Letteratura e cinema: Il remake 9788849113419, 8849113412 [PDF]


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Titolo......Page 2
Presentazione......Page 3
Introduzione......Page 5
Parlare a Ninotchka, ovvero: quale Remake?......Page 14
Enrico V: i film......Page 22
“Who’s There?”:il fantasma di Amleto sullo schermo......Page 36
Destini dell’argomentare in alcune trasposizioni dellaChristmas Carol: voci nel testo......Page 49
Spettri sulle alture: alcuni adattamenti filmici diWuthering Heights......Page 69
Remake e ricezione interculturale.Il sole anche di notte ovvero il buio anche di giorno.......Page 103
The Postman from J. Cain to Tay Garnett to Visconti......Page 122
Two Men who Knew too Much:Hitchcock remakes Hitchcock......Page 150
Metamorphosis and Ideology in The Little Mermaidfrom Andersen to Disney......Page 164
Contributori......Page 181
Indice dei nomi......Page 184
cover.pdf......Page 1
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Letteratura e cinema: Il remake
 9788849113419, 8849113412 [PDF]

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Letteratura e Cinema Il Remake

a cura di

G. Elisa Bussi e Delia Chiaro

Presentazione

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Rosa Maria Bollettieri Bosinelli

Presentazione

Fare e disfare c’è sempre da imparare, dice un vecchio adagio popolare. Leggermente parafrasato (fare e rifare) potrebbe essere il titolo del presente volume, se non suonasse troppo irriverente per le raffinate analisi che esso ci offre. La raccolta che mi accingo a presentare, infatti, consiste di una serie di riflessioni e approfondimenti sul remake nel cinema, visto da varie angolature e documentato da una affascinante ricchezza di esempi, che illustrano come, nel tempo, le storie iscritte nella memoria collettiva sono state ri-raccontate da vari registi o, a volte, dallo stesso regista in una sorta di sfida con se stesso. Ciò che emerge è che il remake non riguarda solo l’industria del cinema, che sfrutta vecchi successi e li ripropone in confezione mutata, ma anche l’arte del cinema in generale e, vorrei aggiungere, l’arte della traduzione (ma senza cadere nella tentazione di assimilare al remake la rilettura che Joyce, ad esempio, dà, dell’Ulisse omerico). La collocazione del volume nella collana “Cinema e traduzione”, di cui costituisce il quinto titolo, è quindi più che appropriata. Si continua così un discorso iniziato con Letteratura e cinema: La trasposizione (a cura di Bussi e Salmon, 1996), dove il concetto di trasposizione veniva studiato nel passaggio da un genere (il romanzo) a un altro (il film), secondo un processo di traduzione intersemiotica (Jakobson, 1959). 1 I saggi qui raccolti invece, discutono come all’interno dello stesso macro-genere (il cinema) si attualizzino i processi traduttivi del remake, nelle varie accezioni che Bussi ben sintetizza nella sua introduzione e che i diversi autori sviluppano nei loro saggi. Potremmo quindi vedere il presente contributo come un allargamento al film del concetto di traduzione come ri-scrittura, 1 Roman Jakobson, “On Linguistic Aspects of Translation”, in R.Brower (Ed.), On Translation, 1959, 232-239. (Tr. it. “Aspetti linguistici della traduzione”. Saggi di linguistica generale. Milano: Feltrinelli, 1966, 56-64.

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Rosa Maria Bollettieri Bosinelli

secondo l’approccio teorico-descrittivo ai “Translation Studies” che André Lefevere (1992) 2 applica alla letteratura. O forse dovremmo parlare di una ri-lettura nel tempo di una stessa storia, che viene ri-presentata non solo con tecniche diverse (dal bianco e nero al colore, per fare un esempio), ma con passaggi di genere (per es. dal dramma alla commedia), spostamenti di luogo e di tempo, re-invenzioni di voci e di caratteri, manipolazioni di ogni genere che inducono a chiedersi se la storia è la ‘stessa’ o è diventata qualcosa di sostanzialmente diverso da una variazione sul tema. E come sempre più oggi quell’area dei “Translation Studies” che si occupa di traduzione multimediale mette in discussione il concetto di testo ‘originale’ di partenza – divenuto instabile, mutevole, sfuggente e continuamente modificabile (come nel caso dei testi elettronici) – e di testo d’arrivo (anch’esso continuamente aggiornabile su supporto elettronico), così il cinema, con la pratica del remake, al di là dell’omaggio ai grandi autori, mostra spesso una disinvolta noncuranza verso qualsiasi forma di ‘fedeltà’ a un originale, di cui spesso si perdono le tracce. Ma queste tracce vengono inseguite con puntigliosa precisione nei diversi articoli, con analisi, commenti e confronti inter- e intra-testuali, che rinverdiscono la memoria di film amati e fatti rivivere anche attraverso i loro rifacimenti più o meno innovativi. Mentre gli altri volumi della collana privilegiano per lo più la dimensione sincronica delle trasposizioni interlinguistiche e interculturali, come, fra l’altro, il doppiaggio e il sottotitolaggio, lo sguardo sui miti del cinema e sui loro remake che qui viene offerto ci porta in un affascinante viaggio nel tempo e contribuisce alla riflessione sulle tante facce dei processi ‘traduttivi’. Infatti, a differenza dal doppiaggio (sincronico) dove il polo della ricezione parla una lingua diversa, non è forse il remake la ‘traduzione’ di un film per un pubblico diacronicamente diverso? Definizione questa da un lato troppo riduttiva, dall’altro, forse, troppo ampia. Ma farei torto agli autori della raccolta, tutti sofisticati esperti e appassionati amanti del cinema, se tentassi di sostituirmi a loro con un approfondimento che non rientra negli scopi di questa breve presentazione.

2 André Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, London and New York: Routledge, 1992 (Trad. it. di S. Campanini, Traduzione e riscrittura: La manipolazione della fama letteraria, UTET: Torino, 1998.

Introduzione

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G. Elisa Bussi

Introduzione

È una attrazione fatale, un rapimento, quello che lega Allan Felix (Woody Allen) a Rick (Humphrey Bogart) nel remake-parodia Play it again, Sam: qualcosa di simile al sentimento di Don Chisciotte per Amadigi di Gaula, un desiderio di immedesimarsi e di emulare, di verificare nel senso di rendere vera la fiction nella propria vita, pronunciare in prima persona quelle stesse parole, ‘restituire’ generosamente la donna all’amico nell’emozione di un sentimento sublime (‘avremo sempre Parigi...’). È in gioco la eco sonora ed emotiva, il già udito e il già ‘patito’ che sono all’origine del racconto tramandato, assieme, nel cinema, al già visto che si è depositato nel repertorio della memoria. Da questo repertorio nascono attese e curiosità, e tutto questo è indisgiungibile dalla pratica del remake. Nel contributo che apre questa raccolta (Parlare a Ninotchka, ovvero: quale remake?) Franco La Polla ripercorre le prospettive teoriche sulla natura del remake, notando innanzi tutto come questa operazione si riferisca essenzialmente al cinema e si realizzi più di frequente in certi ambiti, come quello americano, dove l’industria cinematografica ha raggiunto dimensioni planetarie sia a livello di produzione che di distribuzione. È improprio, infatti, parlare di remake nella letteratura, nonostante gli infiniti fenomeni di influenze, ri-scritture, riprese, plagi, manierismi, spostamenti di genere o di registro, forme varie di intertestualità o, per dirlo con Genette (Palimpsestes, 1982) di ipertestualità rispetto a precedenti ipotesti (è il rapporto, ad esempio, che lega l’Eneide ad entrambe l’Iliade e l’Odissea), dove un ruolo essenziale è affidato alla competenza del lettore e alla sua capacità di cogliere allusioni, rimandi, citazioni, parodie. È altrettanto improprio parlare di remake per il teatro, dove la scansione della replica, della nuova regia e della ri-messa in scena sono comunque caratteristiche intrinseche e previste che posseggono una loro consolidatissima tradizione anche sotto il profilo critico interpretativo. Il ripe-

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G. Elisa Bussi

tersi dell’evento-performance giorno dopo giorno, in forme certamente mai identiche, delinea quella zona del transeunte e dell’effimero che è elemento inerente al genere, dove il testo è previsto e predestinato a riprodursi – identico e diverso – nell’hic et nunc del rapporto tra platea e palcoscenico. Parlando di remake ci limiteremo quindi al cinema, considerando questa pratica come nata col cinema e rimasta essenzialmente dentro il cinema. Non c’è dubbio, infatti, che, non avendo alcuna tradizione alle spalle, il cinema abbia fin da principio tratto i suoi materiali un po’ dovunque, saccheggiando, ancor prima della narrativa, la storia e la cronaca (‘actualités reconstituées’) e dunque si sia subito posto come ri-produzione tecnica, basata su meccanismi fotografici e di montaggio di natura inerentemente ri-produttiva, dove il fare è essenzialmente ri-fare, duplicare, ricombinare e reimpiegare. Secondo A. Costa (1984: 21) l’operazione remake nel cinema, suggerisce termini presi a prestito dal disegno industriale, come ‘re-designing’, o ‘re-styling’, ed entro questa ottica si possono annoverare tra i remake anche le varie riprese, rimaneggiamenti, revisioni, sequels, calcolate deviazioni, cambiamenti di segno rispetto ad un modello, pastiches, fenomeni diversi di auto-riflessività (Stam, 1985) che presuppongono una consapevolezza spettatoriale basata su un comune deposito di memoria collettiva (Tinazzi, 1984: 29) e quindi, in via di principio, un assenso e una complicità. In certi casi è difficile distinguere tra la citazione/omaggio ad un autore precedente, e il furto inconsapevole o deliberato (o addirittura teorizzato). C’è un momento in cui i confini divengono estremamente labili e il cinema ci appare, per molta parte, produzione e ri-produzione collettiva, accelerata e magmatica, dove le marche tradizionali della ‘authorship’ individuale divengono virtualmente irrecuperabili. D’altra parte i valori del ‘bello e unico’ sono stati da tempo messi in questione, e l’occhio – soprattutto quello della macchina da presa – ha uno sguardo carico di esperienza. Il remake è una pratica più che mai promossa dall’industria cinematografica, soprattutto se all’origine vi sono opere (i classici!) che posseggono un solido – già provato – impianto narrativo e una solida – già confermata – fama presso il pubblico. Nella scelta dei film ‘da rifare’, un criterio privilegiato è l’appartenenza di ‘genere’. Ma per delineare il paesaggio teorico che sta dietro questa pratica cinematografica riconsideriamo, sulla scorta delle indicazioni di Franco La Polla, le diverse accezioni del termine remake. 1. Si può cominciare con una accezione limitata, dove il remake è il consapevole rifacimento di un film su un altro film che si pone come modello, trascurando l’eventuale rapporto con un romanzo o racconto primario di

