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Italian Pages 192 Year 2010
Carlos Ruiz Zafón
MARINA
Traduzione di Bruno Arpaia
Non sapevo ancora che, prima o poi, l'oceano del tempo ci restituisce i ricordi che vi seppelliamo. Quindici anni più tardi, mi è tornato alla mente quel giorno. Ho visto quel ragazzo girovagare nella bruma della stazione Francia e il nome di Marina si è infiammato di nuovo come una ferita recente. Tutti noi custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell'anima. Questo è il mio.
Marina .......................................................................................................... 6 1 ............................................................................................................... 9 2 ............................................................................................................. 13 3 ............................................................................................................. 17 4 ............................................................................................................. 23 5 ............................................................................................................. 30 6 ............................................................................................................. 34 7 ............................................................................................................. 38 8 ............................................................................................................. 44 9 ............................................................................................................. 51 10 ........................................................................................................... 56 11 ........................................................................................................... 64 12 ........................................................................................................... 73 13 ........................................................................................................... 81 14 ........................................................................................................... 91 15 ........................................................................................................... 95 16 ......................................................................................................... 102 17 ......................................................................................................... 115 18 ......................................................................................................... 119 19 ......................................................................................................... 124 20 ......................................................................................................... 128
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Amico lettore, ho sempre creduto che ogni scrittore, lo ammetta o no, ha tra i propri libri qualcuno a cui è più affezionato. Questa predilezione non ha quasi mai a che fare con il valore letterario intrinseco dell'opera né con l'accoglienza dei lettori né con gli agi o le ristrettezze che la sua pubblicazione gli ha procurato. Per qualche strana ragione, ci si sente più vicini a qualcuna delle proprie creature senza che se ne sappia spiegare bene il perché. Fra tutti i libri che ho pubblicato da quando, verso il 1992, ho iniziato questo strano mestiere, Marina è uno dei miei preferiti. Scrissi il romanzo a Los Angeles tra il 1996 e il 1997. Avevo allora quasi trentatré anni e iniziavo a sospettare che la prima gioventù, come l'aveva definita qualche sempliciotto, mi stesse scivolando tra le dita a velocità di crociera. In precedenza avevo pubblicato tre romanzi per ragazzi, e poco tempo dopo essermi imbarcato nella stesura di Marina ebbi la certezza che sarebbe stato l'ultimo libro del genere che avrei scritto. Via via che procedevo, tutto in quella storia cominciò ad avere un sapore di addio, e quando la terminai ebbi l'impressione che qualcosa dentro di me, qualcosa che ancora oggi non so bene cosa sia ma che mi manca ogni giorno, fosse rimasto lì per sempre. Marina è probabilmente il più indefinibile e il più difficile da classificare dei tanti romanzi che ho scritto, e forse il più personale di tutti. Paradossalmente, la sua pubblicazione è quella che mi ha causato più dispiaceri. È sopravvissuto a dieci anni di edizioni pessime e spesso fraudolente che a volte, senza che io potessi fare granché per evitarlo, hanno confuso molti lettori tentando di spacciare il romanzo per quello che non era. E tuttavia, lettori di ogni età e condizione continuano a scoprire qualcosa tra le sue pagine e ad accedere a quella soffitta dell'anima di cui ci parla Óscar, il suo narratore. Marina alla fine torna a casa, e il racconto che Óscar conclude per lei può ora essere scoperto dai lettori, per la prima volta, nelle condizioni che l'autore ha sempre desiderato. Forse adesso, con il loro aiuto, sarò in grado di capire perché questo romanzo continua a essere presente nella mia memoria come il giorno in cui ho finito di scriverlo, e riuscirò a ricordare, come direbbe Marina, quello che non è mai accaduto. C.R.Z. Barcellona, giugno 2008 5
Marina
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Una volta Marina mi disse che ricordiamo solo quello che non è mai accaduto. Sarebbe trascorsa un'infinità di tempo prima che potessi comprendere quelle parole. Ma è meglio che cominci dall'inizio, che in questo caso è la fine. Nel maggio del 1980 sparii dal mondo per una settimana. Per sette giorni e sette notti nessuno seppe dov'ero finito. Amici, colleghi, insegnanti e persino la polizia si lanciarono alla ricerca di quel fuggiasco che alcuni credevano già morto, o smarrito nelle strade malfamate della città in preda a un attacco di amnesia. Una settimana più tardi, un poliziotto in borghese credette di riconoscere quel ragazzo; la descrizione coincideva. Il sospetto vagava per la stazione Francia come un'anima in pena in una cattedrale fatta di nebbia e di ferro. L'agente mi si avvicinò con aria da romanzo poliziesco. Mi chiese se mi chiamavo Óscar Drai e se ero io il ragazzo scomparso senza lasciare tracce dal collegio in cui studiava. Annuii senza dire una parola. Ricordo solo il riflesso della volta della stazione sulle lenti dei suoi occhiali. Ci sedemmo su una panchina lungo i binari. Il poliziotto si accese con calma una sigaretta e la lasciò bruciare senza portarsela alle labbra. Mi disse che c'era un mucchio di gente che mi stava aspettando per farmi un sacco di domande, per le quali mi conveniva avere buone risposte. Annuii di nuovo. Mi fissò negli occhi, studiandomi. «A volte dire la verità non è una buona idea, Óscar.» Mi allungò qualche moneta e mi invitò a chiamare il mio tutore in collegio. Lo feci. Il poliziotto aspettò che finissi la telefonata, poi mi diede i soldi per un taxi e mi augurò buona fortuna. Gli domandai come faceva a sapere che non sarei sparito ancora. Mi guardò a lungo. «Scompare solo la gente che ha qualche posto dove andare» rispose secco. Mi accompagnò fuori e mi salutò, senza neppure chiedermi dov'ero stato. Lo vidi allontanarsi lungo il Paseo Colón. Il fumo della sigaretta, intonsa, lo seguiva come un cane fedele. Quel giorno il fantasma di Gaudí aveva scolpito nel cielo di Barcellona delle nubi impossibili su uno sfondo azzurro che accecava lo sguardo. Presi un taxi fino al collegio, dove immaginavo mi attendesse un plotone d'esecuzione. Per quasi un mese gli insegnanti e gli psicologi della scuola mi martellarono di domande per farmi rivelare il mio segreto. Mentii a tutti, raccontando a ciascuno quello che voleva sentire o che poteva accettare. Con il 7
tempo, tutti si sforzarono di fingere di aver dimenticato quell'episodio. Io seguii il loro esempio. Non ho mai rivelato a nessuno quello che era successo davvero. Non sapevo ancora che, prima o poi, l'oceano del tempo ci restituisce i ricordi che vi seppelliamo. Quindici anni più tardi, mi è tornato alla mente quel giorno. Ho visto quel ragazzo girovagare nella bruma della stazione Francia e il nome di Marina si è infiammato di nuovo come una ferita recente. Tutti custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell'anima. Questo è il mio.
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Alla fine degli anni Settanta Barcellona era un'illusione di vicoli e viali in cui si poteva viaggiare a ritroso nel tempo di trenta o quarant'anni semplicemente oltrepassando la soglia di una portineria o di un caffè. Il tempo e la memoria, la storia e la finzione, si fondevano in quella città stregata come acquerelli sotto la pioggia. Fu lì, tra quelle strade ormai scomparse, che cattedrali e palazzi usciti da un libro di fiabe architettarono lo scenario di questa storia. All'epoca ero un quindicenne che ammuffiva tra i muri di un collegio con il nome di un santo alle falde della collina di Vallvidrera. In quei giorni il quartiere di Sarriá aveva ancora l'aspetto di un paesino arenato sulle rive di una metropoli modernista. Il collegio sorgeva in cima a una strada che si inerpicava dal Paseo de la Bonanova. La sua monumentale facciata faceva pensare più a un castello che a una scuola. La spigolosa sagoma color argilla era un rompicapo di torri, archi e ali tenebrose. Il collegio era circondato da una cittadella di giardini, fontane, stagni paludosi, cortili e boschi di pini incantati. Tutt'intorno, cupi edifici ospitavano piscine velate da vapori spettrali, palestre stregate dal silenzio e lugubri cappelle in cui le immagini dei santi sorridevano al riflesso dei ceri. Il collegio aveva quattro piani, senza contare le due cantine e una mansarda di clausura in cui alloggiavano i pochi sacerdoti che ancora insegnavano. Le stanze dei convittori si affacciavano sui cavernosi corridoi del quarto piano, perennemente sprofondati nella penombra e avvolti da echi spettrali. Passavo i giorni a sognare a occhi aperti nelle aule di quell'immenso castello, in attesa del miracolo che si ripeteva ogni giorno alle cinque e venti del pomeriggio. A quella magica ora il sole rivestiva di oro liquido le alte vetrate. Suonava la campanella che annunciava la fine delle lezioni e noi interni avevamo quasi tre ore di libertà prima della cena nel grande refettorio. In teoria, avremmo dovuto destinare quel tempo allo studio e alla riflessione spirituale. Non ricordo di avere mai dedicato a queste nobili attività un solo giorno di quelli passati in collegio. Era il momento che preferivo. Eludendo il controllo del portiere, uscivo 9
a esplorare la città. Presi l'abitudine di rientrare in collegio giusto in tempo per la cena, camminando per strade e viali mentre tutt'intorno a me calava l'oscurità. Quelle lunghe passeggiate mi davano un'inebriante sensazione di libertà. La mia immaginazione volava al di sopra dei palazzi e toccava il cielo. Per qualche ora le strade di Barcellona, il collegio e la lugubre stanza al quarto piano scomparivano. Per qualche ora, con in tasca soltanto un paio di monete, mi sentivo l'individuo più fortunato dell'universo. Spesso il mio girovagare mi portava dalle parti del deserto di Sarriá, nient'altro che una specie di bosco sperso in terra di nessuno. La maggior parte delle antiche residenze signorili che un tempo avevano punteggiato il tratto settentrionale del Paseo de la Bonanova era ancora in piedi, anche se quasi in rovina. Le strade attorno al collegio tracciavano i contorni di una città fantasma. Muri ricoperti d'edera impedivano l'accesso a giardini selvatici in cui s'innalzavano ville monumentali. Palazzi invasi dalle erbacce e dall'abbandono, su cui la memoria sembrava galleggiare come nebbia che non vuole dissiparsi. Parecchie di queste ville attendevano solo di essere demolite e altrettante erano state saccheggiate nel corso degli anni. Alcune, tuttavia, erano ancora abitate. I loro occupanti erano i discendenti dimenticati di stirpi decadute. Famiglie i cui nomi comparivano sulle prime pagine di "La Vanguardia" quando i tram suscitavano ancora la diffidenza delle invenzioni moderne. Ostaggi del loro passato moribondo che si rifiutavano di abbandonare le navi alla deriva. Temevano che, se avessero osato mettere piede oltre i confini delle loro cadenti proprietà, i loro corpi si sarebbero dissolti come cenere al vento. Come prigionieri, languivano alla luce dei candelabri. A volte, quando passavo in fretta davanti a quelle cancellate arrugginite, mi sembrava di cogliere sguardi sospettosi dietro le imposte scolorite. Un pomeriggio, verso la fine di settembre del 1979, decisi di avventurarmi a casaccio per uno di quei viali disseminati di ville moderniste, del quale fino ad allora non mi ero accorto. La strada descriveva una curva che terminava davanti a una cancellata simile a molte altre, oltre la quale si scorgevano i resti di un vecchio giardino segnato da decenni di abbandono. Tra la vegetazione si notava la sagoma di una villa a due piani. La sua cupa facciata si ergeva dietro una fontana decorata con statue che il tempo aveva rivestito di muschio. Era l'imbrunire e quel luogo mi sembrò un po' sinistro. Lo avvolgeva un 10
silenzio mortale, incrinato solo da una leggera brezza che mi sussurrava senza parole un avvertimento. Capii di essere finito in una delle zone "morte" del quartiere. Pensai che fosse meglio tornare sui miei passi e rientrare in collegio. Ero combattuto tra il fascino morboso di quel luogo dimenticato e il buonsenso, quando scorsi due brillanti occhi gialli che luccicavano nella penombra, fissi su di me come daghe. Deglutii. Il mantello grigio e vellutato di un gatto si stagliava immobile davanti al cancello della villa. Un passerotto agonizzava tra le sue fauci. Un sonaglio argentato pendeva dal collo del felino. I suoi occhi mi studiarono per qualche secondo, poi il gatto si voltò e s'infilò tra le sbarre di metallo. Lo vidi scomparire nell'immensità di quell'eden maledetto portando il passerotto verso il suo ultimo viaggio. L'apparizione di quella piccola fiera altezzosa e sprezzante mi intrigò. A giudicare dal mantello lustro e dal sonaglio, aveva un padrone. Forse la villa ospitava qualcosa di più concreto dei fantasmi di una Barcellona scomparsa. Mi avvicinai e appoggiai la mano sulle sbarre del cancello. Il metallo era freddo. Le ultime luci del crepuscolo infuocavano le tracce delle gocce di sangue lasciate dal passero in quella selva. Perle scarlatte che tracciavano un sentiero nel labirinto. Deglutii di nuovo. O meglio, ci provai. Avevo la bocca secca. Il cuore, come se sapesse qualcosa che io ignoravo, mi batteva nelle tempie all'impazzata. Fu allora che sentii il cancello cedere sotto il mio peso e capii che era aperto. Quando feci il primo passo verso l'interno, la luna illuminava il pallido volto degli angeli di pietra della fontana. Mi osservavano. I piedi mi si erano inchiodati a terra. Mi aspettavo che quelle figure inanimate saltassero giù dai loro piedistalli e si trasformassero in demoni armati di artigli da lupo e lingue da serpente. Non accadde nulla di tutto ciò. Respirai a fondo, esaminando la possibilità di zittire la mia immaginazione o, meglio ancora, di abbandonare la mia timida esplorazione della proprietà. Ancora una volta, qualcun altro decise per me. Un suono celestiale invase le ombre del giardino come fosse un profumo. Sentii le variazioni di quel sussurro cesellare le note di un'aria accompagnata al pianoforte. Era la voce più bella che avessi mai ascoltato. La melodia mi era familiare, ma non riuscii a riconoscerla. La musica proveniva dalla casa. Seguii la sua traccia ipnotica. Lame di luce vaporosa filtravano dalla porta socchiusa di una veranda a vetrate. 11
Riconobbi gli occhi del gatto, fissi su di me dal davanzale di un finestrone del primo piano. Mi avvicinai alla veranda illuminata da cui proveniva quel suono indescrivibile. La voce di una donna. Il tenue alone di cento candele palpitava all'interno. Intravidi il trombone dorato di un vecchio grammofono su cui girava un disco. Senza pensare a quello che facevo, mi sorpresi a entrare nella stanza, soggiogato dalla voce di quella sirena prigioniera del grammofono. Sopra al tavolo su cui era appoggiato l'apparecchio, notai un oggetto brillante e rotondo. Era un orologio da taschino. Lo presi e lo esaminai alla luce delle candele. Le lancette erano ferme e il quadrante scheggiato. Mi sembrò d'oro e vecchio almeno quanto la casa in cui mi trovavo. Un po' più in là c'era una vecchia poltrona rivolta verso un camino sopra il quale era appeso un ritratto a olio di una donna vestita di bianco. I suoi grandi occhi grigi, tristi e senza fondo, dominavano la sala. Improvvisamente l'incantesimo andò in pezzi. Una sagoma si alzò dalla poltrona e si girò verso di me. Lunghi capelli bianchi e due occhi ardenti come braci luccicarono nell'oscurità. Riuscii solo a vedere due enormi mani bianche che si allungavano verso di me. In preda al panico, mi misi a correre verso la porta, inciampai nel grammofono e lo feci cadere a terra. Sentii la puntina che lacerava il disco. La voce celestiale si spezzò con un gemito infernale. Mi precipitai in giardino, sentendo quelle mani che mi sfioravano la camicia, e lo attraversai con le ali ai piedi e il terrore che mi bruciava in ogni poro. Non mi fermai nemmeno per un attimo. Corsi e corsi senza mai voltarmi indietro, fin quando una fitta di dolore mi trapanò il fianco e capii che a stento riuscivo a respirare. A quel punto ero zuppo di sudore e le luci del collegio brillavano a trenta metri da me. Mi intrufolai da una porta vicina alle cucine che non era mai sorvegliata e mi trascinai fino alla mia stanza. Gli altri dovevano essere in refettorio da un bel pezzo. Mi asciugai il sudore dalla fronte, e a poco a poco il cuore recuperò il suo ritmo naturale. Iniziavo a calmarmi quando qualcuno bussò alla porta. «Óscar, è ora di scendere a cena» mi avvertì uno dei miei tutori, padre Seguí, un gesuita razionalista che detestava dover fare il poliziotto. «Vengo subito, padre» risposi. «Un secondo.» Mi infilai velocemente la giacca di rigore e spensi la luce della stanza. Dalla finestra si vedeva lo spettro della luna che sorgeva su Barcellona. Solo allora mi accorsi che nella mano stringevo ancora l'orologio d'oro. 12
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Nei giorni che seguirono, quel maledetto orologio e io diventammo compagni inseparabili. Lo portavo ovunque, lo tenevo addirittura sotto il cuscino mentre dormivo, per paura che qualcuno lo vedesse e mi chiedesse dove lo avevo preso. Non avrei saputo cosa rispondere. "Il fatto è che non l'hai trovato; l'hai rubato" mi sussurrava una voce accusatrice. "Il termine tecnico è furto con violazione di domicilio" aggiungeva la voce che, per qualche strana ragione, assomigliava in modo sospetto a quella dell'attore che doppiava Perry Mason. Di notte aspettavo pazientemente che i miei compagni si addormentassero per esaminare il mio tesoro segreto. Quando calava il silenzio lo osservavo alla luce di una pila. Nemmeno tutti i sensi di colpa del mondo sarebbero riusciti a intaccare il fascino esercitato su di me dal bottino della mia prima esperienza nel "crimine disorganizzato". L'orologio era pesante e sembrava d'oro massiccio. Il quadrante scheggiato faceva pensare a un colpo o a una caduta. Immaginai che fosse stato quell'impatto a rompere il meccanismo e a congelare le lancette sulle sei e ventitré. Una condanna per l'eternità. Sul retro si leggeva: Per Germán, in cui parla la luce. K.A. 19-1-1964 Mi venne in mente che quell'orologio doveva valere un mucchio di soldi, e i rimorsi non tardarono ad assalirmi. Quelle parole incise mi facevano sentire un ladro di ricordi. Un giovedì di pioggia decisi di condividere il mio segreto. Il migliore amico che avevo in collegio era un ragazzo dagli occhi penetranti e dal temperamento nervoso che insisteva a farsi chiamare JF, anche se quelle iniziali avevano poco o nulla a che vedere con il suo vero nome. JF aveva un animo da poeta libertario e un'intelligenza così affilata che finiva spesso per tagliarcisi la lingua. Era debole di costituzione e bastava che qualcuno pronunciasse la parola microbo nel raggio di un chilometro perché lui si 13
convincesse di avere preso un'infezione. Un giorno cercai su un vocabolario la parola ipocondriaco e gli fotocopiai la pagina. «Non so se lo sapevi, ma la tua biografia compare nel Dizionario della Real Academia» gli annunciai. Diede un'occhiata alla fotocopia e mi fulminò con lo sguardo. «Prova a cercare alla "i" di idiota e vedrai che non sono l'unico a essere famoso» replicò. Quella mattina, nell'intervallo di mezzogiorno, io e JF ci intrufolammo nel tenebroso salone dell'aula magna. I nostri passi nel corridoio centrale risvegliavano l'eco di centinaia di ombre che camminavano in punta di piedi. Due fasci di luce metallica cadevano sul palcoscenico polveroso. Ci sedemmo in mezzo a quel chiarore, davanti alle file di sedili vuoti che si fondevano con la penombra. Il sussurro della pioggia graffiava i vetri del primo piano. «Allora?» sbottò JF. «Perché tutto questo mistero?» Senza dire una parola, tirai fuori l'orologio e glielo diedi. JF aggrottò le sopracciglia e soppesò l'oggetto. Lo valutò con attenzione per qualche istante prima di restituirmelo, guardandomi intrigato. «Che te ne pare?» chiesi. «Mi sembra un orologio» rispose JF. «Chi è questo Germán?» «Non ne ho la più pallida idea.» Gli raccontai nei dettagli l'avventura che avevo vissuto qualche giorno prima in quella villa scalcinata. JF ascoltò attentamente il resoconto dei fatti con la pazienza e l'attenzione quasi scientifica che lo caratterizzavano. Finito il racconto, rifletté a lungo prima di esprimere le sue impressioni. «In pratica, lo hai rubato» concluse. «Non è questo il punto» obiettai. «Bisognerebbe sentire cosa ne dice quel Germán.» «Quel Germán probabilmente è morto da anni» suggerii senza troppa convinzione. JF si grattò il mento. «Mi domando cosa prevede il Codice Penale per il furto premeditato di oggetti personali e orologi con dedica...» insisté il mio amico. 14
«Ma quale premeditazione» protestai. «È successo tutto all'improvviso, senza che avessi il tempo di riflettere. Quando mi sono accorto di avere in mano l'orologio, era troppo tardi. Al posto mio avresti fatto così anche tu.» «Al posto tuo avrei avuto un infarto» precisò JF, che era più uomo di parole che d'azione. «Ammesso che fossi stato così pazzo da intrufolarmi in quella casa solo per seguire un gatto luciferino. Chissà che razza di germi si possono prendere da una bestia così.» Rimanemmo in silenzio per qualche istante, ascoltando l'eco lontana della pioggia. «Comunque» concluse JF, «quel che è fatto è fatto. Non vorrai tornare in quella casa, vero?» Sorrisi. «Da solo, no.» Il mio amico sgranò gli occhi. «Ah, no. Scordatelo.» Quel pomeriggio, finite le lezioni, io e JF ce la svignammo dalla porta delle cucine e imboccammo la misteriosa strada che portava alla villa. Il selciato era cosparso di pozzanghere e foglie secche. Un cielo minaccioso incombeva sulla città. JF, per niente convinto, era più pallido del solito. La vista di quel luogo prigioniero del passato gli stava riducendo lo stomaco alle dimensioni di una biglia. Il silenzio era assordante. «Credo che la cosa migliore sia girare i tacchi e squagliarcela» sussurrò, indietreggiando di qualche passo. «Non fare il coniglio.» «La gente non apprezza i conigli come meritano. Ci si fanno manicaretti da leccarsi i baffi...» All'improvviso, il tintinnio di un sonaglio si propagò nel vento. JF ammutolì. Gli occhi gialli del gatto ci fissavano. Di colpo, l'animale sibilò come un serpente e tirò fuori gli artigli. Gli si rizzò il pelo sul dorso, e le fauci scoprirono i denti aguzzi che, giorni prima, avevano strappato la vita a un passero. Un lampo lontano squarciò il cielo illuminandolo. Io e JF ci scambiammo un'occhiata. Un quarto d'ora dopo eravamo seduti su una panchina accanto allo stagno del chiostro del collegio. L'orologio era ancora nella tasca della mia giacca. Più pesante che mai.
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Rimase lì per il resto della settimana, fino al sabato mattina. Poco prima dell'alba mi svegliai con la vaga sensazione di aver sognato la voce imprigionata nel grammofono. Fuori dalla finestra Barcellona si incendiava in un telone di ombre scarlatte, una foresta di tetti e antenne. Saltai giù dal letto e cercai il maledetto orologio che negli ultimi giorni mi aveva avvelenato l'esistenza. Ci guardammo. Alla fine mi armai della risolutezza che scoviamo solo quando dobbiamo affrontare compiti assurdi e mi decisi a mettere fine a quella situazione. Lo avrei restituito. Mi vestii in silenzio e percorsi in punta di piedi il buio corridoio del quarto piano. Nessuno si sarebbe accorto della mia assenza fino alle dieci o alle undici del mattino. Per quell'ora speravo di essere già di ritorno. Fuori, le strade languivano sotto il torbido manto purpureo che avvolge le albe di Barcellona. Scesi fino a calle Margenat. Attorno a me, Sarriá si stava svegliando. Nuvole basse sfioravano il quartiere imprigionando le prime luci in un alone dorato. Le facciate delle case emergevano tra gli spiragli della nebbiolina e delle foglie secche che svolazzavano senza meta. Non tardai a trovare la strada. Mi fermai un attimo per assorbire quel silenzio, la strana pace che regnava in quell'angolo sperduto della città. Cominciavo a credere che il mondo si fosse fermato assieme all'orologio che avevo in tasca, quando sentii un rumore alle mie spalle. Mi voltai e fui spettatore di una visione rubata da un sogno.
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Una bicicletta emergeva lentamente dalla bruma. Una ragazza vestita di bianco avanzava verso di me, pedalando lungo la strada in salita. L'alba in controluce permetteva di scorgere la sua silhouette sotto il vestito di cotone. I lunghi capelli color fieno ondeggiavano coprendole il volto. Rimasi immobile, guardandola avvicinarsi, come un imbecille durante un attacco di paralisi. La bicicletta si fermò a un paio di metri da me. I miei occhi, o la mia immaginazione, intuirono il contorno di due agili gambe che si posavano a terra. Risalii con lo sguardo il vestito che sembrava uscito da un quadro di Sorolla fino a imbattermi nei suoi occhi, di un grigio così profondo da poterci cadere dentro. Erano fissi su di me con un'espressione sarcastica. Sorrisi e feci la mia migliore faccia da idiota. «Tu devi essere quello dell'orologio» disse la ragazza con un tono coerente con il suo sguardo. Calcolai che doveva avere i miei anni, forse uno di più. Indovinare l'età di una donna era, per me, un'arte o una scienza, mai un semplice passatempo. La sua pelle era pallida come il vestito. «Abiti qui?» balbettai, indicando il cancello. Abbassò appena le palpebre. Quegli occhi mi trapanavano con una tale furia che mi ci vollero un paio d'ore prima di accorgermi che, per quanto mi riguardava, era la creatura più abbagliante che avessi mai visto o sperassi di vedere in vita mia. Punto e a capo. «E tu chi sei per farmi delle domande?» «Immagino di essere quello dell'orologio» improvvisai. «Mi chiamo Óscar. Óscar Drai. Sono venuto a restituirlo.» Senza darle il tempo di ribattere, lo tirai fuori dalla tasca e glielo porsi. La ragazza sostenne il mio sguardo per qualche istante prima di prenderlo. Quando lo fece, notai che la sua mano era bianca come quella di un pupazzo di neve e che sfoggiava un anello dorato all'anulare. «Era già rotto quando l'ho preso» spiegai. «È rotto da quindici anni» mormorò senza guardarmi. 17
Quando alla fine alzò gli occhi, fu per esaminarmi dall'alto in basso, come se stesse calcolando il valore di un vecchio mobile o di qualche cianfrusaglia. Qualcosa nei suoi occhi mi disse che non mi considerava un ladro vero e proprio; probabilmente mi stava classificando nella categoria dei cretini o in quella degli idioti. La mia faccia da illuminato non aiutava granché. La ragazza inarcò un sopracciglio e sorrise enigmatica, poi mi restituì l'orologio. «Tu l'hai preso, tu lo restituirai al proprietario.» «Ma...» «L'orologio non è mio» mi spiegò. «Appartiene a Germán.» Quel nome mi fece tornare in mente il gigante dalla bianca capigliatura che, giorni prima, mi aveva sorpreso nel salotto della villa. «Germán?» «Mio padre.» «E tu sei?» chiesi. «Sua figlia.» «Intendevo dire: come ti chiami?» «So benissimo cosa intendevi dire» rispose la ragazza. Senza aggiungere altro, montò di nuovo in sella e attraversò il cancello d'ingresso. Prima di sparire in giardino, si voltò per un attimo. Quegli occhi ridevano di me a crepapelle. Sospirai e la seguii. Un vecchio conoscente mi diede il benvenuto. Il gatto mi fissava con il suo solito disprezzo. Avrei voluto essere un dobermann. Attraversai il giardino scortato dall'animale. Mi districai in quella giungla fino ad arrivare alla fontana dei cherubini, dove era appoggiata la bicicletta. Dalla cesta sul manubrio la ragazza stava scaricando un sacchetto che profumava di pane fresco. Tirò fuori una bottiglia di latte e si accovacciò a terra per riempire una ciotola. Il felino si avventò sulla sua colazione. Doveva trattarsi di un rituale quotidiano. «Pensavo che il tuo gatto mangiasse solo uccellini indifesi.» «Non li mangia, li caccia soltanto. Marca il territorio» mi spiegò, come se parlasse a un bambino. «A lui piace il latte. Vero, Kafka, che ti piace il latte?» Il kafkiano felino le leccò le dita in segno di assenso. La ragazza sorrideva amorevole mentre gli accarezzava la schiena. Sotto le pieghe del ve18
stito le si disegnarono i muscoli dei fianchi. Proprio in quel momento alzò gli occhi e mi sorprese a osservarla con l'acquolina in bocca. «E tu? Hai già fatto colazione?» chiese. Scossi il capo. «Allora avrai fame. Gli stupidi hanno sempre fame» disse. «Vieni, entra e mangia qualcosa. Ti conviene avere lo stomaco pieno se devi spiegare a Germán perché gli hai rubato l'orologio.» La cucina era una grande stanza sul retro della casa. L'inaspettata colazione consisteva nei croissant che la ragazza aveva comprato da Foix, una pasticceria in Plaza Sarriá. Mi versò un'enorme tazza di caffellatte e si sedette di fronte a me, mentre io divoravo con avidità quel bendidio. Mi guardava come se avesse raccolto per strada un mendicante affamato, con un misto di curiosità, compassione e diffidenza. Lei non toccò niente. «Ti avevo già visto qualche volta da queste parti» disse senza togliermi gli occhi di dosso. «Te e quel piccoletto dall'aria spaventata. Passate spesso dalla strada sul retro quando vi fanno uscire dal collegio. A volte te ne vai in giro da solo, canticchiando distratto. Scommetto che vi divertite alla grande in quella galera...» Stavo per risponderle qualcosa di intelligente quando un'ombra gigantesca si sparse sulla tavola come una macchia d'inchiostro. La mia ospite alzò lo sguardo e sorrise. Io restai immobile, con la bocca piena di croissant e il cuore come due nacchere. «Abbiamo visite» annunciò divertita. «Papà, lui è Óscar Drai, ladro dilettante di orologi. Óscar, questo è Germán, mio padre.» Trangugiai di colpo e mi voltai lentamente. Un uomo che mi sembrò altissimo se ne stava ritto davanti a me. Indossava un abito di alpaca, con gilè e cravattino. La chioma bianca, pettinata con cura all'indietro, gli ricadeva sulle spalle. Un paio di baffi bianchi gli ornava il volto spigoloso, dagli occhi scuri e tristi. Ma ciò che più lo definiva erano le sue mani. Mani bianche da angelo, dalle dita sottili e interminabili. Germán. «Non sono un ladro, signore...» articolai nervoso. «Posso spiegare tutto. Se mi sono azzardato a entrare in casa sua è perché pensavo che fosse disabitata. Una volta dentro non so cosa mi è successo, ho sentito quella musica, cioè, insomma, il fatto è che sono entrato e ho visto l'orologio. Non 19
volevo rubarlo, glielo giuro, ma mi sono spaventato e quando mi sono accorto di averlo in mano ero già lontano. Cioè, non so se mi sono spiegato...» La ragazza sorrideva maliziosa. Gli occhi di Germán, scuri e impenetrabili, si posarono sui miei. Mi frugai in tasca e gli porsi l'orologio, aspettandomi che da un momento all'altro si mettesse a urlare e minacciasse di chiamare la polizia, la Guardia Civil e il tribunale dei minori. «Le credo» disse amabile, prendendo l'orologio e sedendosi a tavola con noi. La sua voce era dolce, appena un sussurro. La figlia gli servì un piatto con due croissant e una tazza di caffellatte grande come la mia. Mentre lo faceva, lo baciò in fronte e Germán la abbracciò. Li osservai stagliati nel chiarore soffuso che filtrava dai finestroni. Il volto di Germán, che avevo immaginato da orco, era invece delicato, quasi malaticcio. Era alto e incredibilmente magro. Mi sorrise cortese mentre si portava la tazza alle labbra e per un attimo notai che tra padre e figlia circolava una corrente di affetto che andava oltre i gesti e le parole. Un legame di sguardi e di silenzi li univa tra le ombre di quella casa, alla fine di una strada isolata, dove si prendevano cura l'uno dell'altro, lontani dal mondo. Finita la colazione, Germán mi ringraziò di cuore per essermi preso il disturbo di restituirgli l'orologio. Tanta gentilezza mi fece sentire doppiamente colpevole. «Bene, Óscar» disse con voce stanca. «È stato un piacere conoscerla. Spero di rivederla da queste parti quando vorrà venirci a trovare.» Non capivo perché continuava a darmi del lei. C'era qualcosa in lui che parlava di un'altra epoca, dei tempi in cui quella chioma grigia luccicava e quella villa era un elegante palazzo a metà strada tra Sarriá e il cielo. Mi strinse la mano e si accomiatò per penetrare in quel labirinto insondabile. Lo vidi allontanarsi zoppicando leggermente lungo il corridoio. La figlia l'osservava nascondendo un velo di tristezza negli occhi. «Germán non sta molto bene in salute» mormorò. «Si stanca facilmente.» Ma cancellò subito dal volto quell'espressione malinconica. «Ti va qualcos'altro?» 20
«Si sta facendo tardi» dissi, combattendo la tentazione di trovare una scusa qualunque per restare ancora con lei. «Credo sia meglio che vada.» Lei accettò la mia decisione e mi accompagnò in giardino. La luce del giorno aveva diradato la nebbia. L'inizio dell'autunno tingeva di rame le foglie degli alberi. Camminammo verso il cancello; Kafka ronfava al sole. La ragazza si fermò prima dell'inferriata e mi cedette il passo. Ci guardammo in silenzio. Mi tese la mano e gliela strinsi. Sentii il battito del suo polso sotto la pelle vellutata. «Grazie di tutto» dissi. «E scusami per...» «Non ha importanza.» Mi strinsi nelle spalle. «Bene...» Cominciai a camminare, sentendo che la magia di quella casa si separava da me a ogni passo. Improvvisamente, la sua voce risuonò alle mie spalle. «Óscar!» Mi voltai. Era ancora lì, oltre il cancello. Kafka era accoccolato ai suoi piedi. «Perché sei entrato in casa nostra l'altra sera?» Mi guardai intorno, come se sperassi di trovare la risposta scritta sul selciato. «Non lo so» ammisi alla fine. «Il mistero, suppongo...» La ragazza sorrise enigmatica. «Ti piacciono i misteri?» Annuii. Se mi avesse chiesto se mi piaceva l'arsenico, credo che la mia risposta sarebbe stata la stessa. «Hai da fare domani?» Scossi il capo, sempre muto. Se avessi avuto da fare, mi sarei inventato una scusa. Come ladro non valevo niente, ma come bugiardo devo confessare che sono sempre stato un artista. «Allora ti aspetto qui, alle nove» disse lei, perdendosi tra le ombre del giardino. «Aspetta!» 21
Il mio grido la trattenne. «Non mi hai detto come ti chiami...» «Marina... A domani.» La salutai con la mano, ma era già scomparsa. Aspettai inutilmente che si riaffacciasse. Il sole sfiorava lo zenit: doveva essere più o meno mezzogiorno. Quando capii che Marina non sarebbe ricomparsa, mi avviai verso il collegio. I vecchi portoni del quartiere sembravano sorridermi, complici. Potevo sentire l'eco dei miei passi sul selciato, ma avrei giurato di camminare sospeso a un palmo da terra.
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4
Credo di non essere mai stato tanto puntuale in vita mia. La città era ancora in pigiama quando attraversai Plaza Sarriá. Al mio passaggio, uno stormo di colombe si alzò in volo al rintocco delle campane che annunciavano la messa delle nove. Un sole da calendario ravvivava le tracce di una pioggerella notturna. Kafka era venuto ad accogliermi all'inizio della strada che portava alla villa. Un gruppo di passeri si teneva a prudente distanza sulla cima di un muro. Il gatto li osservava con la studiata indifferenza di un professionista. «Buongiorno, Kafka. Abbiamo già assassinato qualcuno stamattina?» Il gatto mi rispose con un semplice ronron e, come un flemmatico maggiordomo, mi fece strada attraverso il giardino. Marina mi aspettava seduta sul bordo della fontana, con un vestito color avorio che le lasciava scoperte le spalle. Aveva tra le mani un quaderno rilegato in pelle sul quale scriveva con una stilografica. Il suo volto tradiva una grande concentrazione e non si accorse della mia presenza. Sembrava persa in un altro mondo e ne approfittai per osservarla imbambolato per qualche istante. Decisi che doveva essere stato Leonardo da Vinci a disegnarle quelle clavicole: non c'era altra spiegazione. Kafka, geloso, ruppe l'incanto con un miagolio. La stilografica si fermò di colpo e gli occhi di Marina incrociarono i miei. Chiuse in fretta il quaderno. «Pronto?» Marina mi guidò per le strade di Sarriá verso una meta ignota, senza darmi altro indizio sulle sue intenzioni se non un misterioso sorriso. «Dove andiamo?» chiesi dopo diversi minuti. «Pazienza. Lo vedrai.» La seguii docilmente, anche se avevo il sospetto di essere oggetto di un qualche scherzo che per il momento non riuscivo a capire. Scendemmo fino al Paseo de la Bonanova e, di lì, svoltammo per San Gervasio. Passammo davanti al buco nero del bar Victor. Un gruppo di fighetti, al riparo degli immancabili occhiali da sole, scolavano birre e scaldavano con indolenza il sellino delle loro Vespe. Al nostro passaggio, in parecchi abbassarono 23
a mezz'asta i RayBan per radiografare Marina. "Mangiatevi il fegato" pensai. In calle Dr. Roux, Marina girò a destra. Scendemmo per un paio di isolati fino a imboccare un sentierino sterrato all'altezza del numero 112. L'enigmatico sorriso era sempre fisso sulle sue labbra. «È qui?» chiesi incuriosito. Quel sentiero non sembrava portare da nessuna parte. Marina si limitò a percorrerlo. Mi guidò per una stradina che saliva fino a un loggiato fiancheggiato da cipressi. Più in là, un giardino incantato pieno di lapidi, croci e mausolei ammuffiti languiva tra ombre azzurrate. Il vecchio cimitero di Sarriá. Il cimitero di Sarriá è uno dei luoghi più nascosti di Barcellona. Se lo si cerca sulla cartina non si trova. Se si chiede a qualche abitante del quartiere o a un tassista come arrivarci è molto probabile che non lo sappiano, anche se tutti ne hanno sentito parlare. Se poi qualcuno decidesse di trovarlo da solo, quasi sicuramente si perderebbe. I pochi che sono in possesso del segreto sospettano che questo vecchio cimitero sia, in realtà, un'isola del passato che compare e scompare a suo capriccio. Fu quello lo scenario dove mi condusse Marina quella domenica di settembre per svelarmi un segreto che mi intrigava quasi quanto la sua proprietaria. Seguendo le sue indicazioni, raggiungemmo un punto appartato nella zona alta dell'ala nord del camposanto. Da lì si godeva una buona visuale di tutto il cimitero. Ci sedemmo in silenzio a osservare le tombe e i fiori appassiti. Marina non diceva nemmeno una parola e io, dopo qualche minuto, cominciai a spazientirmi. Per me, l'unico vero mistero di tutta la faccenda era che diavolo ci facevamo lì. «È un po' un mortorio» suggerii, volutamente ironico. «La pazienza è la madre della scienza» ribatté Marina. «E la madrina della scemenza» replicai. «Qui non c'è niente di niente.» Marina mi rivolse uno sguardo che non seppi decifrare. «Ti sbagli. Qui ci sono i ricordi di centinaia di persone, le loro vite, i sentimenti, le illusioni, la loro assenza, i sogni che non sono mai riusciti a realizzare, le delusioni, i tradimenti e gli amori non corrisposti che hanno avvelenato le loro esistenze... Qui c'è tutto questo, prigioniero per l'eterni24
tà.» La osservai con un misto di curiosità e soggezione, anche se non capivo bene di cosa stesse parlando. In ogni caso, per lei era molto importante. «Non si capisce niente della vita finché non si comprende la morte» aggiunse Marina. Ancora una volta, mi sfuggì il vero significato delle sue parole. «Io non ci penso molto» dissi. «Alla morte, voglio dire. Sul serio, almeno...» Marina scosse il capo, come un medico che riconosce i sintomi di una malattia letale. «Insomma, sei uno di quegli sprovveduti...» commentò in tono enigmatico. «Sprovveduti?» Adesso sì che non ci capivo più niente. Marina lasciò vagare lo sguardo e il suo volto assunse un'espressione grave che la fece sembrare più vecchia. Ero ipnotizzato da lei. «Immagino che tu non conosca la leggenda...» disse. «Quale leggenda?» «Lo immaginavo» sentenziò. «Dicono che la morte abbia degli emissari che vagano in cerca di persone ignoranti, di teste vuote che non pensano a lei.» A questo punto fissò le sue pupille nelle mie. «Quando uno di questi sfortunati si imbatte in un emissario della morte» proseguì Marina, «viene condotto, a sua insaputa, in una trappola. Una porta dell'inferno. Questi emissari si coprono il volto per nascondere il fatto che non hanno occhi, ma due cavità scure pullulanti di vermi. Quando non c'è più via di scampo l'emissario si scopre il volto, e solo allora la vittima comprende l'orrore che l'aspetta...» Le sue parole aleggiarono nell'aria piene di echi, mentre il mio stomaco si contraeva. Solo allora a Marina sfuggì quel sorriso malizioso. Un sorriso da gatto. «Mi stai prendendo in giro» dissi alla fine. «Evidentemente. » Trascorremmo in silenzio cinque o dieci minuti, o forse più. Un'eternità. 25
Una lieve brezza sfiorava i cipressi. Due colombe bianche svolazzavano fra le tombe. Una formica mi si arrampicava sui pantaloni. Accadeva poco altro. Sentivo che mi si addormentava una gamba e temetti che, di lì a poco, anche il mio cervello avrebbe seguito la stessa strada. Stavo per protestare quando Marina, con un gesto della mano, mi ordinò di tacere prima ancora che potessi aprire bocca. Poi mi indicò il loggiato del cimitero. Era appena entrato qualcuno. Sembrava una donna avvolta in un mantello di velluto nero. Un cappuccio le copriva il viso. Le mani, unite sul petto, calzavano guanti dello stesso colore dell'abito. Il mantello arrivava fino a terra e impediva di vedere i piedi. Da dove ci trovavamo, quella figura senza volto pareva avanzare sospesa nell'aria. Inspiegabilmente, fui scosso da un brivido. «Chi...?» sussurrai. «Sssh» mi zittì Marina. Nascosti dietro le Colonne della balconata, spiammo la dama in nero. Si muoveva fra le tombe come un'apparizione. Stringeva una rosa rossa tra le dita guantate. Il fiore sembrava una ferita ancora sanguinante scolpita al coltello. La donna si avvicinò a una lapide proprio sotto il nostro punto di osservazione e si fermò, dandoci le spalle. Solo in quel momento notai che quella tomba, a differenza delle altre, era anonima. Si distingueva soltanto un'incisione nel marmo: un simbolo che sembrava rappresentare un insetto, una farfalla nera con le ali spiegate. La dama in nero rimase ai piedi della tomba per cinque minuti, in silenzio. Alla fine si chinò, appoggiò la rosa rossa sulla lapide e se ne andò lentamente, così com'era venuta. Come un'apparizione. Marina mi rivolse uno sguardo nervoso e si avvicinò per sussurrarmi qualcosa all'orecchio. Sentii le sue labbra sfiorarmi e un millepiedi dalle zampette infuocate cominciò a ballare il samba sulla mia nuca. «L'ho scoperta per caso tre mesi fa, quando ho accompagnato Germán a portare dei fiori sulla tomba di sua zia Reme... Viene qui l'ultima domenica di ogni mese, alle dieci del mattino, e depone una rosa rossa, sempre identica, su quella tomba» mi spiegò Marina. «Indossa sempre lo stesso mantello, gli stessi guanti e il cappuccio. È sempre sola, non si scopre mai il volto e non parla con nessuno.» 26
«Chi è sepolto in quella tomba?» Lo strano simbolo scolpito sul marmo solleticava la mia curiosità. «Non lo so. Nel registro del cimitero non figura nessun nome...» «E chi è quella donna?» Marina stava per rispondere quando intravide la sagoma della donna sparire oltre il loggiato del cimitero. Mi afferrò la mano e si rialzò in fretta. «Presto o la perdiamo.» «Dobbiamo seguirla?» chiesi. «Non volevi un po' d'azione?» mi rispose, a metà strada fra la pena e l'irritazione, come se avesse a che fare con uno stupido. Quando arrivammo in calle Dr. Roux, la dama in nero stava svoltando verso la Bonanova. Ricominciava a piovere, anche se il sole si rifiutava di nascondersi. Seguimmo la donna sotto quella cortina di lacrime dorate. Attraversammo il Paseo de la Bonanova e cominciammo a salire verso le falde della collina, punteggiata di ville e palazzi che avevano conosciuto tempi migliori. La dama si infilò nel reticolo di strade deserte, ricoperte da un tappeto di foglie secche, lucenti come le squame abbandonate da un enorme serpente. Poi, arrivata a un incrocio, si fermò come una statua viva. «Ci ha visto...» sussurrai, nascondendomi con Marina dietro un grosso tronco pieno di scritte. Per un istante pensai che si sarebbe voltata e ci avrebbe scoperti. Invece no. Poco dopo girò a sinistra e sparì. Io e Marina ci guardammo. Riprendemmo l'inseguimento. Le tracce ci condussero in un vicolo cieco, sbarrato dal tratto all'aperto della ferrovia di Sarriá, che saliva verso Vallvidrera e Sant Cugat. Ci fermammo: della dama in nero non c'era traccia, anche se l'avevamo vista svoltare proprio in quel punto. Oltre le cime degli alberi e i tetti delle case, si scorgevano in lontananza i torrioni del collegio. «Sarà entrata in casa» buttai lì. «Magari abita da queste parti...» «No. Queste case sono disabitate. Qui non ci vive nessuno.» Marina mi indicò le facciate nascoste dietro i muri e le inferriate. Un paio di vecchi magazzini abbandonati e un villa divorata anni prima dalle fiamme era tutto ciò che restava in piedi. La donna ci era sparita sotto il naso. 27
Ci addentrammo nella viuzza. Ai nostri piedi, uno scorcio di cielo si rifletteva in una pozzanghera. Le gocce di pioggia sfumavano le nostre immagini. In fondo al vicolo sbatacchiava un portone di legno mosso dal vento. Marina mi guardò in silenzio. Ci avvicinammo con circospezione e mi affacciai per dare un'occhiata. Il portone, ritagliato su un muro di mattoni rossi, dava su un cortile. Quello che una volta era stato un giardino adesso era completamente in balia delle erbacce. Oltre la fitta vegetazione si intravedeva la facciata di uno strano edificio ricoperto d'edera. Mi ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di una serra di vetro dall'armatura in acciaio. Gli arbusti sibilavano minacciosi, come uno sciame in agguato. «Prima tu» mi esortò Marina. Mi armai di coraggio e mi addentrai tra le erbacce, seguito da Marina che, senza preavviso, mi aveva preso la mano. Sentii i nostri passi affondare in uno strato di detriti. Mi passò per la mente l'immagine di un groviglio di scuri serpenti dagli occhi scarlatti. Attraversammo quella giungla di rami ostili che graffiavano la pelle finché sbucammo in uno spiazzo davanti alla serra. Marina mi lasciò la mano per osservare da vicino il sinistro fabbricato. L'edera avviluppava l'intera struttura come una ragnatela. La serra sembrava un palazzo inabissato in fondo a una palude. «Ho paura che ci abbia seminati» dissi. «Qui non mette piede nessuno da anni.» A denti stretti, Marina dovette darmi ragione. Diede un'ultima occhiata alla serra con aria delusa. "Le sconfitte silenziose hanno più gusto" pensai. «Dai, andiamo via» le suggerii, tendendole la mano con la segreta speranza che me la stringesse di nuovo per superare la distesa di rovi. Marina la ignorò e, con aria corrucciata, si allontanò per fare il giro della serra. Sospirai e la seguii controvoglia. Quella ragazza era più testarda di un mulo. «Marina» dissi, «qui non...» La ritrovai sul retro dell'edificio, davanti a quella che sembrava l'entrata. Mi guardò e sollevò la mano verso il vetro per rimuovere uno strato di sudiciume che copriva un'incisione. Riconobbi la farfalla nera scolpita sulla tomba anonima del cimitero. Marina ci appoggiò sopra la mano e la porta cedette lentamente. Fummo investiti da una zaffata di aria stagnante e dolciastra. Era il fetore dei pantani e dei pozzi avvelenati. Ignorando il poco 28
buonsenso che ancora mi restava, mi addentrai nelle tenebre.
