, nelle sue varie forme come radice unitaria di tutte le forme a priori
Spazio e tempo come legge di successione e come posizione, cioè come reciproca determinazione di parti
Principio di causalità che produce le nostre rappresentazioni empiriche complete
Motivi della volontà come ragioni sufficienti dell’agire
Principio di individuazione
Mondo dell’esperienza
Azioni necessarie
Il velo di Maya Come si è già accennato, Schopenhauer non si limita, però, a rivedere singoli aspetti della dottrina kantiana, bensì conferisce alla propria concezione del fenomeno un significato complessivo radicalmente differente, caricandolo di un valore metafisico. Schopenhauer riconosce, con Kant, che la soggettività delle forme a priori non mette in discussione la validità delle scienze, intese come indagini dei rapporti esistenti tra i fenomeni: in quanto costruito sulla base del principio di ragion sufficiente, il mondo fenomenico possiede la stabilità e la regolarità necessarie al sapere scientifico. Riduzione del fenomeno Tuttavia, Schopenhauer si discosta dallo spirito del criticismo in quanto riduce a illusione il mondo fenomenico a una finzione evanescente, un’illusione priva di ogni conin Schopenhauer sistenza ontologica: tutto ciò che appartiene al mondo fenomenico è costantemente soggetto a divenire – in quanto sottoposto al tempo – e secondo il principio di causalità esiste solo in relazione ad altro, da cui è separato in base alle forme dello spazio e del tempo, che fungono da principio d’individuazione. All’illusione del fenomeno Schopenhauer contrappone la sfera dell’in sé, presentandola come l’unica vera realtà. Valore metafisico del fenomenismo di Schopenhauer
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Significato metafisico del dualismo fenomeno / noumeno
T3
Il carattere illusorio del mondo fenomenico
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 3
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Il rapporto tra fenomeno e noumeno è così caricato di un significato metafisico, che richiama molto da vicino il dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo delle idee. A quest’ultimo non a caso Schopenhauer si richiama esplicitamente, accostando Platone e la sapienza indiana a Kant, sulla base di una evidente forzatura, cioè l’interpretazione del kantiano «fenomeno» come semplice «apparenza». Interpretazione che poggia sul declassamento delle forme soggettive della nostra facoltà conoscitiva: nella filosofia di Schopenhauer, queste ultime perdono il ruolo positivo di unici strumenti della nostra conoscenza, per diventare l’esatto opposto, ossia ciò che occulta l’essenza del mondo, tessendovi intorno il velo di Maya. Come nel tempo ciascun attimo esiste solo in quanto ha cancellato l’attimo precedente – suo padre – per venire anch’esso con la medesima rapidità alla sua volta cancellato; come passato e avvenire (facendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto) sono illusori a modo di sogni, e il presente non è che un limite tra quelli, privi di estensione e durata: proprio così riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le altre forme del principio di ragione. E comprenderemo che come il tempo, così anche lo spazio, e come questo, così tutto ciò che è insieme nello spazio e nel tempo, tutto, insomma, ciò che proviene da cause e motivi, ha un’esistenza solo relativa, esiste solo mediante e per un’altra cosa che ha la stessa natura, ossia esiste anch’essa soltanto a quel modo. La sostanza di questa opinione è antica: Eraclito lamentava con essa l’eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò l’oggetto come un perenne divenire, che non è mai essere; […] Kant contrappose ciò che conosciamo in tal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé; e infine l’antichissima sapienza indiana dice: «È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente». […]. Ma ciò che tutti costoro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non che quel che anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondo come rappresentazione.
La cosa in sé come volontà Una volta ridotto il mondo della rappresentazione a sogno illusorio, il problema fondamentale della filosofia diventa quello di individuare la via per andare oltre i fenomeni, ossia per coglierne l’essenza e svelarne l’enigma.
Corpo e volontà Valore del corpo come medium per la conoscenza
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Per Schopenhauer il percorso che conduce a questa meta ha il suo punto di partenza obbligato nella considerazione della posizione peculiare del corpo umano nel mondo dell’esperienza. Il corpo umano è il medium indispensabile del nostro conoscere, dal momento che per Schopenhauer – come già per Kant – il punto di partenza necessario dell’attività sintetica dell’intelletto sono le affezioni corporee, ossia i dati provenienti dalla sensibilità.
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Ambiguità nel nostro rapporto con il corpo: conoscenza esterna
conoscenza dall’interno
Il nesso atto volontario / volontà non è una relazione causale
T4
La volontà come essenza del corpo
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 18
Azioni come oggettivarsi della volontà
Ora, il rapporto che abbiamo con il nostro corpo è contraddistinto da una costitutiva ambiguità: 1) da un lato, l’individuo cui esso appartiene lo conosce dall’esterno considerandolo, al pari degli altri oggetti della rappresentazione, sottomesso al principio di ragion sufficiente: ciò avviene, per esempio, quando si osserva il movimento della propria mano, considerandolo in un nesso causale con altri movimenti del corpo; 2) dall’altro lato, però, ciascuno può conoscere il proprio corpo anche dall’interno, quando acquisisce coscienza che i propri movimenti sono atti volontari, cioè quando coglie in maniera immediata che si tratta della medesima realtà, considerata sotto due aspetti diversi, cioè da un lato come essenza (la volontà) e dall’altro come oggetto (il movimento corporeo). In quanto tali, movimento corporeo e volontà appaiono legati da un nesso diverso dalla relazione causale, che connette tra loro tutti i fenomeni: un rapporto di causa-effetto può esserci, infatti, solo se un termine precede un altro ad esso posteriore, come avviene nel caso della decisione rispetto all’azione. Per Schopenhauer, la volizione non va, invece, assolutamente confusa con la decisione, che è un atto razionale: essa è piuttosto assolutamente identica con il movimento del corpo, come è chiaramente dimostrato dal fatto che ogni affezione corporea è sempre anche avvertita come un’affezione della volontà, che reagisce con il piacere o con il dolore a ciò che, rispettivamente, soddisfa o ostacola la propria tendenza. Proprio in quanto esprimono un legame diverso rispetto al nesso causale, il corpo e la volontà possono condurci oltre la dimensione del fenomeno. […] il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s’è mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di questo mondo. […] Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto tra oggetti e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo, ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l’atto, senza accorgersi insieme ch’esso appare come movimento del corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dato in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante l’intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è altro che l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell’intuizione. Ogni azione dell’uomo è dunque il rendersi visibile, il manifestarsi o oggettivarsi della volontà, che può essere considerata come l’essenza delle singole azioni. La conoscenza del volere – di cui ciascuno è immediatamente conscio – è radi47
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calmente diversa rispetto alla conoscenza rappresentativa in genere, che è una conoscenza mediata, procedente dalla causa all’effetto o viceversa: agli occhi di Schopenhauer, essa costituisce dunque la via per superare la barriera del mondo fenomenico e per penetrare nella sfera della kantiana cosa in sé, che viene identificata con la volontà stessa come essenza del reale.
La volontà metafisica e le sue oggettivazioni Volontà come essenza del mondo
Non ha scopi, tranne l’autoaffermazione: irrazionalismo
È una e intera in ogni individuo
T5
I caratteri della volontà come cosa in sé A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 23
Estendendo analogicamente il nesso corpo-volontà agli altri esseri viventi e alla stessa natura inorganica, si può concludere che la volontà è l’in sé non solo dell’uomo, ma della realtà intera. L’uso del concetto di volontà per indicare l’essenza del mondo trova la sua giustificazione nel fatto che essa è per ciascuno una realtà immediatamente nota, in modo intuitivo. Questa volontà che è essenza del mondo non va, però, intesa in nessun modo come volontà consapevole e razionale, agente in base a un concetto di scopo: al contrario, in quanto noumeno, la volontà non è sottoposta alle leggi del mondo fenomenico, e dunque nemmeno al principio di ragion sufficiente. Di conseguenza, essa agisce senza nessun motivo, è un’energia dinamica priva di direzione, un tendere cieco e irrazionale che ha come unico obiettivo l’affermazione di sé. Inoltre, la volontà come cosa in sé è una e interamente presente in ogni individuo, in quanto la molteplicità deriva per Schopenhauer unicamente dall’applicazione al mondo del principio di ragion sufficiente nelle forme di spazio e tempo, che sono le due componenti del «principio d’individuazione». Anche se poi questa stessa volontà diventa a sua volta ragione, causa di innumerevoli fenomeni nel tempo e nello spazio. […] la volontà come cosa in sé sta fuori del dominio del principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non è una com’è uno un oggetto, la cui unità può essere conosciuta solo in contrasto con le possibili pluralità; e nemmeno com’è uno un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì è una in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuori del principium individuationis, ossia della possibile pluralità.
Una volta riconosciuta nella volontà l’essenza del mondo, Schopenhauer nel terzo libro del Mondo, sviluppa una filosofia della natura che intende mostrare le modalità in cui la volontà diventa fenomeno, ritornando quindi nella sfera della rappresentazione, che si manifesta direttamente in vari gradi di oggettivazione, che sono denominati «idee». Le idee, al pari della volontà, si trovano al di fuori del tempo e dello spazio, e sono dunque eterne e immutabili; solo all’uomo – che le conosce di norma attraverso le forme soggettive di spazio, tempo e causalità – le idee appaiono come una molteplicità di individui che nascono e periscono. Idee come atti Evidente è l’ispirazione platonica della teoria delle idee di Schopenhauer; a difatemporali ferenza di Platone, egli non intende, però, le idee come entità a sé stanti, bensì della volontà le identifica con la volontà, concependole come specifici atti atemporali di que-
La volontà diventa fenomeno: le idee
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Gradi di oggettivazione della volontà
Metafisica della natura e scienza
Volontà e mondo nel pensiero di Schopenhauer
st’ultima che sono gli archetipi dei singoli individui, ossia i caratteri generali delle specie, e le forze generali della natura. I gradi ascendenti e successivi di oggettivazione della volontà sono la natura inorganica, quella organica, il mondo vegetale, quello animale e, infine, l’uomo. Il mondo inorganico è costituito dalle forze naturali – come gravità, elettricità, magnetismo e chimismo – ciascuna delle quali ha la sua essenza in un’idea. Parimenti, nel mondo organico a ogni specie corrisponde un’idea. Ciò implica che non vi sia evoluzione da un grado di oggettivazione della volontà a quello superiore: le idee sono, infatti, eterne e immutabili, e dunque le specie ad esse corrispondenti non possono né scomparire né trasformarsi in una specie diversa e superiore. L’oggettivazione della volontà in un’idea superiore risulta, però, per Schopenhauer dalla conflittualità tra le idee di livello inferiore, che essa ingloba al suo interno: la vita è vista come una lotta inesausta in cui ogni individuo nasce, cresce nutrendosi di altri e infine muore (vedi sotto, p. 50). Questa metafisica della natura – fondata sull’identificazione della cosa in sé con la volontà – non cancella né sostituisce la scienza della natura, ma ne costituisce piuttosto un’integrazione necessaria. Risalendo all’indietro nella ricerca delle cause del mutamento dei fenomeni, la scienza è costretta, infatti, ad arrestarsi davanti a forze, quali la forza di gravità, che in se stesse rimangono incognite: le cause individuate dall’indagine scientifica non sono altro che le manifestazioni empiriche di tali forze, che restano, però, inaccessibili alla spiegazione scientifica; la fisica deve accontentarsi di descrivere il modo in cui esse si manifestano. Così facendo, la scienza rischia di riammettere l’esistenza di qualitates occultae e di ricadere nel dogmatismo. Per evitare questo pericolo, essa si deve aprire alla considerazione filosofica, in grado di cogliere la volontà come essenza e principio unitario di tutte le forze naturali. Significato metafisico della distinzione tra fenomeno e cosa in sé
Fenomeno come mondo dell’apparenza
Corpo come veicolo della conoscenza
Conoscenza esterna
Conoscenza interna
Movimenti collegati attraverso il nesso causale
Nesso atto volontario / volontà: non dipende dal principio di causa
Volontà come essenza del mondo
La volontà è senza scopi, una, intera in ogni individuo
La conoscenza del volere è l’accesso alla cosa in sé
Idee: la volontà diventa fenomeno
Le azioni sono oggettivazioni della volontà
Gradi di oggettivazione della volontà
La volontà è l’essenza del corpo
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Il pessimismo Unità della natura
Antifinalismo e volontà di vivere
Lotta incessante nel mondo fenomenico
La violenza nella natura e nell’uomo
Rifiuto dell’antropocentrismo
T6
La volontà divora le sue oggettivazioni
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 27
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Riconducendo tutti i fenomeni naturali alle idee, che a loro volta sono espressione diretta della volontà, Schopenhauer riprende e sviluppa uno dei temi principali del Romanticismo: il tema dell’unità della natura. La rielaborazione schopenaueriana di questa tesi si discosta, però, dalle filosofie della natura romantiche – e in particolare da quelle del primo Romanticismo – per il suo antifinalismo e per il suo radicale pessimismo. La volontà che Schopenhauer indica come essenza del mondo si manifesta senza alcun orientamento teleologico, senza protendere cioè ad alcun fine: essa è mera volontà di vita, cioè energia dinamica priva di direzione, un cieco e incessante tendere all’affermazione di sé. Tendere che, nel suo manifestarsi, è lacerato da un’insuperabile conflittualità con se stesso: per affermarsi, la volontà divora continuamente le sue stesse oggettivazioni, come Saturno divora i suoi figli. Nell’ambito fenomenico ogni estrinsecazione della volontà in un’idea si realizza, infatti, a scapito del suo grado inferiore di oggettivazione, che le oppone resistenza e le contende materia, spazio e tempo: il mondo animale si nutre, per esempio, di quello vegetale, e al suo interno le specie differenti o i singoli membri di una stessa specie sono in una continua lotta per la sopravvivenza, che si conclude inesorabilmente con la morte. L’eternità dell’idea trova espressione soltanto nel perdurare della specie. Questo dissidio della volontà con se stessa spiega lo spettacolo desolante di violenza offerto dalla natura, a tutti i suoi livelli, dagli insetti fino agli esseri umani. Per Schopenhauer, infatti, tutte le teorie che, in tempi passati e recenti, hanno affermato la naturale socievolezza degli uomini, sono un’illusione o una menzogna: contro gli orpelli retorici, si deve ammettere piuttosto che la regola dei rapporti umani non differisce da quella che vige nelle relazioni tra gli altri esseri viventi; si tratta della regola della reciproca sopraffazione. Il riconoscimento di questa omogeneità tra la specie umana e tutte le altre specie viventi sottrae ogni fondamento al finalismo antropocentrico che – considerando l’uomo come il centro e il vertice del creato – giustificava tutti gli orrori della natura in funzione dello sviluppo umano. Così vediamo dappertutto nella natura contesa, battaglia, e alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosceremo più chiaramente d’ora innanzi l’essenziale dissidio della volontà da sé medesima. Ogni grado nell’obiettivazione della materia contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo. […] Questa lotta universale raggiunge la più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale; ed in cui inoltre ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro; ossia deve cedere la materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la rappresentazione di un’idea diversa, potendo ogni animale conservare la propria esistenza solo col sopprimerne costantemente un’altra. In tal modo la volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultimo la specie umana, avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per proprio uso. E nondimeno questa stessa specie umana, come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e diventa homo homini lupus. Intanto riconosceremo la stessa lotta, la stessa violenza ugualmente nei gradi inferiori dell’obiettività della volontà. Molti insetti (particolarmente gl’icneumonidi [famiglia di insetti Imenotteri Terebrati: le femmine sono fornite di un organo allungato e perforante, «terebra»,
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per deporre le uova]) depongono le loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo delle larve di altri insetti, la cui lenta distruzione è il primo compito del vermiciattolo uscito dall’uovo. Il giovine polipo tentacolato, che si sviluppa come un ramo dal vecchio e poi se ne separa, contende già con esso, quando ancora vi aderisce, l’offertasi preda, sì che l’uno deve strapparla di bocca all’altro. In quanto manifestazione della volontà metafisica, la vita non è solo lotta crudele, ma anche e soprattutto sofferenza incessante: la sofferenza è, infatti, intrinseca a ogni volizione, poiché il volere ha alla sua radice un bisogno insoddisfatto, che è sempre avvertito come dolore; bisogno che è inappagabile, visto il tendere incessante della volontà. Tutto soffre Ciò è vero per tutti i livelli della natura: tutto soffre, a partire dal fiore che avverte la mancanza d’acqua; e si tratta di una sofferenza interminabile, in quanto il ciclo vitale del fiore, come quello di tutti gli altri esseri, si ripete all’infinito, esprimendo l’impossibilità di appagare la volontà. La sofferenza diventa, però, più acuta nei gradi superiori della natura, cioè negli animali e negli uomini che, avendo una maggiore consapevolezza, avvertono con più intensità la spinta della volontà e la perenne frustrazione del desiderio insoddisfatto. Dolore e noia A partire da questi presupposti, Schopenhauer descrive la vita umana come un pendolo tra il dolore e la noia. Il dolore è insito nel bisogno insoddisfatto, che è il presupposto del tendere incessante della volontà. Il piacere – inteso negativamente come l’assenza di dolore provocata dall’appagamento di un desiderio – è sempre unito alla noia, ed è in ogni caso solo una condizione provvisoria ed effimera: il soddisfacimento del tendere è immediatamente seguito dalla nascita di un nuovo bisogno, dal momento che la volontà metafisica è un tendere senza meta né riposo.
Sofferenza intrinseca a ogni volizione
T7
La vita umana è un pendolo tra il dolore e la noia
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 57
5 Asservimento di intelletto e ragione alla volontà
Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base d’ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l’opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi.
L’arte e la catarsi estetica Per Schopenhauer la vita è, a tutti i livelli, una condizione di radicale infelicità, che si acuisce nell’uomo: infelicità provocata dall’asservimento di tutti gli esseri al tendere incessante e cieco della volontà, che nel suo manifestarsi fenomenico non vuole altro che l’affermazione di sé. Anche l’intelletto e la ragione – intesi rispettivamente come facoltà di cogliere i nessi causali e come facoltà di astrazione – non si sottraggono all’asservimento da parte della volontà, in quanto non sono altro che manifestazioni di essa: nella prospettiva di Schopenhauer, fino a quando si resta nel mondo fenomenico non è la volontà ad attuare gli scopi dell’intelletto e della ragione, ma piuttosto il contrario. 51
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel L’arte come primo passo nella liberazione dalla volontà
➥ Laboratorio sul lessico, Bello / brutto, p. 81
Gerarchia tra le arti
La musica
La trasformazione del soggetto attraverso l’arte
Atteggiamento contemplativo nell’arte
Il genio
Carattere catartico dell’arte
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A partire da questi presupposti, Schopenhauer indica come unica strada per la salvezza la cessazione del volere, delineando un percorso ascetico mirante alla completa liberazione dalla volontà. La prima tappa di questo cammino ascetico è l’arte, concepita come una forma di conoscenza superiore rispetto alla scienza, in quanto rivolta non ai fenomeni, bensì alle idee: a differenza della scienza che, indagando l’instabile flusso di cause ed effetti, a ogni meta raggiunta viene sospinta sempre più lontano, l’arte è invece sempre alla sua meta, in quanto ha per oggetto le idee, immutabili ed eterne. Le varie arti corrispondono ai diversi gradi di manifestazione della volontà nelle idee: dall’architettura – che porta all’intuizione il livello più basso nell’oggettivazione della volontà, cioè le forze della materia inorganica – fino alla pittura, alla scultura e alla poesia, che hanno per oggetto idee del mondo vegetale, animale e umano. Come massima forma di poesia Schopenhauer indica la tragedia, in quanto questa esprime l’intimo dissidio della volontà con se stessa. Infine, in questo sistema delle arti un posto a sé è riservato alla musica che, a differenza delle altre arti, non è immagine delle singole idee, ma della volontà stessa: in quanto tale, essa è l’arte più profonda e universale, poiché ci mette a contatto con la radice metafisica del mondo. Al cambiamento di oggetto che contraddistingue l’arte corrisponde una modificazione nel soggetto: colui che mediante l’arte si solleva dalla conoscenza delle cose particolari alla conoscenza delle idee cessa di essere coscienza empirica individuale e diventa soggetto universale, non più sottoposto alle varie forme del principio di ragion sufficiente, e dunque non più sottomesso alla volontà, in quanto coincidente con essa. Ciò accade quando ci si immerge, con l’intuizione, nella contemplazione di un oggetto, fino a perdersi completamente in esso: in questo caso si realizza una perfetta fusione tra il percipiente e il percepito, che al tempo stesso sottrae l’oggetto alla relazione con gli altri oggetti – lasciandoci cogliere l’idea – e spoglia il soggetto della sua individualità. Il superamento del principio d’individuazione fa sì che, nell’arte, l’atteggiamento conoscitivo sia meramente contemplativo, e non utilitaristico: sia l’artista sia il fruitore dell’opera d’arte guardano al mondo disinteressatamente, senza riferire i fenomeni alla propria individualità, cioè senza prendere in considerazione ciò che potrebbe in essi portare danno o giovamento. Anche su questo punto, è chiaramente riconoscibile l’influenza di Kant: Schopenhauer riprende, infatti, la definizione kantiana del bello come oggetto di un piacere disinteressato, caricandola, però, di valenze metafisiche. In linea con la filosofia critica e romantica, Schopenhauer concepisce inoltre l’arte come opera del genio, intendendo per genialità l’inclinazione a mantenersi nella contemplazione delle idee, svincolata dal principio di ragion sufficiente: il rifiuto di quest’ultimo avvicina genialità e follia, separate solo da una linea di confine molto sottile e incerta. Proprio il ripudio del principio di ragione conferisce all’arte il suo carattere catartico rispetto ai mali dell’esistenza: elevandosi al di sopra delle forme del principio di ragione – cioè spazio, tempo e causalità – attraverso l’intuizione estetica l’uomo trascende la vita terrena e in questo modo si libera dalle catene e dal cieco tendere della volontà, di cui la vita è espressione; per questo motivo, il piacere estetico si colloca su un gradino qualitativamente superiore rispetto agli altri tipi di piacere, in quanto gioia derivante da un conoscere puro e contemplativo, e non dalla soddisfazione effimera di un bisogno della volontà.
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Fugacità della catarsi estetica
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Il piacere estetico
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 38
L’arte come liberazione in Schopenhauer
Questa catarsi estetica è, però, solo provvisoria, in quanto è legata ai momenti brevi e preziosi in cui ha luogo l’intuizione estetica, cioè il totale smarrimento dell’individuo nell’oggetto contemplato e la conseguente elevazione alla conoscenza delle idee: basta un nonnulla per interromperla, come per esempio un rumore intenso che distoglie il nostro sguardo dalla contemplazione di un quadro, riportandoci bruscamente nel mondo fenomenico. […] nell’istante in cui noi, liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo, dove tutto ciò che commuove la nostra volontà e quindi sì forte ci scuote, più non esiste. Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto e sì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e infelicità sono svanite: non siamo più l’individuo, che è obliato, non siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo più se non come l’unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri conoscenti guarda, ma nell’uomo soltanto può diventare del tutto libero dal servigio della volontà: e allora ogni distinzione da individuo a individuo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente se il contemplante occhio appartenga a un re possente o a un tormentato mendico. Imperocché né felicità né pena vengono portati con noi al di là di quei confini. Sì presso a noi sta perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostra volontà, la nostra persona, si riaffaccia alla coscienza, ha fine l’incantesimo: noi ricadiamo indietro nella conoscenza governata dal principio di ragion sufficiente; conosciamo non più l’idea, ma la cosa singola, l’anello di una catena, alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo restituiti a tutto il nostro affanno. Volontà come essenza del mondo che si oggettiva nelle idee Unità del reale attraverso le idee Pessimismo e antifinalismo: lotta per la sopravvivenza. Rifiuto dell’antropocentrismo Bisogno come motore di un desiderio inesausto
Dolore come insoddisfazione del desiderio
Noia come conseguenza di un appagamento troppo facile
Salvezza attraverso la cessazione del volere: liberazione Arte come prima tappa della liberazione dal volere: forma di conoscenza rivolta alle idee Gerarchia delle arti parallela alla gerarchia tra le idee come oggettivazioni della volontà Trasformazione del soggetto attraverso la contemplazione: atteggiamento disinteressato e azione del genio Catarsi estetica come provvisorio trascendimento della vita terrena e liberazione effimera dai ciechi impulsi della volontà
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
6 Etica come definitiva liberazione dalla volontà
L’etica Dopo aver descritto il modo in cui la volontà diventa fenomeno nelle idee e aver esplicitato le potenzialità dell’arte (che utilizza a sua volta delle forme di rappresentazione ideale come oggetti) e i suoi limiti come strumento catartico, Schopenhauer torna a considerare il mondo come volontà in se stessa ponendosi come obiettivo la liberazione definitiva da questo impulso cieco e irrazionale. Soltanto l’etica può rendere definitiva la liberazione dalla volontà, superando la sporadicità e l’eccezionalità dell’esperienza estetica: all’etica è dedicato, non a caso, l’ultimo libro del Mondo.
Critica del libero arbitrio e libertà del volere
La determinazione empirica del volere
Rifiuto della libertà d’indifferenza Motivi e carattere determinano l’agire umano
T9
Motivi, carattere e necessità dell’agire A. Schopenhauer, La libertà del volere umano
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Anche in questo campo risulta determinante il confronto con la filosofia kantiana, che costituisce il punto di partenza e al tempo stesso il principale bersaglio polemico della riflessione etica di Schopenhauer. Di ispirazione kantiana è la dottrina schopenhaueriana della libertà del volere, fondata sulla contrapposizione tra il piano empirico e quello intelligibile. Schopenhauer riprende, infatti, dalla filosofia critica la tesi secondo la quale le azioni umane – che cadono nello spazio e nel tempo – sono determinate in maniera necessaria, al pari di ogni altro fenomeno, da leggi universali di natura. Anche per Schopenhauer ogni evento del mondo fenomenico segue il principio di ragion sufficiente, che nelle azioni si esplica sotto la forma di «motivi»; questi ultimi producono effetti in maniera altrettanto necessaria quanto la causalità ordinaria e naturale, dalla quale si distinguono solo in quanto passano attraverso il conoscere. A partire da questi presupposti, Schopenhauer rifiuta in modo netto la concezione della libertà come libertà d’indifferenza, cioè come facoltà di scelta completamente priva di motivazione e indifferente rispetto alle conseguenze. Quella che può apparire come una libera scelta non è altro che il risultato di un conflitto tra motivi, in cui a prevalere è quello più forte: i motivi determinano immancabilmente la volontà, e sono a loro volta determinati dal «carattere empirico» dell’uomo; come ogni ente naturale ha le proprie forze e qualità, che reagiscono in maniera necessaria a determinati stimoli, allo stesso modo anche l’uomo ha il suo carattere, dal quale, in seguito a determinati motivi, discendono con necessità le azioni. In definitiva, dunque, l’agire dell’uomo è per Schopenhauer causato in maniera necessaria da due fattori: un coefficiente esterno – cioè i «motivi» – e un coefficiente interno, che consiste nel carattere. Presupponendo il libero arbitrio ogni azione umana sarebbe un miracolo inspiegabile, un effetto senza causa. E quando si arrischia di figurarsi un tale libero arbitrio, ci si accorge subito che non ci si capisce niente: la mente non possiede una forma per pensare una cosa simile. Infatti il principio di ragione sufficiente, il principio della generale determinazione e dell’interdipendenza dei fenomeni è la universale forma della nostra facoltà conoscitiva che, secondo la diversità dei suoi oggetti, assume a sua volta forme diverse. Qui invece dobbiamo pensare una cosa che determina senza essere determinata, che non dipende da nulla ma da
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard
essa ne dipendono altre, che senza necessità e quindi senza ragione effettua ora A, mentre potrebbe ugualmente effettuare B o C o D, e lo potrebbe liberamente, nelle medesime circostanze, cioè senza che ci sia in A qualcosa che gli conferisca la preferenza (poiché essa sarebbe motivazione, e dunque causalità) su B, C, D. Qui ritorniamo al concetto di «assolutamente fortuito» che abbiamo considerato problematico fin da principio. Ripeto: la mente non ci capisce nulla, se pure si può portarla a rifletterci. Adesso vogliamo considerare che cosa sia mai una causa: il mutamento precedente che rende necessario il successivo. Nessuna causa al mondo produce il suo effetto o lo trae dal nulla. C’è invece sempre qualcosa su cui agisce e dà luogo soltanto in questo movimento, in questo luogo e in questo determinato essere a un mutamento che è sempre conforme alla natura di questo essere, mutamento per il quale questo essere doveva già contenere l’energia. Ogni effetto scaturisce dunque da due coefficienti, uno interno e uno esterno, cioè dalla energia originaria dell’essere sul quale si agisce e dalla causa determinante che la costringe a manifestarsi ora e qui. Ogni causalità e ogni spiegazione che vi si fonda presuppone un’energia originaria […]. Persino le cause delle quali si occupa la ben comprensibile meccanica, quali urto e pressione, hanno per presupposti l’impenetrabilità, la coesione, la rigidità, la durezza, l’inerzia, il peso, l’elasticità che sono […] insondabili forze di natura. Dunque le cause determinano dappertutto soltanto il quando e il dove delle manifestazioni di forze originarie e inesplicabili, e solo la premessa di queste forze le fa essere cause, cioè fa loro produrre necessariamente certi effetti. Ora, ciò che avviene per le cause in senso ristretto e per gli stimoli, avviene non meno per i motivi, dato che la motivazione non è essenzialmente diversa dalla causalità, ma ne è soltanto una specie, cioè la causalità che passa attraverso la conoscenza. Anche qui dunque la causa suscita soltanto la manifestazione di una forza che non va riportata a cause, e perciò non è spiegabile, forza che qui si chiama volontà e a noi è nota non soltanto dal di fuori come le altre forze di natura, ma, in virtù dell’autocoscienza, anche dal di dentro e direttamente. Soltanto presupponendo che una siffatta volontà esista e, nel singolo caso, sia di una determinata qualità, le cause ad essa dirette agiscono, e noi le chiamiamo motivi. Questa qualità della volontà, determinata in modo speciale e individuale, per cui la sua reazione ai medesimi motivi è in ogni uomo diversa, costituisce ciò che si dice il carattere dell’uomo, e precisamente, siccome non è a priori, ma lo si conosce soltanto attraverso l’esperienza, il suo carattere empirico. Esso determina anzitutto il modo in cui i diversi motivi agiscono su un dato uomo. […] Distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile
In questa concezione deterministica, l’unico spazio per la libertà è offerto dalla distinzione kantiana tra carattere empirico e intelligibile, che Schopenhauer riprende: 1) il carattere empirico è quello che affiora nella coscienza empirica, ha una struttura individuale ed è costante, pur essendo disteso nel tempo e nello spazio: come si è appena visto, in quanto parte del mondo fenomenico, esso è il fondamento su cui si basa la necessità con cui i motivi determinano la volontà negli atti di autoaffermazione di ciascun individuo nella lotta per la sopravvivenza; 2) il carattere intelligibile è l’atto di volere atemporale, che costituisce la radice 55
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
noumenica del carattere empirico: essendo al di fuori del mondo fenomenico, esso è assolutamente libero. Di questa libertà assoluta del volere in quanto appartiene alla cosa in sé – che riguarda quindi non le singole azioni, bensì l’essere di ciascuno – acquistiamo coscienza solo indirettamente, a partire dal sentimento di responsabilità che proviamo per le nostre azioni, sentimento che può esistere solo presupponendo una libertà morale. Libertà e cosa in sé Per Schopenhauer, dunque, la libertà – nel senso di indipendenza dal principio di ragione e dalla ferrea necessità della legge di causalità – appartiene alla volontà soltanto come cosa in sé, e non alle sue manifestazioni fenomeniche. Come ➥ Laboratorio sul lessico, si vedrà, vi è solo una possibilità di manifestazione della libertà anche nel monLibertà, p. 341 do fenomenico: la radicale conversione e trasformazione del carattere – provocata dal passaggio dalla conoscenza fenomenica a quella intuitiva della cosa in sé – che si manifesta nel mondo fenomenico attraverso il totale distacco dell’uomo da tutto ciò che è fenomeno e la rinuncia finale alla volontà come energia di autoaffermazione individuale ed empirica.
Compassione contro dovere Libertà e moralità solo interiori
La ragione non è pratica
Rifiuto dell’imperativo categorico: dovere e leggi esterne
Cade la distinzione filosofia pratica / teoretica
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Schopenhauer si richiama esplicitamente a Kant, che, secondo lui, aveva contrapposto la dimensione fenomenica dell’uomo – cioè le azioni e il carattere empirico, sottoposti alla rigida necessità naturale – alla sua dimensione noumenica – cioè il volere come cosa in sé, assolutamente libero. Questa interpretazione, comune a coloro che in questo leggono un’aporia del criticismo, induce Schopenhauer a confinare la libertà e la moralità nella dimensione interiore dell’intenzione o della conversione dell’animo. La metafisica schopenhaueriana imprime, inoltre, alla terminologia kantiana un significato molto diverso. Per Kant, il noumeno della volontà coincide con la ragione, intesa come fonte di leggi incondizionate. Per Schopenhauer, invece, la cosa in sé della volontà è una forza cieca, che è libera proprio in quanto è sottratta al principio di ragione. Di qui il forte ridimensionamento del ruolo della ragione che contraddistingue l’etica di Schopenhauer: per lui, la ragione non è pratica, cioè non è fonte di norme morali e non può fungere né da criterio di valutazione né da movente delle azioni. Questa impostazione implica innanzitutto il rifiuto dell’idea kantiana del dovere come imperativo categorico, che obbliga a un’azione in maniera assoluta, a prescindere dalle conseguenze di quest’ultima: una volta negata la ragione come fonte di leggi incondizionate, dovere e legge non possono che essere il comando di una volontà estranea, appartenente a Dio o alle istituzioni, cui prestiamo un’obbedienza che non è affatto incondizionata, bensì condizionata dalla paura di una punizione o dalla speranza di una ricompensa. In secondo luogo, la negazione della praticità della ragione determina il venir meno della distinzione kantiana tra filosofia pratica e filosofia teoretica: secondo Schopenhauer, tutta la filosofia è sempre teoretica, in quanto caratterizzata da un atteggiamento di mera contemplazione, anche quando ha per oggetto le azioni umane. Dal momento che queste ultime sono determinate in maniera necessaria dal carattere e dai motivi, la pretesa di dare precetti sarebbe del resto priva di senso: è inutile prescrivere doveri morali una volta assunto che l’uomo non è libero di scegliere se seguirli o meno.
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Di qui la decisione di elaborare un’etica con un approccio semplicemente esplicativo e descrittivo, che si propone come obiettivo non quello di stabilire principi morali e regole di virtù, bensì quello di descrivere e spiegare il dato di fatto dei comportamenti umani alla luce della metafisica della volontà. Infine, Schopenhauer respinge la tesi kantiana secondo la quale morale è esclusivamente un’azione compiuta sulla base della sola ragione, a prescindere o, meglio, in contrasto con i nostri sentimenti sensibili, compresi quelli apparentemente più nobili, come la compassione. Azione disinteressata Egli condivide con Kant la convinzione che la virtù consista in un agire disine compassione teressato, cioè non determinato dall’egoistico amore di sé. Tuttavia, ritiene che la conoscenza razionale del puro dovere non sia affatto in grado di produrre un’azione disinteressata: nella prospettiva di Schopenhauer, infatti, ogni conoscenza razionale – anche la coscienza del dovere – è una conoscenza astratta che, in quanto tale, può indurre all’azione solo in maniera mediata, cioè indicando motivi, riconducibili tutti all’amore di sé. L’azione virtuosa, cioè l’azione disinteressata, può nascere invece solo dal sentimento della compassione, che nella filosofia morale kantiana è stigmatizzato come un cedimento della ragione alle inclinazioni sensibili e all’amore di sé: al contrario, per Schopenhauer la compassione è agàpe o «carità», cioè una forma di amore spirituale qualitativamente differente e opposta rispetto all’amore egoistico e sensuale, ovvero l’eros. Etica descrittiva e non prescrittiva
T10
Dovere e compassione
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione par. 67
In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano originate dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e dell’imperativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù, la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l’eros, compassione l’agape.
Secondo Schopenhauer anche la compassione è in ogni caso una conoscenza: si tratta, però, di una conoscenza molto diversa da quella puramente razionale e astratta del dovere. Essa è l’intuizione dell’unità con tutti gli esseri viventi, in quanto fenomeni della medesima radice noumenica, cioè la volontà di vita: questa conoscenza, proprio per il suo carattere intuitivo e immediato, non si traduce né in concetti né in parole, ma solo in atti che esprimono benevolenza attiva nei confronti del prossimo, interesse e partecipazione per il suo destino. Compassione A partire da questi presupposti, Schopenhauer elabora dunque un’etica della e armonia del tutto compassione, secondo la quale la bontà e la virtù genuine si manifestano solo nell’amore disinteressato verso gli altri, che raggiunge la perfezione quando consideriamo l’estraneo e il suo destino come perfettamente uguale al nostro. Al pari dell’arte, dunque, anche la compassione nasce dal superamento del principium individuationis, attraverso un’intuizione immediata della volontà come radice metafisica unitaria di tutto l’universo; a differenza dell’arte, essa offre, però, una serenità dell’animo duratura e stabile, derivante dal fatto che l’interesse diffuso sugli innumerevoli fenomeni della natura non ci angustia come quello concentrato esclusivamente sul nostro io: considerate nel complesso, le sofferenze e le gioie di tutti i fenomeni della natura si compensano.
Compassione come conoscenza intuitiva dell’unità di tutti gli esseri viventi
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Dalla virtù alla santità Salvezza come cessazione della volontà
Distacco dal mondo e santità
Ascesi laica ma ispirata a pratiche religiose
➥ Laboratorio di lettura, p. 73
Santità come liberazione dal mondo fenomenico
Noluntas come vertice dell’ascesi
➥ Laboratorio di lettura, p. 73
Limiti della filosofia
Estasi mistica e illuminazione
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Per Schopenhauer nemmeno la virtù della compassione è, però, il punto culminante della liberazione umana, bensì soltanto un passaggio quasi obbligato nella via verso la salvezza, identificata con la completa cessazione della volontà di vita: questa redenzione si raggiunge piuttosto con l’approdo alla «santità», intesa come il frutto di una radicale «conversione» del nostro essere fondata su un rivolgimento della conoscenza. Fino a quando si è prigionieri del principio d’individuazione, le cose – conosciute singolarmente e poste in relazione esclusivamente con la propria persona – agiscono inevitabilmente come «motivi» della volontà (determinanti il carattere empirico). Al contrario, la conoscenza del tutto, acquisita da chi coglie la radice noumenica unitaria del cosmo, non può che agire da «quietivo» della volontà in particolare e in genere: colui che squarcia il velo di Maya del mondo fenomenico non solo intuisce la propria unità con tutti gli altri esseri viventi, ma conosce l’essenza dell’universo come perenne sofferenza, partecipando ad essa come se fosse la propria; questa conoscenza non può che distoglierlo dalla volontà di vita in generale e dalle singole volizioni particolari, avviando un percorso di distacco dal mondo che culmina con la santità. L’ascesi cui Schopenhauer si riferisce è un’ascesi laica e intramondana, priva cioè di ogni riferimento a un aldilà trascendente, nonostante le pratiche ascetiche citate nel Mondo siano per la maggior parte pratiche religiose: la castità, la povertà volontaria, l’autoabnegazione, il sacrificio eroico. In particolare, la castità è un momento essenziale dell’ascesi, in quanto esprime la liberazione dell’uomo dalla subordinazione alla volontà metafisica, che utilizza le lusinghe dei sensi per garantire la propria sopravvivenza nella specie, sia pure a costo dell’infelicità degli individui. Il completo distacco dal mondo fenomenico del santo – che ha alla sua radice una radicale trasformazione del proprio essere interiore – costituisce per Schopenhauer l’unica manifestazione possibile della libertà nel mondo fenomenico: contraddicendo persino le richieste del suo proprio corpo, che pure continua a esistere nello spazio e nel tempo, il santo infrange gli ultimi legami che uniscono la sua coscienza alla fatale macchina del cosmo. Il punto di arrivo dell’ascesi è denominato da Schopenhauer con un termine negativo, cioè come «noluntas». Non si tratta, però, di un passaggio al nulla assoluto: ci appare così soltanto perché, fino a quando restiamo soggetti alla volontà di vivere, non siamo in grado di definirlo altrimenti; più appropriata è l’espressione di «nulla privativo», designante un nulla che è tale solo in relazione a qualcos’altro di cui è negazione – cioè il mondo fenomenico – ma che può anche essere rovesciato in un positivo. In ogni caso, neanche la filosofia ci offre uno strumento per determinare in termini positivi il punto d’arrivo dell’ascesi, in quanto anch’essa, come riflessione razionale, non può sottrarsi al principio di ragione, né tanto meno alla distinzione soggetto-oggetto. Negare la volontà di vivere significa, infatti, condurre la volontà fino al momento antecedente a qualsiasi sua espressione, anche quella delle idee, fino al punto in cui si ha un’identità perfetta, anche al di là della distinzione tra soggetto e oggetto. Questo punto estremo è afferrabile in positivo solo riferendosi all’esperienza dell’estasi mistica o dell’illuminazione, uno stato che eccede la conoscenza ed è
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➥ Sommario, p. 70 L’etica di Schopenhauer
dunque incomunicabile: il richiamo a questo tipo di esperienze o alla santità permette di comprendere come la negazione della volontà di vivere e dei suoi effetti non sia una negatività semplice e assoluta, bensì piuttosto uno stato di pienezza e di verità, rispetto al quale il concetto di nulla si capovolge: la vita e il mondo fenomenico sono il nulla, mentre la negazione della volontà di vivere diventa affermazione e compiutezza.
Premesse metafisiche – Comprensione della natura metafisica della volontà – Esigenza della liberazione dalla sofferenza
Confronto con l’etica kantiana – Distinzione tra carattere empirico e carattere intelligibile – Ridimensionamento del ruolo della ragione nell’etica – Rifiuto dell’etica del dovere – La filosofia è solo teoretica – Etica descrittiva e non prescrittiva
Primo livello della liberazione etica – Azione disinteressata che nasce dalla compassione come conoscenza intuitiva dell’unità del tutto
Secondo livello della liberazione etica – Distacco dal mondo e santità raggiunta attraverso un’ascesi laica – Santità come liberazione dal mondo fenomenico – Noluntas, negazione della volontà: «nulla positivo»
Kierkegaard
2 I testi
S. Kierkegaard L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità: La scelta e la vita etica, T11; Il lavoro
1 Esistenza concreta e impostazione anti-intellettualistica
esprime l’universale, T12; La destinazione dell’uomo, T13 Timore e tremore: Hegel e la vita etica, T14; La fede come paradosso, T15; Abramo e l’eroe tragico, T16
La filosofia e l’esistenza individuale Con la riflessione di Søren Kierkegaard il tema dell’esistenza concreta e irriducibile del singolo diventa un tema filosofico. Il compito del filosofo è per il pensatore danese esprimere questa irriducibilità, anche nella consapevolezza di quanto 59
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Nuove forme e generi della scrittura filosofica
Un cristianesimo anti-istituzionale: mistica e pietismo
questo compito possa essere difficile da assolvere, o addirittura impossibile. È una parte importante, questa, di un’impostazione anti-intellettualistica, e per certi aspetti anti-filosofica, caratteristica di Kierkegaard, e che non coinvolge soltanto il suo grande obiettivo polemico – la filosofia sistematica e idealistica – ma la possibilità stessa della comunicazione e in particolare della comunicazione filosofica. Dall’impostazione anti-intellettualistica derivano anche le molte oscurità dei testi e i modi peculiari in cui Kierkegaard li presenta al pubblico. Se si esclude l’importantissimo Diario, che è una fonte indispensabile per comprendere il suo pensiero, gli scritti kierkegaardiani possono essere divisi in due gruppi principali: gli scritti propriamente filosofici, che vengono tutti pubblicati sotto diversi pseudonimi – a partire dalla prima opera, Enten-Eller, che corrisponde alla disgiunzione latina, come spesso viene tradotto: «aut-aut», «o-o» –, e gli scritti edificanti, pubblicati con il proprio nome, secondo il modello delle prediche religiose. Non si tratta, nel caso di Kierkegaard, di una religione ortodossa, ma di un’esperienza religiosa individuale e tormentata, costantemente in polemica con la Chiesa protestante ufficiale e con il tradimento che questa avrebbe compiuto del messaggio cristiano più vero e genuino. Ha un gran peso invece, nel cristianesimo kierkegaardiano, la tradizione mistica e soprattutto quella pietistica, il filone del cristianesimo protestante sorto alla fine del XVII secolo che sottolinea la distanza incolmabile tra Dio e l’uomo e il valore dell’esperienza interiore.
La vita e le opere Søren Aabye Kierkegaard nacque a Copenaghen nel 1813 nella famiglia di un commerciante a riposo che faceva parte della comunità pietista. Studiò a Copenaghen e venne ammesso nel 1830 alla facoltà di teologia e, a partire dal 1834, iniziò a collaborare con il giornale «La posta volante di Copenaghen» e poi con altre pubblicazioni, mentre l’anno successivo tenne la sua prima conferenza pubblica al Circolo degli studenti. Nel 1837 conobbe in casa di conoscenti Regine Olsen, di dieci anni più giovane di lui; in quello stesso anno il padre gli assegnò una rendita che gli permise di andare ad abitare da solo. L’anno successivo fu violentemente turbato dalla morte del padre, l’ultimo di una lunga serie di lutti familiari. Nel 1840 concluse l’università e superò l’esame per divenire pastore, anche se il giudizio sulle sue qualità di studente non era del tutto positivo; l’anno successivo si fidanzò ufficialmente con Regine ma dopo circa un anno ruppe il legame con lei non ritenendo possibile conciliare la vita matrimoniale con la scelta di divenire pastore (che però non si concretizzò) e di abbracciare la vita religiosa. Nel 1841 venne accettata la sua tesi di dottorato in teologia, Del concetto d’ironia con particolare riguardo a Socrate, in danese, che venne pubblicata in quello stesso anno. Dopo la discussione della tesi si recò a Berlino dove frequentò anche le lezioni di Schelling e iniziò a scrivere Enten-Eller, componendo per prime le lettere della seconda parte, in cui l’autore assume la figura dell’assessore Wilhelm, il personaggio che incarna l’ideale della vita etica e che mostra i limiti dell’esperienza estetica: per prima la lettera intitolata L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, poi l’altra Validità estetica del matrimonio. Invece l’ultimo scritto della seconda par-
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te Ultimatum, in cui il consigliere invia a un amico una predica edificante, venne composto subito prima della pubblicazione (novembre 1842) e allude al passaggio al terzo stadio dell’esistenza, la vita religiosa. Nei mesi successivi, anche dopo il ritorno a Copenaghen, Kierkegaard lavorò ai vari componimenti che costituiscono la prima parte di Enten-Eller, in cui vengono mostrati i caratteri dell’esistenza estetica. Tra questi ha particolare rilievo Il diario di un seduttore (1842) in cui Kierkegaard finge di pubblicare il diario e alcune lettere opera del seduttore Johannes, l’incarnazione della vita estetica, a cui aggiunge in alcuni casi le risposte della donna sedotta, Cordelia. I documenti sono accompagnati dalle sue riflessioni personali sui protagonisti della vicenda e le loro esistenze. Enten-Eller venne pubblicato in due volumi nel 1843 suscitando molto interesse e vivaci discussioni, alle quali partecipò con articoli pubblicati con pseudonimi lo stesso Kierkegaard. In quello stesso anno uscirono oltre a due discorsi edificanti – L’attesa della fede e Ogni bene e ogni dono perfetto vengono dall’alto, cui se ne aggiunsero altri negli anni, sempre pubblicati e infine raccolti in un unico volume – Timore e tremore e La ripresa. Negli anni successivi uscirono Briciole filosofiche (1844), Il concetto dell’angoscia (1844), Stadi sul cammino della vita (1845), Postilla conclusiva non scientifica (1846), La malattia mortale (1849), Esercizio del cristianesimo. Postumi vennero pubblicati il Diario, iniziato nel 1834, e le Carte, appunti, riflessioni, riassunti. Nell’ultimo periodo della sua vita Kierkegaard si dedicò alla polemica contro la Chiesa danese e la sua gerarchia attraverso la rivista «Il momento», il cui decimo e ultimo numero uscì postumo. Morì a Copenaghen, dopo una breve degenza in seguito a un malore improvviso, nel 1855.
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La critica dell’idealismo Contro Hegel, il valore dell’edificazione
La delusione da Schelling
Le vicende biografiche
L’influenza
2 Visioni del mondo diverse
Kierkegaard è profondamente insoddisfatto delle soluzioni proposte dalla filosofia contemporanea. Egli è sempre ferocemente critico verso Hegel, che è il grande filosofo dell’universale e dell’universo etico, ma rifiuta anche l’universalità della legge morale kantiana. A sottolineare la sua attitudine anti-hegeliana, del resto, sta anche l’insistenza frequente e intenzionale sulla necessità della «edificazione». Hegel aveva detto a chiare lettere che la filosofia «deve evitare soprattutto di essere edificante», mentre Kierkegaard prende esattamente la posizione contraria: «solo la verità che edifica è verità per te», scrive, sottolineando la centralità dell’esperienza religiosa rispetto al sapere intellettuale e, al tempo stesso, il suo carattere individuale. Altrettanta insofferenza Kierkegaard mostra, per gli stessi motivi, verso tutte le teologie razionalistiche, a partire proprio da quelle di scuola hegeliana. Kierkegaard è pieno di aspettative quando va a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling, nel 1841, ma ne rimane profondamente deluso, tanto da affermare che Schelling «chiacchiera a ruota libera» e, con ironia, che «io sono troppo vecchio per ascoltare lezioni, ma Schelling è troppo vecchio per darle». Contro la tradizione filosofica, e in particolare contro la filosofia idealistica come filosofia dell’universale, Kierkegaard afferma infatti il valore della particolarità del singolo nel rapporto tormentato e paradossale dell’individuo isolato con se stesso e con Dio. Alla tematizzazione della concreta esistenza individuale corrisponde una biografia certamente complessa, come emerge dalle lettere e dalla continua analisi introspettiva del Diario. Segni di questa complessità sono il rapporto con il padre e i racconti di un’infanzia infelice, ma soprattutto il fidanzamento con Regine Olsen, che dura poco più di un anno e che verrà rotto, per motivi mai chiariti, dallo stesso Kierkegaard. Si tratta di un’esperienza che lo segna profondamente, e di cui talvolta il filosofo offre una trasfigurazione che mette in rilievo la propria eccezionalità e l’impossibilità di una vita normale per chi è destinato a un compito superiore: difendere la causa del cristianesimo. La notorietà e l’influenza filosofica di Kierkegaard non sono immediate, ma arrivano molti anni dopo la sua morte. La Kierkegaard-Renaissance più significativa si avrà solo nel XX secolo, tra le due guerre mondiali, sia in Germania sia in Francia: è in questi anni che si tornerà a guardare con particolare attenzione alla sua riflessione, tanto che Kierkegaard viene considerato il padre e la fonte d’ispirazione della filosofia dell’esistenza, o esistenzialismo (vedi Unità 13, p. 544).
Vita estetica e vita etica Per Kierkegaard, l’esistenza può essere affrontata dall’uomo in diversi modi. Una delle idee centrali della sua filosofia è quella di diverse visioni del mondo, di diverse forme dell’esistenza individuale, di diversi tipi di vita, ciascuna delle quali possiede una configurazione autonoma e una determinata disposizione psicologica. Questa caratterizzazione di diverse mentalità – nel senso profondo della parola, come atteggiamenti di fronte all’esistenza – non è però in alcun modo una descrizione neutra, che semplicemente le accosti l’una all’altra. 61
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Le forme dell’esistenza Tre tappe gerarchicamente ordinate
Superiore prospettiva e consapevolezza nei livelli più alti
Discontinuità tra i livelli
Le diverse visioni del mondo individuate da Kierkegaard – l’estetica, l’etica e la religiosa – sono tappe, stadi di un processo che ha almeno tre caratteristiche. Innanzitutto, le tre tappe sono ordinate gerarchicamente, in una scala di valore che dal gradino più basso, l’esperienza estetica, sale verso l’esperienza etica e giunge infine all’esperienza religiosa. In secondo luogo, il rapporto fra le tre diverse tappe dell’esistenza non è paritario, ma asimmetrico: ciascuna tappa superiore è infatti in grado di spiegare la tappa inferiore, mentre non è vero il contrario. L’assunzione di un punto di vista superiore mette infatti in grado di comprendere e spiegare il punto di vista inferiore, e di individuarne i limiti: è dal punto di vista etico che è possibile comprendere il punto di vista estetico, mentre dal punto di vista estetico non si comprende e non si spiega il punto di vista etico. La gerarchia non consiste quindi soltanto nel valore dei diversi punti di vista, ma anche nella loro prospettiva, nella loro capacità di spiegazione: chi conduce la propria esistenza su un piano inferiore è completamente immerso in essa, e non è in grado di andare oltre. In terzo luogo, il passaggio di un individuo da un punto di vista all’altro non avviene con un processo graduale, ma con un salto, una vera frattura con il punto di vista precedente: per fare il «salto» dall’estetica all’etica e dall’etica alla religione è quindi necessario un completo riorientamento della propria prospettiva, del proprio modo di guardare a se stessi e al mondo.
La vita estetica Punto di vista estetico e immediatezza
Don Giovanni come simbolo della vita estetica
Individualismo, frammentazione e incapacità di scelta
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Una grande attenzione è dedicata da Kierkegaard al punto di vista estetico, che non affronta la scienza della bellezza ma costituisce il punto di vista dell’uomo che vive nell’immediatezza, in una ricerca affannosa di esperienze dove sia possibile trovare soddisfazione senza poterla trovare in nessuna: è una ricerca vissuta con «passione annichilatrice». Lo stadio estetico dell’esistenza non è il frutto di una scelta, è lo sperimentare tutto ciò che avviene d’incontrare senza agire veramente e senza scegliere. La vita estetica, il cui rappresentante è il seduttore o Don Giovanni, non è il male, poiché il male è una determinazione etica, ed è quindi una determinazione estranea al punto di vista estetico: ciò che caratterizza lo stadio estetico è piuttosto l’indifferenza. La stessa scelta, infatti, che è una categoria centrale per Kierkegaard e poi per la tradizione esistenzialistica, è qualcosa di estraneo alla vita estetica e che appartiene specificamente alla vita etica. L’esistenza dell’uomo, nel punto di vista estetico, ha una dimensione individualistica che nell’affermare se stesso attraverso il perseguimento della soddisfazione, nelle più diverse esperienze, va alla ricerca della propria distinzione e della propria eccezionalità, intesa però in senso completamente egoistico. Ciò che si rifugge è qualunque forma di continuità, di impegno verso se stessi o verso gli altri che coinvolga realmente la personalità e vada al di là delle singole, frammentate esperienze. La vita estetica consiste quindi nella dipendenza costante dall’esterno, perché in essa non si è scoperta la possibilità di scegliere e quindi la libertà.
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard
Don Giovanni, dalla letteratura alla filosofia Il personaggio letterario Don Giovanni, un irresistibile seduttore incapace di amare veramente e attratto solo dal piacere della conquista, nasce come personaggio teatrale per poi trovare una lunga serie di incarnazioni anche in opere musicali e letterarie, dalle più frivole alle drammatiche. Lo incontriamo per la prima volta in un dramma di Tirso de Molina (pseudonimo di Gabriel Téllez, 1584-1648) intitolato L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra (1630) in cui Don Juan è un cinico personaggio, con tratti vagamente diabolici, che durante una delle sue seduzioni uccide il padre della ragazza e nell’atto finale riceve la visita della statua dell’offeso, che ha deriso con un invito a cena. Il convitato di pietra lo trascina all’Inferno dove verrà punito per i suoi crimini.
Da questo primo nucleo narrativo derivano sia una ricca tradizione popolare che trova voce nella commedia dell’arte, sia il dramma di Molière (1622-1673) Don Giovanni o il convitato di pietra (1665) che riprende nelle sue linee essenziali la vicenda narrata da Tirso. Un’altra tra le più conosciute incarnazioni del mito del seduttore la troviamo nell’opera di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) che mette in musica il libretto italiano di Lorenzo Da Ponte Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni rappresentata per la prima volta nel 1787. Da allora non si contano le incarnazioni ottocentesche di questo tòpos letterario, per esempio il Don Juan (18191824) di George Gordon Byron (1788-1824) che scrive un poema, rimasto incompiuto, in cui mescola epica, avventura e sentimento; oppure novecentesche come il romanzo farsesco Don Giovanni in Sicilia (1941) di Vitaliano Brancati (1907-1954).
La vita etica La trattazione della vita etica ha in Kierkegaard caratteri peculiari. La vita etica è infatti un punto di riferimento centrale – e con essa lo è la categoria della scelta che la contraddistingue – che costituisce lo strumento fondamentale usato da Kierkegaard per chiarire il punto di vista inferiore, la vita estetica, ma che ha anch’essa propri limiti che emergeranno nella prospettiva della religione. La vita etica ha quindi una posizione centrale dal punto di vista sia positivo sia negativo, e si contrappone da un lato alla vita estetica, dall’altro all’esistenza religiosa. La scelta come valore Ciò che segna il passaggio dalla vita estetica alla vita etica è proprio la scelta, che costituisce il tratto essenziale della vita etica: la scelta è un valore in se stessa, che introduce alla possibilità delle determinazioni etiche che nella vita estetica non si danno. La scelta esclusiva tra vita estetica e vita etica, l’Enten-Eller, l’aut-aut consiste nella scelta non tanto di vivere eticamente, ma di vivere all’interno dell’orizzonte etico, dove si dà la possibilità del bene e del male. Dall’indifferenza Il passaggio dalla vita estetica alla vita etica è il passaggio dal mondo dell’indifalla scelta ferenza al mondo della scelta attraverso la scelta stessa di vivere in un orizzonte morale e quindi di potere scegliere tra il bene e il male. Certo, la scelta in favore della vita etica, sorta nel confronto con la vita estetica, è quella giusta; ma in sé la scelta originaria è assoluta e ancora priva di punti di riferimento, perché il bene e il male entrano in gioco soltanto una volta che ci si sia introdotti, attraverso l’abbandono dell’esistenza estetica, nell’orizzonte della moralità, si sia assunto il punto di vista della vita etica che rende possibile parlare di bene e di male.
La centralità del punto di vista etico
T11
La scelta e la vita etica
S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità
[…] una scelta estetica non è scelta alcuna. Insomma, lo scegliere è espressione propria e rigorosa dell’etico! […]. Che cos’è dunque che io disgiungo nel mio enten-eller? Bene e male? No, io voglio solo portarti al punto in cui questa scelta acquista in verità significato per te. È su ciò che tutto s’impernia! Appena si riesca a condurre una persona a trovarsi al bivio cosicché non ci sia per essa nessun’altra via d’uscita se non con lo scegliere, allora tale persona sceglierà il giusto! […]. Il mio enten-eller non caratterizza il più da vicino la scelta tra bene e male, es63
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so caratterizza quella scelta con la quale si sceglie bene e male ovvero li si esclude. Qui dunque il problema è sotto quali determinazioni si vuol considerare l’intiera esistenza e anche vivere! Che colui che fa oggetto della sua esistenza il bene e il male scelga il bene, è vero, certo, ma questo apparirà unicamente dopo, a cose fatte, e in realtà l’estetico non è il male, ma l’indifferenza, e fu per tale ragione che dissi che l’etico costituisce la scelta. Per tale ragione non tanto che ci sia da parlare di uno scegliere tra volere il bene ovvero il male, quanto di uno scegliere il volere; ma con ciò il bene e il male tornano ad essere posti. Dalla frammentazione all’universalità
Apparente banalità della vita etica
Vita etica e valori borghesi
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Il lavoro esprime l’universale S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità
È solo con la scelta per la vita etica che si entra nella dimensione della libertà e della responsabilità consapevole, ed è per questo che la scelta di assumersi la responsabilità di scegliere è così importante per la personalità individuale: soltanto così è possibile superare l’universo frammentato della vita estetica nella direzione di una personalità libera ma sottoposta a regole condivise da altri individui, alle regole universali che costituiscono la moralità, all’universale. La vita etica non ha, nei suoi contenuti, nulla di eccezionale: essa ha ancora una volta una posizione intermedia tra l’eccezionalità dell’esteta, da un lato, e l’eccezionalità dell’esperienza religiosa individuale come rapporto diretto con Dio, dall’altro. La vita etica, almeno apparentemente, è banale, anche se in realtà essa nasconde una dimensione eroica, un coraggio che consiste proprio nel riconoscere il bene come la cosa più importante. È infatti poco originale il contenuto della vita etica dell’assessore Wilhelm, il rappresentante kierkegaardiano di questa visione del mondo: Wilhelm conduce una vita secondo un’etica borghese. La vita etica esprime l’universalità e gli elementi comuni al genere umano a partire dalle regole condivise che sono le regole morali, ma non solo. Il lavoro stesso è un innalzamento della vita umana, e la vita etica si fonda sul lavoro, che è una forma di libertà perché nel lavoro si esprime il dominio della natura e la superiorità dell’uomo su di essa. Tanto più basso è il livello a cui si trova la vita umana, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; tanto più in alto essa si trova, tanto più compare tale necessità. Questo dovere di lavorare per vivere esprime ciò che è comune al genere umano, ed esprime anche, in un altro senso, l’universale, poiché esprime la libertà. Appunto lavorando l’uomo si libera, lavorando diventa signore della natura, lavorando mostra d’essere superiore alla natura.
Il vero tratto caratteristico della vita etica è però il matrimonio come espressione più piena dell’universale, della relazione intersoggettiva, chiaramente contrapposta, in questo modo, all’individualismo presuntuoso della vita estetica: quest’ultima è legata all’istante, mentre la vita etica, e in particolare il matrimonio, sono espressione dell’impegno e della stabilità nel tempo. L’etico è l’universale, la legge, il dovere liberamente assunto: nella vita etica il singolo inserisce il proprio contributo in un ordine, occupa un suo posto nella società e svolge un proprio compito. Universale L’universalità di cui parla Kierkegaard, per quanto riguarda la vita etica, non è un come destinazione universale astratto, formale, di tipo «kantiano»: si tratta piuttosto di un’universalità individuale che si realizza in modo specifico in ciascun individuo concreto che ha così una propria missione, una propria destinazione tra gli altri uomini contrapposta all’accidentalità isolata e priva di ordine della vita estetica. La vita etica è caratterizzata da questo sforzo morale di diventare uomo al tempo stesso concreto e universale. Il matrimonio come espressione dell’universale
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La destinazione dell’uomo
S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità
L’etica di Kierkegaard
Colui che vive esteticamente, quegli è l’uomo accidentale, quegli crede d’essere l’uomo perfetto essendo l’unico uomo; colui che vive eticamente si sforza di diventare l’uomo universale […]. L’individuo più insignificante ha una missione, non dev’essere rifiutato, non dev’essere mandato a vivere ad un confinium con gli animali, egli non sta al di fuori di ciò che è comune al genere umano, egli ha una missione. La tesi etica che ogni uomo ha una missione è dunque l’espressione del fatto che c’è un ordine razionale delle cose nel quale ogni uomo, caso mai lo voglia, occupa il suo posto in modo da manifestare d’un sol colpo ciò che è comune al genere umano e ciò che è individuale. Tre forme dell’esistenza: vita estetica, etica e religiosa (vedi anche p. 69) – Gerarchicamente ordinate – Rapporto asimmetrico tra le tappe – Discontinuità tra i livelli
Vita estetica Esistenza retta dalla frammentazione, dall’individualismo e dall’indifferenza
Figura simbolica: Don Giovanni
Vita etica Passaggio dall’indifferenza alla scelta come ingresso nella vita etica
Figura simbolica: assessore Wilhelm
Caratteri della vita etica – Universalità etica – Medietà tra le altre due forme – Non eccezionalità – Valori borghesi (matrimonio, lavoro ecc.) – Universale etico come destinazione individuale
3 Verso la vita religiosa
La religione Dopo aver presentato le prime due forme di esistenza Kierkegaard si dedica alla descrizione della terza, la vita religiosa. Come la frattura tra la vita estetica e quella etica è avvenuta attraverso l’apparire, nell’esistenza individuale, della scelta, che ha portato con sé la consapevolezza dei limiti dell’estetico (individualismo, frammentazione, incapacità di scegliere), così il salto verso la vita religiosa prende avvio nel momento in cui si scoprono i limiti dell’etica.
I limiti dell’etica Debiti verso gli idealisti
Nonostante la costante polemica verso la filosofia idealistica, la descrizione kierkegaardiana della vita etica è debitrice ad essa di aspetti importanti: l’idea di una concreta destinazione etica individuale che abbia al tempo stesso un significato universale fa pensare a Fichte, e l’inserimento dell’agire concreto dell’individuo in un tessuto etico fatto dell’agire di tutti gli uomini rimanda ancora a Fichte, ma soprattutto a Hegel, come Kierkegaard stesso riconosce. 65
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Hegel come interprete della vita etica
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Hegel e la vita etica S. Kierkegaard, Timore e tremore
La volontà di credere
Nell’opera con cui si fa esplicito il confronto con Hegel, infatti, e in cui il fine principale è proprio mostrare il carattere limitato della vita etica (confrontandola non più con quella estetica, ma con la religiosa), l’universalità della vita etica è collegata esplicitamente al pensiero di Hegel, in particolare alla parte finale dello spirito oggettivo, la sfera dell’eticità suddivisa in famiglia, società civile e Stato. Se la vita etica è tutto ciò a cui l’uomo può aspirare, se è l’universalità della vita sociale l’unico fine dell’esistenza dell’uomo, allora è in questa vita etica, sociale, che consiste la beatitudine, e si esaurisce il compito del singolo. Se tutto ciò è vero, allora ha ragione Hegel, scrive Kierkegaard in Timore e tremore. L’etica è come tale il generale e, come tale, è valido per ognuno: ciò che in un altro modo si può esprimere dicendo che vale a ogni momento. […] Se è questa la cosa più alta dell’uomo e della sua esistenza, allora l’etica ha la stessa qualità della beatitudine eterna dell’uomo, la quale per tutta l’eternità, e in ogni momento è il suo tèlos [fine]. Stando così le cose, allora ha ragione Hegel. Ma Kierkegaard non crede che l’etica sia la cosa più alta, e quindi Hegel ha torto. Necessario è il «salto» nella fede, che è superiore all’etica e che non è questione di conoscenza: la fede, infatti è volontà di credere che può arrivare fino all’assurdità e alla paradossalità di negare la stessa etica, di sospenderla, proprio in nome della fede.
La sospensione dell’etico Autonomia della vita religiosa dall’etica
La fede come fine e la sospensione teleologica dell’etico
Abramo come esempio della sospensione dell’etico
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Si è detto che il rapporto tra i diversi stadi dell’esistenza non è un rapporto graduale, ma consiste in fratture, in scelte, in «salti» che rappresentano la negazione dello stadio precedente. Ciò è valido per Kierkegaard anche e soprattutto nel caso del rapporto tra etica e religione, cioè tra etica e fede: l’idea di una supposta continuità tra etica e religione o, ancor più, di una religione fondata sulla morale e che magari si esaurisca in essa (un’impostazione cara alla filosofia illuministica) è lontanissima dalla sua mentalità e dal modo in cui egli affronta la questione dell’esistenza religiosa. Chi ritenga che l’etica sia il fine più alto non può capire la natura della fede religiosa, come non può capirla chi metta la fede in continuità con l’etica, senza comprendere il «salto» che è invece necessario, per giungere alla fede dalla vita etica. Se il fine più alto è la fede, invece, questa porta con sé ciò che Kierkegaard chiama la «sospensione teleologica dell’etico», la sospensione e quindi la negazione delle regole morali in nome di un fine più alto che è la fede religiosa. Di fronte alla fede, infatti, le categorie etiche entrano in crisi, il rapporto di tipo etico con gli altri uomini e con la comunità alla quale si appartiene diventa un rapporto di valore relativo in nome di un altro rapporto, di tipo assoluto, che è il rapporto del singolo con Dio. L’esempio scelto da Kierkegaard per illustrare la «sospensione teleologica dell’etico» è il racconto biblico di Abramo: Dio chiede ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, uccidendolo per onorare Dio stesso. Si tratta, evidentemente, di un rapporto diretto del singolo con Dio, senza nessuna mediazione della comunità e delle regole di essa: Dio ordina ad Abramo un’azione che viola le norme etiche, un atto che dal punto di vista morale sarebbe un assassinio.
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L’obbedienza di Abramo – che accetta di sacrificare il proprio figlio (anche se da ultimo verrà fermato da Dio stesso, poiché ha superato la prova) – è qualcosa che va contro le norme etiche e che è addirittura incomprensibile o folle: «umanamente parlando egli è pazzo e non può farsi comprendere da alcuno». La solitudine di Abramo L’impossibilità della comprensione altrui è ciò che segna la peculiarità della posizione e della scelta di Abramo: la sua è una scelta solitaria in cui la propria individualità scavalca le norme etiche e quindi l’universale o il generale, per entrare da singolo in un rapporto diretto con Dio, non mediato dall’universale. In questo paradosso, ossia in questa aperta contraddizione con l’etica comune, in questo salto consiste appunto la fede.
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La fede come paradosso S. Kierkegaard, Timore e tremore
La fede è appunto questo paradosso, cioè che il singolo come singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma sopraordinato. […] il Singolo come singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto. Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avviene appunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso, inaccessibile per il pensiero.
Il salto nella fede è quindi un atto eroico, ma di un eroismo particolare, ben diverso da quello che si trova nelle tragedie greche. Per illustrare questa differenza, Kierkegaard confronta Abramo con Agamennone, l’eroe tragico che per salvare la patria accetta la morte della figlia Ifigenia. Agamennone compie una scelta tragica, ma la sua è una scelta che rimane interna alla sfera etica, ai valori della comunità in cui vive: il suo è un conflitto squisitamente morale che viene risolto con gli strumenti dell’etica. Scegliendo un valore etico, il bene del proprio popolo, rispetto a un altro valore etico che è il dovere di un padre di provvedere ai propri figli, Agamennone compie una scelta etica; non c’è qui nessuna sospensione dell’etico, nessuna sua negazione. Ciò è provato dal fatto che la stessa comunità accompagnerà e comprenderà il dolore del padre che per amor patrio ha accettato il sacrificio e la morte della figlia. Abramo Nel caso di Abramo, egli, solo, deve negare l’etica e andare al di sopra e al di là e la trasgressione di essa. L’unico punto di contatto tra Abramo e l’universale etico, il generale, il morale dovere morale, è piuttosto una trasgressione della moralità in quanto tale, per la quale egli non trova nessun appoggio e nessun sostegno nella comunità: per questa, Abramo non è più un eroe, ma «un tipo da manicomio». Agamennone come esempio di permanenza nell’etico
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Abramo e l’eroe tragico S. Kierkegaard, Timore e tremore
La differenza fra l’eroe tragico e Abramo balza agli occhi facilmente. L’eroe tragico rimane ancora dentro la sfera etica. Per lui ogni espressione dell’etica ha il tèlos in un’espressione etica superiore; egli riduce il rapporto etico tra padre e figlio o tra padre e figlia a un sentimento che ha la sua dialettica nel suo rapporto all’idea di moralità. Non ci può essere questione di una sospensione teleologica dell’etica. Diversa è la situazione di Abramo. Egli ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo tèlos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa. Infatti mi piacerebbe sapere come si può mettere l’azione di Abramo in rapporto al generale e se è possibile scoprire un punto di contatto qualsiasi fra ciò che Abramo ha fatto e il generale, se non quella trasgressione che Abramo ha compiuta. 67
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La verità è soggettiva La frattura tra vita etica e vita religiosa segna profondamente la distanza tra il mondano e il divino, tra ciò che è umano – la vita etica – e ciò che lo trascende. La vita della religione è la vita solitaria del singolo nel suo rapporto con Dio, con il Dio personale e trascendente della Bibbia, non con Dio come oggetto della speculazione di filosofi: è una religione vissuta. Verità come esperienza L’interiorità è il centro dell’interesse di Kierkegaard e ciò che fonda la stessa esistenziale nozione di «verità»: la verità non è oggettiva, come vogliono gli idealisti, non è un insieme di proposizioni che riguardano un Dio-Assoluto, valide per tutti allo stesso modo, ma è soggettiva. La soggettività è la verità perché è la verità dell’esistenza individuale che incontra Dio attraverso la fede, e non come un oggetto di conoscenza, anche se concepito come infinito, onnipotente ecc.: la verità, infatti, non consiste nel sapere, ma nell’esistere, ed è quindi, per principio, incomunicabile, poiché è un’esperienza «eccezionale» vissuta individualmente e interiormente. L’incontro con Dio
Angoscia e disperazione Il cristianesimo vissuto di Kierkegaard è profondamente segnato dal senso del peccato, inteso non solo e non tanto come eredità della caduta di Adamo, ma come esperienza che riguarda tutti gli uomini (tutti siamo peccatori di fronte a Dio) e che si esprime nell’angoscia, ossia in un sentimento interiore comune a tutti in cui si mescolano paura e ansia profonda per qualcosa di terribile e di indeterminato, per la minaccia di annientamento e di morte, soprattutto di morte spirituale, a cui la vita umana è sempre esposta. A questa nozione Kierkegaard dedica Il concetto dell’angoscia. Possibilità e libertà L’angoscia è il senso del peccato, ma è anche, proprio per questo, il senso della possibilità, ossia del momento in cui l’individuo diviene consapevole dell’opposizione tra bene e male e, immediatamente dopo, della propria capacità di scegliere l’uno o l’altro, e quindi della propria libertà. La possibilità è una sorta di riproposizione della situazione di Adamo di fronte al divieto di Dio di mangiare dall’albero della conoscenza, divieto che lo rende, però, conscio di poterlo fare. Dall’angoscia Certo, l’uomo inconsapevole si sottrae all’angoscia, ma allora egli è soltanto prealla disperazione da degli avvenimenti esterni e non è libero, come si vede nella vita estetica. L’angoscia è ciò che caratterizza, invece, la condizione umana di fronte al mondo ed è un presupposto indispensabile che può condurre alla fede o alla disperazione, ossia all’«autoconsunzione impotente», alla consapevolezza di aver perso ogni possibilità, il cui gesto estremo è il suicidio. Quest’ultima, che riguarda tutti gli uomini, anche coloro che non ne sono consapevoli, è la malattia mortale (l’opera con questo titolo esce nel 1849) che può essere curata soltanto dalla fede. La prospettiva della religione come fede vissuta e sofferente diventa centrale negli scritti più tardi di Kierkegaard, che sottolinea così la distanza assoluta che separa l’uomo da Dio: è una distanza incolmabile della quale l’uomo diviene consapevole nel momento in cui compie il salto nella fede e ➥ Sommario, p. 70 abbandona l’esistenza comune. L’angoscia come sentimento universale
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard La vita religiosa secondo Kierkegaard
Vita religiosa Salto nella fede come ingresso nella vita religiosa dopo la sospensione teleologica dell’etico
Figura simbolica: Abramo
Caratteri della vita religiosa – Solitudine – Carattere paradossale della fede – Verità come esperienza esistenziale e soggettiva – Incontro personale con Dio – Angoscia e possibilità – Fede e disperazione
Suggerimenti bibliografici Una ricostruzione della formazione e della rete di incontri e relazioni di Schopenhauer in R. Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia. Una biografia, Longanesi, Milano 2004. La migliore introduzione generale alla filosofia di Schopenhauer è l’Invito al pensiero di Schopenhauer, di G. Invernizzi, Mursia, Milano 1995. Per quanto riguarda in particolare Il mondo come volontà e rappresentazione, è disponibile la guida alla lettura di S. Barbera, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1998. Utili sono anche le varie introduzioni alle opere: oltre a quella di C. Vasoli all’edizione che abbiamo utilizzato, segnaliamo quella di G. Vattimo al Mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 2003; e quella di G. Colli a Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano 1998. Suggestivo e stimolante è anche il breve saggio dedicato alla filosofia di Schopenhauer da uno dei più grandi scrittori tedeschi del Novecento: Th. Mann, Schopenhauer, in Id., Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Mondadori, Milano 1980. Su temi specifici della riflessione di Schopenhauer possono essere utili: sulla libertà del volere N. di Napoli, Al di là della rappresentazione: saggio su Schopenhauer, Loffredo, Napoli 1993; sulla concezione dell’uomo L. Pica Ciamarra, L’antropologia di Schopenhauer, Loffredo, Napoli 1996; sul nichilismo L. Ceppa, Schopenhauer diseducatore, Marietti, Casale Monferrato 1983; sul rapporto con la filosofia indiana I. Vecchiotti, La dottrina di Schopenhauer, Ubaldini Editore, Roma 1969. Una monografia che affronta il rapporto con la musica è G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, Milano 1969. Infine, sul rapporto con la filosofia di Kant: F. Bazzani, L’incompiuto maestro: metafisica e morale in Schopenhauer e Kant, Clinamen, Firenze 2003. Un’introduzione generale a Kierkegaard è quella di S. Spera, Introduzione a Kierkegaard, Laterza, Roma-Bari 1996, con quella di G.M. Pizzuti, Invito al pensiero di Kierkegaard, Mursia, Milano 1995. Opere utili sono: R. Cantoni, La coscienza inquieta: Søren Kierkegaard, Mondadori, Milano 1949; C. Fabro, Tra Kierkegaard e Marx, Logos, Roma 1978; V. Melchiorre, Saggi su Kierkegaard, Marietti, Genova 1987; e il volume a più mani curato da L. Amoroso, Maschere kierkegaardiane, Rosenberg & Sellier, Torino 1990. Due filosofi contemporanei che hanno dedicato la loro attenzione a Kierkegaard sono T.W. Adorno, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, Guanda, Parma 1983 e P. Ricoeur, Kierkegaard. La filosofia e l’«Eccezione», Morcelliana, Brescia 1995. I brani antologizzati sono tratti da: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 2006: p. 26 (T1), p. 28 (T2), p. 30 (T3), pp. 125-126 (T4), pp. 172-173 (T6), pp. 227-228 (T8), p. 342 (T7), p. 406 (T10). A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 90-91. S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, da EntenEller, parte 2, tomo 2 (5), trad. a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1989: pp. 32-33, 35 (T11), pp. 148, 195 (T13), p. 182 (T12). S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1993: p. 65 (T14), p. 66 (T15), p. 67 (T16).
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Sommario 1. SCHOPENHAUER
La filosofia di Schopenhauer rappresenta una voce dissonante nella sua epoca. I suoi caratteri principali infatti sono l’irrazionalismo e il pessimismo e questi elementi di ‘inattualità’ sarebbero stati riconosciuti alla fine del secolo da Nietzsche. Un destino simile a quello di Kierkegaard che difende in quegli stessi anni le ragioni dell’esistenza. Entrambi avranno un’influenza rilevante nel XX secolo. [par. 1] Ciò che accomuna Schopenhauer agli idealisti è invece l’aspirazione sistematica. Nella sua formazione pesano tre esperienze fondamentali: l’influenza di Kant, il rapporto con Goethe e l’incontro con la filosofia indiana. [par. 2] L’opera principale di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, inizia dalla teoria della conoscenza. A partire dalla distinzione tra fenomeno e cosa in sé Schopenhauer rielabora il pensiero kantiano riducendo la realtà a rappresentazione; indica nel principio di ragion sufficiente la radice comune delle forme a priori, che riduce a tre, principio di causalità, spazio e tempo, dai quali deriva il principio di individuazione di ogni singolarità; riconduce allo stesso principio i motivi che determinano la volontà. In questa prospettiva il fenomeno diventa sinonimo di apparenza. [par. 3] Se il fenomeno è assimilato al sogno, la cosa in sé è identificata con la volontà, alla cui individuazione Schopenhauer giunge partendo dal corpo. Cogliendo l’unità tra volontà e atti volontari, egli diviene consapevole che le azioni umane sono solo l’oggettivarsi della volontà e per analogia comprende che essa è un’unica essenza, tesa all’autoaffermazione, che opera in ogni aspetto della natura, a partire dall’inorganico, una e intera in ogni individuo. Nella volontà Schopenhauer riconosce poi delle forme di oggettivazione, atti eterni, immutabili e atemporali: le idee che unificano in profondità il mondo della natura. Questa concezione metafisica della natura non toglie però validità alla spiegazione razionale della scienza. L’essenza del mondo è nel suo intimo antifinalistica e irrazionale e questo determina uno stato generale di sofferenza e dolore da cui la vita umana è attraversata incessantemente. [par. 4] Questo stato di infelicità e sofferenza può essere affrontato dall’uomo solo attraverso la cessazione del volere e la liberazione dalle catene del mondo fenomenico per mezzo di vari gradi di ascesi. Il primo di essi è l’esperienza estetica: le varie arti, al cui vertice c’è la musica, contemplano i gradi di oggettivazione che le idee rappresentano. Attraverso la contemplazione disinteressata, l’arte accede a una prima libe-
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razione dal mondo della necessità fenomenica, anche se questa catarsi è solo temporanea. [par. 5] La liberazione conclusiva può realizzarsi solamente attraverso un profondo mutamento etico. Sulla scia di Kant, Schopenhauer distingue tra piano empirico e piano intelligibile: in ambito fenomenico la volontà è determinata da motivi esterni e dal carattere individuale. All’interno del carattere però, oltre alla componente empirica, c’è anche una componente intelligibile riconducibile alla sfera del noumeno. La liberazione etica inizia con l’abbandono dell’impulso di autoaffermazione e con la scoperta della compassione. L’ultimo stadio della liberazione consiste nell’abbandono della volontà di vita che porta alla santità e alla noluntas, ossia alla negazione della volontà, comprensibile solo attraverso l’esperienza mistica e l’illuminazione. [par. 6] 2. KIERKEGAARD
La filosofia di Kierkegaard è caratterizzata dall’attenzione all’esistenza concreta e dal rifiuto delle filosofie razionalistiche e sistematiche, anche attraverso nuove forme e generi di scrittura filosofica, come in EntenEller. Centrali sono anche la polemica verso il cristianesimo istituzionale e gli idealisti, e la nozione di edificazione. [par. 1] Nell’esistenza Kierkegaard distingue tre forme di vita, estetica, etica e religiosa, tappe organizzate gerarchicamente, asimmetriche e discontinue. La vita estetica è caratterizzata da una ricerca incessante e dall’indifferenza: l’esteta è incapace di scegliere e vive in maniera individualistica e frammentata. Quando compare la consapevolezza della scelta, avviene il salto nella vita etica, il passaggio dalla frammentazione all’universalità, che Kierkegaard rappresenta come sintesi dei valori borghesi. [par. 2] Il passaggio successivo è provocato dalla consapevolezza dei limiti dell’etica: per vivere il salto nella fede è necessaria la sospensione teleologica dell’etico, ovvero il superamento dell’universalità e delle sue norme accettando di vivere il paradosso della fede. L’incarnazione di questa scelta è Abramo. La dimensione religiosa non porta però con sé una visione pacificata dell’esistenza, anzi trasforma la verità in un’esperienza soggettiva e individuale (l’incontro con Dio) dominata da una profonda angoscia dettata dalle possibilità che si aprono di essere liberi e quindi responsabili della propria salvezza o perdizione. L’uomo religioso ha davanti a sé le due vie della fede e della disperazione, acuita dalla consapevolezza dell’abisso che lo separa da Dio. [par. 3]
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Parole chiave Angoscia. Nella filosofia di Kierkegaard indica il sentimento universale di paura unita ad ansia di fronte all’incertezza e alle possibilità di scelta, che accompagna l’esistenza umana segnata dal peccato originale e che può essere superato solo attraverso il salto nella fede. Compassione. Per Schopenhauer il sentimento di amore disinteressato (agàpe o «carità») che nasce dall’intuizione immediata dell’unità di tutti gli esseri, come manifestazioni della volontà, e della loro comune sofferenza e che permette di raggiungere la serenità, uno stadio di liberazione superiore a quello estetico. Disperazione. Secondo Kierkegaard uno dei possibili esiti dell’esistenza dominata dall’angoscia: quello alternativo alla fede e caratterizzato dalla perdita di ogni possibilità, che può spingersi fino al suicidio. Edificazione. Termine derivante dal latino aedificare, «costruire»; in Kierkegaard l’impegno per la diffusione e la difesa dei valori cristiani attraverso le parole e l’esempio. Enten-Eller. Termine danese che corrisponde alla disgiunzione latina aut-aut, «o-o» che indica due possibilità reciprocamente alternative, un dilemma: Kierkegaard intitola così la sua opera più famosa. Esistenza. Nel linguaggio di Kierkegaard «ciò che esiste», la nuda e concreta realtà individuale umana, in cui egli distingue tre forme: estetica, etica e religiosa, caratterizzate da una discontinuità radicale e da un valore progressivamente maggiore. Idea. Nel pensiero di Schopenhauer gli atti in cui la volontà si oggettiva, e che rappresentano gli archetipi dei singoli individui, ossia i caratteri generali delle specie, e le forze generali della natura (magnetismo, gravità ecc.): a differenza dei fenomeni, apparenti e mutevoli, le idee (anche se possono apparire solo attraverso le forme soggettive a priori come causalità, spazio e tempo) sono eterne, atemporali e immutabili. Irrazionalismo. Uno dei caratteri prevalenti della filosofia di Schopenhauer derivante dal fatto che l’essere (la cosa in sé), identificato con la volontà, opera senza alcuno scopo; al contrario è razionale il mondo dei fenomeni, dell’apparenza, comprensibile solo attraverso le forme a priori fondate sul principio di ragion sufficiente. Liberazione. In Schopenhauer il processo attraverso il quale l’uomo, grazie a vari gradi di ascesi (catarsi estetica, compassione e santità) raggiunge la cessazione della volontà di autoaffermazione e si libera dal dolore che essa porta con sé.
Noluntas. Lo stadio di completo distacco dal mondo fenomenico che rappresenta il vertice dell’ascesi: una condizione di «nulla privativo» in cui quello che conta è la negazione di un positivo, la volontà. Paradosso. Dal greco parà, «contro» e dòxa «opinione, credenza», indica ogni argomento o conclusione che contrasta o contraddice quelli del senso e dell’esperienza comuni. Per Kierkegaard la fede è un paradosso perché contraddice l’etica comune, l’universale, come è evidente nella vicenda di Abramo, e dà al singolo maggior valore che all’universale. Pessimismo. Termine che nasce in epoca moderna (1795, in una lettera del poeta romantico S.T. Coleridge) in opposizione a «ottimismo», per indicare che il mondo in cui viviamo è il ‘peggiore’ di quelli possibili. In realtà esistono varie gradazioni di pessimismo; Schopenhauer ne sostiene una radicale secondo cui il mondo fenomenico è solo apparenza e la vera essenza del mondo è la volontà, una forza cieca e irrazionale che non solo spinge gli uomini a desiderare e a soffrire senza posa, ma rende irrequieti e insoddisfatti tutti gli enti naturali, trascinandoli in un’inesausta lotta per la sopravvivenza. Possibilità. Nel pensiero di Kierkegaard la condizione originaria in cui si trova l’uomo quando acquista consapevolezza dell’alternativa tra bene e male e della propria capacità di scegliere l’uno o l’altro. È accompagnata anche da un sentimento di angoscia. Rappresentazione. Termine che indica il contenuto conoscitivo di un atto mentale e l’atto stesso. In Schopenhauer ha due significati: 1) l’atto soggettivo e il suo contenuto, costituito attraverso i principi a priori della conoscenza (spazio, tempo e causalità) che coincide con il fenomeno. Come tali le rappresentazioni sono solo apparenza, anche se sono legittimate e danno un’immagine coerente e stabile del mondo (scienza); 2) gli atti in cui si oggettiva la volontà, le idee atemporali, eterne e immutabili. Santità. La condizione etica più elevata secondo Schopenhauer: la liberazione dalla sofferenza, raggiunta attraverso la consapevolezza che l’essenza del mondo è la volontà e attraverso pratiche ascetiche. Scelta. La categoria etica per eccellenza secondo Kierkegaard: capacità di decidere tra il bene e il male, la cui acquisizione segna il salto nella vita etica. Volontà. In Schopenhauer l’essenza del mondo, la cosa in sé unica, eterna, priva di scopi e dotata di un’energia inesauribile e oscura che è all’origine di tutti i fenomeni. 71
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Questionario SCHOPENHAUER 1
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Quali aspetti della filosofia di Schopenhauer sono influenzati dalla filosofia indiana? (max 1 riga) Illustra in un massimo di 3 righe la nozione di rappresentazione di Schopenhauer.
Lavoriamo sui testi 15
Cosa comprende del mondo che lo circonda l’uomo quando coglie la nozione di rappresentazione, secondo Schopenhauer in T1? (max 1 riga)
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Perché possiamo dire che le forme universali sono a priori, secondo Schopenhauer in T2? (max 2 righe)
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Qual è la condizione dell’esistenza del mondo dei fenomeni, secondo Schopenhauer in T4? (max 1 riga)
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Qual è il rapporto tra principio di ragion sufficiente, forme a priori e motivi secondo Schopenhauer? (max 4 righe)
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Quali sono le caratteristiche della volontà come noumeno secondo Schopenhauer? (max 2 righe)
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Che cosa sono le idee e che rapporto hanno da un lato con la volontà e dall’altro con il mondo, secondo Schopenhauer? (max 6 righe)
Per quale sua caratteristica la volontà è una secondo Schopenhauer in T5? (max 2 righe)
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Attraverso quale meccanismo l’arte è in grado di favorire la liberazione dell’uomo secondo Schopenhauer? (max 2 righe)
In qual modo dal bisogno derivano sia il dolore che la noia secondo Schopenhauer in T7? (max 4 righe)
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Qual è la differenza tra carattere empirico e carattere intelligibile secondo Schopenhauer? (max 4 righe)
Quali sono gli effetti della contemplazione estetica sugli individui secondo Schopenhauer in T8? (max 2 righe)
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Quali sono i due coefficienti da cui scaturisce un effetto secondo Schopenhauer in T9? Quali forme assumono nell’uomo? (max 4 righe)
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Quando è che una persona sceglie il giusto secondo Kierkegaard in T11? (max 1 riga)
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In quali modi il lavoro esprime la libertà secondo Kierkegaard in T12? (max 3 righe)
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Che cosa esprime la tesi etica che l’uomo ha una missione, secondo Kierkegaard in T13? (max 1 riga)
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Qual è il paradosso della fede secondo Kierkegaard in T15? (max 2 righe)
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Che ruolo svolge la compassione nell’etica di Schopenhauer? (max 2 righe) Il concetto schopenhaueriano di santità è un concetto religioso? Rispondi in un massimo di 4 righe.
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Quali sono secondo Kierkegaard i caratteri dell’esistenza? (max 3 righe)
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Spiega in un massimo di 6 righe quali sono le tre caratteristiche delle forme dell’esistenza secondo Kierkegaard.
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Che ruolo svolge la scelta nella vita etica? (max 3 righe)
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Quali forme di esistenza simboleggiano rispettivamente Abramo e Agamennone nella filosofia di Kierkegaard? (max 4 righe)
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Perché, secondo Kierkegaard, la verità è soggettiva? (max 2 righe)
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Laboratorio di lettura Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione Si riportano di seguito una parte degli ultimi paragrafi del IV libro del Mondo come volontà e rappresentazione, dedicato all’etica, che costituisce il culmine di tutto il sistema. In essi Schopenhauer non solo offre importanti chiarimenti sulla negazione della volontà di vivere – da lui additata come l’unica possibilità di salvezza – ma riprende e sintetizza efficacemente i temi fondamentali dell’intera opera.