Introduzione

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origine. Può essere un auto-remake esemplare come quello di William Wyler che rifa These Three (1937) come The Children’s Hour (1961), una decisione dettata dal desiderio di aggiornare un testo di fronte ad un pubblico diverso, con una sensibilità e un gusto oramai mutati (Fink, 1984: 4451). Oppure si tratta di Hitchcock che rifa lo stesso film per ragioni, questa volta, di natura personale: il desiderio di rimettersi alla prova su una trama avvincente e gradevole, l’impiego del colore e di mezzi tecnici aggiornati, la curiosità di far ‘reagire’ un vecchio elemento – una trama efficace – con elementi nuovi come, ad esempio, un cast di attori noti e apprezzati. È il caso di The Man Who Knew Too Much, versioni 1 e 2, analizzato da Delia Chiaro in questa raccolta (Two Men Who Knew Too Much: Hitchcock remakes Hitchcock). In questi casi ci troviamo ad operare un confronto intramediale tra opere nate nello stesso medium e riproposte per ragioni diverse. Spesso è la stessa casa produttrice che, detenendone i diritti d’autore, invita lo stesso regista a rifare una sua opera di successo in versione aggiornata sia tematicamente che tecnicamente. È possibile che nell’intenzione del produttore e del regista il remake debba prendere il posto del film precedente cancellandolo, ma questo non avviene mai completamente: Per molta parte si darà, nella memoria collettiva, una compresenza delle due versioni, una sorta di dilatazione del testo primario che non ha eguali nella dinamica della ricezione. Un caso pallidamente analogo, ma ben meno verificabile, accade quando un lettore riprende in mano un testo letterario e nella sua memoria, in qualche modo, la seconda lettura si sovrappone e convive con una primitiva (sommaria o ingenua) lettura. 2. Fin dalle origini, come si sa, il cinema ha saccheggiato la letteratura di tutti i tempi e generi, nella sua onnivora fame di storie da trasporre per un pubblico crescente e vario. E un’altra forma di remake grandemente praticata si attua quindi nei successivi ‘ritorni’ del cinema rispetto ad un’opera letteraria d’origine: si dà in questo caso un rapporto intermediale e si pone il problema dei diversi adattamenti o trasposizioni come ‘diramazioni’ nate dallo stesso testo di origine, che si commentano o si complementano a vicenda, rivendicando, l’una rispetto all’altra, una maggiore correttezza filologica, o una maggiore ‘fedeltà’, o, all’inverso, maggiore sforzo innovativo, una più agile libertà di interpretazione. Nel caso di un certo cinema, destinato ad un pubblico particolarmente avvertito, le ragioni che guidano al ritorno verso un’opera letteraria possono essere svariate, ma sempre presente è la sfida intersemiotica, nel rinnovato tentativo a che la macchina da presa riesca a meglio rendere ‘quella’ voce e ‘quella’ presenza autoriale (si pensi ai diversi successivi approcci del cinema nei confronti di Proust). Nel caso del cinema industriale in

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G. Elisa Bussi

senso lato, il ritorno ad un’opera letteraria può essere dettato dalla sua comprovata tenuta narrativa, la solidità del ‘plot’ a cui si è già accennato, ma un altro decisivo criterio è che l’opera possa calarsi, almeno entro certi limiti, in un genere cinematografico riconoscibile. Come è stato più volte notato, infatti, il cinema ambisce ad ‘accogliere’ la letteratura entro i suoi propri pre-esistenti generi, anche se talora, flessibilmente, ‘crea’ generi per la letteratura, disponibili, a loro volta, per altre trasposizioni, in quella dialettica tra ripetizione e innovazione, attesa e sorpresa che sono essenziali alla circolazione massmediatica. Anche nella scelta dei film ‘da rifare’, dunque, uno dei criteri è la connotazione di genere, poiché “il genere è una fonte inesauribile di remakes” (Nepoti, 1982). Un buon esempio è costituito dal genere fantastico, con le innumerevoli riprese dei vari Dr. Jekyll, Dracula, Frankenstein, a cui si possono aggiungere le svariate serie entro il Science Fiction e l’horror. Si rifanno volentieri film che appartengono ai (pochi) generi che resistono, a generi tradizionali come il ‘western’ nelle sue variazioni, come al più recente ‘fantasy’, ma si rifanno anche ‘thrillers’ come Cape Fear, gloriosi ‘noirs’ come The Postman always rings twice, grossi ‘weepies’ tratti da opere letterarie (Jane Eyre, Wuthering Heights), ‘costume comedies’ come dai romanzi della Austen e, naturalmente, Shakespeare, un genere a sé stante, secondo una voga crescente che andrebbe analizzata in modo particolare. È ancora il genere che consente al remake, secondo Nepoti, “la sua straordinaria valenza di transizione”, dal momento che il remake implica spesso un deliberato salto di genere (dal dramma alla commedia, al musical, alla parodia che tutto macina) o una commistione di generi secondo i vari ‘blends’ che si sono visti, tra l’horror e il S/F, tra il thriller e il psicologico, tra personaggi come il ‘westerner’ e il samurai, e – nel grande Kuroshawa – tra il samurai e l’eroe shakespeariano. Storie già note, formule consolidate entro cui fare ‘reagire’ elementi di nuova immissione – attori, ambienti, contesti – aggiornando o spostando, lavorando attorno alle variabili che ruotano intorno alla invariante del nodo drammatico: il pubblico ama riconoscere e riascoltare, ma è anche attratto da una angolazione inedita, dal gioco di una ri-presentazione che apre uno squarcio e consente una nuova interpretazione. I modelli e le forme dell’espressione tendono ad influenzarsi e a modificarsi ai due lati della comunicazione: la riformulazione delle storie trova una corrispondenza nella revisione dei modelli percettivi dello spettatore, e tali modelli, a loro volta, condizionano le successive scelte di produttori e registi. Un esempio per tutti: l’iperattivismo, il ritmo frenetico impresso da Branagh al ‘suo’ Shakespeare non si giustificano se non con il desiderio di tenere il passo con un cinema di oramai pervasivi ‘effetti speciali’ e acceleratissimo montaggio, pena la fuga di un pubblico reso facilmente impaziente di fronte ad

Introduzione

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una tecnica e ad un ritmo più pacati. I mezzi tecnici a disposizione, dunque, ed un eccezionale ‘star system’ consentono straordinari ‘aggiornamenti’ rispetto al cinema preesistente. Se pensiamo a industrie cinematografiche di minore entità rispetto agli US, come quella britannica, ritroviamo un notevole elemento di ‘National Heritage’ e di identificazione nazionale nella decisione di trasporre o ritrasporre nel cinema i grandi classici del canone (Austen, Brontë, Forster, Woolf), anche se spesso, dove non può sopperire l’amor patrio, si deve ricorrere alle co-produzioni e agli inevitabili compromessi. Si pensi al caso dei romanzi della Austen, per i quali l’unica trasposizione realizzata con finanziamenti interamente britannici è quella di Persuasion, certamente, con i suoi innegabili pregi, la più ‘dimessa’ tra tutte. Il fenomeno dello Shakespeare in film, sostiene Giorgio Cremonini, può costituire un esempio paradigmatico nella riflessione sul remake: fin dalle origini il cinema, l’ultima delle arti, si è misurato con le grandi opere ponendosi come il medium ultranuovo che le avrebbe riproposte tutte nel suo universale linguaggio. D’altro canto l’esempio del cinema shakespeariano è utile, nella visione di Aldo Viganò, a chiarire la natura stessa del cinema. Arte ri-produttiva per vocazione, il cinema ha dimostrato come nulla sia inviolabile: non esistono gerarchie stabili tra elementi costitutivi, né un focus che non possa essere spostato, né invarianti fisse e intoccabili e nemmeno varianti che non si possano pertinentizzare. In sostanza, non esiste un unico intreccio o rappresentazione per la fabula originaria che si può riproporre nelle combinazioni più diverse (come i recenti lavori di Stoppard da e su Shakespeare hanno dimostrato). Nei saggi contenuti in questa raccolta entrambi i critici che abbiamo menzionato si misurano con remake da Shakespeare. Giorgio Cremonini analizza i due film, rispettivamente di Olivier e di Branagh, tratti dall’Enrico V (Henry V: i film) e Aldo Viganò fa una rassegna delle principali trasposizioni cinematografiche dell’Amleto, soffermandosi in particolare su alcune delle più salienti, come quelle di Olivier e di Kozintsev (‘Who’s there?’ Il fantasma di Amleto sullo schermo). In entrambi i casi, sostengono i due studiosi, siamo di fronte a successivi ritorni all’ur-text, nella sottesa presunzione di proporne una lettura più autentica e aggiornata. Ma sono ritorni avvertiti e consapevoli della inevitabile influenza degli adattamenti precedenti, in una concatenazione di ‘riletture’ e di esperienze interpretative che si precisano, si commentano, si citano, o deliberatamente si contraddicono e si ‘correggono’ l’una rispetto all’altra. Bastano ridotte elisioni o reintegrazioni dal testo shakespeariano, sostiene Cremonini, accompagnate da un certo ‘lavoro’ sugli altri codici perché nelle due versioni si restituiscano due incarnazioni di Henry V (umori, atteggiamenti) totalmente diverse e tuttavia non scollegate, al punto da farci sospettare che

