La politica, Libro I
 978-88-913-0047-8 [PDF]

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Zitiervorschau

Istituto italiano per la storia antica

ARISTOTELE LA POLITICA direzione di Lucio Bertelli e Mauro Moggi

Libro I a cura di Giuliana Besso e Michele Curnis

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

Volume pubblicato con il contributo dell’Istituto italiano per la storia antica

Giuliana Besso ha scritto l’introduzione al Libro I, tradotto il testo e scritto il commento. Michele Curnis ha scritto l’introduzione alla storia del testo, ha curato il testo greco con gli apparati critici e scritto le note testuali

© Copyright 2011 by «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Via Cassiodoro 19 - Roma http://www.lerma.it Tuti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.

Aristoteles La politica / Aristotele. - Roma : «L’Erma» di Bretschneider, 2011- . - v. ; 20 cm CDD. 22. 321.06 1: Libro I / a cura di Michele Curnis e Giuliana Besso. - 2011. VI, 256 p. - (Aristotele. La Politica ; 1) ISBN 978-88-8265-617-1 I. Curnis, Michele II. Besso, Giuliana

Introduzione al libro I

PRESENTAZIONE DELL’OPERA

Malgrado l’Italia sia stata la sede della prima traduzione latina della Politica di Aristotele, uscita a Viterbo nel 1260 per mano di Guglielmo di Moerbeke, probabilmente per invito di Tommaso d’Aquino, che se ne servì per il suo commento, e nonostante che a Firenze tra Quattrocento e Cinquecento una nutrita schiera di umanisti (Leonardo Bruni, Donato Acciaiuoli, Antonio Brucioli, Bernardo Segni, Benedetto Varchi, Pietro Vettori etc.) si sia dedicata intensamente a traduzioni, volgarizzamenti e commenti della Politica, dopo questa ferace stagione di studi, dal ʼ600 in poi, l’interesse per quest’opera aristotelica sembra del tutto tramontato. Se si scorre infatti l’elenco delle edizioni e traduzioni della Politica tra ʼ800 e ʼ900 si vedrà che l’impegno filologico ed esegetico su questo testo è emigrato altrove: in Germania, in Francia e in Inghilterra. In Italia non si produce nessuna impresa editoriale paragonabile a quelle ancora fondamentali di I. Bekker (1831) e di F. Susemihl (1872-1894) in Germania, di Barthélemy St. Hilaire (1848) in Francia, di R. Congreve (1855), R. Jowett (1885), W.L. Newman (1887-1902) in Inghilterra. Bisogna arrivare a V. Costanzi (1948), C.A. Viano (1955), R. Laurenti (1966) per rivedere traduzioni italiane, tutte benemerite per la diffusione del testo a livello scolastico e genericamente culturale, ma che offrono interpretazioni che non entrano tuttavia nel merito della tradizione testuale della Politica, recependo di solito l’edizione oxoniense di D. Ross (1957), e che presentano un apparato esegetico limitato a brevi annotazioni. Si avverte pertanto la mancanza di una traduzione che non si accontenti del testo stabilito da precedenti edizioni e di un commento organico agli otto libri della Politica, che affronti tutti i complessi problemi di natura testuale e di ordine politico-filosofico, istituzionale e storico che il trattato contiene. Questa iniziativa scientifica ed editoriale colma dunque una lacuna nel panorama nazionale, ma si inserisce nell’ambito degli studi aristotelici anche a livello internazionale, dal momento che l’attuale situazione dei commenti lascia ampio spazio a nuovi interventi. In effetti, i commenti esistenti – da quello di W.L. Newman (18871902) a quello di J. Aubonnet (1960-1989) – anche quando sono il frutto apprezzabile e utile del lavoro di studiosi dotati di grande cultura, intelligenza e sensibilità nei confronti del testo aristotelico, costituiscono nondimeno una dimostrazione delle difficoltà che si incontrano inevitabilmente nell’affrontare un’opera che, per la sua ricchezza di temi e

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PRESENTAZIONE

di problemi, richiede una ricchezza di conoscenze e di competenze che è raro trovare in una sola persona. Una precisa indicazione in questo senso viene dal monumentale lavoro di E. Schütrumpf (1991-2005), il quale ha opportunamente fatto ricorso alla collaborazione di H.-J. Gehrke per i libri IV-VI, che sono i più ricchi di exempla historica, di norma tanto preziosi per lo storico, quanto difficili da contestualizzare e da interpretare in maniera corretta ed esauriente. D’altra parte, l’edizione oxoniense curata T. Saunders, R. Robinson, D. Keyt e R. Kraut (1973-1999), solo apparentemente può essere considerata il frutto di un lavoro di équipe, perché in realtà rappresenta il risultato della divisione del lavoro fra un gruppo di studiosi, che sembrano aver operato in maniera individuale e autonoma ai libri affidati a ciascuno di loro. Ciò che caratterizza la presente edizione con traduzione e commento e che la distingue dalle precedenti è il suo essere il risultato di un lavoro di squadra, di una collaborazione interdisciplinare, che ha visto la partecipazione di studiosi le cui diverse competenze e specializzazioni dovrebbero aver creato le condizioni per un approccio adeguato a un testo che pone problemi, spesso di soluzione tutt’altro che facile, al filosofo, al politologo, allo storico, al filologo, al giurista etc. Il piano dell’opera prevede la pubblicazione di una serie di volumi di traduzione e commento dedicati agli otto libri della Politica, preceduti nel primo da una Introduzione alla storia del testo e alle sue edizioni moderne, e seguiti da un volume miscellaneo di saggi affidati a diversi studiosi, che affronteranno una serie di problemi relativi all’opera e all’autore e che costituiranno una sorta di guida alla lettura della stessa. Per concludere, un vivo ringraziamento va all’Istituto italiano per la storia antica, che ha inserito questa iniziativa tra i suoi progetti scientifici di maggiore interesse, incoraggiandola, dal 2005 in poi, con un prezioso sostegno morale e materiale.

LUCIO BERTELLI E MAURO MOGGI

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INTRODUZIONE ALLA STORIA DEL TESTO DELLA POLITICA

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1. Tradizione diretta e indiretta La serie di peripezie dei libri aristotelici prende avvio, ormai per secolare consuetudine, da un aneddoto plutarcheo molto celebre, inserito nella Vita di Silla (26). «Salpò (scilicet Silla) con tutta la flotta da Efeso, e due giorni dopo approdò al Pireo. Si fece iniziare ai misteri e si impossessò della biblioteca di Apellicone di Teo, che conteneva quasi tutti i libri di Aristotele e di Teofrasto, allora poco conosciuti dai più. Si dice che quando la biblioteca fu portata a Roma, il grammatico Tirannione si occupò di riordinarla in gran parte; da lui Andronico di Rodi riuscì a ottenere gli esemplari (tw`n ajntigravfwn) dai quali trasse le copie che mise in circolazione e i cataloghi ora in uso. È evidente che i Peripatetici più antichi furono di per sé uomini colti ed eruditi, ma non avevano conosciuto se non, superficialmente, poche delle opere di Aristotele e Teofrasto, perché l’eredità di Neleo di Scepsi, al quale Teofrasto lasciò i suoi libri, era finita nelle mani di gente grossolana e ignorante»1.

La notizia dell’acquisizione di questa eccezionale biblioteca da parte di Silla va collocata nell’autunno dell’84 a.C., poco dopo la morte del precedente proprietario2. Del bibliofilo (più che filologo) Apellicone di Teo danno notizia Ateneo di Naucrati (V 214d-215b) e Strabone di Amasea (XIII 1, 54), per informare come si fosse procurato manoscritti di Aristotele e di Teofrasto dagli eredi di Neleo di Scepsi. La successione ereditaria dei libri aristotelici (con la menzione congiunta di quelli del maestro e del suo allievo indiretto Teofrasto di Ereso) si legge sempre nel passo ricordato di Strabone – che, tra l’altro, del grammatico

1 Meriani 1998, pp. 383-385. Sui personaggi evocati cfr. le note (di M.G. Angeli Bertinelli) in Angeli Bertinelli 1997, pp. 371-373. Sulle fonti di Plutarco, tra cui (forse anche per il capitolo in esame) i Commentarii dello stesso Silla, Russo 2002 (spec. pp. 291-292.). 2 In realtà le indagini sugli antichi cataloghi delle opere del filosofo permettono di risalire anche a un’età più remota. Diogene Laerzio (V 22) menziona nel suo minuzioso elenco di scritti aristotelici prima un Politico in due libri (molto probabilmente un dialogo), poi una Politica in due libri, che potrebbe aver fatto parte dell’attuale testo (gli ultimi due, VII e VIII?), oppure aver costituito un trattato a parte, e poi ancora un «corso di politica in otto libri, come quello di Teofrasto» (Politikh`~ ajkroavsew~ wJ~ hJ Qeofravstou aV bV gV dV eV ıV zV hV ), i cui otto libri coincidono con la consistenza della Politica come trasmessa dai testimoni medioevali. Moraux, sulla base di numerose indicazioni all’interno di un’ulteriore lista, meglio nota come ‘Catalogo di Tolemeo’, ipotizza che tra III e II secolo a.C. un maestro della Scuola si fosse interessato alla storia dell’istituto, ai testamenti dei suoi predecessori, alle opere dello stesso Aristotele; tale personaggio sarebbe da identificare con Aristone di Ceo (più che con Ermippo): cfr. Moraux 1951, pp. 95, 313 e l’appendice Political Miscellanies of Aristotle, in Barker 1946, pp. 385-389.

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Tirannione fu allievo diretto –, e rientra nel filone letterario sulle tradizioni interne alle scuole filosofiche dell’antichità (il Liceo, appunto); la breve digressione nasce da una notizia sulla biografia di «Neleo, figlio di Corisco, che era stato uditore sia di Aristotele sia di Teofrasto, e che di quest’ultimo aveva ereditato la biblioteca3 (nella quale era confluita quella di Aristotele; egli aveva infatti lasciato i suoi libri, come pure la direzione della scuola, allo stesso Teofrasto)». Il dato che più interessa del racconto di Plutarco è invece un altro, di carattere geografico; si apprende infatti con certezza che grazie a Silla una biblioteca contenente gli opera (non però omnia) di Aristotele viene trasferita da Atene a Roma e diventa oggetto di cure critiche (Tirannione è un grammatico; Andronico, filosofo peripatetico, è secondo la tradizione l’undicesimo successore di Aristotele alla guida del Liceo4: con questa responsabilità si assunse il compito di diffondere gli scritti del maestro in una versione attendibile e corretta)5. Per quanto concerne, ancora, la geografia della diffusione libraria, le notizie (più o meno precise) di Strabone e di Plutarco appaiono circoscritte a un’area

3 Notizia ulteriormente confermata dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio V 52 (in cui si legge il testamento di Teofrasto). Per un dettagliato resoconto delle fonti, e soprattutto per un vaglio critico di tutte le notizie sul destino della biblioteca di Aristotele cfr. il capitolo d’apertura di Moraux 1973 = 2000, pp. 3-31 = 13-40 (in tale capitolo, intitolato appunto La sorte della biblioteca di Aristotele non si dimentica mai la componente alquanto romanzesca e aneddotica delle fonti sul fortunoso ritrovamento della biblioteca aristotelica). 4 Anche se esistono dubbi sull’effettiva sopravvivenza del Liceo come scuola all’epoca di Andronico: cfr. Donini 1982, pp. 32, 45 n. 1 (le pp. 81-86 sono inoltre dedicate all’edizione dello stesso Andronico). 5 Jean Aubonnet esordisce nel suo paragrafo dedicato all’établissement du texte con riferimento certo all’edizione di Andronico. Anzi: «parrebbe che tutti i manoscritti della Politica, attraverso intermediari diversi, derivino dal testo corretto da Andronico» (Aubonnet 1960, p. CXCVII; traduzione e corsivi nostri). Ma, a parte la nozione di intermediario riferito a modelli che colleghino i manoscritti conservati (il più antico, frammentario, è del X secolo) con il testo giunto a Roma nel I secolo a.C. (ammesso che anche la Politica fosse tra le opere di Aristotele conservate nella raccolta di Neleo), l’asserzione di Aubonnet esclude che si sia potuta sviluppare una tradizione testuale della Politica a partire da altri centri del mondo antico (Alessandria, Pergamo, la stessa Atene) all’infuori di Roma. Aubonnet ricerca con insistenza la presenza di antiche edizioni della Politica: anche quello compiuto da Aristone sarebbe secondo lui un lavoro ecdotico a tutti gli effetti, tanto da costituire il termine di riferimento dell’edizione di Andronico (p. CXCVIII). Cfr. il capitolo Zur Textgeschichte der aristotelischen Politik, in Oncken 1870-1875, pp. 64-100 (anche per una sintetica descrizione di alcuni manoscritti e delle principali edizioni a stampa). Sulla Rezeption della Politica a partire dall’età antica cfr. le poche ma dense pagine dell’omonimo capitolo in Schütrumpf 1991, I, pp. 67-71.

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piuttosto limitata. Parrebbe impossibile che, all’inizio del primo secolo a.C., la diffusione dei libri di Aristotele (e quindi anche la conoscenza della Politica) fosse limitata alla traiettoria Atene-Scepsi, dove Neleo a suo tempo li aveva conservati, e dove i suoi eredi (la «gente grossolana e ignorante») li avevano inseriti in un’umida cavità del terreno per timore di una confisca da parte dei sovrani Attalidi («l’ardeur bibliophile des Attales», come scrive Moraux)6. Questo è l’aneddoto, o – se si preferisce – il romanzo ante litteram sulla sorte di celebri raccolte. Ma le biblioteche alessandrine? L’Aristotele degli scritti scolastici non era noto anche altrove? Anzi: ben più che ad Atene? Nel caso della Politica non è possibile una risposta positiva, perché tra la morte di Aristotele e il I secolo a.C. non è conservata alcuna attestazione della sua lettura diretta7. Questa mancanza non obbliga però a ritenere completamente veri i racconti antichi sulla biblioteca di Aristotele. A differenza del testo di Plutarco, le affermazioni di Strabone sembrano piuttosto finalizzate a mostrare quanto fosse deperita la tradizione del Liceo nella stessa città in cui era nato, al punto che molte opere di Aristotele non si leggevano più (scomparse addirittura dopo la morte di Teofrasto, e introvabili fino all’oneroso acquisto di Apellicone dagli improvvidi eredi di Neleo). Apellicone poi, constatato il deterioramento dei volumi, ebbe cura di restaurarli personalmente, ossia di trarne nuove copie perfettamente leggibili: ma Strabone stesso riferisce che a causa della sua scarsa preparazione «non integrò correttamente, anzi pubblicò i libri ricolmi di errori» (ajnaplhrw`n oujk eu\, kai; ejxevdwken aJmartavdwn plhvrh ta; bibliva, Str. XIII 1, 54)8. Oltre al titolo e al numero di libri che compongono la Politica, le testimonianze della tarda antichità non dicono nulla, come è da aspettarsi,

6 Moraux 1951, p. 1. Strabone si riferisce a Eumene II, che regnò su Pergamo tra 197 e 159 a.C. e operò con grande zelo (l’autore della Geografia parla di spoudhv) per fondarvi una biblioteca. 7 Parimenti molto incerti la collocazione cronologica delle lezioni sulla tevcnh politikhv, che Aristotele tenne, e quindi il periodo di redazione degli otto libri della Politica; quale risultato dell’annosa questione, la scrittura della Politica risulta suddivisa in tre periodi, corrispondenti a tre blocchi non consequenziali dell’opera: 1) libri VII e VIII composti tra 347 e 344 a.C.; 2) libri I-III composti tra 342 e 336; 3) libri IV-VI composti tra 335 e 322; nel merito, cfr. Barker 1931, pp. 162-172, e il capitolo Stellung und Verhältnis der Bücher bzw. Buchgruppen, in Schütrumpf 1991, I, pp. 39-67. 8 Canfora 2002a, p. 75 ha fatto notare che la sostanziale concordanza di notizie di Strabone e Plutarco deve essere interpretata come indizio di affidabilità: «Appare perciò immotivata la diffidenza che alcuni moderni ancora serbano nei confronti di questa “storia del testo” dei Trattati di Aristotele com’è raccontata da Strabone».

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sulla configurazione del testo, sulle sue qualità, sulle questioni esegetiche: insomma, su tutto quanto scaturisce dalla recensione dei testimoni a confronto, la cui storia è molto tarda rispetto alle notizie degli autori antichi. Di quest’opera non si conosce un commentario sistematico specificamente dedicatole; né sono frequenti i riferimenti da parte della folta schiera dei commentatori di Aristotele, a cominciare da Alessandro di Afrodisia (che si limita a rarissimi cenni di confronto con la Politica)9. La mancanza di una tradizione esegetica parallela alla diffusione del testo aggrava il quadro di scarsità della tradizione indiretta; accanto alle citazioni di autori antichi e alle loro osservazioni, il paragone tra il corredo lemmatico di un commentario (ossia le stringhe di testo originale che suscitano il commento stesso), le citazioni interne, e il testo completo – noto grazie alla tradizione medioevale – permettono sovente di comprendere assai meglio le configurazioni e le versioni dei codici stessi, la congruità del testo tràdito rispetto a quanto leggevano i commentatori antichi, la differenza tra una vulgata medioevale e un versante più antico della tradizione. Ma tutto questo per la Politica non è dato; al contrario, occorre basarsi esclusivamente sui codici tardo-medioevali per proporne una versione critica (il manoscritto greco più antico che contenga tutto il testo non è anteriore al XIV secolo). L’assenza di un testo esegetico strutturato in maniera organica sui libri di quest’opera ha insospettito gli studiosi moderni, tanto da far profilare a Otto Immisch un’ipotesi che fosse “compensativa” dell’ingiusto oblio e del disinteresse dei commentatori. Immisch studiò e pubblicò per primo gli scolî e le glosse contenuti in un manoscritto di Berlino (l’importante codice Hamiltonianus 41, H del XV secolo), e osservò la sostanziale identità di alcune di queste annotazioni marginali ad allusioni e riferimenti al testo della Politica in scritti di Michele di Efeso, forse discepolo di Michele Psello, tra l’altro commentatore dell’Etica Nicomachea nel circolo filosofico promosso da Anna Comnena10. Le glosse in questione sono importanti nel confronto con il testo offerto dai manoscritti, ma la ricostruzione di Immisch, prontamente accolta soprattutto dall’ultimo editore della Politica, Alois

9 Non è neppure certo che Alessandro disponesse di una copia integra della Politica: «On peut se demander si Alex. a pu lire Pol. qui paraît avoir été négligée dans l’antiquité, et dont les copies sont rares et tardives. Marc Aurèle, IV 24, évoque l’animal politique, 1252 a 2. Alex. pourrait avoir cité Phocylide d’après une autre source» (Thillet 1987, p. 110 n. 22). Comunque in un passo del Commento alla Metafisica (CAG I, 17,7) Alessandro cita il titolo TA POLITIKA, con riferimento a I 5, 1254a 14-15. 10 La scena è dunque Costantinopoli nell’XI secolo; sull’opera di Michele Efesio (e in generale su I Bizantini come commentatori di Aristotele) Eleuteri 1995.

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Dreizehnter, eccede forse in ottimismo: Immisch suppone che Michele Efesio avesse redatto nella seconda metà dell’XI secolo un commento completo (o comunque esteso) alla Politica, poi andato perduto (e si tratterebbe dell’unico commentario greco); soltanto sparuti lacerti sarebbero rifluiti, nella tradizione scoliastica bizantina, in un filone importante (ossia esemplari con testo originale e annotazioni marginali tratte da studi qualificati: l’opera dei commentatori), superstite unicamente nel codice H. L’idea di Immisch è molto affascinante, forse anche perché non ha ripercussioni decisive sulla costituzione del testo; ma riesce difficile accettarla del tutto (come hanno fatto Barker11 e Dreizehnter; quest’ultimo segna nel suo apparato i lemmi provenienti dagli anonimi scolî del codice H come lezioni ascrivibili direttamente a Michele Efesio). Innanzi tutto, solo alcuni dei riferimenti che Michele Efesio rivolge alla Politica – mentre commenta l’Etica Nicomachea – si ritrovano nei margini di H; in secondo luogo il materiale scoliastico, di per sé piuttosto scarso, risulta eterogeneo, perché molto probabilmente dovuto alla cernita di più materiali: con un commento perpetuo a disposizione le trascrizioni laterali in H sarebbero state forse più frequenti e certamente più sistematiche; da ultimo, se realmente Michele Efesio avesse composto un commento organico alla Politica, ci si potrebbe domandare perché sentisse il bisogno di richiamare in esso (o perché da esso siano desunte) chiose e glosse che si leggono nei commenti all’Etica. In definitiva, poiché di Michele è attestato un lavoro esegetico sull’Etica aristotelica, in cui si accenna più volte alla Politica, e non il contrario, sembra più economico ipotizzare che un lettore erudito, forse un «copista per passione»12, abbia tratto dai commenti all’Etica di Michele Efesio alcuni materiali sulla Politica, e

11 Barker 1957, pp. 136-141, dedica un capitolo specifico a questo testo (A Byzantine Commentary on Aristotle’s Politics / By Michael of Ephesus [circa 1070-80]), come se fosse tràdito o come se gli scholia di H indicassero esplicitamente la paternità di Michele Efesio. 12 Definizione di Cavallo 2002, p. 224 per una categoria di studiosi-lettori, ma soprattutto ‘operatori materiali’ del libro. Anche nella trasmissione della Politica è intervenuta quella élite culturale che «nel suo complesso gioca un ruolo fondamentale nella trasmissione dei testi classici a Bisanzio: una élite fatta di uomini di Stato, alto clero, funzionari diversi civili ed ecclesiastici, militari di rango, monaci eruditi pur se rari (o meglio, più spesso, eruditi fattisi monaci), ai quali tutti facevano da ‘supporto’ scolastico insegnanti diversi, grammatici, retori, filosofi; una élite, insomma, formata non soltanto da figure-cardine, ma anche e soprattutto da “shadowy figures”, cui è legata per la più parte la produzione e la circolazione di quei libri-manoscritti che hanno assicurato la conservazione e trasmissione dei testi antichi nel mondo bizantino» (ibid., p. 213). Specificamente dedicati ai marginalia lo studio di Odorico 1985 e il capitolo Lorsque le lecteur se révèle, in Cavallo 2006, pp. 133-137.

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li abbia trascritti sui margini della copia che stava studiando, insieme ad altre osservazioni, sue o di provenienza ancora differente. Forse questo lavoro risale all’età comnena (XI-XII secolo), quando un erudito lettore sente il bisogno di radunare annotazioni alla Politica (bisogno culturale analogo a quello di creare la silloge di scritti politici originariamente contenuta nel codice V). Tranne gli ultimi due secoli della sua storia (ossia l’epoca cui rimandano i più antichi manoscritti conservati) la letteratura bizantina non dimostra particolare interesse nei confronti della Politica e della sua interpretazione; è ormai acquisito nel mondo bizantino il parallelismo tra la fortuna della tradizione diretta di Platone (equivalente a pluralità e varietà di fonti manoscritte), e il numero, relativamente scarso, di codici aristotelici (fatta eccezione per le opere di logica); al contrario, su Aristotele è fiorita una formidabile tradizione esegetica (la serie dei commenti, in parte ancora inedita), mentre i commentari sistematici ai dialoghi platonici sono, dopo il VI secolo, molto scarsi. Bisogna evitare di ridurre la complessità culturale del mondo bizantino (e prima ancora dell’età tardoantica) alla sola esigenza di conservazione e di trasmissione della letteratura antica; vale però una deroga sul corpus aristotelico, applicabile anche alla Politica, formulata a suo tempo da Paul Maas: «Le scienze particolari non hanno per loro natura interessi particolarmente letterari e piuttosto tengono fermi i risultati canonizzati; quindi esse hanno conservato molto soltanto in rielaborazioni recenti, compilazioni, dossografie, però anche Platone per intero e la maggior parte di Aristotele (ma niente dei suoi scritti giovanili)».13

Alla disamina dei documenti effettivamente superstiti bisogna aggiungere considerazioni di ordine ancor più pragmatico, derivanti dalla sostanza della Politica. L’assenza di un commentario organico (la cui confezione nel cenacolo di Anna Comnena è supposizione plausibile, ma nulla più) va intesa in congiunzione al totale disinteresse della letteratura antologica, di gnomologi e florilegi, così come dei sacra parallela medioevali (insomma, di tutta la cosiddetta ‘letteratura di raccolta’) nei confronti della Politica. Per motivi stilistici (un greco affatto privo di lusinghe, spesso sintatticamente aggrovigliato, a rischio di solecismo, soprattutto nei primi due libri)14, oltre che per le complesse

13 La traduzione è di Giorgio Pasquali, che inserisce lo scritto maasiano Sorti della letteratura antica a Bisanzio in appendice a Pasquali 1988, p. 488. 14 Lungo la storiografia critica, queste caratteristiche si sono trasformate in elementi di giudizio negativo, soprattutto a causa del paragone stilistico (immoti-

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e sempre dilatate arcate argomentative con cui i contenuti procedono, l’opera è difficilmente antologizzabile: le singole ‘lezioni’ tematiche (a stento ridotte dagli editori entro le maglie di paragrafi come ‘numeri chiusi’ di ciascun libro) solo raramente potrebbero essere sintetizzate con efficacia in pagine di compendio didattico, o – più difficilmente ancora – nelle egloghe delle antologie15. In effetti, a proposito di manuali e ‘raccolte di fiori’ della cultura letteraria greca, occorre chiedersi perché il maggiore regesto enciclopedico di tutta la grecità (l’Anthologion di Giovanni Stobeo, redatto verisimilmente nel V secolo) non presenti una sola citazione dalla Politica, a fronte delle decine e decine di estratti (anche iterati) dalle Leggi e dalla Repubblica platoniche. La prosa classica che tratta di argomenti politici e civili si diffonde in età tardo-antica grazie a più direttrici testuali: dai testi scolastici ai canali della letteratura gnomologica tradizionalmente intesa; eppure sarebbe vano cercare stralci testuali della Politica in una delle linee possibili e ricostruibili, quella pur ricchissima di testi, per esempio, che collega il già citato Anthologion con la coeva Graecarum affectionum curatio di Teodoreto di Cirro e, a ritroso, con la Praeparatio evangelica di Eusebio di Cesarea. Dunque, specialmente ai fini di una breve introduzione alla storia del testo16, sarà opportuno limitarsi ai documenti superstiti che si possono considerare in relazione diretta o indiretta con la Politica. La prima attestazione dello scritto risale a un papiro di provenienza ignota, databile al I/II secolo d.C., di cui due soli frammenti (PMich inv.

vato, a causa della differenza di genere e di funzione comunicativa) tra le opere di Aristotele e gli scritti letterari dei suoi contemporanei (i principali modelli dello stile attico: Isocrate e Demostene). Recentemente Pierluigi Donini, a proposito delle possibili contraddizioni interne al pensiero aristotelico, ha accennato anche allo stile: «Quelli a noi pervenuti sono appunto i suoi scritti di scuola, non opere letterarie elaborate stilisticamente definite una volta per tutte nel loro contenuto e nella forma e destinate poi alla circolazione tra un pubblico estraneo alla prassi didattica: il carattere sempre compresso del linguaggio, sintetico fino all’essenziale e spesso fino all’oscurità, lo stile quasi sempre asciutto e tecnico delle argomentazioni lo dicono con chiarezza» (Donini 2008, p. LXXX). Di alcuni pregiudizi critici del greco aristotelico aveva già fatto giustizia Renehan 1992. 15 Sono gli stessi e più impegnati commentatori, come Alessandro di Afrodisia, a formulare un giudizio stilisticamente negativo: con la sua modalità espositiva Aristotele risulterebbe ‘oscuro’; e di ajsavfeia (letteralmente: «mancanza di trasparenza») si potrebbe tacciare gran parte della sua scrittura (cfr. Eleuteri 1995, p. 440). 16 Lo studio più approfondito relativo a storia e testimonianze della Politica è nell’introduzione dell’ultima edizione critica: Dreizehnter 1970, pp. XI-XXI, XXXIX-XLV.

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6643 e PBrux inv. E 8073) restituiscono pochissime righe di IV 4, 1292a 30-1292b 2 e 1293a 15-1817. Il testo è sostanzialmente consonante con quello dei codici di età medioevale e umanistica, anche se la campionatura leggibile è eccessivamente esigua per stabilire confronti probanti o significativi. Non si può affermare con certezza se il papiro riportasse brani della Politica insieme ad altri testi, oppure contenesse una versione integrale dell’opera. Fa però propendere per la seconda possibilità la presenza di una diple obelismene (≥), che segna la fine del capitolo 4, dopo le parole to;n trovpon tou`ton di 1292a 38. Il fatto è di notevole importanza, perché parrebbe documentare sia l’antichità della suddivisione in capitoli dei singoli libri della Politica sia la coincidenza di tale suddivisione (almeno in questo caso) nella tradizione manoscritta antica e successiva (tanto da persistere nelle edizioni moderne). Il passo inoltre non è testimoniato in nessun altro contesto di tradizione indiretta: l’isolamento testuale contribuisce all’ipotesi che il papiro appartenesse a una copia integrale della Politica. In ogni caso i due frustoli provengono da un papiro di buona fattura, scritto soltanto sul lato perfibrale, provvisto di alcuni segni diacritici, elementi regolarizzatori dei margini (riempitivi), e soprattutto studiato da un lettore colto, in grado di proporre una correzione al testo tràdito (ktwmevnwÊ della prima mano, coincidente con la lezione di tutti i codici, è mutato in kekth[mev-]/[n]wÊ: si veda la nota testuale ad locum). Ma tale intervento non ha lasciato traccia né nei testimoni medioevali né nei pochi scolî al passo. Considerata la sua datazione (età imperiale), forse il papiro rappresenta una copia di edizione coeva o di qualche decennio precedente, ovvero del periodo in cui la maggior parte degli scritti di Aristotele (secondo i resoconti di Plutarco e di Strabone) era tornata in auge nel mondo romano18, grazie all’importazione della biblioteca di

17 Oltre alle schede e alla bibliografia di Moraux 1976, pp. 6, 85-86 (rispettivamente sul frammento conservato a Ann Arbor, University of Michigan, e su quello conservato a Bruxelles, Fondation égyptologique Reine Élisabeth), cfr. soprattutto lo studio di Menci 1989, pp. 265-269, che accosta i due frustoli. 18 Si consideri che un autore come Polibio pare non conoscere direttamente la Politica, nonostante alcuni passaggi del VI libro della sua opera alludano a problemi e istituti politici con terminologia analoga a quella aristotelica. Ma, come nel caso di altri autori di età ellenistica, non è possibile escludere (sarebbe anzi semplificante e riduttivo) che fossero utilizzate fonti intermedie, debitrici alla Politica (e alla serie delle Politei`ai aristoteliche): scritti di ambito stoico, il Tripolitikov~ di Dicearco, etc. W.L. Newman, a latere della sua monumentale edizione commentata della Politica in quattro volumi (Newman 1887-1902) offre una rassegna puntuale (ancorché non esaustiva) di testimonia e loci similes, dove si fa riferimento alla Politica di Aristotele, o

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Neleo di Scepsi a Roma, e alle conseguenti cure scientifiche di Tirannione e di Andronico. Alla cronologia della riscoperta e diffusione degli scritti acroamatici di Aristotele si potrebbe collegare anche la ricostruzione cronologica che Michelangelo Giusta ha ipotizzato nei suoi Dossografi di etica: «In un’epoca, che la menzione di Stoici posteriori a Posidonio e la conoscenza delle opere acroamatiche di Aristotele da un lato, dall’altro la cronologia delle opere filosofiche di Cicerone19 portano a collocare attorno al 50 av. Cristo, fu messa insieme una vasta silloge dossografica di morale, analoga a quella di fisica che il Diels chiamò Vetusta Placita. Come i Vetusta Placita di fisica, i Vetusta Placita di etica erano una dossografia “per argomento”, che cioè raccoglieva per ogni singolo argomento le opinioni dei diversi filosofi e delle diverse scuole»20. L’autore di questi Vetusta placita, secondo Giusta, sarebbe stato il filosofo stoico Ario Didimo. A causa delle caratteristiche dell’opera, «troppo voluminosa e impegnativa», dalla stesura originaria vennero desunte più epitomi, ossia riassunti (localizzati a sezioni varie del trattato), tre delle quali sono conservate all’interno dell’Anthologion di

al cui testo in qualche modo si allude (II, pp. X-XX). In mancanza di riscontro stringente, però, un elenco del genere è più utile a documentare la diffusione di idee e dottrine politiche (certamente originatesi dal magistero aristotelico e poi della scuola peripatetica), che non la conoscenza diretta del testo; nel primo apparato della presente edizione saranno segnalati soltanto i passi in cui risulti ravvisabile una connessione linguistica, oltre che concettuale, tra i documenti, indizio di una lettura diretta o indiretta dello scritto di Aristotele, da Cicerone allo Pseudo-Plutarco di età rinascimentale. Comunque, il fatto che in età ellenistica (almeno fino alla metà del I secolo a.C.) non siano documentabili riprese e letture del testo, unitamente alla datazione dell’unico papiro della Politica, induce ad avvalorare il racconto di Plutarco e Strabone, e a ipotizzare che tra la morte di Aristotele e l’arrivo di Silla ad Atene la circolazione del testo fosse stata pressoché nulla. 19 Cicerone potrebbe essere l’anello di congiunzione tra intellettuali greci e romani nella diffusione degli scritti aristotelici, anche perché ebbe modo di consultare la celebre biblioteca trasportata a Roma da Silla, quando essa apparteneva ormai a Fausto, figlio del dittatore (cfr. Ad Atticum, IV 10, 1). Fausto, per fronteggiare problemi economici, dovette poi disfarsi della biblioteca; non si può escludere che i libri di Aristotele e Teofrasto restassero nella cerchia di Cicerone e di Attico, nonostante negli scritti ciceroniani siano rintracciabili soltanto allusioni alla Politica o probabili parafrasi del testo (mai, però, citazioni dirette). Aubonnet, anche sulla scorta di Eduard Zeller, fornisce comunque un cospicuo elenco di passi in cui Cicerone parrebbe costruire le proprie argomentazioni a partire dal testo della Politica (Aubonnet 1960, p. CXXX n. 4, cui si rimanda anche per la precedente bibliografia. Si tengano presenti in particolare Gigon 1959 e Canfora 1995, spec. pp. 206-212). 20 Giusta 1967, p. 533.

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Giovanni Stobeo (V secolo d.C.). Ai fini dell’indagine sulla diffusione del testo aristotelico nell’antichità, la più importante è la terza (Stob. II 7, 23 = II, pp. 148-152 Wachsmuth), poiché si tratta di un riassunto tematico delle dottrine etica e politica secondo la scuola aristotelica. L’autore dei Vetusta placita aveva certamente studiato e sunteggiato la Politica, di cui restano tracce visibili in alcuni passaggi dell’epitome dello Stobeo21. Il dato più significativo è l’utilizzo diretto di una copia integra della Politica, come inducono a credere le sezioni propriamente riassuntive di interi libri (prima il primo, poi terzo, quinto e settimo); ma il redattore ha contaminato i contenuti del trattato con altre fonti a sua disposizione: «il nostro dossografo [...] ha integrato Aristotele con altri pensatori peripatetici (a p. 151, 1 accenna alla politeiva mikthv come all’ottima delle costituzioni), e la Politica con passi ricavati da altre opere dello stesso Aristotele. Ne fa fede soprattutto il passo p. 150, 10-16, che parla dell’oijkonomikovn, del nomoqetikovn, del politikovn e dello strathgikovn come parti della frovnhsi~, e che corrisponde, per altro non completamente, a Eth. Nic. VI 8 p. 1141b 24 sgg. [...] Quale importanza Didimo attribuisse a questi schemi è provato dal fatto che al punto c) egli presenta come compiti dell’uomo politikov~ quelle che nel libro VII della Politica sono caratteristiche dell’ajrivsth politeiva. Evidentemente la fedeltà del dossografo allo schema da lui precostituito è andata a scapito della fedeltà allo stesso pensiero di Aristotele»22.

In questa «rielaborazione funzionale» i frammenti di parafrasi sono le uniche citazioni (non testuali, se non per brevi sintagmi) della Politica all’interno dello Stobeo: Aristotele (in particolare quello della filosofia politica ed etico-civile) non gode affatto di buona fortuna

21 Il compendio di filosofia peripatetica in cui si leggono brevi estratti dalla Politica (sottoposti però a parafrasi e adattamento, come accade con la tecnica del riassunto) è stato analizzato nel dettaglio (pur senza riferimenti alla tradizione diretta dell’opera) da Hahm 1990; in particolare, alle pp. 2945-2947 lo studioso presenta una suddivisione tipologica del materiale riportato nell’Anthologion (la succinta parafrasi della Politica farebbe parte di una «sezione C» dell’opera di Ario Didimo, dedicata alla filosofia Peripatetica); alle pp. 3030-3034 Hahm ipotizza l’identità del compilatore della «Doxography C» non in un epitomatore di Ario Didimo (quindi fonte dello Stobeo, come aveva ricostruito Giusta), ma nel testo stesso di Ario «arranged by schools» (p. 3032). La ricostruzione complessiva di Giusta è stata ulteriormente confutata da Mansfeld e Runia, che per quanto riguarda l’apporto di Ario Didimo allo Stobeo riprendono le conclusioni di Hahm (Mansfeld-Runia 1996, pp. 238-265). 22 Giusta 1967, p. 524.

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tra i redattori dell’Anthologion. Questa raccolta tarda costituisce però l’unico documento che consente di ipotizzare il lavoro di sintesi operata da Ario Didimo verso la fine del I secolo a. C. sulla Politica: la lettura mirata e funzionale del trattato permette di redigere un capitolo sulla concezione politica dei filosofi peripatetici, e di integrare così il relativo summarium cui Ario Didimo sta attendendo23. Se quella dei Vetusta placita (titolo puramente convenzionale) è una testimonianza indiretta e mediata per alcuni secoli (ossia fino al loro inserimento nell’opera di Giovanni Stobeo), diretto è invece il riferimento offerto da Giuliano: l’imperatore è uno dei pochi lettori dell’antichità a documentare la sua frequentazione (probabilmente assidua) della Politica, che cita e discute in più punti della Epistola a Temistio, riportando passaggi del testo. La testimonianza è importante, sia per accertare la diffusione dello scritto esattamente alla metà del IV secolo d. C. (in più, nella biblioteca imperiale) sia per tentare un confronto (purtroppo molto limitato) di tradizione indiretta antica e manoscritti medioevali. Ma grazie alle citazioni dirette, base di discussione e di dialogo per le riflessioni di Giuliano, il riferimento permette «di indagare sulla storia del testo della Politica in questo oscuro periodo. In particolare [...] il titolo politika suggrammata, con cui l’opera è citata nell’Epistola a Temistio, ne testimonia una valutazione nell’ambito del corpus Aristotelicum ben differente da quella che ha nei cataloghi di Diogene Laerzio e dell’Anonimo»24. E doveva certo trattarsi del testo integro della Politica, non di un’epitome scolastica, come sembra di potersi concludere dall’utilizzo funzionale del materiale con specifica tecnica argomentativa: esso «dimostra inequivocabilmente la conoscenza diretta, anzi una

23 Sulla qualità di questo lavoro dossografico (la «dossografia C» secondo la suddivisione interna di Hahm: cfr. la n. 21) e sull’inevitabile distanza dall’impostazione originaria della Politica si tenga presente il giudizio di valore di Nagle: «[...] that the Epitome is a coherent whole, derives from the consistency of the doctrine expounded in both parts. [...] The fact of the matter is that Arius has not done a particularly good job of forcing a convincing philosophical connection between households, povlei~ and larger political entities. [...] At the best Arius was able to maintain only the doctrine of natural sociability of humankind while watering down its complementary (from an Aristotelian viewpoint), political nature. It might be argued that Arius’ revision of Aristotle preserved the povli~ without restricting development to it and also expanded its moral dimensions and potentialities to all people. [...] Arius and the version of the Peripatetic tradition he represents, embraced the non-povli~ dominated world after Alexander. This world-view includes the povli~, but realistically reduces its importance by extending its scope» (Nagle 2002, passim pp. 216, 219, 221-222). 24 Micalella 1987, p. 81.

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buona padronanza da parte di Giuliano di tutto il testo della Politica, e forse non solo di questo»25 tra gli scritti aristotelici. «Io penso che l’anima di un sapiente siano la sua saggezza, il suo pensiero e la sua dottrina, e che le tombe di queste anime siano i libri e gli scritti (bivblou~ te kai; ta; gravmmata) nei quali i loro resti giacciono come dentro monumenti sepolcrali. Questi monumenti dunque, che nel tesoro della memoria (ejn tw`/ qhsaurw`/ th`~ mnhmosuvnh~) erano decaduti come edifici per lunga incuria e rischiavano di svanire del tutto e di spegnere insieme pure le anime che vi si trovano dentro, egli (l’imperatore Costanzo) ordina che abbiano vita nuova, nomina un soprintendente a questa impresa e fornisce i mezzi necessari all’iniziativa. [...] Fra poco a pubbliche spese ritornerà in vita per voi il sapientissimo Platone, ritorneranno in vita Aristotele e l’oratore di Peania, il figlio di Teodoro e quello di Oloro. [...] per dirla in breve, la moltitudine innumerabile dell’antica sapienza, non quella comunemente nota presso il grande pubblico ma quella arcana e riposta, una schiera ormai affievolita e “sbiadita dal tempo”, che stava scomparendo nelle tenebre. Egli restaura per voi anche questi altri ancor più insigni monumenti delle Muse»26.

Con queste enfatiche e celebri parole Temistio salutava il progetto di Costanzo II di porre rimedio alle cattive condizioni in cui versavano i libri conservati nella biblioteca imperiale di Costantinopoli (metaforicamente indicata come tesoro della memoria); il catalogo degli autori più rappresentativi, la cui opera sarebbe stata ricopiata e resa disponibile in nuovi esemplari, prendeva avvio appunto con Platone, Aristotele, Demostene, Isocrate, Tucidide. La rinascita della biblioteca, finalizzata alla conservazione e alla riproduzione dell’antica letteratura greca (se non addirittura a un’edizione “d’archivio”, ufficiale) prevedeva dunque che si raccogliessero esemplari dei grandi classici (con le opere di Platone e Aristotele in testa); il discorso di Temistio è dell’inizio del 357. Poco tempo dopo, come ricorda Zosimo (III 11, 3), i libri privati di Giuliano (che succedette a Costanzo e regnò tra 360 e 363) confluirono nella biblioteca imperiale che egli stesso aveva fondato a Costantinopoli. Nel contesto culturale tratteggiato con tanto sfarzo da Temistio questa notizia assume un’importanza straordinaria, in particolare se si considera che le riflessioni giulianee sul testo della Politica muovevano dalla lettura di una copia completa dell’opera. Tale copia, con ogni probabilità, entrò a far parte della biblioteca imperiale di Costantinopoli, e giocò un ruolo importante nella tradizione manoscritta della Politica per i secoli a venire27.

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Micalella 1987, p. 79. Maisano 1995, pp. 256-259. Sul significato della pagina di Temistio cfr., per esempio, Monaco 2000, pp. 82-85. 26 27

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Il filosofo neoplatonico Proclo, nato all’inizio del V secolo d. C. (e dunque cronologicamente vicino alla redazione dell’Anthologion), è attento lettore di Aristotele (e della Politica), in quanto commentatore della Repubblica di Platone; l’ultima delle dissertazioni superstiti sul dialogo platonico (che non deve apparire quale semplice appendice del commentario) è infatti dedicata all’inizio del II libro del trattato aristotelico, in cui per più temi e problemi Platone è richiamato in causa, e ne sono confutate alcune idee28. La citazione esplicita di alcuni passaggi testuali indica che anche Proclo aveva sul suo tavolo di lavoro una copia della Politica; ma è significativo che il riferimento al testo di Aristotele non sia né sistematico né all’interno del commento alla Repubblica platonica: si tratta piuttosto di una digressione rispetto al fluire del commento, motivata dal frequente richiamo da parte di Aristotele al testo che Proclo sta analizzando. Gli accenni sono più un completamento del meticoloso lavoro di commento, basato comunque su un interesse specifico per l’ordinamento interno della politeiva, che non la prova di uno studio complessivo della Politica, autonomo o finalizzato al confronto con Platone. Tuttavia Proclo dimostra di conoscerne assai bene la sostanza, come induce a credere l’inizio del testo: «Il divino Aristotele nel II libro della Politica, facendo un esame della Repubblica di Platone, secondo la sua abitudine di mettere alla prova le opinioni di chi lo ha preceduto prima di esporre le proprie, in primo luogo ha assunto quell’ottimo principio fondamentale, ricavato da un procedimento diairetico, riguardante ogni forma di governo, cioè che è necessario che per coloro che si trovano a far parte di una sola e medesima forma di governo vi sia comunanza di tutto o di nulla, oppure che alcune cose le abbiano reciprocamente in comune, mentre altre no. Ed il fatto che non vi sia comunanza di nulla, è impossibile per coloro che vivono nella medesima : infatti ogni città è formata da individui che si associano e si riuniscono tra loro; d’altronde il fatto che di tutto è parimenti impraticabile: certamente è per lo meno inevitabile che si servano dei loro corpi in modo privato e delle loro sensazioni in modo differente come di ogni altro tipo di attività naturale. Una volta scartate queste alternative, rimane , che nelle città per gli individui di alcune cose vi sia comunanza, mentre di altre non ve ne sia. Ebbene, questo è il principio fondamentale che Aristotele ha presupposto. D’altra parte è stato detto anche da Platone che non

28 Ben poca attenzione è dedicata all’appendice espositiva in cui Proclo riassume i nuclei concettuali del II libro nello studio, pur importante per l’esegesi platonica condotta dal filosofo bizantino, di Männlein-Robert 2006.

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è ammissibile che vi sia comunanza di tutto, ma è preferibile che nelle città ben governate vi sia la comunanza del maggior numero possibile di cose»29.

Gli accenni di Alessandro di Afrodisia, di un Anonimo commentatore dell’Etica Nicomachea, le allusioni e citazioni più frequenti di Michele Efesio (tutti e tre lettori specializzati dell’opera di Aristotele), chiudono la rassegna di tradizione indiretta prima dell’attestazione dei documenti conservati di tradizione diretta, di gran lunga più importanti. Ma non sono conservati codici bizantini coevi all’opera dei commentatori citati: al X secolo risalgono soltanto scarni frammenti di un antico manoscritto della Politica (il cod. Vaticano gr. 1298 V), che non reca note marginali; gli altri codici greci sono prodotto degli ultimi due secoli del mondo bizantino, cioè di età paleologa, oppure sono confezionati da umanisti greci in terra occidentale. In definitiva, lungo i secoli della cultura bizantina le attestazioni certe della Politica, grazie alle quali si possa supporre una lettura diretta del testo (antologica o completa), sono scarse e discontinue: Eustazio di Tessalonica, il grande commentatore omerico del XII secolo, mostra di conoscere la Politica, di cui cita passi del IV libro nel suo trattato De emendanda vita monachica. Parimenti cita, in almeno due occasioni delle sue Epistulae, il VII libro della Politica Michele Coniata, intellettuale e uomo politico vissuto tra XII e XIII secolo (sul crinale della Quarta Crociata e l’invasione latina di Costantinopoli del 1204), arcivescovo di Atene e allievo di Eustazio di Tessalonica, nonché fratello del più celebre Niceta Coniata, storico di Bisanzio. L’età dei Paleologi, e la smania di riscoperta e riscrittura dei classici che la caratterizza, è naturalmente il periodo in cui si concentrano le tracce più significative: Teodoro Metochita, dignitario e poi primo ministro dell’imperatore Andronico II, fu uno dei migliori conoscitori e studiosi del testo aristotelico dell’età sua (morì poco più che sessantenne nel 1332); nel monastero metropolitano di Chora (di cui aveva personalmente patrocinato il restauro tra 1316 e 1321 ca.)30

29 Procl. in Resp. II 360 Kroll; la traduzione è quella di Michele Abbate, in Abbate 2004, p. 315 (alle pp. 420-427 un dettagliato commento all’intera dissertazione). Cfr. Ar. Pol. II 1, 1260b 27-1261a 9. Sul rapporto tra la filosofia politica di Platone e di Aristotele mediata da Proclo cfr. Gerdjikov 1991-1992 e Stalley 1995. 30 «Questa biblioteca, è evidente, garantiva in primo luogo la conservazione dei libri depositati al suo interno e, dunque, la salvaguardia della cultura tanto sacra quanto profana di cui questi erano vettori. I libri – dice infatti Metochita – dovevano essere conservati con la massima attenzione ejn ajsfalei` kai; a[sula, pavsh~ ejphreiva~ ajnwvterav te kai; kreivttw, “al riparo e sicuri, lontani da ogni

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fu impegnato a redigere commenti e parafrasi delle opere di filosofia naturale di Aristotele31, ed ebbe modo di leggere e trascrivere anche la Politica (ampi brani della parte finale del II libro sono confluiti nei Miscellanea philosophica et historica)32. Ma, tutto sommato, a parte il lavoro di metodica scelta e trascrizione di Teodoro Metochita, si tratta di evidenze minime, appena sufficienti a rintracciare l’esistenza di «lettori eruditi»33 del trattato di Aristotele, interessati a lasciar traccia (per mezzo di allusioni e citazioni) della loro lettura. Evidentemente la Politica non faceva parte di quel repertorio di classici, nel cui testo e nella cui ricezione la cultura bizantina ritrovava motivi di esemplarità e continuità storico-culturale. Questo giudizio implicito, avvalorato anche dall’assenza della Politica nella Biblioteca del patriarca Fozio, deriva da più cause: prima e decisiva è senza dubbio l’inconciliabilità dei modelli politici e amministrativi (le politeiai) descritti o auspicati nel trattato con la realtà della monarchia autocratica e teocratica di Bisanzio. L’inapplicabilità (o meglio: l’inammissibilità) di tali modelli costituisce un deterrente alla lettura e alla fruizione34,

minaccia e ancor di più” protetti sia dai tarli sia “dagli assalti del tempo che con la sua inarrestabile corsa tutto quanto insieme, le cose preziose e quelle no, getta negli abissi dell’oblio”» (Bianconi 2003, p. 542; le pp. 541-551 sono dedicate al ruolo di Teodoro Metochita quale sovrintendente della biblioteca di Chora, e allo stesso monastero di Chora come centro di produzione di libri nuovi e restauro di antichi; Bianconi del resto ha ricostruito l’ambiente e la sede libraria di Chora prendendone in esame la produzione di manoscritti fino al XIV secolo: cfr. Bianconi 2005). 31 Sulla sua opera di commentatore e di intellettuale presso la corte imperiale bizantina, Wilson 1990, pp. 384-394. 32 Secondo il titolo che gli editori Chr. G. Müller e Th. Kiessling fornirono alla raccolta, pubblicata a Leipzig nel 1821. Su Metochita lettore della Politica si veda Bydén 2003, pp. 59-61, 73 s.; più in generale sulla cultura politica del personaggio Barker 1957, pp. 173-183; Gigante 1967. Ha pubblicato parte delle Semeioseis in una nuova edizione critica Hult 2002, ma non quelle che contengono le citazioni della Politica. 33 Secondo una categoria culturale indicata da Cavallo 2004, pp. 579-586. 34 Nella cultura bizantina «Uomo non è sinonimo di individuo. La coesione del sistema politico e sociale impediva di dar esagerata importanza alle vicende dei singoli; gli individui si sentivano membra di un organismo sacro, anche se magari malato o in pericolo, che era il compimento della vicenda umana, in quanto sintesi di Roma e Dio» (Mazzucchi 2002-2003, p. 19); nonostante le trasformazioni storiche degli ultimi tempi (le vicende delle città italiane, la divisione dei resti dell’impero fra i membri della famiglia paleologa, le diverse forme di convivenza istituzionale con i Turchi, etc.), la concezione aristotelica di un mondo di poleis autonome o confederate, comunque libere, animate da una pluralità di modelli costituzionali, è lontanissima dall’idea di impero autocratico e cristiano.

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come si può desumere dal modo in cui Fozio parla della Repubblica di Platone: «Di Platone e dei filosofi greci si potrebbe dunque ripetere, a fronte dell’incontaminata verità delle Scritture, ciò che non a caso Fozio poteva dire, sull’altro versante, degli Apocrifi, e cioè che sono “fonte e madre di ogni eresia” (Bibl. cod. 114). Non di meno, figure come Platone potevano risultare scomode anche nell’ambito del pensiero politico: lo stesso patriarca Fozio può esserne un buon esempio. A più riprese egli ha avuto parole molto dure per Platone, non solo sulla dottrina delle idee, tante volte criticata come empia e ingannevole, ma anche sulla dimensione politica ed etica della Repubblica: un’opera, dice Fozio “tutta cosparsa di molteplici impudenze, di molteplici contraddizioni, di principi che confliggono con qualsiasi forma di governo sperimentata dall’uomo”»35.

Ma Platone restava pur sempre, sul piano linguistico e stilistico, un modello raccomandabile, al pari dei grandi storici di età classica36, e la Repubblica (come altri dialoghi eminentemente politici: Il politico, Le leggi) vanta una copiosa tradizione di estratti, parafrasi, citazioni dirette in tutta l’età bizantina37. La Politica di Aristotele, come si è già avuto modo di accennare, non porge al lettore – al di là di exempla storici e argomentativi – riferimenti retorici ed esiti di arte oratoria considerabili di primaria importanza. Sarebbe però errato sostenere che il disinteresse per la Politica di Aristotele fosse, nell’ambito degli studi in questo campo, totale. Grazie ai frammenti del citato codice Vaticano38 è possibile ricostruire in parte la confezione di un volume, forse interamente dedicato alla trattazione politica; nel corso del X secolo venne infatti approntato a Costantinopoli un manoscritto che accostava testi molto differenti tra loro per origine, struttura e destinazione, ma accomunati dal tema di fondo: pochi fascicoli del Vaticano greco 1298 V restituiscono alcuni frammenti della Politica di Aristotele e di un Dialogo sulla scienza politica, rimasto inedito fino a tempi recentissimi. I due testi sono stati molto studiati: il primo in sede critica, poiché ha finalmente permesso la collazione della Politica in un esemplare antico (nonostante il confronto sia limitato

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Bossina 2003, p. 69. Il più importante intellettuale dell’XI secolo, Michele Psello, fu ritenuto dai suoi contemporanei «colpevole di eccessive e compromettenti frequentazioni dei testi platonici» (Maltese 1998, p. 805). 37 Come risulta dagli indici di Boter 1989, pp. 285-287, 290-376. 38 Vat. gr. 1298 (V), il più antico testimone medioevale, frammentario, del trattato di Aristotele: per la descrizione e la storia cfr. sotto, il paragrafo dedicato ai Codici greci. 36

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dallo scarso numero di fogli), visto che il codice è anteriore di più di tre secoli rispetto al manoscritto integro più antico della Politica (B); il secondo ha offerto al lettore moderno un unicum quanto a tipologia di scritto e di specificità storico-letteraria, poiché la composizione del Dialogo risale alla prima metà del VI secolo, ovvero al tempo di Giustiniano. Ma al di là dell’interesse e dell’indagine filologica (per la Politica) o storico-culturale (per il Dialogo), occorre considerare il codice in quanto manufatto librario e vettore testuale complessivo: nel X secolo fu percepita l’esigenza di radunare in un solo supporto più scritti (classici e non, evidentemente) della trattatistica politica. Lo stato frammentario non permette di elencare con certezza se non i due titoli già ricordati (e un solo codice non poteva contenere molto di più della Politica e del Dialogus); ma forse non sarebbe arbitrario supporre che, insieme a Dialogo sulla scienza politica di Menas e Tommaso e Politica di Aristotele comparissero, in altri manoscritti, Leggi e Repubblica di Platone, Economico (che, sempre inserito nel corpus delle opere aristoteliche, nei codici di età successiva è spesso abbinato alla Politica), commentari di più autori a queste o ad altre opere: una sorta di «collezione politica», successiva, ma purtroppo perduta, alla celebre e fortunata «collezione filosofica», allestita verso la fine del secolo IX. I codici della «collezione filosofica», progressivamente identificati come tali grazie a caratteristiche tematiche (contenuti), paleografiche (mani e stili di scrittura; copisti, committenti, lettori) e codicologiche (struttura e ornamentazione)39, paiono riprodurre il catalogo di «una biblioteca di età tardo-antica, riscritta e riedita»40 nel IX secolo. La pluralità e la ricchezza di tutti questi testimoni non possono certo essere confrontate con i frammenti di un solo manoscritto; ma la natura composita del Vat. gr. 1298 ispira la suggestione (oltre non è lecito spingersi) che, per studio e per conservazione dei testi, nel X secolo si volesse approntare un repertorio di scritti politici, per unire in un unico volume classici del passato e rivisitazioni di epoca giustinianea, nella abituale ricerca di armonia tra paganesimo e verità rivelata, tra filologia e cristianesimo41.

39 Anche per la storia degli studi sulla «collezione» si veda Perria 1991. Il codice Vaticano, comunque, non reca traccia delle cure critiche che caratterizzano invece gli esemplari della «collezione filosofica». 40 Cavallo 1995, p. 208. Sull’evidente «influsso esercitato dai copisti della cosiddetta collezione filosofica», e sulla trasformazione della grafia bouletée, in un gruppo di manoscritti della I metà del X secolo si veda Aletta 2007 (in particolare pp. 119-128). 41 Ardua, ed evidentemente poco fortunata, impresa: è sufficiente accostare la lettura del paragrafo iniziale della Politica e dei frammenti del V libro

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La cronologia e le caratteristiche del codice Vaticano non chiariscono però il problema principale: quando furono accostati per la prima volta i due testi in un unico libro? È possibile che nel X secolo si volesse trascrivere un volume di scritti politici già strutturato; ma forse Menas stesso, l’autore del Dialogus, poteva aver pensato già nel VI secolo all’accostamento con la Politica di Aristotele, come parrebbe desumersi dalla scheda foziana (Bibl. 37), che riassume il contenuto del trattato con la disputa sulla ajrivsth politeiva (ossia con un argomento discusso estesamente nella Politica). Ben più solida di quella su un’eventuale «collezione politica» è l’ipotesi di ricostruzione della diffusione delle opere aristoteliche, ossia il presupposto che in qualche momento gli scritti del filosofo venissero raccolti in edizioni, parziali o complete: è la conclusione cui giunse Dieter Harlfinger studiando conformazione e corredo esegetico dei codici aristotelici bizantini. Tali corpora dovettero essere realizzati a Costantinopoli42, e una prima fase sembra essere il periodo 1350-1375,

del Dialogo per rendersi conto di una lontananza difficilmente conciliabile. «L’osservazione aristotelica, il suo sguardo, sono quelli del biologo, dello scienziato degli animali, delle piante, degli organismi. [...] L’uomo aristotelico è il termine intermedio di una serie classificatoria che al limite superiore include gli dèi, a quello inferiore le donne, i bambini, gli schiavi, gli animali [...]. Come è noto, oltre all’immagine dell’uomo, è l’immagine della natura a essere latente in ogni modo di pensare la politica. E la natura di Aristotele è la fuvsi~ del vivente» (Veca 1980, p. 855). Al tempo di Giustiniano vige invece la concezione della monarchia di investitura divina (già di ascendenza ellenistica); anzi, per l’autore del dialogo «la politikè philosophía o epistéme è la stessa cosa che la basilikè epistéme e la basileía (V 4, p. 598), perché tutta la teoria è basata sulla dottrina della homoiosis (oJmoivwsi~, somiglianza o imitazione) di Dio [...]. Ora, come l’uomo è composto da chi comanda (l’anima) e da chi è comandato (il corpo), così lo Stato ha bisogno di chi comanda (il basileús) e di chi è comandato (i sudditi). Ma tale capo, per l’analogia che esiste rispetto alla situazione del Creatore di fronte al creato, non potrà non essere simile a Dio e il suo regno simile alla patria celeste. Il basileús si trova quindi tra gli uomini sotto duplice aspetto pur essendo uno: come uomo tra gli uomini e come “qualcosa al di sopra degli uomini”» (Pertusi 1990, pp. 11-12). In più Menas, in modo opposto alla disamina aristotelica, ambiva «definire una politica, una forma statale, che non fosse l’èsito - magari giustificato a posteriori - di questa o quella contingenza storica, bensì venisse dedotta in maniera “scientifica” dagli stessi principi dell’Essere. [...] Monarchia, oligarchia e democrazia non sono più fra loro alternative, ma gerarchicamente contenute una nell’altra: le corporazioni, in cui è ordinato il popolo, esprimono i loro bisogni e desideri agli ottimati, che fattili propri, li comunicano al monarca» (Mazzucchi 2006, pp. 332-333). 42 «Es hat in der byzantinischen Hauptstadt zu verschiedenen Zeiten Gelehrte, Schulen oder sonstige philosophisch interessierte Kreise gegeben, die offensichtlich einheitliche Sammlungen fast sämtlicher Werke des Stagiriten

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anni cui risalgono le raccolte aristoteliche del Par. gr. 1921, del Par. Coisl. 161 (che tra l’altro contiene la Politica, A), del Par. Coisl. 166, del Hier. Sancti Sepulcri 150, quattro codici accomunati dall’identità delle mani che hanno vergato testo e note, forse nati da un impulso di Niceforo Gregora. Una “seconda edizione” quasi completa delle opere di Aristotele è realizzata circa tre generazioni più tardi, attorno al 1450, e occupa i manoscritti Alexandr. 87 della Biblioteca del Patriarcato di Alessandria d’Egitto43, e i tre della Biblioteca del Sinodo di Mosca, rispettivamente Mosquensis 6, Mosq. 451 (in cui, tra l’altro, è la Politica, D), Mosq. 239. Anche questa seconda serie di quattro codici è vergata dalla stessa mano, identificata con quella del copista Matteo Camariotes44. Delineare, per quanto possibile, un regesto di lettori-testimoni storicamente definiti non equivale del resto a ipotizzare quante copie della Politica circolassero a Bisanzio tra X e XIV secolo45; certo non dovettero essere molto numerose (anche perché l’unico testimone conservato risalente a questo periodo è B), ma la loro consistenza diventa più considerevole nel corso del secolo successivo, il XV, quando provengono in Europa più esemplari del testo (alcuni tuttora conservati, altri andati perduti, a cominciare da quello utilizzato da Leonardo Bruni per la sua traduzione latina; secondo Vespasiano da Bisticci si trattava della prima copia della Politica in greco a giungere in Italia; cfr. sotto).

angelegt haben. [...] Mindestens zwei solcher „Editionen“ des Corpus Aristotelicum aus späterer Zeit, in denen der originale Grundtext stets auch von parallelen Marginal-kommentaren der bekannten Aristoteles-Exegeten begleitet wird, sind uns zu großen Teilen erhalten geblieben» (Harlfinger 1971, p. 55). 43 Moraux 1976, pp. 1-2. 44 Harlfinger 1971, p. 56. L’ipotesi di due edizioni aristoteliche approntate a distanza di meno di un secolo è molto suggestiva, e certamente scaturisce dalla ricchezza di testimonianze, testuali ed esegetiche, che dalle officine librarie bizantine raggiunsero l’Occidente. Ma a questo punto si pone il problema della “parentela” tra i due progetti, e quindi della possibilità di collegare gli stessi titoli all’interno di un albero genealogico, ossia di uno stemma codicum. Harlfinger aveva notato che «Beide genannten Sammlungen sind auffälligerweise stemmatisch engstens miteinander verwandt, aber keineswegs so, daß die jüngeren Manuskripte aus den älteren geflossen wären» (ibid.). Studiando i rapporti tra ACD, e giungendo alla conclusione che essi porgono esattamente lo stesso testo, Schneider 1973, p. 337, pose in dubbio questa conclusione di Harlfinger (almeno per quanto concerne i legami tra le copie della sola Politica). 45 Purtroppo è possibile rintracciare alcuni indizi della sola diffusione orientale; di altri manoscritti contenenti la Politica che probabilmente giunsero in Occidente tra X e XIII secolo (in particolare in Italia meridionale) si è perduta ogni traccia. Per casi differenti cfr. De Gregorio 1991.

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Eppure la tradizione indiretta della Politica (che ne documenta il Fortleben) nel medioevo latino è considerevole, così come la presenza del testo completo nelle biblioteche europee. Questa notevole diffusione riguarda però le versioni latine che vennero realizzate sin dal XIII secolo, e che suscitarono la composizione di commenti, questioni, confronti di dottrina politica, discussioni in merito alla filosofia aristotelica e alle sue applicazioni nel mondo coevo. La più antica traduzione si deve a Guglielmo di Moerbeke (Guilelmus de Moerbeka, detto anche Guilelmus Brabantinus), dell’ordine dei Frati Predicatori, nato intorno al 1215, nominato arcivescovo di Corinto nel 1276 o 127746. Guglielmo, collaboratore filologo di Tommaso d’Aquino, è forse il principale traduttore latino di Aristotele, specie se si considera la fortuna e la diffusione delle sue versioni47. Nel caso della Politica, considerata la recenziorità dei testimoni greci, gli antichi manoscritti della versione latina (completata nel 1260 a Viterbo; pubblicata in edizione critica da Franz Susemihl nel 1872 sulla base di un congruo, ma non certo ampio, numero di testimoni: cfr. i sigla), hanno rivestito notevole importanza anche per la ricostruzione dell’originale greco. Numerosi editori hanno infatti tentato di recuperare il presunto originale grazie alla tecnica della retroversione (la lezione latina che differisce da quella dei testimoni greci è nuovamente tradotta in greco, e diventa varia lectio a tutti gli effetti, secondo una pratica editoriale – antica ma anche novecentesca – per nulla irreprensibile). La traduzione latina della Politica redatta da Guglielmo venne immediatamente studiata da Alberto Magno,

46 Su Guglielmo cfr. soprattutto Jourdain 1843, pp. 67-71 (per quanto riguarda le sue traduzioni latine), e in generale Vanhamel 1989, pp. 339-341 (per la Politica), il capitolo dedicatogli in Brams 2003, pp. 105-130 e in Rossi 20022003, pp. 94-98. 47 Tradusse Politica, Retorica, Metafisica, De anima, scritti zoologici, i commenti di Alessandro di Afrodisia sui Meteorologica e sul De sensu et sensibili, quelli di Simplicio sulle Categorie e sul De caelo et mundo, quelli di Giovanni Filopono e di Temistio sul De anima. Studiando il cod. Vat. Lat. 2995, che contiene Politica e Retorica nella traduzione di Guglielmo (oltre all’Etica Nicomachea nella traduzione di Grossatesta), Grabmann fu tentato di attribuire a Guglielmo anche l’anonima traduzione della Rhetorica ad Alexandrum, contenuta nello stesso manoscritto (Grabmann 1932, pp. 26-81); ma i confronti con una seconda versione latina dello stesso trattato, oltre a motivi di ordine stilistico, indussero Grabmann a revocare la proposta di attribuzione a Guglielmo. Forse il domenicano redasse comunque una traduzione della Rhetorica ad Alexandrum ritenuta aristotelica, di cui resterebbe un frammento della parte iniziale nel cod. Vat. Lat. 2083 (cfr. Lacombe 1939, p. 78-79; si veda anche il paragrafo Les traductiones latines, in Chiron 2000, pp. 20-23). Sulla traduzione più in generale si veda Chiesa 1995 (spec. pp. 179-186).

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che ne scrisse un commento completato nel 1265; anche Tommaso d’Aquino ne intraprese un minuzioso commento (databile tra 1269 e 1272), limitato però ai primi tre libri, poi ripreso e completato da Pietro d’Alvernia. Ma sin dal 1264 era nota anche una seconda versione latina, che i codici48 attribuivano sempre a Guglielmo, dei soli primi due libri dell’opera; essa è stata pubblicata nel 1961 a cura di Pierre MichaudQuantin, che ha anche presentato un dubbio sull’identità del traduttore rispetto alla versione completa49. Siccome il confronto dei primi due libri evidenzia due traduzioni molto differenti tra loro, nell’impostazione formale, nel lessico, a volte nella sintassi, ad alcuni interpreti è parso assai difficile che si tratti dell’opera dello stesso traduttore, sia pure realizzata a grande distanza di tempo. In realtà, più che sul raffronto delle due versioni latine, l’attenzione va diretta sul modello greco utilizzato. Non sono pervenute notizie sui codici greci di Guglielmo, ma le due traduzioni divergono sensibilmente tra loro poiché dipendono da due manoscritti piuttosto differenti (anche per antichità: cfr. sotto). 2. I codici greci Anche le ultime edizioni della Politica, nel corso della seconda metà del Novecento, hanno dovuto confrontarsi con il maggior problema critico ai fini della recensione: stabilire quale delle due famiglie di manoscritti fosse superiore rispetto all’altra, in modo da decidere sulla base di un criterio oggettivo nei casi di varianti adiafore. Franz Susemihl, senza dubbio il più meritevole e originale indagatore dei codici della Politica (in greco e nella antica versione latina) aveva optato per la prima famiglia (P1), formata da pochi manoscritti. Dopo di lui, soprattutto in seguito alle riflessioni di William Lambert Newman e di Otto Immisch, gli editori hanno preferito affidarsi alle lezioni della seconda, più numerosa e frastagliata, famiglia di codici (P2). Non rientra nelle ambizioni di una breve introduzione alla storia del testo richiamare pareri e dispareri, tutti opportunamente argomentati, delle diverse preferenze. Ma il problema, più che accantonato perché annoso (e in parte fuorviante), va comunque affrontato: non si può negare la presen-

48 Soltanto tre: Vat. Chisianus lat. E. VII. 225, del secolo XIII (mutilo dell’inizio; il testo della traduzione prende avvio da II 3, 1262a 5: manca pertanto l’intero I libro); Harvardianus Hofer Typ. 233 H (olim Neoeboracensis), dei secoli XIII-XIV; Par. lat. 6458, del secolo XIV. 49 In risalto sin dal titolo: Aristoteles Latinus, Politica, translatio prior imperfecta, interprete Guillelmo de Moerbeka (?) = Michaud-Quantin 1961.

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za di due rami principali della tradizione, opposti ma comunicanti tra loro per collazione di antichi esemplari. Nel rispetto delle classificazioni tradizionali, possono essere così schematizzate le caratteristiche dei principali testimoni50: I famiglia (P1). - P è il codex Parisinus gr. 2023, risalente agli anni 1460/1480 ca. Fu scritto da Demetrio Calcondila, copista ed editore di testi, a Firenze (o forse a Milano secondo Aubonnet), e contiene Etica Nicomachea, Politica, Grande etica, Economico. Nel 1511 Aulo Giano Parrasio, genero di Calcondila51, ereditò il libro52. Il manoscritto trasmigrò poi nelle biblioteche del cardinal Ridolfi, di Piero Strozzi, e quindi di Caterina de’ Medici, per essere poi accorpato alle collezioni della biblioteca reale di Parigi. Questo manoscritto è assai importante per più ragioni: anzitutto chi lo ha trascritto non era semplice copista, ma dotto editore di testi greci (Calcondila pubblica un’edizione di Omero a Firenze nel 1488, Isocrate a Milano nel 1493, il lessico Suda nel 1499, sempre a Milano); la sua ars critica si cimenta dunque anche sulla Politica con l’annotazione di numerosi interventi congetturali e correttivi direttamente a testo. Dal modello utilizzato provengono probabilmente note, correzioni, aggiunte che il copista trascrive con lo stesso inchiostro nero usato per vergare il testo oppure con inchiostro rosso (P1 in apparato critico); numerose glosse, e qualche lezione, provenienti da un altro manoscritto, appartenente alla seconda famiglia, sono trascritte nei margini con un inchiostro più chiaro (P2); altre glosse, trascritte con inchiostro rosso, si aggiungono alle precedenti, e provengono anch’esse da un esemplare della seconda famiglia (P3); un’ulteriore, più recente, mano ha apposto note e correzioni di vario

50 Per ragioni di opportunità la descrizione, molto sintetica, si limita ai testimoni principali; notizie più dettagliate su tutti i manoscritti, elenco dettagliato dei codici contenenti singoli brani (excerpta), bibliografia, studi e ipotesi sulla loro parentela, e di conseguenza anche uno stemma codicum completo e meglio rispondente ai dati storico-testuali, saranno trattati in altra sede. Cfr. comunque Wartelle 1963; le identificazioni dei copisti di codici aristotelici proposte da Harlfinger 1971, pp. 405-420; le schede ad locum in Moraux 1976 e in Mioni 1958; Dreizehnter 1962, pp. 1-12; Dreizehnter 1970, pp. XXI-XXXIX. 51 Ne aveva sposato la figlia Teodora, nata a Firenze nel 1486; dei suoi dieci figli è lo stesso Demetrio Calcondila a ricordare gli atti di nascita, scritti personalmente sul f. 323r/v del Parisinus gr. 2023, ossia dopo la trascrizione dell’Economico (Actes de naissance des dix enfants de Démétrius Chalcondyle si leggono in Legrand 1885, pp. 304-307). Per una biografia di Calcondila cfr. sempre Legrand 1885, pp. XCIV-CI. 52 Non sembra possibile riscontrare la presenza di questa copia della Politica nell’inventario della biblioteca (cfr. Tristano 1989).