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Un sentore spettrale di profumo e di legno vecchio aleggiava nell'ombra. Il pavimento in terra battuta trasudava umidità. Volute di vapore danzavano verso la volta di vetro e la condensa stillava gocce invisibili nell'oscurità. Uno strano rumore palpitava oltre il mio campo visivo, un mormorio metallico come quello di un'imposta scossa dal vento. Marina continuava ad avanzare piano. Il calore era opprimente, umido. Sentivo i vestiti appiccicati alla pelle, e un velo di sudore mi copriva la fronte. Mi voltai verso Marina e nella penombra mi accorsi che anche a lei succedeva la stessa cosa. Quel mormorio soprannaturale continuava ad agitarsi nell'ombra. Sembrava provenire da ogni parte. «Cos'è?» sussurrò Marina, con una fitta di paura nella voce. Mi strinsi nelle spalle. Continuammo ad avanzare nella serra, poi ci fermammo nel punto in cui convergevano gli aghi di luce che filtravano dal tetto. Marina stava per dire qualcosa quando sentimmo di nuovo quel tramestio sinistro. Vicino. A meno di due metri da noi. Proprio sopra le nostre teste. Ci scambiammo un'occhiata silenziosa e lentamente alzammo lo sguardo verso il soffitto, immerso nelle tenebre. Sentii la mano di Marina stringere forte la mia. Tremava. Tremavamo. Eravamo circondati. Diverse sagome spigolose penzolavano nel vuoto. Ne distinsi una dozzina, forse più. Gambe, braccia, mani e occhi che luccicavano nell'oscurità. Un branco di corpi inerti incombeva su di noi, come marionette infernali. Erano loro, sfiorandosi gli uni con gli altri, a produrre quel mormorio metallico. Arretrammo di qualche passo e, prima di poterci rendere conto di quello che stava succedendo, la caviglia di Marina rimase impigliata in una leva che azionava un sistema di pulegge. La leva cedette. Una frazione di secondo più tardi quell'esercito di sagome congelate precipitò nel vuoto. Mi gettai su Marina per proteggerla e cademmo bocconi a terra. Sentii l'eco di un violento scossone e il ruggito della vecchia struttura di vetro che vibrava. Temetti che qualche pannello andasse in frantumi e che ci trafiggesse una pioggia di coltelli trasparenti. In quel momento sentii un contatto gelido sulla nuca. Dita. 30
Riaprii gli occhi. Un volto mi sorrideva. Occhi brillanti e giallastri che luccicavano, privi di vita. Occhi di vetro in un volto intagliato nel legno smaltato. Allora sentii Marina, accanto a me, soffocare un urlo. «Sono pupazzi» dissi, quasi senza fiato. Ci rialzammo per esaminare la vera natura di quegli esseri. Marionette. Figure di legno, metallo e ceramica. Erano appese a una specie di macchinario teatrale per mezzo di migliaia di fili. La leva involontariamente azionata da Marina aveva messo in moto il meccanismo di pulegge che le sosteneva. Le figure, sospese a tre spanne da terra, danzavano un macabro balletto da impiccati. «Che diavolo...?» esclamò Marina. Osservai i pupazzi. Riconobbi una figura vestita da mago, un poliziotto, una ballerina, una gran dama con un abito granata, un forzuto da fiera... Erano tutti di dimensioni reali e indossavano eleganti costumi da ballo in maschera che il tempo aveva ridotto in stracci. Ma c'era qualcosa che li accomunava e conferiva loro una strana caratteristica che ne denunciava l'origine comune. «Sono incompleti» scoprii. Marina capì all'istante a cosa mi riferivo. A tutte le marionette mancava qualcosa. Il poliziotto era privo di braccia, la ballerina aveva due oscure cavità al posto degli occhi, il mago non aveva la bocca e le mani... Osservammo le figure che penzolavano nella luce spettrale. Marina si avvicinò alla ballerina e la esaminò attentamente. Mi indicò un piccolo segno sulla fronte, proprio all'attaccatura dei capelli da bambola. Di nuovo la farfalla nera. Marina allungò la mano verso quel segno. Le sue dita la sfiorarono e ritrasse bruscamente la mano. Notai il suo gesto di disgusto. «I capelli... sono veri» disse. «Impossibile.» Esaminammo a uno a uno quei macabri fantocci, scoprendo su tutti loro lo stesso segno. Azionai di nuovo la leva, e il sistema di pulegge riportò quei corpi verso il soffitto. Vedendoli salire così inerti, pensai che fossero anime meccaniche che si ricongiungevano al loro creatore. «Lì sembra che ci sia qualcosa» disse Marina alle mie spalle. Mi voltai e vidi che indicava un angolo della serra dove si intravedeva una vecchia scrivania. Il ripiano di legno era ricoperto da un sottile strato 31
di polvere. Un ragno ci zampettava sopra, lasciandovi delle minuscole impronte. Mi chinai e soffiai su quel velo impalpabile. Una nuvola grigia si sparse in aria. Sulla scrivania c'era un volume rilegato in pelle, aperto a metà. Un'ordinata calligrafia aveva scritto in calce a una vecchia foto color seppia fissata a una pagina: "Arles, 1903". L'immagine mostrava due bambine siamesi unite per il torace. Sfoggiando vestiti eleganti, le sorelle esibivano davanti alla macchina fotografica il sorriso più triste del mondo. Marina sfogliò le pagine. Il volume, in realtà, era un comunissimo album di vecchie fotografie. Di comune, tuttavia, quelle immagini non avevano nulla. Il ritratto delle bambine siamesi era stato un presagio. Le dita di Marina giravano una pagina dopo l'altra per osservare, con un misto di attrazione e repulsione, quelle fotografie. Anch'io diedi un'occhiata, e uno strano formicolio mi percorse la spina dorsale. «Scherzi della natura...» sussurrò Marina. «Esseri deformi, di quelli che un tempo si esibivano nei circhi...» Lo sconvolgente potere di quelle immagini mi colpì come una frustata. Il lato oscuro della natura rivelava il suo volto mostruoso. Anime innocenti rinchiuse dentro corpi orribilmente deformi. Per lunghi minuti scorremmo le pagine di quell'album in silenzio. A una a una le foto ci mostravano, mi spiace doverlo dire, creature da incubo. Eppure le aberrazioni fisiche non riuscivano a velare gli sguardi di desolazione, di orrore e di solitudine che ardevano sui loro volti. «Dio mio...» sussurrò Marina. Sotto ogni foto c'erano l'anno e il luogo in cui era stata scattata: Buenos Aires, 1893. Bombay, 1911. Torino, 1930. Praga, 1933... Mi era difficile immaginare chi, e perché, avesse raccolto una simile sfilza di orrori. Un catalogo infernale. Alla fine Marina distolse lo sguardo dall'album e si allontanò nell'ombra. Provai a seguirla, ma non riuscivo a separarmi dal dolore e dall'orrore di cui erano impregnate quelle immagini. Avrei potuto vivere mille anni, ma avrei continuato a ricordare lo sguardo di ognuna di quelle creature. Chiusi il libro e mi voltai verso Marina. La ascoltai sospirare nella penombra e mi sentii insignificante, incapace di sapere che fare o che dire. Qualcosa in quelle foto l'aveva profondamente turbata. «Stai bene?» chiesi. Marina annuì in silenzio, gli occhi quasi chiusi. 32
D'un tratto, qualcosa risuonò nella stanza. Esplorai con lo sguardo la coltre di oscurità che ci avvolgeva. Ancora una volta sentii quel rumore indefinibile. Ostile. Malefico. Avvertii allora un tanfo di marcio, nauseabondo e penetrante. Proveniva dall'oscurità come il fiato di una bestia selvatica. Ebbi la certezza che non eravamo soli. C'era qualcun altro lì. E ci osservava. Marina scrutava pietrificata quella muraglia di tenebre. La presi per mano e la guidai verso l'uscita.
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Fuori, una fine pioggerella aveva vestito d'argento le strade. Era l'una. Percorremmo la via del ritorno senza scambiare parola. A casa di Marina, il padre ci aspettava per pranzo. «Non dire niente a Germán, per favore» mi pregò Marina. «Non preoccuparti.» Del resto, non sarei stato capace di spiegare quello che era successo. Via via che ci allontanavamo, il ricordo di quelle immagini e di quella serra sinistra si faceva sempre più vago. All'altezza di Plaza Sarriá, mi accorsi che Marina era molto pallida e respirava con difficoltà. «Ti senti bene?» chiesi. Mi disse di sì con poca convinzione. Ci sedemmo su una panchina della piazza. A occhi chiusi, respirò a lungo e profondamente. Uno stormo di colombe scorrazzava ai nostri piedi. Per un attimo temetti che Marina sarebbe svenuta. Invece riaprì gli occhi e mi sorrise. «Stai tranquillo. Ho solo un po' di nausea. Dev'essere stato quell'odore.» «Certo. Probabilmente era un animale morto. Un topo o...» Marina avvalorò la mia ipotesi. Dopo un po', le sue guance ripresero colorito. «In realtà avrei bisogno di mangiare qualcosa. Sbrighiamoci. Germán si sarà stufato di aspettare.» Ci alzammo e ci incamminammo verso casa sua. Kafka ci aspettava davanti al cancello. Mi guardò con disprezzo e corse a strusciarsi contro le caviglie di Marina. Mentre riflettevo sui vantaggi di essere un gatto, sentii di nuovo quella voce celestiale dal grammofono di Germán. La musica inondava il giardino come un'alta marea. «Che musica è?» «Léo Delibes» rispose Marina. «Chi?» «Delibes. Un compositore francese» mi spiegò Marina, indovinando la 34
mia ignoranza. «Ma cosa vi insegnano in collegio?» Alzai le spalle. «È l'aria di una sua opera. Lakmé.» «E quella voce?» «Mia madre.» La fissai attonito. «Tua madre è una cantante d'opera?» Marina mi restituì uno sguardo impenetrabile. «Era» rispose. «È morta.» Germán ci aspettava nel salone principale, una grande stanza ovale con un lampadario di cristallo a gocce che pendeva dal soffitto. Il padre di Marina vestiva quasi da cerimonia, con tanto di gilè, e la folta chioma argentata era meticolosamente pettinata all'indietro. Mi sembrava di avere davanti agli occhi un gentiluomo di fine Ottocento. Ci sedemmo a tavola, apparecchiata con tovaglie di pizzo e posate d'argento. «E un piacere averla con noi, Óscar» disse Germán. «Non tutte le domeniche abbiamo la fortuna di una così gradita compagnia.» Il servizio di piatti, veri e propri pezzi d'antiquariato, era di porcellana. Il menu sembrava consistere in una minestra dall'aroma delizioso accompagnata da crostini di pane. Nient'altro. Mentre Germán mi serviva per primo, capii che tutto quello sfoggio di eleganza era dovuto alla mia presenza. Malgrado le posate d'argento, le stoviglie da museo e l'abito da cerimonia, in quella casa non c'erano i soldi per un secondo piatto. In realtà, non c'erano neanche per pagare la bolletta della luce. La casa, infatti, era perennemente illuminata dalle candele. Germán dovette leggermi nel pensiero. «Si sarà accorto che non abbiamo elettricità, Óscar. Il fatto è che non crediamo troppo alle moderne scoperte scientifiche. Del resto, che razza di scienza è quella che porta un uomo sulla Luna ma non è in grado di garantire un pezzo di pane a tutti gli esseri umani?» «Forse il problema non sta nella scienza, ma in chi decide che uso farne» suggerii. Germán rifletté sulla mia osservazione e annuì con solennità, non so se per cortesia o per convinzione. «Intuisco in lei una certa inclinazione filosofica. Óscar. Ha letto Schopenhauer?» Un'occhiata di Marina mi suggerì di dare corda al padre. 35
«Superficialmente» improvvisai. Sorbimmo la minestra in silenzio. Ogni tanto Germán mi sorrideva amabile e guardava con affetto la figlia. Qualcosa mi diceva che Marina non aveva molti amici e che il padre vedeva di buon occhio la mia presenza in quella casa, anche se non sapevo distinguere tra Schopenhauer e una marca di prodotti ortopedici. «Mi dica, Óscar, che si dice nel mondo ultimamente?» Formulò la domanda in modo da farmi sospettare che, se avessi annunciato la fine della Seconda guerra mondiale, avrei causato grande agitazione. «Non molto, in verità» risposi, sotto lo sguardo vigile di Marina. «Ci saranno le elezioni...» La notizia risvegliò l'interesse di Germán, che fermò la danza del suo cucchiaio e ponderò la questione. «E lei, Óscar, è di destra o di sinistra?» «Óscar è anarchico, papà» tagliò corto Marina. Il pezzo di pane che stavo ingoiando mi andò di traverso per la sorpresa. Germán mi scrutò a lungo, incuriosito. «L'idealismo della gioventù...» mormorò. «La capisco, la capisco... Alla sua età anch'io ho letto Bakunin. È come il morbillo; una volta bisogna prenderlo...» Fulminai con un'occhiata Marina, che si leccava le labbra come un gatto. Mi fece l'occhiolino e distolse lo sguardo. Germán mi osservò condiscendente, io lo ricambiai con un cortese cenno del capo e mi portai il cucchiaio alla bocca. Così, almeno, avrei evitato di parlare e fare altre figuracce. Continuammo il pranzo in silenzio. Non tardai ad accorgermi che Germán, all'altro capo della tavola, si stava appisolando. Quando alla fine il cucchiaio gli scivolò dalle dita, Marina si alzò per allentargli il cravattino di seta argentato. Germán sospirò. Gli tremava leggermente una mano. Marina prese il padre per un braccio e lo aiutò ad alzarsi. Germán annuì, avvilito, e mi sorrise imbarazzato. Mi parve che fosse invecchiato di una quindicina d'anni in un soffio. «Le chiedo scusa, Óscar...» disse con un filo di voce. «Purtroppo l'età...» Mi alzai anch'io, offrendo aiuto a Marina con un'occhiata. Lei rifiutò, 36
pregandomi di restare in salone. L'uomo si appoggiò al braccio della figlia e li vidi lasciare la stanza. «È stato un piacere, Óscar...» sussurrò la voce affaticata di Germán, perdendosi nel corridoio buio. «Torni a trovarci, torni a trovarci...» Sentii i loro passi svanire e attesi il ritorno di Marina alla luce delle candele per quasi mezz'ora, sempre più immerso nell'atmosfera della casa. Quando ebbi la certezza che non sarebbe tornata, cominciai a preoccuparmi. Fui in dubbio se andarla a cercare, ma non mi sembrò il caso di curiosare nelle stanze senza permesso. Pensai di lasciarle un messaggio, ma non avevo nulla con cui scrivere. Stava calando la sera ed era meglio andarmene. Sarei ripassato il giorno dopo, finite le lezioni, per controllare che fosse tutto a posto. Mi sorprese rendermi conto che non vedevo Marina da appena mezz'ora e stavo già cercando delle scuse per tornare. Uscii dalla porta della cucina, sul retro della casa, attraversai il giardino e raggiunsi il cancello. Il cielo si spegneva sulla città, solcato da nuvole di passaggio. Mentre rientravo in collegio a passi lenti, gli avvenimenti della giornata mi ripassarono davanti agli occhi. Sulle scale, a pochi passi dalla mia stanza al quarto piano, ero convinto di aver vissuto il giorno più strano della mia vita. Ma se avessi potuto comprare un biglietto per riviverlo, l'avrei fatto senza pensarci due volte.
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La notte sognai di essere imprigionato in un immenso caleidoscopio. Lo faceva girare un essere diabolico, del quale potevo scorgere solo il grande occhio attraverso la lente. Il mondo si frantumava in labirinti di illusioni ottiche che fluttuavano intorno a me. Insetti. Farfalle nere. Mi svegliai di soprassalto, con la sensazione di avere del caffè bollente che mi scorreva nelle vene. Quello stato di eccitazione mi accompagnò per l'intera giornata. Le lezioni del lunedì sfilarono via come treni che non fermavano nella mia stazione. JF se ne accorse subito. «Di solito vivi sulle nuvole» sentenziò, «ma oggi stai oltrepassando l'atmosfera. Non ti senti bene?» Lo tranquillizzai con un gesto assente. Guardai l'orologio sopra la lavagna: le tre e mezzo. Mancavano meno di due ore alla fine delle lezioni. Un'eternità. Fuori la pioggia graffiava i vetri delle finestre. Al suono della campanella me la svignai a tutta velocità, dando buca a JF che mi aspettava per la nostra solita passeggiata nel mondo reale. Superai gli eterni corridoi del collegio e raggiunsi l'uscita. I giardini e le fontane dell'ingresso impallidivano sotto il temporale. Ero uscito senza ombrello, senza neanche un cappuccio. Il cielo era una lapide plumbea. Le luci dei lampioni bruciavano come fiammiferi. Mi misi a correre. Schivai le pozzanghere ed evitai gli scarichi traboccanti dei tubi di scolo. Le strade erano percorse da rivoli d'acqua, simili a vene che si dissanguavano. Bagnato fradicio, corsi per strade strette e silenziose. I tombini ruggivano al mio passaggio. La città sembrava sprofondare in un oceano di tenebre. Mi ci vollero dieci minuti per raggiungere il cancello della villa di Marina e Germán, ormai irrimediabilmente zuppo dalla testa ai piedi. Il crepuscolo era un sipario di marmo grigiastro all'orizzonte. Mi sembrò di sentire uno scricchiolio alle mie spalle, all'imboccatura del vicolo. Mi voltai di scatto. Per un istante, ebbi la sensazione che qualcuno mi avesse seguito. Ma non c'era nessuno, solo la pioggia che mitragliava le pozzanghere della stradina. 38
Mi intrufolai dal cancello. Il chiarore dei lampi guidò i miei passi fino alla casa. I cherubini della fontana mi diedero il benvenuto. Rabbrividendo di freddo, raggiunsi la porta della cucina sul retro. Era aperta. Entrai. La casa era completamente immersa nel buio. Ricordai le parole di Germán a proposito dell'assenza di elettricità. Fino a quel momento non mi era passato per la testa che nessuno mi aveva invitato. Per la seconda volta, mi intrufolavo in quella casa senza nessuna giustificazione. Fui tentato di andarmene, ma il temporale, là fuori, infuriava. Sospirai. Avevo le mani congelate e i polpastrelli quasi insensibili. Tossii come un cane e sentii una pulsazione alle tempie. I vestiti, gelidi, mi aderivano al corpo. "Il mio regno per un asciugamano" pensai«Marina?» dissi. L'eco della mia voce si perse nella grande casa. Ero circondato da un manto di tenebre. Solo il bagliore dei lampi che filtrava dai finestroni squarciava a tratti l'oscurità, come il flash di una macchina fotografica. «Marina?» insistetti. «Sono Óscar...» Mi addentrai timidamente in casa. Le scarpe fradice producevano un rumore vischioso. Mi fermai sulla soglia del salone dove avevamo pranzato il giorno prima. La tavola era vuota, le sedie deserte. «Marina? Germán?» Non ebbi risposta. Su una console intravidi nella penombra un piccolo candeliere e una scatola di fiammiferi. Mi ci vollero cinque tentativi prima che le mie dita intirizzite e insensibili riuscissero ad accenderne uno. Sollevai la luce tremolante. Un chiarore spettrale inondò la stanza. Avanzai piano verso il corridoio in cui avevo visto sparire Marina e suo padre la sera prima. Conduceva a un altro grande salone, anch'esso sovrastato da un lampadario le cui gocce di cristallo brillavano nella penombra come una giostra di diamanti. Attraverso i vetri, il temporale proiettava dentro casa delle ombre oblique. Poltrone e vecchi mobili giacevano sotto lenzuola bianche. Una scalinata di marmo portava al primo piano. La raggiunsi, sentendomi un intruso. Due occhi gialli luccicavano in cima alla scala. Sentii un miagolio. Kafka. Sospirai sollevato. Un attimo dopo il gatto scomparve nelle tenebre. Guardandomi in giro, notai che i miei passi avevano lasciato una scia di impronte sulla polvere. «C'è qualcuno?» chiamai ancora, senza ottenere risposta. 39
Immaginai quella grande sala qualche decennio prima, decorata con sfarzo, rallegrata da un'orchestra e da decine di coppie che ballavano. Adesso sembrava il salone di una nave affondata. Le pareti erano tappezzate da ritratti a olio. Raffiguravano tutti una donna. La riconobbi. Era la stessa del quadro che avevo visto quando mi ero intrufolato per la prima volta in quella casa. La magia e la perfezione della pennellata e la luminosità di quei ritratti erano quasi soprannaturali. Mi chiesi chi potesse averli dipinti. Perfino per me era evidente che erano opera di una stessa mano. La donna sembrava sorvegliarmi da tutte le pareti. Non era difficile notare la tremenda somiglianza tra lei e Marina. Le stesse labbra su una carnagione pallida, quasi trasparente. La stessa vita, delicata e sottile come quella di una bambola di porcellana. Gli stessi occhi di cenere, tristi e senza fondo. Qualcosa mi sfiorò una caviglia. Era Kafka che faceva le fusa ai miei piedi. Mi chinai ad accarezzargli il mantello argentato. «Dov'è la tua padrona, eh?» Per tutta risposta, il gatto emise un malinconico miagolio. Non c'era nessuno in quella casa. Sentii la pioggia che ticchettava sul tetto, disperdendosi in una miriade di rivoli d'acqua. Marina e Germán dovevano essere usciti per una ragione impossibile da indovinare. In ogni caso, non erano affari miei. Accarezzai Kafka, deciso ad andarmene prima che tornassero. «In questa casa uno di noi due è di troppo» sussurrai a Kafka. «Io.» Improvvisamente, il pelo gli si rizzò sulla schiena. Avvertii i suoi muscoli tendersi come cavi d'acciaio sotto la mia mano. Kafka miagolò di terrore. Mi stavo chiedendo cosa avesse potuto spaventarlo in quel modo quando lo sentii. Quell'odore. Il tanfo di animale in putrefazione della serra. Mi venne la nausea. Alzai gli occhi. Una cortina di pioggia velava le finestre del salone. Fuori si intravedevano gli incerti contorni degli angeli della fontana. Seppi d'istinto che qualcosa non quadrava. Tra le statue c'era un intruso. Mi rialzai e avanzai lentamente verso la vetrata. Una delle statue si girò su se stessa. Mi fermai, pietrificato. Non riuscivo a distinguere i suoi lineamenti, vedevo solo una sagoma scura avvolta in un mantello. Ero certo che quell'estraneo mi stava osservando. E anche lui sapeva che io lo stavo guardando. Rimasi immobile per un istante infinito. Qualche secondo dopo, la sagoma si ritrasse nell'oscurità. Quando il bagliore di un lampo esplose sul giardino, l'intruso non c'era più. Ci misi un po' a rendermi conto 40
che con lui era sparito anche quel disgustoso odore. Non mi venne in mente nient'altro che sedermi ad aspettare il ritorno di Germán e Marina. L'idea di uscire non mi attirava troppo. Il temporale era il meno. Mi lasciai sprofondare in un'immensa poltrona. A poco a poco, il ticchettio della pioggia e il chiarore soffuso del grande salone mi conciliarono il sonno. A un certo punto, sentii il rumore di una chiave che girava nella toppa della porta principale e uno scalpiccio di passi nella casa. Mi svegliai definitivamente e il cuore si mise a battere all'impazzata. Voci che si avvicinavano lungo il corridoio. Una candela. Kafka corse incontro alla luce proprio mentre Germán e la figlia entravano nel salone. Marina mi inchiodò con uno sguardo gelido. «Che ci fai qui, Óscar?» Balbettai qualcosa senza senso. Germán mi sorrise amabile e mi osservò con curiosità. «Per Dio, Óscar! È bagnato fradicio! Marina, porta degli asciugamani puliti per Óscar... Venga, adesso accendiamo il fuoco, è proprio una sera da cani...» Mi sedetti davanti al camino tenendo fra le mani una tazza di brodo bollente preparato da Marina. Spiegai alla bell'e meglio perché mi trovavo in casa, senza accennare alla figura intravista in giardino e a quel tremendo fetore. Germán accolse di buon grado le mie spiegazioni e non si mostrò affatto seccato per la mia intrusione, anzi. Marina... era un'altra storia. Le sue occhiate scottavano. Temetti che la mia stupidaggine di intrufolarmi in casa loro quasi per abitudine avesse infranto per sempre la nostra amicizia. Non aprì bocca per tutta la mezz'ora che passammo seduti davanti al fuoco. Quando Germán mi pregò di scusarlo e mi augurò la buona notte, pensai che la mia ex amica mi avrebbe cacciato a pedate, intimandomi di non tornare mai più. "Eccolo" pensai. Il bacio della morte. Marina mi rivolse un sorriso affilato, sarcastico. «Sembri il brutto anatroccolo» disse. «Grazie» risposi, aspettandomi di peggio. «Allora mi spieghi che diavolo ci facevi qui?» I suoi occhi brillavano, ravvivati dalle fiamme. Terminai il brodo e ab41
bassai lo sguardo. «La verità è che non lo so...» dissi. «Immagino che... Non so...» Il mio deplorevole aspetto mi aiutò, perché Marina mi si avvicinò e mi diede qualche pacca sulla mano. «Guardami» ordinò. La guardai. Mi osservava con un misto di compassione e simpatia. «Non sono arrabbiata con te, capisci?» disse. «Mi ha solo sorpreso trovarti qui, così, senza preavviso. Tutti i lunedì accompagno Germán dal medico, all'ospedale di San Pablo. Per questo eravamo usciti. Non è la giornata ideale per le visite.» Ero mortificato. «Non succederà più» promisi. Mi accingevo a raccontare a Marina della strana apparizione che credevo di avere visto quando lei, sorridendo, si allungò per darmi un bacio sulla guancia. Bastò che mi sfiorasse con le labbra perché i miei vestiti si asciugassero all'istante e dimenticassi quello che stavo per dire. Marina si accorse del mio muto balbettio. «Che c'è?» La guardai in silenzio e scossi il capo. «Niente.» Inarcò un sopracciglio, come se non mi credesse, ma non insistette. «Ancora un po' di brodo?» chiese, rialzandosi. «Grazie.» Marina prese la tazza e andò in cucina per riempirla. Io restai accanto al fuoco, affascinato dai ritratti della donna alle pareti. Quando tornò, seguì il mio sguardo. «La donna di quei quadri...» iniziai. «È mia madre» disse Marina. Sentii di avere toccato un tasto delicato. «Non avevo mai visto quadri così. Sono come... fotografie dell'anima.» Lei annuì in silenzio. «Deve trattarsi di un artista famoso» proseguii. «Ma non avevo mai visto niente di simile.» Marina tardò a rispondere. «E non lo vedrai. Sono quasi diciassette anni che l'autore non dipinge 42
più. Questa serie di ritratti è stata la sua ultima opera.» «Doveva conoscere molto bene tua madre per poterla ritrarre così» osservai. Marina mi fissò a lungo. Era lo stesso sguardo imprigionato nei quadri. «Meglio di chiunque altro» rispose. «L'aveva sposata.»
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Quella sera, accanto al fuoco, Marina mi raccontò la storia di Germán e della villa di Sarriá. Germán Blau era nato in una ricca famiglia della fiorente borghesia catalana dell'epoca. Alla dinastia Blau non mancavano il palco al teatro dell'Opera, un villaggio industriale sulle rive del fiume Segre né qualche scandalo in società. Si mormorava che il piccolo Germán non fosse figlio del patriarca Blau, ma frutto degli amori illeciti tra Diana, la madre, e un pittoresco individuo chiamato Quim Salvat. Salvat era, nell'ordine, un libertino, un pittore ritrattista e un satiro di professione. Scandalizzava gli esponenti dell'alta società al tempo stesso in cui ne immortalava, a prezzi astronomici, le facce sulla tela. Quale che fosse la verità, Germán non assomigliava affatto, né fisicamente né nel carattere, a nessun altro membro della famiglia. I suoi soli interessi erano la pittura e il disegno, cosa che destò i sospetti di tutti. Specie del genitore titolare. Quando compì sedici anni il padre lo informò che in famiglia non c'era posto né per i fannulloni né per i vagabondi. Se insisteva a voler "fare l'artista" l'avrebbe mandato a lavorare in fabbrica come apprendista o spaccapietre, nella legione straniera o in qualsiasi altra istituzione capace di fortificarne il carattere e di farne una persona utile alla società. Germán decise allora di fuggire di casa, dove tornò ventiquattro ore dopo scortato dalla Benemerita. Il progenitore, disperato e deluso dal primogenito, convogliò le sue speranze sul secondo figlio, Gaspar, che scalpitava per imparare il mestiere di imprenditore tessile e dimostrava una maggiore predisposizione a continuare la tradizione familiare. Preoccupato per il suo futuro economico, il vecchio Blau intestò a Germán la villa di Sarriá, semiabbandonata da anni. «Anche se sei la vergogna della famiglia, non ho lavorato come uno schiavo perché mio figlio finisca su una strada» gli disse. Un tempo la villa era stata una delle meglio frequentate dal bel mondo, ma ormai nessuno se ne occupava più. Era maledetta. In realtà, si diceva che gli incontri segreti tra Diana e il libertino Salvat avessero avuto la villa come scenario. E così, per ironia del destino, la palazzina passò nelle mani di Germán. In seguito, 44
grazie all'aiuto clandestino della madre, Germán divenne apprendista di Quim Salvat in persona. Il primo giorno, Salvat lo fissò negli occhi e pronunciò queste parole: «Primo, io non sono tuo padre e conosco tua madre solo di vista. Secondo, la vita dell'artista è fatta di rischi, di incertezze e, quasi sempre, di povertà. Non sei tu a sceglierla; è lei che sceglie te. Se hai dei dubbi su uno qualunque di questi due punti, meglio che esci subito da quella porta». Germán rimase. Gli anni di apprendistato con Quim Salvat furono per Germán come un balzo in un nuovo mondo. Per la prima volta scoprì che qualcuno credeva in lui, nel suo talento e nella possibilità di diventare qualcosa di più che una pallida copia del padre. Si sentiva un'altra persona. Nel giro di sei mesi imparò più cose e fece più progressi che nel resto della sua vita precedente. Salvat era un uomo stravagante e generoso, amante delle cose raffinate. Dipingeva solo di notte e, sebbene non fosse una bellezza (anzi, somigliava a un orso), poteva essere considerato un irresistibile rubacuori, dotato di uno strano potere di seduzione che usava quasi meglio del pennello. Modelle mozzafiato e signore dell'alta società sfilavano nel suo studio ansiose di posare per lui e, sospettava Germán, di ottenere qualcos'altro. Salvat sapeva di vini, di poeti, di città leggendarie e di tecniche amatorie acrobatiche importate da Bombay. Aveva vissuto intensamente i suoi quarantasette anni. Diceva sempre che gli esseri umani lasciavano scorrere la propria esistenza come se fossero destinati a vivere in eterno e che questa era la loro perdizione. Se la rideva della vita e della morte, delle cose divine e di quelle umane. Cucinava meglio dei grandi chef della guida Michelin e mangiava come tutti loro messi assieme. Nel corso degli anni che Germán passò accanto a lui, Salvat divenne il suo maestro e il suo migliore amico. Germán seppe sempre che ciò che aveva realizzato di buono nella vita, come uomo e come pittore, lo doveva a Quim Salvat. Salvat era uno dei pochi privilegiati a possedere il segreto della luce. Diceva che era una capricciosa ballerina, cosciente del proprio fascino. Nelle sue mani la luce si tramutava in linee meravigliose che illuminavano la tela e spalancavano le porte dell'anima. Almeno, così era scritto sul testo promozionale dei cataloghi delle sue mostre. 45
«Dipingere è scrivere con la luce» sosteneva Salvat. «Innanzitutto devi imparare il suo alfabeto; poi la sua grammatica. Solo allora potrai avere stile e magia.» Fu Quim Salvat che ampliò gli orizzonti di Germán portandolo con sé nei suoi viaggi. Gli fece conoscere Parigi, Vienna, Berlino, Roma... Germán comprese ben presto che Salvat, oltre a essere un grande pittore, sapeva vendere forse ancora meglio la propria arte. Era quella la chiave del suo successo. «Su mille persone che acquistano un quadro o un'opera d'arte, soltanto una ha una remota idea di ciò che sta comprando» gli spiegava Salvat, sorridente. «Tutti gli altri non comprano l'opera ma l'artista, quello che hanno sentito dire di lui e, quasi sempre, quello che immaginano di lui. È come vendere pozioni magiche o filtri d'amore, Germán. La differenza sta nel prezzo.» Il grande cuore di Quim Salvat smise di battere il 17 luglio 1938. Qualcuno sostenne che fu a causa dei suoi eccessi. Germán, invece, credette sempre che erano stati gli orrori della guerra a uccidere la speranza e la voglia di vivere del suo mentore. «Potrei dipingere per mille anni» mormorò Salvat sul letto di morte, «ma non cambierei di una virgola la barbarie, l'ignoranza e la brutalità degli uomini. La bellezza è un soffio rispetto al vento della realtà, Germán. La mia arte non ha senso. Non serve a niente...» L'interminabile schiera delle sue amanti, i suoi creditori, gli amici e i colleghi, le decine di persone che aveva aiutato senza chiedere nulla in cambio, lo piansero al suo funerale. Sapevano che quel giorno una luce si spegneva nel mondo e che, da quel momento, tutti sarebbero stati più soli, più vuoti. Salvat gli lasciò una modestissima somma di denaro e il suo studio. Gli affidò l'incarico di dividere quanto restava (non molto, perché Salvat spendeva più di quello che guadagnava, e ancor prima di guadagnarlo) tra le sue amate e gli amici. Il notaio incaricato di eseguire il testamento consegnò a Germán una lettera affidatagli da Salvat quando aveva intuito che la fine era prossima. Doveva aprirla alla sua morte. Con le lacrime agli occhi e il cuore infranto, il giovane vagabondò tutta la notte per la città. L'alba lo sorprese sul frangiflutti del porto e fu lì, alle prime luci del giorno, che lesse le ultime parole che Quim Salvat gli aveva 46
riservato. Caro Germán, non te l'ho mai detto da vivo, perché credevo di dover aspettare il momento opportuno. Tuttavia, temo di non essere qui quando arriverà. Questo è quanto devo dirti. Non ho mai conosciuto un pittore con più talento di te, Germán. Tu ancora non lo sai e non lo puoi capire. Ma il talento è dentro di te, e il mio unico merito è stato quello di riconoscerlo. Ho imparato più io da te che tu da me, senza che te ne rendessi conto. Mi sarebbe piaciuto che avessi avuto il maestro che meritavi, qualcuno che avesse indirizzato il tuo talento meglio di questo povero apprendista. La luce parla in te, Germán. Noialtri possiamo solo ascoltarla. Non dimenticarlo mai. D'ora in avanti il tuo maestro diventerà il tuo alunno e il tuo migliore amico, per sempre. SALVAT Una settimana dopo, in fuga da quei ricordi intollerabili, Germán partì per Parigi. Gli avevano offerto un lavoro come professore in una scuola di pittura. Non avrebbe rimesso piede a Barcellona per dieci anni. A Parigi, Germán acquisì una certa fama come ritrattista di prestigio e scoprì l'opera, una passione che non lo avrebbe più abbandonato. I suoi quadri iniziavano a vendere bene e un mercante d'arte che lo conosceva dai tempi di Salvat accettò di rappresentarlo. Oltre allo stipendio da professore, la vendita delle sue opere gli consentiva una vita semplice ma dignitosa. Facendo qualche sacrificio e grazie all'interessamento del direttore della scuola, che era amico di mezza Parigi, riuscì a prenotare una poltrona al Théâtre de l'Opéra per l'intera stagione. Niente di pretenzioso: sesta fila in balconata, leggermente spostata a sinistra. Un venti per cento del palcoscenico restava fuori dalla sua visuale, ma la musica gli arrivava gloriosa, ignorando la differenza di prezzo tra palchi e poltrone. Fu all'Opera che la vide per la prima volta. Sembrava una creatura uscita da un quadro di Salvat, ma neppure la sua bellezza poteva rendere giustizia alla sua voce. Si chiamava Kirsten Auermann, aveva diciannove anni e, secondo il programma, era una giovane promessa della lirica mondiale. 47
Gli fu presentata quella sera stessa al ricevimento organizzato dalla compagnia dopo lo spettacolo. Germán era riuscito a intrufolarsi spacciandosi per il critico musicale di "Le Monde". Al momento di stringerle la mano restò muto come un pesce. «Per essere un critico, parla pochissimo e con un forte accento» scherzò Kirsten. Germán decise all'istante che avrebbe sposato quella donna, fosse stata l'ultima cosa che faceva nella vita. Fece ricorso a tutte le tecniche di seduzione che aveva visto utilizzare da Salvat nel corso degli anni. Ma di Salvat ce n'era uno solo, e avevano rotto lo stampo. Cominciò così un interminabile gioco al gatto e al topo che sarebbe durato sei anni e che si concluse in una piccola cappella della Normandia, un pomeriggio d'estate del 1946. Il giorno delle nozze lo spettro della guerra aleggiava ancora nell'aria come il fetore di una carogna. Kirsten e Germán rientrarono a Barcellona qualche tempo dopo e si installarono nella villa di Sarriá. In sua assenza, la palazzina era diventata un museo spettrale. La luminosità di Kirsten e tre settimane di pulizie fecero il resto. La casa visse un periodo di splendore mai conosciuto prima. Germán dipingeva senza sosta, posseduto da un'energia che nemmeno lui stesso riusciva a spiegarsi. I suoi quadri cominciarono a essere quotati tra la gente importante, e ben presto possedere "un Blau" divenne un requisito imprescindibile nella buona società. All'improvviso, il padre prese a vantarsi in pubblico del successo di Germán. «Ho sempre creduto nel suo talento e sapevo che avrebbe avuto successo», «ce l'ha nel sangue, come tutti i Blau» e «non esiste un padre più orgoglioso di me» diventarono le sue frasi preferite. A forza di ripeterle, finì per crederci davvero. Mercanti d'arte e galleristi che anni prima lo salutavano a malapena si facevano in quattro per ingraziarselo. E nel bel mezzo di questo turbinio di vanità e ipocrisie Germán non dimenticò mai quello che Salvat gli aveva insegnato. Anche la carriera lirica di Kirsten procedeva con il vento in poppa. All'epoca in cui cominciarono a diffondersi i dischi a settantotto giri, fu una delle prime voci a immortalare il proprio repertorio. Furono anni luminosi e felici nella villa di Sarriá, anni in cui tutto sembrava possibile e dove non si scorgevano ombre all'orizzonte. Nessuno diede importanza alle nausee e ai mancamenti di Kirsten se 48
non quando era ormai troppo tardi. Il successo, i viaggi, la tensione per i debutti spiegavano tutto. Il giorno in cui Kirsten venne visitata dal dottor Cabrils due notizie cambiarono il suo mondo per sempre. La prima: era incinta. La seconda: un'inguaribile malattia del sangue la stava minando lentamente. Le restava un anno di vita. Due al massimo. Lo stesso giorno, uscita dallo studio del medico, Kirsten ordinò un orologio d'oro, con una dedica per Germán, nell'Orologeria Svizzera della Via Augusta. Per Germán, in cui parla la luce K.A. 19-1-1964 Quell'orologio avrebbe scandito le ore che restavano da trascorrere insieme. Kirsten abbandonò i palcoscenici e la carriera. L'addio alla scene si celebrò al Liceo, il teatro dell'Opera di Barcellona, dove cantò il Lakmé di Delibes, il suo compositore preferito. Non si sarebbe più ascoltata una voce come quella. Durante la gravidanza, Germán dipinse una serie di ritratti della moglie che superavano ogni sua opera precedente. Si rifiutò sempre di venderli. Un 26 settembre del 1964, nella casa di Sarriá, venne al mondo una bambina dai capelli chiari e dagli occhi color cenere, identici a quelli di Kirsten. Si sarebbe chiamata Marina e avrebbe sempre portato sul proprio volto l'immagine e la luminosità della madre. Kirsten Auermann morì sei mesi dopo, nella stanza in cui aveva dato alla luce la figlia e dove aveva trascorso i momenti più felici della sua vita con Germán. Il marito le stringeva la mano, pallida e tremante, tra le sue. Era ormai fredda quando l'alba se la portò via come un sospiro. Un mese dopo la sua morte, Germán rimise piede nello studio, che si trovava nella soffitta della villa. La piccola Marina giocava ai suoi piedi. Germán afferrò il pennello e cercò di imprimere un tratto di colore sulla tela. Gli occhi gli si riempirono di lacrime e il pennello gli cadde dalle mani. Germán Blau non dipinse mai più. La luce dentro di lui aveva taciuto per 49
sempre.
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Durante il resto dell'autunno le mie visite a casa di Germán e Marina divennero un rituale quotidiano. In classe passavo il tempo sognando a occhi aperti, aspettando il momento per fuggire e raggiungere quella stradina segreta. Lì mi attendevano i miei nuovi amici, a eccezione del lunedì, giorno in cui Marina accompagnava Germán in ospedale per le sue cure. Bevevamo caffè e chiacchieravamo nelle sale in penombra. Germán accettò di insegnarmi i rudimenti degli scacchi. Malgrado quelle lezioni Marina mi dava scacco matto nel giro di cinque o sei minuti, ma io non perdevo la speranza. A poco a poco, quasi senza rendermene conto, il mondo di Germán e Marina diventò anche il mio. La loro casa, i ricordi che sembravano fluttuare nell'aria... finirono per diventare anche i miei. Scoprii così che Marina non frequentava la scuola per non lasciare il padre da solo e per prendersi cura di lui. Mi spiegò che Germán le aveva insegnato a leggere, a scrivere e a pensare. «Tutta la geografia, la trigonometria e l’aritmetica del mondo non servono a niente se non impari a pensare con la tua testa» si giustificava Marina. «E non te lo insegnano in nessuna scuola. Non è nel programma.» Germán le aveva aperto la mente all'arte, alla storia e alla scienza. La biblioteca alessandrina di quella casa era diventata il suo universo. Ciascuno di quei libri era una porta su nuovi mondi e nuove idee. Una sera di fine ottobre ci sedemmo sul davanzale di una finestra a guardare le luci lontane del Tibidabo. Marina mi confessò che il suo sogno era quello di diventare scrittrice. Aveva un baule pieno di storie e di racconti che aveva scritto da quando aveva nove anni. Quando le chiesi di mostrarmene qualcuno, mi guardò come se fossi ubriaco e disse che non se ne parlava neanche. "È come con gli scacchi" pensai. Tempo al tempo. Mi soffermavo spesso a osservare Germán e Marina a loro insaputa. Scherzavano, leggevano o si affrontavano in silenzio davanti alla scacchiera. L'invisibile legame che li univa, quel mondo a parte che si erano costruiti lontano da tutto e da tutti, era un meraviglioso incantesimo. Un mi51
raggio che a volte temevo di dissolvere con la mia presenza. C'erano giorni in cui, rientrando in collegio, mi sentivo la persona più felice del mondo per il solo fatto di poterlo condividere. Senza chiedermi il perché, tenni segreta quell'amicizia. Non avevo parlato di loro a nessuno, nemmeno al mio compagno JF. Nel giro di poche settimane, Germán e Marina erano diventati la mia vita segreta e, in verità, l'unica vita che volessi vivere. Ricordo una sera in cui Germán si era ritirato piuttosto presto, scusandosi come sempre con i suoi modi impeccabili da gentiluomo dell'Ottocento. Io ero rimasto da solo con Marina nel salone dei ritratti. Lei mi rivolse un sorriso enigmatico e disse che stava scrivendo su di me. La sola idea mi terrorizzò. «Su di me? Che vuol dire che stai scrivendo su di me?» «Vuol dire che sto scrivendo di te, non sopra di te, usandoti come scrivania.» «Fin lì c'ero arrivato.» Marina era divertita dal mio improvviso nervosismo. «E allora?» chiese. «Hai così poca stima di te stesso da credere che non valga la pena scrivere su di te?» Non avevo risposte per quella domanda. Decisi di cambiare strategia e passare all'offensiva. Me l'aveva insegnato Germán nelle sue lezioni di scacchi. Strategia di base: quando ti sorprendono con i pantaloni abbassati, mettiti a urlare e attacca. «Se parli di me non puoi rifiutarti di farmi leggere quello che scrivi» sottolineai. Marina inarcò le sopracciglia, indecisa. «È un mio diritto sapere quello che si scrive su di me» aggiunsi. «Magari non ti piace.» «O magari sì.» «Ci penserò su.» «E io aspetterò.» Il freddo arrivò a Barcellona come suo solito: come un meteorite. Da un giorno all'altro i termometri cominciarono a guardarsi l'ombelico. Eserciti di cappotti lasciarono la riserva per sostituire i leggeri soprabiti autunnali. Cieli d'acciaio e raffiche di vento che mordevano le orecchie si imposses52
sarono delle strade. Germán e Marina mi lasciarono a bocca aperta regalandomi un berretto di lana che doveva essere costato una fortuna. «È per proteggere le idee, caro Óscar» mi spiegò Germán. «Non sia mai che le si raffreddi il cervello.» Verso metà novembre Marina mi annunciò che lei e Germán dovevano andare a Madrid per una settimana. Un medico di La Paz, una vera celebrità, aveva accettato di sottoporre Germán a una cura ancora in fase sperimentale, applicata solo un paio di volte in tutt'Europa. «Dicono che quel medico faccia miracoli, non so...» affermò Marina. L'idea di stare una settimana senza di loro mi cadde addosso come una pietra tombale. I miei sforzi per nasconderlo erano inutili. Marina leggeva nel mio cuore quasi fosse trasparente. Mi diede qualche pacca sulla mano. «È solo una settimana, eh? Poi ci rivediamo.» Annuii, abbacchiato. «Ieri ho detto a Germán che potresti occuparti di Kafka e della casa mentre siamo via...» buttò lì Marina. «Ma certo. Tutto quello che serve.» Le si illuminò il viso. «Spero proprio che quel medico sia bravo come dicono» aggiunsi. Marina mi fissò per un lungo istante. Dietro il suo sorriso, quegli occhi di cenere sprigionavano una luce di tristezza che mi disarmò. «Speriamo.» Il treno per Madrid partiva dalla stazione Francia alle nove del mattino. Io me l'ero svignata all'alba. Con i risparmi messi da parte, avevo prenotato un taxi per passare a prendere Germán e Marina e accompagnarli alla stazione. Quella mattina domenicale era avvolta da foschie scure che cedevano lentamente il passo alla luce ambrata di una timida alba. Per buona parte del tragitto nessuno fiatò. Il tassametro della vecchia Seat 1500 ticchettava come un metronomo. «Non doveva disturbarsi, caro Óscar» disse Germán. «Nessun disturbo» replicai. «Fa un freddo cane e non è il caso che ci si geli il morale, no?» Alla stazione, Germán si sedette in un bar, mentre io e Marina andavamo a comprare i biglietti. Al momento di partire, Germán mi abbracciò con 53
una tale intensità che fui sul punto di mettermi a piangere. Poi, con l'aiuto di un facchino, salì in vettura per lasciarmi salutare Marina da solo. L'eco di mille voci e fischi si perdeva sotto l'enorme volta della stazione. Ci guardammo in silenzio, quasi di sfuggita. «Be'...» dissi. «Non scordarti di scaldare il latte perché...» «Kafka odia il latte freddo, soprattutto dopo aver commesso un delitto, lo so. Il gatto figlio di papà.» Il capostazione stava per dare il segnale di partenza con la sua bandierina rossa. Marina sospirò. «Germán è orgoglioso di te» disse. «Non ce n'è motivo.» «Ci mancherai.» «Lo credi tu. Forza, sali.» D'un tratto, Marina si allungò verso di me e mi sfiorò le labbra con le sue. Prima che potessi battere ciglio era già salita sul treno. Rimasi lì a guardarlo mentre si allontanava verso la parete di nebbia. Quando il rumore della locomotiva si perse nell'aria mi incamminai verso l'uscita. Strada facendo pensai che non avevo mai raccontato a Marina della strana apparizione di quella notte di tempesta a casa sua. Io stesso, con il passare del tempo, avevo preferito dimenticare e alla fine mi ero convinto di essermi immaginato tutto. Ero già nell'atrio della stazione quando fui quasi travolto da un ragazzo. «Tieni... Me l'hanno data per te.» Mi tese una busta color ocra. «Credo che si sbagli» dissi. «No, no. Quella signora mi ha detto di darla proprio a te» insistette. «Quale signora?» Il ragazzo si voltò per indicare il porticato che dava sul Paseo Colón. Filamenti di bruma avvolgevano i gradini dell'ingresso. Non c'era nessuno. Si strinse nelle spalle e si allontanò. Perplesso, mi diressi verso il porticato e uscii in strada giusto in tempo per riconoscerla. La dama in nero che avevamo visto al cimitero di Sarriá stava salendo su un'anacronistica carrozza a cavalli. Per un attimo si voltò 54
a guardarmi. Il viso era nascosto dietro un velo scuro, una ragnatela d'acciaio. Un secondo dopo la portiera della carrozza si chiuse e il cocchiere, avvolto in un cappotto grigio che gli arrivava quasi ai piedi, frustò i cavalli. La vettura si allontanò a tutta velocità perdendosi nel traffico del Paseo Colón, diretta verso le Ramblas. Ero talmente stupito da aver dimenticato la busta che mi aveva consegnato il ragazzo. Appena mi accorsi che la tenevo ancora in mano la aprii. Conteneva un vecchio biglietto da visita con un indirizzo: Michail Kolvenik Calle Princesa, 33,4°-2° Girai il biglietto. Sul dorso lo stampatore aveva riprodotto il simbolo inciso sulla tomba anonima del cimitero e sulla porta della serra abbandonata. Una farfalla nera con le ali spiegate.