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nell’intenzione di Branagh ci sia stata, oltre che una forma di omaggio a Shakespeare, anche una sfida alla leggenda di Olivier.Tuttavia anche l’umore polemico non guasta, e non si può mai dimenticare, come sostiene Viganò, che ogni versione filmica di un testo pre-esistente è come “l’evocazione di un fantasma, la concretizzazione di una virtualità ad essere”. 3. Si può accogliere una accezione più ampia del termine remake, dove l’opera ‘rifatta’ mantiene dell’opera originaria la ‘fabula’, cioè a dire la struttura essenziale della storia (che si pone quindi come invariante) ma realizza modificazioni (varianti) anche cospicue che possono riferirsi al genere, alla collocazione spazio-temporale, alla sequenza narrativa, ai personaggi, al ritmo o passo del racconto. In questa seconda accezione, il remake può considerarsi una variazione sul tema, dove sceneggiatori e registi si misurano apertamente sia con l’eventuale testo letterario d’origine che con la precedente (o le precedenti) versione cinematografica attuando cospicue trasformazioni. Si possono fare rientrare in questa categoria racconti contenenti alcuni forti elementi archetipici, come il racconto di Natale di Dickens A Christmas Carol, o quello di Andersen The Little Mermaid, oggetto, fin dall’origine, di costanti ininterrotte ri-narrazioni attraverso tutti i possibili media di volta in volta disponibili, dal racconto al teatro, dalla commedia musicale al mimo e, naturalmente, al film. Decisivo è il momento di passaggio a quel medium particolarissimo che sono i cartoni animati e quindi, ad un certo momento inevitabile, la fase della ‘disneyzzazione’ delle storie, con alcune interessanti trasformazioni che vanno ad incidere in modo più o meno importante sul senso originario. Il primo caso è analizzato da Marina Bondi nell’articolo dal titolo Destini dell’argomentare in alcune trasposizioni della ‘Christmas Carol’: voci nel testo, e il secondo è oggetto del contributo di Zeenat Saleh, Metamorphosis and ideology in ‘The Little Mermaid’ from Andersen to Disney. Una operazione che pare attrarre in modo particolare gli sceneggiatori in casi di remake è quella che coinvolge uno scarto spazio-temporale, come accade per il Riccardo III di Loncraine ambientato agli inizi del secolo XX, o il recente caso di una Emma, da Jane Austen, ambientata nella periferia di New York (Clueless). In questa logica si pone il caso analizzato in questa raccolta da Laura Salmon (Remake e ricezione interculturale. ‘Il sole anche di notte’ ovvero ‘il buio anche di giorno’). Il racconto tolstoiano Otec Sergij (Padre Sergio) viene analizzato nelle due successive trasposizioni autoctone (il film russo di J. Protazanov, 1917, e il film sovietico di I.Talankin, 1978, che mantengono il titolo del racconto oroginario) e nella trasposizione dei fratelli Taviani (Il sole anche di notte, 1990) dove, paradossalmente, la vicenda viene ‘attualizzata’ tramite il ri-ambientamento spazio-temporale dalla Russia

Introduzione

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zarista di metà ottocento alla Napoli borbonica di un secolo prima. Nel caso di spostamento della ‘fabula’ da una cultura all’altra, quando la variabilità colpisce la collocazione spazio-temporale, sostiene Salmon, il remake può offrire l’occasione per un confronto intersemiotico tra culture diverse. Ma se è lecito rappresentare la fabula tante volte quante sono le sue legittime interpretazioni, la dislocazione può fare incorrere in gravi equivoci (e questo, secondo la studiosa, sembra essere il caso del remake italiano), o può provocare la ‘straniazione’ totale della versione dal suo originale, se non si tiene conto di certi canoni interpretativi che si sono formati nella tradizione critica che accompagna le grandi opere della letteratura. Anche il racconto di J.Caine (The Postman Always rings twice) viene spostato dal Mid-West degli Stati Uniti al Delta ferrarese (Visconti, Ossessione, 1942) per essere poi riportato in ambienti più congrui (Tay Garnett, stesso titolo del romanzo, 1946) nelle trasposizioni considerate da Michael Hayes nel suo contributo dal titolo The Postman from J.Cain to Tay Garnett to Visconti. Si introducono modificazioni del quadro semiotico, i rapporti e le gerarchie tra i vari personaggi, eventi o esistenti, per usare le categorie di Chatman, che inevitabilmente portano a modificazioni della struttura semantica, ovvero del senso della storia. Per chiarire meglio la dinamica delle varianti e delle invarianti, lo spostamento di pertinenza e di gerarchia degli elementi costituenti del testo, Hayes riprende gli strumenti della glossematica di Hjemslev, così come sono stati riproposti da Eco e successivamente elaborati da Sidney Lamb. Adattando questa griglia linguistica al film, lo studioso ne prova l’efficacia come strumento oggettivo – e quindi generalizzabile – per una mappatura di elementi costitutivi che permetta un confronto coerente tra i diversi testi, e tra lo stato delle cose (delle relazioni e dei conflitti) in diversi momenti entro lo stesso testo. Mentre la glossematica suddivide il testo nei due piani della espressione e del contenuto, ognuno dei quali analizzabile secondo i livelli di forma e sostanza, delineando una griglia interpretativa della sincronia, o di successivi stati sincronici entro il processo del cambiamento, con elegante e semplice intuizione Eco (1984: 101, 336) rappresenta anche la dinamica del cambiamento: i materiali amorfi, a-semiotici che si trovano al di là della soglia delle sostanze sono virtualmente segmentabili, e nuovi elementi possono essere resi semioticamente rilevanti e semanticamente pertinenti. Ed è a questa visione che Hayes si ispira nella sua analisi dello sviluppo della vicenda (in realtà tre sviluppi abbastanza diversi) dei due amanti assassini, dal primitivo breve romanzo ‘hard-boiled’ alle due trasposizioni cinematografiche considerate. 4. Si può dare infine una accezione ancora più ampia e vaga del termine remake se usato in riferimento al recupero dei grandi ‘miti’ – le narrazioni

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G. Elisa Bussi

alle origini di ogni cultura – variamente rivisitati e rivestiti di nuovi panni semiotici. Pensiamo al mito degli amanti sventurati, al cui legame amoroso le potenze del cielo e/o della terra frappongono ostacoli di ogni genere: si prenda, in epoca moderna, il mito di Romeo e Giulietta, recuperato alla letteratura e al cinema infinite volte, divenuto, film, musical, balletto, canzone, parodia, in una infinita ri-narrazione della stessa ‘storia’, nei più diversi travestimenti e travisamenti, ma invariata nel suo nocciolo drammatico, appunto nel suo ‘mito’ centrale. In questi casi la preconoscenza è data per scontata, e l’interesse dello spettatore sarà dunque rivolto ai diversi modi in cui “l’energia drammaturgica” (Viganò) originaria è stata ricatturata e riproposta nella tipica presentificazione del cinema. A questa categoria ‘mitica’ sembra oramai appartenere anche la storia di Catherine e Heathcliff, dal romanzo di Emily Brontë, nel tempo ripreso in tredici versioni cinematografiche (forse di più), divenuto fotoromanzo e canzone, analizzato qui da chi scrive in tre delle sue versioni filmiche più riconoscibili, e cioè quelle di Wyler, Buñuel e Kosminski che vengono studiate in un rapporto dialettico con le varie letture critiche a cui il romanzo stesso è stato, nel tempo, sottoposto (Spettri sulle alture: adattamenti filmici di Wuthering Heights). “A rose is a rose is a rose is a rose”. Ad ogni occorrenza sembra che la parola significhi sempre qualcosa d’altro, dice Eco, e quello che sembrava un messaggio univoco diventa un testo aperto che genera i suoi molteplici sensi. Attraverso la confluenza o la disfluenza dei suoi codici il cinema può creare quella sospensione e molteplicità del senso che apparivano prerogativa della parola ed in particolare della parola letteraria. Nella pratica del remake queste possibilità si moltiplicano. Riferimenti bibliografici Calabrese, O. (1984). “I replicanti”. Cinema e Cinema. Estetica del remake, 39, 25-39 Campari, R. (1983). Il racconto del film. Bari: Laterza Costa, A. (1984). “Questa storia non è finita”. Cinema e Cinema, cit. 16-24 Costa de Beauregard, R. (Ed.).(1995). Le cinema se regarde; spectacle et specularité. Toulouse-Le Mirail: Presses Universitaires Eco, U.(1984). Trattato di Semiotica generale. Milano: Bompiani Fink, G. (1984). “Elogio della seconda chance”. Cinema e Cinema, cit. 23-25 Genette, G. (1982). Palimpsestes. La littérature au second degré. Paris: Seuil.Tr.it. Palinsesti. La letteratura al secondo grado.Torino: Einaudi, 1997. Mayne, J. (1993). Cinema and Spectatorship. London: Routledge Nepoti, R. (1982). Il Remake. Ovvero il rifacimento parziale o totale di un film. Cesena: Centro Cinema

Introduzione

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Stam, R. (1985). Reflexivity in Film and Literature, from Don Quixote to JeanLuc Godard, Michigan, Ann Arbor: UMI Research Press Tinazzi, G. (1984). “Falso, ripetizione, remake”. Cinema e Cinema, cit. 27-31

Parlare a Ninotchka, ovvero: quale Remake?