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tipo (Pc). Sia Calcondila sia altri lettori del codice ne hanno quindi confrontato il testo con la versione dell’altra famiglia53, integrando e correggendo ove bisognasse (per esempio nei molti punti in cui la recensione di P1 presentasse un testo semplificato rispetto a quello di P2). - M e S (Ambrosianus B 105 sup. e Leidensis Scaligeranus 26) sono due manoscritti considerati gemelli da Dreizehnter, in quanto copiati dallo stesso copista, Demetrio Sguropulo, dallo stesso modello (come dimostra la pressoché continua concordanza in errore dei due codici). Si tratta in entrambi i casi di esemplari di lusso, da biblioteca, in pergamena, con ampi margini e rubricationes; come raramente accade, entrambi i manufatti riportano esclusivamente il testo della Politica. In S (provvisto di scholia come AHP)54 il copista sottoscrive il codice, terminato il 22 Marzo 1445 a Milano per conto di Francesco Filelfo55, evidentemente committente della trascrizione. Nel 1594 S divenne possesso di Giuseppe Giusto Scaligero e fu portato a Leiden, la cui Biblioteca universitaria lo ereditò a sua volta nel 1609. M è privo di annotazioni, tranne una iniziale (assai tarda) che informa di un suo acquisto a Pisa. II famiglia (P2). - A Tra i codici integri della Politica quello del fondo Coislin 161 di Parigi è uno dei più antichi e autorevoli, anche perché presenta una collezione di opere filosofiche di Aristotele in volume unico: Etica Nicomachea (con commentario), Politica, Economico, Metafisica (con commentario), De Providentia (ossia la Quaest. 1, 25 di Alessandro di Afrodisia). Il copista è lo stesso del Coisl. 166, che contiene le opere fisiche di Aristotele (con i commenti di Giovanni Filopono e di Michele Efesio), ed è noto come Anonymus Aristotelicus56. Come già annotato da Dreizehnter, la grafia del codice presenta una netta somiglianza con quella del copista B del Vat. gr. 984 (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche),

53 Demetrio Calcondila, allievo di Teodoro Gaza, aveva ereditato la copia della Politica accuratamente trascritta dal maestro (il codice di Udine E, che appartiene infatti alla II famiglia, anche se non presenta glosse ma soltanto noticine di lettura: cfr. sotto). 54 Scholia che coincidono soprattutto con quelli di H, ossia con le note di commento che Immisch identificò come provenienti da un supposto commentario di Michele Efesio: cfr. la scheda di U. Victor in Moraux 1976, pp. 394-395. 55 Eleuteri 1991. Filelfo è anche l’estensore di numerosi marginalia su un altro codice contenente la Politica: il Laur. Acquisti e doni 4 (Cast), trascritto da Palla Strozzi solo per i primi fogli, continuato e completato da Giovanni Skutariota (Eleuteri 1991, p. 174). 56 Sulla sua produzione cfr. Brockmann 1993, p. 63; Berger 2005, pp. 140147; Mondrain 2005.

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scritto nel 135457. Forse il manoscritto è stato realizzato a Costantinopoli; passò poi nella biblioteca del monastero di S. Atanasio sull’Athos, e, per mezzo del sacerdote Atanasio di Cipro, nelle mani di Pierre Séguier (morto nel 1672), cancelliere di Luigi XIV, e quindi in quelle del duca di Coislin. Dal 1795 fa parte delle collezioni della Bibliothèque Nationale. Come P, anche A rappresenta una copia di ‟lavoro editoriale”, su cui lo stesso copista ha registrato – in fasi e con inchiostri diversi – svariati tipi di annotazione, in seguito a confronto con esemplari diversi. Una prima messe di marginalia è vergata con lo stesso inchiostro nero del testo principale, e riporta varianti coincidenti con le lezioni della I famiglia (probabilmente già presenti sul modello della trascrizione: A1 in apparato). P e A sono dunque due codici provenienti da famiglie diverse, sui cui modelli era già stato effettuato un confronto con esemplari dell’altra famiglia: recano una (parziale e non sistematica) collazione, che di volta in volta serve a correggere la scrittura di base. Un secondo gruppo di correzioni è vergato direttamente a testo con inchiostro più scuro (A2), mentre in inchiostro giallognolo sono riportate ulteriori variae lectiones, desunte da un codice della I famiglia collazionato dal copista stesso (A3); altre note, glosse e correzioni, corrispondenti a una ulteriore lettura critica, sono segnate in inchiostro rosso (A4). - B è il Par. gr. 2026, di datazione controversa: Susemihl lo considerava «codicum omnium, qui nobis hoc opus Aristoteleum tradiderunt, antiquissimus, 8° min. saeculo XIV ineunte» (Sus.1 p. XX); secondo Aubonnet è un prodotto di XV secolo; Dreizehnter, appoggiandosi a un confronto paleografico58, ne colloca la scrittura tra XIII e XIV secolo. Pur contenendo soltanto la Politica, come MS, B è scritto da due mani diverse: la prima, che trascrive la maggior parte del testo, giunge fino a VII 5, 1326b 37 dia; tou;~; la seconda, dai caratteri appena più eleganti della prima, completa l’opera. Una terza mano, più tarda, che utilizza inchiostro più chiaro, ha operato alcune correzioni a testo, oppure ha aggiunto glosse e note marginali; dalla qualità delle correzioni, coincidenti con la lezione di altri manoscritti noti, si evince facilmente che l’esemplare utilizzato appartenesse alla stessa famiglia di B. - C è un altro Parisinus, Suppl. gr. 652, di recente acquisizione (rispetto agli altri) della Bibliothèque Nationale. Si tratta di un codice di XV secolo, importante a) per la provenienza, poiché è stato scritto pres-

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Turyn 1964, pp. 149 s., T. 123. Bick 1920, T. 16 (= cod. Pal. Theol. gr. 49, 1290, scritto da Manuele oJ ʼAlhqinov~ ). Cfr. anche Dreizehnter 1962, pp. XX , XXIX . 58

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so la scuola del Patriarcato di Costantinopoli; b) per almeno un copista, Matteo Camariotes59; e c) per essere un codice miscellaneo: contiene la Politica e l’Economico (fino a II, 3, 1346a 31), soltanto dopo un blocco di diverse opere letterarie (Carmina aurea di Pitagora, Batracomiomachia, Scudo e Opere esiodei, Fenomeni di Arato con scholia) e alcuni trattati di argomento astronomico e matematico. Un primo copista trascrisse la Politica fino a 3, 1276b 22; proseguì, la completò e iniziò l’Economico Matteo Camariotes (che morì a Costantinopoli nel 1490). Si leggono varianti e scolî a margine. Il manoscritto giunse a Parigi a opera di Minoides Mynas nel 1844/1845. - D è il codice della Biblioteca del Sinodo di Mosca 451, del XV secolo, assai simile al precedente C nel testo presentato e nella qualità di errori e di deviazioni. A differenza di C, però, D è un tipico corpus filosofico, se non una collezione di titoli aristotelici, in quanto contiene: Grande etica, Etica Nicomachea (con commentario), Politica (con scolî e varianti come in A, ossia riferimenti a lezioni della I famiglia). Interamente scritto a Costantinopoli, il codice è opera di diversi copisti. Dal monastero di Vatopedi sull’Athos venne portato in dono allo zar Alessio da Arsenios Suchanov verso la metà del XVII secolo. - E è conservato presso la Biblioteca Arcivescovile di Udine (VI 5 = coll. 258): si tratta di un elegante manufatto cartaceo della metà del XV secolo, abbellito da capilettera ornati, che contiene la sola Politica, con qualche nota marginale di carattere esplicativo, ma privo di varianti. Fu scritto interamente dall’erudito Teodoro Gaza60, forse a Ferrara o a Roma, e alla sua morte (1475) passò nelle mani dell’allievo Demetrio Calcondila, il copista di P; successivamente confluì nella biblioteca di Parrasio (genero di Calcondila), e poi venne acquistato dal cardinal Grimani, fondatore della Biblioteca di S. Antonio in Castello a Venezia61. Codici difficilmente collocabili nell’ambito delle due famiglie: - V il Vaticanus gr. 1298 racchiude i più antichi frammenti della tradizione testuale della Politica di Aristotele. Attualmente il codice è sud-

59 Saffrey 1960, pp. 340-344. Biografia e opere di Camariotes in Biedl 1935 e Gamillscheg-Harlfinger-Hunger 1981, 1A p. 269, 1B p. 114. 60 Cfr. Leone 1992 e Salanitro 1992. 61 Nella biblioteca personale dell’ecclesiastico il codice della Politica era catalogato al n. 42 (Index voluminum graecorum bibliothecae D. Card. Grimani, nel cod. Vat. gr. 3960; il catalogo è trascritto in Diller 2003, p. 115). Sui manoscritti greci Utinenses della raccolta di Grimani cfr. Vendruscolo 2006-2007.

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diviso in due tomi, che riportano l’opera di Elio Aristide, già descritti da Pinelli nel 1575 in quanto collocati nella libreria di Pietro Bembo62, ma precedentemente appartenuti a Niccolò Leonico Tomeo63. Il codice provenne nel 1602 alla Vaticana dalla biblioteca di Fulvio Orsini. Soltanto negli anni Venti del XIX secolo il cardinale Angelo Mai riscoprì all’interno del codice 12 fascicoli palinsesti contenenti un trattato anonimo sulla politica64 e l’ignoto testimone dello scritto aristotelico. Non è dato sapere nulla sulla confezione e provenienza del manoscritto (ma nessun elemento impedisce di pensare a Costantinopoli), che nella seconda parte del II tomo è riscritto con la tecnica del palinsesto: da un codice antico, che conteneva la Politica di Aristotele e il trattato Peri; politikh`~ ejpisthvmh~ sono derivati alcuni bifolî annessi insieme in ordine casuale65. Risultano leggibili soltanto alcuni frammenti sia dell’una sia dell’altra opera, riconducibili al X secolo grazie a «una scrittura assai regolare e piacevole che i paleografi chiamano ora ‘bouletée’, la quale attesta - così come la rigorosa preparazione dei fogli - la superiore cultura dell’ambiente in cui e per cui il codice fu confezionato; e insieme documenta, nell’età di Areta e di Costantino VII, l’alta considerazione tributata all’Autore del Peri; politikh`~ ejpisthvmh~: tanto alta che figura, se pure anonimo, in un corpus di opere politiche a fianco del grande Aristotele»66. Anche il patriarca Fozio scheda questo trattato di scienza politica (originariamente in sei libri, dunque di discreta estensione) nella sua Biblioteca (37)67, specificando che in esso è illustrato un tipo di governo diverso da quelli esaminati dagli antichi (kai; e{teron ei\do~ politeiva~ para; ta; toi`~ palaioi`~ eijrhmevna eijsavgei).

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Clough1980, p. 47. De Bellis 1980, p. 49. Mai 1827, pp. 571-609. La prima collazione rigorosa dei frammenti aristotelici si legge però in Heylbut 1887, pp. 102-110. Sulla tipologia di codice cfr. le note di Wilson 1990, pp. 173-174 e n. 20, 230. 65 Accurata descrizione codicologica in Dreizehnter 1962, pp. 5-10. 66 Fiaccadori 1979, p. 130; per la grafia del codice, Irigoin 1977; sul trattato bizantino, basato in particolare sulla Repubblica platonica e sul De republica ciceroniano, Barker 1957, pp. 63-75; Bertelli 1962-1963; Mazzucchi 1978, e soprattutto l’edizione critica del testo in Mazzucchi 2002; dagli apparati di Mazzucchi non risulta, all’interno del nuovo testo, alcuna citazione testuale della Politica. Studia diffusamente, e in confronto ad altri testi, la concezione politica dell’autore Pertusi 1990, pp. 6-31. 67 Henry 1959, p. 22 n. 1 lo definisce texte perdu, ed è scettico sulla possibilità di identificarlo con l’anonimo trattato pubblicato a suo tempo da Mai. Con una serie di studi, e finalmente con l’edizione critica del Dialogus (19821, 20022), Mazzucchi 1978 e 2002 avrebbe poi dissipato tali dubbi. 63 64

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È interessante notare che nella Biblioteca la Politica di Aristotele non compare; ma alludendo agli antichi (scrittori di cose politiche), e citando espressamente poco oltre la Repubblica di Platone, Fozio parrebbe alludere anche alla Politica, specie quando la politeiva prospettata dal Dialogus è definita come la composizione dei tre ei[dh tradizionali (monarchia, aristocrazia, democrazia: appunto le forme sistematicamente trattate da Aristotele). Il patriarca sembra così suggerire, sul piano dei contenuti, un accostamento tra i due titoli che la confezione del codice Vaticano attua materialmente, ossia presentare insieme Politica e Dialogus. Scrittura e datazione del codice frammentario sono tra i dati più interessanti: le opere dei classici e i testi non liturgici o patristici nel X secolo erano, ormai da tempo, vergati in minuscola; la traslitterazione della Politica, ossia il passaggio dagli esemplari in grafia maiuscola68 a quelli in minuscola, può a buon diritto essere collocata tra VIII e IX secolo, visto che nel X è attestata una copia nella elegante e aristocratica scrittura del tempo, la bouletée (chiamata così a causa delle boules, ossia le «gocce» di inchiostro alle estremità delle aste). È merito di Carlo Maria Mazzucchi aver identificato i protagonisti del Dialogo sulla scienza politica, e di averne datato la composizione agli anni 532-53369. I frammenti della Politica appartengono al III e all’inizio del IV libro, e rendono qualche sprazzo di luce a una fase della tradizione manoscritta in cui non si è ancora manifestata la divisione nelle due famiglie: le emergenze del testo di V, in cui quasi sempre mancano distinctio e segni diacritici, ora concordano con la lezione della prima ora con quella della seconda famiglia70. L’antichità del codice rispetto a tutti gli altri testimoni è il fattore più rilevante nella recensio testuale; per il resto le sue lezioni, considerato lo stato frammentario e l’esiguità del confronto con gli altri manoscritti, risultano in pochi casi dirimenti. - H il codice Berolinensis Hamiltonianus 41 (397 Studemund) della Biblioteca Nazionale di Berlino, al pari di V, rappresenta l’esito tardo (metà del XV secolo) di uno stato della tradizione antico, nel quale la

68 Sin dalla fine del VII secolo la maiuscola è utilizzata pressoché esclusivamente per la trascrizione di testi ecclesiastici: cfr. Cavallo 1977. 69 Nell’edizione critica del De scientia politica dialogus Mazzucchi 2002 ricostruisce la composizione dei fascicoli A e B originariamente occupati dal testo della Politica (pp. X-XII; bibliografia dell’esegesi dello scritto alle pp. XXIII-XXV). 70 Si tratta di un problema filologico diffuso: ne descrive ampiamente un esempio Matteo Monaco a proposito della tradizione di Eschine (che, a differenza di quella della Politica, è arricchita - e complicata - da numerose testimonianze papiracee); cfr. Monaco 2000.

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netta suddivisione delle due famiglie P1 e P2 non si è ancora manifestata. Il modello di H, in altre parole, doveva essere un esemplare simile per tipologia e provenienza a V, dato che in esso si leggevano abbondanti scolî e annotazioni al testo, traccia – secondo alcuni editori – di un originario commentario alla Politica. Ma tale modello antico dovette risultare di difficile utilizzo, o perché mutilo, oppure a causa della sua antichità, specie nella parte che conteneva gli ultimi libri della Politica. H, un prodotto di dimensioni considerevoli ancorché non molto esteso (188 ff.), contiene infatti Etica Nicomachea, Grande etica, Politica, ma la scrittura dell’ultimo titolo dipende dall’intervento di tre copisti e da una confezione complessa: fino a VI 4, 1318b 16 lhvmmata è il primo scriba a realizzare il testo (a Milano, come risulta da una subscriptio a f. 59v, e si tratta di Demetrio Sguropulo, forse per conto di Francesco Filelfo, come nel caso di S). Fino a quel punto il testo è affiancato da numerosi scolî, in inchiostro rosso, vergati dallo stesso copista; oltre quel punto vengono aggiunti due fascicoli (di solo testo, senza alcuno scolio), scritti da altri due copisti e contenenti rispettivamente il finale del VI e gli ultimi due libri. Il terzo copista del codice è più recente rispetto ai due precedenti, e il tipo di testo trascritto (Pol. VII e VIII) proviene da un esemplare appartenente alla seconda famiglia della tradizione, non più dal modello utilizzato da Demetrio Sguropulo. Sono presenti anche scholia più recenti, che Harlfinger ha ricondotto alla mano del cardinal Bessarione. H spesso è l’unico testimone a porgere la buona lezione, rispetto a tutti gli altri manoscritti; inoltre, per i primi sei libri apporta anche una quantità di scholia, utili al riscontro tra testo e lemma, o tra testo ed esegesi che lo convalidi. Fino al 1810 il codice era conservato presso il monastero di S. Michele di Murano a Venezia; con lo scioglimento degli ordini religiosi venne temporaneamente disperso, per confluire poi nella collezione di Hamilton; dal 1884 è conservato a Berlino. Il primo editore ad averlo collazionato ed essersi reso conto del suo valore fu Otto Immisch, che nelle sue edizioni (19091, 19292) ne fece un pilastro della constitutio textus, oltre a pubblicarne tutte le varianti e gli scholia. - Codici deteriori della II famiglia (P4 e altri) Soltanto per brevità e comodità di riferimento si utilizza la qualifica di deteriores per i codici meno importanti nella recensio della Politica: in realtà, a parte gli apografi come Impr Matr W L81,6 (per cui cfr. i sigla), tutti i testimoni, i loro copisti, committenti, proprietari (senza dimenticare i lettori che lasciarono il segno, del loro lavoro o della semplice lettura, sulla copia), sono importanti ai fini della storia del testo.

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La datazione di quasi tutti i “deteriori”, seconda metà del XV secolo, e quindi pieno Umanesimo71, lascia intuire come, a fronte dello sparuto gruppo dei manoscritti principali più antichi superstiti, l’interesse per la Politica nell’originale greco sia divampato a metà del Quattrocento, pochi anni prima della nascita e diffusione della stampa: l’editio princeps aldina del 1498 è contenuta nel V volume degli opera omnia, e il testo della Politica è desunto da un codice (forse di provenienza romana) poi andato perduto; la stampa di Aldo costituisce dunque un’importante surroga di un manoscritto non più esistente (ancorché deterior)72. Ma già nei decenni precedenti si erano interessati alla Politica illustri committenti, che ne avevano richiesto copia: Federico di Montefeltro, Duca di Urbino, appassionato scolaro di greco ed entusiasta lettore di Aristotele, subito dopo la metà del XV secolo commissionò il codice Urbinate greco 46 (oggi alla Biblioteca Apostolica Vaticana), che contiene appunto la Politica, e incaricò poi Donato Acciaiuoli di approntare un commentario al testo, come aveva già fatto per l’Etica Nicomachea. Lettore decisamente erudito, studioso del testo e valente filologo è il cardinal Bessarione, patriarca di Venezia, che in gioventù aveva trascritto di persona almeno una copia integra della Politica73; desideroso

71 Umanesimo anche come età della ricerca di rinnovata cultura politica, che sollecitava lo studio del testo di Aristotele: «Partendo, com’è giusto, dal Petrarca, potremmo anzitutto affermare che l’Umanesimo nasce come reazione contro la cultura e la politica (intesa nel senso più lato) contemporanee. Petrarca era saturo e insofferente di quella filosofia scolastica isterilitasi nella dialettica delle Quaestiones quodlibetales, ch’egli giudicava astratta e vana schermaglia logica, priva di vero contenuto, applicata di preferenza alla fisica e alla metafisica, del tutto inutile all’edificazione dell’uomo e incurante della bellezza letteraria. La vera filosofia dev’essere – diceva con Cicerone – ars vitae» (Mazzucchi 20022003, p. 16). 72 E dalla stampa furono trascritti altri codici: l’erudito bizantino Costantino Lascaris, per esempio, completa a Messina nel 1501 la trascrizione dell’Economico e della Politica, in un manoscritto che poi finisce in Spagna (è il Matr. 4578), desumendoli per gran parte dalla stampa Aldina (Martínez Manzano 1998, p. 20). Non a caso Lascaris menziona testualmente alcuni passaggi della Politica nei suoi inediti Prolegomena ad alcuni trattati antichi di retorica (versione autografa di tali Prolegomena è nei codd. Matr. 4632, ff. 4r-10v e Matr. 4620, ff. 130r-137r). 73 Nel Par. gr. 767 Bessarione copia Politica ed Etica Nicomachea; altri due codici Parisini (2041 e 2042) contengono antologie di brani da quasi tutti gli scritti di Aristotele, organizzate e trascritte dallo stesso Bessarione. Dalla sua biblioteca proveniva inoltre il codice Sinaiticus 2124, contenente la Methodus astrologica di Pletone, la Politica di Aristotele, la Geometria del Pediasimo, chiose e appunti in latino: fu scritto a Firenze nel 1439 da Teodoro diacono e notaio «per il metropolita di Nicea». Da Venezia il codice finisce al Monastero di Santa Caterina del Sinai, probabilmente come dono di Bessarione, o come

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di possedere l’opera completa di Aristotele nella sua biblioteca, commissionò un manoscritto monumentale, che contenesse tutte le opere del filosofo (tranne gli scritti di logica): si tratta del codice Marciano gr. 200, scritto probabilmente a Roma dal celebre copista Giovanni Roso (che lo terminò il 15 Luglio 1457). Anche dalla cursoria rassegna dei testimoni appare evidente come lo studio per costituire il testo critico della Politica si sia sempre avvalso di documenti eterogenei: due traduzioni medioevali, una di età umanistica, l’editio princeps, tutti e quattro desunti da codici perduti; un unico manoscritto antico, ma frammentario (V); due del XIV secolo, appartenenti a versanti differenziati della recensio (A e P); un codice del XV secolo che risale però a un versante antico della tradizione (H); un congruo numero di codici recentiores. Con le edizioni di Newman e di Immisch, che accordano preferenza alle lezioni di P2, si è accentuato un contrasto rispetto alla costituzione testuale di Susemihl, convinto invece della superiorità delle lezioni di P1. Le revisioni della seconda metà del Novecento (Ross, Aubonnet, Dreizehnter) ereditano ed esasperano questo parallelo, determinato dalla sempre maggiore propensione per la famiglia P2 (e quindi contro l’impostazione di Susemihl). Gli apparati critici di queste edizioni non tengono però in sufficiente considerazione l’aspetto diacronico del lavoro di Susemihl, limitandosi a citare per lo più la stampa del 1872 (ossia la sua prima edizione critica, che affianca al testo greco l’antica versione latina completa di Guglielmo di Moerbeke). Ma Susemihl pubblicò, nel 1879, nel 1882, e da ultimo, in collaborazione con Robert Drew Hicks, nel 1894, altre tre edizioni, con rispettivi apparati critici e ricorrenti innovazioni nella scelta testuale. I ventidue anni intercorsi tra prima e ultima stampa segnano soprattutto una marcata attenuazione degli interventi congetturali, della correzione del testo tràdito sulla scorta delle versioni latine (di Guglielmo, ma anche di Leonardo Bruni), delle espunzioni di tutto quanto omesso dal ramo P1. Non soltanto: oltre alla disamina più equilibrata delle lezioni e al maggior rispetto complessivo per la vulgata del testo, Susemihl recepisce anche le impostazioni e le eventuali osservazioni di altri editori. In particolare di Newman, che gli aveva rimproverato eccessiva fiducia nella famiglia P1; in proposito la risposta di Susemihl, molto equilibrata e coerente, conferma la sua pre-

scambio con altri manoscritti (è plausibile pensare allo scambio, considerato che nel fondo greco del cardinale restavano comunque due copie della Politica, nei codici Marc. gr. 200 e Marc. gr. Z. 213 [= 751]). Cfr. Mioni 1991, p. 136.

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cedente impostazione editoriale, e quindi la fiducia nelle lezioni di P1, nel complesso più vicine all’autenticità (sebbene deteriorate) rispetto alle presunte innovazioni e aggiunte di P2 74. Per comprendere meglio la storia della tradizione manoscritta della Politica, oggi occorre anzitutto domandarsi se le due famiglie medioevali dei codici sono rami di un archetipo, anch’esso medioevale, oppure sono la continuazione di versanti testuali dell’antichità (in altre parole, se possono risalire a edizioni dei primi secoli d.C.). Si tratta di due ipotesi contrapposte, e in entrambe è insito qualche vizio di semplificazione della realtà storica: la teoria dell’archetipo medioevale pretende di ridurre ogni variazione testuale all’interno di un “sistema chiuso”, in cui i testimoni possono essere apparentati, singolarmente o per gruppo di appartenenza, e fatti derivare tutti da un modello unico, a monte delle varie suddivisioni (risalente al più tardi al IX-X secolo). La teoria della derivazione delle famiglie medioevali recta via dall’antichità accentua invece l’autonomia di ogni gruppo di manoscritti: non soltanto di P1 e di P2, ma anche di V, dell’edizione della Politica letta e in parte trascritta da Giuliano, dell’esemplare alla base degli scholia di H. A dirimere la questione (anche se in maniera non del tutto soddisfacente), e a far propendere per la teoria dell’archetipo medioevale, interviene la categoria degli errores coniunctivi, ossia di quelle lezioni sbagliate comuni a tutta la tradizione - testimoni greci e insieme traduzioni latine (di Guglielmo di Moerbeke e di Leonardo Bruni). È infatti possibile stilare un elenco di passi in cui il testo unanimemente tràdito non soddisfa, in quanto palesemente (o molto probabilmente) errato. Per spiegare tale evenienza occorre naturalmente postulare un esemplare già corrotto, che abbia poi trasmesso la corruttela a tutti gli altri; nella Politica i punti critici di questa gravità sono assai pochi75, e non sempre si può essere certi

74 Basandosi su una distinzione dei testimoni sia cronologica sia qualitativa, Susemihl sostiene che nei codici di P2 si legga un testo della Politica sostanzialmente restaurato in età bizantina, cioè migliorato a posteriori rispetto al versante più antico, superstite in P1. Da qui egli difende la tesi generale su un testo bisognoso di numerosi interventi congetturali, poiché trasmesso in condizioni pessime (Note on the Basis of the Text, in Susemihl-Hicks 1894, pp. 460-468). 75 Cfr. Dreizehnter 1962, p. 13, e, in generale, il paragrafo Konjekturen und Varianten, pp. 45-48. Dreizehnter 1970, p. XVI n. 36 fornisce invece un elenco di lezioni comuni errate (o, quanto meno, considerabili tali), e di tre passaggi in cui gli editori hanno sospettato una lacuna testuale; le stesse lezioni (alle quali Dreizehnter affianca la correzione proposta dagli editori e solitamente accettata) derivano tutte da tipici errori da grafia maiuscola.

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dell’effettiva natura di errore della lezione. Almeno in un’occasione, per esempio (Pol. II 1, 1260b 41), allorché tutti i codici greci e la versione latina di Bruni recano un testo errato (ijsovth~ / paritas), complica il quadro la duplice traduzione latina attribuita a Guglielmo di Moerbeke, che rende il testo genuino ricostruibile (unus qui unius, ossia ei|~ oJ th`~, divenuto ijsovth~ per iotacismo in tutti i testimoni greci). In questo caso occorre scorporare il gruppo P1 dai modelli greci di Guglielmo e supporre che la buona lezione si fosse salvata soltanto negli esemplari dello stesso traduttore; tale procedimento, però, oltre a incrinare la qualifica di error coniunctivus per il passo citato, è incongruente con ogni ricostruzione dei modelli delle antiche traduzioni latine. 3. La componente latina di un testo critico greco: traduzioni medioevali e umanistiche Sulla traduzione di Guglielmo non devono pesare né entusiastici giudizi di totale affidabilità né condanne di totale inaffidabilità. Per lungo tempo i meccanismi e le procedure del traduttore antico non sono stati compresi nella loro funzione; a cominciare dalle traslitterazioni in scrittura latina di numerose parole e forme greche, semplici o complesse, variamente interpretate dai lettori moderni76. «En traduisant mot à mot, le traducteur fournit des indications précises sur son modèle. Il y a bien sûr des erreurs de copie qu’on ne peut imputer au traducteur, et quelques exceptions à cette règle de servilité: [...] lorsque le modèle est détérioré ou que la construction de la phrase grecque lui échappe, le traducteur ose innover»77: questo giudizio, formulato per un anonimo traduttore della Retorica ad Alessandro, potrebbe valere anche per la duplice (a quanto sembra) traduzione della Politica operata da Guglielmo di Moerbeke?

76 Spesso Guglielmo traslittera, e a distanza di pochissime righe traduce, la stessa parola greca: «hic quoque universus interpretis usus respiciendus est: ut verbum Graecum saepe non mutatum versioni inserit, ita idem verbum hic illic sive apto sive inepto vocabulo Latino interpretari conatur» (Dittmeyer 1883, p. 36, a proposito della versione della Retorica). A Pol. II 6, 1265b 39 ejfovrwn è tradotto plebeiorum; nella riga successiva ejfovrou~ è semplicemente traslitterato ephoros. Altra pratica frequente di Guglielmo è creare concordanza di genere tra soggetto e predicato (si veda ancora Dittmeyer 1883, p. 34). Oggi sono però del tutto inaccettabili giudizi sbrigativi e semplicistici come quello di Newman a proposito della traduzione della Politica: «It is not perhaps quite certain in what sense this translation was the work of William of Moerbeke. More hands than one may have been employed upon it: some parts of it [...] show much ignorance of Greek than others» (Newman 1887, II, p. XLIV n. 1). 77 Chiron 2000, pp. 21 s.

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L’utilizzo in sede critica della traduzione incompleta (G.i. = Guilelmi imperfecta translatio) permette di avvalorare un’antica intuizione di Newman a proposito della differenza tra le due famiglie dei manoscritti greci. Newman aveva osservato come, tutto sommato, le discrepanze tra i due gruppi fondamentali di testimoni non fossero molto frequenti né di grande entità; questo giudizio lo induceva a supporre che la divisione tra i due rami non fosse dunque antichissima. La bontà di tale ipotesi è corroborata dal confronto di traduzione di G. e di G.i.; i rispettivi modelli sono stati collocati nell’ambito della I famiglia (tanto che G, il codice della Politica tradotto per intero, costituiva la colonna portante di P1 nelle ricostruzioni di Susemihl). Si deve però osservare che in moltissimi luoghi le traduzioni di G. e di G.i. divergono in quanto dipendenti da modelli che recavano differente lezione; e la discrepanza delle lezioni latine rispecchia quella dei testimoni greci secondo la tradizionale distinzione in P1 e P2. In altre parole, spesso G.i. sembrerebbe ricavato da un esemplare greco vicino a P2. Siccome Guglielmo di Moerbeke ha avuto modo di lavorare su due (almeno) manoscritti contenenti la Politica, per lo più affini tra loro (ma, a causa del tipo di discordanze, non sovrapponibili né apparentabili per filiazione), si può ipotizzare che di poco precedente alla confezione di quegli esemplari fosse la spaccatura dei due rami. G.i. quindi potrebbe costituire l’anello di transizione tra P1 e P2, quando ormai la divisione delle famiglie andava accentuandosi di trascrizione in trascrizione. Al contrario, H e V sarebbero i discendenti di un versante della tradizione, nella fase in cui non si era ancora manifestata la spaccatura, piuttosto netta, tra P1 e P2. Tale ricostruzione è però verificabile soltanto nel confronto sui primi due libri (poiché la traduzione di G.i. non raggiunge neppure la fine del II libro, interrompendosi a 11, 1273a 30 strathgouv~)78. Dreizehnter ha ricostruito la genealogia dei manoscritti della Politica, includendo nello stemma codicum, ‟l’albero genealogico” dei manoscritti, anche i modelli di G. e di G.i., le due più antiche versioni latine conservate. In entrambe le raffigurazioni questi esemplari sono

78 Anche Aubonnet, attento più al dato manoscritto specifico che all’appartenenza stemmatica della lezione, scriveva che «Une séparation très ancienne de ces deux familles et l’affirmation de Susemihl que la première famille remonte à un archétype des VIe ou VIIe siècle ne peuvent se justifier. En effet, deux documents présentent un état de la tradition antérieur à celui de tous les autres manuscrits, conservés et témoignent de l’existence d’un texte, où les leçons données par le deux recensions ne sont pas encore dissociées. Ce sont un palimpseste du Vatican – V – et les scolies d’un manuscrit de Berlin – H –» (Aubonnet 1960, p. CCIII).

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sistemati in parallelo, e – quel che più conta – esclusivamente all’interno della famiglia P1. Il confronto delle traduzioni e lo studio delle corrispondenze fa però notare come nel caso di lezione deteriore il rapporto P1/G. sia molto più evidente di quello P1/G.i. La traduzione incompleta di Guglielmo permette confronti limitati ai primi due libri; ma è significativo elencare i passaggi in cui la differenza di testo greco tra P1 e P2 sia rispecchiata dalla differenza di traduzione latina tra G. e G.i. (con una corrispondenza secondo famiglie di manoscritti e traduzioni di Guglielmo, in cui P1 è in sintonia con G., P2 è in sintonia con G.i.). - 1253a 3: ejsti è presente in MS (ossia parte consistente di P1) e in G., assente in P2 (in realtà tutti gli altri codici oltre a MS) e in G.i.: gli editori lo espungono - 1253a 10: la presenza unica in S della preposizione in e[cei ajpo; tw`n zw/vwn (contro tutti gli altri manoscritti che hanno e[cei tw`n zw/vwn) ha unico corrispondente nella traduzione di G. supra animalia (in G.i. solo animalium): si tratta di un dato quantitativo, più che qualitativo, di una sola preposizione aggiunta (neppure corrispondente tra greco e latino ajpov / supra), che però accomuna sempre l’asse privilegiato S (elemento di P1)/G. - 1255a 24: a parte le aggiunte marginali l’opposizione è a{ma (in H, elemento di P2) / o{lw~ (P1), cui si accompagna quella semper (G.)/omnino (G.i.). Ma l’equivalenza qui non regge, soprattutto perché semper non traduce né o{lw~ né a{ma (forse un a{ma corrotto, e letto ajeiv/aijeiv?) - 1255a 36: sul nome di Elena concordano gli errori di MS e G. (ejlelovgh MS eleloga G.) - 1256b 1: porivzontai (P2)/komivzontai (P1) è rispecchiato da acquirunt (G.i.)/ferunt (G.): si tratta di un caso in cui alla totalità dei manoscritti formanti le due famiglie si oppone seccamente la differente traduzione, e spicca la concordanza in errore di P1=G. - 1258b 37: labw`ntai M (testimone importante di P1)/lwbw`ntai (tutti gli altri codici); ma l’opposizione sumuntur G./maculantur G.i. dimostra che l’errore labw`ntai ha origini remote, risalendo almeno al modello della traduzione completa; ancora una volta G.i. è la traduzione che rispecchia la buona lezione dei codici, contro l’asse P1/G. - 1260a 37: a\ra (P1)/a[ra (P2), ergo (G.)/utrum (G.i.). In questo caso isolato G.i. traduce P1 anziché, al solito, P2, mentre G. reca la traduzione della buona lezione contenuta in P1: la corrispondenza abituale è invertita, ma il dato più interessante è che, comunque traduca, G.i. rechi la buona lezione; questo significa che il suo modello presentava un testo meno corrotto rispetto all’esemplare di G., e più vicino a una facies ʻomogeneaʼ della tradizione manoscritta, quando le opposizioni tra le due famiglie non si erano ancora accentuate come nei testimoni superstiti.

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Un elenco di concordanze nella buona lezione non avrebbe di per sé alcun valore; ma G.i. (pur avendo un modello greco classificato da Dreizehnter all’interno della prima famiglia) troppo spesso rende il testo di P2; G. al contrario rende quasi sempre il testo (diverso ed errato) di P1. Nonostante il confronto sia possibile soltanto per i primi due libri, si può concludere che non solo Guglielmo lavorò su due esemplari diversi della Politica, fornendo all’Occidente medioevale due versioni latine non sempre sovrapponibili, ma anche che tra quei due esemplari non intercorreva uno stretto legame di parentela. Se G. (con la sua ricchissima tradizione) rispecchia quasi immancabilmente le deviazioni e le corruzioni di P1, i pochi codici in cui è stato trascritto G.i. derivano da un testo della Politica certamente meno corrotto (cfr. la corrispondenza di 1260a 37), più antico, ossia da un esemplare realizzato quando le differenze tra P1 e P2 erano minime79. Il quadro si completa con un’indicazione cronologica di massima: Guglielmo avrebbe prima tradotto il modello contenente soltanto i primi due libri, e poi il testo completo (presumibilmente in seguito al ritrovamento di un testimone integro). È stato indicato e ripreso il 1260 quale anno di discrimine tra le due traduzioni, sulla base del confronto tra la versione dell’Historia animalium (terminata appunto nell’aprile 1260) e quella della translatio imperfecta della Politica. Poiché la qualità di traduzione dell’Historia animalium risulterebbe superiore, si è dedotto che il primo esercizio sulla Politica risalga a un tempo in cui la conoscenza del greco di Guglielmo non era ancora così solida, comunque prima di quell’anno80. Ma le traduzioni latine dipendenti da codici greci andati perduti, e perciò importanti ai fini della ricostruzione testuale, non sono soltanto quelle di Guglielmo di Moerbeke. Documentata da carteggi, trattati di argomento specifico sulla ars vertendi, lettere dedicatorie e abbon-

79 G.i. è una traduzione incompleta non perché sia andato perduto il prosieguo dei libri III-VIII dell’opera, ma perché il traduttore lavorava su un modello greco parziale (cfr. nota testuale a II 11, 1273a 30). Può darsi che il codice greco fosse mutilo perché deteriorato dal tempo (in altre parole, malandato, forse perché molto antico)? 80 Dreizehnter 1970, p. XLII n. 70, ripreso anche da Viano 1992, p. 10 n. 5. Se si confrontano le lezioni di G.i. con i testimoni greci, anziché cercare paralleli e differenze nel latino di altre traduzioni, l’ipotesi della versione incompleta si rafforza, anziché potersi sbrigativamente relegare G.i. a un tempo in cui Guglielmo non conosceva ancora bene il greco. Chi si ostinasse a considerare le due traduzioni del Moerbeke dipendenti dallo stesso modello greco dovrebbe spiegare sia la straordinaria quantità di modifiche del testo latino sia la subscriptio finale di G.i., in cui il traduttore confessa di non aver reperito nell’esemplare greco i restanti libri dell’opera (cfr. II 11, 1273a 30).

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danza di tradizione manoscritta e a stampa è la versione realizzata e pubblicata da Leonardo Bruni tra 1435 e 1438, in principio offerta a Unfredo di Gloucester, in secondo tempo dedicata al pontefice Eugenio IV81. A differenza del contesto eminentemente filosofico della traduzione di Guglielmo (la cerchia di Tommaso d’Aquino), Bruni lavora sulla Politica con la convinzione e l’urgenza di chi ha necessità di un manuale da rendere operativo, di una techne da riscoprire e diffondere perché funzionale alla realtà politica in cui il testo può essere letto. Non disgiuntamente dalla nuova polemica sulla traduzione dal greco82, e sul come tradurre Aristotele83, Bruni si concentra sulle ope-

81 «Della traduzione della Politica di Aristotile, iniziata nel 1435, il Bruni parlò in una lettera al Filelfo, scritta da Firenze alla fine del 1435 [...]. Il Bruni aveva intrapreso la traduzione per esortazione del duca Humphrey di Gloucester, appena terminato il primo volume lo aveva inviato al Duca per mezzo di alcuni mercanti, il Duca non ringraziò e non rispose in nessun modo, allora nel 1438 il Bruni dedicò la traduzione ad Eugenio IV. Nel ms. Vat. lat. 2108 si conserva la lettera di Biondo Flavio al Bruni, dove si riferisce circa l’accoglienza riservata dal Pontefice alla traduzione, la lettera di dedica al Papa [...] ed una “Interpretis alia praemissio ad evidentiam rarae translationis” che precede la traduzione, pubblicata a Venezia negli anni 1504, 1505, 1511, 1517 e a Basilea, 1538» (nota di Aulo Greco alla Vita di meser Lionardo d’Arezo, in Greco 1976, I, p. 479 n. 2). In realtà, oltre a questa ricostruzione favorevole al Bruni, grazie al contributo di altre epistole è possibile elaborarne una seconda, da cui emerge la nuova decisione di dedicare la Politica anche a Eugenio IV già prima del 1438: «Il curioso di tutta la vicenda è che la Politica, benché dedicata ad Eugenio IV nella primavera del 1437, era considerata ancora inedita nel dicembre dello stesso anno, quando il Bruni scrive le lettere a Barnaba da Siena, al Frulovisi e con ogni probabilità anche al Mattioli. Si deve insomma ritenere che egli avesse fatto preparare, fra il 1436 e il 1437, due copie della Politica: una, offerta al papa, e l’altra, che è la sola di cui parla nelle sue lettere, destinata al duca di Gloucester e a lui effettivamente inviata nel 1438. [...] solo dopo la spedizione al duca, il Bruni autorizzò la pubblicazione del testo, di cui egli stesso inviò un esemplare ai signori di Siena e al re di Napoli» (Gualdo Rosa 1983, pp. 121-122.). 82 Per una bibliografia su Bruni traduttore dal greco, P. Viti, Profilo ideologico di Leonardo Bruni, in Viti 1996, p. 22 n. 47, ai cui rimandi è opportuno aggiungere Hankins 1994. 83 Poiché fortemente convinto dell’eleganza della Politica – intesa etimologicamente come stile di scrittura scelto e accurato – Bruni lamenta in più occasioni la sciatteria e le ridicolaggini della resa letterale di Guglielmo di Moerbeke: «cum viderem hos Aristotelis libros, qui apud Graecos elegantissimo stilo perscripti sunt, vitio mali interpretis ad ridiculam quamdam ineptitudinem esse redactos ac praeterea in rebus ipsis errata permulta ac maximi ponderis, laboris suscepi novae traductionis, quo nostris hominibus in hac parte prodessem»; obbiettivo di Bruni è che i conoscitori del latino «non per enigmata ac deliramenta interpretationum ineptarum ac falsarum, sed de facie ad faciem possint Aristotelem intueri et, ut ille in Graeco scripsit, sic in Latino perlegere» (in Baron

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re etico-civili, volgendo in latino prima l’Etica Nicomachea (tra 1416 e 1417) e poi la Politica, quando ormai è Segretario della Repubblica fiorentina, e percepisce con particolare serietà il compito intellettuale che si è imposto84. Nel percorso della storia del testo però, la sua versione interessa particolarmente, poiché si basa su di un modello greco proveniente da Costantinopoli, e poi andato perduto; doveva trattarsi di un manoscritto assai vicino, per qualità testuale, ai codici della famiglia P2. Quanto alle modalità con cui Bruni ne entrò in possesso, è bene lasciare la parola al biografo Vespasiano da Bisticci: «Essendo in Firenze bonissima notitia delle lettere latine ma non delle greche, diterminò che l’avessi ancora delle greche, et per questo fece ogni cosa che potè, che Manuello Grisolora, greco, passassi in Italia, pagando buona parte della ispesa. Venuto Manuello in Italia nel modo detto col favore di messer Palla, mancavano i libri, ché sanza i libri non si poteva fare nulla. Meser Palla mandò in Grecia per infiniti volumi, di libri tutti alle sua ispese, la Cosmografia colla pittura fece venire infino da Gostantinopoli, le Vite del Plutarco, l’opere di Platone, et infiniti libri degli altri, la Politica d’Aristotele non era in Italia, se meser Palla noll’avessi fatta venire lui di Gostantinopoli, et quando meser Lionardo tradusse la Pulitica, ebbe la copia di meser Palla. Fu cagione meser Palla per avere fatto venire Manuello in Italia, che meser Lionardo imparassi le lettere greche da Manuello, Guerino veronese, frate Ambrogio degli Agnoli, Antonio Corbinegli, Ruberto de’ Rossi, meser Lionardo Giustiniani, meser Francesco Barbero, Pietro Pagolo Vergerio, ser Filippo di ser Ugolino [...]»85.

1928, pp. 73-74). Una lettera indirizzata a «un non ancora meglio identificato» Demetrio è interamente dedicata alla difesa dell’eloquenza e dello stile di Aristotele contro i detrattori e, soprattutto, contro i traduttori latini che ne hanno scempiato fisionomia e bellezza: è la epistula 4, 22 in Hankins 2007, I, pp. 137140; il destinatario è «probabilmente il monaco bizantino Demetrio Scarano» (Viti 1992, p. 336). 84 A maggior ragione la traduzione deve essere fedele, chiara, univoca: «est disciplina magna, et accurata, in qua si paululum modo aberraveris, omnia paene confundantur. Itaque incredibili diligentia opus est ad fidelitatem traductionis. Et haec fuit michi causa retinendi hos libros diutius in manibus, atque multi jampridem flagitant, et avide expectant, ut libri edantur» (epistula X 10, in Hankins 2007, II, p. 181). Sulla concezione politica di Bruni, a partire dal modello aristotelico, si veda Dees 1987, centrato sull’analisi dell’opuscolo in greco Peri; th`~ politeiva~ tw`n Flwrentivnwn, composto in occasione del Concilio di Firenze del 1439, «quasi sviluppo o appendice della traduzione della Politica» (Viti 1992, p. 195). 85 Dalla Vita di Palla di Noferi Strozzi, in Greco 1976, II, pp. 140-141. Sul ruolo chiave di Manuele Crisolora, maestro di greco e “importatore” di codici greci, cfr. Cortesi 1995 (spec. pp. 462-473).

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Gli inventari e le indagini sulla biblioteca di Palla Strozzi86 non recano alcuna notizia relativa a una copia in greco della Politica di Aristotele: è presumibile che essa sia rimasta di proprietà di Bruni, e in seguito alla sua morte sia andata dispersa. Ma sussiste una prova frammentaria della frequentazione diretta di Palla con il testo della Politica: i primi dieci fogli del codice Laur. Acquisti e Doni 4 Cast (che contiene Politica, Lettere e Retorica ad Alessandro) sono stati trascritti da Strozzi; dal f. 10v fino al termine del manoscritto la mano è quella di Giovanni Scutariota87 (copista di professione, che realizza nel 1494 un’altra copia della Politica per conto di Angelo Poliziano: è il codice Laur. Plut. 81,6, contenente soltanto questo scritto aristotelico)88. Bruni non fornisce nessuna notizia del modello greco utilizzato per la traduzione, né dell’eventuale utilizzo di altri esemplari di collazione, a differenza di quanto si legge solitamente89. 86 Fiocco 1964. Cfr. inoltre Sambin 1958, pp. 371-373, e Gregory 1981, pp. 183-185. Palla Strozzi (1372-1462) nel 1434 fu esiliato da Firenze in seguito alla presa di potere da parte dei Medici, e si ritirò a Padova; Giovanni Argiropulo e Andronico Callisto, che aveva fatto giungere da Costantinopoli, dovettero probabilmente seguirlo; sulla cerchia intellettuale di Palla si veda Legrand 1885, pp. L-LI. Nella sezione del suo testamento dedicata ai libri non si fa menzione della Politica di Aristotele, né tra i titoli destinati «a Sancta Trinita» o ai figli né tra quelli da alienare; però nell’Inventario de’ libri di messer Palla di Nofri [sic] Strozzi, latini, grechi et volghari, fatto a dì XXIIII d’agosto [1431] (Fiocco 1964, pp. 306-310) al n. 219, in un gruppo di titoli aristotelici (senza però nomen auctoris, a differenza dei nn. 136-138, De animalibus, Ethica, Fixicha, de anima, de generatione et corruptione, preceduti dalla specificazione Aristotelis), compare l’indicazione «Politicorum»: è evidentemente il codice di Crisolora poi utilizzato da Bruni. 87 È una supposizione (Vermutung) di Dreizehnter 1970, p. XXIV (convalidata da Dieter Harlfinger), che la scrittura dei ff. 1-10 sia di Strozzi. Il Laur. Plut. 81,6 risulterebbe comunque, secondo Schneider, un apografo dell’Utinensis VI 5 (258), ossia E: cfr. Schneider 1973, pp. 337-338. 88 Il manoscritto utilizzato da Bruni discendeva certamente dall’ambito della II famiglia, e probabilmente era stato confrontato e contaminato con altri esemplari (appartenenti alla I famiglia, secondo il fenomeno già notato). Pienamente condivisibile è l’ipotesi sulla qualità di tale modello, riassunta da Franz Susemihl nella praefatio alla sua prima edizione del 1872: «Leonardus Aretinus interpres interdum Latine reddidit quae ut a maiore codicum parte deflectunt ita cum Guilelmi translatione concinunt, ut is quoque codice similem in modum emendato haud dubie usus sit» (Susemihl 1872, p. XIV). 89 Nella sua fondamentale History of Classical Scholarship Sandys dedica un breve paragrafo a Leonardo Bruni, e si concentra sulla traduzione in latino della Politica, precisando che «For this work he used a MS of the Politics obtained from Constantinople by Palla Strozzi, probably comparing therewith the MS in possession of his friend Filelfo. [...] Bruni describes the original as an opus magnificum ac plane regium, and he had good reason to be proud of a free and flowing version that made the Greek masterpiece intelligible to the Latin

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La straordinaria diffusione della Politica nella traduzione di Bruni90 offuscò già dalla metà del XV secolo l’interesse per la vetusta interpretatio di Guglielmo; anche grazie alla polemica sul metodo (tradurre verbum e verbo, o piuttosto de facie ad faciem, per riprendere un’espressione di Bruni) e alle rivendicazioni stilistiche e retoriche dello stesso Bruni91, gli studiosi, ben presto anche i commentatori e gli editori del testo, utilizzarono quale termine di confronto quasi esclusivamente la nuova traduzione. Al pari di quella medioevale anch’essa influì fortemente nelle scelte editoriali delle età successive: allorché la facies del latino di Bruni si discosti dal testo dei manoscritti greci alcuni editori

scholars of Europe» (Sandys 1908, p. 46). In tale passaggio sono contenute due inesattezze: nella prima parte la collazione con la copia della Politica in greco di proprietà di Filelfo (che la possedeva sin dall’inverno 1428/1429, periodo del suo ritorno in Italia dalla Grecia) è frutto di lettura frettolosa di una brevissima lettera scritta da Bruni allo stesso Filelfo, di cui conviene riportare la conclusione: «Aggressi nempe sumus post discessum tuum Aristotelis Politicorum libros perficere, quos, ut scis, traducere jampridem coeperamus. In his nunc versatur plurimum cura et cogitatio nostra. Vale» (Bruni, Ep. 6, 11). Siccome alla fine del 1429 Filelfo è a Firenze e si intrattiene con Bruni, Oncken espresse il sospetto che il primo manoscritto della Politica in greco giunto in Italia fosse appunto quello dell’umanista di Tolentino, passato poi nelle mani di Palla Strozzi e di Bruni (Oncken 1870-1875, pp. 78-79). Si tratta di un’inferenza illegittima, perché Bruni, a proposito del suo lavoro di traduzione e del momento in cui Filelfo è ripartito da Firenze, scrive che ora deve concludere (post discessum tuum ... perficere) quanto intrapreso tempo prima (jampridem traducere coeperamus). Che poi lo stesso Filelfo avesse recato con sé in quel viaggio a Firenze la sua copia della Politica è pura immaginazione. Nella seconda parte del passaggio riportato Sandys è ambiguo nel riferirsi a the original, descritto da Bruni come opus magnificum, ac plane regium. The original, a questo punto, parrebbe indicare l’esemplare greco utilizzato da Bruni; si tratta invece dell’originale della sua traduzione latina, inviata con dedica al pontefice Eugenio IV. La citazione è infatti tratta da una lettera di Bruni a Biondo Flavio, in cui il traduttore, a opera compiuta, illustra i contenuti della Politica e l’intenzione di dedicarla al papa; l’iperbole della definizione dell’opus, da ultimo, non si riferisce al manoscritto, ma al contenuto del testo e all’importanza dello scritto: se si prosegue oltre le parole trascritte da Sandys, la definizione completa dell’opus (che è la traduzione, e quanto da essa si può apprendere, non un fantomatico original) giustifica la dedica: «et profecto dignissimum, quod Summo Pontifici dedicetur, quondoquidem tota ejus libri materia est de rectione populorum» (Bruni, Ep. 8, 1). 90 Hankins 1994, p. 166, ha censito 206 manoscritti e 51 edizioni a stampa. 91 Nel De interpretatione recta Bruni si sofferma sui caratteri stilistici peculiari della Politica, indicando un Aristotele crebrior e ritrovando una piacevolezza tipicamente oratoria in più punti della trattazione: «In libris vero Politicorum multo crebrior est. Quod enim materia est civilis et eloquentiae capax, nullus fere locus ab eo tractatur sine rhetorico pigmento atque colore, ut interdum etiam festivitatem in verbis oratoriam persequatur» (il testo si legge in Viti 1996, p. 174).

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sono stati tentati dalla retroversione in greco; le edizioni ottocentesche conservano ancora qualche traccia degli aggiustamenti “guidati” a ritroso dalla traduzione di Bruni. Del resto essa condivide un carattere importante con l’antica versione di Guglielmo, ossia di dipendere da un modello perduto; e spesso le velleità di ricostruzione filologica di un manoscritto perduto hanno prevalso sulla disamina oggettiva di tutti i testimoni superstiti. Pubblicata in tempi assai più recenti (1548) ma comunque importante anche ai fini dell’indagine critica è la traduzione latina di Juan Ginés Sepulveda. A differenza di quanto si potrebbe supporre, Sepulveda non si è basato sul testo dell’edizione Aldina (o meglio: non su di esso in primo luogo), perché nella Praefatio rivolta al principe Filippo (allora reggente di Spagna per conto del padre Carlo V, poi Filippo II)92, rivela di aver utilizzato più esemplari, studiati in varie città italiane, selezionati con il criterio della correzione, o meglio del grado di emendatio che le versioni della Politica presentavano. Purtroppo non fornisce alcun dato preciso relativo ai manoscritti utilizzati, perché, ricordando la sua carriera di traduttore aristotelico, si limita a scrivere: «eiusdem philosophi libris, quos Bononiae, Romaeque in mea viginti duorum annorum Italica peregrinatione latinate donaveram [...] castigatorum exemplarium fidem secutus converti»93. Ancor più della traduzione interessano gli Scholia di cui Sepulveda la correda, e in cui giustifica scelte sulla base dei testimoni utilizzati, scartando di volta in volta lezioni deteriori e vulgate a favore di un testo più affidabile (perché tratto da codice più antico), oppure di correzioni (non sue, ma ritrovate negli esemplari stessi). Quella di Sepulveda è dunque la prima traduzione latina desunta da più esemplari greci (perduti, o comunque non identificati con nessuno dei testimoni superstiti), in cui la contaminazione delle fonti è parallela alla segnalazione di varianti e di correzioni. Ai fini della constitutio textus, quale valore sarà opportuno attribuire agli interventi migliorativi testimoniati dal solo Sepulveda? In assenza di notizie precise sui testimoni consultati e sull’origine delle lezioni in questione, resta il sospetto che Sepulveda intendesse come varianti e antichi interventi di copista note, correzioni, congetture in realtà uma92 Sepulveda fu tra i precettori di Filippo per volontà di Carlo V: «Altri precettori del principe furono Honorato Juan de Valenza [...], e Juan Ginés Sepulveda di Cordova, che Carlo V nominò nel 1536 suo cronista, cioè storico ufficiale del suo Impero. Si trattava in entrambi i casi di studiosi assai autorevoli, profondamente dotti nelle lingue e culture greca e latina» (Gerosa 2006, p. 396). Sulla sua opera si veda la recente rassegna di Solana Pujalte 2005. 93 Sepulveda 1548, s. i. p.

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nistiche. Questa possibilità è altissima quando la variante sia ricondotta a emendatiores exemplares (come accade, per esempio, per ei|~ oJ th`~ al posto del tràdito ijsovth~ di 1260b 41); è meno alta quando Sepulveda accredita la sua variante ricorrendo alle formule «ut in vetustis legitur», «in codicibus antiquis», e simili94. L’utilizzo delle traduzioni latine in sede critica, e quindi il ricorso alla retroversione migliorativa, prende avvio con la seconda edizione a stampa del testo completo, pubblicata da Pier Vettori a Firenze nel 155295, e non cessa nella storia delle edizioni successive; anzi, il culmine di tale pratica, come si è già registrato, è rappresentato dalle prime due edizioni critiche di Franz Susemihl (1872 e 1879). 4. L’idolo della ricostruzione testuale: macro e microstrutture Basandosi su una corposa serie di correzioni, congetture, modifiche del testo risalenti al XVI e XVII secolo, la tradizione editoriale ottocentesca plasma progressivamente un testo della Politica uniforme alle lezioni della prima famiglia di codici (P1, oggi considerata di secondaria importanza) e alle traduzioni latine di Guglielmo e di Bruni. Questa tendenza, in sé molto coerente, ma indifferente alla storia del testo documentata dal resto dei testimoni, raggiunge il culmine nella prima delle edizioni di Franz Susemihl (1872): l’editore porge sinotticamente al lettore il greco di Aristotele e il latino di Guglielmo, opportunamente restaurati (il primo con l’aiuto del secondo) perché siano armonizzati tra loro e non stridano: come se il

94 Il rimando all’autorità degli antichi esemplari è pratica filologica che già gli autori antichi praticavano, sia per controllare grafie e lezioni sia per comprendere quale potesse essere il testo originario (anche non in presenza dell’originale, ossia la copia autografa o dettata dall’autore). Quintiliano, per esempio, con formule che diverranno di riferimento, «ut ex veteribus eius libris... in veteribus libris», stabilisce le grafie corrette in passi di Catone il Censore contro correzioni di copie più recenti. Cfr. Quint. Institutio oratoria I 7, 22; IX 4, 39. Sul problema si veda il recente contributo di Pecere 2007. 95 Una lettura pubblica della Politica venne sollecitata a Vettori da parte di suoi allievi: cfr. Mouren 2007 (in particolare p. 490 e n. 72). Ma non si tratta di novità assoluta: già nelle biografie di Vespasiano da Bisticci era data notizia di più corsi e cicli di lezioni sulla Politica (dalle ricerche di codici di Palla Strozzi all’insegnamento di greco di Emanuele Crisolora ai corsi specifici sul trattato aristotelico di Donato Acciaiuoli, dietro insistenza di Federico da Montefeltro). Sulla biblioteca di Vettori, la sua consistenza, i suoi spostamenti, si veda Hajdú 2002, pp. 81-90 (cfr. inoltre i sigla III.). Bandini ricorda che nella recensio dei testimoni Vettori fu aiutato da monsignor Della Casa, al quale l’edizione è dedicata: «L’anno susseguente [scil. 1552] colle stampe de’medesimi Giunti fece vedere la Politica di Aristotele diretta al suo amicissimo Monsig. Gio. della Casa, da cui aveva ricevuto grandissimi ajuti nel ridurre sul riscontro di ottimi testi quest’opera alla sua vera lezione» (Bandini 1757, pp. 189-190).

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testo greco di Aristotele debba corrispondere alla traduzione latina del XIII secolo. Come già nelle edizioni di Bekker e di Goettling, anche in quella di Susemihl scarsa attenzione è riservata al dato linguistico e alla specificità attica del greco aristotelico; interessa piuttosto correggere, a norma di grammatica, tutti i passi in cui la sintassi dei casi e dei modi verbali (per citare le categorie più ricorrenti di presunta anomalia) non corrispondano alle attese del lettore erudito. Ma oltre alla frequenza delle correzioni e delle congetture invasive (che interessa la restituzione della maggior parte dei testi greci editi nel corso del XIX secolo), alla Politica sono state applicate macrostrutture, specie per quanto concerne la successione dei libri. Se correzioni e aggiustamenti formali rientrano nell’ambito di modifiche microstrutturali apportate al testo tràdito, intervenire sull’ordine dei libri in seguito a considerazioni esegetiche e storico-filosofiche significa mortificare un dato unanime della tradizione, visto che tutti i manoscritti riportano la stessa successione degli otto libri, spesso con evidenza di lemmi e didascalie96. La dislocazione di libri in sede diversa da quella in cui la tradizione manoscritta li ha consegnati obbedisce a una serie di osservazioni concernenti la struttura e i contenuti dell’opera. La modifica può avere valore logico-tassonomico, e contribuire alla sistemazione più organica e omogenea del materiale raccolto da Aristotele di libro in libro; in determinati casi è stato dimostrato che la composizione di un libro è precedente a quella di un altro libro, che nei testimoni precede anziché seguire. Ma, in definitiva, lo spostamento dei libri cozza contro il dato unanime della tradizione, e non ha altra funzione che quella di assecondare le esigenze del lettore moderno97. Una delle acquisizioni filologiche più importanti del XIX secolo relativamente al testo aristotelico fu la consapevolezza che incongruenze, aporie, iterazioni o anomale disposizioni del corredo argomentativo dipendessero dalla natura funzionale e didattica di molti scritti superstiti del corpus; il merito va in particolare rivendicato alle due versioni di un saggio fondamentale di Werner Jaeger: quella latina di Emendationum Aristotelearum Specimen (1911) e quella tedesca di Studien

96 Anche nel palinsesto Vaticano del X secolo (Vat. gr. 1298, II V) a cavallo tra f. 302r e 302v termina il libro III e inizia il IV, come in tutti i manoscritti più recenti: Susemihl, nelle sue edizioni, ha dislocato il IV libro dopo il VI, facendo seguire al III direttamente il VII. 97 Newman 1887, II, p. XL, ricorre a un’ipotesi “separativa” per spiegare il “disordine” dei libri nei testimoni manoscritti: quarto e quinto libro sarebbero circolati autonomamente, separati dal resto dell’opera, e in una fase di ricostituzione dell’unità sarebbero stati collocati in posizione errata. Si vedano poi il paragrafo Dislocations and Double Recensions, in Susemihl-Hicks 1894, pp. 78-97, e il contributo di Mesk 1916.

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zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles (1912). Jaeger «comprese che lo stato del testo aristotelico, da lui magistralmente descritto nelle Studien da un punto di vista puramente filologico, era il prodotto di un lungo e ripetuto lavoro sui problemi e delle esigenze dell’esposizione orale, come mostravano, oltre alla Metafisica, anche le Etiche e la Politica, e concepì dunque l’idea dell’evoluzione del pensiero di Aristotele»98. La seconda metà del XIX secolo (che equivale a indicare la reiterata applicazione di Franz Susemihl al testo della Politica) si esercita invece nella ristrutturazione logico-razionale del trattato, quindi in una collocazione dei suoi blocchi diversa rispetto a quella (unanime) della tradizione manoscritta. Può essere utile sintetizzare in tabella le dislocazioni operate da Susemihl nel corso delle sue edizioni99: N. di libro

Successione e numerazione dei libri: - nei manoscritti

- in Susemihl1 (1872)

- in Susemihl2 e 3 (1879 e 1882)

- in Susemihl4Hicks (1894)

1.

A

A

A

A

2.

B

B

B

B

3.

G

G

G

G

4.

D

Z (segnato come D)

H (segnato come D)

H (VII, segnato come IV)

5.

E

H (segnato come E)

Q (segnato come E)

6.

Z

D (segnato come ı)

D (segnato come Z)

Q (VIII, segnato come V) -

7.

H

ı (segnato come Z)

Z (segnato come H)

-

8.

Q

E (segnato come H)

E (segnato come Q)

- 100

98 Berti 2008, p. 27. La tesi di Jaeger sulla composizione non di libri necessariamente collegati in modo organico, ma di methodoi unitarie è stata ripresa e rielaborata dalla minuziosa analisi di Schütrumpf 1991, I (alle pp. 39-67 il già citato capitolo Stellung und Verhältnis der Bücher bzw. Buchgruppen): «Nicht Bücher der überlieferten Einteilung, sondern methodoi sind die schriftstellerischen Einheiten. Nur bei den Büchern Pol. I, II, III und VI gab es eine Kongruenz von methodos und Buchrolle. Jaeger wagte aber nicht so weit zu gehen, die Verteilung der beiden anderen methodoi auf je zwei Rollen, d. h. die heutige Buchtrennung IV zu V bzw. VII zu VIII Aristoteles selber zuzuschreiben» (pp. 41-42; alle stesse pagine si rimanda per la discussione della ricostruzione jaegeriana di tutta la Politica). 99 Analogo schema, dedicato alle edizioni di Schneider, Bekker, Newman, è già in Immisch 1929, p. VII. Sul problema “storico” dell’ordo librorum si veda il paragrafo L’ordine dei libri: Antonio Scaino da Salò, in Besso, Guagliumi, Pezzoli 2008, pp. 159-160. 100 Il testo dei libri IV, V, VI in questa edizione non compare.

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5. Per un ritorno alla tradizione manoscritta Già si è accennato al notevole credito offerto da Susemihl alla tradizione critica precedente, in particolare per le sue prime due edizioni della Politica (1872 e 1879). Il rapporto dell’editore con il testo aristotelico, nonostante la messe di dati manoscritti e di varianti a disposizione, resta teso all’ambizione di ricostruzione (anche stilistica), impedita dalle cattive condizioni dei manoscritti, e quindi bisognosa di congetture e correzioni da parte dell’editore. Il ritorno alla tradizione manoscritta – sempre prediletta rispetto ai tentativi (anche geniali, ma pur sempre tentativi) di ricostruire modelli perduti e vagheggiati subarchetipi – va misurata nella totalità della recensio, estesa anche ai testimoni delle antiche traduzioni latine. Per questo motivo si noterà subito come dall’apparato critico della presente edizione siano scomparse (se non in citazione da precedenti editori) le sigle g e G, che indicavano ipso facto i contenuti dei perduti codici utilizzati da Guglielmo di Moerbeke per le sue due traduzioni, e che godevano (nel riferimento alla lezione ricostruita) della massima considerazione ai fini della constitutio textus. Poiché l’apporto delle versioni latine (di Guglielmo e di Bruni soprattutto, ma in secondo grado anche di Sepulveda) rappresenta il momento più difficile della recensio, è bene precisare il limite di considerazione di tali traduzioni nelle scelte critiche. Non si vuole affatto negare credito e importanza alle antiche versioni della Politica: in alcuni passaggi la tecnica della retroversione permette di correggere in modo palmare un errore della tradizione (il caso più evidente è la corruzione ad apertura del II libro, 1260b 41, in cui ei|~ oJ th`~ è ricostruito grazie a Guglielmo: tutti i codici greci hanno l’errore di iotacismo e di mancata distinctio ijsovth~). Si vuole invece sollevare un dubbio sulla sistematicità della retroversione, operata e adottata ogni qual volta le traduzioni antiche si discostino dal testo greco tràdito; è evidente come la prima e la seconda edizione di Franz Susemihl siano un prodotto del metodo e della filologia positiva della Germania di metà Ottocento (se non, per meglio dire, del Positivismo tout court; a meno che agisse ancora, a livello inconscio, il preconcetto umanistico della superiorità dei Latini sui graeculi, cioè di illustri traduttori ed editori su ignoti copisti medioevali). Ma la persistenza di tale metodo in alcune edizioni novecentesche, unitamente all’incessante accoglienza di correzioni e interventi migliorativi (dello stile o dei contenuti, a seconda delle esigenze personali: si vedano in particolare testo e apparato di Ross) appare oggi assai opinabile. Le lezioni ricostruite ricorrono con discreta frequenza, ma sono sempre presentate come tali in apparato, quale ipotetica retroversione o congettura (utile per comprendere errori e genesi di variante); non sostituiscono

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mai l’autentica lezione latina (giusta o sbagliata che essa sia) trasmessa nei codici di G. e di G.i. Gli editori hanno di volta in volta identificato gli accordi in errore dei vari testimoni, singolarmente o per famiglia; a queste tipologie si aggiunge il riscontro (o il dissenso) tra le traduzioni latine e il testo greco dei manoscritti. Le varie eventualità sono così esemplificate nelle edizioni otto-novecentesche: 1) Lezioni ricostruite dalla versione latina di G., distinte e (a detta dell’editore) superiori al resto della tradizione greca (Sus.1 pp. V s.). 2) Lezioni ricostruite dalla versione latina di Bruni, distinte e (a detta dell’editore) superiori al resto della tradizione greca (Sus.1 pp. XV s.). 3) Vestigia di P1 nella traduzione di Bruni (cioè nel suo modello) coincidenti con lezioni isolate di codici della famiglia P2 (Sus.2 pp. VI s.). 4) Consensus del gruppo P1 con alcuni codici di P2 (Suse.3 pp. VII s.). 5) Concordanza delle lezioni di P1858 ora con il gruppo P1 ora con quello P2 (Sus.3 pp. IX s., Sus.4 pp. 76 s.). 6) Esempi di buone lezioni ricavabili o da G. soltanto, o da G. insieme ad altri testimoni (dell’originale greco) isolati, o da G. e da Bruni (Sus.4 pp. 462 s.). 7) Buone lezioni del gruppo P1 (Sus.4 pp. 465 s.). 8) Discrepanze interne alla famiglia P1 (incluso il modello perduto di G.: Sus.3 pp. X s.). 9) Ross riporta un nutrito elenco (soltanto numerico, però) di concordanze possibili tra ABVHMP e G (il modello perduto di G.), separandole in sette insiemi. Dal semplice ammontare numerico delle concordanze (288 tra AB, 60 tra PH, per citare il numero massimo e quello minimo), l’editore inferisce che AB fanno parte della stessa famiglia, che MP e il modello di G. lo sono dell’altra, che HV concordano assai più con la famiglia di AB (cioè P2) che non con l’altra. Sulla base di questi dati Ross, con la disposizione di chi vuole mediare tra diverse ipotesi e riconoscere a buon diritto i meriti delle precedenti edizioni, ribadisce l’esattezza della distinzione in due famiglie (teoria di Susemihl) e della superiorità di P2 contro P1 (teoria di Newman-Immisch). Per mezzo dello stesso criterio quantitativo Ross fa ancora notare che, siccome V concorda con P2 più che con P1, nei casi in cui tra le due famiglie e V la lezione discordi, egli ha scelto quella del codice Vaticano (Ross p. VI). 10) Elenco delle lezioni di P2 preferibili a quelle di P1 secondo Newman (Newman, 1987, II, pp. LVI-LVIII). Tutti questi elenchi configurano rispettive ipotesi di lavoro, in base alle quali si possono comprendere le scelte operate dagli editori; più che preordinare tali scelte, però, sarà opportuno esaminare ogni problema nella sua specificità testuale, nell’ambizioso tentativo di rendere chiaro (safhnivzein) Aristotele con il testo stesso di Aristotele.