Salvezza e noluntas in Schopenhauer Paragrafo 68 […] Da quanto s’è detto finora apparisce che la negazione della volontà di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla cognizione dell’intimo dissidio a questa inerente, e della sua essenziale vanità, che si manifestaCorollario: no nei dolori d’ogni essere vivente. La differenza, che noi indicammo con per raggiungere la santità l’immagine delle due vie, è questa: se quella cognizione è generata dal doci sono due vie lore semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante il superamento del principium individuationis; oppure dal dolore direttamente, personalmente provato. [A] Vera salvezza, redenzione dalla vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della vo-
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Prima tesi: la santità consiste nell’abbandono del volere
Commento e interpretazione
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A. La concezione pessimistica della vita in generale – e di quella umana in particolare – come espressione della volontà metafisica induce Schopenhauer a indicare come unica possibilità di redenzione la soppressione della stessa volontà di vivere. Il presupposto indispensabile per raggiungere questa condizione, e ottenere così la salvezza, risiede nella conoscenza della sofferenza inestinguibile connessa alla volontà di vita, in quanto tendere cieco e incessante, caratterizzato, nella sua manifestazione fenomenica, da un perenne dissidio interiore. Nella prospettiva schopenhaueriana, una simile conoscenza non può che agire come «quietivo» della volontà: termine con cui Schopenhauer designa l’opposto del «motivo» della volontà, cioè di quelle circostanze che, influendo sul carattere di un uomo, lo spingono in maniera necessaria a volere determinati fini e a intraprendere le azioni per conseguirli. Al contrario, la comprensione della negatività del mondo e del suo principio metafisico funge da «quietivo», in quanto distoglie l’uomo dal volere particolare di determinati scopi e dal volere in generale. Schopenhauer distingue due strade attraverso le quali si può pervenire a questa soppressione della volontà di vivere: 1) la prima è la via dei santi, cioè un percorso di ascesi intellettuale che ha il suo punto di partenza nell’esperienza indiretta della sofferenza cosmica, cioè la compassione, attraverso la quale viene abbracciato in un solo atto il dolore di tutto l’universo: ascesi i cui passaggi successivi sono la progressiva rinuncia a tutte le manifestazioni della volontà, dall’impulso sessuale agli altri impulsi. Si tratta di una strada impervia, che solo pochi sono in grado di percorrere; 2) la seconda strada per la salvezza, che
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Argomento a sostegno della tesi: se non si raggiunge la santità si resta chiusi nel dolore della rappresentazione Esempi a sostegno della tesi: il destino del malvagio che non conosce la verità
lontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo altro che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un’esistenza evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare, è l’intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo irrevocabilmente appartengono. Imperocché noi vedemmo più sopra, che alla volontà di vivere è ognor sicura la vita, e sua unica forma reale è il presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte imperino sul fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito indiano, dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si genera la negazione della volontà, e quindi è effettivamente in balia di tutti gli affanni che nella vita appaiono come possibili: essendo anche la casuale sua presente condizione felice null’altro se non fenomeno mediato dal principium individuationis, ossia un’illusione della Maya, il sogno felice del mendicante. I dolori, ch’egli nella violenza e nella rabbia della sua sete infligge altrui, sono la misura dei dolori da lui personalmente provati, che non pervengono a infrangere la sua volontà e a gui-
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è quella percorsa dal resto dell’umanità, consiste nell’esperienza diretta del dolore: la sofferenza che accompagna i nostri destini personali può essere, infatti, motivo sufficiente per la conversione dal volere al non volere; la vita stessa è una dura maestra che può insegnarci a poco a poco a non volerla. B. Partendo dai presupposti della propria metafisica, Schopenhauer riconduce il divario etico dei caratteri – cioè tra il malvagio e il virtuoso – a differenti tipi di conoscenza. Malvagio è colui che, per soddisfare la propria volontà egoistica invade la sfera di volontà degli altri: questo comportamento e l’odio verso i propri simili derivano per Schopenhauer dall’essere ancora irretiti nel principium individuationis, che spinge erroneamente a considerare gli altri esseri viventi come distinti e separati rispetto alla nostra persona. Nello stesso egoista è presente il sentimento oscuro della propria unità metafisica con gli esseri da lui vessati, che per Schopenhauer è testimoniato dal senso di colpa: l’autore di un’azione malvagia soffre, in quanto il dolore che infligge alle vittime in realtà è anche il suo dolore. Il senso di colpa è solo una delle continue e innumerevoli sofferenze di cui è costellata la vita dell’egoista: essendo trascinato da una volontà di vita particolarmente intensa, il malvagio soffre più delle sue vittime, nella misura in cui la volontà – essendo espressione di un bisogno e di una mancanza – è costantemente accompagnata da un dolore, che può essere cancellato solo di rado e solo in maniera provvisoria, fino all’insorgere di un nuovo desiderio e di un nuovo struggimento. Il malvagio, però, non è in grado di trarre dal proprio dolore l’insegnamento che solo potrebbe salvarlo, cioè la conoscenza della vanità del volere e il conseguente approdo alla soppressione di essa. La giustizia e l’amore disinteressato per gli altri esseri viventi – che Schopenhauer identifica con la virtù, contrapposta all’egoismo – sono invece l’espressione di una conoscenza che abbia squarciato il velo di Maya dei fenomeni, superando il principium individuationis: di qui la compassione – cioè la condivisione del destino degli altri uomini (e non solo) come perfettamente uguale al proprio – che costituisce il primo passo verso la negazione completa della volontà. C. Matthias Claudius (1740-1815), un poeta di discreta fama, amico di Friedrich G. Klopstock (1724-1803) e Johann G. Herder (1744-1803). Scriveva generalmente sotto lo pseudonimo di Asmus, che anche Schopenhauer spesso adopera per riferirsi a lui. D. Per Schopenhauer l’agire umano nel mondo fenomenico è sottoposto, come tutti gli altri fenomeni, al principio di ragion sufficiente: precisamente, la volontà umana è determinata in maniera necessaria dalla reazione del carattere individuale ai motivi, che differiscono dalla causalità ordinaria soltanto in quanto passano attraverso la conoscenza. Sulla base di questi presupposti, Schopenhauer rifiuta la concezione della libertà come ar-
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darlo verso la finale negazione. Ogni vero e puro amore, invece, ed anche ogni libero senso di giustizia, provengono già dal superamento del principium individuationis; il qual superamento, quando avvenga con pieno vigore, ha per effetto la completa santità e la redenzione. Il processo di questa è lo stato di rassegnazione sopra descritto, l’incrollabile amore, che tale rassegnazione accompagna, e la suprema letizia nella morte. [B]
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Paragrafo 69 Seconda tesi: il suicidio non è una via di redenzione Primo argomento a sostegno della tesi: il suicida è guidato dalla volontà di vivere
Da questa negazione della volontà di vivere, oramai sufficientemente esposta nei limiti del nostro studio, negazione, che è l’unico atto di libertà possibile al fenomeno, e costituisce quindi, come Asmus la chiama, [C] la metamorfosi trascendentale, [D] nulla si discosta tanto come l’effettiva soppressione del proprio singolo fenomeno: il suicidio. Lungi dall’essere la negazione della volontà, esso è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa. [E] Imperocché la negazione ha la sua essenza nell’aborrire non già i mali, bensì i beni della vita. Il suicida vuole la vita, ed è solo mal-
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bitrio – cioè come scelta immotivata tra due opzioni – intendendo la libertà solo in senso negativo, cioè come assenza di necessità, o indipendenza dalla legge del principio di ragion sufficiente, che regge le relazioni tra i fenomeni. In questo senso, la libertà compete solo alla volontà come cosa in sé, ma non alle sue manifestazioni fenomeniche. L’unica eccezione – cioè l’unica possibile estrinsecazione della libertà nella sfera fenomenica – è costituita dalla soppressione della volontà di vivere che può essere compiuta dalla più alta delle oggettivazioni di quest’ultima, cioè l’uomo: rinnegando tutti gli impulsi attraverso i quali la volontà di vita si estrinseca, l’uomo può, infatti, strappare tutti i legami che lo vincolano alla catena causale del mondo fenomenico. Per definire questa manifestazione fenomenica della libertà, Schopenhauer utilizza l’espressione «metamorfosi trascendentale», ripresa dal poeta Matthias Claudius: chiara è in ogni caso l’allusione alla definizione kantiana della «libertà trascendentale» come indipendenza da motivi empirici o soggettivi. Con l’espressione «metamorfosi trascendentale» Schopenhauer vuole, infatti, indicare la totale trasformazione interiore conseguente al passaggio dalla conoscenza fenomenica – sottoposta al principio di ragion sufficiente – alla conoscenza della volontà come radice noumenica unitaria di tutti gli esseri viventi: trasformazione che dà inizio a una serie di azioni completamente nuova. Questa completa palingenesi è l’unico mutamento del carattere ammesso da Schopenhauer. In generale, infatti, nella prospettiva schopenhaueriana il carattere non può cambiare in maniera solo parziale, nella misura in cui esso non è altro che il fenomeno della volontà; l’unica modificazione del carattere possibile è la completa soppressione di esso, che si verifica nel momento in cui l’uomo perviene alla noluntas, grazie alla conoscenza intuitiva della negatività del mondo e del suo principio metafisico. E. L’intero paragrafo è dedicato a fugare la possibile identificazione della noluntas con il suicidio, che per Schopenhauer costituisce un radicale fraintendimento. Ben lungi dall’esprimere il rinnegamento della volontà di vita, il suicidio rappresenta piuttosto un atto del tutto conforme a quest’ultima, o meglio una delle sue più energiche affermazioni, come Schopenhauer dimostra sulla base di diversi argomenti. In primo luogo, cancellare in se stessi la volontà metafisica significa non volere più non solo i mali ma anche i beni; il suicida decide, invece, di togliersi la vita soltanto perché non è riuscito ad appagare desideri – cioè le estrinsecazioni della volontà – che in lui sono e restano così intensi da indurlo a questo gesto disperato: il suicida decide di porre fine alla propria esistenza, proprio in quanto non riesce a porre fine al proprio volere e alle continue frustrazioni che questo gli procura. Allo stesso modo dell’uomo cattivo, soffre, ma non riesce a trarre dalle sue sofferenze l’insegnamento che potrebbe redimerlo, cioè la comprensione della vanità della volontà e l’approdo alla noluntas. 75
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Secondo argomento: il suicidio elimina solo l’individuo non la volontà
Terzo argomento: il suicidio è un effetto della volontà come lotta permanente delle forze naturali
Riaffermazione della seconda tesi: il suicidio non è liberazione dalla volontà di vivere
Conclusione: il suicidio come male di vivere
contento delle condizioni che gli sono toccate. Egli non rigetta perciò in nulla la volontà di vivere, ma soltanto la vita, distruggendone il singolo fenomeno. Vuole la vita, vuole la libera esistenza ed affermazione del corpo, ma ciò non gli è consentito dall’intreccio delle circostanze, e gliene viene un grande dolore. La volontà di vivere viene a trovarsi in questo singolo fenomeno tanto compromessa, da non potere più svolgere la propria tendenza. Allora essa prende una risoluzione conforme alla propria essenza in sé; la quale sta fuor delle forme del principio di ragione, e tiene quindi per indifferente ogni isolato fenomeno, essendo ella medesima intangibile da nascita e da morte, e costituendo l’intimo della vita di tutte le cose. […] Come l’oggetto singolo sta all’idea, così sta il suicidio alla negazione della volontà: il suicida nega soltanto l’individuo, non la specie. Già vedemmo che, essendo alla volontà di vivere sicura sempre la vita, ed essenziale alla vita il dolore, il suicidio o arbitraria distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta: ché sopprimendo il fenomeno rimane intatta la cosa in sé, come sussiste l’arcobaleno, per veloci che si succedano le gocce le quali nell’attimo lo sostengono. [F] Quell’azione è inoltre il capolavoro della Maya, essendo la più clamorosa espressione del contrasto della volontà di vivere con se stessa. Come già osservammo tale contrasto nei fenomeni più bassi della volontà, nella lotta permanente combattuta da tutte le manifestazioni delle forze naturali e da tutti gli individui organici per la materia, per il tempo e per lo spazio; e come quel contrasto vedemmo sempre più visibile apparire, con tremenda evidenza, nei gradi dell’oggettivazione della volontà man mano più alti; così finalmente raggiunge nel grado supremo, che è l’idea dell’uomo, questo vertice, in cui non soltanto gli individui rappresentanti della stessa idea si distruggono l’un l’altro, ma addirittura l’individuo dichiara guerra a se medesimo. [G] E allora quella stessa vivacità con cui l’individuo vuole la vita e fa impeto contro l’oppressore di essa, il dolore, lo riduce a distruggere se medesimo: sì che la volontà individuale sopprime con un atto volontario il corpo, il quale è appunto la propria manifestazione visibile, prima che il dolore infranga la volontà. Appunto perché il suicida non può cessare di volere, cessa di vivere; e la volontà s’afferma qui proprio con la soppressione del proprio fenomeno, non potendosi più altrimenti affermare. Ma poiché precisamente il dolore a cui il suicida in tal modo si sottrae era quello che avrebbe potuto, qual mortificazione della volontà, condurlo alla negazione di se stesso ed alla redenzione, somiglia sotto questo riguardo il suicida ad un malato, il
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F. In secondo luogo, la risoluzione di togliersi la vita – qualora le circostanze impediscano la soddisfazione dei propri impulsi – è perfettamente conforme alla volontà metafisica che, essendo superiore al principium individuationis, è del tutto indifferente rispetto alle sorti di un singolo e isolato fenomeno, la cui esistenza le è piuttosto di intralcio nel momento in cui non soddisfa in nessun modo la propria auto-affermazione. In ciò sta la principale differenza tra il suicidio e la noluntas: il primo, in quanto gesto compiuto da chi è ancora irretito nella conoscenza fenomenica, toglie solo l’esistenza del singolo, lasciando intatta la volontà di vita a livello della specie; al contrario, la noluntas – che ha alla sua radice il superamento del principio d’individuazione – elimina la volontà di vita nella sua interezza e unità. G. Infine, il suicidio rappresenta per Schopenhauer l’espressione più emblematica dell’inti-
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quale non lasci condurre a termine una dolorosa operazione che lo guarirebbe, e preferisce tenersi la malattia. […]
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Paragrafo 71 Obiezione alla prima tesi: la santità equivale al nulla
Risposta. Primo argomento: il nulla è un concetto relativo
Il nulla non ha una realtà autonoma
Esempio a sostegno del primo argomento: lo statuto ontologico del principio di non contraddizione
Dando qui termine ai fondamenti dell’etica, e con essi all’intero sviluppo di quell’unico pensiero, ch’io mi proponevo di comunicare, [H] non voglio punto tener celato un rimprovero che tocca quest’ultima parte della trattazione; intendo anzi mostrare, ch’esso è inerente alla sostanza della cosa, e sarebbe del tutto impossibile rimuoverlo. Eccolo: giunta la nostra indagine al punto da farci vedere nella perfetta santità la negazione e l’abbandono d’ogni volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza intera ci si presentò come dolore, tale condizione ci appare come un passare al vuoto nulla. A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad alcunché di determinato, ch’esso nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato col segno – in opposizione al segno +; il qual segno –, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare + ; e in contrasto con quel nihil privativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio del quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure immaginare: ogni nihil negativum, guardato più dall’alto o sussunto ad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum. Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche cosa, e presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un pensiero della ragione: ma non perciò è un nulla assoluto. Imperocché essa è un’accozzaglia di parole, è un esempio del non pensabile, di cui nella logica si ha bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi, allorché si ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada all’insensato, che è la cosa positiva di cui si va in cerca, trascurando il sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil negativum, o nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto più alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla relativo, che può sempre scambiare il suo segno con ciò ch’esso nega, sì che questo diventi a sua volta negazione, ed esso viceversa diventi posizione. [I] […] Ciò ch’è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo l’en-
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mo dissidio della volontà con se stessa, che contraddistingue la manifestazione fenomenica di quest’ultima: nel fenomeno la volontà è in lotta con se stessa, in quanto ogni sua oggettivazione contende spazio e materia alle altre; ciò avviene sia tra specie differenti sia tra gli individui della stessa specie, e il suicidio costituisce il caso limite, in cui un medesimo individuo è in lotta con se stesso. H. Schopenhauer intende il proprio sistema come l’esposizione organica di un unico pensiero, cioè il tentativo di rispondere alla domanda metafisica sul perché ogni vivere sia per essenza un soffrire. I. Per replicare all’obiezione secondo la quale la liberazione dalla volontà di vita non è altro che uno scivolare nel nulla, Schopenhauer prende le mosse dalla distinzione tra il nihil privativum e il nihil negativum: il primo è il nulla risultante dalla negazione di qual-
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Secondo argomento: quello che chiamiamo nulla è il mondo della rappresentazione non la volontà
Terzo argomento: se non arriviamo alla liberazione non riconosciamo il vero nulla
Quarto argomento: in realtà la noluntas è una forma di estasi religiosa, un positivo definibile solo negativamente
te, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo significato più universale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev’esser posta in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del mondo, ch’è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in codesto specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e lamentiamo allora ch’ella non abbia più né dove né quando, e sia svanita nel nulla. Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi, scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è l’ente, e quel nulla come l’ente. Ma, finché noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può esser conosciuto da noi solo negativamente, perché l’antico principio d’Empedocle, potere il simile esser conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza; come viceversa poggia su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione, o l’oggettità della volontà. Imperocché il mondo è l’autocognizione della volontà. [L] Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto, e inoltre è accessibile solo all’esperienza diretta, né può essere comunicato altrui. Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui contentarci della conoscenza negativa, paghi d’aver raggiunto il limite estremo della
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cosa, che può essere indicato con il segno ‘meno’ e può essere rovesciato nel segno opposto – cioè in un positivo – con il capovolgimento del punto di vista; il secondo è invece il nulla sotto tutti i rapporti (nulla negativo), come per esempio la contraddizione logica, che sopprime se stessa. A un esame attento del problema, però, secondo Schopenhauer emerge come il nulla negativo non sia affatto pensabile: tutti gli esempi che si possono addurre, compresa la contraddizione logica, non appena siano considerati da un punto di vista più elevato si rivelano come un nulla privativo e relativo. L. Per positivo si intende comunemente ciò che per Schopenhauer non è altro che il «mondo come rappresentazione», cioè un insieme di contenuti rappresentativi, condizionati dalle strutture a priori della coscienza: tempo, spazio e causalità, che sono le diverse forme in cui si manifesta il principio di ragion sufficiente. La soppressione della volontà di vita è anche soppressione del mondo, che non è altro che manifestazione fenomenica della volontà: essa conduce dunque effettivamente a un nulla, che è però solo un nulla relativo o privativo, e non un nulla negativo o assoluto. Così stanno necessariamente le cose, fino a quando restiamo soggetti alla volontà di vita. M. Per Schopenhauer un’idea positiva della condizione che si consegue con la soppressione della volontà può essere ottenuta solo attraverso il richiamo a esperienze come quella dell’estasi mistica o dell’illuminazione: esperienze che eccedono la conoscenza – in quanto
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Unità 2 Due critici dell’idealismo: Schopenhauer e Kierkegaard Quinto argomento: attraverso la negazione abbiamo raggiunto la liberazione suprema
Sesto argomento: se continuiamo a opporci al nulla siamo ancora schiavi della volontà di vivere Settimo argomento: invece i santi che hanno raggiunto l’annullamento della volontà sono in quiete
positiva. Avendo riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo null’altro che l’oggettità di lei; avendo quest’oggettità perseguito dall’inconsapevole impulso delle oscure forze naturali fino alle più lucide azioni umane, non vogliamo punto sfuggire alla conseguenza: che con la libera negazione, con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere senza mèta e senza posa, per tutti i gradi dell’oggettità, nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch’essa nient’altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere il nostro mondo. L’aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un’altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, sé medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente l’ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell’incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond’è formato il sogno di vita d’ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta quiete dell’animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. [M] La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. [N] E noi guardiamo con profonda e doloro-
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vanno al di là della distinzione tra soggetto e oggetto – e, in quanto tali, possono solo essere vissute in prima persona, ma sono incomunicabili. In quanto riflessione razionale, la filosofia può, invece, esprimere solo negativamente, cioè con il termine noluntas, il punto di arrivo del processo di ascesi, riconoscendo che la soppressione della volontà di vita implica anche il venir meno di tutte le sue oggettivazioni, dalle idee ai fenomeni, fino alla scomparsa delle stesse forme del mondo fenomenico: il tempo, lo spazio, e la distinzione tra soggetto e oggetto. Di conseguenza, la filosofia ammette che la soppressione della volontà conduce al nulla. Questa ammissione è, però, accompagnata dalla consapevolezza che si tratta di un nulla relativo, il quale appare tale solo a chi è ancora prigioniero della volontà di vita: per coloro nei quali la volontà ha negato se stessa, il nulla è questo mondo con i suoi soli e con le sue vie lattee, mentre la noluntas è una condizione di pienezza e affermazione. N. Questo passaggio è di grande importanza, in quanto esprime in maniera paradigmatica la vicinanza della concezione schopenhaueriana allo gnosticismo, secondo il quale il mondo si origina da un’inesplicabile caduta e la redenzione è essenzialmente opera della conoscenza: come è appunto per Schopenhauer, il quale pone alla radice della noluntas il superamento del principium individuationis e il conseguente passaggio dalla conoscenza fenomenica alla conoscenza noumenica della volontà come principio metafisico.
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sa nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto esser insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall’altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d’incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell’interna verità, dall’arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell’impressione, invece d’ammantare il nulla, come fanno gl’Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l’assorbimento in BrahLa verità metafisica ma o il Nirvana dei Buddhistj. [O] Noi vogliamo piuttosto liberamente disvelata chiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla.
Conclusione della risposta e terza tesi: se accettiamo la noluntas anche noi troviamo l’estasi e la fine del dolore Corollario alla terza tesi: attraverso la noluntas cogliamo la verità sull’essenza del mondo
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(da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 427-430 e pp. 439-444)
O. Questi passaggi esprimono in modo chiaro la distanza tra Schopenhauer e la civiltà orientale, il cui peso è stato sopravvalutato da molti studiosi della filosofia schopenhaueriana. Ben lungi dall’identificare la noluntas con il Nirvana, Schopenhauer si richiama a quest’ultimo solo in modo negativo, per stigmatizzare la propensione del pensiero orientale a rivestire di mitologia quella metafisica che egli riteneva di essere riuscito a esporre con chiarezza concettuale, sia pure in termini solo negativi.
Questionario sull’argomentazione 1
Qual è il vero movente delle azioni del malvagio? (max 1 riga)
2
Per quali motivi il suicidio non è una forma di liberazione dal male di vivere? (max 4 righe)
3
Completa la seguente analogia: il suicidio sta alla volontà come _____________________________ ________________________________________ Spiegala in un massimo di 3 righe. 80
4
Qual è la differenza tra «nulla negativo» e «nulla privativo»? A quale dei due tipi appartiene la contraddizione? (max 4 righe)
5
Quali persone rappresentano il modello della pace e della quiete, ossia della liberazione dal dolore? (max 2 righe)
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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana BELLO / BRUTTO 1. «Bello» e «brutto» nel linguaggio comune «Bella giornata, vero?». Non c’è forse espressione che ricorra più spesso. Ma cosa vogliamo dire quando pensiamo che la giornata sia «bella»? La risposta non è difficile – ci riferiamo al fatto che c’è il sole, il cielo è sereno, non c’è (troppo) vento ecc. –, ma lo diventa se vogliamo chiederci, più in generale, che cosa intendiamo dire in tutti i casi in cui diciamo «bello» (o usiamo il suo apparente contrario, «brutto»). Una delle canzoni più famose dice «che bella cosa è una giornata di sole». Che cosa è una «bella cosa»? Usando l’aggettivo «bello» vogliamo dire una sola cosa, o più d’una? Proviamo a raccogliere degli esempi. Una o più famiglie? «Quella di ieri è stata una bella partita.» «Diana è una bella ragazza.» «C’è voluto un bello sforzo per riuscire a capire tutto.» «La Notte stellata di Van Gogh è un quadro davvero bello.» «Perdonare uno sgarbo è un bel gesto.» «Questo è il bello della diretta.» «È stata proprio una bella esperienza.» «Bisogna conservare le foto più belle.» «Se riesci a lavorare senza stress è una bella cosa.» E viceversa: «Quel palazzo è proprio brutto.» «È stata una brutta storia.» «Il brutto in queste situazioni è che si ripercuotono sugli altri.» «Il brutto anatroccolo diventò un cigno.» «Si è dato un brutto esempio.» Si potrebbe continuare a lungo. Forse si nota subito una certa disparità di significati in questi diversi esempi. Possiamo chiederci allora se c’è un – minimo – comune denominatore in quello che in tutti i casi diciamo. Oppure c’è almeno un’aria di famiglia, una sia pur vaga rassomiglianza, tra tutte le accezioni di «bello» e «brutto» che usiamo? O invece si tratta di famiglie distinte di significati?
Il significato di «bello» nel parlare comune
2. «Bello», «piacevole» e «buono» Bello come piacevole Si può notare che, se ci riferiamo al sostantivo astratto («bellezza») invece che all’aggettivo e ai suoi usi, i significati si orientano maggiormente in una direzione. Se parliamo di «bellezza» il pensiero va più rapidamente all’aspetto fisico o «estetico» («riferito ai sensi», dal greco àisthesis, «sensazione») di qualcosa o qualcuno. Si parla, è vero, anche di «bellezza di un gesto», ma l’«istituto di bellezza» è dove si cura l’aspetto esteriore di un corpo, e lo stesso vale per i «prodotti di bellezza». Quando parliamo di «bellezza» e di «bello» in questo senso, ci riferiamo a qualcosa di visibile o comunque a qualcosa che si avverte con i sensi, al quale associamo sensazioni positive, di piacere o di gradevolezza. Questo può valere per le persone come per gli oggetti: è bella la ragazza, è bella l’automobile ecc. Bello Diverso è il senso implicito in espressioni come «un bel gesto», «una bella espesenza piacevolezza rienza», «è una bella cosa». Qui l’aspetto sensibile o visibile non prevale, anzi può essere del tutto indifferente, e neanche la piacevolezza è centrale, almeno se è intesa nel senso di qualcosa che riesce gradito ai sensi. Un «bel gesto» – aiutare qualcuno in difficoltà – certamente fa piacere, ma non è il piacere che ci porta a giudicarlo bello. Né una «bella esperienza» è stata tale necessariamente per i suoi 81
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Che cosa piace in ciò che è piacevole?
L’automobile bella
La bella automobile
Bello è ciò che realizza un modello
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aspetti piacevoli (ma perché ho imparato molto, per esempio, ho scoperto cose nuove, ho capito qualcosa). Se un’amicizia si conserva nel tempo è «una bella cosa», ma non certo solo per gli aspetti piacevoli che un rapporto di questo tipo può avere; questi aspetti, inoltre, sono piacevoli in un senso diverso da quello in cui lo è la vista di un bell’uomo o di uno splendido paesaggio. Così, una «brutta storia» è tale anche se chi vi è coinvolto è avvenente, e anche se si svolge in luoghi affascinanti. Una gomitata è un «brutto gesto» anche quando a darla è un giocatore apprezzato dalle ragazze. Insomma, se in qualche senso quello che chiamiamo in questi casi «bello» fa piacere, non è la piacevolezza il tratto dominante. Legare alcuni significati di «bello» e «brutto» al piacevole o allo sgradevole aiuta a fare alcune prime distinzioni, ma non porta molto avanti l’analisi di questi termini. Se il bello in un certo significato è piacevole, che cosa è piacevole nel bello? Proviamo a confrontare bello e brutto: una donna bella ha un viso regolare, non è troppo grassa né troppo magra, non ha deformità, ha denti ben allineati – una meno bella può avere lineamenti irregolari, un peso forma discutibile, denti storti; e lo stesso vale per un uomo. La bellezza-piacevolezza sembra allora legata al rispetto di certe misure e di certe norme, come simmetria, regolarità, armonia (che si possono legare poi a nozioni come salute o funzionalità di un corpo: un corpo giovane, sano e «atletico» è più bello). Questi caratteri sembrano essere per lo meno (o soltanto?) delle precondizioni per il bello. Forse non bastano: se la descrizione fatta prima sembrava più da allevatore di cavalli che adatta alla bellezza di una persona, è perché in una persona è spesso proprio un «non so che» – qualcosa che eccede le qualità fisiche «normali», che va al di là di esse – a costituire per noi ciò che affascina: quegli occhi di colore straordinario, quel naso particolare, o, appunto, un qualcosa che non sappiamo dire, e che nell’elencazione di «regolarità» non troviamo. Nell’automobile forse conta meno il «non so che» imponderabile, tuttavia è difficile dire perché quell’automobile ci piace. Il design può esser funzionale alla velocità, alla spaziosità, il colore può essere gradevole, le forme possono suggerire sensazioni positive come la velocità, l’armonia, la sicurezza. Un certo numero di caratteri devono tradursi in (possiamo dire: simbolizzare?) proprietà che avvertiamo come positive e gradevoli, ma creare un effetto «bello» riesce soltanto in una particolare combinazione di caratteri, nell’unione di più elementi. È una particolare unità nella molteplicità che fa apparire davvero bella quella macchina, ed è per questo che disegnarne una che piaccia non è facile. Se parliamo però, come è possibile in italiano, non tanto di un’«automobile bella», bensì di una «bella automobile», stiamo già dicendo qualcosa di diverso. Una bella automobile è un’automobile progettata e costruita bene, curata nei particolari, con buone qualità tecniche, comoda, spaziosa, affidabile… Una bella automobile è così come dovrebbe essere un’automobile, un’automobilemodello, un’automobile che ha tutto ciò che fa di essa una vera automobile. Qui siamo nelle vicinanze di quello che abbiamo indicato provvisoriamente come bello senza piacevolezza – il bel gesto, la bella esperienza ecc. In questi casi, «bello» sembra significare non qualcosa che colpisce gradevolmente, ma qualcosa che è come dovrebbe essere, che risponde pienamente alla propria finalità: un «bel gesto» è un gesto come se ne dovrebbero compiere, un gesto «esemplare» (che esemplifica cioè un modello ideale); una «bella esperienza» è un’esperienza che è stata come dovrebbero essere le esperienze autentiche, che svolgono la propria funzione: arricchiscono, istruiscono, allargano la mente
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Laboratorio sul lessico Bello / brutto
ecc. Se è una «bella cosa» conservare un’amicizia, lo è perché ciò ci sembra corrispondere a qualcosa che rende la vita piena, migliore, che ne realizza delle finalità, delle possibilità. «Bello», lo si sarà notato, è qui molto affine a «buono».
Tra i vari significati di «bello» c’è affinità o implicazione?
Legame tra funzionalità e piacevolezza
Un passo indietro
Estetica e linguaggio comune
3. Unità originaria di «bello» e «buono» Se è opportuno distinguere i vari significati di una stessa parola, è anche ragionevole chiedersi perché mai usiamo una stessa parola per significati diversi. Il linguaggio è – talvolta – ingannevole, ma non è mai del tutto arbitrario. Potrebbe esserci un elemento comune, oppure qualche affinità, oppure un rapporto di implicazione tra i diversi significati che abbiamo delineato? Un rapporto sembra esserci. Scavando dentro ciò che rende il bello piacevole, in relazione a uomini o a donne, si trovavano proprietà come la regolarità, la simmetria ecc., e in generale un certo ordine, caratteri che sono legati anche al senso in cui «bello» significa «funzionale» o «rispondente a un fine». Un corpo umano bello è anche un corpo che è come dovrebbe essere: sano, agile, in grado di svolgere tutte le sue funzioni. La regolarità e la simmetria, se non sono necessariamente implicate in ogni funzionalità, sembrano esserlo in un buon numero di funzioni: non è un caso che il nostro corpo sia simmetrico e lo siano la maggior parte dei corpi degli animali, e lo siano anche le automobili, i libri, i telefonini. Dalla funzionalità deriva un certo ordine, e l’ordine sembra piacerci anche quando non sappiamo perché c’è. Così in un edificio – per esempio, in una chiesa – ammiriamo l’ordine e la simmetria, anche se non ne cogliamo la funzione, che forse manca (oppure è una funzione solo estetica o simbolica, dunque non una vera funzione). Molti oggetti li decoriamo con motivi regolari. Se non c’è (più) la funzione, c’è la sua manifestazione, c’è qualcosa che allude a un senso. In genere, il collegamento, qualunque esso sia, tra le dimensioni che sembrano implicite nel bello e che entrano nei nostri usi del termine (la dimensione della piacevolezza e quella della funzionalità) è anche ciò che ne ha sempre messo in risalto l’importanza: se il bello coinvolge il buono, il nostro rapporto con le cose e con il mondo, il nesso che c’è tra le cose e il loro senso, in esso c’è un mistero che è bene indagare e un valore che è bene custodire. C’è qualcosa nel bello che riusciamo a sentire e che però sembra portarci oltre il sensibile. Non approfondiamo qui la storia della parola «bello» (in italiano deriva da bellus, un diminutivo di bonus, «buono») o la sua storia nella filosofia, ma un piccolo passo indietro può essere interessante. L’intreccio o comunque la compresenza di significati che abbiamo ritrovato nell’odierno uso comune – e che riguarda molte altre lingue oltre l’italiano – era stato nell’uso e nella teoria una convivenza molto più armonica di quanto non sia oggi. I greci conoscevano una endiadi (la congiunzione di due parole), kalokagathòs, che indicava un uomo al contempo e inestricabilmente kalòs (bello) e agathòs (buono). Non si esprimeva la connessione di due proprietà, ma piuttosto la percezione della loro originaria unità. Quando abbiamo osservato che una «bella macchina» è una macchina buona, una vera macchina, risuonava in questo la pallida eco dell’idea medievale che pulchrum (bello), bonum (bene) e verum (vero) si convertono l’uno nell’altro, sono cioè tre modi di considerare la stessa cosa da diversi punti di vista. Basti questo a indicare che la separazione-distinzione di questi aspetti raggiunta nella disciplina filosofica specifica che si occupa del bello (l’«estetica», nata nel Settecento, rispetto alla quale è ben più antica la riflessione filosofica sul bello), se da un lato ha prodotto una maggiore precisione concettuale, dall’altro non 83
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
l’ha avuta vinta, forse con qualche ragione, sull’uso del linguaggio comune. In realtà, anche nell’estetica moderna il problema di ricollegare questi aspetti, che essa in qualche modo prima separa, è spesso presente. 4. Il bello nell’arte Tutto quanto finora accennato si complica non poco quando ci riferiamo non tanto a persone o a cose belle, quanto a quegli oggetti prodotti esclusivamente per esser belli, ossia ai prodotti di ciò che chiamiamo «arte». Un tempo, quando questa dimensione non si era ancora resa, o pretesa, così autonoma, essa veniva chiamata «arte bella» per distinguerla dall’arte intesa in un senso più generale, riferito a ogni produzione tecnica; distinte dalle arti belle (quali la pittura e la poesia) erano, per esempio, l’arte culinaria o l’arte della navigazione. Oggi i due campi – arte e tecnica – si ricongiungono nella dimensione del design – la progettazione di oggetti finalizzata alla produzione in serie –, dopo essere stati esperiti come separati. La complicazione più evidente che introduce l’arte è quella di essere, spesso, «rappresentazione», ossia non soltanto o non tanto produzione di oggetti belli, quanto anzitutto riproduzione, rappresentazione appunto di cose belle. Se si è pensato all’arte come «imitazione della natura» è anche perché l’arte cercava di riprodurre ciò che nella natura suscita sensazioni di bellezza: corpi, paesaggi ecc. Ma, ammesso che la produzione di oggetti belli potesse essere riproduzione del bello che c’era nel mondo, il fatto di rappresentarlo offriva subito una ulteriore possibilità: quella di rappresentare, in modo bello, qualcosa che bello non è. Bella può esser la rappresentazione, anche quando non lo è il suo oggetto: per questo spiraglio può introdursi un elemento di grande complessità. Il piacere del brutto In realtà i filosofi avevano notato presto che non è soltanto ciò che – nei suoi molteplici significati – si può chiamare bello a produrre quel piacere che al bello usiamo associare. Proviamo un particolare, complicato, ambiguo piacere nel vedere scene drammatiche, nella realtà – se non ci coinvolgono troppo da vicino – e tanto più nella rappresentazione, dove ovviamente, essendo semplici rappresentazioni o finzioni, non ci coinvolgono direttamente e realmente (anche se si può trattare, naturalmente, di cose reali e ‘coinvolgenti’). Qual è la ragione del piacere che proviamo per oggetti ‘tragici’ (quella che ci fa dire di un film drammatico, o di un horror, che era molto «bello»)? Questa particolare esperienza estetica, insieme alla sempre maggiore importanza data all’aspetto della rappresentazione e al suo controllo da parte del soggetto (la «creatività») e a molti altri motivi storico-culturali, ha fatto sì che la produzione artistica e la riflessione su di essa smettessero di richiamarsi in prevalenza al bello e a quei caratteri di esso più facilmente identificabili (anche se difficili da comprendere fino in fondo): simmetria, armonia, regolarità, forma, gradevolezza, luminosità. Il fascino di ciò che è deforme, disarmonico, indefinito, terribile, fonte di turbamento, oscuro, sgradevole si è fatto strada insieme agli aspetti inquietanti, perturbanti del bello e in connessione con la percezione crescente di un rapporto difficile tra noi e il mondo. Il mondo non è più sentito come «cosmo» (una parola – che deriva dal greco kòsmos, «ordine», ma anche «ornamento» – legata originariamente alla «cosmetica», l’arte decorativa); è invece sentito come una dimensione in cui il caos e il disordine hanno un loro spazio, e forse un loro senso. Cosa c’è oltre il bello Così nell’arte il bello non è più da tempo un concetto-guida o un ideale: abbiamo musica senza armonia, pittura che non riproduce oggetti belli o pittura senza alcun oggetto, arte «informale» ecc. Anche nel gusto quotidiano – una vita quoLa rappresentazione bella
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Laboratorio sul lessico Bello / brutto
tidiana che però è sempre più «estetizzata», ossia caricata di stimoli estetici e simboli – c’è chi privilegia la disarmonia: piercing, abbigliamento ‘disordinato’ (jeans strappati ecc.), amore per ciò che si presenta minaccioso (un certo tipo di tatuaggi), aggressivo od oscuro (il gusto dark). Se tutto questo ci ricorda che il bello è soggetto a trasformazioni – si dice spesso che una donna bella per il gusto d’oggi non lo sarebbe stata ieri, e viceversa –, non ci libera però dal problema di capire che cos’è che piace in ciò che apprezziamo, quando sappiamo che non lo apprezziamo per una sua utilità o per un suo «valore» pratico o morale. A questo è legato anche il fatto che, variabile e indimostrabile come sembra essere, il bello o ciò che lo sostituisce è qualcosa di cui vogliamo parlare e su cui vogliamo intenderci, qualcosa che tendenzialmente condividiamo. Resterebbe da capire che cosa ‘ci dice’ il bello, anche quando è il brutto che sembra parlare con una voce più forte.
Esercitiamoci sul bello / brutto 1. Rifletti e completa BELLO / BRUTTO Molteplicità di significati
Linguaggio comune
Arte
È percepibile mediante i sensi
Non è percepibile mediante i sensi
Passato
Presente
Piacevole / sgradevole
Non necessariamente piacevole / sgradevole
Distinzione tra «arte» bella e tecnica
Unione di arte e tecnica
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Rispetta / non rispetta certe norme
È / non è come dovrebbe essere
È caratterizzato da / manca di ordine
Rappresentazione di ciò che nella natura suscita piacere
La rappresentazione di una cosa brutta può essere piacevole
È / non è funzionale
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Esempio: _____________________ _____________________ _____________________
Il bello è un ideale
Il bello non è un ideale
La funzionalità implica ordine e l’ordine è piacevole
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
2. Spunti per il dibattito: io e… il bello / brutto 1
Dopo aver letto il testo e completato lo schema rispondi alle seguenti domande: – C’è un elemento comune alle diverse accezioni in cui si può usare l’aggettivo «bello»? – Pensi che sia sempre possibile definire con precisione le caratteristiche che rendono bella o brutta una persona o una cosa? – Secondo la tua concezione della bellezza, l’essere piacevole è una componente necessaria dell’essere bello?
2
Immagina due coppie di amici di vecchia data. La prima ha un rapporto di amicizia che in passato ha conosciuto momenti di tensione e di aperto conflitto, ma li ha sempre superati e ciò ha contribuito a rafforzare il legame tra le due persone; la seconda ha un rapporto molto più disteso e nel corso degli anni non ci sono mai state discussioni, né contrasti. – Pensi che in entrambi i casi si possa dire che le due persone hanno un bel rapporto di amicizia? – Secondo te il fatto che la prima coppia abbia vissuto momenti spiacevoli rende questo rapporto meno bello dell’altro? – Se ritieni di sì, come giustificheresti questa opinione?
3
Immagina due persone, A e B, che hanno molte qualità in comune: sono entrambe generose, gentili e disponibili nei confronti di chi si rivolge a loro quando si trova in difficoltà. Ma A ha un viso dai lineamenti regolari e un corpo snello; B ha lineamenti molto irregolari, è strabica e decisamente sottopeso.
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– Pensi che si possa dire sia di A, sia di B che è una bella persona? – Ritieni che ci sia una contraddizione nell’affermare che B è una bella persona, ma non è una persona bella? – Supponiamo che B si sottoponga a un intervento che corregge il suo strabismo e segua una dieta grazie alla quale recupera il peso forma. Pensi che l’irregolarità dei lineamenti del suo viso giustifichi l’affermazione che B è più brutta di A? 4
Immagina che ci siano due società, A e B. Nella società A vengono giudicate belle le opere pittoriche che rappresentano immagini armoniose, che sono dipinte con colori luminosi e infondono in chi le contempla un senso di pace e di serenità; nella società B vengono invece giudicati belli i dipinti le cui immagini sono del tutto prive di armonia, hanno colori scuri e suscitano emozioni quali la paura, l’angoscia e la disperazione. – Saresti d’accordo con chi dicesse che un quadro giudicato bello nella società A è più bello di un quadro che viene giudicato bello nella società B? – Secondo te il fatto che contemplare un quadro giudicato bello dai membri della società B susciti emozioni spiacevoli o perfino dolorose può essere considerato una caratteristica che lo rende un bel quadro? – Ritieni che sia possibile una discussione sul valore estetico di un quadro tra una persona che appartiene alla società A e una persona che appartiene alla società B?
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Unità 3 Il positivismo
1. La filosofia del positivismo 2. Comte 1. 2. 3. 4.
La legge dei tre stadi La filosofia positiva e l’ordine delle scienze La sociologia La religione positiva
4. L’evoluzionismo: Darwin e Spencer 1. Darwin e l’evoluzione delle specie animali 2. Spencer e il sistema di filosofia sintetica 3. Spencer e i principi delle scienze
5. Altri esponenti del positivismo
3. Mill 1. La logica 2. Le scienze morali e la politica 3. L’etica
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
La filosofia del positivismo
1 I testi
C.-H. de Saint-Simon Memoria sulla scienza dell’uomo: Saint-Simon: verso una filosofia «positiva», T1.
Il positivismo e l’Ottocento
La filosofia della società industriale
Positivismo e progresso scientifico
La scienza come paradigma conoscitivo: prima tesi
Scienze naturali e studio della società: seconda tesi
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L’età del positivismo occupa gran parte del XIX secolo. È un’età particolare per l’Europa, caratterizzata, dopo gli anni delle guerre napoleoniche, da un periodo di maggiore calma e relativa pace e dall’inizio dell’espansione coloniale da parte delle maggiori potenze. In questi decenni si assiste al definitivo affermarsi di quella classe che era stata protagonista della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica, la borghesia, e quindi al consolidarsi su scala europea delle istituzioni politiche ad essa legate: la democrazia rappresentativa e il parlamento, che nel corso del secolo sostituiscono in molti Paesi le istituzioni tradizionali dell’ancien régime. L’affermarsi della società borghese va di pari passo alla notevole espansione in tutta Europa dell’industria moderna, basata sul lavoro degli operai e sull’impiego nel processo produttivo delle macchine, e quindi interessata sempre più alle applicazioni tecniche del sapere scientifico. Di pari passo all’avanzata dell’industria cambiano molti altri aspetti della società: vengono intensificati i trasporti e migliorati i mezzi di comunicazione, aumentano le grandi concentrazioni urbane, si forma una classe che fa da contrappeso alla borghesia: il proletariato, impiegato nel processo di produzione industriale. Il positivismo è la cultura e la filosofia della società borghese e industriale, ed è anche funzionale all’affermazione e al consolidamento di questo contesto sociale. Ma certo la filosofia del positivismo non è solo questo, e non può essere ridotta a ideologia di una classe in ascesa. Come ogni filosofia, anche il positivismo deve essere valutato in relazione ai contenuti filosofici, senza cercare una corrispondenza meccanica con il contesto storico-sociale che li ha generati. Il movimento positivistico risente in particolare dei grandi progressi che l’indagine scientifica e le sue applicazioni tecniche attuano, dalla matematica alla fisica, dalla chimica alla medicina, dall’analisi della società all’analisi della mente. I contenuti filosofici del positivismo possono essere raccolti intorno ad alcune tesi principali non solo condivise dai protagonisti del movimento, ma via via largamente diffuse nell’opinione pubblica. La principale è quella che individua la scienza come modello di conoscenza a cui la filosofia deve approssimarsi. Ciò significa fare dell’esperienza e della ragione i punti di riferimento della filosofia, per cercare di eliminare da essa le questioni ritenute non risolvibili attraverso il ricorso all’esperienza, come per esempio quelle della metafisica e della teologia tradizionali, o come le concezioni idealistiche della realtà, sebbene molte posizioni metafisiche sopravvivano negli stessi protagonisti della filosofia del positivismo. Una seconda tesi può essere individuata nell’assunzione di un modello privilegiato della conoscenza scientifica, quello delle scienze naturali. Si tratta di un modello che consiste nel privilegiare l’osservazione e l’esperienza («empirismo») e nel ricercare leggi di carattere generale che consentano di spiegare e prevedere i
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Unità 3 Il positivismo
Fiducia nell’utilità sociale della scienza: terza tesi
Positivismo e illuminismo
fenomeni osservati. Secondo il positivismo questo metodo deve estendersi e deve essere applicato anche allo studio dei fenomeni umani e sociali: non c’è, quindi, alcuna differenza di impostazione fra scienze della natura e scienze dell’uomo. Una terza tesi consiste nella fiducia che la scienza rappresenti lo strumento per la soluzione dei problemi della società e dell’uomo. E poiché la scienza è in continua espansione, questo porta con sé la fiducia che anche quei problemi siano in via di soluzione, e che il progresso sociale e scientifico condurrà a una società migliore e più giusta: il positivismo è accompagnato, insomma, da ottimismo e fiducia nell’avvenire. L’ottimismo della borghesia in ascesa induce a pensare che l’umanità sia sulla strada di continui miglioramenti nelle condizioni di vita materiale e intellettuale, prevalentemente grazie ai progressi della conoscenza scientifica. Queste tesi definiscono un nucleo filosofico innovativo, ma mostrano anche come il positivismo, pur condividendo aspetti del pensiero romantico (su tutti l’attenzione per la storia e le sue leggi), sia in continuità con il movimento illuministico settecentesco, di cui può e vuole essere l’erede nel nuovo secolo. Questa relazione tra illuminismo settecentesco e positivismo è stata sottolineata da Ludovico Geymonat, filosofo e storico della scienza italiano (1908-1991) di impostazione neopositivista: Fra i temi fondamentali, che il positivismo ottocentesco sembra aver mutuato dal pensiero illuministico, ci limiteremo a ricordarne quattro: 1) la tendenza a considerare i fatti empirici come base ultima di ogni autentica conoscenza (proprio a questa tendenza dovrà ricollegarsi il canone metodologico […], secondo cui le scienze debbono limitarsi a stabilire le leggi dei fenomeni, evitando la ricerca «metafisica» delle cause); 2) la fede nella razionalità scientifica, cui sola spetterebbe di risolvere tutti i nostri problemi; 3) la convinzione che il vero sapere deve risultare utile all’umanità, ossia in grado di suggerire sempre nuove tecniche per il concreto miglioramento delle nostre effettive condizioni di vita; 4) la concezione laica della cultura, intesa come costruzione puramente umana, che non può e non deve sottostare, oggi, ad alcun condizionamento esplicito o implicito di carattere teologico (onde la scienza stessa costituirà secondo alcuni positivisti la nuova religione dell’umanità).
Il significato del termine «positivismo»
Le tre tesi fondamentali del positivismo
Ma cosa significa «positivismo»? Il termine è l’abbreviazione di «filosofia positiva», e positivo è utilizzato in riferimento a ciò che è reale e concreto, cioè «fondato su fatti osservati e discussi», in opposizione quindi a ciò che è immaginario e astratto, cioè meramente ‘congetturale’.
1) La scienza è il modello conoscitivo cui la filosofia si deve adeguare
La filosofia deve basarsi unicamente sulla ragione e sull’esperienza (rifiuto delle teorie metafisiche antiche e moderne)
2) La formulazione di leggi generali concerne tanto il mondo naturale quanto quello sociale
Il metodo di studio della società deve essere lo stesso di quello della natura (non vi è una distinzione di principio tra scienze della natura e scienze dell’uomo)
3) La ricerca scientifica è lo strumento fondamentale per il miglioramento delle condizioni di vita
Sostanziale ottimismo nei confronti del progresso scientifico e tecnologico. Vengono privilegiati i saperi tecnici e applicativi rispetto a quelli astratti e speculativi
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Positivismo designa quindi una filosofia che si basa sui fatti e sull’esperienza, su ciò che si ritiene essere reale e non immaginario. Il termine, con la sua opposizione a ciò che è congetturale, è coniato da Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), ma entra nell’uso comune dopo la ripresa fattane da Auguste Comte, il principale esponente del positivismo francese. E proprio la Francia può essere considerata la patria del movimento, così come era stata un centro fondamentale dell’Illuminismo; dalla Francia il movimento si diffonde subito in Inghilterra e, con un po’ di ritardo, giunge in Germania e in Italia. È dubbio se Saint-Simon possa essere considerato il fondatore del positivismo francese, oppure solo un precursore di alcuni aspetti che saranno poi sviluppati dal suo vero fondatore, Auguste Comte. Con gli scritti La riorganizzazione della società europea (1814), Il sistema industriale (1821-1822) e Il catechismo degli industriali (1823-1824) (gli ultimi due redatti proprio in collaborazione con Comte), Saint-Simon introduce alcuni dei temi su cui si concentrerà anche Comte: la storia è concepita come governata da una legge di successione fra epoche «organiche», o di ordine, ed epoche «critiche», o rivoluzionarie; ed è teorizzata la necessità di una riorganizzazione della società basata sull’industria e sulla scienza. Il cammino Inoltre, nell’Introduzione al lavoro scientifico del XIX secolo (1808) e in Memoria delle scienze verso sulla scienza dell’uomo (1813) vengono delineati i contenuti di una «filosofia polo stadio «positivo» sitiva», poi ripresi da Comte: secondo Saint-Simon, a partire dal Rinascimento alcune scienze – l’astronomia, la fisica, la chimica – hanno abbandonato il loro carattere «congetturale» e raggiunto uno stato «positivo», sono cioè divenute vere e proprie scienze, confermate dall’esperienza; mentre altre – come la fisiologia e la psicologia – sono in procinto di raggiungerlo. Quando tutte le scienze saranno a questo stadio, sarà possibile che anche la filosofia divenga «positiva», cioè fondata non su astratte congetture ma su fatti osservati e discussi. La filosofia è considerata una scienza, ma è, per Saint-Simon, la scienza più generale, e in quanto tale risente dello stato di tutte le altre scienze. Saint-Simon e le origini del positivismo
T1
Saint-Simon: verso una filosofia «positiva»
C.-H. de Saint-Simon, Memoria sulla scienza dell’uomo
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Richiamando le nozioni generali […] sul cammino seguito dallo spirito umano fino dall’inizio del suo sviluppo, e riflettendo in maniera particolare sul cammino che esso sta seguendo dopo il secolo XV, risulta chiaro quanto segue: 1) La sua tendenza, a partire da quell’epoca, è di fondare tutti i suoi ragionamenti su fatti osservati e discussi; esso ha già riorganizzato su questa base positiva l’astronomia, la fisica, la chimica, e queste scienze fanno oggi parte dell’istruzione pubblica, formandone la base. Da ciò si deve necessariamente concludere che la fisiologia, di cui la scienza dell’uomo fa parte, sarà trattata con il metodo adottato per le altre scienze fisiche, e sarà introdotta nell’istruzione pubblica quando sarà resa positiva. 2) Le scienze particolari costituiscono gli elementi della scienza generale; e la scienza generale – vale a dire la filosofia – ha dovuto essere congetturale così come lo sono state le scienze particolari, ha dovuto essere semi-congetturale quando una parte delle scienze particolari è diventata positiva mentre l’altra era ancora congetturale, sarà completamente positiva quando lo saranno tutte le scienze particolari. Ciò avverrà all’epoca in cui la fisiologia e la psicologia saranno fondate su fatti osservati e discussi; infatti non esiste fenomeno che non sia astronomico, chimico, fisiologico o psicologico. Si ha quindi coscienza di un’epoca in cui la filosofia insegnata nelle scuole sarà positiva.
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Comte
2 I testi
A. Comte Corso di filosofia positiva: I tre stadi, T2; La formulazione di leggi generali, T6; Conoscenza delle leggi e azione sulla realtà, T7; Il sistema delle scienze fondamentali, T8; La fisica sociale e le sue applicazioni, T9; La «statica sociale» come teoria positiva dell’ordine, T10; La «dinamica sociale» e il
Il progetto riformatore di Comte
Auguste Comte può essere considerato l’iniziatore del movimento positivistico, colui che per primo contribuisce a fornirne le linee guida e a diffonderne il nome. In linea con Saint-Simon, la delineazione dei contenuti della filosofia positiva e l’articolazione del sistema delle scienze è concepita da Comte come lo strumento per una riforma intellettuale e morale della società. Ma questo intento viene unito all’interesse verso i fondamenti del sapere scientifico e la ricerca delle leggi della società, tanto che Comte è considerato uno dei fondatori della sociologia moderna. Per poter trasformare la società, occorre infatti conoscerla a fondo.
La vita e le opere Auguste Comte nacque a Montpellier nel 1798 e visse in un periodo in cui le condizioni sociali e politiche della Francia erano assai instabili. Frequentò la Scuola politecnica di Parigi, dove dall’agosto 1817 si legò a SaintSimon, del quale diventò segretario particolare e collaboratore. Nel 1822 pubblicò il Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, di ispirazione saintsimoniana, ma due anni dopo ruppe con Saint-Simon. Dopo una grave crisi nervosa, nel 1826, e un tentativo di suicidio, Comte iniziò a lavorare alla sua opera maggiore, il Corso di filosofia positiva (1830-1842), e ottenne un incarico di «ripetitore» (cioè di assistente) e poi di esaminatore presso la Scuola politecnica; non riuscendo mai, però, a ottenere una cattedra di insegnamento, le lezioni del corso di filosofia positiva furono tenute privatamente nel suo appartamento. Dopo la pubblicazione nel 1842 dell’ultimo volume del corso, la novità delle idee
1 I tre stadi dello spirito umano
progresso, T11; L’epoca positiva e industriale, T12 Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società: Lo stadio teologico o fittizio, T3; Lo stadio metafisico o astratto, T4; Lo stadio positivo o scientifico, T5 Sistema di politica positiva: Dalla filosofia positiva alla religione positiva, T13; Il nuovo culto positivista, T14
sostenute da Comte e la sua critica della metafisica tradizionale, infatti, fecero sì che perdesse il posto di insegnamento presso la Scuola. Da questo momento egli visse di sussidi da parte di amici e ammiratori. Nel 1845 la relazione platonica con Clotilde de Vaux e la morte di lei comportarono una seconda crisi nervosa e forti difficoltà finanziarie; ebbe inizio la seconda fase del suo pensiero, che trovò una formulazione sistematica nel Sistema di politica positiva o trattato di sociologia che istituisce la religione dell’umanità (1851-1854), seguito dal Catechismo positivista (1852) e dal Calendario positivista (postumo, 1860). Nel 1848 Comte fondò la Société positiviste, ma l’accento mistico e umanitario che caratterizzò questa seconda fase del suo pensiero determinò una spaccatura all’interno della sua cerchia di discepoli, anche se il movimento positivista si andava ormai diffondendo in maniera massiccia in diversi Paesi europei (tra cui l’Inghilterra) e in America. Morì a Parigi nel 1857.
La legge dei tre stadi Nello scritto di ispirazione saint-simoniana, Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, e poi nella sua opera principale, il Corso di filosofia positiva, in sei volumi, e ancora nel Discorso sullo spirito positivo, Comte individua una legge che scandisce e guida il processo di sviluppo della cultura e della civiltà umane. Questa legge è la cosiddetta legge dei tre stadi (o «stati», états) 91
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
dello spirito umano, secondo la quale la civiltà nel suo complesso e ogni singolo sapere si evolvono attraverso tre stadi: lo «stadio teologico», lo «stadio metafisico» e lo «stadio positivo». La legge dei tre stadi è considerata da Comte come una vera e propria legge scientifica, a cui si giunge attraverso l’osservazione dei fenomeni umani, e che, come ogni altra legge scientifica, mette in condizione di spiegare e prevedere questi stessi fenomeni. Tuttavia, è opportuno osservare che, con la formulazione di questa legge, considerata necessaria per ogni aspetto della storia e della cultura umana, Comte va oltre la semplice proposta di una teoria scientifica: essa delinea piuttosto i contenuti di una vera e propria filosofia della storia, dotata di una certezza apodittica e di una completezza sistematica che hanno poco a che vedere con il modo di procedere della scienza. Un aspetto che è presente anche in altri protagonisti del positivismo, come vedremo in Spencer. Afferma Comte a proposito della legge in questione:
T2
I tre stadi
A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1
Lo stadio teologico e la sua articolazione interna
T3
Lo stadio teologico o fittizio
A. Comte, Piano dei lavori scientifici Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1
Lo stadio metafisico
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Studiando lo sviluppo totale dell’intelligenza umana nelle sue diverse sfere di attività […] credo di aver scoperto una grande legge fondamentale a cui esso è sottoposto con invariabile necessità […]. Questa legge consiste nel fatto che ognuna delle nostre concezioni principali, ogni settore delle nostre conoscenze, passa successivamente attraverso tre stati teorici differenti: lo stato teologico o fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico o positivo. Lo «stadio teologico», o fittizio, rappresenta la prima fase dello sviluppo della conoscenza, sia individuale sia collettiva. A questo stadio gli uomini cercano di conoscere la natura ultima delle cose e le loro cause finali: essi si rappresentano perciò gli eventi del mondo come prodotti dall’intervento di entità soprannaturali (frutto della fantasia umana), e ritengono che l’azione di queste entità soprannaturali spieghi l’accadere dei fenomeni e ogni evento della natura. Lo stadio teologico è a sua volta distinto in tre fasi, a seconda dell’entità soprannaturale immaginata: nella prima si divinizzano i fenomeni naturali, è la fase delle religioni animistiche; nella seconda le entità soprannaturali assumono la forma degli dèi delle religioni politeistiche; nella terza, del Dio delle religioni monoteistiche. Nel primo stadio alcune idee soprannaturali servono a collegare il piccolo numero di osservazioni isolate di cui la scienza si compone allora. In altri termini, i fatti osservati vengono spiegati, ossia considerati a priori, in base a fatti inventati. Questo stadio è necessariamente proprio di ogni scienza al suo inizio. Per quanto imperfetto, è il solo modo di collegamento possibile in tale epoca. Nello stadio teologico lo spirito umano, dirigendo essenzialmente le sue ricerche verso la natura intima degli esseri, verso le cause prime e finali di tutti gli effetti che lo colpiscono, ossia verso le conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti soprannaturali più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega tutte le apparenti anomalie dell’universo. Lo «stadio metafisico», o astratto, rappresenta la seconda fase dello sviluppo dello spirito umano, collegamento fra il primo e il terzo; in esso le spiegazioni degli eventi del mondo vengono cercate non in entità soprannaturali ma in entità e forze astratte, essenze profonde inerenti ai vari enti, le quali darebbero conto della loro natura e del loro comportamento.
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T4
Lo stadio metafisico o astratto
A. Comte, Piano dei lavori scientifici Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1
Lo stadio positivo e le leggi generali
T5
Lo stadio positivo o scientifico
A. Comte, Piano dei lavori scientifici Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1
La legge dei tre stadi
Il secondo stadio è unicamente destinato a servire quale mezzo di transizione dal primo al terzo. Il suo carattere è bastardo; esso collega i fatti in base a idee che non sono più soprannaturali e che non sono ancora interamente naturali. In una parola queste idee sono astrazioni personificate nelle quali lo spirito può scorgere, a sua volontà, o il nome mistico di una causa soprannaturale o l’enunciato astratto di una semplice serie di fenomeni, secondo che sia più vicino allo stato teologico o allo stato scientifico. Nello stadio metafisico – che in fondo è soltanto una semplice modificazione generale del primo – gli agenti soprannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere e proprie entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo, e concepite come capaci di generare da sé tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione consiste allora nell’indicare per ognuno l’entità corrispondente. Nello «stadio positivo», o scientifico, invece, gli uomini abbandonano il ricorso a entità soprannaturali e metafisiche e cercano la spiegazione degli eventi in «leggi generali», cioè nelle relazioni costanti che reggono il comportamento dei fenomeni osservati. A esse si giunge non attraverso l’immaginazione e la fantasia ma attraverso il ragionamento, che fa ricorso a ipotesi, le quali, a loro volta, devono essere verificate dall’osservazione empirica. A questo stadio si raggiunge infine la conoscenza scientifica della realtà e si afferma una vera e propria «filosofia positiva», che si attiene ai fatti e non ricorre a ipotesi teologiche o metafisiche. Il terzo stadio è il modo definitivo di qualsiasi scienza, in quanto i primi due erano destinati soltanto a prepararlo gradualmente. Allora i fatti vengono collegati in base a idee o leggi generali di carattere completamente positivo, suggerite o confermate dai fatti stessi, e che sovente sono semplici fatti abbastanza generali per diventare principi. Si cerca di ridurli sempre al minor numero possibile, ma senza formulare alcuna ipotesi che non sia tale da essere un giorno verificata mediante l’osservazione, e considerandoli in ogni caso come un mezzo di espressione generale dei fenomeni. Nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere delle nozioni assolute, rinuncia a cercare l’origine e la destinazione dell’universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni per impegnarsi unicamente a scoprire, mediante l’impiego ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, vale a dire le loro relazioni invariabili di successione e somiglianza. La spiegazione dei fatti, ridotta allora ai suoi termini reali, non è ormai più se non il collegamento stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali di cui i progressi della scienza tendono sempre più a diminuire il numero. 1. Stadio teologico (o «fittizio») – Tentativo di conoscere la natura e la finalità delle cose – Ricorso a entità sovrannaturali (divine) per la spiegazione dei fenomeni 2. Stadio metafisico (o «astratto») – Tentativo di conoscere la natura e la finalità delle cose – Ricorso a forze astratte ed essenze non verificabili empiricamente
3. Stadio positivo (o «scientifico») – Riferimento a fatti empiricamente osservabili – Formulazione di leggi generali che spieghino le relazioni tra i fenomeni – Rinuncia a cogliere l’«essenza ultima» della realtà
Secondo Comte, a ogni stadio dell’evoluzione della conoscenza collettiva corrisponde uno stadio della conoscenza individuale (evoluzione psichica).
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Gli stadi dello sviluppo individuale
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La legge dei tre stadi non è concepita da Comte solo come la legge di sviluppo della civiltà umana nel suo complesso: è anche la legge dello sviluppo psichico e culturale dell’individuo, che passa nel corso della sua vita dallo stadio teologico dell’infanzia allo stadio positivo della maturità: «chi di noi non ricorda, contemplando la sua propria storia – chiede Comte – che è stato successivamente, rispetto alle nozioni più importanti, “teologo” nella sua infanzia, “metafisico” nella sua giovinezza e “fisico” nella sua virilità?».
La filosofia positiva e l’ordine delle scienze
Dalla filosofia metafisica alla filosofia positiva. Il metodo esplicativo
È dunque solo nello stadio positivo e scientifico che si giunge a una filosofia basata non su astratte congetture di carattere teologico e metafisico, ma sull’osservazione e sui fatti. Si tratta di quella che Comte chiama «filosofia positiva», dove l’aggettivo «positivo» sta a indicare qualcosa di concreto e reale anziché di astratto e chimerico. L’origine storica della filosofia positiva viene individuata nell’opera di Galileo, di Bacone e di Cartesio, i quali hanno dato inizio al movimento che ha condotto allo stadio scientifico di sviluppo della civiltà; se la filosofia metafisica andava alla ricerca delle cause ultime della realtà, la filosofia positiva cerca invece le relazioni costanti di successione e somiglianza tra i fenomeni, le leggi generali che ne spiegano il comportamento, semplificando e mettendo ordine fra di essi. Allo scopo di ottenere la spiegazione più semplice dei fenomeni osservati, inoltre, la filosofia positiva non moltiplica queste leggi ma le riduce al minor numero possibile, cercando pochi principi comuni a tutti i fenomeni osservati. Il modello di spiegazione è la legge newtoniana della gravità che pone in relazione e spiega il comportamento di tutti i fenomeni fisici dell’universo.
T6
Il carattere fondamentale della filosofia positiva è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili: la loro scoperta e la loro riduzione al minor numero possibile costituiscono il fine di tutti i nostri sforzi, in quanto la ricerca di ciò che chiamiamo cause – siano esse cause prime o cause finali – deve essere considerata assolutamente inaccessibile e priva di senso per noi […]. Ciascuno sa, in effetti, che nelle nostre spiegazioni positive, anche le più perfette, non abbiamo affatto la pretesa di esporre le cause generatrici dei fenomeni, poiché allora non si farebbe altro che spostare la difficoltà, ma abbiamo soltanto la pretesa di analizzare con esattezza le circostanze della loro produzione e di collegarli tra di loro mediante relazioni normali di successione e di somiglianza.
La formulazione di leggi generali A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 1
L’utilità pratica delle leggi
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La conoscenza delle leggi di un fenomeno non è però considerata fine a se stessa: essa interessa a Comte perché scopo dell’uomo è agire nel mondo per trasformarlo, conformemente a quanto aveva ripetuto Bacone. Conoscere le leggi di un fenomeno consente di prevedere il suo comportamento e quindi di padroneggiarlo e modificarlo; così come consente di progettare e costruire degli strumenti che moltiplicano il potere dell’uomo, originariamente troppo debole e sproporzionato rispetto ai bisogni: dalla scienza deriva la previsione, dalla previsione l’azione.
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Unità 3 Il positivismo
T7
Conoscenza delle leggi e azione sulla realtà
A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, Lezione 2
Quando si considera l’insieme completo dei lavori di ogni genere compiuti dalla specie umana, si deve concepire lo studio della natura come destinato a fornire la vera base razionale dell’azione dell’uomo sulla natura, poiché soltanto la conoscenza delle leggi dei fenomeni – il cui risultato costante è di farceli prevedere – può evidentemente condurci nella vita attiva a modificarli a nostro vantaggio. I nostri mezzi naturali e diretti per agire sui corpi che ci circondano sono estremamente deboli, e del tutto sproporzionati ai nostri bisogni. Ogni volta che perveniamo a esercitare una grande azione, ciò avviene soltanto perché la conoscenza delle leggi naturali ci permette di introdurre, tra le circostanze determinate sotto la cui influenza si compiono i diversi fenomeni, qualche elemento modificatore che, per quanto debole di per sé, basta in certi casi per volgere a nostro vantaggio i risultati definitivi dell’insieme delle cause esterne. In breve, dalla scienza deriva la previsione, dalla previsione deriva l’azione: questa è la formula semplicissima che esprime in maniera esatta la relazione generale tra scienza e arte, assumendo i due termini nella loro accezione totale.
Comunque non solo la filosofia è approdata a uno stadio positivo; anche le varie scienze lo hanno raggiunto, cioè sono divenute scienze vere e proprie, nel corso del tempo e dopo una lunga evoluzione. Questo stadio non è stato però raggiunto da tutte nel medesimo tempo: c’è, per Comte, un ordine nel passaggio allo stadio positivo, che dipende dal grado di facilità nello studio dei vari tipi di fenomeni, che a sua volta dipende dal grado di semplicità e generalità dei fenomeni stessi. In questo modo, l’ordine nel quale le singole discipline sono diventate scienze vere e proprie nello sviluppo storico dell’umanità è anche il sistema in cui le scienze possono essere ripartite: dalle scienze più semplici e indipendenti a quelle più complesse e dipendenti; se i fenomeni più semplici, infatti, non dipendono dai più complessi, quelli più complessi dipendono da quelli più semplici, così che lo studio e la conoscenza delle leggi dei fenomeni più semplici è fondamentale per lo studio e la conoscenza delle leggi di quelli più complessi. La classificazione L’ordine generale delle scienze è: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. delle scienze Per prima ha conseguito lo stadio positivo l’astronomia (o fisica celeste), dato che i fenomeni astronomici sono considerati i più semplici e generali (consistendo nel movimento matematico degli astri); poi la fisica terrestre, che si occupa del movimento meccanico dei corpi; poi ancora la chimica, che invece studia gli elementi fondamentali e la loro interazione. Tutte e tre trattano della materia inorganica. Sono poi venute le scienze che si occupano della materia organica: la biologia (o fisica organica), che si occupa degli organismi viventi, e infine la sociologia (o fisica sociale), che si occupa degli organismi sociali. Richiamandosi al precedente illuministico, Comte elabora così un’enciclopedia delle scienze, una classificazione sistematica che fornisce il prospetto di tutte le possibili forme di conoscenza.
Ordine di sviluppo delle varie discipline
T8
Il sistema delle scienze fondamentali
A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1, lezione 2
La filosofia positiva si trova dunque suddivisa naturalmente in cinque scienze fondamentali, la cui successione è determinata da una subordinazione necessaria e invariabile, fondata – prescindendo da qualsiasi opinione di carattere ipotetico – sulla semplice comparazione approfondita dei fenomeni corrispondenti: l’astronomia, la fisica, la chimica, la fisiologia e infine la fisica sociale. La prima considera i fenomeni più generali, più semplici, più astratti e più lontani dall’umanità; essi influenzano tutti gli altri senza esserne influenzati. I fenomeni considerati dall’ultima sono, al contrario, i più particolari, i più complicati, i più concreti e i 95
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più direttamente forniti di interesse per l’uomo; dipendono più o meno da tutti i fenomeni precedenti senza esercitare alcuna influenza su di essi. Tra questi due estremi il grado di specializzazione, di complicazione e di personalità dei fenomeni va gradualmente aumentando, al pari della loro dipendenza successiva. Lo statuto epistemologico di matematica, psicologia, filosofia
Come si può osservare, nel sistema delle scienze di Comte non rientrano né la matematica, né la psicologia, né la filosofia. Ciò per ragioni differenti: la matematica non è inserita perché è considerata il fondamento di tutte le scienze, le quali giungono al loro stadio positivo quando assumono carattere matematico; senza un modello matematico non si potrebbe dare alcuna scienza particolare. La psicologia, invece, non rientra fra le scienze perché non ha un valido metodo di conoscenza: essa si basa infatti sulla osservazione della propria psiche da parte del soggetto, ma Comte ritiene impossibile uno studio introspettivo dei fenomeni mentali: «l’individuo pensante non può dividersi in due, di cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare». Nella sua parte scientifica, la psicologia si riduce alla biologia, che studia il funzionamento del cervello, e alla sociologia, che studia il comportamento sociale. La filosofia, infine, non è una scienza, perché essa non ha un oggetto di studio particolare; essa svolge, infatti, una funzione di coordinamento fra le varie scienze e di studio e identificazione dei principi comuni, mettendone in evidenza le relazioni di carattere sistematico: il suo compito consiste nel «determinare esattamente lo spirito di ciascuna di esse, nello scoprire relazioni e connessioni, nel riassumere, se è possibile, tutti i loro principi propri in un minimo numero di principi comuni, in conformità col metodo positivo». In Comte, dunque, la filosofia si configura come una riflessione sulle scienze, secondo una concezione che sarà largamente ripresa nel Novecento (vedi Unità 16, p. 718).
Il sistema delle scienze Le scienze sono giunte allo stadio positivo in momenti diversi
3 Il cammino della sociologia verso lo stadio positivo
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Fattori che determinano l’ordine tra le scienze: – la successione cronologica in cui ognuna di esse ha raggiunto lo stadio «positivo» – una maggiore complessità dei fenomeni studiati e delle leggi che li descrivono – un rapporto di dipendenza dei fenomeni di livello più basso da quelli di livello più alto – una maggiore concretezza e specificità dei fenomeni in questione
Sviluppo positivo delle scienze: – Astronomia (fisica celeste) – Fisica terrestre – Chimica – Biologia (fisica organica) – Sociologia (fisica sociale)
La sociologia La sociologia è, come si è detto, l’ultima tappa dello sviluppo delle scienze, ma essa non ha ancora conseguito il suo stadio positivo. Portare a termine questo compito è, per Comte, un obiettivo fondamentale, perché solo quando sarà raggiunta la conoscenza scientifica della società l’umanità sarà in grado di trasformarla in maniera razionale, attraverso un’azione politica consapevole. Questo ritardo dipende dal fatto che i fenomeni da essa studiati sono i più complessi (dipendendo essi dai fenomeni studiati da tutte le altre scienze), i più concreti e meno generali.
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Unità 3 Il positivismo La sociologia come «fisica sociale»
T9
La fisica sociale e le sue applicazioni A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48
Articolazione interna della sociologia: la «statica»
T10
La «statica sociale» come teoria positiva dell’ordine
A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48
Come si è detto, la sociologia viene concepita come «fisica sociale»: se compito della fisica è ricavare dall’osservazione dei fatti fisici le leggi naturali invariabili che ne spiegano il comportamento, compito della sociologia è ricavare dall’osservazione dei fatti sociali le corrispondenti leggi naturali invariabili, che possono consentire, nei limiti della loro complessità, la previsione dei fenomeni sociali, e quindi consentire alla politica un intervento efficace. Essa è dunque anche scienza politica. Il metodo con cui si opera nelle scienze naturali non è perciò diverso da quello con cui si opera nella scienza sociale: «Per fisica sociale intendo la scienza che ha come scopo suo proprio lo studio dei fenomeni sociali considerati nello spirito dei fenomeni astronomici, fisici, chimici e fisiologici, ossia considerati come sottoposti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta è il fine specifico delle sue ricerche». La fisica sociale considera dunque ciascun fenomeno dal duplice punto di vista elementare della sua armonia con i fenomeni coesistenti e del suo collegamento con lo stato anteriore e con lo stato posteriore dello sviluppo umano. Da entrambe queste prospettive essa si sforza di scoprire, per quanto è possibile, le vere relazioni generali che collegano tra di loro tutti i fatti sociali: ognuno di questi appare spiegato, nell’accezione veramente scientifica del termine, quando ha potuto essere convenientemente riportato sia all’insieme della situazione corrispondente sia all’insieme del movimento precedente, mettendo sempre accuratamente da parte qualsiasi vana e inaccessibile ricerca della natura intima e del modo essenziale di produzione dei fenomeni […]. Conducendo al pari di ogni altra scienza reale, e con la precisione che comporta l’eccessiva complicazione propria di questi fenomeni, all’esatta previsione sistematica degli avvenimenti che devono risultare sia da una situazione data, sia da un certo insieme di antecedenti, [la scienza politica] fornisce anche direttamente all’arte politica non soltanto l’indispensabile determinazione preliminare delle diverse tendenze spontanee che questa deve assecondare, ma anche l’indicazione dei mezzi principali che può applicare ad esse. La sociologia viene divisa da Comte in due parti: la «statica sociale» e la «dinamica sociale», così come in biologia si può distinguere l’anatomia dalla fisiologia. La statica sociale studia le condizioni di esistenza della società, è cioè una forma di anatomia sociale: indaga le relazioni permanenti fra le varie parti di un sistema sociale (per esempio fra il sottosistema politico e quello economico o culturale) e le leggi che ne garantiscono l’esistenza. Essa si basa sul concetto di «ordine», indagando le condizioni dell’ordine sociale e del consenso. Comte individua le condizioni di esistenza comuni a tutte le società e a tutte le epoche: la socievolezza dell’uomo, la famiglia e la divisione del lavoro. Occorre estendere convenientemente all’insieme dei fenomeni sociali una distinzione scientifica veramente fondamentale […] considerando separatamente, ma sempre in vista di un esatto coordinamento sistematico, lo stadio statico e lo stadio dinamico di qualsiasi oggetto di studio positivo. In sociologia questa scomposizione deve compiersi in maniera perfettamente analoga [alla biologia], e non meno netta, distinguendo radicalmente – a proposito di ogni oggetto della politica – lo studio fondamentale delle condizioni di esistenza della società e quello delle leggi del suo continuo movimento. Questa differenza sembra fin d’ora abbastanza pronunciata per consentirmi di pre97
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
vedere che, in seguito, il suo sviluppo spontaneo potrà condurre a dividere abitualmente la fisica sociale in due scienze principali – sotto il nome per esempio di statica sociale e di dinamica sociale – così essenzialmente distinte tra di loro come lo sono oggi l’anatomia e la fisiologia individuali […]. È evidente che lo studio statico dell’organismo sociale deve coincidere, in fondo, con la teoria positiva dell’ordine, il quale può essenzialmente consistere soltanto in una giusta armonia permanente tra le diverse condizioni di esistenza delle società umane. […] Così concepita, questa specie di anatomia sociale che costituisce la sociologia statica deve avere come scopo permanente lo studio positivo, tanto sperimentale quanto razionale, delle azioni e reazioni reciproche che tutte le diverse parti del sistema sociale esercitano continuamente le une sulle altre, facendo scientificamente astrazione in via provvisoria, per quanto è possibile, dal movimento fondamentale che le modifica sempre gradualmente. La «dinamica sociale»
La dinamica sociale studia, invece, le condizioni di sviluppo della società e le leggi che guidano l’evoluzione da un sistema sociale a un altro. Essa si basa sul concetto di «progresso», concetto che è strettamente connesso a quello di ordine, così come la dinamica sociale è strettamente connessa alla statica: nessun ordine sociale potrebbe reggere se non fosse compatibile col progresso, e nessun progresso potrebbe compiersi se non tendesse al consolidamento dell’ordine.
T11
Il vero spirito generale della sociologia dinamica consiste nel concepire ognuno degli stati sociali consecutivi come il risultato necessario del precedente e come il motore indispensabile di quello successivo, secondo il luminoso assioma del grande Leibniz: «il presente è gravido del futuro». La scienza ha allora, da questo punto di vista, lo scopo di scoprire le leggi costanti che regolano tale continuità, e il cui insieme determina il cammino fondamentale dello sviluppo umano. In una parola, la dinamica sociale studia le leggi di successione, mentre la statica sociale cerca quelle di coesistenza; cosicché l’applicazione generale della prima è propriamente rivolta a fornire alla politica pratica la vera teoria del progresso, mentre la seconda forma spontaneamente quella dell’ordine.
Stadi conoscitivi e organizzazioni sociali
La legge naturale e invariabile che guida il progresso sociale e a cui giunge la sociologia dinamica è la legge dei tre stadi. Comte associa ai vari stadi differenti organizzazioni storiche della società: allo stadio teologico ne corrisponde una di carattere militare, il cui scopo è la conquista; allo stadio metafisico una di carattere giuridico, il cui scopo è a mezzo fra quello dello stadio precedente e quello del successivo; allo stadio positivo una di carattere industriale, il cui scopo è la produzione e in cui il potere spirituale deve essere tenuto dagli scienziati. La storia dell’umanità ha assistito all’evoluzione da una formazione sociale all’altra. Così veniva caratterizzato, già nella prima opera di Comte, il Piano dei lavori scientifici, lo stadio positivo di sviluppo della società:
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La terza epoca è l’epoca scientifica e industriale. Tutte le idee teoriche particolari sono diventate positive, e le idee generali tendono a divenirlo. L’osservazione ha dominato l’immaginazione per quanto riguarda le prime e l’ha detronizzata per quanto riguarda le seconde, senza averne ancora preso oggi il posto. Sotto l’aspetto temporale, l’industria è diventata preponderante. Tutte le relazioni particolari si sono stabilite a poco a poco su basi industriali.
La «dinamica sociale» e il progresso
A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48
L’epoca positiva e industriale A. Comte, Corso di filosofia positiva, 4, Lezione 48
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Unità 3 Il positivismo
4 Il carattere ‘sacro’ della scienza
T13
Dalla filosofia positiva alla religione positiva A. Comte, Sistema di politica positiva, 2,7,3
Il nuovo culto positivista e il modello cattolico
T14
Il nuovo culto positivista A. Comte, Sistema di politica positiva, Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, 1
La religione positiva Nell’ultima fase del suo pensiero e nella principale opera di questo periodo, il Sistema di politica positiva, Comte è sempre più attento a individuare le condizioni per la realizzazione e la diffusione sociale della filosofia positiva, attenzione che si accompagna a una svolta politica di carattere conservatore. Ad avviso di Comte, perché la filosofia positiva possa giungere a una reale riorganizzazione della società è necessario che si tramuti in una vera e propria religione, la religione positiva, e che attribuisca alla scienza un carattere sacro. Solo in questo modo, infatti, potrà riuscire a parlare al sentimento e al cuore degli uomini e a influire davvero sulle loro motivazioni. Così facendo il positivismo potrà realizzare il proprio obiettivo, che è quello della «rivoluzione generale dello spirito umano», della riforma intellettuale e morale dell’umanità. Per compiere questa missione finale non era sufficiente ridurre il movimento umano a leggi positive, la cui efficacia risultasse pienamente constatata in base a una spiegazione totale del passato […]. Per quanto il positivismo, spinto dalla sua realtà caratteristica, avesse abbracciato abbastanza i fenomeni morali da riconoscere gradualmente, attraverso l’anarchia moderna, la fondamentale preponderanza del cuore sullo spirito, l’impulso affettivo restava insufficiente. In mancanza di uno stimolo diretto e continuo il sentimento non vi trovava consacrato il suo ascendente normale, dal quale dipendeva una sintesi completa, essa sola decisiva – anche intellettualmente – per elevarsi dalla filosofia alla religione. Per divenire religione, la filosofia positiva deve avere un nucleo dogmatico unitario, propri sacerdoti e un proprio culto, che sostituiranno i dogmi e i culti delle religioni tradizionali: al culto di Dio viene sostituito il culto dell’Umanità, o «Grande essere», cioè del genere umano nel suo complesso, l’insieme di tutti gli esseri umani passati, presenti e futuri; i dogmi sono costituiti dalle leggi della scienza; mentre le pratiche del nuovo culto dell’umanità, i riti, i sacramenti, il sacerdozio e perfino il calendario vengono minuziosamente descritti nel Catechismo positivista e nel Calendario positivista. Il modello a cui Comte si ispira è quello del cattolicesimo, per la sua universalità e per la sua efficacia: ci saranno dunque templi positivi, rappresentati dagli istituti scientifici, un sacerdozio positivo e anche un papa positivo che si occuperà dello sviluppo scientifico e industriale della società; ci saranno un battesimo, una cresima e una estrema unzione positivi; cambieranno i nomi dei mesi e dei giorni, in omaggio alle varie scienze e alle personalità di rilievo nella storia del progresso tecnico e scientifico. L’Umanità condensa direttamente i tre caratteri essenziali del positivismo, cioè il suo motore soggettivo, il suo dogma oggettivo e il suo fine attivo. A questo solo vero Grande essere, di cui siamo consapevolmente i componenti necessari, si riferiranno ormai tutti gli aspetti della nostra esistenza individuale o collettiva – le nostre contemplazioni per conoscerlo, i nostri affetti per amarlo, le nostre azioni per servirlo […]. Così il positivismo diventa finalmente una vera religione, la sola religione completa e reale, destinata a prevalere su tutte le sistemazioni imperfette e provvi99
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sorie derivate dal teologismo iniziale […]. Quando la scienza fu abbastanza cresciuta per separarsi anche dalla filosofia, essa non tardò a manifestare la sua tendenza necessaria verso una nuova unità speculativa, non meno contraria a qualsiasi metafisica che a qualsiasi teologia. Questa costruzione finale […] ha potuto compiersi soltanto attraverso la recente fondazione della vera scienza sociale […]. Da allora i veri scienziati, elevandosi alla dignità filosofica, tendono necessariamente verso il carattere sacerdotale […]. Divenuti così sacerdoti dell’Umanità, i nuovi filosofi devono ottenere un ascendente intellettuale e morale più esteso e meglio radicato del sacerdozio antico […]. Interamente votata allo studio, diretto o indiretto, dell’Umanità, la scienza assumerà ormai un carattere veramente sacro, come fondamento sistematico del culto universale. Soltanto essa potrà farci conoscere non soltanto la natura e la condizione del Grande essere, ma anche i suoi destini e le sue tendenze successive.
➥ Sommario, p. 124
Sono questi gli aspetti più caduchi e controversi delle riflessione di Comte, sminuiti già dai suoi allievi. Il rifiuto della filosofia teologica e metafisica, la difesa delle scienze, la sociologia come nuova scienza sociale, la delineazione della filosofia positiva diverranno invece patrimonio del movimento positivistico (vedi Unità 16, p. 719) e, più in generale, della cultura filosofica europea fra Ottocento e Novecento.
Mill
3 I testi
J.S. Mill Sistema di logica deduttiva e induttiva: Natura e campo di applicazione della logica T15; Natura e funzione delle proposizioni generali, T16; L’assunzione di ogni inferenza induttiva, T17; Complessità della scienza sociale, T18; Il sentimento della libertà morale, T19
Attualità di Mill
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La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne: La sovranità dell’individuo su se stesso, T20; Le condizioni di una società libera, T21; Il pregiudizio della ‘natura femminile’, T22; I capisaldi dell’utilitarismo, T24; Il valore della qualità del piacere, T25 Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica: Scienza e arte, T23
Insieme ad Auguste Comte, con cui intrattiene un lungo rapporto epistolare, John Stuart Mill è fra i maggiori esponenti del positivismo europeo. Sostenitore di una concezione empiristica in epistemologia, liberale in politica e utilitarista in etica, John Stuart Mill è uno dei filosofi dell’Ottocento più presenti nel dibattito contemporaneo, ancora oggi punto di riferimento della riflessione epistemologica ed etico-politica.
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Unità 3 Il positivismo
La vita e le opere John Stuart Mill nacque a Londra nel 1806, figlio del filosofo ed economista inglese James Mill, dirigente della Compagnia delle Indie. Compì studi scientifici in Francia e giuridici in Inghilterra. Sulla sua formazione intellettuale esercitarono un peso notevole la figura del padre James e quella di Jeremy Bentham, maestro e amico del padre, nonché esponente di spicco dell’utilitarismo. All’età di sedici anni Mill entrò a far parte della Compagnia delle Indie, della quale divenne alto dirigente, fino a quando essa venne sciolta (1858). Parallelamente a tale incarico, egli svolse un’intensa attività scientifica e
1 Intuizione empirica e inferenza logica
T15
Natura e campo di applicazione della logica J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva
La proposizione come oggetto della logica
pubblicistica attraverso la quale dette una sistemazione organica e originale alla tradizione empirista e liberale inglese. Tale attività spaziava dalla logica (Sistema di logica deduttiva e induttiva, 1843), all’economia (Principi di economia politica, 1848), alla morale (L’utilitarismo, 1861), alla politica (La libertà, 1859; L’asservimento delle donne, 1869) e alla religione (Tre saggi sulla religione, postumo, 1874). Morì nel 1873 ad Avignone, dove si era trasferito dopo lo scioglimento della Compagnia delle Indie e dove aveva sempre soggiornato, tranne una breve parentesi in cui era stato deputato alla Camera dei Comuni inglese.
La logica Mill dedica alla logica e all’epistemologia la sua opera più importante, il Sistema di logica deduttiva e induttiva. Il Sistema di logica affronta il problema di come sia possibile ottenere una conoscenza vera attraverso l’inferenza di alcune proposizioni del linguaggio da altre proposizioni. Ci sono per Mill due generi di conoscenza: alcune verità sono conosciute direttamente attraverso un’intuizione empirica immediata; altre sono invece conosciute indirettamente mediante l’inferenza da altre verità. La logica tratta di questo secondo genere di conoscenza: suo oggetto di studio non è l’intuizione diretta della verità di una determinata proposizione, ma la dimostrazione di una proposizione attraverso altre proposizioni. La giurisdizione della logica deve essere ristretta a quella parte della nostra conoscenza che consiste di inferenze da verità già note in precedenza, siano questi dati antecedenti proposizioni generali, siano osservazioni e percezioni particolari. La logica non è la scienza della credenza, ma della dimostrazione o prova. Nella misura in cui la credenza professa di fondarsi sulla prova, l’ufficio della logica è quello di fornire un criterio per stabilire se la credenza sia o no ben fondata. Con le pretese che ogni proposizione accampa ad essere creduta in base alle prove fornite dalla coscienza, cioè senza prove nel senso autentico della parola, la logica non ha nulla a che fare. […] Anche se il campo della logica ha la stessa estensione del campo della conoscenza, la logica non è la stessa cosa della conoscenza. La logica è il giudice e l’arbitro comune di tutte le ricerche particolari. Non si preoccupa di trovare prove, ma di stabilire se siano state trovate. La logica non osserva né inventa e neanche scopre: la logica giudica. Non rientra negli affari della logica l’informare il chirurgo su quali siano i sintomi di una morte violenta. Il chirurgo deve impararlo dalla propria esperienza e dalla propria osservazione, o da quella di altri, che lo hanno preceduto nelle sue ricerche particolari. Ma la logica giudica se quelle osservazioni e quell’esperienza siano sufficienti a giustificare le regole, e se le prove siano sufficienti a giustificare la sua condotta. Non gli fornisce prove, ma gli insegna che cosa le renda tali, e come le debba giudicare. Il primo passo che Mill affronta è quello di chiarire che cosa sia una «proposizione» del linguaggio. Mill parte dal linguaggio in quanto esso è «uno strumento del 101
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Proposizioni «verbali» e proposizioni «reali»
Logica sillogistica e induzione
T16
Natura e funzione delle proposizioni generali J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva
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pensiero, così come è anche un mezzo di comunicazione dei pensieri»: tutto ciò che può essere oggetto di assenso e di dissenso, quando viene espresso nel linguaggio, assume la forma di una proposizione. Le proposizioni sono formate da almeno due termini: il soggetto e il predicato; ciò su cui si concentra la logica, però, non è il singolo termine, ma la proposizione, perché solo la proposizione può essere vera o falsa: «ogni verità e ogni errore – scrive Mill – risiedono nelle proposizioni». Le proposizioni sono quindi enunciati del linguaggio che possono essere veri o falsi, e possono essere di due tipi: «proposizioni verbali», quelle in cui, come nei giudizi analitici di Kant, il predicato esprime un concetto già contenuto nel soggetto; e «proposizioni reali», quelle in cui, come nei giudizi sintetici di Kant, il predicato esprime un concetto che non è già contenuto nel soggetto. Con le proposizioni reali si ha un reale accrescimento della conoscenza, mentre con le proposizioni verbali non si aggiunge nulla a quanto già conosciuto del soggetto della proposizione. Nella logica tradizionale, il modello di inferenza corretta è la deduzione del sillogismo, con il quale partendo da due premesse, una generale e una particolare, si dimostra una conclusione particolare. La forma più nota di sillogismo è la seguente: «tutti gli uomini sono mortali; e il duca di Wellington è un uomo; dunque il duca di Wellington è mortale». L’inferenza del sillogismo è corretta; tuttavia, sostiene Mill, essa non aggiunge nulla a quanto già affermato nelle premesse. Il problema a cui la logica deduttiva non dà risposta è allora: come sappiamo che le premesse sono vere? La risposta di Mill è che lo sappiamo attraverso l’osservazione costante di casi particolari: è solo attraverso la ripetuta osservazione della morte di singoli uomini che possiamo inferire la proposizione generale «tutti gli uomini sono mortali», la quale ci consente di sintetizzare in una sola espressione un gran numero di osservazioni particolari. Le verità generali si basano dunque su ripetute osservazioni particolari da cui vengono tratte per inferenza induttiva. Mettiamo pure che la proposizione: «Il duca di Wellington è mortale» sia un’inferenza tratta immediatamente dalla proposizione «Tutti gli uomini sono mortali»; ma da dove deriviamo la conoscenza di questa verità generale? Naturalmente dall’osservazione. Ora, tutto quello che l’uomo può osservare sono i casi individuali. Da essi devono essere ricavate, e in essi possono essere di nuovo risolte, tutte le verità generali. Infatti, una verità generale non è altro che un aggregato di verità particolari, un’espressione comprensiva mediante la quale si afferma o si nega simultaneamente un numero indefinito di fatti individuali. Ma una proposizione generale non è semplicemente una forma compendiosa per registrare e conservare nella memoria un gran numero di fatti particolari, che sono stati tutti osservati. La generalizzazione non è un processo di denominazione pura e semplice: è anche un processo di inferenza. Dai casi che abbiamo osservato ci sentiamo autorizzati a concludere che quello che abbiamo trovato vero in quei casi vale per tutti i casi simili, passati presenti e futuri, per numerosi che siano. Allora, grazie a quel prezioso artificio del linguaggio, che ci mette in grado di parlare di molte cose come se fossero una sola, registriamo tutto quello che abbiamo osservato e tutto quello che inferiamo dalle nostre osservazioni, condensandolo in una sola espressione concisa; e così, invece di dover ricordare o comunicare un numero infinito di proposizioni, dobbiamo ricordare o comunicare una proposizione sola. In un solo, breve enunciato, si trovano condensati i risultati di molte osservazioni e di molte inferenze, e le istruzioni per compiere innumerevoli inferenze in casi imprevisti.