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Franco La Polla

Parlare a Ninotchka, ovvero: quale Remake?

In un’epoca nella quale la coscienza generale è che tutto è stato già detto (l’hanno sostenuto fra i tanti, e negli ambiti più diversi, Harold Bloom, Orson Welles, Peter Bogdanovich, ecc.) non può meravigliare che tanto l’idea quanto la pratica del remake stiano prendendo sempre più spazio. Un’idea, peraltro, che vanta precedenti illustri, dalla teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici a quella marxiana della ripetizione della Storia (prima tragedia e poi commedia, come si ricorderà). Freud stesso è in fondo un grande sostenitore del remake, soprattutto quando in Al di là del principio del piacere scrive che “la ripetizione, la ri-esperienza di qualcosa di identico, è chiaramente in se stessa una fonte di piacere”. L’unica apparente (e dirò poi perché impiego questo termine) differenza con quello che noi definiamo tale nell’esperienza della nostra quotidiana fruizione di un film o di un libro è che in questo caso la struttura di riferimento si identifica in un’opera precedente, mentre nel caso della psicanalisi – di qualunque psicanalisi – essa si identifica in un modello (un complesso per Freud, un archetipo per Jung, e così via). Questa riflessione favorisce una prima formulazione relativa al concetto di remake su quello che chiamerò il suo senso lato. Tutta la letteratura (o quantomeno la narrativa, ivi compresa la poesia narrativa) è in fondo un’enorme serie di remakes, spesso derivati dalla sua forma più arcaica, quella del mito. Un po’ come nel concetto campbelliano di monomito – versione sostanzialmente junghiana del formalismo – una Ur-narrazione è all’origine di una serie pressoché infinita di varianti. Non a caso qualunque testo è leggibile come una “discesa agli inferi” ed un ritorno (o una morte sacrificale) con un dono da offrire alla comunità, così come ogni stadio del viaggio è già codificato e leggibile in termini simbolici secondo la struttura fornita dal modello originario del mito, catalogato, appunto, così chiaramente da Joseph Campbell in L’eroe dai mille volti. Saggi come “The Red Badge of Courage as Myth and Symbol” di John E. Hart o “An Archetypal Analysis of Conrad’s Nostromo” di Claire Rosenfield

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testimoniano perfettamente di come e quanto la narrativa moderna – e se è per questo, qualunque narrativa – derivi direttamente da alcune fondamentali strutture simboliche del racconto mitico. Accanto a questa sorta di estremizzazione del discorso si pone quello che definirò senso medio, vale a dire il (ri)trattamento di un medesimo soggetto, sia pure con talune variazioni. Si pensi al romanzo di educazione e d’esperienza come lo ritroviamo in Balzac e Stendhal, ma anche in Theodore Dreiser e Thomas Wolfe (sono solo pochi nomi fra i moltissimi possibili), nel quale un giovane protagonista usualmente giunto in città dalla campagna in cerca di un inserimento sociale, si fa strada migliorando la propria posizione ma compiendo peraltro alcuni passi falsi, o meglio, utili sino a che non ne compie altri che si rivelano falsi (ad esempio, un legame con una donna – spesso matura o già sposata – che l’aiuta nella carriera, ma che si vendica in seguito dell’infedeltà del protagonista, invaghitosi di un’altra più adatta a lui), giungendo così alla perdizione. Ciò che conta è che si tratta di un modello che pur non essendo definibile strettamente come archetipo, è comunque a posteriori desumibile dalla tradizione (in questo caso, romanzesca). In ambito cinematografico l’intero studio system hollywoodiano è in fondo stato una continua verifica di questo meccanismo e tutta un’industria si è a suo tempo fondata su di esso. Sappiamo bene con quale implacabilità il sistema dei generi abbia sfruttato alcuni elementi narrativi originari producendo in pratica dei remakes come si trattasse di una catena di montaggio. (A margine, mi permetto di ricordare che in questo settore d’operazione rientra anche l’opera di maniera, cioè il testo modellato sull’esemplare originario del quale tutti gli altri si fanno ripetizione formale, esteriore). Infine, il senso stretto. Ovvero il consapevole rifacimento di uno specifico testo esistente. In questo caso va ricordato che tale testo può appartenere al medesimo ambito mediale (romanzo che è remake di un romanzo, dramma di un dramma, film di un film, ecc.), oppure esso si pone in un rapporto intramediale (film che è remake di un romanzo, romanzo che è remake di un film, ecc.). Un rapporto, questo, che può anche essere di terzo o quarto grado: ad esempio, un film ispirato all’Otello di Verdi, opera lirica a sua volta tratta dal dramma shakespeariano, che oltretutto deriva da una novella di Giraldi Cinzio. Ora, la domanda è: dove si situa, nella vastità e nella varietà di questi ambiti, il concetto e la definizione di remake? Dal momento che questo convegno è intitolato a Letteratura e Cinema mi viene spontaneo pensare che a) o si tratti di trovare l’intersezione nel passaggio da un testo letterario alla sua versione cinematografica; b) o si tratti di prendere in considerazione l’esperienza di un testo filmico che non

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nasconde di porsi come rifacimento di un precedente film a sua volta tratto da un’opera letteraria. Nel primo caso, più che di remake sarebbe opportuno parlare di adattamento (il che, peraltro, non esclude affatto l’idea di rifacimento); nel secondo caso il concetto di remake – pertinentissimo – si porrebbe però attraverso una restrizione tutto sommato alquanto arbitraria (perché escludere da una definizione teorica di remake una pellicola che è il rifacimento di un preesistente film che gode di un soggetto originale?). Scorrendo titoli e argomenti dei vari interventi previsti dal convegno la varietà degli approcci è decisamente marcata: alcune relazioni considerano il vero e proprio caso di un adattamento, altre relazioni due e forse più adattamenti dello stesso testo letterario, altre ancora confrontano due adattamenti senza – a quel che si comprende – tenere in particolare conto l’originale letterario, altre infine alludono alla riutilizzazione di elementi desunti da altre cinematografie (magari, forse, anche soltanto in termini di citazione). È evidente: la nozione di remake è qui intesa in una forma alquanto elastica. Nulla di male: basta intendersi. Il problema maggiore sorge quando l’operazione è compiuta passando da un ambito espressivo ad un altro. Fino a che punto è lecito parlare di remake se la riscrittura, poniamo, avviene in ambito cinematografico partendo da un originale testo letterario? È quel che dicevo prima quando parlavo di adattamento, ed è un problema che la critica – sia letteraria che cinematografica – conosce molto bene, anche se per tanto tempo mi sembra essa l’abbia male affrontato. Penso alle lamentele di tanti appassionati ed esigenti lettori jamesiani nei confronti di pellicole come Suspense, Daisy Miller, The Europeans, The Bostonians o Portrait of a Lady. La mentalità del lettore colto e addirittura specializzato è tale da escludere – quantomeno implicitamente – l’idea stessa di remake di un capolavoro (o più largamente delle opere di un autore) venerato. Qualunque prodotto nato da quel testo originario non può che venire rifiutato e criticato in quanto variazione sul tema. Il fatto è che il remake è e non può essere altro che una variazione sul tema, soprattutto quando essa viene fatta attraverso un mezzo d’espressione diverso dall’originale. Come può un gesto, un’occhiata, un abbigliamento rendere ragione della sua descrizione a parole su una pagina? Come può l’eleganza di un’espressione verbale essere riportata in modo identico sullo schermo? Come ha scritto un grande romanziere, John Fowles, nel suo Daniel Martin, un libro straordinario che, fra le altre cose, tratta con profonda intelligenza il problema del rapporto fra letteratura e cinema: “La parola è il più impreciso dei segni. Soltanto un’epoca ossessionata dalla scienza poteva non capire che questa è la sua virtù più grande, non un difetto. Quello che cercavo di dire a Jenny a Hollywood era che avrei assassinato il mio passato se avessi cercato di evocarlo con la macchina da presa; e proprio per-

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ché con le parole in realtà non posso evocarlo, ma solo sperare di risvegliare qualche esperienza analoga nelle memorie e nelle sensibilità altrui, esso deve essere scritto”. Si comprende bene come cinema e letteratura son quasi agli antipodi e che è quindi assurdo chiedere al film in quanto remake di un’opera letteraria una impossibile fedeltà. Esso può tutt’al più trarre da questa il soggetto della propria narrazione, nella certezza che, bello o brutto che sia il film, ne uscirà comunque un’opera autonoma, il cui successo o il cui fallimento vanno misurati unicamente all’interno di un certo sistema di segni, che evidentemente è altro da quello preposto all’universo strettamente letterario. Nelle parole di un importante teorico come Rudolf Arnheim nel suo celebre Film come arte: “Non c’è senso nel comparare il relativo valore dei vari media. Le preferenze personali esistono, ma ogni medium raggiunge i suoi massimi risultati a modo proprio”. Posizione mediana ed equilibrata cui però fanno eco altre di diverso ed opposto tono e contenuto da parte di personalità di rilievo a proposito della dibattuta ‘intermedialità’. Samuel Beckett scriveva al suo editore americano: “All That Fall is specifically radio play, or rather, radio text, for voices, not bodies. I have already refused to have it ‘staged’ and I cannot think of it in such terms (...) I am absolutely opposed to any form of adaptation with a view to its conversion into ‘theatre’. It is no more theatre than End-Game is radio and to ‘act’ it is to kill it (...) I can’t agree with the idea of Act Without Words as a film. It is not a film, not conceived in terms of cinema. If we can’t keep our genres more or less distinct, or extricate them from the confusion that has them where they are, we might as well go home and lie down”. Le parole di Beckett alludono unicamente ad alcuni dei suoi lavori, è vero, ma suonano alquanto estreme a chiunque si è posto il problema della trasposizione, dell’adattamento da un medium ad un altro. E d’altro canto, ecco la voce non poco autorevole di un André Bazin secondo cui “non esistono drammi che non possono essere portati sullo schermo, quale che sia il loro stile, a patto che si possa visualizzare una riconversione dello spazio scenico in accordo con i dati dell’opera”. E continua Bazin: “Può ben essere che l’unica possibile produzione teatrale moderna di certi classici sia proprio sullo schermo”. Con tutto il rispetto per un grandissimo letterato e uomo di teatro come Beckett e per un critico cinematografico ed un uomo di cultura dell’importanza di Bazin, è in fondo al salomonico Arnheim che viene spontaneo associarsi. Per come inteso nella comune cultura mediale odierna, il remake è tuttavia, a rigore, un’operazione di ricostruzione dello stesso soggetto attraverso il medesimo mezzo espressivo. Domandiamoci: che cosa può spingere un autore ad affrontare una storia già raccontata (e spesso molto bene) da qualcun altro? E passi se si tratta della trasposizione, dell’adattamento da un ambito espressivo ad un al-