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6. Criteri della presente edizione a) Codici e raggruppamenti Risulterebbe molto difficile, oggi, disconoscere la maggiore complessità e ricchezza della famiglia P2 rispetto alla prima. Ma questo non implica necessariamente che si debba operare la scelta delle lezioni esclusivamente sulla base della famiglia di appartenenza; il testo di H e di V è irriducibile all’opposizione secca P1 / P2; è invece opportuno discutere i singoli luoghi di volta in volta, ed evitare così automatismi e determinazioni di ordine puramente stemmatico o meccanico. Anche perché, per riprendere parole di Matteo Monaco sulla tradizione di Eschine, tra i gruppi di testimoni per lo più «si ha a che fare con un sottobosco testuale di divergenze minime (inversioni nell’ordo verborum, aggiunte od omissioni di poco momento, utilizzo di forme – verbali, aggettivali, pronominali – sostanzialmente equivalenti), a tal punto che, per un editore, la scelta della lezione poziore è sempre problematica e raramente può poggiare su basi d’assoluta certezza»101. Allo stesso modo, nel nome di una cautela critica finalizzata alla conservazione (e, ove possibile, alla valorizzazione) della tradizione, non si è proceduto alla meccanica cassazione dei codici deteriori e delle loro varianti e deviazioni (la eliminatio lectionum singularium): l’apparato anzi registra tutte le principali emergenze testuali rispetto alla versione scelta, affinché il lettore si renda conto con dati oggettivi (le lectiones) per quali motivi classificare alcuni testimoni come primari, e altri come deteriori. b) Scelte ortografiche e fonetiche - (1) Le attestazioni lessicografiche e la comparazione con lo stile degli autori attici contemporanei di Aristotele (perfetto contemporaneo è Demostene) inducono a credere che usuali abitudini grafiche ricorrenti nelle edizioni (le grafie givnomai per givgnomai, oujqev per oujdev, etc., ossia l’opposizione della versione di koinh; diavlekto~ a quella tradizionale attica) restituiscano effettivamente la facies dei codici manoscritti più antichi, anche se gli editori aristotelici non si sono concentrati troppo spesso sull’aspetto prettamente linguistico del testo tràdito102 (forse anche a causa del dato geo-linguistico: Aristotele, nativo di Stagira, non si sarebbe espresso in perfetto attico, pur vivendo e insegnando ad Atene). Nel caso della Politica questa situazione è solo in parte confermata dalle varianti formali dei manoscritti. Mentre in tutto il resto della tradizione di quest’opera dilaga la grafia di uso ellenistico, la famiglia P1 tende infatti a ricostruire il più possibile le forme attiche; a volte la tradizione è unanime nel porgere queste ultime, come altre volte è unanime nella grafia della forma recentior. Questo significa molto probabilmente che il gruppo MPS conserva non già un aspetto più antico, ma consistenti tracce di una normalizzazione grammaticale diffusa (parallela al sostanzioso restauro testuale operato da un grammatico, che è alla base della diramazione in due famiglie; in età moderna analogo restauro linguistico è realizzato dall’edizione di Bekker); in P2 (dunque anche nel gruppo dei codici deteriori) si è invece mantenuta la convivenza di forme diverse. La questione

101

Monaco 2000, p. 6. Sulla questione, soprattutto Renehan 1992, p. 720; per il problema dello iato in Aristotele cfr. invece Hicks 1890. 102

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non è mai stata affrontata direttamente dai precedenti editori della Politica, che di fronte a varianti linguistiche scelgono per lo più le forme ellenistiche. Pur essendo disponibile l’appoggio dei documenti (nella famiglia di codici, però, di secondaria importanza P1), non è possibile mantenere a testo sic et simpliciter la grafia attica, considerato il massiccio intervento correttivo subìto dai testimoni che presentano tali forme. Aristotele, del resto, vive nella generazione in cui la prosa attica è già divenuta un mezzo di espressione universale, in grado di mediare tra tutti i particolarismi linguistici delle varie città greche; la sua lingua, di straniero naturalizzato ad Atene, deve probabilmente conservare forme miste e coesistenti, avviandosi a quella normalizzazione morfologica (la koinh; diavlekto~, appunto) che ha nella prosa di Polibio uno degli esempi maggiori103. Pertanto, nei casi di opposizione tra P1 e P2, a prevalere sarà ancora una volta la seconda famiglia; in altri casi di opposizione d’uso tra lingua attica e lingua comune ellenistica (per esempio metav / suvn et similia) la scelta dipende dallo specifico ventaglio di varianti nei manoscritti, di volta in volta ricordato in apparato. - (2) Alternanza ou{tw / ou{tw~: conformemente alla tendenza pressoché costante dei manoscritti, ou{tw~ è segnato soltanto quando seguito da iniziale vocalica o da segno di interpunzione forte (punto alto o basso); in tutti gli altri casi è ou{tw (cfr. Schwyzer 1939, I, pp. 406 b, 409 Zusatz 5); lo stesso criterio serve a confermare la presenza di -n efelcistico, anche se le attestazioni dei manoscritti si presentano meno soggette alla regola (per cui si veda ancora Schwyzer 1939, II, pp. 405-406). - (3) Alternanza e[sti / ejstiv: l’orientamento della scelta è di volta in volta determinato dalla disamina della situazione manoscritta documentata in apparato (sulla questione, ancorché riferiti specificamente a Platone, si vedano Duke 1995, p. XX n. 30, Martinelli Tempesta 2003, p. 115). - (4) Alternanza aijeiv / ajeiv: la forma ajeiv inizia a prevalere nelle iscrizioni attiche risalenti al 361 a.C. in poi (Meisterhans 1888, pp. 14, 64, Threatte 1980, pp. 275-276); considerata però l’unanimità della tradizione di aijeiv limitatamente a pochi casi (1266a 28, 1273b 19, 1276a 36, 38, 1281a 32, 1286b 18, etc.), lì il testo conserva la forma con il doppio dittongo (scelta già codificata in Newman 1887, II, p. 82). c) Punteggiatura Le difficoltà esegetiche poste dal testo aristotelico possono essere osservate anche in parallelo alla complessità con cui il periodo risulta strutturato: le argomentazioni e il procedere del ragionamento inducono Aristotele a formulare continui corollari, digressioni, enumerazioni asindetiche rispetto alla proposizione principale, che si trasformano in propaggini sintattiche (a volte difficilmente controllabili). Gli editori, sin dal XVI secolo, hanno tentato di rendere più agevole la lettura del testo greco con un procedimento di gerarchizzazione interna delle idee: per isolare corollari, parallelismi, esegesi di una locuzione o di un termine, in modo che il lettore potesse seguire il percorso principale del testo (nella relativa sintassi) senza smarrirsi in precisazioni e chiarimenti, sono state utilizzate le parentesi tonde, un segno diacritico «ignoto alla tradizione ellenica»104. La presenza delle parentesi (di indubbia utilità sul piano della com-

103 Papanastassiou 2007 e Kaczko 2008; per lo specifico semantico della lingua di Aristotele, Kotzia 2007. 104 Mazzucchi 1997, p. 138 (si tenga conto anche di Mazzucchi 1979). In sostituzione delle parentesi, «poiché è familiare al greco il concetto di “inciso”»,

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prensione) pone però un duplice problema critico: 1) è inframmezzato al testo greco un segno diacritico estraneo alla punteggiatura e ai segni convenzionali della lingua antica; 2) la demarcazione testuale a mezzo di parentesi stabilisce un testo primario, caratterizzato da sintassi-guida, e un testo secondario (contenuto all’interno delle parentesi, quasi fosse di minore importanza); la posizione di tali confini qualitativi è inoltre arbitraria rispetto al dettato aristotelico come conservato nei manoscritti. Alois Dreizehnter, pubblicando nel 1970 l’ultima edizione critica della Politica, ha deciso di interrompere la pratica delle parentesi, che si ripetevano di edizione in edizione (quasi senza mutare), e di ristabilire una punteggiatura ordinaria e storicamente plausibile rispetto al testo greco. Anche la presente edizione adotta la scelta di Dreizehnter, senza però accettarne in toto le proposte di punteggiatura, che è stata ricontrollata anche con riferimento ai manoscritti più autorevoli105. Data la complessità espositiva della Politica, non è possibile stabilire criteri inderogabili per la posizione di virgola, punto basso (equivalenti solo formalmente, ma non funzionalmente, dell’uJpostigmhv) e punto alto (la teleiva); è però possibile rintracciare alcune tendenze espositive (non automatismi), e a esse adeguare l’esigenza di ordine interno in ogni periodo. A titolo di esempi: 1) il frequentissimo gavr esplicativo è quasi sempre segnale di inizio di una nuova e autonoma sezione del periodo (con funzione argomentativa e autonomia sintattica): il colon che lo precede sarà pertanto chiuso da un punto alto. 2) Dal momento che le particelle correlative mevn... dev (a volte il solo dev), e i connettivi dhv, ou\n, diov, diovper e simili, segnano l’inizio di una nuova sezione, il colon che precede (specie se conclude una serie argomentativa o una parte del

Mazzucchi suggerisce di utilizzare «il trattino orizzontale di paravgrafo~, che, vista la sua natura separativa, sembra ben adatto allo scopo. Si tratta comunque di una novità rispetto all’uso antico e bizantino, ma, a mio giudizio, compatibile con esso» (Mazzucchi 1997, pp. 137-138). Nonostante l’invito alla moderazione nell’uso della parentesi, già formulato da Aldo il Giovane nell’Epitome Orthographiae del 1575 (e riportato da Mazzucchi nello stesso saggio, pp. 137-138 n. 26), gli editori aristotelici otto- e novecenteschi non si sono limitati a includervi incisi e parti del periodo estranei alla sintassi complessiva, ma le hanno intese funzionali al contenimento di un “secondo livello” del testo (come a dire: l’equivalente, nel corpo del testo principale, delle note a piè di pagina dei testi contemporanei). Ci si orienti anche con Polara 1998. 105 Sulla base della qualità del testo, Mazzucchi ha distinto due casistiche di approccio e due vie da seguire: «Che conto dovrà fare un editore della punteggiatura che trova nei manoscritti? Quando non ci sia presunzione d’autografia o di esemplari d’edizione – e non è questo il caso per la letteratura antica –, egli se ne sentirà libero e autorizzato a procedere come meglio gli sembri; tuttavia gli converrà paragonare con modestia le sue scelte almeno con quelle del codice più autorevole: dato che entrambi applicano sostanzialmente lo stesso sistema, il dialogo è possibile. Invece, davanti agli autografi non resta che il rispetto» (Mazzucchi 1997, pp. 139-140). Nella tradizione della Politica sarebbe però arduo individuare «il codice più autorevole»: un confronto utile giunge quindi sia da B (il manoscritto più antico, e rappresentante della II famiglia) sia da P (per la I famiglia); non va dimenticato l’apporto del codice E, scritto da un teorico della grammatica e dell’interpunzione come Teodoro Gaza (Theodori Introductivae Grammatices libri quatuor, Venetiis 1495), nonostante il suo sistema introducesse innovazioni rispetto alla tradizione antica.

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ragionamento) sarà chiuso da un punto basso. 3) L’utilizzo della paravgrafo~ (sotto forma dei trattini orizzontali – ... –) è comunque minimo, mirato a isolare quelle parti del periodo sintatticamente assolute, che davvero costituiscono un “inciso” nella frase. 4) La virgola è utilizzata soprattutto per separare i cola all’interno dello stesso periodo, e quindi molto spesso (ma non a ogni costo, anche per non frantumare l’unità del discorso) precede congiunzioni coordinanti e subordinanti. Tale funzione secondo la tradizione antica dovrebbe essere svolta dal punto medio (mevsh), ma per consuetudine si adotta il segno più familiare; la posizione della virgola (che nei codici di età umanistica è sovente equiparata, nel segno grafico, all’uJpostigmhv) tiene conto delle modalità di separazione dei cola nei manoscritti più importanti. d) I sigla Il significato delle sigle P1 e P2, ereditate dalla tradizione degli studi critici e utilizzate di frequente nell’apparato, non coincide però con quello che hanno attribuito loro gli editori otto- e novecenteschi. Susemihl e successivi indicarono infatti con P1 non soltanto i manoscritti superstiti della I famiglia, ma anche i perduti modelli delle due traduzioni altomedioevali. Nell’apparato della presente edizione la sigla P1 indica semplicemente il consensus dei codici greci appartenenti a quella famiglia; l’eventuale specificità delle traduzioni latine è segnalata a parte. Per la II famiglia di manoscritti, invece, limitarsi all’indicazione P2 sarebbe davvero troppo semplificante, quando si consideri il massiccio gruppo dei cosiddetti codici deteriori. Si è così provveduto a distinguere il consensus dei codici più importanti del secondo raggruppamento (P2 = ABCDEH) da un parziale consensus, che isola come eccentrico rispetto alla sua stessa famiglia l’importante testimone H (P3 = ABCDE); da ultimo, anziché limitarsi a sbrigative indicazioni di consensus nei testimoni deteriori (come l’ambiguo p3 in Ross), si è cercato di individuare, nei limiti del possibile e nelle situazioni testuali più intricate, il consensus di gran parte di tali manoscritti secondari (P4). e) Il testo La disposizione del testo secondo una prestabilita numerazione di pagine, colonne, righe, segue per convenzione editoriale l’impaginazione della Politica secondo l’edizione critica curata da Bekker106. I numeri da 1253 a 1342 indicano quindi le pagine della suddetta edizione; le lettere a e b indicano rispettivamente la colonna di testo a sinistra e a destra, contenute in ogni pagina dell’edizione bekkeriana; i numeri da 1 a 42 (massimo) il numero della riga nella stessa edizione. Unica deroga rispetto alla disposizione testuale di Bekker (a parte le migliorie testuali dovute all’apporto di manoscritti riscoperti e utilizzati successivamente) riguarda le citazioni poetico-letterarie che Aristotele inserisce nell’opera: qualora integre e riconoscibili, sono state stampate in corpo minore ed evidenziate all’interno del testo per mezzo di rientro. Il testo critico utilizza alcuni fondamentali accorgimenti editoriali per chiarire al lettore la natura di passaggi specifici: il testo incluso tra parentesi uncinate ‹ ... › è integrazione congetturale, considerata necessaria alla piena intelligenza

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Nella versione di Bekker-Gigon 1960, pp. 1252-1342.

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del passo. Il testo incluso tra parentesi quadre [ ... ] è espunzione di quanto, pur trasmesso da tutta o da parte della tradizione manoscritta, gli editori considerano spurio, interpolato, aggiuntosi nel corso delle trascrizioni (per i più svariati motivi: errore, dittografia, zeppa esplicativa, glossa marginale rifluita nel testo, interpolazione, correzione grammaticale). Le singole lettere stampate in corsivo nel testo evidenziano una correzione editoriale; il corsivo evidenzia dunque, unitamente alle integrazioni di intere parole, l’intervento editoriale che si allontana dal testo tràdito nella sua pluralità di testimoni (e che può essere individuato in 1257b 33, 36, 1260b 41, 1262a 7 [soltanto in apparato], 1272b 39-40, 1280b 23, 1285a 39, 1286a 9, etc.; integrazioni vere e proprie - tra parentesi uncinate - in 1261b 3, 1276b 9, 1283b 15, etc.). f ) L’apparato critico A piè delle pagine recanti la traduzione italiana della Politica può comparire un apparato articolato in due sezioni, dedicato alle fonti (le molte rintracciabili) del discorso di Aristotele, ossia alla referenza delle citazioni letterarie che il filosofo porge ai lettori, e alla tradizione indiretta che riporta passi della Politica (o vi si riferisce in termini circostanziati, parafrasando e riassumendo i contenuti dell’opera). Tale apparato assolve dunque a due funzioni, corrispondenti alle due sezioni di riferimenti: 1) riportare loci similes (in particolare all’interno di altre opere aristoteliche) e riferimenti alla letteratura che Aristotele menziona; 2) fornire informazioni sulla fortuna della Politica e sulla sua tradizione indiretta, a partire dagli scholia leggibili in alcuni manoscritti fino alle citazioni testuali di età umanistica (da Ario Didimo a Teodoro Gaza, in buona sostanza). Anche quando Aristotele cita parzialmente un verso poetico (soprattutto da Omero o dai poeti tragici), l’apparato rimanda per esteso al passo, con l’ausilio di un’edizione di riferimento. A volte esso registra la sola referenza a un passo, senza il testo per esteso; è invece riportato anche il testo greco o latino di riferimento ogni qual volta sia rintracciabile una citazione diretta del dettato aristotelico, ovvero un segnale di collegamento lessicale che presuppone lettura e rielaborazione dello specifico passaggio della Politica. Quando il testo greco sia documentato da testimoni d’eccezione (ma frammentari: il papiro o il palinsesto Vaticano V), a questi è dedicata la prima sezione del pre-apparato, con referenza circostanziata delle parti della Politica in essi presenti. Le singole variazioni testuali della tradizione indiretta sono segnalate nell’apparato critico vero e proprio, specificamente dedicato alle varianti dei testimoni di tradizione diretta, alla loro discussione, alle scelte degli editori. Esso compare in calce alle pagine recanti il testo greco della Politica. Esulano dall’apparato critico le segnalazioni di variazione nell’ordo verborum all’interno dei modelli (perduti) delle due versioni latine antiche (limitate a scambio di posizione tra due parole, e descritte in modo sistematico da Dreizehnter), e della traduzione di Bruni, in quanto non si tratta mai di dati oggettivi, ma sempre di supposizioni dell’editore: pluralità e diversità di traduzioni latine dello stesso testo inducono a postulare piuttosto una ratio (stilistica) messa in opera dal traduttore, non già l’automatismo di ricostruzione del testo greco. Quando nell’apparato critico viene citata la lezione di uno scolio (contrassegnato dalla lettera s posta ad apice della sigla del manoscritto), il testo, completo o parziale, dello stesso scolio (o anche di alcune glosse significative) è riportato nel pre-apparato. Questo accade anche per le eventuali attestazioni di tradizio-

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ne indiretta, sotto forma di parafrasi, commento, allusione: quando l’apparato segnala una lezione proveniente da altro autore, il testo circostanziato che la contiene è riportato nel pre-apparato, in modo che il lettore possa apprezzare liberamente e autonomamente la fortuna della Politica nel corso della letteratura greca successiva, nonché le variazioni testuali rispetto ai dati della tradizione diretta. Delle citazioni testuali estese (ossia delle fonti di tradizione indiretta) l’apparato ovviamente non riporta il testo completo, ma le sole varianti. L’edizione di riferimento di scholia e glossae è quella di Otto Immisch, in calce al testo completo della Politica edito nel 1929 sulla scorta delle edizioni di Franz Susemihl. Le traduzioni latine compaiono in apparato con insistente frequenza, soprattutto quelle più antiche di Guglielmo di Moerbeke (nella versione completa e in quella limitata ai primi due libri) e di Leonardo Bruni, poiché si tratta di testi dipendenti direttamente da manoscritti greci perduti. Sporadico il ricorso a traduzioni più recenti, ma giustificato laddove sia difficoltosa l’esegesi del testo greco. I testi di Guglielmo (G. = traduzione completa dell’opera; G.i. = traduzione incompleta) compaiono sempre nei casi in cui la resa latina induca a supporre un testo di partenza differente rispetto a quello dei manoscritti greci; ma essi sono riportati anche nel caso in cui parte della tradizione greca presenti difformità rispecchiate da uno o da entrambi i testi latini. Naturalmente, essi sono riportati qualora la versione latina, nel confronto con la totalità dei testimoni greci recante lezioni deteriori, permetta di ricostruire un testo originario più attendibile di quello tràdito (situazione molto rara; ma si veda 1260b 41). L’assidua menzione delle traduzioni latine antiche non significa però né dipendenza del testo critico dai perduti (e soltanto minimamente ricostruibili) codici compulsati da Guglielmo, né predilezione per la famiglia di testimoni greci cui esse siano più avvicinabili (senza dubbio P1 per G.). Occorre ricordare che entrambe le versioni latine di Guglielmo non sono rappresentate dall’autografo del traduttore latino, ma da una tradizione di testimoni (assai più copiosa di quanto non risulti dall’apparato critico di Susemihl per il testo completo), a sua volta connotata da gruppi di manoscritti apparentabili, da errori più o meno vistosi, da varianti adiafore, da errori singolari107. Per concludere, si tratta in entrambi i casi di tradizioni complesse, la cui edizione critica è come sempre un tentativo di ricostruzione del testo originale. Sulla base di queste considerazioni si desume quanto sia stato rischioso, e in molti casi del tutto opinabile, ricostruire il greco dei manoscritti utilizzati

107 Dreizehnter 1970, p. XL, riporta un giudizio molto negativo dell’edizione di G.i. a c. di Michaud-Quantin: «Leider ist die Ausgabe im ARISTOTELES LATINUS völlig unbrauchbar, weil der Herausgeber pro Seite im Schnitt 10 falsche Angaben macht, sei es, daß er sich in den Handschriften verlesen hat, sei es, daß er die Siglen im kritischen Apparat verwechselt. Deshalb erwies es sich als notwendig, für die vorliegende Ausgabe die drei Handschriften erneut zu kollationieren, um einen gesicherten Text als Grundlage der zu rekonstruirenden griechischen Vorlage zu schaffen». Provvede Dreizehnter stesso a correggere gli errori di lettura e a integrare i rimandi ai codici di G.i. nel suo apparato. Va ricordato da ultimo che il più antico manoscritto della versione latina di Guglielmo è il Toletanus Bibl. Capituli 47.9, vergato tra la fine di XIII e l’inizio di XIV secolo (non compare nella rassegna di Newman 1887, II, p. 61; è invece segnalato per la sua importanza da Schneider 1973, p. 341 e n. 1).

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da Guglielmo a partire da singoli codici latini (o gruppi di tali codici) e inserire negli apparati critici la nuova traduzione in greco di una lezione latina a sua volta anticamente tradotta dal greco. Tutto questo perché la traduzione non è un processo automatico, meccanico, riproducibile con gli stessi risultati per un erudito europeo alla metà del XIII secolo così come per editori del XIX e XX secolo; molto difficilmente tale processo può consegnare all’editore lezioni di testimoni antichi, da considerare addirittura superiori a quelle trasmesse dai testimoni greci. Nella recensione delle precedenti edizioni, almeno fino a Ross, la disamina del dato incerto si mescola a quella dei dati oggettivi (i testi leggibili), con il pericolo di inficiare il valore scientifico del testo critico. Per questo motivo, a differenza di quanto proposto dagli editori precedenti, nella presente versione la sigla P1, ossia il riferimento alla I famiglia, non significa unanimità dei testimoni MPS e dei due (?) manoscritti utilizzati da Guglielmo, segnati solitamente come G e g (rispettivamente il testo greco completo e incompleto della Politica). P1 indica soltanto il consensus dei tre codici greci menzionati. Si è di norma ritenuto preferibile trascrivere il testo latino (con varianti e discrepanze), più che la retroversione in greco operata dagli editori. Quanto può essere corretto, a titolo di esempio metodologico, indicare in apparato «om. G.» nei casi in cui non tutto il testo greco abbia un corrispettivo nella versione latina? Omittit indica volontà di omissione oppure distrazione del copista (in questo caso: del traduttore). Ma la questione è molto più complessa, dal momento che la supposta omissione potrebbe essere il risultato di un guasto nella tradizione dei codici di Guglielmo (mentre la lezione avrebbe potuto essere presente nell’archetipo della tradizione latina), oppure – in modo ugualmente probabile – derivare da una mancanza nell’esemplare greco utilizzato da Guglielmo, e quindi essere indipendente dall’operato del traduttore108. L’errore pregiudiziale commesso dagli editori è stato quello di supporre un testo greco della Politica perfetto e completo negli esemplari utilizzati da Gugliemo di Moerbeke; e in conseguenza di tale pregiudizio è sempre stata attribuita grande importanza alla ricostruzione del testo greco di tali modelli. Sin dagli inizi dell’età moderna, al contrario, sono stati registrati forti dubbi sulle competenze linguistiche e sull’affidabilità del traduttore stesso109. Anche nei punti (numerosi) in cui si ha certezza di poter ricostruire la lezione del modello greco, non va dissolto l’eventuale dubbio sulla esatta lettura del modello compiuta dal traduttore, né vanno dimenticate le tentazioni correttive di chiunque lavori su un testo senza intenderlo completamente (non è possibile spiegare sempre allo stesso modo, per esempio, tutti i punti in cui il traduttore non traduce e si limita alla trascrizione latina dei caratteri greci; tale situazione

108 Assai più cauto l’atteggiamento di chi si limiti a riscontrare che, in corrispondenza di un testo greco, Guglielmo semplicemente non traduce (il non vertit dell’apparato; o per meglio dire: a causa di motivi che possono essere differenti, l’insieme dei testimoni di Guglielmo non reca alcuna traduzione della lezione greca discussa). 109 Oltre alle già riportate note di sfiducia (o di aperto biasimo) delle capacità di Guglielmo, occorre riferirsi ai risultati di un’indagine critica di Vuillemin-Diem 1987. La studiosa ha dimostrato come Guglielmo traduca sia il testo di base sia le correzioni successive presenti nei suoi modelli, e riveda (anche a distanza di anni) le sue traduzioni, introducendo sensibili modifiche e innovazioni.

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permette però di postulare con più probabilità il testo di partenza, senza mediazioni culturali, a volte deformanti, del processo traduttivo). Nell’apparato critico varianti, traduzioni latine, correzioni e congetture afferenti alla stessa lezione o allo stesso segmento testuale sono separate da due punti verticali ( : ); quando la lezione o il testo di riferimento cambia il separatore è offerto dal numero di riga. g) Le note testuali Le note testuali che accompagnano il testo greco di ciascun libro non hanno alcuna pretesa di fornire un commentario filologico dettagliato (si rimanda piuttosto alle Critical notes apposte in calce al testo originale nell’edizione di Newman); si tratta invece di schede riassuntive a proposito della tradizione del testo, a sostegno e integrazione delle informazioni dell’apparato critico, in particolare per i luoghi in cui la situazione manoscritta è complicata da varianti o guasti; a volte le schede presentano i criteri della scelta testuale o argomentano in modo esteso gli interventi sul testo tràdito; altre volte sono dedicate alla tradizione indiretta della Politica e alla valutazione storico-critica dei passi ricordati nel pre-apparato. h) Le Appendices coniecturarum In calce alle note testuali di alcuni libri sono riportate sobrie appendici di interventi congetturali e proposte di correzione non incluse nell’apparato critico. Il fatto stesso di essere raccolte in appendice rispetto al testo qualifica l’importanza secondaria di tali ipotesi; ma, al pari delle informazioni nell’apparato critico, lo scopo di queste raccolte non è né erudito né esclusivamente documentario: gli interventi di modifica, integrazione o cassazione del testo hanno sempre e comunque un valore storico, e permettono di comprendere il tipo di approccio testuale che di epoca in epoca si è trasformato. Il lettore potrà anzi percepire, pur nell’inevitabile selezione degli interventi registrati, le tipologie di urgenza che nelle varie edizioni si sono meglio manifestate, e che hanno determinato proposte di modifica rispetto alla tradizione manoscritta. Per gran parte, in questi interventi si manifesta quella velleità di ricostruire il testo che ha caratterizzato l’attività editoriale soprattutto nel XIX secolo.

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* Le abbreviazioni bibliografiche si riferiscono a entrambe le sezioni della bibliografia.

1. La materia trattata e la sua organizzazione Come altre opere aristoteliche (Analitici Secondi, Fisica, Metafisica, Etica Nicomachea), la Politica si apre con un’affermazione generale di valore universale: poiché ogni città (povli~) è una comunità (koinwniva) e ogni comunità si costituisce in vista di un bene, è chiaro che tutte le comunità tendono a un bene, e al bene più alto e più importante tende la comunità più importante, che comprende tutte le altre, quella chiamata polis e comunità politica (1, 1252a 1-7). A questa dichiarazione iniziale segue un attacco polemico alle posizioni di «altri», il cui nome non è fatto esplicitamente: possiamo però facilmente intuire, anche dalle riprese testuali abbastanza precise – o volutamente imprecise – che l’interlocutore è Platone (in particolare con riferimento al Politico), con qualche contaminazione proveniente dall’opera di Senofonte. Proprio da questa polemica “a distanza” Aristotele prende le mosse per affrontare la materia, con una premessa che sintetizza perfettamente argomento, metodo e fine della ricerca: a) nella gerarchia logica delle forme di aggregazione umana la comunità politica, la polis, è la comunità più alta; b) tutto ha un fine, e la polis ha quindi il fine più elevato; c) sono in errore coloro che ritengono che le forme di autorità preposte a guidare le varie comunità umane (il re, il padrone, l’amministratore della casa e l’uomo politico) si pongano tutte sullo stesso piano, e si differenzino unicamente per il numero di sottoposti; esse esercitano invece tipi di comando diversi. Questi temi attraversano tutto il primo libro, giacché Aristotele intende dimostrare che, studiando con un criterio finalistico le parti minime di cui si compone la città e le relazioni tra coloro che comandano e coloro che sono comandati nei vari ambiti, risulterà chiaro che i tipi di autorità sono diversi per specie e hanno dunque prerogative e caratteri diversi. In estrema sintesi, le aree tematiche che percorrono il primo libro sono quattro: la generazione della polis a partire dai suoi elementi minimi, la schiavitù, l’amministrazione domestica, le relazioni tra i componenti della casa. L’analisi parte dal concetto che la polis è un intero formato di parti (1, 1252a 5 ss.), ciascuna delle quali esistente per natura e dotata di un fine. La prima di esse, in senso logico e non cronologico, è la casa/famiglia (oi\ko~Éoijkiva; 3, 1253b 1 ss.; 13, 1260b 13), che si costituisce per natura per soddisfare le necessità della vita quotidiana (2, 1252b 13), formata di persone e proprietà. Quindi viene il villaggio (kwvmh), colonia della casa, unione di più famiglie con il fine di soddisfare bisogni non più solo strettamente quotidiani; infine, l’insieme di più villaggi che ha raggiunto la piena autosufficienza è la città, la polis, che nasce per consentire di vivere, ma sussiste per raggiungere la «vita

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buona», la felicità, che nell’antropologia politica aristotelica rappresenta il bene supremo. Il primo capitolo appare dunque la premessa da cui scaturisce l’esposizione, non solo del libro, ma dell’intera opera, una sorta di introduzione generale; a partire dal secondo capitolo vengono poste le questioni di base, i fondamenti metodologici e contenutistici che man mano troveranno una trattazione più ampia in sezioni dedicate e distinte; i rimandi più o meno espliciti a quanto esposto nel capitolo 2 non cesseranno fino al termine del libro. È dal capitolo 3 che Aristotele entra nel vivo dell’analisi e si dedica quasi completamente a esaminare i rapporti gerarchici fondanti della casa/famiglia, quindi le relazioni reciproche dei suoi membri – che costituiscono le comunità elementari i cui componenti non possono sussistere separatamente (padrone-schiavo, marito-moglie, padre-figli) –, e la relazione del padrone di casa con la proprietà: questo impegno si dipana, lungo l’intero libro, fino al capitolo 12. Individuate le relazioni naturali tra i membri della casa/famiglia (cap. 3), due ampie sezioni che, seppure in larga misura indipendenti, risultano imprescindibili l’una dall’altra, sono dedicate rispettivamente alla relazione padrone-schiavo (capp. 4-7) e al rapporto con la proprietà in collegamento con l’arte di acquisizione dei beni da parte dell’amministratore della casa (capp. 8-11); infine, per colmare una lacuna della parte precedente, l’autore si concentra sulle altre relazioni personali, quella tra marito e moglie e tra padre e figli, il cui esame occupa gran parte dei capitoli 11 e 12, ma spesso ancora in riferimento alla relazione padrone-schiavo; infine, questa complessa analisi viene collegata ad un progetto più ampio, quello dell’esame delle costituzioni. Come si vede anche da questo riassunto schematico, non è possibile individuare un unico tema nel libro, come in passato è stato fatto dai numerosi commentatori che hanno riduttivamente ricondotto l’intera trattazione all’economia, spinti dal carattere estremamente innovativo e straordinariamente attuale di alcuni concetti espressi in questa parte; in realtà, l’amministrazione dell’oikos costituisce solo una delle parti del libro, il cui soggetto centrale sono invece, a ben guardare, le parti costitutive della polis e, per la casa/famiglia, i rapporti interni e le forme di esercizio dell’autorità nelle rispettive relazioni tra i membri e con la proprietà. È evidente dunque che non possiamo parlare per il I libro di un’assoluta omogeneità nella materia trattata; quel che risulta con chiarezza è invece la presenza di sezioni tematiche piuttosto nette (la proprietà, la schiavitù, l’acquisizione dei beni), che tuttavia appaiono poi raccordate tra loro, anche se non sempre in maniera perfettamente coerente, da un

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filo rosso che percorre l’intera argomentazione. Esso è rappresentato, dopo la necessaria introduzione generale, da riprese e richiami continui alle premesse di ogni sezione, ma soprattutto da due principi fondamentali, cui Aristotele si appella continuamente: il carattere naturale degli elementi e delle relazioni cui fa riferimento e la centralità dell’oikia, la casa/famiglia, che solo nelle ultime righe del libro lascia il posto alla polis. Possiamo dunque ipotizzare che il libro (come forse l’intera opera) sia il prodotto di una rielaborazione di logoi autonomi, corrispondenti all’incirca alle sezioni tematiche, che pur tuttavia appaiono, dal punto di vista del contenuto, perfettamente inseriti in un progetto più ampio, anche se nel testo scritto spesso non figurano indicatori precisi di richiamo; ciò è senz’altro molto evidente per le due parti più estese, quelle dedicate rispettivamente alla relazione padrone-schiavo e all’amministrazione domestica. Questa supposizione è forse in grado di escludere la tesi, espressa già da Arnim (1924), che inizialmente Aristotele avesse previsto di trattare solo le tipologie di autorità citate nel primo capitolo e avesse poi provveduto a una pesante rielaborazione successiva; potrebbe essere accaduto esattamente l’opposto, ovvero che Aristotele abbia inserito trattazioni monografiche all’interno di una cornice tematica più ampia, che non è tuttavia rimasta estranea allo sviluppo dell’argomentazione, tanto che il tema delle forme di autorità e del loro esercizio è il punto di partenza e il punto d’arrivo della dimostrazione, ma non è affatto l’unico punto di vista da cui sono affrontati i singoli argomenti: al fine di spiegare come è strutturato l’oikos, divengono fondamentali i temi dei modi e delle fonti di approvvigionamento, dell’uso corretto della proprietà in termini di schiavi e beni, del ruolo dei singoli membri al suo interno. Nel I libro non vi è alcun riferimento cronologico, per cui il materiale contenuto in esso non può essere utilizzato per reperire indicazioni sulla data di composizione dell’opera; assai più interessanti appaiono invece i riferimenti incrociati con gli altri libri, seppure nemmeno questi decisivi per stabilire una cronologia relativa dell’elaborazione del lavoro. L’indagine analitica oggi generalmente applicata punta a studiare l’opera indipendentemente dalla cornice storico-politica, e supera in parte anche la questione dell’ordine compositivo dei libri o di gruppi di libri, che ampio spazio invece avevano nei lavori dei commentatori della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX; le posizioni rispettive di Jaeger – secondo cui il nucleo più antico sarebbe costituito dai libri “platonici” (II e III) e dai libri VII e VIII – e di Arnim

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– i primi libri a essere stati composti sarebbero il I e il III e gli ultimi il VII e l’VIII, di cui il II sarebbe l’introduzione – hanno rappresentato le linee critiche dominanti per parecchi decenni1. In realtà nulla si può dire di preciso, ma è opportuno limitarsi a notare i (rari) riferimenti incrociati e i parallelismi contenutistici tra gli otto libri. Un dato certo è l’assenza di collegamento tra il libro I e i libri V e VI; paradossalmente anche con il libro II, che dovrebbe esserne la naturale prosecuzione, i legami sono piuttosto labili, per non dire trascurabili, dal momento che tra di essi non vi sono richiami espliciti. La valutazione del libro I come esordio della Politica sarebbe anche in contraddizione con la prassi aristotelica di iniziare i propri lavori passando in rassegna le opinioni dei predecessori2: tuttavia, come si è detto, anche nel capitolo 1 del I libro si sottolinea l’opinione comune sul tema oggetto iniziale della ricerca; il libro II sarebbe quindi più idoneo ad essere considerato il primo nell’ordine di composizione, come sembrerebbe provare anche la “sintesi” che chiude il X libro dell’Etica Nicomachea (X 10, 1181b 12-23), peraltro mutilo; essa non contempla alcuno dei temi trattati nel I libro e potrebbe quindi provare che il libro non avesse collocazione iniziale o non fosse affatto presente nel piano dell’opera. Ben più significativi invece i rapporti del libro I con i libri III e VII. Per quanto riguarda il libro III è inevitabile fare riferimento a III 6, 1278b 15-19: «innanzitutto bisogna stabilire per quale fine si è costituita la città e quante sono le specie di autorità sul singolo e sulla comunità; nei primi discorsi (kata; tou;~ prwvtou~ lovgou~), nei quali si è trattato dell’amministrazione domestica e dell’autorità padronale, si è detto anche che l’uomo è per natura un animale politico». È indubitabile il riferimento alle tesi contenute nel libro I, anche se non vi è alcuna prova che i logoi richiamati su questi argomenti dovessero essere identificati con la redazione del I libro; è certo però che i «discorsi» citati nel libro III dovevano essere stati elaborati in una fase precedente. Se dunque l’impianto della Politica è aristotelico e non è invece frutto del lavoro di revisione e di compilazione di un materiale composito preesistente da parte di qualche editore – ipotesi che non può essere assolutamente esclusa allo stato delle nostre conoscenze –, possiamo dedurre che il I libro potrebbe essere tardo e che lo stesso autore abbia deciso di porlo all’inizio quando ormai il lavoro compositivo era concluso, dato che poteva rappresentare una valida base teorica in un’opera dallo scopo

1 2

Cfr. Jaeger 1923; Arnim 1924. Saunders 1995, p. 15.

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eminentemente pratico. Ma anche l’esclusivo valore teorico del libro può essere messo in dubbio. Le relazioni con il libro VII sono altrettanto significative, anche se meno esplicite e puntuali; vanno tuttavia citati VII 3, 1325a 30-31, dove si fa nuovamente riferimento a protoi logoi, questa volta a proposito dell’autorità del padrone in relazione alla questione dello schiavo per natura (I 7, 1255b 16 ss.); VII 14, 1333a 3, dove si parla di protoi logoi a proposito del potere esercitato nell’interesse di chi lo detiene realizzando un’autorità padronale (oltre a III 6, 1278b 30 ss. il riferimento può essere a I 7, 1255b 20 ss.; oltremodo interessante è l’intreccio dei richiami nei tre libri); VII 4, 1326b 7-9, che riproduce quasi letteralmente la definizione di polis data in I 2, 1252b 10 (che non è tuttavia prova, va precisato, di ripresa testuale o di priorità dell’uno rispetto all’altro; si veda anche I 9, 1257a 19 ss.). In generale, comunque, la costruzione della polis del libro VII è la trasposizione in senso funzionale delle relazioni individuate nella casa/famiglia nel libro I e la natura, su cui Aristotele tanto ha insistito, rappresenta la norma per il suo ordinamento3. Non è comunque possibile individuare una coerente sistematicità in questi richiami interni, che finiscono per apparire più riferimenti ad argomenti trattati in precedenza che riprese precise di testi già scritti, come potrebbero dimostrare anche alcune incoerenze nell’uso dei termini (per esempio koinwniva, «comunità» o crhmatistikhv, «crematistica») tra libri diversi o all’interno dello stesso libro I, che sono però in larga parte spiegabili alla luce del metodo aristotelico che, dopo una premessa iniziale, in genere apodittica, giunge a poco a poco alla definizione precisa della materia. 2. Questioni di metodo Aristotele non fornisce esplicite premesse metodologiche in relazione alla ricerca oggetto della Politica; esse sono formulate nelle Etiche (Nicomachea ed Eudemia), che rappresentano la prima parte della trattazione della “filosofia delle cose umane”, di cui sono il logico completamento la Politica e la Retorica come strumento discorsivo dell’agire politico. Il metodo che appare poi in larga misura applicato anche nel I libro della Politica è proposto sia nell’Etica Nicomachea (VII 1, 1145b 3-5: dei` dev, w{sper ejpi; tw`n a[llwn, tiqevnta~ ta; fainovmena kai; prw`ton diaporhvsanta~ ou{tw deiknuvnai mavlista me;n pavnta ta; e[ndoxa peri; tau`ta ta; pavqh, eij de; mhv, ta; plei`sta kai; kuriwvtata:

3

Schütrumpf 1991, I, p. 130.

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«dopo aver presentato ciò che appare probabile e aver fatto emergere anzitutto le difficoltà, bisogna mostrare sull’argomento tutte le opinioni notevoli o, se non è possibile, la maggior parte e le più importanti») sia nell’Etica Eudemia (I 6, 1216b 35-40: «in ciascuna ricerca, le argomentazioni si distinguono in quelle che hanno carattere filosofico da quelle che non l’hanno, perciò anche nel campo della politica non bisogna ritenere superflua una ricerca di questo tipo attraverso la quale risulti chiara non solo la natura dell’oggetto, ma anche la sua causa») e viene definito «metodo degli endoxa»4 o «metodo diaporetico»5: si tratta del «metodo di mettere alla prova le opinioni su un certo oggetto», che «non è altro che l’applicazione del metodo proprio di ogni indagine filosofica descritto da Aristotele nei Topici» (I 2, 101a 35-101b 4: «[La dialettica] è utile infine per le scienze connesse con la filosofia, poiché potendo sollevare difficoltà riguardo ad entrambi gli aspetti della questione, scorgeremo più facilmente in ogni oggetto il vero e il falso... Questa per altro è l’attività propria della dialettica...: essendo infatti una tecnica per sottoporre ad esame le opinioni, apre la via verso i principi di tutte le ricerche»)6. L’applicazione di tale metodo, cui assistiamo fin dalle prime righe del libro, punta alla confutazione dell’opinione di coloro – Platone e in parte Senofonte – che confondono la definizione delle varie forme di autorità, differenziandole non in relazione alla specie, come dovrebbe essere, ma in relazione alla quantità di sottoposti, ed istituendo una (non corretta) identità di genere attraverso l’equiparazione di una grande casa ad una piccola città (1, 1252a 12-13). La critica all’endoxon platonico (-senofonteo) ha una precisa funzione nel ragionamento aristotelico: aprire la strada al metodo giusto – ovviamente secondo Aristotele – per definire la natura del “composto” polis7. Aristotele afferma infatti di voler usare il metodo «proposto»8 per meglio chiarire le affermazioni iniziali (1, 1252a 18-23). Si tratta del metodo della diaivresi~, della divisione, «perché come negli altri casi è necessario dividere il composto fino alle parti semplici – queste sono infatti le parti più piccole del tutto – così, esaminando anche la città nelle parti dalle quali è composta, osserveremo meglio anche riguardo a queste in che cosa differiscano le une dalle altre e vedremo se è possibi-

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Barnes 1981, p. 490. Berti 1989, pp. 75-85. 6 Bertelli 2011. 7 Bertelli 2011. 8 Il termine è altrimenti tradotto «principale» o «normale, consueto»; si veda il commento al passo. 5

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le determinare una qualche definizione riguardo a ciascuna delle figure sopra citate». In sostanza, con il metodo analitico il tutto dev’essere scomposto ed indagato nelle sue parti minime, e poi con queste stesse parti sinteticamente ricomposto. Questo metodo aveva precedenti platonici (nel Sofista e nel Politico), ma è soprattutto una delle tecniche consigliate da Aristotele nei Topici per arrivare ad una definizione convincente dell’oggetto ricercato (II 2, 109b 15-22); come rileva Bertelli, anche negli Analitici Secondi (II 13-14, 96a 20-98a 23) «è prevista la “divisione fino agli indivisibili” per arrivare alla definizione di una cosa attraverso l’individuazione dei suoi caratteri specifici, ma come viene spiegato negli stessi Analitici (APr I 31, 46a 32; APo II 5, 91b 12 ss.) la diairesis è solo un “sillogismo debole”, cioè una dimostrazione che in realtà non dimostra l’essenza della cosa ricercata, ed è utile solo per individuare l’appartenenza a un genere o a una specie: insomma descrive l’oggetto, ma non lo definisce nella sua essenza»9. La diairesis quindi non sostituisce la definizione dell’essenza, ed è probabilmente per questo motivo che il metodo proposto viene abbandonato. All’inizio del secondo capitolo infatti una nuova premessa fornisce indicazioni diverse: «se allora si indagassero le cose nascere dal principio, anche in questi casi, come negli altri, si potrebbero fare le migliori osservazioni» (2, 1252a 24-26). In effetti Aristotele propone qui un diverso approccio, di tipo “genetico”, seppure con qualche necessaria precisazione. Si tratta cioè di indagare il processo che porta alla formazione di un oggetto complesso, nel nostro caso la polis, partendo da elementi minimi o non ulteriormente scomponibili (ajsuvnqhta). Per il filosofo tuttavia il punto di vista teleologico è prioritario nel campo politico; come ci ha detto al principio del capitolo 1 la comunità più alta, la polis, costituita dall’aggregazione di tutte le altre, tende al bene più importante di tutti, l’eu\ zh`n, il vivere bene, la felicità; pertanto «nel nostro caso i singoli beni, che le varie forme di associazione subordinate perseguono, devono essere funzionali al bene più nobile perseguito dalla comunità più alta»10. Il metodo d’indagine non si limita quindi all’analisi dell’aggregazione degli elementi che vanno poi a formare l’oggetto complesso, ma esula dal semplice dato materiale per tenere in conto anche il fine e la funzione dell’oggetto complesso che si va a costituire. Il metodo proposto qui è dunque genetico per quel che attiene allo sviluppo progressivo dell’indagine, ma è integrato dall’analisi con-

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Bertelli 2011. Accattino 1978, p. 178.

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dizionale, legata alla funzione peculiare di ogni parte11. Aristotele non abbandona tuttavia il criterio metodologico che gli impone di servirsi dei fainovmena («ciò che appare probabile»), o e[ndoxa («le opinioni notevoli») dell’Etica Nicomachea (VII 1, 1145b 3-6), e qui, come nel resto del libro, si richiama alle testimonianze dei poeti e all’opinione comune su alcune questioni particolarmente discusse. D’altra parte l’uso del metodo dialettico nel senso qui esposto percorre tutto il I libro, ed è particolarmente puntuale nelle due sezioni centrali del testo (accomunate anche da segnali linguistici come l’uso del verbo ajporevw e del sostantivo ajmfisbhvthsi~): l’individuazione del concetto di «schiavo per natura» (6, 1255a 3 ss.) e la relazione tra oijkonomiva («amministrazione domestica») e crematistica (8, 1256a 1 ss.). Per quanto riguarda il primo punto si può affermare con certezza che l’intera questione, a partire da I 3 (1253b 14 ss.), è affrontata attraverso l’introduzione di una proposizione dialettica costruita su opinioni: all’enunciazione del tema della ricerca segue l’inserimento delle idee sulla materia, che in parte riprendono le affermazioni già fatte nel capitolo 1 a proposito dell’endoxon platonico, in parte riuniscono opinioni comuni e/o sofistiche oppure «costruiscono artificialmente sulla base di opinioni correnti un endoxon per poterlo poi demolire contrapponendo difficoltà a difficoltà e far apparire come vera la soluzione»12.

11 Aristotele cercherà nuovamente di servirsi del metodo della divisione nel libro IV (3, 1289b 27–1290a 13) – per spiegare perché ci sono diversi tipi di costituzione e più forme di uno stesso tipo –, dove suddividerà la città prima in famiglie-rendendosi tuttavia conto che non si può parlare di differenza specifica tra famiglie, anche se questo schema è alla base del discorso della genesi della polis in I 2, 1252b 15 ss. –, poi per posizione sociale (ricchi, poveri e medi) e infine tra demos e gnorimoi. Ma nello stesso contesto (IV 4, 1290b 21-1291b 13) Aristotele affronta lo stesso problema con principi metodologici diversi, istituendo un confronto con la morfologia degli animali. Anche in questo caso, come nel I libro, cerca di applicare, se possibile in modo ancora più preciso, il metodo enunciato nel De partibus animalium, che risale dalle funzioni alle parti (ossia, in presenza di una certa funzione è necessario che esistano organi deputati ad espletarla), ma dopo l’enumerazione di esse Aristotele non può andare oltre, perché non è in grado di applicare il principio della divisione del lavoro organico (ove possibile, ad un solo organo, un solo compito), che utilizza invece in modo abbastanza rigoroso in un punto del capitolo 2 del I libro (2, 1252b 3). Si limita pertanto a suddividere la società nelle uniche due parti tra loro incompatibili, ricchi e poveri (corrispondenti a costituzioni oligarchiche e democratiche). Anche in questo caso dunque metodo della divisione e analisi funzionale sono utilizzati in successione, e il metodo biologico (che istituisce l’analogia tra polis e organismo vivente) è applicato nella scienza politica. Cfr. Accattino 1978, pp. 175-178. 12 Bertelli 2011.

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Sulla seconda questione il procedimento è molto simile; in questo caso addirittura la presentazione dell’argomento che Aristotele andrà di lì a poco ad affrontare è associata alla dichiarazione di voler procedere «nel solito modo», quello proposto (to;n uJfhghmevnon trovpon); ad essa segue la solita obiezione («qualcuno potrebbe porre il dubbio» di 8, 1256a 3-4), reale o fittizia, che porta alla dimostrazione e alla soluzione attraverso dubbi e passi successivi. L’indagine sul metodo è particolarmente interessante anche per mettere in luce l’obiettivo di Aristotele; se da un lato Platone usa il metodo dialettico per smontare e distruggere le opinioni correnti e le esperienze reali, Aristotele invece dimostra di credere che le opinioni della maggioranza e dei competenti in materia (cfr. per es. 6, 1255a 8) possono avere un margine di verità o almeno essere utili per giungere alla chiarezza nella soluzione dei problemi (si noti l’ampio uso di fanerovn e di dh`lon nelle parti conclusive dei ragionamenti), «per costruire un quadro il più possibile popolato di cose e personaggi in sintonia col reale e corrispondenti a quello che pensano i più»13. 3. Il lessico aristotelico: alcune parole-chiave La Politica è un’opera profondamente radicata nella realtà concreta, anche se i moderni non sono in grado di coglierne appieno tutti gli aspetti; Aristotele aveva probabilmente in animo di opporsi a coloro che intendevano svalutare la vita pratica e già nell’Etica Nicomachea sottolinea come la politica vada considerata una facoltà «architettonica» (I 1, 1094a 24 ss.): essa stabilisce quali scienze sono necessarie nella città, e quali deve apprendere ciascuno, e fino a che punto, considerando che sono subordinate ad essa altre scienze, come l’arte militare, l’amministrazione della casa, la retorica; il suo fine è il bene supremo. Pertanto è proprio dal mondo greco del IV secolo a.C. che occorre partire per meglio penetrare le indagini aristoteliche in questo campo, e per evitare di incorrere in eccessive generalizzazioni o modernizzazioni, che rischiano di allontanare dalla vera comprensione del testo. Per questo motivo serve al lettore conoscere alcuni elementi di base, che sono sottesi alla terminologia usata nel I libro e nell’intera opera, e che possono condizionare la traduzione e l’interpretazione. a) Povli~ (polis). Traduciamo convenzionalmente con «città» questo termine, che ha invece una connotazione ben più ampia e polisemica del vocabolo usato nella nostra lingua, e non consente di mantenere nella tra-

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Bertelli 2011.

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duzione la connessione etimologica, che è propria del greco, tra la polis e l’ambito semantico della politica. D’altra parte il problema lessicale è presente anche in lingue diverse dall’italiano: per fare qualche esempio, Saunders (1995) traduce state e Simpson (1997) city; Schütrumpf (1991, I) sceglie staatlicher Verband, che egli interpreta come «associazione di uomini o cittadini» (e che in lingua tedesca viene reso altrove staatlicher o städtischer Verband, Staat o Stadt). Egli inoltre sottolinea come la semplice traduzione con «città» (Stadt) non possa funzionare, perché nel senso moderno la città è strettamente connessa all’amministrazione centrale o al governo provinciale, e non si pone mai il problema del governo costituzionale, che invece è essenziale nell’opera di Aristotele, perché evidentemente è fondamentale nel dibattito greco antico14. Allo stesso modo a suo parere non esprime correttamente il concetto la locuzione «città-stato» (Staat-stadt), poiché la polis come comunità politica nel senso aristotelico non prevede un centro amministrativo di tipo statale. Il modello greco cui qui si fa riferimento ha a che fare solo in parte con la nozione spaziale e territoriale connessa alla moderna idea di città; se è vero infatti che, da un lato, il valore di polis si colloca anche sul versante topografico e abitativo, è pur vero che, dall’altro, investe la sfera politico-istituzionale e privilegia la componente umana e civica strutturata15. In effetti l’ampia sfera semantica del termine polis comprende l’agglomerato urbano – che tuttavia in alcuni casi di policentrismo insediativo non esiste fisicamente –, e l’insieme costituito da questo e dal territorio circostante, che pure la identifica spazialmente, ma indica anche e soprattutto una unità politica dotata di specifica identità e autonomia (la «comunità politica» di Aristotele, appunto), in cui la sovranità è esercitata dai cittadini liberi. Potremmo dunque definire la polis, nella sua accezione più comune, un insieme di «insediamento» e «comunità», il cui centro è costituito dal cittadino16. Proprio la Politica ritorna in più punti su questo argomento, sottolineandone i diversi aspetti: «uno solo è il luogo di una sola città e i cittadini sono quanti hanno in comune un’unica città» (II 1, 1261a 1); la polis è koinwniva politw`n politeiva~, «una comunità di cittadini che condividono una costituzione» (III 3, 1276b 1-4); perché ci sia una polis però non basta la comunanza di luogo, né il desiderio di evitare aggressioni o di favo-

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Schütrumpf 1991, I, p. 173. Moggi 2008, pp. 94-95, 100-102. 16 Sulla nozione di polis cfr. Sakellariou 1989; Ampolo 1996; Hansen 1998, pp. 17-24; Lombardo 1999, pp. 5-36; Hansen-Nielsen 2004, pp. 39-46; Moggi 2008, pp. 94-102. Cfr. inoltre Schütrumpf 1991, I, pp. 173-174. 15

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rire gli scambi; la polis è comunità di famiglie e stirpi in vista del vivere bene, e il suo fine è «una vita compiuta e autosufficiente» (III 9, 1280b 30-35). Si affiancano pertanto due modi di intendere il concetto: la polis come area abitata civilizzata, sottratta al vivere selvaggio, e la polis come forma di comunità civica, tipica del mondo greco, di cui parla Aristotele e che egli pone al vertice della perfezione, tale da consentire agli individui che ne fanno parte di «vivere» – nel senso di soddisfare i bisogni primari – e, in più, di «vivere bene», cioè raggiungere l’appagamento di altre funzioni superiori (I 1, 1252b 27-30): «La comunità perfetta (tevleio~) costituita da più villaggi è la città, che ha ormai per così dire la completa autosufficienza, che nasce per permettere di vivere, che sussiste per permettere di vivere bene». b) Oi\ko~Éoijkiva (oikos/oikia). I termini individuano tre aree di significato: il luogo fisico di abitazione (l’edificio talora è chiamato oikia, ma non sempre la distinzione è così netta); la casa come famiglia; la casa come proprietà (comprendente schiavi, animali, casa e terreni, con tutto quello che in essa viene prodotto e consumato), in una prospettiva dinamica, mutevole17. L’oikos è la base della società e dell’economia in Grecia, e risulta il nucleo fondamentale della polis assai più del singolo individuo, soprattutto a partire dal IV secolo a.C., come è dimostrato per esempio dalla legislazione ateniese, nella quale i provvedimenti per garantire la perpetuazione della famiglia come entità socio-economica sono assai più significativi di quelli relativi ai singoli membri18. In lingua italiana non esiste un termine che possa rendere in modo efficace tutto quest’insieme: «famiglia» pone l’accento soprattutto sui legami tra i componenti umani (significativo il nome famuli dato in latino agli schiavi che vivevano nella casa); del resto, peculiare della famiglia antica era l’essere composta anche da elementi che non avevano tra di loro rapporti biologici, nella fattispecie gli schiavi, del tutto assente nel moderno concetto; «casa» d’altro canto limita l’interesse alla proprietà, alla struttura fisica, e perde di vista le relazioni umane dei suoi membri. Per questo motivo, soprattutto nel commento, il termine sarà reso con casa/famiglia. Del resto anche i più adeguati household inglese e Haushalt tedesco, che definiscono la casa come sistema complesso, sottolineano soprattutto la proprietà a discapito delle relazioni affettive.

17 Molto efficace a questo proposito la definizione di U.E. Paoli dell’oikos come l’organismo nel quale sono compresi cose, persone e riti, riportata da Ferrucci 2006, p. 183. 18 Cfr. Bodei Giglioni 1996; Pomeroy 1994; Geiger in Höffe 2005, pp. 388389; Nagle 2006.

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In Senofonte è possibile delineare un uso sistematico dei termini oikos – come complesso delle proprietà del titolare – e oikia – come casa con tutti i beni presenti al suo interno e famiglia19 –. Nella Politica di Aristotele invece l’uso è apparentemente meno preciso, ma ha ugualmente un suo criterio di sistematicità: nel I libro risulta nettamente preponderante l’uso di oikia con 45 occorrenze; solo in quattro casi ricorre oikos, di cui uno all’interno della citazione di Esiodo in I 2 (1252b 13-14), a proposito della quale Aristotele spiega l’oikos come koinwniva kata; fuvsin, quasi a voler sottolinearne, ponendo l’accento sul carattere naturale, la continuità temporale nella struttura, priva evidentemente di particolari alterazioni o mutamenti (hJ me;n ou\n eij~ pa`san hJmevran sunesthkui`a koinwniva kata; fuvsin oi\kov~ ejstin)20. In 3, 1253b 2-3 si dice poi che pa`sa ga;r suvgkeitai povli~ ejx oijkiw`n, «ogni città consta di case», e le oikiai si strutturano intorno alle relazioni tra i componenti umani liberi, giacché gli schiavi sono parte della proprietà – come dimostrato in III 4, 1277a 7-8: oijkiva ejx ajndro;~ kai; gunaikov~, kai; kth`si~ ejk despovtou kai; douvlou, in I 3, 1253b 23: hJ kth`si~ mevro~ th`~ oijkiva~ ejsti, ed inoltre da Aristotele, Oec. I 2, 1343a 18: mevrh de; oijkiva~ a[nqrwpov~ te kai; kth`siv~ ejstin –. In sostanza la prevalenza di oikia rispetto a oikos nella Politica potrebbe avere un preciso significato: quello di salvaguardare l’identità della casa/famiglia all’interno dei suoi confini di fronte alle spinte centrifughe espresse dal concetto senofonteo di oikos, che sottolinea la centralità della proprietà del padrone indipendentemente dalle relazioni interne al gruppo familiare. Va tuttavia sottolineato che l’uso dei due termini non è comunque rigoroso neppure nei documenti ufficiali, dove si registra una prevalenza di oikia in quanto «edificio» o al limite gruppo familiare, mentre oikos, in quanto patrimonio, è più presente nelle orazioni di successione e nel diritto privato. Nella Politica, l’oikia è la prima comunità umana per natura (I 2, 1252b 10, ma si noti invece l’uso di oikos poco più avanti, a 1252b 14); nell’impostazione teleologica di Aristotele essa ha il fine di soddisfare le necessità quotidiane ed ha pertanto un minimo di autosufficienza, che le consente di essere l’unità di base della polis; le relazioni al suo interno si basano su due principi fondamentali, la gevnhsi~ («generazione»,

19 Xen. Oec. 1, 5: oi\ko~ de; dh; tiv dokei` hJmi`n ei\nai; h] kai; o{sa ti~ e[xw th`~ oijkiva~ kevkthtai, pavnta tou` oi[kou tau`tav ejstin; jEmoi; gou`n, e[fh oJ Kritovboulo~, dokei`, kai; eij mhd∆e[n th/` aujth/` povlei ei[h tw/` kekthmevnw/, pavnta tou` oi[kou ei\nai o{sa ti~ kevkthtai. 20 Cfr. Ferrucci 2006, p. 188.

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tipica della relazione maschio-femmina) e la swthriva («sopravvivenza», tipica del rapporto comandante-comandato, o padrone-schiavo). Aristotele mette in evidenza tre tipi di legami: padrone-schiavo, maritomoglie e padre-figlio, nei quali l’uomo rappresenta comunque la figura dell’autorità. La trattazione dell’argomento occupa i capitoli dal 3 al 13; il maggiore spazio è dedicato al primo dei tre legami (capp. 3-8). c) Koinwniva (koinonia). È il termine con cui si apre la Politica e che percorre l’intero sviluppo argomentativo del I libro; si tratta di uno dei concetti di base della teoria politica aristotelica, ma Aristotele non tratta l’argomento sistematicamente in nessuna delle opere in nostro possesso. L’uomo è definito nell’Etica Eudemia (VII 10, 1242a 25) zw`on koinonikovn, «animale atto a vivere in comunità»; dall’Etica Nicomachea (V 8, 1133a 16 ss.) veniamo a sapere che la koinonia consiste di almeno due esseri umani diversi, non uguali. Dal capitolo 8 del VII libro della Politica (1328a 25 ss.) apprendiamo poi che «tutti i membri di una comunità devono partecipare in modo uguale o disuguale a qualcosa di comune e di identico: cibo, o territorio o qualcos’altro del genere». L’elemento comune intorno al quale si costituisce la koinonia può essere anche il suo fine, e questo è proprio il punto di partenza della Politica: ogni comunità si costituisce in vista di un qualche bene (1, 1252a 2) e il bene più grande è quello a cui tende la polis, koinonia politike, che è appunto la koinonia più importante di tutte, quella che comprende tutte le altre (cfr. anche VII 8, 1328a 35-37: la città è una comunità di uguali, che ha come fine il raggiungimento della vita migliore possibile). Ed in effetti di koinoniai si parla per le parti costitutive della polis, l’oikia e il villaggio, ma anche per le unità elementari che formano la famiglia stessa, quelle date dalla relazione padrone-schiavo, marito-moglie e padre-figlio (I 3, 1253b 2 ss.). È dunque particolarmente significativo che le parti minime dell’analisi aristotelica siano costituite non da singoli individui (ed è una delle critiche rivolte alla costruzione dello stato platonico in II 2, 1261a 17 ss. e II 5, 1263b 32 ss.), ma da relazioni che Aristotele identifica con forme di koinoniai. Se esistono tipi di comunità i cui membri si trovano tutti allo stesso livello, come la koinonia allaktike, fatta per lo scambio commerciale – gli esseri umani si associano in quanto possessori di beni e al fine di scambiarli: chi non necessiti di qualcosa o di qualcuno non può entrare in una koinonia –, si registra soprattutto l’esistenza di tipi di koinoniai nelle quali i membri hanno tra di loro livelli di relazione diversi. Questo è vero per le forme di comunità descritte nel I libro – la famiglia, il villaggio, la polis – perché qui i membri sono legati dalla relazione a[rcwn-ajrcovmeno~, «chi comanda»-«chi è comandato».

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d ) Crhmatistikhv (chrematistike). Con il termine crematistica, reso così in italiano per l’impossibilità di trovare un vocabolo adeguato che non sia una lunga perifrasi – a differenza per esempio della maggiore incisività del termine inglese business, usato da Lord e da Simpson21 –, si intende l’arte di acquisire beni in senso lato (procurati producendo, acquistando, scambiando beni o denaro), e anche l’arte di acquisire il denaro che serve per comprare i beni (entrambi indicati in greco con crh`maÉcrhvmata). Le prime attestazioni si trovano in Platone (Gorg. 477e-478a 8, dove è collegato alla scienza del medico e al diritto; Resp. IX 581 c-d; Phaedr. 248d)22; in Senofonte non esiste il termine, ma il concetto è associato a quello di oikonomia nell’Economico (6, 4). Nella Politica, mentre si può affermare che il vocabolo in I 3, 1253b 14, al suo apparire, assume un valore del tutto neutro, sovrapponibile a kthtikhv – usato sinonimicamente ancora nel capitolo 8 (1256b 27) –, tra il capitolo 8 e il capitolo 9 dall’ambito semantico generico dell’acquisizione si spinge a quello, più comune, di “tecnica del far denaro”, «connessa a una specifica nozione del bene acquisito»23.

4. Le sezioni argomentative 4.1. L’antropologia La Politica, il cui contenuto, come si è detto, è enunciato a conclusione dell’Etica Nicomachea, completa, in termini di filosofia pratica, la concezione aristotelica di quale sia il bene supremo dell’uomo, cioè la felicità. Nell’Etica la felicità è la realizzazione delle capacità proprie dell’uomo attraverso il giusto; nel I libro della Politica risulta chiaro che l’uomo può realizzare pienamente il proprio essere uomo solo nella città. A conclusione del capitolo 1 Aristotele si propone di fornire la chiave per comprendere le parti della città attraverso il metodo della divisione; il capitolo 2 si apre invece con l’indicazione di un nuovo modo di procedere, pur con lo stesso scopo: l’osservazione del modo in cui esse si sviluppano naturalmente dal loro principio. Non si tratta tuttavia di una indagine storica, nel senso di una narrazione diacronica delle fasi successive che hanno condotto, nell’interpretazione aristotelica, alla costituzione della polis. Non possiamo definirla tale innanzitutto

21 22 23

Lord 1984; Simpson 1997. Cfr. Natali 1989, pp. 297-299 e Faraguna 1994, p. 556. Campese 2005, p. 9.

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perché il filosofo non ci parla di un passato che si evolve e diviene un presente, ma descrive piuttosto un presente (la polis) che è il prodotto di sopravvivenze di un passato senza tempo. In effetti la narrazione aristotelica non ha alcun carattere di storicità, né spaziale né temporale. Non vi si fa riferimento alcuno a luoghi e tempi; si risolve in un «resoconto schematico di tendenze successive: la formazione di famiglie, di villaggi, di città»24. Essa è senza dubbio il frutto di riflessioni dello stesso Aristotele, accanto al recupero di caratteri che ritroviamo in altre opere della letteratura greca (opere storiche, i racconti platonici per es. della Repubblica e delle Leggi) e che immaginiamo siano venuti alla luce dagli studi preliminari alla redazione delle 158 costituzioni commissionate agli allievi. L’espressione che l’uomo è «per natura un animale politico» (I 2, 1253a 3) sintetizza sostanzialmente tutto il percorso dell’argomentazione di Aristotele: la natura, come spiega nel capitolo 2, non è una condizione primitiva (come la intenderanno i filosofi del XVII e del XVIII secolo), ma il punto di arrivo, il fine dell’uomo, la massima realizzazione del sé, che avviene solo all’interno della comunità politica la quale, essendo al vertice tra le forme di aggregazione, è quella che può realizzare il bene supremo, quindi la felicità. L’uomo, prima (ma in senso di valore, non di tempo) di appartenere alla città, appartiene alla famiglia ed eventualmente al villaggio, e si colloca all’interno di queste forme di comunità realizzando gradi diversi di autosufficienza, per raggiungere appunto l’eu zen, il «vivere bene» all’interno della polis. Non vi è dubbio che dal punto di vista della genesi la famiglia precede la città e fornisce quindi la struttura relazionale di base (le relazioni padronale, politica e regale) che poi si ripercuote nella città a un livello superiore, ma Aristotele intende fornirci un’ immagine della società greca del suo tempo (anche se non proprio degli anni in cui scriveva), e non certo un percorso evolutivo da una società arcaica semplice ad una complessa al culmine dell’evoluzione. Nel I libro si delinea un’antropologia, «che il linguaggio della physis configura come una sorta di etologia», giacché l’essere umano è per natura spinto alla formazione di una comunità, all’interno della quale realizza la sua essenza, che è il suo fine. Si tratta di un processo biologico basato su una «sequenza di aggregati sociali che convergono in altri più ampi, qualificati a svolgere una funzione più complessa, che ingloba quelle erogate dagli aggregati precedenti», che «pur situata nel

24

Saunders 1995, p. 60.

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tempo, non presenta la contingenza dei processi storici, ma la necessità dei processi naturali»25. L’antropologia aristotelica è quindi volta a porre le fondamenta per la definizione del bios politico e pratico, che si esprime attraverso la «partecipazione all’amministrazione della città e, in generale, alle relazioni comunitarie»26, vero scopo della trattazione dell’opera. 4.2. L’oikonomia La sezione centrale del libro I è dedicata da Aristotele ad analizzare l’oijkonomiva, l’amministrazione domestica, nelle sue parti costituenti; è particolarmente importante rilevare come il termine greco non possa essere tradotto tout court con l’italiano «economia», che perde completamente di vista l’elemento principale del termine e del concetto, cioè quella relazione con l’oikos, la casa/famiglia, che è centrale nell’analisi aristotelica. Anzi, possiamo dire con chiarezza che Aristotele, nella Politica, non si occupa affatto di economia, ma appunto di oikonomia. L’oikonomia in senso astratto nasce (ma sarebbe meglio dire “si rivela”) soltanto nel IV secolo a.C.: la prima attestazione in nostro possesso si trova in Platone (Apol. 36b 7)27. Prima di questo momento sono attestati solo l’aggettivo oijkonovmo~, amministratore in senso lato, e la forma verbale, da Focilide (fr. 2 Gent.-Pr.) a Eschilo (Agam. 155) e Sofocle (Electr. 190) fino a Lisia (7) e Crizia (88 F 2 DK). Il termine oikonomia nasce in ambito privato nel senso di «amministrazione dell’oikos» e si occupa di tutto ciò che è relativo all’oikos, cioè dei beni e delle persone che ne fanno parte nelle loro relazioni (cfr. Pol. I 2, 1253a 23 ss., b 3-11; 13, 1259b 18-21 e inoltre Oec. I 2, 1343a 18 e Philod. Oec. col. VIII Jensen); il vocabolo tuttavia non ha mantenuto lo stesso valore nella sua storia, ed anzi è proprio Aristotele a documentare che nel IV a.C. secolo esso uscì dall’ambito strettamente privato della casa/ famiglia per allargarsi al campo dell’amministrazione della polis28, in particolare a quello delle entrate e delle uscite29. Senofonte (Oec. 6, 4)

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Campese 2005, p. 5. Campese 2005, p. 6. Cfr. Spahn 1984, p. 302. 28 Si noti l’uso metaforico p. es. di dioikei`n in relazione alla città in Thuc. III 37, 3 o in Aristoph. Eccl. 305-306. 29 Da segnalare la classificazione dei tipi di oikonomiai del II libro dell’Economico pseudo-aristotelico, 1345b 11-1346a 16: oijkonomivai dev eijsi tevttare~: ... basilikhv, satrapikhv, politikhv, ijdiwtikhv, che rivela come ad un certo punto esistessero forme diverse di amministrazione finanziaria collegate a quelle di organizzazione politica. 26 27

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ci dice che hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h|Ê oi[kou~ duvnantai au[xein a[nqrwpoi, ma è anche un altro prezioso testimone del collegamento dell’oikonomia, non più esclusivamente legata alla sfera della famiglia, con le attività economiche dello stato – in An. I 9, 19 l’espressione deino;~ oijkonovmo~ viene usata in relazione ad un sottoposto di Ciro con funzioni pubbliche –, parallelamente a un certo numero di iscrizioni del IV secolo a.C. nelle quali il titolo di oikonomos era assegnato a funzionari con responsabilità amministrative e finanziarie. L’uso della terminologia propria dell’amministrazione domestica anche per le questioni della polis è documentata proprio nella Politica (III 18, 1288a 34; IV 15, 1299a 23). Ma, come sottolinea R. Zoeppfel nel suo monumentale commento all’Economico pseudo-aristotelico30, vale poco la discussione terminologica se essa non corrisponde a una riflessione sul concetto, che si può ravvisare a partire dalle fonti più antiche; l’assenza di un termine, precisa appunto la studiosa, può senz’altro essere determinata non tanto dall’assenza del dibattito sull’argomento quanto dalla tipologia delle opere pervenuteci e dall’uso linguistico letterario di quelle opere, che non riproduce certo la lingua d’uso31. E anche l’impiego della terminologia nelle citazioni tarde delle opere greche classiche non può che destare qualche sospetto e non può essere certo preso alla lettera. Qualunque sia il termine usato per esprimere il concetto, va però sottolineato che la corretta comprensione del tema è stata a lungo minata dal tentativo, da parte degli studiosi moderni, di ravvisare nelle opere antiche le radici del moderno concetto di economia – con i noti deludenti risultati –, portati fuori strada dalla somiglianza terminologica e dal mancato collegamento del problema con la realtà della società greca32, e quindi dal legame del concetto con la struttura familiare e con le relazioni di questa con la polis, che sono poi gli elementi predominanti nella riflessione della Politica aristotelica; questa necessità è messa in luce solo a partire dall’opera di Polanyi33, secondo cui l’economia greca può essere studiata solo all’interno delle istituzioni che le sono proprie, in quanto embedded, integrata, alla società nel suo complesso. Con estrema semplificazione si può dire che per lungo tempo

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Zoeppfel 2006, pp. 51-52. Vale l’esempio di hiatros, presente già nell’epica, e di hiatrike, forma attestata solo a partire dal Corpus Hippocraticum, quando la scienza medica trova per la prima volta una tradizione scritta; hiatrikos compare in Platone (p. es. in Prot. 313e 2; Gorg. 460b 3; Resp. I 350a 1; X 599c 1; Leg. XII 963b 5). 32 Cfr. p. es. Ampolo 1979; Vegetti 1982; Spahn 1984; Descat 1988. 33 Polanyi 1944; Id. 1966; Id. 1968. 31

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la cosiddetta dottrina prevalente è stata rappresentata dalle posizioni di Finley34: usando, per sua stessa ammissione, categorie analitiche elaborate per le società moderne, egli svalutava del tutto i risultati del pensiero economico greco, ritenendo che gli scritti di economia antichi si caratterizzassero per la totale assenza di mentalità economica nel senso moderno del termine; questo criterio era tuttavia inapplicabile alla situazione greca antica. Negli ultimi decenni è ormai generalmente accertato che l’economia moderna eredita il nome dall’oikonomia greca, ma non il reale e originario significato. L’economia come oggi viene intesa, «incentrata sull’insieme dei fenomeni che riguardano la produzione, lo scambio e la distribuzione dei beni materiali»35 è definita come la scienza che studia il complesso delle risorse e delle attività dirette alla loro utilizzazione ovvero la scienza che studia la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni e dei servizi. Come si vede, essa va nella direzione opposta all’analisi teorica aristotelica, e non è in alcun modo messa in relazione con i rapporti interni alla famiglia e ancor meno con le sue relazioni morali, come deduciamo invece dalla definizione implicita in alcune opere che riguardano la materia, tra cui l’Economico di Senofonte, la Politica di Aristotele e l’Economico pseudo-aristotelico, che, pur probabilmente non autentico, prova comunque la coerenza della scuola aristotelica. La delusione per non aver trovato in questi scritti i semi del moderno pensiero economico, a lungo ricercati dagli studiosi, si è però ora trasformata in una produttiva analisi degli aspetti dinamici del cosiddetto pensiero economico greco36, che corrispondono agli elementi di dinamicità propri anche della realtà dell’oikos, sebbene le fonti legislative ed oratorie ce ne diano in genere un quadro piuttosto statico e tradizionale37. Lungi dall’essere una disciplina teorica, l’oikonomia correttamente intesa ha un ruolo decisamente pratico ed è oggetto di interesse della politica in quanto trova la sua applicazione all’interno della casa/famiglia, che è parte fondamentale della città. A partire da I 3, 1253b 1-14, per proseguire poi all’inizio di I 4, 1253b 23-28 e nella restante parte del I libro (capp. 4-13), Aristotele tratta i rapporti gerarchici fondanti della prima comunità umana per natura. L’inizio del capitolo 3 fa riferimento diretto a I 1, 1252a 18-23,

34

Finley 19852. Faraguna 1994, p. 554. 36 Come sottolineato da Faraguna 1994, p. 577, «la varietà e molteplicità di opinioni espresse dagli autori antichi, ricostruibili attraverso affermazioni più o meno esplicite riscontrabili nei loro scritti». 37 Ferrucci 2006, p. 184. 35

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che si era chiuso con il proposito metodologico di indagare le parti costitutive della città. Da questa sorta di schematica introduzione risulta chiaro che l’oikonomia, in quanto amministrazione domestica, ha il suo fondamento negli elementi che compongono la famiglia, già in gran parte individuati da Aristotele: il padrone-marito-padre, lo schiavo, la moglie, i figli – le cui relazioni reciproche vengono singolarmente affrontate nei capitoli seguenti – e i beni. Il rapporto padrone-schiavo è oggetto d’indagine nei capitoli 4-7, con una breve appendice nel 13; le relazioni marito-moglie e padre-figlio sono trattate rapidamente nei capitoli 12-13. Viene introdotto in questa sede anche un altro oggetto d’indagine, la crematistica, arte di acquisire beni, che avrà una sua trattazione specifica nei capitoli 8-11. Lo schema trova una precisa corrispondenza nella struttura del gruppo familiare all’interno della società greca e in particolare nell’immagine che della famiglia greca ci dà l’oratoria giudiziaria, sotto il profilo del diritto: la gerarchia familiare era estremamente chiara e coinvolgeva tutti i membri, anche i liberi, nelle loro relazioni, non soltanto i liberi nei riguardi degli schiavi; per questo motivo occorre vedere il capofamiglia (e questo è appunto ciò che almeno all’inizio Aristotele si propone di fare) nelle relazioni con gli altri membri, nel ruolo quindi di marito, padrone e padre, corrispondenti a poteri e responsabilità diverse nei confronti di coloro che gli sono «legalmente subordinati»38. Ma questa distinzione non ha solo un valore legale e ancor meno si limita a regolare le funzioni interne alla casa/famiglia nel caso che sorgano problemi giuridici. È un fatto che i titolari di oikoi ad Atene costituivano la cittadinanza; pertanto, come sottolinea Ferrucci, «la figura del titolare dell’oikos rappresenta il tramite tra la sfera pubblica e politica e quella privata e domestica»39. Se il kuvrio~, il capofamiglia, esercita direttamente poteri e responsabilità all’interno del suo nucleo familiare (si noti che in 8, 1256a 12-13 il termine oijkonomiva indica il sovrintendere all’uso dei beni della casa), è pur vero che ciò gli è richiesto non solo per il buon funzionamento della casa/famiglia, ma anche per poter partecipare a pieno titolo della cittadinanza ed esercitarne le prerogative. Per questo motivo la trattazione dell’oikonomia (focalizzata sul ruolo del capofamiglia) così com’è affrontata nel I libro è, in una prospettiva antropologico-sociale, preparatoria e al tempo stesso esegetica dell’analisi politica vera e propria, che riguarda la polis e il cittadino come agente centrale.