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Lungo il cammino verso calle Princesa mi accorsi di avere fame e mi fermai a comprare una pasta nella panetteria di fronte alla basilica di Santa Maria del Mar. Un aroma di panini dolci fluttuava sull'eco del rintocco delle campane. Calle Princesa era una strada buia che attraversava il centro storico come un'angusta valle di ombre. Passai davanti a edifici e palazzi che sembravano più vecchi della città stessa. Il numero 33 era appena visibile su una di quelle facciate. Entrai in un androne che ricordava il chiostro di una vecchia cappella. Da una parete di mattonelle crepate pendevano delle cassette postali arrugginite. Mentre cercavo inutilmente il nome di Michail Kolvenik, sentii un respiro pesante alle mie spalle. Mi voltai allarmato e scorsi il viso grinzoso di una vecchia seduta nella guardiola della portineria. Sembrava una figura di cera vestita da vedova. Un fascio di luce le sfiorò il volto. Gli occhi erano bianchi come il marmo. Privi di pupille. Era cieca. «Chi sta cercando?» chiese la portinaia con voce querula. «Michail Kolvenik, signora.» La vecchia sbatté un paio di volte gli occhi vuoti, senza vita, poi scosse il capo. «Mi hanno dato questo indirizzo» insistetti. «Michail Kolvenik, quarto piano, appartamento numero 2...» L'anziana scosse nuovamente il capo e ritornò alla sua immobilità. Allora notai un movimento sul tavolo della guardiola. Un ragno nero risaliva le mani rugose della portinaia, i cui occhi bianchi fissavano il vuoto. Senza fare rumore sgattaiolai verso le scale. In quella scala nessuno cambiava una lampadina da almeno trent'anni. I gradini erano scivolosi e consunti. I pianerottoli pozzi di oscurità e di silenzio. Un tremolante chiarore filtrava da un lucernario all'ultimo piano, dove svolazzava una colomba imprigionata. La porta dell'appartamento al quarto piano era di legno massiccio intagliato, con una pesante maniglia di 56
ferro. Suonai un paio di volte: lo squillo del campanello si perse all'interno della casa. Trascorsero alcuni minuti. Suonai ancora. Altri due minuti. Cominciai a pensare di essere penetrato in una tomba. Uno dei tanti edifici spettrali che conferivano una sinistra magia al centro storico di Barcellona. D'improvviso, la grata dello spioncino si aprì. Filamenti di luce perforarono l'oscurità. La voce che sentii era di sabbia. Una voce che non veniva usata da settimane, forse da mesi. «Chi è?» «Signor Kolvenik? Michail Kolvenik?» domandai. «Potrei parlarle un attimo, per favore?» Lo spioncino si chiuse di scatto. Silenzio. Stavo per suonare di nuovo quando la porta si aprì. La sagoma di un uomo si stagliò sulla soglia. Dall'interno arrivava il gocciolio di un rubinetto che perdeva. «Cosa vuoi, ragazzo?» «Signor Kolvenik?» «Non sono Kolvenik» m'interruppe la voce. «Mi chiamo Sentís. Benjamin Sentís.» «Mi scusi, signor Sentís, mi hanno dato questo indirizzo e...» Gli porsi il biglietto che mi era stato consegnato dal ragazzo alla stazione. Una mano rigida lo afferrò e due occhi che non riuscivo a vedere lo esaminarono a lungo, in silenzio, prima di restituirmelo. «Michail Kolvenik non abita più in questa casa da molti anni.» «Lo conosce?» chiesi. «Forse può aiutarmi.» Un altro lungo silenzio. «Entra» disse alla fine Sentís. Benjamin Sentís era un uomo corpulento che viveva dentro una vestaglia di flanella granata. Aveva tra le labbra una pipa spenta e un paio di baffi uniti a delle folte basette, stile Jules Verne, gli incorniciavano il viso. L'appartamento sovrastava la giungla di tetti del centro storico e fluttuava in un chiarore etereo. In lontananza si scorgevano le torri della cattedrale e, ancora più in là, le pendici della collina di Montjuïc. I muri erano spogli. Un pianoforte collezionava strati di polvere, e scatoloni pieni di giornali 57
ormai scomparsi si accumulavano sul pavimento. Non c'era nulla, in quella casa, che parlasse del presente. Benjamin Sentís viveva nel trapassato remoto. Ci accomodammo in una stanza che si affacciava su un balcone e Sentís esaminò un'altra volta il biglietto da visita. «Perché cerchi Kolvenik?» domandò. Decisi di raccontargli tutto dall'inizio, a partire dalla visita al cimitero fino alla strana apparizione della dama in nero alla stazione Francia quella mattina. Sentís mi ascoltava con lo sguardo perso, senza mostrare alcuna emozione. Quando finii di parlare calò un imbarazzante silenzio. Sentís mi osservò a lungo. Aveva uno sguardo da lupo, freddo e penetrante. «Michail Kolvenik ha vissuto in questa casa per quattro anni, poco dopo essere arrivato a Barcellona» disse. «Da qualche parte, dev'esserci ancora qualche suo libro. È tutto quello che rimane di lui.» «Ha per caso il suo attuale indirizzo? Mi sa dire dove posso trovarlo?» Sentís scoppiò a ridere. «Prova all'inferno.» Lo guardai senza capire. «Michail Kolvenik è morto nel 1948.» Stando a quanto mi raccontò Benjamin Sentís quella mattina, Michail Kolvenik era arrivato a Barcellona alla fine del 1919. Aveva poco più di vent'anni ed era originario di Praga. Fuggiva da un'Europa devastata dalla Grande Guerra. Non sapeva una sola parola di catalano né di castigliano, ma si esprimeva correntemente in francese e in tedesco. Non aveva soldi né amici né conoscenti in quella città difficile e ostile. La prima notte a Barcellona la passò in galera, dopo essere stato sorpreso a dormire in un portone per ripararsi dal freddo. In carcere due suoi compagni di cella, accusati di furto, rapina e incendio doloso, lo massacrarono di botte, sostenendo che il Paese stava andando in malora per colpa degli stranieri pidocchiosi come lui. Le tre costole rotte, le contusioni e le lesioni interne sarebbero guarite con il tempo, ma l'orecchio sinistro lo avrebbe perso per sempre. "Lesione del nervo" diagnosticarono i medici. Un pessimo inizio. Ma Kolvenik diceva che quello che inizia male non può che migliorare. Dieci anni dopo Michail Kolvenik sarebbe diventato uno degli uomini più 58
ricchi e potenti di Barcellona. Nell'infermeria del carcere conobbe quello che, con gli anni, sarebbe diventato il suo migliore amico, un giovane dottore di origine inglese chiamato Joan Shelley. Il dottor Shelley masticava un po' di tedesco e sapeva per esperienza diretta cosa significava essere straniero in terra straniera. Grazie a lui Kolvenik, non appena uscì di galera, ottenne un lavoro in una piccola azienda chiamata Velo-Granell. La Velo-Granell fabbricava articoli ortopedici e protesi mediche. Il conflitto con il Marocco e la Grande Guerra in Europa avevano creato un enorme mercato per questo genere di prodotti. Legioni di uomini, mutilati a maggior gloria di banchieri, ministri, agenti di Borsa e altri padri della patria, erano diventati invalidi a vita in nome della libertà, della democrazia, dell'impero, della razza o della bandiera. I laboratori della Velo-Granell sorgevano accanto al mercato del Borne. Al loro interno, vetrine piene di braccia, occhi, gambe e giunture artificiali ricordavano ai visitatori la fragilità del corpo umano. Grazie al modesto stipendio e a una raccomandazione della ditta, Michail Kolvenik riuscì a trovare alloggio in un appartamento di calle Princesa. Lettore vorace, in un anno e mezzo aveva già imparato a difendersi sia in catalano sia in castigliano. Ben presto, per il suo talento e la sua intelligenza, divenne uno dei dipendenti insostituibili della Velo-Granell. Kolvenik possedeva vaste conoscenze nel campo della medicina, della chirurgia e dell'anatomia. Progettò un rivoluzionario meccanismo pneumatico che consentiva di articolare il movimento delle protesi di gambe e braccia. Il congegno reagiva agli impulsi muscolari e dotava il paziente di una mobilità senza precedenti. Quell'invenzione proiettò la Velo-Granell all'avanguardia nel settore. Fu solo l'inizio. Il tavolo da disegno di Kolvenik sfornava senza tregua prototipi e, alla fine, il praghese fu nominato ingegnere capo del laboratorio di progettazione e sviluppo. Qualche mese dopo, un malaugurato incidente mise alla prova il talento del giovane Kolvenik. Il figlio del fondatore della Velo-Granell fu vittima di uno spaventoso infortunio sul lavoro. Una pressa idraulica dello stabilimento, simile alle fauci di un drago, gli tranciò entrambe le mani. Per settimane Kolvenik lavorò senza sosta per creare nuove mani in legno, metallo e porcellana, le cui dita rispondessero al comando dei muscoli e dei ten59
dini dell'avambraccio. La soluzione ideata da Kolvenik sfruttava gli impulsi elettrici generati dagli stimoli nervosi del braccio per articolare i movimenti. Quattro mesi dopo l'incidente, la vittima inaugurava un paio di mani meccaniche che gli consentivano di afferrare oggetti, di accendersi una sigaretta o di abbottonarsi la camicia da solo. Furono tutti d'accordo nell'affermare che Kolvenik aveva superato qualsiasi immaginazione. Lui, persona schiva e poco amante degli elogi, affermò che si trattava della nascita di una nuova scienza. Come ricompensa per il lavoro svolto, il fondatore della Velo-Granell lo nominò direttore generale dell'impresa e gli offrì un pacchetto di azioni che lo rese virtualmente proprietario dell'azienda, assieme all'uomo che il suo ingegno aveva dotato di nuove mani. Sotto la direzione di Kolvenik, la Velo-Granell decollò. Ampliò il proprio mercato e diversificò la linea dei prodotti. L'impresa adottò come simbolo una farfalla nera con le ali spiegate, il cui significato Kolvenik non spiegò mai. Lo stabilimento fu ampliato e vennero lanciati nuovi articoli: arti snodati, valvole per la circolazione sanguigna, fibre ossee e un'infinità di altri congegni. Il luna park del Tibidabo si popolò di automi creati da Kolvenik per passatempo e a scopo sperimentale. La Velo-Granell esportava in tutta Europa, in America e in Asia. Il valore delle azioni e il patrimonio personale di Kolvenik salirono alle stelle, ma lui si rifiutò sempre di lasciare il modesto appartamento di calle Princesa. A quanto diceva, non c'era motivo di cambiare. Era un uomo solo, conduceva una vita semplice e quella casa bastava per lui e per i suoi libri. Quello scenario sarebbe radicalmente cambiato con l'apparizione di un'altra pedina sulla scacchiera. Eva Irinova era la protagonista di un nuovo spettacolo di successo al Teatro Real. La giovane, di origine russa, aveva appena diciannove anni. Si mormorava che, per la sua bellezza, si fossero suicidati diversi gentiluomini a Parigi, a Vienna e in altre capitali europee. Eva Irinova era sempre scortata da due strani personaggi, Sergej e Tatiana Glazunow, due gemelli. I fratelli Glazunow agivano in qualità di agenti e tutori di Eva Irinova. Si diceva che Sergej e la giovane diva fossero amanti, che la sinistra Tatiana dormisse dentro una bara nella fossa dell'orchestra del Teatro Real, che Sergej fosse uno degli assassini dei Romanov, che Eva fosse in grado di parlare con le anime dei defunti... I rocamboleschi pettegolezzi del bel mondo contribuivano ad alimentare la fama della bella Irinova, che teneva Barcellona in pugno. 60
La sua leggenda giunse alle orecchie di Kolvenik che, incuriosito, una sera andò a teatro per accertarsi di persona del motivo di tanta agitazione. Quella sera rimase affascinato dalla ragazza. Da allora il camerino di Eva Irinova si trasformò in un vero e proprio letto di rose. Due mesi dopo la rivelazione Kolvenik decise di affittare un palco in teatro, dove si recava ogni sera ad ammirare, rapito, l'oggetto della sua venerazione. Inutile dire che era diventato lo zimbello dell'intera città. Un bel giorno, Kolvenik convocò i suoi avvocati e impartì loro istruzioni per fare un'offerta all'impresario Daniel Mestres. Voleva acquistare quel vecchio teatro, accollandosene i debiti. Intendeva ricostruirlo dalle fondamenta per trasformarlo nel più importante palcoscenico d'Europa. Uno strabiliante teatro dotato delle tecnologie più avanzate e consacrato alla sua adorata Eva Irinova. La direzione del teatro si arrese alla sua generosa offerta. Il nuovo progetto fu battezzato Gran Teatro Real. Il giorno dopo, in un russo impeccabile, Kolvenik propose a Eva Irinova di sposarlo. Lei accettò. Dopo le nozze la coppia progettava di trasferirsi in una villa da favola che Kolvenik si stava facendo costruire accanto al Parque Güell. Aveva consegnato lui stesso un bozzetto del sontuoso palazzo allo studio d'architettura Sunyer, Balcells i Baró. Si diceva che nella storia di Barcellona non era mai stata spesa una simile fortuna per costruire una residenza privata, il che era tutto dire. Non tutti, però, erano rimasti incantati da quella fiaba. Il socio di Kolvenik nella Velo-Granell non vedeva di buon occhio quella ossessione. Temeva che attingesse ai fondi dell'azienda per finanziare il suo delirante progetto di fare del Teatro Real l'ottava meraviglia del mondo moderno. E non era troppo lontano dal vero. Per di più, in città si diffusero voci relative a pratiche poco ortodosse da parte di Kolvenik. Sorsero dubbi sul suo passato e sull'immagine di self mode man che amava dare di sé. La maggior parte di questi pettegolezzi si spegneva ancor prima di arrivare sulle pagine dei giornali, grazie all'implacabile apparato legale della VeloGranell. Il denaro non compra la felicità, era solito dire Kolvenik, ma compra tutto il resto. Da parte loro, anche Sergej e Tatiana Glazunow, i due sinistri custodi di Eva Irinova, vedevano il proprio futuro in pericolo. Nella nuova residenza non erano previste stanze per loro. Kolvenik, anticipando l'insorgere di problemi con i due gemelli, offrì loro una generosa somma di denaro per 61
rescindere il presunto contratto con Eva Irinova. In cambio dovevano lasciare il Paese, impegnarsi a non tornarvi mai e a non cercare di mettersi in contatto con la ragazza. Sergej, fuori di sé, oppose un netto rifiuto e giurò a Kolvenik che non sarebbe mai riuscito a sbarazzarsi di loro. All'alba di quello stesso giorno, mentre Sergej e Tatiana uscivano da un portone di calle Sant Pau, una raffica di colpi partita da una carrozza per poco non li uccise. L'attentato fu attribuito agli anarchici. Una settimana dopo i gemelli firmarono il documento in cui si impegnavano a rescindere il contratto con Eva Irinova e a sparire per sempre. Le nozze tra Michail Kolvenik ed Eva Irinova furono fissate per il 24 giugno 1935. Lo scenario: la cattedrale di Barcellona. La cerimonia, che qualcuno paragonò all'incoronazione del re Alfonso XIII, fu celebrata una mattina luminosa. La folla si assiepava lungo tutto il viale della cattedrale per godersi il fasto e la maestosità dello spettacolo. Eva Irinova non era mai stata così splendida. Sulle note della marcia nuziale di Wagner, interpretata dall'orchestra del Liceo sulle scale della cattedrale, gli sposi scesero verso la carrozza che li attendeva. Quando mancavano pochi metri per raggiungere la vettura trainata da cavalli bianchi una figura superò il cordone di sicurezza e si avventò sugli sposi. Qualcuno gridò per avvertirli. Voltandosi, Kolvenik si imbatté negli occhi iniettati di sangue di Sergej Glazunow. Nessuno tra i presenti sarebbe mai riuscito a dimenticare quello che accadde subito dopo. Glazunow estrasse una boccetta di vetro e lanciò il contenuto sul viso di Eva Irinova. L'acido corrose il velo da sposa in una nuvola di vapore. Un urlo squarciò il cielo. La confusione più totale si impossessò della folla e, in un battibaleno, l'aggressore si dileguò tra la gente. Kolvenik si inginocchiò accanto alla moglie e la prese tra le braccia. I bei lineamenti di Eva Irinova si dissolvevano a contatto con l'acido come acquerelli nell'acqua. La pelle sfrigolante si accartocciò come una pergamena ardente e un puzzo di carne bruciata inondò l'aria. L'acido aveva risparmiato gli occhi della giovane, che riflettevano orrore e sofferenza. Nel tentativo di salvare il volto della moglie, Kolvenik lo coprì con le mani, ma riuscì solo a strapparle brandelli di carne morta mentre l'acido gli corrodeva i guanti. Quando alla fine Eva perse i sensi il suo viso si era trasformato in una grottesca maschera di ossa e carne viva.
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Il Teatro Real rinnovato non aprì mai i battenti. Dopo la tragedia Kolvenik portò la moglie nel palazzo, non ancora terminato, del Parque Glieli. Eva Irinova non mise mai più piede fuori casa. L'acido le aveva completamente sfigurato il viso, danneggiandole anche le corde vocali. Si diceva che comunicasse scrivendo su un bloc-notes e che trascorresse intere settimane senza uscire dalle sue stanze. In quel periodo i problemi finanziari della Velo-Granell cominciarono a rivelarsi più gravi di quanto si sospettasse. Kolvenik si sentiva messo alle strette e ben presto smise di farsi vedere in azienda. Raccontavano che aveva contratto una strana malattia che lo obbligava a restare sempre di più in casa. Vennero a galla numerose irregolarità nell'amministrazione della Velo-Granell e transazioni anomale effettuate in passato dallo stesso Kolvenik. Una ridda di insinuazioni e di oscure accuse affiorò con inusitata virulenza. Kolvenik, recluso nel suo rifugio con l'amata Eva, si trasformò nel protagonista di una leggenda nera. Un appestato. Il governo espropriò il consorzio societario della Velo-Granell mentre le autorità giudiziarie avviarono indagini. Il fascicolo, appena istruito, superava già le mille pagine. Negli anni seguenti Kolvenik perse la sua fortuna. Il palazzo si trasformò in un tenebroso castello in rovina. La servitù, dopo mesi senza stipendio, li abbandonò. Solo l'autista personale di Kolvenik gli rimase fedele. Iniziarono a propagarsi raccapriccianti voci di ogni sorta. Si diceva che Kolvenik e la moglie vivevano in mezzo ai topi, vagando nei corridoi di quel sepolcro in cui si erano volontariamente rinchiusi da vivi. Nel dicembre del 1948 un incendio spaventoso distrusse la villa dei Kolvenik. Le fiamme si scorgevano fin da Mataró, scrisse il quotidiano "El Brusi". Chi lo ricorda assicura che il cielo di Barcellona si trasformò in un telone scarlatto e che nuvole di cenere solcarono la città all'alba, mentre la folla osservava in silenzio le macerie fumanti. I corpi di Kolvenik e di Eva, stretti in un ultimo abbraccio, vennero trovati carbonizzati in soffitta. Fu questa l'immagine che comparve sulla prima pagina di "La Vanguardia" sotto il titolo: La fine di un'era. All'inizio del 1949 Barcellona cominciava già a dimenticare la storia di Michail Kolvenik ed Eva Innova. La grande città stava inesorabilmente cambiando e il mistero della Velo-Granell era ormai entrato a far parte di un passato leggendario, condannato a perdersi per sempre.
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Il racconto di Benjamin Sentís mi perseguitò per tutta la settimana come un'ombra furtiva. Più ci riflettevo, più avevo l'impressione che a quella storia mancassero dei pezzi. Quali, era un'altra faccenda. Questi pensieri mi tormentavano giorno e notte mentre aspettavo con impazienza il ritorno di Germán e Marina. Nel pomeriggio, finite le lezioni, andavo a casa loro per accertarmi che fosse tutto a posto. Kafka mi aspettava sempre davanti alla porta d'ingresso, a volte con il bottino di una battuta di caccia tra le grinfie. Gli versavo il latte nella ciotola e chiacchieravamo; cioè, lui beveva il latte e io parlavo da solo. Più di una volta fui tentato di approfittare dell'assenza dei proprietari per esplorare la villa, ma resistetti. L'eco della loro presenza si avvertiva in ogni angolo della casa. Presi l'abitudine di aspettare il tramonto in quella villa vuota, al tepore della loro invisibile compagnia. Mi sedevo nel salone dei quadri e osservavo per ore i ritratti della moglie che Germán Blau aveva dipinto quindici anni prima. Vi scorgevo una Marina adulta, la donna che stava diventando, e mi chiedevo se anch'io, un giorno o l'altro, sarei stato capace di creare qualcosa dello stesso valore. Di qualche valore. La domenica mi piantai come un chiodo alla stazione Francia. Mancavano ancora due ore all'arrivo dell'espresso da Madrid. Ingannai il tempo girando per l'edificio. Sotto la sua volta, treni e persone sconosciute si riunivano come pellegrini. Avevo sempre pensato che le vecchie stazioni ferroviarie fossero tra i pochi luoghi magici rimasti al mondo. I fantasmi di ricordi e di addii vi si mescolavano con l'inizio di centinaia di viaggi per destinazioni lontane, senza ritorno. "Se un giorno dovessi perdermi, che mi cerchino in una stazione ferroviaria" pensai. Il fischio dell'espresso da Madrid mi strappò dalle mie bucoliche meditazioni. Il treno irrompeva al galoppo in stazione. Imboccò il binario e i freni gemettero. Lentamente, con la flemma dovuta alla stazza, si fermò. I primi passeggeri, figure senza nome, iniziarono a scendere. Scrutai il marciapiede con il cuore che batteva a mille. Decine di volti sconosciuti mi sfi64
larono davanti. D'un tratto mi venne il sospetto di avere sbagliato giorno, treno, stazione, città o forse pianeta. E allora sentii una voce inconfondibile alle mie spalle. «Questa sì che è una sorpresa, caro Óscar. Ci è mancato.» «Anche voi» risposi, stringendo la mano dell'anziano pittore. Marina stava scendendo dal vagone. Aveva lo stesso vestito bianco che indossava il giorno in cui era partita. Mi sorrise in silenzio, con gli occhi che le brillavano. «Com'era Madrid?» improvvisai, prendendo la valigia di Germán. «Bellissima. E sette volte più grande dall'ultima volta che ci sono stato» disse Germán. «Se non smette di crescere, prima o poi traboccherà dai bordi dell'altopiano.» Dal tono di voce capii che Germán era di ottimo umore e aveva un'energia insolita. Mi augurai che dipendesse dalle buone notizie ricevute dal dottore di La Paz. Verso l'uscita, mentre Germán, in vena di chiacchiere, rivolgeva a un attonito facchino un panegirico sui progressi delle scienze ferroviarie, rimasi a tu per tu con Marina. Lei mi strinse forte la mano. «Com'è andata?» sussurrai. «Germán sembra allegro.» «Bene. Molto bene. Grazie per essere venuto a prenderci.» «Grazie a te per essere tornata» dissi. «Barcellona sembrava vuota in questi giorni... Ho un mucchio di cose da raccontarti.» Fermammo un taxi sul piazzale della stazione, una vecchia Dodge più rumorosa dell'espresso per Madrid. Mentre risalivamo le Ramblas, Germán osservava la gente, i mercati, le bancarelle di fiori e sorrideva compiaciuto. «Possono dire quello che vogliono, ma una strada così non esiste in nessun'altra città del mondo, caro Óscar. Altro che New York.» Marina approvava i commenti del padre, che sembrava rinato e molto più giovane dopo quel viaggio. «Domani non è un giorno festivo?» chiese all'improvviso Germán. «Sì» risposi. «Quindi lei non ha lezioni...» «Tecnicamente, no.» Germán scoppiò a ridere e, per un istante, intravidi in lui il ragazzo che era stato un tempo, tanti anni prima. 65
«E mi dica, Óscar, ha impegni?» Alle otto del mattino ero già a casa loro, come mi aveva chiesto Germán. La sera prima avevo promesso al mio tutore che la settimana successiva avrei dedicato il doppio del tempo allo studio se mi avesse permesso di uscire quel lunedì, che era un giorno festivo. «Non so cosa ti passa per la testa ultimamente. Questo non è un albergo, ma non è neppure una prigione. Sei responsabile delle tue azioni...» sottolineò padre Seguí, sospettoso. «Spero che tu sappia quello che fai, Óscar.» Alla villa di Sarriá trovai Marina in cucina. Stava preparando una cesta con panini e thermos di bevande. Kafka seguiva con attenzione ogni suo movimento, leccandosi i baffi. «Dove andiamo?» chiesi incuriosito. «Sorpresa» rispose Marina. Poco dopo comparve Germán, euforico e gioviale. Era vestito come un pilota da rally degli anni Venti. Mi strinse la mano e mi chiese se potevo aiutarlo in garage. Annuii. Avevo appena scoperto che c'era un garage. In realtà, ce n'erano tre, come constatai facendo il giro della proprietà insieme a Germán. «Sono contento che abbia potuto unirsi a noi, Óscar.» Si fermò davanti alla terza porta dell'autorimessa, una tettoia ricoperta d'edera grande come una casetta. Il saliscendi della porta cigolò e una nube di polvere inondò l'interno buio. Quel posto aveva l'aria di essere chiuso da almeno vent'anni. Resti di una vecchia motocicletta, attrezzi arrugginiti e scatoloni impilati sotto una cappa di polvere spessa come un tappeto persiano. Intravidi un telone grigio che proteggeva quella che doveva essere un'automobile. Germán prese un angolo del telone e mi fece segno di imitarlo. «Al tre?» mi chiese. Al segnale, tirammo con forza e il telone si sollevò come un velo da sposa. Quando la nuvola di polvere si disperse nell'aria, la tenue luce che filtrava tra gli alberi mi dischiuse un'incredibile visione. Una sfavillante Tucker degli anni Cinquanta, color vinaccia e con le ruote cromate, sonnecchiava in mezzo a quell'antro. Guardai Germán, attonito. Lui mi sorrise orgoglioso. 66
«Macchine così non se ne fanno più, caro Óscar.» «Partirà?» chiesi, osservando quello che mi sembrava un pezzo da museo. «Ha di fronte a sé una Tucker, Óscar. Una macchina che non parte, decolla.» Un'ora dopo pennellavamo le curve della litoranea. Germán era al volante, equipaggiato con la sua tenuta da pioniere dell'automobilismo e un sorriso da lotteria. Io e Marina viaggiavamo accanto a lui sul sedile anteriore, mentre Kafka dormiva placidamente su quello posteriore, tutto per lui. Tutte le auto ci superavano, ma i loro occupanti si voltavano a guardare la Tucker con un misto di stupore e ammirazione. «Quando c'è la classe, la velocità è secondaria» spiegava Germán. Eravamo già nei pressi di Blanes e io non sapevo ancora dove eravamo diretti. Germán era talmente assorto al volante che non volli disturbare la sua concentrazione. Guidava con la stessa galanteria con cui faceva ogni cosa, dando la precedenza perfino alle formiche e salutando ciclisti, passanti e motociclisti della Guardia Civil. Superata Blanes, un cartello stradale annunciò la cittadina costiera di Tossa de Mar. Mi voltai verso Marina che mi fece l'occhiolino. Immaginai che forse andavamo al castello di Tossa, invece la Tucker non entrò in paese, ma imboccò la stretta strada che, seguendo la costa, proseguiva verso nord. Più che una strada, era una striscia d'asfalto sospesa tra il cielo e le scogliere a strapiombo, che serpeggiava in un susseguirsi di curve a gomito. Tra i rami dei pini abbarbicati ai dirupi scoscesi si scorgeva l'incandescente distesa azzurra del mare. Un centinaio di metri sotto di noi decine di calette e anse inaccessibili tracciavano un itinerario segreto fra Tossa de Mar e Punta Prima, accanto al porto di Sant Feliu de Guíxols, a una ventina di chilometri. Venti minuti dopo Germán parcheggiò la Tucker sul ciglio della carreggiata. Marina mi guardò, facendomi segno che eravamo arrivati. Scendemmo dall'auto e Kafka scomparve tra i pini, come se conoscesse la strada. Mentre Germán si accertava che il freno a mano fosse ben inserito e che la Tucker non scivolasse giù per il dirupo, Marina si avvicinò allo strapiombo sul mare. La raggiunsi e contemplai il panorama. Ai nostri piedi una caletta a forma di mezzaluna abbracciava una lingua di mare verde cristallino. Più in là, un avvicendarsi di spiagge e scogliere disegnava un arco fino a Punta Prima, sulla cui cima, come una sentinella, svettava l'eremo di 67
Sant Elm. «Su, andiamo» mi incitò Marina. La seguii nella pineta. Il sentiero attraversava la proprietà di un'antica casa abbandonata, invasa dagli arbusti. Da lì, alcuni gradini scavati nella roccia conducevano a una spiaggia di sassolini dorati. Al nostro passaggio uno stormo di gabbiani si alzò in volo, cercando rifugio sulle scogliere che coronavano la spiaggia, formando una specie di basilica di roccia, mare e luce. L'acqua era così cristallina da poter scorgere, sotto la superficie, ogni rugosità della sabbia. Un faraglione spuntava nel bel mezzo della baia, simile alla prua di una nave arenata. Il profumo del mare era intenso e una brezza salmastra accarezzava la costa. Lo sguardo di Marina si perse nell'orizzonte d'argento e di bruma. «Questo è il mio posto preferito al mondo» disse. Marina volle mostrarmi tutti gli anfratti delle scogliere. Capii ben presto che avrei finito per rompermi l'osso del collo o per cadere in acqua. «Non sono una capra» puntualizzai, nella speranza di introdurre un po' di buonsenso in quella sorta di alpinismo senza funi. Marina, ignorando le mie suppliche, si inerpicava sulle pareti levigate dal mare e si lasciava scivolare nelle fenditure delle rocce dove la marea respirava come una balena pietrificata. E io, a rischio di perdere l'orgoglio, continuavo ad aspettare che da un momento all'altro il destino mi applicasse tutte le formule della legge di gravità. Ben presto, infatti, i miei pronostici si realizzarono. Marina aveva saltato un minuscolo isolotto per ispezionare una grotta tra gli scogli. Se c'era riuscita lei, mi dissi, tanto valeva provarci anch'io. Un attimo dopo ero immerso fino alla vita nelle acque del Mediterraneo. Tremavo di freddo e di vergogna. Marina, preoccupata, mi osservava dagli scogli. «Sto bene» gemetti. «Non mi sono fatto niente.» «È fredda?» «Macché» balbettai. «È un brodo.» Marina sorrise e, sotto i miei occhi attoniti, si tolse il vestito bianco e si tuffò in acqua. Riemerse accanto a me, ridendo. Era una pazzia, in quella stagione dell'anno. Però decisi di non essere da meno. Nuotammo fino a riva con energiche bracciate e poi ci stendemmo al sole sui sassi tiepidi. Sentii il cuore che mi batteva nelle tempie, non so dire se a causa dell'ac68
qua gelida o di quanto potevo intravedere attraverso la biancheria fradicia di Marina. Lei si accorse dei miei sguardi e si alzò per recuperare il vestito lasciato sugli scogli. La osservai camminare sui sassi, i muscoli del corpo tesi sotto la pelle umida. Mi passai la lingua sulle labbra salate e pensai che avevo una fame da lupo. Passammo il resto del pomeriggio in quella caletta isolata dal mondo, divorando i panini della cesta mentre Marina mi raccontava l'insolita storia della proprietaria di quella tenuta abbandonata tra i pini. La casa era appartenuta a una scrittrice olandese che una strana malattia degenerativa stava a poco a poco rendendo cieca. Consapevole del proprio destino, la scrittrice aveva deciso di costruirsi un rifugio sulla scogliera e di trascorrere lì i suoi ultimi giorni di luce, seduta davanti alla spiaggia a guardare il mare. «Viveva qui in compagnia di Sasha, un pastore tedesco, e dei suoi libri preferiti» mi spiegò Marina. «Quando perse del tutto la vista, sapendo che i suoi occhi non avrebbero mai più potuto assistere al sorgere del sole sul mare, chiese a un gruppo di pescatori che gettavano l'ancora nei pressi della cala di occuparsi di Sasha. Qualche giorno dopo, all'alba, prese una barca a remi e si spinse in alto mare. Nessuno la vide mai più.» Chissà perché, ebbi il sospetto che la storia della scrittrice olandese fosse un'invenzione di Marina e glielo feci capire. «A volte le cose più reali succedono solo nell'immaginazione, Óscar» disse lei. «Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto.» Germán si era addormentato, la faccia sotto il cappello e Kafka ai suoi piedi. Marina osservò il padre con tristezza. Approfittando del sonno di Germán, la presi per mano e ci dirigemmo all'altra estremità della spiaggia. Lì, seduti su un letto di scogli levigati dalle onde, le raccontai tutto quello che era successo in sua assenza. Non trascurai nessun dettaglio, dalla strana apparizione della donna vestita di nero alla stazione fino alla storia di Michail Kolvenik e della Velo-Granell raccontatami da Benjamin Sentís, senza dimenticare la sinistra presenza nella sua casa di Sarriá in quella sera tempestosa. Mi ascoltò in silenzio, assente, con lo sguardo perso nell'acqua che formava piccoli gorghi ai suoi piedi. Rimanemmo a lungo così, senza parlare, osservando in lontananza la sagoma dell'eremo di Sant Elm. 69
«Cos'ha detto il medico di La Paz?» chiesi alla fine. Marina sollevò lo sguardo. Il sole stava calando e un raggio ambrato mi rivelò i suoi occhi appannati dalle lacrime. «Che non resta molto tempo...» Mi voltai e vidi Germán che ci salutava con la mano. Provai una stretta al cuore, e un groppo insopportabile mi strinse la gola. «Lui non ci crede» disse Marina. «Meglio così.» La guardai di nuovo: si era asciugata le lacrime in tutta fretta e ostentava un'espressione ottimista. Mi sorpresi a fissarla e, senza sapere dove avessi trovato il coraggio, mi chinai sul suo viso in cerca della sua bocca. Marina mi appoggiò le dita sulle labbra e mi accarezzò il volto, respingendomi con delicatezza. Un attimo dopo si alzò e si allontanò. Sospirai. Mi alzai anch'io e raggiunsi Germán, che stava disegnando su un quadernetto di appunti. Ricordai che erano anni che non prendeva in mano una matita o un pennello. Germán alzò gli occhi e mi sorrise. «Le sembra somigliante, Óscar?» chiese sereno, mostrandomi il quaderno. I tratti della matita avevano evocato il volto di Marina con una perfezione sconvolgente. «È magnifico» mormorai. «Le piace? Sono contento.» Il profilo di Marina si stagliava all'altra estremità della spiaggia, immobile di fronte al mare. Germán guardò prima lei e poi me. Strappò il foglio e me lo tese. «È per lei, Óscar, perché non si dimentichi della mia Marina.» Al ritorno il tramonto trasformò il mare in una tavola di rame fuso. Germán guidava sorridendo e non la smetteva di raccontare aneddoti sugli anni passati al volante di quella vecchia Tucker. Marina lo ascoltava, ridendo delle sue trovate, e sosteneva la conversazione con invisibili fili da maga. Io me ne stavo zitto, con la fronte appoggiata al finestrino e il morale nelle calze. A metà strada, Marina mi prese la mano in silenzio e la strinse fra le sue. Arrivammo a Barcellona all'imbrunire. Germán volle a tutti i costi accompagnarmi in collegio. Parcheggiò la Tucker davanti al cancello e mi strinse la mano. Marina scese dall'auto ed entrò con me. La 70
sua presenza mi bruciava e non sapevo come uscire da quella situazione. «Óscar, se c'è qualcosa...» «No.» «Vedi, Óscar, ci sono cose che non puoi capire, ma...» «Questo è evidente» tagliai corto. «Buona notte.» Mi girai per fuggire attraverso il giardino. «Aspetta» disse Marina dal cancello. Mi fermai accanto allo stagno. «Voglio che tu sappia che oggi è stato uno dei più bei giorni della mia vita» disse. Quando mi voltai per rispondere Marina se n'era già andata. Salii le scale come se indossassi stivali di piombo. Incrociai qualche compagno che mi guardò di soppiatto, quasi fossi uno sconosciuto. L'intero collegio mormorava sulle mie misteriose assenze. Non mi importava. Presi il quotidiano dal tavolo sul pianerottolo e mi rifugiai nella mia stanza. Mi stesi a letto con il giornale sul petto. Sentii delle voci in corridoio. Accesi la lampada del comodino e mi immersi nel mondo, per me irreale, del quotidiano. Mi sembrava di leggere il nome di Marina in ogni rigo. "Passerà" pensai. A poco a poco, il susseguirsi delle notizie mi placò. Niente di meglio che immergersi nei problemi altrui per dimenticare i propri. Guerre, truffe, omicidi, frodi, inni, sfilate e partite di calcio. Il mondo era sempre lo stesso. Continuai a leggere, più tranquillo. All'inizio non lo notai. Era un trafiletto, una breve per riempire spazio. Piegai il giornale e lo avvicinai alla luce. RITROVATO CADAVERE IN UN TUNNEL DELLA RETE FOGNARIA DEL BARRIO GÓTICO (Barcellona) Gustavo Berceo, redazione
Il corpo di Benjamin Sentís, barcellonese di ottantatré anni, è stato ritrovato all'alba di venerdì all'imbocco del quarto collettore della rete fognaria della Ciutat Velia. Si ignora come il cadavere possa essere finito in quel tratto, chiuso dal 1941. La causa della morte è stata attribuita a un 71
arresto cardiaco. Da nostre fonti, tuttavia, risulta che al corpo del defunto sono state amputate entrambe le mani. Benjamin Sentís, pensionato, aveva avuto una certa notorietà negli anni Quaranta perché coinvolto nello scandalo dell'impresa Velo-Granell, della quale era stato azionista. Negli ultimi anni viveva relegato in un piccolo appartamento di calle Princesa, senza parenti e quasi in rovina.
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Passai la notte in bianco, rimuginando sul racconto di Sentís. Lessi e rilessi la notizia della sua morte, sperando di scovare qualche chiave segreta tra i punti e le virgole. Il vecchio mi aveva nascosto di essere lui il socio di Kolvenik nella Velo-Granell. Se il resto della sua storia reggeva, dedussi che Sentís doveva essere il figlio del fondatore dell'azienda, il figlio che aveva ereditato il cinquanta per cento delle azioni quando Kolvenik era stato nominato direttore generale. Questa scoperta cambiava le carte in tavola. Se Sentís mi aveva mentito su quel punto poteva averlo fatto anche su tutto il resto. La luce del giorno mi sorprese mentre cercavo di interpretare il significato di quella storia e la sua conclusione. Quello stesso martedì me la svignai durante l'intervallo di mezzogiorno per incontrare Marina. Lei, che per l'ennesima volta sembrava avermi letto nel pensiero, mi aspettava in giardino con una copia del quotidiano del giorno prima tra le mani. Mi bastò un semplice sguardo per capire che aveva già letto la notizia della morte di Sentís. «Quell'uomo ti ha mentito...» «E adesso è morto.» Marina diede un'occhiata veloce alla casa, come temendo che Germán potesse sentirci. «Meglio se facciamo un giretto» propose. Accettai, anche se dovevo rientrare in classe dopo meno di mezz'ora. I nostri passi ci portarono verso il parco di Santa Amelia, ai confini del quartiere di Pedralbes. Un palazzo restaurato di recente, divenuto sede di un centro civico, sorgeva nel cuore del parco. Uno degli antichi saloni adesso ospitava un bar. Ci sedemmo a un tavolino accanto a un'ampia vetrata. Marina lesse ad alta voce la notizia che io avevo quasi imparato a memoria. «Non c'è scritto da nessuna parte che si è trattato di un omicidio» azzardò alla fine, poco convinta. 73
«Non ce n'è bisogno. Un uomo che ha vissuto per vent'anni chiuso in un appartamento viene ritrovato cadavere nelle fogne, dove qualcuno si è divertito a strappargli le mani, così, per sovrappiù, prima di abbandonare il corpo...» «D'accordo. È un omicidio.» «È più di un omicidio» dissi, con i nervi a fior di pelle. «Cosa ci faceva Sentís, in piena notte, in un tunnel abbandonato della rete fognaria?» Un cameriere annoiato che asciugava bicchieri dietro il bancone ci ascoltava. «Abbassa la voce» sussurrò Marina. Annuii e cercai di calmarmi. «Forse dovremmo andare alla polizia e raccontare quello che sappiamo» suggerì Marina. «Ma non sappiamo niente» obiettai. «Magari ne sappiamo più di loro. Una settimana fa una donna misteriosa ti fa recapitare un biglietto da visita con l'indirizzo di Sentís e il simbolo della farfalla nera. Tu lo vai a trovare e lui sostiene di non sapere nulla, però ti racconta una strana storia su Michail Kolvenik e la ditta Velo-Granell, implicata in un torbido giro di affari quarant'anni prima. Per qualche ragione si dimentica di dirti che anche lui era coinvolto in quella storia, in quanto figlio del socio fondatore, l'uomo per cui Kolvenik aveva creato due mani artificiali in seguito a un incidente in fabbrica... Sette giorni dopo Sentís viene trovato morto nelle fogne...» «Senza le protesi...» aggiunsi, ricordando che Sentís aveva evitato di stringermi la mano quando ci eravamo incontrati. Al pensiero di quella mano rigida rabbrividii. «Per qualche motivo quando siamo entrati in quella serra abbiamo interferito nei piani di qualcuno» dissi, tentando di mettere ordine nella mia testa. «E adesso anche noi siamo coinvolti. La dama in nero mi ha cercato per darmi quel biglietto...» «Óscar, non siamo sicuri che cercasse proprio te e, soprattutto, non abbiamo idea del perché. Non sappiamo neppure chi è...» «Ma lei sa chi siamo noi e dove trovarci. E se lo sa lei...» 74
Marina sospirò. «Chiamiamo subito la polizia e dimentichiamoci al più presto di questa storia» disse. «Non mi piace, e poi non sono fatti nostri.» «Lo sono, da quando abbiamo deciso di seguire la donna nel cimitero...» Marina sviò lo sguardo verso il parco. Due bambini giocavano con un aquilone, cercando di fargli prendere quota. Senza distogliere gli occhi da loro, mormorò lentamente: «Cosa suggerisci, allora?». Sapeva esattamente cosa mi frullava per la testa. Il sole tramontava dietro la chiesa di Plaza Sarriá quando io e Marina imboccammo il Paseo de la Bonanova diretti alla serra. Ci eravamo premuniti di una pila e di una scatola di fiammiferi. Svoltammo in calle Iradier e ci addentrammo nelle viuzze solitarie che fiancheggiavano i binari della ferrovia. L'eco dei treni che risalivano la collina verso Vallvidrera ci raggiungeva attraverso gli alberi. Ritrovammo ben presto la stradina dove avevamo perso di vista la dama in nero e il portone dietro il quale si nascondeva la serra. Un tappeto di foglie secche rivestiva il selciato. Ombre gelatinose si allungavano intorno a noi mentre ci facevamo strada tra le erbacce. Gli arbusti sibilavano al vento e il volto della luna sorrideva dagli interstizi tra le nubi. Al calar del buio l'edera che ricopriva la serra mi fece pensare a una chioma di serpenti. Girammo intorno al fabbricato e trovammo la porta sul retro. Il chiarore di un fiammifero illuminò il simbolo di Kolvenik e della Velo-Granell, velato dal muschio. Deglutii e guardai Marina: era pallida come un cadavere. «È stata tua l'idea di tornare qui...» disse. Accesi la pila e la sua luce rossastra perforò l'oscurità della serra. Prima di entrare diedi un'occhiata all'interno. Alla luce del giorno quel posto mi era sembrato sinistro. Adesso, di notte, mi parve uno scenario da incubo. Il fascio della pila rivelava contorni sinuosi tra le macerie. Procedevo seguito da Marina, con la pila puntata davanti a me. Il pavimento umido scricchiolava sotto i nostri piedi. Fummo raggiunti dallo spaventoso rumore delle marionette che si sfioravano l'una con l'altra. Mi fermai ad ascoltare quel sudario d'ombre nel cuore della serra. Per un istante non riuscii a ricordare 75
se la volta precedente, uscendo, avevamo lasciato alzato o abbassato il meccanismo da cui pendevano le figure di legno. Guardai Marina e capii che anche lei stava pensando la stessa cosa. «C'è stato qualcuno dall'ultima volta...» disse, indicando le marionette che penzolavano a mezza altezza dal soffitto. Un mare di piedi dondolava davanti a noi. Sentii un brivido di terrore alla base della nuca quando capii che qualcuno le aveva abbassate di nuovo. Senza perdere altro tempo, corsi verso la scrivania e passai la pila a Marina. «Cosa stiamo cercando?» bisbigliò. Indicai l'album di vecchie foto poggiato sul tavolo. Lo presi e lo misi nella borsa che portavo in spalla. «Quell'album non è nostro, Óscar, non so se...» Ignorai le sue proteste e mi inginocchiai per ispezionare i cassetti della scrivania. Il primo conteneva ogni tipo di attrezzi arrugginiti, coltelli, punte di ferro e seghe sdentate. Il secondo era vuoto. Una Colonia di piccoli ragni neri scorrazzava sul fondo cercando rifugio tra le fessure del legno. Lo chiusi e tentai la sorte con il terzo cassetto. La serratura era bloccata. «Cosa succede?» sussurrò Marina, con la voce carica di agitazione. Presi un coltello dal primo cassetto e tentai di forzare la serratura. Marina, dietro di me, reggeva la pila, osservando le ombre danzanti che scivolavano sulle pareti della serra. «Ti manca molto?» «Tranquilla. È questione di un attimo.» Riuscivo a sentire con la lama il fermo della serratura. Seguendone i contorni, gli scavai tutt'intorno. Quel legno secco, marcio, cedeva con facilità alla mia pressione, scricchiolando rumorosamente. Marina si accovacciò accanto a me e posò la pila a terra. «Cos'è questo rumore?» chiese all'improvviso. «Niente. È il legno del cassetto che ormai sta cedendo...» Appoggiò una mano sulle mie impedendomi ogni movimento. Per un attimo ci avvolse il silenzio. Avvertii il battito accelerato del polso di Marina sulla mia mano. Allora sentii anch'io quel suono. Lo scricchiolio delle travi là in alto. Qualcosa si stava muovendo tra le marionette appese nell'oscuri76
tà. Aguzzai la vista, giusto in tempo per scorgere i contorni di un braccio, o almeno così mi parve, che si muoveva sinuosamente. Una delle marionette si stava staccando dal tramezzo e scivolava come un aspide tra i rami. Altre cominciarono a muoversi all'unisono. Strinsi forte il coltello e mi alzai, tremando. In quel preciso istante qualcuno o qualcosa spinse via la pila dai nostri piedi. Rotolò in un angolo e ci ritrovammo immersi nella più totale oscurità. Fu allora che sentimmo quel sibilo che si avvicinava. Afferrai la mano della mia amica e ci precipitammo verso l'uscita mentre la struttura meccanica calava lentamente e una foresta di braccia e di gambe ci sfiorava le teste, cercando di aggrapparsi ai nostri vestiti. Sentii delle unghie di metallo sulla nuca e Marina al mio fianco che gridava. La spinsi davanti a me, nel tentativo di oltrepassare quel tunnel di creature che scendevano dalle tenebre. I raggi della luna che filtravano tra le fessure lasciate dall'edera della serra svelavano visioni di volti esangui, occhi di vetro e dentature smaltate. Sferrai coltellate a destra e a manca. Sentii che avevo graffiato un corpo duro. Un fluido spesso mi impregnò le dita. Ritrassi la mano; qualcosa trascinava Marina, che urlava terrorizzata, verso l'oscurità. Riuscii a scorgere il volto senza sguardo, dalle orbite vuote e nere, della ballerina di legno. Stringeva la gola di Marina con dita affilate come rasoi. Il volto era ricoperto da una maschera di pelle morta. Mi avventai su di lei con tutte le mie forze e la gettai a terra. Ci precipitammo verso la porta mentre il fantoccio decapitato della ballerina si rialzava, un burattino mosso da fili invisibili con artigli che faceva schioccare come se fossero forbici. Fuori dalla serra vidi parecchie sagome scure che ci sbarravano il passo verso l'uscita. Corremmo nella direzione opposta e raggiungemmo una rimessa addossata al muro che divideva la proprietà dai binari del treno. Le porte a vetri del garage erano ricoperte da decenni di lerciume. Chiuse. Ruppi il vetro con una gomitata e cercai a tentoni la serratura. La maniglia cedette e la porta si aprì verso l'interno. Entrammo in fretta e furia. Le finestre sul retro disegnavano due chiazze di chiarore lattiginoso, oltre le quali si scorgeva la ragnatela della linea elettrica del treno. Marina si voltò un istante per guardarsi alle spalle. Delle figure spigolose si stagliavano sulla porta della rimessa. «Presto!» gridò. Mi guardai attorno, disperato, cercando qualcosa per rompere il vetro 77
della finestra. La carcassa arrugginita di una vecchia automobile marciva nell'oscurità. La manovella del motore era al suo posto. L'afferrai e colpii varie volte la finestra, proteggendomi dalla pioggia di schegge di vetro. La brezza notturna mi soffiò sulla faccia e sentii l'aria viziata che esalava dall'imboccatura del tunnel. «Da questa parte!» Marina si issò sulla finestra mentre io osservavo le figure che serpeggiavano lentamente verso l'interno del garage. Brandii la manovella con tutte e due le mani. All'improvviso i fantocci si fermarono e arretrarono di un passo. Li guardai senza capire e solo allora sentii quel rumore meccanico, proprio sopra di me. Saltai istintivamente verso la finestra, nell'istante in cui un corpo si lasciava cadere dal soffitto. Riconobbi il poliziotto senza braccia. Il suo volto mi sembrò coperto da una rozza maschera di pelle morta. Le cuciture sanguinavano. «Óscar!» urlò Marina dall'altra parte della finestra. Mi lanciai tra le fauci di vetro scheggiato. Una lama aguzza mi tagliò la stoffa dei pantaloni, e sentii che mi aprì uno squarcio nella carne. Quando atterrai, avvertii un dolore intenso. Un rivolo di sangue tiepido mi scendeva lungo la gamba, sotto i pantaloni. Marina mi aiutò a rialzarmi e ci trascinammo verso i binari del treno. In quel momento qualcosa mi afferrò una caviglia e caddi a faccia in giù sulle rotaie. Mi girai, stordito. La mano di una mostruosa marionetta mi stringeva il piede. Mi appoggiai su un binario e avvertii la vibrazione del metallo. La luce lontana di un treno si riflesse sui muri. Sentii lo stridio delle ruote e la terra che tremava sotto di me. Marina soffocò un gemito quando si accorse che un treno si avvicinava a tutta velocità. Si inginocchiò ai miei piedi e ingaggiò una lotta furiosa con le dita di legno che mi imprigionavano. Le luci del treno la illuminarono. Sentii il fischio della locomotiva. Il burattino se ne stava fermo, senza mollare la presa, indomito. Marina combatteva con entrambe le mani per liberarmi. Finalmente, un dito cedette. Lei sospirò. Un attimo dopo il fantoccio si rialzò e con l'altra mano afferrò il braccio di Marina. Con la manovella che tenevo ancora in mano colpii con tutte le mie forze al volto quella figura inerte fino a fracassargli il cranio. Notai con orrore che ciò che avevo scambiato per legno era invece osso. C'era vita in quella creatura. 78
Il ruggito del treno si fece assordante e coprì le nostre grida. I sassi fra i binari vibravano. Fummo avvolti dal fascio di luce della locomotiva. Chiusi gli occhi e continuai a colpire come un ossesso quella macabra marionetta finché non sentii la testa staccarsi dal corpo. Solo allora le sue grinfie mollarono la presa. Rotolammo sulle pietre della massicciata, abbagliati dalla luce. Tonnellate di acciaio passarono a pochi centimetri da noi, in una pioggia di scintille. I frammenti di quel mostro schizzarono da tutte le parti, crepitando come le braci di un falò. Passato il treno, riaprimmo gli occhi. Mi voltai verso Marina e annuii per farle capire che stavo bene. Ci rialzammo lentamente. Allora sentii la fitta di dolore alla gamba. Marina si fece passare il mio braccio sulle spalle, e così riuscii ad attraversare i binari. Quando ci voltammo a guardare indietro, qualcosa si muoveva tra le rotaie, brillando alla luce della luna. Era una mano di legno, tranciata dalle ruote del treno. Si agitava con spasmi sempre più distanziati, poi si fermò del tutto. Senza scambiare una parola risalimmo in mezzo agli arbusti e sbucammo in un vicolo che portava in calle Angli. Le campane della chiesa suonavano in lontananza. Per fortuna, quando rientrammo a casa Germán dormicchiava nello studio. Senza fare rumore, Marina mi portò in uno dei bagni per disinfettarmi la ferita alla luce delle candele. Le pareti e il pavimento erano rivestiti di piastrelle smaltate che riflettevano le fiammelle. Una monumentale vasca da bagno che poggiava su quattro piedi di ferro campeggiava nel centro. «Togliti i pantaloni» disse Marina voltandomi le spalle, mentre frugava nell'armadietto dei medicinali. «Cosa?» «Mi hai sentito.» Feci quello che mi ordinava e stesi la gamba sul bordo della vasca. Il taglio era più profondo di quanto immaginassi e i contorni della ferita erano di un rosso purpureo. Mi venne la nausea. Marina si inginocchiò accanto a me ed esaminò il taglio con attenzione. «Ti fa male?» «Solo quando lo guardo.» La mia infermiera improvvisata prese del cotone imbevuto di alcol e lo avvicinò alla gamba. «Ti brucerà...» 79
Quando l'alcol morse la ferita strinsi il bordo della vasca con tanta forza da lasciarci impresse le impronte digitali. «Mi dispiace» sussurrò Marina, soffiando sul taglio. «Dispiace più a me.» Respirai a fondo e chiusi gli occhi, mentre lei continuava a disinfettare meticolosamente la ferita. Alla fine, prese una benda dall'armadietto e l'applicò sul taglio. Assicurò il cerotto con mano esperta, senza distogliere gli occhi da quello che stava facendo. «Non ce l'avevano con noi» disse Marina. Non riuscivo a capire a cosa si riferisse. «Le marionette della serra» aggiunse senza guardarmi. «Volevano l'album. Non avremmo dovuto prenderlo...» Mentre mi metteva un'altra benda pulita, sentii il suo respiro sulla pelle. «A proposito dell'altro giorno, al mare...» iniziai. Marina si fermò e alzò lo sguardo. «Niente.» Fissò l'ultimo cerotto e mi osservò in silenzio. Pensai che stesse per dirmi qualcosa, invece si alzò e uscì dal bagno. Restai solo, in compagnia delle candele e di un paio di pantaloni inservibili.