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tro (dopotutto si può anche nutrire una certa dose di curiosità nel mettere, poniamo, su pellicola un testo scritto quando il cinema non era ancora stato inventato). Ma quali motivazioni può avere, sempre come esempio, chi fa un film da un altro film? In un bellissimo musical di Vincente Minnelli, Spettacolo di varietà, l’impresario-regista-attore teatrale Cordova (un inarrivabile Jack Buchanan) tenta di convincere il ballerino Tony Hunter (Fred Astaire) e i due autori dello show (Nanette Fabray e Oscar Levant) che il copione va modificato così da diventare “una moderna versione della leggenda di Faust”. E aggiunge che chiunque in passato abbia toccato quell’argomento l’ha trasformato in “una miniera d’oro”: Marlowe, Goethe, Gounod, Berlioz. Ora, io francamente non so se Marlowe, Goethe, Gounod, Berlioz – e aggiungiamoci pure, fra i molti, Murnau e Clair – si siano mai arricchiti per questo. In ogni caso, nel cinema, queste sono preoccupazioni da produttore e non da artista. È vero: vi sono storie e temi ormai così sedimentati nella coscienza comune da diventare una sorta di struttura di riferimento per qualunque intelligenza, età, gusto, fantasia. Da Edipo ad Amleto, in casi come questi è fin quasi errato parlare di remake, trattandosi piuttosto di letture, interpretazioni, versioni. Cimentarsi con questi modelli equivale in fondo alla sfida che il poeta lancia alla propria ispirazione, al viaggio che qualunque artista degno di questo nome intraprende in quel particolare inferno, così universale eppure così personale, in cui ognuno di noi vive. Ma in fondo – come in certo senso cantava il divertente quartetto di Spettacolo di varietà – non si tratta sempre di Edipo, di Amleto, di Faust, di Artù, di Frankenstein? (Cito di proposito modelli tratti da culture ed epoche diversissime tra loro onde evitare il sospetto che in fondo hanno ragione i campbelliani a parlare di archetipi desunti dalla mitologia arcaica). Sono pronto a scommettere che chiunque di voi ci si metta d’impegno riuscirebbe a rintracciare in un qualunque film contemporaneo il modello, più o meno sotterraneo, di uno dei grandi miti sfornati nei secoli dalla nostra cultura (e non soltanto dalla nostra). Insomma, la conclusione non può essere che una soltanto: il concetto di remake deve essere maneggiato unicamente nella prospettiva più ristretta, esso non può che alludere all’operazione di un rifacimento paradossalmente certosino nel momento stesso in cui intende differenziarsi dal precedente che è oggetto della sua elaborazione. E nemmeno questo serve poi come assoluta garanzia. Penso a Essere o non essere? della coppia Alan Johnson e Mel Brooks e alla loro fonte d’ispirazione, Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch; penso a come il remake sia stato sulla carta molto fedele alla pellicola originaria; e penso anche a quanto diverse sono le due opere nonostante tutto. Che cosa è successo? Ovvero, che cosa può succedere in barba alla fedeltà esteriore di un remake? Ripeto: la sceneggiatura è quasi identica, e comunque non sono le pochissime varianti a differen-

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ziare il secondo film. No, il punto è un altro. Essere o non essere?, in linea con il cinema di Brooks, è fondato sull’eccesso, sul corporale, sulla risata senza mediazione del pensiero. Attraverso l’accumulazione di informazioni costantemente ripetute il pubblico viene sollecitato a ritrovare modelli di ilarità scontati, ricevuti e comunque prevedibili in una sorta di regressione infantile verso il dominio rassicurante del già noto. Una sorta di fase anale, se si vuole, che non a caso prende davvero le forme dell’escrementale. Brooks sceglie, come sempre, la chiave della farsa e della macchietta. In Lubitsch tutto si muoveva in difetto, gli attori lasciavano spazi da riempire, psicologie da intuire, reazioni da prevedere; Brooks ci richiede invece di starcene là seduti a farci bersagliare da una sceneggiatura certo esilarante, ma del tutto estranea a una collaborazione da parte nostra. Sono sempre due ore d’ammirazione per un’idea narrativa geniale, ma dov’è finito Shakespeare, dov’è finito il dilemma apparenza-realtà, dov’è finita la sfida sorridente e maliziosa che regolarmente lanciava il maestro berlinese? Dietro ad Essere o non essere? non c’è nulla, dietro a Vogliamo vivere! c’è un’intera visione del mondo, quella stessa che teneramente, e anche dolentemente in fondo, Léon tentava di insegnare a Ninotchka poco prima di cadere dalla sedia nella più celebre scena del film omonimo. Ecco, si può anche cadere dalla sedia e far ridere così il pubblico, ma prima è necessario parlare a Ninotchka, spiegarle che cosa pensiamo del mondo, “dell’intero, ridicolo spettacolo della vita. Della gente che è così seria, che si dà tanta importanza”, e magari – come conclude Léon – di noi stessi. Fatto questo, cadere dalla sedia può anche far ridere. Diversamente, chi cade è soltanto un pupazzo di gomma: non è umano, e quando cade non rischia nulla. Rimane tuttavia la domanda: che cosa spinge un autore al remake? Non posso teorizzare su qualcosa di cui non ho conoscenza diretta, non essendo io un regista e, a maggior ragione, non avendo mai girato (e se è per questo, nemmeno scritto) un remake. Ricordo però quanto mi disse Sydney Pollack qualche tempo fa a proposito del suo Sabrina. Come si sa, la contestazione sorse già alla notizia che quella pellicola sarebbe stata ‘rifatta’. Trovo alquanto strano – e per questo molto interessante – che ci si possa scandalizzare a priori per una scelta del genere: perché mai gridare alla blasfemia se qualcuno riprende in mano Billy Wilder, mentre nessuno alza un fiato quando Kenneth Branagh rimette in piedi l’Enrico V (un dramma, si noti, che per quanto straordinario non riveste valenze mitiche come Amleto o Re Lear)?. Che cos’ha Wilder per essere più intoccabile di Shakespeare? Qualcosa che il Bardo non ha mai avuto: Humphrey Bogart e Audrey Hepburn. Shakespeare ha avuto Garrick, Kean, Olivier, ma ognuno è arrivato nella propria epoca, come ad interpretare e rappresentare quella specifica visione di Shakespeare, quello specifico modo di pensarlo, in-

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scenarlo, recitarlo. Harrison Ford e Julia Ormond hanno invaso un territorio cronoculturale che non poteva ancora essere unicamente il loro, anche perché il cinema in questo senso ha un difetto terribile: con buona pace delle pessime leggi cinetecarie di conservazione, esso rimane nel tempo. Il mito, insomma, vive ancora. Esso è dappertutto, su una mezza dozzina di canali televisivi a cadenza regolare, aumentato dalla grancassa giornalistica che celebra anniversari di nascite e morti ogni decennio, nelle retrospettive di festival che, importanti o no, vengono comunque resi tali da una stampa talora asservita, talora disoccupata e talora semplicemente stolida. Ma ritorniamo a Pollack. Riluttante com’era a riprendere in mano un film come quello – che, sia detto per inciso, egli è fra i pochi a non ritenere il classico che molti hanno detto – Pollack sostiene che la pellicola originale è alquanto datata, che non spiega affatto perché la Hepburn e Bogart si innamorano e che insomma c’era abbastanza spazio da farne un film diverso. Specificamente, meno fiabesco e più realistico; o per meglio dire, una combinazione dell’aspetto fiabesco originale e degli aspetti cupi forniti dalla storia. A suo avviso i ricchi si portano sempre dietro qualcosa di sordido e di cupo. È questa dunque la ragione per cui il vero protagonista del suo remake è Harrison Ford più che la ragazza. Lasciamo la questione specifica a questo punto. A noi interessa il fatto che il remake può lasciare più spazio a un personaggio che aveva un ruolo meno centrale nell’opera originale, tanto da divenire il vero protagonista. Solo che se questo è vero e possibile (come è vero e possibile) l’idea di remake è passibile di accezioni molto vaste, ché un dramma come Rosencranz and Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard, a questo punto, non è più, come di norma si dice, la storia dell’Amleto osservata dal punto di vista di due personaggi secondari, bensì la stessa storia con Rosencranz e Guildenstern come protagonisti. Per questo dicevo più sopra che l’affermazione di Freud comprendeva solo apparentemente l’idea di remake: in realtà, nel vero remake non si tratta affatto di ‘qualcosa di identico’, ma esattamente del contrario, di qualcosa di diverso. Ecco allora che l’operazione del remake – quale che sia la direzione strutturale volta a volta dispiegata – diventa spia epocale, testimone del momento storico di cui fa parte, e naturalmente anche della cultura nazionale che l’ha prodotto. Non è difficile, ad esempio, leggere nei due neoprotagonisti stoppardiani i rappresentanti di una prassi antitragica che riassume l’intera cultura moderna e postmoderna, non è difficile leggerli come parenti prossimi di certi antieroi beckettiani così come di tanti anonimi, piccoli disperati personaggi del romanzo americano fra gli anni ’60 e i ’70, da Little Big Man e Neighbors di Thomas Berger a Boswell e A Bad Man di Stanley Elkin.