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Unità 3 Il positivismo Il primato dell’inferenza induttiva su quella deduttiva
Il problema della giustificazione dell’induzione
Il principio di uniformità della natura
T17
L’assunzione di ogni inferenza induttiva J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva
La giustificazione del principio di uniformità
La vera inferenza, dunque, non è la deduzione dal generale al particolare, perché la proposizione generale è in realtà solo un passaggio intermedio di un’inferenza che va dal particolare al particolare. L’inferenza vera è quindi una induzione dal particolare al particolare: si parte dall’osservazione ripetuta di casi particolari, si inferiscono da essa certe verità generali, e si deducono infine altre verità particolari: «ogni inferenza è da particolari a particolari». Secondo Mill, tutti i generi di conoscenza hanno questa base nell’induzione da casi particolari, e sono perciò di natura empirica. Le stesse proposizioni della geometria e della matematica sono generalizzazioni tratte dall’osservazione ripetuta: «le scienze deduttive o dimostrative – scrive – sono tutte, senza eccezione, scienze induttive e la loro evidenza è quella dell’esperienza». L’induzione è quindi «una generalizzazione dall’esperienza. Essa consiste nell’inferire da alcuni casi singoli in cui si osserva che un fenomeno si verifica, ch’esso si verifica in tutti i casi di una certa classe». Tuttavia, proprio per questa inferenza di una proposizione universale da singoli casi particolari, l’induzione si imbatte nel problema su cui aveva richiamato l’attenzione Hume, giudicandolo insolubile: l’esperienza ci mette, infatti, a disposizione solo un numero limitato di casi, per quanto esso possa essere alto, e non è mai in grado di giustificare il passaggio dai singoli casi osservati a tutti i casi osservabili. Chi ci garantisce, cioè, che dopo aver osservato che il sole è sorto oggi, ed è sorto ieri e l’altro ieri, esso sorgerà ancora domani? O che dopo aver osservato la morte di un uomo e di un altro e un altro ancora, siamo giustificati a dire che tutti gli uomini sono mortali? Mill risponde a questo problema attraverso il ricorso a un principio generale che guida la nostra esperienza e che lo mette in condizione di rifiutare la conclusione scettica di Hume: il principio di uniformità della natura. È perché il corso della natura è uniforme che l’osservazione di un numero limitato di casi è sufficiente a garantire la validità dell’inferenza da una verità particolare a una verità generale, che siamo cioè giustificati a credere che il sole sorgerà ancora domani o che tutti gli uomini sono mortali. In natura, ciò che accade in relazione a un determinato fenomeno in una determinata circostanza accadrà anche in relazione a un fenomeno a esso del tutto simile in una circostanza del tutto simile. Nella stessa dichiarazione di quello che l’induzione è, è implicito un principio, un’assunzione che riguarda il corso della natura e l’ordine dell’universo; vale a dire il principio che in natura esistono cose come casi paralleli; che quello che accade una volta accadrà una seconda volta in circostanze sufficientemente simili, e accadrà non solo una seconda volta, ma tutte le volte che ricorreranno le medesime circostanze. Questa, dico, è un’assunzione implicita in ogni caso d’induzione. E se consultiamo il corso effettivo della natura troviamo che l’assunzione è legittima. Per quanto ne sappiamo, l’universo è costituito in modo tale che tutto quello che è vero in un qualsiasi caso singolo sarà vero in tutti i casi di un certo tipo: la sola difficoltà è quella di trovare quale sia questo tipo. Il principio di uniformità della natura si traduce allora nella validità di una legge universale: la legge di causalità. Secondo Mill, è infatti possibile concepire un ordine e quindi un’uniformità della natura solo se consideriamo la natura retta da leggi universali di carattere causale: «è una legge che ogni evento dipenda da qualche legge». Tuttavia, come emerge anche dal passo sopra riportato, il principio di causalità 103
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e di uniformità è vero, per Mill, perché è esso stesso derivato dall’osservazione della natura: «la più ovvia delle uniformità particolari suggerisce e rende evidente l’uniformità generale, e l’uniformità generale, una volta stabilita, ci permette di dimostrare le altre uniformità particolari dalle quali risulta». L’uniformità della natura è quindi una generalizzazione ottenuta per induzione, la quale serve però a fondare la correttezza di tutte le altre induzioni. A molti commentatori questa è parsa una soluzione compromessa in un imbarazzante circolo vizioso. L’inferenza induttiva
1. Osservazioni particolari (in quantità finita): a) Carlo ha due gambe; b) Michele ha due gambe; c) Anna ha due gambe; [ ………… ] 2. Carlo, Michele, Anna, … sono esseri umani; --------------------------------------------------------------------------3. Ogni essere umano è bipede
Il ‘salto’ logico da 1 e 2 (che riguardano individui particolari) a 3 (che riguarda ogni essere umano) è detto «inferenza induttiva» e secondo Mill può essere giustificato sulla base del principio di «uniformità della natura»
(asserzione generale)
2 Lo studio scientifico del comportamento e della morale
T18
Complessità della scienza sociale J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva
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Le scienze morali e la politica Secondo Mill, le leggi universali causali non valgono solo per gli eventi naturali, ma anche per il comportamento e l’interazione umana, cioè per i fenomeni sociali e in senso lato «morali», dei quali possono darsi una conoscenza scientifica e una previsione certa. Il sesto libro del Sistema di logica è dedicato a quella che Mill chiama la «logica delle scienze morali», che studiano cioè il comportamento umano. Mill si riallaccia esplicitamente a Comte: il metodo delle scienze morali e in particolare della scienza della società, che Comte aveva chiamato sociologia, non è diverso da quello delle scienze naturali; in entrambi i casi si tratta di individuare leggi causali universali, con la differenza che nel caso delle scienze sociali ci saranno più fattori causali da considerare nella formulazione di queste leggi, e sarà quindi più difficile raggiungere la previsione certa dei fenomeni studiati. Per quanto complessi siano i fenomeni [sociali], tutte le loro sequenze e le loro coesistenze risultano dalle leggi degli elementi separati. L’effetto prodotto sui fenomeni sociali da un qualsiasi insieme complesso di circostanze equivale precisamente alla somma degli effetti delle circostanze prese singolarmente […]. Pertanto la scienza sociale (che con un conveniente barbarismo è stata chiamata «sociologia») è una scienza deduttiva; non però secondo il modello della geometria, ma secondo quello delle scienze fisiche più complesse. La scienza sociale inferisce la legge di ciascun effetto dalle leggi di causazione dalle quali quell’effetto dipende; ma non, puramente e semplicemente, dalla legge di una sola causa, come accade nel metodo geometrico, bensì prendendo in considerazione tutte le cause che influenzano congiuntamente l’effetto e componendo le loro leggi l’una con l’altra.
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Leggi universali di carattere causale valgono anche per la mente dell’uomo. Ed è proprio perché vige un ordine causale anche per i fenomeni mentali, che è possibile, secondo Mill, la psicologia, cioè una scienza che ha per scopo la scoperta delle «leggi della mente» ed è quindi in grado di spiegare e prevedere il comportamento umano; un punto su cui Mill è in chiaro dissenso rispetto a Comte, che invece aveva escluso che la psicologia potesse essere considerata una scienza. Causalità La necessità causale in relazione ai fenomeni mentali non è però incompatibile e libero arbitrio con la libertà del volere. La necessità causale implica infatti solo l’uniformità e la prevedibilità del comportamento umano, ma non implica che la causa eserciti una ➥ Laboratorio sul lessico, «coercizione» sull’effetto e nemmeno quello che Mill chiama «fatalismo», cioè Libertà, p. 341 «che sia assolutamente inutile combattere contro quello che sta per accadere». La connessione causale dei fenomeni della mente, «pensieri, volizioni, emozioni e sensazioni», è compatibile con la libertà del volere, se intendiamo quest’ultima come la capacità del soggetto di modificare il proprio carattere e le circostanze che influiscono sulle sue scelte qualora lo voglia. L’individuo umano è libero qualora sia dotato di questa capacità, non è libero se invece ne è privo. La psicologia come scienza
T19
Il sentimento della libertà morale J.S. Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva
In realtà, se esaminiamo la questione da vicino, troveremo che questo sentimento – il sentimento, cioè, della nostra capacità di modificare il nostro carattere se lo vogliamo – è proprio il sentimento di libertà morale del quale siamo consapevoli. Si sente moralmente libera la persona che si rende conto che le sue abitudini e le sue tentazioni non sono i suoi padroni, ma che si rende conto di essere il loro padrone; che anche quando cede ad abitudini e a tentazioni sa che potrebbe resistere; che se desiderasse di sbarazzarsene completamente non sarebbe necessario, per questo, che provasse un desiderio più forte di quello che sa di essere in grado di provare.
Tra le scienze morali, oltre alla sociologia e alla psicologia, rientra l’economia, alla quale Mill dedica un trattato, I principi di economia politica, nel quale vengono riproposti gli esiti che questa disciplina aveva raggiunto a fine Settecento con l’opera dello scozzese Adam Smith (1723-1790) e con la discussione fattane agli inizi dell’Ottocento dagli inglesi Robert Malthus (1766-1834) e David Ricardo (1772-1823). Mill aggiunge qui una distinzione di grande interesse: vengono infatti presentate da una parte le leggi della produzione della ricchezza, le quali sono analoghe alle leggi della fisica, sono cioè necessarie e immodificabili; dall’altra le leggi della distribuzione della ricchezza, le quali non hanno questo carattere di necessità ma dipendono dalle scelte degli uomini. In questo modo Mill può difendere un modello di produzione fondato sul libero mercato e sulla libera concorrenza, incompatibile quindi con ogni intervento statale, e insieme correggere questo modello, che se lasciato a se stesso potrebbe portare a forti disuguaglianze e squilibri sociali, attraverso misure di distribuzione egualitaria del reddito e della proprietà fra le varie classi sociali. In quest’opera, dunque, l’attenzione verso la libertà individuale viene bilanciata dall’attenzione verso la giustizia sociale. La difesa della libertà L’attenzione per la libertà e, insieme, per la giustizia sociale viene poi ribadita individuale nelle opere di carattere più decisamente politico. La difesa della libertà indivi➥ Laboratorio sul lessico, duale è argomento del saggio La libertà, scritto nel 1859 in collaborazione con la Libertà, p. 341 moglie, Harriet Taylor (1807-1858); saggio che può essere considerato un vero e proprio manifesto del liberalismo. La riflessione economica e politica: libertà di mercato e giustizia sociale
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
La tesi principale del saggio, e più in generale del liberalismo, è la necessità della difesa della libertà individuale di fronte all’ingerenza dello Stato e della società. A ogni individuo, secondo Mill, deve essere riconosciuto il diritto di impostare la propria vita come meglio preferisce (il diritto alla «libertà come sviluppo personale e autoperfezionamento»), senza che questo diritto venga minacciato. L’unica ragione che può giustificare l’interferenza da parte della società e dello Stato nella sfera individuale è quella di evitare che venga violata l’eguale libertà degli altri.
T20
Obiettivo di questo saggio è di stabilire un principio molto semplice per regolare con sicurezza i rapporti della società con l’individuo, basati sulla coercizione e il controllo, tanto se i sistemi usati sono la forza fisica sotto forma di sanzioni legali, quanto se la coercizione è quella morale della pubblica opinione. Questo principio è che l’unica ragione per la quale l’umanità è giustificata individualmente o collettivamente se interferisce nella libertà di azione di uno dei suoi membri, è la protezione di se stessa. Che l’unico fine per cui il potere può essere legittimamente esercitato su qualsiasi membro della comunità civile contro il suo volere è quello di prevenire del danno agli altri. Il suo bene personale [ossia dell’individuo], sia fisico che morale, non è giustificazione sufficiente. Egli non può legittimamente essere costretto a fare o ad astenersi dal fare una cosa, perché sarebbe meglio per lui, perché ciò lo renderebbe più felice, perché, nell’opinione altrui, comportarsi così sarebbe saggio o anche giusto. Queste sono buone ragioni per protestare con lui, o per discutere, o per persuaderlo, o per supplicarlo, ma non per costringerlo o per danneggiarlo nel caso ch’egli agisca altrimenti. Per giustificare ciò, è necessario che la condotta dalla quale lo si vuol dissuadere, sia considerata dannosa per altri. Gli unici aspetti della sua condotta per i quali egli si deve sottomettere alla società, sono quelli che riguardano gli altri. Per gli aspetti che riguardano soltanto se stesso, la sua indipendenza, è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sul suo corpo e sulla sua mente, l’individuo è sovrano.
Le libertà fondamentali
Per garantire questo diritto inviolabile di autonomia e di autorealizzazione individuale, lo Stato deve riconoscere ai propri cittadini alcune libertà civili fondamentali, che Mill riassume in tre tipologie generali: 1) la libertà di pensiero, di espressione e di coscienza; 2) la libertà di progettare la vita secondo i propri desideri; 3) la libertà di associazione. Nessuna società è libera se queste libertà fondamentali non sono rispettate.
T21
Questo è il campo proprio della libertà umana. Esso comprende in primo luogo il dominio interiore della coscienza che impone libertà di coscienza nel senso più lato; libertà di pensiero e di sentimento; assoluta libertà di opinione e di giudizio in tutti i campi pratici, speculativi, scientifici, morali o teologici. Può sembrare che la libertà di esprimersi e di pubblicare ricada sotto un principio diverso, poiché essa appartiene a quel lato della condotta umana che riguarda altre persone; ma poiché ha altrettanta importanza della libertà di pensiero, e poiché poggia in gran parte sugli stessi presupposti, praticamente ne è inseparabile. In secondo luogo, il principio esige libertà di intendimenti e di occupazioni; libertà di inquadrare la propria vita secondo il proprio carattere; di fare ciò che piace subendo le conseguenze che possono derivarne: senza impedimenti da par-
La sovranità dell’individuo su se stesso J.S. Mill, La libertà
Le condizioni di una società libera J.S. Mill, La libertà
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Unità 3 Il positivismo
te dei nostri simili, fin tanto che quello che si fa non porta loro alcun danno, anche se essi pensano che la nostra condotta è sciocca, perversa o sbagliata. In terzo luogo, dalla libertà di ogni individuo segue la libertà, entro gli stessi limiti, delle associazioni fra gli individui; libertà di unirsi, per qualsiasi scopo che non comporti danni per i terzi: si presuppone che le persone che si uniscono siano maggiorenni, e non siano forzate o ingannate. Nessuna società, dove queste libertà non siano nell’insieme rispettate, è libera, qualunque sia la sua forma di governo; e nessuna è completamente libera se queste libertà non sono assolute e incondizionate. L’unica libertà che merita questo nome, è quella che ci permette di perseguire il nostro bene a modo nostro, finché non cerchiamo di privare gli altri del loro, o di impedire i loro sforzi per ottenerlo. Ognuno è il guardiano della propria salute, fisica, intellettuale, spirituale. L’umanità è più avvantaggiata se permette che ognuno viva come meglio gli piace, che se costringe ognuno a vivere come sembra giusto agli altri. Democrazia rappresentativa e parità di genere
Un’attenzione analoga per il rispetto dei diritti degli altri viene manifestata da Mill in altri due saggi politici: le Considerazioni sul governo rappresentativo del 1861 e L’asservimento delle donne. Nel primo si affronta il problema del riconoscimento, all’interno dei sistemi democratici, della piena rappresentanza di tutto il corpo elettorale e del diritto della minoranza a non essere costretta e controllata da parte della maggioranza: in una democrazia, scrive, occorre che «tutti vengano rappresentati e non solamente la maggioranza». Nel secondo, in cui propone le tesi elaborate con la moglie, si affronta invece il problema della sottomissione sociale delle donne. Secondo Mill, l’organizzazione sociale tradizionale ha attribuito alla donna una posizione sociale e politica subordinata rispetto all’uomo, da cui la donna si deve emancipare per raggiungere effettive condizioni di parità nei diritti. Parlare di una natura inferiore della donna è per Mill una menzogna: le caratteristiche che vengono indicate da una presunta ‘natura femminile’ non sono un fatto naturale ma artificiale e storico, dipendono da istituzioni sociali ingiuste e da cambiare.
T22
Non servirà a nulla dire che la natura dei due sessi li adatta alle loro funzioni e posizioni attuali, e rende queste giuste per loro. Basandomi sul buon senso e sul modo in cui è costituita la mente umana, io nego che qualcuno conosca o possa conoscere la natura dei due sessi, finché essi sono stati osservati soltanto nelle loro attuali relazioni. Se avessimo mai trovato una società di uomini senza donne, oppure di donne senza uomini, o se fosse esistita una società di uomini e di donne nella quale le donne non fossero state sotto il dominio degli uomini, avremmo forse potuto davvero apprendere qualcosa sulle differenze mentali e morali che possono essere proprie della natura di entrambi. Quella che oggi chiamiamo la natura femminile è qualcosa di assolutamente artificiale – risultato di repressioni coartate per certi versi, e di sollecitazioni innaturali per altri.
Il pregiudizio della ‘natura femminile’
J.S. Mill, L’asservimento delle donne
3 L’etica come «arte pratica»
L’etica All’etica Mill dedica un influente saggio, L’utilitarismo (ma su questo era già intervenuto in due brevi scritti su Bentham). La prima cosa da sottolineare è che, diversamente da Bentham, per Mill l’etica non è una scienza, non rientra tra le 107
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«scienze morali», ma nel campo dell’arte: l’etica è un’«arte pratica». Compito della scienza è la conoscenza dei fatti, compito dell’arte è invece fornire regole di condotta; il linguaggio della scienza è dichiarativo, asserisce verità, il linguaggio dell’arte è prescrittivo, fornisce precetti e indicazioni su come agire. Come Mill aveva già chiarito in uno scritto giovanile, i concetti di «scienza» e «arte» – distinti seppure strettamente connessi – non devono essere confusi.
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Scienza e arte
J.S. Mill, Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica
Scienza e arte: due linguaggi a confronto
Mill e l’utilitarismo di Bentham
T24
I capisaldi dell’utilitarismo J.S. Mill, L’utilitarismo
Importanza di una formazione globale
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Questi due concetti differiscono l’uno dall’altro come l’intelligenza differisce dalla volontà, come il modo indicativo nella grammatica differisce dall’imperativo. L’uno si occupa dei fatti e l’altro dei precetti. La scienza è una raccolta di verità; l’arte è un insieme di regole, o istruzioni di condotta. Il linguaggio della scienza è: Questo è, o questo non è; Questo avviene o non avviene. Il linguaggio dell’arte è: Fa’ questo, evita quest’altro. La scienza prende atto di un fenomeno e si sforza di scoprirne la legge; l’arte si propone un fine e indaga sui mezzi per conseguirlo. Scienza
Arte
– – – – –
– – – – –
descrizione di fatti conoscenza di fenomeni insieme di verità elaborazione di leggi per fare previsioni modo grammaticale indicativo
formulazione di precetti o norme raggiungimento di scopi insieme di regole individuazione dei mezzi per realizzare un fine modo grammaticale imperativo
Il saggio di Mill riprende e corregge la prospettiva utilitarista inaugurata da Jeremy Bentham nel 1789, nell’Introduzione ai principi della morale e della legislazione. L’obiettivo è individuare il «criterio di cosa sia moralmente corretto e moralmente scorretto», e Mill riprende questo criterio proprio dall’utilitarismo di Bentham: un’azione è giusta rispetto ad altre quando produce la massima somma complessiva di felicità per tutti gli individui coinvolti, non lo è quando produce la massima somma complessiva di infelicità per tutti gli individui coinvolti. Come in Bentham, la felicità viene intesa da Mill come il piacere e l’assenza di dolore, l’infelicità come il dolore e l’assenza di piacere, e la felicità è concepita come il bene principale a cui tendere, mentre l’infelicità si presenta come il maggior male da evitare. La dottrina che accetta l’utilità o principio della massima felicità come fondamento della morale sostiene che le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità. Per felicità, si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere. […] Il piacere e la liberazione dal dolore sono le uniche cose desiderabili come fini; e tutte le cose desiderabili (che nello schema utilitarista sono tante quante in tutti gli altri) sono desiderabili o per il piacere insito in esse o come mezzo per promuovere il piacere e prevenire il dolore. Tuttavia, rispetto a Bentham, Mill opera alcune importanti correzioni, che caratterizzano il suo utilitarismo. La prima riguarda la maggiore attenzione posta, da una parte, alle norme e alle regole che devono guidare la condotta, dall’altra al carattere e all’educazione dell’individuo, alla sua autonomia individuale: da que-
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Unità 3 Il positivismo
Mill distingue moralità e convenienza
Le differenti qualità del piacere
T25
Il valore della qualità del piacere
J.S. Mill, L’utilitarismo
Aspetti qualitativi e complessità della misurazione
➥ Sommario, p. 124
st’ultimo punto di vista, la teoria non deve solo garantire, attraverso un rigido sistema di sanzioni, che l’azione compiuta sia quella giusta, ma deve avere di mira la formazione della personalità dell’individuo e la sua educazione. La seconda correzione riguarda invece il rapporto fra moralità e convenienza: nell’utilitarismo di Bentham l’azione che promuove la felicità degli altri è identica a quella che promuove le felicità propria, perché fra gli individui coinvolti dei quali occorre massimizzare la felicità c’è lo stesso soggetto agente; per Mill, invece, un’azione appartiene al campo della moralità solo se riguarda gli altri soggetti, mentre non entra in questo campo la relazione degli individui con se stessi. La sfera della moralità non è identica a quella della convenienza: è morale solo l’azione che promuove la felicità altrui. Tuttavia, la correzione più importante dell’utilitarismo di Bentham riguarda il modo di concepire la felicità e il piacere. Per Bentham, il piacere è uno stato mentale che ha una sola dimensione e si differenzia solo da un punto di vista quantitativo; aspetto che aveva portato ad accusare l’utilitarismo «di essere una dottrina degna soltanto di […] porci». Mill risponde a queste critiche mettendo in evidenza le differenze qualitative dei piaceri. Non si deve considerare cioè solo la quantità ma anche la qualità del piacere prodotto: un’azione sarà migliore di un’altra non solo se produce la massima somma complessiva di un piacere, ma anche se produce un piacere della qualità migliore. I piaceri che riguardano le «facoltà più elevate», i «piaceri mentali» sono in genere superiori rispetto ai piaceri del corpo; il piacere che si prova dal cibo o dal gioco della pulce è qualitativamente inferiore di quello che si prova da una bella musica o da una bella poesia: è meglio essere un uomo insoddisfatto che un maiale soddisfatto. Riconoscere che alcuni tipi di piacere siano più desiderabili e apprezzabili di altri è del tutto compatibile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri dipenda solo dalla quantità, quando invece per valutare tutte le altre cose si prende in considerazione anche la qualità, oltre alla quantità. […] È fuor di dubbio che un essere fornito di scarse capacità di godimento ha maggiori probabilità di appagarle pienamente; mentre un essere altamente dotato sentirà sempre come imperfetta, per come è fatto questo mondo, qualsiasi felicità possa inseguire. Ma può imparare a tollerarne le imperfezioni, purché siano appena tollerabili; ed esse non lo indurranno a invidiare quell’altro essere che, certo, non si accorge delle imperfezioni, ma solo perché non si accorge neanche del bene da loro circoscritto. È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il maiale sono di diverso parere, è perché vedono soltanto una faccia della questione: l’altro termine del nostro raffronto ne conosce tutte e due le facce. Tuttavia, se da un lato il richiamo all’aspetto qualitativo del piacere arricchisce e rende più flessibile l’utilitarismo, dall’altro ne riduce la capacità di calcolo e la precisione nella valutazione delle conseguenze e quindi dell’azione. La considerazione del solo aspetto quantitativo del piacere era ciò che aveva consentito a Bentham di proporre una teoria in grado di misurare con esattezza la quantità di piacere prodotta da un’azione, usando una misura di calcolo unica; da Mill in poi, con l’attenzione a quantità di piacere qualitativamente eterogenee, l’utilitarismo non potrà più fare affidamento su una misura unica e quindi sulla realizzabilità piena del calcolo delle conseguenze. 109
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
L’evoluzionismo: Darwin e Spencer
4 I testi
C. Darwin L’origine delle specie: Il processo della selezione naturale, T26 L’origine dell’uomo e la selezione sessuale: Intelligenza umana e intelligenza animale, T27; La genesi del senso morale, T28
H. Spencer I primi principi: La funzione unificatrice della filosofia, T29; La dinamica dell’evoluzione universale, T30; L’accordo tra scienza oggettiva e religione, T31 Principi di sociologia: L’evoluzione dell’organismo sociale, T32; Peculiarità dell’organismo individuale, T33
Il movimento di pensiero che viene solitamente definito evoluzionismo si sviluppa in Europa nella seconda metà del XIX secolo e può essere considerato una branca e una prosecuzione del più generale movimento positivista. L’evoluzionismo ruota attorno a due importanti figure: uno scienziato, Charles Darwin e un filosofo, Herbert Spencer; ma diviene presto un fenomeno molto esteso, che permea la mentalità e la cultura della società europea della seconda metà dell’Ottocento.
1 Darwin ‘rivoluzionario’
Darwin e l’evoluzione delle specie animali Charles Darwin non è un filosofo, ma un biologo e un naturalista; tuttavia la formulazione delle sua riflessione scientifica, la «teoria dell’evoluzione della specie», ebbe notevolissime conseguenze filosofiche, tanto da essere considerata una vera e propria rivoluzione intellettuale, al pari di quella di Copernico e Galileo.
La vita e le opere Charles Robert Darwin nacque in Inghilterra, a Shrewsbury (Shropshire) nel 1809. Studiò medicina a Edimburgo e teologia a Cambridge. Già suo nonno, il fisiologo Erasmus Darwin (1731-1802), aveva avanzato nella Zoonomia l’idea di una trasformazione delle specie naturali nel tempo. Una volta emersi i suoi interessi per le scienze naturali (stimolati tra l’altro dalle letture del filosofo e naturalista Wilhelm von Humboldt), Darwin partecipò nel 1831 a un viaggio di esplorazione scientifica attorno al mondo a bordo del brigantino Beagle. Nei quasi cinque anni di esplorazioni Darwin eseguì una miriade di osservazioni su flora, fauna e conformazione geologica di diverse parti del globo e raccolse una quantità enorme di materiali di studio. Nel 1839 pubblicò il diario di tale viaggio, con il titolo Viaggio di un naturalista intorno al mondo.
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Negli anni successivi alla spedizione, oltre a pubblicare articoli scientifici su argomenti specifici, Darwin lavorò all’elaborazione della sua originale teoria evoluzionistica, basata sui concetti di «selezione naturale» e di «adattamento all’ambiente». Tale teoria trovò piena espressione nel suo capolavoro, pubblicato nel 1859: L’origine delle specie. L’opera suscitò immediatamente vivacissime polemiche, con toni spesso violenti, sia in ambito scientifico che in ambito teologico. Nel 1868 Darwin pubblicò La variazione degli animali e delle piante allo stato addomesticato e nel 1871 L’origine dell’uomo in cui venne messa a fuoco la teoria della derivazione della specie umana da specie animali inferiori. Con L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) Darwin pose le fondamenta della moderna etologia e della psicologia evoluzionistica. Morì a Down (Kent) nel 1882.
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Unità 3 Il positivismo «Trasformismo» e «fissismo»
La revisione della teoria di Lamarck
La selezione naturale e la lotta per l’esistenza
T26
Il processo della selezione naturale C. Darwin, L’origine delle specie
Nella sua opera più importante L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale, Darwin riprende la tesi di una progressiva trasformazione nel tempo delle specie viventi (il cosiddetto «trasformismo»), già presente nel XVIII secolo e sostenuta agli inizi dell’Ottocento da Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829). Questa tesi si opponeva alla più tradizionale tesi dell’immutabilità nel tempo delle specie (il cosiddetto «fissismo»), sostenuta agli inizi dell’Ottocento da Georges Cuvier (1769-1832), la quale si accordava con il racconto biblico della creazione divina degli animali. Per Lamarck è l’influenza dell’ambiente esterno a spiegare l’evoluzione delle varie specie animali: queste, nel corso delle generazioni, modificano le proprie caratteristiche per garantire un miglior adattamento all’ambiente. Pur richiamandosi al trasformismo, Darwin corregge la teoria di Lamarck: studiando la notevole diversità della flora e dalla fauna presenti nelle isole Galapagos, che pure sono caratterizzate dalle stesse condizioni ambientali, giunge alla conclusione che non è soltanto l’ambiente che determina le modificazioni degli individui della specie. La natura e l’ambiente, anziché incidere direttamente sulle caratteristiche individuali, producono la selezione delle caratteristiche più adatte. Le modificazioni individuali possono essere prodotte non solo per influenza ambientale, ma nei modi più disparati, anche casuali; solo alcune di queste modificazioni, tuttavia, sopravvivono e si tramandano agli individui successivi, e cioè quelle che sono in grado di superare la selezione operata dalla natura. È la cosiddetta teoria della selezione naturale: poiché le risorse naturali non sono sufficienti per tutti, gli individui si trovano in una situazione di continua lotta per l’esistenza (una tesi che Darwin riprende dalla lettura del Saggio sui principi della popolazione dell’economista Thomas Robert Malthus, 1766-1834) e solo quelli più adatti sopravvivono e sono in grado di trasmettere i propri caratteri ai discendenti. C’è quindi una selezione naturale, analoga, ma su una scala immensamente più grande, alla selezione artificiale dell’uomo sugli animali e sulle piante; ed è questa selezione che spiega l’estinzione di alcune specie animali e il sopravvivere e modificarsi nel tempo delle altre. Dal momento che indubbiamente sono avvenute variazioni utili all’uomo, si può dunque ritenere improbabile che altre variazioni in qualche modo utili a ciascun essere, nella grande e complessa battaglia della vita, si presentino nel corso di molte generazioni successive? E se ciò avviene, come possiamo noi dubitare (ricordando che vengono al mondo molti più individui di quanti ne possono sopravvivere) che individui i quali godano di un qualsiasi vantaggio, sia pur minimo, rispetto agli altri, non abbiano una maggiore probabilità di sopravvivere e di riprodursi? D’altra parte possiamo essere sicuri che qualsiasi variazione, anche minimamente nociva, sarà rigorosamente distrutta. La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate selezione naturale o sopravvivenza del più adatto. Le variazioni che non sono né utili né nocive non saranno influenzate dalla selezione naturale, e rimarranno allo stato di elementi fluttuanti, come si può osservare nelle specie dette polimorfe, e infine, si fisseranno, per cause dipendenti dalla natura dell’organismo e da quella delle condizioni. […] Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, 111
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età. La pubblicazione dell’Origine delle specie ebbe grande risonanza e suscitò vivaci polemiche: l’ipotesi che era alla base dell’opera si scontrava con la descrizione biblica della creazione delle specie viventi da parte di Dio (idea che è alla base del cosiddetto «creazionismo», per il quale tutte le specie viventi sono create da Dio e conservano inalterato il proprio carattere); e, dando grande peso alle variazioni casuali delle caratteristiche individuali e alla selezione naturale di individui in perenne lotta per la vita, eliminava ogni riferimento a un ordine finalistico della natura e dei fenomeni biologici. La teoria Dalle polemiche seguite alla pubblicazione dell’Origine delle specie, Darwin fu evoluzionistica motivato a scrivere l’altra sua grande opera, L’origine dell’uomo, nella quale la sull’origine dell’uomo teoria della selezione naturale viene estesa all’uomo stesso. La specie umana non è stata creata direttamente da Dio (sulla cui esistenza Darwin si dichiarò ‘agnostico’), ma deriva dall’evoluzione nel tempo delle specie animali inferiori: è dalla scimmia che è nato l’uomo. La selezione naturale spiega la modificazione fisica dell’uomo rispetto alle scimmie e spiega anche il suo sviluppo intellettuale e morale. Non si riscontra quindi alcuna differenza qualitativa fra l’uomo e gli animali più evoluti, ma solo una differenza di grado, dovuta alla selezione naturale; e ciò non vale soltanto per le caratteristiche fisiche, ma anche per le caratteristiche psichiche e spirituali: «non vi è – scrive Darwin – alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali». La stessa espressione dei sentimenti e delle emozioni, sostiene nell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, attesta questa somiglianza e rivela la loro parentela.
Polemiche e discussioni
T27
Intelligenza umana e intelligenza animale
C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale
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L’uomo presenta nella sua struttura fisica chiare tracce della sua discendenza da qualche forma inferiore; ma si potrebbe tuttavia obiettare che, poiché l’uomo differisce tanto nelle sue facoltà mentali da tutti gli altri animali, vi deve essere qualche errore in questa conclusione. Senza dubbio la differenza a questo riguardo è enorme anche se paragoniamo la mente di uno dei selvaggi inferiori, che non ha parole per esprimere alcun numero superiore al quattro e che usa con difficoltà qualsiasi termine astratto per oggetti comuni o per i sentimenti, con quella della scimmia più altamente organizzata. La differenza senza dubbio rimarrebbe immensa, anche se qualche scimmia superiore fosse stata migliorata e civilizzata quanto un cane lo è stato nei confronti del suo simile: il lupo o lo sciacallo. […] Se nessun altro essere vivente, tranne l’uomo, avesse posseduto una qualche facoltà mentale, o se i suoi poteri fossero stati di natura del tutto diversa da quella degli animali inferiori, allora non saremmo mai stati in grado di convincerci che le nostre elevate facoltà si sono sviluppate gradualmente. Ma si può dimostrare che non vi è nessuna fondamentale differenza di questo genere. Dobbiamo anche ammettere che vi è una differenza molto maggiore di ca-
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Unità 3 Il positivismo
pacità mentale tra uno dei pesci inferiori, come la lampreda o un anfiosso e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo; tuttavia tale differenza è colmata da numerose gradazioni. Conseguenze filosofiche: la nuova immagine dell’uomo
Le conseguenze filosofiche della teoria darwiniana sono enormi: non solo la natura non presenta alcun ordine finalistico e intenzionale, ma l’uomo stesso non può più essere considerato al centro di essa e al centro della creazione: l’uomo è soltanto un animale accidentalmente più evoluto. Con la teoria della selezione naturale, l’uomo perde la centralità nella natura e la natura perde la tradizionale immagine di armonia e semplicità, presentandosi come un insieme complesso e disarmonico. Come ha osservato Antonello La Vergata: Darwin ha liberato l’uomo dalla teleologia non solo perché ha distrutto la credenza nell’armonia necessaria della creazione o perché la selezione naturale rende inutile Dio, ma perché ha contrapposto ad un’immagine unitaria e rassicurante anche per la sua semplicità un’immagine intricata e perfino ambigua: Darwin ha lacerato la cappa che opprimeva e condizionava l’interpretazione della natura entro i termini rigidi e secolari dell’equilibrio indiscusso. Il mondo in cui Darwin ci ha introdotto è un mondo più complicato, la cui complicatezza non può più essere risolta nella semplicità insondabile di una mente divina. In una parola, Darwin ha contribuito in modo decisivo a trasformare l’universo familiare in quello che William James [vedi Unità 7, p. 277] chiamò un «multiverso».
La genesi della moralità
Nell’Origine dell’uomo Darwin affronta anche il problema della genesi della moralità. Il senso e la coscienza morale si presentano come prodotto della simpatia e degli istinti che portano alla lode e al biasimo dei propri simili, sentimenti comuni all’uomo come agli animali più sviluppati, e la cui presenza è frutto della selezione naturale, poiché aumenta la possibilità di superare la lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, solo l’uomo è capace di approvazione e disapprovazione morale, e questa differenza, sebbene non sia sufficiente a stabilire una separazione qualitativa fra uomo e animali, è comunque indice di una distanza nel grado di evoluzione: «di tutte le differenze – scrive Darwin – tra l’uomo e gli animali inferiori, il senso morale o coscienza è di gran lunga la più importante».
T28
È lecito chiedersi come avvenga che, entro i limiti della propria tribù, un gran numero di membri acquisisca per primo queste qualità morali e sociali e come si formi uno standard di eccellenza. […] In primo luogo, mentre le facoltà di ragionamento e di previsione dei membri si perfezionavano, ciascuno doveva imparare rapidamente che, aiutando un suo simile, ne avrebbe generalmente ricevuto aiuto in cambio. Da questo movente meschino egli poteva acquisire l’abitudine di aiutare i suoi simili; e l’abitudine di compiere azioni generose certamente fortifica il senso di simpatia che dà il primo impulso alle azioni generose. Inoltre, le abitudini seguite per più generazioni probabilmente tendono ad essere ereditarie. Ma un altro e più potente stimolo allo sviluppo delle virtù sociali è offerto dalla lode e dal biasimo dei nostri simili. All’istinto di simpatia, come abbiamo già visto, è dovuto in primo luogo il fatto che noi abitualmente concediamo sia lode che biasimo agli altri, mentre amiamo l’una e odiamo l’altro se riferiti a noi. Questo istinto, senza dubbio, fu acquisito in origine, come tutti gli altri istinti sociali, at-
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
traverso la selezione naturale. […] Con l’incremento dell’esperienza e della ragione, l’uomo percepisce le più remote conseguenze delle sue azioni, mentre le virtù riguardanti se stesso, come la temperanza, la castità, ecc., che durante i primi periodi sono del tutto ignorate, giungono ad essere fortemente stimate o anche stimate sacre. […] Infine il nostro senso morale o coscienza diviene un elevato e complesso sentimento, che ha origine negli istinti sociali, largamente guidati dall’approvazione dei nostri simili, regolato dalla ragione, dall’interesse di sé e, in tempi recenti, da profondi sentimenti religiosi, e confermato dall’educazione e dall’abitudine. Applicazioni della teoria in ambito sociale
2 La filosofia come unificazione delle scienze
T29
La funzione unificatrice della filosofia H. Spencer, I primi principi
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Seppure in maniera molto cauta, in quest’opera Darwin estende la selezione naturale anche al contesto storico-sociale, spiegando, alla luce di questa teoria, il colonialismo e la sopraffazione sulle popolazioni indigene. Questa tendenza all’estensione della selezione naturale al contesto storico e sociale, ben oltre gli intenti dello stesso Darwin, ebbe grande diffusione verso la fine del secolo e fu alla base del cosiddetto darwinismo sociale, una corrente di pensiero politico di carattere conservatore, che rifacendosi alle tesi dello scienziato inglese giunse a giustificare la discriminazione delle classi deboli e subalterne, sulla base del fatto che la selezione naturale avrebbe posto in una situazione di predominio solo i ceti più forti e adatti. È chiaramente l’eredità meno interessante della riflessione darwiniana, l’aspetto nel quale essa cessa di essere una teoria scientifica per divenire un’ideologia al servizio della lotta politica.
Spencer e il sistema di filosofia sintetica Herbert Spencer, come viene spesso ripetuto, estende la teoria dell’evoluzione dall’ambito della biologia a quello dell’intera realtà. Egli giunge alla formulazione di una teoria dell’evoluzione prima e in modo indipendente rispetto a Darwin, trovando nell’opera del naturalista inglese solo la conferma delle proprie tesi. Dopo avere affrontato la teoria dell’evoluzione nei suoi scritti giovanili, La Statica sociale e i Principi di psicologia, nella sua opera più importante, I primi principi, Spencer delinea il sistema generale della filosofia evoluzionistica: il «sistema di filosofia sintetica»; così chiamato perché alla filosofia viene attribuito il compito di coordinare e unificare sinteticamente i risultati delle varie scienze. La filosofia è, dunque, concepita come la scienza più generale, la conoscenza del più alto grado di generalità, la quale si pone al vertice del sistema costituito dalle varie scienze (quelle «inorganiche» come la fisica, quelle «organiche» come la biologia e la psicologia, e quelle «superorganiche» come la sociologia e l’etica), e porta a compimento il processo di collegamento e unificazione dei singoli dati di esperienza che dalla conoscenza più comune giunge a quella scientifica. Filosofia può essere ancora propriamente il titolo da applicarsi alla conoscenza della più alta generalità. La Scienza significa semplicemente la famiglia delle Scienze – essa non esprime nulla più che la somma delle cognizioni formate con le loro contribuzioni; e ignora la conoscenza costituita dalla fusione di queste contribuzioni in un tutto. Come l’uso l’ha definita, la Scienza consiste di verità esistenti più o meno separatamente; e non riconosce queste verità come intera-
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Unità 3 Il positivismo
mente integrate. […] Le verità della Filosofia hanno dunque con le più alte verità scientifiche la stessa relazione che ciascuna di queste ha con le verità scientifiche inferiori. Come ogni più ampia generalizzazione della Scienza comprende e consolida le più ristrette generalizzazioni del suo dominio, così le generalizzazioni della Filosofia comprendono e consolidano le più ampie generalizzazioni della Scienza. Perciò la conoscenza che costituisce la Filosofia è nel genere l’estremo opposto di quella che l’esperienza da prima accumula. Essa è il prodotto finale di quel processo che comincia con un semplice collegamento d’imperfette osservazioni, continua elaborando proposizioni che sono sempre più ampie e più separate dai fatti particolari, e termina in proposizioni universali. O per mettere la definizione nella sua forma più semplice e chiara: la Conoscenza d’infima specie è non unificata; la Scienza è una conoscenza parzialmente unificata; la Filosofia è una conoscenza completamente unificata.
La vita e le opere Herbert Spencer nacque a Derby (Inghilterra) nel 1820. Poco più che ventenne abbandonò l’impiego di ingegnere delle ferrovie di Londra per dedicarsi completamente all’attività intellettuale, ricoprendo anche il posto di vicedirettore dell’«Economist». Maturò la sua prima concezione evoluzionistica leggendo i Principi di geologia di Lyell, in cui veniva elaborata una critica all’evoluzionismo di Lamarck. Già in alcuni scritti giovanili Spencer prefigurò la sua teoria generale dell’evoluzione, indipenLa legge generale dell’evoluzione
T30
La dinamica dell’evoluzione universale H. Spencer, I primi principi
dentemente dalle ricerche di Darwin: la Statica sociale (1850) e i Principi di psicologia (1855). Tuttavia fu solo negli anni successivi all’Origine delle specie – e non senza il riferimento all’opera darwiniana e ai risultati ivi contenuti – che la teoria filosofica evoluzionistica di Spencer trovò una sua formulazione piena e sistematica, con la pubblicazione dei Primi principi (1862) e delle successive (imponenti) opere concernenti la biologia, la psicologia, la sociologia, l’etica, la politica. Morì a Brighton nel 1903.
Proprio per questo suo carattere di generalità, la filosofia sintetica individua una legge che vige in tutti gli ambiti della realtà, da quello fisico a quello biologico a quello sociale e culturale (dal sistema solare, agli organismi viventi, alla società, all’arte e al linguaggio): è la legge generale dell’evoluzione. In tutti questi ambiti valgono tre principi comuni e unificanti: l’indistruttibilità della materia, la continuità del movimento e la persistenza della forza; da questi principi può essere ricavato un principio ancora più generale e unificante – la legge dell’evoluzione –, la quale enuncia che in tutti questi ambiti l’evoluzione consiste in una graduale concentrazione della materia (che va da uno stato di dispersione a uno stato di integrazione) e in una conseguente perdita di forza e di moto. L’evoluzione consiste cioè nel formarsi di un ordine che va da forme meno coerenti a forme più coerenti: ogni sistema fisico, biologico, sociale o culturale va dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo. L’evoluzione, nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme meno coerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento e all’integrazione della materia. Questo è il processo universale attraverso cui passano gli esseri sensibili, considerati individualmente e nel loro insieme, nella fase ascendente della loro storia. I fatti provano che tale carattere è ugualmente manifesto sia nei primi mutamenti che si suppone l’Universo abbia subito nel suo complesso, sia negli ultimi mutamenti che ritroviamo nella società e nei prodotti della vita sociale. E dappertutto l’unificazione procede in vari modi simultaneamente. Nell’evoluzione del sistema solare, o di un pianeta, o di un organismo, o di una 115
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nazione, vi è una progressiva aggregazione dell’intera massa. Essa può venir prodotta dalla crescente densità della materia già contenuta in essa o dall’aggiungersi di materia che ne era prima separata oppure da entrambe le cose; ma comporta in ogni caso una perdita di movimento relativo. Nello stesso tempo le parti, nelle quali la materia si è divisa, si consolidano ciascuna al suo interno. Lo constatiamo nella formazione dei pianeti e dei satelliti, sviluppatisi parallelamente alla concentrazione della nebulosa che ha dato origine al sistema solare; lo constatiamo nella crescita di organi distinti, la quale progredisce di pari passo con la crescita di ciascun organismo; lo constatiamo infine nella nascita di particolari centri industriali e di particolari masse di popolazione, che accompagna la nascita di ogni società. In ogni caso un grado più o meno alto di integrazione locale accompagna l’integrazione generale. […] La formula definitiva può essere così stabilita: l’Evoluzione è un’integrazione di materia e una concomitante dissipazione di movimento, durante la quale la materia passa da un’omogeneità relativamente indefinita e incoerente a un’eterogeneità relativamente definita e coerente, e durante la quale il moto trattenuto subisce una trasformazione parallela. L’alternanza di evoluzione e dissoluzione
I limiti della conoscenza umana
L’Inconoscibile e il rapporto tra scienza e religione
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Come in Comte, anche in Spencer si è di fronte a un atteggiamento sistematico che, sotto la veste della teoria scientifica, giunge alla formulazione di una vera e propria filosofia della storia. Nella storia, comunque, non si assiste solo all’evoluzione, in essa si riscontra piuttosto un’alternanza ritmica fra fasi di evoluzione e fasi di dissoluzione, ma queste ultime avranno necessariamente come conseguenza ulteriori fasi di evoluzione, governate dalla loro legge. Rimane dunque, nell’opera di Spencer, un’impronta generale di ottimismo e di fiducia nel progresso: per l’uomo, scrive, «l’evoluzione può terminare […] solo con lo stabilirsi della più grande perfezione e della più completa felicità». Secondo Spencer, comunque, la scienza e la filosofia non esauriscono la conoscenza della realtà. Una parte della realtà resta inevitabilmente fuori della possibilità della conoscenza umana, rimane sempre cioè una parte di mistero: «la spiegazione di ciò che è esplicabile non mostra altro, e con la più grande chiarezza, che l’inesplicabilità di ciò che rimane». L’essenza della realtà, la realtà ultima, rimane inconoscibile all’uomo; la scienza confina con l’Inconoscibile: «più di ogni altro – scrive – lo scienziato sa con sicurezza che nulla può essere conosciuto nella sua ultima essenza». Questo fatto, la presenza dell’Inconoscibile, non è colto dalla scienza ma dalla religione, la quale ha a che fare col Mistero che rimane fuori dalla possibilità della conoscenza umana; inoltre solo la religione comprende che questo Mistero non è inerte, ma esercita la sua forza e il suo potere su tutti i fenomeni sensibili. Le religioni storiche, tuttavia, hanno preteso di determinare simbolicamente questo mistero, ma questa pretesa sarà abbandonata dalla religione evoluta, che riconoscerà il Mistero come non conoscibile e non determinabile. Dunque, per Spencer, la scienza si occupa del conoscibile e del relativo, la religione si occupa dell’inconoscibile e dell’assoluto: scienza e religione non sono quindi in contrasto, ma sono conciliabili l’una con l’altra e addirittura correlative: «come il polo positivo e il polo negativo del pensiero: uno non può crescere in intensità senza aumentare l’intensità dell’altro». Scrive Spencer nella prima parte dei Primi principi, intitolata L’Inconoscibile:
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Unità 3 Il positivismo
T31
L’accordo tra scienza oggettiva e religione H. Spencer, I primi principi
3 Le opere di approfondimento scientifico
Conciliazione tra Lamarck e Darwin
Psicologia ed ereditarietà
Il Senso Comune afferma l’esistenza di una realtà; la Scienza Oggettiva prova che questa realtà non può essere ciò che noi pensiamo che sia; la Scienza soggettiva mostra perché non possiamo pensarla quale essa è, e perché tuttavia siamo costretti a pensarla come esistente; e in questa affermazione di una Realtà affatto inscrutabile nella natura, la Religione trova un’affermazione che essenzialmente coincide con la sua. Noi siamo obbligati a considerare ogni fenomeno come una manifestazione di un Potere che agisce su di noi; sebbene L’Onnipresenza sia inintelligibile, pure, siccome l’esperienza non discopre alcun limite alla diffusione dei fenomeni, noi siamo incapaci di pensare che vi siano limiti alla presenza di questo Potere; mentre le critiche alla Scienza ci insegnano che questo Potere è Incomprensibile. E questa coscienza di un Potere Incomprensibile, detto Onnipresente per l’impossibilità in cui siamo di assegnargli limiti, è precisamente quella coscienza su cui si fonda la Religione.
Spencer e i principi delle scienze La scienza non può quindi esaurire la possibilità della conoscenza umana, ma ad essa è comunque riservato da Spencer un ruolo fondamentale. Le singole scienze costituiscono le varie parti del sistema di filosofia sintetica, nelle quali si esplicita la legge generale dell’evoluzione; e proprio all’elaborazione di alcune di esse Spencer dedica le sue maggiori opere successive ai Primi principi: i due volumi dei Principi di biologia (1864-1867), la nuova stesura in due volumi dei Principi di psicologia (1870-1872), i tre volumi dei Principi di sociologia (18761896) e i cinque volumi dei Principi di etica (1879-1893). I Principi di biologia cercano di conciliare le tesi di Lamarck con quelle di Darwin: l’evoluzione consiste nel sempre più efficace adattamento degli organismi all’ambiente esterno, che porta a una sempre maggiore differenziazione degli organi. La selezione naturale determina poi quali individui avranno raggiunto il migliore adattamento ambientale e quindi sopravviveranno, consentendo così di trasmettere ereditariamente i propri caratteri ai membri della specie. Un riferimento analogo alla legge dell’evoluzione viene fatto da Spencer anche nei Principi di psicologia, nei quali difende, contro Comte, le possibilità della psicologia come scienza. La psicologia può essere di due tipi: lo studio della base materiale e biologica dei fenomeni psichici, che Spencer chiama «psicologia oggettiva», e lo studio introspettivo della mente umana, o «psicologia soggettiva». Essa coglie lo sviluppo dei processi del pensiero caratterizzato da un sempre più efficace adattamento all’ambiente esterno: dalle prime fasi fino alle manifestazioni più evolute della ragione; e coglie anche la presenza nella coscienza individuale di elementi a priori, che, come in Kant, non derivano dalle particolari esperienze dell’individuo ma che, diversamente da Kant, non sono necessariamente validi e immutabili. Gli elementi a priori della coscienza vengono infatti, secondo Spencer, trasmessi ereditariamente dall’evoluzione della propria specie: ciò che è a priori per l’individuo è a posteriori per la specie, perché esso si accumula dopo lunghe e ripetute esperienze, ma viene poi trasmesso ereditariamente e l’individuo se lo ritrova al momento della nascita come un’acquisizione innata e indipendente dalle sue esperienze. 117
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La sociologia e l’organismo sociale
T32
L’evoluzione dell’organismo sociale H. Spencer, Principi di sociologia
Organismo individuale e organismo sociale
T33
Peculiarità dell’organismo individuale H. Spencer, Principi di sociologia
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Se la biologia e la psicologia hanno a che fare con l’evoluzione «organica», la sociologia, a cui Spencer dedica i Principi di sociologia, analizza l’evoluzione «superorganica». La società è concepita da Spencer come un organismo analogo a un organismo individuale ed è retta dalla medesima legge di evoluzione che si riscontra in tutti gli altri campi della realtà: evolve da società omogenee e indefinite in cui i ruoli e le funzioni sociali non sono differenziati, come nelle antiche società tribali, a società sempre più eterogenee, definite e coerenti, caratterizzate da una sempre maggiore differenziazione e interdipendenza dei ruoli, come nelle moderne società industriali. L’evoluzione sociale è una parte dell’evoluzione complessiva. Come tutti gli aggregati in evoluzione, le società presentano il carattere dell’integrazione, sia per semplice accrescimento della massa sia per unione e riunione di più masse. Il passaggio dall’omogeneità alla eterogeneità presenta una gran quantità di esempi, dalla semplice tribù, eguale in tutte le parti, fino alla nazione civilizzata, colma di differenze strutturali e funzionali. Col crescere dell’integrazione e dell’eterogeneità cresce la coerenza. Vediamo che i gruppi erranti si disperdono, si dividono, non sono tenuti insieme da alcun legame; la tribù ha parti rese più coerenti dalla subordinazione a un dominatore; il gruppo di tribù è unito in un complesso politico sotto un capo supremo e capi subalterni, e così via fino alla nazione civile, abbastanza consolidata per tenersi unita per un migliaio di anni o anche più. Contemporaneamente cresce la definitezza. L’organizzazione sociale è dapprima vaga; il progresso porta ordinamenti stabili che lentamente diventano più precisi; i costumi si trasformano in leggi che, acquistando rigidità, diventano anche più specifiche nella loro applicazione ai vari tipi di azioni; e tutte le istituzioni, dapprima confusamente mescolate fra di loro, si separano lentamente, mentre in ciascuna di esse si delineano con maggior evidenza le strutture componenti. Viene così soddisfatta, sotto ogni riguardo, la formula dell’evoluzione: vi è un progresso verso una dimensione, una coerenza, una multiformità e una definitezza maggiore. Tuttavia, l’analogia fra organismo individuale e organismo sociale ha dei limiti. L’organismo individuale è, infatti, composto da parti contigue e non separate, mentre l’organismo sociale è composto da parti discrete – gli individui – che sono separati fisicamente e dotati di una propria esistenza indipendente. Per questo motivo l’evoluzione della società viene detta da Spencer «superorganica» e viene distinta e considerata superiore rispetto all’evoluzione organica: l’evoluzione dell’organismo sociale tende non solo alla differenziazione e all’eterogeneità funzionale, ma anche a una sempre maggiore indipendenza degli individui rispetto alla società. L’evoluzione porta quindi a una sempre maggiore autonomia degli individui. Contrastare questa tendenza spontanea attraverso l’intervento statale sarebbe un errore che è assolutamente da evitare. Dopo aver esaminato le somiglianze tra l’organismo sociale e quello individuale, dobbiamo ora passare a una completa diversità. Le parti di un animale formano un tutto concreto; le parti di una società formano un tutto discreto. Mentre le unità viventi che compongono il primo sono unite insieme in uno stretto contatto, le unità viventi che compongono il secondo sono libere, senza contatto, e più o meno ampiamente disperse. […]
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Unità 3 Il positivismo
Bisogna inoltre tener conto di un’altra fondamentale differenza fra i due tipi di organismo. Nell’organismo vivente la coscienza è concentrata in una piccola parte del corpo. In quello sociale è invece diffusa attraverso l’intero aggregato: tutte le unità possiedono la facoltà di provare piacere e dolore, se non in egual grado, almeno in gradi che si approssimano. Dal momento che non c’è un sensorio sociale, il benessere dell’aggregato, considerato come qualcosa di separato da quello delle singole unità, non è un fine da perseguire. La società esiste in funzione dei suoi membri, non già i membri in funzione della società. Si deve perciò sempre ricordare che, per quanto grandi possano essere gli sforzi compiuti in vista della prosperità del corpo politico, tuttavia i diritti del corpo politico non sono nulla in se stessi, ma diventano qualcosa soltanto nella misura in cui incorporano i diritti dei singoli individui che lo compongono. Verso una società di tipo liberale
Spencer conservatore
L’etica evoluzionistica
L’evoluzione della morale e il superamento del dovere
L’evoluzione della società va quindi verso una limitazione sempre maggiore dei poteri dello Stato e verso il riconoscimento dell’autonomia del singolo, e si assiste al passaggio da società di carattere ‘militare’, che hanno per scopo la guerra e la conquista e in cui l’individuo è sottoposto al potere del sovrano, a società di carattere ‘industriale’, che hanno per scopo la produzione e il benessere dei membri della società, e in cui l’individuo è, e sarà sempre più nel futuro, indipendente rispetto al potere dello Stato. La direzione dell’evoluzione sociale viene quindi fatta coincidere da Spencer con una società di carattere liberale, che pone limiti all’interferenza dello Stato, e che si identifica con la società industriale. Spencer fa quindi propria un’impostazione politica che si richiama al liberalismo; un’impostazione analoga a quella di Mill, anche se di carattere più marcatamente conservatore. Il carattere conservatore del liberalismo di Spencer emerge anche nel saggio del 1884, L’uomo contro lo Stato, nel quale viene respinta ogni forma di tutela delle condizioni di vita dei lavoratori e ogni intervento pubblico in materia di assistenza sanitaria e istruzione, e, ponendo discredito sui meccanismi della rappresentanza democratica, viene considerato il Parlamento, anziché il sovrano, il potere di fronte al quale deve essere difesa la libertà individuale. Oltre alla sociologia, fra le scienze che hanno a che fare con l’interazione umana rientra anche l’etica, a cui Spencer dedica i Principi di etica; un aspetto su cui Spencer si distacca da Mill, che invece ritiene l’etica un’arte pratica e non una scienza. Ciò che consente la fondazione scientifica dell’etica è proprio la legge dell’evoluzione: ciò che è bene coincide infatti, per Spencer, con l’esito dell’evoluzione. Poiché l’evoluzione tende verso un sempre migliore adattamento dell’uomo alle proprie condizioni di vita, cioè verso una vita più intensa e ricca, verso la felicità, la felicità deve essere considerata il bene principale, conformemente a quanto sostenuto dall’utilitarismo, a cui Spencer si richiama. Avendo una conoscenza scientifica dell’evoluzione si può quindi avere una conoscenza scientifica di ciò che è bene e male, di ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare. Inoltre, anche nel campo della morale si assiste a un’evoluzione da forme di moralità meno complesse a forme di moralità più complesse e progredite. L’evoluzione morale finirà per condurre, secondo Spencer, a una radicale trasformazione della moralità comune, e farà venire meno la stessa nozione di dovere e di obbligo morale, nata originariamente allo scopo di garantire un migliore adattamento all’ambiente. Fare ciò che è bene non sarà più qualcosa a cui l’individuo è costretto e obbligato: «col completo adattamento allo stato sociale – scrive Spencer –, quell’elemento della coscienza morale, che è espresso dalla parola 119
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Etica «assoluta» ed etica «relativa»
Etica e adattamento
Huxley e lo ‘scarto’ tra natura e morale
➥ Sommario, p. 124
Altri esponenti del positivismo
5 Esponenti del positivismo francese in ambiti diversi
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obbligo, scomparirà del tutto. Le azioni più elevate, richieste per lo svolgimento armonico della vita, saranno fatti così comuni come lo sono ora quelle azioni inferiori a cui ci spinge il semplice desiderio». Questo avverrà in quella che Spencer chiama l’«etica assoluta», a cui l’umanità giungerà al termine dell’evoluzione, e che tratta i principi dell’uomo perfetto e ideale: in essa il bene del singolo coincide con il bene altrui; ma l’«etica assoluta» non è ancora possibile nella fase dell’«etica relativa», che è l’etica comune, quella degli individui reali e storici, che non sono al termine dell’evoluzione ma solo a un suo stadio intermedio, e nella quale l’altruismo si scontra ancora con l’egoismo. Questa stretta relazione fra evoluzione ed etica porta Spencer su posizioni estremamente conservatrici. Il risultato dell’evoluzione viene infatti ritenuto di per se stesso giusto, e ciò conduce alla giustificazione delle condizioni sociali vigenti. Come aveva già scritto nel suo primo saggio, Statica sociale, gli uomini «se sono abbastanza perfetti per vivere, vivono, ed è bene che vivano. Se non sono abbastanza perfetti per vivere, muoiono, ed è meglio che muoiano». Una relazione così stretta fra evoluzione e morale viene invece rifiutata da un altro filosofo evoluzionista, Thomas Huxley (1825-1895), che nel testo del 1893, Evoluzione ed etica, sviluppa le tesi darwiniane in ambito etico: l’uomo è sì parte della natura e condivide con le altre specie l’evoluzione per selezione naturale, ma questo non comporta che tutto ciò a cui giunge il meccanismo della selezione naturale sia di per sé buono e giusto. Fra natura e morale rimane cioè una distanza: la morale è un ‘artificio’ dell’uomo, che si distacca progressivamente dalla natura. «Sospetto – scrive Huxley – che l’errore sia dovuto all’infelice ambiguità insita nell’espressione “sopravvivenza del più adatto”: “il più adatto” può sembrare sinonimo di “migliore di tutti”, il che sa di connotazione morale».
Il positivismo francese non è solo quello di Saint-Simon e di Comte. Fra i suoi esponenti si possono citare alcuni allievi di Comte, come Émile Littré (18011881) e Pierre Laffitte (1823-1903), e alcuni intellettuali di grande fama, che non furono direttamente filosofi, ma ripresero e rielaborarono, ognuno nel proprio campo, le idee positivistiche: il grande storico Ernest Renan, un personaggio come Hyppolite Taine e il medico Claude Bernard. Renan (1823-1892), che verrà letto avidamente anche da Nietzsche, lavora sulla storia delle religioni ebraiche e cristiane (Vita di Gesù, 1863; Storia del popolo d’Israele, 1887-1893) e applica allo studio delle religioni l’attenzione positivistica al fatto concreto e storico, privando gli eventi religiosi di ogni connotato soprannaturale. Taine (1828-1893) è autore dei Filosofi francesi del secolo XIX (1857), di una Storia della letteratura inglese (1863), della Filosofia dell’arte (1865); egli ritiene che ogni opera d’arte sia il prodotto necessario dell’ambiente sociale e del particolare periodo storico in cui si inserisce, e, fortemente critico
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Unità 3 Il positivismo
La tradizione inglese
Il positivismo tedesco: Moleschott, Vogt, Häckel
La nascita della psicologia scientifica in Germania
della tradizione filosofica di carattere spiritualista, si riallaccia esplicitamente alla tradizione empiristica e illuministica. Bernard (1813-1878) è invece il padre fondatore della moderna medicina sperimentale (Introduzione allo studio della medicina sperimentale, 1865), di una medicina cioè basata sullo studio dell’organismo, che non si accontenta però di conoscere le leggi dell’organismo per prevederne il comportamento (come fa invece quella che Bernard chiama la «medicina di osservazione»), ma che vuole piuttosto modificare e correggere questo comportamento. A questo scopo, essa procede attraverso la conferma empirica delle ipotesi e delle congetture e attraverso la «conoscenza sperimentale dei fenomeni»: «diagnosi, prognosi e terapia sono ipotesi e vanno provate nelle loro conseguenze per accertarsi se corrispondano o no ai fatti». In Inghilterra il movimento positivistico si riallaccia alla tradizione illuministica, empiristica e utilitaristica di fine Settecento. Una figura fondamentale di raccordo fra la tradizione illuministica e il movimento positivista fu il padre di John Stuart Mill, James Mill (1773-1836), filosofo utilitarista, di origini scozzesi, stretto amico di Bentham (con cui fondò la «Westminster Review») e di Ricardo. Autore di un trattato di economia politica (Elementi di economia politica, 1820), di numerosi saggi di carattere politico (fra cui la voce Governo per l’Enciclopedia britannica, 1825), e di un’opera di filosofia della percezione, l’Analisi dei fenomeni della mente umana (1829), James Mill, distaccandosi da Bentham, da cui pure trae ispirazione, separa il piacere dalla felicità, che viene considerata una forma di piacere più alto e raffinato (una tesi che sarà poi sviluppata dal figlio). La felicità è ritenuta il movente principale delle azioni umane, ma questa sensazione è capace di dar luogo non solo ad azioni egoistiche ma anche ad azioni altruistiche e disinteressate. «Mio padre – scrisse John Stuart Mill nella sua Autobiografia – fu il primo inglese di grande valore che comprese perfettamente e adottò nel loro complesso le concezioni generali di Bentham sull’etica, sullo Stato e sulla legislazione». Come si è accennato, il movimento positivistico si diffonde anche in Germania e Italia, sebbene con ritardo rispetto a Francia e Inghilterra, anche per una maggiore arretratezza sociale e politica di questi Paesi, allora parcellizzati in tanti piccoli Stati, ancora poco industrializzati. In Germania, il positivismo assume, in reazione all’idealismo, i caratteri del materialismo, riconducendo ogni elemento ideale e spirituale all’unica realtà materiale, retta da leggi meccaniche. I suoi maggiori esponenti sono il fisiologo Jakob Moleschott (1822-1893), autore della Circolazione della vita (1852), lo zoologo Karl Vogt (1817-1895), che nelle Lettere fisiologiche scritte a partire dal 1845, sostiene la completa dipendenza della mente dal cervello: «tutte quelle capacità che noi comprendiamo sotto il nome di attività psichiche sono solo funzioni del cervello; o per esprimerci in modo alquanto grossolano […] i pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cervello della bile rispetto al fegato o dell’urina rispetto ai reni»; e ancora lo zoologo Ernst Häckel (1834-1919) che, nella Morfologia generale degli organismi (1866), sostiene la teoria darwiniana dell’evoluzione, e negli Enigmi del mondo (1899) un rigido materialismo monistico. Il movimento positivistico tedesco è sostenuto anche da importanti psicologi, che contribuiscono in questi anni alla formazione della psicologia scientifica, cioè di una disciplina dotata di un proprio statuto epistemologico e pienamente autonoma rispetto alla filosofia. Secondo Ernst Heinrich Weber (1795-1878), Gustav 121
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Il positivismo in Italia: Cattaneo
Ardigò e il suo peculiare evoluzionismo
Lombroso e la psicologia criminale
➥ Sommario, p. 124
Theodor Fechner (1801-1887) e Wilhelm Wundt (1832-1920), la psicologia studia i fatti psichici non solo attraverso l’introspezione, ma nello stesso modo in cui le altre scienze studiano i fatti naturali, cioè attraverso la sperimentazione e l’impiego di strumenti di laboratorio, e come le altre scienze ha come scopo la ricerca delle leggi esplicative dei fenomeni osservati. In Italia il movimento positivistico riesce ad affermarsi solo nella seconda metà dell’Ottocento, favorito dalla generale diffusione della cultura laica che il nuovo Stato nazionale oppone all’egemonia della Chiesa cattolica. Il primo filosofo a richiamarsi alle tematiche tipiche del positivismo è Carlo Cattaneo (1801-1869), che nel suo Corso di filosofia, pubblicato postumo, polemizza contro un modo di fare filosofia che non tenga conto dei fatti e delle leggi accertate dalle scienze: la filosofia deve invece essere «sperimentale», non potendo prescindere dai risultati e dal metodo delle scienze sperimentali. Il principale esponente del positivismo italiano è Roberto Ardigò (1828-1920), ex sacerdote, professore all’università di Padova, che in varie opere (La psicologia come scienza positiva, 1870; La morale dei positivisti, 1879; La scienza dell’educazione, 1893; La dottrina spenceriana dell’inconoscibile, 1899) accoglie e rielabora le tesi di Spencer sull’evoluzione della realtà. Ardigò individua una legge generale che guida l’evoluzione di ogni aspetto della realtà; ma se per Spencer, come abbiamo visto a p. 115, l’evoluzione va dall’omogeneo all’eterogeneo, per il filosofo italiano essa procede dall’indistinto al distinto, secondo quanto testimoniato dallo sviluppo delle sensazioni della psiche umana. Le sensazioni iniziali sono infatti indifferenziate; solo successivamente vengono percepite le distinzioni, prima fra tutte quella tra io e mondo. Inoltre, ancora a differenza di Spencer, Ardigò nega che al di là della scienza si possa parlare di una dimensione inconoscibile: l’inconoscibile è per Ardigò solo ciò che è temporaneamente ignoto, ma che può diventare noto, in linea di principio, con lo sviluppo della conoscenza scientifica. Oltre ad Ardigò, fra gli esponenti del positivismo italiano, può essere ricordato lo psichiatra Cesare Lombroso (1836-1909), che studia la psicologia criminale (L’uomo delinquente, 1876) e ritiene che i comportamenti criminali siano completamente determinati dalle caratteristiche fisiologiche dell’individuo, le quali si rivelano nella configurazione anatomica del cranio («i criminali non delinquono per un atto cosciente e libero di volontà malvagia, ma perché hanno tendenze malvagie, tendenze che ripetono la loro origine da una organizzazione fisica e psichica diversa da quella normale»).
Suggerimenti bibliografici Per un esauriente inquadramento storico del positivismo ottocentesco e dei mutamenti sociali che gli fecero da sfondo si può vedere la raccolta di saggi a cura di P. Rossi, Positivismo e società industriale, Loescher, Torino 1973 e il saggio di W.M. Simon, Il positivismo europeo nel XIX secolo, il Mulino, Bologna 1980. Una introduzione di taglio più teorico al positivismo è offerta nel lavoro di L. Lolakowsi, La filosofia del positivismo, Laterza, Roma-Bari 1974. Anche il saggio di S. Poggi, Introduzione al positivismo, Laterza, Roma-Bari 1987, offre una panoramica completa di questa corrente filosofica, con numerosi riferimenti alla nascita della psicologia scientifica. Per chi voglia accostarsi al pensiero di Comte, un’esposizione lineare ed esauriente è offerta dal testo di A. Negri, Introduzione a Comte, Laterza, Roma-Bari 1997. Per chi invece sia interessato in
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Unità 3 Il positivismo maniera più specifica alla filosofia della storia elaborata da Comte e alla religione positiva da lui promossa sono da segnalare i saggi di O. Negt, Hegel e Comte, il Mulino, Bologna 1975 e di F. Manuel, I profeti di Parigi, il Mulino, Bologna 1979. Sul pensiero etico-politico di Mill sono da vedere i lavori di C. Cressati, La libertà e le sue garanzie. Il pensiero politico di J.S. Mill, il Mulino, Bologna 1988; M.T. Picchetto, Verso un nuovo liberalismo. Le proposte politiche e sociali di John Stuart Mill, Franco Angeli, Milano 1996; N. Urbinati, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Laterza, RomaBari 2006. Di taglio più marcatamente epistemologico è invece il lavoro di G. Frongia, John Stuart Mill e il metodo scientifico, E.S.I., Napoli 1984. Una buona introduzione generale all’opera di Darwin e alla sua figura storica è offerta nei saggi di G. Montalenti, Ch. Darwin, Editori Riuniti, Roma 1982 e di A. Desmond - J. Moore, Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Sul darwinismo e i suoi sviluppi sia in ambito naturalistico che in ambito filosofico è da segnalare il lavoro di A. La Vergata, L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo, Morano, Napoli 1990. In E. Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994 si può trovare una dettagliata ricostruzione delle tappe fondamentali che hanno portato alla formulazione della teoria evoluzionista darwiniana. Sulle filosofie della storia di impianto evoluzionistico e progressista segnaliamo i saggi di M. Toscano, Malgrado la storia. Per una lettura critica di H. Spencer, Feltrinelli, Milano 1980 e di G. Lanaro, L’evoluzione, il progresso, la società industriale, La Nuova Italia, Firenze 1997.
I brani antologizzati sono tratti da: C.-H. de Saint-Simon, Memoria sulla scienza dell’uomo, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, p. 59. A. Comte, Corso di filosofia positiva, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, vol. 1: pp. 154 (T2), pp. 155-156 (T6), p. 162 (T8), p. 164 (T7); vol. 4: p. 153 (T12), p. 178 (T9), pp. 180-181 e 183 (T10), p. 186 (T10). A. Comte, Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, cit.: pp. 149 e 154 (T3), pp. 149 e 155 (T4), pp. 150 e 155 (T5). A. Comte, Considerazioni filosofiche sulle scienze e i sapienti, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973. A. Comte, Sistema di politica positiva, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, vol. 1: pp. 215-216 (T14); vol. 3: p. 213 (T13). J. Stuart Mill, Sistema di logica deduttiva e induttiva, UTET, Torino 1988, pp. 60-61 (T15), pp. 281-282 (T16), p. 434 (T17), p. 1120 (T19), p. 1187 (T18). J. Stuart Mill, La libertà. L’utilitarismo. L’asservimento delle donne, Rizzoli, Milano 1999: p. 75 (T20), pp. 78-80 (T21), p. 241 (T24), pp. 243 e 245 (T26), p. 263 (T25), pp. 361-362 (T22). J. Stuart Mill, Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politica, Isedi, Milano 1976, pp. 105-106. C. Darwin, L’origine delle specie, Newton, Roma 2000, pp. 100 e 102. C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton, Roma 2003, p. 67 (T28), pp. 113114 (T29). H. Spencer, I primi principi, Bocca, Torino 1901: p. 69 (T32), pp. 98-100 (T30), pp. 252 e 307 (T31). H. Spencer, Principi di sociologia, UTET, Torino 1967: pp. 564 e 568 (T34), pp. 693-694 (T33). Il brano di L. Geymont citato a p. 89 è tratto da Storia del pensiero filosofico e scientifico, 4, L’Ottocento, 1, pp. 366-367. Il brano di A. La Vergata citato a p. 113 è tratto da L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo, cit., p. 16.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Sommario 1. LA
FILOSOFIA DEL POSITIVISMO
La corrente culturale e intellettuale del «positivismo» caratterizza gran parte del pensiero ottocentesco europeo e si configura come la prosecuzione dell’Illuminismo settecentesco. Il termine «positivo» assume negli autori che si riconoscono in tale corrente la connotazione di «concreto», «aderente ai fatti», in quanto contrapposto a «speculativo» o «astratto». La filosofia del positivismo, pur nelle sue forme estremamente variegate, riflette sulle varie scienze empiriche particolari e sulla possibilità di una loro unificazione sistematica, per controllare la realtà e migliorare le condizioni di vita della società.
ne sono i tre diritti fondamentali e inalienabili di ogni individuo. [par. 2] Mill riprende infine l’utilitarismo di Bentham: un’azione è giusta rispetto ad altre azioni quando produce la massima somma complessiva di felicità per tutti gli individui coinvolti. [par. 3] 4. L’EVOLUZIONISMO: DARWIN
E
SPENCER
Assieme a Saint-Simon, Comte è uno dei padri fondatori della filosofia positivista. La sua riflessione, fortemente sistematica, investe tanto le scienze empiriche particolari, quanto la filosofia, nell’ambito di un grande progetto riformatore dell’uomo e della società. Da un punto di vista epistemologico, Comte ritiene che il cammino conoscitivo, sia dell’umanità sia del singolo individuo, si lasci descrivere dalla legge dei tre stadi, secondo cui al primo stadio – detto «teologico» – segue un secondo stadio, «metafisico», e un ultimo, «positivo». [par. 1] Il «sistema delle scienze» teorizzato da Comte – in cui le singole discipline sono ordinate in base al grado di complessità dei fenomeni che studiano – culmina nella sociologia, o fisica sociale, che egli si propone di sviluppare in modo rigoroso attraverso l’individuazione di leggi della società. [parr. 2-3] Negli scritti più tardi Comte teorizza l’opportunità di introdurre una religione positiva, basata sul culto della scienza. [par. 3]
L’evoluzionismo è una corrente di pensiero trasversale rispetto a diverse discipline che si sviluppa, nella seconda metà dell’Ottocento, attorno al lavoro di due grandi intellettuali inglesi: lo scienziato naturalista Darwin e il filosofo Spencer. La teoria darwiniana della selezione naturale – che costituisce il nucleo dell’evoluzionismo darwiniano – sostiene che le specie animali evolvono attraverso la selezione naturale delle specie in grado di adattarsi all’ambiente circostante: sopravvive, così, solo chi è più adatto. La teoria della «sopravvivenza del più adatto» si presta subito a letture di tipo politico-conservatore, che costituiscono il darwinismo sociale. La riflessione di Darwin sull’essere umano sottolinea poi la sostanziale continuità – sia somatica che psichica – con il mondo dei primati e degli animali in genere. [par. 1] Su un piano più generale si muove la riflessione di Spencer, che guarda alla filosofia come a un sapere ‘sintetico’ il cui ruolo è quello di unificare le varie scienze particolari. Egli elabora la legge generale dell’evoluzione, la quale investe ogni aspetto della realtà asserendo che ogni sistema è caratterizzato da un continuo processo di mutamento verso forme sempre più coerenti, complesse, organiche. La stessa società è vista come un organismo che tende a una specializzazione e una differenziazione dei ruoli sempre maggiore. Da un punto di vista filosoficopolitico Spencer è un liberale conservatore. [parr. 2-3]
3. MILL
5. ALTRI
Empirista in epistemologia, liberale in politica e utilitarista in etica, Mill è assieme a Comte e a Spencer uno dei grandi rappresentanti del movimento positivista. Dalla sua riflessione sulla logica come strumento per stabilire la correttezza formale delle inferenze deriva il concetto di induzione, fondamentale per ogni scienza empirica. Il passaggio dal ‘particolare’ al ‘generale’ che caratterizza ogni inferenza induttiva viene giustificato da Mill mediante il principio dell’uniformità della natura, secondo cui un dato fenomeno (o proprietà) si ripresenta nello stesso modo a parità di circostanze. [par. 1] Come per Comte, anche per Mill la società è suscettibile di uno studio scientifico, attraverso l’elaborazione di leggi generali. A differenza di Comte, Mill ritiene tuttavia possibile anche una psicologia scientifica, che metta in luce le «leggi della mente» e spieghi e, in certi casi, preveda il comportamento umano. Mill aderisce al liberalismo: libertà di pensiero, libertà di progettare la vita secondo i propri desideri e libertà di associazio-
Il movimento positivista francese va oltre l’ambito della filosofia, investendo altre discipline: la storiografia (Renan), la saggistica (Taine), la medicina sperimentale (Bernard). Tratto comune è l’attenzione al fatto concreto e alla possibilità di misurare i fenomeni osservabili. In Inghilterra, una figura di raccordo tra Illuminismo e positivismo è il padre di John Stuart Mill, James Mill, filosofo utilitarista amico e collega di Bentham. In Germania il positivismo si oppone all’idealismo dilagante, assumendo in diversi settori la forma di materialismo. Nell’ambito della fisiologia e della biologia sono da ricordare Moleschott, Vogt e Häckel. In ambito psicologico, Fechner e Wundt, padre della psicologia sperimentale. In Italia sono da ricordare i filosofi Cattaneo e Ardigò, quest’ultimo sostenitore di un peculiare evoluzionismo di stampo spenceriano. In ambito psichiatrico Lombroso elabora una teoria del rapporto tra conformazione fisica del cranio e tendenza alla criminalità.
2. COMTE
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ESPONENTI DEL POSITIVISMO
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Unità 3 Il positivismo
Parole chiave Darwinismo sociale. Corrente del pensiero politico conservatore che rifacendosi alle tesi di Darwin giustifica la discriminazione delle classi deboli e subalterne, sulla base del fatto che è la selezione naturale a porre in una situazione di predominio solo i ceti più forti e adatti. Evoluzionismo. Teoria filosofica e poi movimento culturale che si afferma nell’Ottocento nell’ambito del positivismo grazie a due grandi figure: lo scienziato naturalista Darwin e il filosofo Spencer. Il primo, con la teoria della «selezione naturale», elabora una teoria rivoluzionaria sull’evoluzione nel tempo delle specie viventi. Il secondo enuncia la «legge generale dell’evoluzione» che vale per tutti gli ambiti della realtà, da quelli inorganici, a quelli organici e sociali (o «sovraorganici»). Fisica sociale. Nel sistema delle scienze di Comte indica la sociologia. Per la complessità dei fenomeni che spiega e prevede essa perviene per ultima allo stadio positivo o scientifico. Si suddivide in una «statica sociale» (teoria positiva dell’ordine sociale) e una «dinamica sociale» (teoria positiva del mutamento sociale). Induzione. Procedimento mediante il quale viene fatta un’asserzione di carattere generale riguardante il possesso di una data proprietà da parte di ogni individuo appartenente a un certo genere, sulla base dell’osservazione di un numero finito (benché grande) di casi particolari, cioè di asserzioni particolari. Legge dei tre stadi. Nel sistema di Comte, tale legge prevede che l’umanità percorra, lungo il proprio cammino conoscitivo, tre grandi stadi, caratterizzati da un peculiare approccio esplicativo alla realtà. Nel primo, quello «teologico», le spiegazioni fanno ricorso ad agenti sovrannaturali o divini; nel secondo, quello «metafisico», le spiegazioni si basano su concetti astratti e categorie speculative che trascendono l’esperienza diretta; nel terzo, quello «positivo», la conoscenza è scientifica e si basa unicamente su fatti osservabili, enunciando leggi generali. Legge generale dell’evoluzione. Nel sistema di Spencer il principio fondamentale, secondo cui ogni aspetto della realtà – sia essa inorganica, organica, sociale, storica ecc. – si evolve secondo un ordine che va da forme meno coerenti a forme più coerenti, dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo. Leggi della società. In Comte, le leggi generali che costituiscono il nucleo della sociologia (o «fisica sociale») pervenuta allo stadio positivo. Al pari delle scienze naturali (sia inorganiche che organiche), anche le scienze sociali (dette da Comte «sovraorgani-
che») sarebbero suscettibili di una sistematizzazione rigorosa che renda possibile non soltanto la descrizione di fenomeni complessi – quali la mobilità sociale, la concentrazione della ricchezza, le tensioni tra gruppi diversi – ma anche la loro previsione. Liberalismo. Teoria politica che ha come principale obiettivo tutelare le libertà fondamentali dell’individuo di fronte all’ingerenza dello Stato o degli altri. In Mill, queste libertà fondamentali sono le libertà di pensiero, di progettare la vita secondo i propri desideri e di associazione. Positivo. Nel sistema filosofico di Comte, tale aggettivo indica qualcosa di reale e concreto, opposto a tutto ciò che è astratto e speculativo. Una filosofia «positiva» – distinta da una filosofia «metafisica» – è una filosofia che coordina e unifica i risultati delle scienze particolari. Religione positiva. Negli scritti tardi di Comte, indica un vero e proprio culto organizzato (con una propria gerarchia, rituali, catechismo ecc.) e basato sulla sacralizzazione della scienza. La religione positiva, parlando direttamente al cuore e al sentimento degli uomini, consentirebbe l’affermazione su larga scala della filosofia positiva e dunque la riforma della società verso lo stadio positivo. Essa sarebbe da realizzarsi sul modello di quella cattolica, datene l’universalità e la forte strutturazione interna. Selezione naturale. Teoria centrale dell’evoluzionismo darwiniano. Essa prevede che la natura selezioni – in modo del tutto impersonale e senza alcuno scopo – gli individui che possiedono le caratteristiche che li rendono più adatti di altri a sopravvivere in un certo ambiente. Le modificazioni dei caratteri individuali possono essere prodotte non solo per influenza ambientale, ma nei modi più disparati, anche casuali; solo alcune di queste, tuttavia, sopravvivono e si tramandano agli individui successivi, e cioè quelle che superano la selezione operata dalla natura. Uniformità della natura. Nell’epistemologia di Mill, principio che giustifica le inferenze induttive, che prevedono un ‘salto’ da asserzioni particolari a una generale: un dato fenomeno o una data proprietà tendono, nelle medesime circostanze, a ripresentarsi secondo le stesse modalità; ossia, il mondo naturale esibisce un comportamento uniforme nello spazio e nel tempo. Utilitarismo. Teoria etica per cui un’azione è detta giusta o doverosa se produce la massima somma possibile di conseguenze buone. Mill intende la bontà delle conseguenze come felicità, cioè un piacere non solo quantitativo ma anche qualitativo. 125
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Questionario LA
13
Quali sono i fattori che determinano l’ordine gerarchico tra le cinque discipline fondamentali, secondo Comte in T8? (max 4 righe)
14
Quale idea di ‘spiegazione’ dei fenomeni sociali è espressa da Comte in T9? (max 2 righe)
15
Come devono interagire tra loro la «statica sociale» e la «fisica sociale» stando a quanto esprime Comte in T10 e T11? (max 5 righe)
16
Quali sono le motivazioni che spingono Comte a teorizzare nelle ultime opere una religione positiva dotata di un proprio culto e di una propria organizzazione? (max 2 righe)
Che tipo di relazione tra logica e conoscenza emerge da quanto espresso da Mill in T15? (max 2 righe)
17
Che cosa esprime il principio di uniformità della natura enunciato da Mill? E su che cosa è fondato tale principio? (max 5 righe)
Parlando della natura delle proposizioni generali, Mill afferma in T16 che esse non consistono in una «denominazione pura e semplice». Sapresti chiarire meglio il senso di tale affermazione? (max 2 righe)
18
Quali sono i soli vincoli alla libertà individuale che Mill reputa legittimi, stando a quanto egli stesso sostiene in T20? (max 3 righe)
FILOSOFIA DEL POSITIVISMO
1
2
Quali sono gli aspetti che il positivismo ottocentesco ha ereditato dall’Illuminismo settecentesco? (max 3 righe) In che cosa consiste il significato del termine «positivismo»? (max 2 righe)
COMTE 3
4
Quali sono gli aspetti che distinguono maggiormente la filosofia «metafisica» da quella «positiva» nell’ottica di Comte? (max 4 righe)
MILL 5
L’EVOLUZIONISMO: DARWIN 6
7
E
SPENCER
In cosa consiste la «legge generale dell’evoluzione» enunciata da Spencer? Con quali ambiti della realtà essa ha a che fare? (max 4 righe) In che modo la teoria evoluzionistica porta Spencer ad abbracciare una visione politicosociale di stampo conservatore? (max 3 righe)
19
nisci tre caratteristiche distintive del linguaggio descrittivo e tre del linguaggio prescrittivo. (max 6 righe) 20
Che genere di variazioni coinvolge il processo della selezione naturale, così come descritto da Darwin in T26? In particolare, che ruolo gioca il ‘finalismo’ in tale contesto? (max 3 righe)
21
Quali prove o indizi possediamo riguardo alla sostanziale continuità tra intelligenza animale e intelligenza umana, stando a quanto afferma Darwin in T27? (max 4 righe)
22
Secondo quanto Spencer afferma in T29 la filosofia sarebbe una conoscenza collocata a un livello superiore rispetto alle altre scienze. In cosa consiste precisamente tale superiorità di livello? (max 2 righe)
23
Quale modello politico di Stato ti sembra più aderente a quanto sostiene Spencer in T33 riguardo al rapporto tra organismo individuale e organismo sociale? (max 3 righe)
Lavoriamo sui testi 8
Qual è il rapporto individuato da Saint-Simon in T1 riguardo al cammino percorso dalle scienze particolari da una parte e dalla filosofia dall’altra? (max 2 righe)
9
In che modo avvengono le spiegazioni dei fenomeni naturali nello stadio teologico dell’umanità, stando a quanto sostiene Comte in T3? (max 1 riga)
10
In che cosa consiste il carattere «bastardo» dello stadio metafisico secondo quanto Comte afferma in T4? (max 2 righe)
11
In che cosa consiste essenzialmente la conoscenza scientifica cui l’umanità perviene nello stadio positivo, secondo quanto Comte afferma in T5? (max 3 righe)
12
Come si configura l’opposizione tra ricerca delle ‘cause’ e formulazione di ‘leggi’ secondo quanto sostenuto da Comte in T6? (max 3 righe)
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Prendendo spunto da quanto afferma Mill in T23 riguardo al rapporto tra scienza e arte, for-
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Unità 4 Marx 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Marx e il marxismo Tra teoria e politica La critica della politica Critica della religione come critica sociale L’economia politica e l’alienazione La concezione materialistica della storia La critica dell’economia politica Verso il comunismo Engels
♦ Sommario, Parole-chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Il manifesto del partito comunista ♦ Tesi a confronto: Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile? I testi K. Marx La questione ebraica: La scissione tra dimensione comunitaria e privata, T1; I diritti dell’uomo e l’egoismo, T2; Ricondurre la religione alle cause mondane, T3 Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: La religione come «oppio del popolo», T4; Il proletariato e la sua carica emancipativa, T5 Manoscritti economico-filosofici: Le leggi e i presupposti dell’economia politica, T6; Il lavoro come vita attiva, T7; Hegel: l’uomo come risultato del proprio lavoro, T8; Il prodotto del lavoro e l’annullamento dell’operaio, T9; Il lavoro alienato: mortificazione e perdita di sé, T10; Il comunismo come umanismo e come naturalismo, T11 Per la critica dell’economia politica: Struttura e sovrastruttura, T15; Dall’acuirsi delle contraddizioni alla rivoluzione, T16
Il capitale: I presupposti del capitalismo, T19; Iniziamo dalla merce…, T20; Il valore d’uso depositario materiale del valore di scambio, T21; Il rapporto di scambio delle merci, T22; Al di là del valore d’uso: il lavoro astratto, T23 Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica: La ricchezza umana, T26 K. Marx, F. Engels L’ideologia tedesca: La storia come successione di generazioni, T12, La produzione: base della storia e della specie umana, T13; Vita reale e coscienza, T14; Due condizioni della rivoluzione, T17; Il comunismo, T18 Il manifesto del partito comunista: L’assurdità delle crisi, T24; La storia è storia di lotte di classi, T25
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
1
Il «marxismo»
Il marxismo e la realtà storica
«Marxiano» e «marxista»
➥ Sommario, p. 164
2 Gli studi e il giornalismo
128
Marx e il marxismo Ci sono molti motivi per ritenere Karl Marx una figura peculiare, e per considerare di genere particolare anche la sua riflessione teorica. La vastità e la profondità della sua influenza storica ne fanno infatti un pensatore difficilmente confrontabile con altri, anche se certo Marx è stato, tra l’altro, anche un classico della storia della filosofia, tra i pensatori maggiori della filosofia dell’Ottocento. La peculiarità di cui si parla nasce già dalla constatazione che al pensiero di Marx si è ispirato tutto un filone di idee, nei campi più diversi, e un progetto politico, che sono andati sotto il nome di «marxismo». Dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, il marxismo è stato una delle correnti di pensiero al centro della vita intellettuale, agendo sì in filosofia, politica ed economia, ma anche in altre discipline, dall’estetica all’antropologia. Non è esagerato dire che per circa un secolo si è riflettuto, scritto e (in politica) agito pro o contro Marx e il marxismo. La stessa realtà storica ha incarnato, per un certo periodo, questo conflitto, negli anni della divisione del mondo in zone d’influenza, dopo la Seconda guerra mondiale: durante la cosiddetta «guerra fredda», l’Unione Sovietica stava (a ragione o a torto che fosse) sotto l’egida del pensiero di Marx, mentre il mondo occidentale si caratterizzava anche per contrapposizione. Non è tutto qui, evidentemente. Se nell’Unione Sovietica e nei Paesi sotto la sua influenza una sorta di marxismo sclerotizzato e scolastico costituiva l’ideologia ufficiale del potere politico, al di fuori di quei Paesi, sia in Occidente sia in esperienze specifiche di continenti extraeuropei, il marxismo contribuiva in modo non secondario alla crescita culturale dei Paesi più diversi e, parallelamente, costituiva la principale matrice teorica dei partiti e dei movimenti che perseguissero un ideale di uguaglianza sociale. Detto questo, e chiarito quanto poco «accademica» sia la discussione sul pensiero di Marx, anche per capire la sua filosofia è importante tornare innanzitutto ai suoi testi, liberandoli, per quanto possibile, dalle stratificazioni che la tradizione – anche marxista – vi ha costruito sopra, e cercando di intenderne il significato nella tradizione filosofica e in particolare nella storia dell’analisi della società. Per dirla con una formula: ciò che è di Marx, «marxiano», non necessariamente è entrato nella tradizione marxista, e soprattutto ciò che è «marxista» non ha necessariamente la sua origine nella riflessione di Marx.