38 39

Ferrucci 2006, p. 201. Ferrucci 2006, p. 202.

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In questo quadro il tema dell’amministrazione della casa è solo apparentemente slegato anche dall’argomentazione precedente, cioè le parti della città, comunità perfetta e autosufficiente, da cui si era partiti all’esordio. In realtà il ragionamento aristotelico procede secondo un percorso coerente che ha avuto inizio dal primo capitolo: avviato con l’obiettivo di dimostrare che le forme di comando differiscono per specie e non per quantità di subordinati, si è sviluppato attraverso l’indagine delle parti di cui si compone la città e dei loro fini specifici, mostrando tra l’altro che le singole parti non possono sussistere indipendentemente dall’intero; ora, considerando più nel dettaglio queste parti, si ritorna alla disamina dei ruoli di comando che le caratterizzano. Facendo uso anche qui della metodologia consueta dell’analisi attraverso ampliamenti progressivi al fine di raggiungere la comprensione dell’unità che ne esprime la compiutezza, Aristotele prende le mosse dalle unità elementari della famiglia, con cui si identificano le parti dell’oikonomia: studiate nella loro natura e nella loro qualità (poi`on dei` ei\nai), e nelle relazioni dei loro membri, esse forniscono indicazioni sulle parti dell’amministrazione domestica di cui sono oggetto, e che sono il campo d’indagine delle successive sezioni del libro I. Dato che l’oikia è composta di esseri umani e beni, Aristotele procede a trattare prima dei componenti ‟umani” (liberi e schiavi), poi dei beni (la figura dello schiavo fa ovviamente da cerniera tra le due porzioni). L’oikonomia ha dunque tre parti che corrispondono alle tre relazioni dei componenti (padrone-schiavo, marito-moglie, padre-figlio), non singoli individui, bensì comunità elementari strutturate sulla base delle relazioni reciproche dei membri già delineate nel capitolo precedente; ad esse si aggiunge una presunta quarta parte – sembra del tutto improbabile già qui la possibilità proposta da Aristotele che la crematistica esaurisca l’intera amministrazione domestica, ma poi viene detto esplicitamente in 8, 1256a 15 ss. –, la crematistica, che si occupa della proprietà; Aristotele si propone dunque di indagare «che cosa sia» e «di quale qualità debba essere» ciascuna delle tre parti/ relazioni della casa; l’analisi occuperà in maniera più o meno diretta la parte restante del libro. 4.3. La schiavitù Nel capitolo 4 Aristotele muove dalla premessa che per vivere l’uomo ha bisogno della proprietà, che è parte della casa, nucleo vitale dell’aggregazione umana, senza la quale non si può arrivare alla perfezione della polis. Quindi, l’uomo «politico» deve vivere all’interno della famiglia e non può prescindere dalla proprietà. Di essa fanno parte

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gli schiavi, che sono parte del padrone, sebbene distinta da lui, e sono strumenti animati nelle sue mani per raggiungere il fine del «vivere», punto di partenza per arrivare alla felicità data dalla vita nella polis. Per raggiungere il bene o la felicità è necessario dunque essere in grado di contare sul lavoro materiale di altri. La lunga sezione sulla schiavitù è allora perfettamente funzionale all’indagine sull’oikos/oikia, e si può supporre che non nasca come risposta polemica a discussioni in corso40 o come tentativo di risolvere una questione che si sentiva problematica nella sua essenza, giacché Aristotele stesso viveva in una società in cui il lavoro era affidato essenzialmente agli schiavi, e la sua difesa della schiavitù era legata al modello sociale a cui era abituato; per inquadrarla nel filo conduttore del libro, dato dai due elementi del fine e della naturalità, Aristotele ha bisogno di risolvere una serie di aporie determinate dal fatto che si tratta di un problema concreto e quotidiano. Il filosofo intende dunque dimostrare che la presenza degli schiavi – e quindi la relazione padrone-schiavo – è necessaria (e utile) perché è naturale; in sostanza deve esistere perché è quello che in generale accade (come cerca di dimostrare nel capitolo 5). Il suo ragionamento pertanto è tutt’altro che aprioristico e ideologico – come è stato invece ritenuto innumerevoli volte in passato dai commentatori, che ne hanno fatto la bandiera del giustificazionismo della schiavitù – ma è piuttosto induttivo, e parte dall’osservazione «di ciò che accade» (5, 1254a 21). Per inserire lo schiavo tra le cose che sono per natura – e quindi porlo a buon diritto tra le parti necessarie dell’oikia e tra gli oggetti di interesse dell’attività dell’oikonomos – l’argomentazione aristotelica parte dalla dimostrazione che esistono nella realtà schiavi per natura e che il loro ruolo rappresenta ciò che è meglio e giusto. Per arrivare a ciò è opportuno dimostrare che la schiavitù è naturale e giusta perché alcuni uomini sono stati resi dalla natura incapaci di pieno sviluppo umano;

40 Cfr. per esempio il retore del V secolo a.C. Antifonte (fr. 44 B col. 2 l.13 DK: «per natura siamo nati tutti simili in tutto, barbari e Greci. La prova è che tutti gli uomini ritengono le stesse cose necessarie per natura, se le procurano nello stesso modo, e in queste questioni non c’è distinzione tra greco e barbaro: tutti respiriamo l’aria con bocca e narici e usiamo le mani per mangiare») o il poeta comico del IV secolo Filemone (fr. 95 K: «benché un uomo sia schiavo, la carne è la stessa nostra; infatti per natura nessuno nasce per essere schiavo»). Una riflessione più articolata, a livello filosofico ed ideologico, sarà sviluppata, a partire dal relativismo sofistico, con il pensiero stoico, cinico ed epicureo. Sulle istanze culturali legate al problema della schiavitù cfr. Cambiano 1987; Schofield 1990, pp. 16-27; Brunt 1993, pp. 343-388, spec. pp. 351-356; Garnsey 1996, p. 74; Moggi 2005, pp. 206-214.

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è nei piani della natura il fatto che essi debbano servire come strumenti per la buona vita di coloro che sono capaci di guidarli. Il ragionamento parte dal principio che in ogni composto formato di parti che rappresentano un’unità esistono un elemento che comanda e uno che è comandato per natura; se ne ricordano alcune diverse tipologie, all’interno dell’essere vivente in generale, nel rapporto uomoanimale, nella relazione maschio-femmina e infine in quella padroneschiavo41. Per meglio spiegare questo concetto Aristotele ricorre al parallelo con la divisione di ogni essere vivente in anima (comandante) e corpo (comandato) e dell’anima in parte razionale (comandante) ed emotiva (comandata), che rappresenta la condizione ottimale e il consueto ordine naturale; nella relazione padrone-schiavo dunque lo schiavo sarà collocato al livello del corpo e della parte emotiva dell’anima. Queste premesse portano ad una definizione dello schiavo per natura per gradi successivi: schiavo è «chi è potenzialmente in condizione di appartenere ad un altro uomo, e perciò appartiene a un altro» (5, 1254b 20-22); fa uso del corpo e questo è il suo compito e quel che di meglio si può ottenere da lui; partecipa della ragione nella misura in cui può percepirla, ma non possederla ed è quindi legato a chi di fatto possiede la ragione (il padrone), al quale obbedisce; il tipo di attività che svolge lo avvicina agli animali domestici42.

41 Aristotele impiega una enorme quantità di modelli diversi per esprimere il carattere, lo status e la funzione dello schiavo: possessore/possesso, utilizzatore dello strumento/strumento, uomo/animale, ragione/emozione, anima/corpo, parte/ intero, animato/inanimato (Saunders 1995, p. 102). Ciascuna di queste coppie di opposti cerca di catturare una parte della visione generale, ma non vi è una trattazione armonica d’insieme del problema, che si dipana nel corso dell’intero libro e ancora in alcuni altri punti dell’opera e presenta numerose difficoltà esegetiche. 42 Appare suggestiva, ma difficilmente dimostrabile sulla base del ragionamento di Aristotele, l’opinione espressa da Simpson (1998, pp. 37-38) nel commento a I 6, 1254b 17: nel parlare di persone che sono nella condizione di schiavi per natura, nel senso che sono quelli la cui opera migliore è l’uso del corpo, Aristotele usa diakeintai, indicando una condizione e riferendosi alla «generazione» o alla nascita; questa condizione potrebbe essere dunque il prodotto non solo della nascita, ma del «venire ad essere» (coming into being) in questa condizione per cui lo schiavo per natura potrebbe non esserlo per questioni di nascita, ma potrebbe diventarlo in modi diversi: per caso, per educazione o anche per scelta. Il paragone con gli animali potrebbe essere in questo senso illuminante: gli animali domestici infatti diventano tali non per nascita, ma per educazione ed esercizio, anche se non sono per natura in questa condizione. Pertanto, dall’interpretazione di Simpson si potrebbe dedurre che quella di schiavo per natura sia per alcuni una condizione di nascita e per altri una forma di «generazione» successiva, dovuta a un errore della natura che non ha realizzato appieno il proprio telos.

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Questi parametri possono dunque servire, secondo Aristotele, per valutare se esistano schiavi per natura ed eventualmente per separare coloro per i quali è giusto ed utile essere schiavi – in quanto appunto schiavi per natura – da coloro che non lo sono a buon diritto. Da questa premessa, sviluppata nel capitolo 5, Aristotele può partire per affrontare la seconda questione: la schiavitù per convenzione e fondata sulla forza ha ragione di esistere soltanto se coloro che sono asserviti sono schiavi per natura, altrimenti si tratta di una palese ingiustizia. Questa seconda parte dell’argomentazione è delineata attraverso la risoluzione di aporie successive, che Aristotele inserisce all’interno di un dibattito, reale o fittizio – non abbiamo gli strumenti per valutarlo – sull’argomento. Aristotele in realtà riporta tutta la dimostrazione alla questione dello schiavo per natura, sottolineando che anche l’opinione di eventuali detrattori della schiavitù può essere condivisibile se collegata al fatto che esistono schiavi ingiustamente asserviti con la violenza perché non sono tali per natura. Se cioè coloro che sono diventati schiavi kata; novmon, per legge, o in virtù di una oJmologiva – un accordo tra le parti che prevede che il vincitore in guerra prenda possesso di tutti i beni del vinto –, non hanno il carattere degli schiavi per natura, la loro schiavitù è ingiusta e pertanto non utile. Se non ci si pone da questo punto di vista perdono valore anche le altre percezioni del problema: quella di coloro che considerano spaventoso che chi può esercitare la violenza ed è superiore in potenza sottometta arbitrariamente chi è oggetto della sopraffazione, ma anche quella di alcuni saggi, che questo modo di fare sia il prodotto di una superiorità in virtù del vincitore sul vinto e giustifichi quindi la violenza in quanto rappresenta una forma di «benevolenza» (eu[noia). Le due posizioni – dei sostenitori della «legge del più forte» e dell’associazione virtù-esercizio della violenza – vengono pertanto ricondotte da Aristotele alla questione dello schiavo per natura: inutile concentrare l’attenzione sul carattere dell’azione di asservimento (violenza o benevolenza, guerra giusta o ingiusta), l’unico modo per valutare la legittimità di una relazione di schiavitù è che lo schiavo sia tale per natura. La dimostrazione aristotelica vale quindi per quelli naturalmente destinati a obbedire fin dalla nascita (e a comandare), ma non può funzionare altrettanto bene con coloro che diventano schiavi in un secondo momento, figli di genitori (apparentemente) liberi. Ma il problema è già stato in sostanza risolto nel capitolo 2: per i Greci tutti i barbari sono schiavi (e lo sono evidentemente per natura). Dal momento che la realtà prova che la stragrande maggioranza degli schiavi proviene dai cosiddetti popoli barbari o discende da essi, la naturalità

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della relazione di dipendenza è salva. Per questa ragione chi condivide tale posizione può essere portato facilmente a legare la schiavitù per natura ai barbari; in realtà Aristotele, nell’identificare lo schiavo per natura, non ha mai parlato di barbari, ma ha sempre e soltanto fatto riferimento a caratteristiche tipiche dell’anima. Il collegamento della schiavitù con l’essere barbaro è pertanto solo un corollario della definizione aristotelica, che evidentemente giustifica l’opinione comune (bouvlontai levgein: 6, 1255a 29) e l’osservazione della realtà: i Greci non saranno mai schiavi, in quanto superiori per natura, e i barbari lo saranno sempre. Per giustificare in maniera adeguata la relazione padrone-schiavo è tuttavia necessario valutare che anche il padrone nella relazione sia tale per natura, a costo di minare alle fondamenta tutto il ragionamento. Il criterio di valutazione del padrone per natura è pertanto legato ai parametri di nobiltà e nascita libera, che non possono essere fondati esclusivamente sulla discendenza o la provenienza, ma necessitano del rigido criterio di valutazione dei caratteri dell’anima. Come c’è uno schiavo per natura, c’è dunque tendenzialmente anche un padrone per natura; nella prospettiva aristotelica, l’asservimento risulta normalizzato, e la violenza che esso implica legittimata, mediante l’identificazione, nella figura del barbaro, dello schiavo ‟potenziale”, o per natura, con lo schiavo di fatto, nella situazione sociale greca del IV secolo43. Questa saldatura di analisi teorica e di circostanze fattuali è sottolineata da Aristotele (4, 1254a 20-21): «tutto ciò non è difficile sia osservarlo a livello razionale (tw' lovgw/ qewrh'sai) sia apprenderlo dai fatti (ejk tw'n gignomevnwn katamaqei'n)»44. 4.4. La crematistica Dopo aver elencato le parti dell’amministrazione domestica in relazione alla composizione della casa/famiglia in termini di liberi e schiavi (3, 1253b 1-11), Aristotele introduce ancora un elemento, la crematistica, arte di procurarsi beni, che ha a che fare non tanto con i rapporti tra i membri della famiglia quanto con la proprietà, l’altro costituente

43 Il passaggio dalla potenza all’atto (cioè da essere con caratteri di schiavo per natura a schiavo vero e proprio) non accade spontaneamente, come avviene in natura per quello dal seme alla pianta, ma richiede un atto violento di asservimento; tuttavia, aggiunge Aristotele, è la virtù stessa a trovarsi nella condizione di poter usare la violenza (bia), e quindi questa non appare disgiunta dalla virtù nel porre in atto l’asservimento (6, 1255a 13-16; Vegetti 2000, p. 73). 44 Cfr. Vegetti 2000, pp. 73-74.

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dell’oikos, che approfondirà in seguito (capp. 4 e 8-11). Dalle poche informazioni preliminarmente riportate nel capitolo 3 apprendiamo che si tratta di un campo discusso: per alcuni si identificherebbe addirittura con la totalità dell’amministrazione domestica45, per altri ne sarebbe una (quarta) parte. Il filosofo ripeterà e discuterà questo argomento in I 8, 1256a 3-10, riprendendo analiticamente i due punti del dibattito qui solo citati; neppure più avanti tuttavia si esprimerà più chiaramente a riguardo dei sostenitori delle diverse posizioni, impossibili da identificare; come già per le sezioni precedenti, potrebbe trattarsi dell’applicazione del metodo «consueto», in cui la presentazione dell’opinione altrui è la molla da cui parte l’argomentazione, che si propone di armonizzare le visioni opposte. Il milieu sociale entro il quale si muove l’opera aristotelica ci rivela però che il problema della proprietà come parte dell’oikos rivestiva un’importanza tutt’altro che trascurabile. Sull’arte acquisitiva Aristotele torna all’inizio di I 4 (1253b 23-28), denominandola però kthtikhv. Con la consueta tecnica dell’ampliamento progressivo prende le mosse dagli elementi minimi per arrivare all’intero: la proprietà è parte della casa; l’arte di acquistare proprietà è parte dell’amministrazione domestica. Questi due elementi (la proprietà e la capacità di procurarsela) consentono di raggiungere il fine proprio della casa/famiglia, il vivere, ma anche quello dell’intero (la polis), cioè il vivere bene. Da questa precisazione risulta più chiaro che l’arte di acquisire proprietà potrebbe rappresentare effettivamente una (quarta) parte dell’oikonomia (dal momento che le altre tre riguardano le relazioni umane). La kthtikhv (ktetike) del capitolo 4 (sott. tevcnh) appare pertanto sovrapponibile alla crhmatistikhv (chrematistike) della parte finale del capitolo 3, che più avanti assumerà invece anche il significato più specifico di «arte di procurarsi ricchezza col denaro»; in realtà vi sono altri casi in cui i due termini sono usati come sinonimi (ad es. 8, 1256a 1, 4; 1256b 26), anche quando Aristotele ha già operato le dovute distinzioni tecniche nel loro significato (cfr. 8, 1256b 26-27; 1256b 40-41–1257a 1-5; 9, 1257b 1-5). La sovrapposizione dei due termini ha un suo motivo nell’articolazione del ragionamento di Aristotele: il filosofo deve spiegare che cos’è la crematistica o meglio

45 Cfr. Xen. Oec. 6, 4, dove ejpisthvmh~ mevn tino~ e[doxen hJmi`n o[noma ei\nai hJ oijkonomiva, hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h/| oi[kou~ duvnantai au[xein a[nqrwpoi, oikonomia è «il nome di una scienza; questa scienza è quella per mezzo della quale gli uomini risultano in grado di accrescere il loro patrimonio»; l’oikos, o{per kth`si~ hJ suvmpasa, «si identifica con la proprietà nel suo complesso».

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come essa è generalmente intesa, e il suo ragionamento non può che partire da elementi noti, com’è appunto la kthtikhv. Così l’aggettivo non pretende di esaurire il concetto, ma rappresenta il punto di partenza dell’argomentazione che per gradi successivi arriverà a una definizione complessiva e conclusiva nel capitolo 9. La crematistica è qui l’oggetto da studiare, non ancora definito, che deve essere spiegato perché ci sono opinioni contrastanti. Ma senza dubbio, al di là dell’artificio argomentativo, questo dibattito vero o presunto è la spia del fatto che ancora una volta la sua argomentazione è fortemente sollecitata dagli impulsi sociali e la definizione teorica si scontra con la complessità ben maggiore della realtà. La stabilità dell’oikos è minata alla base dalla struttura dell’economia reale e dalla mobilità sociale che, ben documentata per la realtà ateniese, sta cambiando radicalmente il sistema delle relazioni tra struttura familiare e polis: la diffusione delle attività finanziarie e bancarie e la circolazione dei beni in un’ottica privatistica rappresentano spinte contrarie alla salvaguardia dell’oikonomia orientata alla centralità della casa/famiglia. Per questo ha senso chiedersi se l’«arte acquisitiva» sia una parte – dal momento che non può esaurirla completamente – dell’amministrazione domestica e quale debba essere il ruolo del padrone/capofamiglia nel suo esercizio. Il filosofo finisce per distinguere «sul piano teorico»46 tra una crematistica naturale47 e una non naturale – che nasce dall’esperienza e dall’arte –, entrambe parte della ktetike, ma solo la prima parte dell’oikonomia (3, 1253b12 ss., 8-10, 1256a 1-1258b 8), dal momento che ha come fine l’autosufficienza (9, 1257a 30); è suo compito indagare da dove vengono i beni e la proprietà; «una sola specie di arte dell’acquisto di proprietà è parte per natura dell’amministrazione domestica», quella che serve per raccogliere i mezzi utili alla vita, che rappresentano la vera ricchezza. Quindi la crematistica di 3, 1253b 14 e la ktetike di 4, 1253b 23 (e poi di 8) sono sovrapponibili, e Aristotele all’inizio del capitolo 4 sembra aver già risposto ai dubbi del capitolo 3 e definito l’arte di acquisire proprietà una parte dell’amministrazione domestica, poiché la proprietà è parte della casa: la crematistica, in generale, consta di una parte buona, naturale, produttrice di ricchezza in termini di beni necessari ed utili e di una ‟cattiva”, non naturale, quella che produce solo denaro senza limiti e fine a se stesso. Il capitolo 8 mette in luce

46

Faraguna 1994, p. 556. Essa è definita anche crematistica fisiologica, «tecnica del rifornimento», in Campese 2004, p. 155. 47

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nuovamente l’ambiguità del termine chrematistike che, dall’ambito semantico generico dell’acquisizione si spinge a quello, più comune, di «tecnica del far denaro», «connessa a una specifica nozione del bene acquisito», ed è la spia delle difficoltà di trovare una sistematizzazione nel definirne l’ambito, ulteriormente ribadita all’inizio del capitolo 11, quando Aristotele si trova a fare i conti con il «piano concreto» dell’empeiria a proposito della distinzione tra le forme di crematistica (che appare a questo punto tripartita: 11, 1258b 9-39)48. All’interno della sezione sulla crematistica notevole rilevanza assume anche il discorso sulla moneta (9, 1256b 31 ss.), capace di esprimere nella sua lucidità un processo a cui è stato assegnato nel tempo un preciso valore storico. La moneta nasce dallo scambio su larga scala in modo naturale e necessario, e non ha, almeno all’inizio, un significato negativo; esiste per facilitare lo scambio e per raggiungere quell’autosufficienza che è il fine della comunità più complessa. Il pensiero aristotelico sulla moneta è anch’esso in larga parte frutto del dibattito in corso nel IV secolo a.C.: Aristotele fa notare che è l’opinione comune a mettere in relazione la crematistica con la moneta e insiste sul valore convenzionale assegnato al denaro, che può portare all’estrema funesta conseguenza che il denaro non sia garanzia di sopravvivenza. È il passaggio dall’uso strumentale della moneta all’accumulo indiscriminato di denaro (per cui i beni o il denaro non sono più mezzo per la vita, ma la vita stessa è dominata dal pensiero del guadagno) che sancisce il sorgere della crematistica in senso deteriore, quella che, attraverso manovre di carattere puramente finanziario, perde completamente di vista il bene di cui rappresenta il controvalore. Alla luce delle premesse fatte sull’arte acquisitiva in generale, Aristotele critica l’uso crematistico della moneta allo scopo di eliminare i suoi effetti nocivi sulla società, determinati dal commercio su larga scala, per ritornare alla consapevolezza dello scambio del bene, e dunque alla valorizzazione dell’oikonomos, senza però rigettare il sistema monetario nella sua forma neutra e usuale. In alcuni punti è vero però che Aristotele sembra aprirsi alla finanza (11, 1259a 33-36): sono quelli in cui passa dalla teoria all’esperienza pratica, e intravediamo la situazione reale della società greca del IV secolo. Come rileva Faraguna, il pensiero aristotelico appare quindi anti-economico (o meglio antimonetario) perché è contro l’uso distorto della moneta, dello scambio, contro la perdita di valore dell’oikos come casa/famiglia a vantaggio della centralità del patrimonio, ma è evidente

48

Cfr. Campese 2005, p. 12.

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che di fronte alla situazione reale Aristotele non poteva non lavorare sull’empiria49. L’economia market oriented finalizzata al profitto che si affacciava alla società ateniese e greca nel corso del IV secolo viene quindi rigettata da Aristotele come estranea ed esterna al suo concetto di oikonomia e stigmatizzata come «crematistica» in senso tecnico; ancora una volta l’argomentazione aristotelica, anche se non sempre in maniera lineare, è guidata dal tentativo di saldare analisi teorica e circostanze fattuali: una buona scuola di metodo per comprendere la realtà della polis.

49

Faraguna 2006, p. 134.

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119

SIGLE E ABBREVIAZIONI

SIGLE E ABBREVIAZIONI USATE NEGLI APPARATI CRITICI

121

Bibliografia

I. Testimoni manoscritti

a) Pap

Papiri PMich inv. 6643 et PBrux inv. E 8073 (fragmenta Pol. IV 4-5-6, 1292a 30-1292b 2 et 1293a 15-18)

b)

Codici medioevali e rinascimentali

A B C D E H M P P1857 P1858 P2025 S V

Cant Cast Co

- Codices potiores Parisinus Coislinianus 161 (olim 304), chart. a. 1360/1380 Parisinus gr. 2026 (olim Medic. Reg. 3085), membr. saec. XIII ex./XIV in. Parisinus suppl. gr. 652, chart. saec. XV ex. Mosquensis Synodus Bibl. 451 Vladimir (8 Savva = VIII Matthaei), chart. saec. XV Utinensis Archiepiscopalis VI 5 (258), chart. XV sec. Berolinensis Hamiltonianus 41 (397 Studemund), chart. saec. XV Ambrosianus B 105 sup. (126 Martini-Bassi), membr. saec. XV Parisinus gr. 2033 (olim Medic. Reg. 3077, Reg. 3294), chart. a. 1460/1480 Parisinus gr. 1857 (olim Fontainebl. Reg. 2592), membr. a. 1492 Parisinus gr. 1858 (olim Colb. 2401, Reg. 2592,3), membr. saec. XV Parisinus gr. 2025 (olim Reg. 3084,2), membr. saec. XV ex. Leidensis Scaligeranus gr. 26, membr. a. 1445 Vaticanus gr. 1298, II, membr. palimps. saec. X (fragmenta librorum III et IV) - Codices qui raro in apparatu laudantur Cantabrigiensis Dd IV 16 (191), chart. a. 1441 (excerpta ) Laurentianus ‘Acquisti e Doni’ 4 (Castiglione), chart. saec. XV Costantinopolitanus G. I. 20 (Topkapі Sarayі Bibl.), chart. saec. XV

123

SIGLE E ABBREVIAZIONI

F Harl Impr

V3270 VB Ven200 Ven213 VenIV3 W

Parisinus gr. 963, chart. saec. XV (excerpta) Harleianus 6874, membr. saec. XV (excerpta librorum I, IV, V) Parisinus 1 (Musée de l’Imprimerie Nationale), membr. saec. XVI Lipsiensis 24 (olim 1335), chart. circa a. 1500 Laurentianus Pl. 81, 5, membr. saec. XV Laurentianus Pl. 81, 6, chart. a. 1494 Laurentianus Pl. 81, 21, membr. saec. XV ex. Matritensis 4578 (olim N 41), chart. a. 1501 Monacensis gr. 332 (olim 127; 64; 17), membr. saec. XV Neapolitanus gr. 325 (III. E. 3), membr. a. 1493 Oxoniensis Bodleianus Corpus Christi 112, chart. saec. XV Vaticanus Palatinus gr. 160, membr. saec. XV Perusinus Augustanus 482 (G 71), chart. saec. XV Sinaiticus 2124, chart. a. 1437/1439 Vaticanus Urbinas gr. 46, membr. saec. XV ex. Vaticanus gr. 2238 (olim Columnensis 77), chart. a. 1466/1467 Vaticanus gr. 3270, chart. a. 1460/1470 Vaticanus Barberinianus gr. 215, chart. saec. XV ex. Venetus Marcianus gr. 200 (327), chart. a. 1457 Venetus Marcianus gr. 213 (751), membr. saec. XV Venetus Marcianus gr. append. IV, 3 (1186), chart. a. 1494 Vaticanus Reginensis gr. 125, chart. saec. XVI

P1

consensus codicum MPS

P2

consensus codicum ABCDEH

P

3

consensus codicum ABCDE

P

4

L L81,5 L81,6 L81,21 Matr Mon N O Pal Per Sin Urb V2238

a

consensus codicum L81,5L81,21PalUrbV2238V3270VenIV3Ven200 Ven213 - Guilelmi a Moerbeka perfectae translationis codices potiores (vide Sus.1 pp. XXXIV-XLIII; Aristoteles Latinus, I-II, ad locos; Newman, 1987, II, pp. 60-62) Parisinus lat. 699 (Bibl. Arsen.), membr. saec. XIV

124

SIGLE E ABBREVIAZIONI

b c g h k l m o t z

Parisinus lat. 7695 A (olim Colb. 2240), membr. saec. XIV Parisinus lat. 6307, membr. saec. XIII ex. Guelpherbytanus Helmstadiensis 593, membr. a. 1331 Guelpherbytanus Helmstadiensis 488, membr. saec. XIV Lipsiensis 1337 Univers. Bibl., membr. saec. XIV in. Lipsiensis 1338 Univers. Bibl., membr. saec. XIV in. Monacensis 306, membr. saec. XIII-XIV Oxoniensis Colleg. Balliolensis 112, membr. saec. XIV in. Toletanus Bibl. Capituli 47.9, membr. saec. XIII-XIV Oxoniensis Phillipps 891, membr. a. 1393

ac

codicis lectio ante correctionem

1

codicis librarius se ipse corrigens

2 3 4

secundus, tertius, quartus corrector

c

corrector incertus

s

scholium

mg

in margine

App.

Appendix coniecturarum

cett.

ceteri codices

edd.

Consensus editionum Newman (1887-1902), Immisch (1929), Ross (1957), Aub.(onnet 1960-1989), Drei.(zehnter 1970)

II. Autori antichi e medioevali Aeschl. Pr.

Aeschyli Prometheus, ed. M.L. West, Teubner, Stutgardiae 1992.

Al. in Metaph.

Alexandri Aphrodisiensis in Aristotelis Metaphysica commentaria, ed. M. Hayduck, «Commentaria in Aristotelem Graeca» I, Typis et impensis G. Reimeri, Berolini 1891.

125

SIGLE E ABBREVIAZIONI

An. in EN

Eustratii et Michaelis et Anonyma in Ethica Nicomachea commentaria, ed. G. Heylbut «Commentaria in Aristotelem Graeca» XX, Typis et impensis G. Reimeri, Berolini 1892.

An. Prof. Ep.

Anonymi Professoris Epistulae, rec. A. Markopoulos, de Gruyter, Berolini et Novi Eboraci 2000.

Ar. EN

Aristotelis Ethica Nicomachea, rec. brevique adn. crit. instr. L. Bywater, e typographeo Clarendoniano, Oxonii 1894.

Ar. Oec.

Aristote, Économique, texte établi par B.A. van Groningen et A. Wartelle, traduit et annoté par A. Wartelle, Les Belles Lettres, Paris 1968.

Ar. PA

Aristote, Les parties des animaux, texte établi et traduit par P. Louis, Les Belles Lettres, Paris 1956.

Diog.

Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. T. Dorandi, Cambridge University Press, Cambridge [in corso di pubblicazione].

Edmonds

The Fragments of Attic Comedy, after Meineke, Bergk, and Cock, by J.M. Edmonds, III A, Brill, Leiden 1961.

Eur. IA

Euripides, Iphigenia Aulidensis, ed. H.Ch. Günther, Teubner, Leipzig 1988.

Eustath. in Il.

Eustathii Archiepiscopi Thessalonicensis Commentarii ad Homeri Iliadem pertinentes, ed. M. van der Valk, II, Brill, Lugduni Batavorum 1976.

Eustath. Opera minora

Eustathii Thessalonicensis Opera minora (magnam partem inedita), rec. P. Wirth, de Gruyter, Berolini et Novi Eboraci 2000.

Gazae Probl.

Theodori Gazae Problemata, ed. J. Monfasani [J. M., Testi inediti di Bessarione e Teodoro Gaza, in M. Cortesi ed E.V. Maltese (a cura di), Dotti bizantini e libri greci nell’Italia del secolo XV, Atti del Convegno internazionale, Trento 22-23 Ottobre 1990, D’Auria, Napoli 1992, pp. 231-256].

126

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Glossae

Scholia et glossae, in Aristotelis Politica, post Fr. Susemihlium rec. O. Immisch, Teubner, Lipsiae 19292, pp. 293-327.

Hes. Op.

Hesiodi Theogonia Opera et Dies Scutum, ed. F. Solmsen; Fragmenta selecta, edd. R. Merkelbach et M.L. West, e typographeo Clarendoniano, Oxonii 1970.

Hdt.

Herodoti Historiae, rec. brevique adnot. critica instr. C. Hude, e typographeo Clarendoniano, Oxonii 19273.

Hier.

W.W. Fortenbaugh & St. White, Lyco of Troas and Hieronymos of Rhodes, Transaction Publishers, New Brunswik & London 2004.

Hom. Il.

Homeri Ilias, rec. M.L. West, I, Teubner, Stutgardiae et Lipsiae 1998 (rhapsodiae 1-12); II, Stutgardiae et Lipsiae 2000 (rhapsodiae 13-24).

Hom. Od.

Homeri Odyssea, rec. A. Ludwich, I-II, Teubner, Stutgardiae et Lipsiae 1998 (1889).

Mich. Eph. in EN

Michaelis Ephesii in librum quintum Ethicorum Nicomacheorum commentarium, ed. M. Hayduck, «Commentaria in Aristotelem Graeca» XXII 3, Typis et impensis G. Reimeri, Berolini 1901.

Nic. Greg. Flor.

Nicephori Gregorae Florentius, in Niceforo Gregora, Fiorenzo o intorno alla sapienza, Testo critico, introduzione, traduzione e commentario a cura di P.L.M. Leone, Università di Napoli, Napoli 1975.

PCG

Poetae Comici Graeci, edd. R. Kassel et C. Austin, VII, Menecrates – Xenophon, de Gruyter, Berolini et Novi Eboraci 1989.

Plat. Leg.

Platonis Leges, in Opera, V, rec. brevique adnot. critica instr. I. Burnet, e typographeo Clarendoniano, Oxonii 1913.

Plat. Men.

Platon, Oeuvres complètes, V 1, Ion Ménexène Euthydème, texte établi e traduit par L. Méridier, Les Belles Lettres, Paris 1931.

127

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Plat. Pol.

Platon, Oeuvres complètes, IX 1, Le Politique, texte établi et traduit par A. Diès, Les Belles Lettres, Paris 19502.

[Plut.] Nob.

Plutarchi Chaeronensis Moralia, rec. G.N. Bernardakis, VII, Plutarchi fragmenta vera et spuria (Pro nobilitate), Teubner, Lipsiae 1896.

Porph. Abst.

Porphyre, De l’abstinence, edd. M. Patillon, A. Ph. Segonds, avec concours de L. Brisson, Les Belles Lettres, Paris 1995.

Scholia

Scholia et glossae, in Aristotelis Politica, post Fr. Susemihlium rec. O. Immisch, Teubner, Lipsiae 19292, pp. 293-327.

Sol.

Solonis elegiae, in Iambi et Elegi Graeci ante Alexandrum cantati, ed. M.L. West, II, Clarendon, Oxonii 19922.

Soph.

Sophoclis Fabulae, recc. H. Lloyd-Jones et N. Wilson, Clarendon, Oxonii 1990.

Stob.

- Ioannis Stobaei Anthologii libri duo priores, qui inscribi solent Eclogae Physicae et ethicae, I-II, rec. C. Wachsmuth, Weidmann, Berolini 1884. - Ioannis Stobaei Anthologii libri duo posteriores, rec. O. Hense, I (III), Weidmann, Berolini 1894; II (IV), Weidmann, Berolini 1909; III (V), Weidmann, Berolini 1912.

Strömberg

R. Strömberg, Greek Proverbs, Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Göteborg 1954.

SVF

Stoicorum veterum fragmenta, coll. I. ab Arnim, I, Teubner, Stutgardiae 1905.

Theod. Metoch. Sem.

Theodori Metochitae Semeioseis, in T. M. Miscellanea philosophica et historica, edd. M.Chr.G. Müller et M.T. Kiessling, Teubner, Lipsiae 1821 (Hakkert, Amsterdam 1966).

TrGF

Tragicorum Graecorum Fragmenta, I, Testimonia et fragmenta tragicorum minorum, ed. B. Snell, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1971; IV, Sophocles, ed. S. Radt, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1977; V 1-2, Euripides, ed. R. Kannicht, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2004.

128

SIGLE E ABBREVIAZIONI

III. Editori, traduttori, commentatori Bruni (L.)

Strassburgi 1469 (traduzione latina, insieme a quella di Ethicorum ad Nicomachum et Oeconomicorum librorum), Florentiae 1478 (traduzione latina), Barcinonae 1478 (traduzione latina) et 1492 (traduzione latina con il commento di Thom.), Venetiis 1504, 1506 (traduzione latina), etc.

G.(uilelmus a Moerbeka)

Venetiis 1483 (editio princeps della vetus translatio della Politica, insieme a quella di Ethicorum et Oeconomicorum librorum, «a Nicoleto primum edita»)

Oresme (N.)

Parisiis 1489 (traduzione francese, risalente al 1370 circa)

Ald.(us Manutius) Venetiis 1498 (Aristotelis Opera omnia, V), editio princeps del testo greco Ald.Mon.c

Anonimo corrector di un esemplare dell’editio Aldina conservato a Monaco (collazione di correzioni e congetture in Sus.1)

Bas.1, 2, 3

Editiones Basileenses: 15311 (Erasmo et S. Grynaeo curantibus); 15392 (Erasmo et S. Grynaeo curantibus); 15503 (M. Isengrinio curante)

Brucioli (A.)

Venetiis 1547 (traduzione italiana)

Sep.(ulveda G.)

Parisiis 1548 (traduzione latina con ampio commento); Coloniae Agrippinae 1601 (traduzione latina con ampio commento, unitamente all’editio princeps della traduzione latina dei libri IX e X della Politica, già composti in greco da C. Strozzi a integrazione del trattato aristotelico. Strozzi aveva in precedenza consegnato alle stampe i «libros nonum et decimum graeco sermone […] illis octo additos quos scriptos reliquit Aristoteles» [Florentiae 1563])

Segni (B.)

Florentiae 1549 (traduzione italiana; rist., Milano 1844)

Toxites (M.)

Tiguri circa 1550 (Pol. I con traduzione latina)

Vict.(orius P.)

Florentiae 15521 (et Parisiis 1556, Francofurti 1577), Florentiae 15762

129

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Vict.sc

Petrus Victorius sui ipsius corrector = Correzioni autografe di Pier Vettori in un esemplare, ora conservato a Monaco, della sua prima edizione della Politica (per cui cfr. l’edizione di Sus.1 p. XLVIII; sull’esemplare BSB, Cbm Cat. 209c I, II e sulla biblioteca di Vettori cfr. inoltre S. Kellner, A. Spethmann, Historische Katalog der Bayerischen Staastbibliothek München. Münchner Hofbibliothek una andere Provenienzen, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 1996, p. 568).

Camot (J.B.)

Venetiis 1553 (Aldina editio altera)

Morel (G.)

Parisiis 1556 (basata soprattutto sulla prima edizione di Vict.)

G.(uilelmus a Venetiis 1558 (entrambe le traduzioni latine di G. Moerbeka), Thom. e di Bruni, accompagnate dal commento di Tom(as Aquinas), maso d’Aquino) Bruni (L.) Lambin (D.)

Parisiis 1567 (traduzione latina)

Cam.(erarius = J. Kammermeister)

Francofurti 1581 (Pol. I-VII, edizione basata su un manoscritto greco di proprietà di Kammermeister, ora perduto, e accompagnata da traduzione latina)

Zwinger (J.)

Basileae 1582 (ex Vict. editione altera)

Sylburg (F.)

Francofurti 1587 (Aristotelis Opera omnia, XI)

Casaubon (I.)

Lugduni 1590 (Aristotelis Opera omnia, II)

Mon.(tecatini A.)

Ferrariae 1587-1597 (commenti ai libri I, II, III)

Mon.(tecatini A.)

Ferrariae 1594 (Pol. II)

Ram.(us = P. de la Francofurti 1601 (con traduzione latina) Ramée) Giffen (H. van)

Francofurti 1608 (traduzione latina)

Heinse (D.)

Lugduni Batavorum 1621 (con traduzione latina)

Alb.(ertus Magnus) Lugduni 1651 (commentarium Politicorum librorum P. Iammyus ed.) Conring (H.)

Helmstadii 1656

Maurus Sylvester

Romae 1668 (Parisiis 1885)

130

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Reiz (F.W.)

Lipsiae 1776 (edizione parziale: soltanto Pol. IV, 17 et V)

Schneider (J.G.)

Francofurti ad Viadrum 18091 (testo critico greco accompagnato dalla traduzione latina di Sep.), Berolini 18252

Koraïs (A.)

Parisiis 1821 (il nome dell’editore di origine greca è soggetto a variazioni grafiche, a seconda della traslitterazione: in altre edizioni è indicato come Coraes, Corai, Koraes)

Thurot (F.)

Paris 1823 (traduzione francese delle Etiche e della Politica)

Goettling (K.W.)

Jenae 1824

Barth.(élemy- St. Hilaire J.)

Parisiis 1837 (con traduzione francese), 1848 (traduzione francese), 1878 (con traduzione latina)

Stahr (A.)

Lipsiae 1839 (con traduzione tedesca), Stuttgart 1860 (traduzione tedesca di C. e A. Stahr)

Bekker (I.)

Berolini 18311 (Aristotelis Opera omnia, II et editio separata), 18552, 18783

Weise (C.H.)

Lipsiae 1843

Eaton (J.R.T.)

Oxonii 1855 (traduzione inglese)

Congreve (R.)

Londini 18551, 18742

Duebner (F.)

Parisiis 1862 (Aristotelis Opera omnia graece et latine, I)

Sus.(emihl F.)

Lipsiae 18721 (testo critico greco in parallelo al testo critico latino della traduzione completa di G.), Lipsiae 18792 (con traduzione tedesca), Lipsiae 18823, Londini 18944 (edd. F. Susemihl et R. D. Hicks: libri I, II, III, VII, VIII). Negli apparati critici l’indicazione Sus. (senza alcun numero a esponente) indica il consenso delle quattro edizioni

Bernays (J.)

Berolini 1872 (traduzione tedesca dei primi tre libri)

Broughton (R.)

Oxonii et Londini 1876 (libri I, III, IV)

Jowett (R.)

Oxford 1885 (traduzione inglese)

131

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Newman (W.L.)

Oxford 1887-1902 (Pol. I-II 1887; III-VIII 1902)

Welldon (J.E.C.)

London 1888 (traduzione inglese)

Immisch (O.)

Lipsiae 19091, 19292

Rackham (H.)

London-Cambridge 1932 (con traduzione inglese)

Costanzi (V.)

Bari 1948 (traduzione italiana)

Gigon (O.)

Zürich 1955 (traduzione tedesca), poi München 1971

Viano (C.A.)

Torino 1955, 1992 (traduzione italiana, insieme alla Costituzione di Atene)

Ross (D.)

Oxonii 1957

G.i. (= Guilelmi de Moerbeka [?] imperfecta translatio)

Bruggae in Fiandris-Parisiis 1961 (editio princeps della traduzione incompleta di Guglielmo, a cura di P. Michaud-Quantin; il testo latino giunge fino a Pol. II 11, 1273a 30)

Tricot (J.)

Paris 19621, 19824 (traduzione francese)

Laurenti

Bari 1966 (traduzione italiana)

Aub.(onnet J.)

Paris 1960-1989 (testo critico con note e traduzione francese; Pol. I-II 1960; III-IV 1971; V-VI 1973; VII 1986; VIII 1989)

Drei.(zehnter A.)

München 1970

Schütrumpf (E.)

Berlin-Darmstadt 1991-2005, I-IV, (traduzione tedesca e ampio commento; Pol. I 1991; IIIII 1991; IV-VI 1996, con il contributo di H.-J. Gehrke; VII-VIII 2005)

IV. Studi sul testo critico Amsdorf (G.)

Symbolae ad Aristotelis Politicorum cris., I-II, «Programmata Landshurtiana», Landshut 18941895.

Arnim (H. von)

Zur Entstehungsgeschichte der aristotelischen Politik, SAWW, Wien und Leipzig 1924.

132

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Bender (K.H.)

Kritische und exegetische Bemerkungen zu Aristoteles’ Politik, «Jahresbericht über das Königliche Gymnasium zu Hersfeld», Hersfeld 1876.

Bernays (J.)

Oratio de Aristotele Athenis peregrinante et de libris eius politicis, in Gesammelte Abhandlungen, Berlin 1885 (Olms, Hildesheim 1971), pp. 165-170.

Boecker (E.)

De quibusdam Politicorum Aristotelis locis, Diss., Gryphiae 1867.

Bojesen (E.F.)

Bitrag til Fortolkningen om Aristoteles’s Böger om Staten, I-II, «Soröer Programmes», Copenhagen 1844-1845.

Bonitz (H.)

Aristotelische Studien, II, III, IV, «Acta Academiae Vindobonensis» 46, 47, 52, 1863-1866; Zu Aristot. Pol. II 3.1262a 7, «Hermes» 7, 1873, pp. 102-108.

Brandis (C.A.)

Handbuch der Geschichte der griechischerömischer Philosophie, II 2, G. Reimer, Berlin 1857, p. 1633.

Buecheler (F.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Burnet (J.)

Aristotle on Education: Being Extracts From the Ethics and Politics, Cambridge University Press, Cambridge 1967 (1903), pp. 102 s.

Busse (A.)

De praesidiis Aristotelis Politica emendandi, Mayer & Müller, Berolini 1881.

Bywater (I.)

Aristotle on the Art of Poetry, Translated by I. B., Clarendon, Oxford 1897, p. 47 et passim; «JPh» 14, 1885, pp. 42 ss.

Chandler (H.W.)

Miscellaneous emendations and suggestions, London 1866.

Cosattini (A.)

Per l’interpretazione e per il testo d’un passo della Politica di Aristotele (D (H) XIII, pag. 1334b. 12-17), «SIFC» n. s. III, 1923, pp. 4148.

133

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Costanzi (V.)

L’Individuo e lo Stato. Estratti dalla Politica di Aristotele, Laterza, Bari 1924.

Croiset (A.)

Note sur un passage d’Aristote (Polit. p. 1253a), «Annuaire de l’association pour l’encouragement des études grecques» 15, 1882, pp. 94-97.

Diebitsch (F.)

De rerum conexu in Aristotelis libro de republica, Diss., Vratislaviae 1875.

Diels (H.)

De Phalea et Hippocrate, in Fragmente der Vorsokratiker, I 4, Weidmann, Berlin 1922, n. 27, p. 293.

Freudenthal (J.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Hagfors (E.)

De praepositionum in Aristotelis Politicis et in Atheniensium Politia usu, Diss., Berlin 1892.

Hayduck (M.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Heitland (W.E.)

Note Critical and Explanatory on Certain Passages in the First Book of the Politics of Aristtle, Haywood, Cambridge 1876.

Henkel (H.)

Zur Politik des Aristoteles, «Programm des Gymnasiums zu Seehausen», Stendal 1875, pp. 1-17.

Hermann (G.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Heylbut (G.)

Zur Ueberlieferung der Politik des Aristoteles, «RhM» 42, 1887, pp. 102-110.

Hicks (R.D.)

New Materials for the Text of Aristotle’s Politics, «CR» 1, 1887, pp. 20 ss.

Jackson (H.)

Aristot. Pol. I, 3. Anthol. IX 482, «AJPh» 7, 1877, pp. 236-244; ibid. 10, 1882, pp. 311 ss.; On Aristotle, Politics I, 6.1255a 7 sqq., «PCPhS» 1882, pp. 27 ss.

Lindau (A.)

Aristoteles’ Lehrvorträge über die Staatskunst, m. Anm. Oels. 1843.

134

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Madvig (J.N.)

Adversaria critica ad Scriptores Graecos, I, Hauniae 1871 (Olms, Hildesheim 1967), pp. 461 ss.

Muretus (M.A.)

Variarum lectionum libri, in M.A. Mureti Opera omnia, ed. D. Ruhnkenius, II, apud S. et J. Luchtmans, Lugduni Batavarom 1781.

Nickes (J.P.)

De Aristotelis Politicorum libris, Diss., Bonn 1851.

Oncken (W.)

Emendationum in Aristotelis Ethica Nicomachea et Politica specimen I, Diss., Heidelbergae 1861; Staatslehre des Aristoteles in historischpolitischen Umrissen, I-II, Engelmann, Leipzig 1870-1875.

Piccart (M.)

In Politicos Aristotelis libros commentarius, impensis I. Borneri senioris, & E. Rehefeld bibliop., Lipsiae 1615.

Postgate (J.P.)

Notes on the Text and Matter of the Politics of Aristotle, Bell and Co., Deighton 1877.

Rassow (H.)

Observationes criticae in Aristotelem, «Jahresbericht über das Königliche Joachimsthalsche Gymnasium», Berlin 1858; Emendationes Aristoteleae, «Jahresbericht über das Wilhelm-Ernstische Gymnasium zu Weimar», Weimar 1861; Bemerkungen Über einige Stellen der Politik des Aristoteles, «Jahresbericht über das Wilhelm-Ernstische Gymnasium zu Weimar», Weimar 1864.

Reiske (J.J.)

Proposte correttive e congetturali pubblicate negli Addenda dell’edizione di J.G. Schneider (II, pp. 471 ss.)

Richards (H.)

Aristotelica, Grant Richard LTD, London 1915.

Ridgeway (W.)

Notes on Arist. Pol. I. II., «Cambridge University Reporter» 418, 1882, pp. 355 ss., e «PCPhS» 1882, pp. 8-10; Notes on Arist. Pol. III-VIII, «Philologische Wochenschriften» II, 1882, pp. 1456-1459.

Riese (A.)

Zu Aristoteles Politik, «Jahrbuch für Philologie» CIX, 1874, pp. 171-173.

135

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Sauppe (H.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Scaliger (J.J.)

Congetture e correzioni raccolte e riportate in Oncken.

Schmidt H.

Die Erziehungsmethode des Aristoteles, Diss., Halle 1878.

Schmidt M.

Miscellaneorum philologicorum particula III, «Index scholarum in universitate litteraria Jenensi», Jenae 1879.

Schnitzer (K.F.)

Zu Arist. Pol., «Eos» 1, 1864, pp. 499-515.

Sus.(emihl F.)

De Aristotelis Politicorum libris primo et secundo quaestiones criticae, «Index scholarum in universitate litteraria gryphiswaldensi», Gryphiswaldiae 1867-1868; De Aristotelis Politicorum libris tribus prioribus quaestiones criticae, «Index scholarum in universitate litteraria gryphiswaldensi», Gryphiswaldiae 1871; De Politicis Aristoteleis quaestionum criticarum particula V, «Index scholarum in universitate litteraria gryphiswaldensi», Gryphiswaldiae 1872-1873; De Politicis Aristoteleis quaestionum criticarum particula VII, «Index scholarum in universitate litteraria gryphiswaldensi», Gryphiswaldiae 1875; Iulianos und Aristoteles, «Jahrbuch für Philologie» 117, 1878, pp. 389 ss.; Drei schwierige Stellen der aristotelischen Politik, «Hermes» 19, 1884, pp. 576-595; Die Textüberlieferung der aristotelischen Politik, «Jahrbuch für Philologie» 135, 1887, pp. 801-805.

Tegge (A.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Thurot (C.)

Observationes criticae in Aristotelis politicos libros, «Jahrbücher für Philologie» 81, 1860, pp. 749-759; Études sur Aristote: politique, dialectique, rhetorique, Durad, Paris 1860.

136

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Trieber (K.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Vahlen (I.)

Bonitz Index Aristotelicus, in Gesammelte philologische Schriften, I (1858-1874), Teubner, Leipzig und Berlin 1911, pp. 328-341.

Vermehren (M.)

Proposte correttive e congetturali comunicate a F. Susemihl, da questi pubblicate nei suoi studi e nelle edizioni della Politica.

Wil.(amowitz U. von) Aristoteles und Athen, I-II, Weidmann, Berlin 1893, passim. Wilson (J. Cook)

Notes on some passages in the Politics, «AJPh» 10, 1881, pp. 80-86.

137

TESTO E TRADUZIONE*

*Il segno < in margine al testo greco segnala la presenza di una nota testuale (cfr. pp. 327-345).

POLITIKWN A

1252a

5

10

15

20

1. ΔEpeidh; pa'san povlin oJrw'men koinwnivan tina; ou\san, kai; pa'san koinwnivan ajgaqou' tino" e{neken sunesthkui'an - tou' ga;r ei\nai dokou'nto" ajgaqou' cavrin pavnta pravttousi pavnte" - dh'lon wJ" pa'sai me;n ajgaqou' tino" stocavzontai, mavlista de; kai; tou' kuriwtavtou pavntwn hJ pasw'n kuriwtavth kai; pavsa" perievcousa ta;" a[lla". au{th dΔ ejsti;n hJ kaloumevnh povli" kai; hJ koinwniva hJ politikhv. o{soi me;n ou\n oi[ontai politiko;n kai; basiliko;n kai; oijkonomiko;n kai; despotiko;n ei\nai to;n aujto;n ouj kalw'" levgousin: plhvqei ga;r kai; ojligovthti nomivzousi diafevrein ajllΔ oujk ei[dei touvtwn e{kaston: oi|on a]n me;n ojlivgwn, despovthn, a]n de; pleiovnwn, oijkonovmon, a]n dΔ e[ti pleiovnwn, politiko;n h] basilikovn: wJ" oujde;n diafevrousan megavlhn oijkivan h] mikra;n povlin: kai; politiko;n de; kai; basilikovn, o{tan me;n aujto;" ejfesthvkh/ basilikovn: o{tan de; kata; tou;" lovgou" th'" ejpisthvmh" th'" toiauvth" kata; mevro" a[rcwn kai; ajrcovmeno", politikovn: tau'ta dΔ oujk e[stin ajlhqh'. dh'lon dΔ e[stai to; legovmenon ejpiskopou's i kata; th;n uJfhghmevnhn mevqodon. w{sper ga;r ejn toi'" a[lloi" to; suvnqeton mevcri tw'n ajsunqevtwn ajnavgkh diairei'n - tau'ta ga;r ejlavcista movria tou' pantov" - ou{tw kai; povlin, ejx w|n suvgkeitai skopou'nte", ojyovmeqa kai; peri; touvtwn ma'llon, tiv te diafevrousin ajllhvlwn kai; ei[ ti tecniko;n ejndevcetai labei'n peri; e{kaston tw'n rJhqevntwn.

1252a 3 ei\nai non vert. G. nec G.i. 4 mavlista de; ras. B 5 kai;1 om. P1 (non vert. G. nec G.i.) Ú hJ kuriwtavth pasw`n P1 6 dev ejstin MP 8 ei\nai om. P1 (post to;n suppl. M1) : non vert. G. nec G.i. : secl. Sus. 8-9 to;n aujtovn] taujtovn H (idem G. et G.i.) 11 oijkonovmon] on ras. B 13 politikw`n (poli ras.)B2 14 ejfevsthke vix leg. B : ejfestevkaΔ vix leg. M : ejfesthvkei P4 LP1857P2025W Ald. 15 tou;~ om. P4 : tou;~ lovgou~ om. in lac. H 16 [a[rcwn] kai; ajrcovmeno~ h\/ Bernays 19 -ton mevcri tw`n ajsunqev- om. V2238ac

140

POLITICA I

1. 1252a Dal momento che vediamo che ogni città è una forma di comunità e ogni comunità è costituita in vista di un qualche bene – giacché tutti compiono tutte le loro azioni per quello che sembra loro essere un bene – è chiaro che tutte mirano ad un qualche bene, ma in grado eminente e al più importante di tutti i beni tende quella comunità che è più autorevole di tutte e include tutte le altre: questa è quella chiamata città e comunità politica. Orbene, quanti credono che l’uomo politico, l’uomo regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifichino, non si esprimono correttamente; costoro infatti credono che ciascuno di questi differisca dagli altri per maggiore o minore quantità di sottoposti, ma non per specie; per esempio, se è a capo di pochi sarebbe un padrone, se lo è di un numero maggiore di persone un amministratore, e se poi lo è di un numero ancora maggiore un politico o un re, in quanto una grande casa e una piccola città non presenterebbero alcuna differenza; quanto poi al politico e al re, nel caso che uno sovrintenda da solo, si avrebbe un re, e invece un politico quando uno governa ed è governato a turno secondo i dettami di tale scienza. Ma tutto ciò non è vero; e quel che si viene dicendo sarà chiaro se si indaga sulla scorta del metodo proposto, perché come negli altri casi è necessario dividere il composto fino alle parti semplici – queste sono infatti le parti più piccole del tutto – così, esaminando anche la città nelle parti dalle quali è composta, osserveremo meglio anche riguardo a queste in che cosa differiscano le une dalle altre e vedremo se è possibile dire qualcosa di scientificamente fondato riguardo a ciascuna delle figure sopra dette. 1252a 7-13 Plat. Pol. 258e 8-11 Povteron ou\n to;n politiko;n kai; basileva kai; despovthn kai; e[tΔ oijkonovmon qhvsomen wJ~ e}n pavnta tau`ta prosagoreuvsonte~, h] tosauvta~ tevcna~ aujta;~ ei\nai fw`men o{saper ojnovmata ejrrhvqh; ibid. 259b 7-c 3 Kai; mh;n oijkonovmo~ ge kai; despovth~ taujtovn. - Tiv mhvn; - Tiv dev; megavlh~ sch`ma oijkhvsew~ h] smikra`~ au\ povlew~ o[gko~ mw`n ti pro;~ ajrch;n dioivseton; - Oujdevn. - Oujkou`n, o} nundh; dieskopouvmeqa, fanero;n wJ~ ejpisthvmh miva peri; pavntΔ ejsti; tau`ta: tauvthn de; ei[te basilikh;n ei[te politikh;n ei[te oijkonomikhvn ti~ ojnomavzei, mhde;n aujtw`Δ diaferwvmeqa ibid. 259d 3-5 Th;n a[ra politikh;n kai; politiko;n kai; basilikh;n kai; basiliko;n eij~ taujto;n wJ~ e}n tau`ta pavnta sunqhvsomen; cf. Plat. Leg. III 680d 4-681a 3, 683a 2-8 1252a 2 ajgaqou` tino~ cf. Ar. EN I 1094a 1-2 Pa`sa tevcnh kai; pa`sa mevqodo~, oJmoivw~ de; pra`xiv~ te kai; proaivresi~, ajgaqou` tino;~ ejfivesqai dokei` 28 Stob. II 7, 26 (II 148, 19-21) Sunevrcesqai ga;r tw`/ qhvlei to; a[rren kata; povqon teknwvsew~ kai; th`~ tou` gevnou~ diamonh`~: ejfivesqai ga;r eJkavteron gennhvsew~ 141

POLITIKWN A

2. Eij dhv ti" ejx ajrch'" ta; pravgmata fuovmena blevyeien, w{sper ejn toi'" a[lloi", kai; ejn touvtoi" kavllistΔ a]n ou{tw qewrhvseien. ajnavgkh dh; prw'ton sunduavzesqai tou;" a[neu ajllhvlwn mh; dunamevnou" ei\nai, oi|on qh'lu me;n kai; a[rren th'" genevsew" e{neken, kai; tou'to oujk ejk proairevsew", ajllΔ w{sper < kai; ejn toi'" a[lloi" zw/voi" kai; futoi'" fusiko;n to; ejfivesqai 30 oi|on aujtov toiou'ton katalipei'n e{teron, a[rcon de; fuvsei kai; ajrcovmenon dia; th;n swthrivan. to; me;n ga;r dunavmenon th/' dianoiva/ proora'n a[rcon fuvsei kai; despovzon fuvsei, to; de; dunavmenon tau'ta tw/' swvmati poiei'n ajrcovmenon kai; fuvsei dou'lon: dio; despovth/ kai; douvlw/ taujto; sumfevrei. fuvsei me;n 1252b ou\n diwvristai to; qh'lu kai; to; dou'lon: oujde;n ga;r hJ fuvs i" poiei' toiou'ton oi|on oiJ calkotuvpoi th;n Delfikh;n mavcairan, penicrw'", ajllΔ e}n pro;" e{n: ou{tw ga;r a]n ajpoteloi'to kavllista tw'n ojrgavnwn e{kaston, mh; polloi'" e[rgoi" ajllΔ eJni; 5 douleu'on: ejn de; toi'" barbavroi" to; qh'lu kai; to; dou'lon th;n aujth;n e[cei tavxin. ai[tion dΔ o{ti to; fuvsei a[rcon oujk e[cousin, ajlla; givnetai hJ koinwniva aujtw'n douvlh" kai; douvlou: diov fasin oiJ poihtai; 25

barbavrwn dΔ ”Ellhna" a[rcein eijkov",

10

wJ" taujto; fuvsei bavrbaron kai; dou'lon o[n. ejk me;n ou\n touvtwn tw'n duvo koinwniw'n oijkiva prwvth, kai; ojrqw'" ÔHsivodo" ei\pe poihvsa" oi\kon me;n prwvtista gunai'kav te bou'n tΔ ajroth'ra:

oJ ga;r bou'" ajntΔ oijkevtou toi'" pevnhsivn ejstin. hJ me;n ou\n eij" pa'san hJmevran sunesthkui'a koinwniva kata; fuvs in oi\kov" ejstin, ou}" Carwvnda" me;n kalei' oJmosipuvou", ΔEpimenivdh"

24 ajrch`~ ãeij~Ã Richards Ú fuovmena ta; pravgmata (ejx ajrch`~ om.) MS : fuovmena non vert. G.i. 25 kavllista M 26 sunduavzesqai] sundiavzesqai M : combinari vel combinare G. codd. (obviare G. cod. o) 28 genevsew~] gennhvsew~ Sus. Ross (falso collato Stob.) 29 ejfesqai Mac 30 aujto;~ Mac Ú de; om. M : dh; Ven213 Ú fuvsei post 31 ajrcovmenon P1 32 ajrcon M Ú [fuvsei2] Thurot 33 tau`ta tw`/ swvmati P1H : tw`/ swvmati tau`ta cett. Ú poiei`n] diaponei`n Gomperz : tau`ta om. Ven213 (ªtau'taº tw/' swvmati Ross) 34 douvlw" ex dou`lo~ (ut vid.) corr. B2 Ú taujto;] hoc G.i. (tou`to eum legisse susp. edd.) 1252b 1 to;2 om. Bac Ú oujde;n P1 : oujqe;n cett. 2 oiJ om. CDE Ú delfikh;n th;n mavcairan Bas.3 3 ajpotelei`to MO 5 douleu`son Richards Ú to;2 om. CDE 6 de; MP 8 de; M 9 tauto; M Ú fuvsei ras. A Ú o[n om. P1 Ú ou\n om. MS 11 prwvtista ras. A 14 ou}~ oJ me;n Carwvnda~ me;n P1

142

POLITICA I

2. Se allora si indagassero le cose evolversi fin dal principio, anche in questi ambiti di ricerca, come negli altri, si potrebbero in questo modo fare le migliori osservazioni. Innanzi tutto è necessario accoppiare coloro che non possono sussistere l’uno senza l’altro, come il maschio e la femmina in vista della riproduzione – e ciò non per scelta, ma per il fatto che è naturale, come anche negli altri animali e piante, la tendenza a lasciare un altro essere simile a sé –, e chi comanda per natura e chi è comandato al fine della sopravvivenza. Infatti chi è in grado di fare progetti con l’intelligenza comanda per natura ed è padrone per natura, mentre chi è in grado di eseguire quei progetti servendosi del corpo è comandato ed è per natura schiavo; quindi la stessa cosa giova a padrone e schiavo. 1252b Per natura dunque sono distinti la femmina e lo schiavo: la natura infatti non produce nulla al risparmio, sul tipo del coltello di Delfi fatto dai fabbri, ma fa una singola cosa per una sola funzione; così infatti ogni strumento che non serva a molte operazioni, ma a una sola, potrebbe portare a compimento il suo scopo nel migliore dei modi. Tra i barbari invece la femmina e lo schiavo sono sullo stesso piano; ne è causa il fatto che non hanno per natura l’elemento che comanda, ma la loro comunità è quella di una schiava e di uno schiavo. Perciò dicono i poeti «è naturale che gli Elleni dominino sui barbari»,

in quanto l’essere barbaro e l’essere schiavo sarebbero per natura la stessa cosa. Dunque da queste due comunità viene per prima la famiglia, e giustamente Esiodo ha detto nei suoi versi «prima di tutto una casa, una donna e un bue che ara».