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In questo modo rispondiamo alla domanda precedentemente posta: perché qualcuno dovrebbe rifare un’opera – magari bellissima – fatta già da qualcun altro? Alla stesso modo in cui Shakespeare è stato letto e interpretato volta a volta secondo modi adeguati alla cultura e al gusto di critica e pubblico che si sono susseguiti nei secoli, così il remake è un modo per evidenziare quel che vi è di cambiato o semplicemente di diverso nella cultura di un qualunque gruppo sociale che prenda a materiale di lavoro l’opera primitiva. Se Sabrina di Billy Wilder è una fiaba cinica che, reinscenando i modelli tipici del genere in un meccanismo di commedia, intende toglierci ogni illusione (sono ben noti i falsi happy ends wilderiani), quella di Pollack è invece una modernissima riflessione sul denaro e su chi lo manovra, con un’acuta sensibilità nei confronti di ciò che oppone il pubblico e il privato. Ogni remake, insomma, dà quello che ha. Cioè parla di ciò che sa.

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Se nel 1599 fosse esistito il cinematografo, Shakespeare sarebbe stato il più grande regista del suo tempo. Si può dire che egli scrivesse per il cinematografo quando spezzettava l’azione in una serie di piccole scene, ed anticipava così la tecnica dello schermo, impaziente com’era, e come si dimostra in molti drammi, delle limitazioni paralizzanti del palcoscenico (Olivier, 1944: 5). Chiunque tu sia e ovunque ti trovi, Shakespeare è sempre davanti a te, concettualmente e quanto a immaginario (Bloom, 1996:21).

Sin dai primi anni della sua storia – quelli muti – il cinema ha riservato grande attenzione al teatro di Shakespeare, magari fermandosi allo scheletro mitopoietico trasparente dalle sue trame (Bussi, 1996: 13-20; Viganò, 1996: 21-27; Martini, 1997: 5-12; Cremonini, 1997: 21-37); questa attenzione sembra letteralmente esplodere a partire dal 1989, anno in cui, per una curiosa e quasi macabra coincidenza, muore Laurence Olivier e Kenneth Branagh decide di ‘rifare’ Enrico V. Questo (d’ora in avanti HB), ha così di fronte non solo il testo originale di Shakespeare (HS), ma anche un cult movie del cinema britannico come il film di Olivier (HO)1. Questo ménage a trois chiama in causa innanzitutto una riflessione generale sul rapporto cinema/teatro (è legittimo considerare la sceneggiatura cinematografica di un testo nato per il teatro al pari di una messa in scena teatrale e sorvolare sulle ontologiche differenze dei due linguaggi? è lecito accontentarsi di uno slogan come quello che vuole Shakespeare uomo di cinema ante litteram?)2; in secondo luogo i problemi legati alla diversa interpre1 Il confronto a distanza è destinato a ripetersi con la nuova, spettacolare e incautamente definita come “integrale” versione di Hamlet. 2 Sia HO che HB, pur restandogli fedeli, “fanno violenza al testo” originario (Cozza, 1992: XLIII), ma denotano una parallela capacità di “seguire il flusso e le rotture narrative di Shakespeare in quel tanto che esse già contengono di profondamente cinematografico” (Martini, 1990: 81).

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tabilità di un testo (in che modo HO e HB si confrontano con HS?); infine HB, che non può ragionevolmente ignorare la presenza di HO, può esserne considerato come un remake. Per ragioni di spazio sarà necessario non solo tenere sullo sfondo le prime due questioni, ma anche concentrare il confronto HB-HO in alcune sequenze, precisamente quelle in cui il racconto indugia su percorsi narrativi subalterni, meno legate all’azione e più alla descrizione – vere e proprie sospensioni del racconto che Chatman (1981) chiamerebbe “satelliti” e alle quali Barthes (1987) attribuirebbe una natura sostanzialmente “indiziaria”: il Prologo all’Atto I e il monologo che precede la battaglia di Agincourt (atto IV, scena I)3. Ad esse si aggiungerà, per completezza, la battaglia stessa, che non compare direttamente in HS, ma che rappresenta un nucleo narrativo di prim’ordine. Il prologo “Il coro che apre Enrico V quasi invita alla creazione di un film” (Olivier, 1944: 5): esso ha una chiara funzione di soglia destinata a introdurci nel mondo del racconto attraverso una chiave di lettura metalinguistica – la stessa che compare anche in Hamlet e in A Midsummer Night’s Dream. È il celebre appello alle “imaginary forces” del pubblico, destinate a supplire alle debolezze e lacune del teatro. A questa soglia, tuttavia, HO ne antepone un’altra, destinata a sottolinearne il carattere di fiction teatrale e a raddoppiarne l’effetto metalinguistico: un cartello ci annuncia che stiamo per assistere alla rappresentazione tenutasi il 1 settembre 1600 al Globe Playhouse; segue un lungo e duplice movimento di macchina, prima sulla Londra d’epoca, poi all’interno del teatro (l’orchestra, il pubblico, una venditrice di frutta che si aggira per la platea), fino a scoprire sul palcoscenico il Coro (Leslie Banks); questi inizia il suo monologo, rivolgendosi al pubblico presente in teatro e chiamandolo in causa come destinatario intradiegetico del suo “invito all’immaginazione”. I movimenti iniziali della mdp sono non focalizzati4, privi di una istan3 Per comodità userò qui la doppia numerazione, indicante prima l’Atto e poi la Scena (per esempio la Scena I dell’Atto IV diventa 4.1). Il termine macchina da presa è sintetizzato con mdp. Nella descrizione delle sequenze sarò infine costretto a riassumere gli elementi essenziali, consapevole del fatto che nessuna descrizione verbale può rendere conto della complessità dell’immagine cinematografica: parafrasando Shakespeare, mi aiuterà la vostra memoria. 4 Il termine “focalizzazione” (Genette 1976; 1987) è qui usato alla luce della complessità prospettica propria del linguaggio cinematografico, ovvero come prospettiva narrativa dominante, capace di dare un imprinting decisivo a ciascun enunciato, al di là dei procedimenti linguisticamente disomogenei che ne fanno parte (Cremonini 1988; 1991).

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za narrante intradiegetica: quello che ci guida è uno sguardo esterno che si tuffa nel passato e vi scopre un presente storico (il teatro prima della recita). Subito dopo, tuttavia, suoni e rumori (il brusio del pubblico e l’orchestra sul palco si sostituiscono alla musica over dell’incipit) diventano intradiegetici e il punto di vista tende, anche fisicamente, a identificarsi con quello di uno spettatore teatrale che si aggiri per la platea. Anche quando la loro variabilità si fa più cinematografica, i punti di vista e d’ascolto rimangono interni al teatro, che è dunque il luogo della prima storia, e questa è la storia di una rappresentazione5. La scelta è la più semplice e diretta, si potrebbe dire la più ovvia, certamente la più cauta: HO appartiene ad anni in cui i dibattiti sui rapporti cinema/teatro non si sono ancora esauriti e in cui, come sempre nel cinema ‘classico’, ogni ‘trasgressione’ deve essere graduata e motivata. Quarantacinque anni dopo Branagh, nell’affrontare lo stesso testo, pur conservando il prologo, elimina tutti i passaggi teatro-cinema presenti in HO. Gli anni ‘80 non richiedono più le giustificazioni che esigeva il cinema ‘classico’: le commistioni di generi e di linguaggi sono diventate persino scontate per un pubblico avvezzo a salti prospettici e diacronici di ogni tipo. L’incipit di HB è quasi brutale: nel buio sfrigola un fiammifero ed emerge il volto di Derek Jacobi (il Coro) che guarda in macchina, immediatamente – ovvero guarda direttamente negli occhi noi, spettatori eterodiegetici, senza ricorrere alla mediazione-sovrapposizione di un pubblico teatrale intradiegetico, che non sarebbe del resto competente a una scena che si svolge dietro le quinte, nei ‘resti’ di un teatro d’oggi o di un set cinetelevisivo, come è stato anche scritto (ma non fa differenza). La conservazione del prologo e la rinuncia a ogni giustificazione diegetica sono sì tollerate dai codici postmoderni del miscelamento di media e generi, ma si rivelano anche incongrue: dell’invito all’immaginazione di HS non c’è più bisogno, perché c’è già il cinema a sopperire alla mancanza del teatro; il realismo e la modernità dello spazio (le lampade, l’interruttore, i fili elettrici sparsi sul pavimento) stridono con le parole shakespeariane, lontane a loro volta da quello che potrebbe essere un eloquio diretto col pubblico di oggi. Paradossalmente, insomma, HB mette in scena il prologo in modi che dichiarano inutili i suoi presupposti.

5 HO “non pretende di farci dimenticare la convenzione teatrale, ma, al contrario, la denuncia. Il film non è direttamente e immediatamente Enrico V, ma è la rappresentazione di Enrico V”: in questo senso è “un film storico sul teatro elisabettiano” (Bazin, 1973: 154).