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Quando rientrai in collegio, a mezzanotte passata, tutti i miei compagni erano già a letto, anche se dalle loro serrature filtrava qualche lama di luce che illuminava il corridoio. Sgattaiolai nella mia stanza in punta di piedi. Chiusi la porta senza fare rumore e guardai la sveglia sul comodino. Quasi l'una. Accesi la lampada e tirai fuori dalla borsa l'album che avevamo preso nella serra. Lo aprii e mi immersi di nuovo in quella galleria degli orrori. Una foto mostrava una mano le cui dita erano unite da membrane, come quelle di un anfibio. Accanto, una bambina dai riccioli biondi, vestita di bianco, esibiva un sorriso quasi demoniaco, con canini simili a zanne che le spuntavano dalle labbra. Pagina dopo pagina, mi sfilò davanti agli occhi una crudele teoria di capricci della natura. Due fratelli albini dalla pelle così chiara che il chiarore di una candela sembrava bastasse a bruciarla. Siamesi uniti per il cranio, costretti a guardarsi negli occhi per tutta la vita. Il corpo nudo di una donna dalla Colonna vertebrale contorta come un ramo secco... Molti erano bambini o adolescenti, molti sembravano più giovani di me. Non c'era quasi nessun adulto o anziano. Era evidente che le speranze di vita di quegli infelici erano minime. Ricordai le parole di Marina: quell'album non era nostro e non avremmo dovuto appropriarcene. Adesso, svanita ogni traccia di adrenalina, quell'idea assunse un nuovo significato. Stavo profanando dei ricordi che non mi appartenevano. Percepivo che quel concentrato di disgrazie era, a modo suo, un album di famiglia. Lo sfogliai varie volte, credendo di cogliere tra le immagini un legame al di là dello spazio e del tempo. Poi lo richiusi e lo infilai di nuovo in borsa. Quando spensi la luce mi tornò alla mente l'immagine di Marina che camminava sulla spiaggia deserta. La vidi allontanarsi lungo la riva finché il sonno zittì lo sciabordio della marea. Per un giorno la pioggia si stancò di Barcellona e si spostò verso nord. Come un bandito, me la svignai dal collegio saltando l'ultima lezione del pomeriggio per incontrare Marina. Le nuvole si erano aperte in un telone 81
azzurro. Una lingua di sole accarezzava le strade. Lei mi aspettava in giardino, concentrata sul suo diario segreto. Non appena mi vide si affrettò a chiuderlo. Mi chiesi se stesse scrivendo su di me o su quello che era successo nella serra. «Come va la gamba?» domandò, stringendo il diario tra le braccia. «Sopravviverò. Vieni, voglio farti vedere una cosa.» Presi l'album e mi sedetti accanto a lei sul bordo della fontana. Lo aprii e sfogliai le pagine. Marina sospirò, turbata da quelle immagini. «Eccola qui» dissi, fermandomi su una delle ultime foto. «Stamattina, svegliandomi, mi è venuto in mente. Finora non ci avevo fatto caso, ma oggi...» Marina osservò la foto che le stavo mostrando. Era un'immagine in bianco e nero, stregata dalla strana nitidezza che solo i vecchi ritratti in studio possiedono. Vi si vedeva un uomo dal cranio brutalmente deforme, la cui spina dorsale riusciva a malapena a sorreggerlo. Si appoggiava a una persona giovane che portava un camice bianco, occhiali rotondi e un cravattino che faceva pendant con un paio di baffetti estremamente curati. Un medico. Il dottore fissava l'obiettivo. Il paziente si copriva gli occhi con la mano, come se si vergognasse della propria condizione. Dietro di loro, si intravedevano il paravento di uno spogliatoio e quello che sembrava uno studio medico. In un angolo, c'era una porta socchiusa. Da quella porta faceva capolino una bambina con una bambola in braccio che osservava timidamente la scena. La fotografia sembrava più che altro un documento da archivio medico. «Guarda bene» insistetti. «Vedo solo un poveraccio che...» «Non guardare lui. Guarda dietro di lui.» «Una finestra...» «E cosa si vede dalla finestra?» Marina aggrottò la fronte. «Lo riconosci?» chiesi, indicando la statua del drago che decorava la facciata di un palazzo, sul marciapiede opposto rispetto alla stanza dove era stata scattata la fotografia. «L'ho già visto da qualche parte...» 82
«È sembrato anche a me» confermai. «Qui a Barcellona. Sulle Ramblas, di fronte al Teatro del Liceo. Ho guardato e riguardato tutte le foto, ma questa è l'unica scattata a Barcellona.» La staccai dall'album e la tesi a Marina. Sul retro, in caratteri quasi cancellati, si leggeva: Studio fotografico Martorell-Borrás -1951 Copia - Dottor Joan Shelley Rambla de los Estudiantes 46-48,1° Barcellona Marina fece spallucce e me la restituì. «Questa foto è stata scattata quasi trent'anni fa, Óscar... Non significa nulla...» «Stamattina ho guardato l'elenco del telefono. Quel tale, il dottor Shelley, abita ancora al primo piano del numero 46-48 della Rambla de los Estudiantes. Il nome mi diceva qualcosa. Poi mi sono ricordato delle parole di Sentís: il dottor Shelley è stato il primo amico di Michail Kolvenik a Barcellona...» Marina mi squadrò. «E tu, per festeggiare, non ti sei limitato a consultare l'elenco...» «Ho chiamato» ammisi. «Mi ha risposto la figlia del dottor Shelley, Maria. Le ho detto che dovevamo parlare con il padre per una questione della massima importanza.» «Ti ha preso sul serio?» «All'inizio no, ma quando ho fatto il nome di Michail Kolvenik le è cambiata la voce. E il padre ha accettato di incontrarci.» «Quando?» Guardai il mio orologio. «Tra una quarantina di minuti.» Prendemmo il metrò fino a Plaza de Cataluña. Era quasi buio quando salimmo le scale che portavano in superficie, all'imbocco delle Ramblas. Natale era alle porte e la città era addobbata da un tripudio di luminarie che 83
disegnavano spettri multicolori sopra il viale. Stormi di colombe svolazzavano tra caffè e chioschi di fiori, musicisti ambulanti e mimi, turisti e gente del posto, poliziotti e truffatori, tipi di città e fantasmi di altri tempi. Germán aveva ragione: non c'era un'altra strada come quella in tutto il mondo. La sagoma del Gran Teatro del Liceo si stagliò davanti a noi. Era serata d'opera e le luci della pensilina sfavillavano come un diadema di diamanti. Sul marciapiede opposto riconoscemmo il drago verde della foto che contemplava la folla da un angolo della facciata. Pensai che la storia aveva riservato a san Giorgio gli altari e i santini, ma al drago era toccata la sorte di vegliare per l'eternità sulla città di Barcellona. Il vecchio studio medico del dottor Joan Shelley era al primo piano di un vecchio palazzo dall'aria signorile e dall'illuminazione funebre. Attraversammo un atrio cavernoso da cui partiva una sontuosa scalinata a spirale. I nostri passi si persero nell'eco delle scale. Notai che i batacchi delle porte, in ferro battuto, riproducevano volti di angeli. Vetrate da cattedrale decoravano il lucernario, trasformando il palazzo nel più grande caleidoscopio del mondo. Il primo piano, come spesso accadeva negli edifici dell'epoca, era in realtà il terzo. Superato il mezzanino e il piano padronale, ci ritrovammo davanti a un uscio sul quale una vecchia targa di bronzo annunciava: Dr. Joan Shelley. Guardai l'orologio. Mancavano due minuti all'ora convenuta quando Marina bussò alla porta. La donna che ci ricevette sembrava uscita da un'immaginetta religiosa. Evanescente, virginea, coronata da un'aura mistica. La pelle era nivea, quasi trasparente; gli occhi talmente chiari da non avere quasi colore. Un angelo senza ali. «Signora Shelley?» chiesi con cortesia. La donna confermò, lo sguardo acceso dalla curiosità. «Buona sera» esordii. «Mi chiamo Óscar. Ho parlato con lei stamattina...» «Mi ricordo. Prego, avanti...» Ci fece entrare. Maria Shelley si muoveva al rallentatore, come una ballerina che danza tra le nubi. Era di corporatura fragile e profumava di acqua di rose. Calcolai che doveva avere una trentina d'anni, ma sembrava più giovane. Aveva un polso bendato e un foulard le avvolgeva il collo da 84
cigno. L'ingresso era una stanza scura, carica di velluti e di specchi anneriti. La casa odorava di museo, come se l'aria vi fosse stata imprigionata per decenni. «Le siamo molto grati per averci ricevuto. Questa è la mia amica Marina.» Lo sguardo di Maria si posò su Marina. Mi è sempre sembrato affascinante osservare come le donne si studiano a vicenda. Quella volta non costituì un'eccezione. «Molto piacere» disse alla fine Maria Shelley, strascicando le parole. «Mio padre è un uomo anziano, dal carattere un po' volubile. Vi prego di non affaticarlo.» «Non si preoccupi» disse Marina. Ci fece segno di seguirla. Maria Shelley si muoveva davvero con un'elasticità vaporosa. «Mi ha detto di possedere una cosa appartenuta al defunto signor Kolvenik?» chiese Maria. «L'ha conosciuto?» domandai a mia volta. Il suo volto s'illuminò al ricordo di altri tempi. «In realtà, no... Ma ne ho sentito parlare molto. Da bambina» disse quasi tra sé. Dalle pareti tappezzate di velluto nero pendevano immaginette di santi, vergini e martiri in agonia. I tappeti erano scuri e assorbivano la scarsa luce che filtrava dalle persiane chiuse. Mentre seguivamo la padrona di casa lungo il corridoio, mi chiesi da quanto tempo abitasse lì, sola con il padre. Si era sposata, aveva vissuto, amato o conosciuto qualcos'altro al di là dell'oppressivo universo di quelle quattro mura? Maria Shelley si fermò davanti a una porta scorrevole e bussò con le nocche. «Papà?» Il dottor Joan Shelley, o ciò che ne rimaneva, era seduto su una poltrona davanti al fuoco, sotto strati di coperte. La figlia ci lasciò soli con lui. Cercai di distogliere lo sguardo dal suo vitino da vespa mentre usciva dalla stanza. L'anziano dottore, in cui a stento si poteva riconoscere l'uomo del ritratto che avevo nel taschino, ci studiava in silenzio. I suoi occhi stillava85
no diffidenza. Una mano tremava leggermente sul bracciolo della poltrona. Un aroma di acqua di Colonia copriva a malapena il puzzo della malattia. Il sorriso sarcastico non nascondeva il disgusto che gli ispiravano il mondo e le proprie condizioni. «Il tempo fa con il corpo ciò che la stupidità fa con l'anima» disse, indicando se stesso. «Lo corrompe. Cos'è che volete?» «Ci chiedevamo se poteva parlarci di Michail Kolvenik.» «Potrei, ma non vedo perché dovrei farlo» tagliò corto il dottore. «Se ne è parlato fin troppo a suo tempo e sono circolate un mucchio di bugie. Se la gente pensasse un quarto di quanto parla, questo mondo sarebbe il paradiso.» «Sì, ma noi siamo interessati alla verità» puntualizzai. L'anziano fece una smorfia beffarda. «La verità non si trova, ragazzo. È lei che trova noi.» Mi sforzai di sorridere docilmente, ma cominciavo a sospettare che quell'uomo non intendeva aprire bocca. Marina, intuendo i miei timori, prese l'iniziativa. «Dottor Shelley» disse con dolcezza, «per puro caso siamo entrati in possesso di un album fotografico che forse è appartenuto al signor Michail Kolvenik. In uno dei ritratti lei compare insieme a un suo paziente. Ecco perché ci siamo permessi di disturbarla, con la speranza di restituire l'album al legittimo proprietario o a chi eventualmente spetta.» Stavolta Shelley non rispose con una frase lapidaria. Osservò Marina, senza nascondere una certa sorpresa. Mi domandai perché non era venuto in mente a me uno stratagemma come quello. Decisi che era meglio lasciare a Marina l'onere della conversazione. «Non so di quali fotografie stia parlando, signorina...» «Di una serie di immagini che mostrano pazienti colpiti da gravi malformazioni...» chiarì Marina. Gli occhi del dottore brillarono. Avevamo toccato un nervo scoperto. Dopo tutto, c'era ancora vita sotto quelle coperte. «Cosa le fa pensare che l'album sia appartenuto a Michail Kolvenik?» domandò, fingendo indifferenza. «O che io c'entri qualcosa?» «Sua figlia ci ha detto che eravate amici» disse Marina, cambiando ar86
gomento. «Maria possiede la virtù dell'ingenuità» ribatté Shelley con tono ostile. Marina annuì, si alzò in piedi e mi fece segno di fare altrettanto. «Capisco» disse cortese. «Vedo che ci siamo sbagliati. Ci spiace di averla disturbata, dottore. Andiamo, Óscar. Troveremo qualcuno a cui consegnare l'album...» «Un momento» la interruppe Shelley. Si schiarì la voce e ci indicò le sedie. «Avete ancora quell'album?» Marina annuì, sostenendo lo sguardo del vecchio. All'improvviso, Shelley proruppe in quella che doveva essere una risata. Fece il rumore di un vecchio giornale che viene accartocciato. «Come posso sapere che dite la verità?» Marina mi impartì un ordine muto. Tirai fuori dalla tasca la fotografia e la diedi al dottor Shelley. La prese con mano tremante e la esaminò. La studiò a lungo. Alla fine, con gli occhi fissi sulle fiamme, cominciò a parlare. Il dottor Shelley ci raccontò che era figlio di padre britannico e madre catalana. Si era specializzato in traumatologia all'ospedale di Bournemouth. Quando si trasferì a Barcellona la sua condizione di straniero gli sbarrò le porte dei circoli sociali in cui si forgiavano le carriere più promettenti. Tutto quello che riuscì a ottenere fu un lavoro nell'infermeria del carcere. Così fu lui a curare Michail Kolvenik quando rimase vittima di un brutale pestaggio in cella. A quei tempi Kolvenik non parlava castigliano né catalano. Ebbe la fortuna di imbattersi in Shelley che masticava un po' di tedesco. Il medico gli prestò il denaro per comprarsi dei vestiti, lo ospitò a casa sua e lo aiutò a trovare lavoro alla Velo-Granell. Kolvenik gli si affezionò moltissimo e non dimenticò mai la sua generosità. Tra i due nacque una profonda amicizia. In seguito quell'amicizia sarebbe sfociata anche in un rapporto professionale. Molti pazienti del dottor Shelley avevano bisogno di prodotti ortopedici e di protesi speciali. La Velo-Granell era un'azienda leader nel settore e, tra i suoi progettisti, quello dotato di maggior talento era Michail Kolvenik. Con il passare del tempo Shelley divenne il suo medico personale. 87
Quando la sorte gli sorrise, Kolvenik decise di aiutare l'amico finanziando la creazione di un centro medico specializzato nello studio e nella cura di malattie degenerative e malformazioni congenite. L'interesse di Kolvenik per quel ramo della medicina risaliva alla sua infanzia a Praga. Shelley ci spiegò che la madre dell'amico aveva dato alla luce due gemelli. Uno, Michail, era nato forte e sano. L'altro, Andrej, era venuto al mondo con un'incurabile malformazione ossea e muscolare che lo avrebbe condotto alla morte a soli sette anni. Questo episodio segnò profondamente il giovane Michail e, in qualche misura, ne condizionò la vocazione. Kolvenik fu sempre convinto che, grazie a cure mediche appropriate e allo sviluppo di una tecnologia che supplisse alle carenze della natura, il fratello sarebbe potuto diventare adulto e avrebbe potuto vivere una vita piena. Fu questa convinzione a spingerlo a dedicare il proprio talento alla progettazione di congegni che, come amava dire, "completassero" i corpi trascurati dalla provvidenza. "La natura è come un bambino che gioca con le nostre vite. Quando si stanca dei suoi giocattoli rotti li abbandona e li sostituisce con altri" diceva Kolvenik. "Tocca a noi raccogliere i pezzi e rimetterli insieme." Alcuni vedevano in queste parole un'arroganza prossima alla bestemmia; altri vi scorgevano solo speranza. L'ombra del fratello non aveva mai abbandonato Michail Kolvenik. Credeva che un destino capriccioso e crudele avesse predestinato lui alla vita e il fratello alla morte. Shelley ci spiegò che Kolvenik era roso dai sensi di colpa e che sentiva in fondo al cuore un debito verso Andrej e verso tutti quelli che, come lui, erano marchiati dallo stigma dell'imperfezione. Fu in quel periodo che Kolvenik cominciò a raccogliere fotografie di fenomeni ed esseri deformi da tutto il mondo. Per lui quegli infelici abbandonati dal destino erano i fratelli invisibili di Andrej. La sua famiglia. «Michail Kolvenik era un uomo brillante» proseguì il dottor Shelley. «Le persone come lui suscitano sempre la diffidenza di chi si sente inferiore. L'invidia è un cieco che vuole strapparti gli occhi. Le cose che si dissero di Michail negli ultimi anni e dopo la sua morte erano solo calunnie... Quel maledetto ispettore... Florián. Non si rendeva conto che lo stavano manipolando per distruggere Michail...» «Florián?» intervenne Marina. 88
«Era l'ispettore capo della polizia giudiziaria» disse Shelley, tirando fuori tutto il disprezzo che gli consentivano le sue corde vocali. «Un arrivista, un verme che voleva farsi un nome alle spalle della Velo-Granell e di Michail Kolvenik. La mia unica consolazione è sapere che non è mai riuscito a provare niente. La sua ostinazione finì per rovinargli la carriera. Fu lui a sollevare lo scandalo dei corpi...» «Corpi?» Shelley sprofondò in un lungo silenzio. Ci guardò e riaffiorò il suo sorriso sprezzante. «Quell'ispettore Florián...» chiese Marina. «Sa dove possiamo trovarlo?» «In un circo, con gli altri pagliacci» ribatté Shelley. «Ha conosciuto Benjamin Sentís, dottore?» chiesi, cercando di riprendere il filo del discorso. «Certo» rispose Shelley. «Avevamo contatti frequenti. Come socio di Kolvenik, Sentís si occupava dell'amministrazione della Velo-Granell. Era un uomo avaro che, secondo me, non sapeva qual era il suo posto nel mondo. Invidioso marcio.» «Lo sa che il corpo del signor Sentís è stato trovato nelle fogne una settimana fa?» chiesi. «Leggo i giornali» rispose glaciale. «Non le è sembrato strano?» «Non più di tante altre notizie che si leggono» replicò Shelley. «Il mondo è malato. E io comincio a essere stanco. Qualche altra domanda?» Stavo per chiedergli della dama in nero quando Marina mi anticipò, scuotendo il capo con un sorriso. Shelley allungò la mano e tirò il cordone del campanello di servizio. Maria Shelley fece atto di presenza, con gli occhi fissi sui propri piedi. «Questi ragazzi stanno per andarsene, Maria.» «Sì, papà.» Ci alzammo. Feci per recuperare la fotografia, ma la mano tremante del dottore mi precedette. «Questa foto la tengo io, se non vi dispiace...» Poi ci girò le spalle e fece segno alla figlia di accompagnarci alla porta. Prima di uscire dalla biblioteca mi voltai per un'ultima occhiata e vidi che 89
gettava la foto nel camino. I suoi occhi vitrei la guardarono bruciare tra le fiamme. Maria Shelley ci guidò in silenzio fino all'ingresso, dove ci sorrise come se volesse scusarsi. «Mio padre è un uomo difficile, ma di buon cuore...» si giustificò. «Ha avuto molti dispiaceri dalla vita e a volte il carattere lo tradisce...» Ci aprì la porta e accese la luce delle scale. Lessi un'incertezza nel suo sguardo, come se volesse dirci qualcosa ma temesse di farlo. Anche Marina ebbe la stessa impressione e le tese la mano per ringraziarla. Maria Shelley gliela strinse. Dai pori di quella donna trasudava solitudine. «Non so cosa vi ha detto mio padre...» mormorò, abbassando la voce e guardandosi attorno, timorosa. «Maria?» ci giunse nitida la voce del dottore. «Con chi stai parlando?» Un'ombra le calò sul volto. «Vengo subito, papà.» Ci lanciò un ultimo sguardo desolato e rientrò in casa. Mentre si voltava, notai una piccola medaglietta che le pendeva dal collo. Avrei giurato che raffigurasse una farfalla con le ali nere spiegate. La porta si richiuse senza darmi il tempo di esserne certo. Restammo sul pianerottolo ad ascoltare la voce assordante del dottore che scaricava la sua collera sulla figlia. La luce delle scale si spense. Per un attimo credetti di avvertire un odore di carne in decomposizione. Proveniva da qualche punto delle scale, come se ci fosse un animale morto nell'oscurità. Allora mi sembrò di sentire dei passi che si allontanavano verso l'alto e quell'odore, o quell'impressione, si dileguò. «Andiamocene via» dissi a Marina.
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Sulla strada del ritorno mi accorsi che Marina mi guardava di sottecchi. «Non passi le feste in famiglia?» Scossi il capo, lo sguardo perso nel traffico. «Perché no?» «I miei sono sempre in viaggio. Sono anni che non passiamo il Natale insieme.» Senza volerlo, la mia voce suonò fredda e ostile. Il resto del tragitto lo percorremmo in silenzio. Accompagnai Marina fino al cancello della villa e la salutai. Mentre rientravo in collegio cominciò a piovere. Guardai da lontano la fila di finestre del quarto piano dell'edificio. Solo un paio erano illuminate. La maggior parte degli interni era partita per le vacanze di Natale e non sarebbe rientrata prima di tre settimane. Ogni anno era la stessa storia. Il collegio si svuotava e rimanevano soltanto un paio di poveracci, affidati alle cure dei tutori. Gli ultimi due anni erano stati i peggiori, ma adesso non me ne importava più nulla. In realtà, era meglio così. L'idea di allontanarmi da Marina e Germán mi sembrava impensabile. Accanto a loro non mi sarei sentito solo. Salii ancora una volta le scale che conducevano alla mia stanza. Il corridoio era silenzioso, abbandonato. Quell'ala del collegio era deserta. Probabilmente era rimasta soltanto doña Paula, la vedova che si occupava delle pulizie e viveva in un piccolo appartamento del terzo piano da cui usciva, incessante, il frastuono della televisione. Superai parecchie stanze vuote prima di arrivare alla mia. Aprii la porta. Un tuono ruggì sul cielo della città squassando l'intero edificio. La luce del lampo filtrò tra le persiane chiuse. Mi gettai sul letto senza spogliarmi. Fuori il temporale si abbatteva sulla città. Aprii il cassetto del comodino e tirai fuori lo schizzo di Marina che Germán aveva fatto quel giorno sulla spiaggia. Lo contemplai nella penombra finché il sonno e la fatica mi vinsero. Mi addormentai stringendolo 91
tra le mani come se si trattasse di un amuleto. Quando mi svegliai il ritratto era sparito. Aprii gli occhi di scatto. Sentivo freddo e una ventata di aria gelida in faccia. La finestra era aperta e la pioggia profanava la stanza. Mi drizzai sul letto, stordito. Trovai a tentoni la lampada sul comodino e premetti inutilmente l'interruttore. Non c'era luce. Fu allora che mi resi conto di non avere più tra le mani il ritratto con cui mi ero addormentato. Non era sul letto né a terra. Mi sfregai gli occhi, senza capire. All'improvviso lo sentii. Intenso e penetrante. Quel tanfo di marcio. Nell'aria. Nella stanza. Sui miei vestiti, come se qualcuno, mentre dormivo, mi avesse sfregato sulla pelle il cadavere di un animale in decomposizione. Trattenni un conato di vomito e, un attimo dopo, caddi in preda al panico. Non ero solo. Qualcuno o qualcosa era entrato da quella finestra mentre dormivo. Lentamente, tastando i mobili, arrivai alla porta. Tentai di accendere la luce centrale della stanza. Niente. Mi affacciai in corridoio: buio pesto. Avvertii di nuovo quella puzza, ancora più intensa. L'odore di un animale selvatico. Poi mi sembrò di scorgere una sagoma che si intrufolava nell'ultima stanza. «Doña Paula?» dissi, quasi mormorando. La porta si chiuse con delicatezza. Inspirai a fondo e avanzai nel corridoio, sconcertato. Mi fermai di colpo quando sentii un sibilo da rettile che sussurrava una parola. Il mio nome. La voce proveniva dalla stanza chiusa. «Doña Paula, è lei?» balbettai, cercando di controllare il tremore delle mani. Avanzai nel buio. La voce ripeté il mio nome. Non avevo mai sentito una voce simile. Una voce spezzata, crudele, che sanguinava malvagità. Una voce da incubo. Ero immobile in quel corridoio buio, incapace di muovere un muscolo. Improvvisamente, la porta della stanza si spalancò con una forza brutale. Nel giro di un interminabile secondo il corridoio sembrò restringersi e ritirarsi sotto i miei piedi, attirandomi verso quella porta. Al centro della stanza, i miei occhi videro con assoluta chiarezza un oggetto che luccicava sul letto: il ritratto di Marina. Era sorretto da due mani di legno, le mani di una marionetta. Dei fili sanguinolenti spuntavano dai 92
polsi. Capii allora che si trattava delle mani perse da Benjamin Sentís nelle profondità delle fogne. Estirpate alla radice. Mi si mozzò il fiato. Il fetore divenne insopportabile, acido. E con la lucidità del terrore mi accorsi della sagoma sul muro, appesa lì, immobile, un essere vestito di nero con le braccia incrociate sul petto. I capelli arruffati gli coprivano il viso. Fermo sulla porta, vidi quel volto sollevarsi con infinita lentezza, scoprendo dei canini che luccicarono nella penombra. Sotto i guanti, degli artigli presero ad agitarsi come un groviglio di serpenti. Arretrai di un passo e sentii di nuovo la voce che sussurrava il mio nome. La sagoma strisciava verso di me come un gigantesco ragno. Mi sfuggì un grido e gli sbattei la porta in faccia. Cercai di bloccargli l'uscita, ma sentii un impatto brutale. Dieci unghie affilate come coltelli trapassarono il legno. Corsi verso l'altro estremo del corridoio mentre la porta veniva fatta a pezzi. Il corridoio era diventato un tunnel interminabile. A pochi metri dalle scale, mi voltai a guardare indietro. La creatura infernale veniva verso di me. Il luccichio dei suoi occhi perforava l'oscurità. Ero in trappola. Scappai lungo il corridoio che portava alle cucine, approfittando del fatto che conoscevo a memoria tutti gli anfratti del collegio. Mi chiusi la porta alle spalle. Inutile. La creatura vi si scagliò contro e l'abbatté, facendomi cadere a terra. Rotolai sulle piastrelle e mi rifugiai sotto il tavolo. Vidi un paio di gambe. Attorno a me, decine di piatti e bicchieri andarono in frantumi e uno strato di schegge di vetro ricoprì il pavimento. Scorsi la lama di un coltello a seghetto tra i cocci e lo afferrai disperato. La sagoma si accovacciò di fronte a me, come un lupo all'imbocco di una tana. Gli sferrai una coltellata al volto e la lama affondò come nel fango. Ciò nonostante arretrò di mezzo metro, dandomi modo di scappare all'estremità opposta della cucina. Arretrando passo dopo passo, cercai qualcosa con cui difendermi. Trovai un cassetto. Lo aprii. Posate, utensili da cucina, candele, un accendino a benzina... Cianfrusaglie inutili. Istintivamente presi l'accendino e tentai di accenderlo. Vidi l'ombra della creatura a pochi passi da me. Sentii il suo alito fetido ; Uno dei suoi artigli si avvicinava alla mia gola. Fu allora che l'accendino si accese e illuminò quell'essere ad appena venti centimetri. Chiusi gli occhi e trattenni il fiato, convinto di aver visto la morte in faccia e di non poter fare altro che aspettare. L'attesa divenne eterna. Quando riaprii gli occhi se n'era andato. Avvertii i suoi passi che si al93
lontanavano. Lo seguii verso la mia stanza e mi sembrò di sentire un gemito. Di dolore, o forse di rabbia. Quando mi affacciai dentro, vidi la creatura frugare nella mia borsa e afferrare l'album di fotografie che avevo preso nella serra. Si girò verso di me e ci guardammo. La luce spettrale della notte illuminò l'intruso per un decimo di secondo. Avrei voluto dirgli qualcosa, ma si era già lanciato dalla finestra. Corsi al davanzale e mi affacciai, convinto di vedere il corpo precipitare nel vuoto. La sagoma sgattaiolava giù per la grondaia a una velocità inverosimile. Il suo mantello nero ondeggiava al vento. Da lì, saltò sui tetti dell'ala est e si districò tra una selva di gargolle e comignoli. Paralizzato, vidi quell'apparizione infernale dileguarsi sotto il temporale con piroette impossibili, come una pantera, come se i tetti di Barcellona fossero la sua giungla. Mi accorsi che la cornice della finestra era impregnata di sangue. Ne seguii le tracce fino in corridoio e mi ci volle qualche secondo per capire che quel sangue non era mio. Avevo ferito un essere umano. Mi appoggiai al muro. Le ginocchia mi tremavano e mi rannicchiai a terra, esausto. Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione. Quando riuscii a rialzarmi, decisi di rifugiarmi nell'unico posto in cui credevo di essere al sicuro.
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Arrivai a casa di Marina e attraversai il giardino a tentoni. Girai attorno all'edificio e raggiunsi l'ingresso di servizio. Una luce calda danzava tra le stecche delle imposte. Mi sentii sollevato. Bussai con le nocche ed entrai. La porta era aperta. Nonostante l'ora tarda, Marina scriveva sul suo quaderno al tavolo di cucina, alla luce delle candele, con Kafka in grembo. Non appena mi vide, la penna le cadde dalle dita. «Mio Dio, Óscar! Cosa...?» esclamò, guardando i miei vestiti sporchi e stracciati, toccandomi i graffi sul viso. «Cosa ti è successo?» Dopo un paio di tazze di tè bollente, riuscii a spiegare a Marina quello che era successo, o meglio, quello che ricordavo, perché cominciavo a dubitare dei miei stessi sensi. Mi ascoltò stringendomi la mano tra le sue per tranquillizzarmi. Dovevo avere un aspetto peggiore di quello che pensavo. «Ti dispiace se dormo qui stanotte? Non sapevo dove andare. E non voglio tornare in collegio.» «E io non te lo permetterei. Puoi stare con noi tutto il tempo che vuoi.» «Grazie.» Lessi nei suoi occhi la stessa preoccupazione che consumava me. Dopo quanto era successo quella notte, la sua casa era sicura quanto il collegio o qualunque altro posto. Quella presenza che ci aveva seguito sapeva bene dove trovarci. «E ora che facciamo, Óscar?» «Potremmo cercare l'ispettore di cui parlava Shelley, Florián, e tentare di scoprire cosa sta succedendo davvero...» Marina sospirò. «Senti, forse è meglio che me ne vada...» azzardai. «Neanche a parlarne. Ti preparo una stanza di sopra, vicino alla mia. Vieni.» «Cosa... Cosa dirà Germán?» 95
«Germán ne sarà entusiasta. Gli diremo che trascorrerai le feste di Natale con noi.» La seguii su per le scale. Non ero mai stato al piano di sopra. La luce del candelabro illuminò un corridoio su cui si affacciavano delle porte di rovere intarsiato. La mia stanza era l'ultima, accanto a quella di Marina. I mobili sembravano oggetti d'antiquariato, ma era tutto lindo e ordinato. «Le lenzuola sono pulite» disse Marina, scoprendo il letto. «Nell'armadio ci sono altre coperte, se per caso hai freddo. E qui ci sono gli asciugamani. Vediamo se ti trovo un pigiama di Germán.» «Mi starà come una tenda da campeggio» scherzai. «Meglio largo che stretto. Torno subito.» Sentii i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio. Lasciai i vestiti su una sedia e scivolai tra le lenzuola pulite e inamidate. Credo di non essermi mai sentito tanto stanco in vita mia. Le palpebre erano diventate due lastre di piombo. Marina tornò con una specie di camicione lungo due metri che sembrava rubato dal corredo di una principessa. «Non se ne parla neanche» protestai. «Io non dormo con quella roba addosso.» «È l'unica cosa che ho trovato. Ti starà a pennello. E poi Germán non mi permette di far dormire in casa ragazzi nudi. Questione di regole.» Mi lanciò il camicione e lasciò qualche candela sul comò. «Se hai bisogno di qualcosa, batti un colpo sulla parete. Io sono dall'altra parte.» Per un attimo ci fissammo in silenzio. Alla fine Marina distolse lo sguardo. «Buona notte, Óscar» sussurrò. «Buona notte.» Mi svegliai in una camera inondata di luce. La stanza dava a est, e la finestra incorniciava un sole splendente che si alzava sulla città. Mentre scendevo dal letto, notai che i vestiti non erano più sulla sedia su cui li avevo appoggiati la notte prima. Capii quello che significava e maledissi tutta quella sollecitudine, convinto che Marina lo avesse fatto apposta. Un aroma di pane caldo e di caffè appena fatto si intrufolava da sotto la porta. 96
Abbandonando ogni speranza di conservare la dignità, mi preparai a scendere in cucina con addosso quel ridicolo camicione. Uscii in corridoio e vidi che tutta la casa era immersa in quella magica luminosità. Sentii le voci dei miei ospiti che chiacchieravano in cucina. Mi armai di coraggio e scesi le scale. Mi fermai sulla porta e mi schiarii la gola. Marina, che stava servendo il caffè a Germán, sollevò gli occhi. «Buongiorno, bella addormentata» disse. Germán si voltò verso di me e si alzò, cortese come sempre, per stringermi la mano e farmi accomodare a tavola. «Buongiorno, amico Óscar!» esclamò con entusiasmo. «È un piacere averla tra noi. Marina mi ha detto dei lavori in collegio. Sappia che può restare qui tutto il tempo che vuole, senza problemi. Questa è casa sua.» «Grazie infinite...» Marina, sorridendo sorniona, mi servì una tazza di caffè indicando il camicione. «Ti sta uno schianto» disse. «Una meraviglia. Sembro la principessa sul pisello. Dove sono i miei vestiti?» «Te li ho lavati e adesso si stanno asciugando.» Germán mi passò un vassoio di croissant appena arrivati dalla pasticceria Foix. Mi venne l'acquolina in bocca solo a guardarli. «Ne provi uno, Óscar» suggerì. «È la Mercedes Benz dei croissant. E non si confonda, questa non è semplice marmellata; è un monumento.» Divorai con avidità tutto quello che mi mettevano davanti con l'appetito di un naufrago. Germán sfogliava distrattamente il giornale. Si notava che era di buon umore e, sebbene avesse già finito di fare colazione, non si alzò da tavola finché non ebbi sbafato tutto e non rimasero che le stoviglie vuote. Poi guardò l'orologio. «Arriverai tardi all'appuntamento con il prete, papà» gli ricordò Marina. Germán annuì con un certo fastidio. «Mi chiedo perché perdo tempo con lui...» disse. «Quella canaglia è un imbroglione matricolato.» «È la sottana» spiegò Marina. «Con quella addosso pensa di poter fare tutto...» 97
Li guardai sconcertato. Non avevo la minima idea di cosa parlassero. «Scacchi» mi spiegò Marina. «Germán e il prete si sfidano da anni.» «Non giochi mai a scacchi con un gesuita, amico Óscar. Mi dia retta. Con permesso...» disse Germán, alzandosi. «Non ci penso proprio. In bocca al lupo.» Germán prese il paltò, il cappello e il bastone d'ebano e si avviò all'appuntamento con il prelato stratega. Non appena uscì, Marina andò in giardino e tornò con i miei vestiti. «Mi spiace doverti dire che Kafka ci ha dormito sopra.» Gli abiti erano asciutti, ma per mandar via l'odore del felino non sarebbero bastati cinque lavaggi. «Stamattina, quando sono andata a comprare i croissant, ho chiamato la questura dal bar della piazza. L'ispettore Victor Florián è in pensione e abita a Vallvidrera. Non ha il telefono, ma mi hanno dato l'indirizzo.» «Mi vesto in un attimo.» La stazione della funicolare di Vallvidrera era poco lontana da casa di Marina. Camminando di buon passo, ci arrivammo in dieci minuti e comprammo due biglietti. Visto dalla stazione, ai piedi della collina, il quartiere di Vallvidrera disegnava una specie di balcone sulla città. Le case sembravano appese alle nuvole con fili invisibili. Ci sedemmo in fondo al vagone a contemplare Barcellona che si stendeva ai nostri piedi mentre la funicolare si inerpicava lentamente. «Questo dev'essere proprio un bel lavoro» dissi. «Autista di funicolari. Ascensorista per il cielo.» Marina mi guardò scettica. «Ho detto qualcosa di male?» chiesi. «Niente. Se questo è tutto ciò a cui aspiri.» «Non so a che cosa aspiro. Non tutti hanno le idee chiare come te. Marina Blau, premio Nobel per la letteratura e conservatrice della collezione di camicioni della famiglia Borbone.» Marina si fece così seria che mi pentii all'istante di aver aperto bocca. «Chi non sa dove è diretto non arriva da nessuna parte» replicò freddamente. 98
Le mostrai il mio biglietto. «Io so dove vado.» Distolse lo sguardo. Salimmo in silenzio per un paio di minuti. La sagoma del mio collegio si stagliava in lontananza. «Architetto» sussurrai. «Cosa?» «Voglio diventare architetto. Questa è la mia aspirazione. Non l'avevo mai detto a nessuno.» Finalmente mi sorrise. La funicolare stava arrivando in cima alla collina e sussultava come una vecchia lavatrice. «Ho sempre desiderato avere una cattedrale tutta mia» disse Marina. «Qualche suggerimento?» «Gotica, per esempio. Dammi un po' di tempo e te la costruisco.» Il sole le illuminò il viso, e gli occhi, fissi su di me, le brillarono. «Me lo prometti?» chiese, tendendomi la mano aperta. Gliela strinsi con forza. «Te lo prometto.» L'indirizzo che Marina si era procurato corrispondeva a una vecchia casa che era praticamente sul bordo dell'abisso. Le erbacce del giardino se ne erano impossessate. Una cassetta della posta arrugginita svettava tra i cespugli come un residuo dell'era industriale. Ci intrufolammo fino alla porta di casa. Qua e là si intravedevano scatoloni colmi di vecchi giornali legati con lo spago. La pittura della facciata, corrosa dal vento e dall'umidità, si staccava dal muro come pelle secca. L'ispettore Victor Florián non si svenava in spese di rappresentanza. «Qui sì che c'è bisogno di un architetto» disse Marina. «O di un'impresa di demolizioni...» Bussai alla porta delicatamente. Temevo che dei colpi più energici avrebbero fatto rotolare la casa giù per la collina. «E se provassi con il campanello?» Il pulsante era rotto e i cavi che spuntavano dal quadro elettrico risalivano all'epoca di Edison. 99
«Io non lo tocco» risposi, bussando di nuovo. D'improvviso la porta si aprì di una decina di centimetri. Una catena di sicurezza brillò davanti a un paio di occhi dai riflessi metallici. «Chi è?» «Victor Florián?» «Quello sono io. Ma ho chiesto chi è.» Il tono di voce era autoritario e impaziente. Una voce abituata a impartire ordini. «Abbiamo delle informazioni su Michail Kolvenik. ..» rispose Marina a mo' di presentazione. La porta si spalancò. Victor Florián era un uomo tarchiato e muscoloso. Indossava lo stesso vestito del giorno in cui era andato in pensione, o almeno così pensai. Aveva l'espressione di un vecchio Colonnello ormai privo di guerre e di battaglioni da comandare. Stringeva tra le labbra un sigaro spento e aveva più peli in un solo sopracciglio che la maggior parte della gente su tutta la testa. «Cosa sapete di Kolvenik? Chi siete? Chi vi ha dato questo indirizzo?» Florián non faceva domande, le mitragliava. Ci fece entrare dopo aver dato qualche occhiata intorno, come se temesse che qualcuno ci avesse seguito. L'interno della casa era un porcile e puzzava di retrobottega. C'erano più fogli di carta che nella biblioteca di Alessandria, ma tutti sparsi, messi in ordine da un ventilatore. «Andiamo sul retro.» Passammo davanti a una stanza con le pareti tappezzate di armi. Revolver, pistole automatiche, mauser, baionette... Erano state fatte rivoluzioni con molta meno artiglieria. «Madonna santa...» mormorai. «Silenzio, questa non è mica una cappella» tagliò corto Florián, chiudendo la porta di quell'arsenale. Il retro a cui alludeva era una piccola sala da pranzo da cui si vedeva tutta Barcellona. Anche in pensione, l'ispettore continuava a sorvegliare la città dall'alto. Ci indicò un divano pieno di buchi. Sul tavolo c'erano un barattolo di fagioli lasciato a metà e una bottiglia di birra Estrella Dorada; nessun bicchiere. "Pensione da poliziotto, vecchiaia da barbone" pensai. Florián si accomodò su una sedia di fronte al divano e prese una sveglia da 100
quattro soldi. La piazzò con un colpo secco sul tavolo, rivolta verso di noi. «Quindici minuti. Se in un quarto d'ora non mi avete detto niente che già non sappia vi caccio a calci.» Ci volle molto più di un quarto d'ora per raccontargli tutto quello che era successo. Via via che ascoltava la nostra storia, la facciata da duro di Victor Florián si sgretolava. Tra le crepe intravidi l'uomo stanco e spaventato che si rifugiava in quella tana con i suoi giornali vecchi e la sua collezione di pistole. Al termine del nostro racconto Florián prese il suo sigaro e, dopo averlo esaminato in silenzio per quasi un minuto, lo accese. Poi, con lo sguardo perso nel miraggio della città avvolta dalla bruma, cominciò a parlare.