Il bue infatti è per i poveri il sostituto dello schiavo. Dunque secondo natura la comunità sorta per la quotidianità è la famiglia, quelli che Caronda chiama «compagni di pane», 1252b 2 th;n Delfikh;n mavcairan : Aristo in SVF I f. 375, Plat. Resp. I 353a, Ar. PA IV 683a 22-25 6-9 cf. Plat. Leg. VII 805d 6-e 2 8 Eur. IA 1400 11 Hes. Op. 405 (idem legitur in Ar. Oec. I 1343a 20-21)

1252b 1-3 Theod. Gazae Probl. 6, 21 kai; ejn tw`/ aV tw`n Politikw`n, oujde;n ga;r ... e}n pro;~ e{n 143

POLITIKWN A

15

20

de; oJ Krh;" oJmokavpou": hJ dΔ ejk pleiovnwn oijkiw'n koinwniva prwvth crhvsew" e{neken mh; ejfhmevrou kwvmh. mavlista de; kata; fuvs in e[oiken hJ kwvmh ajpoikiva oijkiva" ei\nai, ou}" kalou's iv tine" oJmogavlakta", pai'dav" te kai; paivdwn pai'da". dio; kai; to; prw'ton ejbasileuvonto aiJ povlei", kai; nu'n e[ti ta; e[qnh: ejk basileuomevnwn ga;r sunh'lqon: pa'sa ga;r oijkiva basileuvetai uJpo; tou' presbutavtou, w{ste kai; aiJ ajpoikivai, dia; th;n suggevneian. kai; tou'tΔ ejsti;n o} levgei “Omhro" qemisteuvei de; e{kasto" paivdwn hjdΔ ajlovcwn.

sporavde" gavr kai; ou{tw to; ajrcai'on w/[koun: kai; tou;" qeou;" de; dia; tou'to pavnte" fasi; 25 basileuvesqai, o{ti kai; aujtoi; oiJ me;n e[ti kai; nu'n, oiJ de; to; ajrcai'on ejbasileuvonto, w{sper de; kai; ta; ei[dh eJautoi'" ajfomoiou's in oiJ a[nqrwpoi, ou{tw kai; tou;" bivou" tw'n qew'n. hJ dΔ ejk pleiovnwn kwmw'n koinwniva tevleio" povli", h[dh pavsh" e[cousa pevra" th'" aujtarkeiva" wJ" e[po" eijpei'n, gignomevnh me;n ou\n tou' 30 zh'n e{neken, ou\sa de; tou' eu\ zh'n. dio; pa'sa povli" fuvsei e[stin, ei[per kai; aiJ prw'tai koinwnivai. tevlo" ga;r au{th ejkeivnwn, hJ de; fuvs i" tevlo" ejstivn: oi|on ga;r e{kastovn ejsti, th'" genevsew" telesqeivsh", tauvthn fame;n th;n fuvs in ei\nai eJkavstou, w{sper ajnqrwvpou, i{ppou, oijkiva". e[ti to; ou| e{neka kai; to; tevlo" bevl1253a tiston: hJ dΔ aujtavrkeia kai; tevlo" kai; bevltiston. ejk touvtwn ou\n fanero;n o{ti tw'n fuvsei hJ povli" ejstiv, kai; oJ[ti] a[nqrwpo"
/ to; qei`on a[rcon... ajll’ wJ~ a[meinon o]n panti; uJpo; qeivou kai; fronivmou, «dunque, perché un uomo del genere sia sottoposto a un potere simile a quello che governa il migliore, diciamo che egli debba essere schiavo di quello, il migliore, nel quale governa il principio divino…perché siamo convinti che per chiunque sia meglio esser governato da ciò che è divino e dotato di intelligenza»). Rientrano nella categoria coloro che differiscono dagli altri uomini quanto l’anima dal corpo e l’uomo dalla bestia – senza tuttavia alcuna connotazione biologica –, cioè quelli che usano il corpo

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per realizzare il proprio e[rgon (la propria funzione, cfr. 2, 1253a 23 e sopra 1254a 27) ed è questo quel che di meglio si può ottenere da loro (posto che «la natura di una cosa è il suo fine» e il fine è «il meglio», chi esprime queste prerogative, in quanto schiavo, lo sarà senz’altro «per natura»: cfr. 2, 1252b 31 ss.). Inoltre, gli schiavi per natura sono al livello del corpo e degli animali nelle altre relazioni (per l’associazione tra schiavi e animali si veda III 9, 1280b 32; EN III 13, 1118a 25; cfr. anche Xen. Oec. 13, 9, dove l’educazione da impartire agli schiavi viene definita qhriwvdh~; Plat. Leg. VI 777a: alcuni considerano gli schiavi simili a bestie selvatiche). Questa conclusione porta quindi ad una nuova definizione di «schiavo per natura» (poi ulteriormente precisata nelle linee seguenti), che fissa apparentemente i criteri di giudizio nella valutazione dello schiavo (solo in relazione al padrone, non in assoluto: cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 260), ma non dice ancora se esistono realmente schiavi per natura (cfr. Simpson 1998, p. 34). I caratteri dello schiavo «per natura» enumerati dal nostro autore portano invece ad escludere dalla classificazione tutti coloro che non si trovano in condizioni ottimali, giacché in costoro la relazione anima-corpo è «contro natura» (cfr. sopra 1254b 2). Si potrà poi rilevare, sulla base del ragionamento sin qui condotto, che chi, dotato di queste caratteristiche, si sottomette all’autorità di colui che «comanda per natura», non potrà che averne benefici e la loro relazione, in quanto naturale, sarà giusta e utile (cfr. sotto 1255a 3). Aristotele non dice esplicitamente in che cosa consista esattamente il vantaggio che lo schiavo per natura otterrà dalla propria sottomissione al padrone – e il problema viene affrontato solo in linee generali anche altrove (cfr. p. es. EE VII 10, 1242a 13 ss.; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 263); tuttavia Aristotele ha già detto (1, 1252a 30-31) che l’unione tra chi comanda per natura (padrone) e chi è comandato per natura (schiavo) ha come fine la «sopravvivenza» (swthriva), e lo ha ripetuto qui a proposito degli animali domestici (1254b 12-13), che poche linee sotto verranno assimilati appunto agli schiavi proprio per la loro utilità. 1254b 20-26 e[sti ga;r fuvsei dou`lo~... para; tw`n hJmevrwn zw/vwn. Aristotele riprende nuovamente la definizione dello schiavo per natura, recuperando anche gli elementi già forniti nei capitoli precedenti: - può (ha la capacità di) appartenere ad un altro. La definizione già data nel cap. 4 (1254a 14-15.: oJ ga;r mh; auJtou` fuvsei ajll’ a[llou a[nqrwpo~ w[n, ou|to~ fuvsei dou`lov~ ejstin) è posta qui in relazione alla duvnami~. Se facciamo riferimento alle affermazioni del cap. 2 (1253a 23) che ogni cosa si definisce in base alla funzione (e[rgon) e alla capacità (duvnami~), i caratteri dello schiavo per natura sono ora del tutto

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evidenti: la funzione è collegata all’uso del corpo per realizzare quel che di meglio si può ottenere (cioè la natura dello schiavo, cfr. sopra b 18-19), la capacità è legata al carattere di proprietà e all’essere parte del padrone; - partecipa alla ragione nella misura in cui può percepirla (nel padrone), ma non possederla. Questa parte del ragionamento è conseguente alla precedente, giacché è evidente che chi non può possedere la ragione (schiavo) non può appartenere a se stesso, ma dovrà appartenere a chi invece la possiede (padrone); in quanto strumento animato utile per le necessità della vita (cfr. 4, 1253b 31-34), dovrà però essere in grado di obbedire al comando del padrone, e quindi partecipare in qualche modo della ragione, di cui il padrone si serve per comandare (cfr. Simpson 1998, p. 35: «as the master’s command comes from his reason, to perceive this command is somehow to perceive reason»). Queste affermazioni ci forniscono l’indicazione che nell’anima dello schiavo esiste un elemento che è razionale in modo limitato, passivo; in sostanza, la parte passionale comprende quello che la ragione dice, ma non possiede in maniera perfettamente strutturata la parte razionale. Per questo motivo lo schiavo per natura può obbedire agli ordini e comprendere le ragioni di quegli ordini, ma manca evidentemente di una parte della ragione: la sua «disfunzione cognitiva» (Kraut 2002, pp. 283-284) è probabilmente limitata alla facoltà deliberativa, to; bouleutikovn (cfr. 13, 1260a 12), per cui gli schiavi sono in grado di vivere autonomamente, apprendere e svolgere anche abilmente lavori seguendo indicazioni di altri (Simpson 1998, p. 36 sintetizza con il termine «reasoning»), ma non di deliberare bene (sul problema della deliberazione si veda EN VI 10, 1242b), ovvero di esercitare previsione e discernimento per risolvere i problemi ed ottenere un fine, quando non vi siano regole fissate da altri: questo è prerogativa di chi possiede la ragione e può pertanto raggiungere la virtù. b 23-24 ta; ga;r... uJperetei`. Il periodo, come denota la presenza del gavr esplicativo, appare un’ulteriore precisazione dell’argomentazione precedente, ma è estremamente complessa la sua interpretazione “letterale”, a causa della mancanza di linearità nell’espressione. Cerchiamo di dare conto dei maggiori problemi e delle soluzioni proposte da editori e traduttori. Il primo problema è dato dalla presenza nella tradizione delle varianti lovgou e lovgw/: la prima, riportando lo stesso termine della linea precedente, si giustifica soltanto se il termine è strettamente legato al verbo aijsqanovmena, ma potrebbe essere frutto dell’errore di un copista in qualche punto della tradizione; la seconda ha maggior senso se correlata al successivo paqhvmasin e legata al verbo uJperetei` quan-

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do non sia inteso in senso assoluto, come avremo modo di chiarire fra poco. Una seconda difficoltà è connessa alla collocazione del participio aijsqanovmena, che non è nella canonica posizione attributiva e nello stesso tempo non può fungere da verbo principale in una proposizione coordinata a quella introdotta da ajllav. Infine, la congiunzione ajllav è difficilmente comprensibile se le si attribuisce funzione coordinante dell’intera espressione ajlla; paqhvmasin uJperetei` (in mancanza di un verbo principale espresso o sottinteso nella prima parte del periodo), e risulta invece spiegabile se serve a correlare i due sostantivi lovgw/ e paqhvmasin. Di fronte a tale situazione gli editori hanno adottato scelte piuttosto varie: chi ha scelto il genitivo lovgou ha mantenuto il participio aijsqanovmena (Aubonnet); chi ha adottato il dativo lovg/w/ ha talvolta espunto il participio (Ross, ma non Dreizehnter); per conservare lovgw/ e participio Schütrumpf (1991, I), con una soluzione decisamente economica, ha scelto di posporre aijsqanovmena ad ajllav. Il problema più spinoso tuttavia, legato alla scelta testuale, è di carattere interpretativo: con la prima opzione (ouj lovgou aijsqanovmena ajlla; paqhvmasin) è evidente la difficoltà di rendere letteralmente il periodo, che necessita di essere liberamente interpretato (cfr. Viano 2002 «mentre gli altri animali non sanno neppure riconoscere la ragione ma obbediscono alle emozioni»; Aubonnet 1960 «les autres animaux ne perçoivent pas la raison, mais obéissent à des impressions»); espungendo il participio e introducendo il dativo è obbligatorio correlare i due dativi (ouj lovgw// ajlla; paqhvmasin), facendo di uJperetei` il verbo principale (cfr. Laurenti 1973 «gli altri animali non sono soggetti alla ragione, ma alle impressioni»; Saunders 1995 «for the other animals obey not reason but feelings»); la scelta di dativo e participio (ouj lovgw/ aijsqanovmena ajlla; paqhvmasin) conduce d’altro canto a due distinte possibilità interpretative: legare il participio al soggetto e considerare uJperetei` il verbo principale, intendendo i due dativi come complementi diretti del verbo (Schütrumpf 1991, I, dove la posposizione del participio non cambia comunque il senso generale «denn auch die übrigen Lebewesen [besitzen] keine Vernunft, der sie gehorchen können, sondern da sie nur Sinneswahrnehmungen haben, folgen sie den Affekten»); oppure legare i due dativi al participio ed intendere il verbo in senso assoluto (Simpson 1998 «for the other animals give of their assistance without perceiving by reason but rather by what they feel»). La soluzione di Simpson (dativi correlati, verbo inteso in senso assoluto), che si è adottata nella traduzione italiana – e che trovava un unico precedente in Koraes 1821 –, risolve un’apparente contraddizione che l’interpretazione usuale di questa frase metteva invece in

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piena luce. Aristotele ha detto poco sopra (b 10) che nel rapporto tra l’uomo e gli altri animali vale lo stesso criterio delle relazioni animacorpo e intelletto-appetizione nell’uomo e che sono schiavi per natura coloro che differiscono dagli altri uomini quanto l’anima dal corpo e l’uomo dalla bestia (b 16-17; gli schiavi per natura sono quindi al livello del corpo e degli animali nelle altre relazioni): è pertanto evidente che egli intende stabilire delle consonanze tra la situazione degli «altri animali» e quella dell’uomo, in particolare in relazione alla questione della schiavitù per natura (ma cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 268, che nega una precisa volontà di Aristotele di mettere in relazione tra loro schiavi e animali, ma li collega solo in virtù del loro rapporto di sottoposti in relazione al padrone e alla loro mancanza del logos: «Er – der Herrscher – besitzt den logos, diejenigen, bei denen das nicht gilt, werden zusammengeschlossen…Gerade an diese Bemerkung, daß die Sklaven keinen selbständigen logos besitzen, schließt sich die Bemerkung über die Tiere an, die nicht dem logos gehorchen – in ihrem Falle natürlich, weil sie ihn gar nicht besitzen»). Nell’interpretazione scelta di consueto dagli esegeti sarebbe evidente una dissomiglianza tra schiavi e animali in questo punto, poiché «gli altri animali» non percepirebbero la ragione (come invece gli schiavi), ma solo le emozioni, oppure non avrebbero alcuna ragione cui obbedire. Questa spiegazione, che non tiene conto neppure della presenza del gavr esplicativo o conclusivo – e non certo avversativo – stride ancor più perché subito dopo schiavi e animali sono equiparati ancora una volta da Aristotele, in quanto prestano il loro aiuto per le necessità della vita, in un modo «di poco» diverso, attraverso l’uso del corpo. Se intendiamo invece che gli altri animali agiscono come “aiutanti” (cfr. 1253b 29-30; 1254a 1) «non percependo con la ragione ma con le emozioni», possiamo certo affermare che schiavi e animali percepiscono ed eseguono in modo paragonabile i comandi del padrone, in quanto «strumenti animati»: non tramite la ragione – che non possiedono in proprio – ma tramite le emozioni, i sentimenti, l’istinto, scatenati, come sottolinea Simpson, da mezzi concreti come ad esempio il colpo di redini per il cavallo o grida e fischi per i cani da pastore (cfr. EN VII 6, 1149a 8-10: kai; tw`n ajfrovnwn oiJ me;n ejk fuvsew~ ajlovgistoi kai; movnon thÊ` aijsqhvsei zw`nte~ qhriwvdei~, w{sper e[nia gevnh tw`n povrrw barbavrwn, dove non si fa riferimento ad un rapporto di subordinazione, ma l’assenza di lovgo~ e la dedizione all’ai[sqhsi~ sono collegate alla vita “da animale” e a quella dei barbari, nella Politica gli schiavi “per eccellenza”).

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Il richiamo ai paqhvmata in questi termini resta tuttavia in certa misura oscuro, giacché la parte emotiva dell’anima appare in b 7-9 subordinata all’intelletto e alla parte razionale, che schiavi e animali sembrerebbero non avere (ouj lovgw/... ajlla; paqhvmasin; cfr. anche EN IX 9, 1170a 16-17), e che non sono separati l’uno dall'altra; inoltre Aristotele ha detto che l’appetizione è legata all’intelletto da una relazione politica (b 5-6; vd. sopra il commento) e, senza entrare nel merito del rapporto di subordinazione, è tuttavia vero che entrambi gli elementi sembrerebbero dover coesistere. Questo apparirebbe provato, ma per il caso dell’anima dell’uomo virtuoso, dal passo dell’Etica Nicomachea già citato (I 13, 1102b 13 ss., part. 30 ss.: to; d’ ejpiqumhtiko;n kai; o{lw~ ojrektiko;n metevcei pw~, hÊ| kathvkoovn ejstin aujtou` kai; peiqarcikovn: «la parte del desiderio e in generale dell’appetizione partecipa in qualche modo [della ragione], nella misura in cui la ascolta e le obbedisce»): talvolta si decide razionalmente il corso di un’azione, ma la parte responsabile di sentimenti e passioni spinge a fare diversamente (cfr. Kraut 2002, p. 283). Il ragionamento aristotelico del presente capitolo sembra invece indicare che tali relazioni all’interno dell’anima funzionano in coloro che si trovano in condizioni ottimali di natura, mentre schiavi e animali sono poi accomunati, attraverso paralleli successivi, dall’uso del corpo e dalla mancanza della ragione in senso proprio. Quindi l’affermazione che gli altri animali possono servire i padroni attraverso una percezione non razionale, ma legata all’istinto (cfr. anche EN I 6, 1098a 1-4; IX 6, 1170a 16-17), può essere valida anche senza attribuire a schiavi ed animali il possesso della ragione, come spiega Simpson (1998, p. 36 n. 41): «the appetite of the slave is not joined to reason within the soul of the slave, for the slave lacks reason in the relevant sense. It is only joined, by obedience, to the separate reason of the master (like the appetite of tame animals)». Lo schiavo non possiede dunque in maniera perfettamente strutturata la parte razionale, ma nella sua anima esiste un elemento razionale, seppure in modo limitato, poiché lo schiavo è un uomo (come ribadito in 13, 1259b 28): per questo motivo lo schiavo per natura può obbedire agli ordini e comprendere le ragioni di quegli ordini, ma manca evidentemente di una parte della ragione, probabilmente limitata alla facoltà deliberativa, to; bouleutikovn (vd. sopra; cfr. 13, 1260a 12; cfr. Schütrumpf 1991, I, pp. 266-267: lo schiavo non dispone della ragion pratica); pur in grado di vivere autonomamente, apprendere e svolgere anche abilmente lavori seguendo indicazioni di altri (cfr. anche Saunders 1995, p. 78), non è nelle condizioni di deliberare bene (sul problema della deliberazione si veda EN VI 10, 1242b), esercitando

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previsione e discernimento per risolvere i problemi ed ottenere un fine, quando non vi siano regole fissate da altri (prerogativa di chi possiede la ragione e può pertanto raggiungere la virtù, cfr. sopra). Riassumiamo i caratteri dello schiavo per natura evidenziati sinora, e necessari per comprendere anche il ragionamento che Aristotele farà nel capitolo seguente: a) usa il corpo: questo è il suo compito ed è il «meglio» che da lui si può ottenere; b) appartiene ad un altro (può quindi fare le cose al posto di un altro) come strumento vivente per le necessità della vita, di cui il padrone si serve; c) non possiede la ragione in senso proprio ma ne partecipa nella misura in cui può coglierla; d) percepisce il comando del padrone e gli obbedisce; e) il tipo di attività e il modo in cui la svolge sono simili a quelle degli animali domestici (quindi il servizio offerto dagli animali prescinde totalmente dalla ragione, ma nella sostanza differisce poco da quello offerto dagli schiavi, in quanto in ambedue i casi si tratta di un servizio che trova la sua origine e lo strumento che lo produce nel corpo). 1254b 27-39 bouvletai me;n ou\n hJ fuvsi~... kai; to; tou` swvmato~. Dopo averci indicato quali sono le diversità tra liberi (padroni) e schiavi in relazione all’anima, Aristotele fornisce alcune precisazioni riguardanti le condizioni del corpo dello schiavo, il cui uso, si è detto, è la sua attività principale e il meglio che si possa ottenere: la natura intende (Schütrumpf 1991, I, traduce «hat die Tendenz») provvedere agli schiavi corpi forti adatti alle loro mansioni, mentre ai liberi fornisce corpi eretti (la postura eretta contraddistingue l’uomo rispetto agli altri animali in PA II, 653a 28 ss.; 656a 12; IV, 686a 27-28) e adatti alla «vita politica» – quella della polis, quella divisa tra attività di guerra e di pace (cfr. VII 14, 1333a 30-35: all’interno della comunità politica si riproduce la bipartizione che è propria dell’anima; anche nella vita si distinguono ozio e attività, guerra e pace, azioni volte a cose necessarie e utili e azioni che tendono a cose belle); non è da escludere che la precisazione faccia diretto riferimento al passo del libro VII o sia frutto di un commento poi entrato nel testo, come rilevato da Schneider. Sarebbe invece particolarmente significativo se la puntualizzazione sottintendesse una posizione aristotelica precisa in relazione alla società greca: in un’epoca in cui i barbari (schiavi per natura per eccellenza, come Aristotele avrà modo di precisare poco oltre) venivano ormai spesso impegnati negli eserciti delle città greche, Aristotele indica chiaramente (qui e ancora più significativamente nel libro VII 13, 1331b 24 ss. in cui fornisce gli elementi per la costruzione della polis perfetta) che la «vita politica», quella dell’uomo libero all’interno della città, è «divisa» tra attività di guerra e di pace; nel passo del VII libro sopra citato preciserà

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poi che vi è una gerarchia, al vertice della quale stanno pace (eijrhvnh), ozio (scolhv) e cose belle (ta; kalav), ma per giungere alle quali sono necessari guerra, lavoro e cose necessarie ed utili – e a queste vanno educati gli uomini di ogni età (cfr. Bertelli 1984; Gastaldi 1995, p. 253; Gastaldi 2003). La natura, è vero, «non fa nulla invano» (2, 1253a 9) e la natura di ciascuna cosa, che è anche il suo fine, è «il meglio» (2, 1252b 32); tuttavia in qualche caso bisogna ammettere, secondo Aristotele, che il risultato non sia perfettamente in linea con questo principio (secondo Schütrumpf 1991, I, p. 266, la natura qui presupposta non è la natura intesa in senso teleologico degli scritti zoologici; p. 270: la natura qui non ha a che fare con gli individui, ma col ruolo e la funzione di questi all’interno del rapporto di potere): è il caso di coloro che hanno corpo da liberi (eretti e adatti alla vita politica) e anima da schiavi (quindi non l’anima di «liberi per natura») oppure di coloro che hanno anima da liberi e corpo da schiavi (possiamo immaginare che facesse parte del sentire comune l’idea che gli schiavi, usi alla fatica, avessero un corpo più esercitato ma anche provato dallo sforzo; quel che non viene detto è se ciò possa avere delle conseguenze sull’attività razionale dell’anima; cfr. Saunders 1995, p. 78; ma si veda invece Schütrumpf 1991, I, p. 269, che precisa come Aristotele sia qui interessato unicamente a fornire spiegazioni relativamente all’opera di differenziazione del corpo di liberi e schiavi, e le indicazioni sull’anima siano solo funzionali ed accessorie rispetto alle precedenti: un uomo con un’anima dotata di logos e un corpo di schiavo rappresenterebbe una contraddizione in se stesso). Questa situazione, evidentemente molto più diffusa di quanto si potrebbe ipotizzare, consente di giustificare le diverse opinioni a riguardo della naturalità della schiavitù (che non sarebbe più tale se la natura fallisse nel suo intento, poiché verrebbe meno la volontà della natura, quella cioè di preservare la relazione comandante-comandato o padrone-schiavo). Una distinzione molto netta tra liberi e schiavi in relazione al corpo e all’anima toglierebbe però ogni dubbio sull’esistenza degli schiavi per natura: se infatti vi fossero alcuni diversi dagli altri per le qualità fisiche quanto lo sono le statue degli dèi (l’uso del paragone con gli dèi è già presente ripetutamente nel cap. 2: cfr. 1252b 27; si tratta evidentemente di argomenti tratti dal rumor popolare, che comunque rientrano tra gli esempi paradossali che Aristotele ha già usato nei capitoli precedenti; si veda p. es. il riferimento alle statue semoventi di 4, 1253b 35-37), tutti potrebbero affermare che quelli inferiori dovrebbero essere loro schiavi: l’uso del periodo ipotetico non solo esclude la possibilità che ciò avvenga, ma testimonia anche la presa di distanza dell’autore da questa

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eventuale conseguenza. Lo stesso discorso dovrebbe valere anche per l’anima: tuttavia, l’eccellenza dell’anima (che è evidente solo grazie alla virtù; cfr. EN I 13, 1102b 21) non è così facilmente distinguibile come quella del corpo, e pertanto potrebbe essere difficile individuare in questo modo coloro che sono padroni per natura. Suggestiva l’ipotesi di Simpson (1998, p. 58, già di Dobbs 1994) che quest’affermazione potrebbe fornire una spiegazione decisiva per la questione del dibattito sulla schiavitù che ora Aristotele si accinge ad affrontare: se da un lato la natura è responsabile della condizione del corpo, dall’altro la perfezione dell’anima, la virtù (seppure presupposta alla nascita dalla natura), richiede, oltre alla presenza del lovgo~ – come mostra lo stesso passo del libro VII citato sopra – l’intervento del legislatore e di un processo educativo (cfr. anche Schütrumpf 1991, I, p. 266). Pertanto l’anima da schiavi potrebbe non essere frutto semplicemente dell’opera della natura, ma anche della mancanza di un processo educativo, e quindi l’anima da schiavo potrebbe prodursi non solo alla nascita, ma attraverso una successiva “generazione” casuale o scelta; ciò del resto avviene per alcuni animali, che vengono addomesticati solo in un secondo momento (non dimentichiamo che la condizione degli animali domestici è stata più volte presentata in questo capitolo come paragonabile a quella degli schiavi per natura). Per il riferimento a queste posizioni cfr. sopra, p. 80. 1254b 39-1255a 2 o{ti me;n toivnun... kai; divkaiovn ejstin. In una sorta di Ringkomposition Aristotele formula la sua risposta al quesito iniziale: esiste qualcuno schiavo per natura? L’autore sembra poter dare una risposta definitiva: è «evidente» che per natura vi è una distinzione tra liberi e schiavi, non assoluta, ma relativa. Così intesa, l’espressione sembra non comprendere tutti gli uomini (cfr. Saunders 1995, p. 78): è probabilmente su questo argomento che Aristotele basa il punto di partenza della questione centrale del capitolo successivo. Se solo alcuni sono schiavi o liberi per natura, è possibile che altri lo siano diventati in altro modo e/o siano in una condizione diversa da quella che dovrebbe essere la loro naturale condizione. Solo per coloro che si trovano in condizione di schiavitù per natura sarà dunque giusto e utile – come è stato ampiamente dimostrato – essere schiavi.

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CAPITOLO 6 LA SCHIAVITÙ PER LEGGE

Anche se in maniera ellittica, Aristotele ha già detto alla fine del cap. 3 (1253b 20-23) che a riguardo della schiavitù esisteva un dibattito, e che alcuni sostenevano (toi`~ de; [dokei`]) che la condizione di schiavo esiste per convenzione e non per natura, è fondata sulla forza e pertanto, in quanto contro natura, è anche ingiusta. A conclusione del cap. 5 dichiara invece di aver dimostrato – per cui è «evidente», fanerovn – che la distinzione tra liberi è schiavi è per natura e pertanto l’essere schiavi, per coloro che lo sono per natura, è giusto e utile. Il cap. 6 si apre quindi con un doppio raccordo; tuttavia il riferimento diretto a «coloro che affermano il contrario» – rispetto evidentemente a quel che Aristotele ha appena terminato di spiegare, cioè l’esistenza della schiavitù per natura –, richiama al lettore proprio quel che si era accennato alla fine del cap. 3, l’opinione di coloro che sostengono che la schiavitù esiste per convenzione ed è fondata sulla forza. Il capitolo si concentra infatti sull’esame e la confutazione di questa posizione. 1255a 3-4 {Oti de;... ijdei`n. L’espressione oiJ tajnantiva favskonte~ fa riferimento evidentemente a quel che Aristotele ha detto e dimostrato poco sopra: che l’assunto neghi l’ultima affermazione o l’intera dimostrazione poco importa (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 273; Simpson 1998, p. 39). Quel che va rilevato è da un lato l’espressione possibilista del filosofo riguardo al ragionamento di coloro che la pensano in maniera opposta (trovpon tina; levgousin ojrqw`~, non hanno tutti i torti), dall’altro la litote ouj calepo;n ijdei`n, che contrasta il fanerovn del periodo immediatamente precedente. La conseguenza principale sarà dunque che, se è chiaro che esistono schiavi per natura e non è difficile vedere che chi dice il contrario ha in qualche modo ragione, Aristotele ritiene che l’intera categoria degli schiavi non possa esaurirsi negli schiavi per natura, o che tra gli schiavi – e si parla della situazione esistente, non della teoria – ne esista un certo numero per cui è contro natura, ingiusto e/o inutile essere schiavi. L’apparente contraddizione di queste affermazioni verrà comunque risolta subito dopo, sottolineando che la schiavitù per natura e la schiavitù per legge non sono incompatibili in ogni caso, ma che la schiavitù potrà essere definita giusta soltanto se i due caratteri coesistono.

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1255a 4-7 dicw`~ ga;r... ei\naiv fasin. La condizione di schiavitù (to; douleuvein e oJ dou`lo~) può quindi essere intesa, oltre che nel senso di condizione naturale – secondo quel che Aristotele ha dimostrato nel capitolo precedente –, anche kata; novmon, secondo una condizione giuridica, che non è tuttavia frutto di una prescrizione del diritto positivo: Aristotele precisa che si tratta di una oJmologiva che, per comune riconoscimento delle parti, consente al vincitore in guerra di prendere possesso del vinto – e di tutto ciò di cui entra in possesso come bottino di guerra, come provato dall’uso del genere neutro –. La condizione di schiavitù imposta agli sconfitti in guerra è tema assai comune nella letteratura greca: nei poemi omerici (cfr. p. es. Hom. Il. I 366; Od. XIV 272), come nella tragedia di età classica (Eur. Andr. 97), nei racconti storici (Thuc. II 5, 7; III 50, 1), negli oratori (Demosth. 18, 289) è evidente che le vicende dei Greci sono costellate di deportazioni di prigionieri e di riduzione in schiavitù degli sconfitti, in particolare donne e bambini. Questa prassi è normalmente considerata lecita, oltre che abituale, come testimoniato da Senofonte (Cyr. VII 5, 73: tau`ta nomisavtw ajllovtria e[cein: novmo~ ga;r ejn pa`sin ajnqrwvpoi~ ai[diov~ ejstin, o{tan polemouvntwn povli~ aJlw/`, tw`n eJlovntwn ei\nai kai; ta; swvmata tw`n ejn thÊ` povlei kai; ta; crhvmata; Mem. II 2, 2: to; ajndrapodivzesqai tou;~ me;n i{lou~ a[dikon ei\nai dokei`, tou;~ de; polemivou~ divkaion ei\nai) e da Platone (Leg. I 626b: kai; scedo;n ajneurhvsei~, ou{tw skopw`n, to;n Krhtw`n nomoqevthn wJ~ eij~ to;n povlemon a{panta dhmosiva/ kai; ijdiva/ ta; novmima hJmi`n ajpoblevpwn sunetavxato, kai; kata; tau`ta ou{tw fulavttein parevdwke tou;~ novmou~, wJ~ tw`n a[llwn oujdeno;~ oujde;n o[felo~ o]n ou[te kthmavtwn ou[t’ ejpithdeumavtwn, a]n mh; tw`/ polevmw/ a[ra krath`Ê ti~, pavnta de; ta; tw`n nikwmevnwn ajgaqa; tw`n nikwvntwn givgnesqai). Tuttavia il pensiero espresso da Aristotele, come possiamo notare anche dal linguaggio, si pone su un piano teorico, facendo riferimento da un lato ai concetti generali e dall’altro a quel complesso di norme che venivano abitualmente applicate nelle relazioni internazionali e nel diritto privato. Il nomos qui indicato, più che essere una specifica legge relativa al possesso del bottino di guerra – come sembrerebbe invece portare a credere il pronome relativo maschile (ejn w|/) –, ha un’accezione più generale, quella di “atto normativo”, e si pone come l’insieme di norme e convenzioni prodotte dall’uomo, e in quanto tali non perfette (all’opposto della condizione «per natura»). Tuttavia Aristotele non ha interesse a parlare del carattere convenzionale della legge in generale, ma intende prima di tutto rimarcare che il nomos, in quanto “ripartizione imperfetta” – di contro invece alle relazioni naturali interne alla

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città (cfr. Viano 2002, p. 90 n. 26) – richiede un accordo fra individui disponibili ad accettare la ripartizione e anche la possibilità che uno o più tra loro si vengano a trovare in situazione di superiorità – ed è questo il centro dell’argomentazione aristotelica –, e solo in seconda battuta che l’elemento consensuale a riguardo della schiavitù di guerra prevede che il bottino divenga possesso del vincitore. In questo senso il nomos di cui Aristotele parla qui a proposito della schiavitù è definibile come oJmologiva, ovvero come un accordo «ove i contraenti non sono su un piano paritetico» (cfr. Cobetto Ghiggia 2011). D’altra parte questo significato tecnico di homologia è perfettamente dimostrabile sia nella sfera pubblica sia in quella delle relazioni private tra il V e il IV secolo a.C. (cfr. Cobetto Ghiggia 2011: «dal punto di vista diacronico si può osservare come la homologia mantenga a tutto tondo la caratteristica intrinseca di atto ufficiale, soprattutto nel settore pubblico e diplomatico, a partire dal V secolo per proseguire coerentemente nel IV, ove, grazie al contributo dell’oratoria civile, è lecito trovare sufficiente conferma di quanto supposto anche per l’ambito privato»). Si potrebbe allora affermare che «1) La homologia non è solo un generico accordo, ma un istituto giuridicamente regolamentato dal punto di vista formale che genera rapporti obbligatori. 2) Il ricorso alla homologia nasce da situazioni di contrasto fra due o più parti e mira alla loro composizione. 3) Dalle testimonianze… si può dedurre altresì che, solitamente, nell’ambito della stipula di una homologia una delle parti coinvolte si trova in una posizione di supremazia, fattuale o anche solo presumibile» (Cobetto Ghiggia 2011). In relazione a quanto qui affermato da Aristotele quindi è del tutto inopportuno considerare il nomos qui citato come una norma precisa; P. Cobetto Ghiggia, nelle sue riflessioni sul passo a me indirizzate, ha rilevato che «anche il nomos è… un’obbligazione che implica l’accettazione da parte degli uomini riuniti in un consorzio sociale e in tale senso alla base del suo funzionamento si deve trovare l’homologia. L’homologia non è certamente una ‟legge” riconosciuta a livello pubblico, né tanto meno una consuetudine avente valore di norma, ma più semplicemente l’accordo consensuale alla base di una qualsivoglia obbligazione che presuppone l’accettazione di due o più parti. In accezione traslata, quindi, il nomos (ripartizione umana imperfetta) è homologia (accordo consensuale ad accettare tale ripartizione umana imperfetta)». La restante parte del periodo è costituita da una proposizione relativa che, nella forma unanimemente tramandata, ha creato qualche difficoltà esegetica: la locuzione ejn w|/ appare grammaticalmente collegata al maschile novmo~ e la relativa sembrerebbe esplicitare il ca-

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rattere della norma cui Aristotele si riferisce all’inizio della frase («il nomos nel quale...»). Tuttavia, giacché il fulcro dell’argomentazione aristotelica appare la caratterizzazione del nomos come homologia, la locuzione relativa maschile è parsa inaccettabile ad alcuni editori che hanno ritenuto opportuna una correzione del maschile in femminile (ejn hÛ|; già Rackham per la Loeb nel 1932, da ultimo Ross), con l’evidente scopo di sottolineare che la frase relativa punta a chiarire il significato dell’accordo e non a precisare il nomos. Il testo tràdito tuttavia può essere conservato senza difficoltà, presupponendo che il lettore antico – a differenza di noi moderni – avesse chiaro il significato di nomos come l’insieme di norme e convenzioni imperfette prodotte dall’uomo, che fa da contraltare ad una condizione «per natura», e potesse considerare la frase relativa come una semplice specificazione dell’ambito cui sta facendo riferimento (la schiavitù “di guerra”). 1255a 7-11 tou`to dh; to; divkaion... to; biasqevn. Il risultato del nomos nell’accezione prima definita, nella sua qualità di homologia, è pertanto un diritto, una prerogativa (divkaion) – il bottino di guerra è proprietà del vincitore –, sancito e giustificato dal nomos stesso; giacché tuttavia l’homologia prevede che coloro che sono vincolati dall’accordo non siano su un piano di parità, la conseguenza sarà che «il nomos avrà come immediato effetto, sul lato pratico, l’ammissibilità del diritto di chi ha più prerogative»; tale prerogativa non potrà che portare a prendere atto del fatto che «il risultato più “inquietante” del nomos umano, se portato all’estremo, sarebbe la pacifica ammissione del “diritto del più forte”» (dalle riflessioni di P. Cobetto Ghiggia a me indirizzate). Pertanto in questo modo Aristotele «vuole rilevare le aporie della categoria nomos»: il considerare il nomos una homologia prevede che si possa giungere al giustificato diritto (dikaion: giustificato, non necessariamente giusto) di un individuo di ridurne in schiavitù un altro, appunto kata; novmon (cfr. anche Schütrumpf 1991, I, p. 275: questa posizione avrebbe un carattere polemico, giacché nel sentire comune il nomos è opposto alla violenza; Senofonte, Cyr. I 3, 17: to; me;n novmimon divkaion ei\nai, to; de; a[nomon bivaion). Pertanto alcuni di coloro che si oppongono alla schiavitù “di guerra” (il riferimento è solo a questa forma), prodotto della violenza, in realtà considerano inaccettabile il dikaion, il diritto che è l’estremizzazione del concetto di nomos come homologia in riferimento alla schiavitù. Chi infatti si intende di diritto – e sono molti – (polloi; ejn toi`~ novmoi~: cfr. VIII 7, 1341b 33, tine~ tw`n ejn filosofiva/; Metaph. VI 8, 1050b 35: oiJ ejn toi`~ lovgoi~; Plat. Prot. 317c: eijmi; ejn th`Û tevcnhÛ; Resp. VII 531b: oiJ ejn th`Û ajstronomiva/), contesta il diritto del più forte che deriva da tale interpretazione

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(non il nomos in sé) e lo accusa di proposta illegale, come si accusa un proponente (rJht v wr) in assemblea. All’exemplum di carattere giuridico segue il contenuto dell’accusa: è spaventoso che si possa diventare schiavi e sottoposti di chi può commettere violenza ed è in condizione di superiorità. Si tratta di un giudizio di merito soggettivo, ma evidentemente anche di una espressione formulare che poteva servire a sottolineare la gravità dell’accusa e dare maggior peso al carattere di illegalità del diritto in questione; l’espressione deinovn eij... è infatti frequente negli oratori attici del IV secolo a.C., in particolare in Isocrate (p. es. 18, 3; 7, 64; 15, 152) e Demostene (p. es. 5, 8; 7, 1;16, 6; 20, 12), volta a mettere in risalto con forza e in certi momenti con una sottolineatura iperbolica un punto di vista su una questione particolarmente significativa. Come si può notare, il pensiero aristotelico si sviluppa su più piani, ma conserva un carattere “tecnico” che richiede la perfetta comprensione dei singoli termini per giungere a chiarire l’argomentazione nel suo complesso. a 8-9 gravfontai paranovmwn. La grafh; pafranovmwn è una procedura ateniese in vigore tra la fine del V e il IV secolo a.C. nella forma di accusa per proposta incostituzionale intentata contro decreti (psephismata) in approvazione o già approvati dall’assemblea (ekklesia); essa era presentata al tribunale popolare (heliaia, eliea), che aveva facoltà di annullare i decreti. Un caso particolare è quello della graphe paranomon contro provvedimenti di grazia e di amnistia, che venivano tuttavia concessi in forma di decreto e quindi rientravano nel caso precedente (Hansen 2001, p. 15). Essa poteva essere intentata da qualunque cittadino ed era introdotta da una dichiarazione giurata (hypomosia; cfr. Demosth. 18, 103) – prestata prima del voto, durante il dibattito assembleare sul provvedimento o dopo l’approvazione – che il decreto in questione era contrario alle leggi, nella forma o nel contenuto, oppure dannoso o inopportuno per gli interessi del popolo: quest’ultima possibilità comparve soltanto nel corso del IV secolo, con conseguenze talvolta rilevanti, poiché l’ampia interpretazione dell’inopportunità diveniva un’arma politica che poteva essere usata contro ogni tipo di decreto. A seconda dei casi, si poteva avere un rinvio del dibattito assembleare o una sospensione della disposizione fino al verdetto del tribunale. Il processo contro il proponente del decreto dalla presunta incostituzionalità si svolgeva davanti al tribunale popolare con almeno 501 giurati: l’accusatore dopo il giuramento era tenuto a portare avanti l’accusa anche consegnando una memoria scritta ai tesmoteti (Aeschn. 2, 14) – il gruppo degli arconti che aveva il compito di convocare il tribunale popolare e presiedere quasi tutte le accuse pubbliche (cfr. Da-

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verio Rocchi 1993, p. 207; Hansen 1991, p. 338) –, nella quale indicare i motivi dell’azione giudiziaria; se non l’avesse fatto sarebbe incorso in una multa e nella proibizione di intentare altre accuse dello stesso genere. La sentenza favorevole all’accusatore prevedeva l’annullamento del decreto (in ogni caso) e la punizione del proponente (ma solo se pronunciata entro un anno dalla proposta), con un’ammenda da simbolica a molto gravosa, fino alla condanna a morte o all’atimia, la privazione dei diritti politici. La prima sicura attestazione della grafh; paranovmwn è del 415 a.C., quando Leogora, padre di Andocide, accusò un membro del consiglio, Speusippo, di aver proposto un decreto illegale (cfr. And. 1, 17 e 22). Hansen 2001 enumera trentanove casi di grafh; paranovmwn tra il 415 e il 322 a.C. (ci sono pervenuti alcuni dei discorsi di accusa ad opera di noti oratori: cfr. il catalogo di Hansen 2001, pp. 31-51); non si conosce tuttavia la data precisa dell’introduzione della procedura in Atene. Già Lipsius (1905-1915, pp. 36 e 383) e più recentemente Wolff (1970, p. 18) e Rhodes (1972, p. 62) la attribuiscono alle riforme di Efialte del 462/461 a.C., anche se nelle fonti non vi è traccia della sua esistenza prima della guerra del Peloponneso (Hansen 1991, p. 205 e n. 284); ciò fa sospettare che la procedura, proprio per il suo valore politico, sia stata ben presto sfruttata in sostituzione dell’ostracismo per eliminare i politici “scomodi”. Il termine rJhvtwr era utilizzato a tutti gli effetti – in un primo momento accanto a strathgov~, che indicava il comandante dell’esercito che agiva anche come consigliere e oratore nell’assemblea popolare, e poi affiancato da dhmagwgov~, il leader popolare in senso neutro ma ben presto con connotazione spregiativa (si veda IV 4, 1292a 7; V 5, 1305a 7; V 11, 1313b 40-41) –, a partire approssimativamente dalla metà del IV secolo a.C., per indicare in senso tecnico (e per lo più privo di giudizi di valore) l’uomo politico ateniese, che agiva nei vari organi istituzionali come proponente di decreti o come oratore nell’assemblea e in qualità di accusatore o difensore nei processi di fronte al tribunale popolare (cfr. Hansen 1983a; Hansen 1983b; Hansen 1987; Mossé 1995a; Mossé 1995b) . L’exemplum di Aristotele sull’accusa di illegalità intentata contro un rJhvtwr è probabilmente specchio della realtà politica ateniese di cui egli stesso ha fatto esperienza: i processi per graphe paranomon erano a quell’epoca ormai per lo più diretti ad personam, e indirizzati contro i politici rei di aver mal consigliato il popolo. Spesso infatti il decreto che l’accusatore giudicava contro la legge era già stato approvato dall’assemblea; lungi dal dimostrare che, portando avanti un’accusa di questo

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genere, si sarebbe colpita direttamente la sovranità del popolo riunito in assemblea, l’uso del procedimento accusatorio finiva per comprovare che il popolo poteva facilmente essere ingannato da politici corrotti che ne avevano carpito la buona fede per interessi personali o per amicizie potenti, o che l’accusa contro il proponente di un decreto poteva essere usata dagli avversari politici per minarne il prestigio e in qualche caso estrometterlo dai giochi del potere – ed infatti ad un certo punto i politici più esposti si servivano di prestanome come proponenti di decreto (i cosiddetti “sicofanti”), disponibili a subire processi per graphe paranomon al loro posto, e per i quali essi stessi potevano scrivere i discorsi di difesa, esercitando in questo modo il proprio potere politico e la propria abilità demagogica (Hansen 2001, pp. 69-72). 1255a 11-17 kai; toi`~ me;n... movnon ei\nai th;n ajmfisbhvthsin. L’estremizzazione delle conseguenze del nomos come homologia, ovvero la possibilità di chi può esercitare la violenza ed è superiore in potenza di sottomettere arbitrariamente chi è oggetto della sopraffazione, non vede tuttavia unanimemente d’accordo i detrattori della schiavitù: se verosimilmente uno che si intende un po’ di leggi non potrebbe accettare che la legge del più forte sia usata come giustificazione della schiavitù di guerra, è pur vero – nota Aristotele – che anche tra i saggi vi sono di quelli che non sembrano condividere questa posizione (e quindi in qualche modo vedono di buon occhio la schiavitù che deriva dalla violenza e dalla sopraffazione, ma a particolari condizioni, che Aristotele spiega subito dopo). Il disaccordo scaturisce dal fatto che essi ritengono che in qualche modo la virtù, quando ne ha i mezzi, sia in grado di esercitare la violenza, e l’elemento che domina abbia sempre in larga misura un qualche bene, per cui sembra che non esista uso della forza senza virtù, e che invece la discussione verta «solo» sul diritto, sulla prerogativa del dominatore (EN V 10, 1135b 27; cfr. Newman 1887, II, p. 156 e Schütrumpf 1991, I, pp. 278-279). In sostanza, ci si aspetterebbe che la condanna dell’estremizzazione del diritto del più forte applicato alla schiavitù di guerra fosse unanime. Invece Aristotele ci fa notare che «anche tra i saggi» ci sono posizioni contrarie: nella fattispecie, nell’opinione di costoro, la schiavitù trova giustificazione nel fatto che il dominio attraverso l’uso della forza presuppone una superiorità in virtù di chi la esercita. Se chi risulta vincente non eccellesse in virtù, la schiavizzazione degli sconfitti sarebbe pertanto «spaventosa» ed evidentemente non giustificata, perché verrebbe meno la relazione naturale tra padrone e schiavo, che Aristotele ha dimostrato essere utile e giusta (Simpson 1998, p. 40). Pertanto i saggi e coloro che condividono la loro posizione giustificano la prerogativa dei vincitori solo in quanto

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la forza è accompagnata dalla virtù, e non mettono quindi in discussione il valore dell’homologia, bensì il dikaion – come viene ribadito da Aristotele a 1255a 16 –, quel diritto del più forte che, senza adeguata discussione, appariva la logica conseguenza dell’affermazione iniziale di 1255a 7-8. Bisogna tuttavia intendersi sul significato della «virtù» cui Aristotele fa riferimento: quale eccellenza consente all’uomo di esercitare la forza? Luogo comune nella “propaganda” ateniese, più volte utilizzato da Isocrate (cfr. p. es. 4, 150: ouj ga;r oi|ovn te tou;~ ou{tw trefomevnou~ kai; politeuomevnou~ ou[te th`~ a[llh~ ajreth`~ metevcein ou[t’ ejn tai`~ mavcai~ trovpaion iJstavnai tw`n polemivwn, in riferimento ai Persiani, destinati alla sconfitta in guerra ed educati alla schiavitù, in quanto incapaci di disciplina e inesperti di pericoli; e ancora p. es. 12, 71), quello della superiorità in virtù dei Greci e in particolare degli Ateniesi nella storia passata della loro città (soprattutto nelle guerre persiane) – in grado, grazie alle loro eccezionali qualità, di sconfiggere il nemico ed evidentemente legittimati a farlo, ma a certe condizioni –, è un tema che doveva essere ben presente al filosofo; inserito nelle vicende storiche delle mire di conquista di Alessandro sulla Grecia, esso potrebbe fornire un’interessante “suggestione educativa” al sovrano macedone, ma solo a patto di ipotizzare che almeno parte del materiale poi venuto a costituire questa sezione del testo esistesse già prima della “composizione” vera e propria (per la composizione del I libro si veda l’Introduzione). Tuttavia Aristotele non si limita a proporre una generica connotazione della virtù, ma possiamo pensare che si riferisca da un lato alle “parti della virtù” che sono proprie della “vita militare” (stratiwtiko;n bivon: II 9, 1270a 5; pro;~... mevro~ ajreth`~,... th;n polemikhvn: au{th ga;r crhsivmh pro;~ to; kratei`n: II 9, 1271b 2-3), dal momento che «la polis dev’essere temperante, coraggiosa e forte, perché, secondo il proverbio, “non c’è riposo per gli schiavi”, e coloro che non sono in grado di affrontare coraggiosamente i pericoli sono schiavi di chi li attacca» (dio; swvfrona th;n povlin ei\nai proshvkei kai; ajndreivan kai; karterikhvn: kata; ga;r th;n paroimivan, ouj scolh; douvloi~, oiJ de; mh; dunavmenoi kinduneuvein ajndreivw~ dou`loi tw`n ejpiovntwn eijsivn: VII 15, 1334a 19-22); dall’altro alla condizione naturale di padrone e schiavo, ciascuno dotato di una propria forma di virtù in relazione alle differenti facoltà dell’anima e al possesso delle virtù «etiche» (EN I 13, 1103a 4-7), cui tutti devono partecipare, «non nello stesso modo, ma nella misura in cui occorre a ciascuno per svolgere il proprio compito» (13, 1260a 15-17; cfr. sotto, il commento al passo). Quindi potremo concludere che coloro che affermano che il diritto del più forte sia giustificato se la forza è esercitata in

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associazione con la virtù non fanno che sostenere la tesi della naturalità della relazione padrone-schiavo. Il nodo sta dunque nel concetto di «diritto» (dikaion) e su questo si basa la disputa (ma cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 277, che enfatizza il ruolo dell’ajrethv come “causa” della contesa e presupposto del dominio): chi possiede la virtù, avendone i mezzi, può dominare, perché nell’esercizio del dominio è insita una superiorità in relazione a qualche bene, e dunque l’esercizio della forza per chi ha i mezzi dati dalla virtù è legittimo. a 12-13 Numerose le possibilità offerte dagli interpreti sulla spiegazione dell’«alternanza» (ejpallavttein) degli argomenti (lovgoi); la spiegazione più semplice è comunque quella di supporre che si possa parlare di argomentazioni contrastanti (la violenza esercitata dal più forte vs la violenza “virtuosa”) che partono da uno stesso principio, che è il dikaion della l. 8, come Aristotele indica alla l. 17. In sostanza si contende, gli opposti argomenti si confrontano fin quando si lasciano confuse e non si distinguono adeguatamente violenza pura e violenza sorretta dalla virtù (cfr. Bonitz 1870, p. 264b 51). 1255a 17-19 dia; ga;r tou`to... to; to;n kreivttona a[rcein: Le opzioni proposte da Aristotele in relazione alla giustificazione della schiavitù di guerra corrispondono dunque (gavr) a due diversi modi di intendere la prerogativa che deriva dal nomos: per coloro che associano l’uso della forza alla virtù il dikaion è «benevolenza»; per coloro che invece fanno riferimento al diritto del più forte tout court (quello espresso da Trasimaco in Plat. Resp. 338c: to; divkaion oujk a[llo ti h] to; tou` kreivttono~ sumfevron, «il diritto non è altro che l’utile del più forte»), la prerogativa che consegue al nomos è semplicemente la legittimazione stessa, ovvero che il più forte (sia egli virtuoso o no, cfr. Simpson 1998, p. 41) comanda a buon diritto (si noti la ripresa sintetica dell’espressione assai più articolata della l. 10; diversamente Simpson 1997, p. 23 e 1998, p. 41 n. 52, che pone la virgola dopo tou`to, intendendo «others think it is this, that rule by the stronger is just»: anche se l’interpretazione non differisce nella sostanza, la difformità sta nella spiegazione di divkaion che, pur se non accompagnato dall’articolo ma solo dall’aggettivo, mi sembra da ricollegare al concetto di «diritto, prerogativa» in cui l’ho inteso nel resto del capitolo a partire dalla l. 8). Non vi è pertanto alcuna necessità di correggere il termine eu[noia, trasmesso dai codici, come hanno invece ritenuto opportuno già Lambin (eujnomiva) e poi Richards (eujhvqeia) e Ross (a[noia, accolto anche da Saunders): la «benevolenza» è «volere il bene» di qualcuno, concetto ben diverso dall’utile personale (cfr. EE VII 7, 1241a 1; EN VIII 2, 1155b 32; VIII 7, 1158a 7; IX 5, 1167a 8; si vedano anche Democr.

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fr. 302 DK = 617 Luria: to;n a[rconta dei` e[cein... pro;~ de; tou;~ uJpotetagmevnou~ eu[noian e Plut. Mor. 821a-b), ed è collegata alla virtù (EN IX 5, 1167a 18: o{lw~ d∆ hJ eu[noia di∆ ajreth;n kai; ejpieivkeiavn tina givnetai, o{tan tw`/ fanh`Û kalov~ ti~ h] ajndrei`o~ h[ ti toiou`ton... ). Se poi suppliamo all’estrema sintesi aristotelica con alcuni passaggi del ragionamento che restano sottintesi, possiamo certo dedurre che il diritto di schiavizzare il più debole da parte del più forte rientra nella dimostrazione della schiavitù per natura che il filosofo ha condotto nel cap. 5: se chi esercita la forza è virtuoso e pertanto vuole il bene di colui che sottometterà, e allo stesso tempo il diritto che viene dall’homologia – l’accordo non paritario tra le parti che si affrontano – prevede che chi è oggetto della violenza divenga schiavo di chi la esercita, la condizione dello schiavo sarà legittimata dal diritto e vantaggiosa, quindi accettata di buon grado dai sottoposti, come è stato dimostrato a proposito dello schiavo per natura (5, 1255a 2-3; cfr. Simpson 1998, p. 40 n. 51; cfr. anche Newman 1887, II, p. 156, che cita il fr. 35 Wehrli di Aristosseno, allievo di Aristotele, dallo Stobeo IV 1, 49: peri; de; ajrcovntwn kai; ajrcomevnwn ou{tw~ ejfrovnoun: tou;~ me;n ga;r a[rconta~ e[faskon ouj movnon ejpisthvmona~, ajlla; kai; filanqrwvpou~ dei`n ei\nai, kai; tou;~ ajrcomevnou~ ouj movnon peiqhnivou~, ajlla; kai; filavrconta~). In estrema sintesi si può dunque affermare che i sostenitori dell’esistenza di una schiavitù kata; novmon si appellano alla legge, che è insieme convenzione, accordo e consuetudine, secondo la quale chi è superiore in forza e risulta vincitore può rendere schiavo chi viene sconfitto. Tuttavia Aristotele identifica tra costoro due posizioni, in relazione all’interpretazione delle prerogative che la legge comporta, e quindi alla legittimità delle conseguenze che derivano dall’accordo tra le parti (e non semplicemente all’essere più o meno giuste, come molti commentatori hanno voluto intendere; si tratta di un ragionamento condotto sul filo sottile della terminologia giuridica): 1) quella di coloro che vedono come effetto dell’applicazione dell’accordo solo la “legge del più forte” e dunque un arbitrio da parte del vincitore/padrone; 2) quella di coloro che associano all’opera del conquistatore il possesso della virtù e dunque la «benevolenza» verso l’oggetto della violenza, che rende quindi legittima la schiavizzazione degli sconfitti (cfr. Newman 1887, II, p. 156: «those who argued against slavery unaccompanied by good-will between master and slave were probably among those who glorified rule over willing subjects, in contraddistinction to rule over unwilling subjects»). Il disaccordo dunque verte sulle conseguenze (l’“attuabilità”, la corretta interpretazione della legge) e non sulle premesse (la “norma”, riguardo alla quale le due argomentazioni coincidono; cfr. Simpson 1998, p.

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41), ma è evidente che la seconda posizione è conforme al concetto di relazione naturale padrone-schiavo che Aristotele ha illustrato precedentemente e potrebbe spiegare l’espressione iniziale per cui anche coloro che dicono «il contrario» (o che «affermano di sostenere il contrario») hanno in qualche modo ragione. Per una efficace ricostruzione delle posizioni antiche sul problema della schiavitù, di cui Aristotele avrebbe potuto tenere conto nel formulare la sua argomentazione cfr. Cambiano 1987, pp. 22; Brunt 1993, pp. 343-388; Garnsey 1996, pp. 74-80. 1255a 19-21 ejpei; diastavntwn ge cwri;~... a[rcein kai; despovzein. Il periodo è estremamente complesso, ma si può senz’altro affermare, con Newman 1887, II, p. 158, che «confirms what has been said by introducing a supposition of the contrary» (cfr. anche 1254b 34). La prima parte del periodo fa probabilmente riferimento a quanto si è detto poco sopra: i «discorsi contrapposti» sono quelli che riguardano il contenuto del dikaion, da un lato la benevolenza (ma forse anche l’intera argomentazione dei sostenitori della legittimità della schiavitù di guerra sulla base del possesso della virtù), dall’altro l’uso della forza in senso assoluto. Il ragionamento sopra esposto, intende Aristotele, spiega dunque perfettamente la questione, al punto che – quando le opposte posizioni non sono più confuse, intricate, sovrapposte, ma si sono operate le dovute distinzioni –, perdono completamente la loro forza persuasiva i discorsi di coloro che sostengono che il migliore per virtù non deve comandare ed essere padrone. Un parziale chiarimento del ragionamento potrebbe venire, come nota Schütrumpf 1991, I, pp. 279-280, dalla lettura di VII 2, in particolare di 1324b 25 ss. (ma è altrettanto vero che conosciamo la posizione aristotelica sulla schiavitù «per natura» già dal cap. 5 del libro I): chi riflette attentamente, troverà strano che il politico si occupi di reperire mezzi per sottomettere o dominare il prossimo, volente o nolente, poiché il dominare da padroni, con o senza diritto, non è mai conforme alla legge, e invece sembra che la maggior parte delle persone ritengano che il potere dispotico sia politico, anche se ingiusto. Per lo più cercano un governo giusto per se stessi, ma nelle relazioni con gli altri non si occupano della giustizia, ed è strano, a meno che non esista per natura una parte che può essere asservita e una parte che non può esserlo, e allora si dovrà cercare di dominare solo su quelli adatti ad esserlo per natura. In sostanza Aristotele conclude l’argomentazione e apre la strada alla seconda parte del capitolo: una volta che si sono posti di fronte i due ragionamenti, coloro che ancora sostengono che la superiorità per virtù non è legittimazione al comando e al dominio padronale non riescono più a persuadere nessuno, perché la legittimità della sottomis-

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sione è provata dall’esistenza degli schiavi per natura (e che il migliore sia destinato a dominare è già stato detto a 5, 1254a 25; semmai qui si aggiungono due elementi, quello relativo alla legge di guerra e quello relativo alla superiorità per virtù, ben presente al filosofo anche altrove, cfr. 13, 1260a 17; III 16, 1287b 12; VII 3, 1325b 10). 1255a 21-28 o{lw~ dÔ ajntecovmenoiv tine~... eja;n sumbhÛ` praqh`nai lhfqevnta~. In una prima fase Aristotele ha sviluppato un blocco del ragionamento: si può essere schiavi anche per legge; la legge è un accordo non paritario che in guerra prevede il dominio del più forte sul più debole, quindi una forma di violenza; da essa deriva una prerogativa, un diritto, che può essere variamente interpretato: in una forma esso è considerato illegittimo perché giustifica la violenza fine a se stessa; in un’altra è parzialmente legittimato dal fatto che la violenza sia esercitata da virtuosi, perché in fondo chi domina è inevitabilmente superiore in qualcosa. La discussione quindi verte sul diritto (il «giusto»), sull’interpretazione del nomos in termini pratici: da un lato benevolenza in quanto espressione della virtù, dall’altro puro esercizio della forza. Aristotele sembra condividere almeno in linea generale la posizione dei primi, in relazione al suo punto di vista, già ampiamente esposto, sull’esistenza di padroni e schiavi per natura, tanto che sembra dirci, pur in maniera piuttosto ellittica e oscura, che il porre in contrasto queste opinioni ha come conseguenza la convinzione della ragionevolezza della superiorità per virtù. Ora si profila un nuovo blocco argomentativo, che riprende in parte le premesse del primo, ma le sviluppa secondo un diverso orientamento: abbandonato il problema dell’esercizio della forza-violenza come effetto della legge – e appurato evidentemente che la legge di guerra è legittima solo se il vinto diventa schiavo perché il vincitore gli è superiore «naturalmente» – la discussione si concentra sul caso di una premessa errata, ovvero che la guerra sia per forza giusta, elemento prima dato del tutto per scontato. Alcuni pensano (oi[ontai) che la schiavitù di guerra sia giusta (dikaivan) perché si attengono assolutamente («verabsolutieren sie somit einen Teil von Gerechtigkeit zur Gerechtigkeit schlechthin», Schütrumpf 1991, I, p. 282) ad una prerogativa legittima (dikaivou tinov~), determinata dal nomos (lo stesso evidentemente citato all’inizio, ll. 5-6: là poi si era detto che le accuse e la discussione vertevano appunto sul diritto in quanto attuazione della legge nel caso specifico; anche qui si tratta di una conseguenza di quel nomos, che prevede che la schiavitù sia un risultato del confronto bellico) e non si pongono il problema dell’esercizio della violenza. In realtà mettono a loro volta in luce un’altra aporia, quando ammettono l’ipotesi di una guerra

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ingiusta (cfr. Hdt. VIII 22, 5; Thuc. III 39, 3; Isocr. 12, 163; da segnalare l’interpretazione di Simpson 1998, p. 42, che traduce ajrch;n... tw`n polevmwn «rule arising from war», supponendo che ad Aristotele non interessi sottolineare le cause delle guerre, ma piuttosto «what one does to the conquered after one has won rule over them»); in questo caso, chi diventa schiavo lo sarebbe illegittimamente, perché non si potrebbe dire che è schiavo uno che non sia degno di esserlo. Il senso dell’aggettivo a[xio~ è evidentemente ambiguo: siamo probabilmente di fronte ad una connotazione giuridica, data dal fatto che è ampiamente attestata una sua forte valenza tecnica nell’area del diritto, e non può essere ristretto al campo semantico del «meritare» o dell’«essere degno», che nella nostra lingua ha valore tipicamente morale – e rende pertanto molto complesso il lavoro del traduttore, in estrema difficoltà a trovare un termine rispondente al suo reale senso nel greco –; tuttavia, in base a quel che Aristotele dirà subito dopo e che ha già altrove spiegato, non possiamo presumere che sia del tutto estraneo al concetto l’elemento della predisposizione naturale. La costruzione dell’argomentazione non è molto diversa da quella iniziale, poiché si basa sullo stesso principio della validità della schiavitù di guerra: anche chi sostiene il nomos come homologia è assolutamente convinto che la schiavitù di guerra è legittima, sulla base dell’esercizio della superiorità per forza, ma vi sono persone che la condannano in quanto «spaventosa», se alla forza non sia associata la virtù. Qui la posizione sembra indifferenziata: gli stessi che ammettono la schiavitù di guerra trovano la “falla” nel ragionamento (a{ma d’ou[ fasin); ma, benché Aristotele non lo dica esplicitamente, anche in questo caso è possibile che vi sia un gruppo, tra gli «alcuni», che prevede la possibilità di una guerra ingiusta, nell’eventualità (si noti l’uso del futuro logico, con valore ipotetico; cfr. Bonitz 1870, p. 754a 55) che coloro che nell’opinione comune (con una evidente presa di distanze dall’oggettività del fatto da parte di Aristotele) sono «di nobile ascendenza» siano venduti come schiavi. Schütrumpf 1991, I, p. 283 fa notare l’incongruenza della locuzione ejk douvlwn, poiché i discendenti di nobili non possono essere definiti schiavi: l’espressione va tuttavia considerata nel contesto dell’evento bellico, nel quale l’espressione può fare riferimento alla deportazione di massa di una popolazione, non solo quindi ai singoli prigionieri di guerra. La contraddizione evidenziata da Aristotele sta nell’illegittimità della condizione di questi schiavi, nobili e provvisti in maggior misura «di un qualche bene», e pertanto dotati di superiorità «naturale» e di conseguenza non «degni» di essere comandati. Su questi temi cfr. Cambiano 1987, pp. 33-37; Kraut 2002, p. 278.

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Va notata la precisione della formula aristotelica praqh`nai lhfqhvnta~: divengono schiavi perché, una volta catturati, vengono venduti. Non si tratta pertanto di semplici prigionieri di guerra, con tutto ciò che lo status comporta (Ducrey 1999, p.120), ma di vere e proprie merci, secondo la concezione tipica della schiavitù di modello ateniese (Garlan 1982, p. 43). 1255a 28-32 diovper aujtou;"... tou;" me;n pantacou` douvlou" tou;" dÔ oujdamou`. La soluzione di questa seconda aporia è quella di limitare la possibilità di essere schiavi solo a coloro che non possono essere altro che schiavi, ovvero i barbari, giacché nell’opinione comune è lo stesso «essere barbaro ed essere schiavo» (2, 1252b 9). La necessità di astenersi dallo schiavizzare Greci è espressa chiaramente anche da Platone (Resp. V 469b-c), che sottolinea invece che i Greci dovranno piuttosto volgersi ai barbari (cfr. anche Eurip. IA 1400-1401: barbavrwn d ∆ {Ellena~ a[rcein eijkov~, ajll’ ouj barbavrou~, mh`ter, JEllhvnwn. To; me;n ga;r dou`lon, oiJ d’ ejleuvqeroi), ma va invece sottolineato che Aristotele non esclude mai esplicitamente la possibilità di schiavitù dei Greci, che tuttavia non ritiene opportuno discutere in linea teorica, giacché si trattava evidentemente di una situazione estremamente rara anche nell’esperienza storica concreta (ma cfr. II 9, 1269 36). In sostanza dunque tutta la discussione sulla legittimità della schiavitù di guerra è alla fine scopertamente riportata alla definizione aristotelica di «schiavo per natura» (cfr. 5, 1255a 1-3; con ejx ajrch`~ si indica evidentemente l’inizio della sezione, forse di un logos sulla schiavitù), alla quale la schiavitù «per legge», nella sua retta interpretazione, non rappresenta una forma alternativa: solo i virtuosi, in quanto superiori per natura, possono rendere schiavi i vinti; solo i barbari, in quanto schiavi per natura, possono essere privati della libertà; si noti tuttavia che Aristotele, nell’identificare lo schiavo per natura, non ha mai parlato di barbari, ma ha sempre e soltanto fatto riferimento a caratteristiche tipiche dell’anima. Il collegamento della schiavitù con l’essere barbaro è pertanto solo un corollario della definizione aristotelica, che evidentemente giustifica l’opinione comune (bouvlontai levgein, l. 29) e l’osservazione della realtà: i Greci non saranno mai schiavi, in quanto superiori per natura, e i barbari lo saranno sempre. 1255a 32-1255b 4 to;n aujto;n de; trovpon... ouj mevntoi duvnatai. Il concetto della naturalità vale per la schiavitù – dalla parte quindi dell’oggetto del dominio – ma anche per la nobiltà di nascita – dalla parte del dominatore: i Greci si considerano nobili dappertutto (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 283: la validità universale è associata anche al-

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trove – p. es. in EN V 10, 1134b 19; 1135a 1 – alla naturalità), ma ritengono nobili i barbari solo limitatamente alla loro patria, quasi presumendo l’esistenza di una libertà e di una nobiltà assolute (ajplw`~) e di una libertà e nobiltà relative. Nobiltà e nascita libera appaiono dunque associate in relazione alla condizione naturale, ma apprendiamo anche dal libro III (13, 1283b 16-17: la nobiltà consente di poter godere di maggiori diritti politici; cfr. commento al passo) che la nobiltà di nascita rappresenta un livello più alto rispetto alla semplice libertà di nascita. Il tema della nobiltà, preparato fin dalla l. 27, trova a partire da questo punto una trattazione più specifica; per meglio comprendere le ragioni aristoteliche è opportuno fare riferimento al dialogo Peri; eujgeneiva~ (Sulla nobiltà), dettato probabilmente dall’interesse dello Stagirita per un tema ampiamente dibattuto nella letteratura filosofica a partire da Democrito e forse all’interno dell’Accademia, anche per le significative implicazioni politiche. Dai pochi frammenti rimastici abbiamo la prova di posizioni diversificate sulla definizione di nobiltà, come anche della soluzione aristotelica, che recupera e sintetizza diversi aspetti della nozione di nobiltà oggetto di dibattito: nei frr. 2 e 4 Ross (= Zanatta 2008, pp. 373 e 385) è detto che la nobiltà consiste nella virtù di una stirpe (ajreth; gevnou~), «intendendosi con ciò la capacità del capostipite di generare discendenti dotati delle stesse qualità e in grado a loro volta di trasferirle alla prole» (Zanatta 2008, pp. 362-363; cfr. anche Pol. III 13, 1283a 36-37), per cui «la virtù di una stirpe, in cui consiste propriamente la nobiltà, si verifica quando in essa sia presente “un soggetto unico, di tal fatta che molte generazioni possiedono il bene che deriva da lui” (fr. 4)» (Zanatta 2008, p. 363). Si comprende allora il ruolo della nobiltà di natali come discrimine tra chi può diventare schiavo e chi no esemplificato dalla citazione dall’Elena di Teodette, che pone l’accento sull’ereditarietà della nobiltà di nascita come impedimento alla condizione di schiavitù. Aristotele formula immediatamente un’esegesi della citazione, associando la nobiltà di nascita e la libertà al possesso della virtù – in quanto nobiltà dell’anima, che dà il diritto a dominare (cfr. 1255a 20) –, la schiavitù al vizio e all’origine di basso rango (oujdeni; ajll∆ h] ajrethÛ` kai; kakiva)/ , con una distinzione attraverso tre coppie di opposti: virtù-vizio, schiavo-libero (la più significativa, al centro, accostata in chiasmo con la precedente), nobile-non nobile (a sua volta in chiasmo con la seconda). È vero che, aggiunge Aristotele, se quella dello schiavo è una condizione naturale, dovrebbe valere per essa lo stesso processo che regola la nascita di un uomo da un uomo e di un animale da un animale, o di uno buono da buoni, e questo è quel che comunemente è ritenuto giusto (ajxiou`si). Tuttavia, come si è già detto a proposito dei

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caratteri dell’anima e del corpo nel capitolo precedente (5, 1254b 32), la natura non sempre riesce nel suo intento, e accade che da uomini di nobili natali discendano altri uomini non nobili e caratterizzati dal vizio, che pertanto possono essere schiavi per natura. Ciò prova che sono le condizioni dell’anima a stabilire la differenza tra gli individui, non la semplice discendenza o la bellezza fisica: pertanto da un lato giustifica la perplessità dell’Elena di Teodette – che crede che l’origine da Zeus e Leda siano garanzia sufficiente per conservare la libertà – nel trovarsi schiava, dall’altro fornisce però la prova che la condizione di schiava dell’eroina è evidentemente motivata dalla sua mancanza di nobiltà e di virtù, in quanto adultera (cfr. Simpson 1998, p. 43). D’altra parte, come si è già detto nel cap. 5 e come testimonia il dibattito contemporaneo, echeggiato ripetutamente in Platone (Prot. 319d-320b; Alc.1 118c 7 ss.; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 285), la virtù non è semplicemente una qualità naturale, ma richiede educazione e pratica. a 36 hJ Qeodevktou JElevnh: Teodette fu retore e tragediografo del IV secolo a. C., originario di Faselide in Licia (Asia Minore), morto ad Atene e sontuosamente sepolto lungo la via sacra in direzione di Eleusi (Plut. Mor. 837c-d; Paus. I 37, 4). Difficile ricostruire la sua vita e la sua attività, soprattutto se si presta fede alla notizia di Suda (s.v. Theodektes) che distingue padre e figlio, omonimi, entrambi impegnati nell’attività letteraria. È pertanto possibile che le opere tramandate sotto il nome di Teodette appartengano a due autori diversi. Secondo la tradizione sarebbe stato allievo di Isocrate (Dion. Is. 19; Plut. Mor. 837c; Suda, s.v. Theodektes); Suda e Plutarco (Alex. 17) riferiscono inoltre che egli avrebbe ascoltato Platone e Aristotele. Divenne logografo – compositore di discorsi per il tribunale per conto di terzi – per necessità (Teopompo, FGrHist 115 F 25) e in campo retorico fu autore di un testo scolastico (in prosa o in versi) e di un epitaffio per Mausolo (morto nel 353 a.C.), composto per un agone con i più noti oratori del tempo, nel quale risultò forse vincitore (Suda). Sempre il lessico Suda e Plutarco (Mor. 837c) ci parlano della sua attività di tragediografo, che risalirebbe ad un momento successivo: secondo Stefano di Bisanzio (s.v. Phaselis) avrebbe composto una cinquantina di tragedie partecipando a tredici concorsi e risultando 8 volte vincitore (7 vittorie sono testimoniate anche dall’iscrizione che riporta i nomi dei vincitori agli agoni dionisiaci: IG II/III2 2325). Se escludiamo la tragedia dedicata a Mausolo in occasione delle celebrazioni funerarie, che peraltro ebbe grande successo (cfr. Suda e Gell. X 18, 7), la sua produzione, testimoniata dai titoli delle altre composizioni e dagli scarsissimi frammenti, dimostra un repertorio piuttosto tradizionale, molto vicino al modello

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euripideo. La prima vittoria risalirebbe ad un periodo compreso tra il 372 e il 360; nel 334 era già morto (non da molto), e Alessandro poteva rendere omaggio alla sua statua nell’agora di Faselide. Plutarco (Alex. 17, 9) ci riferisce inoltre che la reverenza del condottiero verso il letterato derivava anche dalla comune frequentazione di Aristotele; Suda precisa che egli morì a 41 anni mentre il padre era ancora in vita. La difficoltà di coniugare una vita così breve con l’ampio numero di opere a lui attribuite e con la formazione presso Isocrate, l’amicizia di Alessandro e la frequentazione di Aristotele spinge senz’altro a ritenere che esistessero due Teodette, padre e figlio, entrambi compositori di opere letterarie (Weißenberger 2002, col. 311). Non è però possibile distinguere la paternità delle singole opere tramandate sotto il nome di Teodette; nessuna notizia aggiuntiva ci risulta in particolare sull’attività di tragediografo, mentre resta ancora aperta la questione della Teodettea (una sorta di manuale di retorica), attribuita da alcuni rami della tradizione ad Aristotele, che la cita nel III libro della Retorica e che raccolse forse il materiale non pubblicato dall’amico (Vottero 1994, pp. 109113). La ricostruzione dell’attività letteraria di Teodette prova così ulteriormente il legame che lo univa al filosofo. Quale che sia la giusta interpretazione da dare alle figure storiche a nome Teodette, la vicinanza di Aristotele, in quanto contemporaneo, è ulteriormente provata dalla citazione dei versi della tragedia nella Politica (F 3 Nauck2/ Snell); Teodette è l’unico contemporaneo – e non sappiamo neppure quanto famoso – a conquistarla, accanto a nomi ben più prestigiosi, quelli di Omero, Esiodo, Euripide, Sofocle. Dell’Elena – ammesso che Aristotele si riferisse al titolo della tragedia e non indicasse semplicemente il personaggio che pronunciava i versi – non ci rimane alcun altro frammento certamente attribuibile: la vicenda è verosimilmente da collegare a quella delle Troiane di Euripide (cfr. Eurip. Tr. 1106, jIliovqen o{te me poludavkruton / JEllavdi lavtreuma ga`qen ejxorivzei; le Troiane nel III stasimo chiedono giustizia divina su Menelao che le ha condotte schiave lontano dalla loro terra); qui possiamo intravedere Elena presa prigioniera dai Greci dopo la caduta di Troia e ridotta in servitù (Xanthakis-Karamanos 1980, p. 66). L’eroina invoca la propria discendenza divina da Zeus e Leda respingendo la possibilità di essere chiamata schiava (lavtri~ è termine consueto nei tragici). Secondo la ricostruzione di Xanthakis-Karamanos 1980, p. 66 (sulla base anche di un altro frammento forse riconducibile alla stessa tragedia, il F 10 Nauck2/Snell ap. Stob. III 10, 8 dove si riconosce un agon a tre voci, sul tipo dell’apologia di Elena ai vv. 914-965 delle Troiane), Teodette mette in bocca all’eroina una requisitoria contro l’accusa rivoltale da un

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altro personaggio, forse Menelao, e alla presenza di un terzo personaggio non identificabile, dimostrando così la familiarità con i temi tragici della tradizione del V secolo e la conoscenza delle tecniche retoriche, oltre che l’abilità nell’uso letterario dell’“eloquenza retorica”. 1255b 4-15 o{ti me;n ou\n e[cei... ajlla; kata; novmon kai; biasqei`si, toujnantivon. Quest’ultima parte del capitolo dimostra che si sta chiudendo un segmento della trattazione; viene infatti cursoriamente riassunta l’argomentazione sulla schiavitù (capp. 4-6), ma in ordine inverso, partendo cioè dalle conclusioni appena tratte per arrivare alle premesse – che in realtà rappresentano già la conclusione del ragionamento – del capitolo 4. Aristotele prende le mosse dalla discussione adombrata all’inizio di questo capitolo (ajmfisbhvthsi~): essa trova la sua ragion d’essere nel fatto che non c’è una distinzione netta tra schiavi per natura e liberi, ma vi sono alcuni che sono schiavi solo in virtù dell’interpretazione del diritto di guerra, e pertanto non dovrebbero esserlo (6, 1255a 3 ss.). Quando invece la relazione padrone-schiavo sia disposta ed esercitata secondo natura, la condizione dello schiavo e del padrone è giusta e utile (5, 1255a 3): lo schiavo infatti è parte animata, ma separata, del corpo del padrone (4, 1253b 32, 1254a 14-17), ed entrambi, in quanto parte e tutto, corpo e anima, traggono giovamento dalla loro relazione. Si noti che qui vengono sintetizzati e combinati alcuni aspetti già evidenziati, ma separatamente, nei capitoli precedenti a proposito del padrone e dello schiavo: nel cap. 4 si era parlato dello schiavo come possesso e come «strumento» nelle mani del padrone, senza però toccare l’argomento del vantaggio eventualmente procurato allo schiavo dal suo ruolo; nel cap. 5 poi Aristotele, riprendendo l’affermazione del cap. 2 (1252a 34) aveva sottolineato il vantaggio che anche lo schiavo, per la sua naturale «deficienza» in relazione alla ragione, poteva trarre dalla sua posizione. Ma finora non si era definito in modo esplicito lo schiavo come parte (mevro~) del padrone (più precisamente del corpo del padrone; cfr. Democr. fr. 270 DK: oijkevtaisin wJ~ mevresi tou` skhvneo~ crw` a[llw/ pro;~ a[llo), che procura un vantaggio ad entrambi. Inoltre, vi è una forma di utile e di amicizia tra padrone e schiavo, ma soltanto se la loro relazione è per natura; in caso contrario, ovvero quando padrone e schiavo sono tali secondo la legge in base ad un rapporto di prevaricazione, il vantaggio e l’amicizia derivanti dall’utile reciproco saranno del tutto assenti e la relazione sarà caratterizzata dall’ingiustizia e dalla violenza (si noti comunque che Aristotele qui non esclude assolutamente che alla base del rapporto di schiavitù vi sia la guerra, come si vedrà nei capitoli successivi: 7, 1255b 37; 8, 1256b

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23). In effetti, non giova al padrone avere uno schiavo costretto a servire con la violenza, soprattutto se alla base della relazione c’è un’ingiustizia di fondo; ancora meno sarà possibile, in queste condizioni, un rapporto di amicizia. I commentatori hanno sottolineato l’incongruenza di quel che viene detto qui a proposito dell’amicizia tra padrone e schiavo con l’affermazione di EN VIII 13, 1161b 1-8, dove Aristotele sottolinea l’impossibilità di filiva tra padrone e schiavo (h|Û me;n ou\n dou`lo~, oujk e[stin filiva pro;~ aujtovn, h|Û d’a[nqrwpo~), ma la concede in quanto lo schiavo è un essere umano (Philem. fr. 22 Kock: ka]n dou`lo~ h|Û ti~, oujde;n h|tton, devspota, a[nqrwpo~ ou|tov~ ejstin, a]n a[[nqrwpo~ h\; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 287). Qui tuttavia la considerazione dello schiavo come parte del padrone spiega l’utilità e anche l’amicizia, poiché schiavo e padrone sono parte di un unico organismo e lo schiavo per natura, legato al padrone “anima e corpo”, non può che accettare di buon grado il proprio stato (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 287). Aristotele tuttavia lascia questo argomento senza ulteriori precisazioni, e ritornerà a farvi cenno soltanto al cap. 13 (1260a 14 ss.), parlando delle virtù dei componenti della famiglia; il filosofo aveva probabilmente in animo di riprendere e approfondire il problema della relazione tra padrone e schiavo se, ancora a VII 10, 1330a 31-33, dice di voler parlare «in seguito» (u{steron) del modo in cui si debbano trattare gli schiavi (tivna de; dei` trovpon crh`sqai douvloi~). b 7 kai; divkaion [kai; dei`]. La presenza della locuzione kai; divkaion, espunta da Ross, risulta ben più comprensibile di quella di kai; dei`, che gli editori hanno cercato di salvare in vario modo cambiando la punteggiatura, ma che non trova logica collocazione all’interno della frase. D’altra parte l’espressione riprende da vicino, nella forma e nel contenuto, la frase finale di 5, 1255a 3, oi|~ kai; sumfevrei to; douleuvein kai; divkaiovn ejstin. La forma pronominale divkaion è spiegabile inoltre alla luce dell’intera argomentazione del capitolo, che si concentra sulla legittimità di alcune prerogative che vengono fatte derivare dalla legge di guerra.