Tra teoria e politica Partito da studi giuridici per volere del padre, passato poi agli studi di filosofia, di storia e di economia, Marx nel corso della vita adegua il proprio bagaglio culturale e le proprie letture all’intento di analizzare in profondità la società capitalistica. In filosofia, Marx viene colpito dal pensiero hegeliano e dai dibattiti che su di esso, tra religione e politica, vanno facendo in Germania le correnti che dal pensiero di Hegel traggono spunto. Rinunciando per motivi politici – già autori come gli hegeliani di sinistra Bauer e Feuerbach avevano avuto difficoltà – a una carriera accademica, Marx si dedi-
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Unità 4 Marx
ca al giornalismo, attività che per tutta la vita accompagnerà i suoi studi e la sua ricerca e che sarà l’unica risorsa, insieme con gli aiuti dell’amico Friedrich Engels (vedi sotto, p. 162 s.), per le precarie condizioni economiche della sua famiglia. Un tratto caratteristico, nella biografia del filosofo tedesco, è l’enorme capacità di lavoro e di assimilazione delle letture, ampiamente testimoniata dalle sue opere. Qui troviamo i segni non solo di una grande acutezza, ma anche di una notevole erudizione nelle materie più diverse, come appare chiaro anche solo a scorrere le note del capolavoro di Marx, Il capitale. La sua figura colpisce, del resto, anche i contemporanei, almeno a sentire il giovane hegeliano, e comunista, Moses Hess (1812-1875), che gli dedica questa descrizione entusiastica. Il più grande, forse l’unico, vero filosofo vivente, che ben presto attirerà su di sé gli sguardi di tutta la Germania, il dottor Marx, darà il colpo di grazia alla religione e alla politica medioevali. Egli unisce la più profonda serietà filosofica allo spirito più mordace. Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona – dico fusi, non affiancati – e avrai il dottor Marx.
Marx è anche uno dei pensatori per i quali la pubblicazione delle opere avverrà in buona parte dopo la morte, certo anche per una sua ritrosia a rendere pubblici testi che non ritenesse compiuti anche dal punto di vista formale. Questa caratteristica fa sì che l’immagine di Marx che hanno i suoi contemporanei sia ben diversa da quella che si è avuta nel corso dei decenni successivi, fino ai nostri giorni. Testi che oggi riteniamo essenziali per capire le sue teorie sono stati pubblicati postumi, come gran parte del Capitale (in vita, Marx riuscì a pubblicare soltanto il primo libro), ma non solo: basti menzionare scritti giovanili come i Manoscritti economico-filosofici, stesi a Parigi ed essenziali per la nozione di alienazione, l’Ideologia tedesca, che contiene la prima e più ampia formulazione della concezione materialistica della storia, o la gran mole di manoscritti stesi tra il 1857 e il 1859 e poi intitolati Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, i cosiddetti Grundrisse. In questi manoscritti si trovano testi di grande interesse, come per esempio l’unico scritto di Marx di tipo metodologico (la cosiddetta Introduzione del 1857) o la parte sulle forme di società che precedono il capitalismo. L’attività politica Oltre che studioso e filosofo, Marx è però anche uomo politico, autore, con Ene l’esilio londinese gels, di uno dei più brillanti pamphlet politici di tutti i tempi, il Manifesto del partito comunista, e infaticabile organizzatore del movimento comunista internazionale. Sempre attivo, ancora nel 1864 fonda l’Associazione internazionale dei lavoratori, anche se dopo il 1850, cioè dopo il brutto colpo ricevuto con il fallimento dei moti del 1848-1849, il forzato esilio a Londra segna anche la decisione di dedicarsi prevalentemente agli studi, come farà, con grande passione, nel➥ Sommario, p. 164 le sale del British Museum londinese. Gli scritti postumi e la loro ricezione
La vita e le opere Karl Marx nacque a Treviri (Renania prussiana, Germania) nel 1818. Il padre era un avvocato di famiglia ebrea convertito al protestantesimo e gli impartì un’educazione liberale. Nel 1835, a diciassette anni, seguì le orme paterne e si iscrisse a giurisprudenza all’università di Bonn. Si spostò poi a Berlino, dove restò quattro anni,
frequentando un circolo di giovani hegeliani e approfondendo così lo studio della filosofia di Hegel. Si laureò in filosofia, nel 1841, con una tesi su Democrito ed Epicuro, presentata nell’università di Jena. Proseguì intanto il rapporto decennale con Jenny von Westphalen, giovane baronessa figlia di un consigliere del governo, che, nonostante i contrasti familiari, sposò, e con
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
la quale condivise l’intera esistenza. Abbandonata l’ipotesi della carriera accademica, si dedicò al giornalismo, scrisse numerosi articoli e divenne caporedattore della «Gazzetta renana», nel 1842; l’anno successivo il giornale fu interdetto dal governo e Marx si trasferì a Parigi. A Parigi, nel 1844, pubblicò nel primo e unico numero degli «Annali franco-tedeschi», che diresse, La questione ebraica e Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione; scrisse inoltre i Manoscritti economicofilosofici, che furono pubblicati postumi. Nella capitale francese strinse una forte amicizia con Engels, che durò per tutta la vita. L’anno successivo, ormai trasferitosi a Bruxelles, compose insieme a Engels la Sacra famiglia. Il definitivo distacco dall’idealismo e da Feuerbach prese quindi corpo nelle Tesi su Feuerbach e poi nella Ideologia tedesca, scritta insieme a Engels nel 1845-1846, ma pubblicata postuma. Marx era ormai giunto alla concezione materialistica della storia. Nel 1847 pubblicò La miseria della filosofia, che sancì il distacco dal socialismo utopistico, e scrisse insieme a Engels, per incarico dalla Lega dei comunisti, il Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra nel 1848. Sull’onda dei moti rivoluzionari del 1848, venne espulso dal Belgio; rientrato a Colonia, fondò la «Nuova Gazzetta Renana», e fu rapidamente espulso dalla stessa Germania l’anno successivo. Rifugiatosi a Parigi, preferì però Londra a un asilo politico mortificante: sbarcò in Inghilterra nel 1849 e vi si
3 I primi scritti
stabilì definitivamente. Scrisse numerosi articoli e si impegnò attivamente nella Lega dei comunisti fino al suo scioglimento, nel 1851. Da questo momento Marx si dedicò intensamente agli studi, frequentando il British Museum, collaborò per due anni al «New York Tribune» e, non da ultimo, cercò di risolvere i sempre più pressanti bisogni economici della sua numerosa famiglia, rispetto ai quali il generoso sostegno di Engels cominciò a essere insufficiente. Sempre più dedito agli studi economici, nel 1857-1859 scrisse i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, i cosiddetti Grundrisse, pubblicati postumi, mentre nel 1859 dette alle stampe Per la critica dell’economia politica. Nel 1864 venne fondata l’Associazione internazionale dei lavoratori, della quale Marx assunse la direzione; negli anni seguenti si dedicò alla stesura del Capitale, il cui primo libro venne edito nel 1867, mentre gli altri uscirono postumi a cura di Engels. Per l’Internazionale scrisse poi due Indirizzi sulla guerra franco-prussiana (1870) e La guerra civile in Francia (1871); nel 1875 affrontò l’anarchismo in Appunti sul libro di Bakunin «Stato e Anarchia» e scrisse il breve ma denso articolo Critica al programma di Gotha, in cui criticò il programma del Partito operaio socialdemocratico tedesco. Nel 1881 morì la moglie, ammalata di vaiolo, dopo che i due avevano già perso tre figli; Marx la seguì dopo due anni.
La critica della politica I primi scritti di Marx, anche quelli pubblicati postumi, sono di grande importanza per capire la genesi della sua filosofia e il quadro concettuale da cui egli prende le mosse. Il periodo che va dalla tesi di dottorato fino all’elaborazione della concezione materialistica della storia – nell’Ideologia tedesca – è un periodo di grande fermento, durante il quale Marx si sofferma sui temi che, sviluppati, rimarranno importanti nella sua concezione della società e della storia. Rientrano in questa prospettiva il rapporto tra Stato e società civile; il primo confronto con l’economia politica, ossia la scienza che studia il sistema di produzione della ricchezza e i suoi legami con la vita sociale e politica; la focalizzazione della questione del lavoro salariato; la delineazione del comunismo come soluzione delle contraddizioni sociali.
Stato e società civile L’analisi critica del rapporto tra Stato e società civile, sulla scia di Hegel, costituisce il punto di partenza del giovane Marx e l’oggetto privilegiato dei suoi primi scritti: a partire da qui, egli approderà in pochi anni alla sua concezione matura. 130
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Unità 4 Marx Hegel: le tensioni della società civile si risolvono nello Stato
Marx: gli istituti giuridici e lo Stato dipendono dall’economia, vera ossatura della società civile
La separazione di Hegel tra Stato e società civile diventa in Marx contraddizione
Stato e diritti politici in Hegel
Dal suffragio universale al comunismo
Come abbiamo visto, una delle grandi intuizioni della Filosofia del diritto di Hegel consiste nell’aver compreso che nella società moderna si compie la separazione dello Stato politico dalla società civile, ovvero dalla società intesa come luogo del lavoro e, in generale, dell’attività economica. In realtà, l’intento di Hegel è risolvere proprio nello Stato le tensioni e le contraddizioni della società, che lui stesso non manca di segnalare. E non solo. Si è visto che la ricomposizione della frammentazione del mondo dell’economia, e dei suoi rischi, comincia per Hegel già all’interno della società civile, grazie a quelle istituzioni (le corporazioni, l’amministrazione della giustizia ecc.) che ne limitano il carattere di dispersione e di frammentazione. L’atomismo e l’individualismo egoistico della società come «sistema dei bisogni» vengono così protetti, ma anche limitati, perché sottoposti a regole, a leggi, e a strutture organizzative come la corporazione. Proprio qui sta una differenza notevole tra Marx e Hegel: se Hegel intende la società civile come un complesso nel quale, oltre all’attività economica, sono presenti istituti giuridici che portano un primo parziale ordine nel mondo degli interessi economici egoistici, Marx darà all’espressione «società civile» una curvatura diversa. L’interpretazione di Marx tende a esaurire il significato della società civile nelle relazioni economico-sociali, e quindi nel mondo dei bisogni e del lavoro, e questa interpretazione non è tanto frutto di un fraintendimento, quanto di una scelta consapevole. Per Marx, in realtà, gli istituti giuridici (e non solo quelli, come vedremo) dipendono dalle relazioni economico-sociali e ne sono l’espressione, per cui è abbastanza comprensibile che il significato della «società» tenda a esaurirsi nella sfera economica, e rimangano del tutto sullo sfondo, fino a sparire, altre caratteristiche di essa, viste come secondarie. L’importanza esclusiva dell’aspetto economico e sociale nella considerazione della società civile si estende del resto, nel pensiero di Marx, anche al di fuori di essa, nei confronti dello Stato, che diventa anch’esso qualcosa di dipendente dalla società. Con la maturazione della concezione materialistica della storia, poi, la struttura economica della società diventerà la chiave per interpretare la dinamica storica e di conseguenza tutti i fenomeni della vita sociale, non solo quelli giuridici e politici. Detto altrimenti: della coppia società / Stato, Marx privilegia nettamente, rispetto a Hegel, la società. La separazione tra Stato e società civile che nella Filosofia del diritto di Hegel finiva per risolversi nel momento superiore dello Stato, dove l’universalità di questo acquistava concretezza anche attraverso l’esistenza e l’attività dei suoi cittadini, ma senza esaurirsi nella loro somma, diventa in Marx già nel suo primo scritto Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel (redatto probabilmente nel 1842-1843, e pubblicato postumo) non una semplice separazione, ma una vera e propria contraddizione: un’opposizione reale tra gli interessi e le aspirazioni della società (mondo del lavoro e dei bisogni come abbiamo visto) e l’organizzazione politica e legislativa. Per comprendere fino in fondo i motivi di questa critica marxiana occorre ricordare che nello Stato hegeliano i diritti politici sono limitati e strettamente collegati con l’appartenenza a uno stato o ceto: il diritto elettorale in particolare appartiene solo a chi dimostra ‘senso dello Stato’ o per la funzione che svolge o per come agisce o ha agito; quindi non è un diritto per tutti. In questa sua prima opera, Marx ha posizioni politiche democratiche che suggeriscono una soluzione di questa contraddizione attraverso la politica, ovvero at131
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
traverso il suffragio universale (che fa sì che tutta la società abbia un’esistenza politica, e quindi che sfera sociale e sfera politica non siano più separate), ma ben presto la sua posizione diventa più radicale. Nei due scritti successivi che hanno ancora per oggetto questo problema, entrambi pubblicati negli «Annali franco-tedeschi» del 1844 (La questione ebraica e una breve Introduzione al progettato, già menzionato scritto Per la critica della filosofia del diritto di Hegel) la diagnosi marxiana si è approfondita e ha spostato l’attenzione sulla radicalità della scissione tra Stato e società e sugli effetti negativi di questa scissione per gli individui: è in queste pagine che diviene esplicita l’adesione di Marx al comunismo. Stato e società civile in Hegel e Marx
Hegel
Marx
Nella società civile ci sono istituzioni (ceti, corporazioni ecc.) che limitano i contrasti economici
La società civile è solo il luogo delle relazioni economico-sociali (mondo dei bisogni e del lavoro)
Società civile come ‘momento’ dell’evoluzione verso lo Stato
Società civile come sfera economica che fonda tutte le altre, compreso lo Stato
Le tensioni e le contraddizioni della società civile si ricompongono nello Stato
La contraddizione tra società civile e Stato non può risolversi
Modello di Stato costituzionale ma con diritti politici limitati
Prima soluzione, solo politica: suffragio universale
Seconda soluzione, più radicale: comunismo
La critica della tradizione liberale e dell’individualismo Un’uguaglianza soltanto apparente
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Marx pensa, dopo l’adesione al comunismo, che anche nel caso in cui il patrimonio, la proprietà privata, non fossero più qualcosa di politicamente e giuridicamente rilevante (poiché: i cittadini sarebbero uguali di fronte alla legge, ci sarebbe il suffragio universale e i cittadini avrebbero anche un uguale status politico: tutti possono eleggere ed essere eletti), questo apparente carattere universale di ogni singolo cittadino come citoyen, come membro della comunità politica, confliggerebbe con la sua dimensione sociale, concreta, di uomo della società civile fondata sui rapporti economici, di uomo cioè in condizioni sociali
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Unità 4 Marx
specifiche di commerciante o di salariato, di individuo concretamente vivente nella società, di borghese (bourgeois). Disuguaglianza L’universalità del cittadino dello Stato moderno è dunque un’universalità immae conflitto ginaria, al contrario di quanto pensava Hegel, perché questa universalità non tra gli individui coincide e non è compatibile, ma confligge con la realtà privatistica, egoistica e atomizzata della società civile. Il cittadino dello Stato è astrattamente uguale a tutti gli altri cittadini come membri della medesima comunità, mentre nella vita concreta vige la disuguaglianza e il conflitto di individui che cercano ciascuno il proprio tornaconto. La contraddizione tra Stato e società civile, tipica dello Stato sviluppato moderno, si riflette quindi nella coscienza di ciascun individuo, che è scisso tra due realtà.
T1
La scissione tra dimensione comunitaria e privata K. Marx, La questione ebraica
L’uomo ridotto a mero strumento dell’interesse economico
Critica del liberalismo: l’uomo non è una monade
L’uomo e il cittadino
Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente che appartiene alla comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. Alla società civile lo Stato politico si rapporta nel modo spiritualistico in cui il cielo si rapporta alla terra. Emergono nelle pagine della Questione ebraica da un lato, una caratterizzazione antropologica dell’uomo moderno, scisso in realtà diverse, tra loro opposte, dall’altro, il carattere strumentale della relazione tra gli uomini come soggetti dell’attività economica: ciascun individuo non solo considera gli altri come semplici mezzi attraverso cui realizzare e soddisfare i propri bisogni, ma vede al medesimo modo anche se stesso, come semplice strumento di altri. Dimensione privata, cioè particolare, e dimensione pubblica, cioè universale, sono quindi contrapposte: è questo lo sfondo sul quale Marx – nella Questione ebraica – muove la sua critica alla tradizione liberale e in particolare alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nata dalle rivoluzioni americana e francese. Qui emerge con chiarezza, a parere di Marx, l’opposizione tra le due caratterizzazioni di uomo e di cittadino ma anche, al tempo stesso, la dipendenza del secondo, il cittadino, dal primo, l’uomo, dal momento che il termine «uomo» nasconde un soggetto determinato. L’uomo del quale si parla nella Dichiarazione come dell’uomo in generale, è in realtà l’uomo come membro della società civile, come soggetto della vita economica, ancora come bourgeois la cui libertà è innanzitutto diritto alla proprietà privata, diritto a poterla utilizzare senza tenere alcun conto degli altri uomini: questi ultimi costituiscono non il termine grazie al quale si possa realizzare la libertà, ma piuttosto un limite della libertà. Per Marx, ogni uomo è visto, nella Dichiarazione dei diritti come anche nei testi che ad essa si ispirano, semplicemente come una monade, un individuo isolato e chiuso in sé il cui principale carattere non può essere che l’egoismo. Si perde così la dimensione comune di appartenenza alla specie umana, ciò per cui ogni uomo è un ente che appartiene alla specie, una terminologia che rimanda a Feuerbach. 133
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
T2
I diritti dell’uomo e l’egoismo
K. Marx, La questione ebraica
Critica dell’individualismo
➥ Sommario, p. 164
4 Marx: la critica della religione della Sinistra hegeliana è insufficiente
➥ Percorso tematico, p. 225
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Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere l’uomo inteso in essi come ente che appartiene alla specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la loro necessità naturale, il bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica. Nella Questione ebraica, oltre al tema della dipendenza della sfera giuridica e politica dalla sfera economica, dove la prima diventa il semplice strumento della seconda, ne troviamo un altro al quale Marx darà sviluppo negli anni successivi, e che ha una chiara derivazione hegeliana: la critica dell’individualismo e, in generale, di una certa rappresentazione dell’individuo moderno. Si tratta dello stesso errore che Marx rimprovererà negli anni successivi agli economisti politici come Smith o Ricardo: l’individuo viene rappresentato da questi come individuo isolato, dimenticando: 1) da un lato, che questo isolamento è l’astrazione dalla sua condizione reale, che è invece una condizione sociale; 2) dall’altro, che l’individuo appare isolato perché l’individualismo è la caratteristica della società civile come universo economico separato dallo Stato, ovvero della moderna società borghese, quindi è un prodotto storico, non una pretesa essenza eterna dell’individuo.
Critica della religione come critica sociale La sfera privata dell’uomo è innanzitutto la sfera dell’economia e del lavoro, ma non è soltanto questo: il tema dell’economia è già importante, per Marx, ma si intreccia con il problema principale della Sinistra hegeliana, la critica della religione. Marx polemizza infatti, nella Questione ebraica, con la prospettiva di Bruno Bauer: per Bauer, la soluzione della questione religiosa consiste, se non nella sparizione della religione, almeno nella sua relegazione nella sfera privata del cittadino. Lo Stato tedesco si proclama infatti Stato cristiano, scrive Bauer, e conserva alla religione una dimensione pubblica, politica, che limita ed esclude i diritti dei cittadini che non siano cristiani (come per esempio gli ebrei). Già qui Marx rileva il carattere limitato della critica dei giovani hegeliani come Bauer: la critica della religione è insufficiente, come è insufficiente la critica della religiosità dello Stato. Una volta abbandonata e lasciata la religione alla sfera privata, infatti, questa religiosità privata non farebbe che rappresentare un ennesimo aspetto della scissione dell’uomo tra sfera privata e sfera pubblica, tra società e Stato. Marx attacca così frontalmente uno dei capisaldi della Sinistra hegeliana, spostando l’attenzione dal fenomeno dell’alienazione religiosa alle cause e alla genesi della religione.
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Ricondurre la religione alle cause mondane
K. Marx, La questione ebraica
La religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai soltanto il fenomeno della limitatezza mondana. Per questo, noi spieghiamo il pregiudizio religioso dei liberi cittadini con il loro pregiudizio mondano. Non riteniamo che essi debbano sopprimere la loro limitatezza religiosa, per poter sopprimere i loro limiti mondani. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti mondani. Noi non trasformiamo le questioni mondane in questioni teologiche. Trasformiamo le questioni teologiche in questioni mondane. Dopo che per lungo tempo la storia è stata risolta in superstizione, noi risolviamo la superstizione in storia. La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione diviene per noi la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana.
L’emancipazione politica dalla religione, la rinuncia alla religiosità dello Stato, non è cioè un’emancipazione genuina, un’emancipazione completa, ma può essere, tutt’al più, un primo passo: l’emancipazione umana, e non solo politica, riguarda infatti la liberazione dell’uomo dalla religione attraverso la liberazione dell’uomo dalle cause che lo spingono a essere religioso. Oltre Feuerbach: La religione, dunque, non è più al centro dell’orizzonte, rimanda ad altro come religione e miseria sua causa e mostra una strada nuova per potere emanciparsi dalla stessa religioumana ne. L’emancipazione politica dello Stato, ovvero il mutare dello Stato da Stato cristiano a Stato privo di una caratterizzazione religiosa, come vorrebbe Bauer, è certo anche per Marx un progresso, una prima forma di emancipazione, ma non è ancora emancipazione umana. Prova ne sia, osserva Marx, che in Stati come il Nord-America, dove lo Stato non ha una caratterizzazione religiosa, la religione fiorisce nella vita privata. In realtà, è vero che la genesi della religione consiste, sulle tracce di Feuerbach, in una proiezione di caratteristiche umane, ma Marx va al di là dell’autore dell’Essenza del cristianesimo, e radica la necessità di questa proiezione nella miseria della realtà sociale e politica, come emerge con chiarezza da un brano della Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
L’emancipazione umana come liberazione
T4
La religione come «oppio del popolo»
K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione
Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la 135
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola […] La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. Religione e critica sociale e politica
Dato che la religione rimanda al di là di sé, alla miseria terrena, così la critica della religione, che ha caratterizzato tutti i pensatori della Sinistra hegeliana, rimanda in Marx alla critica della società terrena. In realtà, quindi, l’esame della contraddizione tra società civile e Stato, e della scissione dell’uomo tra dimensione privata e dimensione pubblica, si incontra con la critica della religione, che non è più semplice critica della religione ma critica, appunto, sociale e politica.
Critica della religione
Bauer
Marx
Lo Stato non deve essere religioso e la religione deve venir relegata alla sfera privata, individuale
La religione deve essere ricondotta alle sue cause sociali L’emancipazione religiosa deve diventare emancipazione dalle condizioni di miseria reale dalle quali nasce
Filosofia e prassi La «critica» (un termine del quale hanno abusato per Marx tutti i pensatori della Sinistra hegeliana, e soprattutto Bruno Bauer) deve per Marx modificare la propria natura e diventare una serrata critica delle condizioni storiche tedesche, della loro arretratezza rispetto a quelle degli altri Paesi. Si aprono così nuove possibilità per la filosofia, che costituisce per i tedeschi lo stesso progresso, lo stesso avanzamento che gli altri Paesi, a partire dalla Francia con la rivoluzione, hanno compiuto sul terreno della vita reale. La Germania è stata la «coscienza teorica» dei Paesi europei, ed è ora giunto il momento di realizzare la filosofia attraverso la prassi: l’arma della critica non può sostituire, scrive Marx, la critica delle armi, ma «anche una teoria diventa una forza materiale non appena si impadronisce delle masse». Questa energia della teoria è una forza che costituisce l’esito della critica della religione, da un lato, e della critica della filosofia del diritto speculativa (cioè: di Hegel), dall’altro. La teoria è ora in grado di realizzare un’indicazione pratica, di produrre un effettivo cambiamento: «La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, pp. 197-198). Dalla filosofia Per Marx, quindi, in una prospettiva che per questo aspetto rimane costante nel alla prassi suo pensiero, è la prassi ciò che permette il superamento delle contraddizioni e
Critica, teoria e prassi
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Il proletariato: protagonista della prassi rivoluzionaria
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Il proletariato e la sua carica emancipativa
K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione
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in particolare, in questo momento della sua biografia intellettuale, la specifica contraddizione tra Stato e società civile. L’illusione della filosofia tedesca è stata quella di cercare di risolvere le contraddizioni prima, con Hegel, attraverso un’astratta filosofia speculativa, poi, con la Sinistra hegeliana, e sempre rimanendo su un piano soltanto teorico, attraverso la critica della religione. Non ci si è mai spinti, quindi, alla radice del problema, che è questione sociale, e non si è saputa indicare la strada della prassi come portatrice di un’emancipazione reale, umana. Individuate le condizioni di una prassi rivoluzionaria, Marx può ora indicare quale debba essere il soggetto di questa prassi, chi possa cioè assumersi questo compito di restituire l’uomo all’uomo, di liberare dalla miseria mondana. Il soggetto che Marx individua è nella sua prospettiva l’unico soggetto della società in grado di andare al di là della dimensione particolaristica, egoistica e privata che pure è caratteristica della società civile: si deve trattare, insomma, di un soggetto che pur avendo una concretezza particolare sia in grado di rappresentare gli interessi generali, sia in grado cioè di rappresentare la coincidenza tra particolarità e universalità. Questo soggetto, per Marx, è il proletariato come soggetto storico che realizza la filosofia. La filosofia è la testa dell’emancipazione, mentre il proletariato ne costituisce il cuore, ovvero l’energia pratica. Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile che non sia una classe della società civile, di un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera che per i suoi patimenti universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitata non una ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro, che non può più appellarsi ad un titolo storico, ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale con tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società, e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo recupero dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato.
L’economia politica e l’alienazione
Si è fatto riferimento a una perdita dell’uomo, a una sorta di disumanizzazione dell’uomo nella società borghese, nella società del lavoro. Questo sarà un tema centrale dei Manoscritti economico-filosofici, stesi da Marx nel soggiorno parigino del 1844: è la prima opera di grande impegno, che però Marx non pubblica. A Parigi, Marx frequenta le associazioni socialiste e comuniste, legge opere storiche (in particolare sulla Rivoluzione francese) e, soprattutto, comincia ad affrontare l’economia politica, un tema che approfondirà negli anni successivi. Lo studio dell’economia Tra i fattori che inducono Marx a confrontarsi con la recente disciplina dell’ecopolitica e l’amicizia nomia politica di Jean-Baptiste Say (1767-1832), di Smith e di Ricardo va ricorcon Engels data la lettura di un saggio di Engels, intitolato Abbozzo di una critica dell’ecoI Manoscritti economico-filosofici
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Motivi teorici dell’interesse per l’economia politica
Le intuizioni e i temi dei Manoscritti
I Manoscritti economico-filosofici
Il confronto con gli economisti politici classici
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nomia politica, apparso anch’esso negli «Annali franco-tedeschi» del 1844: anche in seguito a questa lettura, comincia proprio a Parigi un sodalizio che durerà fino alla fine della vita di Marx. Al di là dell’occasione biografica, c’è però un motivo più profondo che spinge Marx verso l’economia politica: la necessità di approfondire lo studio della società e della sua dinamica. Una volta giunto alla conclusione della priorità della società civile sullo Stato, e della necessità di muovere dall’analisi critica della società (anche e soprattutto in vista della sua trasformazione), è la stessa interpretazione marxiana della società civile come sistema dei bisogni che induce a prestare attenzione all’economia politica. Oltretutto, Marx è troppo buon lettore di Hegel per non ricordare che la stessa Filosofia del diritto aveva individuato nell’economia politica la scienza che coglie le leggi generali di funzionamento del «sistema dei bisogni» della società civile, pur nell’apparente caos di una frammentazione sociale. Nei Manoscritti, il carattere di tensione e di contraddizione della società civile, messo in luce da Marx in questi anni, e la soluzione del quale dovrà essere, lo si è visto, pratica, richiede un’attitudine critica nei confronti dell’economia politica che non accetti né come eterne e assolute né come scontate le categorie della proprietà privata, del lavoro salariato, del profitto e così via. Allo stesso tempo, si tratta di chiarire il proprio rapporto con Hegel, utilizzando anche l’esito per Marx più riuscito, e per ora ancora convincente, della Sinistra hegeliana: la filosofia di Feuerbach. I diversi elementi che tenderanno nel corso del tempo a saldarsi e a fondersi, nel pensiero di Marx, primi tra tutti la critica dell’economia politica e il confronto con la filosofia, sono già in opera nei Manoscritti, anche se rimangono qui allo stato di abbozzo e, soprattutto, giustapposti l’uno all’altro. Ma si tratta in gran parte degli stessi elementi che costituiranno il tessuto delle opere successive, quando Marx acquisirà quella concezione materialistica della storia che già nei Manoscritti viene delineata, pur se non sviluppata, come si vede dal brano seguente: «La religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte, ecc. non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale». Nei Manoscritti, Marx affronta vari temi: la critica dell’economia politica, l’alienazione del lavoro salariato come espressione e al tempo stesso fondamento della proprietà privata di tipo capitalistico, l’orizzonte del comunismo come soppressione dell’alienazione.
1. Critica dell’economia politica
2. Alienazione del lavoro come espressione e fondamento della proprietà privata di tipo capitalistico
3. Comunismo come soppressione dell’alienazione
Il primo tema, il confronto con l’economia politica ha un carattere duplice: se da un lato utilizza ampiamente la trattazione degli economisti politici classici (trascrivendone anche ampie parti), dall’altro li critica costantemente. Si enunciano qui i problemi, e i temi, che riceveranno uno sviluppo pieno nel Capitale, a partire dalla nozione della «merce», centrale nella produzione capitalistica, che caratterizza anche la condizione del lavoro salariato.
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Le leggi e i presupposti dell’economia politica K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
Gli elementi problematici del capitalismo e la polarizzazione tra proprietari e operai
Elementi fondanti e sviluppo del capitalismo
Noi siamo partiti dai presupposti dell’economia politica. Abbiamo accettato la sua lingua e le sue leggi. Abbiamo preso in considerazione la proprietà privata, la separazione tra lavoro, capitale e terra, ed anche tra salario, profitto del capitale e rendita fondiaria, come pure la divisione del lavoro, la concorrenza, il concetto di valore di scambio, ecc. Partendo dalla stessa economia politica, e valendoci delle sue stesse parole, abbiamo mostrato che l’operaio decade a merce, alla più misera delle merci, che la miseria dell’operaio sta in rapporto inverso con la potenza e la quantità della sua produzione, che il risultato necessario della concorrenza è l’accumulazione del capitale in poche mani, e quindi la più terribile ricostituzione del monopolio, che infine scompare la differenza tra capitalista e proprietario fondiario, così come scompare la differenza tra contadino e operaio di fabbrica, e tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà. L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Ma non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata quale si rivela nella realtà, ma lo coglie in formule generali, astratte, che hanno per essa il valore di leggi. I protagonisti della dinamica economico-sociale ci sono già tutti, e soprattutto sono già chiari a Marx gli elementi problematici del capitalismo: divisione del lavoro, opposizione degli interessi tra capitale e lavoro salariato, impoverimento progressivo dell’operaio, concentrazione del capitale e scomparsa dei capitalisti più piccoli e di una vera concorrenza, in favore di monopoli, polarizzazione della società nelle due classi antagonistiche dei capitalisti e degli operai. La divisione della società in proprietari e coloro che sono privi di proprietà tende infatti a diventare esaustiva, per Marx: così, i proprietari fondiari (coloro che hanno una rendita mettendo a disposizione le terre per i capitalisti) diventeranno progressivamente capitalisti loro stessi e i contadini diventeranno anch’essi operai. In questo modo la società capitalistica tende a polarizzarsi in due sole classi contrapposte: i proprietari e gli operai senza proprietà.
1. Divisione del lavoro
2. Opposizione tra interessi del capitale e lavoro salariato
3. Impoverimento progressivo dell’operaio
4. Tendenza al monopolio
La società si polarizza sempre più in due sfere antagoniste
Capitalisti
Dall’economia politica alla sua «critica»
Antagonismo
Operai
Marx ritiene che l’economia politica, pur avendo in gran parte compreso la realtà del capitale, non ne capisce la genesi e non è in grado di chiarirne alcuni aspetti perché è priva di capacità critica. È questo, e lo sarà anche successivamente, il significato dell’espressione «critica dell’economia politica», che costituisce uno dei fili conduttori dei Manoscritti, che darà il titolo all’opera pubblicata da Marx nel 1859 (Per la critica dell’economia politica) e che costituirà anche il sottotitolo del Capitale. 139
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Il lavoro salariato come lavoro alienato Una delle parti più sviluppate dei Manoscritti, e più giustamente famose, è quella dedicata al lavoro estraniato o alienato, in cui Marx riprende da Hegel e da Feuerbach i concetti di alienazione e di estraniazione, per tradurli nel proprio quadro teorico. Proprio sul tema del lavoro, del resto, Marx si discosta dall’economia politica classica, che intende il lavoro nella società capitalistica come fatto naturale. Per lui, al contrario, il lavoro salariato è lavoro alienato, separato, alienato proprio innanzitutto dalla sua dimensione naturale. Siamo sulle tracce di Hegel, ma per Hegel il lavoro costituisce un processo di oggettivazione che è strutturalmente un processo di estraniazione e di alienazione, verso il quale non v’è da assumere alcuna posizione critica, ma soltanto comprenderlo come momento del processo complessivo. Diversa è l’analisi di Marx, pur se il punto di partenza è comune. Il lavoro come Per Marx, il lavoro costituisce sì un processo di oggettivazione, ma estraniazione realizzazione dell’uomo e alienazione sono un fatto storico legato al lavoro della società capitalistica, che può, e deve, essere superato. Va tenuto presente che Marx ha una visione del lavoro umano estremamente positiva, come realizzazione dell’uomo. Anche l’animale produce, ma l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto: il lavoro come oggettivazione è una forma di realizzazione dell’uomo, e ne costituisce una caratteristica peculiare in quanto «essere che appartiene ad una determinata specie», come scrive Marx utilizzando anche qui la terminologia di Feuerbach. La critica del lavoro estraniato o alienato
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Il lavoro come vita attiva K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l’uomo si mostra quindi realmente come essere appartenente ad una specie. Questa produzione è la sua vita attiva come essere appartenente ad una specie. Mediante essa la sua natura appare come la sua opera e la sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato.
Il modello teorico hegeliano, con il movimento dell’alienazione o estraniazione, è ben presente sia in Feuerbach sia in Marx, ma in entrambi è accompagnato, in modi diversi, da forti accenti critici nei confronti del filosofo della Fenomenologia dello spirito. La critica del In realtà, l’alienazione ha due diversi aspetti. Innanzitutto, essa indica il ‘movimisticismo di Hegel mento’ dell’Idea che dà origine alla realtà e riguarda anche per Marx, come per Feuerbach, la stessa astrazione idealistica come caposaldo della filosofia di Hegel: è un tema al quale Marx aveva accennato anche altrove, criticando il «misticismo logico» di Hegel. Nella Critica alla filosofia del diritto, infatti, Marx definisce il sistema di Hegel come dominato da un «misticismo logico, panteistico», intendendo con questa espressione la scelta hegeliana di porre come origine, motore, fine della realtà un ente spirituale e assoluto, l’Idea, e di spiegare tutto ciò che esiste come una derivazione da essa attraverso delle leggi logiche e necessarie, che determinano anche i processi di alienazione ed estraniazione. Questa impostazione teorica fa sì, secondo Marx, che Hegel non prenda per oggetto della sua riflessione l’ente reale, ma ‘costringa’ l’ente reale all’interno delle leggi logiche: «Egli [Hegel] non sviluppa il suo pensiero secondo l’oggetto, bensì sviluppa l’oggetto secondo un pensiero in sé predisposto, e che è stato predisposto nell’astratta sfera della logiOltre Hegel
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Il materialismo di Feuerbach
Il comunismo come superamento dialettico dell’alienazione
ca». Dietro questa «mistificazione» della realtà Marx legge una falsa profondità, una tendenza «mistica» che trasforma delle astrazioni concettuali (l’Idea, il concetto ecc.) in enti reali, presenti e operanti a ogni livello della realtà: enti le cui caratteristiche e i cui poteri sono ‘divini’. In questa interpretazione la logica hegeliana ha, secondo lui, forti connotati teologici e un’intima tendenza panteistica. A parere di Marx, già Feuerbach ha capito, nella sua critica alla pretesa di Hegel di prendere le mosse dall’astrazione e di ritornare ad essa di nuovo a compimento del movimento del «concetto», che la filosofia di Hegel si muove in un orizzonte sostanzialmente teologico poiché irrimediabilmente astratto. Hegel parte infatti dalla religione e dalla teologia, contrappone ad esse il finito e il sensibile, ma infine torna alla religione e alla teologia sopprimendo il finito e il sensibile. Il vero materialismo e la scienza reale devono essere invece fondati, come ha mostrato Feuerbach, sulla concretezza dell’uomo, facendo poi del rapporto sociale tra gli uomini «il principio fondamentale della teoria». Per il secondo aspetto dell’alienazione, la critica a Hegel convive in Feuerbach e Marx con la sua eredità concettuale, con il permanere cioè di un movimento dialettico di alienazione e del suo superamento. L’alienazione religiosa consiste infatti per Feuerbach nella proiezione fuori di sé, in un Dio, delle qualità umane, e il superamento dell’alienazione consiste nel riconoscere questa proiezione e nel tornare all’uomo. Analogamente, nel caso di Marx, si tratta del superamento, del «toglimento» del lavoro alienato attraverso il comunismo.
Marx, Feurbach e l’alienazione
Alienazione in Hegel
Come ‘movimento’ dell’Idea che dà origine alla realtà: idealismo
Come movimento dialettico di alienazione e superamento
Criticata e respinta da Feuerbach e Marx
Accettata e usata sia da Feuerbach che da Marx
La matrice hegeliana della propria posizione non è del resto per nulla nascosta da Marx, e si accompagna al riconoscimento del peso della storia come «opera collettiva». In questo quadro, Marx inserisce ancora il tema della natura dell’uomo in quanto essere che appartiene a una specie e che attraverso il lavoro realizza se stesso.
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Hegel: l’uomo come risultato del proprio lavoro K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
L’importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – sta dunque nel fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione dell’uomo come un processo, l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di questa alienazione; che in conseguenza egli intende l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro. Il comportamento reale, attivo dell’uomo con se stesso come essere che appartiene a una specie, o la attuazione di sé come essere reale appartenente a una specie, cioè come essere umano, è possibile soltanto quando egli esplica realmente tutte le forze proprie della sua specie. 141
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La separazione tra lavoratori e mezzi di produzione
Capitalismo e comunismo
Nei Manoscritti, la nozione di «lavoro alienato» corrisponde, in negativo, a quella della proprietà privata, ed è identificata con il lavoro salariato degli operai, ovvero di coloro che sono privi di proprietà. Come Marx spiegherà bene nel Capitale, condizione essenziale per il sorgere del capitalismo è la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione. Si tratta cioè dell’esistenza di una forza-lavoro potenziale, ovvero di individui privi di qualsiasi proprietà disposti a vendere la propria forza-lavoro, e della presenza di proprietari, ovvero di individui in grado di acquistare questa forza-lavoro (che è, lo vedremo, la «merce» caratteristica ed essenziale del processo di produzione capitalistico), cioè di utilizzarla nel processo produttivo. Per questo, il superamento dell’alienazione consiste nel superamento e nella soppressione della proprietà privata e, quindi, nel comunismo.
Capitalisti
Operai
Proprietari dei mezzi di produzione
Proprietari della propria forza-lavoro
Gli operai sono costretti a vendere la propria forza-lavoro ai capitalisti
Nel comunismo viene superata la separazione tra capitalisti e operai
L’alienazione come svalorizzazione del mondo umano L’alienazione del lavoro, che esprime la svalorizzazione del mondo umano di fronte alla valorizzazione del mondo delle cose, ha per Marx quattro aspetti, che riguardano rispettivamente: 1) il prodotto del lavoro, 2) la stessa attività lavorativa, 3) il rapporto con la specie umana e quindi con l’umanità del lavoratore, 4) il rapporto tra uomo e uomo. 1. Il rapporto tra Il primo aspetto consiste nel rapporto alienato tra l’operaio e il prodotto del suo l’operaio e il prodotto lavoro, un prodotto che non appartiene a lui, ma al datore di lavoro. I quattro aspetti dell’alienazione
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Il prodotto del lavoro e l’annullamento dell’operaio K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
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[…] l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione. […] L’appropriazione dell’oggetto si presenta come estraniazione in tale modo
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che quanti più oggetti l’operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale. Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Il primo, centrale elemento dell’alienazione consiste proprio nella frattura che si attua nel lavoro salariato tra il lavoro come appropriazione, come modificazione della natura, come oggettivazione, e la proprietà del prodotto, che non è di chi lo ha realizzato con il suo lavoro. Il prodotto del proprio lavoro diventa cioè un prodotto che appartiene ad altri. 2. L’alienazione Di non minore importanza è il secondo aspetto dell’alienazione, quello che ridell’attività lavorativa guarda non il prodotto del lavoro, ma la stessa attività lavorativa, che dovrebbe essere un’attività tesa alla realizzazione di sé da parte dell’uomo, e che risulta invece essere il contrario.
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Il lavoro alienato: mortificazione e perdita di sé K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
L’alienazione del lavoro […] consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato […] La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […] è la perdita di sé.
Oltre a queste due fondamentali caratteristiche dell’alienazione, essa comprende per Marx, altri due aspetti. Innanzitutto, l’alienazione del lavoratore rispetto alla specie umana, alla propria umanità, in quanto le caratteristiche essenziali della specie che lo differenziano dagli animali, e che consisterebbero in un lavoro oggettivato (cioè in un lavoro che si realizza attraverso i propri prodotti) ma non alienato, vengono mutate nel loro contrario. 4. L’alienazione Infine, il lavoro alienato implica l’alienazione dei rapporti intersoggettivi, tra uomo dei rapporti sociali e uomo: il rapporto intersoggettivo del lavoro è un rapporto in cui un altro, un altro uomo, è proprietario del lavoro dell’operaio e del prodotto del lavoro, un altro uomo che, come il prodotto, diventa estraneo, ostile, indipendente da chi lavora.
3. L’alienazione rispetto alla specie umana
Il lavoro alienato
1. Alienazione del rapporto tra operaio e prodotto
A. Il prodotto appare come una perdita e un assoggettamento dell’operaio ad esso
B. L’appropriazione è per l’operaio estraniazione e alienazione perché egli, tanti più oggetti produce, tanti meno può possederne
2. Alienazione dell’attività lavorativa rispetto al lavoratore
3. Alienazione dell’attività lavorativa rispetto alla specie umana
4. Alienazione dei rapporti intersoggettivi
L’operaio è costretto a svolgere un lavoro nel quale, anziché realizzarsi, nega se stesso, si annulla in esso
Il lavoratore non realizza la propria umanità nel libero lavoro, quello che distingue l’uomo dagli animali
Il capitalista è proprietario del lavoro dell’operaio e del prodotto, divenendo così ostile ed estraneo ad esso
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il comunismo: l’uomo ritorna a se stesso
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Il comunismo come umanismo e come naturalismo K. Marx, Manoscritti economico-filosofici
➥ Sommario, p. 164
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Il superamento dell’alienazione consiste per Marx, come si è detto, nel comunismo. Di questo, Marx non chiarisce troppo i contorni (non lo farà mai, del resto), ma ne offre una caratterizzazione legata a una diversa immagine dell’uomo: nel comunismo, nella soppressione della proprietà privata, l’alienazione viene superata e l’uomo viene restituito a se stesso, secondo una «negazione della negazione» che ha anch’essa un chiaro segno hegeliano. Si tratta della realizzazione dell’uomo nella sua umanità, nella sua essenza di ente che appartiene alla specie umana e che si esprime attraverso un lavoro non alienato. Per quanto ancora in forma abbozzata, emerge già qui la tesi del comunismo come frutto di un movimento storico che contiene in sé e porta a compimento lo sviluppo storico e le contraddizioni che caratterizzano in particolare la società capitalistica. Al centro di questa prospettiva stanno l’umanesimo, come realizzazione di un uomo nuovo, e il naturalismo come istituzione di un nuovo rapporto con la natura, la cui appropriazione da parte dell’uomo non ha più luogo attraverso un rapporto di alienazione. Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, con il naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione. L’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del comunismo.
La concezione materialistica della storia
I Manoscritti economico-filosofici offrono una sorta di fondazione antropologica del comunismo attraverso l’analisi del lavoro alienato, ma tratteggiano anche una concezione della storia e, non da ultimo, indicano una strada della tradizione materialistica in filosofia abbastanza diversa dalle sue precedenti versioni, si tratti del materialismo settecentesco (che pure Marx vedrà poi come proprio precursore) o del materialismo di Feuerbach. La ricerca di una teoria Marx riflette infatti anche nei Manoscritti, come poi nelle Tesi su Feuerbach e un linguaggio nuovi (1845), nella Sacra famiglia (1845) e nella Ideologia tedesca, sulla necessità di dare alla propria impostazione materialistica una sua originalità, fondata prevalentemente su un’analisi non semplicistica del rapporto tra l’uomo e la natura. A questa riflessione si accompagna, nel maturare della sua posizione dopo i Manoscritti, l’abbandono di un linguaggio che gli proveniva prevalentemente dalla filosofia di Feuerbach e che includeva riferimenti a una essenza dell’uomo o alla delineazione, lo si è visto, di un nuovo umanesimo. Il materialismo di Marx
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Unità 4 Marx Trasformare il mondo
Il lato attivo dell’uomo e la modificazione della natura
La nuova dimensione pratica e storica del materialismo
L’«ideologia» come astrazione e come falsa coscienza
Si è già vista la necessità, per Marx, di dare una soluzione attraverso la prassi – la prassi rivoluzionaria – alle contraddizioni che caratterizzano la società borghese, e in effetti questo sarà il senso dell’undicesima Tesi su Feuerbach, che per l’appunto polemizza verso una filosofia che voglia soltanto interpretare il mondo e non voglia anche trasformarlo: «i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, – così suona l’affermazione marxiana – si tratta di trasformarlo». L’elemento attivo dell’uomo, però, il suo carattere eminentemente pratico, sono rilevanti nella stessa interpretazione marxiana del materialismo, e anche su questo punto Marx si contrappone a Feuerbach. Certo, Marx si muove all’interno di un orizzonte materialistico, per il quale la natura è la sola realtà e anche il solo elemento costitutivo degli esseri umani, e nel quale le possibilità della conoscenza sono innanzitutto di origine empirica. Questo atteggiamento materialistico di fondo, però, deve essere arricchito a parere di Marx di una considerazione più attenta al rapporto tra l’uomo e la natura, che tenga conto proprio del lato attivo dell’uomo. La natura, difatti, il mondo che sta di fronte all’uomo, non sono soltanto il suo luogo di nascita che lo condiziona e lo determina, anche se sicuramente sono anche questo. La natura, gli oggetti, sono anche ciò che viene modificato dall’uomo, ciò che sta con l’uomo, potremmo dire, in una relazione di azione reciproca. Paradossalmente, sostiene Marx nella prima Tesi su Feuerbach, il carattere attivo dell’uomo è stato colto dall’idealismo, seppure solo come attività dello Spirito, in polemica con il materialismo tradizionale: il materialismo deve ora colmare questa lacuna e rinnovarsi, integrando al proprio interno la dimensione pratica. L’inserimento di questo rinnovamento della prospettiva materialistica in una dimensione storica è un tassello non indifferente della concezione materialistica della storia che Marx esplicita nella Ideologia tedesca, il testo che segna il suo passaggio alla piena maturità e, secondo alcuni, costituisce una frattura nella sua biografia intellettuale tra un primo periodo, filosofico, e un secondo, scientifico. La formulazione della concezione materialistica della storia si accompagna, infatti, a un atteggiamento di forte critica della filosofia tedesca contemporanea, da Hegel alla Sinistra hegeliana, ritenuta nel suo complesso colpevole, come si è detto, o di muovere dall’astratto (come nel caso di Hegel), oppure di rimanere sul piano dell’analisi teorica, della filosofia invece di intraprendere la via della prassi. Una delle caratteristiche della posizione di Marx, soprattutto nella Ideologia tedesca, è difatti un atteggiamento di aperta polemica nei confronti della filosofia, ritenuta «ideologia». Il termine è nato in Francia alla fine del Settecento, con altro significato: indica una disciplina filosofica che deve fondare tutte le scienze indagando l’origine delle idee e le leggi in base alle quali si formano. Marx lo usa invece in altre accezioni: in un primo significato indica la «coscienza astratta» distante dalla vita reale e che ne implica il fraintendimento, poiché capovolge i rapporti reali. Questo primo significato, oltre che alla filosofia hegeliana e alle posizioni di molti esponenti della Sinistra, si attaglia, secondo Marx, anche alla religione (vedi sopra p. 135). In quanto espressione del malessere sociale, infatti, la religione esprime un atteggiamento critico verso la realtà, ma la sua soluzione al problema dell’oppressione sociale è inefficace, perché spinge gli uomini ad accettare il mondo così com’è invece che a operare per cambiarlo. In Marx si trova anche un secondo significato di «ideologia», intesa come «falsa coscienza», cioè come una posizione o una teoria che non solo fraintende la realtà ma cerca al tempo stesso di giustificarla e legittimarla. È il caso degli eco145
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
nomisti classici che vedono l’individuo come homo oeconomicus isolato, come Robinson Crusoe (per questo Marx parla ironicamente di «robinsonate»), perché rendono eterno e statico l’individualismo, che è, invece, un prodotto storico della società borghese: si tratta di un tipico caso di «ideologia» nel secondo senso appena descritto. L’ideologia in Marx
Primo significato
Secondo significato
Ideologia: «coscienza astratta», posizione astratta che fraintende i rapporti reali
Ideologia: «falsa coscienza» che non solo fraintende la realtà, ma cerca di giustificarla rendendo eterno ciò che è storico
La storia
La critica dell’idealismo: la storia non è storia dello Spirito né ha un fine
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La storia come successione di generazioni K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca
La natura: materia concreta della storia
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Ma la grande protagonista della nuova prospettiva marxiana è la storia, con la sua interpretazione «materialistica». Naturalmente, tra gli obiettivi polemici c’è Hegel, e l’idea che la storia sia costituita dal cammino dello Spirito. La filosofia di Marx è difatti segnata profondamente dalla lettura di Hegel, ma ciò che di Hegel non può essere accettato da Marx è proprio, e innanzitutto, il carattere idealistico del processo storico. La critica dell’idealismo prende poi di mira un altro aspetto della filosofia speculativa della storia, ovvero il suo aspetto finalistico (teleologico), che di rado viene attaccato negli scritti di Marx quanto nella Ideologia tedesca. L’accentuazione ‘empiristica’ di quest’opera, più volte rilevata dagli interpreti, porta infatti con sé, in questa occasione, il rifiuto netto ed esplicito di elementi finalistici nella considerazione della storia. La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente […]; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una «persona accanto ad altre persone» […] mentre ciò che viene designato come «destinazione», «scopo», «germe», «idea» della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva. La storia deve invece essere vista, per Marx, nella sua concretezza determinata, prendendo le mosse da uomini concreti che agiscono materialmente e che hanno uno specifico rapporto sia tra di loro sia con la natura: con quest’ultima, il rapporto è poi, come si è visto, duplice. Da un lato si è determinati da essa, si ha
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una certa costituzione naturale, dall’altra, però, l’uomo ha con la natura anche un rapporto attivo, perché la modifica e la trasforma continuamente. Al centro del divenire storico Marx vede quindi la natura come materia concreta sulla base della quale si avvicendano gli eventi, ivi incluse le trasformazioni di essa ad opera dell’uomo. Partire dall’uomo Il punto di partenza è un inizio del tutto empirico, che può essere soltanto conconcreto statato, e che costituisce intenzionalmente il termine polemico di paragone nei confronti della concezione idealistica della storia. I presupposti dai quali si parte, Marx lo sottolinea, sono presupposti dei quali si può non tenere conto soltanto se ci si sottopone allo sforzo dell’astrazione e dell’immaginazione, perché altrimenti sono immediatamente percepibili come reali: sono gli esseri umani concreti. Marx riprende, e anche in questo caso sembra radicalizzare, la polemica che l’idealismo di Fichte e in particolare di Hegel aveva condotto nei confronti della filosofia kantiana (o delle «anime belle»). Ciò che l’uomo è, è dato da ciò che viene realizzato, da ciò che viene fatto concretamente, non è il risultato della semplice interiorità o della semplice intenzione. Questa dimensione dell’uomo reale, esteriore, presente nel mondo, viene accentuata da Marx sottolineando la concretezza naturale degli individui e, soprattutto, il modo in cui questa concretezza materiale, questa esistenza materiale viene conservata e riprodotta. In questa prospettiva, la capacità di produrre (e riprodurre) la propria esistenza materiale diventa il tratto specifico principale degli uomini rispetto agli animali.
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La produzione: base della storia e della specie umana K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca
Il fondamento naturale e sociale della produzione
Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura […]. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subìte nel corso della storia per l’azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono, quanto col modo come producono. La centralità dei processi economici nella storia ha quindi una radice ben precisa, che consiste nel fatto che gli uomini sono esseri naturali che hanno bisogno di mezzi di sussistenza per sopravvivere, insieme con il fatto che l’attività grazie alla quale è possibile rendere disponibili questi mezzi è proprio la produzione, quindi l’attività economica, che quando diventa un’attività tipicamente umana è un’attività di tipo sociale. Naturalmente, ciò non significa ridurre le attività umane alla produzione dei mezzi di sussistenza, ma vedere le attività diverse da essa come dipendenti, come Marx aveva già accennato nel passo dei Manoscritti citato sopra e come ora torna a sottolineare rilevando il carattere derivato dei processi della coscienza, e in genere intellettuali, rispetto alla vita materiale concreta. 147
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
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Vita reale e coscienza
K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca
Non è la coscienza che determina la vita degli uomini, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza.
La vita degli uomini, il fatto che essi possano vivere, è inevitabilmente il primo presupposto di ogni storia, o almeno di ogni storia come storia umana. Il rapporto con i bisogni è un rapporto fondamentale, ed è un rapporto che per Marx non si esaurisce nella soddisfazione dei bisogni naturali. I bisogni sono qualcosa che nella civiltà moderna tende a moltiplicarsi indefinitamente, e questa creazione di nuovi bisogni è per Marx un secondo presupposto della storia. Infine, un terzo presupposto, che riguarda ancora la produzione della propria esistenza materiale, è la riproduzione, il fatto che gli uomini producano la propria esistenza anche dal punto di vista più direttamente fisico, tramite l’atto sessuale. Si tratta, in tutti questi casi, di tre aspetti o di tre momenti di uno stesso processo, di un tipo di rapporto degli uomini con la propria natura che costituisce il tratto essenziale di ogni fase della storia umana. Il quarto presupposto: Marx aggiunge infine un quarto presupposto essenziale, e cioè che questa relala cooperazione zione degli uomini con la natura è una relazione al tempo stesso naturale e sociale: ogni modo di produzione è legato a un tipo determinato di cooperazione.
Tre presupposti: bisogni naturali, nuovi bisogni e riproduzione sessuale
Struttura e sovrastruttura La società civile come teatro della storia
Sappiamo già che tutto l’ambito che riguarda i bisogni e il lavoro rientra per Marx nella società civile, che raccoglie da un lato le forze produttive, l’aspetto quantitativo della produzione, dall’altra, le relazioni sociali, ossia il modo determinato in cui gli uomini entrano in relazione per produrre. La società civile comprende infatti per Marx «tutto il complesso delle relazioni materiali tra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive», poiché anche e soprattutto la società civile, evidentemente, è un fatto storico. E la società civile, come luogo dei rapporti economico-sociali, è la sede dello sviluppo e della dinamica storica, come Marx espone nell’Ideologia tedesca e come spiegherà in modo conciso ma esplicito nella prefazione dell’opera che anticipa Il capitale e che Marx pubblica nel 1859, Per la critica dell’economia politica. Il vero focolare, il «teatro» della storia è costituito dalla società civile, non dallo svolgimento dello Spirito come voleva Hegel né, tantomeno, come vuole un’«assurda storia corrente», dalle azioni dei capi e dagli Stati. Nel ricostruire la propria biografia intellettuale, Marx mostra quali siano state le conclusioni a cui la sua ricerca è giunta, formula cioè la concezione materialistica della storia.
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La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né spiegandoli con la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile è da cerca-
Struttura e sovrastruttura K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione
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re nell’economia politica […] nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della loro vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Dipendenza dalla struttura
La dinamica della storia è dunque data da forze produttive e rapporti di produzione, che costituiscono la struttura della società, l’elemento prevalente dal quale dipendono gli altri, si tratti di forme di coscienza e di teoria oppure di forme politiche e giuridiche, le quali tutte costituiscono la cosiddetta sovrastruttura. Struttura e sovrastruttura
Struttura economica
Sovrastruttura
Forze produttive e rapporti di produzione
Forme politiche e giuridiche a cui corrispondono determinate forme sociali della coscienza
La struttura economica della società costituisce la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura che da essa dipende.
La struttura, ossatura della società
Al centro della struttura economica ci sono poi due elementi che hanno per Marx un preciso rapporto di corrispondenza: la divisione del lavoro e la proprietà privata. Il rapporto di corrispondenza è per Marx quanto mai evidente: la divisione del lavoro rappresenta dal punto di vista del lavoro, ossia dell’appropriazione della natura, ciò che la proprietà privata è dal punto di vista del prodotto dell’attività: un fattore di separazione tra gli uomini in classi antagoniste. Naturalmente, la divisione del lavoro è un prodotto storico che nella società capitalistica ha raggiunto il suo livello massimo, e che segna di sé, insieme con la successione di diverse forme di proprietà, lo sviluppo della storia. Inizialmente, le prime forme di divisione del lavoro sono legate alla divisione del lavoro su base sessuale (sia per la divisione del lavoro nell’atto sessuale, su base naturale, sia per un’altrettanto naturale divisione del lavoro in base alla forza fisica), poi alla fondamentale divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra città e campagna, e così via.
Struttura e mutamento storico Se abbiamo chiarito in che modo i rapporti di produzione costituiscono per Marx la struttura di base della società, la sua ossatura, rimane da spiegare in che modo questa stessa struttura possa essere il principio o il criterio esplicativo del mutamento storico e in particolare delle rivoluzioni. 149
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Progresso e dominio della natura
➥ Laboratorio di lettura, p. 167
Marx ha un’idea del progresso economico di tipo sostanzialmente ottimistico. Se pensa al lavoro – una volta che si sia superata la dimensione del lavoro alienato – come forma di realizzazione della personalità degli individui, Marx pensa anche che lo sviluppo scientifico, tecnico, economico sia strutturalmente positivo, e che il dominio della natura non possa che essere, presto o tardi, un bene per l’uomo. In questo consiste del resto la funzione positiva del capitalismo: nell’aver esteso il dominio della natura e nell’aver reso l’uomo capace di produrre un’enorme quantità di ricchezza, ovvero nell’avere elevato grandemente le forze produttive. Qui sta anche il grande merito storico della borghesia, come ampiamente sottolineato in pagine famose del Manifesto. La capacità di produrre costituisce il motore dello sviluppo storico e dei cambiamenti strutturali, che si verificano quando un determinato tipo di relazioni, all’interno delle quali la produzione ha luogo, non è più adeguato, e diventa piuttosto un freno.
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A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
Analisi oggettiva e socialismo scientifico
Come si vede, i processi rivoluzionari, cioè ogni grande trasformazione storica, sono frutto di un processo oggettivo: con la sua proposta, Marx ritiene di potere offrire un’analisi della società capitalistica che non solo non è stata finora offerta, ma che permette di individuare all’interno del capitalismo le condizioni per la futura società comunista. I mutamenti sociali sono cioè frutto dei limiti dello sviluppo economico all’interno di determinate forme sociali, ovvero all’interno di certi rapporti di produzione. L’intervento rivoluzionario, sul quale torneremo più avanti, fa soltanto precipitare una situazione che è ormai matura da un punto di vista oggettivo. È proprio per questo che Marx ritiene il proprio socialismo un socialismo «scientifico» da contrapporre alle forme precedenti, e soprattutto al socialismo «utopistico» di Charles Fourier (1772-1837) e di Robert Owen (1771-1858). Il presupposto indispensabile per la costruzione della società comunista è che si dia un grande sviluppo delle forze produttive, tale che non ci sia nessun problema di scarsità, che ci sia una grande maggioranza priva di proprietà e che questa grande maggioranza si contrapponga alla estraniazione della società esistente. In questo modo sarà possibile superare la condizione di alienazione e di estraniazione della società capitalistica, come Marx scrive esplicitamente, con qualche ironia sul carattere «filosofico» di un termine che lui stesso, in realtà, ha usato con grande disinvoltura fino a pochi mesi prima.
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Questa «estraniazione», per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto «priva di proprietà» e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente
Dall’acuirsi delle contraddizioni alla rivoluzione K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione
Due condizioni della rivoluzione K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca
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della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive […] è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario. L’estraniazione è collegata alla divisione del lavoro e all’esistenza della proprietà privata, come emergeva già nell’analisi dei Manoscritti: si tratta di un lavoro forzato, di una divisione del lavoro non scelta volontariamente ma forzata, dove ciascuno «è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere». Nelle attuali relazioni sociali, il lavoro è diviso e l’uomo è forzato in una determinata attività, in una determinata collocazione, mentre nella futura società comunista, sostiene Marx, l’uomo sarà caratterizzato da una onnilateralità, cioè dalla possibilità di sviluppare le proprie disposizioni e i propri talenti nella direzione che ritiene più opportuna. Utopia e processo Ma questa vena utopica, retaggio probabile della grande diffusione, nella Gerstorico oggettivo mania tra Settecento e Ottocento, del tema di una formazione «completa» e onnilaterale dell’uomo, viene intesa da Marx non come un ideale, non come il perseguimento di una società perfetta e nemmeno, o tantomeno, come il ristabilimento di una multilateralità dell’uomo che nella storia è stato sempre più costretto alla divisione e alla parcellizzazione del lavoro. Si tratta piuttosto, per Marx, dell’esito di un processo storico oggettivo, di un processo reale che finisce per coinvolgere la stessa nozione di «comunismo».
Dall’estraniazione allo sviluppo umano
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Il comunismo K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.
Le forme di proprietà e la genesi del capitalismo Le diverse forme di proprietà precapitalistiche e la genesi dello stesso capitalismo sono delineate da Marx nell’Ideologia tedesca, menzionate anche nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, ma trattate più per esteso in una parte dei cosiddetti Grundrisse (una gran quantità di materiale preparatorio del Capitale redatto tra il 1857 e il 1859) dedicata alle forme che precedono l’accumulazione capitalistica e all’accumulazione originaria. Alla genesi del modo di produzione capitalistico, che si fonda su condizioni sociali ed economiche precise, Marx dedicherà poi un importante capitolo del primo libro del Capitale, dedicato appunto all’accumulazione originaria. Dalle comunità A partire dalla comunità primitiva, Marx individua diverse forme economico-soprimitive alla società ciali che precedono il capitalismo: gli interpreti hanno discusso molto su questa capitalistica articolazione, ma Marx non intende indicare così una sorta di percorso necessario che tutte le civiltà devono seguire, quanto piuttosto ripercorrere, a partire dal mondo contemporaneo, le forme che lo hanno preceduto. E Marx, nei Grundrisse, ci parla di una comunità primitiva, in cui si ha un rapporto diretto sia con la natura sia con la comunità alla quale si appartiene, che ha una sua variante nel-
Un tema ricorrente nella riflessione di Marx
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
la forma di proprietà asiatica, poi si ha la società antica, che è concentrata sulla città, e poi quella feudale, che è invece concentrata sulla campagna. Con la fine del feudalesimo, comincia il processo che per Marx conduce alla società e al modo di produzione capitalistico, che conosce anch’esso fasi successive, a partire dal XVI secolo, per arrivare al moderno capitalismo industriale. La «cosiddetta La genesi del modo di produzione capitalistico affonda le radici in quella che accumulazione Marx chiama con ironia la «cosiddetta accumulazione originaria» degli econooriginaria» misti classici: l’accumulazione originaria, infatti, ha per l’economia politica la funzione che per la teologia ha il peccato originale. Si tratta cioè, secondo Marx, di una spiegazione fantastica di come sia nato il capitalismo, quasi che per spiegare la nascita del lavoro salariato si debba immaginare da un lato una «élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice», dall’altro, «degli sciagurati oziosi», che infine siano costretti per i propri demeriti a mettere a disposizione il proprio lavoro come operai salariati. Marx dedica un capitolo del Capitale a questo tema, che viene affrontato con una straordinaria ricchezza di dati storici utili per mostrare la genesi delle diverse figure sociali. Particolarmente significativa, qui, è l’illustrazione delle condizioni per la genesi del capitalismo.
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I presupposti del capitalismo K. Marx, Il capitale
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7 La merce
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Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente […] Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare «originario» perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente. L’analisi critica di questo modo di produzione che vede fronteggiarsi capitalisti e lavoratori salariati nella società capitalistica, dove tutto è merce, anche la forzalavoro umana, è il tema della trattazione di Marx nel Capitale, ovvero la sede più matura per la critica marxiana dell’economia politica.
La critica dell’economia politica Al centro dell’analisi di Marx, punto di partenza e al tempo stesso indiscusso nucleo teorico, sta la nozione di merce, la cui importanza è stata sottolineata già nei
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Manoscritti (vedi p. 138). L’analisi è però ora molto più profonda, sulla scia delle nuove acquisizioni teoriche dei Grundrisse e di Per la critica dell’economia politica. La merce costituisce in effetti il modo in cui si presenta, nel modo di produzione capitalistico, la ricchezza.
T20
Iniziamo dalla merce… K. Marx, Il capitale
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci», e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’esame della merce.
Le pagine di Marx dedicate a questo tema sono sicuramente tra le più difficili, ma anche tra le più suggestive che egli abbia scritto, tanto che anche chi ne dissenta non può fare a meno di restarne colpito. Anche per il lettore di oggi, la descrizione marxiana di un mondo dominato dalle merci e dalla loro produzione conserva tutto il suo interesse, come lo conserva la rappresentazione delle merci come espressioni mascherate di rapporti sociali. Sullo sfondo di quest’analisi, e del carattere complesso della merce, c’è poi, ancora una volta, Hegel e la sua concezione dell’oggettività della contraddizione. La merce come forma elementare si presenta infatti come la radice contraddittoria di un modo di produzione, quello capitalistico, che sulla contraddizione è fondato e sulla contraddizione si sviluppa. È del resto questo stesso tessuto contraddittorio che deve essere «risolto» in una forma superiore di società. La contraddizione La contraddizione centrale della merce, di qualunque merce, è di essere al temcentrale della merce po stesso valore d’uso e valore di scambio. Un mondo dominato da merci, dove si annida la contraddizione del capitalismo
T21
Il valore d’uso depositario materiale del valore di scambio K. Marx, Il capitale
Il valore d’uso: contenuto materiale della ricchezza
La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia non cambia nulla. Qui non si tratta neppure del modo in cui la cosa soddisfa il bisogno umano: se immediatamente, come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto di godimento o per via indiretta, come mezzo di produzione […] L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. È un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene. Questo suo carattere non dipende dal fatto che l’appropriazione delle sue qualità utili costi all’uomo molto o poco lavoro […] Il valore d’uso si realizza soltanto nell’uso, ossia nel consumo. I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio. Il primo aspetto di qualunque merce spetta ad essa come oggetto di un certo tipo, indipendentemente, verrebbe da dire, dalla forma di società in cui essa è prodotta. La caratteristica specifica di un tipo di cibo, di un libro o di un oggetto come uno strumento (per esempio un martello) è una caratteristica legata ai suoi tratti naturali, sensibili, utili per soddisfare determinati bisogni. Per questo i valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza indipendentemente dalla forma sociale, ovvero dal modo di produzione, in cui vengono prodotti. 153
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Questi stessi valori d’uso sono però, al tempo stesso, anche valori di altro genere, che Marx chiama valori di scambio: le merci oltre che essere consumate nella loro utilità specifica, vengono anche scambiate, e anzi, è proprio per questo che sono vere e proprie merci. Questa è la caratteristica strutturale della società borghese moderna. Una misura comune La peculiarità dello scambio delle merci consiste ancora una volta in un elemenper lo scambio to contraddittorio. Le merci, infatti, da un lato vengono scambiate tra loro perché delle merci sono diverse: se fossero uguali, evidentemente, non ci sarebbe nessun bisogno di scambiarle. Dall’altro lato, però, le merci devono essere ridotte a una relazione di uguaglianza, devono essere non solo comparabili, ma commensurabili, devono cioè avere una misura comune che permetta di scambiarle: una certa quantità di grano, per esempio, deve corrispondere a una certa quantità di ferro. Il valore di scambio
T22
Il rapporto di scambio delle merci
K. Marx, Il capitale
Prendiamo poi due merci: per es. grano e ferro. Quale che sia il loro rapporto di scambio, esso è sempre rappresentabile in una equazione, nella quale una quantità data di grano è posta come eguale a una data quantità di ferro, per es. un quarter [il quarter è una misura che corrisponde a 28 libbre e circa a 12,7 kg] di grano = un quintale di ferro. Che cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in un quarter di grano come pure in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l’uno e l’altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l’uno né l’altro. Ognuno di essi, in quanto valore di scambio, dev’essere dunque riducibile a questo terzo. Valore d’uso e valore di scambio
Valore d’uso
Il corpo della merce, l’oggetto che soddisfa dei bisogni umani, il contenuto materiale della ricchezza
Valore di scambio
L’oggetto, che ha un dato valore d’uso, per essere una merce deve poter essere scambiato con un’altra merce; in quanto tale esso ha un determinato valore di scambio
La teoria del valore-lavoro Alla ricerca della misura comune delle merci
T23
Al di là del valore d’uso: il lavoro astratto K. Marx, Il capitale
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Il problema è naturalmente capire cosa sia questo terzo, questa misura comune a merci completamente differenti, questa possibilità di rendere commensurabili dal punto di vista quantitativo, con un’equazione, ciò che dal punto di vista della qualità (del contenuto, cioè del valore d’uso) è diverso. La misura comune delle merci sarà quindi qualcosa che prescinde dal valore d’uso. Ma se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro ci si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d’uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d’uso. Non è più tavola, né casa, né filo, né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto di falegnameria o del lavoro edilizio o del lavoro di filatura o di altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scom-
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pare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto. Il lavoro astratto e la sua quantificazione
Teoria del valore-lavoro
Il lavoro è ciò che rende conto del valore delle merci: una merce ha valore in quanto in essa viene materializzato, concretizzato, realizzato il lavoro «astrattamente umano», una certa quantità di lavoro, e la quantità del lavoro corrisponde alla durata temporale del lavoro. Il lavoro che dà luogo al valore deve per forza essere astratto: il lavoro concreto è qualcosa di specifico come il valore d’uso delle merci, e manca quindi di una misura comune con gli altri lavori. Il lavoro astratto è invece quel lavoro «in generale», forza lavorativa umana che va considerata astrattamente, che è comune a tutti i lavori ed è quindi contenuta in tutte le merci, costituendo il loro valore. Per quel che riguarda la misura del lavoro, che sta a fondamento della misura del valore delle merci, Marx ritiene che si debba fare una media delle capacità e delle condizioni date in un certo momento, cioè una media del tempo di lavoro necessario per produrre certe merci: merci che richiedono in media, per essere prodotte, la stessa quantità di lavoro, hanno la stessa grandezza di valore. Astraendo da ogni caratteristica specifica del valore d’uso delle merci risulta che
il valore che accomuna ogni tipo di merce è il lavoro astratto contenuto in essa Dunque
è il lavoro a conferire valore alle merci In conclusione risulta che
è la durata media del tempo di lavoro necessario a produrre una merce a rappresentare l’unità di misura del suo valore
Il nuovo protagonista della teoria del valore-lavoro: il proletariato
L’impostazione di Marx riprende, e riutilizza ai propri fini, la teoria del valorelavoro degli economisti classici, in particolare di Smith e di Ricardo, ovvero la teoria per la quale la fonte del valore è il lavoro. Per Marx, il senso di questa operazione, nel fornire un preciso modello di funzionamento del capitalismo, sta nel mettere al centro dell’orizzonte il lavoro e la classe che del lavoro vive nella società capitalistica, la classe operaia, mostrando come essa sia la protagonista principale della produzione della ricchezza. 155
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il denaro: equivalente generale del valore
Si è accennato al fatto che la condizione del formarsi di un’economia capitalistica è costituita da due elementi principali: la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione e la disponibilità di denaro e di mezzi di produzione. Il denaro è anch’esso una merce, ma di tipo peculiare: esso è la merce nella quale il valore d’uso consiste nello scambio, è l’equivalente generale del valore, che nella società borghese assume un ruolo particolarmente rilevante, essendo questa fondata sullo scambio. Lo scambio sviluppato del modo di produzione capitalistico non vede infatti lo scambio come scambio tra merci, ma sempre mediato dal denaro: il denaro viene cambiato con la merce, e la merce viene a sua volta cambiata con il denaro, nel processo di circolazione delle merci.
La forza-lavoro e il plusvalore Il lavoro come merce: la forza-lavoro
Vendita e acquisto della forza-lavoro
Il salario minimo
Il profitto
Soltanto il lavoro valorizza i prodotti
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Insieme con il denaro, la merce indispensabile per il modo di produzione capitalistico è quella merce che si è resa disponibile in seguito alla separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, la merce cioè che costituisce l’unica proprietà di una gran parte della popolazione: si tratta del lavoro come merce che può essere acquistata, cioè della forza-lavoro. Ora, per Marx la forza-lavoro è una merce particolare. Essa viene acquistata da chi abbia una certa disponibilità ad acquistarla e la possibilità di utilizzarla, da chi possegga cioè i mezzi di produzione. È da notare che l’acquisto della forza-lavoro da parte del capitalista è in apparenza un contratto di scambio, cioè di vendita, che non ha nulla di diverso rispetto ad altri contratti: il capitalista acquista la forza-lavoro con il suo denaro come acquisterebbe un’altra merce. Non c’è insomma nessuna costrizione giuridica del tipo di quelle che esistevano per gli schiavi (giuridicamente inferiori ai cittadini «liberi») o per i servi della gleba (giuridicamente legati a certe porzioni di terra). Il lavoratore salariato moderno è «libero», e offre sul mercato l’unica merce di cui dispone, che viene acquistata dal capitalista. Il risultato di questo acquisto è per il capitalista un prodotto che appartiene a lui, e non all’operaio, proprio perché lui ha acquistato, per un tempo determinato, il lavoro, la forza-lavoro dell’operaio, che Marx ritiene corrisponda, per quanto riguarda il suo valore, al valore dei mezzi di sussistenza necessari per reintegrare la forza-lavoro. Marx ritiene cioè che il salario con il quale il capitalista acquista la forza-lavoro dell’operaio sia un salario minimo, corrispondente allo strettamente necessario per la sopravvivenza dell’operaio (e, eventualmente, della sua famiglia). Nel processo produttivo, il capitalista ha due obiettivi principali: produrre una merce e, in più, produrre una merce il cui valore sia più alto della somma delle merci necessarie per la sua produzione. L’esistenza di questo valore eccedente è ciò per cui il capitalista entra nel processo produttivo: non avrebbe senso produrre una merce il cui valore fosse uguale ai suoi elementi componenti perché non ci sarebbe alcuna convenienza per il capitalista. Ciò che Marx vuole spiegare è quindi il profitto, l’eccedenza di valore che il capitalista ricava dalla produzione. Per quanto riguarda i mezzi di produzione, come materiali e macchine, Marx ritiene che non facciano altro che trasmettere al prodotto finale una parte del loro valore, ma non siano in grado di creare valore.
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Il plusvalore: il capitalista si appropria del valore prodotto dall’operaio
Uguaglianza formale e sfruttamento reale
Disoccupazione e salari bassi: l’esercito di riserva La forza-lavoro e il plusvalore
È qui che interviene la peculiarità della merce costituita dalla forza-lavoro: il processo lavorativo è anche un processo di valorizzazione, il che significa che l’uso della forza-lavoro acquistata dal capitalista è in grado di produrre un valore maggiore del valore della forza-lavoro stessa che viene corrisposto all’operaio sotto forma di salario. Una parte del valore prodotto dall’operaio, quindi, costituisce un’eccedenza rispetto al valore pagato all’operaio sotto forma di salario e anche rispetto all’insieme dell’investimento del capitalista poiché il lavoro, e soltanto il lavoro, ha la peculiarità di aumentare il valore attraverso la sua applicazione. L’eccedenza di valore del prodotto del lavoro viene chiamata da Marx «plusvalore»: sotto l’apparenza di uno scambio contrattuale paritario in cui si acquista una merce (la forza-lavoro) con l’equivalente del suo valore (il salario), il capitalista, che diventa il proprietario del prodotto del lavoro, si appropria del valore prodotto dall’operaio. Qui ha evidentemente la sua radice il carattere antagonistico del capitalismo e del rapporto tra capitale e lavoro, i cui interessi, per Marx, sono contrapposti. L’uguaglianza giuridica formale della società borghese, che pone uno di fronte all’altro capitalista e lavoratore come soggetti uguali, nasconde cioè uno scambio ineguale, nel quale consiste per Marx il nucleo dello sfruttamento capitalistico. Il lavoratore è in apparenza libero di vendere o meno la propria merce; in realtà, il lavoratore non ha la possibilità di sottrarsi al contratto perché è costretto a lavorare, cioè a vendere la propria forza-lavoro, per vivere. Naturalmente, si tratta in questo caso di una costrizione indiretta che non ha radice giuridica ma sociale, cioè diversa dalle costrizioni delle società precedenti la società borghese (come nel caso degli schiavi o della servitù della gleba). Inoltre, per Marx l’aumento progressivo del proletariato dal punto di vista quantitativo porta con sé una sorta di concorrenza tra i potenziali lavoratori salariati per la pressione di un «esercito industriale di riserva» che contribuisce a tenere bassi i salari. Il capitalista acquista dall’operaio la sua forza-lavoro fornendogli un salario
Il lavoro dell’operaio valorizza l’oggetto del lavoro in una misura maggiore rispetto al suo salario
Il capitalista si appropria del valore aggiunto, ovvero del plusvalore, realizzando così un profitto
L’operaio risulta essere sfruttato Inoltre
a dispetto dell’uguaglianza formale delle società borghesi, l’operaio è in realtà costretto a vendere la propria forzalavoro per poter sopravvivere
l’operaio è costretto ad accettare il salario impostogli perché c’è sempre una quantità di altri operai disoccupati pronti ad accettare il suo posto
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
L’accumulazione e i problemi del capitalismo L’instabilità del modo di produzione capitalistico
Tendenza al monopolio ed espansione
L’anarchia dovuta al perseguimento del profitto a ogni costo
Le crisi di sovrapproduzione
T24
L’assurdità delle crisi
K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista
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Grazie all’eccedenza del plusvalore e al profitto che si basa su questo, il capitale può promuovere un processo di progressiva accumulazione. Certamente Marx intende innanzitutto sottolineare l’enorme capacità produttiva del modo di produzione capitalistico, che si realizza in proporzioni mai viste prima. Parallelamente, però, egli ne vuole mostrare anche il carattere instabile e irrazionale, una instabilità che ha diversi aspetti e che segna, nel suo mostrarsi progressivamente sempre più difficile da riequilibrare, quella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione che sta alla radice delle trasformazioni sociali. Il mercato economico capitalistico, ben lungi dal costituire un sistema armonico, è, secondo Marx, la prima fonte dei problemi e delle tensioni che porteranno alla sua fine e al suo definitivo crollo. Un fenomeno problematico del capitalismo è la concentrazione progressiva del capitale in un numero di mani sempre minori, perché i capitalisti di dimensione minore vengono progressivamente assorbiti da quelli di dimensione maggiore. Analogamente, il capitalismo tende a espandersi per cercare nuovi mercati, ovvero nuovi acquirenti di merci che il solo mercato di un singolo Paese non è in grado di assorbire. È difficile negare che queste due tendenze del capitalismo prospettate da Marx si siano avverate: concentrazione e necessità di estendere la propria influenza sono state due caratteristiche del capitalismo ben dopo Marx, fino a noi. Ugualmente presente, secondo molti, e collegato strettamente alla necessità di espansione, è nel capitalismo il costante rischio di una crisi che deriva dal carattere anarchico, ossia privo di regole e non pianificato, della produzione. La produzione capitalistica difatti non produce in vista del consumo, ma produce merci che per potere essere consumate devono essere vendute, ed è questa vendita, questa realizzazione sul mercato il vero fine del capitalista, che promuove una produzione fine a se stessa per realizzare il proprio profitto. Ora, per Marx questa anarchia della produzione, questa produzione per la produzione conduce a crisi economiche che egli già nel Manifesto chiamava crisi di sovrapproduzione. L’irrazionalità del capitalismo, una profonda convinzione di Marx, fa sì che le merci possano andare addirittura distrutte, quando non possano essere vendute, anche se ci fosse chi ne ha bisogno ma non può permettersi di acquistarle, o non può arrivare a farlo. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione […]. La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta.
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Unità 4 Marx La logica del profitto
Grazie all’eccedenza del plusvalore e del profitto il capitale aumenta progressivamente
Concentrandosi, il capitale tende a costruire dei monopoli, ovvero dei grossi gruppi che assorbono quelli più piccoli, nonché a espandersi incessantemente alla ricerca di nuovi mercati
Questa dinamica è retta da una sola logica: la logica del profitto
Poiché il capitalista mira esclusivamente a incrementare il proprio profitto, il sistema di produzione può andare incontro a delle crisi di sovrapproduzione
Tali crisi, in cui vengono perfino distrutte le merci, mostrano il carattere anarchico e irrazionale di un modo di produzione retto dalla logica del profitto
La caduta tendenziale del saggio di profitto
Tensioni irrisolte del capitalismo come preludio alla rivoluzione
➥ Sommario, p. 164
Per quanto riguarda la concentrazione del capitale, la sparizione e l’impoverimento di parte della classe capitalista deriva dalla necessità di sviluppare sempre più la produzione attraverso l’utilizzo delle macchine, che presuppongono da parte dei capitalisti una notevole disponibilità a investire per fronteggiare la concorrenza. Questo stesso processo di progressiva meccanizzazione del capitalismo – che Marx individua lucidamente, anche nei suoi effetti deleteri sul lavoro umano – ha però in realtà un risultato catastrofico, una tendenza che Marx chiama caduta tendenziale del saggio (percentuale, tasso) di profitto, e che è stata considerata una delle sue diagnosi meno riuscite. Per aumentare il profitto, il capitale deve aumentare la sua capacità di produrre, e per questo deve aumentare continuamente la parte del capitale consistente di macchine e di innovazione e tecnica. Questo procedimento aumenta la massa complessiva del profitto, perché si riesce ad aumentare la produzione, ma in realtà diminuisce il saggio del plusvalore e quindi del profitto, ovvero la percentuale di quanto il capitale si valorizza. Si è visto infatti che la valorizzazione è tanto maggiore quanto maggiore è nell’investimento complessivo la parte dedicata al lavoro, che è l’unica componente del capitale capace di creare valore. In un certo senso, quindi, tanto più il capitale aumenta la sua produzione, tanto meno riesce ad aumentare, o anche a conservare, la propria capacità di valorizzazione perché diminuisce la percentuale di lavoro sul complesso dei mezzi utilizzati. Le tensioni oggettive del capitalismo, sovrapproduzione e caduta del saggio di profitto, sono ciò che per Marx prelude alla trasformazione della società, della quale si fa carico il proletariato e che per Marx non può che avere luogo con una rivoluzione. 159
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
8 Accenni al comunismo
T25
La storia è storia di lotte di classi K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista
Verso il comunismo Per quanto riguarda i tratti della futura società comunista, Marx non dà molte indicazioni nei suoi scritti, coerentemente con l’assunto che farlo avrebbe significato esporsi al rischio dell’utopismo. Ci dà però qualche indicazione sul passaggio dal capitalismo al comunismo, e anche, nonostante i suoi timori, qualche utopica indicazione sui caratteri dell’uomo della futura società comunista. Lo scontro di classe, la lotta di classe, non è, per Marx, una caratteristica della società borghese, al contrario, è una caratteristica strutturale della storia umana che potrà essere superata soltanto con la società comunista. È famoso, in questo senso, l’esordio del Manifesto: La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. Marx vede nella società capitalistica un antagonismo fondamentale tra borghesia e proletariato, che si accompagna al progressivo impoverimento del secondo. L’aumentare della tensione sociale e il progressivo acutizzarsi delle crisi economiche e commerciali creano poi le condizioni perché si possa verificare la rivoluzione.
La rivoluzione e il comunismo Lo Stato e la cultura, espressioni della classe dominante
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Con un’analisi della politica che gli ha attirato nel tempo molte critiche per avere semplificato eccessivamente la natura dello Stato, Marx ritiene che l’universo politico, essendo dipendente dalla struttura economica della società, rappresenti di regola gli interessi della classe dominante. Anche sul piano della cultura e della produzione intellettuale, già l’Ideologia tedesca sosteneva che le idee dominanti sono le idee della classe dominante. In questo quadro, è abbastanza inevitabile che lo Stato e la cultura siano dipendenti dagli interessi di classe, parti-
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Unità 4 Marx
colari, della borghesia, e che solo una rivoluzione possa ricostituire un’organizzazione sociale radicalmente diversa. Il carattere universale La peculiarità del proletariato, nella prospettiva di Marx, è invece la sua caratdel proletariato teristica di universalità (come Marx mette in evidenza fin dai suoi primi scritti), non essere, quindi, rappresentante di interessi particolari, non avendo una proprietà privata. Sempre, nella storia delle rivoluzioni, il soggetto della rivoluzione si presenta come rappresentante dell’interesse generale, ma nel caso della rivoluzione del proletariato questa pretesa è giustificata, tanto che la rivoluzione comunista ha obbiettivi ben più avanzati di tutte le rivoluzioni sinora avvenute, una società senza classi: «alla vecchia società borghese con le sue classi e con i suoi antagonismi fra le classi – scrive Marx nel Manifesto – subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti». In questo tipo di prospettiva, nei Grundrisse, con parole che ricordano da vicino i Manoscritti economico-filosofici, la stessa nozione di «ricchezza» perde la dimensione angusta che possiede nella società capitalistica, e diventa una nozione utile per caratterizzare adeguatamente una nuova umanità.
T26
La ricchezza umana
K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica
Una società nuova per un nuovo uomo
Non la distribuzione ma la produzione
La dittatura del proletariato: fase di transizione verso il comunismo
Se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, generata nello scambio universale? Cos’è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura? Sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della sua propria natura? Cos’è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato? L’uomo della nuova società non sarà un uomo alienato da un lavoro che non lo realizza e che non gli appartiene, non sarà forzato a un lavoro parcellizzato e diviso in gesti meccanici privi di significato, ma sarà piuttosto, nell’utopia marxiana, un uomo che si potrà sviluppare in senso multilaterale, che potrà sviluppare le sue attività in molte direzioni, in una molteplicità di forme di lavoro che non saranno più lavoro coatto, ma realizzazione di se stessi, frutto delle scelte dei singoli in un universo cooperativo che non prevede più lo Stato politico come istituzione costrittiva. Il principio dell’organizzazione sociale sarà allora: «ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni» (Critica del programma di Gotha). L’errore di molti socialisti, secondo Marx, è concentrarsi sulla questione della ripartizione dei prodotti del lavoro, sulla distribuzione, mentre ciò che è davvero essenziale, e davvero rivoluzionario rispetto alla società fondata sulla divisione del lavoro, è il problema della produzione o meglio del modo di produzione: è il modo di produzione che determina le forme della distribuzione. Ed è la produzione come collocazione dell’uomo di fronte alla natura che costituisce il criterio di una realizzazione di se stessi nel lavoro. Il quadro utopico appena accennato, che troviamo sparso in varie osservazioni di Marx, si dovrebbe poter realizzare in una società comunista come punto d’arrivo di un processo che prevede anche, per un certo periodo, il permanere provvisorio dello Stato. 161
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel L’estinzione dello Stato
➥ Sommario, p. 164
9 Il contributo di Engels
Famiglia, proprietà privata e Stato come istituzioni storicamente determinate
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L’abolizione o l’estinzione dello Stato non può essere cioè realizzata direttamente attraverso la rivoluzione, come vorrebbe l’anarchico Bakunin, influente avversario di Marx in seno alla prima Associazione internazionale dei lavoratori (e autore di un importante libro, Stato e anarchia, sul quale Marx stende molte osservazioni critiche). Essa si realizza piuttosto passando attraverso una fase che Marx chiama della dittatura del proletariato, in cui il proletariato è tenuto a difendere le proprie conquiste e a dirigere la trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica nella società comunista. L’idea di Marx è che la costruzione di uno Stato al tempo stesso giusto (per le caratteristiche del proletariato) e forte possa condurre alla estinzione del potere politico grazie al prevalere progressivo della giustizia sulla forza. Su questo, forse più che su altri aspetti talvolta superficialmente attaccati per motivi di polemica politica, la storia successiva è stata sicuramente una smentita.
Engels Pur non essendo un pensatore dell’originalità o della potenza teorica di Marx, Friedrich Engels (1820-1895) ha avuto una notevole importanza nella storia del marxismo già negli anni immediatamente successivi alla morte di Marx, delle cui teorie diviene subito un importante diffusore, se non altro per aver pubblicato il secondo e il terzo libro del Capitale o le Tesi su Feuerbach. Per quel che riguarda la produzione teorica, Engels aveva collaborato con Marx nella stesura di opere importanti come La sacra famiglia, L’ideologia tedesca e Il manifesto, ma specialmente negli ultimi anni di vita di Marx, come dopo la sua morte, offre contributi che tentano di dare al pensiero suo e di Marx una collocazione storica determinata (come recita il titolo del saggio del 1888 Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca), oltre ad alcuni scritti che intendono ampliare lo spettro dei problemi affrontati dal più acuto amico. I contributi maggiori di Engels furono l’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, del 1884, e l’Anti-Dühring, del 1877-1878. Il primo scritto, L’origine della famiglia, nasce anche sulla base degli interessi di Marx per i lavori dell’etnologo Lewis Henry Morgan (1818-1881) su La società antica, un libro pubblicato nel 1877. Marx si era interessato di questioni etnologiche, e aveva formulato anche una sorta di genealogia della società borghese in particolare in una parte dei Grundrisse (vedi sopra), e anche nella Ideologia tedesca si tracciava più sommariamente un quadro analogo. Engels riprende quelle prime suggestioni insieme con le ricerche di Morgan, per perseguire un obiettivo teorico del quale già Marx aveva più volte sottolineato l’importanza: mostrare come determinati istituti giuridici e sociali quali la famiglia, la proprietà privata e lo stesso Stato (come viene inteso nell’era moderna) non siano strutture eterne che sono sempre esistite nella forma in cui le si sono conosciute, appunto, modernamente, ma siano qualcosa che si è storicamente formato e che potrebbe sparire all’interno di condizioni storiche, cioè di formazioni economico-sociali, diverse da quella borghese-capitalistica.
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Unità 4 Marx Il materialismo dialettico
➥ Sommario, p. 164
L’Anti-Dühring, uno scritto polemico uscito come una serie di articoli, è rivolto contro il filosofo tedesco Karl Eugen Dühring (1833-1921), un positivista critico di Marx che aveva una certa influenza nel movimento socialista tedesco. Di questo scritto, come della Dialettica della natura pubblicata soltanto postuma, è caratteristico il tentativo di estendere la dialettica, il movimento generato dall’opposizione e dal suo superamento che per Marx caratterizza il modo di produzione capitalistico, all’intera realtà. Questa evoluzione della dottrina marxiana prende il nome di «materialismo dialettico». Questa teoria della dialettica come concezione del mondo diventerà l’ideologia ufficiale dei Paesi come l’Unione Sovietica, anche a costo del rifiuto delle teorie scientifiche più avanzate.