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«Nel 1945 ero ispettore della polizia giudiziaria di Barcellona» iniziò Florián. «Pensavo di chiedere il trasferimento a Madrid quando mi fu assegnato il caso della Velo-Granell. Da circa tre anni la giudiziaria stava indagando su Michail Kolvenik, uno straniero che godeva di scarse simpatie negli ambienti del regime, ma non era riuscita a trovare nessuna prova. Il mio predecessore aveva rinunciato all'incarico. La Velo-Granell era protetta da un muro di avvocati e da un labirinto di società finanziarie che servivano a confondere le acque. I miei superiori me la vendettero come un'occasione unica per fare carriera. Casi come quello, mi dissero, ti portavano dritto a un ufficio al ministero, con l'autista e un orario da pascià. L'ambizione è una cattiva consigliera...» Florián fece una pausa, assaporando l'effetto delle sue parole e sorridendo sarcastico fra sé. Mordicchiava il sigaro come fosse un bastoncino di liquirizia. «Quando studiai la pratica» proseguì «mi accorsi che quella che era iniziata come un'indagine di routine su una serie di irregolarità finanziarie e su una probabile frode aveva finito per diventare una faccenda che non si sapeva bene a quale reparto affidare. Estorsione. Furto. Tentato omicidio... E c'era dell'altro... Rendetevi conto che, all'epoca, avevo una certa esperienza solo nell'ambito della malversazione di fondi, dell'evasione fiscale, della frode e della concussione... Non che quelle irregolarità fossero sempre punite, erano altri tempi, ma sapevamo tutto.» Florián scomparve dietro una nuvola di fumo azzurrino, turbato. «Perché accettò il caso, allora?» chiese Marina. «Per arroganza. Per ambizione e per avidità» rispose Florián, utilizzando per sé il tono che, immaginai, riservava ai peggiori criminali. «Magari anche per scoprire la verità» azzardai. «Per fare giustizia...» Florián mi sorrise tristemente. In quello sguardo si potevano intravedere trent'anni di rimorsi. «Alla fine del 1945 la Velo-Granell era già tecnicamente in bancarotta» 102
proseguì. «Le tre maggiori banche di Barcellona le avevano chiuso le linee di credito, e le azioni della compagnia erano state ritirate dalla Borsa. Venuta meno la base finanziaria, la muraglia legale e la rete di società fantasma crollò come un castello di carte. I giorni di gloria erano finiti. Il Gran Teatro Real, rimasto chiuso dal giorno della tragedia che aveva sfigurato Eva Irinova, era un ammasso di rovine. La fabbrica e i laboratori furono chiusi. Le proprietà dell'impresa pignorate. Le voci si diffondevano come una cancrena. Kolvenik, senza perdere il sangue freddo, decise di organizzare uno sfarzoso cocktail alla Borsa di Barcellona per fornire all'esterno un'immagine di calma e normalità. Il socio, Sentís, era in preda al panico. Non c'erano soldi nemmeno per pagare la decima parte del cibo ordinato per la serata. Furono spediti inviti a tutti i grandi azionisti, alle famiglie più in vista di Barcellona... La sera della festa pioveva a catinelle. La Borsa era agghindata come un palazzo delle favole. A partire dalle nove, i membri della servitù delle principali fortune della città, molte delle quali si dovevano a Kolvenik, portarono biglietti di scuse. Quando arrivai sul posto, a mezzanotte passata, trovai Kolvenik, tutto solo nel grande salone, che sfoggiava un impeccabile frac e fumava una sigaretta, di quelle che si faceva arrivare da Vienna. Mi salutò e mi offrì una coppa di champagne. "Mangi qualcosa, ispettore, è un peccato sprecare tutto questo bendidio" mi disse. Non ci eravamo mai trovati faccia a faccia. Conversammo per un'ora. Mi parlò dei libri che aveva letto da adolescente, dei viaggi che non aveva mai potuto fare... Kolvenik era un uomo carismatico. L'intelligenza gli ardeva negli occhi. Per quanto mi sforzassi di evitarlo, mi fu simpatico. Di più: mi fece pena, anche se io dovevo essere il cacciatore e lui la preda. Notai che zoppicava e si appoggiava a un bastone d'avorio intarsiato. "Credo che nessuno abbia mai perso tanti amici in un giorno solo" gli dissi. Mi sorrise e respinse tranquillo la mia idea. "Si sbaglia, ispettore. In occasioni come queste non si invitano gli amici." Mi chiese molto cortesemente se intendevo perseguitarlo ancora. Gli risposi che mi sarei fermato solo quando sarei riuscito a portarlo davanti a un giudice. Ricordo che mi chiese: "Che posso fare per dissuaderla da tale proposito, caro Florián?". "Uccidermi" risposi. "Ogni cosa a suo tempo, ispettore" mi disse sorridendo. E si allontanò zoppicando. Non lo rividi mai più... Ma sono ancora vivo. Kolvenik non ha messo in pratica la sua ultima minaccia.» Florián fece una pausa e bevve un goccio d'acqua, assaporandolo come se fosse l'ultimo della sua vita. Si leccò le labbra e riprese a raccontare. 103
«Da quel giorno Kolvenik, isolato e abbandonato da tutti, visse rinchiuso con la moglie nel grottesco torrione che si era fatto costruire. Negli anni successivi nessuno lo rivide più. Solo due persone avevano accesso a lui. Il suo vecchio autista, un certo Luis Claret, un poveraccio che adorava Kolvenik e si era rifiutato di abbandonarlo anche quando non poteva più pagargli lo stipendio; e il suo medico personale, il dottor Shelley, pure lui coinvolto nelle nostre indagini. Nessun altro lo vedeva. Shelley ci assicurava che Kolvenik si trovava nella sua villa del Parque Güell, colpito da una malattia che non seppe spiegarci. Ma la sua testimonianza non ci convinceva per niente, soprattutto dopo aver dato un'occhiata agli archivi e alla contabilità dell'impresa. Per qualche tempo pensammo addirittura che Kolvenik fosse morto o fuggito all'estero, e che la sua reclusione fosse una farsa. Shelley continuava a sostenere che Kolvenik aveva contratto una strana malattia che lo teneva confinato in casa. Non poteva ricevere visite né uscire dal suo rifugio per nessun motivo; questo era il suo responso. Né noi né il giudice gli credevamo. L'ultimo giorno del 1948 ottenemmo un mandato di perquisizione domiciliare e un mandato di cattura per Kolvenik. Gran parte dei documenti riservati dell'impresa era scomparsa. Sospettavamo che li nascondesse a casa sua. Avevamo già accumulato abbastanza indizi per accusare Kolvenik di frode ed evasione fiscale. Non aveva senso aspettare ancora. Il 31 dicembre del 1948 sarebbe stato il suo ultimo giorno di libertà. Una squadra speciale era pronta a fare irruzione nella villa la mattina dopo. A volte, i grandi criminali bisogna rassegnarsi a incastrarli per qualche inezia...» Il sigaro di Florián si era spento di nuovo. L'ispettore gli diede un'ultima occhiata e lo lasciò cadere in un vaso vuoto. Dentro c'erano altri resti di sigaro, in una specie di fossa comune per mozziconi. «Quella notte stessa un incendio spaventoso distrusse il palazzo e mise fine alla vita di Kolvenik e della moglie Eva. All'alba i loro corpi carbonizzati furono trovati abbracciati in soffitta... Le nostre speranze di chiudere il caso bruciarono insieme a loro. Non ho mai dubitato che l'incendio fosse doloso. In un primo momento pensai che dietro ci fossero Benjamin Sentís e altri membri del Consiglio d'amministrazione dell'azienda.» «Sentís?» lo interruppi. «Non era un mistero che Sentís detestava Kolvenik per avergli soffiato il controllo dell'impresa del padre, ma sia lui sia gli altri avevano tutto l'in104
teresse a evitare che il caso arrivasse in tribunale. Morto il cane, niente più rabbia. Senza Kolvenik il puzzle non aveva più senso. Si potrebbe dire che, quella notte, molte mani sporche di sangue vennero lavate con il fuoco. Ma, come era sempre successo fin dall'inizio in quello scandalo, non fu possibile provare niente. Tutto finì in cenere. Ancor oggi il caso della Velo-Granell resta il più grande enigma nella storia della polizia di Barcellona. E il più grande fallimento della mia vita...» «L'incendio però non fu colpa sua» intervenni. «Ma la mia carriera andò in fumo. Mi assegnarono alla brigata antisovversione. Sapete cos'è? I cacciatori di fantasmi. Li chiamavano così, al dipartimento. Avrei voluto dare le dimissioni, ma erano tempi duri e con lo stipendio mantenevo mio fratello e la sua famiglia. E poi, nessuno avrebbe assunto un ex poliziotto. La gente era stufa di spie e confidenti. Così rimasi. Il mio nuovo lavoro consisteva nell'irrompere a mezzanotte in squallide pensioni frequentate da anziani e mutilati di guerra alla ricerca di qualche copia del Capitale o di volantini socialisti nascosti dentro lo scarico del cesso in sacchetti di plastica, o roba del genere... All'inizio del 1949 pensavo di aver toccato il fondo. Tutto quello che poteva andare male era finito peggio. Almeno così credevo. All'alba del 13 dicembre 1949, a quasi un anno dall'incendio in cui erano morti Kolvenik e la moglie, davanti al vecchio magazzino della Velo-Granell, nel Borne, vennero ritrovati i cadaveri fatti a pezzi di due ispettori della mia vecchia squadra. Erano arrivati lì indagando su una soffiata anonima. Invece era una trappola. Una morte così non l'auguro neanche al mio peggiore nemico. Nemmeno le ruote di un treno riducono un corpo in quello stato. Li ho visti all'obitorio... Erano due bravi poliziotti. Armati. Sapevano quello che facevano. Secondo il rapporto, molti abitanti del quartiere sentirono gli spari. Nella zona del delitto furono trovati quattordici bossoli di nove millimetri, tutti provenienti dalle armi in dotazione agli ispettori. Sui muri nemmeno un foro o un proiettile.» «Come se lo spiega?» chiese Marina. «Non me lo spiego. È semplicemente impossibile. Ma è successo... Io stesso ho visto i bossoli e ho ispezionato la zona.» Io e Marina ci scambiammo un'occhiata. «Non è possibile che gli spari fossero diretti contro un oggetto, per esempio un'automobile o una carrozza, che è stato colpito e poi è scomparso senza lasciare traccia?» chiese Marina. 105
«La tua amica sarebbe una brava poliziotta. È l'ipotesi che facemmo all'epoca, anche se non c'erano prove. Ma proiettili di quel calibro tendono a rimbalzare sulle superfici metalliche e lasciano sempre tracce o, comunque, i segni di un impatto. Non si trovò nulla.» «Qualche giorno dopo vidi Sentís al funerale dei miei colleghi» proseguì Florián. «Era sconvolto, con l'aria di chi non chiude occhio da diverse notti. I suoi vestiti erano sporchi e puzzava di alcol. Mi confessò che non aveva il coraggio di tornare a casa e vagava da giorni in città, dormendo dove capitava. "La mia vita non vale più niente, Florián" mi disse. "Sono un uomo morto." Gli offrii la protezione della polizia. Si mise a ridere. Gli proposi addirittura di rifugiarsi a casa mia. Rifiutò. "Non voglio avere la sua morte sulla coscienza, Florián" disse, prima di sparire tra la folla. Nei mesi seguenti tutti i vecchi membri del Consiglio di amministrazione della Velo-Granell morirono, apparentemente per cause naturali. Arresto cardiaco fu il responso medico per tutti i casi. Le circostanze della morte erano simili. In camera da letto, da soli, sempre verso mezzanotte, sempre trascinandosi sul pavimento... per sfuggire a una morte che non lasciava tracce. Tutti tranne Benjamin Sentís. Non ci siamo sentiti per trent'anni, fino a qualche settimana fa.» «Poco prima della sua morte...» precisai. Florián annuì. «Telefonò al commissariato e chiese di me. Disse di avere delle informazioni sugli omicidi davanti alla fabbrica e sul caso della Velo-Granell. Lo richiamai e ci parlai. Pensavo che delirasse, ma accettai di fissargli un appuntamento. Per compassione. Rimanemmo d'accordo di vederci il giorno dopo in un'osteria di calle Princesa. Sentís non si presentò. Due giorni dopo un vecchio amico del commissariato mi avvertì che il suo cadavere era stato ritrovato in un tunnel abbandonato della rete fognaria della Ciutat Velia. Le mani artificiali create per lui da Kolvenik gli erano state amputate. Ma questo c'era sui giornali, invece non è stato reso noto che la polizia ha scoperto una parola scritta con il sangue sulle pareti del tunnel: Teufel.» «Teufel?» «È tedesco» disse Marina. «Significa "diavolo".» «È anche il nome del simbolo di Kolvenik» ci svelò Florián. 106
«La farfalla nera?» Mosse il capo in senso affermativo. «Perché si chiama così?» chiese Marina. «Non sono un entomologo. So solo che Kolvenik le collezionava.» Era quasi mezzogiorno e Florián ci invitò a mangiare qualcosa in un bar vicino alla stazione. Non vedevamo l'ora di uscire da quella casa. A quanto pareva, il proprietario del bar era un amico di Florián e ci fece accomodare a un tavolino appartato vicino alla finestra. «Visita dei nipoti, capo?» gli chiese sorridendo. Lui annuì senza perdersi in troppe spiegazioni. Un cameriere ci servì tortilla e bruschette; portò anche un pacchetto di Ducados per l'ex poliziotto. Mentre assaporava l'ottimo cibo del bar, Florián riprese il suo racconto. «Quando iniziai a indagare sulla Velo-Granell, scoprii che il passato di Michail Kolvenik non era limpido... A Praga non figurava nei registri dell'anagrafe. Forse Michail non era il suo vero nome.» «Chi era allora?» chiesi. «Me lo chiedo da trent'anni. In realtà, quando mi misi in contatto con la polizia di Praga, venni a sapere che un Michail Kolvenik esisteva, ma era un ospite della WolfterHaus.» «E che cos'è?» chiesi. «Il manicomio comunale. Ma non credo che Kolvenik ci sia mai stato. Ha solo adottato il nome di un ricoverato. Kolvenik non era pazzo.» «Perché avrebbe assunto l'identità di un paziente del manicomio?» chiese Marina. «All'epoca non era una cosa strana» spiegò Florián. «In tempo di guerra cambiare identità può significare rinascere, lasciarsi alle spalle un passato indesiderabile. Voi siete molto giovani e non sapete cos'è una guerra. Le persone si conoscono davvero solo dopo aver vissuto una guerra...» «Kolvenik aveva qualcosa da nascondere?» domandai. «Se la polizia di Praga aveva informazioni sul suo conto, doveva esserci una ragione...» «Semplice coincidenza di cognomi. Burocrazia. Credetemi, so di cosa parlo» disse Florián. «Supponendo che il Kolvenik dei loro archivi fosse il 107
nostro Kolvenik, aveva lasciato poche tracce. Il suo nome compariva nell'indagine sulla morte di un chirurgo di Praga, un certo Antonin Kolvenik. Il caso fu chiuso e la morte venne attribuita a cause naturali.» «Allora perché rinchiusero quel Michail Kolvenik in manicomio?» insistette Marina. Florián esitò qualche secondo, come se non avesse il coraggio di rispondere. «Si sospettava che avesse fatto qualcosa con il cadavere...» «Qualcosa?» «La polizia di Praga non chiarì che cosa» ribatté seccamente Florián, accendendosi un'altra sigaretta. Sprofondammo in un lungo silenzio. «Cosa ci dice del racconto del dottor Shelley? Sul fratello gemello di Kolvenik, la malattia degenerativa e...» «Questa è la versione che gli diede Kolvenik. Quell'uomo mentiva con la stessa facilità con cui respirava. E Shelley aveva ottime ragioni per credergli senza fare domande» disse Florián. «Kolvenik finanziava il suo centro medico e le sue ricerche fino all'ultimo centesimo. In pratica, Shelley era uno dei dipendenti della Velo-Granell. Un tirapiedi...» «Quindi il fratello gemello di Kolvenik era l'ennesima invenzione?» domandai sbalordito. «La sua esistenza giustificherebbe l'ossessione di Kolvenik per gli esseri deformi e...» «Non credo che il fratello fosse un'invenzione» mi interruppe Florián. «E allora?» «Credo che il bambino di cui parlava fosse, in realtà, lui stesso.» «Ancora una domanda, ispettore...» «Non sono più ispettore, figlia mia...» «Victor, allora. Si chiama sempre Victor, vero?» Per la prima volta vidi sorridere Florián in modo aperto, disteso. «Qual è la domanda?» «Lei ha detto che indagando sui reati di frode della Velo-Granell avevate scoperto altro...» «Sì. All'inizio pensammo al più classico dei sotterfugi: fatturare spese e pagamenti inesistenti per evadere le tasse, donazioni a ospedali, a centri di 108
accoglienza per indigenti eccetera. Finché a uno dei miei uomini parve strano che un certo tipo di fatture, tutte con l'approvazione e la firma del dottor Shelley, fossero emesse dal servizio necroscopico di diversi ospedali di Barcellona. Insomma, dagli obitori» chiarì l'ex poliziotto. «Le morgues.» «Kolvenik vendeva cadaveri?» azzardò Marina. «No. Li comprava. A decine. Barboni. Persone senza famiglia né conoscenti. Suicidi, annegati, anziani abbandonati... I dimenticati della città.» In sottofondo si sentiva il brusio di una radio, come un'eco della nostra conversazione. «E cosa ci faceva con quei cadaveri?» «Nessuno lo sa» rispose Florián. «Non ne abbiamo mai trovato neanche uno.» «Ma lei ha un'idea al riguardo, non è vero?» incalzò Marina. Florián ci fissò in silenzio. «No.» Per essere un poliziotto, anche se in pensione, mentire non gli riusciva bene. Marina non insistette. L'ispettore aveva l'aria stanca, consumato dalle ombre che popolavano i suoi ricordi. Tutta la sua ferocia era andata in pezzi. La sigaretta accesa gli si consumava fra le dita tremanti. «Riguardo alla serra di cui mi avete parlato... Non tornateci. Dimenticatevi di questa faccenda. Scordatevi quell'album di fotografie, la tomba anonima e la donna che va a visitarla. Dimenticatevi di Sentís, di Shelley e del sottoscritto, un povero vecchio che non sa più niente. Questa faccenda ha già distrutto troppe vite. Lasciate perdere.» Fece segno al cameriere di mettergli sul conto le consumazioni e concluse: «Promettete di darmi retta». Mi chiesi come avremmo potuto lasciar perdere quella faccenda se era proprio lei a rincorrerci. Dopo quello che era successo la notte prima, i suoi consigli mi sembravano solo una specie di favola. «Ci proveremo» rispose Marina a nome di tutti e due. «La strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni» ribatté Florián. 109
L'ispettore ci accompagnò alla stazione della funicolare e ci diede il telefono del bar. «Qui mi conoscono. Di qualunque cosa abbiate bisogno, chiamatemi e mi faranno avere il messaggio. A qualsiasi ora del giorno o della notte. Manu, il proprietario, soffre di insonnia cronica e passa le notti ad ascoltare la Bbc, così magari impara l'inglese, perciò non disturberete...» «Non so come ringraziarla...» «Ringraziatemi dandomi retta e restando fuori da questo casino» tagliò corto Florián. Annuimmo. La funicolare aprì le porte. «E lei, Victor?» chiese Marina. «Che farà?» «Quello che fanno tutti gli anziani: ricordare e domandarmi cosa sarebbe successo se avessi fatto il contrario di quello che ho fatto. Su, andate adesso...» Entrammo nel vagone e ci sedemmo accanto al finestrino. Era quasi buio. Si sentì un fischio e le porte si chiusero. La funicolare iniziò la discesa con uno scossone. A poco a poco ci lasciammo alle spalle le luci di Vallvidrera e la sagoma di Florián, immobile sulla banchina. Germán aveva preparato un delizioso piatto italiano il cui nome sembrava quello di un'opera lirica. Cenammo in cucina, mentre ci raccontava della partita a scacchi con il prete che, come al solito, lo aveva battuto. Marina rimase stranamente in silenzio, lasciando a Germán e a me l'onere della conversazione. Mi chiesi perfino se avessi detto o fatto qualcosa che l'aveva infastidita. Dopo cena Germán mi sfidò a scacchi. «Mi piacerebbe molto, ma credo che mi tocchi lavare i piatti» mi scusai. «Li lavo io» mormorò Marina alle mie spalle. «No, sul serio...» obiettai. Germán era già nell'altra stanza, canticchiava e schierava i pezzi sulla scacchiera. Mi voltai verso Marina, che evitò il mio sguardo e cominciò a rigovernare. «Lascia che ti aiuti...» «No... Vai da Germán. Accontentalo.» «Allora, Óscar... Viene?» dal salotto mi arrivò la voce di Germán. 110
Osservai Marina alla luce delle candele accese su una mensola. Mi sembrò pallida, stanca. «Ti senti bene?» Si voltò e mi sorrise. Marina aveva un modo di sorridere che mi faceva sentire piccolo e insignificante. «Su, vai. E lascialo vincere.» «Niente di più facile.» La lasciai sola e raggiunsi il padre in salotto. Mi sedetti davanti alla scacchiera, illuminata dal candelabro di quarzo, pronto a farlo divertire per un po', come Marina desiderava. «Tocca a lei, Óscar.» Mossi un pedone. Lui si schiarì la voce. «Le ricordo che i pedoni non saltano in questo modo, Óscar.» «Mi scusi.» «Non si preoccupi. È la foga della gioventù. Non creda, gliela invidio molto. La giovinezza è una fidanzata capricciosa. La comprendiamo e l'apprezziamo solo quando ci lascia per un altro e non torna più... Ah!... Insomma, non so cosa c'entrava... Vediamo... Pedone...» A mezzanotte un rumore improvviso mi strappò a un sogno. La casa era in penombra. Mi misi a sedere sul letto e lo sentii ancora. Colpi di tosse, soffocati e lontani. Inquieto, mi alzai e uscii in corridoio. Il rumore proveniva dal piano di sotto. Passai davanti alla stanza di Marina. La porta era aperta e il letto vuoto. Sentii una fitta di paura. «Marina?» Nessuna risposta. Discesi i freddi gradini in punta di piedi. Gli occhi di Kafka brillavano in fondo alle scale. Il gatto miagolò piano e mi guidò per un corridoio scuro. In fondo, un filo di luce filtrava da una porta chiusa. La tosse veniva da dentro. Dolorosa. Agonizzante. Kafka si avvicinò alla porta e si fermò, miagolando. Chiamai sottovoce. «Marina?» Un lungo silenzio. «Vattene, Óscar.» La sua voce era un gemito. Lasciai passare qualche istante e aprii la porta. Una candela sul pavimento rischiarava a stento le piastrelle bianche del bagno. Marina era in ginocchio, con la fronte appoggiata al lavandino. Tremava tutta e la camicia da notte, impregnata di sudore, le aderiva al 111
corpo come un sudario. Si nascose il viso, ma riuscii a vedere che perdeva sangue dal naso e che varie macchie scarlatte le coprivano il petto. Restai paralizzato, incapace di reagire. «Cosa ti succede...?» mormorai. «Chiudi la porta» disse con fermezza. «Chiudi.» Feci quello che mi ordinava e mi avvicinai. Bruciava di febbre. I capelli incollati al viso, madido di sudore. Spaventato, mi alzai per chiamare Germán, ma la mano di Marina mi afferrò con una forza insospettata. «No!» «Ma...» «Sto bene.» «Non stai bene!» «Óscar, per quello che hai di più caro, non chiamare Germán. Lui non può farci niente. Mi sta già passando. Adesso sto meglio.» Il tono sereno della sua voce mi sembrò raccapricciante. I suoi occhi cercarono i miei. Qualcosa in quello sguardo mi costrinse a ubbidirle. A quel punto mi accarezzò il viso. «Non preoccuparti. Sto meglio.» «Sei pallida come un cadavere» balbettai. Mi prese la mano e se la portò al petto. Sentii il battito del suo cuore sotto le costole. Ritrassi la mano, senza sapere bene che fare. «Viva e vegeta, hai visto? Devi giurarmi che non dirai niente a Germán.» «Perché?» protestai. «Che hai?» Abbassò lo sguardo, vinta da un'immensa stanchezza. Tacqui. «Giuramelo.» «Devi andare da un medico.» «Giuramelo, Óscar.» «Se mi prometti di andare da un medico.» «Affare fatto. Te lo prometto.» Inumidì un asciugamano e cominciò a pulirsi il sangue dal viso. Io mi sentivo inutile. «Adesso che mi hai visto in questo stato non ti piacerò più.» 112
«Non mi fai ridere.» Continuò a pulirsi in silenzio, senza togliermi gli occhi di dosso. Il suo corpo, prigioniero della tela umida, quasi trasparente, mi parve fragile e delicato. Mi sorprese non provare imbarazzo a guardarla così. E neanche lei sembrava imbarazzata per la mia presenza. Le tremavano le mani mentre si asciugava il sudore e si ripuliva dal sangue. Appeso alla porta, trovai un accappatoio pulito e glielo allungai. Se lo mise sulle spalle e sospirò, esausta. «Cosa posso fare?» «Resta qui con me.» Si sedette davanti allo specchio. Con una spazzola cercò inutilmente di sciogliere il groviglio di capelli che le cadevano sulle spalle. Le mancavano le forze. «Lascia fare a me» e le tolsi la spazzola dalle mani. La pettinai in silenzio, mentre i nostri sguardi si incontravano nello specchio. Marina mi strinse forte la mano e se la premette contro una guancia. Le sue lacrime mi bagnarono le dita e mi mancò il coraggio di chiederle perché piangeva. Accompagnai Marina nella sua stanza e l'aiutai a mettersi a letto. Non tremava più e sulle guance era ricomparso un po' di colore. «Grazie...» sussurrò. Pensai che la cosa migliore fosse lasciarla riposare e tornai nella mia stanza. Mi rimisi a letto e tentai inutilmente di riconciliare il sonno. Me ne stetti lì, al buio, inquieto, ad ascoltare gli scricchiolii di quella grande casa mentre il vento graffiava le chiome degli alberi. Ero divorato da un'ansia cieca. Stavano succedendo troppe cose, e troppo in fretta. Il mio cervello non riusciva ad assimilarle tutte insieme. Nell'oscurità della notte tutto sembrava confondersi. Ma quello che più mi spaventava era non riuscire a capire o a spiegare a me stesso i miei sentimenti per Marina. Spuntava l'alba quando finalmente mi addormentai. In sogno mi ritrovai ad attraversare le stanze di un palazzo di marmo bianco, deserto e immerso nell'oscurità. Era popolato da centinaia di statue che aprivano i loro occhi di pietra al mio passaggio e sussurravano parole che non capivo. Allora, in lontananza, mi sembrò di scorgere Marina e le 113
corsi incontro. Una silhouette di luce bianca a forma di angelo la teneva per mano lungo un corridoio dalle pareti insanguinate. Cercavo di raggiungerli quando una porta del corridoio si spalancò e ne uscì Maria Shelley, che fluttuava nell'aria trascinando un sudario consunto. Piangeva, ma le sue lacrime non toccavano terra. Tese le braccia verso di me, ma quando mi sfiorò il suo corpo si dissolse in cenere. Io urlavo il nome di Marina, scongiurandola di tornare indietro, però lei non mi sentiva. Correvo e correvo, ma sembrava che il corridoio si allungasse a ogni mio passo. Allora l'angelo di luce si voltò verso di me e mi rivelò il suo vero volto. Gli occhi erano due cavità vuote e i capelli serpenti bianchi. Rideva in modo crudele. L'angelo infernale dispiegò le sue bianche ali su Marina, poi se ne andò. Nel sogno avvertii una specie di fiato fetido che mi sfiorava la nuca. Era l'inconfondibile tanfo della morte, che sussurrava il mio nome. Mi voltai e vidi una farfalla nera posarsi sulla mia spalla.
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Mi svegliai senza fiato. Mi sentivo più stanco di quando ero andato a letto. Le tempie mi pulsavano come se avessi bevuto due caraffe di caffè. Non sapevo che ora fosse ma, a giudicare dal sole, doveva essere più o meno mezzogiorno. Le lancette della sveglia confermarono la mia diagnosi. La mezza. Mi affrettai a scendere, ma la casa era deserta. La colazione, ormai fredda, mi aspettava sul tavolo della cucina, insieme a un biglietto. Óscar, siamo dovuti andare dal medico. Rimarremo fuori tutto il giorno. Non dimenticarti di dar da mangiare a Kafka. Ci vediamo all'ora di cena. MARINA Rilessi il biglietto e ne studiai la calligrafia mentre divoravo la colazione. Kafka si degnò di comparire qualche minuto dopo e gli servii una tazzona di latte. Non sapevo che fare, quel giorno. Decisi di andare in collegio per prendere qualche indumento di ricambio e avvisare doña Paula di non preoccuparsi di pulire la mia stanza perché avrei trascorso le vacanze in famiglia. La passeggiata fino al collegio mi fece bene. Entrai dalla porta principale e mi diressi verso l'appartamento di doña Paula, al terzo piano. Doña Paula era una brava donna che aveva sempre un sorriso per gli studenti. Era vedova da trent'anni e a dieta da dio sa quanti. «Il fatto è che, di costituzione, tendo a ingrassare» diceva sempre. Non aveva avuto figli e ancora adesso, a quasi sessantacinque anni, si mangiava con gli occhi i neonati in carrozzina che incontrava quando andava al mercato. Abitava da sola e la sua unica compagnia erano due canarini e un immenso televisore Zenit che non spegneva se non quando l'inno nazionale e i ritratti dei membri della famiglia reale la spedivano a letto. Aveva le mani rovinate dalla candeggina. Le vene delle sue caviglie gonfie facevano male solo a guardarle. Gli unici lussi che si consentiva erano una visita dal parrucchie115
re ogni due settimane e la rivista "Hola". Le piaceva da morire leggere i pettegolezzi sulla vita delle principesse e ammirare gli abiti delle stelle dello spettacolo. Quando bussai alla porta doña Paula stava guardando la replica pomeridiana di una commedia musicale con Joselito, L'usignolo dei Pirenei. Per accompagnare la visione, si stava preparando una razione di tostadas traboccanti di latte condensato e cannella. «Buona sera, doña Paula. Scusi il disturbo.» «Óscar, figlio mio, ma quale disturbo? Entra, entra...» Sullo schermo, Joselito cantava un'allegra canzoncina a una capretta, sotto lo sguardo benevolo e rapito di due poliziotti della Guardia Civil. Accanto al televisore una collezione di immaginette della Vergine Maria si disputava il posto d'onore nella vetrinetta con i vecchi ritratti del marito Rodolfo, tutto brillantina e fiammante uniforme della Falange. Nonostante la devozione al defunto marito, doña Paula adorava la democrazia perché, come diceva lei, adesso la tele era a colori e bisognava stare al passo con i tempi. «Che spavento l'altra sera, eh? Al telegiornale c'era il terremoto in Colombia, guarda, non so, mi ha fatto una paura...» «Non si preoccupi, doña Paula, la Colombia è molto lontana.» «Non dico di no, ma siccome anche lì parlano spagnolo, non so, metti che...» «Stia tranquilla, non c'è pericolo. Volevo dirle di non preoccuparsi per la mia stanza. Passerò il Natale in famiglia.» «Ah, Óscar, che bello!» Doña Paula, in un certo senso, mi aveva visto crescere ed era convinta che tutto quello che facevo era fantastico. «Tu sì che hai talento» diceva sempre, anche se non spiegava mai bene per cosa. Volle a tutti i costi farmi bere un bicchiere di latte e assaggiare qualche biscotto preparato da lei. La accontentai, anche se non avevo appetito. Mi trattenni ancora un po', guardando il film in televisione e annuendo a ogni suo commento. La brava donna non smetteva un istante di parlare quando aveva compagnia, cioè quasi mai. «Era proprio bello da ragazzino, eh?» e indicava il candido Joselito. «Sì, doña Paula, adesso però devo lasciarla...» La salutai con un bacio sulla guancia e me ne andai. Salii un attimo nel116
la mia stanza dove presi in tutta fretta qualche camicia, un paio di pantaloni e della biancheria intima, gettandoli alla rinfusa in una sacca senza fermarmi un solo secondo più del necessario. Prima di uscire, passai in segreteria e ripetei la storia delle feste in famiglia con aria imperturbabile. Lasciai il collegio augurandomi che fosse tutto così facile come mentire. Cenammo in silenzio nel salone dei quadri. Germán se ne stava sulle sue, perso nei propri pensieri. A volte i nostri sguardi si incrociavano e lui mi sorrideva, per pura cortesia. Marina rigirava il cucchiaio nel piatto di minestra, senza mai portarselo alle labbra. La conversazione si riduceva al tintinnio delle posate sul fondo dei piatti e al crepitio delle candele. Non ci voleva molto a immaginare che il medico non aveva dato buone notizie sulla salute di Germán. Decisi di non fare domande su quello che sembrava evidente. Dopo cena Germán si scusò e si ritirò in camera sua. Mi sembrò più vecchio e più stanco che mai. Da quando lo conoscevo era la prima volta che lo vedevo ignorare i ritratti della moglie Kirsten. Non appena ebbe lasciato la stanza, Marina scostò il suo piatto, intatto, e sospirò. «Non hai mangiato niente.» «Non ho fame.» «Brutte notizie?» «Parliamo d'altro, d'accordo?» rispose in tono secco, quasi ostile. La sua risposta tagliente mi fece sentire un estraneo in casa d'altri. Era come se avesse voluto ricordarmi che loro non erano la mia famiglia, che quella non era la mia casa e che i loro problemi non erano i miei, per quanto mi sforzassi di coltivare quell'illusione. «Mi dispiace» mormorò dopo un po', allungando la mano verso di me. «Non importa» mentii. Mi alzai per portare i piatti in cucina. Lei rimase seduta in silenzio ad accarezzare Kafka, che le miagolava in grembo. Ci misi più tempo del necessario. Lavai piatti e posate finché non sentii più le mani sotto l'acqua fredda. Quando tornai in salotto, Marina era già salita in camera sua. Aveva lasciato due candele accese per me. Il resto della casa era immerso nel buio e nel silenzio. Soffiai sulle candele e uscii in giardino. Nere nubi si allungavano lentamente in cielo. Un vento gelido agitava il bosco. Mi voltai e vidi che la finestra di Marina era illuminata. La immaginai sdraiata sul 117
letto. Un attimo dopo la luce si spense. La grande casa si ergeva come una tenebrosa rovina, proprio come mi era apparsa il primo giorno. Considerai la possibilità di andare anch'io a letto, ma avvertivo un inizio d'ansia e sospettavo una lunga notte di insonnia. Decisi di fare due passi per schiarirmi le idee o, quanto meno, affaticare un po' il corpo. Avevo fatto soltanto pochi metri quando cominciò a piovigginare. Era una notte uggiosa e non c'era nessuno per strada. Infilai le mani in tasca e continuai a camminare. Vagabondai per quasi due ore. Ma né il freddo né la pioggia mi concessero la stanchezza tanto desiderata. Mi frullava un'idea per la testa e più cercavo di ignorarla più si faceva insistente. I miei passi mi condussero al cimitero di Sarriá. La pioggia sferzava i volti di pietra annerita e le croci inclinate. Oltre il cancello si intravedeva una teoria di figure spettrali. La terra umida puzzava di fiori marci. Appoggiai la testa fra le sbarre. Il metallo era freddo. Un rivolo di ruggine mi colò sul viso. Scrutai le tenebre, come se sperassi di trovare in quel luogo la spiegazione di tutto quello che stava succedendo. Non riuscii a vedere altro che morte e desolazione. Che ci facevo lì? Se avevo ancora un po' di sale in zucca, dovevo tornare a casa a dormire per almeno cento ore filate. Era, probabilmente, la migliore idea che avessi avuto negli ultimi tre mesi. Mi girai e cominciai a percorrere a ritroso il vialetto di cipressi. In lontananza un lampione brillava sotto la pioggia. D'un tratto una sagoma scura eclissò il suo alone luminoso. Sentii uno scalpiccio di zoccoli sul selciato e scorsi una carrozza nera che avanzava fendendo la cortina d'acqua. Il fiato di due cavalli corvini si condensava in spettri di vapore. L'anacronistica figura di un cocchiere troneggiava a cassetta. Cercai un nascondiglio sul ciglio della strada, ma trovai solo dei muri spogli. Sentii la terra vibrarmi sotto i piedi. Mi restava una sola alternativa: tornare indietro. Zuppo e quasi senza fiato, mi arrampicai sulla cancellata e saltai all'interno del camposanto.
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Atterrai su un letto di fango che si disfaceva sotto l'acquazzone. Rigagnoli d'acqua sporca trascinavano fiori secchi scorrendo fra le lapidi. Mani e piedi sprofondarono in quella melma. Mi rialzai e corsi a nascondermi dietro un busto di marmo che sollevava le braccia al cielo. La carrozza si era fermata davanti al cancello. Il cocchiere scese. Reggeva in mano una lanterna e indossava un mantello che gli arrivava fino ai piedi. Un cappello a larghe falde e una sciarpa lo proteggevano dalla pioggia e dal freddo, coprendogli il volto. Riconobbi la carrozza. Era la stessa che aveva portato via la dama in nero quella mattina alla stazione Francia. Su uno sportello campeggiava il simbolo della farfalla nera. Drappi di velluto scuro coprivano i finestrini. Mi chiesi se lei era lì, nella vettura. Il cocchiere si avvicinò alla cancellata e si mise in ascolto, guardando all'interno del cimitero. Mi appiattii contro la statua, immobile. Poi sentii il tintinnio di un mazzo di chiavi. Lo scatto metallico di un lucchetto. Imprecai tra me e me. L'inferriata cigolò. Passi nel fango. Il cocchiere si stava avvicinando al mio nascondiglio. Dovevo andarmene al più presto. Mi girai per scrutare il cimitero alle mie spalle. Il velo di nubi nere si squarciò. La luna disegnò un sentiero di luce spettrale. Per un attimo la distesa di tombe scintillò nelle tenebre. Arretrai sgusciando tra le lapidi fino a un mausoleo sigillato da pesanti porte di vetro e ferro battuto. Il cocchiere era sempre più vicino. Trattenni il fiato e mi immersi nell'oscurità. Passò a meno di due metri da me, tenendo la lanterna in alto. Mi superò e tirai un sospiro di sollievo. Lo vidi allontanarsi verso il cuore del cimitero e seppi immediatamente dove stava andando. Era una follia, ma lo seguii. Avanzai nascondendomi dietro le lapidi fino al settore nord del cimitero, poi mi arrampicai su una piattaforma dalla quale si dominava tutta la zona. Un paio di metri più in basso brillava la lanterna del cocchiere, appoggiata sulla tomba anonima. La pioggia colava sulla farfalla incisa nella pietra, come se sanguinasse. Scorsi la sagoma del cocchiere che si chinava sulla tomba. Estrasse da sotto il mantello un oggetto allungato, una sbarra di metallo, e si mise ad armeggiare. Deglutii quando capii cosa stava cercando di fare. Voleva scoperchiare la tomba. 119
Avrei voluto scappare a gambe levate, ma non potevo muovermi. Facendo leva con la spranga, riuscì a spostare la pietra tombale di qualche centimetro. Quel pozzo d'oscurità si schiuse a poco a poco, finché la lapide di marmo cadde di lato e si spezzò in due. Sentii la terra sotto i miei piedi vibrare per l'impatto. Il cocchiere afferrò la lanterna e illuminò la fossa, profonda un paio di metri. Un ascensore per l'inferno. Sul fondo luccicava la superficie di una bara nera. L'uomo alzò lo sguardo al cielo e, d'un tratto, saltò dentro la tomba. Sparì in un istante, come se la terra lo avesse inghiottito. Sentii dei colpi e il rumore del legno vecchio che andava in pezzi. Saltai giù. Avanzando nel fango, mi avvicinai millimetro dopo millimetro al bordo della fossa. Mi affacciai. La pioggia si abbatteva all'interno della tomba e il fondo si stava allagando. Il cocchiere era sempre lì. In quel momento stava forzando il coperchio della bara, che cedette su un lato con grande fracasso. Il legno marcio e la stoffa logora rimasero esposti alle intemperie. La bara era vuota. L'uomo la osservò immobile. Lo sentii mormorare qualcosa. Capii che era il momento di scappare a gambe levate. Mentre stavo per farlo, urtai un sasso che precipitò nella fossa e colpì la bara. In un decimo di secondo, il cocchiere si voltò verso di me. Nella mano destra impugnava una pistola. Mi misi a correre come un disperato verso l'uscita, schivando lapidi e statue. Sentii il cocchiere gridare alle mie spalle, mentre risaliva dalla fossa. Intravidi il cancello d'ingresso e la carrozza ferma lì fuori. Corsi senza fiato in quella direzione. I passi del cocchiere erano sempre più vicini. Capii che, in campo aperto, mi avrebbe raggiunto in pochi secondi. Pensai all'arma che aveva in mano e mi guardai disperatamente in giro alla ricerca di un nascondiglio. Gli occhi si fermarono sull'unica alternativa possibile. Supplicai tutti i santi del paradiso che al cocchiere non venisse in mente di cercarmi proprio lì: nel bagagliaio sul retro della carrozza. Saltai sul pianale e mi ci infilai. Qualche secondo dopo sentii i passi veloci dell'uomo risuonare nel vialetto di cipressi. Immaginai quello che stava vedendo: un sentiero deserto sotto la pioggia. I passi del cocchiere si fermarono. Girarono attorno alla carrozza. Temetti di aver lasciato impronte che rivelassero la mia presenza. Avvertii il peso del suo corpo che montava a cassetta. Rimasi immobile. I cavalli nitrirono. L'attesa mi sembrò interminabile. Allora sentii lo schiocco della frusta, e il contraccolpo mi scaraventò sul fondo del baule. Ci muovevamo. 120
Il tramestio iniziale si trasformò ben presto in una vibrazione secca e brusca che mi martellava i muscoli pietrificati dal freddo. Tentai di affacciarmi dal bagagliaio, ma gli scossoni mi rendevano quasi impossibile sostenermi al bordo. Ci lasciavamo alle spalle Sarriá. Valutai le probabilità di rompermi l'osso del collo se avessi cercato di saltare dalla carrozza in corsa. Scartai l'idea. Mi sentivo troppo debole per tentare altri atti eroici e, in fondo in fondo, morivo dalla curiosità di sapere dove eravamo diretti, perciò mi arresi alle circostanze. Mi stesi come potei a riposare sul fondo del baule. Pensai che sarebbe stato meglio recuperare un po' di forze: ben presto mi sarebbero servite. Il tragitto mi parve infinito. La mia prospettiva da valigia non aiutava e mi sembrò di avere percorso chilometri e chilometri sotto la pioggia. I muscoli mi si stavano anchilosando sotto i vestiti fradici. Avevamo lasciato i viali più trafficati. Adesso percorrevamo strade deserte. Riuscii a rialzarmi e a sollevarmi fino all'apertura per dare un'occhiata fuori. Vidi strade strette e scure come fenditure nella roccia. Lampioni e facciate gotiche nella nebbia. Mi lasciai ricadere sul fondo del bagagliaio, sconcertato. Eravamo nella città vecchia, in qualche punto del Raval. Nell'aria aleggiava un tanfo di fogna, come la scia di un acquitrino. Girovagammo per il cuore di tenebra di Barcellona una buona mezz'ora prima di fermarci. Sentii il cocchiere smontare. Qualche secondo dopo, il rumore di una saracinesca. La carrozza avanzò a trotto lento ed entrammo in quella che, dall'odore, immaginai fosse una vecchia scuderia. La saracinesca si richiuse. Non mi mossi. Il cocchiere sganciò i cavalli e sussurrò loro qualche parola che non riuscii a decifrare. Una striscia di luce filtrava dall'apertura del bagagliaio. Sentii scorrere dell'acqua e poi dei passi sulla paglia. Alla fine la luce si spense e il cocchiere si allontanò. Aspettai un paio di minuti, finché mi arrivò solo il respiro dei cavalli. Scivolai fuori. La scuderia era immersa in una penombra azzurrina. A passi felpati mi diressi verso una porta laterale e sbucai in un garage buio dal soffitto alto con travi di legno. Sul fondo si disegnava il contorno di una porta che pareva un'uscita di emergenza. Mi accorsi che la serratura si apriva solo dall'interno. Abbassai la maniglia con cautela e sbucai finalmente in strada. Mi ritrovai in un vicolo oscuro del Raval. Era talmente stretto che ba121
stava allargare le braccia per toccare i muri sui due lati. Un rigagnolo fetido scorreva al centro del selciato. Percorsi una decina di metri verso una strada più ampia, illuminata dal vaporoso chiarore di lampioni che dovevano essere più che centenari. Riconobbi la saracinesca della scuderia sulla fiancata del palazzo, una struttura grigia e squallida. Sull'architrave del portone era incisa la data di costruzione: 1888. Solo allora, da quella prospettiva, mi accorsi che si trattava del corpo laterale di un edificio più grande che occupava l'intero isolato. Era un imponente palazzo circondato da una barriera di impalcature e teloni sporchi che lo coprivano del tutto. Al suo interno si sarebbe potuta nascondere una cattedrale. Mi sforzai, inutilmente, di capire cosa fosse. Non mi venne in mente nessuna struttura di quel tipo in quella zona del Raval. Mi avvicinai e diedi un'occhiata dalle fessure tra i pannelli di legno che ricoprivano i ponteggi. Una grande pensilina in stile liberty era immersa nell'oscurità. Riuscii a vedere delle Colonne e una fila di finestrelle con intricate decorazioni in ferro battuto. Biglietterie. Poco più in là, gli archi dell'ingresso principale mi ricordarono i porticati di un castello delle fiabe. Il tutto era ricoperto da strati di macerie, umidità e abbandono. D'improvviso capii dove mi trovavo: era il Gran Teatro Real, il sontuoso monumento che Michail Kolvenik aveva fatto ristrutturare per la moglie Eva, le cui scene, tuttavia la donna non era mai riuscita a calcare. Adesso si ergeva come una colossale catacomba in rovina. Un figlio bastardo dell'Opera di Parigi e del tempio della Sagrada Familia, in attesa soltanto di essere demolito. Ritornai all'edificio contiguo che ospitava le scuderie. Nel portone di legno era ritagliata una porticina che ricordava l'entrata di un convento. O di una prigione. Era aperta. La spinsi e mi intrufolai nell'androne. Un cavedio spettrale saliva verso una veranda con i vetri rotti. Una ragnatela di corde da cui pendevano vecchi stracci si agitava al vento. C'era odore di miseria, di fogna e di malattia. Dalle pareti trasudava l'acqua sporca dei tubi scoppiati. Il pavimento era pieno di pozzanghere. Mi avvicinai a un blocco di cassette delle lettere arrugginite. Perlopiù erano vuote, mezze rotte e prive di nome. Solo una sembrava ancora in uso. Sotto lo strato di sporcizia, si riusciva a leggere: Luis Claret i Mila, 3° 122
Quel nome mi era familiare, anche se non sapevo bene perché. Mi domandai se non fosse quello del cocchiere. Me lo ripetei in testa più volte, cercando di ricordare dove l'avevo sentito. All'improvviso, un lampo nella memoria. L'ispettore Florián ci aveva detto che, negli ultimi tempi, solo due persone erano ammesse alla presenza di Kolvenik e della moglie nel torrione del Parque Güell: il medico personale e un autista che si era rifiutato di abbandonare il padrone, Luis Claret. Mi tastai le tasche alla ricerca del numero di telefono che Florián ci aveva dato nel caso avessimo avuto bisogno di metterci in contatto con lui. Mi sembrava di averlo trovato quando sentii dei passi e delle voci in cima alle scale. Scappai. Una volta in strada, corsi a nascondermi dietro l'angolo del vicolo. Poco dopo una sagoma sbucò dal portone e si mise a camminare sotto la pioggia. Era di nuovo il cocchiere, Claret. Aspettai che sparisse e seguii l'eco dei suoi passi.