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CAPITOLO 7 CONCLUSIONI PROVVISORIE SULLA RELAZIONE PADRONE-SCHIAVO

Questo capitolo chiude una serie di anelli tematici aperti nel corso dei capitoli precedenti: 1) il più vicino, sulla distinzione per natura di schiavo-libero e schiavo-padrone, conclusosi con il cap. 6 (1255a 21; 30 ss.; b 4-9); 2) quello sulla differenza di livello dei comandati e delle tipologie di autorità, del cap. 5 (1254a 24 ss.; 1254b 2 ss.); 3) la critica a chi pone sullo stesso piano tipi di autorità diversi per specie, del cap. 1 (1252a 7 ss.); 4) l’esistenza di una scienza del padrone, la stessa di altre forme di comando, ipotizzata da «alcuni» nel cap. 3, che apre la sezione relativa alla schiavitù (1253b 18 ss.). Una vera e propria summa di argomenti, che conferisce a questo capitolo la forma di “conclusione provvisoria” e che consente all’autore di passare a trattare un nuovo argomento, anch’esso già accennato ed introdotto nel cap. 3 (1253b 2), l’oikonomia nella forma dell’arte acquisitiva. 1255b 16-20 Fanero;n de; kai;... kai; i[swn ajrchv. La despoteiva e l’ajrch; politikhv non sono la stessa cosa, come del resto non tutte le altre forme di autorità sono identiche l’una all’altra, come alcuni sostengono. Ciò risulta evidente – dal momento che è stato dimostrato nei capitoli 5 e 6 (ma cfr. anche III 6, 1278b 30-33, dove si dice che sui diversi modi di esercitare l’autorità si sono spesso fatte distinzioni nei discorsi «essoterici», cui si potrebbe fare riferimento anche qui) – dal fatto che l’una (la seconda, quella politica, che nel testo greco è quella fisicamente più vicina) si esercita su liberi per natura, l’altra su schiavi, e dal fatto che l’autorità dell’amministratore della casa è una «monarchia», il comando di uno solo, mentre quella politica si esercita su liberi e uguali. Dalle affermazioni di Aristotele in questa proposizione si possono trarre alcune considerazioni: a) non si dice che le varie forme di autorità sono tutte diverse l’una dall’altra, ma che non tutte (oujde; pa`sai) sono uguali (taujtovn) l’una rispetto all’altra; b) è quindi possibile, sembra ammettere Aristotele, che alcune di queste forme possano essere uguali tra di loro; c) l’autorità dell’amministrazione domestica (hJ me;n oijkonomikhv scil. ajrchv) è il comando di uno solo (monarciva), e pertanto abbiamo subito la dimostrazione che le due forme possono sovrapporsi, senza che si possa rilevare alcuna eccezione rispetto all’enunciato precedente. Il riferimento è senz’altro al cap. 1 e alla polemica, già innescata in quell’occasione, con «quanti credono che l’uomo politico, l’uo-

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mo regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifichino» (o{soi me;n ou\n oi[ontai politiko;n kai; basiliko;n kai; oijkonomiko;n kai; despotiko;n ei\nai to;n aujto;n: 1252a 7-9) – qui riecheggiata nel «come alcuni affermano» (w{sper tinev" fasin) –, ma al contempo al cap. 3, dove si riaffermava che per alcuni sono «la stessa cosa l’amministrazione della casa, l’autorità padronale, l’autorità politica e quella regale, come abbiamo detto all’inizio» (kai; hJ aujth; oijkonomiva kai; despoteiva kai; politikh; kai; basilikhv, kaqavper ei[pomen ajrcovmenoi: 1253b 19-20): secondo la spiegazione fornita in questo passo è inevitabile concludere che le autorità «politica» e «despotica» si differenziano per specie, dal momento che si esercitano rispettivamente su liberi (e uguali, ma non evidentemente nell’ambito dell’oikos; cfr. 12, 1259b 1-8) e sugli schiavi per natura, mentre le altre due sono in qualche modo sovrapponibili, giacché l’amministrazione domestica è una forma di monarchia. L’impressione che Aristotele stia mettendo insieme piani diversi, dal momento che per le due prime forme parla dei sottoposti (liberi e schiavi), mentre per la terza (l’amministrazione domestica) fa riferimento alla modalità di comando (nelle mani di uno solo, perché la casa è retta monarchicamente) è un falso problema: se integriamo le parti mancanti del ragionamento ci accorgeremo che in sostanza viene detto che all’interno della casa l’amministrazione non può essere una forma di autorità politica – che tra l’altro ha come carattere l’alternanza di comandante e comandato –, perché ogni casa/famiglia è retta da uno solo e questi non comanda su uguali, ma su liberi e schiavi (3, 1253b 4: oijkiva de; tevleio~ ejk douvlwn kai; ejleuqevrwn; da una diversa prospettiva III 6, 1278b 37-40; cfr. Saunders 1998, p. 45). Infine, va precisato dal punto di vista lessicale che l’uso di monarciva qui e di basilikovn e basilikhv rispettivamente nei capp. 1 e 3 non specificano tipi di comando diversi, come prova l’uso sostanzialmente sinonimico in altri passi dell’opera (p. es. 2, 1252b 20-21: pa`sa gar; oijkiva basileuvetai uJpo; tou` presbutavtou; III 14, 1285b 31-33: w{sper ga;r hJ oijkonomikh; basileiva ti~ oijkiva~ ejstivn, ou{tw~ hJ basileiva povlew~ kai; e[qnou~ eJno;~ h] pleiovnwn oijkonomiva), ma addirittura la monarciva può essere qui intesa come il tipo di comando specifico della casa/famiglia, nella forma dell’autorità di un singolo, come è indicato esplicitamente in III 14, 1285b 29-31 (pevmpton ei|do~ basileiva~, o{tan h|Û pavntwn kuvrio~ ei|~ w[n, w{sper e{kaston e[qno~ kai; povli~ eJkavsth tw`n koinw`n, tetagmevnh kata; th;n oijkonomikhvn: «una quinta specie di regno si ha quando un singolo è signore di tutto, come ogni popolo e ogni città lo è degli affari comuni, e corrisponde all’amministrazione domestica»); in realtà si specifica semplicemente che il comando sta nelle mani di una sola

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persona, e nella casa può essere esercitato in forme diverse a seconda della tipologia dei sottoposti (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 293: «sie ist keine dritte Herrschaftsform neben der despotischen und politischen, sondern in einer bestimmten Weise ein Oberbegriff beider»). 1255b 20-40 oJ me;n ou\n despovth"... tou'ton diwrivsqw to;n trovpon. Aristotele aveva già posto in rilievo nel cap. 3 (1253b 18) la posizione di coloro che affermano che quella del padrone è una scienza (ejpisthvmh), riferendosi evidentemente in primis ancora a Platone che, nel Politico già confutato all’inizio del libro, sosteneva che esiste un’unica scienza di comando, che può avere nomi diversi (259c 1-4); qui invece si assicura chiaramente che il padrone non è così chiamato in virtù di una scienza ma, come è stato spiegato nei due capitoli precedenti, in virtù di un suo carattere specifico (tw/` toiovsd’ ei\nai), come lo schiavo e il libero. Secondo il ragionamento del capitolo precedente infatti il libero – e virtuoso (cfr. 6, 1255a 21, 40) – è padrone per natura, e lo schiavo è tale per la sua deficienza congenita in relazione all’anima razionale. Anche in questo caso tuttavia la dichiarazione aristotelica non è definitiva: posto che non esiste un’unica scienza del comando, quella ipotizzata da Platone, potrebbero invece esistere una scienza del padrone e una scienza dello schiavo, legate al loro specifico ambito e al loro specifico obiettivo. Quest’ultima è del tipo di quella insegnata a Siracusa, dove uno stipendiato istruiva i servi a riguardo dei servizi domestici, ma potrebbe arrivare a comprendere un ampio ventaglio di competenze, come la culinaria, dal momento che esistono compiti di diverso tipo e di diverso grado di importanza, come dice il proverbio. La citazione della situazione siracusana, ripresa anche altrove nell’opera (I 11, 1259a 30; V 11, 1313b 25), potrebbe far pensare ad una fonte siceliota, o addirittura al racconto di Platone della propria esperienza (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 295, che fornisce come prova la citazione in Gorgia 518b 6 di Miteco di Siracusa, autore di un trattato di arte culinaria). L’istruzione dei servi di casa (pai`de~) era dunque demandata in molte circostanze ad aiutanti, essi stessi di condizione servile; prova ne sono anche Senofonte (Oec. 12, 3) e la commedia JO doulodidavskalo~, L’istruttore degli schiavi, di Ferecrate, poeta comico ateniese della seconda metà del V secolo a.C., di poco più anziano di Aristofane (frr. 43-55 K.-A.). Il loro ruolo era di insegnare i servizi abituali nella casa, ma la scienza del padrone poteva spingersi oltre, e tra le prestazioni richieste ai servi poteva essere compresa la preparazione di cibi prelibati o altre competenze diverse e di livello superiore rispetto all’ordinaria attività domestica: le opere si suddividevano quindi in «necessarie» (ajnagkai`a) e in «no-

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bili, importanti» (e[ntima), e l’insegnarle ed eseguirle creava differenti tipologie di schiavi e padroni, provando la veridicità del proverbio che rimarcava l’esistenza di schiavi e padroni di livello diverso. Il detto è riportato dal lessico Suda (s.v. prov) come esempio dell’uso di prov in sostituzione di ajntiv, «al posto di», e associato al Pancraziaste del comico Filemone (ajnti; tou` antiv. Filhvmwn PagkratiasthÛ`: dou`lo~ -despovtou: fr. 57 K.-A.). Il poeta, contemporaneo di Aristotele, era originario di Siracusa (figlio di Damon), ma divenne cittadino ateniese. Fu particolarmente longevo (visse 97, 99 o addirittura 101 anni); la sua prima vittoria sicuramente attestata è quella delle Dionisie del 327 a.C.; sappiamo che fu autore di 94 commedie, di cui rimangono 64 titoli e soltanto frammenti, per lo più in forma di sentenze (molte delle quali dall’antologia dello Stobeo). Pur contemporaneo di Menandro, fu spesso associato alla cosiddetta “commedia di mezzo”, ma in molte delle sue opere si ritrovano già i caratteri tipici della commedia “nuova”. La notizia di Suda potrebbe spingerci a collegare il proverbio all’opera di Filemone; va comunque tenuto in conto che qui Aristotele, secondo lo stile che gli è consueto, lo utilizza in un senso in parte diverso da quello presupposto da Suda, che evidentemente si riferiva al testo della commedia (cfr. Kassel-Austin, PCG VII, fr. 57: «alio sensu Arist. Pol. I, 7 p. 1255b 29 ubi prov valet “praestat”. Poteva quindi trattarsi semplicemente di un detto diffuso nel mondo greco, o ateniese; la presenza nell’opera di Filemone va comunque rilevata per almeno due ragioni: i due personaggi sono contemporanei (e Filemone ci ha lasciato un numero altissimo di espressioni proverbiali); Filemone era siracusano, e i riferimenti a Siracusa in questo passo aristotelico, più o meno scoperti, non sono affatto marginali. La scienza del padrone riguarda invece il corretto uso degli schiavi, dal momento che l’essere padrone non consiste nel saper acquisire gli schiavi, ma nel saperli usare. Nel cap. 4 (1253b 23-1254a 4) si era stabilito che lo schiavo è parte della proprietà e strumento per l’azione; ne consegue quindi che il padrone eserciterà il proprio ruolo di comando sugli schiavi attraverso l’uso di questi come strumenti. Questa scienza in realtà non ha nulla di grande né di straordinario: in sostanza il padrone deve semplicemente saper comandare – ma non obbligatoriamente saper eseguire (si veda invece III 4, 1277b 12 e Plat. Leg. VI 762e: chi non è stato schiavo non potrà essere un padrone degno di lode) – quello che lo schiavo deve saper fare. Pertanto chi può fa bene a lasciare a un sovrintendente l’incarico (Saunders 1995, p. 83 e Schütrumpf 1991, I, p. 297 rimarcano una sottile ironia nell’uso del sostantivo timhv, nel senso di «onore», per definire tale occupazione; va tuttavia rilevato che

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il termine greco è usato anche per indicare un ruolo “ufficiale”, spesso associato ad ajrchv, e potrebbe valere qui come “incarico ufficiale”, una sorta di investitura voluta dal padrone) e a dedicarsi a qualcosa di veramente grande o importante, la politica o la filosofia (cfr. VII 2, 1324a 29-32: tutti gli uomini che si distinguono per virtù praticano uno dei due generi di vita, la vita politica o quella filosofica; si veda anche II 9, 1269a 33-35: in una città ben governata ci dev’essere la possibilità della scolhv dalle necessità quotidiane; cfr. Bertelli 1983, pp. 97-129; Gastaldi 2003). L’aiutante potrà addirittura essere uno schiavo (cfr. Xen. Oec. 12-15, che parla a lungo degli ejpivtropoi ejn toi`~ ajgroi`~, e 21, 9), dal momento che deve esercitare soltanto la «scienza del padrone» – potremmo dire le doti “tecniche” di esercizio dell’autorità – e non necessariamente possedere le qualità dell’anima che caratterizzano il padrone. Per cui egli, pur possedendo e mettendo in atto la “scienza del padrone”, non si sostituirà al padrone, che resterà tale anche nei suoi riguardi (cfr. Simpson 1998, p. 45). Aristotele conclude la sezione – a parte la frase finale, chiaramente di passaggio – con una considerazione che fa da cerniera tra l’argomentazione svolta nei capitoli precedenti sulla schiavitù e quella che intende portare avanti nella parte seguente sulla proprietà: l’arte di acquistare gli schiavi, quella legittima, è altra cosa rispetto alla scienza dello schiavo e del padrone, è arte di guerra o di caccia. Dal momento che la «scienza del padrone» non riguarda l’acquisizione degli schiavi, è semplice comprendere che questa forma di arte acquisitiva si differenzia dalla precedente; inoltre, sottolineando che i mezzi per procacciarsi gli schiavi valgono solo se sono legittimi, Aristotele rimarca – e noi con lui – che il discorso che si sta per iniziare funziona esclusivamente se si accetta da un lato la validità del principio della naturalità della schiavitù (cap. 5), dall’altro il valore giuridico che ad esso è strettamente collegato e che è stato ampiamente dimostrato nel cap. 6.

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CAPITOLO 8 LA CREMATISTICA NATURALE COME VERA RICCHEZZA

Aristotele riprende il tema, introdotto già nel cap. 3 ma subito abbandonato (1253b 12-14), dell’oikonomia nel suo collegamento con la crematistica – l’arte relativa all’acquisto dei beni, cui aveva soltanto fatto cenno (per il significato del termine e del concetto cfr. sopra pp. 82-86) – e si pone una serie di questioni, anch’esse già accennate, che andrà a dimostrare nel corso della sezione successiva, comprendente i capp. 8-10: se la crematistica si identifichi con l’oikonomia, se ne sia una parte o rappresenti una specie a sé, se abbia una natura differente da questa, se l’agricoltura ne sia parte. Il punto di partenza dell’argomentazione tuttavia è l’analisi della proprietà in generale, che Aristotele si trova costretto a recuperare poiché, pur avendola già annunciata e introdotta nel cap. 4 (1253b 23), era stata subito lasciata da parte per dare spazio al discorso sulla schiavitù, correlato ad essa ma decisamente collaterale. Qui i due elementi trovano infine il loro punto d’incontro: il ragionamento sul possesso viene usato da Aristotele anche per giustificare il diritto al potere su coloro che per natura sono destinati ad essere comandati. 1256a 1-19 O { lw~ de; peri; pavsh~ kthvsew~... ejpimevleia kai; kth'si". Il discorso sullo schiavo, che è solo parte della proprietà (cfr. 2, 1253a 16; 4, 1253b 32), è ormai esaurito. Ora, con il solito metodo (cfr. 1, 1252a 18, kata; th;n uJfhghmevnhn mevqodon) – quello della divisione, che permette tramite l’induzione di arrivare alla risoluzione dei quesiti iniziali; in questo caso dallo schiavo, parte della proprietà, alla proprietà in generale –, Aristotele si propone di indagare la proprietà nella sua interezza e l’arte di acquisirla. Le questioni a questo riguardo sono ancora in parte le stesse del dibattito riportato nel cap. 3 (1253b 11-14): la crematistica coincide con l’amministrazione domestica (1a) o ne è una parte (1b)? Ma qui Aristotele aggiunge un corollario: la crematistica può in alternativa essere al servizio (uJphretikhv) dell’oikonomia? E in che modo, in quanto arte che provvede gli strumenti (o[rgana) – come l’arte di fabbricare le spole per la tessitura – o arte che provvede la materia (u{lh, la sostanza con cui si realizza l’opera finita) – come la metallurgia per la statuaria? Come dimostrano gli esempi della tessitura e dell’arte statuaria – piuttosto estranei alla nostra esperienza, ma senz’altro molto vicini a quella dei contemporanei di Aristotele (per i possibili collegamenti di questo passo con il Politico di Platone, 281a

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ss., nel quale la metafora della tessitura è centrale e non mancano i riferimenti alla metallurgia, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 302-303) –, vi sono arti sussidiarie che risultano, in modi diversi, essenziali alla pratica dell’arte maggiore; pertanto la crematistica potrebbe avere lo stesso ruolo nei riguardi dell’amministrazione domestica e, sulla base anche di quel che si è detto della scienza del padrone nel capitolo precedente, si potrebbe dedurre che l’acquisizione dei beni possa essere delegata ad altri (cfr. Saunders 1995, p. 84). La risposta alla prima parte del primo quesito (1a) viene data immediatamente: «è chiaro» che amministrazione domestica e crematistica non sono identiche, dal momento che la crematistica ha il compito di procurare i beni e l’oikonomia di usarli (una techne quindi non può avere due funzioni), e ciò risulta in parte anche da quel che Aristotele ha già in qualche modo anticipato alla fine del capitolo precedente (7, 1255b 32-33) a proposito del padrone nella sua relazione con lo schiavo. Se si può escludere a priori una sovrapposizione totale tra crematistica e oikonomia, non è però altrettanto evidente se il procurare i beni possa essere una parte dell’usarli o se le due operazioni siano attività distinte l’una dall’altra. In relazione alla seconda parte della questione (1b), come era già accaduto nella discussione sulla schiavitù (6, 1255a 12, 17), Aristotele puntualizza invece che esiste una controversia – diamfisbhvthsin, termine piuttosto raro rispetto al più usuale ajmfisbhvthsin, usato anche nel cap. 6: per questa ragione probabilmente si è creata una errata distinzione di’ ajmfisbhvthsin, comunque inaccettabile grammaticalmente – sul fatto che la crematistica sia una parte dell’amministrazione domestica o una specie diversa di arte. Non abbiamo la prova che fosse in atto un reale dibattito sull’argomento, e non è assolutamente da escludere che l’espressione fosse genericamente usata dal filosofo come espediente per dare l’avvio al ragionamento (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 21, che traduce infatti «ist eine Frage, zu der man unterschiedliche Meinungen haben kann»). La comprensione esatta dell’argomentazione aristotelica è resa ancora più faticosa dalla costruzione del periodo che va da povteron della l. 13 a kth`si~ della l. 19, diversamente strutturabile a seconda della punteggiatura, anche se comunque non in modo risolutivo e del tutto convincente. Se facciamo riferimento alla consueta interpunzione, il problema principale è determinato dalla presenza dell’w{ste della l. 17 (cfr. Bonitz 1870, pp. 873a 31) – che introduce una proposizione consecutiva ellittica seguita a sua volta dalla interrogativa indiretta disgiuntiva ugualmente ellittica –, ma che fa difficoltà, poiché ci si aspetterebbe in quel punto una frase principale che dovrebbe rappresentare anche l’apodosi di un periodo ipotetico la cui protasi

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sarebbe costituita dalle due coordinate eij gavr... e[stai e hJ de; kth`si~... oJ plou`to~ e che nell’intero periodo non è rintracciabile. L’ipotesi di una lacuna prima di w{ste, supposta da Conring, non ha alcun riscontro nella tradizione. L’altra possibilità, quella preferita nel testo, è data dal presumere, in virtù del gavr della l. 15, che la proposizione eij gavr... e[stai non sia protasi di quel che viene dopo, ma piuttosto completi la frase precedente – cui potrebbe essere legata da un punto in alto –, con l’intento di chiarire i termini della discussione cui si è poco prima fatto riferimento. La frase successiva (hJ de; kth`si~... oJ plou`to~, nella quale la correzione di dev con ge, di Ross, perderebbe invece senso) potrebbe invece rappresentare la principale, legata chiasticamente alla proposizione precedente (crhvmata kai; kth`si~, hJ de; kth`si~... kai; oJ plou`to~); essa amplia il concetto, anticipando un argomento che diverrà centrale alla fine del capitolo e nel capitolo successivo (cfr. 9, 1257a 1: crhmatistikhvn, di’h}n oujde;n dokei` pevra~ ei\nai plouvtou kai; kthvsew~). La congiunzione w{ste manterrà pertanto il suo tipico valore consecutivo e introdurrà una subordinata priva di verbo, seguita dall’interrogativa diretta disgiuntiva anch’essa ellittica con due distinti soggetti (hJ gewrgikhv e hJ... ejpimevleia kai; kth`si~). Per risolvere la controversia Aristotele comincia con l’applicare il metodo della divisione (dividere l’intero in parti e considerarle singolarmente), come si era già proposto di fare per le parti della città (1, 1252a 17-23) e della casa (3, 1253b 1-8): tenendo presente che bisogna considerare se è compito di colui che si occupa di acquisire i beni (il «crematista») valutare da dove vengono i beni e la proprietà, Aristotele dichiara immediatamente che proprietà e ricchezza (scopriremo nel capitolo successivo che esse rientrano in due distinti tipi di crematistica) hanno molte parti, e bisogna quindi prendere l’avvio da queste, in primo luogo dall’agricoltura – e più in generale dalla cura e dal possesso del nutrimento –, per stabilire se la crematistica è una parte della oikonomia (non trova giustificazione nei manoscritti la correzione di crhmatistikh`~ in oijkonomikh`~ di Garve, accettata da Susemihl, Immisch e Dreizehnter, e da ultimo sottintesa in Saunders 1995, p. 84) o è un tipo diverso di attività. È comprensibile che Aristotele intenda partire dalla ricerca del nutrimento, che rappresenta la base di ogni aggregazione umana, come avrà modo di spiegare più avanti; l’obiettivo del filosofo è comunque quello di arrivare a dimostrare, per gradi, che, se l’agricoltura e l’approvvigionamento – in quanto forme particolari di crematistica – sono parte dell’amministrazione domestica (cap. 8) e se dunque l’approvvigionamento è parte della crematistica (e la cosa non è del tutto scontata, come si vedrà nel cap. 9), anche la crematistica

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sarà parte dell’amministrazione domestica (cap. 10). Questo percorso è affrontato nella sezione comprendente i capp. 8, 9 e 10, di cui questa prima parte è l’introduzione generale. 1256a 19-29 ajlla; mh;n ei[dh... prov" a[llhla diest`siu. La proprietà è parte della famiglia e l’arte di acquisire proprietà è parte dell’amministrazione domestica: Aristotele lo ha già detto introducendo il discorso sulla schiavitù (4, 1253b 23); giacché senza le cose essenziali non è possibile vivere e vivere bene (4, 1253b 24-25), è logico concludere che l’approvvigionamento – che serve appunto a procurare le cose essenziali – è parte della proprietà. Nell’ottica di stabilire se l’acquisizione del cibo è parte della crematistica, Aristotele – dal momento che non si può vivere senza cibo (cfr. PA I 1, 642a 7 ss. e inoltre Xen. Oec. 20, 15) – prende empiricamente le mosse dalla distinzione dei diversi tipi di nutrimento, che sono la fonte dei diversi modi di vita per animali e uomini, collocando il problema dei bioi «in un contesto rigorosamente sussistenziale» (Campese 2004, p. 155). Non vi è quindi alcuna differenza tra uomini e animali nella necessità del nutrimento (cfr. EN I 13, 1102a 32-b 12), ma è solo a questo livello minimo che si possono operare sovrapposizioni; altrove (II 5, 1264b 4; ma cfr. invece II 3, 1262a 21) critica le affermazioni di Platone nella Repubblica proprio per la scelta di istituire analogie con il mondo animale a proposito dei compiti dell’uomo e della donna nella famiglia, giacché non si può parlare di famiglia tra gli animali. Qui infatti Aristotele tratta le corrispondenze unicamente sul piano biologico, tratteggiando una sorta di etologia: partendo dagli animali selvatici – quelli domestici non possono infatti scegliere il nutrimento –, il filosofo rileva che la natura ha operato una prima diversificazione degli stili di vita sulla base della distinzione tra carnivori, erbivori e onnivori, e un’ulteriore addirittura all’interno del gruppo dei carnivori e degli erbivori, che gradiscono evidentemente tipi diversi di carni e di piante. A seconda della possibilità di procurarsi il cibo a loro più comodo e gradito (pro;~ ta;~ rJas / twvna~ kai; th;n ai{resin), essi vivono in gruppo o isolati. Esistono pertanto numerosi modi naturali di procurarsi il sostentamento, che corrispondono a diverse forme naturali di vita, legate al piacere derivante dalle tipologie di alimentazione (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 308, che collega l’affermazione aristotelica e l’uso dell’aggettivo hJduv alla “teoria del piacere” più volte citata anche nell’Etica Nicomachea). Il collegamento tra il tipo di nutrimento e le forme di vita, che apparirebbe congruente alle ricerche biologiche aristoteliche (si veda p. es. HA I 1, 488a 1, in cui si indagano le differenze tra gli animali, determinate anche, ma non esclusivamente, dalla forma

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di vita e dal tipo di alimentazione, ed inoltre VIII 1, 588b 4 ss., dove le attività e i tipi di vita vengono differenziati sulla base del carattere e del tipo di nutrimento), non è tuttavia esplicitamente presentato nelle opere dedicate a questo argomento (caso particolare HA IX 1, 608b, dove si parla però di quantità e non di tipo di nutrimento; va rilevata tuttavia la dubbia autenticità del libro, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 307). L’assenza di tali concetti nelle opere biologiche – come la differenza di terminologia per indicare concetti simili (p. es. zw/ofavgo~ vs. sarkofavgo~) – porta a ritenere che la prospettiva aristotelica in questo passo della Politica, pur apparentemente biologico-etologica (in forma comunque semplificata, in relazione al punto focale del ragionamento aristotelico), sia invece piuttosto antropologico-etnologica (Schütrumpf 1991, I, p. 308; Longo 1988; Id. 1989). 1256a 29-1256b 7 oJmoivw" de; kai; tw'n ajnqrwvpwn... tou'ton to;n trovpon diavgousin. Aristotele procede sostenendo che lo stesso discorso vale per gli uomini (per l’analogia animale-uomo cfr. anche 5, 1254b 10): i loro stili di vita si distinguono in nomadi, cacciatori e agricoltori. La causa del loro modo di vivere, tuttavia, non dipende, come per gli animali, esclusivamente dal tipo di nutrimento ricercato e soprattutto dal piacere prodotto da tale alimentazione, bensì anche da fattori interni, come il carattere e la comodità nel procurarsi il cibo (cfr. anche 9, 1257a 31 ss.), o esterni, per esempio il luogo di insediamento (cfr. Campese 2005, p. 9: «la classificazione privilegia il momento della forma sociale, culturale, indissociabile dalla connotazione etica»). I nomadi, classificati come «pigri», vivono nell’ozio (scolavzousin; siamo qui in presenza di un’accezione generica del termine, che altrove nell’opera, a partire dal II libro, sarà usato in un senso più “tecnico” nell’ambito della scienza politica) e traggono il sostentamento dagli animali domestici (in questo caso le greggi), che seguono nel loro peregrinare alla ricerca del cibo, praticando una sorta di «agricoltura vivente» (sul collegamento tra pastorizia e agricoltura a livello di demos cfr. VII 4, 1319a 19). I cacciatori trovano il nutrimento con il brigantaggio o la pirateria, praticate per procurarsi i beni di prima necessità e non evidentemente per rivendere la merce (non occorre comunque assolutamente presupporre che qui Aristotele intenda fare riferimento anche alla “caccia allo schiavo” e tanto meno al cannibalismo; cfr. Simpson 1998, p. 48 e nn. 63-64), con la pesca (se abitano in un’area che la favorisca) o con la caccia di uccelli o animali selvatici; gli agricoltori rappresentano la maggior parte del genere umano e vivono dei frutti della terra e delle piante coltivate.

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Questi modi di vita, sintetizzati poi in numero di cinque – da nomade, da brigante, da pescatore, da cacciatore, da agricoltore, con la distinzione di brigantaggio e pesca dalla caccia, di cui invece appena sopra (a 36-37) erano considerati tipologie –, sono accomunati dall’autonomia nel procurarsi il nutrimento (a 40: aujtovfuton e[cousi th;n ejrgasivan), senza bisogno di ricorrere al commercio o allo scambio (ajllaghv e kaphleiva: nel capitolo seguente, 9, 1257a 15-20, Aristotele comincerà col dire che il commercio al minuto all’inizio era cosa del tutto diversa dalla crematistica, poiché gli scambi si realizzavano solo per soddisfare bisogni elementari, ma accomunerà poi entrambi i modi di acquisto, criticandoli per il fatto che in certe condizioni possono diventare innaturali; sul significato di questi concetti anche in relazione alla posizione platonica cfr. Maffi 1979, pp. 166-170); anche il brigantaggio, pur non fornendo direttamente il nutrimento, può essere assimilato alle altre tipologie perché «forma di appropriazione diretta, in quanto non ricorre al passaggio intermedio della permuta» (Campese 2004, p. 157). In sostanza, la maggior parte degli uomini può vivere, guidata dalla naturale necessità del cibo, di ciò che la natura offre spontaneamente, ma attraverso l’uso dell’arte caratteristica del proprio modo di vivere: non si tratta infatti della descrizione di un’età dell’oro (cfr. anche Xen. Mem. IV 2, 10: gli dèi hanno fornito agli uomini gli animali, perché ne traessero guadagno nei modi più disparati). Per vivere in maniera «confortevole» (hJdevw~; sul collegamento di hJduv con la teoria del piacere di Eudosso, secondo cui il piacere è il bene, citata in EN X 2, 1172b 9 ss. cfr. n. precedente) talvolta non è sufficiente praticare un unico stile di vita, poiché esso non possiede evidentemente tutti i mezzi in grado di garantire la completa autosufficienza: alcuni allora al bisogno “mescolano” generi di vita diversi – per esempio nomade e da brigante, agricolo e da cacciatore – per completarne uno che presenta qualche carenza. Le diverse forme di vita pertanto non rappresentano gradi diversi di evoluzione culturale (elemento del resto rilevabile anche a proposito dei vari tipi di comunità del cap. 2), come provato per esempio dall’assenza di riferimenti alla tipologia dei raccoglitori, già nell’antichità riconosciuta propria delle forme di vita meno evolute (es. Democr. fr. 68 B5 DK); sebbene Aristotele eccezionalmente in VII 10, 1329b 14 ss. fornisca un esempio di evoluzione – si tratta del passaggio degli Enotri da popolazione nomade a popolazione contadina, ma in una contesto di tipo storico, con un esplicito riferimento alla tradizione –, la prospettiva qui adottata è sincronica e non evolutiva, e non contempla stili di vita che non trovano riscontro nella società più o meno contemporanea ad Aristotele (Campese 2004, p. 158). Questi modi di vita si collocano

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evidentemente su un diverso piano anche rispetto alla distinzione tra bioi operata nel libro VII (2, 1324a 25 ss.), giacché non sono relativi all’uomo in quanto padrone di casa, ma al modo di vivere dei membri all’interno della casa/famiglia; per questo motivo il ragionamento può essere in parte applicato anche all’ambito più vasto della polis (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 307). a 40 Riferimenti all’agricoltura come prioritario mezzo di sostentamento per l’uomo si ritrovano anche nel cap. 11 (1258b 12-22), dove vengono rapidamente elencate le cose che un agricoltore deve saper fare – con una citazione esplicita delle fonti, anche se dei trattati sull’agricoltura di Caretide di Paro e Apollodoro di Lemno nulla ci è giunto – e che rientrano nella crematistica propriamente detta (capacità di acquistare cavalli, buoi o pecore, coltivazione dei campi, cura dei boschi, allevamento degli animali, attività mercantile) e inoltre nel IV libro (4, 1290b 40), dove all’interno dell’elenco delle parti costituenti la città gli agricoltori hanno il primo posto, seguiti dagli operai e dai mercanti. 1256b 7-26 hJ me;n ou\n toiauvth kth'si"... divkaion tou'ton o[nta to;n povlemon. Artefice della possibilità per tutti (uomini e animali) di procurarsi il nutrimento (che, si ribadisce, è una forma di possesso e va ottenuto con i mezzi propri delle arti a disposizione a seconda delle forme di vita) è dunque la natura, che lo consente non solo – come è stato spiegato poco sopra – quando gli esseri viventi hanno ormai raggiunto il proprio completo sviluppo, ma anche al momento della nascita, quando i nuovi esseri non sono ancora in grado di procurarsi da soli il sostentamento. Con un chiaro intento classificatorio, Aristotele propone l’esempio di quelli che partoriscono larve, gli ovipari e i vivipari (cfr. HA IV 11, 537b 28 ss. ed inoltre GA II 1, 732a 25 ss. e 733b 28; III 2, 752b 26 ss. e 753a 34 ss.), che producono la sostanza «chiamata latte» per nutrire i loro nati fino ad un certo punto della vita (cfr. le evidenti somiglianze di GA III 2, 752b 26 ss.). La natura dunque fa in modo che animali ed esseri umani non solo facciano uso di mezzi già disponibili – legittimando pertanto i metodi che gli uomini adottano per procurarseli –, ma ne producano essi stessi per il nutrimento dei nuovi nati. Pertanto, per questi nuovi esseri, i mezzi di sostentamento prodotti dagli adulti sono proprietà per natura esattamente come il cibo che gli altri si procurano quotidianamente. La capacità dell’uomo di procurarsi autonomamente il nutrimento accomuna l’uomo, per concessione della natura, agli altri animali, ma «è chiaro» che tutto ciò che è collegato a questa capacità è fatto per l’uomo, che sta dunque al vertice degli esseri viventi e ne rap-

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presenta, in relazione al sostentamento, il fine (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 313, che parla di «anthropozentrische Teleologie», riferibile ad una concezione più arcaica ma presente in una forma simile anche in Xen. Mem. IV 3, 10; in Aristotele però la considerazione dell’uomo come vertice degli esseri viventi non presuppone una teleologia “esterna”): le piante esistono per gli animali – compreso l’uomo –, gli altri animali per l’uomo, gli animali domestici per l’uso e l’alimentazione dell’uomo, la maggior parte di quelli selvatici per cibo, vesti e come strumenti d’altro genere utilizzati dagli esseri umani: è la cosiddetta scala naturae presente in molti scritti biologici, nei quali però la visione teleologica esterna è del tutto assente o diversamente interpretata (p. es. HA I 1, 488a 1, in cui si indagano le differenze tra gli animali, determinate anche, ma non esclusivamente, dalla forma di vita e dal tipo di alimentazione; ed inoltre VIII 1, 588b 4, dove le attività e i tipi di vita vengono differenziati sulla base del carattere e del tipo di nutrimento; PA IV 5, 681a 12; IV 13, 696b 27; Schütrumpf 1991, I, p. 313; Campese 2004, p. 156). Si tratta tuttavia soltanto di una questione di prospettiva; il punto di vista aristotelico in questo momento è quello dell’essere umano, ma è evidente dai suoi interessi biologici – usati qui al solo scopo di legittimare l’accostamento (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 312) – che piante ed animali possono essere considerati di per sé e non solo in funzione degli esseri umani, e in funzione di questi solo nella misura in cui concorrono alla loro autosufficienza (cfr. Simpson 1998, p. 49 n. 65 contro la posizione di chi deduce da questo passo che, dal momento che la natura ha fatto tutto il resto per gli uomini, potrebbe essere naturale per gli uomini accumulare ricchezze senza limiti, cosa che viene invece negata subito dopo). Lo scopo del filosofo è riaffermare che, se la natura non fa nulla di incompleto e non agisce invano, nella prospettiva teleologica che ne caratterizza l’opera è «necessario» che faccia tutto per l’uomo. L’associazione animali-uomo garantisce quindi la naturalità della forma di acquisizione fin qui tratteggiata (Campese 2005, p. 10). La conclusione del ragionamento (b 23-26) riporta il discorso da un piano puramente biologico o antropologico al piano filosofico: l’arte della caccia è una parte dell’arte della guerra (diversamente Newman 1887, II, pp. 177-178, che intende aujth`~ di b 24 riferito a kthtikhv e non a polemikhv), l’arte della guerra è per natura una parte dell’arte acquisitiva (kthtikhv), da praticare (anche in questo caso Newman 1887, II, p. 177 collega hÊ| all’arte acquisitiva e non all’arte della guerra) contro quegli uomini che, pur destinati naturalmente ad essere comandati, non vogliono esserlo. La guerra giusta per natura sarà pertanto quella

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che ha tale obiettivo. Aristotele approfitta della conclusione provvisoria del ragionamento per inserire questa considerazione, che in qualche modo fornisce ulteriori chiarimenti alla sezione sulla schiavitù terminata nel capitolo precedente, e allarga il discorso a comprendere tra i mezzi al servizio dell’uomo gli schiavi per natura. In sostanza, esclusa – o risolta – ormai la questione della schiavitù per legge o per accordo, Aristotele torna a ribadire che il problema della schiavitù è da riportare all’«essere per natura» dello schiavo; la sua cattura è pertanto configurabile come caccia, attraverso la guerra, di uomini destinati ad essere comandati per divenire parte della proprietà del padrone (l’associazione tra pirateria/brigantaggio, attività bellica e acquisizione di schiavi è presupposta anche da Plat. Soph. 222c; il dialogo platonico è più volte riecheggiato in questo capitolo). La riflessione sul fatto che la cattura degli schiavi possa rientrare nell’acquisizione del sostentamento o dei mezzi di vita è funzionale al discorso: l’oikos non può definirsi «perfetto» e pertanto raggiungere la soddisfazione dei bisogni quotidiani (fine della comunità familiare, cfr. 2, 1252b 12) senza tutti i propri elementi, e quindi senza schiavi (il cui ruolo di strumenti, già rilevato in 4, 1254a 14, consente al padrone di dedicarsi all’attività politica, come sarà detto più avanti). La nuova prospettiva con cui Aristotele affronta l’ultima parte del capitolo, che ha funzione preparatoria del nucleo centrale dell’argomentazione che leggiamo nel capitolo successivo, segna anche un interessante mutamento lessicale con l’uso di kthtikhv (termine conosciuto solo dalle 15 occorrenze in Plat. Soph. 219-226 e 265a, dove viene marcata anche la differenza tra il produrre, affidato ai contadini, e il procurarsi il cibo, legato a caccia e scambio) al posto di crhmatistikhv (altro termine platonico, vd. Introduzione): non è possibile distinguere in maniera netta il senso che Aristotele intende qui attribuire a ciascuno dei due termini (generico e positivo il primo e specifico ma negativo il secondo?), ma è evidente che l’autore intende segnare uno stacco – che avrebbe potuto fungere da introduzione alla sezione fatta cominciare con il cap. 9 invece che da conclusione dell’8, come tradizionalmente stabilito dagli editori – rispetto al senso attribuito all’acquisizione, che era intesa fino a questo punto come «procurarsi beni materiali (crhvmata) per il sostentamento» e che nel senso di crematistica assumerà poco oltre il valore del tutto negativo di «arte di accumulare indiscriminatamente denaro». Cfr. sul tema Maffi 1979, pp. 166-168, con l’interessante paragone con l’uso di Platone nel Sofista; Venturi Ferriolo 1983, pp. 59-62; Schütrumpf 1991, I, p. 301; Höffe 2005, pp. 104-105 e 326; si veda inoltre sopra, pp. 82-86.

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1256b 26-31 e}n me;n ou\n ei\do"... ejk touvtwn ei\nai. Aristotele dà una prima risposta al quesito iniziale: solo una specie di arte acquisitiva (kthtikhv) è parte per natura dell’amministrazione domestica, quella che (o{: non vi è ragione di correggere il testo tràdito, come ha ritenuto necessario la maggioranza degli editori, ma è fuori di dubbio che fa difficoltà la presenza del pronome femminile aujthvn, da riferire all’oijkonomiva) si deve praticare o mettersi nelle condizioni di poter praticare per accumulare i beni necessari alla vita e utili alla comunità della polis e della famiglia. La vera ricchezza è pertanto quella che consiste in questi beni «necessari e utili». Il passaggio dal sostentamento alla ricchezza indica allora «l’emergere della dimensione economica propria del cittadino, il soggetto politico ed etico»; egli può raggiungere la vita buona solo attraverso la tranquillità economica, che gli consente di ottenere quel tempo libero (scolhv) che è il presupposto per la «vita politica» (Campese 2005, p. 10). La proprietà deve essere limitata a quanto basta per garantire l’autosufficienza (1256b 4) della famiglia (cfr. 2, 1252b 12-15) e della città per raggiungere la vita buona (cfr. III 9, 1280b 39-1281a 2: «il vivere bene è il fine della città, comunità di genti e di villaggi che conducono una vita perfetta e autosufficiente, cioè, come diciamo, una vita bella e felice»). Se quindi la proprietà appartiene alla famiglia per natura, perché ha a che fare con ciò che serve a soddisfare i bisogni elementari, l’arte di acquisire proprietà deve appartenere per natura all’amministrazione domestica; questa considerazione verrà sviluppata adeguatamente nel cap. 10. Il riferimento alla comunità politica è invece evidente in quanto la famiglia è l’elemento basilare per la sopravvivenza della polis e pertanto il procurarsi il sostentamento quotidiano diviene fondamentale non solo per vivere, ma anche per vivere bene, fine della comunità politica (2, 1252b 29-30); come sottolinea Schütrumpf (1991, I, p. 300); il passaggio dalla dimensione della famiglia a quella dello stato in relazione ad un tema (come quello del possesso in questo caso) è molto raro nel primo libro della Politica. Va rilevato tuttavia che Aristotele resta qui sul piano teorico, e non chiarisce concretamente in che cosa consistano i beni di base necessari; se volessimo stabilire un collegamento tra i generi di vita della prima parte del capitolo e questo discorso sull’acquisizione di ciò che serve a garantire sopravvivenza e nutrimento, ne risulterebbe il quadro di una società piuttosto arcaica, popolata di uomini che cercano nell’ambiente circostante i mezzi di vita, un affresco che stride però con il riferimento ad una tipologia di famiglia ben strutturata in tutti i suoi aspetti e alla polis.

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1256b 31-39 hJ ga;r th'" toiauvth" kthvsew"... kai; di∆ h}n aijtivan, dh'lon. La vera ricchezza – insieme degli strumenti degli amministratori e dei politici (b 36: ojrgavnwn plh`qov~ ejstin oijkonomikw`n kai; politikw`n; cfr. 4, 1253b 31: hJ kth`si~ plh`qo~ ojrgavnwn ejstiv) – consiste pertanto nell’acquisizione dei mezzi sufficienti alla comunità per vivere bene (prodotti dell’agricoltura, animali e schiavi) ed ha un limite ben definito, dato dalla limitatezza degli strumenti di cui si serve l’arte dell’acquisizione e dal raggiungimento dell’autosufficienza che ne è il fine; si noti tuttavia che l’autosufficienza è possibile solo nella polis, e soltanto al suo interno evidentemente anche la casa/famiglia può esercitare la sua vera funzione economica (cfr. 2, 1252b 28 ss.); l’interesse di Aristotele in questo punto non sembra tuttavia concentrarsi sulla presunta inconciliabilità di quel che viene qui sostenuto con le affermazioni del cap. 2 (Schütrumpf 1991, I, p. 320 esprime il fondato sospetto di una mancata rielaborazione di questo capitolo all’interno del complesso del libro I). Questo limite non è evidentemente perspicuo agli uomini, come dimostra il verso di Solone citato. Il ragionamento aristotelico si dipana dunque per gradi successivi: nessuno strumento di nessuna arte è illimitato per numero o dimensione; la vera ricchezza consiste negli strumenti che servono all’arte dell’amministrazione della casa e della città (per l’associazione tra i due ambiti cfr. 10, 1258a 20 e 11; 1259a 33 ss.); quindi la vera ricchezza ha strumenti senz’altro limitati per quantità e dimensione. Ora, se è chiaro dal ragionamento aristotelico che i mezzi di vita non possono essere illimitati – perché il loro limite è dato dalla natura e dal raggiungimento del fine –, non resta che domandarsi perché Aristotele senta la necessità di specificare ulteriormente che la vera ricchezza non può essere illimitata (cfr. Epic. Ratae sententiae 15: oJ th`~ fuvsew~ plou`to~ kai; w{ristai kai; eujpovristov~ ejstin, oJ de; tw`n kenw`n doxw`n eij~ a[peiron ejkpivptei: «la ricchezza naturale è limitata e facilmente raggiungibile, quella delle vuote opinioni si proietta nell’infinito»), facendo riferimento, evidentemente, all’opinione collettiva, suffragata dall’affermazione di Solone, il più autorevole testimone di una società in fieri attraversata da profonde lacerazioni. Il punto nodale risiede nel concetto di ricchezza “vera”; possiamo ritenere che nel pensiero comune la vera ricchezza sia rappresentata non dal possesso dei mezzi di vita che portano all’autosufficienza – che è invece l’espressione della teoria aristotelica –, bensì da qualcos’altro, cui Aristotele nega validità: alla luce di quel che dirà più avanti, possiamo concludere che si tratta del possesso del denaro. La ricchezza nella forma dell’accumulo di denaro

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non può essere considerata proprietà, giacché non è strumento di una tevcnh, può essere illimitata e – elemento carico di implicazioni successive –, non può condurre al vivere bene. b 32-33 w{sper Sovlwn fhsi; poihvsa~... Solone di Atene visse tra il VII e il VI secolo a. C.; arconte nel 594 a.C., fu incaricato, in qualità di mediatore, di comporre i violenti contrasti tra il demos – la parte della popolazione in condizione di subalternità politica ed economica – e gli aristocratici, detentori del potere. Egli operò anzitutto nel ruolo di legislatore, consapevole che «il superamento dei conflitti tra i gruppi contendenti poteva essere attuato solo attraverso la loro subordinazione a regole collettive e condivise, estranee a ogni dinamica di appropriazione individualistica» (Gastaldi 1998, p. 35): attraverso l’elaborazione di provvedimenti (per la prima volta ad Atene scritti ed esposti al pubblico) di carattere economico e sociale – tra i più noti l’abolizione della schiavitù per debiti e la suddivisione della popolazione in classi censitarie –, ma senza sovvertire l’assetto esistente, cercò di eliminare le cause degli scontri, non riuscendo tuttavia ad ottenere che per la polis ateniese si aprisse un lungo periodo di pace sociale. Solone fu autore anche di numerosi componimenti poetici, dei quali ci restano circa 300 versi, per lo più in distici elegiaci, in misura minore in metri giambici e trocaici, destinati all’invettiva e alla polemica politica; l’opera poetica, riservata alla circolazione all’interno dei circoli simposiali aristocratici, nasce come commento dell’azione politica, e tratta soggetti come il buon governo (eunomia), la moderazione, la ricchezza e i suoi pericoli, la giustizia (dike), oltre a temi di puro carattere simposiale (l’amore, i piaceri della tavola). L’esametro soloniano qui citato è il v. 71 del fr. 13 West, riportato dallo Stobeo (III 9, 23), ripreso da Teognide, poeta elegiaco della seconda metà del VI secolo a.C., con una variante (v. 227 del I libro delle Elegie: pefasmevnon ajnqrwvpoisin invece di pefasmevnon ajndravsi kei`tai). Se da un lato la citazione aristotelica ci prova che il filosofo aveva ben chiaro l’interesse di Solone per il problema economico (cfr. Gehrke 2006, p. 282: «Aristotle is fully aware of the economic aspects of Solon’s reforms»), dall’altro sembra dimostrare che, come in molti altri casi nel libro I, il verso è estrapolato dal contesto e caricato di un significato gnomico. Nel componimento soloniano infatti appare chiaro che l’autore intende condannare l’eccessivo affannarsi alla ricerca della ricchezza, che è portato all’estreme conseguenze anche da chi già è ricco, e procura la punizione (degli dèi o di un generico destino) contro coloro che sorpassano il limite consentito. Pertanto il ragionamento di Solone è legato al fatto che il limite concesso agli uomini per l’accu-

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mulo di ricchezza non è chiaramente indicato (pefasmevnon), non è visibile, non è stato rivelato (e invece dovrebbe esserlo, a causa dell’incapacità dell’uomo di vedere oltre il contingente e individuare il limite della ricerca della ricchezza: cfr. Lewis 2006, p. 97), e pertanto porta inevitabilmente all’eccesso, punito e frenato da un intervento esterno. La prospettiva di Aristotele è però diversa: l’uso del verso di Solone si spiega non in relazione al fatto che il limite della ricchezza non è determinato (o rivelato), elemento che appare centrale nel contesto soloniano, quanto al concetto che è la proprietà che serve per vivere bene che non può essere considerata illimitata (hJ... aujtavrkeia... oujk a[peirov~ ejstin). Il detto di Solone viene presentato in quanto contraddice la consapevolezza, che è invece aristotelica, che i mezzi capaci di procurare una vita buona non sono infiniti (ma si veda II 7, 1266b 17 ss., dove Solone viene presentato come autore di provvedimenti per limitare la proprietà terriera); Aristotele pensa che non esista nulla di illimitato, nel nostro mondo e per la scienza che abbiamo; anche nel campo dell’etica (EN II 6, 1106b 28-30) può affermare che la virtù è il mezzo, e che il male è dell’infinito e il bene è di ciò che è limitato. Tuttavia quel che interessa qui ad Aristotele è da un lato affermare il valore della crematistica naturale, che l’amministratore della casa deve conoscere (come anche colui che guida la polis; Schütrumpf 1991, I, p. 319, nota la particolarità nell’uso del termine politikov~ in questo passo e ne associa l’impiego all’esempio del Politico di Platone), dall’altro introdurre il tema del denaro, che occuperà il capitolo successivo; come si può notare da questa conclusione provvisoria, tutto il discorso aristotelico di impostazione biologico-antropologica ha come unico scopo quello di provare che esiste un’unica forma di acquisizione che può essere definita naturale.

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CAPITOLO 9 LA CREMATISTICA NON NATURALE COME ACCUMULO ILLIMITATO DI DENARO

Aristotele non può ancora dire di aver trovato soluzione definitiva al quesito iniziale del cap. 8: il fatto che l’arte acquisitiva sia parte dell’amministrazione domestica non è del tutto dimostrato, giacché l’espressione «una sola specie di arte acquisitiva è parte dell’amministrazione domestica» (e}n me;n ou\n ei|do~ kthtikh``~ kata; fuvsin th`~ oijkonomikh`~ mevro~ ejstivn, 1256b 26-27) anticipa la possibilità che esista almeno un’altra specie di kthtikhv, gevno~ a[llo kthtikh`~, quella chiamata crhmatistikhv, con cui si apre il cap. 9. Lo scopo, che Aristotele alla fine dice di avere raggiunto, è dimostrare che esistono due specie di crematistica, una necessaria, collegata all’amministrazione domestica e all’acquisizione del nutrimento, l’altra non necessaria, che porta all’accumulo indiscriminato di beni in termini monetari e ne fa il proprio unico obiettivo. Le difficoltà incontrate per arrivare a queste conclusioni vengono superate attraverso la tecnica della divisione «e cercando le differenze tra le cose e tra i loro significati per negarne (o affermarne) le somiglianze» (Cubeddu 2006, p. 7; cfr. anche Top. I 13, 109b 21 ss.). L’analisi economica qui proposta da Aristotele ha avuto un seguito che possiamo dire millenario e ha fornito la base per molte delle teorie economiche moderne; tuttavia il punto di vista qui delineato, proprio perché legato al sistema della casa/famiglia e alla questione del fine, presenta caratteri prevalentemente antropologici, socio-culturali ed etici, poco o per nulla connessi ad una visione di evoluzione storica dei sistemi economici, all’osservazione dei fatti economici in senso scientifico che sono il fondamento della maniera moderna di intendere l’economia, all’analisi del funzionamento economico della polis. 1256b 40-1257a 5 [Esti de; gevno" a[llo kthtikh'"... tevcnh" givgnetai ma'llon. L’argomentazione precedente si era conclusa con la dimostrazione che esiste un tipo di arte acquisitiva (kthtikhv) naturale, parte dell’amministrazione domestica, che si occupa dell’acquisizione di ciò che è necessario e utile alla vita e corrisponde alla vera ricchezza che, in quanto insieme degli strumenti dell’oikia, non è illimitata. Esiste tuttavia un’altra tipologia di arte acquisitiva, che viene «giustamente» (a buon diritto) chiamata crematistica, in virtù della quale

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proprietà e ricchezza sono illimitate. Dunque la crematistica cui già si era fatto riferimento nel cap. 3 (1253b 12-14) come «quarta parte» dell’oikonomia, rappresentava ancora un qualcosa di indistinto; ad essa forse Aristotele si riferiva come a una sorta di nuovo conio linguistico, un termine “moderno”, che l’autore si riproponeva di chiarire a poco a poco fino a giungere a delinearne la fisionomia in relazione a quel che rappresentava effettivamente nella realtà dei fatti e nella sua personale visione. Nel corso del cap. 8 Aristotele, senza tuttavia rendere esplicito il ragionamento, ha portato il lettore alla conclusione che non si può chiamare crematistica l’arte acquisitiva naturale, poiché essa è riferibile solo all’acquisizione di crhvmata ajnagkai`a kai; crhvsima; la prova è l’abbandono del termine a partire da 1256b 26: esso è troppo legato al parametro dei crhvmata intesi come denaro e disponibilità di mezzi in qualche modo misurabili con questo. Nell’uso comune (cfr. polloi; nomivzousi di a 2, che riproduce un modulo argomentativo già utilizzato per altri blocchi del ragionamento, ad es. 3, 1253b 12-14; 6, 1255a 7, 17-19, 22; 7, 1255b 16-18) evidentemente le due tipologie non vengono distinte linguisticamente, poiché non ci si chiede quale differenza vi sia tra loro; d’altra parte lo stesso Aristotele ammette che non vi è identità, ma parla di affinità (dia; th;n geitnivasin, a 2) e di vicinanza (ou{te povrrw ejkeivnh~, a 3). L’affinità spiega dunque perché si tenda erroneamente a sovrapporre anche crematistica e oikonomia; qui però Aristotele mette in campo, ancora prima di iniziare la dimostrazione, due dissomiglianze importanti: l’illimitatezza e la naturalità. La crematistica che punta all’acquisizione di proprietà e ricchezza senza alcun limite è dunque un modo non naturale di acquisizione, che nasce dall’esperienza (ejmpeiriva) e dall’arte (tevcnh, come capacità tecnica; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 326, che traduce «einem fachmännischen Können»; si noti la contrapposizione di ejmpeiriva e tevcnh anche in Plat. Gorg. 463c). Tuttavia si fa fatica a pensare che anche la forma naturale non sia guidata da questi criteri, poiché di essa fanno parte attività quali la pesca, la caccia, l’agricoltura, che senz’altro necessitano di esperienza e arte nel loro esercizio (ma come sostegno all’opera della natura: cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 326). Secondo Simpson 1998 (p. 51) il nodo interpretativo sta nel valore dato al verbo givvnetai, da intendere come «nasce» e non come «deriva, viene»: in questo modo si potrà sostenere che l’arte acquisitiva naturale richiede esperienza e arte per il miglioramento delle proprie prestazioni, mentre la crematistica non naturale nasce effettivamente in virtù di arte ed esperienza, in quanto si fonda sulla moneta, che non esiste per natura (cfr. anche Schütrumpf

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1991, I, p. 326), ma è frutto di invenzione umana. Non si tratta comunque, come si vedrà più avanti, di un discorso cronologico (prima i modi naturali, poi come degenerazione quelli dettati da esperienza ed arte), ma di una riflessione assiologica. Aristotele, come di consueto all’inizio di una nuova argomentazione, ha dunque posto le basi del ragionamento, di cui andrà poco a poco a smontare le parti con la tecnica della divisione per dimostrare l’assunto iniziale: per far comprendere l’esistenza di una crematistica non naturale, ritiene opportuno spiegare che essa consiste nell’accumulo illimitato di ricchezza in termini di moneta, e dunque come e perché essa è nata; ma per comprendere la moneta, nata per lo scambio dei prodotti, deve partire proprio dallo scambio, e quindi dal valore delle singole proprietà. 1257a 5-19 lavbwmen de; peri; aujth'"... poiei'sqai th;n ajllaghvn. È da quest’ultima affermazione – la crematistica non naturale trae origine da esperienza e arte – che prende l’avvio il ragionamento. L’uso di ogni proprietà può essere di due tipi (comprendiamo perché Aristotele parta direttamente dall’uso se facciamo riferimento a 4, 1254a 3, 7; 1255b 31; 8, 1256a 11-13): entrambi stanno in relazione con la cosa in quanto tale, ma in un caso si tratta di un uso proprio, nell’altro di un uso improprio; sono quelli che noi definiamo “valore d’uso” e “valore di scambio”. Perfettamente comprensibile dunque l’esempio della scarpa: calzare una scarpa o scambiarla sono usi della scarpa, in quanto in entrambi i casi la scarpa è usata in quanto tale, come scarpa, ma nello scambio (metablhtikhv) essa è usata per un fine che non è direttamente quello per cui è stata realizzata (cfr. anche 10, 1258b 4); pertanto l’uso proprio consiste nel calzarla, quello improprio nell’usarla come merce di scambio, in cambio di denaro o nutrimento. Il presupposto di questa argomentazione, secondo Cubeddu 2006, p. 8, potrebbe essere contenuto in un passo degli Analitici Secondi (I 22, 84a 11-18), nel quale si opera una distinzione tra quegli attributi di per sé (kaq’auJta; de; dittw`~), che sono tali perché servono a definire una cosa (ad esempio la pluralità rispetto al numero), e quelli, sempre di per sé, che però si possono definire solo se si chiarisce qual è la cosa già definita di cui sono attributo (ad esempio il dispari riferito a un preciso numero). Senz’altro comunque questo tipo di ragionamento è presente anche in due punti dell’Etica Eudemia: 1) III 4, 1231b 38-1232a 4, dove si sottolinea che le ricchezze e la crematistica sono espresse in due sensi: l’uno riguarda il modo di usare una proprietà in quanto tale, per esempio una scarpa o un mantello, l’altra in maniera accidentale (ma non usando il mantello come peso, per esempio), ovvero vendendola o

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lasciandola in eredità (dicw`~ de; ta; crhvmata levgomen kai; th;n crhmatistikhvn: hJ me;n ga;r kaq’ auJto; crh`si~ tou` kthvmatov~ ejstin, oi|on uJpodhvmato~ h] iJmativou, hJ de; kata; sumbebhko;~ mevn, ouj mevntoi ou{tw~ wJ~ a]n ei[ ti~ staqmw`/ crhvsaito tw/` uJpodhvmati, ajll’ oi|on hJ pwvlhsi~ kai; hJ mivsqwsi~: crh`tai ga;r hÊ| uJpovdhma); 2) VIII 1, 1246a 27-33, dove Aristotele presenta l’esempio dell’occhio, usato in quanto tale per vedere bene o male e, sempre in quanto occhio, in maniera accidentale, nell’ipotesi paradossale di venderlo o di mangiarlo ( Aporhv j seie d a[n ti~ e[stin eJkavsatw/ crhvsasqai kai; ejf∆ o} pevfuke kai; a[llw~, kai; tou`to hÊ| aujto; h] au\ kata; sumbebhkwv~: oi|on hÊ| ojfqalmov~, ijdei`n h] kai; a[llw~ paridei`n diastrevyanta w{ste duvo to; e}n fanh`nai, au|tai me;n dh; crei`ai a[mfw o{ti me;n ojfqalmov~ ejstin, h\n dæ ojfqalmw/` a[llhÊ dev, kata; sumbebhkov~, oi|on eij h\n ajpodovsqai h] fagei`n). Come si può notare, questa seconda occorrenza appare più vicina, anche se non perfettamente sovrapponibile, a quanto viene detto qui nella Politica sull’uso della scarpa come oggetto di scambio, incluso tra i suoi usi «di per sé», giacché Aristotele rileva che entrambi gli usi si configurano nella categoria kaq’ aujtov; tuttavia vi è un’ulteriore distinzione, oujc oJmoivw~ kaq’ autov, nel senso che l’uso «di per sé» può essere distinto ulteriormente in proprio e improprio rispetto alla cosa usata (hJ me;n oijkeiva hJ d’ oujk oijkeiva tou` pravgmato~). Lo scambio delineato per la scarpa funziona dunque per tutti gli oggetti di possesso (evidentemente in uno stadio già più complesso e sviluppato, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 328), e ha come presupposto il fatto, del tutto naturale, che alcuni uomini hanno di più, altri di meno di ciò che occorre loro, come apparirà chiaro dalla spiegazione successiva. Pone qualche difficoltà interpretativa invece la proposizione seguente – soprattutto in relazione all’attribuzione di fuvsei a hJ kaphlikhv o a th`~ crhmatistikh`~ –, che anticipa un nucleo argomentativo che verrà affrontato più avanti e riprende due elementi, la kaphlikhv, il piccolo commercio (o commercio al minuto), e l’ajllaghv, lo scambio, già nominati nel capitolo precedente (8, 1256a 41-1256b 1), ma mai veramente spiegati fino ad ora. L’affermazione «ne consegue che il piccolo commercio (in origine) non è per sua natura parte della crematistica, perché di necessità scambiavano quanto bastava loro» va probabilmente intesa in relazione a quel che Aristotele ha appena detto e dirà dopo (a 15; a 29 ss.). In sostanza Aristotele precisa che in origine ci si limitava allo scambio dei prodotti che servivano a soddisfare i bisogni elementari e quindi a raggiungere una naturale autosufficienza; per questa ragione il piccolo commercio non è parte per natura della crematistica in senso tecnico che, in quanto

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acquisizione di beni in termini di ricchezza senza limiti – a differenza dell’arte acquisitiva naturale, che punta all’acquisto di beni sufficienti, che rappresentano la vera ricchezza (cfr. 8, 1256b 26-31) –, non è naturale. Diversa, soprattutto per la prima parte del periodo, la posizione di Schütrumpf 1991, I, p. 24, che traduce: «Daraus geht auch hervor, daß die Erwerbsweise durch Handel nicht (mehr) von Natur ist. Denn (um die naturgemäße Versorgung mit lebensnotwendigen Dingen sicherzustellen), waren sie gezwungen, so viel zu tauschen, bis sie hinreichend besaßen»; egli per un verso collega in senso partitivo th`~ crhmatistikh`~ a hJ kaphlikhv (cfr. p. 328: «Ich sehe die Ergänzung des Prädikats ejsti in fuvsei und nicht th`~ crhmatistikh`~, was vielmehr Gen. part. bei hJ kaphlikhv ist und zum Artikel auch beim regierenden Subst.») e per l’altro conferisce a ajnagkai`on h\n il valore di indicativo in riferimento al discorso storico introdotto poco prima (diversamente da Newman, Barker, Aubonnet, che traducono la seconda parte del periodo con sfumatura ipotetica, sottolineando il carattere di necessità della conseguenza). 1257a 19-31 ejn me;n ou\n th' prwvthÊ koinwniva.Ê .. ejkeivnh kata; lovgon. Nella prima comunità (2, 1252b 10), la famiglia, lo scambio non esiste, perché tutti condividono tutto; nella comunità formata dall’unione di più famiglie, il villaggio – si noti la citazione quasi letterale di 2, 1252b 15-16: hJ dæ ejk pleiovnwn oijkiw`n koinwniva prwvth crhvsew~ e[neken mh; ejfhmevrou kwvmh – gli uomini vivono separati, e possiedono pertanto cose diverse, di cui devono operare una ripartizione (metavdosi~) a seconda delle loro carenze e dei loro bisogni (diverse le interpretazioni di questa espressione, soprattutto in relazione al valore dato a ajnagkai`on: cfr. p. es. Polanyi 1968, p. 113 che vede un obbligo di contribuzione ad un accantonamento comunitario; contra Maffi 1979, p. 165 e Schütrumpf 1991, I, p. 329, che sottolineano come Aristotele faccia riferimento al fatto che gli uomini vivono separati); essi utilizzano la forma del baratto (ajllaghv), praticata ancora anche dai popoli barbari, nuovamente prototipo di organizzazione politica primitiva (cfr. 2, 1252b 19 con commento al passo). Il baratto consiste nello scambio di cose utili (crhvsima), come vino contro grano, e non è perciò contro natura, e neppure si configura come una specie di crematistica, dal momento che mira a raggiungere l’autosufficienza per natura, che è il fine della ricchezza buona, e ha un limite naturale di soddisfazione delle necessità. Però è da questo tipo di scambio che deriva «logicamente» la crematistica. Il lettore ha ora tutti gli elementi per comprendere il discorso: al ragionamento antropologico del cap. 2 – per quel che riguarda l’evo-

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luzione delle forme di comunità, dettata dalla necessità del processo biologico e dalla naturalità, e la questione del fine – si intrecciano le conclusioni tratte al termine del capitolo precedente sull’arte acquisitiva buona, che ha lo scopo di raccogliere i beni necessari e utili e di raggiungere l’autosufficienza che porta nella polis alla «vita buona», anche se con essa in questo passo non è istituito alcun collegamento diretto. Quindi la forma di scambio qui descritta, imposta dalla necessità e dal fine proprio della comunità (crhvsew~ e[neken mh; ejfhmevrou), è naturale e non può essere confusa con la crematistica (ormai considerata in senso tecnico e deteriore), di cui però è il logico punto di partenza. 1257a 31-1257b 5 xenikwtevra" ga;r gignomevnh"... plei'ston poihvsei kevrdo". In questa sezione Aristotele delinea il passaggio dal baratto “naturale” alla crematistica vera e propria attraverso alcuni passaggi successivi: il baratto avveniva in origine all’interno della comunità, per quanto già allargata; ma quando lo scambio diretto non fu più possibile, in quanto l’importazione e l’esportazione dei prodotti doveva realizzarsi all’esterno – giacché evidentemente ciò che mancava non si poteva trovare all’interno del gruppo di famiglie costituenti la comunità ed era all’esterno che si potevano distribuire i prodotti in eccedenza – l’uso della moneta fu dettato dalla necessità (cfr. sopra a 23). La causa contingente fu il trasporto delle cose necessarie per natura (cfr. Eur. Suppl. 209, che assegna alla necessità di trasportare le merci l’invenzione della navigazione; si tratta probabilmente di un tema topico), che si rivelò complesso, e spinse quindi gli uomini a trovare modi alternativi per gestire lo scambio; si noti l’insistenza sulla soddisfazione delle necessità primarie per natura, che servirà tuttavia a comprendere il passaggio dal baratto al commercio in relazione al sorgere della crematistica. Il primo passo fu quello di dare e accettare, a titolo convenzionale, qualcosa di utile in sé, che potesse essere impiegato direttamente per le necessità della vita, per esempio un tipo di metallo più o meno prezioso. Alla base di questo tipo di scambio (ancora definito ajllaghv, cfr. b 1, b 23) stava quindi un accordo tra le parti che usava un mezzo convenzionale, ma pur sempre una merce (cfr. anche Xen. Vect. 3, 2), per indicare il valore dei prodotti e facilitare le operazioni di scambio. In questo modo era possibile scambiare beni non facilmente trasportabili, prevedendo e rispettando tempi di maturazione e moltiplicando le possibilità. Ma anche in questo vi fu un’evoluzione: se in origine il valore del metallo utilizzato era indicato dalla dimensione e dal peso, successiva-

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mente si passò ad imprimere un simbolo, un marchio, che indicava il valore e che permetteva di evitare di ripetere ogni volta la misurazione. La moneta così pensata nasce quindi in modo naturale e necessario, e non ha, almeno all’inizio, un significato negativo; esiste per facilitare lo scambio e per raggiungere quell’autosufficienza che è il fine della comunità più complessa (Aristotele ripeterà questo concetto a proposito del commercio nella polis in VII 6, 1327a 25; Schütrumpf 1991, I, p. 323 rileva inoltre come questa prassi possa essere collegata alla «mescolanza» dei generi di vita descritta in 8, 1256b 2 ss.). Sulla nascita della moneta come fenomeno storico ed antropologico in generale cfr. p. es. Lombardo 1979, pp. 75-121; Maffi 1979, pp. 161-184; Parise 2000; Meadows-Shipton 2001; Reden 2002; Seaford 2004; Faraguna 2006. Una volta entrata in uso la moneta, il passo dallo scambio «necessario» all’altro tipo di crematistica, il commercio (to; kaphlikovn), è breve: se in origine esso fu forse «rudimentale», e si limitò al trasferimento di merci utili e necessarie per il controvalore in moneta, con l’ejmpeiriva e la tevcnh (si vedano le inaspettate somiglianze terminologiche in Isocr. 2, 1) cui Aristotele assegna la scintilla per la nascita della crematistica (cfr. 1257a 4-5), il commercio puntò non più al procurarsi ciò di cui c’era necessità ma piuttosto al come ottenere un guadagno maggiore in termini di denaro (povqen kai; pw`~ metaballovmenon plei`ston poihvsei kevrdo~), perdendo di vista l’autosufficienza che era il fine dell’arte acquisitiva del primo tipo, e dando origine probabilmente ad un gruppo specializzato di commercianti, anche se non si parla esplicitamente di intermediari tra produttori o tra produttori e compratori (Schütrumpf 1991, I, p. 330). D’altra parte lo stesso Aristotele nel VII libro (9, 1328b 39) parla in termini negativi della vita del commerciante (ajgorai`o~ bivo~), ma la cattiva nomea del commercio esercitato per il guadagno e per danneggiare il compratore è provata anche dal Pluto di Aristofane (v. 1063: kaphlikw`~ e[cei, in senso deteriore) e dalle Leggi di Platone (XI 918d: dio; pavnta ta; peri; th;n kaphvleian kai; ejmporivan kai; pandokeivan gevnh diabevblhtaiv te kai; ejn aijscroi`~ gevgonen ojneivdesin); è comunque interessante notare che nello stesso passo Platone cerca di trovare dei correttivi per un giusto impiego del commercio nella città (919a-920c), e nella Repubblica (II 371a-b) inserisce mercanti e intermediari nella suddivisione dei compiti all’interno della nuova città. Pertanto appare chiaro, in particolare in questa parte del capitolo, che Aristotele aveva ben presente la situazione dell’Atene del IV secolo, oltre alla sua evoluzione economico-finanziaria (per questo aspetto si vedano Cohen 1992; Reden 1995; Cartledge 2002; Migeotte 2003).