Suggerimenti bibliografici Una ricostruzione storica degli aspetti sia teorici sia politici del pensiero marxiano in E.J. Hobsbawn (a cura di), Storia del marxismo. Vol. I: Il marxismo ai tempi di Marx, Einaudi, Torino 1978; mentre N. Merker (a cura di), Marx: un secolo, Editori Riuniti, Roma 1983, offre una raccolta di saggi presentati nel centenario della morte di Marx da alcuni dei suoi maggiori studiosi. Per una introduzione generale al pensiero di Marx puoi leggere G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari 2006. Un’analisi della dialettica in Marx nel classico M. Dal Pra, La dialettica in Marx, Laterza, RomaBari 1965; sul concetto di natura A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Roma-Bari 1969. Uno studio sulla metodologia marxiana in S. Veca, Saggio sul programma scientifico di Marx, Bruno Mondadori, Milano 2005. I brani antologizzati sono tratti da: K. Marx, La questione ebraica in Opere, vol. 3, trad. it. di N. De Domenico, G. della Volpe, L. Formigari, N. Merker, R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1976. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Opere, cit. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1975. K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1993. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in Il capitale, cit., vol. 2. K. Marx, Il capitale, trad. it. di D. Cantimori, E. Cantimori Mezzomonti, G. Backhaus, M.L. Boggeri, R. Panzieri, 5 voll., Einaudi, Torino 1975. K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, trad. it. a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1976. Il brano di M. Hess citato a p. 129 è tratto da D. McLellan, Il pensiero di Karl Marx, Einaudi, Torino 1975.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Sommario 1. MARX
E IL MARXISMO
Il pensiero di Marx è all’origine di uno dei movimenti politici più importanti degli ultimi due secoli, il marxismo, la cui influenza teorica è stata pari all’influenza storica. In questa vicenda lunga e complessa si deve sempre distinguere ciò che è marxiano, o proprio di Marx, da ciò che è marxista. 2. TRA
TEORIA E POLITICA
La conoscenza del pensiero di Marx deve anche tener conto del suo impegno per la nascita del movimento comunista internazionale, intimamente legato al suo lavoro teorico. 3. LA
CRITICA DELLA POLITICA
Dal 1841 al 1845 Marx si sofferma su alcuni temi fondamentali per la sua concezione della società e della storia: compie infatti un’analisi critica del rapporto fra Stato e società civile approdando alla concezione materialistica della storia. In questi anni critica la filosofia del diritto hegeliana, il liberalismo e l’individualismo moderno. 4. CRITICA
DELLA RELIGIONE COME CRITICA SOCIALE
Marx indica nel superamento della religione, e soprattutto delle sue motivazioni sociali, la vera liberazione dell’uomo. Intanto afferma che è giunto il momento di sostituire alla teoria la prassi e di trasformare il mondo: soggetto di questo cambiamento sarà il proletariato. 5. L’ECONOMIA
POLITICA E L’ALIENAZIONE
In un serrato confronto con l’economia politica classica, definisce anche il concetto di merce e delinea una prima storia del capitalismo e della polarizzazione fra capitale e lavoro. Incontriamo infatti una prima definizione del lavoro estraniato o alienato la cui radice è la separazione tra lavoratori e mezzi di produzione e la mercificazione della forza-lavoro. L’alienazione potrà terminare solo con la realizzazione del comunismo e l’eliminazione della proprietà privata. 6. LA
CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA
Il materialismo di Marx spiega come l’evolversi dei modi di produzione appartenga all’attività con cui l’uomo interagisce con la natura e cerca di dominarla, per ampliare e migliorare le proprie condizioni di vita. La nuova visione della storia che emerge si connota come antidealistica: la natura, l’uomo, la società vanno colti nella loro dimensione reale e un ruolo centrale lo svolge la distinzione fra struttura economica e sovrastruttura politica, giuridica ecc. L’analisi marxiana del capitalismo sottolinea la centralità della società civile nello sviluppo storico e in164
dica come, all’interno del modo di produzione capitalistico, stiano maturando le condizioni della rivoluzione comunista, il cui esito sarà la liberazione di ogni uomo attraverso un pieno sviluppo delle sue capacità (onnilateralità). Marx traccia anche un’evoluzione delle forme economico-sociali susseguitesi nella storia umana per individuare l’origine dell’accumulazione originaria. 7. LA
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
Il pensiero maturo di Marx è condensato nel Capitale. Il primo concetto affrontato è quello di merce. Ma si tratta di un concetto intimamente contraddittorio perché in ogni merce si deve distinguere fra valore d’uso, ossia la sua utilità per soddisfare un bisogno reale, e valore di scambio, ossia la proprietà di una merce di essere scambiabile con un’altra. Il problema è trovare un parametro oggettivo di valutazione tra i valori delle merci: Marx lo indica nel valore-lavoro, ossia nella quantità di lavoro necessaria per produrre quella merce. Il lavoro viene quindi indicato come la vera origine della ricchezza e del plusvalore. Ma i lavoratori che vendono la propria opera (forza-lavoro) ricevono solo un salario minimo mentre il capitalista si appropria per intero del plusvalore e accresce il proprio profitto. Il proletario vive quindi in una condizione di sfruttamento, mascherata dall’uguaglianza giuridica formale. Anche il capitale però vive alcune contraddizioni interne: nel suo sviluppo tende alla continua accumulazione e alla concentrazione monopolistica e persegue unicamente il profitto, provocando crisi di sovrapproduzione; inoltre il progressivo utilizzo delle macchine provoca la diminuzione del plusvalore poiché fa diminuire l’apporto valorizzatore del lavoro umano nella produzione. 8. VERSO
IL COMUNISMO
Il futuro mondo comunista è descritto da Marx solo nelle sue linee essenziali: alla lotta di classe in atto fra borghesia e proletariato seguirà una rivoluzione guidata dal proletariato che instaurerà una nuova forma di umanità. Tutti otterranno il soddisfacimento dei propri bisogni e l’uomo lavorerà per realizzare pienamente se stesso. 9. ENGELS
I tratti più originali del pensiero di Engels sono due: in primo luogo l’analisi storica dell’evoluzione di alcuni istituti giuridici e sociali (famiglia, proprietà privata, Stato) erroneamente ritenuti strutture eterne e universali; in secondo luogo l’estensione della dialettica all’intera realtà (materialismo dialettico) che diverrà la versione ortodossa del marxismo.
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Unità 4 Marx
Parole chiave Capitale. L’insieme di beni posseduti da ogni individuo (dal latino caput, «testa»). Nella società industriale comprende sia il denaro che i mezzi di produzione. Capitalismo. Forma di organizzazione che sorge con la Rivoluzione industriale (secolo XVIII) ed è stata studiata a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. È il sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sulla separazione fra chi possiede il capitale (capitalisti) e chi lavora (salariati), sulla riduzione del lavoro salariato a merce. I suoi scopi sono ottenere il massimo profitto ed espandere la propria capacità produttiva. Comunismo. Termine derivante dal francese communisme formato dall’aggettivo commune («comune»). In Marx e nel marxismo indica l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e il passaggio a una gestione collettiva, con la conseguente fine dello sfruttamento e della lotta di classe e con l’estinzione dello Stato. Concezione materialistica della storia. Nucleo teorico della filosofia marxiana: afferma che i fattori determinanti dello sviluppo storico delle società umane sono i processi materiali (rapporto con la natura e sistema dei bisogni), i modi di produzione economici e i rapporti produttivi. Forza-lavoro. L’insieme delle capacità fisiche e intellettuali che i datori di lavoro acquistano come merce, che i lavoratori impiegano nel processo produttivo e che accresce il valore del prodotto. Lavoro estraniato o alienato. Il lavoro umano ridotto a merce rinunciando alla propria dimensione naturale, ossia al fine di realizzare l’uomo e permettere una libera espressione del suo essere. Le forme di questa estraniazione, che secondo Marx è propria del capitalismo, sono quattro: la perdita del prodotto; la perdita del controllo sui modi e i tempi della produzione; la perdita di umanità nell’attività lavorativa; la perdita di rapporti sociali umani. Lotta di classe. Conflitto ineliminabile all’interno di tutte le società non comuniste, determinato dagli interessi contrastanti dei vari gruppi economici e sociali. Merce. Ogni bene materiale o immateriale prodotto dall’uomo e oggetto di commercio e scambio: nella società capitalistica anche il lavoro diviene una merce, come forza-lavoro.
Mezzi di produzione. Insieme dei beni fisici (macchinari, fabbricati ecc.) o immateriali (conoscenze tecnologiche, competenze amministrative e gestionali ecc.) che permettono la produzione. Modo di produzione. L’organizzazione attraverso cui gli individui di una società coordinano la propria attività con quella altrui, per soddisfare i propri bisogni. In senso lato comprende anche i mezzi di produzione. Plusvalore. L’eccedenza risultante dalla differenza fra il valore finale della merce e quanto viene corrisposto al lavoratore in cambio della sua forza-lavoro. Questa eccedenza è il frutto di una valorizzazione del prodotto operata dal lavoratore, della quale il capitalista si appropria per accrescere il proprio profitto, mantenendo il salario al livello minimo sufficiente per garantire la sussistenza e la riproduzione della forza-lavoro. Prassi. Termine derivato dal greco pràxis («azione»). Nella filosofia di Marx indica, in opposizione alla teoria, l’agire indirizzato alla trasformazione della società. Proletariato. Coloro che hanno come unica ricchezza i figli (in latino proles). In Marx indica la classe dei lavoratori salariati che rappresenta l’interesse generale e promuove la rivoluzione. Proprietà privata. Diritto di possedere e di usufruire di un bene (materiale o immateriale) in modo esclusivo. Rivoluzione. Azione che porta al rovesciamento di un ordine politico, sociale o economico per instaurarne uno nuovo. Struttura / Sovrastruttura. I due livelli delle società umane: il primo indica l’insieme dei rapporti e dei modi di produzione, ossia la sfera dell’economia; il secondo l’insieme delle costruzioni umane spirituali: forme politiche e giuridiche, ma anche la religione, l’arte, la filosofia ecc. Nella concezione materialistica della storia di Marx ed Engels, il primo livello determina e condiziona il secondo. Valore. Nella visione marxiana, che in questo segue la tradizione economica classica, l’origine del valore è la quantità di lavoro necessaria per produrlo (teoria del valore-lavoro). Marx distingue poi: 1) il valore d’uso di un prodotto, ossia i suoi tratti materiali utili per soddisfare un bisogno; 2) il valore di scambio, ossia il valore relativo di un prodotto all’interno del sistema di scambio.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Questionario MARX
Che differenza c’è tra la tradizione «marxista» e la filosofia «marxiana»? (max 2 righe)
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TRA
Qual è l’oggetto privilegiato dell’impegno politico di Marx? (max 3 righe) Perché Marx sostiene che l’uguaglianza giuridica, e cioè formale, tra i cittadini sia soltanto apparente? (max 2 righe)
CRITICA
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Perché Marx, in T5, sostiene che il proletariato sia l’unica classe in grado di rappresentare i bisogni universali dell’uomo? (max 1 riga)
16
In che modo, in T9, Marx rielabora la concezione hegeliana del lavoro come oggettivazione esposta in T8? (max 6 righe)
17
Perché il comunismo, in T11, è infine detto rappresentare la «soluzione dell’enigma della storia»? (max 2 righe)
18
Che cosa significa l’affermazione di Marx, in T12, per la quale la storia non ha alcun fine né scopo? (max 3 righe)
DELLA RELIGIONE COME CRITICA SOCIALE
In che senso l’emancipazione dalla religione in Marx diviene emancipazione dalle condizioni di reale miseria del popolo? (max 5 righe)
4
L’ECONOMIA
POLITICA E L’ALIENAZIONE
In quali sensi e per quali ragioni Marx considera l’alienazione una conseguenza necessaria del capitalismo? (max 4 righe)
5
19
Qual è, per Marx, il vero motore e fondamento della storia umana? (max 2 righe)
7
Che cosa sono e che relazione c’è tra i concetti di «struttura» e «sovrastruttura»? (max 6 righe)
8
Quali sono le condizioni dell’origine del capitalismo? (max 3 righe)
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
9
Perché Marx, analizzati i concetti di valore e plusvalore, conclude sostenendo che i lavoratori vengono sfruttati dai capitalisti? (max 2 righe)
10
In che senso il capitalismo è detto «anarchico e irrazionale»? (max 2 righe)
VERSO
Perché la classe proletaria è individuata da Marx come portatrice degli interessi generali, collettivi, e quindi come la sola classe in grado di condurre al comunismo? (max 2 righe) Quali sono le opere che Engels ha scritto insieme a Marx? (max 2 righe)
Lavoriamo sui testi
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In che senso, in T21, il valore d’uso delle merci è detto costituire il contenuto materiale della ricchezza? (max 2 righe)
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Qual è il ragionamento complessivo grazie al quale Marx, in T23, riconduce infine tutte le merci al «lavoro astratto»? (max 5 righe)
22
In che senso Marx afferma, in T24, che le crisi di sovrapproduzione mostrano come i rapporti borghesi di produzione siano divenuti troppo «angusti» per poter contenere la ricchezza da loro stessi prodotta? (max 3 righe)
23
IL COMUNISMO
ENGELS
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poca di rivoluzione sociale? (max 4 righe)
Con quali esempi e argomenti Marx dimostra, in T25, che «la storia di ogni società esistita fino a
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Qual è il momento e quali le ragioni per cui, in T16 e T17, Marx sostiene che subentrerà un’e-
CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA
6
LA
Che cosa significa l’affermazione di Marx in T4 secondo la quale la religione è «una coscienza capovolta del mondo»? (max 3 righe)
CRITICA DELLA POLITICA
3
LA
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TEORIA E POLITICA
2
LA
tra la dimensione comunitaria e la vita privata? (max 2 righe)
E IL MARXISMO
Perché Marx, in T1, sostiene che l’uomo è scisso
questo momento, è storia di lotte di classi»? (max 3 righe) 24
Perché Marx, in T26, difende la ricchezza considerata al di fuori dei «limiti» che essa ha nella società borghese? (max 2 righe)
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Unità 4 Marx
Laboratorio di lettura Il manifesto del partito comunista In queste pagine famose del Manifesto del partito comunista, redatto insieme con Engels e pubblicato nel 1848, si compie una vera e propria celebrazione della funzione storica della borghesia come elemento progressivo, ma al tempo stesso si mostra come la società nella quale la borghesia è dominante, la società capitalistica, crei le condizioni per il proprio superamento. Nel brano che abbiamo scelto, è particolarmente presente il tema delle condizioni oggettive del mutamento sociale.
Ascesa e caduta della borghesia La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. [A] Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia. La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. [B] Nascita della divisione L’esercizio dell’industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non badel lavoro in senso stava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto moderno subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa. [C]
Prima tesi: l’epoca moderna è caratterizzata dall’opposizione tra borghesia e proletariato
Commento e interpretazione
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A. Anche se in alcuni scritti – soprattutto in quelli di argomento storico – Marx attenua la divisione della società in due classi antagonistiche e prende in esame la funzione di gruppi sociali diversi dalla borghesia e dal proletariato, la polarizzazione della società e il concentrarsi dei conflitti sociali nella lotta tra borghesia e proletariato costituisce per Marx e per Engels il tratto caratteristico della società borghese rispetto a società in cui la divisione delle classi comprende una gradazione, una stratificazione sociale più articolata. B. Elementi decisivi per la genesi del capitalismo, e poi per il suo sviluppo, sono l’intensificarsi del commercio e il diffondersi di mezzi di comunicazione, tutti fenomeni che aumentano il volume degli scambi e delle merci circolanti, permettendo così la formazione di ricchezze che poi potranno dare inizio all’attività imprenditoriale. C. Si tratta di uno dei primi fenomeni che danno origine al capitalismo: inizialmente, la divisione del lavoro ha luogo dividendo il lavoro tra diverse corporazioni, ovvero tra diverse associazioni di mestiere che si occupano ciascuna di un aspetto della produzione. Con il passare del tempo, la divisione del lavoro diventa più efficiente, e avviene all’interno di uno stesso luogo produttivo, di una stessa officina, con una divisione tra i diversi individui. È il segno della crisi della società artigianale e del primo sorgere di manifatture e di industrie. 167
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Conseguenza: la borghesia industriale moderna è essa stessa un prodotto storico
Seconda tesi: il potere politico moderno dipende dal potere economico
Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni. La grande industria ha creato quel mercato mondiale ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo. Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, d’una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico. [D] Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome del comune, talvolta sotto forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all’epoca dell’industria manifatturiera nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la reazione della grande industria e del mercato mondiale si è conquistata il dominio politico esclusivo nello stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. [E]
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D. Ciò a cui si viene richiamati è la storicità dei fenomeni economici e dei fenomeni sociali, ivi inclusa l’esistenza di una classe come la borghesia che non è un’entità astorica sempre esistita, ma un gruppo sociale che si è formato nel tempo e che quindi ha anch’essa una dimensione storica. E. Marx riprende qui la tesi della dipendenza dei rapporti di potere politico dai rapporti di potere economico: dominata socialmente in età feudale, la borghesia per questo non ricopre in essa un ruolo politico rilevante, mentre il suo peso cresce man mano che il potere monarchico si appoggia su di essa per contrastare il potere della nobiltà, vista la rilevanza della classe borghese nella produzione della ricchezza reale delle nazioni, con l’avanzare della manifattura e dell’industria. Nella società capitalistica, lo Stato è in mano alla borghesia che detiene il potere economico e – secondo una formulazione che è diventata famosa – è il comitato che amministra gli affari della borghesia. È uno dei modi, lo si è accennato, per affermare la dipendenza del potere politico dal potere economico. Marx è stato spesso criticato per questa che a parere dei suoi critici è da ritenersi una sottovalutazione del peso della politica, di fronte all’economia. Da questo tipo di tesi è derivata anche l’accusa a Marx – non ingiustificata – di non avere una teoria della politica dello Stato al di là di questa tesi radicale. Si tratterebbe secondo alcuni di una lacuna che ha avuto conseguenze rilevanti anche nella tradizione marxista. F. Qui ha inizio la caratterizzazione, da parte di Marx, della funzione storica della borghesia e, quindi, della società borghese moderna. Si tratta di una caratterizzazione che vuole essere strutturalmente duplice già nei confronti del mondo «passato»: se da un lato il modo di produzione capitalistico permette una dinamicità e una crescita della ricchezza
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Unità 4 Marx Terza tesi: la borghesia ha svolto nella storia una funzione rivoluzionaria
Analisi dei caratteri rivoluzionari della società borghese. Prima conseguenza: sconvolgimento dei tradizionali rapporti sociali e familiari
Seconda conseguenza: la borghesia rivoluziona continuamente i rapporti socio-economici
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. [F] La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. [G] La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate. [H] La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il con-
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economica mai vista prima, la descrizione di Marx non rinuncia a rilevare il carattere lacerante che questo tipo di trasformazione ha avuto sui legami economici tradizionali. Marx riconosce a questi legami una stabilità e una sicurezza che si sono perse con il modo di produzione capitalistico, anche se non guarda con rimpianto al tempo passato e usa sicuramente con ironia, per esempio, il termine «idilliche». G. Una caratteristica della società borghese è sicuramente stata la riduzione a legame contrattuale di rapporti di dipendenza antiquati che avevano magari un fondamento giuridico, come nel caso della servitù della gleba, una relazione cioè che includeva un rapporto diretto, personale, con individui legati a un appezzamento di terra e che non erano «liberi» di esercitare altra attività che quella legata a quel determinato appezzamento di terra. Tutta la sfera sentimentale e paternalistica dei vecchi legami economici e in generale intersoggettivi è stata ora risolta, nella società borghese, in rapporti fondati sullo scambio e sul denaro, del tutto staccati da forme di vita legate, per esempio, alla civiltà contadina, che sono anch’esse ormai integrate – e sempre più lo saranno – nel modo di produzione capitalistico. Da questo punto in poi, si comincia a delineare l’enorme forza e l’enorme significato che la borghesia ha avuto come promotrice della ricchezza, nei confronti delle epoche precedenti, creando così le condizioni per una società del tutto diversa della quale però proprio la borghesia, e la società che sta sotto il suo dominio, costituisce l’antitesi. H. La borghesia, rispetto alle età precedenti, non solo ha valorizzato il lavoro di fronte alla «pigra infingardaggine» del mondo feudale, ma ha dato prova di una capacità di produrre che non si era mai avuta nei secoli precedenti.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Terza conseguenza: la borghesia moderna ha una vocazione globale
Quarta conseguenza: la borghesia ha creato forze produttive mai viste prima
Premessa: la tensione che determinò la nascita della borghesia
tinuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, e profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. [I] Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. […] Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. [L] […] Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive? Ma [M] abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti dentro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e
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I. La società borghese è una società dinamica, che non può sopravvivere semplicemente conservando le condizioni date in un certo momento. Appartiene alla sua natura di rinnovarsi incessantemente, di aumentare la sua produzione di ricchezza e quindi di essere in grado di produrre continuamente elementi nuovi, al contrario di ciò che facevano i ceti dominanti del tempo passato, tradizionalmente impegnati nel contrastare ogni tipo di rinnovamento. L. La borghesia non può che estendersi, anche dal punto di vista geografico, seguendo una vocazione cosmopolitica già caratteristica della genesi della società capitalistica, con il crescere del commercio internazionale. La sua estensione, del resto, è assicurata anche dalla sua oggettiva capacità di produrre ricchezza economica in quantità rilevante e abbassandone i costi di produzione e, di conseguenza, i prezzi. Per questo, la borghesia è in grado di modellare il mondo secondo le proprie esigenze, attraendo nella sua sfera, cioè nel suo sistema economico, ogni forma di società più arretrata. M. Con questo «ma» comincia, dopo l’apprezzamento per la funzione storica della borghesia, l’indicazione dei limiti e delle contraddizioni della società borghese, che aprono la strada alla rivoluzione del proletariato. L’inizio dell’argomentazione è fondato sulla genesi della società borghese dai limiti della società feudale, ma il discorso mira in realtà a mostrare che dall’interno, e dalla crisi, di una società e di un modo di produzione, ne
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Quarta tesi: la società borghese moderna matura dall’interno i presupposti del proprio superamento
Primo argomento a sostegno della quarta tesi: le crisi commerciali sono un sintomo del collasso futuro del sistema capitalistico
Secondo argomento: contraddizione insanabile tra i rapporti borghesi di proprietà e le forze produttive
scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate. [N] A esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi. Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che con il loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione. [O] La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti bor-
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nasce un altro: in altre parole, come dalla crisi della società feudale è nata la società borghese, così dalla crisi della società borghese nascerà la società comunista. N. È caratteristico di Marx e della concezione materialistica della storia pensare alle modificazioni sociali come frutto dell’esplodere della contraddizione tra i limiti che certe relazioni sociali, ovvero certe società, costituiscono, e il dato quantitativo della produzione. Un certo modo di produzione – cioè certi rapporti di produzione – limita le potenzialità delle stesse forze produttive che aveva contribuito a far nascere e a svilupparsi. O. La crisi di sovrapproduzione è uno dei segni più inquietanti del carattere irrazionale e del rischio di collasso del capitalismo: essa porta con sé la distruzione di prodotti e di forze di produzione, indica cioè un limite nella possibilità di rendere coerenti produzione e consumo. Questo limite dovrebbe essere superato attraverso un mutamento dei rapporti di produzione in una società del tutto diversa dalla società borghese. La società in cui la «ricchezza» è sinonimo di «merce» non potrà che guardare a ogni attività e a ogni oggetto come una merce, che se non viene realizzata come tale (cioè se non viene venduta) perde il proprio valore, e viene distrutta. La capacità di produrre troppe merci, proprio perché si produce per produrre e per vendere, e non solo per soddisfare direttamente i bisogni, è infatti una caratteristica specifica del capitalismo.
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ghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. – Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. Conclusione: A questo momento le armi che sono servite alla borghesia per atterrare il il proletariato spazzerà via feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. la società borghese Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. [P]
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(da K. Marx - F. Engels, Il manifesto del partito comunista, trad. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998, pp. 7-14)
P. È all’interno dello stesso modo di produzione capitalistico che si creano le condizioni per il suo superamento. Innanzitutto, si diventa, grazie al capitalismo, capaci di produrre una grande quantità di ricchezza; in secondo luogo, questa capacità tende a entrare in contraddizione sempre maggiore con il tipo di società in cui ciò avviene; infine, un determinato gruppo sociale, o meglio una classe, il proletariato, abbatte la vecchia società e riorganizza il modo di vivere degli uomini socializzando, rendendo cioè disponibile a tutti, non solo la ricchezza, ma anche un modo di vita e di produrre finalmente umano.
Questionario sull’argomentazione 1
Quale conseguenza Marx trae dalla tesi per la quale l’epoca moderna è segnata dalla contrapposizione tra borghesia e proletariato? (max 3 righe)
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Quali conseguenze comporta il fatto che la borghesia abbia avuto un ruolo rivoluzionario? (max 8 righe)
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Per quali ragioni e con quali argomenti Marx giunge a sostenere che «Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese»? (max 5 righe)
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Qual è, a che cosa è dovuta e che cosa comporta la fondamentale contraddizione che Marx individua nel capitalismo? (max 6 righe)
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Tesi a confronto Spiegare o giustificare? La storia è il regno del possibile o un destino ineluttabile? Si è detto che l’Ottocento vede un grande sviluppo della considerazione storica, e in più occasioni anche una teoria della storia, come dimostrano filosofi come Hegel o Marx. Nel secolo successivo, alcuni filosofi contestano radicalmente non tanto – ovviamente – l’idea che sia importante una considerazione storica dell’uomo, delle sue azioni e degli eventi, quanto la concezione per cui il percorso storico può essere visto come frutto di un disegno o di un meccanismo causale inevitabile. La critica di Berlin Nelle pagine del filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin che presentiamo qui, all’ineluttabilità alcuni filosofi e alcuni storici che a questi filosofi si ispirano (per esempio la stodella storia riografia marxista) commettono questo errore nell’interpretare il significato della storia e la spiegazione degli eventi storici. Una delle prime e più importanti conseguenze di questa visione degli avvenimenti storici come inevitabili tappe di un percorso predefinito, come avviene nelle filosofie della storia di Hegel o di Marx, sarebbe l’impossibilità di giudicare moralmente i protagonisti degli eventi.
L’Ottocento e le filosofie della storia
Prima risposta
La storia non deve essere solo ricostruzione dei fatti, ma anche valutazione delle responsabilità morali dei protagonisti da Isaiah Berlin, L’inevitabilità storica
La dottrina dell’inevitabilità della storia alla prova dei fatti
«Spiegare» non può coincidere con «giustificare»
I filosofi della storia come difensori dell’ineluttabilità degli eventi
Una decina di anni fa, mentre viveva nascosto durante l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale, Bernard Berenson mise per iscritto le sue riflessioni su quella che chiamava «la visione accidentale della storia», che «mi ha portato molto lontano», dichiarava, «dalla dottrina che avevo assimilato in gioventù, dell’inevitabilità degli eventi storici e da quel Moloch che ancora oggi ci divora, ‘l’inevitabilità storica’. Sempre di meno credo a questi dogmi, più che dubbi e sicuramente pericolosi, che tendono a farci accettare tutto ciò che accade come qualcosa di irresistibile cui sarebbe temerario opporsi». Le parole del famoso critico giungono particolarmente opportune in un momento in cui si registra, almeno fra i filosofi della storia se non fra gli storici, una certa tendenza a ritornare all’antica teoria per cui tutto ciò che esiste è, «oggettivamente parlando», la cosa migliore; che spiegare è «in ultima analisi», giustificare; che tutto conoscere vuol dire tutto perdonare. Falsità altisonanti (caritatevolmente descritte come mezze verità) che hanno prodotto perorazioni ad hoc e, per dirla tutta, una confusione di proporzioni gigantesche sull’intera faccenda. […] Per Bossuet, Hegel, Marx o Spengler (e quasi tutti i pensatori per i quali la storia è «qualcosa di più» della somma degli eventi passati, e cioè una teodicea) questa realtà assume l’aspetto di un «cammino della storia» oggettivo. Si può immaginare che questo processo si svolga nel tempo e nello spazio oppure al di là di essi; che sia ciclico, a spirale oppure rettilineo, o an173
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La necessità come motore della storia e delle azioni umane
Capire la storia è rivelarne i fini e il disegno
Lo storico come portatore di una verità ultima sulla storia
I difensori dell’ineluttabilità e la richiesta di «neutralità» dello storico
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che che abbia la forma di quel particolare movimento a zig zag che a volte viene detto dialettico; che sia continuo e uniforme o irregolare, interrotto da improvvisi balzi a «nuovi livelli»; che sia dovuto alle mutevoli forme di un’unica «forza» oppure a elementi in conflitto, condannati (come in certi antichi miti) a lottare in eterno; che sia la storia di un unico «principio», di un’unica «forza» o divinità, oppure di molte; che sia destinato a finire bene o male; che offra agli esseri umani la prospettiva della beatitudine eterna o dell’eterna dannazione o di entrambe o di nessuna delle due. […] In una simile cosmologia il mondo umano – o addirittura, secondo alcune versioni, l’intero universo – costituisce un’unica gerarchia che tutto abbraccia, cosicché spiegare perché ogni suo elemento è quello che è, sta dove sta, esiste quando esiste e fa ciò che fa, è eo ipso dire quale sia il suo fine, in che misura riesca a conseguirlo e quali siano le coordinazioni e subordinazioni tra i fini delle diverse entità, ciascuna delle quali persegue un proprio scopo, in quell’armoniosa piramide che esse costituiscono collettivamente. Se questa è un’immagine fedele della realtà, allora la spiegazione storica, come ogni altra forma di spiegazione, deve mirare soprattutto ad attribuire agli individui, ai gruppi, alle nazioni e alle specie il posto che loro compete entro il disegno universale. Conoscere il posto «cosmico» di una cosa o persona è dire che cosa essa sia e che cosa faccia ma anche, al tempo stesso, perché debba essere quello che è e fare quello che fa; dunque essere e avere valore, esistere e avere una funzione (nonché adempiervi con più o meno successo) sono una stessa cosa. È solo il disegno complessivo a porre in essere, a portare all’estinzione e a conferire un obiettivo, cioè un valore e un significato, a tutto ciò che esiste. Capire è percepire un disegno. Proporre una spiegazione storica non è semplicemente descrivere una successione di eventi, ma renderla intelligibile; e rendere intelligibile vuol dire rivelare un disegno fondamentale, non uno tra tanti possibili ma quello, unico e solo, che per il semplice fatto di essere quello che è, realizza uno scopo unico e specifico e di conseguenza si adatta in maniera specifica a quell’unico schema «cosmico» complessivo che è il fine dell’intero universo, il fine in virtù del quale soltanto esso è un universo e non un caos di pezzi sparsi senza relazione tra loro. Più è completa la sua comprensione di questo scopo, e perciò stesso dei modelli che esso impone alle varie forme dell’attività umana, e più l’opera di uno storico sarà capace di spiegare, più sarà illuminante, «profonda». Se un evento, o il carattere di un individuo, o l’attività di un’istituzione, un gruppo, un personaggio storico, non vengono spiegati come conseguenze necessarie del posto che essi occupano nel disegno complessivo (e quanto più lo schema è ampio, quante più cose abbraccia, tanto più è probabile che sia quello vero), non c’è spiegazione e quindi non c’è resoconto storico. Più si riesce a dimostrare che un evento, un’azione o un personaggio era inevitabile e meglio lo si è capito, più a fondo va la comprensione dello studioso e più siamo vicini alla verità unica, ultima e onnicomprensiva. […] Ci dicono che è sciocco giudicare Carlo Magno, Napoleone, Gengis Khan, Hitler o Stalin per i loro massacri, che simili giudizi sono, tutt’al più, dei commenti su noi stessi e non sui «fatti»; e ci dicono anche, analogamente, che non dovremmo chiamare benefattori dell’umanità coloro che i seguaci di Comte celebravano così devotamente, o per lo meno non spetterebbe a
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L’espulsione dalla storia del concetto di responsabilità
La distinzione tra fatti e valori come pretesa di scientificità
La valutazione come esigenza della morale comune
noi in quanto storici farlo: come storici usiamo categorie «neutrali», che differiscono da quelle che usiamo come semplici esseri umani tanto quanto quelle (sicuramente diverse) dei chimici. Ma non basta: ci dicono pure che come storici è nostro compito descrivere, per esempio, le grandi rivoluzioni dei nostri tempi senza nemmeno accennare al fatto che certi individui in esse coinvolti non hanno semplicemente causato grandi sofferenze e distruzioni ma ne sono stati responsabili (sto usando queste parole secondo i canoni non solo del ventesimo secolo, che ben presto finirà, né della nostra società capitalistica in declino, ma della razza umana in tutti i tempi e in tutti i luoghi in cui l’abbiamo conosciuta). E ci dicono, inoltre, che dovremmo coltivare questo genere di austerità per rispetto di un immaginario canone scientifico che distingue molto nettamente i fatti dai valori, al punto che si possono considerare i primi oggettivi, «inesorabili» e quindi autogiustificanti, e i secondi una semplice glossa soggettiva agli eventi, legata al momento, all’ambiente, al temperamento individuale e indegna quindi di un’analisi seria. A questo possiamo solo rispondere che accettare una simile dottrina è fare violenza ai concetti fondamentali della nostra morale, stravolgere il nostro senso del passato e ignorare alcuni dei concetti e delle categorie più generali del pensiero normale. Chi s’interessa degli affari umani è tenuto a impiegare le categorie e i concetti morali che il linguaggio normale incorpora ed esprime.
In esplicita replica a Berlin, lo storico inglese Edward Carr difende il carattere esplicativo della storia, distinguendo quella che è la spiegazione storica degli eventi e delle azioni – facendo anche esempi della vita quotidiana – dall’attribuzione di responsabilità. La ricerca di cause non significa in alcun modo, a parere di Carr, l’impossibilità di esprimere giudizi morali e quindi di attribuire precise responsabilità. Si tratta però di due operazioni diverse che non possono essere L’errore di Berlin confuse. Per mettere a fuoco quello che secondo lui è l’errore metodologico di Bersecondo Carr lin, Carr fa emergere il rapporto tra «responsabilità morale» e «libertà»: Berlin pretende che vengano valutati azioni ed eventi dal punto di vista di chi li vive in quel momento, come se tutto fosse ancora possibile. Lo storico invece, chiarisce Carr, spiega eventi che sono già avvenuti e il suo compito principale è ricostruirne la genesi e le cause; non si occupa, invece, di quello che sarebbe potuto avvenire ma, di fatto, non è avvenuto. La storia non è fatta di «se» ma di eventi reali.
Carr contro Berlin: «spiegare» e «valutare» vanno tenuti distinti
Seconda risposta
La storia è ricostruzione dei fatti e delle loro cause, non la valutazione delle responsabilità morali dei protagonisti da Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia
Le accuse di Popper a Hegel e Marx
Il professor Karl Popper, che verso il 1930 scrisse a Vienna un ponderoso libro sulla nuova concezione della scienza, tradotto recentemente in inglese col titolo The Logic of Scientific Enquiry, pubblicò in Inghilterra durante la guerra due libri di carattere meno esoterico: The Open Society and Its Enemies e The Poverty of Historicism. Si trattava di libri scritti nell’acceso clima delle critiche a Hegel, considerato insieme a Platone l’antenato spi175
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Il problema del giudizio morale e la questione della libertà secondo Berlin
Il successo delle tesi di Popper e Berlin
Analisi teorica del problema della libertà: una definizione di determinismo
L’errore di Popper è trascurare il principio di causalità Causalità e senso comune
Il parallelo tra scienze sociali e scienze della natura
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rituale del nazismo, e al marxismo abbastanza vacuo che caratterizzava la cultura di sinistra inglese nel decennio 1930-40. I bersagli principali erano le filosofie della storia di Hegel e di Marx, qualificate come deterministe, e riunite nella categoria ignominiosa di «storicismo». Nel 1954 sir Isaiah Berlin pubblicò un saggio intitolato Historical Inevitability, in cui si evitava di polemizzare con Platone, forse per un residuo senso di rispetto verso uno degli antichi caposaldi della tradizione oxoniense, ma si aggiungeva un nuovo capo d’accusa, assente nelle requisitorie di Popper, e cioè che lo «storicismo» di Hegel e Marx va rifiutato in quanto, spiegando le azioni umane in termini di causa ed effetto, nega implicitamente il libero arbitrio dell’uomo e induce gli storici a sottrarsi al presunto dovere, cui accennai nella lezione scorsa, di emettere condanne morali nei confronti dei Carlo Magno, dei Napoleone e degli Stalin che costellano le pagine della storia. Per il resto, le argomentazioni di Berlin non erano troppo diverse da quelle di Popper. Ma i libri di sir Isaiah sono, com’è giusto, diffusi e largamente letti. Negli ultimi cinque o sei anni quasi tutti coloro che in Inghilterra o negli Stati Uniti hanno scritto saggi di metodologia storica, o magari recensioni impegnative di libri di storia, non si sono lasciati sfuggire un saputo gesto di scherno nei confronti di Hegel, di Marx e del determinismo, sottolineando l’assurdità di non riconoscere l’importanza del caso nella storia. […] Cominciamo con l’occuparci del determinismo, che definirò – e spero che la definizione sia pacifica – la convinzione che tutto ciò che accade ha una o più cause, e avrebbe potuto accadere in modo diverso soltanto se la causa o le cause fossero state diverse. Il determinismo è un problema che non riguarda soltanto la storia, bensì ogni azione umana. Supporre un essere umano le cui azioni siano prive di causa e pertanto non determinate, è un’astrazione analoga a quella, su cui ci soffermammo in una delle scorse lezioni, dell’individuo concepito al di fuori della società. L’affermazione del professor Popper secondo cui «nelle azioni umane tutto è possibile» è o assurda o falsa. Nella vita d’ogni giorno nessuno pensa questo, né potrebbe farlo. L’assioma che tutto ha una causa è una delle condizioni che ci consentono di comprendere ciò che avviene attorno a noi. L’aspetto di incubo dei romanzi di Kafka consiste nel fatto che in essi ogni evento è apparentemente senza causa, o per lo meno, se una causa c’è, è impossibile scorgerla: ciò porta a una totale disintegrazione della personalità umana, che si fonda sulla supposizione che ogni evento ha una causa, e che è possibile accertare un numero di queste cause tale da dar luogo a un’immagine del passato e del presente abbastanza coerente da servire da guida all’azione. La vita d’ogni giorno sarebbe impossibile se non supponessimo che le azioni umane sono determinate da cause accertabili, almeno in teoria. Molto tempo fa alcuni individui giudicavano blasfemo indagare le cause dei fenomeni naturali, dal momento che questi erano evidentemente governati dalla volontà divina. L’obiezione di sir Isaiah Berlin alle nostre spiegazioni dei motivi delle azioni umane, obiezione fondata sul fatto che tali azioni sarebbero governate dalla volontà umana, appartiene allo stesso ordine di idee, e forse è un indizio che oggi le scienze sociali si trovano in una fase di sviluppo corrispondente a quella in cui si trovavano le scienze della natura, allorché si trovarono a dover rispondere a questo tipo di obiezioni.
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Unità 4 Marx Un esperimento mentale: il signor Smith
Berlin e il signor Smith
Conclusione di Carr: compatibilità tra determinismo e libertà
La responsabilità morale
La distinzione tra spiegare e giustificare
Il lavoro dello storico
Lo storico e l’«inevitabilità»
Vediamo un po’ come risolviamo questo problema nella vita di ogni giorno. Andando in giro per le vostre faccende, siete soliti incontrare Smith. Lo salutate facendo un’amichevole, innocente osservazione sul tempo, o sulla situazione del college o dell’università; e Smith risponde con un’osservazione altrettanto amichevole e innocente sul tempo o sul lavoro. Ma supponiamo che una mattina Smith, invece di rispondere nel solito modo alle vostre osservazioni, si lanci in un violento attacco contro il vostro aspetto o il vostro carattere. Alzereste le spalle e vedreste in questo comportamento una dimostrazione convincente del libero arbitrio di Smith e del fatto che nelle azioni umane tutto è possibile? Credo proprio di no. Al contrario, direste probabilmente frasi come queste: «Povero Smith! Naturalmente saprete che suo padre morì in manicomio», oppure: «Povero Smith, deve avere più fastidi del solito con sua moglie». In altre parole, cerchereste di diagnosticare il motivo del comportamento apparentemente immotivato di Smith, nel fermo convincimento che qualche motivo debba pur averlo. Temo che nel far così incappereste nelle ire di sir Isaiah Berlin, che vi criticherebbe aspramente perché, fornendo una spiegazione in termini di causa e effetto del comportamento di Smith, sareste caduti nella trappola delle ipotesi deterministiche di Hegel e Marx, sottraendovi al dovere di dichiarare pubblicamente che Smith è un maleducato. Ma nella vita di ogni giorno nessuno assume questo atteggiamento, o suppone che il determinismo e la responsabilità morale si escludano a vicenda. L’antitesi libero arbitrio / determinismo nella vita reale non sussiste. Non è che alcune azioni umane siano libere e altre determinate: tutte le azioni umane sono ad un tempo libere e determinate, a seconda del punto di vista da cui le guardiamo. Sul piano pratico il problema è ancora diverso. Il comportamento di Smith aveva una o più cause; ma nella misura in cui era determinato non da qualche costrizione esterna, ma dalle tendenze del suo io, Smith era moralmente responsabile, dal momento che una delle condizioni della vita associata è che un adulto in condizioni normali è moralmente responsabile delle tendenze del proprio io. Se poi in questo caso particolare Smith debba essere considerato responsabile o no, è un problema non più teorico, ma pratico. Ma anche se la risposta dovesse essere positiva, ciò non vorrebbe dire che considerate del tutto immotivato il comportamento di Smith: la causalità e la responsabilità morale sono, infatti, categorie diverse. Di recente sono stati istituiti in questa università un istituto e una cattedra di criminologia. Sono certo che nessuno di coloro che hanno il compito di indagare le cause dei delitti si sente perciò costretto a negare la responsabilità morale dei criminali. A questo punto guardiamo cosa fa lo storico. Anch’egli, come l’uomo comune, crede che le azioni umane siano determinate da cause teoricamente accertabili. La storia sarebbe impossibile, né più né meno della vita d’ogni giorno, se non partissimo da questo presupposto. Il compito specifico dello storico è di indagare su queste cause. Ciò potrebbe essere inteso nel senso che lo storico abbia uno speciale interesse per l’aspetto non libero, determinato delle azioni umane: ma egli non rifiuta il libero arbitrio – se si prescinde dall’ipotesi insostenibile che le azioni volontarie non abbiano causa. D’altra parte, lo storico non si lascia turbare dal problema dell’inevitabilità. Anche gli storici, come tutti, si servono talvolta di espressioni 177
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retoriche e definiscono un certo evento «inevitabile», volendo dire con ciò semplicemente che i fattori che lo rendevano probabile erano eccezionalmente efficaci. Ho riletto di recente la storia della Russia sovietica da me scritta alla ricerca del termine famigerato: in un certo punto scrivevo che, dopo la Rivoluzione del 1917, lo scontro tra i bolscevichi e la chiesa ortodossa era «inevitabile». Certo, sarebbe stato più opportuno scrivere «estremamente probabile»: ma spero di non essere biasimato se dico che questa correzione mi pare un po’ pedantesca. In pratica, gli storici non suppongono che gli eventi siano inevitabili prima che si siano verificati. Spesso analizzano le alternative che si presentavano ai protagonisti della vicenda, partendo dal presupposto che essi avessero la possibilità di compiere una scelta, anche se poi, molto giustamente, si preoccupano di spiegare perché di fatto si optò per un’alternativa anziché per un’altra. Nella storia non vi è nulla di inevitabile, tranne nel senso puramente formale che, perché le cose si svolgessero in un altro modo, anche le cause avrebbero dovuto essere diverse. In quanto storico, sono pronto a rinunciare a parole come «inevitabile», «necessario» e perfino «ineluttabile»; la vita sarà più monotona, ma lasciamole pure ai poeti e ai metafisici.
I brani antologizzati sono tratti da: I. Berlin, L’inevitabilità storica, in Id., Libertà, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 97, 104, 107-108 e 166-167 E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966, pp. 98-103.
Per seguire il dibattito 1
Qual è l’accusa che Berlin fa agli storici e ai filosofi della storia? (max 2 righe)
2
Qual è secondo Berlin il significato di «spiegare» per gli storici deterministi? (max 2 righe)
3
Qual è il motivo per cui, secondo Berlin, lo storico non può e non deve pretendere di mantenersi neutrale? (max 2 righe) 178
4
Qual è secondo Carr il legame tra determinismo e libertà? In che misura lo storico deve tener conto di entrambi? (max 6 righe)
5
Quale spazio viene lasciato da Carr alla valutazione delle responsabilità nella metodologia della storia? (max 4 righe)
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Unità 5 Nietzsche 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Il filosofo e il moralista Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea La tragedia e la storia La critica della metafisica La critica della morale Il superuomo e l’eterno ritorno
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Genealogia della morale ♦ Tesi a confronto: Nietzsche e la questione della verità: la verità esiste o è solo un mito della metafisica?
I testi La gaia scienza: Problemi filosofici e intuizione, T1; L’annuncio dell’eterno ritorno dell’identico, T22 Lettera a Theodor Fritsch del 29 marzo 1887: Nietzsche e l’antisemitismo, T2 Sull’utilità e il danno della storia per la vita: Filologia e contemporaneità, T3; Contro la filosofia hegeliana, T6; L’igiene della vita contro la malattia storica, T7 La nascita della tragedia: Il contrasto tra apollineo e dionisiaco, T4; La cacciata di Dioniso, T5 Genealogia della morale: L’illusione del soggetto, T8; Il nesso originario tra bontà e potenza, T15; La morale degli schiavi come reazione, T16; La genesi dell’interiorità, T17;
L’essenziale violenza della vita, T18; Dall’uomo ‘semplice’ all’uomo ‘profondo’, T19; L’interpretazione ascetica della sofferenza, T20 Umano, troppo umano: Necessità e innocenza, T9; La pretesa essenza eterna dell’uomo, T10; La chimica delle idee e dei sentimenti, T13 Il crepuscolo degli idoli: Duplicazione del mondo e disprezzo per la vita, T11 Al di là del bene e del male: La mancata critica della morale, T12; Innalzamento dell’uomo e aristocrazia, T21 Così parlò Zarathustra: Valutazione ed esistenza, T14
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
1 Il ‘caso’ Nietzsche
Lo stile evocativo e la divergenza delle interpretazioni
Nietzsche e l’Illuminismo
Teorico della morale e moralista
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Il filosofo e il moralista Nietzsche è un pensatore, e anche un personaggio, che ha sempre suscitato grandi entusiasmi e grandi rifiuti. La sua biografia intellettuale, anche solo ad accennare ad alcuni tratti, è in effetti peculiare. Destinato a diventare un filologo classico, si converte alla filosofia anche grazie alla lettura del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, e conduce un’esistenza sostanzialmente isolata ma intensissima che finisce per sfociare nella follia a soli quarantacinque anni. Dei grandi sistemi filosofici del passato rifiuta anche la forma espositiva, e preferisce l’uso dell’aforisma e della sentenza breve. Stilisticamente, utilizza un linguaggio ricco di iperboli, di metafore, di invettive, e spesso ridondante. Se poi ci si avvicina alla storia delle interpretazioni del suo pensiero, ci si trova di fronte a letture estremamente diverse. Il suo atteggiamento contrario ai sistemi filosofici, per esempio, lo ha fatto indicare come colui che privilegia sull’aspetto metodico l’aspetto espressivo, suggestivo, in cui la rilevanza di categorie indeterminate come la ‘vita’ – lo vedremo – diventa perfino invadente, e segna di sé una trattazione che più che sulla convinzione razionale sembra puntare sull’evocazione diretta di immagini e di nozioni non ulteriormente argomentabili, ma da cogliere immediatamente attraverso forme di intuizione o, magari, di immaginazione simpatetica. Si muove in parte in questa direzione la lettura di Dilthey (il più importante rappresentante dello storicismo tedesco contemporaneo): Dilthey accosta Nietzsche a riflessioni anti-sistematiche delle epoche più varie come quelle di Marco Aurelio e Montaigne, o a grandi scrittori del genere di Carlyle, Emerson o Tolstoj. Su un altro versante, per certi versi opposto, Martin Heidegger (1889-1976), uno dei più importanti filosofi del Novecento, ha invece visto in Nietzsche, in un’opera ponderosa e significativa che ha avuto larga influenza, l’ultimo rappresentante di quella storia della metafisica occidentale che ha in Aristotele il modello principale. Certo è che Nietzsche è autore di grande suggestione e di grande potenza evocativa anche sul piano letterario, e forse questo elemento non – o non necessariamente – filosofico ha rischiato e rischia tuttora di oscurare la rilevanza squisitamente teorica delle sue analisi e la componente ‘illuministica’ che ne fa, a parere di alcuni studiosi, uno dei grandi interpreti della famosa definizione kantiana dell’Illuminismo, come «uscita dallo stato di minorità che l’uomo potrebbe imputare soltanto a se stesso». Oltretutto, se un elemento importante del variegato movimento che siamo soliti chiamare ‘Illuminismo’ è la critica del pregiudizio, non è difficile, comunque lo si giudichi, accostare il nome di Nietzsche anche a questa attitudine intellettuale. Se si dovesse indicare un motivo centrale della sua riflessione, lo si potrebbe forse individuare in un elemento morale. È un orizzonte, quello morale, sempre presente a Nietzsche, e che attraversa tutta la sua biografia intellettuale, a partire dai titoli delle opere o di capitoli di esse: la seconda parte di Umano, troppo umano (1878) si intitola Per la storia dei sentimenti morali, il sottotitolo di Aurora (1881) suona Pensieri sui pregiudizi morali, un’importante opera del 1886 si intitola Al di là del bene e del male (con un capitolo sulla Storia naturale della morale). Si deve anche ricordare, poi, che una delle opere più lucide e riuscite del filosofo è la Genealogia della morale (1887), dove Nietzsche mette radicalmente in discussione la categoria della ‘moralità’ in nome della moralità stessa. Infine,
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è difficile non ricevere dalla lettura dei testi nietzscheani l’impressione di trovarsi di fronte anche a una dimensione moralistica che si affianca a quella filosofico-scientifica, secondo la caratterizzazione che del ruolo dei moralisti nella filosofia moderna è stata data dal filosofo marxista Cesare Luporini (1909-1993): […] accanto ai filosofi in senso tecnico e critico-scientifico ci sono stati i moralisti, elaboratori di immediate esperienze umane, specifiche di un’epoca, di una classe, o di una rilevante personalità (anche se presentate sub specie aeternitatis), e il cui pensiero è caratteristicamente contrassegnato da un’accentuazione ottimistica o pessimistica della visone del mondo e delle cose, che, come tale, esula dalla pura indagine scientifica. Queste esperienze e queste elaborazioni […] hanno avuto notevolissimo peso nello svolgimento della cultura e della stessa filosofia moderna, e basti ricordare gli umanisti italiani, Erasmo e Montaigne, Pascal e Pope e, in genere, i moralisti francesi e inglesi del XVII e del XVIII secolo, giù giù fino a un Kierkegaard o a un Nietzsche. Lo stile aforistico
T1
Problemi filosofici e intuizione
La gaia scienza, af. 381
Nietzsche e il nazismo
T2
Nietzsche e l’antisemitismo
Lettera a Theodor Fritsch
Non è un caso, allora, che il costituirsi di una filosofia pienamente autonoma in Nietzsche, e il consolidarsi del suo atteggiamento polemico verso tutti i grandi sistemi filosofici, avvenga anche sotto l’influenza di Montaigne e, in genere, della letteratura moralistica francese di un Pascal o di un La Rochefoucauld, autori che si servivano volentieri, del resto, di un’esposizione fatta di massime o aforismi. Questa scelta stilistica, del resto, non è casuale, ma esplicitamente rivendicata da Nietzsche. […] con i problemi profondi mi comporto come con un bagno freddo – presto dentro, presto fuori. Che così non si tocchi il fondo, non si scenda abbastanza in profondo, è la superstizione di chi ha paura dell’acqua, dei nemici dell’acqua fredda: parlano senz’esperienza. Oh, come rende svelti il gran freddo! Incidentalmente domando: è vero che una cosa resta incompresa e ignota per il semplice fatto che viene afferrata a volo, adocchiata e còlta in un baleno? Si deve proprio prendere prima di tutto saldo possesso di essa? Averci fatto sopra la cova come su di un uovo? Il problema dell’interpretazione della filosofia di Nietzsche è ancora più complesso se si passa al piano politico, dove la figura e il pensiero di Nietzsche hanno sempre suscitato discussioni e sospetti, e continuano a suscitarne. Nietzsche è stato in effetti accostato di frequente al nazismo, o addirittura ritenuto una delle fonti teoriche di quel regime, e i nazisti hanno spesso dichiarato un’affinità con il suo pensiero. Gli studiosi più attenti sono spesso intervenuti per chiarire quanto Nietzsche fosse distante dalle posizioni nazionaliste, razziste e, in particolare, antisemite dei nazionalsocialisti. È stato più volte ricordato, a questo proposito, il fastidio e addirittura il disprezzo di Nietzsche per il movimento antisemita, sul che bastano due episodi ricordati da Mazzino Montinari, curatore con Giorgio Colli dell’edizione critica in tedesco delle opere di Nietzsche e, parallelamente, anche dell’edizione italiana. In una lettera del 29 marzo 1887 a uno dei maggiori esponenti del movimento antisemita, Theodor Fritsch (poi deputato nazionalsocialista), Nietzsche scrive: Mi creda: questa disgustosa invadenza di noiosi dilettanti che pretendono di dire la loro sul ‘valore’ degli uomini e delle razze, questa sottomissione verso ‘autorità’ che tutte le persone assennate condannano con freddo disprezzo […] queste continue e assurde falsificazioni e distorsioni di concetti così vaghi come 181
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
«germanico», «semitico», «ariano», «cristiano», «tedesco» – tutto questo potrebbe alla fine davvero mandarmi in collera, e farmi perdere la bonarietà ironica, con cui finora ho assistito alle velleità virtuose e ai fariseismi dei tedeschi d’oggi. – E, per finire, che cosa Lei crede che io provi, quando degli antisemiti si permettono di pronunciare il nome di Zarathustra?
L’atteggiamento antiegualitario
L’individualismo aristocratico
➥ Sommario, p. 210
E lo stesso Fritsch, nel recensire Al di là del bene e del male, vi trova addirittura una «esaltazione degli ebrei» dovuta alle «spiritosaggini superficiali di un povero studioso da strapazzo, corrotto dagli ebrei». Sull’altro fronte, l’idea di un Nietzsche ‘progressista’ si scontra inevitabilmente con il suo atteggiamento profondamente antiegualitario, antidemocratico e polemico verso tutto ciò che in qualche senso rimandi a un ideale di uguaglianza: si tratta di un ideale che ha per Nietzsche le sue radici nel cristianesimo, tanto che le idee democratiche e socialiste vengono viste come semplici sviluppi della religione che ha segnato l’intera storia dell’Occidente. L’insofferenza di Nietzsche per tutto ciò che è o può diventare un movimento di massa (compreso quindi, anche per questo aspetto, l’antisemitismo) esprime in modo violentemente polemico uno dei caratteri rilevanti dell’Ottocento europeo: l’intervento per l’appunto delle masse, e in particolare del movimento operaio, sul teatro della vita sociale e dell’azione politica. Nietzsche non è l’unico a reagire con un atteggiamento radicalmente aristocratico a questa profonda e importante modificazione della società ottocentesca che si va trasformando in una società di massa e dove anche gli interessi delle masse pretendono di essere rappresentati: nel corso del secolo, che si chiude con la morte di Nietzsche (1900), l’eroe è sempre più un individuo che si stacca e si distingue aristocraticamente da una massa che viene vista come sempre più minacciosa. L’individualismo è quindi, anche in Nietzsche, un tratto dominante. Con tutti i problemi che la sua interpretazione presenta, la filosofia di Nietzsche è certamente, per la sua ricchezza e per la sua influenza storica, uno dei passaggi fondamentali della filosofia contemporanea. La radicalità della sua critica dell’apparato concettuale della tradizione fa di Nietzsche un pensatore di rara importanza, anche quando non se ne condividano le tesi e si possa essere addirittura infastiditi dalla ridondanza delle sue pagine.
La vita Friedrich Wilhelm Nietzsche, figlio di un pastore protestante, nacque a Röcken, presso Lipsia, nel 1844. All’età di cinque anni perse il padre e nel 1850 si trasferì con la madre e la sorella Elisabeth – con le quali ebbe sempre un rapporto ambivalente e conflittuale – a Naumburg (sempre vicino a Lipsia), dove a dodici anni iniziò a scrivere poesie e a comporre musica. Nel 1858 entrò nel rigido ginnasio di Pforta e nel 1864 si iscrisse alla facoltà di teologia dell’università di Bonn. Nel 1865 si trasferì di nuovo a Lipsia per seguire le lezioni del filologo classico Friedrich Ritschl, il quale – individuate le capacità fuori dal comune del giovane allievo – si adoperò per procurare a Nietzsche una cattedra di lingua e letteratura greca presso l’università di Basilea. Dal 1869 (a soli ventiquattro anni) fino al 1879 Nietzsche insegnò a Basilea, dove ebbe tra i suoi amici e colleghi lo
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storico Jacob Burckhardt e il teologo Franz Overbeck, che gli stette vicino fino alla morte. Sempre in questi anni Nietzsche strinse un forte legame di amicizia con il più anziano Richard Wagner, del quale ammirò la rivoluzionaria concezione drammatico-musicale. La pubblicazione nel 1872 della Nascita della tragedia – profondamente influenzata dall’appassionata lettura di Schopenhauer – e delle successive opere giovanili determinò una rottura con il suo maestro Friedrich Ritschl e portò negli anni successivi a un progressivo distacco di Nietzsche dall’ambiente accademico, fino al volontario abbandono definitivo della carriera universitaria nel 1879. Oltre alla rinuncia alla cattedra a Basilea, la fine degli anni settanta vide anche una presa di distanza di Nietzsche dal pensiero di Schopenhauer (che Nietzsche vedeva adesso come compromesso in senso tradizionalmente ‘metafisico’) e una rottura con l’amicizia e la concezione mu-
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sicale di Wagner (il quale con la sua ultima opera, il Parsifal, ritornò a un certo cristianesimo nostalgico). Nei dieci anni successivi Nietzsche visse con una modesta pensione assegnatagli dall’università di Basilea e pubblicò – in gran parte a proprie spese – le sue opere maggiori. Furono questi anni assai inquieti, caratterizzati da continui spostamenti di Nietzsche in tutta Europa, nonché dalla sua amicizia, divenuta poi autentica passione, verso una giovane intellettuale russa, affascinante, intelligente e anticonformista: Lou Salomé (amica, tra gli altri, di Rilke e Freud). La passione di Nietzsche per Lou Salomé, non ricambiata da quest’ultima e per di più fortemente ostacolata dalla sorella e dalla madre di Nietzsche, contribuì ad aggravare i sintomi nevrotici che egli aveva già iniziato a manifestare durante gli ultimi anni dell’insegnamento universitario.
2 Dalla filologia alla filosofia
Nel 1889, a Torino (dove si era stabilito) Nietzsche venne colto da un forte crollo psichico, che lo portò negli anni successivi a una progressiva demenza. Recatosi a Torino, l’amico Franz Overbeck riportò con sé a Basilea Nietzsche, che venne ricoverato in una clinica psichiatrica. A questo periodo risalgono diverse brevi lettere – i cosiddetti «biglietti della pazzia» – che Nietzsche scrisse e spedì ad amici, uomini di Stato, diplomatici, sovrani in tutta Europa. Dopo la morte della madre (1897), che lo aveva portato con sé a Jena e a Naumberg, Nietzsche venne preso in custodia dalla sorella Elisabeth, che si appropriò dell’enorme mole di manoscritti del fratello non pubblicati. In questi anni, senza che egli potesse rendersene conto, la fama del Nietzsche filosofo cominciò a diffondersi in tutta Europa, e vennero già tenuti i primi corsi accademici sulle sue opere. Morì a Weimar nel 1900.
Dalla filologia alla critica della cultura contemporanea La vita di Nietzsche sembra destinata a una brillante carriera accademica come filologo. La chiamata a Basilea come professore di lingua e letteratura greca, a soli ventiquattro anni, costituisce infatti un punto di partenza ideale in questa direzione per colui che uno dei massimi filologi tedeschi dell’epoca, Friedrich Ritschl, considera già uno studioso maturo. Ma le cose vanno altrimenti. Le indagini di Nietzsche sulla genesi della tragedia greca (che verranno pubblicate nel 1872 con il titolo La nascita della tragedia) sono infatti profondamente segnate dall’influenza di due personalità che determinano l’impostazione del saggio, ma anche la sua sostanziale inaccettabilità per la comunità accademica: Arthur Schopenhauer e Richard Wagner. Lo stesso Ritschl rimane perplesso dopo la lettura dello scritto del suo geniale allievo, che non solo sembra ormai orientato verso un interesse decisamente filosofico, ma è deciso a sviluppare le proprie idee in una direzione molto originale. E Ritschl esprime francamente a Nietzsche tutti i suoi dubbi, in una lettera del 14 febbraio 1872: Secondo la mia intera natura io – e questa è la cosa principale – appartengo alla corrente storica e alla considerazione storica delle cose umane, in modo così risoluto che non mi è mai sembrato si potesse trovare la redenzione del mondo in questo o quel sistema filosofico; che neppure mi potrò mai indurre a definire «suicidio» [il termine era stato usato da Nietzsche] il naturale appassirsi di un’epoca o di un fenomeno […]. Lei non può pretendere da un ‘alessandrino’, da uno ‘scienziato’ di condannare la conoscenza e di scorgere solo nell’arte la forza riplasmatrice, redentrice e liberatrice del mondo.
La rottura con l’ambiente accademico
La lettera di Ritschl, insieme con l’attacco sferrato a Nietzsche da colui che è destinato a diventare un altro grande filologo, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf (con la sua ironia sulla pretesa ‘filologia del futuro’ nietzscheana), segnano simbolicamente il primo distacco di Nietzsche dalla comunità accademica e dall’attività di professore, resa del resto sempre più difficile dalle cattive condizioni di salute e dall’insofferenza per l’ambiente universitario, che egli abbandonerà definitivamente nel 1879. 183
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Qualche anno dopo l’opera sulla nascita della tragedia Nietzsche si emanciperà anche dalla ‘tutela’ di Schopenhauer e di Wagner, con il quale rompe definitivamente i rapporti in coincidenza con l’uscita di Umano, troppo umano, che con Aurora e La gaia scienza (1882) forma il primo nucleo della sua produzione filosofica pienamente autonoma. A Nietzsche rimangono pochi intensissimi anni di lavoro: tra il 1883 e il 1885 esce un’opera fondamentale ma di non facile decifrazione (scritta in stile non aforistico), Così parlò Zarathustra, alla quale seguono Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale (1887). Tra il 1888 e il 1889 escono le sue ultime opere, ma già nel gennaio 1889 il filosofo viene còlto, a Torino, da una crisi di follia che segna la fine della sua creatività intellettuale. L’edizione critica L’edizione critica delle opere di Nietzsche, approntata da Colli e Montinari (a completa partire dal 1967), ha permesso di chiarire gli equivoci e i fraintendimenti provocati dal modo in cui i testi sono stati pubblicati dopo la sua morte, anche per responsabilità della sorella Elisabeth (che ha comunque il merito di avere conservato i manoscritti). Anche per Nietzsche, quindi, si pone il problema dell’utilizzazione degli scritti inediti (per la gran parte redatti in forma di frammenti) che sono una fonte preziosa, in questo come in altri casi, per integrare l’interpretazione che si può dare sulla base delle opere pubblicate, ma che forse non dovrebbero poter sostituire, o addirittura stravolgere, ciò che l’autore ha scritto nel➥ Sommario, p. 210 le opere consapevolmente e intenzionalmente destinate al pubblico.
Le opere filosofiche della maturità
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La tragedia e la storia Come si è accennato, il punto di partenza di Nietzsche affonda le radici nella sua formazione di filologo, e nella ricerca sulla natura e sulla genesi della tragedia greca.
L’origine della tragedia e il pessimismo La critica della contemporaneità
T3
Filologia e contemporaneità Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Prefazione
La reinterpretazione della cultura greca
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La passione per la filologia viene ben presto sostituita da quella per l’indagine filosofica, e dall’atteggiamento fortemente critico nei confronti della cultura e della civiltà contemporanea, come lo stesso Nietzsche non manca di sottolineare poco dopo La nascita della tragedia, nella seconda Considerazione inattuale, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874). L’«inattualità» è dettata, infatti, proprio dall’attitudine polemica verso la cultura del tempo, e dalla ferma volontà di intervenire in essa. […] solo in quanto sono allievo di epoche passate, specie della greca, giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio dell’epoca odierna. Ma questo devo potermelo concedere già per professione, come filologo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo. Nietzsche guarda alla cultura greca criticandone l’interpretazione che ritiene dominante e che vede in essa una cultura della classicità come armonia, come equilibrio
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e come bellezza: si tratta di un’interpretazione che per Nietzsche si limita a una certa fase della cultura greca (l’Atene del V secolo a.C.) e a certi aspetti di essa, cioè alla scultura e all’architettura. Questa cultura, che viene adeguatamente rappresentata da Omero e dagli dèi omerici, è però in realtà l’espressione di un solo principio, quello detto apollineo. Sull’opposizione tra il principio apollineo e quello ad esso opposto, dionisiaco, Nietzsche costruisce la sua reinterpretazione della cultura e della tragedia greche come chiave per la critica della cultura contemporanea.
T4
Il contrasto tra apollineo e dionisiaco La nascita della tragedia, 1
La tragedia, sintesi dei due principi
Il primato del principio dionisiaco
Riconciliazione dell’uomo con la natura e liberazione dalla soggettività
[…] lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente. Questi nomi noi li prendiamo a prestito dai greci, che rendono percepibili a chi capisce le profonde dottrine occulte della loro visione dell’arte non certo mediante concetti, bensì mediante le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine «arte» solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della ‘volontà’ ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. La tragedia è la mirabile sintesi dei due principi, dei due impulsi, che corrispondono a due diverse dimensioni della vita e della sua relazione con la realtà: se l’apollineo corrisponde al sogno, all’illusione, il dionisiaco corrisponde all’ebbrezza, e si tratta di un contrasto, quello tra sogno ed ebbrezza come due «mondi artistici», parallelo e coincidente con quello tra apollineo e dionisiaco. Nel principio apollineo si realizza la dimensione illusoria, apparente della realtà come costituita da individui separati tra loro (idea, questa, ripresa da Schopenhauer, vedi Unità 2, p. 45), laddove il principio dionisiaco dà voce all’intrinseca unità e inscindibilità del reale. Ma in realtà non si tratta di due principi ugualmente originari. Il principio apollineo è una forma di reazione, di difesa di fronte al dionisiaco, che è il principio realmente originario: esso deriva da Dioniso come dio dell’ebbrezza e si esprime, dal punto di vista artistico, nella musica. L’impulso dionisiaco mostra infatti una realtà più profonda che riesce a trovare espressione e a far raggiungere uno stato ‘estatico’ o sotto l’influsso di bevande narcotiche o per l’avvicinarsi della primavera, tutti elementi riprodotti nei culti orgiastici attraverso i quali si realizza un ricongiungimento dell’uomo con la realtà e con la natura che viola il principio dell’individualità e che celebra, in questo modo, la festa di riconciliazione della natura con il figlio perduto, l’uomo. In questi culti, ciò che si realizza è l’unità dell’uomo con la natura in uno stato di esaltazione in cui la soggettività tende a svanire in una sorta di dimenticanza di se stessi come individui separati: qui una realtà «piena d’ebbrezza» cerca di liberare l’individuo dalla sua stessa individualità «con un sentimento mistico di unità». È lo stesso fenomeno, sostiene Nietzsche, che si ripete nel corso di certe feste ingiustamente guardate dal mondo della cultura con disprezzo perché sarebbero ‘popolari’, e che al contrario rivelano una loro radice antica. 185
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L’origine della tragedia, una questione discussa fin dall’antichità La questione dell’origine della tragedia è sempre stata una delle più dibattute e controverse nell’ambito degli studi filologici e antichistici moderni. Risulta inoltre che tale questione fosse già stata affrontata – con posizioni diverse – fin dall’antichità. Secondo Aristotele, la cui preziosa testimonianza è contenuta nella Poetica, la tragedia sarebbe sorta nel Peloponneso come derivazione dal ditirambo, ossia da quel particolare canto corale che veniva intonato in occasione di celebrazioni cultuali in onore di Dioniso: quando uno dei cantori si dissociò dal coro e si mise a dialogare con esso, sarebbero nati il ruolo dell’attore e uno degli elementi costitutivi della tragedia, il dialogo, appunto. La questione sembra complicarsi sulla scorta di un passo immediatamente successivo della stessa Poetica, in cui Aristotele sembra invece collegare le origini della tragedia a un non meglio identificato elemento «satiresco», la cui identità è ancora discussa. Probabilmente si trattava di una forma rituale di canto improvvisato eseguito da uomini mascherati da satiri, le divinità che componevano il corteggio di Dioniso. Lungi dal contraddire la testimonianza precedente, che connette la tragedia al ditirambo, questo secondo passo sembra integrarla: è verosimile pensare che la tragedia si sarebbe sviluppata dal ditirambo, che era un canto corale di tipo narrativo, passando poi per una fase in cui l’elemento ‘scenico’ sarebbe stato affidato a un coro di satiri; quando infine, come abbiamo detto, uno dei coreuti si staccò dal coro iniziando a dialogare con esso, sarebbe sorta la prima vera forma di tragedia. Altra testimonianza antica è quella che ci proviene dagli alessandrini, per i quali il luogo d’origine della tragedia sarebbe invece la regione dell’Attica e la sua genesi sarebbe da ricondursi ai rituali in onore di Dioniso che lì venivano celebrati. Sulla linea della lezione alessandrina e di varie comparazioni etnologiche, l’origine della tragedia è stata individuata in diversi rituali arcaici, come quelli celebrati annualmente sulle tombe degli eroi, oppure le rappre-
sentazioni simboliche corali della morte e resurrezione dell’Anno, o ancora alcuni culti di rievocazione dei defunti, o sacrifici propiziatori primaverili eseguiti da cortei di uomini mascherati. La questione dell’origine della tragedia greca si è posta in epoca moderna sulla base di queste due distinte ipotesi antiche. In tutti i casi, quello che risulta evidente è che la tragedia è strettamente associata al culto di Dioniso, come confermato dalle occasioni festive che facevano da cornice alle rappresentazioni, le «Grandi Dionisie» (aperte ai cittadini di tutta l’Attica) e le «Piccole Dionisie» (riservate solo ai cittadini ateniesi). La rappresentazione delle tragedie nella pòlis veniva regolata istituzionalmente in occasione delle feste appena menzionate, nelle quali avevano luogo dei veri e propri agoni drammatici, o competizioni teatrali, cui prendevano parte alcuni tragediografi prescelti dall’arconte eponimo, il cui operato era poi sottoposto al giudizio dell’assemblea popolare. Ogni tragediografo ammesso alla competizione presentava una tetralogia costituita da tre tragedie e un dramma satiresco. Ogni tetralogia veniva rappresentata in un giorno diverso (e inizialmente erano destinate a una sola rappresentazione) e la vittoria finale era assegnata dal verdetto di cinque giudici, il cui voto era comunque influenzato dagli umori e dalle reazioni del pubblico, che dunque aveva un ruolo attivo nell’attribuzione del premio. Anche Nietzsche, nella Nascita della tragedia, sottolinea il carattere di forte partecipazione emotiva degli spettatori di fronte alla tragedia attica. Tale partecipazione si spiega in parte col fatto che i miti e le gesta rappresentati nella tragedia erano ben noti al grande pubblico, e che i tragediografi spesso attualizzavano gli episodi mitici scelti nella prospettiva sociale e politica a loro contemporanea. Lo scopo principale del tragediografo era quello di indagare la condizione umana, il rapporto dell’uomo con gli dèi, la moralità delle sue azioni, i concetti di destino, colpa e responsabilità, al fine di arrivare a una caratterizzazione di modelli comportamentali e valori comunitari sui quali regolare la condotta individuale.
Si manifestano chiaramente, nella Nascita della tragedia, le principali fonti di ispirazione: da un lato, c’è la prospettiva di Schopenhauer di una unità della «volontà» come principio metaindividuale, radice reale del mondo della mera «rappresentazione», dall’altro, è ben presente la concezione – sempre schopenhaueriana – della musica come espressione diretta di questa volontà (vedi Unità 2, p. 52), insieme con la concreta realizzazione di quest’ideale nella musica di Wagner, frequentato assiduamente da Nietzsche in questi anni. Il dominio della vita Nell’impulso dionisiaco, Nietzsche dà espressione per la prima volta a un tema sulla razionalità che percorre tutta la sua riflessione e che risale, pur con crescenti tentativi di differenziarsi nel corso della sua biografia intellettuale, alla «volontà» di Schopenhauer: è la ricerca di un principio ‘vitale’ originario che si esprima direttamente e immediatamente come «misteriosa unità originaria» tra gli individui e tra l’uomo e la natura. Si tratta del dominio della vita sulla razionalità che attraSchopenhauer e Wagner
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Unità 5 Nietzsche
La tragedia e il superamento dell’individualità
Il suicidio della tragedia
versa tutta l’opera di Nietzsche e che assumerà, negli anni successivi, la denominazione di volontà di potenza. La figura di Dioniso, in effetti, non scomparirà dalle pagine di Nietzsche nemmeno quando il quadro teorico sarà per altri aspetti mutato, come dimostrano le ultime opere redatte nel 1888, a un passo dalla follia: parliamo del Crepuscolo degli idoli e della ricostruzione, attraverso le opere, della propria biografia, contenuta in Ecce homo, che in sostanza si chiude con l’affermazione «Dioniso contro il Crocifisso». Secondo Nietzsche, la tragedia attica di Eschilo è la sintesi suprema dei due istinti e quindi dei due principi: in essa, la dimensione dionisiaca originaria viene conservata attraverso il coro e la musica, mentre la dimensione apollinea consiste nella trama e nel dialogo. Lo spettatore greco non assiste alla tragedia per il proprio piacere o per la propria distrazione come lo spettatore moderno, ma proprio per entrare in una dimensione estatica di superamento della propria individualità. In questo superamento si ha il riconoscimento di un’unità originaria e di una perdita della propria individualità che provoca da un lato il terrore di fronte al caos e a un’unità che non ha ordine né scopo, dall’altro una dimensione di estasi. La consolazione ‘metafisica’ della tragedia è il permanere della vita «indistruttibile, potente e gioiosa» come coro di satiri – figure tradizionalmente legate a Dioniso – esseri naturali che sopravvivono eternamente alle generazioni e alle storie dei popoli. Il senso dell’atteggiamento dionisiaco e della tragedia stessa diventa allora un’accettazione della vita in tutte le sue componenti, poiché così si coglie il carattere tragico dell’esistenza e al tempo stesso la propria appartenenza al divenire al di là della propria individualità. Dietro a tutte le figure della tragedia come – nel caso di Sofocle – quella di Edipo, si nasconde infatti l’unico eroe tragico che è Dioniso stesso, di cui tali figure sono altrettante ‘maschere’. La tragedia greca però, come scrive Nietzsche (e come gli verrà rimproverato, nel brano visto sopra, dal filologo Ritschl), morirà ‘suicida’, uccisa dai suoi stessi sviluppi. Già con Eschilo la parte del coro viene ridimensionata, mentre la vera fine della tragedia si ha con il convergente razionalismo di Euripide e di Socrate, o meglio, con la tragedia euripidea come espressione del razionalismo socratico. Euripide e Socrate costituiscono così un punto di svolta nel quale viene eliminato l’elemento dionisiaco «originario e onnipotente».
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Dioniso era stato già cacciato dalla scena tragica, cacciato da una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in certo senso solo maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco e il socratico, e l’opera d’arte della tragedia greca perì a causa di esso.
Il sopravvento dell’ottimismo socratico
La tragedia perisce, quindi, per il dileguarsi dello spirito della musica così come grazie allo spirito della musica era nata. Con Socrate ha inizio l’ottimismo razionalistico che costituirà la caratteristica di tutta la tradizione occidentale: con Socrate ed Euripide, infatti, ciò che viene rappresentato è la razionalità della realtà e dell’esistenza. Il «socratismo estetico», ovvero l’estetica razionalistica, rappresenta ed esprime il principio per cui tutto ciò che è bello deve essere razionale, un principio parallelo al principio socratico per cui la razionalità e la conoscenza sono il fondamento della virtù, e quindi tutto ciò che è buono deve essere razionale. La tragedia euripidea si muta in una narrazione razionale, natu-
La cacciata di Dioniso
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ralistica e realistica, in cui gli avvenimenti sono concatenati logicamente: il prologo delle tragedie di Euripide svolge infatti per Nietzsche una funzione di chiarimento preliminare di tipo razionale in seguito al quale si sa già tutto quello che accadrà, e viene meno ogni «eccitante incertezza». L’ottimismo socratico prende il posto del pessimismo tragico. Tale forma di ottimismo, con la quale l’uomo ‘teoretico’ prende il sopravvento sull’uomo ‘tragico’, segna l’imporsi del razionalismo sulla profondità degli istinti e sulla dimensione non razionale dell’esistenza. Per Nietzsche, questa vittoria della razionalità sugli istinti e sulla dimensione mitica è decisiva per la crisi della civiltà greca e per l’intero sviluppo della civiltà occidentale. Il ritorno al dionisiaco Nietzsche intravede però la possibilità di un ritorno all’arte tragica e, quindi, al nell’epoca dionisiaco, nella cultura contemporanea: egli punta il dito infatti verso una nuova contemporanea funzione catartica dell’arte che trova rinnovata espressione nei drammi musicali di Wagner. Si tratta, anche in questo caso, di un’interpretazione ampia della nozione di ‘arte’, intesa in contrapposizione alla fiducia nella razionalità e nella metafisica della tradizione, due termini che rimarranno sempre tra gli obiettivi polemici privilegiati – lo vedremo – della critica di Nietzsche. L’unica ‘metafisica’ accettata dalla Nascita della tragedia, Nietzsche lo scriverà alcuni anni dopo, è una metafisica d’artista contrapposta a quella tradizionale, una metafisica cioè consapevole della possibilità esclusivamente estetica di giustificazione del mondo e dell’esistenza. Questa viene esplicitamente contrapposta a una giustificazione razionale che neghi la realtà istintuale della vita e che Nietzsche vede rappresentata come vittoriosa nella tradizione occidentale e in particolare, come sarà anche negli anni successivi, prima da Socrate e Platone e poi, e soprattutto, dal cristianesimo. «Apollineo» e «dionisiaco»
Principio apollineo armonia misura equilibrio illusione (reazione di difesa nei confronti del principio dionisiaco)
conflitto
Principio dionisiaco vita istintualità caos ebbrezza (costituisce il principio realmente originario)
Tragedia attica: sintesi tra i due principi Trama e dialogo ➞ dimensione apollinea Musica e coro ➞ dimensione dionisiaca
Dramma musicale wagneriano
La storia e la vita La polemica verso la cultura contemporanea
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Si è detto del carattere polemico che Nietzsche attribuisce agli scritti che con il titolo di Considerazioni inattuali, escono tra il 1873 e il 1876 (che sono: David Strauss, 1873, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Schopenhauer come educatore, 1874, Richard Wagner a Bayreuth, 1876). Una particolare ri-
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levanza, tra questi, la posseggono lo scritto dedicato a Schopenhauer e lo scritto sulla storia: si tratta di due modi per affrontare polemicamente la cultura contemporanea; da un lato, attraverso la critica del rapporto tra società e cultura, dall’altro, attraverso una riflessione sulla storia che prende di mira la storiografia e le concezioni della storia dell’Ottocento. È di quest’ultima che occorre dire qualcosa. La critica della filosofia Nella riflessione sulla storia, non stupisce che un obiettivo polemico sia la filodella storia sofia della storia idealistica, e in particolare hegeliana, sia per il suo carattere, sia per il peso – secondo Nietzsche negativo – che essa ha avuto sulla cultura tedesca. Nella prospettiva di Hegel, si guarda in realtà al presente come a un punto d’arrivo, e si tende quindi a vedere il processo che proprio al presente ha condotto come un processo che tende a un compimento.
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Contro la filosofia hegeliana
Sull’utilità e il danno della storia per la vita
Credo che in questo secolo non ci sia stata nessuna deviazione o svolta pericolosa della cultura tedesca, che non sia diventata più pericolosa ancora per l’enorme influenza, fino a questo momento ancora dilagante, di questa filosofia, ossia della filosofia hegeliana. In verità, la credenza di essere un epigono di altri tempi è paralizzante e deprimente: terribile e distruttivo deve però apparire il fatto che un bel giorno una tale credenza divinizzi con ardito capovolgimento questo frutto tardivo come il vero senso e scopo di tutto quanto è precedentemente accaduto, il fatto cioè che la sua sapiente miseria venga equiparata a un compimento della storia del mondo. Una tale maniera di considerare ha abituato i tedeschi a parlare del «processo del mondo» e a giustificare il proprio tempo come il risultato necessario di questo processo del mondo […]. Hegel […] ha istillato nelle generazioni da lui lievitate quell’ammirazione di fronte alla ‘potenza della storia’, che praticamente si trasforma a ogni istante in nuda ammirazione del successo e conduce all’idolatria del fatto.
L’idolatria del fatto, e tanto più la conoscenza del fatto ‘passato’ inteso come conoscenza storica, sono diventate nel corso dell’Ottocento, secondo Nietzsche, una sorta di malattia, di elemento patologico, proprio per l’eccesso di storia che ha influenzato negativamente il confronto con la vita e con la sua ‘forza plastica’. Completamente fedele al titolo dello scritto, Nietzsche vuole qui mettere in evidenza la dimensione ambivalente della conoscenza storica: essa è infatti al tempo stesso qualcosa di utile e qualcosa di dannoso, qualcosa che può stimolare e qualcosa che può frenare la vita e l’azione. Il bisogno di storia genuino è tale se nasce dalla necessità di collegare storia e vita, storia e azione, non è semplice desiderio di erudizione di colui che voglia essere soltanto un «ozioso raffinato nel giardino del sapere». La storia riceve i suoi diritti, infatti, esclusivamente dalla sua possibilità di servire, di essere utile alla vita, non dal suo soffocarla: in quest’ultimo caso la storia, con la sua idolatria del fatto, rende difficile pensare al nuovo, a un agire produttivo, creativo. L’oblio e la vita L’azione, e la stessa felicità, dipendono infatti per Nietzsche anche da ciò che è l’opposto di ogni storia e di ogni storiografia, e cioè dall’oblio, dal dimenticare come capacità positiva, che mette in condizione di agire perché ne costituisce in un certo senso il presupposto: qualunque attività creativa, infatti, non può non essere fondata sulla dimenticanza di ciò che è stato e su un nuovo orientamento verso ciò che si fa. Da questo lato, quindi, la storia è vista da Nietzsche in modo negativo, è una limitazione, un freno all’attività nella quale si esprime la vita.
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L’ambivalenza della storia si rivela invece con chiarezza nelle sue diverse forme: la storia «monumentale», la storia «antiquaria» e la storia «critica». Tutte queste forme possono servire ad affermare la vita e l’azione, ovvero a diversi tipi di atteggiamenti umani, ma contengono in sé anche il rischio della negazione della vita. La storia monumentale può essere utile all’uomo attivo poiché si fonda sugli eccellenti esempi dei grandi uomini, ma può essere anche una sorta di scusa per contrapporre ai grandi uomini del presente i grandi del passato, per impedire loro di emergere. La storia antiquaria serve a coloro che vogliano conservare il passato e le proprie radici, ma corre il rischio di una rinuncia al presente nel nome del passato. La storia critica, infine, serve all’uomo che assuma una presa di posizione polemica nei confronti del passato in nome del presente, e corre a sua volta il rischio di essere unicamente negativa nei confronti del passato. L’antistorico Di fronte a quella che chiama la «malattia storica», Nietzsche suggerisce i rimee il sovrastorico di dell’antistorico e del sovrastorico. L’atteggiamento antistorico si ricollega a quella capacità di dimenticare alla quale si è già accennato e che tornerà nella riflessione di Nietzsche: si tratta della dimensione dell’oblio, che è indispensabile per potere agire. Per quel che riguarda l’elemento sovrastorico, si chiamano così le potenze che si sottraggono al divenire della temporalità e volgono lo sguardo verso «ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile», vale a dire l’arte e la religione. Entrambe vengono contrapposte da Nietzsche alla scienza e in genere alla conoscenza, anche alla conoscenza storica, in nome del dominio della vita. Certo, anche arte e religione possono essere negative, ma ciò non toglie il loro carattere di rimedio, di terapia di fronte all’invadenza della «malattia storica».
Storia «monumentale», «antiquaria», «critica»
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L’igiene della vita contro la malattia storica Sull’utilità e il danno della storia per la vita
➥ Sommario, p. 210
4 La riflessione filosofica matura
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Ma la vita deve dominare sulla conoscenza, sulla scienza, oppure la conoscenza deve dominare sulla vita? Quale delle due forze è la più alta e la decisiva? Nessuno può dubitarne: la vita è il potere più alto, dominante, poiché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe nel contempo se stessa. La conoscenza presuppone la vita, ha cioè rispetto alla conservazione della vita lo stesso interesse che ogni essere ha rispetto alla continuazione della propria esistenza. Quindi la scienza ha bisogno di una superiore vigilanza e sorveglianza; un’igiene della vita si pone proprio accanto alla scienza, e una proposizione di questa igiene suonerebbe appunto: l’antistorico e il sovrastorico sono i rimedi naturali contro il soffocamento della vita da parte della storia, contro la malattia storica. È probabile che noi, malati di storia, dobbiamo anche soffrire per i rimedi. Ma che noi soffriamo per essi non è una prova contro la giustezza del metodo terapeutico scelto.
La critica della metafisica Dopo avere delineato la riflessione giovanile di Nietzsche sulla nascita della tragedia e sulla natura ambivalente della storia, cercheremo ora di mettere in luce i principali temi della sua filosofia, a partire da Umano, troppo umano, guardando ad essa come a una riflessione relativamente unitaria, e senza tenere troppo conto, quindi, delle diverse fasi che molti interpreti hanno, non a torto, individuato in essa.
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Una filosofia autonoma
L’abbandono della metafisica d’artista
La critica della tradizione filosofica
Varrà la pena dire subito che una parte preponderante della filosofia di Nietzsche costituisce un sapiente esercizio di critica che coinvolge sia la metafisica sia la moralità, mentre più in ombra, e più difficile da esplicitare, resta la sua parte propositiva, a partire da concetti famosi ma di difficile interpretazione come quelli del superuomo, della volontà di potenza o dell’eterno ritorno dell’identico. La particolare importanza di Umano, troppo umano è legata al suo segnare la piena emancipazione dagli autori che esercitano un peso decisivo negli scritti giovanili e cioè, come si è detto, Schopenhauer e Wagner. Per quel che riguarda Wagner, la nuova impostazione coincide anche con una crisi dei rapporti personali tra Nietzsche e il musicista, ma ciò che interessa davvero è la novità della posizione filosofica di Nietzsche. Accompagnato da intense letture di scienza naturale, Nietzsche abbandona ora l’idea di una metafisica fondata nell’estetica e la possibilità di una rinascita della tragedia antica, per assumere un atteggiamento di fronte alla scienza che, se rimane certamente polemico nei confronti del positivismo, non contrappone più alla scienza l’arte come possibile rimedio (quest’ultima viene ritenuta ora appartenente a una fase superata, infantile, della vita dell’umanità) e non ha più nei confronti della scienza un atteggiamento di rifiuto. Queste nuove acquisizioni non attenuano la radicalità della critica di Nietzsche di fronte alla cultura e alla società contemporanea, ma danno a questa critica nuovi caratteri. A partire da Umano, troppo umano, Nietzsche prende di mira tutti i temi principali della tradizione filosofica: la filosofia come metafisica, l’idea della libertà del volere, la teoria della conoscenza, l’istituzione e i concetti della moralità. Sempre più, poi, Nietzsche si mostra consapevole – anche esplicitamente – di costituire un momento di cesura nella tradizione filosofica. Mentre Hegel, nella prefazione alla Filosofia del diritto (1821) aveva raffigurato la filosofia come la nottola di Minerva che leva il suo volo al far del crepuscolo, cioè come ciò che sorge alla fine di una civiltà, in Umano, troppo umano compare l’immagine di una «filosofia del mattino», che alla metafora hegeliana è chiaramente contrapposta: si tratta, ora, di annunciare qualcosa di nuovo, l’alba di una nuova epoca. Questo senso della propria filosofia e della propria missione verrà accentuato, di lì a pochi anni, nella figura profetica di Zarathustra, che richiama gli uomini alla necessità di superare se stessi nel superuomo, e, infine, nei toni ormai esaltati dell’Anticristo, che si conclude con una Legge contro il cristianesimo che reca la data «nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)».
La critica del soggetto L’illusione della conoscenza di sé
Con la critica del soggetto e della coscienza, Nietzsche prende in esame una nozione che aveva costituito il punto di partenza e l’architrave della filosofia moderna. Con le Meditazioni metafisiche di Cartesio, già la forma della ‘meditazione’ indica quanto essenziale sia ritenuta dalla nuova filosofia l’analisi critica della soggettività e delle sue possibilità conoscitive e morali; al centro dell’orizzonte sta ora il soggetto con le sue capacità conoscitive e pratiche. Questo soggetto, poi, che non è il soggetto individuale ma la struttura generale della soggettività, 191
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è lo stesso che viene magistralmente analizzato nell’altro luogo fondamentale della tradizione filosofica costituito dalle Critiche kantiane, come Nietzsche, ovviamente, sa benissimo. È questa tradizione che costituisce l’oggetto della critica. È questa illusione della «conoscenza di se stessi» che segna, per Nietzsche, il maggior fallimento della pretesa di essere «coloro che conoscono», gli «uomini della conoscenza»: egli afferma, al contrario, che «noi siamo ignoti a noi stessi». La grande illusione della metafisica e della teoria della conoscenza consiste infatti proprio nell’avere assunto la soggettività e la coscienza a luogo centrale della certezza e della conoscenza, inclusa la conoscenza di sé. E ciò vale anche sul piano morale: i soggetti che agiscono non sono trasparenti a se stessi, e in realtà il mondo del soggetto è un mondo sconosciuto, anche se «continua ancor sempre a vivere la primordiale illusione di sapere, sapere nel modo più esatto, come si realizzi, in ogni caso, l’umano operare». Il soggetto e l’inganno Il soggetto è in realtà, per Nietzsche, qualcosa di «mitologico». Esso è semplidel linguaggio cemente l’unità di tutta una serie di predicati: nella tesi cartesiana dell’«io penso» (il cogito), per esempio, è contenuto l’errore fondamentale di ritenere che affinché ci sia un predicato e quindi una certa attività, cioè il pensare, debba esserci anche un soggetto che è causa di questo pensare. Sono, a parere di Nietzsche, errori ai quali noi siamo indotti dalla nostra tendenza a proiettare le categorie grammaticali cui fa riferimento la nostra lingua – come quella di «soggetto» – nel mondo reale; come una volta scrive addirittura a proposito di Dio: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica». Gli errori della grammatica però, a loro volta, contengono gli errori ‘pietrificati’, sì, nel linguaggio, ma che hanno origine nella ragione.