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Sulle tracce di Claret, mi trasformai in un'ombra tra le ombre. Lo squallore e la miseria del quartiere si potevano respirare nell'aria. Claret camminava a lunghe falcate per strade in cui non ero mai stato. Riuscii a orientarmi solo quando svoltò a un incrocio e riconobbi calle Conde del Asalto. Sbucato sulle Ramblas, Claret girò a sinistra verso Plaza de Cataluña. Solo pochi nottambuli percorrevano il viale. Le edicole illuminate sembravano navi arenate. All'altezza del Liceo, Claret passò sul marciapiede opposto e si fermò davanti al portone del palazzo in cui abitavano il dottor Shelley e Maria. Prima che entrasse, lo vidi estrarre da sotto il mantello un oggetto luccicante. La pistola. La facciata del palazzo era una maschera di fregi e gargolle che sputavano fiumi d'acqua cenciosa. Una spada di luce dorata filtrava da una finestra d'angolo. Lo studio del dottor Shelley. Immaginai il vecchio dottore nella sua poltrona da invalido, incapace di conciliare il sonno. Corsi verso il portone. Era chiuso. Claret lo aveva bloccato dall'interno. Esaminai la facciata in cerca di un altro ingresso. Girai attorno all'edificio. Sul retro, una scaletta antincendio conduceva a un cornicione che circondava l'intero palazzo. Era come una passerella di pietra verso i balconi della facciata principale. Da lì alla veranda dello studio di Shelley c'erano soltanto pochi metri. Mi inerpicai sulla scala e raggiunsi il cornicione. A quel punto studiai di nuovo il percorso. Il cornicione era largo non più di due spanne. Ai miei piedi si spalancava un abisso. Respirai a fondo e appoggiai un piede sulla sporgenza. Appiccicandomi al muro, avanzai centimetro dopo centimetro. La superficie era scivolosa. Alcuni blocchi di pietra si muovevano sotto i miei piedi. Ebbi la sensazione che il cornicione si stringesse ai ogni passo e che il muro alle mie spalle si inclinasse in avanti. Era punteggiato da figure di fauni. Infilai la mano nel ghigno satanico di uno di quei volti scolpiti, temendo che le sue fauci potessero chiudersi e tranciarmi le dita. Usandole come appigli, raggiunsi la balaustra in ferro battuto che delimitava la veranda dello studio di Shelley. 124
Riuscii a scavalcarla e mi piazzai davanti alla porta-finestra. I vetri erano appannati. Avvicinai il viso e sbirciai dentro. La finestra non era chiusa dall'interno. La spinsi delicatamente e riuscii a socchiuderla. Una folata di aria calda, impregnata dell'odore di legna bruciata del caminetto, mi raggiunse in faccia. Il dottore era seduto sulla sua poltrona davanti al fuoco, come se non si fosse mai mosso da lì. Alle sue spalle le porte dello studio si aprirono. Claret. Ero arrivato troppo tardi. «Non hai mantenuto il tuo giuramento» esclamò Claret. Era la prima volta che sentivo chiaramente la sua voce. Grave, stanca. Identica a quella di un giardiniere del collegio, Daniel, ferito alla laringe da un proiettile durante la guerra. I medici gli avevano ricostruito la gola, ma il pover'uomo aveva dovuto aspettare dieci anni prima di poter parlare di nuovo. Quando lo faceva, il suono che gli usciva dalle labbra era come la voce di Claret. «Avevi detto di aver distrutto l'ultimo flacone...» affermò Claret, avvicinandosi a Shelley. L'altro non si prese nemmeno la briga di voltarsi. Vidi la pistola di Claret sollevarsi e prendere di mira il medico. «Ti sbagli su di me» disse Shelley. Claret girò attorno al vecchio e gli si piazzò davanti. Shelley sollevò lo sguardo. Se aveva paura, non lo dimostrava. Claret gli puntò l'arma alla testa. «Tu menti. Dovrei ucciderti subito...» disse Claret, strascicando ogni sillaba come se gli facesse male. Appoggiò la canna della pistola in mezzo alla fronte di Shelley. «Spara. Mi fai un favore» disse calmo il medico. Io deglutii. Claret bloccò il percussore. «Dov'è?» «Non qui.» «E dove, allora?» «Lo sai bene» rispose Shelley. Sentii Claret sospirare. Abbattuto, allontanò la pistola e lasciò cadere il braccio. «Siamo tutti condannati» disse Shelley. «È solo questione di tempo... 125
Non l'hai mai capito, e adesso meno che mai.» «Chi non riesco a capire sei tu» disse Claret. «Io affronterò la morte con la coscienza tranquilla.» Shelley rise amaro. «Alla morte non importano le coscienze, Claret.» «A me sì.» D'improvviso Maria Shelley comparve sulla porta. «Papà, stai bene?» «Sì, Maria. Torna a letto. È solo il mio amico Claret, e sta per andarsene.» Maria esitò. Claret la fissava con insistenza e, per un attimo, mi sembrò che ci fosse qualcosa di indefinibile nel gioco dei loro sguardi. «Su, fa' quello che ti dico.» «Sì, papà.» Maria se ne andò. Shelley fissò di nuovo il fuoco. «Tu occupati della tua coscienza. Io ho una figlia di cui occuparmi. Torna a casa. Non puoi farci niente. Nessuno può farci niente. Hai visto che fine ha fatto Sentís.» «Sentís ha fatto la fine che meritava» sentenziò Claret. «Non vorrai mica andare a cercarlo?» «Io non volto le spalle agli amici.» «Però loro le hanno voltate a te.» Claret si diresse verso l'uscita, ma si fermò non appena sentì la voce supplicante di Shelley. «Aspetta...» Il vecchio raggiunse un armadio vicino alla scrivania. Si tastò il collo cercando una catenella da cui pendeva una piccola chiave, con cui aprì l'armadio. Prese qualcosa da un ripiano e lo diede a Claret. «Prendile» gli ordinò. «Io non ho il coraggio di usarle. E nemmeno la fede.» Aguzzai la vista per capire cosa stesse tendendo a Claret. Era un astuccio; sembrava contenere delle capsule argentate. Pallottole. Claret le prese e le esaminò attentamente. I suoi occhi si imbatterono in quelli di Shelley. «Grazie» mormorò. Il medico scosse il capo in silenzio, come se non volesse essere ringra126
ziato. Vidi Claret svuotare il tamburo della pistola e caricarlo con i proiettili che gli aveva dato Shelley, il quale lo osservava nervoso, stropicciandosi le mani. «Non andare...» lo supplicò Shelley. L'altro richiuse il tamburo e lo fece ruotare. «Non ho scelta» ribatté mentre si avviava verso l'uscita. Appena lo vidi sparire, tornai sul cornicione. La pioggia adesso cadeva meno fitta. Mi affrettai per non perdere le sue tracce. Ridiscesi la scaletta antincendio e feci velocemente il giro del palazzo, giusto in tempo per vedere Claret che scendeva lungo le Ramblas. Accelerai il passo e accorciai le distanze. Svoltò verso Plaza San Jaime all'altezza di calle Fernando. Intravidi un telefono pubblico sotto i portici di Plaza Real. Sapevo che avrei dovuto avvertire quanto prima l'ispettore Florián e raccontargli quello che stava succedendo, ma fermarmi avrebbe significato perdere Claret. Quando si addentrò nel Barrio Gótico, io gli stavo alle calcagna. Ben presto, la sua sagoma si dileguò sotto i ponti tesi tra i palazzi. Archi impossibili proiettavano sui muri le loro ombre inquiete. Eravamo arrivati nel cuore incantato di Barcellona, nel labirinto degli spiriti, dove le strade avevano nomi leggendari e i folletti del tempo camminavano alle nostre spalle.
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Seguii Claret fino a una stradina nascosta dietro la cattedrale. All'angolo c'era un negozio di maschere. Mi avvicinai alla vetrina e avvertii su di me lo sguardo vuoto di quei volti di carta. Mi sporsi per dare un'occhiata. Claret si era fermato a una ventina di metri, vicino a un tombino di accesso alla rete fognaria, e stava armeggiando con il pesante coperchio di metallo. Quando riuscì a spostarlo s'inabissò in quel buco. Soltanto allora mi avvicinai. Sentii i suoi passi che scendevano per la scaletta di ferro e vidi il riflesso di un raggio di luce. Avanzai verso l'imboccatura del tombino e guardai di sotto. Da quel pozzo saliva una corrente di aria stantia. Rimasi lì fino a quando i passi di Claret non si sentirono più e le tenebre divorarono il bagliore della lanterna che aveva in mano. Era il momento di telefonare all'ispettore Florián. Intravidi le luci di un'osteria che chiudeva molto tardi o, forse, apriva molto presto. Il locale era una specie di cella che puzzava di vino e occupava il seminterrato di un edificio vecchio almeno tre secoli. L'oste, un tipo acido dagli occhietti sospettosi, sfoggiava quello che mi sembrò un berretto militare. Aggrottò la fronte e mi guardò schifato. La parete alle sue spalle era addobbata con stendardi della División Azul, cartoline del Valle de los Caídos e un ritratto di Mussolini. «Smamma» sbottò. «Apriamo alle cinque.» «Voglio solo telefonare. È un'emergenza.» «Torna alle cinque.» «Se potessi tornare alle cinque, non sarebbe un'emergenza. .. Per favore. Devo chiamare la polizia.» L'oste mi squadrò dalla testa ai piedi e finalmente mi indicò un vecchio telefono a muro. «Aspetta che ti do la linea. Ce li hai i soldi per pagare?» «Certo» mentii. La cornetta era sporca e appiccicosa. Accanto al telefono c'era un piatto di vetro colmo di scatolette di cerini con il nome del locale e un'aquila im128
periale. Cantina Valor, diceva. Approfittai del momento in cui l'oste mi dava le spalle per attivare il contascatti e mi riempii le tasche di scatole di cerini. Quando si voltò gli sorrisi con candida innocenza. Composi il numero che mi aveva dato Florián e aspettai a lungo la risposta. Cominciavo a temere che l'amico insonne dell'ispettore si fosse addormentato sotto il fuoco dei bollettini della Bbc quando qualcuno sollevò il ricevitore all'altro capo del filo. «Buona sera, mi scusi se la disturbo a quest'ora» dissi. «Ho urgente bisogno di parlare con l'ispettore Florián. È un'emergenza. Mi ha dato lui questo numero in caso...» «Chi lo desidera?» «Óscar Drai.» «Óscar che?» Dovetti compitare pazientemente il mio cognome. «Un attimo. Non so se Florián è a casa. Non vedo luci. Può aspettare?» Guardai il proprietario del bar che asciugava bicchieri a ritmo marziale sotto lo sguardo fiero del duce. «Sì» azzardai. L'attesa si fece interminabile. L'oste non mi toglieva gli occhi di dosso, come se fossi un criminale èva-* so. Provai a sorridergli. Non fece una piega. «Mi potrebbe preparare un caffellatte?» chiesi. «Sono congelato.» «Non prima delle cinque.» «Mi può dire che ora è, per favore?» indagai. «Manca ancora molto alle cinque» rispose. «Sicuro di aver chiamato la polizia?» «La Benemerita, per l'esattezza» improvvisai. Finalmente, sentii la voce di Florián. Sembrava sveglio e allerta. «Dove sei, Óscar?» Gli raccontai l'essenziale nel più breve tempo possibile. Quando gli accennai al tombino e alle fogne, lo sentii nervoso. «Ascoltami bene, Óscar. Voglio che mi aspetti lì e che non ti muovi finché non arrivo. Prendo subito un taxi. Se succede qualcosa mettiti a corre129
re. Non ti fermare fino alla questura di Via Layetana. Lì chiedi di Mendoza. Mi conosce e ti puoi fidare. Qualunque cosa succeda, mi hai capito?, qualunque cosa succeda, non scendere nelle fogne. È chiaro?» «Come il sole.» «Arrivo tra un minuto.» La telefonata si interruppe. «Sono sessanta pesetas» sentenziò immediatamente l'oste alle mie spalle. «Tariffa notturna.» «La pago alle cinque, generale» risposi calmissimo. Le borse sotto gli occhi si tinsero di rosso vino. «Ti spacco la faccia, poppante» mi minacciò, furioso. Mi precipitai fuori dal locale senza dargli il tempo di uscire da dietro il bancone con il suo manganello d'ordinanza antisommossa. Avrei aspettato Florián all'angolo, davanti al negozio di maschere. Non poteva tardare molto, mi dissi. Le campane della cattedrale suonarono le quattro. I primi sintomi di stanchezza cominciavano ad assalirmi come lupi affamati. Per combattere il freddo e il sonno mi misi a camminare in circolo. Poco dopo sentii dei passi sul selciato. Mi voltai per andare incontro a Florián, ma la figura che si stava avvicinando non combaciava con quella del vecchio poliziotto. Era una donna. Istintivamente mi nascosi, temendo che la dama in nero si fosse messa sulle mie tracce. L'ombra si proiettò sul selciato e la donna mi passò davanti senza vedermi. Era Maria, la figlia del dottor Shelley. Si avvicinò al tombino e si sporse sull'orlo dell'abisso. In mano aveva una boccetta di vetro. Il suo viso brillava al chiarore della luna, trasfigurato. Sorrideva. Capii subito che qualcosa non quadrava. Pensai perfino che fosse come in trance e che fosse arrivata lì come una sonnambula. Era l'unica spiegazione che mi veniva in mente. Preferivo quell'ipotesi assurda piuttosto che contemplare altre alternative. Pensai di avvicinarmi, di chiamarla per nome, di fare una cosa qualunque. Mi armai di coraggio e avanzai di qualche passo. Maria si voltò con una rapidità e un'agilità da felino, come se avesse annusato la mia presenza nell'aria. I suoi occhi lampeggiarono nel vicolo, e la smorfia che le si disegnò sul volto mi fece gelare il sangue. «Vattene» mormorò con una voce irriconoscibile. 130
«Maria?» balbettai sconcertato. Un attimo dopo saltò giù nel tunnel. Corsi verso il bordo del tombino, aspettandomi di vedere il corpo a pezzi di Maria Shelley. Un raggio di luna rischiarò fugacemente il pozzo, e il volto di Maria brillò sul fondo. «Maria» urlai. «Aspetti!» Scesi in fretta e furia la scaletta. Un fetore penetrante mi assalì dopo appena un paio di metri. Via via che avanzavo la sfera di chiarore in superficie diventava sempre più piccola. Cercai in tasca una scatoletta di cerini e ne accesi uno. Davanti a me si dischiuse un'immagine spettrale. Una galleria circolare si perdeva nell'oscurità. Umidità e marciume. Squittii di ratti. E l'eco infinita del labirinto di tunnel sotto la città. Su una parete, una targa ricoperta di sporcizia diceva: SGAB/1881 Collettore Settore IV/ Livello 2 - Tratto 66 La parete opposta era crollata e il terriccio aveva ostruito parte del collettore. Si distinguevano i diversi strati di antichi livelli della città, uno sopra l'altro. Contemplai i cadaveri di quelle vecchie Barcellone sulle quali si ergeva la nuova città. Era lo scenario in cui Sentís aveva trovato la morte. Accesi un altro cerino. Trattenni i conati di vomito che mi risalivano in gola e seguii per qualche metro le impronte. «Maria?» La mia voce si trasformò in un rimbombo spettrale che mi raggelò il sangue nelle vene. Decisi di stare zitto. Una miriade di puntini rossi si agitavano come insetti sopra uno stagno. Topi. La fiamma dei cerini che accendevo in continuazione li teneva a prudente distanza. Stavo riflettendo se continuare ad avanzare nella galleria quando sentii una voce in lontananza. Guardai per l'ultima volta verso l'imboccatura del tombino. Nessuna traccia di Florián. Sentii di nuovo quella voce. Sospirai e mi addentrai nelle tenebre. Il tunnel lungo il quale camminavo mi faceva pensare all'intestino di un 131
animale. Il pavimento era ricoperto da un ruscello di acque fecali. Avanzavo soltanto alla luce dei cerini. Ne accendevo uno dopo l'altro, impedendo all'oscurità di avvolgermi completamente. Via via che mi addentravo nel labirinto, l'olfatto si abituava al puzzo di fogna. Notai che anche la temperatura saliva. Un'umidità vischiosa mi si era appiccicata alla pelle, ai vestiti e ai capelli. Qualche metro più avanti scorsi una croce rozzamente dipinta di rosso che luccicava su un muro. Altre croci simili marcavano le pareti. Mi sembrò di scorgere qualcosa che brillava per terra. Mi inginocchiai per vedere meglio: una fotografia. La riconobbi subito. Era uno dei ritratti dell'album che avevamo trovato nella serra. C'erano altre fotografie sparse per terra. Venivano tutte dallo stesso raccoglitore. Alcune erano state strappate. Venti passi dopo trovai l'album, praticamente a pezzi. Lo raccolsi e ne sfogliai le pagine vuote. Sembrava che qualcuno vi avesse cercato qualcosa e, non trovandolo, lo avesse stracciato con rabbia. Ero davanti a un bivio, una specie di camera di distribuzione, un raccordo di condutture. Alzai gli occhi: proprio sopra di me c'era l'imbocco di un altro condotto fognario. Mi parve di scorgere una grata. Avvicinai il cerino, ma una zaffata di aria melmosa esalata da uno dei collettori spense la fiamma. In quel momento sentii qualcosa di gelatinoso che si muoveva lentamente rasentando i muri. Un brivido di paura mi corse lungo la schiena. Cercai un altro cerino nell'oscurità e provai ad accenderlo a tentoni, ma non ci riuscii. Stavolta ne ero sicuro: qualcosa si muoveva nei tunnel, qualcosa di vivo che non erano topi. Mi sentii soffocare. Il fetore mi sferzò brutalmente le narici. Finalmente riuscii ad accendere un cerino. All'inizio la fiamma mi accecò. Poi vidi qualcosa che strisciava verso di me. Da tutti i tunnel. Sagome confuse avanzavano come ragni lungo i condotti. Il cerino mi cadde dalle dita tremanti. Avrei voluto mettermi a correre, ma avevo i muscoli bloccati. All'improvviso un raggio di luce fendette l'oscurità, catturando la fugace visione di un braccio che si allungava verso di me. «Óscar!» L'ispettore Florián correva nella mia direzione. Con una mano reggeva una pila. Con l'altra una pistola. Appena mi raggiunse, scandagliò tutti gli angoli con il fascio di luce. Sentivamo il rumore raggelante di quelle sagome che si ritraevano, fuggendo dalla luce. Florián teneva la pistola sol132
levata. «Cos'era?» Avrei voluto rispondere, ma la voce mi si spezzò in gola. «Mi spieghi cosa diavolo ci fai qui sotto?» «Maria...» balbettai. «Cosa?» «Mentre l'aspettavo, ho visto Maria Shelley sparire nelle fogne e...» «La figlia di Shelley?» chiese Florián, sconcertato. «Qui?» «Sì.» «E Claret?» «Non lo so. Ho seguito delle impronte...» Florián ispezionò le pareti che ci circondavano. Alla fine di una galleria c'era una saracinesca di ferro tutta arrugginita. Corrugò la fronte e si mosse lentamente in quella direzione. Io mi incollai a lui. «È in questi tunnel che hanno trovato Sentís?» Florián annuì in silenzio, indicando l'estremità opposta del tunnel. «Questa rete di collettori arriva fino al vecchio mercato del Borne. Sentís è stato trovato lì, ma c'erano tracce che il corpo era stato trascinato.» «È lì la vecchia fabbrica della Velo-Granell, vero?» Florián annuì di nuovo. «Crede che qualcuno utilizzi questi corridoi sotterranei per muoversi sotto la città, dalla fabbrica a...?» «Tieni, reggi la pila» mi interruppe Florián. «E questa.» "Questa" era la pistola. La tenni in mano mentre lui forzava la saracinesca. Il revolver pesava più di quanto avessi immaginato. Appoggiai il dito sul grilletto e la osservai alla luce. Florián mi lanciò un'occhiata assassina. «Attento, non è un giocattolo. Continua a fare lo stupido e prima o poi un proiettile ti spacca la testa come un melone.» La saracinesca cedette. Il fetore che ne uscì era indescrivibile. Facemmo qualche passo indietro, cercando di resistere alla nausea. «Cosa diavolo c'è lì dentro?» esclamò Florián. Tirò fuori un fazzoletto e si tappò il naso e la bocca. Gli tesi l'arma e 133
sollevai la pila. Florián abbatté la saracinesca con un calcio. Puntai la luce verso l'interno. L'aria era così spessa che non si vedeva quasi niente. Florián armò il percussore e avanzò sulla soglia. «Resta lì» mi ordinò. Ignorai le sue parole e lo raggiunsi. «Santo Dio!...» esclamò. Sentii che mi mancava l'aria. Era impossibile accettare lo spettacolo che si offriva ai nostri occhi. Imprigionati nelle tenebre, decine di corpi inerti e incompleti pendevano da ganci arrugginiti. Su due grandi tavoli giacevano, nel caos più totale, strani attrezzi: congegni di metallo, ingranaggi e meccanismi di legno e acciaio. Una collezione di contenitori era allineata in una teca di vetro. Più in là vidi un set di siringhe ipodermiche e una parete tappezzata di strumenti chirurgici sporchi e anneriti. «Che razza di roba è?» mormorò, teso, Florián. Una figura di legno e di pelle, di metallo e di osso, giaceva su un tavolo come un macabro giocattolo non ancora finito. Rappresentava un bambino con occhi rotondi da rettile e una lingua bifida che spuntava fra le labbra nere. Sulla fronte, marchiato a fuoco, si vedeva chiaramente il simbolo della farfalla. «È il suo laboratorio... È qui che li crea...» mi scappò a voce alta. E allora gli occhi dell'infernale pupazzo si mossero. Girò la testa. Le sue viscere facevano il rumore di un orologio che viene caricato. Sentii le sue pupille da serpente posarsi sulle mie, mentre si passava sulle labbra la lingua bifida. Ci stava sorridendo. «Usciamo di qui» gridò Florián. «Subito!» Ritornammo nella galleria dopo aver chiuso la saracinesca alle nostre spalle. Florián ansimava. non riuscivo nemmeno a fiatare. Mi prese la pila dalle mani tremanti e ispezionò il tunnel. Una goccia attraversò il fascio di luce. Poi un'altra. E un'altra ancora. Gocce brillanti di un rosso scarlatto. Sangue. Ci guardammo in silenzio. Qualcosa gocciolava dal soffitto. Florián mi fece segno di indietreggiare e puntò in alto il fascio di luce. Vidi suo volto impallidire e la sua mano salda scossa da un tremito. «Scappa» fu tutto quel che riuscì a dirmi. «Vattene via di qui!» 134
Sollevò la pistola dopo avermi lanciato un ultimo sguardo. Vi lessi dapprima il terrore e poi la rara certezza della morte. Schiuse le labbra per aggiungere qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì più alcun suono. Una sagoma scura si avventò su di lui e lo colpì prima che potesse muovere un muscolo. Risuonò uno sparo, una detonazione assordante che rimbalzò sul muro. La pila cadde in un rivolo d'acqua. Il corpo di Florián fu scagliato contro la parete con tale violenza che aprì uno squarcio a forma di croce sulle piastrelle annerite. Ebbi la certezza che era morto ancora prima che scivolasse lungo la parete e si accasciasse a terra, inerte. Mi misi a correre, cercando disperatamente la via del ritorno. Un urlo bestiale invase i tunnel. Mi voltai. Una dozzina di quegli esseri avanzava da ogni direzione. Corsi come non avevo mai corso in vita mia, inciampando, inseguito dall'ululato di quella muta invisibile. Non riuscivo a schiodarmi dalla testa l'immagine del corpo di Florián incrostato nella parete. Avevo quasi raggiunto l'uscita quando una delle sagome mi scavalcò d'un balzo, sbarrandomi l'accesso alla scaletta. Mi fermai di botto. La luce che filtrava dal pozzetto illuminò il volto di un arlecchino. Due rombi neri velavano il suo sguardo vitreo e dalle labbra di legno levigato spuntavano zanne d'acciaio. Indietreggiai di un passo. Un paio di mani si posarono sulle mie spalle. Le unghie mi stracciarono i vestiti. Qualcosa mi scivolò attorno al collo. Era freddo e viscido. Sentii il nodo stringersi fino a mozzarmi il fiato. La vista si annebbiò. Qualcosa mi afferrò le caviglie. L'arlecchino si inginocchiò davanti a me e allungò le mani verso il mio viso. Credetti di essere lì lì per svenire. Pregai che accadesse. Un attimo dopo quella testa di legno, carne e metallo andò in mille pezzi. Lo sparo proveniva dalla mia destra. La detonazione mi perforò i timpani e l'odore della polvere da sparo impregnò l'aria. L'arlecchino crollò ai miei piedi. Ci fu un secondo sparo. La pressione sul mio collo cessò e caddi bocconi. Percepivo soltanto l'intenso odore della polvere da sparo. Qualcuno mi tira va. Aprii gli occhi e intravidi un uomo che si chinava su di me e mi sollevava. Avvertii all'improvviso il chiarore del giorno e i polmoni mi si riempirono di aria pura. Poi persi i sensi. Ricordo solo di aver sognato uno scalpitio di zoccoli e un incessante rintocco di campane.
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La stanza in cui mi risvegliai mi era familiare. Le finestre erano chiuse e un chiarore diafano filtrava dalle imposte. In piedi, accanto al letto, qualcuno mi osservava in silenzio. Marina. «Benvenuto nel mondo dei vivi.» Mi drizzai di scatto. La vista mi si annebbiò immediatamente e schegge di ghiaccio mi trapanarono il cervello. Marina mi sostenne mentre il dolore si spegneva a poco a poco. «Stai calmo» sussurrò. «Come sono arrivato qui...?» «Ti ha portato qualcuno, all'alba. Su una carrozza. Non ha detto chi era.» «Claret...» mormorai, mentre i tasselli di quel rompicapo cominciavano a mettersi in ordine nella testa. Era stato Claret a tirarmi fuori dai tunnel e a portarmi nella villa di Sarriá. Gli dovevo la vita. «Mi hai fatto prendere uno spavento... Ma dove sei stato? Ti ho aspettato in piedi tutta la notte. Non ti azzardare mai più a farmi una cosa del genere, capito?» Avevo dolori dappertutto e mi faceva persino male la testa quando annuivo. Mi sdraiai di nuovo. Marina mi portò un bicchiere d'acqua alle labbra. Lo bevvi in un sorso. «Ne vuoi ancora, vero?» Socchiusi gli occhi e lei riempì un'altra volta il bicchiere. «E Germán?» le chiesi. «Nel suo studio. Era preoccupato per te. Gli ho detto che qualcosa ti aveva fatto male.» «E ti ha creduto?» «Mio padre crede a tutto quello che gli dico» rispose Marina, senza malizia. Mi avvicinò il bicchiere d'acqua. 136
«Che ci fa tante ore nello studio se non dipinge più?» Marina mi prese il polso per sentire le pulsazioni. «Perché è un artista» disse. «Gli artisti vivono nel passato o nel futuro; mai nel presente. Germán vive di ricordi. È tutto quello che ha.» «Ha te.» «Io sono il più importante dei suoi ricordi» disse fissandomi negli occhi. «Ti ho portato qualcosa da mangiare. Devi recuperare le forze.» Rifiutai con un gesto della mano. La sola idea del cibo mi dava il voltastomaco. Marina mi appoggiò una mano dietro la nuca e mi sostenne la testa mentre bevevo ancora. Quell'acqua fresca e cristallina era come una benedizione. «Che ore sono?» «È tardo pomeriggio. Hai dormito quasi otto ore.» Mi appoggiò la mano sulla fronte e la lasciò lì per qualche secondo. «Almeno non hai più la febbre.» Aprii gli occhi e le sorrisi. Marina, pallidissima, mi osservava seria. «Deliravi. Parlavi nel sonno...» «Cosa dicevo?» «Sciocchezze.» Con le dita mi sfiorai la gola. Mi faceva male. «Non toccarti» disse Marina, scostandomi la mano. «Hai una brutta ferita. E dei tagli sulle spalle e sulla schiena. Chi ti ha ridotto così?» «Non lo so...» Marina sospirò, impaziente. «Mi hai fatto morire di paura. Non sapevo che fare. Ho telefonato a Florián da una cabina, ma il barista mi ha detto che lo avevi appena chiamato e che l'ispettore era uscito senza dire dove andava. Ho richiamato poco prima dell'alba e non era ancora tornato...» «Florián è morto» dissi, sentendo che la voce mi si spezzava mentre pronunciavo il nome del povero ispettore. «Ieri notte sono tornato al cimitero» confessai. «Tu sei matto» esclamò Marina. Probabilmente aveva ragione. Senza dire una parola, mi diede un terzo 137
bicchiere d'acqua. Lo svuotai fino all'ultima goccia. Poi, lentamente, le raccontai quello che era successo la notte prima. Alla fine Marina si limitò a fissarmi in silenzio. Avevo l'impressione che fosse preoccupata per qualcos'altro, qualcosa che non c'entrava niente con il mio racconto. Volle a tutti i costi che mangiassi quello che mi aveva portato, che avessi fame o no. Mi offrì del pane e della cioccolata, e non mi tolse gli occhi di dosso finché non ebbi inghiottito mezza tavoletta e un panino grande come un taxi. La sferzata degli zuccheri nel sangue non si fece attendere e ben presto mi sentii rinascere. «Anch'io, mentre dormivi, ho giocato al detective» disse Marina, indicando un grosso volume rilegato in pelle sul comodino. Lessi il titolo sul dorso. «Ti interessi di entomologia?» «Di insetti» precisò Marina. «Ho trovato la nostra amica, la farfalla nera.» «Teufel...» «Una creatura adorabile. Vive in scantinati e gallerie sotterranee, lontano dalla luce. Ha un ciclo di vita di due settimane. Prima di morire seppellisce il proprio corpo tra i rifiuti. Tre giorni dopo si genera una nuova larva.» «Risuscita?» «Si potrebbe dire così.» «E di cosa si nutre?» chiesi. «Sottoterra non ci sono fiori né polline...» «Mangia i propri piccoli» spiegò Marina. «Tutto lì. Vite esemplari dei nostri cugini insetti.» Marina si avvicinò alla finestra e fece scorrere le tende. Il sole inondò la stanza ma lei non si mosse, immersa nei suoi pensieri. Mi sembrava quasi di sentir funzionare gli ingranaggi del suo cervello. «Che senso ha aggredirti per recuperare l'album e poi gettare via le fotografie?» «Probabilmente chi mi ha aggredito cercava qualcosa che era dentro l'album...» «Invece, qualunque cosa fosse, non c'era più...» completò la frase Marina. 138
«Il dottor Shelley...» esclamai, ricordando all'improvviso. Marina mi guardò senza capire. «Quando siamo andati a trovarlo, gli abbiamo mostrato la foto scattata nel suo studio» dissi. «E se l'è tenuta!» «Non solo. Mentre andavamo via l'ha gettata nel fuoco.» «E perché Shelley avrebbe dovuto distruggere quella foto?» «Forse perché c'era qualcosa che nessuno doveva vedere...» suggerii, saltando giù dal letto. «Dove credi di andare?» «A trovare Luis Claret» risposi. «È lui che ha la chiave di tutta questa faccenda.» «Tu non esci di casa prima di ventiquattro ore» replicò Marina, appoggiandosi alla porta. «L'ispettore Florián ha dato la vita perché tu potessi salvarti.» «Tra ventiquattro ore quello che si nasconde nelle gallerie sarà già venuto a cercarci, se non facciamo qualcosa per fermarlo» dissi. «Il minimo che Florián si merita è che facciamo giustizia.» «Shelley ha detto che alla morte importa poco della giustizia» mi ricordò Marina. «Forse ha ragione.» «Forse» ammisi. «A noi però importa della giustizia, eccome.» Quando arrivammo ai confini del Raval la nebbia invadeva i vicoli, appena rischiarata dalle luci di tuguri e squallide bettole. Ci eravamo lasciati alle spalle l'allegra animazione delle Ramblas e ci addentravamo nel quartiere più miserabile della città. Non c'era traccia di turisti o di curiosi. Sguardi furtivi ci seguivano da portoni maleodoranti e da finestre ritagliate su facciate che si sgretolavano come l'argilla. L'eco dei televisori e delle radio rimbombava in quei canyon di miseria, senza mai oltrepassare i tetti. La voce del Raval non arriva al cielo. Ben presto, dagli spiragli tra quegli edifici ricoperti da decenni di lerciume, scorgemmo i monumentali ruderi del Gran Teatro Real. Sul tetto, come una banderuola, spiccava il simbolo della farfalla dalle ali nere. Ci fermammo a contemplare quello spettacolo fantastico. La costruzione più 139
delirante di Barcellona si decomponeva come un cadavere in una palude. Marina indicò le finestre illuminate al terzo piano del fabbricato laterale. Riconobbi l'ingresso delle scuderie. Quella era la casa di Claret. Entrammo nel portone. L'androne era ancora pieno di pozzanghere formate dal temporale della notte prima. Ci spingemmo su per le scale dai gradini anneriti e consunti. «E se non vuole vederci?» chiese Marina, turbata. «Probabilmente ci sta aspettando» mi passò per la testa. Arrivati al secondo piano, notai che Marina era molto pallida e respirava con difficoltà. «Ti senti bene?» «Un po' stanca» rispose con un sorriso poco convincente. «Vai troppo in fretta per me.» La presi per mano e la guidai fino al terzo piano, scalino dopo scalino. Ci fermammo davanti alla porta di Claret. Marina respirò a fondo. Il petto le tremava. «Sto bene, davvero» disse, indovinando i miei timori. «Dai, bussa. Non mi hai mica portato qui per fare un giro turistico del quartiere...» Bussai con le nocche sulla vecchia porta di legno, solida e spessa come un muro. Bussai di nuovo. Passi lenti che si avvicinavano. La porta si aprì e sulla soglia comparve Luis Claret, l'uomo che mi aveva salvato la vita. «Entrate» si limitò a dire. Poi si girò e ci precedette all'interno. Ci chiudemmo la porta alle spalle. L'appartamento era buio e freddo. L'intonaco pendeva dal soffitto come la pelle di un rettile. I lampadari, privi di lampadine, ospitavano nidi di ragni. Le piastrelle del pavimento erano tutte sbrecciate. «Da questa parte» ci invitò Claret. Seguimmo la sua voce fino a una stanza illuminata a stento da un braciere. Lui sedeva davanti ai carboni accesi, osservando le braci in silenzio. I muri erano tappezzati di vecchi ritratti, personaggi e volti di altri tempi. Claret alzò lo sguardo verso di noi. Aveva gli occhi chiari e penetranti, i capelli grigi e la pelle grinzosa. Decine di rughe gli segnavano il tempo sul volto, ma nonostante l'età avanzata dava una sensazione di forza che avrebbe fatto invidia a molti uomini con trent'anni meno di lui. Un attor giovane di varietà invecchiato alle intemperie, con dignità e stile. «Non ho ancora avuto modo di ringraziarla. Per avermi salvato la vita.» 140
«Non è me che devi ringraziare. Come mi avete trovato?» «L'ispettore Florián» mi anticipò Marina «ci aveva detto che lei e il dottor Shelley eravate stati gli unici a rimanere fino all'ultimo istante accanto a Michail Kolvenik e a Eva Irinova. E che lei non li aveva mai abbandonati. Come ha conosciuto Michail Kolvenik?» Un debole sorriso affiorò sulle labbra di Claret. «Il signor Kolvenik arrivò in questa città durante una delle più intense gelate del secolo» spiegò. «Solo, affamato e morto di freddo, cercò rifugio nell'androne di un vecchio palazzo per passarvi la notte. Aveva solo pochi spiccioli per comprarsi magari un po' di pane e del caffè bollente. Nient'altro. Mentre rifletteva sul da farsi, si accorse di non essere solo in quell'androne. C'era anche un bambino di nemmeno cinque anni vestito di stracci, un mendicante che, come lui, cercava riparo dal gelo. Kolvenik e il bambino non parlavano la stessa lingua, perciò si capivano a stento. Però Kolvenik gli sorrise e gli diede i suoi soldi, spiegandogli a gesti di spenderli per comprarsi da mangiare. Il bambino, incredulo, corse a comprare una focaccia in una panetteria accanto a Plaza Real che rimaneva aperta tutta la notte. Quando tornò per condividere il pane con lo sconosciuto vide la polizia che lo portava via. In prigione Kolvenik fu pestato brutalmente dai compagni di cella e finì nell'infermeria del carcere. Il bambino lo aspettò per giorni all'ingresso, come un cane senza padrone. Due settimane dopo, quando fu rilasciato, Kolvenik zoppicava. Il bambino era lì a sostenerlo. Diventò la sua guida e giurò di non abbandonare mai quell'uomo che, nella notte più buia della sua vita, gli aveva ceduto il poco che possedeva... Quel bambino ero io.» Claret si alzò e ci fece segno di seguirlo lungo uno stretto corridoio che finiva con una porta. Tirò fuori una chiave e aprì. Dietro quella porta ce n'era un'altra, identica, e, tra le due, un piccolo vano di passaggio. Per attenuare l'oscurità che vi regnava Claret accese una candela. Con un'altra chiave aprì la seconda porta. Una corrente d'aria investì il corridoio e fece ondeggiare la fiamma. Marina mi strinse forte la mano mentre varcavamo la soglia. Poi ci fermammo. Davanti a noi una visione da favola. L'interno del Gran Teatro Real. Piani su piani si innalzavano verso la grande volta. Le tende di velluto pendevano dai palchi, ondeggiando nel vuoto. Grandi lampadari di cristallo, sospesi sulla platea sconfinata e deserta, attendevano un collegamento 141
elettrico che non era mai arrivato. Ci trovavamo a un ingresso laterale del palcoscenico. Sopra le nostre teste il macchinario di scena saliva verso l'infinito, un universo di sipari, impalcature, pulegge e passerelle che si perdeva lassù in alto. «Da questa parte» indicò Claret, precedendoci. Attraversammo il palco. Alcuni strumenti languivano nella fossa dell'orchestra. Sul podio del direttore una partitura coperta dalle ragnatele era aperta alla prima pagina. Più in là il grande tappeto del corridoio centrale della platea tracciava una strada che non portava da nessuna parte. Claret si diresse verso una porta illuminata e ci fece segno di aspettare sulla soglia. Io e Marina ci scambiammo un'occhiata. La porta immetteva in un camerino. Centinaia di abiti luccicanti erano appesi a sbarre metalliche. Una parete era coperta di specchi; l'altra era tappezzata da decine di vecchi ritratti di una donna di indescrivibile bellezza: Eva Irinova, l'incantatrice dei palcoscenici. La donna per cui Michail Kolvenik aveva fatto costruire quel santuario. Fu allora che la vidi. La dama in nero si guardava in silenzio allo specchio, il volto velato. Sentendo i nostri passi si voltò lentamente e annuì. Solo allora Claret ci permise di entrare. Ci avvicinammo a lei come se fosse un'apparizione, con un misto di attrazione e timore, e ci fermammo a un paio di metri di distanza. Claret era rimasto sulla porta, come una sentinella. La donna si voltò di nuovo verso lo specchio, esaminando la propria immagine. Improvvisamente, con infinita delicatezza, si sollevò il velo. La luce delle poche lampadine funzionanti ci rivelò il suo volto riflesso nello specchio, o meglio, ciò che l'acido aveva risparmiato. Ossa allo scoperto e pelle avvizzita. Labbra senza forma, appena una fessura sui lineamenti cancellati. Occhi che non potevano più piangere. Per un interminabile istante ci lasciò contemplare quell'orrore che di solito celava sotto il velo. Poi, con la stessa delicatezza con cui ci aveva rivelato il suo volto e la sua identità, li nascose di nuovo e ci invitò a sederci. Calò un lungo silenzio. Eva Irinova allungò una mano verso il viso di Marina e le accarezzò le guance, le labbra, il collo. Ne leggeva la bellezza e la perfezione con dita ansiose e tremanti. Marina deglutì. La dama ritrasse la mano e, da dietro il velo, un luccichio balenò nei suoi occhi senza palpebre. Soltanto allora cominciò a raccontarci la storia che aveva tenuto segreta per più di trent'anni. 142
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«Non ho mai conosciuto il mio Paese se non in fotografia. Quello che so della Russia lo devo ai racconti, alle chiacchiere e ai ricordi di altre persone. Sono nata su una chiatta che attraversava il Reno, nell'Europa distrutta dalla guerra e sconvolta dal terrore. Anni dopo seppi che mia madre mi portava già in grembo quando, sola e malata, aveva attraversato la frontiera russo-polacca in fuga dalla rivoluzione. Morì nel mettermi al mondo. Non ho mai saputo il suo nome né chi fosse mio padre. La seppellirono sulla riva del fiume in una tomba anonima, perduta per sempre. Una coppia di attori di San Pietroburgo che viaggiava sulla chiatta, Sergej Glazunow e la gemella Tatiana, decise di occuparsi di me: per compassione e perché, come mi disse Sergej molti anni dopo, ero nata con gli occhi di colore diverso, e questo è un segno di buona sorte. «A Varsavia, grazie all'abilità e agli intrighi di Sergej, ci unimmo a una compagnia circense diretta a Vienna. I miei primi ricordi sono di quella gente e dei loro animali. La tenda di un circo, i giocolieri e un fachiro sordomuto di nome Vladimir che mangiava vetro, sputava fuoco e mi regalava sempre uccellini di carta che costruiva come per magia. Sergej finì per diventare l'amministratore della compagnia e ci stabilimmo a Vienna. Il circo fu la mia scuola e la casa in cui crebbi. Già da allora, però, sapevamo che aveva i giorni contati. La realtà del dopoguerra era assai più grottesca delle pantomime dei pagliacci e degli orsi ballerini. Di lì a poco nessuno avrebbe più avuto bisogno di noi. Il Ventesimo secolo era diventato il grande circo della storia. «Quando avevo appena sette o otto anni Sergej mi disse che era venuto il momento di guadagnarmi il pane. Così entrai anch'io a far parte dello spettacolo, prima come assistente di Vladimir e poi con un numero tutto mio in cui cantavo una ninna nanna a un orso che alla fine si addormentava. Il numero, che in un primo momento serviva da tappabuchi per consentire ai trapezisti di prepararsi, ebbe un grande successo. Nessuno ne fu più sorpreso di me. Sergej decise allora di darmi più spazio. Fu così che finii per cantare filastrocche a vecchi leoni affamati e ammalati dall'alto di una piattaforma luminosa. Gli animali e il pubblico mi ascoltavano ipnotizzati. 143
A Vienna si parlava della bambina che, con la sua voce, ammansiva le fiere. E un mucchio di gente era disposta a pagare per vederla. Avevo nove anni. «Sergej non tardò a capire che ormai non aveva più bisogno del circo. La bambina dagli occhi di colore diverso gli aveva portato fortuna davvero. Espletò le procedure legali per diventare mio tutore e annunciò al resto della compagnia che ci saremmo messi in proprio. Disse che il circo non era un luogo adatto a far crescere una bambina. Quando si scoprì che qualcuno, nel corso degli anni, aveva sistematicamente rubato parte dei guadagni del circo, Sergej e Tatiana accusarono Vladimir, aggiungendo inoltre che si prendeva certe libertà con me. Vladimir fu arrestato e messo in prigione, ma il denaro non venne mai trovato. «Per festeggiare la sua indipendenza Sergej comprò un'automobile di lusso, vestiti da dandy e gioielli per Tatiana. Ci trasferimmo in una villa che Sergej aveva affittato nei boschi intorno a Vienna. Non fu mai chiaro dove avesse preso i soldi per pagarsi tutto quel lusso. Pomeriggio e sera io cantavo in un teatro accanto all'Opera, in uno spettacolo intitolato L'angelo di Mosca. Mi ribattezzarono Eva Irinova, un'idea di Tatiana, che aveva preso il nome da un romanzo a puntate pubblicato con un certo successo da un giornale. Quella fu la prima di una serie di messinscene. Dietro suggerimento di Tatiana mi vennero assegnati un maestro di canto, uno di danza e un professore d'arte drammatica. Quando non calcavo un palcoscenico mi esercitavo. Sergej non mi permetteva di avere amici, di uscire a passeggio, di starmene da sola o di leggere libri. È per il tuo bene, diceva. Quando il mio corpo cominciò a svilupparsi, Tatiana insisté perché avessi una stanza tutta per me. Sergej acconsentì di malavoglia, ma volle una copia della chiave. Tornava spesso ubriaco a mezzanotte e cercava di entrare nella mia stanza. A volte era così sbronzo che non riusciva nemmeno a infilare la chiave nella toppa. Altre volte ce la faceva. L'applauso di un pubblico anonimo fu l'unica soddisfazione di quegli anni. Con il tempo mi divenne più indispensabile dell'aria. «Viaggiavamo spesso. Il mio successo a Vienna era arrivato all'orecchio degli impresari di Parigi, Milano e Madrid. Sergej e Tatiana erano sempre al mio fianco. Naturalmente, non ho mai visto un soldo del ricavato di quei concerti e non so che fine abbia fatto quel denaro. Sergej era sempre pieno di debiti e di creditori. La colpa, mi accusava con amarezza, era mia. 144
Spendeva tutto per farmi vivere come una regina. Invece io non sapevo apprezzare quello che lui e Tatiana avevano fatto per me. Sergej mi insegnò a vedermi come una ragazzina sporca, pigra, ignorante e stupida; un'infelice che non avrebbe mai combinato niente di buono nella vita, che nessuno avrebbe mai amato né rispettato. Ma tutto questo non importava perché, mi sussurrava all'orecchio Sergej con il suo alito etilico, lui e Tatiana sarebbero sempre stati lì a prendersi cura di me e a proteggermi dalle insidie del mondo. «Il giorno in cui compii diciassette anni scoprii di odiarmi e di tollerare a stento la mia immagine allo specchio. Smisi di mangiare. Il mio corpo mi ripugnava e cercavo di nasconderlo sotto vestiti laceri e sporchi. Un giorno trovai nella spazzatura un vecchio rasoio di Sergej. Lo nascosi nella mia stanza e presi l'abitudine di tagliuzzarmi le mani e le braccia. Per punirmi. Ogni notte Tatiana mi curava in silenzio. «Due anni dopo, a Venezia, un conte che mi aveva sentito cantare mi propose di sposarlo. Quella sera stessa, appena lo venne a sapere, Sergej mi massacrò di botte. Mi spaccò le labbra a furia di pugni e mi incrinò due costole. Tatiana e la polizia riuscirono a fermarlo. Lasciai Venezia su un'ambulanza. Tornammo a Vienna, ma i problemi economici di Sergej non ci davano tregua. Ricevevamo continue minacce. Una notte, mentre dormivamo, degli sconosciuti appiccarono il fuoco alla nostra casa. Qualche settimana prima Sergej aveva ricevuto un'offerta da un impresario di Madrid per il quale, in passato, mi ero esibita con grande successo. Daniel Mestres, così si chiamava, era diventato socio di maggioranza del vecchio Teatro Real di Barcellona e voleva inaugurare con me la stagione. Così una mattina, all'alba, praticamente fuggendo, facemmo le valigie e partimmo per Barcellona con quello che avevamo addosso. Avevo quasi diciannove anni e pregavo il cielo di non farmi arrivare a venti. Già da molto pensavo di togliermi la vita. Niente mi legava a questo mondo. Ero morta da tempo, ma adesso me ne accorgevo. Fu allora che conobbi Michail Kolvenik... «Eravamo in scena al Teatro Real da qualche settimana. Nella compagnia si era sparsa la voce che un gentiluomo veniva ogni sera nello stesso palco per sentirmi cantare. In quel periodo a Barcellona circolavano storie di ogni genere su Michail Kolvenik. Su come aveva fatto fortuna... Sulle sue origini e la sua vita privata, piena di enigmi e misteri... La sua leggenda lo precedeva. Una sera, attratta da quello strano personaggio, gli feci reca145
pitare un invito per venirmi a trovare in camerino dopo lo spettacolo. Era quasi mezzanotte quando Michail Kolvenik bussò alla mia porta. Con tutti quei pettegolezzi, mi aspettavo un tipo minaccioso e arrogante. Invece la mia prima impressione fu che si trattava di un uomo timido e riservato. Vestiva di scuro, con semplicità. Sfoggiava solo una piccola spilla sul risvolto della giacca: una farfalla con le ali spiegate. Mi ringraziò per l'invito e mi espresse la sua ammirazione, sostenendo che era un onore conoscermi. Replicai che, dopo quanto avevo sentito dire su di lui, l'onore era mio. Sorrise e mi suggerì di non dare retta ai pettegolezzi. Michail aveva il sorriso più bello che abbia mai visto. Quando sorrideva, uno poteva credere a qualunque cosa gli uscisse dalle labbra. Una volta qualcuno ha detto che Michail, se se lo fosse proposto, avrebbe potuto convincere Cristoforo Colombo che la terra era piatta come una mappa; e aveva ragione. Quella notte convinse me a passeggiare con lui per le strade di Barcellona. Mi spiegò che girovagava spesso nel cuore della notte per la città addormentata. Io, che da quando eravamo a Barcellona avevo a malapena messo il naso fuori dal teatro, accettai. Sapevo che Sergej e Tatiana si sarebbero infuriati, ma non mi importava. Uscimmo di nascosto dalla porta del proscenio. Michail mi offrì il braccio e passeggiammo fino all'alba. Mi mostrò la città magica attraverso i suoi occhi. Mi parlò dei suoi misteri, dei suoi angoli incantati e dello spirito che viveva in quelle strade. Mi raccontò mille e una leggenda. Percorremmo i vicoli segreti del Barrio Gótico e della città vecchia. Michail sembrava sapere tutto: chi aveva abitato in ogni palazzo, quali delitti e quali storie d'amore nascondevano ogni muro e ogni finestra. Conosceva i nomi di tutti gli architetti, di tutti gli artigiani e delle migliaia di invisibili operai che avevano costruito quello scenario. Mentre mi parlava ebbi l'impressione che Michail non avesse mai condiviso con nessuno quelle storie. Mi turbò la sua solitudine e, allo stesso tempo, mi sembrò di intravedere in lui un abisso infinito sul quale non potevo evitare di affacciarmi. L'alba ci sorprese su una panchina del porto. Osservai lo sconosciuto con cui avevo vagabondato per ore e mi sembrò di conoscerlo da sempre. Glielo confessai. Michail rise e in quel preciso momento, con la rara certezza che si ha soltanto un paio di volte nella vita, seppi che avrei trascorso accanto a lui il resto della mia esistenza. «Quella notte Michail mi disse che secondo lui la vita concede a ciascuno di noi rari momenti di pura felicità. A volte, solo pochi giorni o settimane. A volte, anni. Tutto dipende dalla fortuna. Il ricordo di quei momenti 146
non ci abbandona mai e si trasforma in un paese della memoria a cui cerchiamo inutilmente di fare ritorno per il resto della vita. Per me quegli istanti saranno sempre sepolti in quella prima notte in cui passeggiammo per le vie della città... «La reazione di Sergej e Tatiana non si fece attendere. Soprattutto quella di Sergej. Mi proibì di rivedere Michail o di rivolgergli la parola. Minacciò di uccidermi se fossi uscita di nuovo dal teatro senza il suo permesso. Per la prima volta scoprii che non mi incuteva più timore, ma solo disprezzo. Per farlo infuriare ancora di più gli dissi che Michail mi aveva chiesto di sposarlo e che io avevo accettato. Mi ricordò che era il mio tutore, e non solo non avrebbe autorizzato il matrimonio, ma saremmo partiti al più presto per Lisbona. Tramite una ballerina della compagnia feci arrivare un messaggio disperato a Michail. Quella sera, prima dello spettacolo, si presentò a teatro in compagnia di due avvocati per incontrare Sergej. Gli comunicò che nel pomeriggio aveva firmato un contratto con l'impresario del Teatro Real e che era diventato il nuovo proprietario. Da quel momento lui e Tatiana erano licenziati. «Gli mostrò un dossier con documenti e prove delle attività illegali di Sergej a Vienna, Varsavia e Barcellona. Materiale più che sufficiente per sbatterlo dietro le sbarre per quindici o vent'anni. Ci aggiunse un assegno per una cifra superiore a quella che Sergej avrebbe potuto mettere insieme in tutta una vita di intrallazzi e meschinità. L'alternativa era questa: se entro quarantotto ore lui e Tatiana lasciavano per sempre Barcellona e si impegnavano a non mettersi in nessun modo in contatto con me potevano prendersi assegno e dossier; se si rifiutavano di cooperare il dossier sarebbe finito nelle mani della polizia, assieme all'assegno, come incentivo per oliare gli ingranaggi della giustizia. Sergej, pazzo di rabbia, sbraitava che non si sarebbe mai separato da me e che, per averla vinta, Michail sarebbe dovuto passare sul suo cadavere. «Michail gli sorrise e se ne andò. Quella notte Tatiana e Sergej andarono a parlare con un losco individuo che offriva i propri servigi come sicario. Uscendo dal luogo dell'incontro furono quasi colpiti dagli spari partiti da una carrozza. I giornali, nel pubblicare la notizia, avanzarono una serie di ipotesi sull'attentato. Il giorno dopo Sergej accettò l'assegno di Michail e lasciò la città con Tatiana senza nemmeno salutarmi... «Quando seppi quello che era successo volli a tutti i costi che Michail 147
mi dicesse se era lui il responsabile dell'attentato. Desideravo disperatamente che mi rispondesse di no. Mi guardò fisso negli occhi e mi chiese perché dubitavo di lui. Mi sentii morire. Il fragile castello di carte fatto di felicità e di speranza sembrava sul punto di crollare. Insistetti. Michail rispose di no: non era lui il responsabile. «"Se lo fossi, nessuno dei due sarebbe vivo" rispose gelido. «In quel periodo assunse uno dei migliori architetti della città per realizzare la torre vicino al Parque Glieli in base alle sue indicazioni. Del costo dell'opera non discusse nemmeno un istante. Mentre la torre era in costruzione Michail affittò un intero piano del vecchio Hotel Colón in Plaza de Cataluña, dove ci sistemammo temporaneamente. Per la prima volta nella vita scoprii che era possibile avere tanti servitori da non riuscire a ricordare il nome di tutti. Michail invece aveva un solo aiutante, Luis, il suo autista. «Ricevevo i gioiellieri Bagués nei miei appartamenti. I migliori sarti mi prendevano le misure per confezionarmi un guardaroba da imperatrice. Michail aprì crediti illimitati a mio nome nei più esclusivi negozi di Barcellona. Persone mai viste mi salutavano ossequiose per strada o nella hall dell'albergo. Ricevevo inviti per balli di gala in palazzi di famiglie il cui nome avevo visto soltanto sulle pagine mondane dei giornali. Avevo solo vent'anni. Non avevo mai avuto tra le mani abbastanza soldi per comprare un biglietto del tram. Sognavo a occhi aperti. Cominciavo a sentirmi a disagio con tutti quei lussi e quegli sprechi. Quando ne accennavo a Michail, rispondeva che il denaro non ha alcuna importanza, a meno di non possederne. «Trascorrevamo insieme le giornate: a passeggio per la città, al casinò del Tibidabo, anche se non l'ho mai visto puntare una sola moneta, al Liceo... Al tramonto rientravamo all'Hotel Colón e Michail si ritirava nelle sue stanze. Ben presto mi accorsi che, molte notti, Michail usciva di nuovo e non rientrava fino all'alba. A sentire lui doveva occuparsi di questioni di lavoro. «Ma i pettegolezzi aumentavano. Avevo l'impressione di stare per sposare un uomo che tutti sembravano conoscere meglio di me. Sentivo le cameriere mormorare alle mie spalle. Dietro il sorriso ipocrita dei passanti, mi sentivo esaminata con la lente d'ingrandimento. A poco a poco diventai prigioniera dei miei stessi sospetti. E un'idea cominciò a ossessionarmi. Tutto quel lusso, quello sperpero di cose materiali intorno a me mi faceva 148