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Va comunque notato che altrove la prospettiva adottata da Aristotele sulla questione del denaro è piuttosto diversa: in EN V 8, 1133a 18-b 28 la funzione della moneta è discussa all’interno dell’analisi delle forme del giusto e in particolare della giustizia reciproca o commutativa. La moneta è intesa nell’Etica come fondamentale per la costituzione della società – problema a cui in questo passo della Politica non si fa cenno (ma Schütrumpf 1991, I, p. 332 vede addirittura una contraddizione con l’enfasi qui data al commercio “straniero”) –, perché essa è un mezzo per rendere commensurabile tutto ciò che può essere scambiato, un mezzo tra la necessità del compratore e quella del venditore (dio; pavnta sumblhta; dei` pw~ ei\nai, w|n e[stin ajllaghv. ejf’ o} to; novmisma ejlhvluqen, kai; givgnetai pw~ mevson: pavnta ga;r metrei`, w{ste kai; th;n uJperoch;n kai; th;n e[lleiyin, povsa a[tta dh; uJpodhvmata i[son oijkiva/ h] trofh`Ê). Dal momento che è appunto la necessità a spingere alla formazione della comunità cittadina, in questo contesto la moneta serve a valutare una misura precisa di questo scambio attraverso la proporzionalità e permette quindi di quantificare l’uguaglianza, senza alcun risvolto negativo (si noti che in questo capitolo della Politica si parla invece di necessità dello scambio). Nell’Etica dunque troviamo la conferma dell’importanza della moneta nella formazione della comunità ma, nell’ottica dell’interpretazione della giustizia, il valore d’uso e il valore di scambio vengono superati poiché il valore di scambio di una merce non è determinato dalla necessità o dalla domanda, come l’uso non è legato a questa, ma dalla posizione del produttore nel contesto sociale (Lisi 2011). La prospettiva dell’indagine sulla moneta è pertanto differente nelle due opere, soprattutto se consideriamo che il punto di vista di Aristotele è rivolto all’uso del denaro e alle sue implicazioni all’interno di forme di scambio molto diverse tra loro (apparentemente intracomunitaria nell’Etica, intercomunitaria nella Politica). La proposizione in 1257a 41-b 2, pur se chiara nel suo senso generale (dopo la nascita della moneta e in conseguenza dello scambio dei beni necessari alla vita, usando il denaro, sorse il commercio, che rappresentava un’altra specie di crematistica), presenta alcuni nodi interpretativi cui gli studiosi hanno dato differenti soluzioni: il primo riguarda l’espressione ejk th`~ ajnagkaiva~ ajllagh`~, che potrebbe essere logicamente legata al genitivo assoluto iniziale (la nascita della moneta è conseguenza dello scambio praticato per necessità, cfr. Lord 1984, p. 47) oppure alla seconda parte del periodo (dallo scambio praticato per necessità nacque la seconda specie di crematistica, cfr. Barker 1946, p. 25; Schütrumpf 1991, I, p. 335; Saunders 1995, p. 13; Simpson 1998, p. 53); il secondo concerne invece la funzione logica di to; kaphlikovn

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nella seconda parte della frase, che può essere segnalata dalla presenza o meno della virgola dopo ejgevneto («il commercio al minuto divenne una seconda specie di crematistica» – senza virgola, cfr. Pellegrin 1982, p. 639 – oppure «nacque una seconda specie di crematistica, il commercio al minuto» – con virgola, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 25; Simpson 1997, p. 28; Simpson 1998, p. 53). 1257b 5-17 dio; dokei' hJ crhmatistikh;... gignomevnwn tw'n paratiqemevnwn crusw'n. Presentando gli effetti del sorgere della crematistica, Aristotele fa notare che l’opinione comune vuole dunque che essa abbia a che fare con la moneta e quindi la sua attività principale sia rivolta a stabilire da dove si possa procurare un surplus di beni, giacché essa è produttrice di ricchezza (in termini monetari, cfr. anche EN IV 1, 1119b 26) e di beni. Non è possibile mantenere nella traduzione la relazione etimologica che lega crhmatistikhv e crhvmata (b 5-7); possiamo comunque rilevare che quest’espressione è pressoché identica a quella usata da Aristotele all’inizio della sezione relativa alla crematistica in generale, che ha portato ad individuare la ricchezza buona (8, 1256a 15-16: eij gavr ejsti tou` crhmatistikou` qewrh`sai povqen crhvmata kai; kth`si~ e[stai; in quel periodo si erano però rilevati problemi strutturali, cfr. commento ad locum): in quel caso ci si domandava se fosse compito di colui che aveva l’incarico di acquisire beni (il crematista), di indagare da dove venissero beni e proprietà; qui si riconosce che la crematistica ha il compito di ricercare da dove possa venire abbondanza di beni. Si tratta di una chiara evoluzione nel percorso esegetico aristotelico per quel che concerne l’arte acquisitiva: se il crematista del cap. 8 poteva avere l’incarico di indagare le fonti dei beni, la crematistica del 9 punta alle fonti dell’accumulo, dal momento che la crematistica è ormai intesa nel senso deteriore di «accumulo di ricchezza». Quindi è l’abbondanza di beni – e non più il procurarsi i mezzi necessari e utili alla vita (8, 1256b 28-30) – a configurarsi come ricchezza, e la ricchezza è ora intesa in termini monetari (nomivsmato~ plh`qo~), secondo l’opinione comune da cui il filosofo è evidentemente partito. Talvolta però il denaro risulta privo di valore e semplicemente frutto di una convenzione (si noti il ripetersi della figura etimologica anche per novmisma e novmo~ a b 11; cfr. anche la spiegazione di EN V 8, 1133a 30 ss.), e assolutamente non naturale; perciò la moneta ha valore se c’è un accordo, ma se questo manca perché mutano coloro che hanno stipulato l’accordo essa non può più avere valore né utilità per le necessità della vita (l’insistenza sull’utilità e la necessità permea l’intero passo: cfr. 1257a 25, 34, 35, 36, 37; cfr. anche Xen. Vect. 3, 2).

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Conseguenza logica, seppure paradossale, sarà dunque che chi è ricco in termini monetari potrebbe restare privo di nutrimento e morire di fame (si noti la presenza dello stesso procedimento argomentativo nei capitoli sulla schiavitù); lo stesso rischio corso da Mida, figlio di Gordio, mitico fondatore della dinastia regale frigia (sull’origine frigia cfr. Hdt. VIII 138; Plat. Phaedr. 264c; Theop. FGrHist 115 F 75a; Ovid. Met. XI 92; Igin. Fab. 191). Aristotele richiama a proposito di Mida un episodio ormai proverbiale – si noti l’uso di ejkei`non in senso non pregnante e di muqologou`si –, riferito ampiamente dal poeta latino Ovidio (Met. XI 85-194: il racconto, come anche quello di Igino, si configura come eziologia della colorazione dorata dell’acqua del fiume Pattolo nei pressi di Sardi) e legato alla cattura da parte dei contadini frigi del satiro Sileno, del seguito di Dioniso, che il re aveva accolto amichevolmente in quanto compartecipe dei riti misterici cui era stato avviato da Orfeo ed Eumolpo e aveva poi fatto ricondurre al dio, diretto in India; in ringraziamento Dioniso aveva offerto di esaudire una preghiera di Mida, che stoltamente aveva chiesto di ottenere che tutto ciò che toccava si trasformasse in oro fino a quando, ricco ma infelice, si era rivolto nuovamente al dio – con successo, dato il suo sincero pentimento – chiedendo di essere liberato dalla sventura (sull’argomento cfr. Bömer 1980, pp. 259-275; Guidorizzi 2000, pp. 127 e 472-474; Scherf 2000, coll.154-155). Il racconto aristotelico lascia presupporre che l’episodio legato alla figura di Mida avesse ormai assunto toni proverbiali, e il fatto è senza dubbio provato dai numerosi riferimenti tardi e dalla fortuna di cui godette nella letteratura latina e oltre; d’altro canto però quella aristotelica è in pratica la prima occorrenza in nostro possesso dell’episodio, se si eccettua il richiamo alla ricchezza di Mida in un verso del Pluto di Aristofane, che tuttavia contamina due aspetti del mito (la ricchezza e le orecchie d’asino, assegnategli da Apollo come punizione per non averlo dichiarato vincitore in una gara musicale; cfr. Plut. 286-87). 1257b 17-38 dio; zhtou'sin e{terovn ti .... th'" dæ hJ au[xhsi". Se dunque la crematistica che si serve del denaro può raggiungere aspetti paradossali, ovvero che la ricchezza in termini monetari non garantisca la sopravvivenza, viene da sé che è opportuno rivolgersi ad un altro tipo di ricchezza e di crematistica, quella trattata nel capitolo precedente. Come già a proposito della schiavitù Aristotele, partendo dall’opinione comune e smontando pezzo per pezzo la realtà generalmente condivisa in relazione alla ricchezza e all’acquisizione dei beni, arriva a formulare una nuova definizione e a costruire una nuova immagine di ricchezza (come già di schiavo, cfr. 6, 1255a 12-32), che da un

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lato piega le apparenti contraddizioni e le difficoltà di trovare accordo sui concetti di crematistica e di ricchezza e dall’altro fa appello alla naturalità. Di fronte alle aporie del comune sentire sulla ricchezza (cfr. allo stesso modo per la schiavitù 6, 1255a 4 ss.), Aristotele si appella al ritorno ad una crematistica e ad una ricchezza kata; fuvsin, «per natura», appartenenti all’amministrazione domestica perché consentono di procurarsi i beni necessari ed utili per la vita della famiglia e della città, nell’ottica del «vivere bene» (8, 1256b 26-30); questo genere di ricchezza è legato al commercio, ma inteso solo in quanto scambio di beni: pertanto il commercio produce beni perché essi vengono scambiati, e in tale scambio la moneta può essere un mezzo ma non il fine, che è l’autosufficienza. L’altro tipo di crematistica, quella censurata da Aristotele, ha invece a che fare – o dokei`, «sembra» avere a che fare, secondo quel che viene generalmente inteso: Aristotele prende evidentemente le distanze da tale posizione – con il denaro, elemento (ma cfr. Bonitz 1870, p. 702a 26, che nota che il vocabolo può significare anche «inizio») e fine dello scambio, e produce quindi una ricchezza senza limiti in termini monetari, e non in termini di beni utili e necessari. La dimostrazione avviene per gradi nelle linee successive, presupponendo comunque quel che già è stato detto nel capitolo precedente (8, 1256b 31 ss.): ogni arte cerca di raggiungere il suo fine, che è anche il suo limite (1257b 28: pevra~ ga;r to; tevlo~ pavsai~); la medicina ad esempio non si pone un limite al risanamento del paziente, tranne il raggiungimento dello scopo; i mezzi per raggiungere il fine però non sono illimitati (8, 1256b 31-37). Quindi la crematistica non naturale, in quanto arte, non si pone limiti al raggiungimento del fine, che è la ricchezza in termini monetari e l’acquisto dei beni; d’altro canto questo tipo di ricchezza è al contempo il limite e il fine, e non ha tuttavia limite, perché il suo accumulo coincide col limite. Il presupposto aristotelico e la sua critica all’accumulo indiscriminato di ricchezza tuttavia non colpiscono direttamente l’economia monetaria, ma il fine cui tende l’acquisto di beni: l’arte acquisitiva naturale (o crematistica «economica», 1257b 30-31), in quanto parte dell’oikonomia, ha come fine ultimo l’acquisizione di beni utili e necessari a casa e città – la ricchezza buona – che in prospettiva conduce al vivere bene (cfr. sotto, 1258a 1), che ne rappresenta il limite; l’altro genere di crematistica, quella praticata nella realtà concreta, perde di vista questo fine ultimo e come arte fine a se stessa punta esclusivamente all’accumulo di beni o denaro senza limite. Riprendendo un argomento già proposto all’inizio del capitolo (1257a 2-3), Aristotele motiva la differenza tra le due specie di arte

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acquisitiva: esse sono normalmente confuse a causa della loro affinità (suvneggu~), determinata dal fatto che entrambe fanno uso della stessa proprietà; in realtà la proprietà non viene usata allo stesso modo e con un medesimo fine, ma l’una è rivolta al soddisfacimento delle necessità, l’altra è finalizzata all’accrescimento della proprietà stessa come se essa non avesse alcun limite. 1257b 38-1258a 14 w{ste dokei' tisi... a{pavnta devon ajpanta'n. Nella realtà quindi alcuni (quelli evidentemente che praticano la crematistica) ritengono che l’accrescimento della proprietà sia compito della crematistica «economica» (quella che è parte dell’amministrazione domestica) e continuano a pensare (si noti l’implicita critica contenuta nell’espressione diatelou`sin... oijovmenoi) di dover conservare o accrescere all’infinito il patrimonio monetario (cfr. la definizione di oikonomia in Xen. Oec. 6, 4: hJ de; ejpisthvmh au{th ejfaivneto h|Ê oi[kou~ duvnantai au[xein a[nqrwpoi, oi\ko~ d hJmi`n ejfaivneto o{per kth`si~ hJ suvmpasa, kth`sin de; tou`to e[famen ei\nai o{ ti ejkavstw/ ei[h wjfevlimon eij~ to;n bivon ktl.; cfr. sopra, pp. 74-78). Poco prima (1257b 31) Aristotele aveva già spiegato e motivato che la ricchezza e il possesso senza limiti non sono compito della crematistica economica; è quindi chiaro che il filosofo cerca di interpretare la realtà concreta con il proposito di mostrarne i limiti sostanziali e rileva che l’atteggiamento comune nei riguardi del denaro e del patrimonio è determinato dalla mancata comprensione dei fini e dei limiti nell’uso della proprietà. Quali sono però le ragioni di questo diffuso sentire? Non può trattarsi soltanto di una confusione nell’interpretare l’acquisizione di beni; deve rispondere ad una precisa posizione etica, legata al fine del comportamento dei singoli e alla visione comune della realizzazione personale: chi si affanna ad accumulare denaro senza limite si preoccupa di vivere, ma non di vivere bene; dal momento che il suo desiderio di vivere è illimitato pensa di poter ottenere questo scopo con mezzi illimitati, quindi attraverso l’accumulo di beni e ricchezze (cfr. VII 1, 1323a 35-1323b 12, ed inoltre EN I 3, 1096a 5-7: oJ de; crhmatisth;~ bivaiov~ ti~ ejstivn, kai; oJ plou`to~ dh`lon o{ti ouj to; zhtouvmenon ajgaqovn: crhvsimon ga;r kai; a[llou cavrin: «chi si dedica al guadagno è in qualche modo sottoposto a costrizione, e la ricchezza non è il bene che si cerca; essa infatti è utile ed è orientata a un fine diverso da sé»). Ma anche chi si impegna per vivere bene può interpretare falsamente i mezzi per raggiungere il fine (cfr. VII 13, 1331b 39 ss.: tutti aspirano a vivere bene e alla felicità, ma alcuni non cercano la felicità nel modo corretto, pur potendola raggiungere), andando alla ricerca dei piaceri del corpo e facendoli in qualche modo dipendere dalla proprietà e dalla ricchezza (cfr. Plat. Resp. I 329a)

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e passando il tempo ad acquisire beni, ragion per cui è comparsa la seconda forma di crematistica. Per costoro il piacere consiste nell’eccesso e ricercano quindi il mezzo per raggiungere questo eccesso di piacere (Schütrumpf 1991, I, p. 345 intende uJperbolhv come «unbegrenzt», illimitato, e traduce «ausschweifendes Geniessen», piacere sfrenato; sull’interpretazione della felicità come piacere cfr. EN I 3, 1095b 15-18: to; ga;r ajgaqo;n kai; th;n eujdaimonivan oujk ajlovgw~ ejoivkasin ejk tw`n bivwn uJpolambavnein. oiJ me;n polloi; kai; fortikwvtatoi th;n hJdonh;n: dio; kai; to;n bivon ajgapw`si to;n ajpolaustikovn: «si giudicano il bene e la felicità a partire dai modi di vivere, per cui la massa e quelli più volgari lo fanno consistere nel piacere e amano quindi la vita dissoluta»; per la definizione della «vita di piacere» cfr. anche EE I 4, 1215 a 26). Se non riescono a procurarselo con la crematistica – essa stessa distorta nel suo fine proprio –, lo cercano addirittura altrove, facendo cattivo uso di altre qualità morali o forme di attività tecnica (duvnami~) come la medicina o l’arte della guerra, piegandole, contro la loro natura, a fini diversi da quelli propri (la salute e la vittoria, di segno positivo) e usandole invece come strumenti per acquisire ricchezza di segno negativo, come se tutto dovesse limitarsi a questo scopo. 1258a 14-18 peri; me;n ou\n... ajlla; e[cousa o{ron. Abbiamo in queste poche righe il sunto dell’intera argomentazione sulla crematistica nelle sue linee generali: Aristotele ha appena finito di trattare della crematistica non naturale (o “non necessaria”, nel senso che non serve a procurare beni necessari per vivere; cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 345: «nicht den notwendigen Lebensbedürfnissen dient») e ne ha spiegato i caratteri (non è parte dell’amministrazione domestica, ha a che fare con il denaro e non con il nutrimento, è illimitata) e le cause (il desiderio dell’uomo di vivere o di vivere bene raggiungendo il massimo del piacere, identificato con l’accumulo di denaro); nel precedente capitolo aveva invece definito i caratteri della crematistica naturale (o necessaria), appartenente all’amministrazione domestica e dotata del fine di procurare il nutrimento e di un limite ben definito.

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CAPITOLO 10 IL RUOLO DELLA CREMATISTICA RISPETTO ALL’AMMINISTRAZIONE DOMESTICA: CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

La sezione sull’amministrazione domestica è alle ultime battute e Aristotele trae le conclusioni del discorso; dopo la lunga unità argomentativa può finalmente trovare soluzione al quesito iniziale da cui aveva preso le mosse (8, 1256a 4): la crematistica è parte dell’amministrazione domestica? Una parte della risposta è già stata data: l’arte acquisitiva legata all’ottenimento del nutrimento e dei beni necessari e utili è parte della oikonomia, in quanto naturale; quella collegata al commercio in vista non semplicemente dello scambio di beni (anche realizzato usando il denaro), ma in vista del guadagno in termini monetari, che è contro natura, non lo è (9, 1257b 19 ss.). Sembra infatti che fino a questo momento Aristotele abbia tracciato il quadro dell’arte acquisitiva sulla base della maggiore o minore vicinanza alla naturalità, arrivando dunque al massimo della negatività con la ricerca del piacere tramite l’accumulo di ricchezza. Tuttavia vi sono alcuni aspetti della questione che Aristotele sembra non aver ancora chiarito e sembra voler ancora focalizzare: rispondere al quesito dell’inizio del cap. 8 significa anche dirimere la questione se la crematistica (il termine, dopo una parentesi “tecnica” è nuovamente usato in senso ampio di «arte acquisitiva», come nel cap. 3), in quanto parte dell’amministrazione domestica, sia compito dell’amministratore e sia ad essa subordinata in qualità di ausiliaria. Da qui dunque prende le mosse per alcune ulteriori considerazioni, ma il problema non trova una soddisfacente soluzione. 1258a 19-34 Dh'lon de; kai;... ajlla; th'" uJphretikh'". L’interrogativa indiretta iniziale dà l’avvio al ragionamento, che dovrebbe portare a chiarire il ruolo della crematistica rispetto all’amministrazione domestica, posto come problematico all’inizio del cap. 8 (1256a 3-4: si noti l’uso del verbo ajporevw qui ripreso da to; ajporouvmenon): l’amministratore della casa e il politico si devono incaricare di acquisire i beni oppure no, nel senso che li hanno già a disposizione? La proposizione non è immediatamente perspicua; se la prima parte sembra riprodurre alla lettera il testo dell’interrogativa, la seconda (a partire da ajllav) appare invece slegata e grammaticalmente poco giustificabile (tanto da far pensare a Susemihl che fosse caduta una parte della frase e che fosse sopravvissuta una porzione della risposta al quesito iniziale);

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inoltre risulta poco chiaro il significato di tou`to (l’intera espressione è poi ripresa quasi letteralmente in a 35), che appare intuitivamente riconducibile ai “beni”, ma senza alcun evidente legame di tipo grammaticale a vocaboli usati in precedenza (per l’uso di uJpavrcein in un contesto simile si veda invece VII 4, 1326a 1; 13, 1332a 28). Nella risposta Aristotele gioca nuovamente sul contrasto tra «procurare» e «usare», come nel cap. 8 (1256a 10-13): si potrebbe pensare che sia vera la seconda ipotesi (amministratore e politico non devono acquisire i beni perché li hanno già), se si considera il caso della politica, che non deve produrre gli uomini, ma semplicemente ne fa uso prendendoli come sono stati fatti dalla natura. Allo stesso modo la natura produce terra, acqua e ciò che è necessario al nutrimento (cfr. 8, 1256a 37-39; non sembra necessaria l’introduzione di prov~ davanti a trofhvn alla l. 23 accolta da Ross) e l’amministratore della casa se ne serve nel modo dovuto. Questa prima riflessione dovrebbe provare che l’acquisizione dei beni non è parte dell’amministrazione domestica, come è ulteriormente indicato dalle due successive analogie proposte da Aristotele; si tratta di due ambiti, la tessitura e la medicina, già ampiamente sfruttati nel corso del libro e in particolare proprio in questa sezione relativa all’oikonomia (cfr. 8, 1256a 5 ss. e 1257b 25 ss.). Anche il tessitore non ha il compito di produrre la lana, ma soltanto di usarla e saper distinguere quale può essere usata ed è adatta allo scopo e quale invece è scadente e non è adatta; se applicato all’amministrazione domestica si dirà, come già è stato fatto (8, 1256a 10-13), che l’amministrazione domestica ha il compito di usare i beni, la crematistica di procurarli (anche in 7, 1255b 34 si era già detto che la capacità del padrone riguardo ai servi si rivela nel loro corretto uso e non nell’acquisirli; sulle competenze della crematistica si veda 11, 1258b 12 ss.; cfr. inoltre III 11, 1282a 18-25). Quanto alla medicina, ci si può domandare – si noti che la modalità è nuovamente quella, assai spesso utilizzata anche in altri punti dell’opera, dell’obiezione più o meno fittizia – perché essa non sia parte dell’amministrazione domestica e la crematistica sì (l’uso di movrion conferisce un carattere “tecnico” alla definizione), dal momento che coloro che vivono nella casa devono vivere e procurarsi il necessario (compito della crematistica), ma anche essere in salute (compito della medicina). La soluzione al quesito non è univoca: se da un lato l’amministratore della casa e il governante hanno l’incarico di occuparsi della salute (anche nel libro VII il problema della salute dei cittadini nella costituzione della città ideale è più volte affrontato, p. es. VII 11, 1330 b 8), è pur vero che in alcuni casi questo è compito del medico, e ugualmente all’amministratore spetta in alcuni casi occuparsi dei beni,

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ma in altri spetta a un’arte sussidiaria (cfr. 4, 1253b 33; 8, 1256a 1 ss.). Possiamo immaginare, sulla base anche delle argomentazioni precedenti, che cosa intenda qui Aristotele: l’oikonomos, nella consapevolezza di dover fare in modo che la casa venga correttamente amministrata, deve servirsi delle arti ausiliarie per gestirla, non senza aver valutato che quel che gli viene da altre arti sia adatto e utilizzabile; pertanto dovrà in alcuni casi ricorrere al medico e al crematista. 1258a 34-1258b 8 mavlista dev... tw'n crhmatismw'n ejstin. Ciò che serve all’amministratore per gestire la casa deve essere già prima a sua disposizione; Aristotele lo ha detto (a 21) e lo ripete ora, ma con un’importante aggiunta, frutto del ragionamento appena concluso: è la natura a doverglielo fornire (per l’uso limitativo di mavlista Newman 1887, II, p. 195). Se leghiamo la riflessione alla crematistica, ne otterremo che – dal momento che essa è arte di acquisire proprietà e la proprietà è fatta di strumenti che servono per vivere – come arte ausiliaria deve fornire alla oikonomia gli strumenti che le competono, che essa userà per realizzare il fine della casa/famiglia. Ma in prima battuta questi strumenti di base devono essere garantiti dalla natura, che ha il compito di procurare il nutrimento agli esseri che nascono (cfr. 8, 1256b 8; vd. anche HA I 5, 489b 6 ss.; GA II 1, 732a 29; III 2, 752 b 17 ss.): la crematistica per natura dunque, necessaria e approvata, dovrà saper trarre tali strumenti dai frutti e dagli animali (8, 1256b 26-30). Ma Aristotele ha ben presente di aver parlato (8, 1256b 30; 9, 1258a 14) di un’altra specie di crematistica legata al commercio (th`~ me;n kaphlikh`~), ma che procura la proprietà tramite lo scambio (th`~ de; metablhtikh`~), non naturale e quindi giustamente disapprovata, perché basata non su ciò che è disponibile in natura (senza alcun intermediario tra la natura stessa e l’uomo che usa i suoi prodotti, secondo Schütrumpf 1991, I, p. 351), ma su quel che viene preso gli uni dagli altri (non “a spese degli altri” o “sfruttando gli altri”, come si potrebbe pensare dalla successiva condanna dell’usura, ma attraverso l’azione di intermediario del mercante). Aristotele riassume qui quel che ha delineato in maniera articolata nel capitolo precedente, traendone ulteriori conclusioni: là si era detto che risultava contro natura la pratica dello scambio, soprattutto dal momento in cui la moneta da simbolo della merce scambiata era divenuta essa stessa fine dello scambio e la ricchezza da disponibilità di beni necessari e utili per vivere si era trasformata in mero accumulo, di denaro (o di beni), per il solo fine del guadagno, escludendo quindi l’azione della natura. È evidente che questo tipo di scambio non produce beni forniti dalla natura e utilizzabili per vivere, ma il denaro o il prodotto che viene reciprocamente scambiato tra le parti (ma cfr.

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Schütrumpf 1991, I, p. 351, che ritiene che qui Aristotele intenda condannare la funzione dei mercanti come intermediari delle transazioni). Si tratta dell’importante differenza tra valore d’uso della proprietà – quello che ha ben chiaro l’oikonomos quando si serve della crematistica naturale – e valore di scambio, per cui il prodotto, ma soprattutto il denaro (con il suo valore strumentale e convenzionale), ha il solo fine di accrescere la ricchezza perdendo di vista completamente la proprietà. Aristotele condanna quindi recisamente l’uso del denaro come fine e non come mezzo (ragione del suo sorgere, 1258b 4), esemplificando il massimo grado di questo atteggiamento disprezzabile (si noti l’uso di termini “forti” in crescendo, yegomevnh~ e misei`tai) nel prestito «ad interesse» (preferibile a «usura» nel tradurre ojbolostatikhv, che non ha la valenza negativa del termine italiano; cfr. Cohen 1992, pp. 4-5; il termine è usato da Aristoph. Nub. 1155, che gioca sul doppio significato, come qui Aristotele), che, in quanto forma puramente finanziaria, perde di vista del tutto il prodotto e, totalmente estranea alla naturalità, trae direttamente denaro da denaro attraverso l’interesse. Indicativo di questo modo distorto di produrre ricchezza è persino il vocabolo usato in greco per designare l’interesse: tovko~, che ha anche il significato di «figlio» in quanto derivante dalla radice del verbo tivktw, «generare»: come dunque i figli sono simili ai genitori, così anche attraverso l’interesse si produce denaro da denaro.

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CAPITOLO 11 LA PRATICA DELLA CREMATISTICA

Aristotele sembra aver concluso con il cap. 10 la sezione sulla crematistica. Con una vera e propria climax ha descritto le forme di acquisizione di beni fino a quella più lontana dalla natura, il prestito a interesse, nel quale non vi è più alcuna traccia dei beni utili alla sopravvivenza, sostituiti completamente dal denaro che si auto-produce e alimenta. Ma l’argomento non è del tutto archiviato. In maniera un po’ inattesa il nostro autore inserisce ancora un breve corollario, che riguarda la pratica della crematistica. Dopo tanta teoria, è quasi inevitabile, sembra dichiarare Aristotele, dire qualcosa sull’uso e riprendere quindi il tema in relazione ai modi di acquisizione. Questa “deviazione” dal sentiero già tracciato ha fatto più volte sospettare dell’autenticità di questo capitolo dell’opera (cfr. Barker 1946, p. 29 n. 3; Lord 1984, p. 17), ma nella tradizione non vi è alcuna prova, diretta o indiretta, che essa possa essere stata aggiunta in un secondo tempo; i maggiori commentatori sembrano non nutrire troppi dubbi sull’autenticità del cap. 11: Newman 1887, II, pp. 196-198, pur manifestando il sospetto che possa essere stato aggiunto in seguito, dichiara di ritenerlo autentico e coevo al resto del primo libro (cfr. anche Schütrumpf 1991, I, p. 355; Saunders 1995, p. 95, che non pone neppure la questione; Simpson 1998, p. 59). La conclusione del capitolo potrebbe fornirci una chiave di lettura: il comportamento dell’amministratore domestico–crematista deve servire da modello anche ai politici (1259a 33), ed è pertanto utile una lettura dettagliata delle varie pratiche crematistiche proprio perché essi ne possano trarre utile insegnamento; d’altra parte, la continuità tra pratica domestica e politica appare ad Aristotele particolarmente vantaggiosa (cfr. Saunders 1995, p. 97). È tuttavia vero che Aristotele propone qui una inedita divisione della crematistica in tre parti, in cui inserisce alcune delle attività poco prima recisamente condannate; ma anche questa potrebbe essere una prova a sostegno dell’autenticità, giacché il procedimento può essere ricondotto alla consueta metodologia della divisione. D’altra parte, già all’inizio della sezione sulla schiavitù si era proposto di mettere in luce i casi in cui si debba far uso degli schiavi (3, 1253b 15-16: tav te pro;~ th;n ajnagkaivan creivan) e al termine della sezione, nel cap. 7, Aristotele aveva insistito sul fatto che il padrone è definito dalla sua condizione più che da una particolare scienza e aveva dato una serie di indicazioni – che potremmo definire “pratiche” – sulle competenze del

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padrone nei riguardi degli schiavi, proponendo delle esemplificazioni tratte dall’esperienza comune (7, 1255b 23 ss.). 1258b 9-11 jEpei; de; ta; pro;" th;n gnw'sin diwrivkamen... th;n d∆ ejmpeirivan ajnagkaivan. Il contrasto tra «conoscenza teorica» (gnw`si~) e «uso» (crh`si~) è il punto di partenza per un nuovo ordine di riflessioni sulla crematistica, legate all’empeiria (cfr. b 11 e 13); se partiamo dal presupposto che questa parte dell’opera (capp. 8-11) fosse il frutto di un logos autonomo sulla relazione oikonomia-crematistica (cfr. sopra, pp. 60-61), dal periodo iniziale del capitolo il lettore può supporre che Aristotele stesse rispondendo a qualche obiezione riguardante la realtà dei fatti, o che abbia notato che occorreva dare indicazioni pratiche per non essere accusato di essere eccessivamente svincolato dalla realtà. Proprio a questo aspetto sembra infatti fare riferimento la seconda contrapposizione, quella tra «libertà» della teoria (th;n qewrivan ejleuqevran) e «necessità» della esperienza (th;n ejmpeirivan ajnagkaivan). Molto differenziate le interpretazioni di questo passo: tra le più significative Schütrumpf 1991, I, p. 28 (che traduce «in allen diesen Angelegenheiten ist die theoretische Beschäftigung dem Range eines freien Mannes angemessen, die praktische Erfahrung dient dagegen der Erfüllung notwendiger Bedürfnisse», spiegando che mentre la cura per la teoria è degna di un uomo libero, l’esperienza pratica ha a che fare con l’adempimento di compiti necessari, p. 355); Saunders 1995, p. 16 («in all subjects of this kind speculation befits a free man, whereas experience meets essential needs» e p. 95: «there is free scope for speculation, but we cannot avoid practical experience»); Simpson 1997, p. 28 (che interpreta invece «study of all such things has something liberal about it, but to be actually experienced in them belongs to necessity», ritenendo che l’espressione, in riferimento a 1258b 33-39, voglia dire «that it becomes rulers of household and city, who are free men, to devote some study to the use and practice of business but it does not become them actually to engage in it»: Simpson 1998, p. 60); si vedano inoltre le traduzioni italiane di Laurenti 1993, p. 22 («argomenti di tale natura, tutti quanti, in teoria si studiano liberamente, mentre in pratica, sono legati alla necessità») e di Viano 2002, p. 117 («infatti tutte queste cose permettono libere interpretazioni teoriche, ma in pratica rivelano la loro necessità»), La contrapposizione tra conoscenza e uso risponde comunque, come nota Simpson (1998, p. 59), ad alcune delle riflessioni del capitolo precedente ed è senz’altro motivata: se la crematistica fa parte dell’amministrazione domestica nel senso che l’oikonomos è incaricato

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di procurare quel che serve alla casa (sia con l’acquisizione sia con l’uso di ciò che è fornito dalla natura anche attraverso arti ausiliarie, cfr. 10, 1258a 20), anche la pratica della crematistica fa parte dei compiti dell’amministrazione domestica. E le supposte contraddizioni presenti nel capitolo vengono superate appunto dalla necessità di rispondere a queste esigenze di carattere pratico. 1258b 12-21 e[sti de; crhmatistikh'" mevrh... tau'ta movria kai; prw`ta. Le parti e i fondamenti (b 21, prw`ta; la scelta del vocabolo sembra soddisfacente e non richiede pertanto la correzione proposta da Richards e accolta da Ross in prwvth~) della crematistica relativi all’uso – se così si può interpretare il collegamento etimologico tra crh`si~ (b 10) e crhvsima (b 12) – riguardano la crematistica «nel senso più proprio» (b 20, oijkeiotavth), quella naturale, che trae il proprio fabbisogno direttamente dalla natura. Aristotele, nell’elencare le competenze necessarie al crematista, riprende i modi di vita di cui si era occupato nel cap. 8 (1256a 29 ss.), specificando in che modo debba esercitarsi l’abilità di colui che deve trarre nutrimento dalle varie risorse (per es. poi`a... kai; pou` kai; pw`~; cfr. in Schütrumpf 1991, I, p. 357 il riferimento a Aristoph. Ran. 971 e alle teorie sofistiche): conoscere i vantaggi delle condizioni e delle collocazioni delle proprietà, avere esperienza di acquisto di animali e degli ambienti in cui l’allevamento delle singole specie possa essere più redditizio, essere abile nell’esercizio dell’agricoltura erbacea e arborea, nell’allevamento delle api e degli altri animali acquatici e volatili, dai quali si possano trarre risorse (bohqeiva~, cfr. 8, 1256b 19). 1258b 21-27 th'" de; metablhtikh'"... movnw/ crhsivmwn. Il secondo tipo di crematistica è quello già delineato a partire dal cap. 9, relativo allo scambio, contro natura e fonte della ricchezza monetaria, ma considerato qui da un diverso punto di vista: la sua parte fondamentale è costituita dall’attività mercantile su larga scala (ejmporiva), a sua volta distinta in armamento di navi, trasporto (forthgiva; cfr. Demosth. 34, 8) e smercio, caratterizzate da un diverso livello di sicurezza e di guadagno (che in termini attuali potremmo chiamare rapporto rischiobeneficio); la seconda consiste nel prestito a interesse, già affrontato alla fine del cap. 10 (ma nell’ottica di una valutazione di senso comune), che scambia denaro per denaro; la terza è relativa al lavoro retribuito (misqarniva; cfr. anche Plat. Leg. XI 918b), che scambia lavoro per denaro, esercitato da persone specializzate nei lavori manuali (hJ me;n tw`n banauvswn tecnw`n; cfr. IV 3, 1289b 33; 4, 1291a 1) o non specializzate, che si servono soltanto del corpo (cfr. 13, 1260a 39-b 2, dove

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compare l’espressione oJ bavnauso~ tecnivth~ che ha spinto Vermehren, seguito da Ross, a correggere il tecnw`n dei codici in tecnitw`n). Aristotele propone qui non solo nuove ripartizioni funzionali, ma anche una prospettiva nuova rispetto a quella dei capitoli precedenti, che risponde alla sua esigenza pratica e che non dà un giudizio di valore delle diverse modalità di acquisizione, bensì le cita in relazione allo scopo di massimizzare il guadagno; è probabilmente questo anche il fine delle esemplificazioni successive (Schütrumpf 1991, I, p. 359). 1258b 27-39 trivton de; ei\do"... prosdei` ajreth'". La terza forma, inedita, consiste nello sfruttamento di ciò che si estrae dalla terra (il lavoro minerario nelle sue innumerevoli forme) e di ciò che nasce dalla terra, anche senza frutti (per esempio il legno derivante dal taglio dei boschi; cfr. la lode dell’Attica di Xen. Vect. 1); essa è intermedia tra le due precedenti, nel senso che partecipa dei caratteri della crematistica naturale, perché sfrutta l’opera della natura, e anche di quelli della crematistica di scambio perché, in mancanza di frutti da utilizzare direttamente, richiede la trasformazione (p. es. dei minerali in metalli o del legno in attrezzi o mobili) e lo scambio di ciò che acquisisce. Va notato che il piano su cui si sta muovendo Aristotele in questa parte è decisamente più ampio di quello relativo alla famiglia, cui dovrebbe servire la crematistica almeno nella sua forma naturale, e da cui era partito. Il filosofo sta probabilmente preparando il campo per il passaggio dall’ambito della casa/famiglia a quello della polis, che dichiarerà alla fine del capitolo. Il discorso descrittivo generale si conclude con la considerazione che lo scendere nei dettagli (kaqovlou di b 33 si contrappone a kata; mevro~ di b 34) sarebbe senz’altro utile in relazione alle attività pratiche, ma soffermarsi ulteriormente diventerebbe cosa ‟di basso livello” (Bonitz 1870, p. 356b 32; cfr. Saunders 1995, p. 95: «a low thing»; Schütrumpf 1991, I, p. 356 «dies ist nicht die eines Freien würdige Theorie»); pertanto Aristotele si limita da un lato a dare indicazioni sul carattere dei diversi tipi di lavoro manuale cui evidentemente i crematisti si devono affidare, dall’altro a rimandare alle fonti in cui si possono trovare ulteriori approfondimenti (ma si soffermerà a lungo invece su due esempi, che occupano la seconda parte del capitolo). Sul primo punto va notato che Aristotele fornisce soltanto un giudizio di tipo morale, forse in relazione al fine che amministratori di case e città devono ben avere presente nello scegliere a quale tipo di risorse affidarsi per acquisire gli strumenti per la vita buona (cfr. 8, 1337b 5 ss.): tra le attività pratiche si annoverano quelle che richiedono maggiore competenza e lasciano quindi poco al caso (cfr. Plat. Gorg. 448c 5; Ar. Metaph. I 981a 3-5: hJ me;n ga;r ejmpeiriva tevcnhn ejpoivhsen, wJ~ fhsi; Pw`lo~, hJ

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d∆ ajpeiriva tuvchn; uno stretto legame tra tevcnh e tuvch si trova anche in EN VI 4, 1140a 19-20 e EE VIII 2, 1247a 5-7), quelle manuali, nelle quali il corpo è sottoposto all’usura maggiore (cfr. Xen. Oec. 4, 2; Plat. Resp. VI 495d 7), quelle più servili, che usano il corpo in molti modi diversi (cfr. 4, 1254b 17), quelle più ignobili, per le quali è richiesto il minimo grado di virtù (nel senso di sapienza pratica, cfr. Saunders 1995, p. 96; ma cfr. sotto 13, 1259b 21 ss.). Aristotele qui propone una diversificazione nelle attività che contemplano l’uso del corpo, laddove in precedenza (2, 1252a 32; 5, 1254b 17) aveva indicato proprio questo carattere come segno distintivo dell’attività servile (cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 358). 1258b 39-1259a 6 ejpei; dæ ejsti;n ejnivoi"... timw'si th;n crhmatistikhvn. In relazione alle fonti da cui trarre informazioni aggiuntive, Aristotele cita opere scritte, richiamando direttamente quelle sull’agricoltura erbacea ed arborea ad opera di Caretide di Paro e Apollodoro di Lemno (per gli «altri» Schütrumpf 1991, I, p. 361 cita Democr. fr. 68 B 26f28 DK), e fa inoltre riferimento alla necessità di raccogliere notizie di seconda mano riguardanti mezzi crematistici di successo, forse al fine di creare una raccolta di excerpta sull’argomento. Non sappiamo se l’operazione fosse nelle intenzioni dello Stagirita o se già fosse partito un progetto di questo genere all’interno della scuola (ammesso che si possa parlare di una composizione del libro successiva alla fondazione del Liceo); è certo però che l’invito fu accolto e fatto proprio dall’autore di quello che è divenuto il secondo libro degli Economici, a lungo attribuiti ad Aristotele, ma ormai generalmente considerati spuri (cfr. Zoepffel 2006, p. 214). Quanto ai due autori citati come estensori di opere di agricoltura, i dati in nostro possesso sono praticamente inesistenti. A proposito di Caretide non vi è assoluta certezza neppure sull’esattezza del nome; la mancanza di accordo della tradizione manoscritta ha prodotto da un lato la scelta di Susemihl CarhtivdhÊ tw/' Parivw/, accolta poi da Ross, e dall’altro quella di Immisch Cavrhti dh; tw`/ Parivw/. Il nome Carhtivdh~ non è praticamente attestato fuori da Atene se si eccettua un caso, in lacuna e frutto di parziale integrazione, in un’iscrizione di Andro (IG XII 5, 778, [ca]rhtivdh~; cfr. Fraser-Matthews 1998, p. 480); anche per Atene tuttavia le ricorrenze appaiono piuttosto rare e in nessun caso precedenti al IV secolo a.C. Più comune sembra invece il nome Cavrh~, ma nessuna delle attestazioni può essere ricondotta all’autore dell’opera di agricoltura citata qui da Aristotele. Su Apollodoro di Lemno abbiamo invece il supporto, comunque non decisivo, delle citazioni nel De agricultura di Varrone (I 1, 8, in un elenco di opere greche de agri cultura

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in cui compare anche Aristotele, da cui potrebbe aver tratto la citazione) e nella Naturalis Historia di Plinio (I 8c, 10, tra le fonti straniere; anche in questo caso la citazione potrebbe essere di seconda mano). 1259a 6-33 oi|on kai; to; Qavlew... ejtevcnasan genevsqai monopwlivan. La raccolta delle esemplificazioni cui Aristotele ha fatto riferimento poco prima potrebbe essere di grande aiuto a coloro che hanno stima della crematistica; il nostro autore ritiene pertanto utile fornire un paio di esempi del modo in cui esse possono essere proficuamente utilizzate. I due racconti, l’uno riferibile a Talete di Mileto, l’altro ad un episodio occorso a Siracusa ai tempi di un Dionisio, sono accomunati dal tema generale del monopolio, oltre che dall’assoluta indeterminatezza – per esempio non è specificato di quale Dionisio di Siracusa si tratti (Dionisio I, circa 430-367 a.C., o il figlio Dionisio II, 367-post 343 a.C.) –, legata probabilmente da un lato al carattere aneddotico del racconto, dall’altro alla presunta notorietà presso i lettori/ascoltatori del testo. Talete di Mileto, stizzito per le accuse mossegli sul fatto che la filosofia gli era del tutto inutile, vista la sua povertà – che tuttavia probabilmente non rappresentava per lui un problema –, usò la sua capacità di studio degli astri per prevedere un abbondante raccolto di olive, su cui riuscì a lucrare accaparrandosi a poco prezzo fuori stagione tutti i frantoi di Mileto (sua città natale, in Ionia, sulle coste dell’Asia Minore) e dell’isola di Chio, che poi affittò a prezzi ben più alti al momento giusto; riuscì pertanto a dimostrare che la sua sapienza poteva servire per arricchirsi, ma questo non era l’obiettivo dei filosofi. L’aneddoto è utilizzato da Aristotele per provare che un artificio crematistico dal carattere del tutto contingente può servire da principio generale, come è dimostrato dal fatto che alcune poleis si procurano un monopolio quando sono in difetto di ricchezze. Talete di Mileto, vissuto tra l’ultimo quarto del VII e la prima metà del VI secolo a.C. è considerato il fondatore della filosofia naturalistica greca e già presso gli antichi ebbe fama di pensatore originale rispetto alla tradizione. La fonte principale per la ricostruzione della sua dottrina è proprio Aristotele, che ci documenta i poliedrici interessi del filosofo in ambiti diversissimi, dalla storia alla scienza alla matematica e alla geografia. Fu ricordato in particolare per i suoi studi sui fenomeni celesti, che diedero l’avvio all’astronomia greca, in particolare per quel che riguarda la previsione delle eclissi (Hdt. I 74), la determinazione dei solstizi, la relazione tra questi e i cambi climatici stagionali. Non vi sono prove che abbia lasciato opere scritte, ma molte delle fonti gliene accreditano un certo numero (si veda il racconto di

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Diogene Laerzio, I 23-24, 34); non sappiamo neppure quali fossero i materiali a disposizione di Platone ed Aristotele per le numerosissime citazioni delle sue posizioni, ma è possibile che il suo insegnamento sia passato attraverso l’opera (scritta) di Anassimandro e Anassimene, suoi conterranei e discepoli. Egli fu annoverato tra i Sette Saggi della Grecia (cfr. Plat. Prot. 342e-343a); la sapienza d’altro canto è la qualità ascritta da Aristotele a Talete in questo passo, e già proverbialmente tipica del personaggio anche in Aristofane (Nub. 180; Av. 1009). Su Talete cfr. Mansfeld 1985, pp. 109-129; Laks-Louguet 2002; O’Grady 2002; Reale 2006. L’episodio qui raccontato (11 A 10 DK = 10 [A10] Colli) poteva far parte del patrimonio aneddotico greco, ma soprattutto ci testimonia un Talete particolarmente abile nelle questioni pratiche (anche Plut. Sol. 2, 4 riferisce che Talete fu coinvolto in affari commerciali; cfr. EN VI 7, 1141b 4, dove è definito frovnimo~, dotato di sapienza pratica), in contrasto con il sentire comune che faceva dei filosofi pensatori avulsi dalla realtà e per questo destinati a rimanere poveri (si tratta di topoi molto diffusi anche per Socrate, p. es. Plat. Apol. 23c 1; Gorg. 484c 4); alcuni commentatori notano nel racconto del successo commerciale di Talete una sorta di empatica ironia da parte di Aristotele. D’altra parte sono le stesse fonti antiche a presentare Talete sotto differenti aspetti, che vanno dall’abilità nel produrre ingegnose invenzioni all’incapacità di rimanere ancorati alla realtà: molto noto l’aneddoto platonico (Teet. 174a) che lo ritrae mentre cade in un pozzo, intento a guardare le stelle. Ulteriore prova che l’accorgimento di Talete non fu un episodio isolato, e che lo schema si ripeté (to; mevntoi o{rama Qavlew kai; tou'to taujtovn ejstin), è l’applicazione dello stesso principio ad opera di un ignoto siciliano che mise in atto un monopolio sul ferro, restando poi l’unico mercante del metallo sul mercato; pur mantenendo il prezzo ragionevolmente basso, egli realizzò un guadagno doppio rispetto all’investimento e incorse nel bando da Siracusa perché si era procurato una fonte di entrata che avrebbe potuto danneggiare gli interessi di Dionisio (sulla possibile origine platonica delle informazioni “siracusane” cfr. il commento al cap. 7). Gli esempi qui presentati da Aristotele, al di là del loro carattere paradigmatico, fotografano comunque la realtà greca e, pur nel valore proverbiale sotteso al racconto, ci danno alcune indicazioni di carattere storico, documentando per esempio il rischio di conflitto conseguente all’instaurazione di un monopolio e l’uso delle città o di qualche privato molto intraprendente di esercitare il monopolio come mezzo di arricchimento.

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COMMENTO I 11, 1259b 33-36

1259a 33-36 crhvsimon de; gnwrivzein... tau'ta movnon. Chi dunque potrebbe essere il destinatario di tali raccolte di espedienti crematistici? Case e città che necessitano di accumulare beni ed entrate finanziarie, ci dice Aristotele In realtà in questa frase finale c’è ben più di un elemento che contraddice quel che Aristotele si è preoccupato di dimostrare finora: nulla da eccepire sul fatto che conoscere tali situazioni possa essere utile ai politici, ma certo l’uso del monopolio come fonte di ricchezza va al di là della crematistica naturale o dello scambio di prodotti naturali che finora Aristotele aveva proposto come unico mezzo crematistico concesso senza limitazioni. Qualche dubbio resta anche sul fatto che la crematistica possa impegnare del tutto l’attività politica, nel senso di rappresentare il primo compito del politico. Ma qui siamo calati nell’empeiria e non è da escludere che l’osservazione della realtà possa portare a queste conclusioni.

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CAPITOLO 12 LE RELAZIONI PADRE-FIGLIO E MARITO-MOGLIE

Dopo le trattazioni “monografiche” rispettivamente dedicate alla schiavitù e all’acquisizione di beni e proprietà, il cap. 12 recupera l’indirizzo di analisi che si era aperto nel cap. 3 (1253b 5): le unità elementari componenti la famiglia, fondamentale strumento per arrivare alla polis, che sono state identificate sulla base delle relazioni dei membri costitutivi, con lo scopo di indagare «che cosa» sia e «di quale qualità» debba essere ciascuna delle tre relazioni che sussistono nella casa. Fino a questo momento l’attenzione dell’autore si è concentrata esclusivamente sul ruolo del padrone, nella sua qualità di proprietario di schiavi e beni. È mancato totalmente invece ogni riferimento alla relazione padre-figlio e a quella marito-moglie. Aristotele ne è ben consapevole; da questo punto parte allora per dare alcune indicazioni anche su questo argomento. 1259a 37-1259b 10 ’Epei; de; triva mevrh... tou'ton e[cei to;n trovpon. Della parte dell’amministrazione domestica relativa al ruolo del padrone Aristotele ha già parlato; restano da affrontare l’autorità del padre sui figli (patrikhv, che qui sostituisce il conio teknopoihtikhv di 3, 1253b 10, per cui si veda il commento ad locum) e del marito sulla moglie. Le due forme di autorità sono accomunate dal fatto di essere esercitate su liberi (a differenza dei popoli barbari, presso i quali donne e schiavi hanno la stessa posizione perché privi del principio del comando: cfr. 2, 1252b 5), ma si distinguono per le modalità: quella sui figli è di tipo regale (basilikw`~), quella sulla moglie di tipo politico (politikw`~; l’uso dell’avverbio dà l’impressione di voler indicare una somiglianza piuttosto che una identità: certamente i ruoli nella famiglia e nella città non possono essere perfettamente sovrapponibili; per la traduzione del termine cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 365). Aristotele procede quindi a motivare le sue affermazioni: l’autorità del marito/padre è naturalmente giustificata dal fatto che il sesso maschile è per natura più adatto al comando di quello femminile (cfr. anche 5, 1254b 13) – tranne nei casi di eccezioni “contro natura” (II 9, 1269b 24; V 11, 1313b 33; EN VIII 12, 1160b 35 ss.) – e chi è più vecchio e maturo è più adatto al comando di chi è più giovane e immaturo; per il tipo di autorità (regale e politica) si richiede invece un’argomentazione più articolata, che presuppone alcuni concetti già

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espressi e qui solo richiamati. Aristotele ha già detto anche in precedenza che l’autorità politica si esercita su uomini liberi e uguali per natura (7, 1255b 20, l’autorità politica è il comando esercitato su liberi e uguali); tuttavia viene qui esplicitamente affermato che il maschio è più adatto per natura al comando della femmina e che inoltre chi è maggiore per età e più maturo è più adatto a comandare di chi è più giovane e meno maturo. Questi caratteri possono senz’altro essere attribuiti alla moglie, nel mondo greco di solito di molto più giovane del marito e senz’altro considerata inferiore a lui per maturità, tanto da non avere neppure uno status giuridico autonomo. Resta però la possibile obiezione che nell’esercizio del potere politico è prevista l’alternanza di comandante e comandato (1, 1252a 13-16; II 2, 1261a 32-37), poiché si presume che tutti i cittadini siano uguali per natura (II 2, 1261a 39 ss.; III 6, 1279a 8 ss.; III 16, 1287a 16 ss.; V, 1317b 2 ss.; VII 3, 1325b 7 ss.; Schütrumpf 1991, I, p. 366, sottolinea tuttavia che non in tutti i sistemi politici è previsto lo scambio dei ruoli di comando), ma ciò evidentemente non si verifica all’interno della famiglia, dove l’esclusività del comando è nelle mani del marito. La spiegazione, secondo Aristotele, risiede nel fatto che, seppure nell’ambito della polis chi comanda pretende (bouvletai) di essere assolutamente uguale per natura a chi è comandato e viceversa (cfr. Saunders 1995, p. 97, che ritiene «donnish satire» questa affermazione, che sottolinea il contrasto tra la normale condizione di chi comanda e le arie che si dà quando è al potere), nella realtà effettiva chi comanda, nell’esercizio delle sue funzioni, ottiene comunque segni distintivi esteriori, di linguaggio o di titoli d’onore. L’esempio di Amasi e del «catino per lavare i piedi», raccontato da Erodoto (II 172), rende bene l’idea: il faraone egiziano Amasi, di umili origini e per questo in difficoltà ad ottenere l’apprezzamento dei sudditi, fece fondere un bacile d’oro usato per lavare i piedi e ne fece ricavare la statua di una divinità, da quel momento oggetto di culto e di onore. Quando si rivolse ai sudditi spiegò che come il bacile, originariamente usato per scopi così bassi, era divenuto oggetto di venerazione quando la stessa materia aveva avuto la forma di statua, così anche lui, nato da umili origini, una volta divenuto faraone era degno di ricevere i dovuti onori. In sostanza, da materia uguale si potevano avere effetti connotati da dignità assai diversa. Lo stesso ragionamento può valere dunque anche per la relazione marito-moglie (che ha sempre questa forma, 1259b 9-10): in teoria marito e moglie in quanto liberi sono sullo stesso piano e anche per loro dovrebbe valere la legge dell’alternanza; tuttavia il marito ha delle

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COMMENTO I 12, 1259b 10-17

differenze evidenti (età, maturità e l’essere più adatto per natura al comando) e delle prerogative permanenti che lo rendono inevitabilmente leader e depositario dell’autorità. Nel capitolo successivo Aristotele riprenderà il tema per chiarire che nelle relazioni familiari il punto nodale riguarda la virtù e le facoltà dell’anima (13, 1260a 13; cfr. anche EN VIII 13, 1161a 22 ss. e V 10, 1134b 15-18, dove la relazione marito-moglie è vista in termini di giusto e ingiusto). Su questo principio si basa anche il passo di EN VIII 12, 1160b 32 ss., che propone il parallelismo tra costituzioni e comunità familiare: qui però la relazione tra marito e moglie è definita «aristocratica» (b 32-33: ajndro;~ de; kai; gunaiko;~ ajristokratikh; faivnetai; cfr. anche EE VII 9, 1241b 30 e Pol. III 17, 1288a 8, dove l’aristocrazia è un regime politico fondato sulla virtù) e viene affermato che il marito comanda sulla base del suo valore (kat’ ajxivan) e nelle questioni in cui l’uomo deve farlo, mentre lascia alla donna ciò che spetta ad una donna. Da questo passo dell’Etica si può forse meglio comprendere quel che intende Aristotele con il concetto di autorità «politica». Suggestiva, ma indimostrabile, appare l’ipotesi di Schütrumpf 1991, I, p. 365, che suppone che l’argomentazione qui sviluppata possa essere la prova che questa parte della Politica è frutto di una riflessione precedente a quella delle due Etiche; in sostanza, al momento di realizzare questa parte della Politica Aristotele poteva non aver ancora elaborato la differenziazione delle forme di autorità sulla base delle tipologie costituzionali; questo passo sarebbe quindi il frutto del primo approfondimento del tema dei tipi di autorità, ancora collegato alla terminologia del Politico di Platone. 1259b 10-17 hJ de; tw'n tevknwn ajrch;... oJ gennhvsa" pro;" to; tevknon. L’autorità del padre sui figli è invece di tipo regale, perché ne ha i caratteri, ovvero l’amore (filiva) e la maggiore età (presbeiva; cfr. VIII 14, 1332b 33). Per natura infatti il re si deve distinguere dai sudditi, anche se è uguale a loro per stirpe, come accade nella relazione tra il più vecchio e il più giovane e tra il genitore e il figlio; pertanto tutti i re possono essere paragonati a padri, come fa correttamente Omero con Zeus (Il. I 503 e 544). Anche su questo argomento Aristotele si pronuncia nello stesso passo dell’Etica Nicomachea (VIII 12, 1160b 24-32), che riporta la stessa citazione dall’Iliade: la comunità di padri e figli ha la forma del regno, poiché il padre si prende cura dei figli e il regno «vuole essere come un’autorità paterna» (patrikh; ga;r ajrch; bouvletai hJ basileiva ei\nai); unica eccezione tra i Persiani, dove l’autorità del padre è tirannica, e i figli vengono trattati come schiavi: si tratta

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COMMENTO I 12, 1259b 10-17

di una forma errata, dice Aristotele, ma già sappiamo che «per natura barbaro e schiavo sono la stessa cosa» (2, 1252b 9). Con quest’ultima sezione argomentativa – che ha un’appendice nel capitolo 13, con cui termina il libro – Aristotele conclude la parte riguardante le relazioni interne alla famiglia e i tipi di autorità del maschio padrone di casa (monarciva, cfr. 7, 1255b 19) sui vari membri: ora sappiamo che egli esercita un’autorità dispotica sugli schiavi, che non sono né liberi né uguali; un’autorità regale sui figli, che sono liberi ma non uguali; un’autorità politica (o aristocratica) sulla moglie, che è libera e “quasi uguale”, e inoltre si pone nella condizione di amministratore nei confronti della proprietà, parte integrante della casa-famiglia. Il nostro autore ha dunque risolto, per la prima volta in modo concreto, la polemica del cap. 1 con «quanti credono che l’uomo politico, l’uomo regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifichino» (1252a 7-9) – ripresa nel cap. 3, dove si riafferma che per alcuni sono «la stessa cosa l’amministrazione della casa, l’autorità padronale, l’autorità politica e quella regale, come abbiamo detto all’inizio» (1253b 19-20) – e ha dimostrato l’inconsistenza della distinzione quantitativa basata sul numero di sottoposti, attraverso l’indagine delle diverse forme di autorità rese necessarie dalle differenze naturali dei membri della comunità familiare. Questo argomento sarà ulteriormente studiato nel capitolo finale.

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CAPITOLO 13 I MEMBRI DELLA CASA IN RELAZIONE ALLA VIRTÙ

La questione alla base dell’intera argomentazione del cap. 1 è ormai stata ampiamente risolta: tutte le parti dell’amministrazione domestica sono state affrontate singolarmente, in modo più o meno esteso a seconda dell’importanza e probabilmente delle obiezioni successive cui l’autore riteneva di dover dare risposta; Aristotele ha mostrato quindi che esse sono differenti per tipo e non solo per numero di sottoposti. Quest’ultimo capitolo procede oltre, con due scopi prioritari: 1) rimettere insieme tutte le parti che sono state scomposte e vederle nell’intero in relazione alla virtù di ciascuna; 2) allargare il campo al vero obiettivo della Politica, la polis e la costituzione migliore. Se valutiamo il lavoro aristotelico dal punto di vista qui espresso potremo senz’altro affermare che il filosofo sta facendo un «tentativo sistematico di trovare i fondamenti della struttura della casa e dello stato nella psicologia e nella condizione morale delle categorie dei loro membri» (Saunders 1995, p. 98). 1259b 18-21 Fanero;n toivnun o{ti... ma'llon h] douvlwn. Aristotele intende probabilmente riequilibrare le proporzioni rispetto alla materia trattata nel resto del libro, che è molto chiaramente presunta in quest’ultima sezione: spazio amplissimo è stato dato alla parte relativa allo schiavo e a quella sulla proprietà, mentre la trattazione delle relazioni tra liberi è stata confinata ad una breve analisi, quella contenuta nel cap. 12. È il caso dunque di sottolineare che l’amministrazione domestica, per quanto possa essere apparso diversamente, ha cura maggiore degli uomini che dei beni (intesi come possesso delle cose inanimate, cfr. Plat. Pol. 261b 7 ss.), soprattutto della virtù degli esseri umani (argomento di questo capitolo) più che della proprietà intesa come ricchezza – in quanto fine dell’acquisizione –, e dei liberi più che degli schiavi. La ragione non è detta, ma risulta chiaramente dalla parte appena conclusa (è «evidente», fanerovn: l’insistenza sulla chiarezza è notevole in questa sezione): la proprietà (ricchezza e schiavi, anche se questi ultimi si collocano in una posizione intermedia in quanto strumenti animati) serve per la sopravvivenza e il benessere degli esseri umani. 1259b 21-1260a 4 prw'ton me;n ou\n... tw'n fuvsei ajrcomevnwn. Gli esseri umani sono più importanti della proprietà: Aristotele suppone di aver già detto tutto; restano da chiarire ora alcune questioni che,

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COMMENTO I 13, 1259b 12 - 1260a 4

partendo dallo schiavo, gli danno però modo di approfondire anche il tema delle donne e dei figli, che ritiene evidentemente di non aver trattato in maniera esaustiva. Il discorso è impostato attraverso la tecnica dialettica delle obiezioni (o approssimazione successiva, cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 369), che percorre tutto il capitolo. Secondo l’autore «ci si potrebbe chiedere» se gli schiavi abbiano qualche altra virtù degna di rispetto oltre a quelle legate all’attività fisica che li caratterizza e alla loro mansione servile – si tratta delle scienze di cui ha parlato nel cap. 7 (1255b 22), ma anche della condizione di strumento che ha assegnato allo schiavo nel cap. 4 (1254a 16-17) –, per esempio temperanza, coraggio, giustizia e simili (per la definizione di virtù si veda EN II 4-5, 1106a 11 ss. e II 6, 1106b 36 ss., dove la virtù è definita e[xi~, come del resto qui in b 25; cfr. anche III 4, 1277b 16 ss. con il commento ad locum). Dunque in sostanza si cerca di stabilire se lo schiavo, in quanto proprietà o strumento animato (cfr. 4, 1253b 32), abbia le virtù di uno strumento o quelle di un uomo, se cioè possa operare o meno scelte razionali in funzione dell’azione. Alla domanda ci sono due tipi di risposta, in entrambi i casi problematica: 1) in caso affermativo, resterà il dubbio sul fatto che, se dotati di tali virtù, essi non abbiano nessuna differenza rispetto ai liberi. Aristotele ha già abbondantemente discusso il problema (5, 1254b 32-39; 6, 1255a 39-1255b 2, cfr. il commento ai passi): gli schiavi si distinguono dai liberi come coloro che, privi di nobiltà dell’anima, si distinguono da coloro che la possiedono in misura eccellente. Se essi possedessero questo tipo di virtù, la distinzione stessa tra schiavi e liberi perderebbe valore; 2) in caso negativo, sarebbe decisamente strano che gli schiavi non fossero dotati di virtù, dato che sono uomini e partecipano della ragione, che è fonte della virtù. D’altra parte però Aristotele ha detto che gli schiavi condividono con i loro padroni la ragione, ma solo nella misura in cui possono percepirla e non possederla (cfr. 5, 1254b 22-23, con il commento). La questione può essere posta in termini simili anche per donne e fanciulli, che si collocano sullo stesso piano degli schiavi per il fatto di essere per natura comandati: vi sono virtù anche per costoro, in termini positivi o negativi (la donna può essere coraggiosa e giusta e il fanciullo intemperante, sua caratteristica più evidente, come dice anche EN III 15, 1119a 34), o no? Per rispondere occorre fare riferimento alla distinzione tra comandanti e comandati per natura (nella casa; cfr. 5, 1254a 21 ss.), e valutare se le due categorie abbiano una virtù differente. Segue una casistica piuttosto elaborata, che rappresenta la risposta aristotelica a una serie di obiezioni possibili: a) se chi comanda come chi obbedisce

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COMMENTO I 13, 1259b 21 - 1260a 4

deve possedere le qualità degli eccellenti (la kalokajgaqiva incarna, soprattutto nel IV secolo a.C., la massima perfezione dell’uomo greco dal punto di vista delle qualità etiche ed estetiche, ed è la virtù per eccellenza nell’Etica Eudemia, cfr. EE VIII 3, 1248b 10; cfr. Gastaldi 1995), non vi è motivo per cui vi siano alcuni che devono sempre comandare e altri sempre obbedire, ma si dovrà prevedere un’alternanza; b) non vale il discorso che coloro che comandano e coloro che sono comandati hanno la virtù in grado diverso (maggiore per chi comanda, minore per chi obbedisce), perché comandare e obbedire differiscono non per grado, ma per specie (1, 1252a 9; cfr. anche EN II 6, 1106a 15-24); è tuttavia vero che lo stesso Aristotele viene ripetutamente meno a questa considerazione, parlando di virtù in termini di grado (p. es. a 1260a 19 e 35); c) non è possibile neppure sostenere che tra comandanti e comandati solo gli uni o gli altri abbiano bisogno di avere la virtù, perché se non l’avessero coloro che comandano non potrebbero comandare bene, se non l’avessero coloro che obbediscono non potrebbero obbedire bene, e nessuno farebbe nel modo che gli spetta il proprio compito (per il collegamento tra ajrethv e e[rgon si veda anche sotto a 16-17). La soluzione (fanero;n toivnun o{ti ajnavgkh, cfr. 1259b 18), dice Aristotele, è che tutti abbiano la virtù e che nell’ambito di questa vi siano differenze, come anche tra coloro che per natura sono destinati ad essere comandati (cioè le loro virtù devono essere definite in termini non di attitudine a comandare, ma di attitudine ad essere comandati, cfr. Saunders 1995, p. 98; cfr. anche III 4, 1277b 18-21: la virtù non è unica, ma ha specie diverse a seconda che sia esercitata da chi comanda e da chi è comandato, o da un uomo piuttosto che da una donna). La locuzione w{sper kai; tw'n fuvsei ajrcomevnwn (questo è il testo dei manoscritti, accettato da Aubonnet e Dreizehnter e tradotto da Simpson e Schütrumpf) sembrerebbe ribadire, come l’autore ha già più volte sottolineato, che coloro che sono comandati possono appartenere a tipologie differenti (liberi e uguali o schiavi) e quindi avere caratteri diversi, in relazione al tipo di virtù posseduta (cfr. a questo proposito 2, 1253a 34 ss.; 5, 1254a 34; 7, 1255b 16 ss.; Schütrumpf 1991, I, p. 374). Ross ha ritenuto opportuno riportare ajrcovntwn, al posto di ajrcomevnwn, ipotizzando che il periodo possa essere maggiormente comprensibile se si presuppone una differenziazione nella virtù di chi comanda (sul testo di Ross traducono Viano, Laurenti e Saunders). Non è però da escludere che il testo si sia corrotto e ci sia pervenuto mutilo, oppure che sia stato integrato da un correttore per colmare una presunta lacuna: a rigor di logica il lettore si aspetterebbe entrambe le categorie degli ajrcovmenoi e degli a[rconte~ (e così stampa infatti Susemihl nelle edizioni 1872

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COMMENTO I 13, 1260a 4-14

e 1879 e traduce Pellegrin), come sembra essere provato da un certo numero di manoscritti della traduzione di Guglielmo di Moerbeka principantium et subiectorum; è ragionevole infatti pensare che Aristotele intendesse che ci sono differenti gradi di virtù tra chi comanda e chi è comandato (ma cfr. Schütrumpf 1991, I, p. 373: se la frase riportasse entrambe le categorie diverrebbe una semplice ripetizione del pensiero aristotelico, già espresso, secondo il quale comandanti e comandati hanno virtù differenti). Sul passo cfr. anche Newman 1887, II, p. 75. 1260a 4-14 kai; tou'to eujqu;"... ajll̓ ajtelev". Come già in altre occasioni nel corso del libro, Aristotele è partito dal postulato (tutti hanno la virtù, ma in maniera differenziata) ed ora procede alla dimostrazione (la distribuzione della virtù si realizza per natura). Per la differenziazione della virtù Aristotele trova quindi un modello nell’anima, come già aveva fatto nel cap. 5 a proposito delle premesse della naturalità della schiavitù (1254a 34-b 9, vd. commento): al suo interno vi è una parte destinata a comandare e una destinata ad obbedire (cfr. EN I 13, 1102b 13) e ognuna è dotata di una virtù differente, in relazione al carattere razionale o irrazionale della parte dell’anima cui corrisponde (cfr. EN I 13, 1103a 3 ss.: diorivzetai de; kai; hJ ajreth; kata; th;n diafora;n tauvthn [scil. dell’anima in parte razionale e irrazionale]: levgomen ga;r aujtw`n ta;~ me;n dianohtika;~, ta;~ de; hjqikav~, sofivan me;n kai; suvnesin kai; frovnhsin dianohtikav~, ejleuqeriovthta de; kai; swfrosuvnhn hjqikav~, le virtù si distinguono in intellettuali, dianoetiche, – p. es. sapienza, senno e saggezza – e morali, etiche, – p. es. generosità e temperanza –. La conclusione di questa argomentazione (dh`lon toivnun o{ti, a 7) è dunque che la differenziazione interna all’anima fa da modello anche per tutte le altre cose nelle quali vi sia «per natura» una parte che comanda e una che è comandata (Schütrumpf 1991, I, p. 374 nota il parallelismo, ma inverso, con l’uso delle partizioni dell’anima nella Repubblica di Platone; inoltre cfr. Simpson 1998, p. 66 n. 85, che evidenzia due differenti argomentazioni in questo passo: da un lato la discussione dialettica, che scaturisce dall’osservazione dei fenomeni; dall’altro il riferimento all’anima, che conferma la conclusione ma deriva dal principio primo, che è causa e spiegazione dei fenomeni). Tutti infatti possiedono le parti dell’anima, ma in maniera differente, e di conseguenza la loro posizione rispetto alla relazione comandante-comandato si differenzierà in rapporto alla disposizione della parte deliberativa. Può aiutare a comprendere meglio quest’affermazione un passo dell’Etica Nicomachea (EN VI 2, 1139a 5 ss.): le parti dell’anima sono due, razionale e irrazionale; la parte razionale si divide a sua volta in due, la parte scientifica, to; ejpisthmonikovn,

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e la parte calcolatrice, to; logistikovn, che si identifica con la parte deliberativa (to; bouleutikovn), perché deliberare e calcolare sono la stessa cosa; essa ha come oggetto le cose possibili, che sono quelle su cui si delibera (per la teoria della deliberazione vd. EN III 5, 1112a 18-26; VI 5, 1140a 24-30). Solo il libero possiede completamente questa prerogativa (cfr. EE II 10, 1226b 21 ss.), che esercita in termini di saggezza pratica; lo schiavo, la donna e il fanciullo, che pure possiedono le parti dell’anima, si contraddistinguono invece per il diverso grado (si noti la discrepanza rispetto a quel che Aristotele ha detto sopra a proposito della differenza specifica e non di grado tra comandanti e comandati) nel possesso della parte deliberativa (to; bouleutikovn): lo schiavo ne è privo (il senso esatto dell’espressione è legato tuttavia all’interpretazione di o{lw~ della linea a 12 nel senso di «non ha del tutto la parte deliberativa» o di «non ha la parte deliberativa nella sua completezza»: cfr. Simpson 1998, p. 66 n. 86); la donna la possiede, ma senza autorità; il fanciullo anche, ma in modo non completamente maturo (cfr. EN III 4, 1111b 8-10: i fanciulli mancano della proaivresi~, la capacità di scelta). Va rilevata, a proposito dello schiavo – se lo si ritiene del tutto privo della facoltà deliberativa –, l’apparente contraddizione rispetto a quel che Aristotele ha detto poco sopra sul fatto che tutti possiedono le varie parti dell’anima: se tuttavia rileggiamo il passo citato del libro VI dell’Etica Nicomachea, possiamo osservare che la parte deliberativa non è che una delle partizioni dell’anima razionale; pertanto la sua assenza non pregiudica la divisione dell’anima in parte razionale e irrazionale e il possesso della parte razionale, ma semplicemente indica che lo schiavo non potrà deliberare su ciò che dipende da lui ed è realizzabile ad opera sua (su questo punto cfr. il commento al cap. 5 e III 9, 1280a 33-34: gli schiavi non partecipano della felicità perché non possono neppure scegliere di vivere). Non è chiaro invece che cosa intenda Aristotele quando afferma che la donna possiede la parte deliberativa nella sua interezza, ma priva di potere: egli potrebbe riferirsi alla realtà di fatto che le donne non hanno il potere di esercitare questa loro facoltà – ma non si tratterebbe di un fatto naturale legato al possesso della parte deliberativa – oppure, più probabilmente, al fatto che per natura esse non ne hanno la capacità, dal momento che «per natura invero il maschio è più adatto a comandare della femmina» (12, 1259b 1-2: tov te ga;r a[rren fuvsei tou' qhvleo" hJgemonikwvteron) e non sono in grado di discernere i fini a cui dirigere la propria azione oppure la loro parte irrazionale è dominata dalle emozioni più che nell’uomo (Saunders 1995, p. 99). Questa condizione femminile potrebbe spiegare anche il motivo per cui non è possibile l’alternanza nel potere tra marito e moglie, di

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cui Aristotele ha parlato nel capitolo precedente. Il fanciullo infine ha la parte deliberativa, ma non ancora completamente sviluppata; sarà dunque compito dell’educazione ricevuta dal padre e dalle leggi (EN X 10, 1180a 14 ss.) portarla a completa maturazione. 1260a 14-33 oJmoivw" toivnun... kai; douvlou pro;" despovthn. Qual è dunque il collegamento tra virtù e facoltà dell’anima? Ogni parte dell’anima è dotata di una virtù differente; pertanto, come differiscono le facoltà dell’anima, così anche si differenziano le virtù. Le virtù «etiche» (coraggio, temperanza, liberalità, magnanimità, mansuetudine e giustizia), come spiega l’Etica Nicomachea (cfr. sopra ed EN VII 12, 1152b 4-7), sono il prodotto di quella parte che obbedisce alla ragione ma non la possiede direttamente (sono etiche le virtù della o[rexi~, cfr. il commento al cap. 5); ora Aristotele afferma che tutti ne partecipano, ma in modo diverso a seconda del compito di ciascuno (cfr. anche EN II 1, 1103a 14 ss.: la virtù intellettuale, o dianoetica, nasce e si sviluppa a partire dall’insegnamento, per cui ha bisogno di esperienza e di tempo; la virtù etica invece deriva dall’abitudine, come indica anche il nome). Perciò chi comanda, dotato della facoltà deliberativa nella sua completezza, deve possedere la virtù etica al massimo grado per realizzare il proprio compito; egli è architetto e la ragione è architetto a sua volta, nel senso che come la ragione dirige e stabilisce i modi per raggiungere un obiettivo così anche colui che comanda ha il compito di indirizzare e guidare (cfr. EN III 5, 1112b 13); pertanto il punto non è il raggiungimento del fine, ma l’abilità nel trovare i mezzi per raggiungerlo (Saunders 1995, p. 100). Coloro che obbediscono invece avranno la virtù etica sufficiente a compiere il proprio dovere, che è evidentemente quello di collaborare con chi comanda nel raggiungimento dell’obiettivo (cfr. EN III 4, 1111b 7 ss.). Sul tema della virtù cfr. Gastaldi 1990; Ead. 1994. La conclusione di questa argomentazione (fanero;n o{ti, a 20) riassume dunque quanto dimostrato finora: tutti coloro di cui si è parlato (comandanti e comandati, schiavi, donne e fanciulli) hanno la virtù etica, ma ogni singola virtù non è identica in tutti a parte che nel nome (per spiegare questa posizione, piuttosto oscura, Saunders 1995, p. 100 cita EN III 11, 1117a 4-9, che distingue il coraggio legato all’impeto e quello che coinvolge scelta e fine): la temperanza non è la stessa per la donna e per l’uomo, così come non lo sono il coraggio e la giustizia (III 4, 1277b 18), ma vi sarà un coraggio di chi comanda (ajrcikh; ajndreiva) e un coraggio di chi funge da assistente (uJphretikh; ajndreiva). A questo proposito Aristotele muove una critica al pensiero socratico, riportato da Platone nel Menone (71c 5-73c 5): secondo Socrate le vir-

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tù, anche se sono molte e varie, hanno tutte una stessa forma, in base alla quale sono virtù; tutti gli uomini sono virtuosi allo stesso modo perché hanno acquisito la stessa virtù. Aristotele ritiene invece, come ha appena finito di dimostrare, che una definizione generale non sia in grado di esaurire tutte le differenze e che proprio il possesso delle parti dell’anima in modi singolarmente diversi faccia sì che vi siano numerose sfumature. Chi infatti fa un’analisi più dettagliata (kata; mevro~, cfr. anche 11, 1258b 33) si rende conto (dh`lon dev) del fatto che chi parla genericamente (kaqovlou) e dà definizioni in questo modo (tw`n ou{tw~ oJrizomevnwn), definendo per esempio la virtù una buona disposizione dell’anima (to; eu\ e[cein th;n yuchvn) o il fare bene (to; ojrqopragei`n, cfr. Plat. Men. 97b 9), si inganna; ha ragione invece chi, come Gorgia, cui si riferisce lo stesso dialogo platonico, enumera singolarmente le virtù (cfr. anche EN II 7, 1107a 28-32: relativamente alle virtù non bisogna parlare solo in generale, kaqovlou, ma anche riferendosi a casi particolari, toi`~ kaq’ e{kasta). Non possiamo identificare precisamente a chi Aristotele intendesse richiamarsi riportando le definizioni di virtù che egli non condivide; Platone vi fa riferimento in alcuni passi (Resp. I 353b; IV 444d; Carm.172a; Men. 97a-e), ma è probabile che tali dottrine facessero parte della tradizione socratica. Quanto a Gorgia, nel passo platonico sopra citato (Men. 71d-72b) Menone si fa portavoce del suo pensiero sostenendo che si può parlare di virtù diverse per uomini, donne, fanciulli, schiavi e anche in relazione all’età e alle diverse attività. Per esemplificare come la virtù si possa tradurre praticamente Aristotele fa allora un esempio tratto da una tragedia di Sofocle (Aiax, 293): Tecmessa sta citando le parole di Aiace, che ha appena tentato di dissuadere dalla vendetta: «il silenzio reca ornamento alla donna». Da un punto di vista sociologico quest’ affermazione va senz’altro letta alla luce della condizione femminile in Grecia, che limitava la libertà di movimento e di iniziativa della donna, confinata all’ambito domestico; tuttavia Aristotele usa consapevolmente questa dichiarazione a suffragare la bontà dell’argomentazione riguardante la virtù: la prescrizione del silenzio, comprensibile solo se si considera che il parlare sia un atto di controllo e di leadership (cfr. Simpson 1998, p. 69), vale per tutti, tranne che per l’uomo – anche se pronunciata da una donna (ma riferendo le parole di Aiace stesso) –, come si può dedurre dalla rassegna delle applicazioni dell’affermazione; della donna non occorre dire altro, poiché evidentemente è comprensibile, sulla base di quel che è stato detto sopra, che la sua imperfezione nella facoltà deliberativa mostri che essa non è in grado di usare in maniera appropriata la parola, e che la virtù diviene un atto di obbedienza a una guida superiore (Saunders 1995, p.