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L’illusione del soggetto
Genealogia della morale, 1, af. 13
[…] che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un ‘soggetto’. Allo stesso modo, infatti, con cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest’ultimo un fare, una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun ‘essere’ al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; ‘colui che fa’ non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto. Il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa. […] la nostra intera scienza, ad onta di tutta la sua freddezza, della sua estraneità a moti affettivi, sta ancora sotto la seduzione della lingua e non si è sbarazzata di questi falsi infanti supposti, i ‘soggetti’.
Il limite fondamentale della metafisica, e del «volgo», è pensare di dovere presupporre un soggetto o un sostrato che non sia l’attività stessa: l’esistenza di un sostrato, di una ‘sostanza’ che sia la base permanente dei mutamenti, è in effetti un grande tema e quindi un grande errore della metafisica, che a detta di Nietzsche si può definire come «la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – però come se fossero verità fondamentali». La critica della libertà In effetti, sostiene Nietzsche, la metafisica tradizionale si è occupata di due quedel volere stioni principali: una è la questione della sostanza, l’altra quella della libertà del volere, che tanta importanza ha avuto in Kant ma sulla quale già Schopenhauer ha preso posizione in modo netto. Seguendo e radicalizzando Schopenhauer, Metafisica come «scienza degli errori»
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Unità 5 Nietzsche ➥ Laboratori sul lessico,
Nietzsche rifiuta ugualmente l’idea di una qualsivoglia forma di ‘libertà’ del voLibertà, p. 341 lere, e con essa rifiuta radicalmente anche l’idea della responsabilità. Viene coe Responsabilità, p. 621 sì accennata, attraverso la critica della libertà del volere, quella teoria critica della moralità che costituisce – come si è accennato e come vedremo – uno dei tratti più interessanti della riflessione di Nietzsche. L’illusione della libertà La credenza nella libertà del volere è una semplice illusione, e lo stesso volere e della responsabilità rientra nella determinazione universale esattamente come tutti gli altri eventi della natura: se fossimo in grado di conoscere tutte le condizioni delle scelte che riteniamo ingenuamente libere, se avessimo tutte le informazioni necessarie – se, quindi, fossimo onniscienti – non avremmo difficoltà a prevedere le scelte degli uomini più di quella che avremmo a prevedere qualunque altro evento. La stessa idea della responsabilità, quindi, che si è fatta tradizionalmente dipendere dall’idea della libertà del volere (per cui può essere ritenuto responsabile solo chi è libero) è un’idea illusoria come è illusorio fondare su ciò la nostra considerazione delle azioni umane, la nostra lode e il nostro biasimo. Tutti, in questo senso, sono necessariamente ‘innocenti’, perché non sono né liberi né responsabili.
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Necessità e innocenza
Umano, troppo umano, af. 107
La piena irresponsabilità dell’uomo per il suo agire e per il suo essere è la goccia più amara che chi persegue la conoscenza deve inghiottire, se era abituato a vedere nella responsabilità e nel dovere il titolo di nobiltà della sua umanità. Tutte le sue valutazioni, scelte e avversioni, sono in tal modo private di valore e divenute false: il suo più profondo sentimento, che egli tributava al martire e all’eroe, era tributato a un errore; egli non può più lodare, non biasimare, perché è assurdo lodare e biasimare la natura e la necessità […]. Tutto è necessità – così dice la nuova conoscenza; e questa stessa conoscenza è necessità. Tutto è innocenza: e la conoscenza è la via alla comprensione di quest’innocenza.
Filosofia metafisica e filosofia storica Con il formarsi di un pensiero pienamente autonomo, cambiano per Nietzsche anche i punti di riferimento: ci si stacca ormai da tutta la tradizione metafisica, da quella dei grandi sistemi idealistici, ma anche da quella di Schopenhauer. Nuovi numi tutelari diventano ora i grandi moralisti francesi, con le loro massime, e l’illuminista Voltaire, al quale viene addirittura dedicata la prima edizione di Umano, troppo umano. Filosofare metafisico Dopo la seconda Considerazione inattuale, che ha messo in luce l’ambivalenza e e filosofare storico quindi anche i rischi della conoscenza storica e della storiografia, è ora proprio alla storia che ci si affida come strumento polemico nei confronti della metafisica. La consapevolezza che tutto è divenuto e che quindi, se tutto è inserito all’interno di un processo temporale, non ci sono fatti eterni, mostra che le pretese del «filosofare metafisico» di assolutizzare i concetti si fondano sulla falsa idea che certe istituzioni, certe nozioni o certi costumi siano al di là del tempo. Al contrario, un «filosofare storico», che si serva anche dei risultati della scienza, può mostrare che i processi di formazione delle idee, dei sentimenti e delle istituzioni possono costituire metamorfosi anche molto complesse, e che ciò che appare un’opposizione assoluta (per esempio: razionale / irrazionale) può essere una coppia in cui un termine si muta, attraverso le proprie modificazioni, nel193
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l’altro. Non è scontato, insomma, che ciò che sembra dotato di certi caratteri o di una certa natura derivi da qualcosa con gli stessi caratteri o con la stessa natura, e non da qualcosa di opposto. La genealogia Il compito di una filosofia storica sarà quindi innanzitutto mostrare la genesi e come strumento critico seguire – come Nietzsche scriverà più tardi – la complessa genealogia delle idee. Torneremo sulla nozione di ‘genealogia’, ma il senso dell’operazione genealogica consiste per Nietzsche nel farne uno strumento critico: ridisegnare la genealogia dei concetti metafisici, della metafisica stessa, o dei concetti morali, ha infatti la funzione di mostrarne un processo di formazione non lineare che renda possibile la critica dei concetti presi in esame. All’opposto del filosofare storico, la filosofia come metafisica tende ad assolutizzare i concetti sulla semplice base di un certo risultato, di un certo punto di arrivo, come se essi fossero provvisti di una sorta di essenza eterna: un esempio significativo è l’assolutizzazione, da parte della metafisica, delle caratteristiche dell’uomo contemporaneo e della sua facoltà conoscitiva.
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La pretesa essenza eterna dell’uomo
Umano, troppo umano, af. 2
Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso. Inavvertitamente, «l’Uomo» si configura alla loro mente come una aeterna veritas, come un’entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo in un periodo molto limitato. La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura prendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta delineando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta; mentre alcuni di loro si fanno addirittura fabbricare, da questa facoltà di conoscere, l’intero mondo. Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono dalla loro origine tutte le cose del mondo.
La critica della metafisica non deve quindi consistere soltanto nel rifiuto della metafisica, ma, ancora una volta, in una riflessione di tipo storico-genetico sulle sue origini. A parere di Nietzsche, la filosofia a lui contemporanea è arrivata in più occasioni alla consapevolezza delle difficoltà della metafisica, e quindi a capire la necessità di rinunciarvi, ma non si è (ancora) spinta fino a dare una spiegazione sia psicologica sia storica della sua nascita e della sua conservazione. La metafisica Un tratto caratteristico della metafisica, che viene ampiamente utilizzato anche per e la duplicazione giustificare l’arte, la religione e la moralità, è per Nietzsche la contrapposizione di del mondo due diversi mondi, un mondo ritenuto dalla metafisica stabile e genuino e un mondo, quello sensibile, apparente e transeunte. In realtà, l’origine di questo genere di distinzione non può essere che psicologica, e più precisamente ha luogo nel sogno: soltanto attraverso il sogno, in un’epoca primordiale, l’uomo ha potuto costruire l’immagine o l’ipotesi di un secondo mondo, immaginario, da collocare accanto al La genesi della metafisica
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mondo reale. Senza il sogno non ci sarebbe stato alcun motivo di scindere il mondo in due mondi diversi dei quali uno avrebbe un valore diverso dall’altro. La «cosa in sé» Nietzsche affronta qui il tema classico in Platone, e poi nel cristianesimo, della kantiana contrapposizione mondo delle idee / mondo della sensibilità, al di là / al di qua. Ma per Nietzsche e i suoi contemporanei questa contrapposizione ha un punto di riferimento ben più recente, che viene fatto rientrare, peraltro, nella stessa tradizione: è la distinzione kantiana tra «fenomeno» e «cosa in sé», che accompagna tutta la rinascita kantiana della seconda metà dell’Ottocento – il cosiddetto «ritorno a Kant» – e che nel dibattito che prende campo viene spesso affrontata, se non altro in chiave polemica. Una distinzione fittizia La distinzione tra un «mondo metafisico» che costituirebbe la vera e genuina realtà, fondamento dell’arte, della religione e della morale, e un «mondo apparente» che sarebbe il mondo percepibile attraverso i sensi, e studiato dalla scienza, viene rifiutata nettamente da Nietzsche: si tratta di una distinzione che nasce dal pregiudizio tipico dei filosofi metafisici per cui i sensi sarebbero truffatori e la vita intesa come evento biologico e naturale dovrebbe essere qualcosa da reprimere e da ripudiare. È la ricerca metafisica di qualcosa di stabile e di eterno di fronte alla innegabile realtà del divenire e del mutamento; è un altro aspetto della mancanza di senso storico dei filosofi e, se ancora sostenuto nel mondo contemporaneo, un innegabile segno di una decadenza che si oppone alla vita.
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Duplicazione del mondo e disprezzo per la vita
Il crepuscolo degli idoli
Le ragioni per le quali ‘questo’ mondo è stato definito apparente ne attestano piuttosto la realtà – una specie diversa di realtà è assolutamente indimostrabile […] ammesso che non sia preponderante in noi l’istinto di denigrare, immeschinire, disprezzare la vita: in quest’ultimo caso noi ci vendichiamo della vita con la fantasmagoria di un’‘altra’ e ‘migliore’ vita […] Separare il mondo in uno ‘vero’ e in uno ‘apparente’, sia alla maniera del cristianesimo, sia alla maniera di Kant (in ultima analisi, uno scaltro cristiano) è soltanto una suggestione della décadence – un sintomo di vita declinante. Ed è così che il mondo metafisico, che la metafisica considera l’unico mondo «vero», finisce per diventare «favola», nel capitolo così intitolato del Crepuscolo degli idoli che racconta questa «storia di un errore». È la fine, o almeno l’auspicio della fine, della distinzione che aveva attraversato tutta la tradizione filosofica da Platone, attraverso il cristianesimo e Leibniz, fino a Kant.
Filosofia metafisica e filosofia storica
Filosofia storica
Filosofia metafisica 1) pretesa di assolutizzare concetti e istituzioni; 2) scissione della realtà in due mondi: ‘ideale’ e ‘sensibile’
Tradizione filosofica occidentale inauguratasi con l’ottimismo razionalistico di Socrate
contro
1) consapevolezza della dimensione storica di ogni concetto e istituzione; 2) non esiste un mondo ideale al di là del mondo sensibile
La genealogia come principale strumento di analisi storico-critica di concetti o istituzioni (per esempio, moralità)
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Il prospettivismo conoscitivo L’unica realtà: il mondo della vita
Esperienza e interpretazione dei fatti
Il primato della sensibilità
Il prospettivismo conoscitivo
➥ Tesi a confronto, p. 219
Conoscenza e mondo
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La critica della metafisica di Nietzsche sembra arrivare alla conclusione che c’è un unico mondo, quello concreto e reale della vita, della sensibilità e degli istinti. Questa conclusione ha conseguenze anche nella riflessione sul problema della conoscenza, un tema che Nietzsche ha affrontato soltanto in modo frammentario e che ha dato luogo a molteplici letture. Nonostante molte interpretazioni sembrino andare in questa direzione, Nietzsche non dà una valutazione completamente negativa della possibilità dell’uomo di conoscere la realtà, anche se le sue posizioni su questo tema non sono del tutto chiare. La critica dell’ottimismo positivistico precorre, piuttosto, certe difficoltà di fronte alle quali si è trovato l’empirismo, anche contemporaneo, quando ha tentato di sostenere la possibilità di una conoscenza fondata sulla percezione diretta di fatti empirici (vedi Unità 15, p. 651 s.). Non si danno, per Nietzsche, semplici e ‘bruti’ fatti empirici che non siano sottoposti a interpretazione, ovvero a una considerazione dei fatti guidata da un interesse che costituisce un criterio di selezione nella considerazione dei fatti stessi. Non si dà, insomma, una semplice e neutrale osservazione dei fatti, ma questa osservazione avviene sempre all’interno di certi schemi concettuali che corrispondono, nella prospettiva del filosofo, ai bisogni e agli interessi degli uomini, anche interessi in vista della loro ‘potenza’. Ma ciò non significa in alcun modo che tutte le spiegazioni dei fatti siano equivalenti e che non ci siano loro spiegazioni più adeguate di altre, né che questi fatti empirici non costituiscano comunque – essendo essi l’unico mondo che abbiamo a disposizione – il materiale cognitivo privilegiato che possiamo utilizzare. È dai sensi, afferma Nietzsche, che «proviene innanzitutto ogni cosa degna di fede, ogni buona coscienza, ogni evidenza di verità». Nonostante il peso che interessi e bisogni hanno nel processo del conoscere, sembra che per Nietzsche certe spiegazioni dei fatti siano più adeguate delle altre (per esempio: le spiegazioni della filosofia storica e della genealogia rispetto a quelle della metafisica o della religione), e che l’adeguatezza possa essere valutata anche sulla base del famigerato prospettivismo: «Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un ‘conoscere’ prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro ‘concetto’ di essa, la nostra ‘obiettività’» (Genealogia della morale, 3, af. 12). Il passo appena citato costituisce il luogo principale, nelle opere pubblicate dal filosofo, in cui Nietzsche enuncia la sua teoria prospettivistica della conoscenza, secondo la quale, da quanto emerge qui, la conoscenza di qualcosa o di un oggetto è sempre il risultato di una prospettiva con la quale guardiamo a quell’oggetto a partire da determinate disposizioni istintuali (gli ‘affetti’). Inoltre, una conoscenza è tanto più adeguata quante più prospettive siamo in grado di sviluppare nella sua osservazione. Da quanto detto, possiamo trarre le seguenti conclusioni – alquanto provvisorie – da inserire nella cornice appena delineata. Innanzitutto, per Nietzsche si dà un solo mondo reale, quello dell’esperienza, che ci si rivela attraverso la nostra natura sensibile (percettiva e istintuale) e attraverso la relazione di questa con il mondo; in secondo luogo, se c’è una fonte della conoscenza questa possono esserla solo i sensi; in terzo luogo, alcune spiegazioni dei fatti del mondo sono più adeguate di altre; in quarto luogo, tutti i dati sensibili sono sottoposti a interpre-
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Unità 5 Nietzsche
➥ Sommario, p. 210
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tazioni che sono radicate nei nostri interessi e nei nostri desideri, sia come individui singoli sia come gruppi sociali; in quinto luogo, la conoscenza più adeguata e più ‘obiettiva’ è quella che sviluppa un numero maggiore di interpretazioni, ovvero di prospettive, che riguardino un dato oggetto.
La critica della morale Come si è accennato, la critica della morale è sicuramente un aspetto di grande rilevanza nella filosofia di Nietzsche, tanto che un’ispirazione di questo tipo può essere vista anche in altri ambiti del suo pensiero.
La morale come problema e la genealogia Anche di fronte alla sfera e all’istituzione della moralità, l’atteggiamento di Nietzsche è radicalmente critico e consapevolmente innovativo: non si tratta semplicemente di prendere in considerazione la moralità e di fornirne l’analisi, ma di mettere in discussione la sfera della moralità come mai è stato fatto finora. E non solo. Non si tratta di criticare o negare una determinata morale, ma di problematizzare la moralità come tale promuovendo un confronto critico di essa con categorie non morali. Il carattere paradossale di questa operazione – del quale Nietzsche è del tutto consapevole – consiste però nel suo essere il risultato di un atteggiamento di tipo, a sua volta, morale: la storia della tradizione morale dell’Occidente spinge, all’approssimarsi del suo tramonto, a realizzare una radicale critica della morale che vada verso il superamento di essa. È cioè in nome della morale medesima che si dà «la disdetta alla morale». La morale viene messa in discussione ed entra in una crisi irreversibile attraverso una virtù specifica della tradizione morale della quale Nietzsche si ritiene l’ultimo depositario: la volontà di verità. È per questo che quella della morale non è in realtà una soppressione, ma un’autosoppressione: la storia della moralità ha il suo esito in un’autosoppressione della morale che dovrebbe schiudere le porte verso una vita diversa. L’illusione di una La tradizione dell’indagine sulla morale, della scienza della morale, ha sempre riscienza della morale tenuto di avere, appunto, uno statuto di scientificità, una capacità di analisi razionale e ordinata del fenomeno che chiamiamo ‘morale’, ma in realtà si è trattato di una pretesa ingiustificata, poiché quello che la considerazione della morale e delle morali può arrivare a dare è tutt’al più una raccolta di materiale, non un fondamento. La tradizione filosofica ha negato il carattere problematico della morale, o non si è nemmeno posta il problema, assolutizzando piuttosto certe forme determinate di morale ovvero, nella maggior parte dei casi, la morale dominante.
La tendenza della morale all’autosoppressione
T12
La mancata critica della morale Al di là del bene e del male, af. 186
In ogni «scienza della morale» esistita fino a oggi è sempre mancato, per quanto possa riuscire strano, il problema stesso della morale: è mancato il sospetto che ci potesse essere su questo punto qualcosa di problematico. Ciò che i filosofi chiamavano «fondamento della morale» e ciò che esigevano da se stessi, era soltanto una forma erudita della loro tranquilla credenza nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua espressione, quindi uno stato di fatto esistente all’interno di una determinata moralità, anzi, in ultima analisi, addirittura una specie 197
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
di negazione che questa morale potesse essere concepita come problema – e in ogni caso l’opposto di una verifica, di un’analisi, di una messa in questione, di una vivisezione, appunto, di codesta credenza. La genealogia come delegittimazione
La critica dei concetti e delle istituzioni morali
La scomposizione delle idee morali
T13
La chimica delle idee e dei sentimenti Umano, troppo umano, af. 1
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L’operazione di problematizzazione e di critica della morale viene condotta da Nietzsche attraverso la genealogia, come si intitola quella che alcuni interpreti ritengono la sua opera più importante, o almeno la più riuscita, la Genealogia della morale. La genealogia svolge qui un ruolo contrario rispetto a quello che viene svolto nelle indagini sugli alberi genealogici delle famiglie: in quest’ultimo caso, si tratta di un procedimento di legittimazione, si tratta cioè di mostrare, ripercorrendo la serie cronologica degli antenati, una nobiltà delle proprie origini che si fonda sulla continuità della discendenza rispetto a quegli antenati. Si tratta, in altre parole, di un processo di legittimazione dello status sociale di uno o più individui attraverso l’indagine sulle loro origini. Il significato della genealogia di Nietzsche è il contrario: la genealogia acquista significato in quanto è elemento indispensabile per la critica, e quindi anche, in un certo senso, per la delegittimazione, di quei concetti e di quelle istituzioni che si prendono in considerazione. Ricostruire la genealogia della morale significa infatti far vedere che l’origine dei concetti e delle istituzioni tipici della moralità non è un’origine a sua volta di tipo morale, ma del tutto diversa: ciò vuol dire anche, tra l’altro, che l’istituzione della moralità non è un’istituzione che c’è sempre stata, ma qualcosa di storicamente determinato. E vuol dire anche, rispetto alle genealogie familiari, che non c’è alcuna continuità, o almeno alcuna continuità necessaria, nella storia dei concetti e delle istituzioni in generale e dei concetti e delle istituzioni morali in particolare. La genealogia nietzscheana è sì una genealogia, ma alquanto atipica: in essa troviamo salti, fratture e modificazioni del significato dei concetti e delle istituzioni. Il motivo per cui una data nozione sorge non è affatto necessariamente legato alla sua funzione storicamente determinata in un certo periodo storico: la storia di questo concetto, o di questa istituzione, è una storia di metamorfosi continue. Quello appena delineato è il risvolto e la rielaborazione, sul piano morale, della polemica di Nietzsche contro le tentazioni metafisiche di assolutizzare i concetti, ma è soprattutto l’indagine su ciò che, presentato come puro e buono, o magari di radice metafisica o spirituale, si rivela invece ben diverso, e cioè – secondo un titolo nietzscheano – «umano, troppo umano» nella sua genesi, se l’indagine viene condotta in modo privo di pregiudizi. Si tratta, come in altri casi, di un’indagine che può portare a risultati e scoperte spiacevoli – come è del resto la mancanza di libertà del volere – ma con cui è necessario confrontarsi. È una sorta di processo di scomposizione che deve individuare, come in una reazione chimica, gli elementi fondamentali. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci veramente dato, è una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e della società, e persino nella solitudine: ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse col risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini? L’umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull’origine e i principi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l’inclinazione opposta?
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Unità 5 Nietzsche La non oggettività della morale
Questa analisi critica della morale nella forma della genealogia mostra tra l’altro, lo si è detto, la non eternità e la non assolutezza della morale, il che vuol dire anche negare che il mondo abbia un significato etico ‘oggettivo’ indipendente da quello che viene ad esso dato dagli uomini. Da quando ci sono l’istituzione della moralità, il linguaggio morale e i valori morali, «l’uomo ha attribuito a tutto quanto esiste un rapporto con la morale e ha appeso alle spalle del mondo un significato etico», l’uomo ha cioè proiettato alcuni caratteri che si è formato nel corso della sua storia, i caratteri della moralità, sul mondo, ed è così caduto nell’illusione di avere di fronte caratteri oggettivi del mondo, di avere di fronte veri e propri fenomeni morali, fatti morali, mentre in realtà c’è soltanto una «interpretazione morale dei fenomeni», ovvero una nostra lettura ‘morale’ dei fenomeni del mondo. Percepire i fatti morali come qualcosa di oggettivo è in fondo soltanto frutto di una presunzione antropocentrica che vede le vicende dell’uomo al centro dell’universo: un po’ come l’astrologia, scrive Nietzsche, che crede (o fa credere) che le stelle si occupino del destino dell’uomo.
Valutazione morale e valutazione non morale
L’ingresso del concetto di «valore» nella riflessione filosofica
Originarietà della valutazione
T14
Valutazione ed esistenza
Così parlò Zarathustra, «Dei mille e uno scopo»
Il problema della morale rientra per Nietzsche nel generale problema della valutazione e del valore: la valutazione di tipo morale è un modo specifico di valutazione, e i valori morali sono una forma specifica di valori. Parlando di «valore», si deve ricordare che tale concetto, quando scrive Nietzsche, ha fatto a stento il suo ingresso nel lessico filosofico. Il concetto di «valore» proviene infatti dal linguaggio dell’economia politica (come si è visto nel caso di Marx, vedi Unità 4, p. 155), e non è in origine una nozione filosoficamente rilevante. Per quanto il termine «valore» fosse stato introdotto nel lessico filosofico intorno alla metà del secolo da un filosofo tedesco oggi poco studiato ma allora molto influente – Rudolf Hermann Lotze (1817-1881) – è usualmente riconosciuto che soltanto con la filosofia di Nietzsche «valore» diventa un termine filosoficamente significativo. Le idee di una creazione dei valori, di forgiare nuovi valori, di una «trasvalutazione di tutti i valori» («Umwertung aller Werte») hanno il loro luogo di origine nelle pagine di Nietzsche. La riflessione sulla valutazione e sul valore è infatti centrale per la critica nietzscheana della morale. Mentre la valutazione morale e più in generale la moralità non sono elementi originari, ossia non ci sono sempre stati nella storia dell’umanità, la valutazione come termine generale di attribuzione di valore è qualcosa di originario nella storia dell’uomo, tanto che Nietzsche afferma che «uomo» significa originariamente «colui che valuta»: l’uomo si è sempre servito di valutazioni, anche se non di valutazioni universali, valide per tutti. E già nello Zarathustra, nel presentare il tema della valutazione, emerge la difficoltà di trovare accordi sul suo contenuto. Nessun popolo potrebbe vivere senza prima valutare; ma, se vuole conservarsi, non può valutare così come valuta il suo vicino. Molte cose che questo popolo approva, sono per un altro un’onta e una vergogna: questo io ho trovato. Molte cose che qui erano chiamate cattive, le ho trovate là ammantate di porpora regale […] Per conservarsi, l’uomo fu il primo a porre dei valori nelle cose, – per primo egli 199
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
creò un senso alle cose, un senso umano! Perciò si chiama «uomo», cioè: colui che valuta. Valutare è creare: udite, creatori! Valutare è di per sé il tesoro e il gioiello di tutte le cose valutate. Solo valutando egli conferisce valore: e senza di ciò la noce dell’esistenza sarebbe vuota.
Valutazione non morale e valutazione morale
L’originaria connotazione non morale dei termini «buono» e «cattivo»
L’uso originario di «buono» e «cattivo»
T15
Il nesso originario tra bontà e potenza
Genealogia della morale, 1, af. 2
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I valori, quindi, non sono oggettivi, ma vengono attribuiti dagli uomini, e allo stesso tempo i valori dipendono da coloro che valutano, per cui sarebbe illusorio pensare a un accordo dei diversi sistemi di valutazione. Inoltre, valutare significa attribuire un senso e un valore a qualcosa, e questo è un elemento per Nietzsche assolutamente originario, senza il quale non si potrebbe vivere. Ma non è della valutazione morale, che si parla qui o altrove, bensì della valutazione in generale. Buona parte della trattazione di Nietzsche, nella Genealogia della morale, è volta a mostrare innanzitutto il carattere derivato e non originario della valutazione morale (che deriva dal modo di valutazione non morale) e dello stesso linguaggio morale; poi, la differenza tra valutazione morale e valutazione non morale; infine, il modo in cui dal sistema di valutazione non morale si è passati al sistema di valutazione morale. L’originarietà della valutazione significa per Nietzsche originarietà della valutazione non morale, e per la precisione originarietà dell’utilizzazione della coppia di termini opposti «buono» e «cattivo». L’origine della valutazione, del valutare, del valore è infatti al tempo stesso un’origine di tipo linguistico: si comincia a valutare quando si cominciano a usare i termini valutativi come, appunto, «buono» e «cattivo» o termini equivalenti. Ma l’origine di questi termini non ha nulla a che fare con l’uso morale di essi: la valutazione originaria non è una valutazione che venga data dall’esterno verso certi atti che sono «buoni» per chi li riceve, che vengono giudicati «buoni» dai destinatari di questi atti, magari perché sono atti utili: è, questa, l’ipotesi degli utilitaristi e degli evoluzionisti inglesi, che Nietzsche rifiuta radicalmente. L’origine del termine «buono» non sta nel fatto che sono stati compiuti atti utili per qualcuno e questo qualcuno che ne ha usufruito ha valutato come «buoni» questi atti. L’uso di termini come «buono» e «cattivo» ha invece radice in una valutazione che certi individui hanno originariamente dato di se stessi come «buoni» non in senso morale, ma come «buoni» in quanto forti, superiori, nobili. L’origine del valore e della valutazione non ha sede in azioni che vengono compiute in funzione di altri, a vantaggio di altri (altruistiche), ma nella semplice connotazione di se stessi: l’origine del valore, quindi, va al di là della dimensione morale e, per esempio, della distinzione tra altruismo ed egoismo. Ma non solo. Già nella caratterizzazione dell’origine del valutare si rivelano certi tratti costanti e importanti della filosofia di Nietzsche: l’atteggiamento antiegualitario, da un lato, l’interesse per il confronto tra gruppi sociali diversi, dall’altro. […] il giudizio di «buono» non procede da coloro a cui viene data prova di «bontà». Sono stati invece gli stessi «buoni», vale a dire, i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. Prendendo le mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di foggiare valori, di co-
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niare le designazioni dei valori […]. Il pathos della nobiltà e della distanza, come ho già detto, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un ‘sotto’ – è questa l’origine dell’opposizione tra «buono» e «cattivo». La ‘forza’ come criterio discriminante
Il carattere amorale del dominio dei ‘forti’
Valutazione aristocratica e valutazione morale
Differenze tra i due modi di valutazione
Ordine gerarchico e morale
La valutazione e il valore hanno quindi un’origine completamente extra-morale che coincide invece con la valutazione di se stessi da parte di uomini superiori, forti: l’opposizione tra i termini «buono» / «cattivo» è quindi originariamente un’opposizione socialmente radicata che corrisponde a quella «nobile» / «plebeo» o «forte» /«debole», visto che il gruppo o gli individui socialmente superiori, all’interno di questo modo di vita e di valutare, sono per Nietzsche gli individui, appunto, forti. È la forza, in questo rapporto, il criterio discriminante; e non necessariamente o non solo la forza fisica, essa può essere anche la forza della personalità o comunque una forza di tipo psicologico. Una caratteristica a cui Nietzsche tiene molto, di questo modo di vita e di valutazione che è il modo di vita ‘aristocratico’, è il confronto con chi sta in basso, con chi è debole, plebeo. È un confronto fondato sul «pathos della distanza», sulla indifferenza: l’atteggiamento dei forti, dei nobili verso i deboli è un atteggiamento sì di violenza e di sopraffazione, ma non è fondato sul malanimo o sul rancore verso di loro. Ciò che interessa i forti e i nobili è semplicemente affermare se stessi, esprimere la propria forza, ed è soltanto contingente che l’espressione di questa forza, l’espressione di se stessi, sia anche violenza e sopraffazione. Il forte e il nobile non agiscono ‘contro’ qualcuno, ma soltanto in nome di se stessi e della propria affermazione. È un’affermazione della propria ‘natura’ che non è minimamente condizionata dalla moralità, perché ci troviamo all’interno di un modo di vita, nella prospettiva di Nietzsche, in cui la moralità non svolge alcun ruolo: altri sono i valori dominanti in questo universo sociale. Nel modo di valutazione aristocratico la valutazione di se stessi come buoni non indica in questo modo, come invece succederà nel modo di valutazione morale, che cosa si debba fare, ovvero una linea di condotta: la valutazione aristocratica è la semplice valutazione di se stessi come buoni, si valuta quindi come buona la propria forza e la propria natura, ma non si presenta nessun modello di condotta a se stessi o agli altri. Una prima differenza tra il modo di valutazione morale e quello non morale, aristocratico, riguarda quindi la funzione o meno di guidare la condotta che viene riconosciuta alla valutazione. Una seconda differenza importante è la presenza o meno della caratteristica dell’universalità: la valutazione morale pretende di essere uguale per tutti e universale, è impersonale, rimanda in fondo all’idea che certe norme e certi valori valgano per tutti perché gli uomini sono più o meno tutti uguali. Del tutto diversa è la valutazione aristocratica, e cioè non morale: in questo caso ciascun individuo valuta la propria individualità come «buona», ma questa valutazione non ha nessuna caratteristica di universalità, vale per quell’individuo, perché ogni individuo è diverso da un altro. La disuguaglianza e la gerarchia tra gli uomini sono importanti principi della prospettiva di Nietzsche, e ciò produce immediatamente una frattura con l’idea sostanzialmente egualitaria che ci possa essere una morale con caratteristiche universali. L’universalità della moralità caratteristica del cristianesimo non fa, in realtà, che danneggiare gli uomini superiori in nome degli interessi del gregge, dell’armento, della massa: «Nessuno di tutti questi tardigradi animali d’armento 201
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L’origine della valutazione morale e il cristianesimo
Il «risentimento» come reazione dei deboli verso i forti ➥ Laboratorio di lettura, p. 213
T16
La morale degli schiavi come reazione
Genealogia della morale, 1, af. 10
Il rovesciamento dei valori aristocratici
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dalla coscienza inquieta […] vuol rendersi conto che quanto è giusto per uno, non per questo in alcun modo può essere giusto per l’altro, che esigere una sola morale per tutti costituisce un pregiudizio proprio a danno dell’uomo superiore, insomma, che esiste un ordine gerarchico tra uomo e uomo, e conseguentemente anche tra morale e morale» (Al di là del bene e del male, af. 228). Gli individui, nell’ottica di Nietzsche e del modo aristocratico di valutazione, sono particolarmente importanti perché in questa prospettiva ciò che viene giudicato sono direttamente essi con la loro forza, e solo secondariamente le azioni, che sono invece importanti se entriamo in un’ottica morale. Ma se la valutazione originariamente non è una valutazione di tipo morale, ciò che deve essere spiegato è allora l’origine della moralità come un sistema di valutazione del tutto diverso e per più versi opposto a quello aristocratico. È qui che interviene il peso enorme che ha avuto il cristianesimo nella storia dell’Occidente: è con il cristianesimo che si è avuta una gigantesca rivoluzione, un ribaltamento del sistema dei valori che sposta l’attenzione e il segno positivo della valutazione dai forti verso i deboli. I deboli sono in effetti i protagonisti di questa rivoluzione, che Nietzsche chiama «rivolta degli schiavi», e che ha inizio con il popolo ebraico, ma che si realizza in modo compiuto con il cristianesimo. Alla base di questa rivolta c’è un fattore psicologico che Nietzsche ritiene centrale e che avrà una certa fortuna anche nella tradizione filosofica successiva: il risentimento come forma di rancore da parte dei deboli verso i forti e come motivo di reazione. È l’unico modo, questo della reazione, con cui anche i deboli possono agire: si tratta di un agire ‘reattivo’ di chi non è in grado di essere forte, e cerca di caratterizzare se stesso soltanto in opposizione ad altri, cioè ai forti. È così che per Nietzsche hanno origine il sistema di valutazione morale e le categorie morali: i deboli, pieni di risentimento verso i forti, reagiscono ad essi non, come gli eroi cavallereschi, dimostrando la loro forza, ma attraverso la costruzione del sistema della moralità come modo di vita e di valutazione in cui i valori del modo di vita aristocratico vengono ribaltati nel loro opposto. In questa rivoluzione dei valori, i deboli valutano i loro dominatori, cioè i forti, come ‘malvagi’, cioè cattivi in senso morale. Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment [risentimento] diventa esso stesso creatore e genera valori: il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un ‘di fuori’, a un ‘altro’, a un ‘non io’: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. Con la rivolta degli schiavi, il modo di valutazione cambia radicalmente, e al tempo stesso cambiano radicalmente anche soggetti e modi della valutazione. Con il nuovo modo di valutazione introdotto dagli schiavi, e quindi dalla civiltà ebraicocristiana, viene infatti introdotto un modo di valutare che è ora, davvero, ‘morale’:
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è qui che ha inizio la storia della moralità in senso stretto, attraverso gruppi sociali pieni di rancore e di risentimento che rappresentano la parte debole della società e che per risentimento erigono la forza, la nobiltà, la superiorità a valore negativo, mentre la debolezza e tutto ciò che alla debolezza è collegato diviene un valore positivo. È in questo modo che il risentimento diventa creatore di valori, e i nuovi valori sono ora valori specificamente morali: la coppia di termini valutativi opposti «buono» / «cattivo» che significava semplicemente «forte» / «debole» diventa ora la coppia di termini sempre valutativi e sempre opposti ma moralmente significativi «buono» / «malvagio», dove il termine «malvagio» indica il forte della società aristocratica, e il debole di quella società diventa il buono. Asimmetria dei due Questo è il meccanismo con cui è nata l’istituzione della moralità, nella ricostrumodi di valutazione zione genealogica di Nietzsche: attraverso queste metamorfosi dei concetti valutativi, i termini negativi di una società aristocratica fondata sulla nobiltà e sulla forza sono così diventati positivi: la debolezza e l’impotenza diventano un merito, l’abiezione timorosa diventa umiltà, la codardia pazienza. Come si vede, il rapporto con il proprio opposto è ben diverso nel caso del modo di vita aristocratico da un lato e del modo di vita morale dall’altro: in quest’ultimo, il rapporto con il proprio opposto è un rapporto di risentimento, di rancore, di valutazione negativa che consiste in un disprezzo attivo e nella disapprovazione morale: è un rapporto, insomma, ben diverso dal «pathos della distanza» della società aristocratica. Genesi del modo di valutazione morale
Modo di valutazione non morale 1) modo originario di valutazione; 2) «buono» = «forte» = «aristocratico»; 3) valutazione riferita agli individui; 4) affermazione del proprio valore; 5) ordine gerarchico tra gli uomini (forti / deboli)
Modo di valutazione morale Risentimento dei deboli nei confronti dei forti
Negazione del predominio dei forti e rovesciamento dei valori aristocratici
(civiltà ebraico-cristiana): 1) modo derivato di valutazione; 2) «buono» = «debole» = «umile»; 3) valutazione riferita alle azioni; 4) uguaglianza tra gli uomini
La genealogia della morale di Nietzsche non si limita, naturalmente, ai termini «buono» / «malvagio» e alla loro derivazione, seppur peculiare, da un sistema di valutazione non morale. Nietzsche intende infatti mostrare su più piani e per più aspetti come i concetti morali derivino da altro, da qualcosa che morale non è. La genealogia della morale è qualcosa di complesso, il cui principale senso unitario, si può dire, consiste nel carattere «non originario» dei valori morali. Così, per esempio, certi concetti morali vengono fatti risalire nell’indagine nietzscheana alle metamorfosi di nozioni giuridiche o commerciali e al loro intersecarsi con eventi sociali: i concetti di «colpa» e di «dovere», per esempio, derivano dal concetto di «debito» e dal rapporto economico tra creditore e debitore, che è in origine un rapporto di potere del primo sul secondo. Diritto penale E non solo: l’origine della pena e del diritto penale non sta nella riconosciuta e soddisfazione «colpevolezza» di qualcuno, ma nella possibilità di provare la soddisfazione deldella crudeltà la crudeltà verso il debitore che non paghi il suo debito. Quando la comunità si sostituisce, mediante opportune istituzioni, al creditore nel punire il debitore, ciò provoca con il tempo anche una progressiva umanizzazione delle pene: anche in
L’origine non morale dei concetti di «colpa» e «dovere»
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questo caso, però, ci si deve guardare da una lettura positiva di questa umanizzazione. Perdita di crudeltà In realtà, essa ha per risultato la perdita della possibilità di realizzare la come senso di colpa ponente crudele della natura dell’uomo nell’esercizio diretto della crudeltà o, almeno, nello spettacolo della crudeltà che in altri tempi accompagnava qualunque tipo di festa. Le conseguenze di questa «perdita di crudeltà» sono importanti per la storia dell’uomo occidentale e della sua psicologia, poiché sono all’origine di quella «cattiva coscienza» che costituisce il fondamento del senso di colpa della tradizione cristiana. Impossibilitato a esercitare la propria crudeltà verso l’esterno, l’uomo ha diretto la crudeltà verso se stesso, verso la propria interiorità.
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La genesi dell’interiorità
Genealogia della morale, 2, af. 16
Considero la cattiva coscienza come quella grave malattia in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto – quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della pace. Non diversamente da quel che deve essere accaduto agli animali acquatici, allorché furono costretti a divenire animali terrestri oppure a perire, si compì la sorte di questi semianimali felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura – a un tratto tutti i loro istinti furono svalutati e ‘divelti’ […]. Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno – questo è quello che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua «anima».
L’analisi critica del cristianesimo e la volontà di potenza L’origine dell’istituzione della moralità, quindi, e dello stesso linguaggio morale, sta nella storia di determinati gruppi sociali e dei rapporti di forza che si instaurano tra essi. Questa origine della moralità, lo si è accennato, coincide con l’inizio della civiltà cristiana, vista da Nietzsche – giustamente – in stretta continuità temporale e tematica con la civiltà ebraica. Il cristianesimo è certamente uno dei grandi obiettivi polemici di Nietzsche: il cristianesimo, infatti, come emerge con particolare forza proprio nella Genealogia della morale o nell’Anticristo (del 1888, cioè del gruppo delle ultime opere) è il principale ostacolo per la vita e per l’affermazione della vita. Nichilismo e necessità La radicalità della critica del cristianesimo da parte di Nietzsche non si espridi un ‘riorientamento’ me tanto nelle sue affermazioni più famose e altisonanti, come «Dio è morto», dei valori che ricorrono più volte nelle sue opere. La morte di Dio significa per Nietzsche, eventualmente, qualcosa di ben più radicale della semplice affermazione di ➥ Percorso tematico, p. 225 ateismo, non nuova nella tradizione filosofica: è piuttosto la negazione dell’oggettività dei valori insieme con la consapevolezza che la civiltà europea abbia bisogno di una radicale ‘trasvalutazione’, o di un completo e radicale ‘riorientamento’ del proprio orizzonte di valori. È soprattutto questo il peculiare e non univoco senso del nichilismo nietzscheano: da un lato, esso costituisce il punto di arrivo della crisi dei valori che caratterizza la civiltà occidentale, ed è in questo senso un fenomeno negativo; dall’altro, esso è in certo modo la stessa posizione di Nietzsche, che attraverso il rifiuto dei valori tradizionali intende proporre una nuova strada. Il cristianesimo come obiettivo polemico
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Unità 5 Nietzsche Cristianesimo, negazione della vita e decadenza della civiltà
La ‘bontà’ morale come espressione della «volontà di potenza»
Il rifiuto del materialismo
La volontà di potenza come tendenza al superamento
Il cristianesimo è per Nietzsche, innanzitutto, il responsabile della negazione della vita poiché nega le componenti sensibili e istintuali della natura umana e si propone come ‘ideale ascetico’, mentre la stessa distinzione natura / spirito è secondo Nietzsche una distinzione fallace. Inoltre, il cristianesimo è il principale responsabile dell’egualitarismo che ha i suoi eredi contemporanei nella Rivoluzione francese e poi negli ideali democratici e socialisti. Questi aspetti rientrano del resto in quella istituzione della moralità che, oltre alla negazione della vita e di se stessi e all’ideale fallace dell’uguaglianza tra gli uomini, ha promosso la valorizzazione come virtù di caratteristiche legate alla debolezza, e ha quindi nel tempo condotto la civiltà occidentale alla decadenza. In realtà, però, Nietzsche non crede che la cosiddetta bontà (morale) dei deboli, e quindi del cristianesimo, sia una bontà morale genuina, poiché anch’essa si fonda pur sempre su ciò che costituisce l’essenza della vita e dei rapporti sociali, la «volontà di potenza». La nozione di «volontà di potenza» possiede diversi significati e svolge funzioni differenti nel pensiero di Nietzsche. Essa è comunque un termine centrale perché si collega direttamente al problema della vita e tende a identificarsi con essa; e la vita è la categoria che, seppur strutturalmente indeterminata, è uno degli elementi più costanti e ricorrenti negli scritti di Nietzsche. Bene a conoscenza del dibattito filosofico-scientifico sul materialismo che ha luogo nella seconda metà dell’Ottocento, Nietzsche non accetta il materialismo, e interpreta la realtà come qualcosa di dinamico che, lo si è visto, non può essere né ricondotto né cristallizzato in nozioni classiche della tradizione filosofica come ‘sostanza’ o ‘soggetto’ (ma anche: ‘causalità’). Egli sottopone piuttosto queste nozioni a una critica demolitrice, che si fonda su una prospettiva propria. La realtà è composta di centri di forza, di energia, ed è questa energia a stare alla base di ogni vita: «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone», scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra, e in questa stessa presentazione del tema è contenuto il passaggio dalla dimensione naturale, biologica, o forse metafisica, alla dimensione sociale, che esprime nel modo più netto la prospettiva nietzscheana. La volontà di potenza non è semplice tendenza all’autoconservazione (su questo tema Nietzsche polemizza con gli evoluzionisti) ma piuttosto tendenza all’espansione e al superamento di sé e di ciò che ci circonda: sono queste le irrefrenabili e inevitabili esigenze della vita, di fronte alle quali le pretese della morale e del diritto mostrano tutta la loro debolezza, se non si adeguano ad esse.
Genealogia della morale, 2, af. 11
Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di ‘illegittimo’ in quanto la vita si adempie essenzialmente, cioè nelle sue funzioni fondamentali, offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando e non può essere affatto pensata senza questo suo carattere. C’è persino qualcosa di più serio che dobbiamo ancora confessare a noi stessi: che dal supremo punto di vista biologico, condizioni giuridiche possono essere sempre soltanto stati eccezionali, essendo parziali restrizioni della peculiare volontà di vivere che ha di mira la potenza, e subordinandosi in quanto strumenti particolari allo scopo complessivo di tale volontà.
Psicologia e volontà di potenza
La volontà di potenza costituisce quindi per Nietzsche il principio dinamico della realtà, ma costituisce soprattutto il principio della motivazione degli individui
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L’essenziale violenza della vita
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
La rivolta degli schiavi come manifestazione della volontà di potenza
nel loro agire, come una psicologia avvertita e spregiudicata deve essere in grado di mostrare. Un limite della psicologia è stato, infatti, non essere riuscita a liberarsi dei pregiudizi morali. Se la psicologia viene utilizzata, come Nietzsche ritiene debba avvenire, come strumento di indagine e di demistificazione, allora essa potrà essere di nuovo la strada da battere per i problemi fondamentali. Per far questo, però, ci si deve rendere conto che la psicologia è soprattutto una «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza». La volontà di vivere è sempre indirizzata, come volontà di potenza, verso rapporti di dominio, e trova le forme più diverse per farlo: la psicologia giustamente intesa è in grado di analizzarne i meccanismi e di metterli a nudo. La stessa rivolta degli schiavi con cui si è imposta una grande rivoluzione dei valori e della vita sociale è stata sì una rivolta dei deboli contro i forti, con tutto quello che ne è conseguito, ma è stata pur sempre una rivolta che ha avuto successo e che ha mutato i rapporti di potere della società, un processo in cui prima il ceto sacerdotale ebraico e poi i preti cristiani hanno consapevolmente saputo sviluppare una forma di dominio che non ha pari nella storia, anche perché ha saputo collegarsi con la funzione storica del cristianesimo. Si è trattato quindi, anche in questo caso, di una forma di manifestazione della volontà di potenza.
La funzione del cristianesimo Il distacco dell’uomo dal proprio passato biologico
T19
Dall’uomo ‘semplice’ all’uomo ‘profondo’
Genealogia della morale, 1, af. 6-7
Senso di colpa e complessità interiore
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La critica del cristianesimo sembra accompagnarsi in Nietzsche al riconoscimento della sua funzione storica, pur se si tratta di una funzione storica che si è esaurita e che non è affatto esente dalla logica della ‘potenza’ che sottende in generale ai rapporti sociali. Innanzitutto, l’origine della moralità e del cristianesimo coincide per Nietzsche con il distacco definitivo dell’uomo dal proprio passato biologico: con il cristianesimo, e solo con il cristianesimo, il forte e aristocratico ma, sembra dire Nietzsche, ‘semplice’ uomo aristocratico ha acquisito uno spessore e una profondità e si è fatto davvero uomo. […] soltanto sul terreno di questa umana forma di esistenza, essenzialmente pericolosa, quella cioè dei preti, l’uomo è divenuto in generale un animale interessante, e […] soltanto qui l’anima umana ha acquistato profondità in un superiore significato ed è divenuta malvagia – e sono anzi queste le due forme fondamentali della superiorità che ha avuto sino ad oggi l’uomo sugli altri animali! […] La storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte degli impotenti è venuto in essa. E queste osservazioni si intersecano, nella multifattorialità tipica della genealogia di Nietzsche, con quelle sull’origine del sentimento di colpa, ovvero sulla cattiva coscienza: è stato in grazia di questo fenomeno di crudeltà verso se stessi che la semplicità dell’uomo e della sua coscienza «originariamente sottile come fosse tesa tra due epidermidi» ha modificato la sua natura in direzione, lo si è visto sopra, di una interiorizzazione, di una profondità. L’uomo occidentale diventa infatti con il cristianesimo e con il sistema della moralità un uomo profondo anche nel senso che ha una memoria, che può «fare promesse» perché può ricordare, perché ha anche, in parte, perso quella capacità attiva di dimenticare che, lo ricorderai, svolgeva un ruolo già nella seconda Considerazione inattuale.
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Unità 5 Nietzsche La funzione ‘terapeutica’ del cristianesimo
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L’interpretazione ascetica della sofferenza Genealogia della morale, 3, af. 28
Il superamento della morale e del cristianesimo
➥ Sommario, p. 210
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L’uomo diventa interessante e profondo solo con il cristianesimo e la moralità, quindi. Tuttavia, il maggior significato storico del cristianesimo è un altro: il cristianesimo, come tutte le religioni, è stato anche un grande sistema terapeutico di fronte al dolore e alla sofferenza che caratterizza l’esistenza umana. E questa indicazione non va letta limitatamente al dolore in quanto tale, nella sua immediatezza, ma al suo intensificarsi di tipo «immaginativo e mentale» che rende davvero drammatica la sofferenza perché ne mette in luce l’assurdità: «Ciò che propriamente fa rivoltare contro la sofferenza non è la sofferenza in sé, bensì l’assurdità del soffrire». È il confronto con questa assurdità e la capacità di affrontarla che spiega il successo del ceto dei ‘preti’ e la funzione storica del cristianesimo in quanto «ideale ascetico», come Nietzsche scrive in chiusura della Genealogia della morale. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un ‘perché’ del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a essa un senso. È stato fino a oggi l’unico senso; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l’ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il ‘faute de mieux’ par excellence [mancanza di meglio per eccellenza] che sia mai esistito sino a ora. In esso la sofferenza venne interpretata; l’enorme vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida. Il cristianesimo ha svolto una funzione storica, quindi, ma questa funzione si è esaurita: la filosofia di Nietzsche, e la figura di Zarathustra, intendono infatti annunciare una nuova epoca che costituisca un superamento della morale e dello stesso cristianesimo. È in questa nuova direzione che si dovrebbe sviluppare la filosofia nietzscheana, dopo avere aggredito criticamente la tradizione. Anche in questa direzione, di una proposta costruttiva e non solo critica, sembra che un ruolo dominante venga svolto da un atteggiamento di tipo ‘morale’, o almeno ‘pratico’, che sia in grado, lo si è detto, di sopprimere la stessa moralità attraverso gli strumenti della moralità, a partire dalla veridicità, e al di là di ciò, di tratteggiare un modo di vita alternativo a quello fondato sulla moralità. È anche questo il senso della tesi nietzscheana dell’eterno ritorno dell’identico, e della necessità che la figura dell’uomo venga superata nel superuomo.
Il superuomo e l’eterno ritorno
Nella figura del superuomo vengono espressi due aspetti della filosofia di Nietzsche e in particolare della sua critica della società contemporanea. Da un lato, si tratta di indicare un nuovo modello di uomo che costituisca un superamento dell’uomo contemporaneo, di quelli che Nietzsche chiama con disprezzo «gli ultimi uomini»: si tratta quindi in realtà anche di indicare, pur sommariamente, i caratteri di un nuovo modo di vita, di una società diversa che nasca dalle ceneri della tradizione cristiano-borghese. Una nuova forma Per questo, e in diretta connessione con il primo, sorge il secondo aspetto, che è di aristocraticismo l’aristocraticismo di Nietzsche. Egli tuttavia è un filosofo troppo consapevole della storicità degli eventi per pensare che il modello aristocratico della società ‘precri-
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
stiana’ e ‘premorale’ possa essere riproducibile: l’uomo che è passato attraverso l’esperienza storica del cristianesimo è un uomo ormai complesso, approfondito, che non può tornare semplicemente a essere la coscienza ‘sottile’ dell’uomo ancora semplice e vigoroso di una società fondata sull’aristocrazia e sulla forza. Però la società aristocratica rimane l’unico punto di riferimento di Nietzsche, del cui consapevole e radicale antiegualitarismo abbiamo già parlato: ogni superamento, ogni avanzamento dipende dalla differenziazione e dalla disuguaglianza tra gli uomini.
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Innalzamento dell’uomo e aristocrazia Al di là del bene e del male, af. 257
Ogni elevazione del tipo ‘uomo’ è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante altezza e ampiezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell’obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, l’elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo ‘uomo’, l’assiduo ‘autosuperamento dell’uomo’, per prendere una formula morale in un senso sovramorale.
Beninteso, il superuomo esprime qualcosa di più della semplice disuguaglianza tra gli uomini: questa vige sempre, e uomini superiori ci sono sempre stati e ci sono ancora anche all’interno della decadente società contemporanea (un esempio è stato Napoleone). Il superuomo dovrà avere caratteristiche diverse, che consistono appunto nel superamento dell’uomo, del semplice uomo, e soprattutto dell’uomo ormai decadente frutto della civiltà cristiana, dell’«ultimo uomo». Si tratta, nel caso del superuomo, non solo del culmine di una gerarchia, ma di un superamento che dovrebbe marcare una differenza di tipo antropologico che renderebbe l’esistenza dell’uomo un semplice punto di passaggio «tra la bestia e il superuomo». I tratti caratteristici Il superuomo sarà in grado di accettare la dimensione tragica e dionisiaca della del superuomo vita, perché sarà consapevole della morte di Dio e della fine della civiltà fondata sulla moralità, ovvero della civiltà occidentale cristiana. Inoltre, tra le caratteristiche del superuomo ci dovrà essere anche quella di accettare «l’eterno ritorno dell’identico», una nozione dell’apparato concettuale di Nietzsche il cui significato non è cristallino. La fonte d’ispirazione è certamente la civiltà antica, ma ciò che non è chiaro è se la tesi dell’eterno ritorno sia per Nietzsche anche una genuina tesi cosmologica, oltre a una tesi di tipo ‘morale’. Certo l’eterno ritorno è un tema centrale di Così parlò Zarathustra, ma compare la prima volta in un aforisma della Gaia scienza intitolato significativamente Il grande peso. Il superuomo come nuovo tipo antropologico
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L’annuncio dell’eterno ritorno dell’identico La gaia scienza, af. 341
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Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polve-
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Unità 5 Nietzsche
re!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? […] Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? La piena accettazione di ogni aspetto della vita
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Il significato ‘morale’ dell’eterno ritorno consiste in un’affermazione e accettazione della vita in tutti i suoi aspetti, nell’accettazione del «grande peso»: accettare l’eterno ritorno dell’identico significa infatti accettare la vita in pieno, affermare se stessi e la propria esistenza. Se si accetta l’idea che tutti gli attimi si ripresentino in eterno in un andamento circolare del tempo, ciò è il segno del fatto che si è davvero accettata pienamente la vita. Inoltre, la tesi dell’eterno ritorno implica la negazione di ogni finalismo, di ogni teleologia: se tutto torna eternamente, il mondo non ha uno scopo né un senso, come nella prospettiva dionisiaca, e non c’è nessun disegno, né trascendente, né immanente, che riguardi l’esistenza. Per questo il superuomo è tale nell’accettazione dell’eterno ritorno: esso significa l’accettazione consapevole, e coraggiosa, dell’insensatezza dell’esistenza. È ancora una volta un’affermazione di forza di fronte al destino, che non può non passare attraverso la sua accettazione come amor fati.
Suggerimenti bibliografici Come introduzione generale al pensiero di Nietzsche ti consigliamo G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985. Per approfondire la sua opera possono esserti utili i volumi dedicati a Nietzsche da uno dei due curatori dell’edizione critica delle sue opere M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, Adelphi, Milano 1999, e Id., Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1981. Una interessante raccolta di saggi è M. Ferraris (a cura di), Guida a Nietzsche, Laterza, RomaBari 1999. Per avvicinarti a due tra le più importanti opere del filosofo tedesco puoi leggere A. Orsucci, Genealogia della morale. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2001, e S. Giametta, Commento allo Zarathustra di Nietzsche, Bruno Mondadori, Milano 1996. Al tema dell’eterno ritorno e al suo rapporto con la filosofia della storia è dedicato K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Roma-Bari 1996. I brani antologizzati sono tratti da: F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1977. F. Nietzsche, Lettera a Theodor Fritsch del 29 marzo 1887, citato in M. Montinari, Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 74. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, 1-3, Adelphi, Milano 1972, pp. 70-71, 96. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 19793. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 19957. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 19825. F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1983, p. 45. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1992. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 19827. Il brano di C. Luporini citato a p. 181 è tratto da Id., Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 4. La lettera di F. Ritschl citata a p. 183 è tratta da F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp. 185-186.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Sommario 1. IL
FILOSOFO E IL MORALISTA
Nietzsche – un ‘caso’ nella storia della filosofia – ha come obiettivo polemico la razionalità filosofica così come essa si è sviluppata dalla Grecia antica in poi. Elemento distintivo della sua filosofia è anche lo stile aforistico. Oggetto privilegiato del pensiero di Nietzsche è la morale, al punto che non è scorretto parlare di lui come di un ‘moralista’. In questo sta, tra l’altro, la componente ‘illuministica’ del suo pensiero. Ciò non toglie che l’individualismo – in quanto opposto a ogni atteggiamento democratico e ugualitario – costituisca un tratto caratteristico del pensiero nietzscheano. 2. DALLA
FILOLOGIA ALLA CRITICA DELLA CULTURA
CONTEMPORANEA
Nonostante la formazione da filologo classico e la sua precoce affermazione in ambito universitario, Nietzsche rivela ben presto interessi filosofici che lo spingono a rompere con l’ambiente accademico. La pubblicazione della Nascita della tragedia nel 1872 segna questa frattura. In questi anni Nietzsche è influenzato da Schopenhauer e Wagner: il primo in relazione al principio irrazionale (la volontà) che sarebbe a fondamento della realtà, il secondo per aver dato ‘concretezza’ a tale principio nei suoi drammi musicali. 3. LA
TRAGEDIA E LA STORIA
La riflessione filosofica di Nietzsche ha inizio da un’analisi della genesi e della natura della tragedia greca, analisi che si caratterizza come la chiave per una critica dell’epoca contemporanea. Egli interpreta la cultura greca classica come il risultato dell’interazione conflittuale tra un principio apollineo (espressione dell’armonia e della razionalità) e uno dionisiaco (espressione della vita e della dimensione istintuale). Tra i due principi, fondamentale e originario è quello dionisiaco. Nella tragedia attica i due principi trovano una perfetta fusione tra loro. Tuttavia la tragedia attica va incontro a un ‘suicidio’ già con Euripide, nel momento in cui l’ottimismo razionalistico di ispirazione socratica prende il sopravvento sul principio dionisiaco. Nietzsche intravede tuttavia la possibilità di un ritorno al principio dionisiaco in epoca contemporanea grazie ai drammi musicali di Wagner, che costituiscono a suo avviso una metafisica d’artista, la sola accettabile. Allo stesso tempo Nietzsche guarda con disprezzo alla filosofia della storia di matrice hegeliana e in particolare a quella che lui chiama idolatria del fatto. Ciò comporta una essenziale ambivalenza della conoscenza storica, che può essere a un tempo sia stimolo per la vita (se accompagnata dall’oblio) sia freno per essa. 4. LA
CRITICA DELLA METAFISICA
La riflessione filosofica matura di Nietzsche è caratterizzata da una esplicita presa di distanza da tutta la tra210
dizione filosofica occidentale. Il principale obiettivo critico della tradizione filosofica è l’idea stessa di un «soggetto» agente (o «sostanza») distinto dall’azione e dal fare. Analogamente Nietzsche opera una critica radicale della nozione di «libertà del volere» e del concetto ad essa correlato di «responsabilità». La storia si configura come uno strumento polemico nei confronti di quel «filosofare metafisico» che assolutizza concetti e istituzioni. Ciò apre la strada a quella filosofia storica che mostra la complessa genealogia delle idee metafisiche e dei concetti morali. La «duplicazione» della realtà, operata pressoché in ogni sistema filosofico e nella stessa religione, è sintomo per Nietzsche di un decadimento del principio vitale originario. L’unica realtà è costituita per lui dal mondo della vita e degli istinti. La conoscenza, nella quale la sensibilità gioca un ruolo privilegiato, è inevitabilmente prospettica, parziale (prospettivismo conoscitivo). 5. LA
CRITICA DELLA MORALE
Lo strumento di analisi critica dei concetti e delle istituzioni morali è rappresentato per Nietzsche dalla genealogia, mediante la quale è possibile arrivare a una loro delegittimazione. Nessun fatto o fenomeno è di per sé morale in senso oggettivo. La valutazione morale deriva da un originario atteggiamento valutativo di tipo non morale, bensì incentrato sulla contrapposizione tra «forti» (aristocratici) e «deboli» (plebei). La creazione del sistema morale di valutazione culmina nel cristianesimo, caratterizzato dal risentimento dei deboli verso i forti, dal rovesciamento dei valori aristocratici e dal nascere del senso di colpa. L’analisi genealogica implica dunque il nichilismo. Nietzsche auspica così una «trasvalutazione» di tutti i valori mediante l’affermarsi della volontà di potenza, categoria fondamentale che sta alla base della vita stessa, sia individuale che sociale. 6. IL
SUPERUOMO E L’ETERNO RITORNO
La funzione storica svolta dal cristianesimo e dalla morale si è esaurita. Ciò prelude per Nietzsche all’alba di una nuova epoca caratterizzata da un superamento della morale e dall’avvento del superuomo. Esso costituisce un nuovo «tipo» antropologico di uomo, che nasce sulle ceneri dell’uomo cristiano-borghese e aderisce pienamente alla dimensione tragica e dionisiaca dell’esistenza, nella consapevolezza della «morte di Dio». Tra le sue caratteristiche vi è quella di accettare l’eterno ritorno dell’identico, ossia la tesi secondo la quale tutto ciò che accade, sia a livello cosmico che a livello individuale, è sempre accaduto e sempre accadrà di nuovo. L’accettazione di tale tesi può essere letta come un’adesione piena alla vita in tutti i suoi aspetti, istante per istante, nella mancanza di un ‘senso’ dell’esistenza.
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Unità 5 Nietzsche
Parole chiave Apollineo. Accanto a quello dionisiaco, uno dei due «impulsi» o principi che secondo Nietzsche stanno alla base della vita e della realtà. Il principio apollineo denota l’armonia e l’equilibrio razionale. Dionisiaco. Esso è quello fondamentale dei due principi o «impulsi» che presiedono alla vita e alla realtà. Il principio dionisiaco caratterizza l’ebbrezza e la dimensione istintuale dell’esistenza, dimensione in cui il singolo individuo non è più distinto dalla realtà ma costituisce un tutt’uno con essa e la natura. Eterno ritorno. La dottrina dell’«eterno ritorno dell’identico» consiste nell’idea che ogni evento, anche il più insignificante, è destinato a ripetersi infinite volte nel futuro, esattamente nelle stesse modalità in cui è già accaduto nel passato e sta accadendo nel presente. Filosofia storica. In opposizione alla «filosofia metafisica», che tende ad assolutizzare certi fatti o concetti (ossia a considerarli come posti al di fuori del processo storico) la «filosofia storica» si propone come uno strumento di critica volto a ridisegnare la genealogia e il processo di formazione storica dei concetti metafisici o dei concetti morali, mostrandone così la non assolutezza. Genealogia. Nell’ambito della «filosofia storica» promossa da Nietzsche, questo termine indica lo strumento principale per la critica di idee metafisiche, concetti morali o istituzioni, e quindi anche per la loro delegittimazione. Idolatria del fatto. Atteggiamento nei confronti della storia che tende a giustificare ogni evento, come fosse il prodotto necessario e il compimento di quelli che lo hanno preceduto. Individualismo. Atteggiamento sociale e filosofico esaltato da Nietzsche e proprio dell’eroe nietzscheano, il quale – lungi dal considerarsi parte di una ‘massa’ di individui uguali e aventi gli stessi diritti e doveri – si pone aristocraticamente al di sopra di essi. Tale atteggiamento è strettamente connesso all’atteggiamento antiegualitario e antidemocratico di Nietzsche. Metafisica d’artista. Tale genere di metafisica, contrapposta a ogni metafisica precedente della storia della filosofia, indica per Nietzsche una metafisica che intende fornire una giustificazione esclusivamente estetica del mondo e dell’esistenza, senza il ricorso a concetti o strumenti razionali. Nichilismo. Dal latino nihil («nulla»), il termine indica nel pensiero di Nietzsche il rifiuto di qualunque
verità oggettiva o fondamento assoluto, sia etico che conoscitivo (secondo il detto: «Dio è morto»). Oblio. Termine mediante il quale Nietzsche allude al dimenticare come capacità positiva, che mette cioè in condizione di agire in quanto libera la creatività dal peso del passato. Ottimismo razionalistico. Atteggiamento di fiducia fondato su una visione razionale della realtà, secondo il quale ciò che è razionale è anche buono e bello. Tale atteggiamento viene introdotto nella storia dell’umanità dalla filosofia socratica e determina il «suicidio» della tragedia attica e il prevalere del principio apollineo su quello dionisiaco. Prospettivismo. Tale termine indica l’idea secondo la quale la conoscenza di qualcosa è sempre una conoscenza «prospettica», ossia una conoscenza parziale, dipendente essenzialmente dai nostri interessi e dai nostri bisogni. Risentimento. Esso costituisce l’atteggiamento psicologico che spiega il passaggio dal sistema di valutazione non morale al sistema di valutazione morale, inaugurato dal cristianesimo. Più precisamente, il risentimento è una forma di reazione dei deboli verso il potere dei forti, reazione che si caratterizza come una forma di rancore. Senso di colpa. Esso costituisce il tratto caratteristico di quella «cattiva coscienza» che si è instaurata nell’uomo con il rovesciamento dei valori aristocratici e l’avvento del cristianesimo. Parallelamente all’«umanizzazione» delle pene da parte della società e alla svalutazione degli istinti aggressivi da parte della morale cristiana, l’uomo ha indirizzato l’esercizio della crudeltà verso se stesso, ossia verso la propria interiorità. Superuomo. Dal tedesco Übermensch, il termine indica nel pensiero maturo di Nietzsche il nuovo tipo antropologico di uomo che dovrebbe nascere sulle ceneri della civiltà cristiano-borghese ormai giunta al tramonto. Tra le caratteristiche salienti del superuomo nietzscheano vi sono l’accettazione della fine di ogni assoluto e la piena adesione alla dottrina dell’eterno ritorno dell’identico. Volontà di potenza. Tale termine indica l’essenza stessa della vita e dei rapporti sociali, quale si rivela a uno sguardo attento e disincantato. Essa è l’energia o il centro di forza che sta alla base di ogni essere vivente, il quale non si limita semplicemente all’autoconservazione, ma ha la tendenza naturale a espandersi e a superare se stesso e tutto ciò che lo circonda. 211
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Questionario IL
FILOSOFO E IL MORALISTA
1
LA
LA
LA
Che cosa significa l’affermazione di Nietzsche in T5 secondo cui lo stesso Euripide sarebbe stato, nelle proprie opere, «solo maschera»? (max 1 riga)
TRAGEDIA E LA STORIA
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In che rapporto sta l’individualità del soggetto con, rispettivamente, il principio apollineo e quello dionisiaco? (max 4 righe)
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In cosa consiste il pericolo della filosofia della storia hegeliana, secondo quanto espresso da Nietzsche in T6? (max 1 riga)
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Che ruolo svolge secondo Nietzsche la tragedia attica per lo spettatore dell’antica Grecia? (max 1 riga)
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In cosa consiste, secondo quanto argomentato da Nietzsche in T8, l’errore comune del «volgo», della metafisica e della scienza? (max 2 righe)
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In che senso lo studio della storia può essere, secondo Nietzsche, sia utile che dannoso per la vita? (max 5 righe)
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Quale è il nesso tra necessità e innocenza stando a quanto sostiene Nietzsche in T9? (max 1 riga)
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In cosa consiste il principale difetto nel modo di guardare all’uomo da parte dei filosofi e dei teologi, secondo quanto afferma Nietzsche in T10? (max 2 righe)
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Che cosa ha a che fare il sentimento della vendetta con la genesi dei sistemi metafisici, stando a quanto dichiara Nietzsche in T11? (max 3 righe)
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Quali sono i tratti distintivi della genealogia nietzscheana come strumento critico per l’analisi dei concetti e delle istituzioni? (max 4 righe)
A cosa si riferisce Nietzsche in T12 quando parla del «problema stesso della morale»? (max 1 riga)
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Cosa mette in luce secondo Nietzsche l’analisi genealogica dei termini «buono» e «cattivo»? (max 5 righe)
Che tipo di nesso viene suggerito da Nietzsche tra «esistenza» e «valutazione» in T14? (max 2 righe)
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Stando a quanto affermato da Nietzsche in T17, in che senso possiamo affermare che la «morale degli schiavi» ha un carattere eteronomo e negativo? (max 3 righe)
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Qual è la conseguenza più rilevante della svalutazione degli istinti cui l’uomo è andato incontro, secondo quanto afferma Nietzsche in T18? (max 1 riga)
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In che relazione stanno a tuo avviso l’amore di se stessi e della vita con la dottrina dell’eterno ritorno dell’identico, così come espressa da Nietzsche in T23? (max 3 righe)
CRITICA DELLA METAFISICA
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In cosa consiste secondo Nietzsche la «grande illusione» della tradizione filosofica moderna inaugurata da Cartesio? (max 2 righe)
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Da dove ha origine, secondo Nietzsche, l’idea – comune a tutti i sistemi filosofici e al cristianesimo – che esistano due realtà, di cui una sarebbe perfetta e assoluta e l’altra imperfetta e mutevole? (max 2 righe)
CRITICA DELLA MORALE
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In che cosa consiste il tratto ‘illuministico’ del pensiero nietzscheano? (max 2 righe)
Che ruolo gioca secondo Nietzsche il risentimento (ressentiment) nella genesi del modo di valutazione morale? (max 2 righe)
SUPERUOMO E L’ETERNO RITORNO
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Quali sono i caratteri della nuova epoca che si presenta come superamento del cristianesimo? (max 3 righe)
Lavoriamo sui testi 11
Quali aspetti del processo conoscitivo ti sembra siano valorizzati da Nietzsche nell’affrontare «i problemi profondi», stando a quanto egli stesso dichiara in T1? (max 2 righe)
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A che genere di manifestazioni artistiche Nietzsche associa, rispettivamente, il principio apollineo e quello dionisiaco in T4? E per quale motivo secondo te? (max 3 righe)
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Laboratorio di lettura Genealogia della morale In questo brano della Genealogia della morale, Nietzsche mostra come la genesi della moralità affondi le radici nel fenomeno psicologico del ‘risentimento’ e nel diverso atteggiamento di aristocratici e plebei nei confronti del gruppo sociale considerato nemico.
La nascita della morale e il risentimento Prima tesi: la morale degli schiavi come reazione
Commento e interpretazione
Nella morale la rivolta degli schiavi [A] ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; [B] il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un «di fuori», a un «altro», a un «non io»: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. [C]
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A. La rivolta degli schiavi segna per Nietzsche l’origine, in realtà, della stessa civiltà della moralità, ovvero della civiltà ebraico-cristiana. La connotazione dei soggetti della rivolta come ‘schiavi’ deriva direttamente dal confronto tra essi, i deboli, i plebei, i subordinati di una civiltà aristocratica, e gli aristocratici, i forti, i dominatori, i quali non possono che avere, nei confronti dei primi, un rapporto di dominio, analogo a quello ‘padroneschiavo’. La rivolta degli schiavi dà inizio a un nuovo modo di valutare e a una nuova civiltà, la civiltà fondata sulla moralità, poiché la civiltà e il modo di valutazione aristocratico non potrebbero, in realtà, essere considerati ‘morali’, ma fondati piuttosto su criteri diversi, anche se Nietzsche stesso parla di ‘morale’ o di ‘morale dei signori’ per indicare qualcosa che non può essere intesa come morale in senso proprio. B. Una questione molto importante è l’uso che Nietzsche fa del termine «valore». La nozione di «valore», come si è detto nel profilo (vedi p. 199), entra nel corso dell’Ottocento nel lessico filosofico, provenendo dall’economia, ed è proprio Nietzsche che ne sancisce la piena legittimità in filosofia. Tutta la riflessione successiva dovrà tenere conto del modo in cui egli ha affrontato la questione. Per Nietzsche, gli esseri umani fanno sempre valutazioni e fanno sempre riferimento a valori, ma non necessariamente a valori morali. La rivolta degli schiavi costituisce un motivo di rottura anche e soprattutto perché introduce la valutazione morale e il valore morale, radicali innovazioni della civiltà ebraico-cristiana. C. Il concetto centrale per spiegare l’origine della valutazione morale è il fenomeno psicologico del risentimento, del ressentiment (Nietzsche usa esclusivamente il termine francese) dei deboli, degli schiavi, dei plebei, verso i forti, i dominatori, gli aristocratici.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Seconda tesi: il modo aristocratico di valutazione è un atto positivo
Primo corollario della seconda tesi: l’eventuale errore della valutazione aristocratica
Secondo corollario: la quasi benevolenza verso i plebei
Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione: questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancor maggior gratitudine e gioia – il suo concetto negativo di «ignobile», «volgare», «cattivo» è soltanto una pallida postuma immagine antagonistica, in rapporto al suo positivo concetto fondamentale, tutto pervaso di vita e di passione, di «noi nobili, noi belli, noi buoni, noi felici!». Quando la maniera aristocratica di valutazione cade in errore e pecca contro la realtà, ciò accade in relazione alla sfera che non le è sufficientemente nota, anzi contro una reale conoscenza di questa essa si mette sdegnosamente sulle difese; disconosce talora la sfera da essa tenuta in dispregio, quella dell’uomo comune, del basso popolo; si consideri d’altra parte che in ogni caso il moto interiore del disprezzo, del guardare dall’alto in basso, del guardare con un senso di superiorità, posto che esso falsifichi l’immagine della persona disprezzata, resta di gran lunga al di sotto della falsificazione con cui l’odio arretrato, la vendetta dell’impotente, mette le mani addosso al suo avversario – naturalmente in effigie. In realtà è frammista al disprezzo troppa noncuranza, troppa scarsa considerazione, troppa disattenzione di sguardo e impazienza, e anche troppo compiacimento di sé perché esso sia in grado di trasformare il suo oggetto in una vera e propria caricatura e in uno spauracchio. Non si trascurino le nuances di quasi benevolenza che per esempio l’aristocrazia greca infonde a tutte le parole con cui essa distingue da sé il basso popolo; si badi a come vi si mescoli e vi si aggiunga, per addolcirle, una specie di rammarico, di riguardo, d’indulgenza, al punto che quasi tutte le parole che si convengono all’uomo comune hanno finito per restare sinonimi di «infelice», «degno di compassione» […] – e come d’altro canto parole quali «catti-
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La nozione di «risentimento» viene utilizzata nell’ambito del grande peso che Nietzsche attribuisce alla psicologia: la psicologia è uno strumento di demistificazione e di smascheramento dei reali meccanismi che stanno all’origine degli atteggiamenti, dei giudizi e delle azioni. Ben presente, in questo uso critico della psicologia, è anche la critica dell’ipocrisia, cioè della virtù che si presenta in un modo ma nasconde in realtà qualcos’altro come, per esempio, un interesse egoistico: è lo stesso grande tema dell’ipocrisia che aveva caratterizzato la spregiudicata letteratura ‘moralistica’ francese di Pascal, di La Rochefoucauld e di La Bruyère, tutti autori che esercitano una notevole influenza su Nietzsche. È essenziale, nell’analisi nietzscheana, la differenziazione tra l’atteggiamento interiore ed esteriore dell’uomo aristocratico e quelli del plebeo, cioè dell’uomo del risentimento: quest’ultimo, infatti, è in realtà un individuo sostanzialmente ‘passivo’ e incapace di un’attività che muova da lui stesso; la sua azione, il suo agire, sono semplicemente reattivi, dipendono dall’azione di altri e reagiscono ad essa. Il carattere astioso, rancoroso degli uomini del risentimento che dà origine alla rivolta degli schiavi e quindi alla civiltà ebraico-cristiana è un elemento strutturale nella posizione psicologica del debole di fronte al forte, del plebeo di fronte all’aristocratico, ed è ciò che fa sì che si possa, o meglio si debba, parlare di «vendetta». Questa vendetta è, per certi versi, immaginaria, perché non si fonda su un’azione originaria ma soltanto su una reazione, su una risposta all’azione degli aristocratici; per altri, però, è una vendetta ben concreta, perché la civiltà ebraico-cristiana risulterà in ultimo la strategia vincente, come ha dimostrato la storia occidentale. D. Nietzsche sottolinea certe caratteristiche del gruppo sociale aristocratico premorale o extramorale che sono evidentemente contrapposte al modo ‘plebeo’ o morale di valutazione. Dal punto di vista aristocratico, il punto di partenza è sempre costituito da se stessi
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Confronto tra le due ‘morali’. Primo argomento: la natura della felicità negli aristocratici e nei plebei
Secondo argomento: la schiettezza degli aristocratici verso se stessi
Terzo argomento: l’accortezza nel plebeo e nell’aristocratico
vo», «ignobile», «infelice» non hanno mai cessato di risuonare all’orecchio dell’uomo greco con un unico tono, con una coloritura d’accento in cui prevale «infelice»: tutto ciò in quanto eredità dell’antica, più eletta, maniera aristocratica di valutazione, che non si smentisce neppure nel disprezzo. [D] I «bennati» si sentivano appunto come i «felici»; non avevano bisogno di costruire artificialmente la loro felicità unicamente rivolgendo lo sguardo ai loro nemici, né di imporsela talora per forza di persuasione, di menzogna (come sono soliti fare tutti gli uomini del ressentiment); e così pure, in quanto uomini completi, sovraccarichi di forza, e perciò necessariamente attivi, non sapevano separare dalla felicità l’agire – presso di loro l’essere operosi veniva necessariamente considerato una condizione felice (di qui prende origine eu prattein) – tutto ciò in notevole contrasto con la «felicità» al livello degli impotenti, degli oppressi, degli esulcerati da sentimenti velenosi e astiosi, nei quali essa appare essenzialmente come narcosi, stordimento, quiete, pace, «sabbath», distensione dell’animo e rilassamento del corpo, insomma in forma passiva. Mentre l’uomo nobile vive con fiducia e schiettezza davanti a se stesso (ghennaios, «nobile di nascita», sottolinea la nuance «schietto» e fors’anche «ingenuo»), l’uomo del ressentiment non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con se stesso. La sua anima svillaneggia; il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quello che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio; sa bene lui cosa sia il tacere, il non obliare, l’aspettare il momentaneo farsi piccini, farsi umili. [E] Una razza di siffatti uomini del ressentiment finirà necessariamente per essere più accorta di qualsiasi razza aristocratica, onorerà altresì l’accortezza in tutt’altra misura, vale a dire come un condizionamento esistenziale di
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e dalla propria autoaffermazione, non dalla contrapposizione ad altri. Addirittura, la stessa contrapposizione ai plebei e ai deboli, che è così importante nella prospettiva di Nietzsche, è una contrapposizione che dal punto di vista aristocratico è semplicemente la conseguenza, o il risultato, dell’affermazione di sé. L’aristocratico non ha verso il plebeo un atteggiamento di rancore o di risentimento, ma di indifferenza, di un disprezzo che è però innanzitutto occupato dalla considerazione di sé e delle proprie capacità. E Nietzsche arriva a vedere in questo atteggiamento aristocratico verso i plebei una sorta di rammarico, di indulgenza, di «quasi benevolenza», verso chi è sofferente, verso chi è infelice, se confrontato con chi ha forza e la capacità di affermare se stesso. In questa prospettiva, nozioni diverse come «vitale», «spontaneo», «passionale», «felice» possono essere considerate sostanzialmente sinonimi che indicano, tutti, la natura degli aristocratici. E. L’aristocratico è esplicito, schietto, sincero, non perché segua dettami morali, ma perché è nella sua natura immediata, fa parte della sua espressione di forza. La menzogna non fa parte degli strumenti che gli sono necessari perché egli è un individuo sostanzialmente autosufficiente e soddisfatto della propria natura; per questo egli è «felice». La felicità coincide con l’attività e con la possibilità di esprimere se stesso, mentre nel caso dei plebei la felicità è anch’essa, per Nietzsche, una rappresentazione di passività, di mancanza d’azione. L’uomo del risentimento è l’uomo incapace di esprimere se stesso, di agire veramente, e quindi è anche incapace di essere franco e schietto con se stesso. Nietzsche vede l’uomo del risentimento come una forma particolarmente meschina di ‘piccola borghesia’: è proprio questa dimensione minuta, gretta, che caratterizza il nascere della moralità. Un probabile modello è per Nietzsche il protagonista delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, un racconto del 1865 che Nietzsche aveva letto in traduzione francese.
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Quarto argomento: il ressentiment dell’aristocratico
Quinto argomento: il ‘nemico’ per l’aristocratico e per il plebeo
prim’ordine, mentre negli uomini nobili l’accortezza ha facilmente in sé anche un sottile sapore di lusso e di raffinatezza – tra loro appunto di gran lunga essa non è così essenziale come la perfetta sicurezza funzionale degli inconsci istinti regolatori, o come addirittura una certa mancanza di accortezza, quale potrebbe essere il coraggioso gettarsi allo sbaraglio sia contro il pericolo, sia contro il nemico, o quella stravagante repentinità di collera, d’amore, di venerazione, di gratitudine e di vendetta, in cui in ogni tempo si sono riconosciute le anime nobili. Lo stesso ressentiment dell’uomo nobile, quando si fa presente in lui, si manifesta e si esaurisce infatti in una subitanea reazione, per la qual cosa non intossica: d’altro canto, in numerosi casi, non si presenta affatto, laddove in tutti i deboli e impotenti esso è inevitabile. [F] Non potere prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie sciagure, persino i propri misfatti – è il contrassegno di nature vigorose, complete, in cui esiste una sovrabbondanza di forza plastica, imitatrice, risanatrice e anche suscitatrice d’oblio (un buon esempio, a questo proposito, tratto dal mondo moderno, è Mirabeau, che non aveva memoria per gli insulti e le infamie commesse contro di lui e che non poteva perdonare per il semplice fatto che dimenticava). [G] Un tale uomo con un solo strattone si scuote di dosso appunto molti vermi che in altri invece fanno il loro covo; qui soltanto è altresì possibile, posto che sia in generale possibile sulla terra, – il vero «amore per i propri nemici». Certo, quanto rispetto per i suoi nemici ha un uomo nobile! – e un tale rispetto è già un ponte verso l’amore […]. Lo vuole anzi per sé il suo nemico, come un segno suo proprio di distinzione, non sopporta alcun altro nemico se non quello in cui non ci sia nulla da disprezzare e moltissimo invece da onorare! [H] Immaginiamoci viceversa «il nemico» come lo concepisce l’uomo del ressentiment – e precisamente a questo punto troveremo la sua azione, la sua creazione: costui concepisce «il nemico malvagio», «il malvagio» proprio come idea di base, a partire dalla quale si fab-
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F. Un elemento importante dell’uomo del risentimento è l’accortezza. Questa consiste nella capacità di essere prudenti, di calcolare, di vedere il proprio interesse, di essere lungimiranti, tutti tratti visti da Nietzsche in modo negativo. Si tratta di virtù, per Nietzsche, tipicamente borghesi, e tipiche quindi dell’uomo del risentimento come uomo capace di calcolare il proprio meschino interesse personale. A questa critica dell’accortezza e della prudenza si affianca naturalmente l’esaltazione del coraggio sostanzialmente incosciente dell’aristocratico, che non pensa al proprio interesse ma soltanto all’affermazione di sé. Quello aristocratico è un agire immediato, diretto, privo di riflessione sull’esito dell’azione per il proprio interesse personale: addirittura, il raro occorrere di risentimento nell’aristocratico non è il torvo rancore dell’uomo del risentimento plebeo, ma si traduce immediatamente in forza, in ira, non – scrive Nietzsche – «intossica», non avvelena quindi lentamente la relazione con il mondo e con gli altri. G. L’oblio e la capacità di dimenticare come tratti positivi ricorrono di frequente negli scritti di Nietzsche. Lo si ricorderà, per esempio nella Considerazione inattuale dedicata alla storia (vedi sopra, p. 189), dove Nietzsche sottolinea l’importanza dell’oblio per affrontare in modo risoluto il presente, per reagire al peso eccessivo del passato. L’oblio si collega anche in quel contesto con l’attività, e con la possibilità di agire. Qui l’oblio viene direttamente posto in connessione con la mancanza di risentimento: il risentimento è strutturalmente legato al covare un rancore nel tempo e quindi anche al ricordare, alla formazione nell’uomo di una coscienza del tempo e dei suoi obblighi morali che attraversano il
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Conclusione e terza tesi: la genesi di «buono», «cattivo», «malvagio»
Quarta tesi: il «buono» morale come reazione alla bontà amorale della forza
brica nell’immaginazione come sua contraffazione e sua antitesi altresì un «buono» – se stesso! […] Proprio all’opposto, dunque, di quel che si verifica per l’uomo nobile, il quale concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di «buono», prendendo le mosse, cioè, da se stesso, e soltanto su questa base si foggia una rappresentazione del «cattivo»! Questo «cattivo» di origine aristocratica e quel «malvagio» attinto al calderone dell’odio insaziabile – il primo, una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare, il secondo, invece, l’originale, il principio, l’atto vero e proprio nella concezione di una morale degli schiavi – come sono diverse queste due parole «cattivo» e «malvagio», apparentemente contrapposte allo stesso concetto di «buono»! Ma non è lo stesso concetto di «buono»: domandiamoci piuttosto chi propriamente è «malvagio», nel senso della morale del ressentiment. Con una risposta rigorosa occorrerà dire: appunto il «buono» dell’altra morale, appunto il nobile, il potente, il dominatore, solo che è dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco dall’occhio torvo del ressentiment. [I] […] Il problema dell’altra origine del «buono», del buono come lo ha concepito l’uomo del ressentiment, esige la sua risoluzione. – Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: «Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello – non dovrebbe forse essere buono?» su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: «Con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo, nulla è più saporito d’un tenero agnello». Pretendere dalla forza che non si estrinsechi come forza, che non sia un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di
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tempo stesso (per esempio quando e se fa delle promesse). La capacità di dimenticare diventa quindi in questa interpretazione, in sostanza, l’incapacità di portare rancore. H. Lo stesso rapporto con il nemico è completamente diverso per l’uomo aristocratico e per l’uomo del risentimento. Il nemico è per l’uomo aristocratico un altro individuo forte e nobile che sta al suo stesso livello: Nietzsche pensa, come modello, agli eroi omerici e ai loro duelli, a Ettore e Achille, a eroi che si contrappongono e si combattono ma nell’ambito del rispetto reciproco di tipo cavalleresco. I. La costruzione della propria immagine come «buono» ha luogo nell’uomo del risentimento in modo inverso rispetto all’uomo aristocratico: quest’ultimo afferma se stesso e si valuta come buono, e solo di conseguenza, come qualcosa di accessorio e di derivato valuta «cattivo» il plebeo, il debole, che è però qualcosa di completamente secondario rispetto alla sua esistenza e alla sua identità di essere forte e nobile. La costruzione dell’identità dell’uomo del risentimento prende le mosse invece dal rancore verso il forte, verso colui che diventerà il malvagio, ovvero il cattivo in senso morale, perché così viene denominato dall’uomo del risentimento: la bontà morale dell’uomo del risentimento nasce dalla contrapposizione, dal rancore verso chi era forte e che per questo viene detto malvagio, e crea così un nuovo sistema dei valori, un nuovo modo di valutare che è il modo di valutare morale. Il buono in quanto forte è diventato, grazie all’operazione di creazione dei valori del risentimento, un malvagio, e il cattivo in quanto debole è diventato il buono in senso morale.
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nemici e di opposizioni e di trionfi, è precisamente così assurdo come pretendere dalla debolezza che essa si estrinsechi come forza. [L]
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(da F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 19957, af. 10, 11, 13)
L. Nietzsche esercita qui tutto il suo sarcasmo nell’opporre diversi sistemi di valutazione, quello morale e quello non morale. Gli agnelli che provano avversione per i rapaci che sono forti nei loro confronti provano qualcosa che non ha nulla in comune con il rimprovero morale: l’avversione è nella natura delle cose e nella difesa della propria vita da parte degli agnelli. Il modo di pensare degli agnelli diventa invece più complesso se, dall’avversione per chi è più forte, si passa a un mutamento della valutazione e a una sorta di approvazione di se stessi, che i rapaci, cioè i forti, potrebbero accettare soltanto dal punto di vista – ironico – della bontà, certo non morale, delle carni degli agnelli. Ma è nella natura delle cose che la forza si voglia affermare come tale nei confronti della debolezza.
Questionario sull’argomentazione 1
Con riferimento al primo periodo del brano di Nietzsche, indica con una croce sulla casella corrispondente quali delle seguenti espressioni sono connesse alla morale degli schiavi MS e quali sono in relazione con la morale aristocratica MA : – «sì» – «no» – «stimolo esterno» – «impulso interno» – «azione» – «reazione»
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MA
MS
MA
MS
MA
MS
MA
MS
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MS
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In che senso a tuo avviso è possibile asserire che il modo di valutazione degli «schiavi» e il modo di 218
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valutazione aristocratico non sono simmetrici tra loro? Che cosa distingue un modo di valutazione dall’altro? (max 6 righe) 3
In che senso si può affermare che la felicità ha nel mondo aristocratico un carattere essenzialmente attivo, laddove essa assume un carattere essenzialmente passivo nel mondo dei plebei? (max 4 righe)
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In cosa consiste la differenza nella genesi dei concetti di «cattivo» e «malvagio» stando a quanto sostiene Nietzsche? E in che rapporto stanno questi due concetti con quello di «buono»? Ritrova il passo in cui vengono illustrate tali relazioni. (max 5 righe)
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Tesi a confronto Nietzsche e la questione della verità: la verità esiste o è solo un mito della metafisica? Una questione classica
La svolta cartesiana: l’evidenza
La rivoluzione di Nietzsche Esistono solo interpretazioni Il prospettivismo
Vattimo e l’«interpretazione corrente» di Nietzsche
Prima risposta
La questione della verità, della sua definizione e del suo statuto è una delle più classiche della tradizione filosofica. Fino dalla filosofia greca, la verità si colloca al centro delle discussioni di metafisica e di teoria della conoscenza, attraversando le varie epoche della riflessione filosofica. Una svolta di grande rilevanza è quella che sta all’inizio della filosofia moderna, con il tentativo cartesiano di ricondurre la questione della verità all’evidenza percepita dal soggetto, che segue il modello delle verità matematiche: è grazie all’evidenza (garantita dalla veridicità divina) che è possibile superare il dubbio radicale cui tutte le opinioni vengono sottoposte dal soggetto, nel procedimento cartesiano delle Meditazioni metafisiche. Secondo molti interpreti, una ulteriore, radicale svolta nella storia del concetto di verità è data da Nietzsche, che ne mette radicalmente in discussione il valore. Nietzsche dà due indicazioni sul concetto di verità. Innanzitutto, afferma in molte occasioni che non ci sono fatti ma solo interpretazioni dei fatti, per cui sembra che affermi che non ci sono fatti oggettivi a cui le proposizioni possano corrispondere: in questo modo, sembra essere negata per principio la verità intesa come corrispondenza, ovvero come corrispondenza delle proposizioni ai fatti. In secondo luogo, in un brano divenuto famoso della Genealogia della morale, Nietzsche formula il suo prospettivismo, ovvero l’idea che i fatti sono sempre guardati attraverso prospettive e la nostra conoscenza di un oggetto è condizionata dalla prospettiva dalla quale lo guardiamo. In questo brano, il filosofo e storico della filosofia Gianni Vattimo dà una propria formulazione della tesi – nelle grandi linee molto diffusa nella letteratura su Nietzsche, tanto da poterla considerare l’«interpretazione corrente» – che in Nietzsche scompare il valore della verità e il concetto stesso di verità. Quello di verità è un concetto che nel pensiero di Nietzsche viene messo radicalmente in discussione e, conclude da ultimo Vattimo, viene negato, perché viene negato il riferimento stesso di questo concetto, cioè l’idea di una «realtà» che possa essere descritta in modo «vero». La verità è per Nietzsche soltanto un mito della metafisica occidentale.