sentire come un bel soprammobile. Uno dei tanti capricci di Michail. Lui poteva comprare tutto: il Teatro Real, Sergej, automobili, gioielli, palazzi. E me. Morivo di angoscia ogni volta che lo sentivo uscire a tarda ora, convinta che corresse tra le braccia di un'altra donna. Una notte decisi di seguirlo per farla finita con quella sciarada. «I suoi passi mi condussero al laboratorio della Velo-Granell, accanto al mercato del Borne. Michail era solo. Dovetti calarmi all'interno da una finestrella che si affacciava su un vicolo. Il vecchio capannone mi sembrò uno scenario da incubo. Centinaia di piedi, mani, braccia, gambe, occhi di vetro penzolavano nelle navate: pezzi di ricambio per un'umanità disgraziata. Attraversai il laboratorio fino a una grande stanza buia, piena di enormi recipienti di vetro al cui interno galleggiavano sagome indefinite. Al centro della sala, in penombra, Michail mi osservava da una sedia, fumando una sigaretta. «"Non avresti dovuto seguirmi" disse, senza rabbia nella voce. «Gli spiegai che non potevo sposare un uomo di cui avevo visto soltanto una metà, con cui condividevo il giorno, ma non la notte. «"Forse quello che scoprirai non ti piacerà" insinuò. «Gli dissi che non mi importava né il come né il perché. Non mi importava sapere quello che faceva né se le voci su di lui erano vere o false. Volevo solo essere parte integrante della sua vita. Senza ombre. Senza segreti. Lui annuì e seppi quello che significava: stavo per varcare un confine senza ritorno. Quando Michail accese le luci della stanza mi risvegliai dal sogno delle ultime settimane. Ero all'inferno. «I recipienti di formalina contenevano dei cadaveri che danzavano in un macabro balletto. Su un tavolo di metallo giaceva il corpo nudo di una donna dissezionata dal ventre alla trachea. Le braccia erano spalancate a croce, e mi accorsi che le articolazioni erano congegni di legno e metallo. Dalla gola le scendevano dei tubi, mentre cavi di bronzo le penetravano nelle estremità e nelle anche. La pelle era traslucida, azzurrina come quella di un pesce. Senza fiato, seguii con lo sguardo Michail che si avvicinava a quel corpo e lo osservava con tristezza. «"Ecco quello che la natura fa ai suoi figli. Non c'è traccia di male nel cuore degli uomini, soltanto una lotta per sopravvivere all'inevitabile. Non esiste altro demonio che madre natura... Il mio lavoro, tutti i miei sforzi, sono solo un tentativo di beffare il grande sacrilegio della creazione..." 149
«Lo vidi prendere una siringa e riempirla di un liquido smeraldino che custodiva in una boccetta. I nostri sguardi si incrociarono per un istante, poi Michail affondò l'ago nel cranio del cadavere e vi iniettò il contenuto della siringa. Ritrasse l'ago e aspettò, immobile, fissando il corpo inerte. Qualche attimo dopo mi si gelò il sangue nelle vene. Le ciglia di una palpebra stavano tremando. Sentii il cigolio degli ingranaggi di metallo e legno. Le dita si agitarono. D'improvviso il corpo della donna si sollevò con un violento sussulto. Un urlo animale invase la stanza. Bianchi filamenti di saliva le colavano dalle labbra nere, tumefatte. La donna si liberò dei cavi metallici che le perforavano la pelle e crollò a terra come un burattino rotto. Ululava come un lupo ferito. Sollevò il viso e inchiodò gli occhi nei miei. Fui incapace di distoglierli dall'orrore che vi lessi. Dal suo sguardo si sprigionava una spaventosa energia animale. Voleva vivere. «Ero paralizzata. Pochi secondi dopo il corpo rimase di nuovo inerte, senza vita. Michail, che aveva assistito impassibile allo spettacolo, prese un lenzuolo e coprì il cadavere. «Si avvicinò a me e mi strinse le mani tremanti tra le sue. Mi scrutò come se volesse leggere nei miei occhi se sarei stata ancora capace di rimanergli accanto dopo quello che avevo visto. Avrei voluto trovare le parole per comunicargli la mia paura, per dirgli quanto si sbagliava... Riuscii solo a balbettare di portarmi via di lì. Rientrammo all'Hotel Colón. Mi accompagnò nella mia stanza, ordinò una tazza di brodo caldo e mi rimboccò le coperte mentre lo bevevo. «"La donna che hai visto stanotte è morta sei settimane fa sotto le ruote di un tram. Aveva cercato di salvare un bambino che giocava sui binari e non è riuscita a evitare l'impatto. Le ruote le hanno tranciato le braccia all'altezza dei gomiti. È morta per strada. Nessuno sa come si chiama. Nessuno ha reclamato il cadavere. Ce ne sono decine come lei. Ogni giorno..." «"Michail, non capisci... Non puoi sostituirti a Dio..." «Mi accarezzò la fronte e mi sorrise tristemente, annuendo. «"Buona notte" disse. «Prima di uscire si fermò sulla porta. «"Se domani non sarai più qui" disse, "capirò." «Due settimane dopo ci sposammo nella cattedrale di Barcellona.» 150
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«Michail desiderava che quello fosse un giorno speciale per me. Fece in modo che l'intera città si trasformasse in uno scenario da fiaba. Il mio regno su quel mondo irreale finì per sempre sui gradini della cattedrale. Non ebbi nemmeno il tempo di sentire le urla della gente. Come un animale selvaggio che balza fuori dalla foresta, Sergej sbucò dalla folla e mi lanciò una boccetta di acido sul viso. L'acido mi divorò la pelle, le palpebre, le mani. Mi lacerò la gola e mi rubò la voce. Ripresi a parlare solo dopo due anni, quando Michail mi ebbe ricostruita come una bambola rotta. Fu l'inizio dell'orrore. «Sospendemmo i lavori della casa e ci trasferimmo in quel palazzo incompiuto. Ne facemmo una prigione che s'innalzava in cima a una collina. Era un posto freddo e oscuro. Un guazzabuglio di torri e archi, di volte e scale a chiocciola che non portavano da nessuna parte. Io vivevo reclusa in una stanza in cima alla torre. Nessuno poteva accedervi se non Michail e, a volte, il dottor Shelley. Trascorsi il primo anno nel letargo della morfina, prigioniera di un lungo incubo. Credevo di vedere in sogno Michail che faceva esperimenti su di me, così come aveva fatto con quei corpi abbandonati negli ospedali e negli obitori. Sognavo che mi ricostruiva e beffava la natura. Quando recuperai il senno capii che i miei sogni erano veri. Era stato lui a restituirmi la voce, a ricostruirmi la gola e la bocca perché potessi alimentarmi e parlare. Era stato lui a modificare le mie terminazioni nervose affinché non sentissi il dolore delle ferite provocate dall'acido. È vero, ho beffato la morte; ma sono diventata una delle tante creature maledette di Michail. «Nel frattempo lui aveva perso ogni influenza in città. Nessuno lo appoggiava più. I vecchi alleati gli giravano le spalle e lo abbandonavano. Poliziotti e giudici cominciarono a braccarlo. Il suo socio, Sentís, era un usuraio meschino e invidioso. Fornì false informazioni che coinvolgevano Michail in losche faccende di cui lui non sospettava nemmeno l'esistenza. Voleva sottrargli il controllo dell'azienda. Era uno dei tanti del branco. Tutti si auguravano che cadesse dal piedistallo per divorare i suoi resti. L'esercito di ipocriti e adulatori si trasformò in un'orda di iene affamate. Nulla di 151
tutto questo sorprese Michail. Fin dall'inizio aveva riposto la sua fiducia soltanto in Shelley e Luis Claret. "La meschinità degli uomini" ripeteva "è una miccia in cerca di fuoco." Alla fine, però, quella serie di tradimenti spezzò del tutto il fragile legame che manteneva con il mondo esterno. Si rifugiò nel suo labirinto di solitudine e cominciò a comportarsi in modo sempre più stravagante. Prese l'abitudine di allevare nelle cantine decine di esemplari di un insetto che lo ossessionava, una farfalla nera nota con il nome di Teufel. Ben presto le farfalle nere divennero padrone della torre. Si posavano sugli specchi, sui quadri e sui mobili come silenziose sentinelle. Michail proibì ai domestici di ucciderle, di spaventarle o anche solo di avvicinarsi a loro. Uno sciame di insetti dalle ali nere svolazzava per i corridoi e i saloni. A volte si posavano su Michail e lo ricoprivano dalla testa ai piedi, mentre lui rimaneva immobile. Quando lo vedevo così temevo di perderlo per sempre. «Fu in quei giorni che iniziò la mia amicizia con Luis Claret, un'amicizia che dura tutt'oggi. Era lui a tenermi informata su quanto succedeva oltre i muri di quella fortezza. Michail mi aveva raccontato solo menzogne sul Teatro Real e sul mio rientro in scena. Parlava di riparare ai danni provocati dall'acido, di cantare con una voce che non mi apparteneva più... Chimere. Luis mi spiegò che i lavori al Teatro Real erano stati sospesi. I soldi erano finiti parecchi mesi prima. L'edificio era un'immensa e inutile caverna... L'apparente serenità di Michail era solo una facciata. Passava settimane e mesi senza uscire di casa. Giorni interi chiuso nel suo studio, senza quasi mangiare e dormire. Joan Shelley, come mi confessò in seguito, temeva per la sua salute, soprattutto mentale. Lo conosceva meglio di chiunque altro e fin dall'inizio lo aveva assistito nei suoi esperimenti. Fu lui a parlarmi chiaramente dell'ossessione di Michail per le malattie degenerative, del suo disperato tentativo di scoprire i meccanismi attraverso i quali la natura deformava e atrofizzava i corpi. Corpi che per lui erano dotati di un'energia, di un ordine e di una volontà al di là di ogni ragione. Ai suoi occhi la natura era una belva che divorava le proprie creature, insensibile al destino e alla sorte degli esseri che ospitava. Collezionava fotografie di rari casi di atrofie e altri fenomeni medici. In quegli esseri umani sperava di trovare una risposta alla sua domanda: come ingannare i propri demoni? «Fu allora che si manifestarono i primi sintomi del male. Michail sapeva di portarselo dentro, implacabile e paziente come un meccanismo a orolo152
geria. Lo sapeva da sempre, da quando aveva visto morire il fratello a Praga. Il suo corpo si stava autodistruggendo. Le ossa si sgretolavano. Da tempo Michail si copriva le mani con i guanti. Nascondeva la faccia e il corpo. Rifuggiva la mia compagnia. Io facevo finta di non accorgermene, ma era vero: il suo aspetto era cambiato. Un giorno d'inverno, all'alba, mi svegliarono le sue urla. Michail stava facendo una scenata alla servitù. Se ne andarono tutti, perché negli ultimi mesi avevano paura di lui. Soltanto Luis si rifiutò di lasciarci. Michail, piangendo di rabbia, fracassò tutti gli specchi della casa e corse a chiudersi nello studio. «Una notte mandai Luis a cercare il dottor Shelley. Da due settimane Michail non usciva e non rispondeva quando lo chiamavo. Lo sentivo singhiozzare dietro la porta dello studio, parlare da solo... Non sapevo più che fare. Lo stavo perdendo. Con l'aiuto di Shelley e Luis buttammo giù la porta e riuscimmo a trascinarlo fuori. Michail era intervenuto chirurgicamente sul proprio corpo, cercando di ricostruirsi la mano sinistra, che si stava trasformando in un artiglio grottesco e inservibile. Shelley gli diede un sedativo e vegliammo sul suo sonno fino all'alba. Nel corso di quella lunga notte, affranto per l'agonia del vecchio amico, Shelley si sfogò e infranse la promessa di non rivelare a nessuno la storia che Michail gli aveva confidato anni prima. Alla fine del suo racconto capii che né la polizia né il povero ispettore Florián sospettavano di dare la caccia a un fantasma. Michail non era mai stato un criminale né un imbroglione. Michail era stato semplicemente un uomo convinto che il proprio destino fosse quello di beffare la morte prima che la morte beffasse lui.» «Michail Kolvenik nacque nelle fogne di Praga l'ultimo giorno del Diciannovesimo secolo. «La madre era una domestica di appena diciassette anni a servizio presso una famiglia della grande nobiltà. Bella e ingenua, era diventata ben presto la favorita del padrone. Quando si scoprì che era incinta fu cacciata come un cane rognoso e si ritrovò per strada, in mezzo alla neve e alla sporcizia. Marcata a vita. In quegli anni l'inverno spazzava le strade con un manto di morte. Correva voce che i diseredati di Praga trovassero rifugio nei vecchi tunnel della rete fognaria. La leggenda locale raccontava di una vera e propria città sotterranea in cui migliaia di emarginati passavano la loro vita 153
senza mai vedere la luce del sole. Accattoni, malati, orfani, fuggiaschi. Tra di loro si era diffuso il culto di un enigmatico personaggio chiamato il Principe dei Mendicanti. Si diceva che non avesse età, che il suo volto era angelico e il suo sguardo di fuoco, che viveva avvolto in un manto di farfalle nere. Che accoglieva nel proprio regno tutti coloro a cui la crudeltà del mondo aveva negato la possibilità di sopravvivere in superficie. In cerca di quell'universo di ombre, la ragazza si addentrò nei sotterranei. Ben presto scoprì che la leggenda era vera. La gente dei tunnel viveva nelle tenebre e formava un mondo a parte, governato da proprie leggi e devoto a un proprio dio: il Principe dei Mendicanti. Nessuno lo aveva mai visto, ma tutti credevano in lui e facevano offerte in suo onore. Si facevano marchiare a fuoco con il simbolo della farfalla nera. La profezia diceva che un giorno un messia inviato dal Principe dei Mendicanti sarebbe apparso nei tunnel e avrebbe sacrificato la propria vita per redimere dalla sofferenza i loro abitanti. Ma quel salvatore si sarebbe rovinato con le proprie mani. «Fu lì che la giovane madre diede alla luce due gemelli: Andrej e Michail. Andrej venne al mondo segnato da una terribile malattia. Le sue ossa non riuscivano a solidificarsi e il suo corpo cresceva informe e privo di struttura. Un abitante dei tunnel, un medico perseguitato dalla giustizia, spiegò alla ragazza che si trattava di una malattia incurabile. La morte di Andrej era solo questione di tempo. Invece suo fratello Michail era un ragazzino dall'intelligenza vivace e dal carattere schivo che sognava di lasciare i tunnel ed emergere in superficie. Fantasticava spesso di essere lui il messia tanto atteso. Non avendo mai conosciuto il padre, la sua fervida mente attribuì quel ruolo al Principe dei Mendicanti, la cui voce credeva di ascoltare in sogno. In lui non c'erano segni apparenti del terribile male che avrebbe spezzato la vita del fratello. In effetti, Andrej morì a sette anni senza essere mai uscito dalle fogne. Il corpo fu affidato alle correnti sotterranee seguendo il rituale della gente dei tunnel. Michail chiese alla madre perché fosse accaduta una cosa simile. «"È la volontà di Dio, Michail" gli rispose la donna. «Michail non avrebbe mai dimenticato quelle parole. La morte del piccolo Andrej fu un colpo che la madre non riuscì mai a superare. L'inverno successivo si ammalò di polmonite. Michail le rimase accanto fino all'ultimo momento, stringendole la mano tremante. Aveva ventisei anni e il viso di una vecchia. 154
«"È questa la volontà di Dio, mamma?" chiese Michail al corpo esanime. «Non ottenne mai risposta. Qualche giorno più tardi il giovane Michail emerse in superficie. Non c'era più nulla che lo legasse al mondo sotterraneo. Affamato e morto di freddo, cercò rifugio in un androne. Il caso volle che si imbattesse in un medico, Antonin Kolvenik, che rientrava da una visita. Il dottore lo portò in un'osteria e gli fece servire un piatto caldo. «"Come ti chiami, ragazzo?" «"Michail, signore." «Antonin Kolvenik impallidì. «"Avevo un figlio che si chiamava come te. È morto. Dov'è la tua famiglia?" «"Non ho famiglia." «"E tua madre?" «"Dio se l'è portata via." «Il medico annuì gravemente. Prese la valigetta e tirò fuori un marchingegno che lasciò Michail a bocca aperta. C'erano altri strumenti nella borsa. Lucenti. Prodigiosi. «Il dottore gli appoggiò quello strano aggeggio sul petto e si portò le due estremità alle orecchie. «"Che cos'è?" «"Serve per sentire quello che dicono i tuoi polmoni. .. Fai un bel respiro." «"Lei è un mago?" chiese Michail, sbigottito. «Il dottore sorrise. «"No, non sono un mago. Sono solo un medico." «"Che differenza c'è?" «Antonin Kolvenik aveva perso la moglie e il figlio anni prima, durante un'epidemia di colera. Adesso viveva solo, mandava avanti un modesto ambulatorio chirurgico e coltivava una grande passione per le opere di Wagner. Osservò quel ragazzino cencioso con curiosità e compassione. Michail sfoggiò uno dei suoi irresistibili sorrisi. «E. dottor Kolvenik decise di prenderlo sotto la sua protezione e di portarselo a casa, dove Michail trascorse i dieci anni seguenti. Dal buon medico ricevette un'istruzione, un tetto e un nome. Era ancora un adolescente quando cominciò ad assistere il padre adottivo nei suoi interventi e a scoprire i segreti del corpo umano. La misteriosa volontà di Dio si manifesta155
va in complesse strutture fatte di carne e ossa, animate da un'incomprensibile scintilla di magia. Michail assorbiva con avidità quelle lezioni, certo che nella scienza medica ci fosse un messaggio che attendeva di essere svelato. «Non aveva ancora compiuto vent'anni quando la morte gli fece di nuovo visita. La salute dell'anziano dottore era da tempo precaria. Un infarto gli aveva compromesso il cuore una vigilia di Natale mentre progettavano di fare un viaggio nell'Europa del Sud, che Michail non conosceva. Antonin Kolvenik stava morendo. Michail giurò che stavolta la morte non glielo avrebbe strappato. «"Il mio cuore è stanco, Michail" diceva il vecchio dottore. "È venuto il momento di raggiungere la mia Frida e l'altro mio Michail..." «"Io le darò un altro cuore, papà." «Il dottore sorrise. Quello strano ragazzo e le sue idee stravaganti... L'unico motivo per cui temeva di abbandonare questo mondo era che lo avrebbe lasciato solo e indifeso. Gli unici amici di Michail erano i libri. Cosa ne sarebbe stato di lui? «"Mi hai già regalato dieci anni di compagnia, Michail" gli disse. "Ora devi pensare a te. Al tuo futuro " «"Non la lascerò morire." «"Michail, ti ricordi del giorno in cui mi chiedesti la differenza tra un medico e un mago? Ebbene, la magia non esiste. Il nostro corpo comincia a morire nel preciso istante in cui nasciamo. Siamo fragili. Creature passeggere. Ciò che resta di noi sono le azioni, il bene e il male che facciamo ai nostri simili. Capisci quello che voglio dire, Michail?" «Dieci giorni dopo la polizia trovò il ragazzo, coperto di sangue, che piangeva accanto al cadavere dell'uomo che aveva imparato a chiamare padre. I vicini avevano avvisato le autorità dopo aver avvertito uno strano odore e sentito le urla del ragazzo. Il rapporto della polizia stabilì che Michail, sconvolto per la morte del dottore, gli aveva aperto il torace nel tentativo di ricostruirgli il cuore con un meccanismo dotato di valvole e ingranaggi. Michail venne ricoverato nel manicomio di Praga, da dove fuggì due anni dopo fingendosi morto. Quando le autorità andarono all'obitorio trovarono soltanto un lenzuolo bianco circondato da svolazzanti farfalle nere. 156
«Michail arrivò a Barcellona portando con sé i semi della pazzia e del male che si sarebbe manifestato anni dopo. Mostrava scarso interesse per le cose materiali e per la compagnia della gente. Non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui lo conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore...» «Nei mesi successivi all'episodio dello studio, io, Shelley e Luis ci mettemmo d'accordo per tenere Michail lontano dalle sue ossessioni. Distrarlo non era compito facile. Michail capiva sempre quando gli mentivamo, anche se non lo diceva. Stava al nostro gioco, simulando docilità e fingendo di accettare con rassegnazione la malattia... Quando lo guardavo negli occhi, però, potevo scorgervi l'oscurità che lo invadeva. Non si fidava più di noi. La miseria in cui vivevamo peggiorò. Le banche ci avevano bloccato i conti correnti, e i beni della Velo-Granell erano stati confiscati dal governo. Sentís, a dispetto delle manovre con cui sperava di diventare il padrone assoluto dell'azienda, finì sul lastrico. Riuscì a ottenere solo il vecchio appartamento di Michail in calle Princesa. Noi conservammo le proprietà che Michail aveva intestato a mio nome: il Gran Teatro Real, questa inutile tomba in cui mi sono rifugiata, e una serra accanto alla linea ferroviaria di Sarriá, utilizzata un tempo da Michail come laboratorio per i suoi esperimenti. «Per sopravvivere, Luis dovette vendere al miglior offerente i miei gioielli e i miei vestiti. Il corredo da sposa, che non riuscii mai a usare, divenne la nostra fonte di sostentamento. Io e Michail ci parlavamo a stento. Lui vagava per la villa come uno spettro, sempre più deforme. Le mani non erano in grado di reggere un libro. Gli occhi gli consentivano a fatica di leggere. Non lo sentivo più piangere. Ora, semplicemente, rideva. La sua risata amara in piena notte mi gelava il sangue. Con le dita atrofizzate, in una grafia illeggibile, scriveva senza sosta su un quaderno pagine e pagine il cui contenuto ci era ignoto. Ogni volta che il dottor Shelley veniva a trovarlo Michail si chiudeva nello studio e ne usciva solo quando l'amico se n'era andato. Confidai al medico il mio timore che Michail stesse pensando 157
di togliersi la vita. Shelley mi confessò che temeva cose peggiori. Non capii, o non volli capire, a cosa si riferisse. «Un'altra idea assurda mi ronzava da tempo in testa. Pensai che mi avrebbe aiutato a salvare Michail e il nostro matrimonio. Decisi di avere un bambino. Ero convinta che, se fossi riuscita a dargli un figlio, Michail avrebbe trovato una ragione per vivere e per tornare al mio fianco. Mi lasciai trasportare da quell'illusione. Il mio corpo era ansioso di concepire quella creatura portatrice di salvezza e di speranza. Sognavo di allevare un piccolo Michail, puro e innocente. Il mio cuore desiderava riavere un'altra versione di suo padre, libera da ogni male. Dovevo fare in modo che Michail non sospettasse di nulla, perché altrimenti si sarebbe rifiutato. Già riuscire a trovare il momento per restare sola con lui era un'impresa. Come ho già detto, da tempo Michail mi evitava. La sua deformità lo faceva sentire a disagio. La malattia gli aveva intaccato l'uso della parola. Balbettava, pieno di rabbia e di vergogna. Poteva ingerire solo liquidi. Tutti i miei sforzi per dimostrargli che non mi disgustava, che nessuno meglio di me poteva capirlo e condividere la sua sofferenza, sembravano solo peggiorare le cose. Ma fui paziente e, per una volta nella vita, mi illusi di averlo ingannato. Purtroppo ingannai solo me stessa. E fu il più grave dei miei errori. «Quando annunciai a Michail che avremmo avuto un figlio la sua reazione mi terrorizzò. Sparì per quasi un mese. Luis lo ritrovò nella vecchia serra di Sarriá, privo di sensi. Aveva lavorato senza sosta per ricostruirsi la gola e la bocca. Era un mostro. Si era dotato di una voce profonda, metallica e malevola. Le mandibole erano segnate da canini di metallo. Il volto, a eccezione degli occhi, era irriconoscibile. Sotto quell'orrore l'anima del Michail che ancora amavo bruciava nel suo stesso inferno. Accanto al corpo Luis trovò una serie di congegni e centinaia di disegni. Feci in modo che Shelley potesse dare loro un'occhiata mentre Michail recuperava le forze grazie a un lungo sonno che durò tre giorni. Le conclusioni del dottore furono raccapriccianti. Michail aveva perso completamente la ragione. Stava progettando di ricostruirsi da capo a piedi prima che la malattia lo consumasse del tutto. Lo relegammo in cima alla torre, in una cella inespugnabile. Diedi alla luce nostra figlia sentendo le urla selvagge di mio marito, chiuso in gabbia come una belva. Non restai nemmeno un giorno insieme alla bambina. Il dottor Shelley la prese con sé e giurò di farla crescere come una figlia. Si sarebbe chiamata Maria e, come me, non conobbe mai 158
la sua vera madre. La poca vita che mi restava nel cuore svanì con lei, ma sapevo di non avere scelta. La tragedia imminente si respirava nell'aria. Potevo annusarla come un veleno. Era solo questione di tempo. Come sempre, il colpo di grazia venne da dove meno ce lo aspettavamo.» «Benjamin Sentís, ridotto sul lastrico dall'invidia e dall'avidità, nel frattempo aveva tramato la sua vendetta. Già all'epoca si era sospettato che fosse stato lui ad aiutare Sergej a fuggire dopo avermi sfigurato davanti alla cattedrale. Come nell'oscura profezia degli abitanti dei tunnel, aveva utilizzato le mani dategli da Michail anni prima solo per tessere una trama di perfidie e tradimenti. L'ultima notte del 1948 Benjamin Sentís ricomparve per sferrare la pugnalata definitiva a Michail, che odiava profondamente. «In quegli ultimi anni i miei ex tutori, Sergej e Tatiana, avevano vissuto in clandestinità. Anche loro erano ansiosi di vendicarsi. Era giunta l'ora. Sentís sapeva che la squadra dell'ispettore Florián, alla ricerca delle presunte prove contro Michail, aveva deciso di perquisire la casa del Parque Güell il giorno successivo. Se la polizia avesse effettuato la perquisizione le sue menzogne e i suoi traffici sarebbero venuti allo scoperto. Poco prima di mezzogiorno Sergej e Tatiana svuotarono diverse taniche di benzina attorno a casa nostra. Sentís, codardo come sempre, vide le prime fiamme da lontano, nascosto nella sua macchina, e si dileguò. «Quando mi svegliai, un fumo denso saliva su per le scale. Il fuoco si propagò in pochi minuti. Luis mi trascinò fuori dalla stanza e riuscimmo a metterci in salvo saltando da un balcone sulla tettoia dei garage e, da lì, in giardino. Ci voltammo a guardare: le fiamme avvolgevano completamente i primi due piani e salivano verso il torrione in cui avevamo rinchiuso Michail. Volevo correre a salvarlo, ma Luis, ignorando le mie urla e i miei pugni, mi trattenne fra le sue braccia. Solo allora ci accorgemmo di Sergej e Tatiana. Sergej rideva come un folle. Tatiana tremava in silenzio, con le mani che puzzavano di benzina. Quello che avvenne in seguito lo ricordo come una visione da incubo. Le fiamme avevano raggiunto la cima del torrione. Le finestre esplosero in una pioggia di vetri. All'improvviso una sagoma emerse dal fuoco. Credetti di vedere un angelo tenebroso precipitare lungo i muri. Era Michail. Si muoveva come un ragno sulle pareti, alle quali si aggrappava con gli artigli di metallo che si era impiantato, spostandosi a una velocità impressionante. Sergej e Tatiana lo guardavano at159
toniti, incapaci di comprendere quanto stava accadendo. L'ombra si avventò su di loro e, con una forza sovrumana, li trascinò dentro. Non appena li vidi scomparire in quell'inferno persi i sensi. «Luis mi portò nell'unico rifugio che ci era rimasto, le rovine del Gran Teatro Real. Questa è stata fino a oggi la nostra casa. Il giorno dopo i giornali annunciarono la tragedia. Due cadaveri carbonizzati erano stati trovati abbracciati nella soffitta. La polizia dedusse che si trattava di me e di Michail. Solo noi sapevamo che in realtà erano Sergej e Tatiana. Non fu mai trovato un terzo corpo. Quello stesso giorno Shelley e Luis andarono alla serra di Sarriá in cerca di Michail. Neanche l'ombra. La trasformazione stava per essere completata. Shelley raccolse tutte le sue carte, i progetti e gli appunti per non lasciare tracce. Li studiò per settimane, sperando di trovarvi la chiave che ci consentisse di localizzare Michail. Sapevamo che era nascosto da qualche parte in città, in attesa, ultimando la sua trasformazione. Decifrando i suoi appunti, Shelley capì il piano di Michail. Nei quaderni veniva descritto un siero prodotto con l'essenza delle farfalle che aveva allevato per anni, il siero con cui lo avevo visto risuscitare il cadavere di una donna nella fabbrica della Velo-Granell. Alla fine capii cosa aveva in mente. Michail si era eclissato per morire. Aveva bisogno di liberarsi del suo ultimo soffio di umanità per fare il grande salto. Come la farfalla nera, avrebbe seppellito il proprio corpo per poi rinascere dalle tenebre. E una volta rinato non sarebbe più stato Michail Kolvenik. Sarebbe tornato sotto le spoglie di una belva.» Le sue parole risuonarono come un'eco nel Gran Teatro. «Per mesi non abbiamo avuto notizie di Michail né siamo riusciti a trovare il suo nascondiglio» proseguì Eva Irinova. «In fondo, speravamo che il suo piano fallisse. Ci sbagliavamo. Un anno dopo l'incendio due ispettori andarono alla Velo-Granell, avvertiti da una soffiata anonima. Di nuovo Sentís, naturalmente. Non avendo più avuto notizie di Sergej e Tatiana, sospettava che Michail fosse ancora vivo. I locali della fabbrica erano stati sigillati e nessuno poteva accedervi. I due ispettori sorpresero un intruso all'interno e gli spararono. Gli svuotarono addosso i loro caricatori, ma...» «Ecco perché non hanno mai ritrovato i proiettili» dissi, ricordando le parole di Florián. «Il corpo di Kolvenik ha assorbito i colpi...» L'anziana signora annuì. 160
«I corpi dei due poliziotti furono ritrovati a pezzi» disse. «Nessuno, tranne me, Shelley e Luis, riusciva a spiegarsi cosa fosse successo. Michail era tornato. Nei giorni seguenti tutti i membri del vecchio Consiglio di amministrazione della Velo-Granell che lo avevano tradito trovarono la morte in circostanze poco chiare. Sospettavamo che Michail si nascondesse nelle fogne e utilizzasse le gallerie sotterranee per i suoi spostamenti. Non era un mondo sconosciuto per lui. Restava un unico interrogativo. Per quale motivo era tornato alla Velo-Granell? Ancora una volta i suoi appunti ci fornirono la risposta: il siero. Aveva bisogno di iniettarsi il siero per restare in vita. Le scorte della torre erano andate distrutte e quelle che conservava nella serra si erano senza dubbio esaurite. Il dottor Shelley corruppe un ufficiale della polizia per poter entrare nella fabbrica. E lì trovammo un armadio con le ultime due boccette di siero. Shelley ne conservò una di nascosto. Dopo una vita passata a combattere malattie, morte e dolore, era incapace di distruggere quel liquido. Doveva studiarlo, svelarne i segreti... Lo analizzò e riuscì a sintetizzare un composto a base di mercurio con cui si proponeva di neutralizzarne gli effetti. Intinse dodici pallottole nel composto e le mise da parte, sperando di non doverle mai usare.» Capii che si trattava delle pallottole che Shelley aveva consegnato a Luis Claret. Io ero vivo grazie a loro. «E Michail?» chiese Marina. «Senza il siero...» «Trovammo il suo cadavere in una fogna del Barrio Gótico» disse Eva Irinova. «O, almeno, quello che restava di lui, perché si era trasformato in un mostro infernale che puzzava come la carogna putrefatta che aveva usato per ricostruirsi...» L'anziana sollevò lo sguardo verso il vecchio amico Luis. Fu lui a prendere la parola e a completare la storia. «Seppellimmo il corpo nel cimitero di Sarriá, in una tomba anonima» spiegò. «Ufficialmente il signor Kolvenik era morto un anno prima. Non potevamo rivelare la verità. Se Sentís avesse scoperto che la signora era ancora viva non si sarebbe dato pace finché non l'avesse eliminata. Così ci condannammo a una vita segreta fra queste quattro mura...» «Per anni ho creduto che Michail riposasse in pace. Andavo a trovarlo l'ultima domenica di ogni mese, il giorno in cui lo avevo conosciuto, per ricordargli che presto, molto presto, saremmo stati di nuovo insieme. .. Vi161
vevamo in un mondo di ricordi e, tuttavia, abbiamo dimenticato una cosa essenziale...» «Quale?» chiesi. «Maria, nostra figlia.» Io e Marina ci scambiammo un'occhiata. Ricordai che Shelley aveva gettato nel fuoco la fotografia che gli avevamo mostrato. La bambina di quella foto era Maria Shelley. Portando via l'album dalla serra avevamo privato Michail Kolvenik dell'unico ricordo che conservava della figlia che non aveva mai conosciuto. «Shelley allevò Maria come una figlia, ma lei intuì sempre che la storia che le aveva raccontato non era vera, che sua madre non era morta nel metterla al mondo... Shelley non ha mai saputo mentire. Con il passare del tempo Maria trovò i quaderni di Michail nello studio del medico e ricostruì la storia che vi ho raccontato. Maria ha ereditato la pazzia del padre. Ricordo che, il giorno in cui gli rivelai che ero incinta, Michail sorrise. Quel sorriso mi riempì di inquietudine, anche se allora non capii il perché. Solo anni dopo, negli appunti di Michail, scoprii che la farfalla nera delle fogne si alimenta dei propri figli e che, nel seppellirsi per morire, porta con sé una delle sue larve, che poi divora quando rinasce... Mentre voi scoprivate la serra, seguendomi all'uscita del cimitero, anche Maria alla fine trovava quello che stava cercando da anni. La boccetta di siero che Shelley nascondeva... E dopo trent'anni Michail è ritornato dalla morte. Da allora si è cibato della figlia, ricostruendosi con pezzi di altri corpi, acquisendo forza, creando altri esseri come lui...» Deglutii al pensiero di quello che avevo visto la notte precedente nei tunnel. «Quando ho capito quello che stava succedendo» proseguì la donna «ho voluto mettere in guardia Sentís. Sarebbe stato lui la prima vittima. Per non svelare la mia identità mi sono servita di te, Óscar, con quel biglietto da visita. Ho pensato che, vedendolo e ascoltandovi raccontare quel poco che sapevate, la paura lo avrebbe spinto a prendere delle precauzioni. Ancora una volta ho sopravvalutato quel vecchio meschino... Ha deciso di affrontare Michail e di distruggerlo. Nella sua caduta ha trascinato con sé Flo162
rián... Luis era andato al cimitero di Sarriá e aveva verificato che la tomba era vuota. All'inizio sospettavamo che Shelley ci avesse tradito. Pensavamo che fosse stato lui ad andare nella serra per costruire nuove creature... Forse non voleva morire senza aver scoperto i misteri lasciati insoluti da Michail... Non ci siamo mai fidati completamente di lui. Quando abbiamo capito che proteggeva Maria era troppo tardi... Adesso Michail verrà a cercarci.» «Perché?» chiese Marina. «Perché dovrebbe venire a cercarvi?» La donna slacciò in silenzio i primi due bottoni del vestito ed estrasse una catenina da cui pendeva una boccetta di vetro in cui brillava un liquido smeraldino. «Per questa» disse
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Stavo osservando in controluce la boccetta di siero quando li sentii. Anche Marina li aveva sentiti. Qualcosa strisciava sopra la volta del teatro. «Eccoli» disse con voce cupa Luis Claret dalla porta del camerino. Eva Irinova, senza mostrare sorpresa, nascose di nuovo il siero. Vidi Claret tirare fuori il revolver e controllare il caricatore. I proiettili d'argento che gli aveva dato Shelley luccicavano nel cilindro. «Dovete andarvene» ci ordinò Eva Irinova. «Adesso conoscete la verità. Imparate a dimenticarla.» Il suo volto era nascosto dietro il velo e la voce meccanica era priva di espressione. Mi fu impossibile cogliere l'intenzione di quelle parole. «Con noi il suo segreto è al sicuro» dissi comunque. «La verità è sempre al sicuro dalla gente» replicò Eva Irinova. «Ora andatevene, presto.» Claret ci fece cenno di seguirlo e lasciammo il camerino. Attraverso la volta di cristallo la luna proiettava un rettangolo di luce argentea sul palcoscenico. Su quel rettangolo, come ombre danzanti, si stagliavano i profili di Michail Kolvenik e delle sue creature. Alzai gli occhi e mi sembrò di distinguerne una dozzina. «Dio mio...» mormorò Marina accanto a me. Claret stava guardando nella stessa direzione. Vidi la paura nei suoi occhi. Una delle sagome sferrò un colpo brutale sul tetto. Claret armò il percussore e prese la mira. La creatura continuava a vibrare colpi. Nel giro di qualche secondo il vetro avrebbe ceduto. «Sotto la fossa dell'orchestra c'è un tunnel che attraversa la platea e sbuca nel foyer» ci informò Claret senza staccare gli occhi dalla volta. «Sotto la scala principale troverete una botola che immette in un corridoio. Seguitelo fino a un'uscita di emergenza...» «Non sarebbe più facile uscire da dove siamo venuti?» chiesi. «Da casa sua...» «No. Sono già passati di lì...» 164
Marina cominciò a tirarmi. «Facciamo come dice lui, Óscar.» Guardai Claret. Gli lessi negli occhi la fredda serenità di chi va incontro alla morte a volto scoperto. Un attimo dopo il vetro della volta andò in mille pezzi e una creatura lupesca piombò sul palcoscenico, ululando. Claret le sparò al cranio e la colpì in pieno, ma in alto si stagliavano già i profili degli altri mostri. Al centro riconobbi subito Kolvenik. A un suo segnale avanzarono tutti strisciando all'interno del teatro. Io e Marina saltammo nella fossa dell'orchestra e seguimmo le indicazioni di Claret mentre lui ci copriva le spalle. Sentii un altro sparo, assordante. Mi voltai per l'ultima volta prima di infilarmi nello stretto passaggio. Un corpo avvolto in cenci insanguinati balzò sul palcoscenico e si avventò su Claret. L'impatto del proiettile gli aprì nel petto un foro grande come un pugno. Il corpo continuava ad avanzare quando chiusi la botola e spinsi dentro Marina. «Che ne sarà di Claret?» «Non so» mentii. «Corri.» Ci gettammo nel tunnel. Era un cunicolo largo appena un metro e alto non più di un metro e mezzo. Bisognava avanzare chinati, tastando i muri per non perdere l'equilibrio. Avevamo percorso pochi metri quando sentimmo dei passi sopra di noi. Ci stavano seguendo dalla platea. L'eco degli spari si fece sempre più intenso. Mi chiesi quanto tempo e quante pallottole restassero a Claret prima di essere sbranato da quella muta infernale. All'improvviso, sopra le nostre teste, qualcuno sollevò un pannello di legno marcio. La luce penetrò nel tunnel come una lama accecante e qualcosa, un peso morto, cadde ai nostri piedi. Claret. Gli occhi erano vuoti, privi di vita. Tra le sue mani, la canna della pistola fumava ancora. Sul corpo non c'erano ferite né apparenti segni di violenza, ma qualcosa non quadrava. Marina guardò da sopra le mie spalle e gemette. Gli avevano spezzato l'osso del collo con una forza sovrumana, e la sua faccia dava sulla schiena. Un'ombra ci sovrastò e vidi una farfalla nera posarsi sul fedele amico di Kolvenik. Distratto, mi accorsi della presenza di Michail solo quando infilò un braccio attraverso lo squarcio e strinse il collo di Marina con i suoi artigli. La sollevò di peso e la portò via prima che potessi afferrarla. Gridai il suo nome. E allora mi parlò. Non dimenticherò mai quella voce. 165
«Se ci tieni a rivedere la tua amica tutt'intera, portami la boccetta.» Non riuscii ad articolare nemmeno un pensiero per parecchi secondi. Poi l'angoscia mi riportò alla realtà. Mi chinai sul corpo di Claret e armeggiai per togliergli la pistola. I muscoli della mano erano tesi nello spasmo finale. L'indice era inchiodato al grilletto. Un dito dopo l'altro raggiunsi finalmente il mio intento. Aprii il tamburo e vidi che le munizioni erano finite. Tastai le tasche di Claret in cerca di altri proiettili. Trovai la seconda carica di munizioni, sei pallottole d'argento con la punta bucherellata, nella tasca interna della giacca. Il poveretto non aveva fatto in tempo a ricaricare la pistola. L'ombra dell'amico al quale aveva dedicato l'esistenza lo aveva ucciso con un colpo secco e brutale prima che potesse riuscirci. Forse, dopo tanti anni trascorsi nel timore di quell'incontro, Claret non aveva avuto il coraggio di sparare a Michail Kolvenik, o a quanto rimaneva di lui. Ma ormai importava poco. Tremando mi arrampicai lungo le pareti del tunnel, sbucai in platea e corsi in cerca di Marina. I proiettili del dottor Shelley avevano lasciato una scia di corpi sul palcoscenico. Altri erano rimasti conficcati nei lampadari, sui palchi... Luis Claret si era fatto precedere all'inferno dalla muta di belve che accompagnava Kolvenik. Guardando quei cadaveri non potei fare a meno di pensare che quello fosse il destino migliore a cui potevano aspirare. Così inanimati, la natura artificiosa degli innesti e dei pezzi da cui erano formati risaltava ancora di più. Uno dei corpi era steso nel corridoio centrale della platea, con le mascelle slogate. Lo scavalcai. Il vuoto dei suoi occhi opachi mi trasmise una profonda sensazione di freddo. Non c'era niente in loro. Niente. Andai verso il palcoscenico e mi ci arrampicai sopra. La luce nel camerino di Eva Irinova era ancora accesa, ma non c'era più nessuno. L'aria puzzava di carogna. Sulle vecchie fotografie appese alle pareti si scorgevano tracce di dita insanguinate. Kolvenik. Avvertii uno scricchiolio alle mie spalle e mi voltai, puntando la pistola. Sentii dei passi che si allontanavano. «Eva?» chiamai. Tornai sul palcoscenico e scorsi un cerchio di luce ambrata nell'anfiteatro. Quando mi avvicinai intravidi la sagoma di Eva Irinova. Reggeva tra le mani un candelabro e contemplava le rovine del Gran Teatro Real. Le rovine della sua vita. Si voltò e, lentamente, avvicinò la fiamma ai brandelli di velluto che pendevano dai palchi. La stoffa vecchia bruciò all'istante. Il 166
fuoco si estese rapidamente alle pareti dei palchi, alle dorature sui muri e alle poltrone. «No!» gridai. Lei ignorò il mio richiamo e scomparve dalla porta che conduceva alle gallerie dietro i palchi. Nel giro di qualche secondo le fiamme si propagarono come una piaga rabbiosa che avanzava cancellando ogni cosa al suo passaggio. Lo sfavillio delle fiamme svelò un nuovo volto del Gran Teatro. Sentii un'ondata di calore, e l'odore di legno e pittura bruciata mi diede la nausea. Seguii le fiamme con lo sguardo. Sul soffitto intravidi il macchinario di scena, un complesso sistema di corde, pulegge, sipari, fondali sospesi e passerelle. Due occhi ardenti mi osservavano da lassù. Kolvenik. Reggeva Marina con una sola mano, come fosse un giocattolo. Si muoveva sulle impalcature con l'agilità di un gatto. Nel frattempo le fiamme avevano invaso il primo ordine di palchi e lambivano il secondo. Lo squarcio nella volta alimentava il fuoco, creando un immenso effetto camino. Mi precipitai verso le scale di legno. I gradini salivano a zig-zag e vibravano a ogni mio passo. Al terzo piano mi fermai e alzai lo sguardo. Avevo perso Kolvenik. In quel preciso istante sentii degli artigli che mi si conficcavano nella spalla. Voltandomi per sfuggire a quell'abbraccio mortale vidi una delle creature di Kolvenik. I proiettili di Claret le avevano staccato un braccio, ma era ancora viva. Aveva lunghi capelli e il suo viso, un tempo, era stato un viso di donna. Le puntai contro la pistola, ma non si fermò. Improvvisamente ebbi la certezza di aver già visto quel volto. Il luccichio delle fiamme svelò ciò che restava del suo sguardo. Sentii un nodo alla gola. «Maria?» balbettai. La figlia di Kolvenik, o la creatura che ne abitava la carcassa, si fermò per un attimo, esitante. «Maria?» ripetei. Non restava più nulla della creatura angelica che ricordavo. La sua bellezza era stata profanata. Una bestiaccia orribile e patetica aveva preso il suo posto. La sua pelle era ancora fresca: Kolvenik aveva lavorato in fretta. Abbassai la pistola e allungai una mano verso quella povera donna. Forse per lei c'era ancora qualche speranza. «Maria? Mi riconosce? Sono Óscar. Óscar Drai. Si ricorda di me?» Maria Shelley mi fissò intensamente. Per un istante una scintilla di vita le balenò negli occhi. La vidi versare qualche lacrima e guardarsi la mano. Osservò i grotteschi artigli di metallo che le spuntavano dal braccio e la 167
sentii gemere. Le tesi di nuovo la mano. Maria Shelley, tremando, fece un passo indietro. Una vampata di fuoco si propagò lungo la trave che sosteneva il sipario principale. Il telone di stoffa consunta venne giù in un manto di fiamme. Le funi che l'avevano sostenuto schizzarono via come fruste roventi, investendo in pieno la piattaforma su cui ci trovavamo. Una lingua di fuoco ci separò. Ancora una volta tesi la mano alla figlia di Kolvenik. «Per favore, la prenda.» Indietreggiò, sfuggendomi. Il viso era coperto di lacrime. Il legno della piattaforma sotto i nostri piedi scricchiolò. «Maria, per favore...» La creatura fissò le fiamme, come attratta da qualcosa. Mi rivolse un ultimo, indecifrabile sguardo e afferrò la fune rovente che era caduta sulla piattaforma. Il fuoco si propagò dal braccio al torace e ai capelli, le avvolse gli abiti e il viso. La vidi bruciare come se fosse una figura di cera finché le tavole di legno cedettero e il corpo precipitò nell'abisso. Corsi verso una delle uscite del terzo piano. Dovevo trovare Eva Irinova e salvare Marina. «Eva!» urlai, quando finalmente riuscii a localizzarla. Mi ignorò e continuò a camminare. La raggiunsi sulla scalinata di marmo. L'afferrai con forza per un braccio e la bloccai. Lei si divincolò per liberarsi. «Ha preso Marina. Se non gli consegno il siero, la ucciderà.» «La tua amica è già morta. Vattene finché sei in tempo.» «No!» Eva Irinova si guardò intorno. Le scale erano già invase dal fumo. Non restava molto tempo. «Non posso andarmene senza di lei...» «Non capisci» replicò. «Se ti do il siero vi ucciderà tutti e due, e nessuno potrà più fermarlo.» «Lui non vuole uccidere nessuno. Vuole solo vivere.» «Proprio non capisci, Óscar» disse Eva. «Non posso farci niente. È tutto nelle mani di Dio.» Detto questo, girò le spalle e si allontanò. 168
«Nessuno può prendere il posto di Dio. Neppure lei» dissi, ricordandole le sue stesse parole. Si fermò. Sollevai la pistola e gliela puntai contro. Lo scatto del percussore che si armava si perse nell'eco della galleria. A quel punto Eva si voltò. «Sto solo cercando di salvare l'anima di Michail» disse. «Non so se potrà salvare l'anima di Kolvenik, ma la sua sì.» La donna mi fissò in silenzio, affrontando la minaccia della pistola nelle mie mani tremanti. «Saresti capace di spararmi a sangue freddo?» mi chiese. Non risposi. Non conoscevo la risposta. Le uniche cose che mi ossessionavano erano l'immagine di Marina prigioniera degli artigli di Kolvenik e i pochi minuti che ci restavano prima che le fiamme spalancassero definitivamente le porte dell'inferno sul Gran Teatro Real. «La tua amica deve significare davvero molto per te.» Annuii. Dietro il velo mi parve che quella donna abbozzasse il sorriso più triste della sua vita. «Lei lo sa?» chiese. «Non lo so» dissi senza pensare. Annuì lentamente ed estrasse la boccetta color smeraldo. «Io e te siamo uguali, Óscar. Siamo soli e condannati ad amare chi è già condannato...» Mi tese il flacone e io abbassai l'arma. La poggiai a terra e presi la boccetta tra le mani. Mentre la esaminavo sentii di essermi tolto un peso di dosso. Volevo ringraziare Eva Irinova, ma lei non c'era più. E nemmeno la pistola. Quando arrivai all'ultimo piano l'intero edificio agonizzava ai miei piedi. Corsi in fondo al corridoio in cerca di un accesso alla volta del macchinario di scena. Improvvisamente una delle porte, avviluppata dalle fiamme, fu sbalzata via dalla cornice. Un fiume di fuoco invase il corridoio. Ero in trappola. Mi guardai attorno, disperato, e vidi soltanto una via di scampo. Le finestre che davano in strada. Attraverso i vetri appannati scorsi uno stretto cornicione lungo la facciata. Il fuoco avanzava verso di me. I vetri 169
della finestra andarono in pezzi come investiti da un alito infernale. I miei vestiti fumavano. Sentivo quasi le fiamme sulla pelle. Stavo per soffocare. Saltai sul cornicione. L'aria fredda della notte mi sferzò il viso. Molti metri più in basso si intravedevano le strade di Barcellona. Era uno spettacolo impressionante. Il fuoco aveva completamente avvolto il teatro. I ponteggi, ridotti in cenere, erano crollati. L'antica facciata svettava come un maestoso palazzo barocco, una cattedrale di fiamme nel bel mezzo del Raval. Le sirene dei pompieri ululavano come lamentandosi della propria impotenza. Accanto alla guglia metallica, verso la quale convergevano le nervature d'acciaio della volta, Kolvenik teneva prigioniera Marina. «Marina!» gridai. Feci un passo avanti e mi aggrappai d'istinto a un arco di ferro per non cadere. Era rovente. Urlai dal dolore e tirai via la mano. Dal palmo annerito saliva del fumo. In quell'istante un nuovo scossone fece vibrare la struttura d'acciaio, e indovinai quello che stava per succedere. Con un fracasso assordante il teatro crollò, lasciando in piedi, allo scoperto, solo l'armatura di metallo. Una ragnatela d'acciaio sospesa sull'inferno. Al centro, la figura di Kolvenik. Scorsi il viso di Marina. Era viva. Feci la sola cosa che poteva salvarla. Presi la boccetta e la sollevai per farla vedere a Kolvenik. Lui allontanò da sé Marina e l'avvicinò al precipizio. La sentii urlare. Poi Michail protese gli artigli nel vuoto. Il messaggio era chiaro. Davanti a me c'era una trave che poteva servire da ponte. La raggiunsi. «Óscar, no!» mi supplicò Marina. Mi concentrai sulla stretta passerella e avanzai. Sentii la suola delle scarpe che si squagliava. Il vento asfissiante che saliva dalle fiamme ruggiva attorno a me. Passo dopo passo, senza staccare gli occhi dalla trave, come un equilibrista. Quando alzai gli occhi scoprii il volto atterrito di Marina. Era sola! Stavo per abbracciarla, ma Kolvenik si materializzò alle sue spalle. La afferrò di nuovo e la fece penzolare nel vuoto. Tirai fuori la boccetta e feci altrettanto, dandogli a intendere che l'avrei gettata tra le fiamme se non avesse liberato Marina. Ricordai le parole di Eva Irinova: "Vi ucciderà tutti e due...". Così aprii il flacone e versai un paio di gocce nell'abisso. Kolvenik scagliò Marina contro una statua di bronzo e si avventò su di me. Saltai per schivarlo e la boccetta mi scivolò dalle dita. Il siero evaporava a contatto con il metallo rovente. Gli artigli di Kolve170
nik recuperarono la boccetta quando ormai era quasi vuota. Stringendola nel suo pugno di acciaio Kolvenik la fece a pezzi. Qualche goccia color smeraldo gli colò dalle dita. Le fiamme gli illuminarono il volto, un pozzo di odio e di furia incontenibile. Allora cominciò ad avanzare verso di noi. Marina mi afferrò le mani e le strinse forte. Poi chiuse gli occhi e io feci lo stesso. Sentii il fetore putrefatto di Kolvenik a pochi centimetri e mi preparai all'impatto. Il primo sparo attraversò le fiamme sibilando. Riaprii gli occhi e vidi la sagoma di Eva Irinova che avanzava sulla passerella come avevo fatto io. Teneva la pistola sollevata. Una rosa di sangue scuro sbocciò nel petto di Kolvenik. Il secondo sparo, più vicino, gli sfracellò una mano. Il terzo lo colpì a una spalla. Allontanai Marina. Kolvenik si voltò verso Eva, barcollando. La dama in nero avanzava lentamente. Gli puntava contro l'arma senza pietà. Sentii Kolvenik gemere. Il quarto sparo gli aprì un foro nel ventre. Il quinto e ultimo lo centrò in mezzo agli occhi. Un attimo dopo cadde in ginocchio. Eva Irinova lasciò cadere la pistola e corse da lui. Lo prese tra le braccia e lo cullò. I loro occhi si incontrarono di nuovo e la vidi accarezzare quel volto mostruoso. Piangeva. «Porta via la tua amica» disse senza alzare lo sguardo. Annuii. Guidai Marina lungo la passerella e raggiungemmo il cornicione del palazzo. Da lì riuscimmo a calarci sui tetti del fabbricato laterale e a metterci in salvo. Prima di perderli di vista ci voltammo a guardare. La dama in nero stringeva ancora Michail Kolvenik nel suo abbraccio. Intravedemmo le due sagome tra le fiamme fin quando il fuoco non le avvolse completamente. Immaginai la scia delle loro ceneri che si spargevano al vento, sospese su Barcellona, finché l'alba non le disperdeva per sempre. Il giorno dopo i quotidiani parlarono del più grande incendio mai avvenuto in città, della vecchia storia del Gran Teatro Real e di come la sua fine cancellasse le ultime tracce di una Barcellona scomparsa. La cenere aveva steso un manto grigio sulle acque del porto. Sarebbe continuata a cadere sulla città fino al tramonto. Alcune foto scattate da Montjuïc offrivano la visione dantesca di una pira infernale che lambiva il cielo. La tragedia assunse nuovi contorni quando la polizia rivelò di sospettare che l'edificio fosse occupato da emarginati, e che parecchi di loro fossero rimasti intrappolati tra le macerie fumanti. Non si sapeva nulla dell'identità dei due corpi 171
carbonizzati trovati abbracciati in cima alla volta. La verità, come aveva predetto Eva Irinova, era al sicuro dalla gente. Nessun quotidiano ricordò la vecchia storia di Eva Irinova e di Michail Kolvenik. Ormai non interessava più a nessuno. Ricordo quel mattino, assieme a Marina, davanti a un'edicola delle Ramblas. La prima pagina di "La Vanguardia" apriva con un titolo a cinque Colonne: BARCELLONA BRUCIA!