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100). È invece opportuno spiegare meglio per quel che riguarda il fanciullo e lo schiavo. Per il primo, si chiarisce che la sua incompletezza, destinata tuttavia a lasciare il posto alla piena maturità, lo rende dipendente dal padre e la sua virtù quindi non si realizza per lui stesso, ma per il padre, che è il suo fine – cioè la figura, il maschio adulto, in cui si compirà pienamente una volta cresciuto – e la sua guida nella scelta dei fini morali; per il secondo vale lo stesso discorso in relazione al padrone, ma con la differenza che il suo fine è servire il padrone. 1260a 33-1260b 7 e[qemen de;... h] tou;" pai'da". Il nuovo riferimento alla condizione dello schiavo rispetto alla virtù, come quello dell’inizio del capitolo (1259b 22), serve ad Aristotele per istituire un parallelo con un’altra categoria, quella dei tecnivtai o bavnausoi tecnivtai. Lo schiavo dunque è utile per le cose necessarie (5, 1254b 16), e ha pertanto bisogno di poca virtù e solo in quanto gli serve per non venire meno ai suoi compiti per mancanza di temperanza o per pigrizia. D’altra parte una piena deliberazione non servirà allo schiavo per realizzare al meglio i suoi impegni prioritariamente fisici (si veda il commento al cap. 5). Questa premessa è invece utile per porre un nuovo dubbio (ajporhvseie d’ a[n ti~): se quel che si è detto è vero, anche i lavoratori manuali specializzati dovranno possedere la virtù, dal momento che spesso vengono meno ai propri compiti per intemperanza. I due casi potrebbero però non essere confrontabili perché, mentre lo schiavo è legato indissolubilmente al padrone (perché partecipa della sua vita) ed esiste per natura, il lavoratore specializzato serve il padrone per un tempo definito, limitatamente al periodo in cui lavora per lui e lo serve, e non è tale per natura. La virtù quindi lo schiavo dovrà possederla per realizzare la volontà del padrone nell’esercizio dei compiti che gli vengono affidati (talvolta determinanti per il buon andamento della casa) ed è pertanto adeguato per natura ad esercitarla, l’artigiano invece dovrà possederla solo per quel tanto che gli serve quando lavora per il padrone e non quindi come forma di educazione permanente. Va rilevato tuttavia che appare fortemente incongruente che lo schiavo possieda più virtù del lavoratore specializzato, che è invece libero (cfr. Saunders 1995, p. 101). Non è inoltre del tutto perspicua la differenziazione tra la naturalità dello schiavo e la non naturalità del lavoratore specializzato, che potrebbe portare a ritenere che Aristotele consideri le arti non naturali e non necessarie nell’ambito dell’amministrazione domestica. In realtà probabilmente Aristotele, affermando che non si è calzolai per natura (ma cfr. Plat. Resp. IV 443c 5), intende sottolineare che si può esercitare un’arte solo grazie a un lungo apprendimento e non invece per una qualche capacità naturale, e sta precisan-

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do che la capacità professionale nell’artigiano determina la virtù morale (Saunders 1995, p. 101). Un’altra possibilità esegetica, prospettata da Simpson (1998, p. 69) e Schütrumpf (1991, I, p. 379), è che gli artigiani siano considerati non naturali perché vivono al di fuori della casa/ famiglia ad un livello più basso di quello degli schiavi e raggiungono il livello della schiavitù solo quando lavorano per qualcuno. La causa della virtù dello schiavo è quindi il padrone, ma non in quanto depositario di una scienza per insegnare allo schiavo a svolgere le sue mansioni (sulla scienza del padrone e il ruolo del sovrintendente si veda il commento al cap. 7, 1255b 35 ss.); il ruolo del padrone appare dunque decisivo per la gestione dello schiavo, ben più di quello di un semplice sovrintendente, responsabile della sola istruzione tecnica. Gli schiavi non vanno solo comandati, come sostengono alcuni (per esempio Plat. Leg. VI 774e 4-6), senza fare appello alle loro facoltà intellettive (cfr. 5, 1254b 22), ma è necessario ammonirli più dei fanciulli – che nella loro immaturità forse non sono in grado di comprendere appieno – nella consapevolezza che se ne otterranno migliori risultati. Questo passo è inoltre utile, insieme a EN VIII 13, 1161a 31-1161b 11, per comprendere le affermazioni aristoteliche di 6, 1255b 12-14 sul rapporto di amicizia padrone-schiavo. 1260b 8-20 Alla; j peri; me;n touvtwn... koinwnoi; givnontai th'" politeiva". Ancora una volta Aristotele si è dilungato a parlare dello schiavo, tema che ha già approfondito a più riprese; avviandosi alla conclusione, ora sembra voler chiudere definitivamente l’argomento, e in effetti non vi tornerà più in maniera analitica per il resto dell’opera. Riguardo invece agli altri membri della casa nelle loro relazioni reciproche (marito e moglie, figli e padre, in chiasmo) e rispetto alle loro virtù, egli ritiene necessario rimandare la trattazione al momento in cui si occuperà delle forme costituzionali (per l’espressione cfr. anche IV 2, 1289a 26). Quest’ affermazione ha suscitato un ampio dibattito tra i commentatori: in effetti, Aristotele non si occuperà specificamente, nel prosieguo della Politica, delle relazioni matrimoniali e genitoriali, come ci si aspetterebbe dal preciso elenco di temi qui sviluppato (l’uomo e la donna, i figli e il padre nelle loro relazioni reciproche, «che cosa vada bene e che cosa no e come debbano perseguire il bene e fuggire invece il male»), come hanno rilevato per esempio Newman 1887, II, p. 224; Barker 1946, p. 38 n.1; Lord 1984, p. 249 n. 35; Schütrumpf 1991, I, p. 380. L’argomento è stato a più riprese utilizzato come indicazione per l’ordine dei libri e le fasi della composizione dell’opera, senza tuttavia che si sia giunti a risultati produttivi. Va rilevato però che gli argomenti elencati

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da Aristotele, come nota Simpson (1998, p. 70), riguardano l’educazione in relazione alla virtù e pertanto il tema generale dell’educazione all’interno delle forme costituzionali sarà ampiamente affrontato, pur se senza citare direttamente le relazioni matrimoniali o genitoriali, soprattutto nei libri VII e VIII (si noti lo stretto legame di questa sezione con la parte relativa allo stato ideale). D’altra parte è lo stesso autore a dirci che la famiglia è parte della città (cfr. III 4, 1277a 5-12) e che relativamente alla virtù bisogna guardare la parte in relazione al tutto, per cui i fanciulli e le donne vanno educati guardando al regime costituzionale e non solo alla casa/famiglia (cfr. VIII 1, 1337a 11 ss.); il comportamento virtuoso di donne e fanciulli infatti non è assolutamente trascurabile se vogliamo parlare di una città virtuosa (spoudaivan; cfr. VII 2, 1324a 12 ss.; cfr. Gastaldi 1987, p. 86), perché le donne rappresentano la metà dei liberi – anche se non partecipano direttamente alla vita politica, ma nella relazione matrimoniale e in quanto madri hanno un ruolo determinante (cfr. II 9, 1269b 12-19; 1270a 11-15) – e i fanciulli nella comunità si dedicheranno alla vita politica (koinwnoi; givnontai th`~ politeiva~: l’espressione è collegabile alla partecipazione ai diritti di cittadinanza, espressa in modo simile in II 8, 1256b 38; III 3, 1276b 2; IV 4, 1291b 36), a differenza degli schiavi che invece sono più strettamente legati all’oikos e che non trovano quindi posto in questa sommaria descrizione della società all’interno della polis. Quindi, occupandosi del tutto (la polis in tutti i suoi aspetti), Aristotele non mancherà di fornire indicazioni valide per la parte (in questo caso donne e fanciulli, ma anche la gestione della casa/famiglia in generale, di cui la polis rappresenta il fine ultimo, cfr. 2, 1252b 31). 1260b 20-24 w{st’ ejpei; peri; me;n touvtwn... peri; th'" politeiva" th'" ajrivsth". Il cerchio si chiude: il libro si era aperto con la polis e ad essa ritorna, dopo che il composto è stato smontato fin nelle sue parti semplici – le componenti della casa/famiglia, base della comunità cittadina – e ciascuna di esse è stata analizzata in distinte sezioni. Quest’ultimo capitolo ha ricostruito l’insieme riassumendo e ricollocando queste parti nell’intero. Ha ragione dunque Aristotele a sostenere che questi argomenti sono stati ormai definiti e i discorsi che li riguardano possono essere considerati conclusi, come qualcosa che abbia raggiunto il suo fine, il tevlo~ di cui tanto si è trattato in queste pagine; di quel che resta quindi bisogna parlare altrove, cominciando nuovamente dalle posizioni di coloro che hanno trattato l’ajrivsth politeiva, la costituzione migliore. Anche se si può nutrire qualche dubbio, come è accaduto più volte tra i commentatori, che questa ultima frase sia da attribuire alla

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fase originaria di composizione dell’opera e non risponda invece ad esigenze pratiche di coloro che si occuparono della risistemazione degli scritti aristotelici (Schütrumpf 1991, I, p. 384 cita Burnet – anche per la conclusione dell’Etica Nicomachea si prospettano problemi simili –: un interpolatore avrebbe collegato in maniera più omogenea i due libri), la transizione ad un altro ordine di problemi è comunque chiaramente espressa già dalle righe precedenti ed è evidente anche dall’inizio del capitolo successivo, che corrisponde al principio del secondo libro.

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1252a 28. La pagina iniziale della Politica offre immediatamente opportunità di riflessione sulla fortuna del testo (almeno in età tardo-antica), al di là delle testimonianze materiali di tradizione diretta. Quanto sintetizzato in apparato critico riflette infatti una dicotomia di lezione genevsew~ / gennhvsew~ che non deve trarre in inganno gli editori; non si tratta infatti di una variante interna ai testimoni dell’opera, bensì di una lezione parallela e proveniente da tradizione indiretta. Un intero capitolo delle Eclogae physicae et ethicae di Giovanni Stobeo, antologista macedone attivo nel V secolo d.C., è tratto molto probabilmente dall’Epitome di dottrine filosofiche di Ario Didimo (filosofo stoico di età augustea); verso la conclusione di tale capitolo il compilatore (Ario stesso, più che lo Stobeo) ha redatto una parafrasi riassuntiva della parte iniziale della Politica di Aristotele, valendosi anche degli ipsa verba del filosofo secondo una tecnica quasi centonaria (comunque compilativa: Stob. II 7, 26 = II, pp. 148-149, ed. Wachsmuth). Dreizehnter, riferendosi più che al testo di Aristotele alla dottrina politica della sua scuola, e dunque anche all’opera didattica dei continuatori, parla di contenuti peripatetici adattati dallo stesso Ario Didimo (non il testo di Aristotele dunque, ma un compendio del suo insegnamento attraverso un abbozzo riferito alla Politica: «Abriß der peripatetischen Politik des Areios Didymos bei Stobaios angeführt», in Dreizehnter 1970, p. XVII). In questa pagina antologica dello Stobeo si legge tra l’altro Sunevrcesqai ga;r tw`/ qhvlei to; a[rren kata; povqon teknwvsew~ kai; th`~ tou` gevnou~ diamonh`~: ejfivesqai ga;r eJkavteron gennhvsew~ (ibid. ll. 1921), che altro non è se non parafrasi succinta di Pol. I 2, 1252a 26-30 (in corsivo prefissi, termini, locuzioni mutuati dai compilatori): ajnavgkh dh; prw'ton sunduavzesqai tou;" a[neu ajllhvlwn mh; dunamevnou" ei\ nai, oi|on qh'lu me;n kai; a[rren th`" genevsew~ e{neken, kai; tou'to oujk ejk proairevsew", ajll∆ w{sper kai; ejn toi'" a[lloi" zw/voi" kai; futoi'" fusiko;n to; ejfivesqai, oi|on aujtov, toiou'ton katalipei'n e{teron. Sulla base del confronto, alcuni studiosi di Aristotele hanno inteso ritrovare anche corrispondenze mancanti, puramente supposte, che implicassero un ritocco testuale, o dei codici dello Stobeo o della tradizione aristotelica, al fine di apparentare i due luoghi in modo ancor più stringente (non senza risultati talora paradossali e metodologicamente discutibili: è accaduto che il testo di Aristotele fosse corretto sulla base del riferimento allo Stobeo, come per genevsew~ > gennhvsew~; e viceversa che in altri punti il testo delle Eclogae fosse corretto sulla base della

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stessa modifica alla Politica: così in Stob. II, p. 148 l. 6 il genevsei dei manoscritti FP è stato trasformato da Spengel in gennhvsei, e come tale accettato anche da Wachsmuth, editore delle Eclogae). Susemihl, tardivamente seguito da Ross, accolse la variante di tradizione indiretta probabilmente per due ragioni, di per sé ragguardevoli: a) nell’opposizione gevnesi~ / gevnnhsi~ doveva valere il criterio della lectio difficilior a favore della seconda; b) la tradizione indiretta poteva aver preservato una facies testuale più vicina all’originale rispetto alla vulgata dei codici medioevali. A confutazione delle due ragioni intervengono però rispettive considerazioni, di ordine differente; a) anzitutto a proposito dell’usus scribendi aristotelico. Pur senza note sulla variante testuale in questione, in Newman ad locum si legge: «Gevnesi~ is a wider term than gevnnhsi~: ‘et ipsum to; givgnesqai et genna`sqai significat, et universam eam seriem mutationum complectitur quibus conficitur generatio’ (Bon. Ind. 148b 4)» (Newman 1887, II, p. 105; per la citazione in parentesi Newman ricorre a Bonitz 1870). Più complessa, inerente a storia e struttura dello gnomologio, la seconda considerazione del problema; b) è assolutamente vero, e ormai acquisito, che in molte occasioni la tradizione indiretta fornisca lezioni superiori a quelle di tradizione diretta: nello specifico dell’Anthologion di Giovanni Stobeo, i prelievi del compilatore risalgono a fonti datate (al più tardi) al V secolo d.C., e quindi cronologicamente precedenti rispetto alla formazione degli archetipi di tradizione diretta. Il confronto tra le versioni, finalizzato a constitutio textus, è dunque del tutto legittimo a patto che si verifichi una condizione precisa: il lettore deve trovarsi di fronte ad autentica egloga, ossia citazione circostanziata dell’autore antico, eventualmente corredata di opportuna didascalia (completa di nomen auctoris, titolo dell’opera e partizione interna, oppure parziale), non già ad anonima parafrasi e riassunto di contenuti, in cui la specifica lezione testuale può andar soggetta all’intervento di ogni copista come autore (per citare una suggestione di Canfora 2002a, in particolare pp. 21, 34-38). Nel caso attuale - per concludere - non si è di fronte a un prelievo dello Stobeo a partire dalla Politica di Aristotele, bensì a una Zusammenfassung di probabile ambito originario teofrasteo, ripresa da Ario Didimo, poi citata da Giovanni Stobeo, senza possibilità di controllo su adattamenti e interpolazioni intermedi (ricorda ancora Dreizehnter riferendosi al capitolo filosofico dello Stobeo: «schon von Arnim hat festgestellt, daß dies nichtstimmen kann, und hat die Vorlage als teils theophrastisch, teils stoisch bezeichnet», Dreizehnter 1970, p. XVIII). Inoltre il testo del compilatore è trasmesso all’interno di una più complessa antologia: «In general, the texts were simply copied verbatim and entire from their

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sources. Nevertheless, they were also tendency on the part of both the compilers of gnomological anthologies and also the scribes who copied them to treat the texts to some degree as their own property» (Hahm 1990, p. 2943). Hahm ha classificato la pagina in esame come Ethical Doxography C, ossia la terza parte (dedicata all’etica peripatetica) della discussione filosofica desunta da Ario Didimo in Giovanni Stobeo. Accantonare l’unanimità della tradizione diretta dei codici di Aristotele per scegliere una lezione tratta da tale compendio è del tutto arrischiato. Göransson 1995, pp. 203-226, ha posto in dubbio con solidi argomenti l’identificazione di Ario Didimo con Ario filosofo, amico di Ottaviano Augusto, ma il suo scetticismo è stato ulteriormente confutato: per la bibliografia in merito e un confronto dettagliato tra Aristotele e l’epitome, mirato a evidenziare il progressivo allontanamento dall’impostazione originaria della Politica, si veda Nagle 2002 (pp. 198-199 n. 2 per l’identità storica di Ario). Per un utile schema - più in generale - delle fonti dossografiche confluite in Giovanni Stobeo, a partire anche dai testi di Aristotele, si vedano Mansfeld-Runia 1996, p. 81. 1253a 2. o{ti oJ a[nqrwpo~ è attestato soltanto dai manoscritti della I famiglia, mentre tutti gli altri testimoni omettono l’articolo. Trattandosi appunto di articoli, non è possibile verificare quale lezione sia stata tradotta nelle versioni latine di Guglielmo; Newman, con rimando a studi grammaticali (Newman 1887, II, pp. 62-64), ma anche più in generale ai criteri della sua edizione, ha suggerito che in casi come questo sia preferibile adottare la lezione di P2 (quindi senza articolo, come già in I 2, 1252b 5 davanti a dhlou`n, 14 davanti a Carwvnda~, etc.). La scelta però, più che affidarsi all’automatismo di un partito preso, non dovrebbe prescindere dall’analisi del singolo passo, in vista di opzione oppure di intervento critico: gli editori hanno unanimemente condannato il secondo ejsti di l. 3, inutilmente ripetuto all’interno del periodo, senza notare che analoga zeppa si è probabilmente inserita nella seconda parte della proposizione con la ripetizione di o{ti (anzi: se si cancella il secondo ejsti, inutile duplicato del primo, è opportuno cancellare anche il secondo o{ti, la cui funzione sintattica è sottointesa dal precedente, all’inizio di l. 2). La congiunzione ripetuta parrebbe essersi sviluppata su un articolo originariamente presente (oJ a[nqrwpo~), ipotizzabile grazie alla simmetria con il precedente hJ povli~ e il successivo oJ a[poli~ (in cui l’articolo è unanimemente attestato dai manoscritti). Nella ricostruzione proposta, sul testo originario sarebbe intervenuto un correttore, a integrare oJ in o{ti (per specificare la struttura sintattica che prosegue in coordinazione); successivamente, un altro intervento editoriale (forse finalizzato al restauro della suc-

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cessione osservata) avrebbe inserito anche l’articolo, riscontrabile soltanto in un ramo della tradizione (P1). 1253a 6-7. a{te per a[zux w]n w{sper ejn pettoi'". Per comprendere la funzione di questa similitudine (che al lettore antico certamente spiegava meglio la riflessione di Aristotele), occorre riprenderne il contenuto in altre parole, e chiedersi: il filosofo sta paragonando l’uomo a[poli~ a una pedina nel gioco dei pettoiv, oppure a un uomo che se ne sta isolato rispetto a quelli impegnati nel gioco dei pettoiv? A prescindere dalle informazioni tecniche (peraltro assai scarse) su tale gioco, è opportuno rimandare a Euripide (Med. 68), ossia al punto in cui il Pedagogo afferma: [Hkousav tou levgonto~, ouj dokw`n kluvein, pessou;~ proselqwvn, e[nqa dh; ktl. Pessouv~ di Euripide può anche essere tradotto luogo in cui si gioca a dadi («giunto alla Contrada dei dadi» traduce per esempio Musso 1996, p. 214; per una descrizione del gioco dei dadi tradizionalmente inteso, e dunque più recente rispetto a quello cui Aristotele allude, si veda il trattato cristiano dello Pseudo Cipriano, Il gioco dei dadi, in Nucci 2006, pp. 28-38). Ma il disordine delle lezioni testuali e delle numerose corruzioni medioevali induce a credere che il passo aristotelico non fosse più compreso da copisti e lettori, e producesse stravolgimenti (in alternativa ad a[zux w[n si leggono chiose etimologiche come a[neu zugou` tugcavnwn, in taluni codici recenziori, fino alla traduzione sine jugo existens di Guglielmo (che appunto da questa esplicazione parrebbe derivare), e alla correzione a[neu zeuvgou~ nell’editio Bas.2). Non soltanto: è attestato anche uno scholion (ad locum nel codex Cast [Laurenziano Acquisti e Doni 4], di XV secolo) che intende a[zux w[n con ajnariptw`n, ossia una forma participiale del disusato ajnariptevw (per ajnarrivptw), ‘rischiare, giocare d’azzardo’. L’esegesi scoliastica risulta senza dubbio originale, ma poco probabile: difficilmente Aristotele attribuirebbe la causa (a{te) dell’essere polevmou ejpiqumhthv~ a colui che ama rischiare al gioco, o comunque a chi gioca in maniera troppo disinvolta (la menzione dei dadi subito appresso ha tratto in inganno lo scoliaste). Ragionevoli, dunque, i dubbi di Richards sulla originarietà di quanto tràdito, a partire da quel pleonastico nesso iniziale a{te per. Un intervento congetturale economico, che presuppone soltanto una trasposizione del termine di comparazione w{sper, forse permette di ritrovare sintassi e senso soddisfacenti, nonché aderenza semantica del complemento ejn pettoi'" rispetto al locus similis euripideo: a{te ãw{sÃper a[zux w]n [w{sper] ejn pettoi'" (l’a[poli~ sarebbe dunque tale «perché si comporta come uno che se ne sta isolato nel luogo dove si gioca a dadi»).

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1253a 34. oJ de; a[nqrwpo" o{pla e[cwn fuvetai fronhvsei kai; ajreth/'. Rispetto alla frase precedente, la proposizione non è di facile interpretazione, specie per la valenza di o{pla e del complemento introdotto da fuvetai (Immisch, per esempio, è convinto che sia un dativo finale: “in vista di saggezza e virtù”). Ma come intendere il primo sostantivo? «Pour Vettori et d’autres commentateurs, les armes, ce sont la prudence et la vertu dont on parle; mais le datif fait ici difficulté. Montecatini traduit ce passage “arma homini data sunt ad prudentiam et virtutem”. De même Bernays traduit “geschaffen mit einer Rüstung zu Einsicht und Tugend”, et pour lui les armes, ce sont “die Affekte”, les passions. [...] Holm (de Ethicis Politicorum Aristotelis principiis, p. 39) traduit “ad virtutes exercendas”» (Aubonnet 1960, pp. 111-112). Parte della tradizione antica aveva già manifestato dubbi di comprensione, dal momento che la translatio imperfecta di Guglielmo aggiungeva una negazione: nel suo modello, secondo la ricostruzione di Susemihl, si sarebbe letto oujk e[cwn o{pla. Riferendosi a Seneca, de ira 1, 17, 1 (Aristoteles ait adfectus quosdam, si quis illis bene utatur, pro armis esse; cfr. anche de ira III, 3, 1; nella filologia aristotelica si tratta del f. 80 Rose) Rostagni aggiunge: «Con questo frammento di traduzione latina è utile confrontare Polit. I 2, 1253a, 33-35, dove o{pla son le passioni (purché si conservi la lezione manoscritta che molti, per mancata intelligenza, correggono). Similmente le passioni eran chiamate stratiw`tai: vedi Philod. De ira, col. XXXIII, 17-19, p. 69 Wilke, confrontando con Senec., ibid., I, 9, 2» (Rostagni 1945, p. XLII n. 1). Quale che sia il valore semantico di o{pla in questa frase, lo stesso dovrà necessariamente essere riferito anche al colon precedente, che la introduce (calepwtavth ga;r ajdikiva e[cousa o{pla). L’intero contesto categorizza infatti e identifica la perfezione dell’uomo con l’aderenza alla giustizia; quando Aristotele contrappone il pericolo di un’ingiustizia ‘armata’ (ossia la condizione di uomo che si è allontanato da divkh) all’uomo che, al contrario (dev di l. 34), agisce per natura con saggezza e virtù, egli propone semplicemente una sorta di definizione storico-civile (poiché tesa alla costituzione della koinwniva) del comportamento giusto o ingiusto. 1253b 10. teknopoihtikhv. Il termine, a{pax legovmenon (presumibilmente conio aristotelico) è unanimemente attestato dalla tradizione manoscritta, senza varianti. La maggior parte degli editori però ha inteso modificare, optando per la stampa di patrikhv – evidente sinonimo di più alta frequenza – che compare anche in I 12, 1259a 38 (ma già Newman, che insieme a Ross e Aubonnet conserva la lezione dei codici greci, aveva notato come «Patrikhv is substituted for teknopoihtikhv

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in I. 12. 1259a 38», Newman 1887, II, p. 132). Relativamente al passo in questione, patrikhv si desume esclusivamente dalla traduzione latina paterna di Leonardo Bruni d’Arezzo (Ar.(etinus), negli apparati delle edizioni). Persino nelle due versioni di Guglielmo compare la traslitterazione teknopoiitika. Forse nel modello di Bruni era presente una glossa esplicativa, ricavata dal successivo passaggio di 1259a 38, e subentrata nel testo in sostituzione della lezione autentica; ma è anche possibile che Bruni stesso abbia voluto tradurre teknopoihtikhv e patrikhv con lo stesso aggettivo latino, paternus. L’opzione per un termine ricostruito a partire dal latino, a fronte di tutti gli altri testimoni greci, appare assai discutibile: significa negare ad Aristotele la possibilità di utilizzare sinonimi (si veda, a titolo di esempio, come oijkonomiva di I 3, 1253b 2-3 divenga oijkonomikhv a I 12, 1259a 37). Ma neppure è legittimo escludere a priori un neologismo (tanto più in questo capitolo: in 1253b 9-10. l’autore lamenta la mancanza di un termine adeguato a esprimere un tipo di legame familiare; non sarà possibile dunque l’introduzione di parola inedita ma funzionale?). Da ultimo, si consideri che teknopoihtikhv è hapax legomenon (forse anche ostico), ma non è certo lectio singularis, passibile tout court di eliminatio (Newman, ibid., aveva suggerito analoga direzione di ricerca, puntando sulla funzionalità verbale, senza però sottolineare l’aspetto neologico della lezione: «The words gamikhv and teknopoihtikhv are probably felt by Aristotle not to describe the nature of the ajrchv in the same clear way in which the word despotikhv describes the ajrchv of the master over his slave. We are told in the de Anima (2. 4. 416b 23) that ‘everything should be named in reference to the end it realizes’. The words gamikhv and teknopoihtikhv certainly do not give us this information»). Sull’aspetto semantico di teknopoii?a come età adatta alla procreazione, dunque consigliabile per la realizzazione del matrimonio, cfr. Newman 1887, I, pp. 186-187. Dreizehnter 1962, p. 13, ha affermato più recisamente di tutti che non soltanto teknopoihtikhv sarebbe un errore, ma anche che apparterrebbe al ristretto gruppo di errori comuni a tutta la tradizione, grazie ai quali è possibile supporre l’esistenza di un archetipo («Dies ist nach den Lexica die einzige Stelle in der griechischen Literatur, an der dieses Wort vorkommt»); la classificazione non convince affatto, perché parte dal presupposto (sbagliato) che un eventuale neologismo aristotelico vada accantonato, e sostituito o dal primo sinonimo disponibile (patrikhv di 1259a 38) o da incerte attestazioni di tradizione indiretta (Stob. II 7, 26 = II 149, 8-11 W.); ma non convince soprattutto perché non spiega come sarebbe nata, e a opera di chi, l’interpolazione teknopoihtikhv. Risulta quindi da precisare anche la notazione di

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Schütrumpf (basata sulla stessa indicazione sintetica di Dreizehnter) «Für verfehlt halte ich es, wenn Dreizehnter unter Berufung auf die Nebenüberlieferung bei Stobaios in seiner Textausgabe teknopoihtikhv in patrikhv ändert und hierin einen “gemeinsamen Fehler aller Hss.” entdecken möchte (1962, 13)» (Schütrumpf 1991, I, p. 231), in quanto il passaggio riassuntivo dell’Anthologion non è riferito a Pol. I 3, 1253b 10, ma alla tripartizione di 12, 1259a 37-39. Del resto, se anche lo Stobeo offrisse patrikhv in riferimento al passo in questione, non muterebbe il giudizio sulla qualità della rielaborazione scolastica del cap. 2, 7 dell’antologia, già espresso a proposito della variante di 1252a 28. 1253b 37. Nonostante alcuni testimoni della prima famiglia (MS) e la traduzione completa di Guglielmo rechino la forma verbale composta uJpoduvesqai (subinduere), gli editori scelgono l’infinito semplice duvesqai. Il motivo di preferenza della lectio facilior è soprattutto esterno al testo, poiché il modello che Aristotele sta citando in questo passo (fhsin oJ poihthv~) è precisamente individuabile in un verso dell’Iliade (XVIII 376, o[fra oiJ aujtovmatoi qei`on dusaivat∆ ajgw`na) in cui compare la forma semplice. Si può però obbiettare a tale scelta per due motivi pragmatici di notevole evidenza: (1) Aristotele, come molto sovente, non sta citando alla lettera il testo omerico (aujtomavtou~ qei`on [uJpo]duvesqai ajgw`na non è l’esametro completo, e la cadenza metrica non torna se non in parte; la grammatica dell’originale è anzi modificata dalle esigenze sintattiche attuali). (2) Come spiegare il conio uJpoduvesqai in un versante importante della tradizione? Sarebbe difficile argomentare l’ipotesi di un copista che modifichi il proprio modello con un composto sul tema verbale (e, del resto, per quale motivo?). La lectio di MS (corroborata dalla versione completa di Guglielmo) risulta certamente difficilior. Aristotele sta parafrasando Iliade XVIII 376 (molto probabilmente per citazione a memoria, parzialmente errata), e trascorre da duvw a uJpoduvw (per quest’ultimo cfr. Metaph. IV 2, 1004b 18; anche Laurenti parla di «citazione accomodata», in Laurenti 1966, p. 14 n. 51). «La memoria può essere mirabile; infallibile non sarà mai. E ciascun di noi, quando recita a memoria, sostituisce senza volere una formula all’altra; rifà il verso nell’atto stesso che lo dice. È naturale che proprio così il dicitore sostituisca usi linguistici a lui familiari, dunque moderni o forse peculiari del suo dialetto, alla forma genuina» (così sui possibili “errori di memoria” di Aristotele Pasquali 1988, pp. 202-203). Risulta quanto meno affrettato scartare la variante sulla base di una pregiudiziale, assoluta fedeltà linguistica e stilistica di Aristotele rispetto a modelli e fonti richiamati senza controllo scrupoloso. Nell’altro ramo della tradizione (P2 e derivati, oltre che nel modello della traduzione

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incompleta di Guglielmo) può essere invece intervenuto un copista che, dopo aver controllato il passo omerico, abbia cancellato il preverbo agglutinato dalla memoria artistotelica; per un’altra configurazione problematica di citazione omerica cfr. III 13, 1285a 13-14 e relativa nota. 1254a 15. L’opposizione a[nqrwpo~ w[n/a[nqrwpo~ dev dei codici permette di riconoscere, pur con qualche deroga per alcuni testimoni, la tradizionale suddivisione nelle due principali famiglie di manoscritti: P1 al completo trasmette w[n, mentre i più importanti testimoni di P2, insieme ad alcuni derivati, recano dev. La scelta di w[n (condivisa da tutti i precedenti editori) non è però il frutto di un automatismo, specie a partire da Newman, il primo editore della Politica che predilige sistematicamente le lezioni di P2 contro quelle di P1 (esattamente al contrario di quanto accaduto nelle quattro edizioni di Susemihl). La figura filologica è anche più interessante del solito, in quanto le versioni latine (di Guglielmo e di Bruni) o non traducono la frase in questione oppure rendono in un modo che non permette di stabilire con certezza il testo del modello (qui enim sui ipsius non est secundum naturam, sed alterius homo, hic natura est servus Bruni). Nel confronto di soli codici greci, è dirimente la testimonianza di Alessandro di Afrodisia (fine II/ inizi III secolo d.C.), che cita questo passaggio della Politica nel suo commento alla Metafisica, e attesta w[n, confermando quindi autorevolmente, per antichità, la lezione di P1 (a onor del vero, neppure la tradizione di Alessandro è del tutto unanime; il codice Laurenziano 87,12 propone infatti un testo differente rispetto a quello adottato dagli editori del commento alla Metafisica: to;n ga;r dou`lon ejn toi`~ Politikoi`~ ei\ pen ei\nai to;n a[nqrwpon to;n a[llon o[nta kai; mh; eJautou`). 1254a 16. La tradizione manoscritta, più che essere divisa, è in realtà quasi del tutto riscritta: le indicazioni riassuntive di Newman («the better MSS. have dou`lo~ w[n, those of less authority a[nqrwpo~ w[n», Newman 1887, II, p. 67), o quelle eccessivamente generiche di Dreizehnter («dou`lo~ w[n testes, a[nqrwpo~ w[n var. lectio in ABCDP, edd.», Dreizehnter 1970, p. 8), possono trarre in inganno, anche per la scelta pressoché unanime di stampare a[nqrwpo~ w[n. Sono infatti quasi tutti i codici a riportare la lezione dou`lo" w[n, mentre quelli più importanti e un nutrito gruppo misto recano a margine la variante; pochissimi i testimoni che presentano soltanto a[nqrwpo" w[n senza note marginali. Ma la suddivisione non si presta alla solita distinzione delle due famiglie, né allo scambio di informazioni con cui i correctores hanno postillato alcuni esemplari (soprattutto nell’incrocio ricorrente per cui P1 rechi a margine lezioni di P2, mentre A1,2 riporti varianti tipiche di P1). La nota marginale dilaga in gruppi di codici di entrambe le famiglie, senza

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lasciarsi localizzare dalle solite etichette: a[nqrwpo~ w[n (classificabile come lectio facilior) non compare soltanto nel gruppo, solitamente omogeneo, dei cosiddetti deteriores (P4) né vi coincide semplicemente. L’apparato riporta dunque nel dettaglio tutte le presenze della variante a margine, per documentare quanto capillarmente essa si sia diffusa quale lezione alternativa, e come abbia convinto tutti gli editori, tranne Susemihl (che ricostruisce il testo in modo personale, seguendo la versione latina di Guglielmo, e restando fedele alla sua idea in tutte e quattro le edizioni della Politica) e Dreizehnter, che per primo riabilita la lezione originaria. La variante a[nqrwpo" w[n è stata definita facilior, perché permette di stabilire una simmetria rispetto allo stesso inciso della riga precedente, da rendersi in traduzione con valenza concessiva: «pur essendo uomo è per natura schiavo chi appartiene ad altri» (l. 15), così come «è uomo che appartiene ad altri chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà» (l. 16). Dreizehnter ha molto opportunamente rivendicato dignità di testo affidabile alla prima scrittura dei codici più importanti (P1+P2); si può interpretare, oltre che condividere, la sua scelta, sulla base di due motivazioni, di ordine grammaticale e semantico. 1) Chi adotta la variante marginale produce un testo in cui lo stesso termine «uomo» è iterato a brevissima distanza con funzioni sintattiche differenti, prima di soggetto semplice, poi di concessione alla natura del soggetto stesso: ejsti;n a[nqrwpo" o}" a]n kth'ma h/\ a[nqrwpo" w[n. Il testo, apparentemente chiaro, sarebbe corretto se la seconda occorrenza di a[nqrwpo" fosse almeno accompagnata da una specificazione. 2) Chi accetta la lezione dou`lo~, contro l’ammodernamento semplificante della correzione e la consuetudine editoriale, si accorge che il ragionamento di Aristotele non è simmetrico, ma lineare e concatenato, e che la seconda espressione retta dal participio w[n non necessariamente deve essere intesa con valore concessivo, ma presenta un senso soddisfacente e conforme al seguito del discorso: «pur essendo uomo è per natura schiavo chi appartiene ad altri» (l. 15), «dunque è uomo che appartiene ad altri chi è oggetto di proprietà, appunto in quanto schiavo» (r. 16). 1254b 1. mocqhrw`~ ejcovntwn: l’espressione avverbiale in aggiunta al complemento che precede mocqhrw`n è parsa a molti editori sospetta, imponendosi soprattutto (come al solito) la versione latina di Guglielmo pestilentium et prave se habentium. L’avverbio prave, secondo gli editori primo-ottocenteschi di cui Susemihl raccoglie l’eredità, non può essere traduzione del corrispondente termine greco presente nei codici, bensì di fauvlw~ (come quello che si legge subito appresso in 1254b 2). Buecheler proponeva infatti l’arretramento dell’avverbio, con esito tw`n ga;r mocqhrw`n h] fauvlw~ ejcovntwn. Del resto lo stesso Susemihl era as-

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sai propenso a credere in un guasto antico della tradizione, preservatasi correttamente nel modello di Guglielmo; annotava dunque «fauvlw~ G (wie es scheint)» (Suse.2, I, p. 96 n. 1). Sarebbe sufficiente interrogarsi sulla possibilità (paleografica e qualitativa, difficilior / facilior) della trasformazione di un originario fauvlw~ in mocqhrw`~ per vanificare l’opportunità di tale intervento. Il tutto senza specificare che ogni sorta di sospetti nasca dalla traduzione latina, non già da variante testuale del greco (che sarebbe caso assai diverso); nel modello di Guglielmo, piuttosto, una variante ascitizia di mocqhrw`~ (fauvlw~? kakw`~? una glossa?) potrebbe aver provocato la versione prave. Ma perché non supporre anche un Guglielmo traduttore ambizioso, felice di introdurre una piccola variatio stilistica nella resa del costrutto disgiuntivo greco? Si ricordi per esempio la diade-modello di versione filosofica dal greco, non certo exemplum di scrupolosa fedeltà linguistica e stilistica: Cicerone/Platone, in occasione dei capp. 29-43 del Timeo. A dispetto di pregiudizi cristallizzati, sulla metodologia di traduzione ha avvertito esplicitamente Jean Aubonnet: «Le traducteur latin omet ou ajoute des particules et des mots, change les modes, temps et voix des verbes grecs, modifie l’ordre des mots, rend un mot par une périphrase pour l’expliquer ou même introduit des gloses et des leçons marginales à la place de la leçon originale» (Aubonnet 1960, p. CC). 1255a 1-1255b 4. Nello scarno quadro della tradizione indiretta merita una nota la menzione di un cospicuo estratto della Politica all’interno di un’opera spuria, attribuita da una tradizione molto tarda a Plutarco. Il breve trattato Peri; eujgeneiva~ (Pro nobilitate) è incluso nel catalogo di Lampria al numero 203 degli scritti di Plutarco; non vi è però alcuna testimonianza testuale del libellus, fatta eccezione per due estratti nell’Anthologion di Giovanni Stobeo (IV 29, 21; IV 29, 51; il titolo indicato nel lemma oscilla tra uJpe;r eujgeneiva~ e kata; eujgeneiva~, ma non ci sono dubbi che «Stobeo aveva dinanzi a sé uno scritto di Plutarco su questo tema», come ha osservato Ziegler 1965, p. 212). Il testo completo del Pro nobilitate comparve, nella sola traduzione latina, in un’edizione a stampa del 1566 a Lione (Plutarchi Chaeronei pro nobilitate libri fragmentum, a cura di Arnoldus Ferronus Burdigalensis); il testo greco fu rintracciato più tardi in un manoscritto di Copenaghen datato alla fine del XV secolo (ora presso la Biblioteca Civica di Amburgo, Philol. gr. II 4c) da parte di J.L. Mosheim, e quindi pubblicato da J.C. Wolf nel quarto volume dei suoi Anecdota Graeca (Amburgo 1724). Dal modello di tale manoscritto il Ferronus doveva aver tratto la sua traduzione latina, completa delle citazioni da autori classici, come appunto Aristotele, a differenza del codice con il testo greco, in cui gli

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estratti non sono riportati per esteso (tra gli estremi della citazione è semplicemente segnato un asterisco). Le poche varianti riscontrabili tra il testo stampato da Wolf, e ripreso anche da Bernardakis, inducono a credere che il modello della compilazione, nel caso della Politica, sia stata una copia appartenente alla famiglia P2. La massiccia presenza della Politica in uno scritto tardo, falsamente attribuito a Plutarco, fa osservare come il testo diventi anche oggetto di citazione antologica dopo essere ritornato in circolazione, ossia nella fase di trascrizione e riproduzione dei codici umanistici (il XV secolo); alla stessa altezza cronologica, e non prima, va infatti collocata la redazione del pastiche plutarcheo pro nobilitate, probabilmente a opera di «un umanista italiano del quindicesimo secolo, che aveva avuto attraverso Stobeo notizie dello scritto di Plutarco su questo tema» (Ziegler 1965, p. 214). Soltanto sulla base di questa ricostruzione storica si può accettare il giudizio di inutilità della testimonianza ai fini del confronto testuale: «no weight can be attached to its testimony. [...] But in fact the passages quoted from Aristotle were not given in the MS., and were inserted by J.C. Wolf, the first editor of the work [...], so that the text of them in the De Nobilitate possesses no sort of authority» (Newman 1887, II, p. 68). Al di là delle considerazioni filologiche e critico-testuali relative al Pro nobilitate, occorre ricordare da ultimo come non sia affatto chiaro il rapporto tra il Plutarco (autentico) e l’opera di Aristotele; senza dubbio si trattò di un rapporto di conoscenza limitata, poiché «mancano assolutamente indizi di una conoscenza di grandi opere come la Fisica, il de generatione et corruptione, i Meteorologica, tutte le opere biologiche (escluse le Historiae), la maggior parte delle opere dell’Organon (esclusi i Topici e forse le Categorie), la Politica, la Poetica, i primi due libri della Retorica» (Donini 2004, p. 271). 1255b 7. w|n sumfevrei tw/' me;n to; douleuvein tw/' de; to; despovzein: kai; divkaion [kai; dei'] to; me;n a[rcesqai to; d’ a[rcein. Dalla difficoltà di interpungere il testo nascono, come sovente all’interno della Politica, differenti soluzioni editoriali; in passato gli editori si sono concentrati sulla giuntura kai; divkaion, difficilmente riferibile al precedente to; despovzein ma allo stesso tempo prolissa introduzione (insieme a kai; dei`) al colon successivo: di qui l’espunzione proposta da Ross. L’uso assoluto delle opposizioni verbali, in precedenza e anche di seguito (tw/' me;n to; douleuvein tw/' de; to; despovzein ... to; me;n a[rcesqai to; d∆ a[rcein), sconsiglia (per confronto analogico) di intendere kai; divkaion quale specificazione di to; despovzein, e suggerisce per contro di interpungere tra i due nessi. A questo primo discrimen ortografico giunge in soccorso la versione latina, di cui sarà opportuno riportare uno stralcio

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cospicuo (1255b 5-10): «et quod in quibusdam determinatum est quod tale, eo quod expediat huic quidem servire, huic autem dominari, et iustum est, et oportet hoc quidem subici, hoc autem principari, ad quem nati sunt principari, quare et dominari» (Michaud-Quantin 1961, p. 11). Et iustum est, et oportet fa intendere molto chiaramente la percezione sintattica del lettore medioevale: kai; divkaion e kai; dei` sono tradotti come duplice introduzione alla frase che segue. Ma, anche per il fatto che la recensio non offra varianti di sorta, si potrebbe supporre che l’intera tradizione rechi le tracce di un testo sovrabbondante. Per essere più precisi, l’equivalenza kai; divkaion/kai; dei` (consecutivi nel testo) appare quale tipico risultato di un archetipo con varianti (si veda, naturalmente, Pasquali 1988, pp. 194-201, 391-393); nel caso in esame è ragionevole supporre la doppia lezione a partire dall’analogia grafica nella parte iniziale dei due termini. Causa della duplice scrittura deve essere stato un errato scioglimento di compendio (probabilmente, considerata l’unanimità di disposizione dei termini, del compendio con cui era vergato divkaion; dei` parrebbe interpretazione alternativa, che dal margine è poi indebitamente rifluita all’interno del testo; d’altra parte, finora e in seguito non ricorre il nesso kai; dei` a introduzione di frase, a differenza di quello kai; divkaion). L’espunzione del connettivo secondario permette di restaurare un periodo caratterizzato da sintassi piana, oltre che da un avvio assolutamente collaudato nei paragrafi precedenti (a proposito dell’ordo verborum di questa e della riga successiva cfr. Dreizehnter 1962, p. 30). 1257a 3. La nota d’apparato di Ross («ejkeivnh~] keimevnh G») può costituire chiaro esempio della fase intermedia dell’approccio filologico al testo della Politica, e alla stratificazione linguistica della sua complessa tradizione. A determinare in Ross, così come in altri editori del Novecento, l’ambizione di ricostruire esemplari perduti è stato probabilmente l’esempio metodologico derivato dall’immane lavoro di Susemihl. La versione di Guglielmo (nell’unicità della traduzione completa [G.]; era ancora sconosciuta quella imperfecta, pubblicata soltanto nel 1961 [G.i.]) rappresenta infatti per Susemihl un testimone privilegiato, addirittura da preferire ai numerosi codici di testo greco, e dunque da sfruttare per ripristinare le lezioni perdute del modello; così si potrebbe riassumere la prima fase, quella più tecnica, della costituzione testuale della Politica, corrispondente alle prime due edizioni dello stesso Susemihl (1872, 1879). Il caso in esame evidenzia l’influenza di tale impostazione, a più di mezzo secolo di distanza, sul lavoro editoriale compiuto da Ross: la contrapposizione tra ejkeivnh~ dei codici greci e posita, corrispondente traduzione latina nella vetus interpretatio di Guglielmo

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(quella incompleta reca neque longe ab illa, ossia calco esatto del greco; Bruni traduce più liberamente neque valde remotum), viene trasformata in una dipendenza dalla supposizione di ejkeivnh~ come errore, grafia corrotta (si badi, in tutta la tradizione) a partire da un participio greco, equivalente a posita, ossia keimevnh. Ricostruzione impeccabile, oltre che legittima. Ma, a questo punto, è ugualmente legittimo stabilire che keimevnh sia la “lezione” (recuperata; esito della retroversione) preferibile alla totalità dei testimoni greci? Le prime due edizioni di Susemihl propendono per tale soluzione [anche se già nella seconda prende forma un dubbio: «ejkeivnh~ P Ar. Bekk. (vielleicht richtig)», I, p. 118]; a partire dalla terza (1882) il testo è ripristinato con ejkeivnh~, e il ricostruito keimevnh relegato nelle annotazioni. Susemihl porge ai lettori i frutti della mutata considerazione dei testimoni a partire da un avverbio con cui introduce il testo utilizzato da Guglielmo nei Prolegomena della terza edizione: il codice, databile alla fine del XII o inizio del XIII secolo, sarebbe stato «admodum iam corruptum» (p. V). Applicato alla ipotizzata variante keimevnh, il giudizio generale diventa ancor più severo, perché il modello della vetus interpretatio sarebbe deposito di errores singulares, più che di lectiones difficiliores. Quale ultima possibilità, che non accresce né diminuisce le qualità filologico-testuali del manoscritto perduto, keimevnh potrebbe essere semplicemente un errore di lettura di Guglielmo, come già suggerito da Newman 1877, II, p. 72: «Vet. Int. either misread ejkeivnh~ as keimevnh or found keimevnh in his text, for he translates posita». Nella fase intermedia, in cui vedono la luce le edizioni di Immisch Ross Aubonnet, viene posta in dubbio la liceità di ricostruire una Ur-Politik grazie alla mediazione latina, anche se le speculazioni linguistiche e i tentativi di retroversione sono tutt’altro che abbandonati nei rispettivi apparati. Neppure Dreizehnter, che rappresenta insieme ad Aubonnet l’ultima fase degli studi moderni sul testo della Politica, riesce a disancorarsi dall’obbligo di induzione del testo greco di G. e di G.i., la cui versione latina continua ad affascinare per il frequente sospetto di variante inedita, nascosta dalla traduzione. Ma di varianti o di errori, quasi sempre, si tratta? A, I, 1257b 22, per esempio finale, la tradizione greca è unanime nel riportare au{th; le traduzioni latine invece sono divise in haec (G.) e ipsam (G.i.). Dreizehnter nel suo apparato trascrive senza indugio «aujth; g» (g è il modello greco di G.i.). Il passaggio è azzardato, perché - se valgono le ipotesi di antichità e di buona qualità del modello perduto di G.i. (per cui cfr. introduzione alla storia del testo) - Guglielmo molto probabilmente avrà letto sul suo codice auth, da interpretare grammaticalmente, e tradurre di conseguenza (come si presentano le lezioni nel frammentario codice

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V: auth del modello può essere inteso come aujthv / aujthÛ` / au{th, e dunque tradotto ipsa/eadem, ipsi/eidem, haec/ista: cfr. anche I 2, 1252b 31 au{th). La ri-traduzione meccanica del testo latino in greco rischia di attribuire ai manoscritti perduti tutti gli interpretamenta dei traduttori, compresi quelli errati, e quindi di addurre in apparato la presenza di lezioni mai esistite. 1257a 7. La sovrabbondanza dei nessi discorsivi e degli intercalari può apparire sospetta, in particolare nell’accostamento me;n ajllav che contrappone la duplice utilità di ogni possesso di per sé alla differenza tra utilità propria dell’oggetto posseduto e utilità non propria dell’oggetto stesso. La frase eJkavstou ga;r kthvmato~ ... pravgmato~ (ll. 6-8) presenta una trama di connettivi dalla gerarchia per nulla chiara (ga;r ... de; ... me;n ajll∆ ... ajll∆ ...). Nonostante l’unanimità della tradizione manoscritta, e quindi l’inopportunità di intervenire direttamente sul testo, Susemihl volle probabilmente far percepire il proprio imbarazzo, annotando in apparato che all’altezza di l. 7 «me;n, ut videtur, om. G» (Suse.1, p. 35). Tale omissione va comunque riferita a un testimone particolare come la versione latina completa di Guglielmo (uniuscuiusque enim rei duplex usus est, ambo autem secundum se, sed non similiter secundum se, sed hic quidem proprius, hic autem proprius rei). In questa traduzione verbum e verbo di solito a mevn corrisponde quidem; ma nell’intelaiatura di enim ... autem ... sed ... sed hic quidem ... hic autem ..., difficilmente il traduttore avrebbe potuto rendere anche il mevn di l. 7 (identica anche la traduzione di G.i, tranne una variazione nella prima parte: uniuscuiusque enim rei possesse duplex usus est, ambo etc.). La notazione di Susemihl, dunque, pare più finalizzata a denunciare un effettivo problema stilistico (minimo) del testo aristotelico, che un guasto (soltanto opinabile) della tradizione manoscritta. Di per sé la locuzione ajmfotevrai de; kaq∆ auJto; me;n è anomala, in quanto gli intercalari opposti sono riferiti allo stesso oggetto logico. Non è arbitrario ipotizzare che un corrector abbia voluto modificare la correlazione de; ... ajlla;, ritenuta poco coerente perché avversativa; un mevn di attenuazione (che avrebbe dovuto sostituire il dev), in principio segnato a margine, si sarebbe poi inserito tra le maglie del testo, e l’intera tradizione l’avrebbe conservato. Forse il traduttore non ha omesso se non quell’elemento ritenuto superfluo all’efficacia argomentativa del testo tradotto. 1257a 26. auJta; è correzione di Ross per aujta; della tradizione. Come al solito, Dreizehnter non prende neppure in considerazione l’intervento dell’editore di Oxford, plausibile sul piano ecdotico (trattandosi di scelta di segni diacritici), anche se non del tutto dimostrabile su quello esegetico. Ross suppone che lo scambio di cui Aristotele

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sta parlando avvenga tra i popoli barbari medesimi, ossia tra se stessi (pro;~ auJta;); ma se il primo aujta; del periodo (l. 25) è di sicuro sostituente di polla; ... barbarikw`n ejqnw`n (lo si intuisce soprattutto grazie al connettivo argomentativo ga;r), pro;~ aujta; è riferito a ta; crhvsima oggetto di scambio reciproco (“scambiano oggetti utili per altri oggetti dello stesso tipo”; in una parola, utili anch’essi). La correzione di Ross non è trascurabile, anche se forse nasce dal conferimento di eccessivo credito all’antica versione latina di Guglielmo: ipsa enim opportuna ad ipsa commutant, in cui non è più alcun legame grammaticale con i polla; ... ejqnw`n, poiché questi erano stati tradotti come multae barbarorum nationum. Il secondo ipsa di Guglielmo può essere inteso quale sostituente riflessivo di ipsa opportuna (soggetto è sottointeso), e dunque - in astratto - potrebbe essere traduzione di un originario auJta;. Direttamente collegata, se non interdipendente, alla correzione di l. 26 è quella di l. 41, sempre di Ross, di aujtouv~ in auJtouv~ (neppure questa, al pari dell’integrazione di Ross a l. 32, ejndeei`~ ãh\sanÃ, è menzionata da Dreizehnter 1970). 1257b 12. o{ti metaqemevnwn te tw`n crwmevnwn. Una volta stabilito il valore attivo di oiJ crwvmenoi, ossia gli utenti del novmisma, si pone un problema all’interno del costrutto in genitivo assoluto, con il te unanimemente attestato dalla tradizione manoscritta ma assente nelle versioni latine: quoniam transpositis utentibus G. translatis pecuniis G.i., senza congiunzioni che precedano (et, quidem, secondo le possibilità con cui il te = -que viene di solito tradotto da Guglielmo; per tale funzione nella prosa attica cfr. Kühner-Gerth 1955, pp. 242-243; in G.i. tra l’altro, più che a crwmevnwn, pecuniis sembrerebbe suggerire un originario crhmavtwn, come propende a credere Michaud-Quantin 1961, p. 16). L’assenza di corrispondenza nelle due versioni di Guglielmo induce a credere che 1) nei rispettivi modelli il te fosse stato omesso; oppure che 2) anziché te gli esemplari utilizzati da Guglielmo presentassero un errore comune, frutto della più banale trasformazione di te in fase di scrittura capitale: TE > GE (nella traduzione latina di Guglielmo i ge dell’originale non compaiono). 1257b 33. oJrw`men accettato da tutti gli editori è in realtà corretto sulla base di videmus, attestazione dei soli G.i e Bruni. Ogni manoscritto greco ha invece oJrw` (mentre quelli latini della versione completa di Guglielmo recano le forme video / videre / videtur / indo [?]). Grammaticalmente la forma oJrw` alla prima persona singolare è del tutto giustificabile, e non necessiterebbe di alcun intervento; ma due osservazioni avvalorano la correzione di Sylburg: 1) nell’intero corpus aristotelico non è mai attestata la prima persona oJravw / oJrw` riferita all’autore che

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disquisisce (semmai è attestato il plurale, come subito all’inizio della Politica, I 1, 1252a 1); Newman 1887, II, p. 73, fornisce peraltro un elenco dei luoghi in cui Aristotele utilizza forme verbali alla prima persona singolare, riferite a se stesso (rimarchevole il levgw di Politica III 13, 1283b 1; IV 15, 1299b 19), ma in tutto si tratta di quattro occorrenze unanimi sul corpus completo. Si aggiunga una terza occorrenza di levgw all’inizio del secondo libro della Politica, II 2, 1261a 15. 2) È possibile ritrovare una spiegazione razionale della trasformazione oJrw`men > oJrw`: per errata distinctio infatti un copista può aver letto a l. 33 oJrw` me;n sumbai`non, e quindi, dopo aver notato l’incongruenza rispetto a me;n faivnetai (l. 32) ed ejpi; de;, essersi limitato a cancellare il mevn. Dal momento che tutti i manoscritti greci presentano oJrw`, e che neppure i correctores di P o di A hanno avuto notizia della forma oJrw`men, l’intervento ipotizzato va collocato in età antica, o comunque alle spalle dell’archetipo. Difficile stabilire se le traduzioni di G.i. e di Bruni derivino da esemplari in cui si leggesse oJrw`men (nella cui eventualità la ricostruzione precedente sarebbe sconfessata) o piuttosto siano il frutto di una tacita correzione del traduttore (più incline a segnare videmus dell’inusitato video: fa propendere per questa ipotesi il gruppo di varianti nella tradizione. Newman 1887, II, p. 72-73, esamina la grafia del codice o, in cui video parrebbe invece essere scritto come correzione di un originario vide’, ossia grafia compendiata per videmus, evidentemente da parte di chi stava ricontrollando la versione latina in parallelo al testo greco). Da ultimo, se non si considera precedente all’archetipo la trasformazione oJrw`men > oJrw` diventa impossibile condividere le ricostruzioni stemmatiche di Dreizehnter, nello specifico della collocazione di G.i. all’interno di P1 (come risulta da entrambi gli stemmata codicum in Dreizehnter 1962, p. XLVI e Dreizehnter 1970, p. 75). 1257b 36. eJkatevra~ accettato nel testo non è lezione dei codici conosciuti, ma testimonianza del solo Sepulveda, che scrive di averlo desunto per la sua traduzione da esemplari ‘antichissimi e piuttosto corretti’. I codici superstiti recano però tutti eJkatevra, senza traccia di correzioni posteriori. Ammessa l’affidabilità della testimonianza di Sepulveda (la cui buona fede ottiene il credito della maggior parte degli editori), occorre pensare che il quadro complessivo della tradizione manoscritta all’inizio dell’età moderna fosse più variegato e complesso rispetto a quello attualmente verificabile, in particolare se neppure i testimoni più soggetti a riscrittura e a contaminazione di lezioni tratte da esemplari dell’altra famiglia (A e P) riportano eJkatevra~. Anche Newman, che pure - al colmo della prudenza - decide di stampare l’unica lezione sopravvissuta, ammette però che il lettore si aspetta una disa-

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NOTE TESTUALI

mina a confronto dei due tipi di crematistica (anche perché segue una definizione distintiva delle due tipologie a seconda del fine): «Perhaps we rather expect to hear of two uses than of one use. Hence on the whole eJkatevra seems preferable, but eJkatevra might so easily take the place of eJkatevra~ that the true reading is doubtful» (Newman 1887, II, p. 73). La traduzione di G.i. (utriusque crimatistice) avvalora la scelta di eJkatevra~, rendendo meno aleatoria la testimonianza di Sepulveda. Va ricordato che spesso, nei casi in cui la versione di G. e G.i. diverga, e G.i. rispecchi il testo greco preferibile, la traduzione imperfecta rimanda o alla lezione unanime dei codici greci o a quella di P2 (mai di P1, tranne in 1260a 37: a\ra P1/a[ra P2 = utrum G.i./ergo G.). Con eJkatevra tutta la tradizione recherebbe una lezione deteriore, tranne il manoscritto (o i manoscritti?) letto da Sepulveda; l’accordo di questo con G.i. induce a credere che anche quel testimone perduto fosse apparentabile più alla famiglia di P2 che a P1.

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NOTE TESTUALI

APPENDIX CONIECTURARUM

APPENDIX CONIECTURARUM

APPENDIX CONIECTURARUM

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1252a 33 tou'ton tw/' swvmati poiei'n malim 1253a 6 ejpiãdhmivon ejrasÃthv~ Immisch 14 dielei`n Oncken b 11 d’ au\ q’ aiJ trei`~ malim 1254a 15 «Lectio a[nqrwpo~ w[n unice vera videtur, si quidem est natura servus non is, qui quamquam natura alius hominis tamen ipse homo, sed is, qui quamquam homo tamen natura alius hominis est» Sus., De Politicis Aristotelis quaestionarum criticarum partes I-VII, Typis Iulii Abel, Greifswald 1867-1869, p. 341 1256b 3 to; ejndee;~ kata; to;n bivon Reiske 15-16 dh`lon o{ti kai; [genomevnoi~ kai;] teleiouqei`sin Bernays : [dh`lon o{ti kai;] genomevnai~ Bender 27 ãhJà kata; Reiske : tou` oijkonomikou` Thurot : th'" oijkonomikh'" [mevro"] ejstivn Schneider Thurot 27-28 dei` ãgavrà Thurot 28 w|n ejsti] w| e{nesti Madwig ou| e[sti qhsaurismo;~ crhmavtwn pro;~ zwh;n ajnagkaivwn, kai; crhsivmwn eij~ koinwnivan povlew~ h] oijkiva~ a} dei` h[toi uJpavrcein h] porivzein aujth;n o{pw~ uJpavrch/ Rassow corr. et transposuit 41 kalei`n] fortasse kalei`sqai (cf. vocari G. Alb.) 1257a 18 crhmatistikh`~ ãei\do~à Scaliger 23 eJtevrwn ãejdevontoà Schneider : eJtevrwn ãhjpovrounÃ. Schmidt : ejstevronto Koraïs : ãeJtevroi~à eJtevrwn ão[ntwnà Siegfried 37 pro;~ to; zh`n post o]n posuit Pratt : zh`n] metakomivzein Reiske 1257b 25 ejsti] ei\ si Eucken 30-31 ouj crhmatistikh`~ secl. et simul o} kai; th`~ crhmatistikh`~ post 31 oijkonomikh`~ transp. Reiske. ouj ... e[rgon post 32 pevra~ transp. Schmidt : tou`to] taujto; Gurlitt 1258a 1 ou[sh~] ijouvsh~ Eucken 14 mh; post 16 peri; th`~ Hampke Rassow transp. 17 kai;à kata; Thurot 20-21 ajlla; ... uJpavrcein post 26 poih`sai transp. Hampke : ou[, ãajlla; **à ajlla; M. Schmidt 21 tou`to] tau`ta M. Schmidt 24 touvtwn] touvtou Sus. 25 to;n oijkonovmon] tw`/ oijkonovmw/ Scaliger (disponere convenit yconomo G.) 33 oijkonovmou] yconomici G. : ouj ga;r] ouj de; M. Schmidt malit 37 leipovmenon] loipovn Scaliger coni. 38 ãhJà ajpo; Schneider 1258b 1 de;] d∆ h\/ dub. M. Schmidt 7 kai; Sylburg secl. 11 ejleuqevrion Koraïs 12 de;] dh; Lambin 18 h[dh] eijdw`n Ald.Mon.c : ei[dh Scaliger 35 to;] tw`/ Ald.Mon.c 35-39 eijsi; ... ajreth`~ ante 27 trivton Piccard («male» Sus.1), ante 33 peri; Sus.1 transp. 1259a 3 qewreivtw] qewrhtevon Schneider (considerentur G.) 16 kai; ante polla; Scaliger (ex Bruni) 1259b 20 th;n2] to; Scaliger 20-21 o}n ... plou`ton] ou| ... plouvtou Koraïs : to;n kalouvmenon plou`ton (ante 19 kai; traicienda esse) M. Schmidt coni. 25 a[llwn ãeJkavsthà Spengel coni. : a[llwn ãti~à dub. Schneider 1260a 40-41 th`~ douvlou vel doulikh`~ ante (vel post) ejpibavllei aut post 41 ajreth`~ excidisse Sus.1 coni. ãth`~ touvtouà :

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ejpibalei`tai vel ejpibalei`tai ãuJphretikh`~Ã vel ejpibalei`tai ajreth`~ ãuJphretikh`~Ã M. Schmidt (cf. Thuc. VI 40, 2 aujqaivreton douleivan ejpibalei`tai) 1260b 5 despotikhvn] ejpisthvmhn Koraïs coni. : despotikh`Û (post 6 ejpitavxai transposito) H. Schmidt coni. 13 ejpelqei`n] dielqei`n Thom. : dielei`n Schneider coni.

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APPENDIX CONIECTURARUM

INDICI

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INDICE DEI NOMI ANTICHI DEL I LIBRO DELLA POLITICA DI ARISTOTELE Il riferimento di ogni voce dell’indice segue la numerazione delle pagine e delle righe secondo l’edizione Bekker.

[Amasi~ 1259b 8 jApollovdwro~ oJ Lhvmnio~ 1259a 1 Gorgiva~ 1260a 28 Daivdalo~ 1253b 35 Dionuvsio~ 1259a 30 JElevnh (Qeodevktou) 1255a 36 {Ellhne~ 1252b 8 jEpimenivdh~ oJ Krhv~ 1252b 14 Zeuv~ 1259b 13 JHsivodo~ 1252b 10 {Hfaisto~ 1253b 36 Qalh`~ oJ Milhvsio~ 1259a 6, 18, 31 Qeodevkth~ 1255a 36 Krhv~ 1252b 15 Lhvmnio~ 1259a 1 Mivda~ 1257b 16 Milhvsio~ 1259a 6 Mivlhto~ 1259a 13 [Omhro~ 1252b 22; 1253a 5; 1253b 36 (oJ poihthv~); 1259b 13 Pavrio~ 1258b 40 Sikeliva 1259a 23

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INDICE DEI NOMI ANTICHI

Sovlwn 1256b 32 Surakou`sai 1255b 24; 1259a 30 Swkravth~ 1260a 22 Carhtivdh~ oJ Pavrio~ 1258b 40 Carwvnda~ 1252b 14 Civo~ 1259a 13

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SOMMARIO

Presentazione dell’opera di Lucio Bertelli e Mauro Moggi .................................

p.

V

Introduzione alla storia del testo della Politica............

»

1

Introduzione al libro I ..................................................

» 57

Bibliografia ..................................................................

» 87

Sigle e abbreviazioni usate negli apparati critici .........

» 121

Testo e traduzione ........................................................

» 139

Commento ....................................................................

» 193

Note testuali .................................................................

» 327

Appendix coniecturarum ..............................................

» 347

Indici ............................................................................

» 351