Per Nietzsche la verità non esiste, è solo un mito della metafisica occidentale: in realtà non c’è nessuna interpretazione ‘giusta’ da Gianni Vattimo, La filosofia come esercizio ontologico
La battaglia di Nietzsche contro la verità come corrispondenza
Ora, uno dei miti, anzi il mito che Nietzsche si è applicato con più calore a distruggere, è proprio la credenza nella verità. «Anzitutto, scuotere la credenza nella verità». Non in qualche verità determinata, ma nella verità come tale. Qui mi sembra si debba dissentire dall’affermazione di Heideg219
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Anche la sua filosofia non è «vera» nel senso tradizionale
L’esito della filosofia occidentale: la consapevolezza che il mondo è favola Scompare la contrapposizione tra vero e falso
Tutto è prospettiva
L’evidenza è solo credenza
L’errore di Cartesio: non dubitare dell’evidenza
ger1 secondo cui Nietzsche rimane ancorato al concetto metafisico della verità come conformità della proposizione al dato. O meglio, quando dice verità Nietzsche intende bensì la conformità di una proposizione allo stato delle cose; ma proprio per questo la verità, nel suo «sistema», non ha più posto. Una tale verità, cioè, secondo Nietzsche non si dà e non si può dare. Anche quello che egli enuncia come proprio pensiero non si può, senza contraddizione, chiamare «vero» in questo senso. Ecco perché, proprio dal punto di vista dei risultati della speculazione di Heidegger e del suo sforzo di uscire dalla concezione metafisica della verità, mi pare estremamente importante studiare il concetto nietzscheano del pensiero e della filosofia; i quali, in Nietzsche come in Heidegger, non «dicono la verità» nel senso che informino su come stanno le cose prima e fuori di questa informazione. Da questo punto di vista, il risultato del pensiero di Nietzsche mi sembra si possa definire molto bene usando una espressione che egli adopera nella Götzendämmerung [Il crepuscolo degli idoli] per indicare il punto di arrivo della filosofia occidentale: Wie die wahre Welt endlich zur Fabel wurde, come il mondo vero alla fine è diventato favola. […] Ma quel che a Nietzsche importa è sottolineare che, insieme al mondo vero, scompare anche il mondo apparente; scompare cioè la contrapposizione tra vero e falso, ed è a questo punto che «incipit Zarathustra» [inizia l’opera di Zarathustra]. Non è solo il mondo vero della metafisica che è diventato favola, è il mondo come tale, nel quale non si può più fare una distinzione tra vero e falso, che è, nella sua struttura più profonda, favola. […] In esso, non ci sono diverse prospettive su un’unica verità o realtà che si possa riconoscere e possa servire da misura; tutto è prospettiva. «Non c’è un evento in sé. Quel che accade, è un gruppo di fenomeni, interpretati e ordinati da un essere interpretante». «Un unico testo permette innumerevoli interpretazioni: non c’è nessuna interpretazione ‘giusta’». […] A questa visione del mondo come favola, Nietzsche è arrivato, come si accennava, attraverso una demitizzazione radicale che ha messo in discussione lo stesso concetto della verità come esso era sempre stato pensato nella tradizione metafisica. La verità, in questa tradizione, è sempre riconoscibile per l’evidenza con cui si presenta. Nietzsche parla a ragion veduta di una credenza (Glaube) nella verità: accettare l’evidenza come segno della presenza della verità significa «credere» all’evidenza, prestar fede a quel fatto psicologico che accade in noi, per cui noi ci sentiamo spontaneamente «costretti» (se si possono unire i due termini) ad assentire a una certa «verità». Cartesio non fa che riassumere tutta la tradizione della metafisica occidentale, con la sua dottrina dell’idea chiara e distinta. Ma, nel suo dubbio, egli non è stato abbastanza radicale: non si è domandato perché si debba preferire l’evidenza alla non-evidenza, il non essere ingannato all’essere ingannato. Il fatto che a certe «verità» non possiamo fare a meno di assentire non prova niente sulla portata «metafisica», o «oggettiva» di queste proposizioni. «Che la chiarezza debba essere un documento della verità, que-
1. A Martin Heidegger si deve un’importante rilettura, molto personale e quindi anche molto discussa, del pensiero di Nietzsche.
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Unità 5 Nietzsche Data la natura caotica della realtà, chiarezza e distinzione sono solo finzione
Conclusioni di Vattimo: Nietzsche adotta la tesi del «pregiudizio morale» per spiegare l’errore della metafisica
Leiter attenua la radicalità di Nietzsche
Nietzsche come precorritore dell’epistemologia novecentesca: la precomprensione
Vantaggio epistemico di alcune interpretazioni: la verità esiste
L’argomentazione di Leiter
sta è una vera e propria ingenuità». Semmai, dati i caratteri molteplici e caotici della realtà (anche questo termine si può adoperare solo in quanto Nietzsche, polemizzando contro la metafisica, ne adotta la terminologia) si dovrebbe pensare proprio il contrario: cioè che ciò che è semplice e chiaro è falso e immaginario. Noi stiamo, in questo, all’altro estremo della storia iniziata da Parmenide: mentre per lui non si pensa se non ciò che è, per noi, all’opposto, quel che si lascia pensare (cioè ordinare in schemi, ridurre a idee chiare e distinte) proprio questo è sicuramente finzione. È questa radicale sfiducia nell’evidenza, ridotta a fatto psicologico, che conduce Nietzsche alla negazione della cosa in sé e del mondo vero. Ciò che Cartesio e con lui la metafisica occidentale non si sono domandati, perché noi preferiamo l’evidenza alla non-evidenza, il non essere ingannati all’essere ingannati, il vero (cioè il chiaro e distinto, che noi giudichiamo spontaneamente conforme al «reale») al falso, proprio questo è il problema che Nietzsche si pone, e che risolve con la teoria del «pregiudizio morale». È in base a un «pregiudizio morale», o anche a una ragione di utilità, che si preferisce la certezza all’apparenza e all’incertezza. Questa è la vera soluzione del problema kantiano: il quale doveva essere non «come sono possibili i giudizi sintetici a priori», ma «perché la credenza in tali giudizi è necessaria?» Contro quella che chiama l’«interpretazione corrente», presente anche nelle pagine di Vattimo, lo storico della filosofia Brian Leiter vuole attenuare la radicalità (e la paradossalità) della concezione nietzscheana della verità. In realtà Nietzsche – secondo Leiter – sostiene una concezione empiristica della conoscenza nella quale certe asserzioni, quelle fondate sull’esperienza, sono più vere e più affidabili di altre. Nell’affermare il primato delle interpretazioni e delle prospettive Nietzsche non intende negare qualunque valore alla verità. Egli non fa altro, piuttosto, che precorrere un tema diventato corrente nell’epistemologia e nella teoria della conoscenza novecentesca: l’osservazione di fatti non è mai una semplice registrazione di dati, perché noi vediamo sempre dati attraverso certe convinzioni o certe teorie, per cui un dato o un fatto ‘bruti’ in realtà non si danno mai: si tratta sempre di dati e di fatti interpretati dalla nostra precomprensione (ossia il fenomeno per cui ogni volta che abbiamo delle informazioni su qualcosa che non conosciamo ancora direttamente il nostro approccio risulta già orientato, e mettiamo così sotto la lente alcuni aspetti sottovalutandone altri). Ma non tutte le interpretazioni, e non tutte le prospettive, sono uguali, come dovrebbero essere se davvero Nietzsche rifiutasse completamente la nozione di verità: le interpretazioni della realtà e quindi le conoscenze fondate sull’esperienza hanno un vantaggio epistemico, e quindi conoscitivo, sulle altre, per esempio su quelle fondate sulla metafisica o sulla religione. Per giungere a questa conclusione Leiter adotta un’argomentazione complessa che potremmo così riassumere: 1) presenta l’«interpretazione corrente» del pensiero di Nietzsche; 2) sostiene che, per dimostrare la propria validità interpretativa, l’«interpretazione corrente» dovrebbe dimostrare la legittimità dell’epistemologia radicale che viene attribuita a Nietzsche e la sua coerenza con i testi del filosofo; 3) pone due premesse metodologiche per la valutazione dei testi nietzscheani: non accetta elementi presenti solo nell’opera postuma e valuta le tesi del Nietzsche «maturo»; 4) mostra che vi sono in Nietzsche alcune tesi fonda221
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
mentali in aperta contraddizione con l’«interpretazione corrente» del suo pensiero; 5) conclude reinterpretando storicamente la nozione nietzscheana di «interpretazione» all’interno della sua critica dell’epistemologia positivista.
Seconda risposta
Per Nietzsche la verità esiste: pur all’interno di interpretazioni divergenti, se ne danno alcune fondate su un vantaggio epistemico da Brian Leiter, Il prospettivismo nella «Genealogia della morale» di Nietzsche
L’«interpretazione corrente» del prospettivismo nietzscheano
I problemi di questa interpretazione: legittimarla e dimostrarne la coerenza con il testo nietzscheano
Leiter: gli interpreti non affrontano questi problemi, perché il testo di Nietzsche non lo permette
Due premesse dell’interpretazione di Leiter
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Dagli anni sessanta, buona parte dell’interesse degli studiosi nei confronti di Nietzsche si è concentrato sull’insieme di problemi che gravitano intorno al suo «prospettivismo» e, più in generale, alla sua teoria della conoscenza e della verità. In questo periodo, una lettura particolare del «prospettivismo» ha ottenuto tra gli interpreti lo status di interpretazione quasi-ortodossa. Questa «interpretazione corrente» attribuisce a Nietzsche le quattro posizioni seguenti: 1. il mondo non ha una natura o una struttura determinata; 2. i nostri concetti e le nostre teorie non «descrivono» o «corrispondono» a questo mondo perché esso non ha un carattere determinato; 3. i nostri concetti e le nostre teorie sono «mere» interpretazioni o «mere» prospettive (che riflettono, almeno secondo alcuni interpreti di Nietzsche, i nostri bisogni pratici); 4. nessuna prospettiva può godere di un privilegio epistemico rispetto a un’altra, poiché non esiste una forma privilegiata di accesso a questo mondo privo di caratteri oggettivi. Per come dovrebbero essere le costruzioni epistemologiche, questa certo non è molto attraente. Sembra selvaggiamente scettica nel migliore dei casi e forse incoerente nel peggiore. In più, attribuendo questa posizione a Nietzsche, gli interpreti si prendono un doppio impegno: innanzitutto, perché la devono far diventare una posizione epistemologica degna di seria attenzione; inoltre, perché devono mostrare come essa possa essere compatibile con il resto del corpus filosofico di Nietzsche, che non sembra essere toccato da questa teoria epistemologica radicale. Però gli interpreti non si assumono questi compiti scoraggianti; perché l’interpretazione corrente, nonostante la sua notevole diffusione nella letteratura secondaria su Nietzsche, semplicemente non è la posizione di Nietzsche. […]. In particolare, l’interpretazione corrente non può essere sostenuta con un’attenta lettura del testo centrale – tra le opere pubblicate da Nietzsche – in cui egli davvero discute il prospettivismo: il paragrafo 12 della terza dissertazione nella Genealogia della morale. […] Prima di occuparmi di questo tema, devo premettere due cose. Innanzitutto, io procedo sulla base dell’assunzione che nessuna posizione dovrebbe essere attribuita a Nietzsche sulla base di affermazioni che appaiono soltanto nell’opera postuma; questo materiale […] dovrebbe soltanto integrare, piuttosto che costituire, il nucleo di un’interpretazione. In secondo luogo, intendo per «posizione di Nietzsche» la posizione del Nietzsche maturo. Pur se ho qualcosa da dire sul «giovane» Nietzsche (e sull’opera postuma di Nietzsche), mi sembra che l’opera più tarda di Nietzsche
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Unità 5 Nietzsche
Contraddizioni dell’«interpretazione corrente»
Tesi di Nietzsche che contraddicono l’«interpretazione corrente»
Nietzsche rimane all’interno dell’orizzonte empiristico
L’empirismo di Nietzsche contraddice l’«interpretazione corrente» Nietzsche abbraccia due posizioni naturalistiche
dovrebbe da ultimo essere decisiva nell’interpretazione del suo pensiero. […] Se la «interpretazione corrente» corrispondesse realmente alla posizione di Nietzsche, la sua opera non avrebbe semplicemente senso; innanzitutto, perché la sua produzione filosofica contiene numerosi temi che presuppongono la possibilità di modi privilegiati di accesso conoscitivo a un mondo con contenuti determinati; in secondo luogo, perché la «interpretazione corrente» sembra implicare almeno una posizione filosofica che egli rifiuta. […] Secondo la «interpretazione corrente» il mondo è come un pezzo di argilla infinitamente malleabile, i cui contorni e la determinatezza dei confini sono tutti di fattura umana. Un mondo di questo genere non impone nessun vincolo indipendente dalle nostre interpretazioni di esso. Il primo problema per la «interpretazione corrente» è il seguente: Nietzsche critica certe posizioni per i loro meriti epistemici, e ritiene che la sua prospettiva goda di un privilegio epistemico rispetto a quelle che critica. I meriti epistemici di una concezione sono quelli che si fondano sulla sua pretesa di essere una conoscenza; al minimo, quindi, una posizione epistemicamente privilegiata deve essere vera o falsa. […] Sembra tuttavia innegabile che Nietzsche eserciti davvero una critica di questo tipo – almeno in due direzioni che indicherò brevemente. 1. Empirismo / Verificazionismo. Spesso Nietzsche prende di mira con commenti severi posizioni che, per certi aspetti, sono sorprendentemente vicine alla sua. Ciò è certamente vero degli attacchi al vetriolo rivolti alle opere di Renan e Carlyle2; ma accade anche nelle sue osservazioni critiche sul positivismo. La distanza di Nietzsche dal positivismo del diciannovesimo secolo è reale, ma nella sua opera matura egli rimane all’interno dell’orizzonte del criterio empiristico più elementare e generale: l’esperienza – in particolare l’esperienza dei sensi – è la fonte di ogni conoscenza genuina (così in Al di là del bene e del male: «Ogni credibilità, ogni buona coscienza, ogni evidenza di verità vengono solo dai sensi»). […] Ciò che è importante osservare qui è che una critica empiristica [come quella di Nietzsche] dipende precisamente dall’esistenza di una classe epistemicamente privilegiata di asserzioni sul mondo (le asserzioni che si fondano sull’esperienza dei sensi). L’empirismo di Nietzsche sarebbe incomprensibile sulla base della «interpretazione corrente». 2. Critiche naturalistiche. Nietzsche sembra abbracciare due posizioni naturalistiche distinte, che sono il primato esplicativo del naturale: i fatti causalmente esplicativi elementari sono fatti naturali; e la continuità esplicativa, il primato esplicativo dei fatti naturali è valido attraverso tutti i tipi di spiegazione (fisica, morale, sociale, e così via). Quindi Nietzsche sostiene che la migliore spiegazione degli esseri umani e dei valori umani è espressa in termini di fatti naturali che riguardano gli agenti – in particolare fatti psicologici. Per esempio, Nietzsche attacca ripetutamente le interpretazioni dei fenomeni in termini morali o religiosi poiché fanno appello a «cause immaginarie» deformando i fenomeni naturali reali. […]. 2. Joseph Ernest Renan (vedi Unità 3, p. 120) era un filosofo, filologo e scrittore francese vicino al positivismo, di cui però criticò e riformulò la nozione di progresso; mentre Thomas Carlyle (1795-1881) era uno storico e saggista scozzese inserito nella reazione spiritualista contro il positivismo, l’utilitarismo e l’idea di progresso. 223
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Ulteriore paradosso: l’«interpretazione corrente» reintroduce la distinzione apparenza / realtà
Conclusione: l’uso nietzscheano di «interpretazione» ha essenzialmente una funzione critica
La «interpretazione corrente» produce un paradosso se confrontata con il ben noto rifiuto da parte di Nietzsche della distinzione tra apparenza e realtà: vale a dire il rifiuto dell’idea di un mondo sconosciuto e inconoscibile che trascende il mondo dell’esperienza. Nella sua prospettiva, il mondo che «appare» è l’unico mondo che c’è, e per questo esso non è più, naturalmente, un mondo soltanto apparente. La «interpretazione corrente», invece, sostenendo che nessuna concezione offre un’immagine migliore di come il mondo realmente è rispetto a qualunque altra, reintroduce la distinzione. Poiché in questa interpretazione ci sono, da un lato, «mere» prospettive, e dall’altro, il non-descrivibile (e quindi sconosciuto) mondo «come realmente è», un mondo rispetto al quale nessuna prospettiva è adeguata. Di qui il paradosso: per quanto Nietzsche rifiuti la distinzione apparenza / realtà, nella «interpretazione corrente» le mere prospettive sembrano avere lo stesso status delle mere apparenze della metafisica che Nietzsche intende abolire. […] Perché allora Nietzsche insiste nell’usare la parola «interpretazione»? La risposta, credo, è che si tratta della parola che egli sceglie per enfatizzare la sua opposizione alla tesi positivistica che sia possibile un accesso «immediato» al mondo. Il famoso passaggio, per esempio, in cui egli afferma che non ci sono fatti, solo interpretazioni, è esplicitamente una critica del positivismo, che si ferma ai fenomeni. Ma come un mucchio di filosofi ha mostrato da allora […], non si può avere un tale semplice accesso epistemico ai fenomeni. Parlando della inevitabilità della «interpretazione», Nietzsche sottolinea che ciò che i fatti sono è sempre condizionato da particolari interpretazioni di ciò che essi sono.
I brani antologizzati sono stati tratti da: G. Vattimo, La filosofia come esercizio ontologico, in Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano 2000, pp. 94-97. B. Leiter, Perspectivism in Nietzsche’s Genealogy of Morals, in R. Schacht (a cura di), Nietzsche, Genealogy, Morality. Essays on Nietzsche’s Genealogy of Morals, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra, pp. 334-338, 342 (trad. di L. Fonnesu).
Per seguire il dibattito 1
Rintraccia nel testo di Vattimo la definizione della nozione di verità che secondo lui Nietzsche vuole confutare. (max 1 riga)
5
Quali sono i caratteri dell’«interpretazione corrente» del pensiero di Nietzsche secondo Leiter? (max 5 righe)
2
Qual è, secondo Vattimo, la definizione più appropriata del risultato del pensiero di Nietzsche? (max 2 righe)
6
Qual è il testo di Nietzsche che, secondo Leiter, smentisce radicalmente l’«interpretazione corrente»? (max 1 riga)
3
Qual è il destino della nozione di «mondo apparente» nella filosofia di Nietzsche secondo Vattimo? (max 2 righe)
7
Quali sono le tesi di Nietzsche, rintracciabili nei suoi testi maturi, che contraddicono «l’interpretazione corrente» secondo Leiter? (max 6 righe)
Qual è stato per Nietzsche, secondo Vattimo, l’errore più grave della metafisica occidentale? Quali gli errori di Cartesio e Kant? (max 8 righe) 224
8
In un massimo di 3 righe formula una definizione della nozione nietzscheana di «interpretazione» alla luce delle conclusioni di Leiter.
4
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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea
I testi L. Feuerbach L’essenza del Cristianesimo: Il contenuto assolutamente umano della religione, T1
F. Nietzsche La gaia scienza: Gli uomini hanno ucciso Dio, T3; Le conseguenze nichilistiche della «morte di Dio», T4
K. Marx Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: Miseria religiosa e miseria reale, T2
M. Weber La scienza come professione: Politeismo antico e politeismo moderno, T5
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Le radici teologiche del concetto
1 «Morte di Dio» e secolarizzazione
La rivoluzione scientifica e il rifiuto del finalismo
I filosofi e la secolarizzazione: fautori e avversari
Gli esiti drammatici della secolarizzazione in Hegel
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L’espressione «morte di Dio» nasce in ambito teologico per designare il dramma del Calvario, cioè la crocifissione di Cristo che, secondo la religione cristiana, è indissolubilmente unita alla sua resurrezione: «Dio, Dio stesso è morto», si legge in un corale (ossia un canto religioso che accompagna la liturgia protestante, i cui testi sono tratti dalla Bibbia o creati traendo ispirazione da essa) composto da Martin Lutero; nella teologia cristiana non si tratta però di una morte assoluta, bensì semplicemente del passaggio a una forma diversa e superiore di vita.
Secolarizzazione e filosofia A partire da Nietzsche, la medesima espressione ha assunto, però, un significato molto diverso, diventando una formula, spesso abusata, per indicare quel processo storico-culturale che i sociologi denominano «secolarizzazione», consistente nella perdita di plausibilità della visione religiosa e cristiana del mondo e nel correlato restringimento della sfera del sacro. Si tratta di un processo di lunga durata provocato e alimentato da fattori politici, culturali e soprattutto socio-economici, come l’industrializzazione. Un impulso propulsore determinante è sicuramente offerto dalla rivoluzione scientifica che – estromettendo dall’ambito della scienza l’ipotesi delle cause finali – contribuisce all’affermazione di una concezione meccanicistica del cosmo contrapposta all’immagine religiosa dell’universo come ordine etico-teleologico creato e retto da Dio, mettendo così in crisi uno dei capisaldi della fede cristiana: l’idea di vivere in un mondo governato dalla Provvidenza divina. Fin dal principio, l’atteggiamento dei filosofi nei confronti della secolarizzazione è di duplice natura. Alcuni la salutano entusiasticamente come una sorta di liberazione, sforzandosi di contribuire in maniera attiva all’indebolimento della fede cristiana: è questo quanto avviene nell’epoca illuministica, che non risparmia critiche a nessun aspetto della tradizione religiosa (provvidenzialismo, dogmi, liturgia, fede nei miracoli ecc.). Altri lo vivono invece come uno scacco e come una perdita per il genere umano: questo atteggiamento diventa prevalente soprattutto nei primi decenni dell’Ottocento, nei quali si assiste a diversi tentativi di restaurare le certezze e i punti di riferimento travolti dalla secolarizzazione. Paradigmatica è in questo senso la posizione di Hegel, che è tra l’altro il primo a utilizzare le espressioni e le immagini relative alla morte di Dio non solo in riferimento all’evento storico-empirico della crocifissione di Cristo, bensì anche per designare la scomparsa di Dio dal mondo, provocata dalla svolta del pensiero moderno. In polemica sia con le filosofie dogmatiche sia con la religione naturale (ossia la religione ridotta a poche credenze razionalmente fondate e uni-
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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea
La «morte di Dio» come momento dell’autorealizzazione dell’Assoluto
Le critiche alla conciliazione hegeliana tra modernità e cristianesimo
2 Il ruolo critico della Sinistra hegeliana
Strauss e l’interpretazione del Vangelo come «mito»
Il vero miracolo della storia universale: il dominio dell’umanità sulla natura
versali) promossa dalle varie correnti illuministiche, Hegel riconosce la durezza e il carattere drammatico di questa assenza di Dio. Contemporaneamente però egli trasforma la «morte di Dio» in un concetto che esprime un semplice momento negativo della storia dello Spirito, ossia dello svolgimento dialettico attraverso il quale l’Assoluto si realizza e perviene all’autocoscienza. Infatti, Hegel fa culminare la storia dello Spirito nel proprio sistema filosofico che, raggiungendo infine la piena comprensione dell’Assoluto dopo la sua eclissi, restituisce un senso e un significato al processo progressivo di ‘negazione’ di Dio che ha accompagnato gli ultimi due secoli della riflessione filosofica moderna. Come nel racconto evangelico al Venerdì santo segue la Resurrezione, così all’epoca della perdita di Dio segue una nuova, più alta e piena comprensione della sua natura e del suo piano provvidenziale nella filosofia hegeliana. Hegel riporta così in vita – in senso speculativo, come Assoluto – quel Dio che sembrava ormai definitivamente scomparso. Il grandioso tentativo hegeliano di conciliare modernità e cristianesimo viene però sottoposto, nel corso dell’Ottocento, a una critica radicale, condotta da prospettive differenti e sfociante in esiti diversi, ma senza dubbio di importanza fondamentale per comprendere le radici della crisi della coscienza religiosa europea tuttora in corso. Il culmine di questo movimento di pensiero è rappresentato da Nietzsche, agli occhi del quale Hegel non è stato altro che un grande «differitore», in quanto la concezione hegeliana della storia come movimento di autorealizzazione dell’Assoluto – e dunque come dispiegamento di un piano provvidenziale – ha potuto solamente rinviare un processo inevitabile e irreversibile: la presa di coscienza delle conseguenze nichilistiche della morte di Dio.
Strauss e Feuerbach: l’umanizzazione della religione Nel processo di indebolimento della fede cristiana in Europa un ruolo determinante è svolto innanzitutto dagli esponenti della cosiddetta Sinistra hegeliana, e in particolare da Strauss e da Feuerbach che – al di là del differente metodo adottato – possono essere accostati, per la riduzione del divino a una dimensione esclusivamente umana operata da entrambi. Nella Vita di Gesù – l’opera che apre il dibattito sulla religione all’interno della scuola hegeliana – Strauss si riallaccia alla tradizione di critica biblica risalente a Lessing e, soprattutto, alla concezione hegeliana della religione come manifestazione dell’Assoluto nella forma inadeguata della «rappresentazione», destinata a essere necessariamente superata nella filosofia, attraverso la sua traduzione concettuale. Sviluppando questi presupposti, egli riduce il racconto evangelico a «mito», inteso non come favola o leggenda, bensì come l’espressione sotto forma di racconto di un’idea metafisica: l’idea dell’unione di finito e infinito che, però, nella forma inadeguata del racconto, viene riferita a un singolo individuo, mentre in verità essa si realizza solo nell’intero genere umano. L’estremo risultato di questa interpretazione mitica del Vangelo è dunque il seguente: «l’Uomo-Dio» non è altro che «l’umanità». Alla base di questo tipo di lettura vi è la coscienza dell’incompatibilità tra i dogmi cristiani e l’avanzato livello di progresso scientifico ormai raggiunto: per Strauss, infatti, il cammi227
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
L’interpretazione feuerbachiana del cristianesimo
La religione come autoconoscenza e alienazione
L’uomo come ‘creatore’ di Dio
La filosofia come forma di conoscenza superiore alla religione
Il superamento dell’alienazione
T1
Il contenuto assolutamente umano della religione
L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo
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no percorso dall’umanità negli ultimi due millenni ha reso assolutamente privo di senso discutere su alcune guarigioni che si sarebbero verificate in Galilea, e non piuttosto sul vero miracolo della storia universale, che ai suoi occhi consiste nel dominio dell’uomo sulla natura, arrivato a livelli prima non immaginabili. Anche Feuerbach perviene, per altra via, a una radicale umanizzazione della religione cristiana. Sotto questo profilo, la sua opera più significativa è senza dubbio L’essenza del Cristianesimo (1841) che – come è attestato dal successo editoriale in Germania, in Francia, in Russia e in Inghilterra – ebbe una larghissima risonanza tra i contemporanei, dai quali fu recepita come una vera e propria liberazione: come scrisse Engels una decina di anni dopo, «in quel momento tutti fummo feuerbachiani». Feuerbach prende le mosse dall’esame filosofico dell’essenza della religione in generale, giungendo alla conclusione che tutte le religioni, di ogni tipo e di ogni epoca, non sono altro che un’autoconoscenza indiretta dell’uomo, o meglio la prima necessaria forma di autoconoscenza che l’umanità deve attraversare. Seguendo e sviluppando in maniera originale l’insegnamento della Fenomenologia dello spirito hegeliana, egli ritiene, infatti, che la coscienza umana possa trovarsi e riconoscersi solo passando attraverso l’oggettivazione della sua essenza in un ente considerato altro da sé (alienazione), cioè Dio. Partendo da questi presupposti, Feuerbach può rendere ragione della priorità cronologica delle religioni rispetto a tutte le altre forme di cultura, pur concependo sia Dio sia le religioni come un semplice «derivato» dell’uomo: affermare che Dio è semplicemente l’essenza umana oggettivata e proiettata all’esterno equivale, infatti, a rovesciare nel suo contrario la tesi secondo la quale è stato Dio a creare l’uomo a propria immagine e somiglianza. Nell’ambito della religione il vero rapporto tra uomo e Dio è destinato a rimanere sempre nascosto: la caratteristica essenziale di ogni religione è, infatti, quella di compiere questo processo di oggettivazione senza rendersene conto, e di considerare quindi il suo risultato come un essere in sé, dotato di una propria realtà, invece di riconoscerlo come una proiezione umana. Solo la filosofia può portare alla luce ciò che nella religione è destinato a restare nascosto, svelando il carattere derivato di Dio, in quanto frutto dell’oggettivazione dell’essenza umana. Il compimento di questo compito rappresenta per Feuerbach la vera svolta della storia dell’umanità, in quanto consente all’uomo di liberarsi dall’alienazione religiosa e di riappropriarsi della propria essenza, riconoscendo il carattere assoluto della natura umana, considerata naturalmente non nella sua individualità, bensì nella dimensione del genere. […] Abbiamo dimostrato che il contenuto ed oggetto della religione è assolutamente umano, […] che il segreto della teologia è l’antropologia […]. Tuttavia la religione non ha coscienza dell’umanità del suo contenuto; piuttosto si contrappone all’umano o, almeno, non ammette che il suo contenuto sia umano. […] La religione è la prima autocoscienza dell’uomo. Sante sono le religioni proprio perché sono le tradizioni della prima coscienza. Ma ciò che per la religione è la prima cosa, Dio, è in sé, nella verità, la seconda, infatti Dio è soltanto l’essenza dell’uomo oggettiva a se stesso, e ciò che per essa è la seconda cosa, l’uomo, deve perciò essere posta ed essere espressa come la prima.
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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Feuerbach: il cristianesimo come «religione assoluta»
La svalutazione del mondo e degli uomini nel cristianesimo
Il principio dell’amore
Il cristianesimo e le degenerazioni del principio dell’amore
L’obiettivo di Feuerbach
3 Bauer e Stirner: due critici radicali, ma isolati
La riduzione della religione in generale ad autocoscienza indiretta e alienata dell’uomo costituisce la cornice all’interno della quale Feuerbach sottopone a una critica implacabile il cristianesimo. Quest’ultimo rappresenta ai suoi occhi la «religione assoluta»: a differenza delle religioni dell’antichità – che vedevano Dio anche e soprattutto nella natura – il cristianesimo pone al proprio centro un Dio che si fa uomo, portando così per la prima volta a espressione il carattere umano di Dio. Tuttavia, nel cristianesimo questa verità viene racchiusa ancora in involucro religioso, che la deforma al punto da rendere la religione cristiana la forma peggiore di alienazione umana. Ciò vale soprattutto a proposito della figura di Cristo. Ponendo Cristo come Dio, infatti, i cristiani hanno dichiarato divino un individuo umano. Ciò li ha indotti a perdere di vista quei limiti costitutivi che – rendendo ciascuno di noi bisognoso sia del mondo esterno sia degli altri – ci legano in maniera indissolubile al genere umano e alla natura. Nella divinizzazione dell’individuo-Cristo sta dunque la radice della svalutazione del mondo e degli altri uomini che per Feuerbach pone il cristianesimo in una contraddizione insanabile con quella essenza umana che avrebbe dovuto rispecchiare. Sulla base di questo presupposto, infatti, il cristianesimo nega non solo la scienza – perché svaluta il mondo – ma anche l’arte e la politica, l’amore carnale e la filantropia filosofica, tutto ciò che, insomma, è volto a realizzare il genere. Feuerbach non ignora il fatto che il Dio cristiano è un Dio di amore, e al contrario considera l’idea dell’amore come l’unico elemento della religione cristiana che va non solo negato, ma anche realizzato. Egli ritiene, però, che tale idea non nasca con la religione cristiana, ma affondi piuttosto le proprie radici nei movimenti filantropici che prendono piede con la crisi dell’Impero romano. Ben lungi dal produrre il principio dell’amore, il cristianesimo lo ha piuttosto corrotto e contaminato con l’elemento religioso della fede – principio di separazione e fonte di intolleranza – che lo ha privato del suo essenziale carattere universale: 1) la «fede» spinge, infatti, il cristiano ad amare direttamente solo Dio, che è la proiezione di se stesso: essa trasforma così l’amore in puro egoismo, rinchiudendo l’uomo in se stesso; 2) l’amore per gli altri uomini è invece nel cristianesimo mediato e condizionato dall’amore verso Dio: si può amare solo chi ama Dio e crede in Lui. Ciò non solo snatura l’amore cristiano – particolarizzandolo – ma lo rende pronto a trasformarsi in odio, condanna, furia persecutrice, non appena l’altro si presenti come credente o miscredente. Con la critica filosofica del cristianesimo e la riduzione totale della teologia ad antropologia – precisamente un’antropologia incentrata sull’uomo inteso come individuo vivente, dotato non solo di ragione ma anche di corpo – Feuerbach si pone dunque l’obiettivo di svincolare l’amore dalla fede, per indirizzarlo direttamente all’uomo o meglio al genere umano (vedi Unità 1, p. 31 s.).
Marx: la critica sociale della religione Nell’ambito della Sinistra hegeliana maturarono posizioni più radicali rispetto a quelle di Strauss e di Feuerbach: 1) la critica di Bauer – soprannominato dai contemporanei il «messia dell’ateismo» – che attraverso la critica dei Vangeli giunse a negare al cristianesimo 229
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
L’influenza di Marx
Con Feuerbach, contro Feuerbach
I limiti della concezione di Feuerbach
L’uomo come entità concreta
Le origini storico-sociali del «rovesciamento» tra essenza umana e divina
Il «mondo capovolto», in cui l’uomo è schiavo delle merci, genera l’alienazione religiosa
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anche quel contenuto umano, che sia per Strauss sia per Feuerbach poteva essere conservato, sia pure radicalmente trasformato; 2) l’individualismo di Stirner, che rifiutò la divinizzazione dell’umanità alla quale approdava la critica della religione. Bauer e Stirner restarono, però, due figure isolate, proprio per la radicalità delle loro posizioni. Ben diverso è il discorso per quanto riguarda Marx, la cui critica sociale della religione ha ispirato, a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’azione delle grandi organizzazioni di massa di orientamento socialista e comunista, esercitando in questo modo un’influenza storica grandissima e duratura. La critica marxiana della religione prende le mosse da Feurbach, con il quale Marx condivide la tesi che la religione abbia origine dalla proiezione e dall’oggettivazione di caratteristiche umane in un’entità esterna e trascendente, cioè Dio. Tuttavia, per Marx questa spiegazione della genesi della religione resta in superficie; occorre invece andare più in profondità, indagando le cause del fenomeno dell’alienazione religiosa che, nella prospettiva marxiana, vanno ricercate nella società. Secondo Marx, ciò che ha impedito a Feuerbach di cogliere il radicamento sociale della religione è il disconoscimento del vero significato dell’essenza umana. Sulla base del proprio materialismo naturalistico, Feuerbach ha, infatti, riposto l’essenza umana nel «genere», inteso come il tessuto che connette tra loro tutti gli individui umani in virtù delle loro caratteristiche naturali, uguali in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Partendo da questi presupposti, era inevitabile che, nella propria indagine sulla genesi della religione, egli non tenesse in nessun conto le determinate condizioni storico-sociali in cui le diverse forme religiose sono nate. Marx riprende, invece, da Fichte e soprattutto da Hegel l’idea che l’uomo, al di fuori dei rapporti sociali storicamente determinati in cui è inserito, non sia altro che un’astrazione. L’uomo che ‘fa’ la religione e crea Dio – come Feuerbach ha per primo giustamente affermato – non è, quindi, secondo Marx, un’entità astratta, bensì l’uomo concreto, calato in un tessuto sociale storicamente determinato, che deve dunque essere preso in considerazione se si vuole comprendere veramente la religione. Per Marx, dunque, il «rovesciamento» religioso dei rapporti tra uomo e Dio – consistente nel fare del secondo il creatore del primo, mentre nella realtà è vero il contrario – non dipende dai fattori ontologici indicati da Feuerbach, come lo squilibrio tra l’essenza infinita del genere e il carattere finito dell’individuo umano, alla base del desiderio di trascendere i propri limiti (vedi Unità 1, p. 27). Esso deriva piuttosto da fattori storico-sociali: la religione è una «coscienza capovolta» solo in quanto riflette un «mondo capovolto». Un mondo capovolto è per Marx un mondo in cui l’essere umano, ridotto a strumento per la soddisfazione di bisogni altrui, non può realizzare la propria essenza di essere autonomo. Nel caso specifico della società capitalistica, un mondo in cui il «carattere feticistico delle merci» – cioè la forma di merci assunta dai moderni oggetti d’uso – ha ingenerato una supremazia delle «cose» sull’uomo, rendendo paradossalmente l’individuo creatore dipendente dalle proprie creature. L’alienazione religiosa è sempre determinata da un’alienazione più profonda e originaria, che è di carattere sociale: l’uomo proietta in un ente immaginario e trascendente la propria essenza, solo perché vive in una società in cui non può realizzarla.
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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea
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Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera.
Differenze tra Marx e Feuerbach riguardo all’alienazione religiosa
In questo modo, Marx radicalizza la critica feuerbachiana della religione. Quest’ultima non è ai suoi occhi la prima forma di autocoscienza, per quanto indiretta e incompiuta, dell’essenza verace dell’uomo, bensì esprime piuttosto la coscienza di un uomo che si è estraniato dalla propria essenza verace, cioè di un uomo «che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso». Dalla differente interpretazione dell’alienazione religiosa segue una profonda differenza anche riguardo alle possibilità e modalità di superamento dell’alienazione. Feuerbach era illuministicamente persuaso che, per guarire l’umanità dalla «patologia psichica» della religione, fosse sufficiente una presa di coscienza filosofica: grazie al semplice riconoscimento che la coscienza di Dio non è altro che la coscienza del genere umano, si sarebbe dovuta aprire una nuova epoca storica. Questa fiducia nella forza liberatoria della filosofia rispetto alla religione poggia in Feuerbach anche sulla convinzione che il cristianesimo – ormai divenuto del tutto estraneo alle forme di vita dell’uomo moderno – fosse in realtà già entrato in una fase di irreversibile declino. Per Marx – persuaso dell’esistenza di un intimo legame tra cristianesimo e capitalismo – l’unica terapia efficace contro la religione non può restare sul piano della teoria, ma deve passare a quello della prassi politica. Se l’alienazione religiosa deriva dall’alienazione sociale, è possibile estirpare la prima solo creando una società in cui gli uomini non abbiano più bisogno dell’«illusione religiosa», in quanto paghi di una «felicità reale». Cosa che, nella prospettiva marxiana, può avvenire solo nella società comunista, alla cui costruzione il filosofo deve dunque attivamente collaborare, fornendo le «armi spirituali» all’unico possibile soggetto rivoluzionario dell’epoca, cioè il proletariato.
Miseria religiosa e miseria reale K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione
La fiducia di Feuerbach nella filosofia
L’appello di Marx alla prassi
4 Dalla critica della religione alla critica dei valori dell’Occidente
Nietzsche: la critica della civiltà cristiana Con Nietzsche la critica della religione cristiana allarga ulteriormente il proprio raggio, fino a investire l’intera civiltà cristiana. L’annunzio della «morte di Dio», che ricorre più volte nelle sue opere, è qualcosa di ben più radicale della semplice affermazione di ateismo – non nuova nella tradizione filosofica – proprio in quanto non si riferisce solo all’indebolimento della fede cristiana, bensì al crollo di un’impalcatura di credenze e di certezze su cui gli uomini hanno basato la loro vita per due millenni. La «morte di Dio» simboleggia la fine dei valori della morale occidentale che, ben lungi dall’avere un radicamento oggettivo e una realtà originaria, sono per Nietzsche esclusivamente il frutto del rovesciamento dell’etica agonistica e aristocratica degli antichi, portato a compimento con successo dal cristianesimo. 231
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel La perdita di valore del cristianesimo nel mondo moderno
La «morte di Dio» costituisce per Nietzsche un fatto. Al pari di Feuerbach egli è persuaso, infatti, della irrimediabile incompatibilità tra il mondo moderno – divenuto completamente mondano, privo di interesse per il sacro – e la fede cristiana: in ogni momento della sua esistenza quotidiana l’uomo moderno è ispirato e guidato dall’interesse per il mondo, e in questo modo contraddice l’essenza costitutiva del cristianesimo, che nella prospettiva nietzscheana consiste in un radicale no alla vita mondana. È questo il senso del grido dell’«uomo folle» che si rivolge a quanti incontra – non a caso al «mercato» – accusandoli di avere ucciso Dio.
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L’uomo folle. – Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che nel chiaro mattino accese una lanterna, corse al mercato e si mise a gridare senza posa: «Cerco Dio! Cerco Dio!» Poiché proprio lì si trovavano radunati molti di quelli che non credevano in Dio, la sua apparizione suscitò grandi risate. «Qualcuno l’ha forse perduto?» disse uno. «Si è smarrito come un bambino?», disse l’altro. «O se ne sta nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato sulla nave? È emigrato?» – così gridavano e ridevano fra loro. Ma l’uomo folle piombò in mezzo a loro e li trapassò con lo sguardo. «Dov’è andato Dio?», esclamò, «voglio dirvelo! Noi lo abbiamo ucciso, – voi e io! Noi tutti siamo suoi assassini! […]».
Il compito di Nietzsche: la promulgazione dell’ateismo
Convinto di avere ormai già alle spalle il tramonto della fede cristiana, Nietzsche ritiene del tutto superfluo affrontare il problema in chiave teorica, sforzandosi di offrire, per esempio, una confutazione delle prove dell’esistenza di Dio, che tra l’altro nella gnoseologia nietzscheana, secondo la quale non esistono principi logici universali, risulta impossibile. Nietzsche si concentra piuttosto sul compito di promulgare e universalizzare l’«ateismo» di cui la società moderna è di fatto intrisa. Egli si propone quindi di eliminare gli ultimi residui del cristianesimo, che ai suoi occhi costituiscono per gli uomini il principale ostacolo al riconoscimento del deicidio commesso: 1) in primo luogo, la metafisica di ascendenza platonica, che ha ridotto il mondo reale a pura ombra e fenomeno, inducendo un distacco dalla terra; 2) in secondo luogo, la morale sorta con il cristianesimo – fondata sulla valorizzazione di caratteristiche legate alla debolezza e sull’ideale fallace dell’uguaglianza – nel cui solco si collocano ancora sia la feuerbachiana religione dell’umanità sia l’utopia egualitarista di Marx e delle varie ideologie socialiste e democratiche, responsabili di un inutile prolungamento della crisi della civiltà europea. Con una suggestiva metafora, Nietzsche definisce la morale e la metafisica come l’«ombra enorme e orribile» di Dio, che gli uomini hanno adorato e continueranno probabilmente ad adorare ancora per secoli dopo la sua morte. Come si legge in un aforisma della Gaia scienza significativamente intitolato Nuove lotte, l’obiettivo che egli si propone è quello di vincere anche quest’ombra, cercando di cancellare con un atto di forza senza precedenti – in un mondo che, secondo lui, è già post-cristiano – queste ultime tracce della fede in Dio, attraverso una radicale demolizione dei capisaldi della metafisica e della morale occidentale, condotta con il metodo genealogico (ossia attraverso l’analisi storico-critica) (vedi Unità 5, p. 198). Quanto detto spiega anche perché Nietzsche annunzi la «morte di Dio» non solo e non tanto come un evento già accaduto, ma come una sorta di profezia, rife-
Gli uomini hanno ucciso Dio
F. Nietzsche, La gaia scienza, 3,125
Eliminare gli ultimi residui del cristianesimo
La genealogia come strumento di demolizione della metafisica e della morale
La «morte di Dio» come profezia
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Nichilismo e teoria del superuomo
L’ambiguità del nichilismo nietzscheano
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Le conseguenze nichilistiche della «morte di Dio» F. Nietzsche, La gaia scienza, 3,125
5 La tesi della «morte di Dio» alla prova delle scienze sociali: Weber
rendosi agli effetti dirompenti dell’avvenimento, non ancora venuti alla luce: il crollo totale dei valori occidentali, tale da lasciare l’uomo completamente privo di ogni criterio di orientamento, in balia del nulla. Nietzsche è consapevole del fatto che questa conseguenza nichilistica avrebbe provocato sgomento nella maggior parte dei suoi contemporanei, ancora non pronti ad accoglierla. Al tempo stesso, però, egli vede anche in essa una sorta di liberazione, un’occasione che apre lo spazio per una radicale trasvalutazione dei valori, di cui la sua filosofia si fa in qualche modo promotrice, attraverso le dottrine dello Übermensch («superuomo») e dell’eterno ritorno (vedi Unità 5, p. 208 s.). In ciò sta l’ambiguità del nichilismo nietzscheano, che esprime al tempo stesso sia la drammatica consapevolezza di una situazione fattuale – cioè il culmine della crisi della civiltà occidentale – sia l’indicazione, per quanto vaga, di una nuova mèta che si dischiude davanti allo sguardo dell’umanità, al cui raggiungimento occorre contribuire accelerando il crollo dei valori. Coerentemente con questo obiettivo, Nietzsche descrive le conseguenze della morte di Dio con lo stesso linguaggio utilizzato da Gesù per proclamare il regno dei cieli: il linguaggio della parabola. Come la parabola cerca di trasmettere a chi ascolta la consapevolezza di appartenere al regno di Dio, l’«uomo folle» tenta di dimostrare agli assassini di Dio, lontani dall’immaginare il loro delitto, che essi appartengono a una «storia più alta», un superamento di tutto quello che fino a ora ha avuto valore. «[…] Ma come abbiamo fatto [a uccidere Dio]? […] Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo sciolto la terra dalla catena del suo sole? In che direzione essa si muove adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non precipitiamo continuamente? E all’indietro, ai lati, in avanti, da tutte le parti? C’è ancora un sopra e un sotto? Noi vaghiamo come attraverso un infinito nulla? […] Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso! […] Non è la grandezza di questo gesto troppo grande per noi? Non dobbiamo farci dèi noi stessi, anche solo per apparirne degni? Non è stata mai compiuta una gesta più grande, – e tutti coloro che nasceranno dopo di noi apparterranno, grazie a questa gesta, a una storia superiore a tutta la storia che c’è stata finora!». – Qui l’uomo folle tacque e di nuovo fissò coloro che lo ascoltavano: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Alla fine egli scagliò a terra la sua lanterna, che volò in pezzi e si spense. «Io vengo troppo presto», disse allora. «Il mio tempo non è ancora venuto. […]».
Weber: «disincantamento» del mondo e «politeismo dei valori» Dopo l’uso che ne hanno fatto le filosofie radicali di Feuerbach, Marx e Nietzsche, la tesi della «morte di Dio» esce dall’ambito filosofico per diventare un oggetto centrale delle scienze sociali soprattutto grazie al contributo di Max Weber (1864-1920), una delle personalità intellettuali di maggiore spessore nell’Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento (vedi Unità 14, p. 567 ss.). Weber condivide il giudizio nietzscheano sull’incompatibilità radicale tra fede religiosa e modernità. A questa conclusione egli perviene, però, partendo da una rigorosa indagine storico-sociologica sulle caratteristiche specifiche del processo di razionalizzazione della realtà da cui è sorto il moderno mondo occidentale. 233
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Razionalità e «disincantamento del mondo»
La rivoluzione scientifica e l’estromissione della religione dalla razionalità
La sconfitta della religione
Conseguenze nichilistiche
Perdita di senso del mondo
Sradicamento dei valori
Incapacità della scienza di fondare l’etica
«Politeismo dei valori» e perdita di una gerarchia oggettiva tra essi
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Secondo la ricerca condotta da Weber, infatti, il tratto tipicamente moderno e occidentale del processo di razionalizzazione – che avviene anche nelle altre civiltà – consiste in quello che egli definisce «disincantamento del mondo», intendendo con questa espressione il processo di secolarizzazione dell’Occidente, cioè la graduale e progressiva estromissione della religione da tutti gli ambiti della vita. La secolarizzazione affonda le sue radici in molteplici fattori, tra i quali spetta un peso preponderante alla scienza moderna. Soprattutto in seguito all’avvento di quest’ultima, infatti, la religione giudaico-cristiana – che a sua volta aveva contribuito in maniera determinante alla razionalizzazione, attraverso lo spostamento della salvezza in una sfera oltremondana e la conseguente liberazione della sfera mondana dalle forze magiche – diventa un elemento irrazionale. E questo per la inevitabile tensione tra la concezione religiosa del mondo come ordine etico-teleologico creato da Dio e la concezione meccanicistica dell’universo come grande meccanismo retto non dal principio di finalità, bensì esclusivamente dalla legge di causa ed effetto. Nell’analisi weberiana, il conflitto sempre più aspro che, a partire dalla rivoluzione scientifica, si è ingenerato tra religione e scienza ha visto soccombere la prima. Lo spazio della religione non poteva, infatti, che ridursi fino quasi a scomparire, in una società che, a causa dei rapidi e incessanti progressi scientifici, è ormai permeata dalla convinzione della capacità umana di potere dominare il corso degli eventi, attraverso il calcolo razionale e l’esatta previsione di tutti i fenomeni. Come per Nietzsche, anche per Weber questo processo di secolarizzazione ha delle conseguenze nichilistiche. Weber sottolinea, infatti, come il disincantamento del mondo, pur rappresentando una conquista della razionalità, abbia fatto venir meno le certezze sulle quali per circa due millenni gli uomini occidentali avevano orientato la propria esistenza e il proprio agire. Innanzitutto, la sostituzione dell’ordine etico-teleologico della religione con un ordine meccanico semplicemente fisico e razionale ha privato il mondo oggettivo di ogni significato: il mondo può, infatti, avere un senso etico e uno scopo soltanto se è creato e orientato da Dio. Questa perdita di senso del mondo implica il crollo di tutti quei punti di riferimento in passato ritenuti oggettivi e assoluti: in un mondo del tutto privo di un senso etico – quale è il cosmo razionalizzato della scienza moderna – i valori smarriscono infatti, ogni radicamento oggettivo. Dal canto suo, la scienza non può in alcun modo supplire al ruolo di fondazione dell’etica esercitato a lungo dalla metafisica e dalla religione: le argomentazioni razionali di cui essa è intessuta ci consentono di ottenere una spiegazione causale degli eventi e il dominio della natura attraverso la tecnica, ma non possono in alcun modo offrire risposte riguardo ai valori. Questi ultimi fuoriescono, infatti, dalla sfera di ciò che è giustificabile sulla base del principio di ragion sufficiente o sulla base della considerazione dell’adeguatezza tra mezzi e scopi, che contraddistingue la razionalità puramente formale della scienza moderna (vedi Unità 14, p. 576). Sulla scorta di queste considerazioni, Weber indica come conseguenza della crisi del cristianesimo in epoca moderna un inevitabile «politeismo dei valori», intendendo con questa espressione il conflitto che viene a determinarsi tra i diversi valori, una volta venuta meno – assieme alla concezione etico-teleologica del mondo propria delle religioni della redenzione – la possibilità di fondare su basi oggettive una gerarchia tra essi.
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Percorso tematico La «morte di Dio»: la crisi della coscienza religiosa europea Lotta tra valori e soggettività delle scelte morali
Etica mondana ed etica religiosa
Fondamento soggettivo di entrambe le etiche
Il «politeismo dei valori» in Grecia e nel cristianesimo
Caratteri laceranti del «politeismo dei valori» moderno
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Politeismo antico e politeismo moderno
M. Weber, La scienza come professione
In assenza di una gerarchia oggettiva, tutti i valori avanzano pari pretese di assolutezza, che sono alla radice di una lotta inevitabile e incomponibile: il prevalere dell’uno rispetto all’altro dipende esclusivamente da una scelta soggettiva, attraverso la quale ogni singolo individuo decide cosa è per lui «dio» e che cosa il «diavolo». Scelta che è per ciascuno tanto necessaria quanto ingiustificabile, in quanto non è più dimostrabile dell’opzione per un altro valore. Per esempio, tra l’etica mondana e quella religiosa non può che esservi un’antitesi radicale, in quanto la prima concepisce questo mondo come l’unico luogo possibile dove riparare i torti, mentre la seconda – partendo dall’assunto che l’unica giustizia verace sia quella divina e ultraterrena – predica la sopportazione del male e delle offese subite, come emerge in maniera paradigmatica dal Sermone della montagna (il passo del Vangelo di Matteo in cui Cristo parla alla folla su una montagna, Matteo, 5-7). Il contrasto tra le due prospettive è assoluto, e per questo ciò che da un punto di vista è «dignitoso» dall’altro è invece espressione di una completa mancanza di dignità; tuttavia, nessuno dei due punti di vista può offrire una confutazione razionale dell’altro, in quanto l’adesione a entrambi poggia su una scelta esclusivamente soggettiva. Non è una novità della società moderna che gli individui siano sottoposti a leggi diverse tra loro: utilizzando l’espressione «politeismo dei valori», Weber vuole al contrario esprimere la continuità tra il mondo moderno del disincantamento e l’antica civiltà greca, nella quale si rendevano spesso sacrifici a divinità che potevano essere in lotta tra loro. Nel mondo occidentale l’inevitabile antagonismo tra valori è stato in qualche modo sospeso – o meglio celato – solo dalla religione giudaico-cristiana, che si è sforzata di fondare un sistema di valori unici ed eterni a partire dall’«Uno assoluto e necessario», cioè la volontà legislatrice di una sola divinità. Tuttavia, secondo l’analisi weberiana il politeismo dei valori provocato dalla crisi del cristianesimo è più lacerante rispetto a quello antico: 1) prima di tutto, in quanto – a seguito dell’affermarsi della razionalità puramente formale della scienza moderna – si è ormai rotta l’unità tra etica e sapere che caratterizzava la civiltà greca, permeata dalla convinzione che la comprensione dei concetti potesse offrire una guida per la condotta; 2) in secondo luogo, in quanto nel mondo greco il singolo individuo era immerso nell’ordine rassicurante e nell’èthos della pòlis, e non portava da solo su di sé il peso della scelta tra valori contrastanti, ma si limitava a partecipare allo scontro che vedeva contrapposte le diverse città. Avviene come nel mondo antico, non ancora sottratto all’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, ma soltanto in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad Apollo, e soprattutto ognuno agli dèi della propria città, così è ancor oggi, che ci siamo disincantati e spogliati della veste mitica, ma intimamente vera, di quell’atteggiamento. Su questi dèi e nella loro lotta domina il destino, non certo la «scienza». È possibile solamente comprendere che cosa è il divino nell’uno e nell’altro caso, vale a dire nell’uno e nell’altro ordinamento. […] Chi vorrà mai provarsi a «confutare scientificamente» l’etica del Sermone della Montagna, per esempio la massima: «non fare resistenza al male», oppure l’immagine del porgere l’altra guancia? Eppure è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, qui si predica un’etica della mancanza di dignità: si deve cioè 235
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scegliere tra la dignità religiosa, che quest’etica comporta, e la dignità virile, che predica qualcosa di ben diverso: «Resisti al male, altrimenti tu sei corresponsabile del suo prevalere». Dipende dalla propria presa di posizione ultima che questo sia il diavolo e quello il dio, e l’individuo deve decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita. Quanto detto finora è già sufficiente per lasciare emergere come – pur condividendo con Nietzsche la sensazione di vivere in un mondo in cui la religione tende a scomparire dall’orizzonte, con gli esiti nichilistici che ne risultano – Weber guardi a questo fenomeno con un atteggiamento molto diverso. Nell’analisi weberiana la «morte di Dio» non è, infatti, un evento salutato con l’ebbrezza e il senso di liberazione che traspaiono molte volte dalle parole dell’«uomo folle»: il disincantamento e le sue conseguenze nichilistiche sono piuttosto per Weber il «volto severo del destino» dell’uomo moderno, costretto a vivere in un’epoca in cui non vi sono più né dèi né profeti, e dunque a sopportare interamente il peso delle scelte tra valori inconciliabili. Duplice atteggiamento Con un aristocraticismo di probabile matrice nietzschena, anche Weber ritiene che di Weber verso non tutti siano in grado di riconoscere e sopportare questa condizione: e a coloro il moderno che non ne hanno la forza raccomanda di tornare sotto la protezione delle antiche Chiese. Tuttavia, a differenza di Nietzsche, che cerca esplicitamente di contribuire all’uscita dal moderno prospettando un mondo di «superuomini», Weber resta invece al suo interno e, pur cogliendone con pessimismo a tratti anche radicale gli aspetti inquietanti, lo accetta come una situazione immodificabile – appunto come un «destino» – sforzandosi esclusivamente di contribuire alla sua comprensione. Weber: la «morte di Dio» e la solitudine dell’uomo moderno
I brani antologizzati sono tratti da: L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 281-282. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Opere, 3, trad. di N. De Domenico, G. della Volpe, L. Formigari, N. Merker, R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 191. F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di S. Giametta, BUR, Milano 2000, pp. 206-207. M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 29-30.
Questionario 1
In un massimo di 4 righe definisci la nozione di secolarizzazione e il suo legame con il tema della «morte di Dio».
2
Qual è nella storia dello Spirito, secondo Hegel, il significato della «morte di Dio»? (max 4 righe)
3
Spiega in un massimo di 5 righe il significato della tesi di Feuerbach, presente in T1, che «il segreto della teologia è l’antropologia».
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4
Che rapporto esiste tra religione e mondo secondo Marx in T2? (max 2 righe)
5
Chi è l’uomo folle che Nietzsche descrive in T3? Qual è il significato delle sue parole? (max 5 righe)
6
Perché «la morte di Dio» è definita dall’uomo folle un «gesto troppo grande» in T4? (max 2 righe)
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Quali sono le due immagini del divino di cui Weber parla in T5? (max 4 righe)
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento 1. Mondo naturale e mondo umano
2. Dilthey 3. Simmel e la filosofia della vita
2. Il ritorno a Kant e il neocriticismo 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Tornare a Kant Il ritorno a Kant su base «fisiologica» Il neocriticismo La scuola di Marburgo Cassirer La scuola del Baden Rickert
4. Bergson 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Lo spiritualismo francese dell’Ottocento Tra scienza e metafisica Il tempo e la durata Percezione e memoria Conoscenza utile e stabilità del mondo La metafisica Morale e religione
3. Lo storicismo tedesco 1. I caratteri dello storicismo
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Mondo naturale e mondo umano
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Lo sviluppo delle scienze nell’Ottocento
Le scienze della natura
Le scienze storico-sociali
Confronto tra scienze della natura e scienze storico-sociali
➥ Sommario, p. 266
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Il XIX secolo vede uno sviluppo parallelo delle discipline che si occupano del mondo della natura e di quelle che indagano il mondo umano. È sulla base della riflessione sulle scienze della natura che si sviluppa il positivismo come indirizzo filosofico che vede nella scienza della natura un modello da seguire anche per le altre scienze, come nel caso di Auguste Comte, di Herbert Spencer e di John Stuart Mill. Ma la scienza della natura vede nel corso del tempo progressi che in parte ne cambiano il profilo. Il presentarsi e il diffondersi delle tesi evoluzionistiche mutano radicalmente il modo di guardare alla natura e alla stessa natura umana. A partire dalla fine dell’Ottocento si ha anche un grande sviluppo delle scienze fisico-matematiche che trovano sbocco – tra Ottocento e Novecento – in nuovi modi di guardare alla geometria, con le geometrie non-euclidee, in un’approfondita riflessione sui fondamenti della matematica e sulla logica e in vere e proprie rivoluzioni della fisica classica, cioè newtoniana, con la teoria della relatività di Albert Einstein (1879-1955) e con la meccanica quantistica (vedi Unità 10, p. 410 ss.). Gli studi sulla società – oltre che nel pensiero di Marx – trovano uno sviluppo notevole proprio nelle pagine dei positivisti maggiori come Comte, Mill e Spencer, al quale alcuni fanno risalire l’origine della «sociologia» come disciplina specifica, e ancora, a cavallo tra Ottocento e Novecento, gli sviluppi del capitalismo inducono riflessioni approfondite sul mondo umano. Nel frattempo, lo studio della storia, e delle discipline filologiche, conosce un grande incremento, ed è proprio nel corso del XIX secolo che si formano importanti modelli di una storiografia consapevole della propria specificità. La filosofia della seconda metà dell’Ottocento trova quindi un suo oggetto privilegiato nell’indagine sullo statuto delle discipline sia scientifiche sia storico-sociali, in un rapporto spesso polemico ma comunque impegnato con entrambi gli ambiti del sapere. In questa prospettiva, non mancano le commistioni, le intersezioni e anche le contaminazioni tra un campo e l’altro, come anche i tentativi di chiarire quali possano essere i punti di contatto e di distinzione. È in questo contesto che emergono: 1) le riflessioni filosofiche e metodologiche che si rifanno a Kant, con il sorgere del neocriticismo; 2) il tentativo di trovare criteri di distinzione tra le scienze della natura e le scienze del mondo storico-sociale, o dello «spirito», con lo storicismo; 3) il confronto con la scienza che dà luogo a un nuovo genere di metafisica, come avviene nella filosofia di Henri Bergson: questi si colloca all’intersezione tra il riconoscimento dell’importanza della scienza e l’intenzione esplicita di andare al di là di essa, anche sulla base di una particolare attenzione per l’interiorità umana ereditata dallo spiritualismo ottocentesco.
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
Il ritorno a Kant e il neocriticismo
2 I testi
W. Windelband Preludi: Andare oltre Kant, T1; Le regole del conoscere, del volere e del sentire, T3
1 Rifiuto dei sistemi idealistici
Critica della nozione di «cosa in sé»
Zeller come iniziatore del ritorno a Kant
Liebmann: Kant e gli epigoni
E. Cassirer Filosofia delle forme simboliche: La fisica come teoria simbolica, T2
Tornare a Kant La seconda metà dell’Ottocento è segnata da una forte ripresa di interesse per la filosofia di Kant, anche in polemica verso la tradizione idealistica e hegeliana. Tornano ad avere importanza, non a caso, filosofi come Herbart che si erano opposti ad essa, e in generale viene rimesso al centro dell’attenzione l’interesse per una teoria della conoscenza di ispirazione kantiana, rispetto alla metafisica dei grandi sistemi speculativi di Fichte, di Schelling e di Hegel. Di Fichte, eventualmente, viene salvato l’aspetto etico, o etico-politico, fedele al dettato kantiano del dover-essere, cioè dell’ideale, e quindi utilizzabile in chiave progressista, o socialista, mentre per quel che riguarda Hegel la chiusura del suo sistema speculativo viene vista in parallelo al suo atteggiamento conservatore in politica. La tesi hegeliana secondo la quale ciò che è reale è razionale viene interpretata come esortazione ad adeguarsi allo stato di cose presente o, addirittura, come espressione di una valutazione incondizionatamente positiva di esso. Nella nuova prospettiva, i grandi sistemi idealistici vengono ora visti come un tradimento del criticismo kantiano, anche se lo stesso Kant, parlando di una «cosa in sé» che sta al di là dell’esperienza possibile, del mondo fenomenico, è ritenuto in parte responsabile dei fraintendimenti e delle degenerazioni dei suoi successori nella tradizione filosofica tedesca. Tornare a Kant significa quindi tornare alla teoria della conoscenza, e proprio a Significato e compiti della teoria della conoscenza è dedicata la prolusione che viene tenuta nel 1862 dal grande storico della filosofia greca Eduard Zeller (1814-1908) all’università di Heidelberg: è questa la data convenzionale che segna la nascita del «ritorno a Kant» ottocentesco. Zeller critica duramente gli sviluppi della filosofia tedesca post-kantiana, ma anch’egli vede nel problema della «cosa in sé» il germe dell’idealismo successivo. Qualche anno dopo il discorso di Zeller, nel 1865, Otto Liebmann (1840-1912) pubblica un libro intitolato Kant e gli epigoni, in cui viene ancora ricordata come problematica la nozione di «cosa in sé» e in cui, a mo’ di chiusura di ogni capitolo, troviamo riportata – ossessivamente – l’affermazione che «bisogna dunque tornare a Kant». Liebmann attacca la filosofia idealistica, ma va ben oltre: traditori del messaggio kantiano non sono soltanto i grandi idealisti, ma gli stessi Herbart e Schopenhauer, che hanno anch’essi utilizzato, in un modo o nell’altro, l’errore kantiano della «cosa in sé». 239
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Studi sul pensiero di Kant
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Il processo conoscitivo ha una base fisiologica: Helmholtz
Interpretazione fisiologica della filosofia di Kant: Lange
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Nel corso dell’Ottocento si sviluppa anche un interesse più genuinamente storico-filosofico per il pensiero di Kant, che ha un precedente illustre nella Storia della filosofia kantiana (1840) di Karl Rosenkranz (1805-1879), un allievo di Hegel. Importante, in questa direzione, è la monografia su Kant di Kuno Fischer (1824-1907) e in generale la pubblicazione di lavori storiografici sul confronto di Kant con la tradizione filosofica, di analisi serrate dei testi kantiani (è del 1881 la pubblicazione di un sistematico commentario della Critica della ragion pura da parte di Hans Vaihinger, 1852-1933) e di studi sulla formazione filosofica di Kant. Inoltre, si cominciano a pubblicare testi kantiani inediti. Tutta questa attività troverà un esito, all’inizio del XX secolo, con la pubblicazione dell’edizione ufficiale delle opere complete di Kant, promossa dall’Accademia Prussiana delle Scienze e diretta, al suo sorgere, da Wilhelm Dilthey (vedi sotto, p. 249). La filosofia di Kant è quindi oggetto di interesse e di discussione sia sul piano storico-filosofico, sia sul piano teorico.
Il ritorno a Kant su base «fisiologica» Il «ritorno a Kant» è segnato anche, almeno inizialmente, dagli stimoli provenienti dal pensiero positivistico, e in particolare dal significato filosofico posseduto dalle indagini scientifiche. È significativo, in questo senso, l’interesse per la filosofia di Kant da parte di Hermann von Helmholtz (1821-1894), uno scienziato al quale si deve, tra l’altro, una delle prime formulazioni del principio di conservazione dell’energia. L’elemento attivo della conoscenza che caratterizza la rivoluzione kantiana si interseca per Helmholtz con le strutture fisiologiche del processo conoscitivo. Se non può condividere l’idea che l’intuizione dello spazio sia un dato a priori come pensava Kant, Helmholtz ritiene però che le proprie ricerche fisiologiche (l’opera più importante è il Manuale di ottica fisiologica, che esce tra il 1856 e il 1867) arrivino a risultati convergenti con aspetti importanti della filosofia kantiana, come il riconoscimento di una funzione costitutiva, ovvero attiva, del soggetto, nella conoscenza degli oggetti: questa funzione, per Helmholtz, ha un fondamento fisiologico nella struttura dell’apparato nervoso. Un’altra opera che va nella stessa direzione di Helmholtz – e che ha una grande influenza nella filosofia contemporanea: Nietzsche ne dà, per esempio, un giudizio molto positivo – è la Storia del materialismo e critica del suo significato attuale di Friedrich Albert Lange (1828-1875), pubblicata nel 1866. Lange ritiene che la spiegazione meccanicistica del mondo della scienza moderna debba essere accettata e incoraggiata, ma ciò non deve significare accettare la tesi del materialismo naturalistico (per cui l’intera realtà, inclusi l’uomo, il pensiero e l’agire morale, coincide con, o è riducibile alla natura e può essere oggetto di indagine scientifica). In realtà, come ha mostrato Kant, è possibile conoscere soltanto i fenomeni, non la «cosa in sé» (che è un concetto-limite), e la nostra conoscenza del mondo fenomenico è profondamente condizionata, anche in questo caso attraverso un’interpretazione «fisiologica» di Kant, dalle strutture del soggetto, e in particolare dall’organizzazione psico-fisica. Sia Helmholtz sia Lange, dunque, individuano nella struttura fisiologica del soggetto conoscente ciò che fa sì che la mente abbia un ruolo attivo nel processo della conoscenza.
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
3 Possibilità della conoscenza
T1
Andare oltre Kant
W. Windelband, Preludi, Prefazione alla prima edizione
Differenze tra le due scuole neokantiane
Il neocriticismo È invece di carattere marcatamente filosofico il vero e proprio movimento detto «neocriticismo» o «neokantismo»: esso nasce intorno al 1870 e ha due principali centri di diffusione, vale a dire l’università di Marburgo e quella di Heidelberg, per cui si parla di solito, per le due maggiori scuole neokantiane tedesche, di scuola di Marburgo e di scuola del Baden. Il problema comune alle due «scuole» è la questione del trascendentale, ovvero dell’indagine sul modo di conoscere gli oggetti – come aveva scritto Kant: la filosofia ha il compito di esercitare una riflessione critica sul conoscere e sulle sue possibilità (tenendo distinta la conoscenza dalle condizioni fisiologiche del soggetto). Il modo in cui le due scuole affrontano il problema è decisamente diverso, anche se certo è comune l’intento di tornare a Kant andando oltre Kant, come sottolinea l’iniziatore della scuola del Baden, Wilhelm Windelband (vedi sotto, p. 245): Tutti noi che filosofiamo nel XIX secolo siamo discepoli di Kant. Ma il nostro odierno «ritorno» a lui non può essere la semplice rammemorazione della forma storicamente condizionata nella quale egli espose le idee della filosofia critica. Quanto più profondamente si coglie l’antagonismo che sussiste tra i diversi motivi del suo pensiero, tanto più si trovano in esso i mezzi per elaborare i problemi che Kant ha creato con le sue soluzioni. Comprendere Kant, significa andare oltre Kant. La scuola di Marburgo, invece, si concentra sulle condizioni di validità dell’esperienza, prestando particolare attenzione al sapere scientifico. Questi filosofi non trascurano i problemi dell’etica, dell’estetica o i problemi sociali, ma il loro punto di partenza è la riflessione sul sapere scientifico. La scuola del Baden, invece, cerca di elaborare un punto di vista più complessivo, unitario, fondato sulle nozioni di validità e di valore, utili nei diversi ambiti della filosofia: sono valori, infatti, il vero della teoria della conoscenza, il buono dell’etica e il bello dell’estetica.
Le scuole neokantiane
Neocriticismo Scuola del Baden
Scuola di Marburgo Problema comune Indagine sulla conoscenza
Differenza nel modo di affrontare il problema La scuola di Marburgo analizza le condizioni di validità dell’esperienza
La scuola del Baden elabora una concezione unitaria della filosofia
Centralità della conoscenza scientifica
Centralità della nozione di valore
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
4 Indagine sulla logica del pensiero scientifico: Cohen
Logica del pensiero puro
Interpretazione socialista di Kant
Analogia tra idee platoniche e categorie kantiane: Natorp
5
La scuola di Marburgo L’inizio convenzionale del movimento neokantiano lo si ha con il libro di Hermann Cohen (1842-1918) La teoria kantiana dell’esperienza, del 1871. Cohen insegna a Marburgo dal 1873 al 1912. Per Cohen interpretare la filosofia come teoria della conoscenza non significa riferirla al conoscere in generale, ma alla conoscenza propria della scienza: la filosofia è quindi una teoria della scienza, prende le mosse dal fatto della scienza e ne indaga le condizioni di possibilità così come la filosofia di Kant muoveva dal fatto della fisica newtoniana. La logica del pensiero puro che costituisce la prima parte del sistema della filosofia di Cohen (ad essa seguono un’etica e un’estetica) è la logica a priori delle scienze, cioè della matematica e della scienza della natura. L’importante per Cohen è distinguere la logica come pensiero puro dai processi psicologici e fisiologici, a differenza dell’interpretazione «fisiologica» del trascendentale che si era avuta con Helmholtz e Lange. Cohen dà molta importanza all’etica, pur se ne sottolinea la dipendenza dalla logica, rifiutando così il «primato della ragion pratica» sostenuto da Kant. Centrale è l’idea kantiana dell’uomo come fine, sulla quale è fondata una delle formulazioni dell’imperativo categorico («agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»). L’idea che ogni uomo, in quanto uomo, sia un fine in sé sta a fondamento anche della posizione politica socialista di Cohen: non si concilia con l’idea che l’uomo sia un fine in sé, sostiene Cohen, l’idea che il lavoratore sia semplicemente una cosa, una merce. Marx ha però sbagliato quando ha voluto fondare la storia e la prospettiva socialista sui rapporti materiali: la storia come storia degli uomini e delle loro azioni è storia dello spirito e delle idee, altrimenti non c’è nessuna storia universale, ma soltanto una storia «naturale». Paul Natorp (1854-1924) radicalizza la centralità della logica già sostenuta da Cohen. Peculiare, in Natorp, è l’accostamento (nella Dottrina platonica delle idee, del 1903) tra Platone e Kant: le idee platoniche non sono realtà date, forme ideali delle cose sensibili, ma funzioni del conoscere analoghe alle categorie kantiane, regole ideali della conoscenza scientifica. Comune a Cohen e a Natorp è la concezione della filosofia come critica del sapere scientifico.
Cassirer
La vita e le opere Ernst Cassirer nacque a Breslavia (Slesia) nel 1874 da una famiglia di origini ebraiche. Iscrittosi nel 1892 all’università di Berlino, fece studi di giurisprudenza e poi di filosofia. Nel 1896 si trasferì a Marburgo, dove divenne discepolo di Cohen e Natorp e si dedicò, oltre alla filosofia, allo studio delle scienze, della matematica e della letteratura tedesca. Nel 1902 pubblicò Il sistema di Leibniz. Grazie all’opera Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza moderna (i cui primi due volumi uscirono tra il 1906 e il 1907) divenne docente
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all’università di Berlino. Nel 1910 apparve Concetto di sostanza e concetto di funzione. Nel 1918 uscì Vita e dottrina di Kant (1918). L’anno seguente Cassirer divenne professore all’università di Amburgo. Nel 1920 apparve il terzo volume di Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza moderna e, tra il 1923 e il 1929, la sua opera maggiore, Filosofia delle forme simboliche. Nel 1933, con l’ascesa di Hitler al potere, andò in esilio in Inghilterra e, successivamente, in Svezia. Trasferitosi nel 1941 negli Stati Uniti, insegnò alle università di Yale e Columbia. Morì a Princeton nel 1945.
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
Il problema della conoscenza nella storia della filosofia
Il concetto di funzione
La conoscenza non è immagine della realtà
La funzione dei simboli nel processo conoscitivo
Il pensiero di Ernst Cassirer si forma sotto l’influenza della scuola di Marburgo di Cohen e Natorp, ma acquista ben presto una configurazione autonoma e si inoltra in pieno XX secolo. Importanti, nello sviluppo del pensiero di Cassirer, sono anche lavori di storia della filosofia moderna: sul pensiero di Leibniz, Kant e Cartesio, e soprattutto l’ampia ricerca su Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza moderna. Anche in questi studi di profilo storico la riflessione cassireriana ha sempre un tono teorico che rivela il suo legame con i maestri di Marburgo: la filosofia è teoria e critica della conoscenza, e la ricostruzione della storia della filosofia moderna dal punto di vista del problema della conoscenza rivela come la filosofia kantiana sia un punto di arrivo e di sintesi, compatibile con le maggiori scoperte della scienza moderna e contemporanea, incluse le teorie più recenti come le geometrie non-euclidee, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Ancora di stampo neokantiano, poi, è lo stretto nesso tra storia della scienza e storia della filosofia. Il mutamento principale indotto dalla riflessione scientifica moderna è per Cassirer il passaggio dal concetto di sostanza (realtà indipendente e permanente, preesistente rispetto all’attività conoscitiva) al concetto di funzione (Concetto di sostanza e concetto di funzione). A lungo fondata sull’idea di una sostanza o di una essenza delle cose di cui dovrebbe costituire una sorta di immagine, la scienza ha mutato radicalmente l’orizzonte nel tempo, individuando nel corso dell’Ottocento il proprio oggetto nelle relazioni funzionali tra i fenomeni. All’astrazione che formava i concetti astratti a partire dalle caratteristiche delle cose si è sostituito un tipo diverso di astrazione, costituito dalle relazioni tra gli oggetti e quindi dalle funzioni della nostra conoscenza, come in Kant. La conoscenza non è quindi un processo di rispecchiamento e di immagine della realtà, ma si realizza attraverso i simboli che vengono utilizzati e le relazioni che tra essi intercorrono. Un simbolo, scrive Cassirer, è «l’espressione di qualcosa di ‘spirituale’ mediante ‘segni’ e ‘immagini’ sensibili»; così, per esempio, un suono fisico diventa un suono linguistico, un segno fisico capace di esprimere un certo contenuto (per esempio, un sentimento o un pensiero). Il segno, però, non è semplicemente il mezzo con cui un contenuto viene comunicato, non è una sorta di involucro che racchiude un contenuto già formato; tra il segno e ciò che esso significa, il suo contenuto, c’è una stretta relazione: il contenuto può formarsi soltanto attraverso il segno e questo, a sua volta, non può esistere indipendentemente dal contenuto. Il simbolo, a partire dalla sua prima forma, il linguaggio, diventa per Cassirer un elemento centrale della relazione conoscitiva dell’uomo con il mondo: attraverso i simboli l’uomo dà senso e unità ai dati molteplici dell’esperienza sensibile. È nello sviluppo di questa indagine che la filosofia di Cassirer si distacca e si differenzia rispetto al neokantismo della scuola di Marburgo, che riduce l’indagine filosofica a teoria della conoscenza scientifica, assumendo una configurazione autonoma e originale, come rivela la sua opera più importante, la Filosofia delle forme simboliche. La fisica ha avuto già con Galileo i primi tratti di teoria «simbolica» e non più del «rispecchiamento», ma il punto d’arrivo e di svolta di questa nuova concezione della scienza si ha per Cassirer con il fisico Heinrich Hertz (1857-1894) e con i suoi Principi della meccanica (1894). Il fatto è estremamente significativo perché vuol dire che è stato uno scienziato a fornire non solo una nuova teoria scientifica, ma anche una nuova concezione della scienza. Il pensiero fisico produce costruzioni simboliche che devono essere compatibili, come costruzioni, con l’osservazione empirica, ma non pretendono di rispecchiare la natura. 243
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
T2
La fisica come teoria simbolica E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3,1, Introduzione
Merita di essere indicato come degno di rilievo il fatto che lo stesso pensatore, il quale dal punto di vista del semplice contenuto ha reso possibile con le sue scoperte la nuova «concezione elettrodinamica del mondo», sia diventato l’autore di una «rivoluzione del modo di pensare» nel campo della teoria della fisica. Heinrich Hertz è stato quello studioso moderno che nei suoi Principi della meccanica (1894) ha, per la prima volta e nel modo più decisivo, fatto passare la fisica dalla «teoria del rispecchiamento» a una pura «teoria simbolica». I concetti fondamentali della scienza della natura appaiono ora non più come copie e imitazioni di qualcosa di oggettivamente dato, ma vengono introdotti come piani costruttivi del pensiero fisico, come piani il cui valore e significato teoretico è legato alla sola condizione che le loro conseguenze logicamente necessarie corrispondano sempre a ciò che è osservabile nell’esperienza […]. In questo senso l’intero mondo dei concetti della fisica può esser definito – come fece Helmholtz nella sua teoria gnoseologica [teoria della conoscenza] – un mondo di puri «simboli».
Nello sviluppare questo tema Cassirer estende la propria indagine ben al di là del suo punto di partenza costituito dalla riflessione sulla conoscenza scientifica. Oltre ad essa, infatti, ci sono altri modi di costruire la realtà attraverso i simboli, ossia altre «forme simboliche»: una «forma» è l’attività mentale che produce una certa configurazione della realtà; questa attività è simbolica perché, come si è detto, si serve di simboli. Dall’indagine sulla scienza la filosofia di Cassirer arriva così a occuparsi anche del mondo del mito, della religione e dell’arte. Con Cassirer la filosofia diviene, cioè, una «critica della cultura», ossia delle diverse espressioni della vita spirituale degli esseri umani. L’uomo è innanzitutto un animale simbolico, diverso dagli altri per la sua capacità di costituire mediante simboli la realtà; e il simbolo non è il modo in cui la realtà si rivela, ma il segno essenziale del carattere kantianamente attivo del pensiero. Le forme simboliche Cassirer individua allora tre forme di produzione simbolica: il linguaggio, il mito (che riguarda il pensiero mitico e religioso) e la conoscenza, che presentano al loro interno diverse fasi di sviluppo. La conoscenza è la forma simbolica studiata da Cassirer in modo più approfondito. La forma più avanzata di conoscenza, quella significativa, è data dalle strutture matematiche che presentano la forma più alta di astrazione. Alla conoscenza significativa corrispondono le più importanti scoperte recenti della fisica, cioè la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Come gli altri esponenti della scuola di Marburgo, dunque, anche Cassirer pone il problema della conoscenza al centro dell’indagine filosofica, ma non riduce la filosofia a riflessione critica sulla conoscenza scientifica: la scienza non è che una delle attività attraverso le quali l’uomo costituisce e dà forma alla realtà.
L’uomo è un animale simbolico
La conoscenza nella tradizione e in Cassirer
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Conoscenza della realtà
La conoscenza è rispecchiamento della realtà
La conoscenza è costruzione della realtà attraverso simboli
Concezione fondata sulla nozione di sostanza
Concezione fondata sulla nozione di funzione
L’uomo è passivo nel processo della conoscenza
L’uomo è attivo nel processo della conoscenza
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
6 Filosofia come scienza critica dei valori
La scuola del Baden Sulla scia del maestro Lotze, che aveva importato, prima di Nietzsche, il termine «valore» dal linguaggio dell’economia in quello della filosofia, Wilhelm Windelband interpreta la filosofia trascendentale di Kant proprio alla luce del «valore» e della «validità»: la filosofia non è, come nella scuola di Marburgo, prevalentemente teoria della scienza e della conoscenza, con un ruolo privilegiato della conoscenza scientifica, ma piuttosto scienza critica dei valori universalmente validi come sono regolati da una coscienza normativa ideale e oggettiva che costituisce il punto di riferimento oggettivo di tutte le valutazioni; essa non è la coscienza (condizionata da fattori empirici) dei singoli soggetti che esprimono giudizi, ma è la consapevolezza delle norme ideali che sono il fondamento di tali giudizi. Alle tre parti tradizionali della filosofia, infatti, la logica, l’etica e l’estetica, corrispondono i diversi valori a cui esse fanno riferimento, e cioè il vero, il bene e il bello.
La vita e le opere Wilhelm Windelband nacque a Potsdam nel 1848. Allievo di Kuno Fischer e di Hermann Lotze, fu uno tra i massimi storici ottocenteschi della filosofia e il fondatore della scuola del Baden. Tra il 1878 e il 1880 uscì la Storia della filosofia moderna; nel 1882 apparve il saggio Che cos’è la filosofia? Del 1884 è la sua opera maggiore, la raccolta di saggi e diVisione unitaria della filosofia
T3
Le regole del conoscere, del volere e del sentire
W. Windelband, Preludi
scorsi intitolata Preludi. Nel 1888 uscì la Storia della filosofia occidentale dell’antichità e, nel 1892, il Manuale di storia della filosofia. Nel 1894 Windelband tenne una conferenza su Storia e scienza della natura, in polemica con Wilhelm Dilthey. Dal 1903 insegnò all’università di Heidelberg. Nel 1904 apparve La libertà del volere. Nel 1914 uscì l’Introduzione alla metafisica. Windelband morì a Heidelberg nel 1915.
Con la sua impostazione, il neokantismo del Baden tende ad avere una prospettiva complessiva unitaria in cui le diverse parti della filosofia non hanno nessun rapporto di dipendenza dalla logica o dal sapere scientifico: l’intera filosofia è infatti una teoria generale dei valori, una filosofia dei valori. Essa ha il compito di ricercare i valori che stanno a fondamento della conoscenza (il valore della verità), della morale (il valore del bene) e dell’arte (il valore della bellezza) e di valutare i contenuti del pensiero, della volontà e del sentimento estetico alla luce dei rispettivi valori. E in una teoria generale delle diverse norme e dei valori nel loro complesso, non solo nel valore della verità teoretica, del pensiero, consiste l’eredità più importante della filosofia di Kant come dottrina dell’ideale dell’umanità. Kant ha stabilito come compito della filosofia quello di portare a conoscenza i «principi della ragione», vale a dire le norme assolute, e questa conoscenza, lungi dall’essere esaurita dalle regole del pensiero, trova la sua compiutezza soltanto nelle regole del volere e del sentire. Nella conoscenza delle supreme determinazioni di valore le norme della scienza sono solo una parte: accanto ad esse valgono, autonome e pienamente indipendenti, le norme della coscienza morale e del sentimento estetico […]. In questo senso l’idealismo kantiano non è solo idealismo teoretico, come dottrina secondo la quale ogni conoscenza consiste nella legalità normativa delle rappresentazioni, ma anche idealismo pratico: è la dottrina dell’ideale dell’umanità. In questo senso ha operato sui suoi grandi contemporanei, in questo senso continuerà a vivere: questo è lo «spirito» della filosofia kantiana. 245
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
È comprensibile che se il tentativo di Windelband e, poi, di Heinrich Rickert e di altri, è quello di costruire una teoria generale dei valori che includa tutte le discipline, si ponga il problema delle eventuali differenze tra discipline diverse, per esempio tra le scienze della natura e quelle che nel frattempo, in Inghilterra, John Stuart Mill chiama moral sciences, ovvero le discipline che si occupano del mondo umano, della società e della storia. Negli stessi anni in cui esce l’opera maggiore di Windelband, i Preludi (1884), Dilthey (vedi sotto, p. 249) inaugura la stagione storicistica tedesca e il dibattito sulle scienze storico-sociali con la sua Introduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey avanza la proposta di una distinzione tra scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) – ossia discipline che studiano il mondo dell’uomo e il suo sviluppo storico – che si contrappone alla tesi positivistica di John Stuart Mill in favore di una sostanziale omogeneità tra i due ambiti. Windelband: scienze Lo studio della realtà storica e spirituale dell’uomo si differenzia dallo studio delnomotetiche la natura, secondo Windelband, non sulla base del diverso oggetto (come crede e idiografiche Dilthey), ma sulla base dei diversi scopi conoscitivi che si vogliono raggiungere nelle due diverse forme di sapere. Mentre le scienze naturali sono vòlte alla ricerca di leggi generali, sono scienze nomotetiche (dalla parola greca nòmos, che significa «legge»), le scienze del mondo umano e storico-sociale, cioè le scienze dello spirito, vanno alla ricerca dell’individuale, dell’avvenimento, e sono quindi scienze idiografiche (dal greco ìdios, che significa «individuale, particolare»).
Distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito
Scienze della natura e scienze dello spirito
7 Scienze della cultura
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Differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito
Windelband
Dilthey
Differenza di scopi
Differenza di oggetti
Le scienze della natura ricercano leggi generali
Le scienze dello spirito ricercano gli eventi particolari
Scienze nomotetiche
Scienze idiografiche
Le scienze della natura studiano il mondo naturale
Le scienze dello spirito studiano il mondo umano
Rickert Heinrich Rickert è il principale artefice e rappresentante della filosofia dei valori che aveva ricevuto impulso da Lotze prima e da Windelband poi. E, tra l’altro, interviene nel dibattito sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, negando innanzitutto l’adeguatezza dell’espressione «scienze dello spirito» (poiché parlare di «spirito» significa ricadere nel lessico della metafisica e della psicologia): è più corretto, per Rickert, parlare di scienze della cultura.
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
La vita e le opere Heinrich Rickert nacque a Danzica nel 1863. Fu allievo di Wilhelm Windelband. Nel 1894 divenne professore all’università di Friburgo. Tra il 1896 e il 1902 apparve lo studio sui Limiti della formazione dei concetti nelle scienze naturali. Nel 1899 fu pubblicata l’opera Scienze della cultura e scienze della natura. Nel 1916 lasciò l’insegnamento a
Lo storico deve studiare i valori delle civiltà senza giudicarli
Oggettività dei valori ➥ Laboratorio sul lessico, Relativo, p. 881
➥ Sommario, p. 266
Friburgo e succedette a Windelband come docente all’università di Heidelberg e, in seguito, nella direzione della scuola del Baden. Nel 1920 uscì lo scritto polemico La filosofia della vita. Nel 1921 fu pubblicato il Sistema di filosofia e, nel 1934, i Problemi fondamentali della filosofia. Rickert morì a Heidelberg nel 1936. La raccolta di saggi Immediatezza e significato apparve postuma, nel 1939.
Nello studio sui Limiti della formazione dei concetti nelle scienze naturali Rickert sviluppa le indicazioni di Windelband e lega strettamente la conoscenza storica con il tema complessivo dei valori caro a lui e al suo maestro. Rickert condivide l’idea di Windelband che la distinzione tra scienze della natura e scienze della cultura non si fondi sull’oggetto, ma sui diversi metodi, indirizzandosi le prime alle leggi generali e le seconde all’evento singolo. Il metodo delle scienze della cultura consiste poi nel fare riferimento ai valori mostrando le relazioni al valore che caratterizzano, per esempio, una determinata civiltà. Il concetto di valore diventa quindi centrale anche su questo piano, pur se il lavoro dello storico è sì occuparsi di relazioni di valore, ma senza confondere la relazione al valore con il giudizio di valore. Lo studio del mondo umano e storico si occupa ampiamente dei valori delle diverse civiltà, ma ciò non significa pronunciare giudizi di valore, che non sono di pertinenza dello storico. Contro i rischi di relativismo che vede emergere in Dilthey, Rickert accentua il carattere oggettivo e assoluto dei valori, proponendo un vero e proprio sistema dei valori. A ciascuno di essi, affrontato dettagliatamente nel Sistema di filosofia, corrisponde un ambito disciplinare, sia sul piano della contemplazione (veritàlogica, bellezza-estetica, santità impersonale-mistica), sia sul piano pratico-sociale (moralità-etica, felicità-erotica, santità personale-filosofia della religione). Si tratta di quel sistema oggettivo dei valori che verrà attaccato direttamente da un grande pensatore che affronterà il tema del valore e che, in parte, sarà influenzato da Rickert, cioè Weber (vedi Unità 14, p. 583 s.). Rickert rifiuta invece – contro il contemporaneo diffondersi della cosiddetta filosofia della vita come esaltazione di una energia irrazionale o di una «volontà di potenza» – di considerare la vita un valore in sé. I valori appartengono alla sfera della cultura, e questa non si può identificare con la vita, ma è qualcosa che va al di là di essa. Dunque, Rickert concorda con Windelband nell’individuare la differenza tra le scienze della natura e le discipline che studiano il mondo umano storico e sociale nei metodi di indagine adottati e sottolinea l’importanza del riferimento ai valori per la comprensione delle varie civiltà. L’indagine storica deve rimanere neutrale rispetto ai valori che studia, ma ciò non implica che i valori siano relativi.