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Teatro e cinema Torniamo ad HO: anche il dialogo fra l’Arcivescovo di Canterbury e il Vescovo di Ely, introdotto dal cartello che indica l’anticamera della reggia (1.1), è improntato ad uno spazio teatrale; vi si passa con una panoramica verso l’alto (il palcoscenico) e un lento carrello avanti fino al piano americano degli attori, i quali recitano rivolgendosi l’uno all’altro oppure al pubblico fuori campo. Le successioni campo-controcampo e i raccordi di sguardo legano i primi piani separati degli attori, ma soprattutto definiscono un insieme perfettamente simmetrico pubblico+attori: pubblico in platea dal punto di vista degli attori sul palcoscenico; attori dal punto di vista del pubblico in teatro (primi piani delle nuche; macchina da presa all’altezza di uno spettatore di platea, che tutt’al più sposta il suo sguardo sull’uno o l’altro degli attori). Il modello sintattico-narrativo è quello tipico del cinema ‘classico’ e stabilisce la scena come unità coerente di luogo e di azione (Cremonini, 1983: 45-48): cambia a volte la distanza, ma il primo destinatario è sempre interno al teatro, anche quando è fuori campo (tutta la scena è accompagnata dai commenti e dai lazzi del pubblico); ciò che vediamo è sempre ciò che vedrebbe un narratore interno alla scena teatrale. L’equilibrio fra il contenitore-cinema e il contenuto-teatro si fonda sul rispetto e la conservazione: poiché l’origine del film è teatrale, il teatro non può essere dimenticato. Quando – ancora in 1.1 – l’Arcivescovo dice «Non sono le quattro?», la macchina da presa si sposta dietro le quinte e mostra l’addetto ai rumori di scena che smette di leggere il giornale e va a suonare i quattro rintocchi di campana; la focalizzazione varia, ma non perde la propria appartenenza al teatro: teatro come apparato di produzione e non più solo come pubblico. Lo spostamento dietro le quinte si ripete al termine della scena 1.1: sia i preparativi degli attori, sia l’ingresso di Olivier in primo piano, con un imbarazzato e secco colpo di tosse, sono sì preclusi al pubblico teatrale, ma quando gli attori fanno il loro ingresso in palcoscenico il pubblico è sullo sfondo e subito dopo, in controcampo, di spalle, in primo piano: e in 1.2 (la discussione sulla Legge Salica e l’arrivo degli ambasciatori francesi) torniamo subito a una scena teatrale s.s., il cui agente focalizzatore è ancora il pubblico. Questa prospettiva metateatrale si conserva anche in seguito: gli interventi del Coro chiosano e illustrano i passaggi da una scena all’altra; in 2.1 Bardolph, Nym, Pistol e l’ostessa si rivolgono esplicitamente al pubblico e giocano istrionicamente con la sua complicità; 2.3 si apre con una ulteriore digressione (la pioggia) e la presenza del pubblico è ribadita dal brusio che accoglie il nome di Falstaff, di cui viene raccontata prima l’agonia

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e poi la morte, seguite dalla partenza di Nym, Bardolph e Pistol per la guerra (brano che, insieme a 2.1, compare anche in chiusura del Falstaff di Welles) e da una dissolvenza in nero che chiude di fatto la prima parte del film. L’ambientazione teatrale – il presente – trasforma il plot in una sorta di flashback, una storia seconda (la storia di Re Enrico) diacronicamente ritagliata entro la prima (la rappresentazione), ma senza che nessuna differenza linguistica separi lo spazio del presente (il Coro, gli attori, il dietro le quinte) da quello del passato (la storia recitata). Qualcosa tuttavia è cambiato con 2.2, la cui ambientazione (Southampton) rende lo spazio teatrale meno compatibile con la “wooden O” di cui parla HS: i fondali sono ancora teatrali (il mare, il porto, la terra), lo spazio è ancora stilizzato e finto, ma già privato della presenza, in campo e fuori campo, del pubblico; le associazioni campo-controcampo lasciano il posto ad articolazioni più complesse, a una maggiore mobilità del punto di vista e ad una sorta di progressiva sostituzione-slittamento fra i due media (il linguaggio cinematografico conserva la collocazione teatrale della scena, ma ne movimenta l’organizzazione sintattica). Soprattutto, però, le cose cambiano alla battuta “may we cram within this wooden O the very casques that did affright the air at Agincourt?”, quando il Coro avanza verso la mdp e il suo sguardo si fissa direttamente nel nostro; in questo momento egli non guarda più solo uno spettatore intradiegetico, un destinatario presente accanto a lui e facente parte insieme a lui della stessa scena, ma fissa il suo sguardo in quello che è anche uno spettatore cinematografico – intra- ed eterodiegetico insieme: siamo noi ad essere chiamati dal camera look al centro di quella rappresentazione, assieme al pubblico teatrale. A questa continuità teatro-cinema che è il nucleo strutturale-linguistico dell’intero HO, HB oppone una cinematograficità immediata: non solo il teatro è morto (prologo), ma il mondo stesso messo in scena dal racconto secondo (la storia di Enrico) ci viene spalancato davanti con un urlo assai lontano dalla discrezione di HO e con l’apertura improvvisa, ad opera del Coro, di una porta sul fondo; entriamo bruscamente in un nuovo mondo (1.1) e in una organizzazione linguistica in cui il teatro è solo un resto, un ricordo, il luogo abbandonato e superato quasi naturalmente dal cinema. La violenza del gesto e dello stacco non solo separa il teatro vuoto dal nuovo mondo (tutto cinematografico) del racconto, ma annulla la diacronia del flash-back: il mondo di Enrico, la storia seconda che si svolge qualche secolo fa, è lì, dietro quella porta, linguisticamente continuo con la storia che le è davanti. La presentazione del protagonista è segnata infine in entrambi i casi dall’ironia, ma con forti e sintomatiche differenze: HO sottolinea sia l’aspetto quasi dilettantesco del dietro le quinte, sia l’apparizione e recitazione di Olivier, così discrete al confronto con la tronfia prosopopea degli

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altri attori e con le attese divistiche dello spettatore, sia l’ironia del passaggio dall’attore impacciato al sovrano sicuro di sé. È un’ironia che si serve direttamente del teatro e del contrasto attore/personaggio, mentre HB mostra subito il personaggio Enrico in una dimensione ‘bassa’ e antieroica: la sua figura si staglia nel controluce di una grande porta che lo sovrasta e s’incammina verso di noi fino a riempire, sagoma scura e indecifrabile, l’inquadratura; una sua pseudosoggettiva ci permette di passare in rassegna, insieme a lui, gli uomini della corte; lo vediamo in volto solo quando si sbarazza dell’imponente mantello e si lascia cadere su un trono di legno troppo grande per lui. Alla grandiosità spettacolare della prima apparizione in controluce non corrisponde così un’adeguata grandezza dell’uomo: questo Enrico è chiamato dalla storia a rivestire un ruolo più grande di lui. E per di più il suo sguardo è in parte traino per il nostro: non siamo più un pubblico spettatore, ma ci identifichiamo con la sua piccolezza. Il monologo e la preghiera La notte che precede lo scontro con i francesi, dopo essersi aggirato in incognito per l’accampamento (4.1), Enrico rimane solo e si lascia andare a uno ‘sfogo’ sulle proprie responsabilità (“Upon the king!”). In HO il monologo è risolto con la voce over del protagonista; un lento movimento in avanti della mdp arriva a isolare il primo piano di Olivier nei colori azzurri e lividi di un accampamento illuminato dalla luna. Il monologo è solo il pensiero del protagonista, dettato da dubbi ed amarezza interiori e destinato a chiudersi linearmente con lo stacco che prelude al dialogo con Erpingham. Calma, distacco e tendenza alla meditazione trovano riscontro anche nella preghiera di poco successiva (“O God of battles!”), che è sì recitata con voce in, ma con incedere altrettanto pacato e malinconico: HO mette in scena un uomo che ha già preso, freddamente, tutte le decisioni che non poteva non prendere (ivi compresa quella di allontanare dalla propria regalità il vecchio amico di baldorie Falstaff) e non può fare altro, alla vigilia di una battaglia impari, che raccomandarsi a Dio con la sicurezza e la serenità dei forti. In HB lo stesso monologo si apre con un primo piano nel buio, cui segue un campo lungo da cui la mdp procede per una lunga carrellata in avanti fino al primo piano, in un accampamento che è illuminato dalla luce rossastra, quasi terrigna dei falò: e mentre Olivier tace e pensa nella sua immobilità, Branagh si aggira per l’accampamento e parla, sia pure da solo, e addirittura alza la voce. Questo Enrico ha una dimensione assai più sanguigna, impulsiva, violenta – comunque meno riflessiva e malinconica, meno aristocratica – di quello di Olivier. Anche la preghiera è veemen-

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te, quasi rabbiosa: questo Enrico ha impeti e furie contenute che erano assenti nel precedente. Le due versioni del personaggio non fanno che sviluppare, radicalizzandole, le ambiguità contenute in HS, le oscillazioni fra la dimensione eroica (la ragion di stato) e quella umana (i sentimenti), tema di tanto teatro shakespeariano (Macbeth, King Lear). Se “l’interpretazione più ovvia vede in Enrico l’uomo d’azione, il rude e onesto soldato, padrone del suo destino, trascinatore di uomini e suscitatore di affetti, Olivier ne fa un “leader of men” aristocratico, solare, scanzonato e seducente”, capace di infondere una nota gioiosa nel crescendo del “discorso di San Crispino”, ma anche di malinconia e di riflessione; ad esso “si contrappone oggi la maschera sofferta dell’Enrico di Kenneth Branagh, plebea e risentita: la maschera di un uomo solo e senza gioia, che nell’azione porta la grinta e l’irruenza del capitano di una squadra di rugby. Il re di Olivier domina con sicurezza gli eventi, quello di Branagh ne viene a capo a fatica” (Cozza, 1992: XLIII). La battaglia di Agincourt Il cinema ha ragioni che il teatro non possiede e la sua vocazione spettacolare non può esimersi dalla messa in scena di una battaglia che HS mostra solo di riflesso o attraverso la narrazione del Coro: in entrambi i film la battaglia occupa un ruolo centrale e di grande impatto spettacolare, fornendo la risposta più efficace all’invocazione d’apertura. Ma anche in questo caso le differenze sono nette. In HO la pesantezza delle armature e delle imbragature con cui i cavalieri vengono calati in sella giustifica ampiamente la lenta e impacciata maestosità dei loro movimenti; le inquadrature sono raramente ravvicinate, prediligono la media e lunga distanza, da cui possano trasparire sia la ricerca di una plasticità rinascimentale, sia il cielo che riempie con ampi squarci d’azzurro molte immagini (e non solo i campi lunghi); le tanto citate paludi di Agincourt sono acque stagnanti che, anziché intorbidirsi, fanno da specchio agli zoccoli dei cavalli. Più che la descrizione di una battaglia, è insomma la descrizione di una vittoria annunciata 6 e il primo piano di Olivier, nella sua lucente armatura, la spada alta contro il cielo, è quasi il monumento di un Enrico ieratico e maestoso, che guida i suoi uo6 A questo ‘ottimismo’ contribuiscono “i costumi disegnati da Robert Furse”, che “nella loro sontuosa e colorata ingenuità si legano perfettamente al complesso visivo del film, tutto giocato sulla festosa riproduzione dello stile elisabettiano” (Martini, 1991: 113].