Mattinieri e curiosi si affrettavano a comprare la prima edizione, chiedendosi chi avesse smaltato il cielo d'argento. A passi lenti ci dirigemmo verso Plaza de Cataluña mentre la cenere continuava a cadere attorno a noi come fiocchi di neve morta.
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Nei giorni successivi all'incendio del Gran Teatro Real un'ondata di freddo si abbatté su Barcellona. Per la prima volta da molti anni un manto di neve ricoprì la città, dal porto alla cima del Tibidabo. Io e Marina, in compagnia di Germán, trascorremmo delle festività taciturne, cariche di sguardi sfuggenti. Marina evitava quasi ogni accenno a quanto era accaduto. Cominciai ad accorgermi che evitava la mia compagnia e preferiva ritirarsi nella sua stanza a scrivere. Io ammazzavo il tempo giocando con Germán interminabili partite a scacchi nella grande sala riscaldata dal camino. Guardavo nevicare e aspettavo il momento di trovarmi a tu per tu con Marina. Un momento che non arrivava mai. Germán fingeva di non accorgersi di quello che succedeva e cercava di farmi coraggio chiacchierando. «Marina dice che lei vuole diventare architetto, Óscar.» Io annuivo, anche se non sapevo più cosa desideravo davvero. Passavo le notti in bianco, riordinando i tasselli della storia che avevamo vissuto. Mi sforzai di allontanare dalla memoria i fantasmi di Kolvenik e di Eva Irinova. Più di una volta pensai di andare a trovare il vecchio dottor Shelley per raccontargli quello che era successo. Mi mancò il coraggio di affrontarlo e di spiegargli come avevo assistito alla morte della donna che aveva allevato come una figlia, o come avevo visto bruciare il suo migliore amico. L'ultimo giorno dell'anno la fontana del giardino gelò. Temetti che i miei giorni in compagnia di Marina fossero arrivati al capolinea. Di lì a poco sarei dovuto rientrare in collegio. Trascorremmo l'ultima notte dell'anno alla luce delle candele, ascoltando i rintocchi lontani delle campane della chiesa di Plaza Sarriá. Fuori continuava a nevicare, come se le stelle si fossero staccate dal cielo senza preavviso. A mezzanotte brindammo tra i sussurri. Cercai gli occhi di Marina, ma lei nascose il viso nella penombra. Quella notte tentai di capire cosa potevo aver detto o fatto per meritare quel trattamento. Avvertivo la presenza di Marina nella stanza accanto alla mia. La immaginavo sveglia, un'isola che si allontanava sempre più nella corrente. Bussai con le nocche alla parete. La chiamai invano. 173
Non ottenni risposta. Raccolsi le mie cose e scrissi un biglietto per accomiatarmi da Germán e da Marina, ringraziandoli per l'ospitalità. Qualcosa che non riuscivo a spiegarmi si era spezzato e ormai mi sentivo di troppo. All'alba lasciai il biglietto sul tavolo della cucina e uscii di casa. Mentre m'incamminavo verso il collegio ebbi la certezza che Marina mi stesse osservando dalla finestra della sua camera. La salutai con un gesto della mano, nella speranza che mi stesse guardando. Le impronte dei miei passi si stamparono sulla neve delle strade deserte. Mancava ancora qualche giorno al rientro degli altri alunni. Le stanze del quarto piano erano lagune di solitudine. Mentre disfacevo il bagaglio padre Seguí passò a trovarmi. Lo salutai educatamente e continuai a sistemare i vestiti. «Curiosi gli svizzeri» disse. «Mentre tutti gli altri nascondono i propri peccati, loro li avvolgono nella carta stagnola, li riempiono di liquore, li infiocchettano e li vendono a peso d'oro. Il prefetto mi ha mandato da Zurigo una scatola di cioccolatini immensa e non so con chi dividerla. Qualcuno deve darmi una mano prima che doña Paula la scopra...» «Conti su di me» dissi poco convinto. Seguí si avvicinò alla finestra e osservò la città ai nostri piedi, simile a un miraggio. Si voltò e mi osservò come se potesse leggermi nel pensiero. «Un buon amico mi ha detto una volta che i problemi sono come gli scarafaggi.» Era il tono scherzoso che usava quando voleva parlare sul serio. «Se li porti alla luce si spaventano e scappano.» «Doveva essere un amico saggio» dissi. «No» ribatté Seguí. «Ma era proprio un brav'uomo. Buon anno, Óscar.» «Buon anno, padre.» Passai quei giorni che precedettero l'inizio delle lezioni senza uscire quasi mai dalla mia stanza. Cercavo di leggere, ma le parole volavano via dalle pagine. Le ore se ne andavano guardando dalla finestra la villa di Germán e Marina in lontananza. Mille volte fui tentato di tornarci e più d'una mi spinsi fino all'imbocco del vicolo che portava al loro cancello. Non si sentiva più il grammofono di Germán tra gli alberi, solo il vento fra i rami spogli. Ogni notte rivivevo i fatti delle ultime settimane fino a crol174
lare esausto in un sonno senza riposo, agitato e asfissiante. Le lezioni iniziarono una settimana dopo. Erano giorni plumbei, di vetri appannati e radiatori che gocciolavano nella penombra. I miei vecchi compagni e il loro baccano mi risultavano estranei. Chiacchiere su regali, feste e ricordi che non potevo né volevo condividere. Le voci degli insegnanti mi lasciavano indifferente. Non riuscivo a capire che importanza avessero le elucubrazioni di Hume o come le derivate potessero fermare gli orologi e cambiare il destino di Michail Kolvenik e di Eva Irinova. O il mio. Il ricordo di Marina e delle impressionanti vicende che avevamo vissuto mi impediva di pensare, mangiare o sostenere una conversazione coerente. Era lei l'unica persona con cui potevo condividere la mia angoscia, e la necessità della sua presenza finì per tramutarsi in dolore fisico. Un dolore che mi straziava e che niente e nessuno poteva alleviare. Mi trasformai in una scialba figura che vagava per i corridoi. La mia ombra si confondeva con le pareti. I giorni cadevano come foglie morte. Speravo di ricevere un biglietto di Marina, un segno che desiderava rivedermi. Una semplice scusa per correre da lei e colmare la distanza che ci separava e che sembrava crescere ogni giorno di più. Quel segno non arrivò mai. Ammazzavo il tempo vagabondando per i luoghi in cui ero stato con Marina. Mi sedevo sulle panchine di Plaza Sarriá sperando di vederla passare... Alla fine di gennaio padre Seguí mi convocò nel suo ufficio. Con l'aria cupa e lo sguardo penetrante, mi chiese cosa mi stava succedendo. «Non lo so» risposi. «Se ne parliamo magari riusciamo a capire di cosa si tratta» suggerì Seguí. «Non credo» replicai con una bruschezza di cui mi pentii immediatamente. «Hai trascorso una settimana delle feste di Natale fuori dal collegio. Posso chiederti dove sei stato?» «Con la mia famiglia.» Lo sguardo del mio tutore si tinse di ombre. «Se ti ostini a mentire non ha senso proseguire questa conversazione, Óscar.» «È la verità» dissi. «Sono stato con la mia famiglia.» 175
Febbraio portò con sé il sole. Le luci dell'inverno squagliarono il manto di gelo e brina che aveva ricoperto la città. Il bel tempo mi diede coraggio e un sabato mi presentai a casa di Marina. Il cancello era chiuso con una catena. Oltre gli alberi la vecchia casa appariva più solitaria che mai. Per una frazione di secondo pensai di essere impazzito. Mi ero immaginato tutto? Gli abitanti di quella villa spettrale, la storia di Kolvenik e della dama in nero, l'ispettore Florián, Luis Claret, le creature resuscitate... Personaggi che la mano nera del destino aveva fatto scomparire uno dopo l'altro... Avevo forse sognato Marina e la sua spiaggia incantata? "Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto..." Quella notte mi svegliai urlando, in un bagno di sudore, senza capire dove mi trovavo. In sogno ero ritornato nei tunnel di Kolvenik. Seguivo Marina senza riuscire a raggiungerla, finché la scoprivo sepolta sotto un manto di farfalle nere; nel momento in cui spiccavano il volo, però, lasciavano dietro di sé solo il vuoto. Freddo. Inspiegabile. Il demone distruttore che ossessionava Kolvenik. Il nulla oltre il buio finale. Quando padre Seguí e JF irruppero nella stanza, richiamati dalle mie urla, ci misi qualche secondo a riconoscerli. Seguí mi sentì il polso mentre JF mi guardava sgomento, convinto che il suo amico avesse completamente perso la ragione. Rimasero accanto a me finché non mi riaddormentai. Il giorno seguente, dopo due mesi che non vedevo Marina, decisi di tornare alla villa di Sarriá. Non sarei tornato indietro senza aver prima ottenuto una spiegazione.
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Era una domenica brumosa. Le ombre degli alberi, con i loro rami spogli, disegnavano figure scheletriche. Le campane della chiesa scandivano il ritmo dei miei passi. Mi fermai davanti al cancello sbarrato. C'erano impronte di pneumatici sulle foglie secche e mi chiesi se Germán avesse tirato fuori di nuovo dal garage la sua vecchia Tucker. Mi intrufolai all'interno come un ladro, scavalcando l'inferriata, e mi addentrai nel giardino. La villa era immersa in un totale silenzio, più tetra e desolata che mai. Tra le erbacce vidi la bicicletta di Marina, a terra come un animale ferito. La catena era arrugginita, il manubrio roso dall'umidità. Quello scenario mi diede l'impressione di trovarmi davanti a un rudere, abitato solo da vecchi mobili e invisibili echi. «Marina?» chiamai. La mia voce se ne andò via col vento. Girai attorno alla villa, diretto alla porta di servizio che dava in cucina. Era aperta. Il tavolo vuoto e ricoperto da uno strato di polvere. Mi spinsi all'interno della casa. Silenzio. Arrivai nel grande salone dei quadri. Kirsten mi guardava dalle pareti, ma per me quelli erano gli occhi di Marina... Fu allora che sentii piangere alle mie spalle. Germán se ne stava raggomitolato su una poltrona, immobile come una statua. L'unico movimento era quello delle lacrime che gli solcavano le guance. Non avevo mai visto un uomo della sua età piangere così. Mi gelò il sangue. Pallido, smagrito, con lo sguardo perso nei ritratti, era molto invecchiato dall'ultima volta che l'avevo visto. Indossava uno dei vestiti da cerimonia che ricordavo, ma sporco e sgualcito. Chissà da quanto tempo era in quello stato, da quanti giorni era rannicchiato su quella poltrona. Mi accovacciai di fronte a lui e gli presi la mano. «Germán...» La mano era talmente fredda che mi spaventai. Improvvisamente il pittore mi si gettò al collo, tremando come un bambino. Sentii un nodo alla gola. Lo abbracciai anch'io mentre piangeva sulla mia spalla. Temetti che i medici gli avessero diagnosticato il peggio, che le speranze degli ultimi 177
mesi fossero svanite, e lo lasciai sfogare, mentre mi domandavo dov'era finita Marina, perché non era accanto a Germán... Allora il vecchio sollevò lo sguardo. Mi bastò fissarlo negli occhi per capire la verità. La capii con la brutale chiarezza con cui si dissolvono i sogni. Come un pugnale freddo e avvelenato che ti si conficca irrimediabilmente nell'anima. «Dov'è Marina?» chiesi, quasi balbettando. Germán non riuscì ad articolare parola. Non ce n'era bisogno. Seppi dai suoi occhi che i controlli di Germán all'ospedale di San Pablo erano falsi. Seppi che il medico di La Paz non aveva mai visitato il pittore. Seppi che l'allegria e l'ottimismo di Germán al ritorno da Madrid non avevano niente a che fare con lui. Marina mi aveva ingannato fin dall'inizio. «Il male che si è portato via la madre...» mormorò Germán «... se la sta portando via, caro Óscar, si sta portando via la mia Marina...» Sentii le palpebre chiudersi come lastre di marmo, mentre il mondo si dissolveva lentamente attorno a me. Germán mi abbracciò di nuovo e lì, in quel desolato salone della vecchia villa, scoppiai a piangere come un imbecille mentre le prime gocce di pioggia bagnavano Barcellona. Dal taxi l'ospedale di San Pablo mi sembrò una città sospesa tra le nubi, tutto pinnacoli e impossibili cupole. Germán aveva indossato un abito pulito e viaggiava accanto a me in silenzio. Io avevo in mano un pacchetto avvolto nella carta da regalo più scintillante che ero riuscito a trovare. Quando arrivammo, il medico di Marina, un certo Damián Rojas, mi squadrò dall'alto in basso e mi diede una serie di istruzioni. Non dovevo stancare Marina. Dovevo mostrarmi positivo e ottimista. Era lei ad avere bisogno del mio aiuto, e non il contrario. Non ero andato lì per piangere o lamentarmi, ma per aiutarla. Se non ero capace di seguire alla lettera quelle istruzioni potevo evitarmi il disturbo di tornare. Damián Rojas era un giovane medico il cui camice odorava ancora di università. Usò un tono severo e impaziente, senza sforzarsi troppo di essere cortese. In altre circostanze lo avrei giudicato un cretino arrogante, ma qualcosa in lui mi diceva che non aveva ancora imparato a isolarsi dal dolore dei suoi pazienti, e che quell'atteggiamento era la sua maniera di sopravvivere. Salimmo al quarto piano e percorremmo un lungo corridoio che sem178
brava non finire mai. C'era odore di ospedale, un miscuglio di malattia, creolina e deodorante. Il poco coraggio che mi restava andò in fumo appena misi piede in quell'ala dell'edificio. Germán entrò per primo nella stanza. Mi chiese di aspettarlo fuori mentre annunciava a Marina la mia visita. Intuiva che la figlia avrebbe preferito che io non la vedessi lì. «Lasci che le parli prima io, Óscar...» Aspettai in corridoio, una galleria infinita di porte e di voci perdute. Volti carichi di dolore e perdita si incrociavano in silenzio. Ripetevo fra me, fino alla nausea, le istruzioni del dottor Rojas. Ero lì per aiutarla. Alla fine Germán si affacciò sulla porta e annuì. Deglutii ed entrai. Lui rimase fuori. La stanza era un lungo rettangolo dove la luce svaporava ancora prima di sfiorare il pavimento. Dai finestroni l'avenida Gaudí si perdeva verso l'infinito. Le torri del tempio della Sagrada Familia tagliavano il cielo a metà. C'erano quattro letti separati da ruvide tende. In controluce si scorgevano le sagome degli altri visitatori, come in uno spettacolo di ombre cinesi. Marina occupava l'ultimo letto sulla destra, accanto alla finestra. In quei primi istanti la cosa più difficile fu sostenere il suo sguardo. Le avevano tagliato i capelli, che adesso erano corti come quelli di un ragazzo. Senza la sua lunga chioma Marina mi sembrò umiliata, nuda. Mi morsi forte la lingua per scacciare le lacrime che mi salivano dall'anima. «Me li hanno dovuti tagliare...» disse, veggente. «Per gli esami.» Notai dei segni sul collo e sulla nuca che facevano male solo a guardarli. Cercai di sorridere e le diedi il pacchetto. «A me piacciono» dissi a mo' di saluto. Accettò il pacchetto e se lo mise in grembo. Mi sedetti accanto a lei in silenzio. Marina mi prese la mano e la strinse forte. Aveva perso peso. Sotto il camicione bianco dell'ospedale le si intravedevano le costole. Gli occhi color cenere, cerchiati da occhiaie scure, non brillavano più. Le labbra erano due linee sottili e screpolate. Con mani incerte scartò il pacchetto ed estrasse il libro che conteneva. Lo sfogliò e alzò gli occhi, incuriosita. «Le pagine sono bianche...» «Per ora» risposi. «Abbiamo una bella storia da raccontare, e scriverla è compito tuo.» Strinse il libro al petto. 179
«Come hai trovato Germán?» mi domandò. «Bene» mentii. «Stanco, ma bene.» «E tu, come stai?» «Io?» «No, io. Chi, sennò?» «Sto bene.» «Certo, soprattutto dopo la predica del sergente Rojas...» inarcai le sopracciglia, come se non sapessi a cosa si riferiva. «Mi sei mancato» disse. «Anche tu.» Le nostre parole restarono sospese in aria. Per un lungo istante ci guardammo in silenzio. La sicurezza ostentata da Marina stava per sgretolarsi. «Sei autorizzato a odiarmi» disse allora. «Odiarti? Perché dovrei odiarti?» «Ti ho mentito» rispose Marina. «Quando sei venuto a restituire l'orologio di Germán sapevo già di essere malata. Sono stata egoista, ho voluto avere un amico... E credo che ci siamo persi per strada.» Spostai lo sguardo verso la finestra. «No, non ti odio.» Mi strinse di nuovo la mano, poi si sollevò e mi abbracciò. «Grazie di essere il migliore amico che abbia mai avuto» mi sussurrò all'orecchio. Sentii che mi mancava il fiato. Avrei voluto fuggire a gambe levate. Marina mi strinse forte a sé mentre io scongiuravo che non si accorgesse che stavo piangendo. Il dottor Rojas mi avrebbe tolto il lasciapassare. «Se mi odi solo un pochino al dottor Rojas non dispiacerà» disse allora. «Sicuro che fa bene ai globuli bianchi, o qualcosa del genere.» «Allora solo un pochino.» «Grazie.»
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Nelle settimane che seguirono Germán Blau diventò il mio migliore amico. Alle cinque e mezzo, appena terminate le lezioni in collegio, mi precipitavo dal vecchio pittore. Prendevamo un taxi fino all'ospedale e trascorrevamo il pomeriggio con Marina, finché le infermiere non ci cacciavano dalla stanza. Nel lungo tragitto da Sarriá all'avenida Gaudí imparai che Barcellona, d'inverno, può essere la città più triste del mondo. Le storie e i ricordi di Germán divennero i miei. Durante le lunghe attese nei desolati corridoi dell'ospedale, Germán mi confidò dei segreti che non aveva mai rivelato a nessuno, se non alla moglie. Mi parlò degli anni trascorsi con il maestro Salvat, del suo matrimonio, e di come soltanto la compagnia di Marina gli avesse permesso di sopravvivere alla perdita della moglie. Mi parlò dei suoi dubbi e delle sue paure, di come la vita gli aveva insegnato che le sue certezze erano pure illusioni. Mi disse che molte, troppe, sono le lezioni che non valeva la pena imparare. Anch'io, per la prima volta, parlai con lui senza reticenze e gli raccontai di Marina, dei miei sogni come futuro architetto, in giorni in cui avevo smesso di credere nel futuro. Gli parlai della mia solitudine e di come, prima di incontrare loro, avessi l'impressione di essere al mondo per caso. Gli parlai dei miei timori di esserlo di nuovo, se li avessi perduti. Germán mi ascoltava e mi capiva. Sapeva che le mie parole erano solo un tentativo di fare chiarezza nei miei sentimenti e mi lasciava sfogare. Conservo un ricordo speciale di Germán Blau e dei giorni che trascorremmo assieme a casa sua e nei corridoi dell'ospedale. Sapevamo entrambi che a tenerci uniti era solo Marina e che, in circostanze diverse, non ci saremmo nemmeno rivolti la parola. Ho sempre creduto che Marina fosse diventata quella che era grazie a Germán, e sono certo che anch'io, nel mio piccolo, gli devo più di quanto mi faccia piacere ammettere. Custodisco le sue parole e i suoi consigli sotto chiave, nello scrigno della memoria, sapendo che prima o poi mi serviranno per af181
frontare le mie paure e i miei dubbi. In quel mese di marzo piovve quasi ogni giorno. Marina scriveva la storia di Kolvenik e di Eva Innova nel libro che le avevo regalato, mentre decine di medici e infermieri andavano e venivano con esami, analisi e poi altri esami e altre analisi. Fu allora che mi ricordai della promessa fatta una volta a Marina, sulla funicolare di Vallvidrera, e iniziai a lavorare alla cattedrale. La sua cattedrale. Nella biblioteca del collegio trovai un libro sulla cattedrale di Chartres e iniziai a disegnare i pezzi del modellino che intendevo costruire. Anzitutto li ritagliai sul cartoncino. Dopo un'infinità di tentativi, che quasi mi convinsero che non sarei mai stato capace di progettare neanche una cabina telefonica, affidai a un falegname di calle Margenat l'incarico di ritagliare i miei pezzi su fogli di compensato. «Cos'è che stai costruendo, ragazzo?» mi chiedeva curioso. «Un radiatore?» «Una cattedrale.» Marina mi osservava intrigata mentre costruivo la sua piccola cattedrale sulla mensola della finestra. A volte faceva battute che mi tenevano sveglio nottate intere. «Perché tanta fretta, Óscar?» chiedeva. «Non penserai mica che muoia domani?» La mia cattedrale divenne ben presto popolare tra i pazienti della stanza e i loro visitatori. Doña Carmen, una sivigliana di ottantaquattro anni che occupava il letto accanto a Marina, mi lanciava occhiate scettiche. Aveva una forza di carattere capace di sfiancare un esercito e un sedere grande come una Seicento. Faceva scattare il personale dell'ospedale schioccando le dita. Era stata venditrice di borsa nera, cantante di varietà, contrabbandiera, bailaora, cuoca, tabaccaia e Dio sa cos'altro. Aveva seppellito due mariti e tre figli. Una ventina tra nipoti e parenti venivano spesso a trovarla e a adorarla. Lei li metteva subito in riga, dicendo che le smancerie erano roba da scemi. Ho sempre pensato che doña Carmen fosse nata nel secolo sbagliato e che, se ci fosse stata 182
lei, Napoleone non sarebbe riuscito a oltrepassare i Pirenei. Tutti i presenti, tranne il diabete, erano dello stesso parere. Sul lato opposto della stanza c'era Isabel Llorente, una signora rigida come un manichino che parlava sottovoce e sembrava uscita da una rivista di moda d'anteguerra. Passava le giornate a truccarsi e a guardarsi in uno specchietto per sistemarsi la parrucca. La chemioterapia l'aveva resa calva come una palla da biliardo, ma era convinta che nessuno lo sapesse. Mi dissero che era stata Miss Barcellona nel 1934 e l'amante di un sindaco della città. Ci parlava sempre di una sua avventura con una famosa spia che un giorno o l'altro l'avrebbe portata via da quell'orribile posto in cui l'avevano relegata. Doña Carmen alzava gli occhi al cielo ogni volta che lei apriva bocca. Nessuno andava mai a trovarla, e bastava dirle quanto era bella per farla sorridere per una settimana intera. Un giovedì pomeriggio, entrando nella stanza, trovammo il letto vuoto. Isabel Llorente era morta quella mattina, senza dare il tempo al suo innamorato di portarsela via. La quarta paziente era Valeria Astor, una bambina di nove anni che respirava grazie a una tracheotomia. Mi sorrideva ogni volta che entravo nella stanza. La madre non l'abbandonava un istante e, quando era costretta a uscire, dormiva in corridoio. Invecchiava di un mese ogni giorno che passava. Valeria mi chiedeva sempre se Marina era una scrittrice e io le rispondevo di sì, e che era anche famosa. Una volta - chissà perché - mi domandò se ero un poliziotto. Marina le raccontava delle storie che si inventava al momento. Le sue preferite erano, nell'ordine, di fantasmi, di principesse e di treni. Doña Carmen ascoltava i racconti di Marina e rideva di gusto. Per ringraziarla la madre di Valeria, una donna scialba il cui nome non riuscivo mai a ricordare, regalò a Marina uno scialle di lana fatto con le sue mani. Il dottor Damián Rojas visitava le pazienti varie volte al giorno. Con il tempo quel medico finì per diventarmi simpatico. Scoprii che anni prima aveva studiato nel mio collegio ed era stato sul punto di entrare in seminario. Aveva una splendida fidanzata, Lulù, che sfoggiava una collezione di minigonne e calze di seta nere da mozzare il fiato. Lulù pas183
sava a prenderlo in ospedale ogni sabato e spesso veniva a salutarci e a chiederci se quel bruto del suo fidanzato si comportava bene. Io diventavo sempre rosso come un peperone quando Lulù mi rivolgeva la parola. Marina mi prendeva in giro: diceva che, a forza di guardarla, mi sarebbe venuta la faccia da donnaiolo. Lulù e il dottor Rojas si sposarono in aprile. Quando, una settimana dopo, il medico tornò dalla breve luna di miele a Maiorca era magro come un chiodo. Le infermiere lo guardavano e scoppiavano a ridere. Per qualche mese quello fu il mio mondo. Le lezioni e il collegio erano un insignificante intermezzo. Rojas si mostrava ottimista sulla salute di Marina. Era forte e giovane, diceva, e la terapia stava dando buoni risultati. Io e Germán non sapevamo come ringraziarlo. Gli regalammo sigari, cravatte, libri, persino una Mont Blanc. Lui protestava e diceva di fare soltanto il suo lavoro, ma tutti sapevano che trascorreva in reparto più ore di qualsiasi altro medico. Alla fine di aprile Marina acquistò un po' di peso e di colorito. Facevamo brevi passeggiate per i corridoi e, quando il freddò emigrò verso altri lidi, uscivamo un po' nel chiostro dell'ospedale. Marina continuava a scrivere sul libro che le avevo regalato, anche se non mi faceva leggere nemmeno un rigo. «A che punto sei?» le chiedevo. «È una domanda stupida.» «Gli stupidi fanno domande stupide. I furbi trovano le risposte. A che punto sei?» Non c'era modo di saperlo. Immaginavo che fissare sulla carta l'esperienza che avevamo vissuto insieme avesse per lei un significato speciale. Durante una passeggiata nel chiostro mi disse una cosa che mi fece venire la pelle d'oca. «Promettimi che, se dovesse succedermi qualcosa, finirai tu la storia.» «La finirai tu» replicai. «E dovrai anche dedicarmela.» Nel frattempo la piccola cattedrale di compensato prendeva forma e, anche se doña Carmen diceva che sembrava l'inceneritore di rifiuti di 184
San Adrian del Besós, la guglia della cupola svettava sulla costruzione. Io e Germán cominciammo a fare progetti per organizzare una gita con Marina al suo posto preferito, la caletta segreta fra Tossa e Sant Feliu de Guíxols, non appena avesse ottenuto il permesso di uscire. Il dottor Rojas, sempre prudente, fissò come data di massima la metà di maggio. In quelle settimane imparai che si può vivere di sola speranza e poco più. Secondo il dottor Rojas, Marina doveva trascorrere il maggior tempo possibile camminando e facendo esercizi all'interno dell'ospedale. «Anche farsi bella le gioverà» disse. Da quando si era sposato, Rojas era diventato un esperto di faccende femminili, o almeno così credeva. Un sabato mi spedì con sua moglie Lulù a comprare una vestaglia di seta per Marina. Era un regalo e lo pagò di tasca sua. Accompagnai Lulù in un negozio di biancheria intima sulla Rambla de Cataluña, di fianco al cinema Alexandra. Le commesse la conoscevano bene. Seguii Lulù su e giù per il negozio, osservandola mentre vagliava un'infinità di completi intimi che facevano girare a mille l'immaginazione. Un passatempo infinitamente più stimolante degli scacchi. «Piacerà questo alla tua ragazza?» mi chiedeva Lulù, umettandosi le labbra incendiate di rossetto. Non le dissi che Marina non era la mia ragazza. Ero orgoglioso che qualcuno potesse pensarlo. Inoltre, l'esperienza di acquistare della biancheria intima da donna con Lulù era talmente inebriante che mi limitai ad annuire a tutto come un allocco. Quando lo raccontai a Germán rise di gusto e mi confessò che anche secondo lui la moglie del dottore era gravemente nociva per la salute. Era la prima volta dopo tanti mesi che lo vedevo ridere. Un sabato mattina, poco prima di prendere il taxi per l'ospedale, Germán mi chiese di salire nella stanza di Marina per cercare una boccetta del suo profumo preferito. Mentre rovistavo nei cassetti del comò, sul fondo trovai dei fogli di carta piegati. Li aprii e riconobbi all'istante 185
la calligrafia di Marina. Parlavano di me. Il testo era pieno di correzioni e di paragrafi cancellati. Erano sopravvissute solo queste righe: Il mio amico Óscar è uno di quei principi senza regno che si danno un gran da fare nella speranza di essere baciati e potersi trasformare in rospi. Capisce tutto al contrario e per questo mi piace tanto. Mi osserva pensando che io non lo veda. Crede che potrei svanire se mi tocca e che, se non lo fa, a svanire sarà lui. Mi ha messo su un piedistallo così alto che non sa più come fare per salirci sopra. Pensa che le mie labbra siano le porte del paradiso, ma non sa che sono avvelenate. Io sono così vigliacca che, per non perderlo, non glielo dico. Fingo di non vederlo e, sì, anche di poter svanire... Il mio amico Óscar è uno di quei principi che farebbero bene a tenersi lontani dalle fiabe e dalle principesse che le abitano. Non sa che è il principe azzurro a dover baciare la bella addormentata per svegliarla dal suo sonno eterno, ma questo succede perché Óscar ignora che tutte le fiabe sono menzogne, anche se non tutte le menzogne sono fiabe. I principi non sono azzurri e le addormentate, per quanto belle, non si risvegliano mai dal loro sonno. È il miglior amico che abbia mai avuto e, se un giorno mi imbatterò in Merlino, lo ringrazierò per avermelo fatto incrociare sulla mia strada. Rimisi i fogli al loro posto e raggiunsi Germán. Si era messo un cravattino speciale ed era più vivace del solito. Mi sorrise e io gli restituii il sorriso. Quel giorno, durante il tragitto in taxi, splendeva il sole. Barcellona sfoggiava il suo volto migliore, incantando turisti e nuvole, che si fermavano ad ammirarla. Ma nulla di tutto questo riuscì a scrollarmi di dosso l'inquietudine che quelle poche righe mi avevano conficcato in testa. Era il primo giorno di maggio del 1980.
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Quella mattina trovammo il letto di Marina vuoto, senza lenzuola. Non c'era traccia né del modellino della cattedrale né delle sue cose. Quando mi voltai Germán stava già correndo a cercare il dottore. Gli andai dietro. Lo trovammo nel suo ufficio, con l'aria di chi non aveva chiuso occhio tutta la notte. «Ha avuto una ricaduta» disse soltanto. Ci spiegò che la sera prima, appena un paio d'ore dopo che ce n'eravamo andati, era insorta un'insufficienza respiratoria e il cuore di Marina si era fermato per trentaquattro secondi. L'avevano rianimata e adesso era in terapia intensiva, in stato di incoscienza. Le sue condizioni erano stabili e Rojas riteneva che potesse tornare in reparto in meno di ventiquattro ore, anche se non voleva alimentare in noi false speranze. Notai che le cose di Marina, il libro, la cattedrale di compensato e la vestaglia che non aveva ancora indossato, erano appoggiate su uno scaffale. «Posso vedere mia figlia?» chiese Germán. Rojas ci accompagnò di persona nel reparto di terapia intensiva. Marina era imprigionata in un groviglio di tubi e macchine d'acciaio assai più mostruoso e reale di qualsiasi invenzione di Michail Kolvenik. Se ne stava inerte sul lettino, come un pezzo di carne inscatolato in quelle magiche lattine. Fu allora che vidi il vero volto del demone che tormentava Kolvenik e compresi la sua pazzia. Ricordo che Germán scoppiò a piangere e che una forza incontrollabile mi portò via da lì. Corsi all'impazzata e mi fermai solo in una strada rumorosa affollata di volti anonimi, indifferenti al mio dolore. Ero circondato da gente a cui non importava nulla del destino di Marina. Un universo nel quale la sua vita era una semplice goccia d'acqua tra le onde. Mi venne in mente un solo posto dove potevo andare. 187
Il vecchio palazzo delle Ramblas era sempre immerso nel suo abisso di oscurità. Il dottor Shelley aprì la porta e non mi riconobbe. L'appartamento era sottosopra e puzzava di vecchio. Il medico mi guardò con gli occhi fuori dalle orbite, completamente persi. Lo accompagnai nel suo studio e lo feci sedere accanto alla finestra. L'assenza di Maria aleggiava nell'aria. E bruciava. Tutta l'arroganza e la scontrosità del dottore erano svanite. Avevo di fronte un povero vecchio, solo e disperato. «Se l'è presa» mi disse. «Se l'è presa...» Aspettai che si tranquillizzasse. Alla fine alzò lo sguardo e mi riconobbe. Mi chiese cosa volevo e glielo dissi. Mi osservò con calma. «Non c'è nessuna boccetta del siero di Michail. Sono state tutte distrutte. Non posso darti quello che non ho. Ma se anche lo avessi, ti farei un misero favore. E tu commetteresti un errore a usare il siero per salvare la tua amica. Lo stesso errore commesso da Michail...» Le sue parole tardarono a raggiungermi davvero. Abbiamo orecchie solo per ciò che vogliamo ascoltare, e io non volevo sentire quei discorsi. Shelley sostenne il mio sguardo senza battere ciglio. Sospettai che avesse riconosciuto la mia disperazione, e che i ricordi che gli rievocava lo spaventassero. Mi resi conto che, se fosse dipeso da me, avrei imboccato senza esitare lo stesso cammino di Kolvenik. Non avrei mai più provato a giudicarlo. «Il territorio degli esseri umani è la vita» disse il dottore. «La morte non ci appartiene.» Mi sentivo terribilmente stanco. Avrei voluto arrendermi, ma non sapevo a che cosa. Mi girai per andarmene. Prima che uscissi, Shelley mi richiamò. «Tu eri lì, vero?» mi chiese. Annuii. «Maria è morta in pace, dottore.» Vidi i suoi occhi brillare di lacrime. Mi tese la mano e gliela strinsi. «Grazie.» Fu l'ultima volta che lo vidi.
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Alla fine di quella settimana Marina riprese conoscenza e fu dimessa dalla terapia intensiva. La sistemarono in una stanza al secondo piano che si affacciava sul quartiere di Horta. Era da sola. Non aveva più la forza di scrivere e riusciva a stento a sollevarsi per guardare la sua cattedrale, quasi finita, sulla mensola della finestra. Rojas chiese il permesso di effettuare un'ultima serie di esami. Germán acconsentì. Lui non aveva perso la speranza. Quando Rojas ci comunicò l'esito nel suo ufficio gli si spezzò la voce. Dopo mesi di lotta si arrese all'evidenza, mentre Germán lo rincuorava e gli dava pacche sulle spalle. «Non posso fare di più... Non posso fare di più... Mi scusi...» gemeva Damián Rojas. Due giorni dopo riportammo Marina nella casa di Sarriá. I medici non potevano fare più niente per lei. Ci accomiatammo da doña Carmen, da Rojas e da Lulù, che piangeva come una fontana. La piccola Valeria mi chiese dove portavamo la mia fidanzata, la scrittrice famosa, e se era vero che non le avrebbe più raccontato le sue storie. «A casa. La riportiamo a casa.» Me ne andai dal collegio un lunedì, senza avvertire e senza dire a nessuno dove andavo. Non pensai nemmeno che mi sarebbe mancato. Non m'importava. Il mio posto era accanto a Marina. La sistemammo nella sua stanza. La sua cattedrale, ormai finita, le teneva compagnia dalla finestra. Quello fu l'edificio più bello che abbia mai costruito. Io e Germán facevamo i turni per vegliarla ventiquattr'ore su ventiquattro. Rojas ci aveva detto che non avrebbe sofferto, che si sarebbe spenta lentamente come una fiammella al vento. Marina non mi parve mai così bella come in quegli ultimi giorni nella grande casa di Sarriá. I capelli le erano ricresciuti, ancora più lucenti, screziati da mèche argentate. Anche i suoi occhi erano più luminosi. Io non lasciavo quasi mai la sua stanza. Volevo assaporare ogni minuto e ogni secondo che mi restavano accanto a lei. Spesso passavamo ore abbracciati senza parlare, senza muoverci. Una sera, un giovedì, Marina mi baciò sulle labbra e mi sussurrò all'orecchio che mi amava e che, qualunque cosa fosse accaduta, mi avrebbe amato per sempre. 189
Morì all'alba del giorno successivo, in silenzio, come aveva predetto il dottor Rojas. All'alba, con le prime luci del giorno, Marina mi strinse forte la mano, sorrise al padre e la fiamma dei suoi occhi si spense per sempre. Facemmo l'ultimo viaggio con Marina a bordo della vecchia Tucker. Germán guidò in silenzio fino alla spiaggia, come qualche mese prima. La giornata era così luminosa che volli credere che il mare, da lei tanto amato, si fosse vestito a festa per accoglierla. Parcheggiammo tra gli alberi e scendemmo a riva per spargere le sue ceneri. Al ritorno Germán mi confessò che non se la sentiva di guidare fino a Barcellona. Lasciammo la Tucker tra i pini e ci accordammo con alcuni pescatori di passaggio per farci portare alla stazione ferroviaria. Quando arrivammo alla stazione Francia, a Barcellona, ero sparito da sette giorni. A me sembrava che fossero passati sette anni. Salutai Germán con un abbraccio sulla banchina della stazione. Ancora oggi ignoro dove sia andato e che fine abbia fatto. Sapevamo entrambi che non ci saremmo più potuti guardare negli occhi senza vedervi riflessi quelli di Marina. Lo vidi allontanarsi, una linea sbiadita sulla tela del tempo. Poco dopo un poliziotto in borghese mi riconobbe e mi chiese se il mio nome era Óscar Drai.
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Epilogo
La Barcellona della mia gioventù non esiste più. Le sue strade e la sua luce se ne sono andate per sempre e vivono solo nel ricordo. Quindici anni dopo sono tornato in città e ho ripercorso i luoghi che credevo ormai esiliati dalla memoria. Ho saputo che la villa di Sarriá è stata demolita. Le stradine che la circondavano sono diventate una strada a scorrimento veloce sulla quale, dicono, corre il progresso. Il vecchio cimitero è ancora lì, suppongo, perso nella nebbia. Mi sono seduto in piazza sulla panchina che tanto spesso avevo condiviso con Marina. In lontananza ho scorto il profilo del mio vecchio collegio, ma non ho avuto il coraggio di avvicinarmi. Qualcosa mi diceva che, se lo avessi fatto, la mia giovinezza sarebbe svanita per sempre. Il tempo non ci rende più saggi, solo più vigliacchi. Per anni sono fuggito senza sapere da cosa. Credevo che, correndo più in fretta dell'orizzonte, le ombre del passato non avrebbero intralciato il mio cammino. Credevo che, mettendo tra me e loro una distanza sufficiente, le voci nella mia testa si sarebbero zittite per sempre. Alla fine sono tornato su quella spiaggia segreta di fronte al Mediterraneo. L'eremo di Sant'Elm svettava in lontananza, sempre vigile. Ho ritrovato la vecchia Tucker del mio amico Germán. Curiosamente è ancora lì, tra i pini, alla sua meta finale. Ho raggiunto la riva del mare e mi sono seduto sulla sabbia, nel punto in cui, anni prima, avevo sparso le ceneri di Marina. Il cielo era terso e luminoso come quel giorno e ho avvertito, intensa, la sua presenza. D'un tratto ho capito che non potevo né volevo più fuggire. Ero tornato a casa. Gli ultimi giorni avevo promesso a Marina che, se lei non ci fosse riuscita, avrei finito io questa storia. Il libro dalle pagine bianche che le avevo regalato mi ha fatto compagnia per tutti questi anni. Le sue parole saranno le mie. Non so se riuscirò a onorare la mia promessa. A volte 191
dubito della mia memoria e mi chiedo se non finirò per ricordare solo quello che non è mai accaduto. Marina, ti sei portata via tutte le risposte.
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