Rickert e il sistema dei valori
Sistema dei valori Sfera della contemplazione
Sfera pratico-sociale
Logica
Estetica
Mistica
Etica
Erotica
Filosofia della religione
Verità
Bellezza
Santità impersonale
Moralità
Felicità
Santità personale
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
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Lo storicismo tedesco I testi
W. Dilthey Introduzione alle scienze dello spirito: Il mondo spirituale come mondo della libertà, T4; L’importanza della esperienza interna, T5
1
Critica della filosofia idealistica della storia
Critica del positivismo
Estensione della critica kantiana alle scienze storico-sociali
248
I caratteri dello storicismo Il termine «storicismo» viene utilizzato già nella cultura romantica, ma la sua diffusione è legata alla cultura tedesca della seconda metà dell’Ottocento. Più che di una nozione o di una corrente univocamente definita, si tratta di una «famiglia di dottrine» che si sviluppa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che ha come tratto generale la considerazione storica del mondo umano e sociale. Questa caratterizzazione è però generica, e deve essere precisata e approfondita. Per chiarire cosa sia lo storicismo tedesco contemporaneo, che ha il suo maggiore rappresentante in Dilthey, è utile innanzitutto vedere in contrapposizione a quali correnti filosofiche dell’Ottocento esso sorga. Il primo obiettivo polemico è la filosofia della storia di matrice idealistica e in particolare hegeliana, cioè la visione metafisica della storia come realizzazione di uno spirito universale. In questo senso, lo storicismo tedesco si differenzia anche dallo storicismo di matrice idealistica che riemerge nella filosofia europea, pur con tutte le importanti differenze, con Benedetto Croce (vedi Unità 8, p. 318 ss.). Per lo storicismo tedesco la storia è l’opera degli uomini e dei loro rapporti, è una caratteristica dell’esistenza umana. Un secondo, importante obiettivo polemico è l’interpretazione positivistica della storia che viene ritenuta altrettanto metafisica, cioè la concezione della storia e delle discipline storico-sociali di Comte e di John Stuart Mill. In questa prospettiva, seppure accogliendo l’esigenza di ricerca empirica – ovvero svolta sui reali eventi storici – promossa dal positivismo, lo storicismo tedesco rifiuta l’assimilazione della ricerca storica, e in generale dell’indagine sul mondo umano e sociale, al modello delle scienze della natura. Esse costituiscono invece, per la mentalità positivistica, un modello metodologico che deve o dovrebbe essere «raggiunto» anche dalle altre discipline. Vediamo però anche le fonti di ispirazione dello storicismo. Un ruolo importante nel suo sviluppo è giocato dal neocriticismo, e comunque dal richiamo a Kant, non solo perché filosofi neokantiani come Windelband e Rickert intervengono nella discussione, ma anche perché la domanda fondamentale dello storicismo tedesco riguarda le condizioni di possibilità della conoscenza storica e delle discipline storico-sociali: l’intento è l’estensione della critica kantiana agli ambiti che Kant aveva lasciato sullo sfondo, per arrivare a una critica della ragione che non sia critica della ragione pura ma critica della ra-
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gione storica. Kant resta, quindi, un punto di riferimento fondamentale, ma l’oggetto dell’indagine non è più il soggetto trascendentale, la struttura conoscitiva pura dell’uomo in generale, bensì l’uomo storico. L’autonomia Un secondo punto di riferimento è costituito dal notevole sviluppo della ricerca della ricerca storica storica che si ha in Germania nel corso del XIX secolo. Prima Leopold von Ranke (1795-1886), poi Johann Gustav Droysen (1808-1884), con il suo Sommario di istorica (1858), si contrappongono alla filosofia della storia idealistica e alla cultura positivistica rivendicando la concretezza e l’autonomia della ricerca storica. Droysen sostiene che la conoscenza storica si distingue dalla conoscenza della natura poiché i fenomeni del mondo umano, storico e sociale, sono fenomeni con i quali abbiamo familiarità e che siamo in grado di comprendere (verstehen) proprio perché sono fenomeni umani, mentre possiamo dare soltanto una spiegazione (Erklärung) esterna del mondo della natura. Sono questi i tratti fondamentali che preannunciano i caratteri essenziali della distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito. Lo storicismo tedesco
2
Storicismo
Critica della filosofia idealistica della storia
Critica del positivismo
La storia non è la realizzazione di uno spirito universale, ma è un prodotto dell’uomo
L’indagine storico-sociale non è assimilabile al modello di indagine delle scienze naturali
Dilthey
La vita e le opere Wilhelm Dilthey nacque a Biebrich, in Renania, nel 1833, da una famiglia di religione calvinista. Fece studi di teologia, filosofia e storia presso l’università di Berlino, dove divenne docente di filosofia nel 1865. Nel 1867 ottenne una cattedra all’università di Basilea e l’anno seguente a Kiel. Fece poi un lungo viaggio in Italia, soprattutto per superare una grave forma di depressione. Nel 1870 apparve la biografia La vita di Schleiermacher. L’anno successivo divenne docente all’università di Breslavia. Nel 1882 fu nuovamente chiamato a insegnare all’uniLe scienze dello spirito e il loro oggetto
versità di Berlino, dove succedette a Hermann Lotze nella cattedra che questi aveva tenuto per un solo anno. Nel 1883 apparve la sua prima grande opera, Introduzione alle scienze dello spirito. Eletto membro dell’Accademia prussiana delle scienze, promosse gli studi di storia della filosofia e della cultura e, in particolare, l’edizione accademica delle opere di Kant. Nel 1894 fu pubblicata l’opera Idee per una psicologia descrittiva. Tra il 1905 e il 1906 apparve la sua seconda biografia, Storia della giovinezza di Hegel. Del 1907 è il saggio L’essenza della filosofia. Tre anni dopo, nel 1910, uscì La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito. Dilthey morì a Siusi (Bolzano) nel 1911.
Per «scienze dello spirito» Wilhelm Dilthey intende, come si è già accennato, l’insieme delle discipline che si occupano del mondo umano e del suo sviluppo storico. La distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito ha il suo punto di partenza nella distinzione dei rispettivi oggetti. 249
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Il mondo umano non coincide con la natura
T4
Il mondo spirituale come mondo della libertà
W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, 1,2
Della natura e del mondo umano abbiamo esperienze diverse
T5
L’importanza dell’esperienza interna
W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, 1,9
La psicologia come fondamento delle scienze dello spirito
250
In questo senso, Dilthey riprende, traducendola nel suo apparato teorico, la distinzione kantiana tra natura e libertà: il mondo spirituale, infatti, al contrario del mondo naturale che è dominato dalla necessità, è legato all’autocoscienza umana ed è caratterizzato dalla libertà. L’uomo è certo inserito anche nella natura, ma il mondo umano non si esaurisce in essa: laddove nella natura i mutamenti avvengono in modo meccanico, secondo leggi necessarie, e nulla si crea dal nulla, grazie alla propria volontà gli esseri umani sono in grado di produrre cambiamenti nel mondo e di progredire. Ancor prima di procedere a indagini sull’origine del mondo spirituale, l’uomo trova in questa autocoscienza una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni, una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto nella libertà della sua persona, mediante cui si distingue da tutta la natura. Egli si ritrova infatti, in questa natura – per impiegare un’espressione spinoziana – come un imperium in imperio. E poiché per lui esiste solamente ciò che è fatto della sua coscienza, ogni valore e ogni scopo della vita risiede in questo mondo spirituale che agisce in lui in maniera autonoma, e ogni fine delle sue azioni risiede nella costruzione di fatti spirituali. Così egli distingue dal regno della natura un regno della storia, nel quale – in mezzo alla connessione di una necessità oggettiva, che costituisce la natura – la libertà emerge in innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico dei mutamenti naturali, il quale contiene già dall’inizio tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro sacrifici, del cui significato l’individuo è consapevole nella propria esperienza; essi suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia nell’umanità. Ma scienze della natura e scienze dello spirito si distinguono anche per una diversa esperienza che caratterizza la nostra relazione con essi. Dilthey riprende i suggerimenti di Droysen, e mostra il diverso rapporto che abbiamo con la natura e con il mondo umano, sociale e storico. L’esperienza che noi facciamo della natura è infatti un’esperienza esterna, mediata dalle ipotesi e dalle verifiche sperimentali (Erfahrung), mentre per quanto riguarda il mondo umano abbiamo un’esperienza interna, vissuta (lo Erlebnis), che ci mette in un rapporto diretto con il fenomeno del mondo umano perché siamo in grado di riprodurlo con la nostra introspezione psicologica. I fatti della società ci sono comprensibili dall’interno, possiamo riprodurli fino a un certo punto in noi sulla base dell’osservazione dei nostri propri stati, e accompagniamo intuitivamente la rappresentazione del mondo storico con l’amore e l’odio, con tutto il gioco dei nostri affetti. Invece la natura è per noi muta. Soltanto la forza della nostra immaginazione diffonde su di essa un barlume di vita e di interiorità […] la natura ci è straniera. Infatti essa è per noi soltanto qualcosa di esterno, non di interno. La società è il nostro mondo. Grazie alla centralità dell’esperienza interna e dell’introspezione, un ruolo fondativo per le scienze dello spirito viene quindi assunto per Dilthey dalla psicologia, anche se si tratta di una psicologia «descrittiva» ben diversa dalla psicologia sperimentale che andava nascendo in Germania negli stessi anni e che ha come modello la scienza sperimentale della natura (vedi Unità 3, p. 121).
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
La psicologia diltheyana va nella direzione contraria: si tratta piuttosto di un’analisi filosofica della struttura psichica. Ancora una volta sulla scia di Droysen, infatti, Dilthey fa una distinzione tra l’atteggiamento verso le scienze della natura e verso le scienze dello spirito riprendendo quella tra lo spiegare e l’intendere o il comprendere: noi spieghiamo la natura attraverso leggi causali, mentre comprendiamo la vita psichica attraverso la riproduzione di essa in noi stessi. Natura e mondo umano nel pensiero di Dilthey
L’individuo è al centro della storia
Interpretazione dei segni esterni dell’interiorità
Storicità del mondo umano e relatività dei valori
Mondo naturale
Mondo umano
È dominato dalla necessità
È caratterizzato dalla libertà
Abbiamo di esso un’esperienza esterna, perché non possiamo riprodurlo
Abbiamo di esso un’esperienza interna, perché possiamo riprodurlo attraverso l’introspezione
Possiamo spiegarlo, ma non comprenderlo
Possiamo comprenderlo
L’indagine sulla struttura del mondo umano distingue l’individuo dai sistemi di cultura, come arte, religione e filosofia, e dalle forme di organizzazione sociale come i gruppi sociali, la società, la Chiesa e lo Stato. L’individuo resta l’elemento fondamentale della storia umana, e di esso si occupano la psicologia, l’antropologia e, tema estremamente significativo per Dilthey, la biografia: Dilthey stesso, infatti, è l’autore di due biografie di grandi personaggi della storia della filosofia, Schleiermacher (con La vita di Schleiermacher) e Hegel (Storia della giovinezza di Hegel). Anche sulla base delle critiche ricevute, tra gli altri, da Windelband, Dilthey nel corso del tempo attenua il carattere fondativo e centrale della psicologia, sviluppando piuttosto l’importanza della comprensione dei prodotti della vita psichica, come il linguaggio, l’arte e la letteratura, che costituiscono formazioni costanti e durevoli e possono essere oggetto dell’indagine storica. La comprensione e l’interpretazione finiscono per assumere una sempre maggiore importanza rispetto allo Erlebnis, all’esperienza vissuta come riproduzione dell’esperienza interiore. Richiamando Schleiermacher, Dilthey sviluppa la sua riflessione nella direzione di una scienza dell’interpretazione o ermeneutica delle opere umane che consiste nella conoscenza della struttura psichica attraverso i segni che la manifestano, in particolare attraverso i documenti scritti: è in questi ultimi, infatti, che l’interiorità dell’uomo è resa accessibile e comunicabile. La specificità delle scienze dello spirito consiste nell’indagine su «segni» esterni che, al contrario di quanto avviene nelle scienze della natura, sono in rapporto con qualcosa di interiore. Coerentemente con la sua polemica verso la filosofia della storia, Dilthey rifiuta la possibilità di conoscere il complesso della realtà storica e sociale, e in particolare rifiuta la possibilità di conoscere un significato della storia: questo è stato piuttosto il tentativo delle diverse versioni della filosofia della storia, che in ciò è l’erede della teologia poiché proietta sulla storia le proprie teorie metafisiche. La concretezza della propria impostazione viene invece rivendicata da Dilthey mediante il legame tra la storia e la vita: la storia, infatti, è l’oggettivazione della vita, e la conoscenza delle scienze dello spirito è sempre riconducibile alla vita di 251
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
una determinata epoca storica, che esprime i propri valori e i propri ideali. In questa radicale storicità del mondo umano non c’è spazio per valori assoluti, ma solo per valori storici: lo storicismo di Dilthey è quindi uno storicismo relativistico. Filosofie come Questo relativismo coinvolge anche la filosofia, come viene mostrato da Dilthey «intuizioni del mondo» nel saggio L’essenza della filosofia (1907). Le filosofie che storicamente si succedono l’una dopo l’altra esprimono ciascuna diverse intuizioni del mondo (Weltanschauungen), né si può dare alcuna «validità universale di qualsiasi filosofia» che pretenda di sottrarsi alla storicità del mondo umano e delle sue produzioni. Il rifiuto di ogni forma di astrazione è un elemento costante dello storicismo di Dilthey, come costante è il rilievo dato alla dimensione dell’interiorità: possiamo comprendere il mondo umano, ma non la natura, perché solo il primo è un oggetto possibile di esperienza interna attraverso l’introspezione. Di qui l’importanza che Dilthey attribuisce dapprima all’analisi della psiche e, successivamente, all’interpretazione dei segni che l’interiorità dell’uomo lascia di sé nel mondo. La conoscenza delle scienze dello spirito non è astratta, ma legata alle diverse epoche storiche, ciascuna delle quali ha i propri valori.
3
La vita come principio metafisico
I due principi della filosofia di Simmel
Conflitto tra vita e forme della cultura
252
Simmel e la filosofia della vita La riflessione storicistica di Dilthey verrà proseguita da Ernst Troeltsch (18651923) e da Friedrich Meinecke (1862-1954), autore, quest’ultimo, di un’opera su La nascita dello storicismo (1936) che vede la nascita dello storicismo, in un senso molto ampio, nella crisi del giusnaturalismo moderno e nella filosofia di Herder e di Goethe, attenti entrambi alla dimensione dell’individualità degli eventi storici. All’inizio del Novecento ha una grande diffusione in Germania una corrente filosofica che mette al centro dell’indagine la nozione di «vita» come forma fondamentale di energia che costituisce la realtà, ossia come principio metafisico. Se una fonte di ispirazione è la filosofia di Dilthey, è soprattutto a Nietzsche che bisogna guardare per trovare il maggiore ispiratore della cosiddetta «filosofia della vita», il cui rappresentante più significativo è Georg Simmel (1858-1918) (che è anche tra i fondatori della sociologia in Germania). Simmel muove dall’adesione al positivismo evoluzionistico per passare poi a posizioni vicine a Rickert e a Dilthey, ma nell’ultima fase della sua produzione intellettuale (L’evoluzione della vita, 1918) elabora una vera e propria filosofia della vita fondata sul principio che «la vita vuole sempre più vita» e su quello per cui «la vita è sempre più che vita»: il primo è il principio per cui la vita crea continuamente forme di cultura concrete e particolari e continuamente le trascende creandone di nuove; il secondo è il principio per cui ciascuna di queste forme tende a fissarsi in strutture permanenti opponendosi, così, al fluire della vita stessa. Le modificazioni storiche sono per Simmel date dal rapporto problematico che sussiste tra la vita e le forme della cultura che storicamente si realizzano, poiché, lo si è appena detto, la vita tende continuamente al superamento di quelle forme storiche alle quali essa stessa nel suo perenne rinnovarsi ha dato luogo. In questo contrasto tra la vita come principio metafisico e le forme della cultura consiste anche la «tragedia della cultura», ovvero l’inevitabile sconfitta alla quale le forme della cultura sono condannate nel loro tentativo di conservarsi e nel loro conflitto con la vita.
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
Spengler
La civilizzazione è il tramonto della cultura
➥ Sommario, p. 266
Si deve infine ricordare che una certo eco ha avuto, nella filosofia successiva, anche la riflessione simmeliana sulla morte come forma della vita perché è proprio la morte ciò che caratterizza e identifica l’individualità concreta: solo ciò che è individuale, e quindi unico, può perire. Una modesta espressione della filosofia della vita può essere considerata anche la riflessione – per alcuni suggestiva – di Oswald Spengler (1880-1936), autore di un libro di enorme successo intitolato Il tramonto dell’occidente, apparso tra il 1918 e il 1922. Sotto l’evidente influsso della crisi indotta dal primo conflitto mondiale, Spengler vede nella storia il mondo della vita che crea continuamente nuove forme e nel quale ogni cultura (Kultur, l’elemento basilare della storia), analogamente agli organismi, nasce, si sviluppa e muore secondo un ritmo immutabile. Per ciascuna cultura lo stadio più avanzato è quello della civilizzazione (Zivilisation), che segna anche però il tramonto della medesima cultura, ciò che, per Spengler, è quello che sta accadendo in Occidente, come dimostra l’emergere degli ideali della democrazia e del socialismo – rifiutati da Spengler – e la crisi della religione, l’elemento essenziale di ogni civiltà.
Bergson
4 I testi
H. Bergson Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903: Dalla fisica alla psicologia, T6 Saggio sui dati immediati della coscienza: L’orologio e la durata, T7; La libertà, T8
1 Introspezione come mezzo per conoscere la realtà
Introduzione alla metafisica: Lo spirito ha bisogno di stabilità, T9 Le due fonti della morale e della religione: Morale chiusa e morale assoluta, T10
Lo spiritualismo francese dell’Ottocento In polemica verso il diffondersi della cultura positivistica, nella filosofia francese dell’Ottocento è ben presente un filone spiritualistico che ha tra i suoi tratti caratterizzanti proprio un atteggiamento critico verso il primato delle scienze matematiche e naturali. Con qualche analogia con la riflessione che si va sviluppando anche in Germania, al centro dell’orizzonte lo spiritualismo vede la psicologia, intesa però anche in questo caso non come la disciplina sperimentale modellata sulle scienze della natura, bensì come uso dell’introspezione in quanto strumento privilegiato per 253
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
sondare la coscienza e l’interiorità dell’uomo e per accedere in questo modo alla comprensione della realtà. Lo studio dell’interiorità e dello spirito dell’uomo diventano infatti, in questa prospettiva, il mezzo migliore per accedere alla conoscenza della realtà nel suo complesso. I processi spirituali visti attraverso un’attenzione specifica per la coscienza dell’uomo sono l’oggetto centrale del pensiero di François-Pierre Maine de Biran (1766-1824) e, successivamente, di Felix Ravaisson (1813-1900). Limiti delle scienze I filosofi spiritualisti affermano il carattere limitato del sapere scientifico e la sua naturali incapacità di cogliere l’essenza genuina dei processi spirituali, contestando dunque qualunque ruolo di guida per la scienza naturale. La loro attitudine nei confronti della scienza è un’attitudine polemica che non si preoccupa di investigare la natura delle teorie scientifiche, ma rimane, nella gran parte dei casi, completamente esterna ad esse. Boutroux Una prima eccezione in questo senso è costituita da Émile Boutroux (1845-1921) che, mantenendo un atteggiamento polemico verso il sapere scientifico, ne analizza alcune tesi attaccando il determinismo della fisica (ossia l’assunzione che tra tutti i fenomeni ci sia un rapporto necessario di causa ed effetto) e contrapponendo ad esso la difesa della specificità del mondo dello spirito, che inserisce nell’ordine necessario della natura la libertà dell’uomo. Ma il pensatore veramente significativo che rappresenta l’esito di questa tradizione è Henri Bergson.
La vita e le opere Henri-Louis Bergson nacque a Parigi nel 1859 da una famiglia di religione ebraica e di origine polacca. Dopo aver concluso gli studi liceali, nel 1878 si iscrisse alla École normale supérieure e si laureò in lettere e matematica. Nel 1881 iniziò a insegnare nei licei, prima ad Angers e, in seguito, a Clermond-Ferrand; nel 1888 si trasferì a Parigi. Nel 1889 fu pubblicata la sua prima grande opera, il Saggio sui dati immediati della coscienza, che aveva presentato alla Sorbona come tesi per conseguire il dottorato in lettere. Due anni dopo sposò Louise Neuburger, una cugina di Marcel Proust. Nel 1896 uscì Materia e memoria. Nel 1900 divenne docente di filosofia greca al Collège de France; il suo insegnamento ebbe un notevole successo, ma l’ostilità dell’ambiente accademico tradizionale gli impedì di accedere alla Sorbona. Nel 1901 apparve il saggio Il riso. Nel 1903 uscì l’Introduzione alla metafisica; ad essa seguì, nel 1907, L’evoluzione creatrice, che ebbe una larga diffusione e dette a Bergson una considerevole fama internazionale. Nel 1911 uscì L’intuizione filosofica. Tre anni dopo, nel
2 Il confronto con la scienza
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1914, Bergson venne eletto presidente dell’Académie des sciences morales et politiques e fu nominato membro dell’Académie française. Contemporaneamente, le sue opere furono messe all’Indice dalla Chiesa cattolica. Nel 1919 fu pubblicata la raccolta di saggi L’energia spirituale; ad essa seguì, nel 1922, un altro volume di saggi, Durata e simultaneità, sulla teoria della relatività speciale di Einstein. Nel 1928 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura; due anni dopo fu nominato Gran Croce della Legion d’onore. Pur essendo costretto dall’aggravarsi delle condizioni fisiche a rinunciare a molti dei suoi incarichi, nel 1932 Bergson pubblicò Le due fonti della morale e della religione e, nel 1934, Il pensiero e il movente. Negli ultimi anni della sua vita si avvicinò al cattolicesimo; evitò tuttavia una conversione ufficiale per il timore, espresso nel suo testamento spirituale, che il proprio prestigio potesse avallare l’antisemitismo che si andava diffondendo in Europa. Poco prima della morte rifiutò l’esonero, concessogli dalle autorità naziste, dal presentarsi agli uffici di polizia per essere schedato. Morì a Parigi nel 1941.
Tra scienza e metafisica L’itinerario filosofico di Henri Bergson è intessuto di un costante confronto con la scienza e di un profondo interesse per il problema di un metodo rigoroso in filosofia, come testimonia anche l’attenzione che pone alla redazione e alla pubblicazione dei suoi non molti scritti, insieme con la preoccupazione che qualcu-
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
Oggettività della filosofia
La filosofia come scienza
Un nuovo modello di scienza: la biologia
L’essere è divenire
Ambivalenza nei confronti del pensiero scientifico
La dimensione della temporalità
no pubblicasse dopo la sua morte testi inediti non pienamente compiuti anche dal punto di vista della costruzione formale. La filosofia ha per Bergson una metodologia determinata e deve fondarsi sull’esperienza, tanto esterna quanto interiore. Essa è una sorta, come dirà una volta, di «vero» empirismo: la filosofia, per questo, è in grado di giungere a un grado di oggettività paragonabile a quello delle scienze, e deve sempre rifuggire dal presentare la semplice opinione personale dell’autore. Come le ipotesi scientifiche per lo scienziato non sono semplici supposizioni, così la filosofia non è un percorso legato alle esperienze personali di un soggetto, al contrario: la filosofia è scienza. In questo la posizione di Bergson non si distanzia da quella di Cartesio; la differenza consiste nella diversa idea di che cosa significhi «scienza», e di quali siano le scienze utilizzate come modello. Per Cartesio si trattava della matematica: è l’evidenza di tipo matematico che costituisce il criterio della verità della conoscenza, così nella scienza come nella metafisica. Bergson è consapevole di quanto la filosofia cartesiana sia stata condizionata da questa immagine della scienza, né ritiene che questa prospettiva sia criticabile in quanto tale: la matematica costituisce il modello del sapere scientifico fino all’inizio dell’Ottocento. Ma questo secolo vede lo sviluppo di scienze del tutto nuove che sono le scienze biologiche, ovvero le scienze della vita. In questo senso, si è scritto che con la filosofia di Bergson si ha la fine dell’era cartesiana. Una grande attrattiva viene esercitata su Bergson dalla filosofia di Spencer (vedi Unità 3, p. 114 ss.) proprio per il suo stretto rapporto con la maggiore novità delle scienze biologiche del XIX secolo: l’evoluzionismo. Inizialmente Spencer sembra a Bergson rappresentare nel modo più adeguato il nuovo stato delle scienze e la nuova importanza delle scienze biologiche. Spencer sembra infatti aver capito che la natura più profonda della realtà è l’identità nel cambiamento, il divenire come caratteristica essenziale. L’immagine della tradizione filosofica fin dai greci, per cui si tratta di cogliere l’unità immutabile dell’essere al di là di una – soltanto apparente – mutevolezza, va radicalmente rovesciata: si deve rinunciare al pregiudizio dell’essere immobile e atemporale per cogliere invece la continuità del mutamento come tratto essenziale dell’essere. La stessa idea dell’evoluzione presuppone una dimensione temporale continua, priva di fratture: la biologia insegna che l’essere è soprattutto divenire. Ma è proprio in questa ricerca che Spencer non ha saputo spingersi abbastanza avanti ed è rimasto irretito in una dimensione ancora dominata dalle scienze fisico-matematiche. Il confronto di Bergson con il pensiero scientifico è quindi in sostanza ambivalente: da un lato, egli critica le scienze fisico-matematiche come modello di sapere scientifico; dall’altro, utilizza ampiamente il modello della vita biologica che proprio il suo obiettivo polemico privilegiato, il positivismo, aveva messo al centro dell’attenzione con l’adesione alle tesi evoluzionistiche. Mentre le scienze fisico-matematiche sono costruite su una base quantitativa, proprio per la loro dipendenza dalla matematica, le scienze biologiche danno il modo di conservare importanza agli aspetti qualitativi, non matematicamente misurabili dell’esperienza. Il tentativo di separare la riflessione filosofica dai modelli fisico-matematici, che ha al suo centro la temporalità, e la consapevolezza dell’insufficienza di essi nello spiegarla conducono Bergson a dare uno spazio centrale alla psicologia e a co255
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
struire, sulla base di questa, una filosofia della natura e una metafisica a suo parere innovativa rispetto alla tradizione proprio perché, utilizzando l’indagine sulla psiche umana, estende questo modello alla realtà e riesce a dare conto del suo costante divenire. Una critica Sia su questo piano sia sul piano delle teorie morali e della religione, il risultadel razionalismo to di questa operazione è una critica del razionalismo «intellettualistico» della «intellettualistico» tradizione occidentale e la proposta di andare al di là esso. Bergson ritiene però, in questo modo, di essere rimasto fedele al suo intento metodologico di spiegare l’esperienza.
3
Il tempo e la durata
Per comprendere la natura del tempo occorre l’introspezione
Nel 1903, spiegando la genesi del suo primo libro, Il saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson ricorda in una lettera allo scrittore italiano Giovanni Papini (1881-1956) come sia stato indotto all’interesse per la psicologia dallo studio delle teorie scientifiche. Il suo interesse originario era piuttosto lo studio della scienza, ma la fondamentale idea della durata, che costituisce la caratteristica essenziale della temporalità intesa come continuum (come flusso continuo di istanti che si compenetrano l’uno nell’altro), risulta completamente assente dall’indagine fisico-matematica. In questo senso, le discipline fisico-matematiche si rivelano del tutto insufficienti (poiché considerano il tempo un insieme di istanti separati l’uno dall’altro) e spingono a cercare altrove, cioè nella introspezione della coscienza, la risposta sulla natura del tempo.
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In realtà, la metafisica ed anche la psicologia mi attraevano molto meno delle ricerche relative alla teoria delle scienze, soprattutto alla teoria delle matematiche. Mi ero proposto, per la mia tesi di dottorato, di studiare i concetti fondamentali della meccanica. È così che fui indotto ad occuparmi dell’idea di tempo. Mi accorsi, non senza sorpresa, che in meccanica e in fisica non si tratta mai della durata propriamente detta, e che il «tempo» di cui si tratta è tutt’altra cosa. Mi chiesi allora dove fosse la durata reale, e in che cosa potesse consistere, e perché la nostra matematica non avesse presa su di essa. È così che fui gradualmente condotto dal punto di vista matematico e meccanicistico, in cui mi ero dapprima posto, al punto di vista psicologico. Da queste riflessioni è nato il Saggio sui dati immediati della coscienza, in cui ho cercato di praticare un’introspezione assolutamente diretta e di cogliere la pura durata.
Dalla fisica alla psicologia H. Bergson, Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903
Questa rievocazione da parte di Bergson del proprio esordio pubblico si trova anche altrove: il punto di partenza della sua indagine è la scienza, non la psicologia, ma egli viene spinto verso la psicologia dalle insufficienze delle possibilità di spiegazione della scienza fisico-matematica. È quindi la presa di coscienza di questa insufficienza che spinge Bergson alla ricerca psicologica e poi, attraverso la trasfigurazione dell’evoluzionismo, a una metafisica dai tratti peculiari. Tempo vissuto Per individuare la durata e chiarirne la nozione, l’unico mezzo è l’introspezione, e tempo misurabile è la riconquista della coscienza da parte di se stessa, mettendo da parte i propri pregiudizi, a partire da quelli che provengono dalla cultura scientifica, ma non 256
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Caratteri delle due concezioni del tempo
C’è durata se c’è una coscienza
solo: anche il senso comune soggiace a queste illusioni e ha gli stessi pregiudizi. Così si riesce a chiarire che l’unico modo per individuare la durata è fare riferimento al tempo vissuto della coscienza (ossia al tempo reale), che è diverso dal tempo della scienza, dal tempo dell’astronomia che si esaurisce in un’analisi matematica, quantitativa. Nella prospettiva della scienza e del senso comune il tempo è fatto di istanti distinti tra loro. Esso è, inoltre, reversibile, perché è possibile ripetere indefinitamente un esperimento scientifico. La reale natura del tempo consiste invece nella durata e nella continuità, non nel tempo misurabile di un orologio o di un pendolo che consiste nel contare diverse simultaneità. I diversi momenti sono separabili solo arbitrariamente. E il tempo della coscienza non è reversibile: ogni momento è diverso dall’altro ed è irripetibile. La successione come durata si dà soltanto all’interno della coscienza, non nei singoli istanti separati, per così dire estranei l’uno all’altro, scanditi dalla posizione delle lancette dell’orologio: ciascuna posizione è soltanto presente, e in essa non vi è né un passato né un futuro. La durata sta soltanto nell’io che pensa la successione, che la rappresenta come un flusso continuo all’interno della propria coscienza, dove è unicamente possibile cogliere la durata. La durata è infatti un insieme di istanti compenetrati l’uno nell’altro; può esserci durata solo se c’è una coscienza che collega tra loro i singoli istanti.
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Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento della lancetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, non misuro la durata, come potrebbe sembrare; mi limito invece a contare delle simultaneità, cosa molto diversa. Al di fuori di me, nello spazio, vi è un’unica posizione della lancetta e del pendolo, in quanto non resta nulla delle posizioni passate. Dentro di me, si svolge un processo di organizzazione o di mutua compenetrazione dei fatti di coscienza, che costituisce la vera durata. Mi rappresento ciò che io chiamo le oscillazioni passate del pendolo, nello stesso tempo in cui io percepisco l’oscillazione attuale, proprio perché io duro in questo modo. Sopprimiamo ora, per un istante, l’io che pensa queste cosiddette oscillazioni successive; avremo sempre una sola oscillazione del pendolo, anzi una sola posizione di questo pendolo, e quindi nessuna durata. Sopprimiamo, d’altra parte, il pendolo e le sue oscillazioni; avremo solo la durata eterogenea dell’io, senza momenti esterni gli uni agli altri, senza rapporti con il numero. Così, nel nostro io, vi è successione senza esteriorità reciproca; al di fuori dell’io, esteriorità reciproca senza successione: esteriorità reciproca, in quanto l’oscillazione presente è radicalmente distinta dalla oscillazione precedente che non è più; ma assenza di successione, in quanto la successione esiste solo per uno spettatore cosciente che ricordi il passato e giustapponga le due oscillazioni e i loro simboli in uno spazio ausiliario.
L’equivoco sulla natura del tempo
Il problema è allora spiegare in base a quale fraintendimento la scienza e la percezione comune hanno inteso il tempo come un fenomeno quantitativo e discreto – cioè scomponibile in parti distinte e misurabili – invece che come durata. Questo equivoco è per Bergson un equivoco antico che si fonda sulla scomposizione del tempo in istanti separati come se fossero diversi fotogrammi di una pellicola cinematografica, ovvero come diversi elementi nello spazio. Nella scienza fisica e nel pensiero comune il tempo viene infatti immaginato e pensato in analogia allo spazio. Se il tempo viene pensato in questo modo, il risultato è che es-
L’orologio e la durata
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so risulta un insieme omogeneo, discreto e misurabile come lo spazio, che appunto è omogeneo: ma questo è un errore, perché la natura del tempo consiste nella sua eterogeneità non misurabile e nella durata come continuità. Il tempo come durata è un flusso continuo in cui i diversi istanti si compenetrano, non la somma dei singoli istanti. Due modi di concepire il tempo
Tempo
Somma di istanti
Successione come durata
Tempo della scienza e del senso comune
Tempo della coscienza
– Omogeneo – Scomponibile in istanti separati l’uno dall’altro – Misurabile – Reversibile
I concetti sono inadeguati per comprendere la coscienza
La coscienza sfugge al principio di causalità
Una nuova concezione della libertà
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– – – –
Eterogeneo Non scomponibile in singoli istanti Non misurabile Irreversibile
L’analisi di Bergson finisce per colpire tutto il linguaggio «concettuale» mettendone in luce i limiti: il linguaggio della scienza e in generale il linguaggio dei concetti si fonda infatti sulla distinzione, e mentre questa è possibile e facile nel caso dello spazio e della matematica non è per nulla agevole quando si affrontano i fenomeni della coscienza, che non sono riducibili a un modello quantitativo. La coscienza non può quindi essere compresa adeguatamente attraverso i concetti, e l’analisi della coscienza ha bisogno di una considerazione particolarmente attenta, che non si fondi sulla concatenazione dei concetti ma su una intuizione, un tema che Bergson svilupperà negli anni successivi al saggio del 1889. L’intuizione ci permette di cogliere direttamente le cose, al contrario dell’analisi concettuale, che rimane esterna ad esse. La differenza tra intuizione e analisi mediante concetti è analoga a quella che c’è tra la conoscenza che si ha di una città vivendoci e la conoscenza che possiamo averne osservando le fotografie che la ritraggono. Estrapolare la riflessione sulla coscienza dalle scienze fisiche significa per Bergson non sottoporla ai concetti della scienza, ivi incluso il fondamentale principio della causalità: il dinamismo della coscienza che consiste nella durata la sottrae alla causalità meccanica per cui a una causa segue sempre un effetto. È questa la tesi del determinismo, che vorrebbe inserire la coscienza, e quindi la volontà e il comportamento umano, all’interno della serie infinita delle cause e degli effetti. Ciò significa però mettere in pericolo, e forse negare, la possibilità stessa di parlare di una libertà dell’uomo. Anche in questo caso, l’errore sta nei presupposti di questo ragionamento, così come è un errore pensare la libertà semplicemente come libertà di scelta tra diverse alternative. Sulla base della sua analisi della coscienza, Bergson intende invece dare una nuova impostazione al problema della libertà. La relazione tra il soggetto che compie liberamente un atto e l’atto stesso non corrisponde a un rapporto causa-
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➥ Laboratorio sul lessico, Libertà, p. 341
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La libertà
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Io profondo e io superficiale
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le: in realtà, l’azione libera è quella che esprime tutto l’essere del soggetto che compie l’azione, e la libertà consiste proprio nel rapporto «tra l’io concreto e l’atto che compie». L’idea della libertà non è traducibile nel linguaggio della causalità meccanica. L’atto libero è quello che proviene dalla nostra intera personalità, quello cioè in cui essa si realizza, sulla base di un complesso dinamismo psichico. Tra la personalità, ossia il carattere, e gli atti liberi non c’è un rapporto causale: gli atti liberi non sono l’effetto del carattere dell’individuo che li compie, ma ne sono l’espressione. […] in tutti i momenti della deliberazione l’io si modifica, modificando pure, di conseguenza, i […] sentimenti che lo agitano. Si forma così una serie dinamica di stati che si compenetrano, si rinforzano gli uni con gli altri, e che, attraverso una evoluzione naturale, perverranno a un atto libero. […] In breve, siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra intera personalità, quando la esprimono, quando con essa hanno quell’indefinibile somiglianza che talvolta si riscontra tra l’opera e l’artista. Sarà inutile dire che allora noi cediamo all’influenza onnipotente del nostro carattere. Perché il nostro carattere siamo ancora noi. L’atto libero è quindi un atto in cui trova espressione la nostra intera personalità. Bergson è però consapevole che ciò avviene solo quando ad agire è il nostro io profondo, la nostra genuina interiorità (ossia la compenetrazione e organizzazione delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti che abbiamo): molti nostri atti vengono determinati dal nostro io superficiale, legato e condizionato dalle convenzioni sociali e dall’educazione ricevuta.
Percezione e memoria
La coscienza è un tema centrale della filosofia di Bergson ed è allo stesso tempo ciò rispetto al quale abbiamo un accesso privilegiato di conoscenza: è lo spirito, e non il corpo, l’elemento di noi stessi che è più facile da conoscere, poiché ne abbiamo una conoscenza diretta. Anzi, noi possiamo avere accesso alla conoscenza del corpo soltanto grazie allo spirito, e in particolare grazie alla memoria. Bergson rifiuta, però, una contrapposizione netta tra spirito e corpo. La relazione strettissima tra i due ambiti passa attraverso le nozioni di «percezione» e di «memoria». La materia è data dalla totalità delle immagini (definite, da Bergson, esistenze che si trovano a metà strada tra le cose e le rappresentazioni mentali di esse), che sono sempre presenti in modo parziale allo spirito attraverso l’indispensabile mediazione del corpo, e il corpo costituisce la nostra immagine «centrale»: il modo in cui noi percepiamo il mondo esterno è infatti sempre condizionato da questa relazione con il corpo, anche se è la memoria, e quindi lo spirito, il vero perno dell’argomentazione di Bergson. La percezione dipende La percezione, infatti, non è una dimensione originaria, ma derivata dalla medalla memoria moria, al contrario di quanto hanno ritenuto gli empiristi, per i quali la memoria è una sorta di residuo, meno intenso della percezione: «non c’è percezione» scrive Bergson «che non sia impregnata di ricordi». In realtà, la nostra possibilità di percepire in modo significativo è legata alla nostra capacità di ricordare, ovvero Rapporto tra spirito e corpo
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alla capacità di mettere in connessione i singoli dati percettivi, che in sé risulterebbero privi di senso, con altri dati che sono depositati, in gran parte in modo inconscio, nella nostra coscienza: comprendere un segno o una parola o un’immagine è possibile soltanto se questa viene interpretata sulla base di ciò che utilizziamo grazie alla memoria, ma senza il quale questa comprensione sarebbe impossibile. L’influenza su Proust Le complesse analisi bergsoniane della memoria e dei suoi rapporti con la percezione contenute in Materia e memoria, tra l’altro, acquisiranno una particolare importanza anche al di fuori dell’ambito strettamente filosofico: è anche all’influenza delle teorie di Bergson, infatti, che è dovuto uno dei grandi capolavori della letteratura del Novecento, fondato proprio sull’esperienza soggettiva della memoria, e cioè Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (1871-1922), pubblicato tra il 1913 e il 1927 (gli ultimi tre volumi uscirono postumi).
La memoria in Proust Le riflessioni di Bergson sulla natura del tempo e sulla memoria hanno avuto un’influenza notevole non solo sulla filosofia, ma anche sull’arte e sulla letteratura. Anche se non si può parlare di influenza nel caso di Marcel Proust, che dichiara la propria indipendenza intellettuale da Bergson, ci sono tuttavia numerose affinità tra lo scrittore e il filosofo. Ne è una prova Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro di Proust, che a Parigi aveva seguito le lezioni di Bergson. La Ricerca è un affresco, non privo di ironia, dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, ma è anche, e soprattutto, un’analisi del mondo interiore del narratore. Il tema dell’interiorità, centrale nella filosofia di Bergson, è dominante anche nelle pagine di Proust: «il nostro fragile io» scrive «è l’unico luogo abitabile». È in esso soltanto che possiamo attingere la conoscenza della realtà: pur essendo consapevole della difficoltà di arrivare a conoscerla, perché l’essere sempre circondati da noi stessi ci impedisce di venire a contatto con essa, Proust sottolinea che l’io a cui la realtà sfugge è quello che (come Bergson) egli chiama «io superficiale», non il nostro vero io, l’«io profondo». Per giungere alla verità dobbiamo quindi volgerci al nostro mondo interiore; in esso sono depositati i ricordi, nei quali si trova il vero significato delle cose, la loro essenza: «il giardino in cui siamo vissuti da bambini non c’è bisogno di viaggiare per rivederlo, basta, per ritrovarlo, scendere al fondo di noi stessi». Per far emergere il mondo esterno che è racchiuso in noi è necessario l’aiuto della memoria: di nuovo come Bergson, Proust attribuisce ad essa un notevole valore conoscitivo. Egli distingue due tipi di memoria: quella volontaria (la «memoria dell’intelligenza») richiama all’intelligenza in modo razionale, logico, ciò che abbiamo visto o udito in passato e ci riporta, così, solo oggetti, luoghi, volti; la memoria involontaria ci riconduce invece nel passato in modo non razionale, poiché è sollecitata da sensazioni (odori, sapori, rumori) del tutto casuali e analoghe a
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quelle che abbiamo già avuto in altri momenti della nostra vita. È vano affidarsi alla sola intelligenza per rievocare il passato: soltanto la memoria involontaria può farci rivivere nel presente le sensazioni passate e, con esse, gli stati d’animo che le hanno accompagnate e le situazioni in cui le abbiamo provate. Grazie ad essa le sensazioni vengono tratte fuori dal tempo e ci viene restituita la loro autentica essenza. Questa oscillazione tra presente e passato – l’«intermittenza del cuore» – viene riprodotta con una narrazione che non segue il corso cronologico degli eventi, ma passa continuamente da un episodio (e da un ricordo) all’altro e fa ampio uso di metafore, similitudini e analogie. Lo stile narrativo di Proust contribuisce così a riprodurre il carattere dinamico della coscienza e quello che Bergson considera il tratto essenziale del tempo (vissuto), ossia la continuità. Se però Bergson sottolinea i limiti del linguaggio dei concetti e del metodo dell’analisi proprio della scienza positiva, Proust non si serve soltanto del linguaggio metaforico, ma anche di un linguaggio analitico, preciso, teso a definire e ordinare i ricordi: «quel che abbiamo provato» scrive «non sappiamo ancora che cosa sia finché non lo abbiamo accostato all’intelligenza. Solo allora, quand’essa lo ha illuminato, lo ha intellettualizzato, distinguiamo […] il volto di quel che si è sentito». Il fine dell’arte non è infatti la creazione, ma la scoperta della vera essenza delle cose, al di là della dimensione temporale. È per raggiungere questo fine – la scoperta della verità – che Proust si impegna nella «ricerca del tempo perduto»: far riemergere il passato sul presente, «ritrovare» il tempo che sembrava perduto, significa sottrarsi alla condizione mortale propria dell’uomo. E poiché il tempo passato è racchiuso nell’interiorità di ognuno, solo indagandola è possibile recuperarlo. Oggetto della Ricerca sono, è lo stesso Proust a dichiararlo, «le grandi leggi», i meccanismi che regolano i processi della vita interiore: «La grandezza dell’arte vera consiste nel ritrovare, nel riafferrare, nel farci conoscere quella realtà […] che […] è semplicemente la nostra vita».
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La conoscenza ha una funzione strumentale
La realtà non è statica
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Lo spirito ha bisogno di stabilità
H. Bergson, Introduzione alla metafisica
Conoscenza utile e stabilità del mondo La conoscenza del mondo è per Bergson sempre condizionata in qualche forma da ciò che ci è utile per le nostre funzioni vitali: la conoscenza non è quindi mai semplice e pura conoscenza. Questo tema diventa importante per Bergson, perché si collega al carattere strumentale e interessato della conoscenza del mondo esterno da parte dell’intelligenza umana: l’uomo interpreta il carattere dinamico e mobile della realtà attraverso la fissazione di oggetti statici e immobili, come fanno la scienza e il senso comune, per motivi pratici, per la necessità di agire nel mondo. Certo anche qui si tratta di una conoscenza, ma di una conoscenza limitata se non altro dal suo carattere strumentale: non si tratta di conoscenza metafisica, di conoscenza della genuina natura della realtà, ma di una sua trasfigurazione fatta ai nostri fini pratici, per i quali ci è utile «solidificare» il mondo. L’errore fatto da molti filosofi consiste nel trasferire sul piano della conoscenza metafisica questo modello di conoscenza che rappresenta stati e cose come punti fermi, invece di cogliere la continuità e la mutevolezza ininterrotta della realtà. Il modello della durata diventa per Bergson non più soltanto il modello della coscienza e della temporalità, ma quello costitutivo dell’intera realtà. Alla conoscenza intellettualistica e solidificata in cose separate della scienza si contrappone la visione metafisica di un vero evoluzionismo che vede nel reale un continuum, proprio come alla visione scientifica del tempo si contrapponeva la durata come tempo della coscienza e, quindi, come carattere essenziale della temporalità. Il nostro spirito, che cerca punti d’appoggio solidi, ha come principale funzione, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi stati e cose. Esso prende, di quando in quando, vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale. E ottiene, così, sensazioni e idee, sostituendo al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di mutamento i punti fissi che segnano una direzione del mutamento e della tendenza. Questa sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una certa misura che cercheremo di determinare, alla scienza positiva. La nostra intelligenza, quando segue la china naturale, procede per percezioni solide da un lato, e per concezioni stabili dall’altro. Ben si comprende, allora, perché l’indagine sulla psiche umana costituisca il fondamento della metafisica elaborata da Bergson: la continuità, ossia la durata, è la caratteristica essenziale della realtà così come del tempo. E la durata si dà solo nella coscienza.
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La metafisica La metafisica bergsoniana è contenuta prevalentemente nell’Introduzione alla metafisica e nell’Evoluzione creatrice, dove, infine, il percorso che ha mosso dall’insufficienza delle scienze positive, e dallo studio dell’interiorità attraverso la psicologia, diventa una vera e propria filosofia della natura che non distingue più i processi psichici e i processi naturali. 261
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Intelligenza e istinto
Per conoscere la realtà è necessaria l’intuizione
Lo slancio vitale
Una filosofia unitaria
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In entrambe le opere viene portata avanti l’opposizione tra la metafisica da un lato e il senso comune o la scienza positiva dall’altro. La scienza si serve dell’analisi, come si è visto, della scomposizione e della fissazione degli elementi, ciò che rende possibile anche l’agire pratico: per potere agire si deve innanzitutto distinguere se stessi dalle cose e distinguere le cose l’una dall’altra. L’analisi è infatti lo strumento caratteristico dell’intelligenza, che è il frutto di un processo evolutivo di adattamento e ha una funzione eminentemente pratica. L’intelligenza va distinta dall’istinto, che è comune anche agli animali e che costituisce un contatto diretto, non mediato, con ciò che è utile per la vita. La principale differenza sta in un diverso confronto con i propri fini e i propri bisogni: mentre l’istinto animale opera in modo immediato, l’intelligenza riflette, calcola e costruisce strumenti come mediazione del suo rapporto con il mondo. La realtà di cui parla l’intelligenza, e quindi la scienza, è per Bergson una semplice costruzione simbolica, incapace di cogliere la natura essenziale e profonda di essa come invece deve o dovrebbe fare la metafisica: per fare questo c’è bisogno di una sorta di sintesi tra intelligenza e istinto, un’attitudine conoscitiva che colga al tempo stesso con l’immediatezza dell’istinto e con la chiarezza dell’intelligenza. È qui che compare la necessità dell’intuizione, l’unico modo adeguato di esercizio della filosofia e della metafisica in generale. La realtà mutevole e in continua evoluzione viene spiegata da Bergson negando la sostenibilità sia del meccanicismo sia del finalismo: si tratta di trasferire sull’intera realtà le caratteristiche della vita biologica e di farne un principio metafisico onnicomprensivo, di non accettare una spiegazione meccanica né di pensare la realtà come organizzata in vista di fini razionali da raggiungere. Alla base del processo dinamico del reale e della sua evoluzione c’è un principio che Bergson chiama élan vital, «slancio vitale», che giustifica tutto l’impianto vitalistico della sua filosofia. Lo slancio vitale è «azione che di continuo si crea e si arricchisce», è cioè la forza all’origine di tutte le forme di vita. È una sorta di impulso iniziale del processo dell’evoluzione e si dirama in molteplici direzioni, ma allo stesso tempo si conserva. L’evoluzione non segue un unico percorso: la vita, scrive Bergson, si sviluppa «come un fascio di steli». La filosofia bergsoniana ha dunque una struttura unitaria: essa pone un solo principio all’origine dei fenomeni naturali e di quelli psichici e vede nell’intuizione il solo mezzo per comprendere sia gli uni, sia gli altri.
Morale e religione
Anche la riflessione di Bergson sull’etica riflette la sua attitudine antirazionalistica. Del resto, l’etica è un aspetto che ha poca autonomia nella considerazione complessiva della realtà, e Bergson stesso dichiara che «metafisica e morale esprimono la stessa cosa, l’una in termini di intelligenza, l’altra in termini di volontà». L’obiettivo polemico privilegiato dell’analisi bergsoniana (contenuta nella sua ultima opera maggiore, Le due fonti della morale e della religione) è infatti il massimo rappresentante del razionalismo etico, e cioè Kant. L’obbligo morale: Chiaramente antikantiano è l’esame che Bergson svolge dell’obbligo morale, critica a Kant cioè del dovere, che egli collega strettamente all’abitudine psicologica e alla pressione della società. Ben lungi dall’essere opposta alla nostra naturalità, la
Etica antirazionalistica
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La radice dell’obbligo morale è l’abitudine
Morale chiusa
La guerra
Morale aperta
Umanità e amore
moralità e i suoi doveri sono qualcosa che deriva proprio dalla natura (o, più precisamente, da quella «seconda natura» che è l’abitudine): noi ci sentiamo obbligati perché la società esercita una certa pressione su di noi richiedendo certe prestazioni che sono appunto i doveri. Non si tratta, beninteso, di una forma di costrizione, ma di impegni che assumiamo liberamente in quanto membri di una società. Completamente errata è la prospettiva kantiana che vede nel dovere morale e nell’obbligo uno sforzo, una pressione su se stessi, un’opposizione tra moralità e natura. Kant cade in questo equivoco perché non comprende la radice dell’obbligo che sta in realtà nell’abitudine e perché cerca di mostrare – per Bergson senza riuscirvi – la natura razionale dell’obbligo morale. Si tratta infatti di un errore psicologico. Anche se si danno casi di conflitto, il corso ordinario della moralità si fonda sulla esplicita o implicita assegnazione di certi compiti – ossia di obblighi o doveri – da parte del corpo sociale a ciascun membro di esso, in quanto membro di una famiglia, in quanto individuo che ha una certa professione, in quanto abitante di una certa zona e di un certo Paese. L’analisi bergsoniana dell’obbligo non è priva di una certa ambiguità intrinseca alla sua filosofia: da un lato anche l’obbligo, come del resto tutta la realtà, è una manifestazione del dinamismo complessivo, è fondato nell’evoluzione complessiva della vita, e quindi immediatamente giustificato. Dall’altro, la morale dell’obbligo costituisce una morale limitata, una morale che Bergson chiama chiusa perché il mondo degli obblighi, dei doveri e delle norme, comunque lo si voglia rappresentare, non è un mondo universale che includa tutta la società umana nel suo insieme, ma soltanto comunità chiuse come un Paese o una nazione. In realtà questa moralità non riguarda l’umanità, come dimostra inequivocabilmente la guerra: con la guerra si capisce che l’obbligo morale è limitato a comunità determinate, circoscritte. La coesione sociale e la moralità del dovere che corrispondono alla chiusura delle società nei propri confini sono dovute infatti al rischio costante della guerra e alla necessità che una società ha di difendersi dalle altre. La morale chiusa, per quanto riguarda l’individuo, può raggiungere soltanto un ordinario «stato di benessere». La morale chiusa non è però l’unica possibilità: c’è anche quella di una morale aperta che ha radici ben diverse e ha caratteri completamente differenti, a partire dalla stessa difficoltà di formularla. Come in altre occasioni, l’inesprimibilità della morale aperta sembra indicare per Bergson la limitatezza del linguaggio dei concetti, del linguaggio quindi tipico della tradizione razionalistica: il nostro linguaggio è in difficoltà a formulare la morale aperta come è in difficoltà nell’esporre e rappresentare il fluire incessante della realtà. La morale aperta ha per destinatario l’umanità, non comunità chiuse, e soprattutto non si fonda sull’obbligo, ma sull’amore; è una morale fondata sullo slancio, non sull’abitudine. Tra le due morali non c’è un passaggio, una semplice differenza di grado, ma una differenza qualitativa, tanto è vero che i primi protagonisti della morale aperta o assoluta non sono gli uomini qualunque, ma personaggi eccezionali nei quali in ogni epoca questa morale si incarna. Al centro della morale chiusa c’è in sostanza l’obbligo, il dovere, l’obbedienza a una norma, cioè a una formula impersonale, mentre nel caso della morale aperta, che si richiama all’eccezionalità dei suoi promotori, c’è l’imitazione di modelli, di personaggi fuori dal comune che con la loro stessa esistenza costituiscono un richiamo, un appello a seguire il proprio esempio. 263
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Morale chiusa e morale assoluta
H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione
In ogni epoca sono sorti degli uomini eccezionali, nei quali questa morale si incarnava. Prima dei santi del Cristianesimo, l’umanità aveva conosciuto i saggi della Grecia, i profeti di Israele, gli Arahanti del buddismo, ed altri ancora. È a loro che ci si è sempre riferiti per avere questa moralità completa, che sarebbe meglio chiamare assoluta. E anche questo è già caratteristico ed istruttivo. Ed anche questo ci fa presagire una differenza di natura, e non solamente di grado, tra la morale di cui abbiamo trattato finora e quella di cui iniziamo lo studio, tra il minimo ed il massimo, tra i due limiti. Mentre la prima è tanto più pura e più perfetta quanto meglio si riduce a delle formule impersonali, la seconda, per essere pienamente se stessa, deve incarnarsi in una personalità privilegiata che diventa un esempio. La generalità dell’una dipende dall’universale accettazione di una legge, quella dell’altra dalla comune accettazione di un modello.
I due tipi di morale secondo Bergson
È limitata a singole comunità È statica Morale chiusa
Morale dell’obbligo È espressa con formule impersonali È fondata sull’obbedienza a norme
È rivolta a tutta l’umanità È dinamica Morale aperta o «assoluta»
Morale fondata sull’amore È inesprimibile attraverso il linguaggio È fondata sul carattere esemplare di individui eccezionali
È l’esempio dei grandi mistici, che seppero unire contemplazione e azione, a costituire il punto di riferimento della morale aperta: il primo è Socrate, il più grande è Gesù Cristo. Sono coloro che non provano un benessere ordinario, ma un sentimento di vera e propria liberazione perché sono ormai superiori alle soddisfazioni del benessere, del piacere e della ricchezza che interessano la maggior parte degli uomini. Essi vanno al di là di tutto questo, e la loro esperienza è un’esperienza eccezionale che Bergson non chiarisce quanto possa essere comunicata e insegnata agli altri: se già alcuni, anche solo alcuni, seguono l’esempio, e se magari altri lo ritengono auspicabile, si è già ottenuto abbastanza, «è già molto». Religione statica Una coppia di termini opposti caratterizza anche la religione, la cui analisi è per e dinamica Bergson affine a quella della morale: nel caso della religione, c’è una religione statica ed esteriore che si esprime nella magia e nei riti, ma c’è anche una religione dinamica e interiore che si realizza nella mistica. La conclusione dell’indagine bergsoniana sulla morale e sulla religione accenna alla possibilità di una filosofia della storia, pur nella consapevolezza che la volontà umana è sempre superiore a ogni ipotesi di determinismo storico.
Personaggi esemplari
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento Ambiguità del progresso
➥ Sommario, p. 266
La domanda centrale è se la società contemporanea abbia la possibilità di evitare il trionfo indistinto della tecnica e dell’intellettualismo che ha segnato di sé la cultura e la civiltà occidentali. Si è trattato di un progresso per più versi ambiguo, per Bergson, che ha prodotto anche nuovi disagi e nuovi bisogni, e che non soddisfa le esigenze dello spirito, il quale trarrebbe forse giovamento da una maggiore semplicità di vita. Il futuro dell’umanità dipende da lei stessa: se voglia fare lo sforzo necessario perché si adempia il compito dell’universo, che è, perfino rispetto al nostro pianeta «refrattario», «una macchina per fare degli dèi».
Suggerimenti bibliografici In generale sul neocriticismo e il ritorno a Kant è fondamentale il libro di M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, Laterza, Roma-Bari 1997; di grande utilità anche l’ampia antologia curata da G. Gigliotti, Il neocriticismo tedesco, Loescher, Torino 1983. In particolare su Cohen è utile lo studio complessivo di A. Poma, La filosofia critica di Hermann Cohen, Mursia, Milano 1988. Per Cassirer vedi l’introduzione di G. Raio, Introduzione a Cassirer, Laterza, Roma-Bari 2002, e la più complessa monografia di M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Olschki, Firenze 1996. Su Windelband, puoi leggere la monografia di R. Bonito Oliva, Il compito della filosofia. Saggio su Windelband, Morano, Napoli 1990. Su Rickert, è utile il volume collettivo Rickert tra storicismo e ontologia, a cura di M. Signore, Franco Angeli, Milano 1989. Sullo storicismo tedesco è da vedere l’introduzione di F. Tessitore, Introduzione allo storicismo, Laterza, Roma-Bari 2003, ma rimane un punto di riferimento lo studio d’insieme di P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino 1971. Su Dilthey, vedi F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Laterza, Roma-Bari 1985, e i volumi collettivi Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, il Mulino, Bologna 1985, e Dilthey e il pensiero del Novecento, a cura di F. Bianco, Franco Angeli, Milano 1985. Su Bergson vedi A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari 1996; più complesso, e per un aspetto specifico, H. Gouhier, Bergson e il Cristo dei Vangeli, IPL, Milano 1968; inoltre: M. Meletti Bertolini, Bergson e la psicologia, Franco Angeli, Milano 1985. Per la controversa questione, di grande interesse, del rapporto di M. Proust con Bergson, vedi S. Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, il Mulino, Bologna 1991. I brani antologizzati sono tratti da: W. Windelband, Preludi, Prefazione alla prima edizione, trad. parziale in Il neocriticismo tedesco, a cura di G. Gigliotti, Loescher, Torino 1983: p. 78 (T1), p. 79 (T3). E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, trad. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 19611966. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, in Lo storicismo contemporaneo, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1974: p. 18 (T4), p. 20 (T5). H. Bergson, Lettera a G. Papini del 21 ottobre 1903, trad. in A. Pessina, Introduzione a Bergson, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 5. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. di F. Sossi, Premessa di P.A. Rovatti, R. Cortina, Milano 2002: p. 71 (T7), pp. 110-111 (T8). H. Bergson, Introduzione alla metafisica, trad. a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 82. H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, trad. a cura di A. Pessina, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 22.
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Sommario 1. MONDO
NATURALE E MONDO UMANO
I mutamenti avvenuti nell’Ottocento sia nelle scienze della natura sia nelle discipline che studiano il mondo umano, storico e sociale, pongono il problema di stabilire quali siano i rapporti e i criteri di distinzione tra le due sfere di indagine. 2. IL
RITORNO A
KANT
E IL NEOCRITICISMO
Con la ripresa di interesse per il pensiero di Kant, in polemica con l’idealismo, torna a essere centrale la teoria della conoscenza. [par. 1] Riprendendo la tesi kantiana per cui il soggetto ha un ruolo attivo nella conoscenza, Helmholtz e Lange sostengono che tale ruolo ha fondamento nella fisiologia umana. [par. 2] Il problema kantiano del modo di conoscere gli oggetti è al centro del neocriticismo, ossia della scuola di Marburgo e della scuola del Baden. [par. 3] La filosofia è per Cohen teoria della conoscenza scientifica. Come Natorp, egli dà la priorità alla logica rispetto all’etica, considera centrale l’idea kantiana dell’uomo come fine e ne dà un’interpretazione in senso socialista. Il socialismo neokantiano tenterà poi l’integrazione di Kant con Marx. [par. 4] Cassirer interpreta la storia della filosofia dal punto di vista del problema della conoscenza. Il mutamento principale nella scienza è il passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione, che porta all’abbandono dell’idea della conoscenza come rispecchiamento della realtà: essa si realizza attraverso i simboli. Oltre alla conoscenza, le principali forme simboliche sono il linguaggio e il mito. [par. 5] Gli esponenti della scuola del Baden, Windelband e Rickert, hanno una concezione unitaria della filosofia: essa non è riducibile a teoria della conoscenza scientifica. È filosofia dei valori come scienza critica di tutti i valori (inclusi quelli conoscitivi, etici ed estetici). Negare la priorità delle scienze della natura rispetto alle discipline storico-sociali, o scienze dello spirito, pone il problema di spiegare la differenza tra esse. [par. 6]
Come Windelband, Rickert ritiene che la differenza non sia nell’oggetto di indagine, ma nel metodo. Il metodo delle scienze dello spirito, che Rickert chiama «scienze della cultura», consiste nell’esaminare le relazioni tra ogni civiltà e i suoi valori (senza giudicarli). Dei valori Rickert sottolinea l’oggettività e contro la filosofia della vita, nega che la vita sia un valore in sé. [par. 7] 3. LO
STORICISMO TEDESCO
Lo storicismo sostiene, contro l’idealismo, che la storia è opera degli uomini e, in polemica col positivismo,
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rifiuta l’assimilazione delle discipline storico-sociali al modello delle scienze naturali. Il problema fondamentale è stabilire le condizioni di possibilità della conoscenza storica. [par. 1] Dilthey sostiene che scienze naturali e scienze dello spirito hanno oggetti diversi e solo del mondo umano si abbia un’esperienza interna; di qui l’importanza dell’analisi della psiche per le scienze dello spirito. In seguito Dilthey attenua tale importanza e privilegia l’interpretazione dei segni esterni della vita psichica. Rifiuta la filosofia della storia e insiste sulla storicità del mondo umano e sulla relatività dei valori. [par. 2] A Dilthey e a Nietzsche si ispira la filosofia della vita, che vede nella vita stessa una forma fondamentale di energia. Per Simmel la vita tende al superamento delle forme di cultura che crea. Spengler considera ogni cultura un organismo la cui fine è segnata dallo stadio più avanzato del suo sviluppo come civilizzazione. [par. 3] 4. BERGSON
Contro il positivismo, lo spiritualismo vede nello studio dell’interiorità un mezzo essenziale per comprendere la realtà. [par. 1] Bergson considera la filosofia una scienza, ma respinge il modello cartesiano del sapere scientifico. Riconosce alla biologia il merito di aver capito che l’essere è divenire e pone la temporalità al centro della propria indagine. [par. 2] La scienza positiva è incapace di spiegare la durata, che è la caratteristica essenziale della temporalità; a tal fine occorre esaminare il tempo vissuto della coscienza, che non può essere compresa con i concetti, ma solo con l’intuizione. La coscienza sfugge anche al concetto di causalità. L’atto libero è quello in cui si realizza tutta la personalità del soggetto e in cui agisce l’io profondo, non l’io superficiale. [par. 3] Bergson rifiuta il dualismo tra spirito e corpo: memoria e percezione mediano la relazione tra essi. [par. 4] Il modello della durata è applicabile anche alla realtà: questa è mutevole e continua, ma per necessità pratiche la fissiamo in oggetti statici. [par. 5] Per comprendere la realtà occorre l’intuizione, sintesi tra istinto e intelligenza. Bergson rifiuta il meccanicismo e il finalismo ed elabora una metafisica fondata sul principio dello slancio vitale. [par. 6] L’etica non è autonoma rispetto alla metafisica. Bergson nega (contro Kant) il conflitto tra natura umana e dovere e distingue tra morale chiusa (impersonale) e morale aperta (fondata sul modello di personalità eccezionali). Anche della religione distingue due tipi: quella esteriore, statica, e quella interiore, dinamica. [par. 7]
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Unità 6 La filosofia in Europa tra Ottocento e Novecento
Parole chiave Durata. Nella teoria di Bergson è la caratteristica essenziale della temporalità, della coscienza e della realtà. La durata è una successione di istanti compenetrati l’uno nell’altro; è possibile coglierla solo attraverso l’introspezione, perché può esserci durata solo se c’è un soggetto che coglie la successione nel fluire della propria coscienza. Le scienze fisico-matematiche sono incapaci di coglierla perché considerano il tempo un insieme di istanti distinti tra loro.
Neocriticismo. Detto anche «neokantismo», è la corrente filosofica che si richiama a Kant (in polemica con l’idealismo), proponendosi di superarlo. Comune alle due scuole neokantiane, la scuola di Marburgo e la scuola del Baden, è l’indagine sui processi conoscitivi e sulle condizioni di possibilità della conoscenza. L’una si concentra però sul sapere scientifico, l’altra intende invece la filosofia come scienza critica di tutti i valori, non solo del valore della verità teoretica.
Filosofia dei valori. Espressione che indica il modo in cui gli esponenti della scuola del Baden intendono la filosofia: essa è una scienza critica dei valori, non solo di quelli conoscitivi, ma anche di quelli etici ed estetici.
Percezione. Dimensione della vita psichica che, secondo Bergson, non è originaria, ma dipende dalla memoria. Insieme con la memoria essa media il rapporto tra il corpo e lo spirito.
Filosofia della vita. Corrente sorta alla fine del XIX secolo che non intende la vita in senso meramente biologico, ma come principio metafisico, come forma di energia che costituisce la realtà. Forme simboliche. Nella filosofia di Cassirer sono attività mentali che producono una certa configurazione della realtà facendo uso di simboli. Linguaggio, mito e conoscenza sono le principali forme simboliche. Funzione. Nella teoria di Cassirer è l’attività attraverso la quale costituiamo e diamo forma agli oggetti di cui abbiamo esperienza ed è quindi la condizione di possibilità di essi. Il passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione ha prodotto un mutamento significativo nella concezione della conoscenza. Intuizione. Bergson la contrappone alla concatenazione dei concetti e la considera uno strumento indispensabile per comprendere la coscienza e la realtà, poiché essa riesce a cogliere le cose con l’immediatezza dell’istinto e la chiarezza dell’intelligenza. L’intuizione è dunque una sintesi tra istinto e intelligenza. Io profondo. È l’interiorità genuina di ogni individuo, ossia l’insieme organizzato dei fatti della coscienza (sensazioni, emozioni e sentimenti) compenetrati l’uno nell’altro. Io superficiale. Parte dell’io condizionata dall’educazione ricevuta e dalle convenzioni sociali. Memoria. Totalità dei ricordi della nostra vita passata. Grazie ad essa possiamo dare un senso alle percezioni che abbiamo. Con la percezione la memoria media il rapporto tra il corpo e lo spirito.
Scienze dello spirito. Con questa espressione Dilthey intende l’insieme delle discipline, contrapposte alle scienze della natura, che studiano il mondo umano e il suo sviluppo storico. Esse si distinguono dalle scienze della natura sia per l’oggetto dell’indagine, sia per il tipo di esperienza che viene fatta del mondo umano e del mondo naturale. Simboli. Nella teoria di Cassirer sono gli elementi centrali del rapporto conoscitivo dell’uomo con il mondo, grazie ai quali egli dà senso ai molteplici dati dell’esperienza e li organizza. Il simbolo è il segno del ruolo attivo del pensiero umano nei confronti della realtà. Slancio vitale. Nella metafisica di Bergson è il principio su cui è fondato il processo dinamico della realtà e dell’evoluzione. Spiritualismo. Corrente filosofica diffusasi nel XIX secolo in polemica con il positivismo. I suoi esponenti rifiutano il primato della matematica e delle scienze naturali e considerano lo studio dell’interiorità e dello spirito uno strumento privilegiato per comprendere la realtà. Storicismo. Insieme di dottrine sviluppatesi nella cultura tedesca tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e accomunate dallo studio storico del mondo umano e sociale. Lo storicismo tedesco considera la storia come opera degli uomini e rifiuta di assumere le scienze della natura come modello per l’indagine storico-sociale. Tempo vissuto. Nella teoria di Bergson è il tempo reale (quello della coscienza), la cui essenza è la durata. È eterogeneo, irreversibile e non misurabile, al contrario del tempo della scienza e del senso comune, che è un insieme omogeneo di istanti distinti tra loro ripetibili e misurabili. 267
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Questionario MONDO 1
IL
NATURALE E MONDO UMANO
RITORNO A
2
3
4
Spiega in un massimo di 5 righe quale rapporto c’è, secondo Bergson, tra la percezione e la memoria.
KANT
E IL NEOCRITICISMO
16
Qual è il ruolo dell’intuizione nella metafisica bergsoniana? (max 3 righe)
Spiega in un massimo di 3 righe l’interpretazione fisiologica della tesi kantiana per cui il soggetto ha un ruolo attivo nella conoscenza degli oggetti.
17
Perché Bergson considera errata la concezione kantiana dell’obbligo morale? (max 3 righe)
Come viene inteso da Cohen il rapporto tra etica e logica? (max 2 righe) Quale cambiamento si è prodotto nel modo di concepire la conoscenza grazie al passaggio dal concetto di sostanza a quello di funzione? (max 3 righe)
Lavoriamo sui testi 18
Come viene definito in T1 il ritorno al pensiero di Kant? (max 2 righe)
19
Qual è il cambiamento, indicato in T2, che Hertz ha introdotto nella fisica? (max 3 righe)
5
Perché la scuola del Baden, diversamente dalla scuola di Marburgo, ha una concezione unitaria della filosofia? (max 4 righe)
20
Perché, in T3, Windelband afferma che la filosofia kantiana non è soltanto idealismo teoretico? (max 3 righe)
6
Spiega in un massimo di 3 righe qual è, secondo Windelband e Rickert, la differenza tra scienze della natura e scienze storico-sociali.
21
Quali differenze emergono in T4 tra il mondo naturale e il mondo della storia? (max 4 righe)
22
Spiega in un massimo di 2 righe perché in T5 Dilthey afferma che la natura è muta per l’uomo.
23
Come viene spiegato in T6 il volgersi dell’interesse di Bergson dalle scienze fisico-matematiche alla psicologia? (max 3 righe)
24
Che cosa accade se viene soppresso l’io che pensa le oscillazioni del pendolo di cui Bergson parla in T7? (max 2 righe)
25
Come vengono descritte in T8 le condizioni alle quali siamo liberi? (max 2 righe)
26
Spiega in un massimo di 2 righe il processo, descritto in T9, con cui si ottengono sensazioni e idee.
27
Qual è la differenza tra i due tipi di morale di cui Bergson parla in T10? (max 4 righe)
7
LO
15
Qual è il tema principale dell’indagine filosofica ottocentesca? (max 3 righe)
Qual è secondo Rickert il compito dello storico? (max 2 righe)
STORICISMO TEDESCO
8
Perché Kant è un punto di riferimento per lo storicismo tedesco? (max 2 righe)
9
Spiega in un massimo di 5 righe le differenze individuate da Dilthey tra le scienze della natura e le scienze dello spirito.
10
Perché Dilthey è critico nei confronti della filosofia della storia? (max 4 righe)
11
Da che cosa derivano, secondo Simmel, i cambiamenti storici? (max 3 righe)
BERGSON 12
Spiega in un massimo di 5 righe perché l’atteggiamento di Bergson verso la scienza è ambivalente.
13
Quale differenza c’è tra il tempo della scienza e del senso comune e il tempo vissuto della coscienza? (max 5 righe)
14
Perché i concetti sono uno strumento inadeguato, secondo Bergson, per comprendere la coscienza? (max 4 righe)
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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo 1. Il pragmatismo americano 2. Peirce 1. Il significato come effetto pratico 2. Il metodo scientifico 3. La semiotica
2. Lo strumentalismo e la conoscenza 3. La relazione con l’ambiente e il problema mente-corpo 4. L’etica 5. La politica e la pedagogia
5. Il neoidealismo inglese 3. James 1. La verità come efficacia pratica 2. La volontà di credere e l’etica 3. La psicologia e l’empirismo radicale
1. Green 2. Bradley
4. Dewey 1. L’esperienza e la storia
♦ Sommario, Parole chiave, Questionario
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Il pragmatismo americano
1 Il contributo americano alla filosofia
Il Methaphysical Club
La reazione all’idealismo e il rapporto con l’evoluzionismo
L’esperienza e la pratica
➥ Sommario, p. 300
270
Espressione di una nazione in forte crescita politica ed economica e di un’epoca di grande fiducia verso il futuro, il pragmatismo è unanimemente riconosciuto come il primo e più originale contributo fornito da pensatori degli Stati Uniti alla filosofia occidentale. Esso caratterizza la cultura americana a cavallo fra Ottocento e Novecento, ma riesce ad avere significativi echi anche nel continente europeo. Il pragmatismo ha un luogo e, probabilmente, anche un anno di nascita: sorge a Cambridge nel Massachussets, in seguito alla riunioni tenute a partire dal 1871 da un gruppo di giovani intellettuali, insofferenti della cultura dominante nelle università americane, influenzata della teologia e dallo hegelismo, per discutere liberamente di scienza, filosofia, diritto e religione. Il gruppo si riunisce fino al 1875 negli studi di due giovani filosofi, Charles Sanders Peirce e William James, e decide di darsi il nome di Methaphysical Club: nome, ricorda Peirce, «tra l’ironico e l’insolente». Oltre a Peirce e James, ne fanno parte anche i filosofi Chauncey Wright (1830-1875), John Fiske (1842-1901), Francis Ellingwood Abbot (1836-1903), e i giuristi Nicholas St. John Green (1830-1876), Joseph Bangs Warner (1848-1923), Oliver Wendell Holmes Jr. (1841-1935), quasi tutti futuri docenti dell’università di Harvard. È durante le riunioni del Methaphysical Club che vengono fissate alcune delle tesi principali del movimento, che saranno poi approfondite in modo originale da Peirce e James, e che incideranno sulla formazione dell’altro grande pragmatista americano, John Dewey, la cui influenza si estende per tutta la prima metà del Novecento, contribuendo a caratterizzare in senso pragmatista anche parte della filosofia contemporanea d’oltreoceano. Il pragmatismo può essere considerato la via americana di reazione all’idealismo: il suo carattere principale è la sfiducia verso ogni forma di sapere astratto e metafisico, che si fondi su intuizioni a priori e che non si ponga in stretto rapporto con l’esperienza e la vita dell’uomo. Il pragmatismo riprende, dall’evoluzionismo di Darwin e di Spencer, la centralità del rapporto dell’individuo con l’ambiente naturale e sociale: è attraverso l’interazione pratica con l’ambiente che l’individuo determina le proprie credenze e i propri valori. Dalla centralità di questa interazione i pragmatisti traggono la necessità di superare alcune delle tradizionali dicotomie filosofiche: quelle tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo, tra fatti e valori. Tuttavia, rispetto al positivismo e all’evoluzionismo europei, anch’essi caratterizzati dal forte intento antimetafisico, il pragmatismo sottolinea maggiormente il carattere indefinito dell’esperienza, la sua apertura verso il futuro, e insieme il legame della conoscenza e della stessa filosofia con l’attività dell’uomo, con i suoi bisogni e i suoi fini, con la prassi storica e sociale, dalla quale l’individuo è condizionato, ma della quale è allo stesso tempo protagonista. Il pensiero si pone sempre in relazione alle esigenze del futuro, a come agire nell’ambiente naturale e sociale; tanto che per i pragmatisti è l’uso pratico che determina il significato dei termini, e per James anche la verità degli enunciati.
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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo
Peirce
2 I testi
Ch.S. Peirce Il fissarsi della credenza: La ricerca attraverso il dubbio, T1; Il valore di verità dei quattro metodi per consolidare una credenza, T4
Peirce l’iniziatore del movimento
Charles Sanders Peirce è considerato l’iniziatore del movimento filosofico da lui stesso definito «pragmatismo» (anche se preferirà poi chiamarlo «pragmaticismo» per distinguerlo dalla versione sostenuta da James), e uno dei fondatori dell’odierna semiotica, ossia della disciplina che studia la formazione, l’interpretazione e l’uso dei segni.
La vita e le opere Nato nel 1839 a Cambridge nel Massachussetts, Charles Sanders Peirce era figlio del noto matematico Benjamin che lo educò personalmente, privilegiando gli studi scientifici. Dopo aver frequentato i corsi di fisica e matematica ad Harvard, si laureò in chimica nel 1863 e lavorò per molti anni, dal 1859 al 1891, per il Servizio geodesico e costiero degli Stati Uniti. Si dedicò anche all’insegnamento, svolgendo incarichi saltuari nelle università americane come professore di logica, ma non si integrò nell’ambiente accademico sia per l’originalità delle sue concezioni sia per motivazioni personali (alcu-
1
Come rendere chiare le nostre idee: La definizione di «credenza», T2; Credenza e regole d’azione, T3 Scienza e pragmatismo: I caratteri dell’abduzione, T5; La formazione dei segni, T6
ni tratti del suo carattere, le sue carenze come insegnante, le vicissitudini matrimoniali che lo portarono al divorzio dalla prima moglie). Nel 1897 si ritirò a Milford, in Pennsylvania, dove visse in gravi ristrettezze economiche mantenendosi con i proventi di collaborazioni editoriali e l’aiuto di amici come James. Affetto da un cancro, morì nel 1914. I suoi manoscritti furono acquistati dall’università di Harvard e pubblicati in parte negli anni trenta assieme agli articoli comparsi su varie riviste: Il fissarsi della credenza (1877), Come rendere chiare le nostre idee (1878), Che cos’è il pragmatismo (1905) e Questioni del pragmaticismo (1905).
Il significato come effetto pratico
I lavori più influenti e noti di Peirce sono due saggi sulla teoria della conoscenza, Il fissarsi della credenza e Come rendere chiare le nostre idee, nei quali vengono delineate le tesi principali della sua concezione del pragmatismo. Il dubbio come stimolo Il pensiero è concepito come strettamente legato alla pratica. Funzione del penal pensiero siero è quella di produrre credenze, con le quali si acquieta nell’uomo una situazione di irritazione e disagio, rappresentata dal dubbio. Questa situazione non rappresenta una condizione eccezionale, ma indica il momento di indecisione prima di ogni azione, anche la più banale: Peirce fa l’esempio di quando devo comprare un biglietto su un tram e sono indeciso se pagare con un’unica moneta o utilizzare gli spiccioli. Il dubbio è lo stimolo che conduce alla ricerca, la quale a sua volta placa il dubbio col fissare un’opinione consapevole e, almeno per un certo tempo, stabile, cioè una credenza, nella quale il pensiero trova momentaneamente riposo (per esempio decido di pagare con gli spiccioli perché sono ingombranti). 271
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
T1
La ricerca attraverso il dubbio
Ch.S. Peirce, Il fissarsi della credenza, 4
Credenza e abitudine
T2
La definizione di «credenza» Ch.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, 2
Credenza e significato
Il concetto di un oggetto come risultato dei suoi effetti
272
L’irritazione del dubbio causa una lotta per ottenere uno stato di credenza. Chiamerò questa lotta ricerca, per quanto si debba ammettere che qualche volta questa designazione non è molto adatta. L’irritazione del dubbio è il solo motivo immediato della lotta per raggiungere la credenza. Certamente la cosa migliore per noi è che le nostre credenze siano tali da poter guidare veramente le nostre azioni e così soddisfare i nostri desideri; e questa riflessione ci farà rigettare ogni credenza che non sembri formata in vista di assicurarci questo risultato. Ma questo avverrà solo mediante la creazione di un dubbio al posto di una tale credenza. Col dubbio perciò la lotta comincia, e termina con la cessazione del dubbio. Quindi il solo oggetto della ricerca è lo stabilirsi di un’opinione. Possiamo immaginare che questo non ci basti e che noi cerchiamo non solo un’opinione ma un’opinione vera. Ma se si mette questa idea alla prova si dimostra priva di fondamento; giacché appena abbiamo raggiunto una credenza ferma, siamo completamente soddisfatti, sia che la credenza sia falsa sia che sia vera. Per soddisfare lo stato di disagio, l’indecisione creata dal dubbio, la credenza non ha bisogno di essere vera, basta che essa sia capace di guidare le azioni dell’uomo al fine di soddisfarne i desideri. La credenza, secondo Peirce, è collegata allo stabilirsi di una regola d’azione, cioè a un’abitudine in grado di orientare la condotta: credenza è «ciò per cui un uomo è pronto ad agire». Il pensiero è dunque connesso all’azione, ai desideri e alle volizioni umane: «l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini d’azione». Per riprendere l’esempio precedente, ogni volta che sarà possibile pagherò il biglietto del tram con gli spiccioli. Che cosa è dunque la credenza? […] Abbiamo visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l’irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione, o, per dirla in breve, di un’abitudine. Mentre acquieta l’irritazione del dubbio, che è il motivo per pensare, il pensiero si rilassa e si ferma in riposo un momento quando la credenza è raggiunta. Ma dal momento che la credenza è una regola per l’azione, l’applicazione della quale implica ulteriori dubbi e pensiero, nello stesso tempo in cui essa è un punto d’arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero. Ed è per questo che mi sono permesso di chiamarla pensiero in riposo, sebbene il pensiero sia essenzialmente un’azione. L’esito finale del pensare è l’esercizio della volizione, e di questo il pensiero non fa più parte; ma la credenza è solo uno stadio dell’azione mentale, un effetto del pensiero sulla nostra natura, il quale effetto influenzerà il futuro pensare. Ciò che viene creduto è detto da Peirce il «significato di una credenza». Ogni credenza fa sorgere una propria abitudine di azione, e differenti credenze si distinguono proprio per le differenti abitudini di azione che fanno sorgere. Se due credenze fanno sorgere le stesse abitudini sono concepite come identiche, come aventi, cioè, lo stesso significato. Il significato di una credenza, ciò che viene creduto, consiste dunque nelle abitudini di azione che essa fa sorgere, e si identifica con gli effetti pratici delle credenze: «consideriamo quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto». Ogni concetto, afferma Peirce, «consiste esclusivamente nei suoi concepibili riflessi sulla con-
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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo
dotta di vita». Il concetto di vino, per esempio, coincide con le sue conseguenze sul nostro agire pratico (è piacevole ma può alterare le nostre percezioni fino alla perdita di controllo): «simili credenze non sono altro che avvisi a noi stessi che dobbiamo, all’occasione, agire nei riguardi di certe cose che crediamo vino in modo che si accordino con le qualità che crediamo che il vino possegga».
T3
Credenza e regole d’azione Ch.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, 2
L’essenza della credenza è lo stabilirsi di un’abitudine, e differenti credenze si distinguono dai differenti modi di azione che fanno sorgere. Se le credenze non si differiscono in questo rispetto, se acquietano lo stesso dubbio producendo la stessa regola d’azione, allora mere differenze nella maniera di percepirle non ne fanno credenze differenti, non più che il suonare una stessa melodia in diverse chiavi ne faccia diverse melodie […]. Per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abitudini essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abitudine implicata da essa. […] Così dobbiamo scendere al tangibile e al pratico, per trovare la radice di ogni vera distinzione di pensiero per sottile che sia; e non vi è distinzione di significato, per fine che sia, che possa consistere in altro che in una possibile differenza pratica. Il pragmatismo di Peirce si configura quindi principalmente come una teoria del significato, anziché come una teoria della verità, come è invece il pragmatismo di James (vedi p. 278): è il significato della credenza, non la sua verità, che si identifica con i suoi effetti pratici.
Il fissarsi della credenza in Peirce
Dubbio: momento di indecisione prima di un’azione
2 I quattro modi per consolidare una credenza
Ricerca: una lotta interiore per risolvere il dubbio
Credenza o opinione consapevole: il dubbio viene acquietato da una scelta capace di guidare l’azione
Abitudine o regola d’azione: se non sorgono altri dubbi l’azione viene ripetuta
Significato: gli effetti pratici dell’agire costituiscono il significato di una credenza
Il metodo scientifico Per Peirce, dunque, solo il significato della credenza, non la sua verità, può essere identificato con i suoi effetti pratici. Il fatto che una credenza sia più efficace rispetto ad altre non comporta che essa sia anche vera. Esistono diversi modi di consolidare una credenza, ma solo uno conduce alla verità. Un primo modo è quello che Peirce chiama il «metodo della tenacia»: è il metodo seguito da chi si rifiuta ostinatamente di mettere in discussione le proprie convinzioni. Un secondo modo è il cosiddetto «metodo dell’autorità»: è il metodo seguito da chi si adegua alle opinioni imposte con la forza da un’autorità esterna, come lo Stato. Un terzo modo è il «metodo dell’a priori» (o «metodo metafisico»): è quello seguito da chi pretende di raggiungere la verità attraverso la speculazione razionale, senza il ricorso all’esperienza, come fanno le filosofie di carattere idealistico. Tutti e tre questi metodi escludono la possibilità di errore e di correzione, ritenendosi infallibili. 273
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel Metodo scientifico e fallibilismo
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Il valore di verità dei quattro metodi per consolidare una credenza Ch.S. Peirce, Il fissarsi della credenza, 5
I modi di consolidare le credenze in Peirce
Il quarto modo è il «metodo scientifico», ed è solo attraverso di esso che si può ottenere la verità di una credenza. Questo metodo si basa sul procedimento sperimentale ed è perciò in grado di correggere continuamente i propri risultati: esso è, dice Peirce, un metodo «fallibilista». In quanto capace di scartare gli errori, esso consente di approssimarsi sempre più alla verità, fornendo un criterio con cui valutare il modo giusto o sbagliato di procedere. Fra i quattro metodi, questo [quello scientifico] è l’unico che introduca una distinzione fra un modo giusto di agire e uno sbagliato. Se adotto il metodo della tenacia e mi sottraggo ad ogni influenza, tutto ciò che riterrò necessario allo scopo sarà necessario secondo il metodo. Lo stesso vale per il metodo dell’autorità: lo Stato può tentare di eliminare l’eresia con mezzi che, da un punto di vista scientifico, sembrano calcolati molto male per raggiungere lo scopo; ma l’unico controllo di questo metodo è proprio ciò che lo Stato pensa, cosicché lo Stato non può seguire il metodo in maniera scorretta. Ed è così anche per il metodo a priori. La sua vera essenza consiste nel pensare come si è inclini a pensare. Tutti i metafisici si comporteranno certamente così, per quanto possano essere inclini a giudicarsi l’un l’altro perversamente in errore […]; e si può essere sicuri che qualsiasi cosa l’indagine scientifica avrà sottratto al dubbio riceverà immediatamente da parte dei metafisici una dimostrazione a priori. Le cose stanno diversamente con il metodo scientifico. Io posso partire da fatti noti e osservati per procedere verso ciò che mi è sconosciuto; e tuttavia le regole che seguo nel fare questo possono non essere quelle che l’indagine approverebbe. La prova per vedere se sto veramente seguendo il metodo non è l’appello immediato ai miei sentimenti o ai miei scopi, ma, al contrario, implica essa stessa l’applicazione del metodo. Vi è quindi la possibilità sia di ragionare bene che di ragionare male.
Metodo della tenacia
Metodo dell’autorità
Metodo metafisico o dell’a priori
Metodo scientifico
Le convinzioni indiscutibili consolidano la credenza
Un’autorità impone la credenza
La riflessione razionale, senza ricorso all’esperienza fonda la credenza
Il procedimento sperimentale permette di correggere i risultati e scartare gli errori
Si ritengono infallibili e non ammettono correzioni né errori. Non raggiungono la verità
Tre tipi di ragionamento scientifico
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Attraverso di esso si può ottenere la verità
La procedura di ragionamento propria della scienza fa ricorso a tre differenti tipi di inferenza. La deduzione, che inferisce da una proposizione generale una proposizione particolare, conservandone la verità, ma non aggiungendo nulla di nuovo a quanto contenuto nella premessa generale; l’induzione che inferisce da una proposizione particolare una proposizione generale: essa «dalla conoscenza che certi membri di una classe, scelti a caso, hanno certe proprietà, conclude che tut-
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Unità 7 La filosofia anglo-americana: il pragmatismo e il neoidealismo
ti i membri della medesima classe le avranno ugualmente», e serve quindi a classificare più che a spiegare; infine, la procedura che Peirce chiama «abduzione». L’abduzione L’abduzione è una forma di ragionamento ipotetico, che consiste nel formulare, in base all’osservazione di un determinato effetto, una ipotesi in grado di spiegarlo: per esempio, «se c’è cenere ci deve essere stato un fuoco». È l’inferenza abduttiva quella che maggiormente consente di far progredire la conoscenza scientifica; tuttavia, essa non conduce a conclusioni definitive, ma solo a credenze rivedibili alla luce della loro conferma sperimentale: solo la conferma sperimentale può garantire la validità del procedimento abduttivo.
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I caratteri dell’abduzione Ch.S. Peirce, Scienza e pragmatismo
L’avanzare un’ipotesi e il sostenerla, vuoi come semplice interrogazione vuoi come proposizione in qualche modo degna di fiducia, è un processo di inferenza che io propongo di chiamare abduzione (o retroduzione). Questo implicherà una preferenza per qualunque ipotesi, su altre che spiegano egualmente bene i fatti, anche se questa preferenza non si fonda su alcuna precedente conoscenza che poggia sulla verità delle ipotesi, né su alcuna prova di alcuna delle ipotesi, dopo che tali ipotesi sono state accettate sulla base di altre prove. Chiamo questo tipo di inferenza con lo strano nome di abduzione, poiché la sua legittimità dipende da principi completamente differenti da quelli di altri tipi di inferenza. Molto prima che io considerassi l’abduzione come inferenza, i logici riconobbero che l’operazione di adottare un’ipotesi come spiegazione – proprio ciò che è l’abduzione – era soggetta a certe condizioni. L’ipotesi, cioè, non può essere ammessa, anche come ipotesi, se non si suppone che essa renda ragione dei fatti o di alcuni di essi. La forma di inferenza perciò è: Viene osservato il fatto sorprendente C: Ma se A fosse vero, C sarebbe naturale Perciò, c’è ragione di pensare che A sia vero.
I tipi di inferenza in Peirce
Ragionamento scientifico
3 Il pensiero e i segni
Deduzione: inferisce una proposizione particolare da una generale
Induzione: inferisce una proposizione generale da una particolare
Abduzione: formula un’ipotesi che spiega un determinato effetto osservato
Non aggiunge nessuna conoscenza
Classifica più che spiegare
Consente veri progressi nella conoscenza
La semiotica Poiché il pensiero si fonda sui significati, Peirce afferma che «non è possibile pensare senza segni». L’attenzione al funzionamento logico del pensiero lo porta a sviluppare in numerosi interventi anche un’articolata teoria dei segni, o semiotica. Segno è tutto ciò che consente una comunicazione, e ogni segno rimanda all’«oggetto» a cui si riferisce. 275
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Parte prima L’Ottocento dopo Hegel
Peirce divide i segni in «icone», «indici» e «simboli» o «segni generali»: 1) le icone indicano le qualità sensibili che hanno un «fondamento» e che vengono riconosciute immediatamente. Rimandano a una sensazione priva di inferenze – «una sorta di idea» dice Peirce – che precede la percezione di un oggetto: per esempio la sensazione di «nero» o di «rosso». Può darsi che nei passaggi successivi si scopra che in realtà quello che si ha davanti non è propriamente «rosso», ma una sfumatura più chiara, un «arancio» molto intenso, ma questo non cancella la verità di quella prima sensazione immediata, che non è ancora stata identificata come parte di un oggetto; 2) gli indici sono i segni di un passaggio successivo che ci permette di mettere in relazione quella sensazione immediata in modo da darle delle limitazioni e riconoscere così che appartiene a un oggetto: è il passaggio attraverso cui si stabilisce che quello che si ha di fronte è «rosso» e che lo si sta percependo come qualità che appartiene a qualcosa; 3) a questo punto si possono formulare proposizioni descrittive in cui il predicato «rosso» diviene un simbolo o segno generale; ed è a questo livello che prende forma un giudizio percettivo in cui si sommano tutte le note che ho raccolto attraverso le due fasi precedenti, per cui si può dire per esempio: «questo libro è rosso» identificando sia l’oggetto sia la sua qualità. Giudizio che può essere verificato e modificato attraverso la ripetizione dell’esperienza. Le icone non visive Una precisazione importante è che l’icona può appartenere anche a una qualità non visiva: per esempio si possono ascoltare alcune note che si riconoscono come appartenenti a una melodia già sentita e poi passare attraverso le altre due fasi per cogliere l’oggetto, per esempio l’Inno di Mameli, e formulare tale credenza in un giudizio. Il pensiero Al terzo tipo di segni è collegato quindi un soggetto interprete che comprende il interpretante significato del segno generale attraverso un segno «interpretante», cioè attraverso un altro segno (la proposizione, il giudizio di cui il simbolo è predicato), dato che per Peirce il pensiero implica a sua volta un linguaggio e quindi dei segni.
Icone, indici e simboli
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La formazione dei segni Ch.S. Peirce, Scienza e pragmatismo
L’autonomia della semiotica dalla filosofia
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La logica, nel suo senso generale, non è che un altro nome per semiotica (semeiotikè), la dottrina quasi-necessaria o formale dei segni. Definendo tale dottrina quasi-necessaria o formale, intendo dire che noi osserviamo i caratteri dei segni quali sono quelli che conosciamo e che da tale osservazione, mediante un processo che non ho nulla in contrario a chiamare «astrazione», noi siamo condotti ad asserzioni eminentemente fallibili, e perciò stesso in nessun modo necessarie, che si riferiscono a ciò che devono essere i segni usati da un’intelligenza scientifica, cioè da un’intelligenza che è in grado di trarre insegnamenti dall’esperienza. […] Un Segno o Representamen, è qualcosa che sta per qualcuno in luogo di qualcosa in qualche rispetto o capacità. Esso si indirizza a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno più sviluppato. Quel segno che esso crea io lo chiamo interpretante del primo segno. Il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quell’oggetto non in tutti i rispetti, ma in relazione ad una sorta di idea che sono solito chiamare fondamento del segno. Ogni cosa, anche l’interpretante, sostiene Peirce, assume dunque il ruolo di se