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mini ma non si sporca nella battaglia. Infine il crescendo della cavalcata, seguita da una lunga e quasi dolce carrellata laterale, e il suo ritmico alternarsi con la staticità dei soldati in attesa hanno come punto di riferimento Aleksandr Nevskij, di cui HO si propone in un certo senso come equivalente inglese7. Apparentemente la battaglia di HB ripercorre il découpage di HO, concentrando le scene 4.2 e 4.5, ambientate in campo francese, rinunciando all’intermezzo ‘comico’ (4.4), ma conservando l’uccisione di Bardolph e il pianto di Nym, quasi a sottolineare il senso anche privato della tragedia contro la dimensione astratta e fredda della morte collettiva e spersonalizzata di HO. Se questo guardava al cielo, HB guarda alla terra e al fango. La luce è opaca, mescola il grigiore plumbeo dei pochi squarci che si intravedono del cielo alla dominante rossiccia degli abiti e dei volti; abbondano i primi piani, sospesi fra la paura e la speranza; le immagini sempre ravvicinate dello scontro non mettono in scena una strategia, ma il caos; al primo piano di Enrico che grida “Caricate!”, seguono insistite riprese di cadute dei corpi nel fango (molte delle quali peckinpahniamente e insistentemente al rallentatore)8. All’immagine ieratica, solenne e statuaria dell’Enrico di HO si oppone quella ‘sporca’ di HB. Negli anni ‘80 nessuna guerra è più necessaria in Gran Bretagna ed è facile schierarsi contro la bruttezza della guerra in sé. Ancora una volta, tuttavia, irrompe un elemento discordante e paradossale, ‘straniante’: l’intervento del Coro sul campo contraddice e smorza la crudezza della messa in scena, quasi ricordandoci che anche questa crudeltà, questo fango, questo aggrovigliarsi di corpi morti sono in fondo solo una finzione.

7 In questo senso HO è la “risposta ufficiale agli ultimi mesi di guerra, la celebrazione fastosa della tradizione artistica e morale britannica […] È stato progettato e studiato per corrispondere all’ultimo sforzo della nazione in guerra, addirittura per coincidere con l’invasione decisiva della Normandia” (Martini, 1991: 111-112); “rivive emozioni e memorie recenti (l’orgoglio e la volontà di resistenza dei giorni del Blitz, la grande retorica churchilliana sugli happy few e la finest hour, l’attesa vibrante dello sbarco in Normandia”, ovvero si imposta, con programmatica parzialità, sul “tono fondamentalmente gioioso, ilare, esuberante del testo” (Cozza, 1992: XXXVIII). 8 “I colori tendono tutti al bruno, allo sporco, e i costumi alla rozzezza popolana più che agli splendori cromatici delle stampe d’epoca. In battaglia, non si muore più in campo lungo, ma in primissimo piano e male, in una carneficina violenta dove si perdono di vista gli eroi principali” (Martini, 1990: 83): sia questo grigiore che il rallentatore sembrano venire direttamente da Io sono un campione.

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Un triangolo aperto Il confronto HO-HB offre l’occasione per una riflessione più ampia sul ruolo culturale del cinema, ovvero sul confronto implicito che ogni film contiene con le altre culture e con gli altri linguaggi, nonché su quello esplicito e specifico della trascrizione come messa in scena di un testo attraverso un cambiamento di linguaggio. L’eteromedialità impone sempre un adattamento, la modificazione anche radicale del testo originario in funzione dei nuovi procedimenti di enunciazione. Attraverso aggiunte ed elisioni sia HO che HB adattano HS a tempi cinematografici diversi da quelli teatrali, poiché il cinema ha la capacità di mostrare ciò che il teatro deve dire – e viceversa. Da questa stessa capacità discendono poi le variazioni interpretative, come l’immagine di Enrico durante la battaglia, che non si riassume in una posa, in un gesto, o in un ritratto, ma è una inquadratura, una composizione significante sul piano iconico e plastico, impossibile in teatro. Se è vero che ogni versione di un testo dato è inevitabilmente diversa dalle precedenti, nel caso specifico sembra anche vero che, almeno a tratti, ad ogni interpretazione scelta da Olivier Branagh ne voglia opporre una di segno diverso: “Olivier, fedele allo spirito festivo del testo, ci risparmia i nobili felloni, le minacciate rappresaglie su Harfleur, l’esecuzione dei prigionieri, la fine di Bardolfo, le canagliate di Pistola, la stessa preghiera del re9, il deprimente Epilogo – e persino il maltempo. Branagh recupera, del testo, tensioni e problemi, ma spoglia il Re dell’umore giocoso, del suo robusto senso dell’umorismo, privando il dramma di una sua componente essenziale” (Cozza, 1992: XLIII); al tempo stesso, se HO è radicalmente e storicamente debitore alla partecipazione alla guerra in corso negli anni ‘40, HB si costruisce a partire da una concezione pacifista, egualmente storicizzata, ma di segno diverso. La differenza più marcata sta tuttavia nei rapporti con la ‘teatralità’ di HS: HO la conserva come oggetto primario della messa in scena, ovvero fa del cinema lo strumento per riflettere sul teatro come medium idealmente continuo; la scelta rientra in quel momento storico in cui “dopo le fondamentali osservazioni di Bazin e gli sviluppi di Metz”, si giunge “a un concetto di ‘messa in scena’ che lega come un filo rosso la regia teatrale e quella cinematografica in un discorso unitario” (Fink, 1977: 6). Con HB i rapporti teatro/cinema non sono più in discussione, vivono di un rapporto simbiotico che tende a identificarli in una concezione onnicomprensiva e indifferenziata di spettacolo; al confronto si è sostituito ciò che rimane 9

Il che, come si è visto, non è vero. Per le differenze fra HO e HS si veda anche Ghislotti (1997: 54-55).

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dopo l’annullamento dei confini. Nel momento stesso in cui Branagh si propone di ‘rifare’ Enrico V, sa di non potersi esimere da un confronto col passato e con HO; sa che questo confronto, in un modo o nell’altro, lo faranno sia i critici che il pubblico; tuttavia la costanza e l’insistenza delle opposizioni non possono non sollevare qualche sospetto e farci ritenere HB, prima ancora che un omaggio a Shakespeare, “una sfida aperta alla leggenda di Olivier” (Martini, 1991: 382). Paradossalmente il volere essere altro che traspare da ogni anti-citazione riafferma la presenza e la memoria del modello nella nuova trascrizione. Si potrebbe quindi anche parlare per HB di un remake di HO, ma solo se si dimenticasse che il testo di riferimento primario – e più forte – è HS10. Le anti-citazioni sopra ricordate rientrano semplicemente nel fatto che ogni film ha alle spalle una cultura, una successione di operazioni, di idee, di versioni di cui non può fare a meno; il cinema – ultima delle arti – è destinato in sé a ripercorrere cammini già percorsi, a rielaborare testi e figure del passato, dal più lontano a quello prossimo, a recuperare arti figurative, teatro, letteratura, luci e ombre, suoni e silenzi. È nella sua natura di linguaggio composito ed eteromorfo ritagliare per ogni film una forma e uno spazio lungo il margine, sempre sfuggente, che lo separa da tutto ciò che lo ha preceduto. Questo flusso culturale, trasparente in HB come in HO, contemporaneamente e inseparabilmente etero e omomediale, è semplicemente il cinema. Riferimenti bibliografici Barthes, R. (1987). “Introduzione all’analisi strutturale del racconto”. AA.VV., L’analisi del racconto. Milano: Bompiani. Bazin, A. (1973). Che cosa è il cinema? Milano: Garzanti. Bloom, H. (1996). Il canone occidentale. I Libri e le Scuole delle Età. Milano: Bompiani. Bussi, G.E. (1996). “Introduzione”. AA.VV., Letteratura e Cinema. La trasposizione (a cura di) G.E.Bussi & L.Salmon Kovarski. Bologna: CLUEB. Chatman, S. (1981). Storia e discorso. Parma: Pratiche. Cozza, A. (1992). “Presentazione”. W.Shakespeare, Enrico V. Milano: Garzanti. Cremonini, G. (1983). “La scena e il montaggio cinematografico”. I quaderni di Vedere e scrivere, 1. Bologna: IRPA-Il Mulino. 10 Vale per Olivier e Branagh quanto Bloom (1996: 465) osserva per altre trascrizioni: “L’enigma di Shakespeare è il suo universalismo: le versioni filmiche di Kurosawa del Macbeth e del Re Lear sono in tutto e per tutto Kurosawa e in tutto e per tutto Shakespeare”.

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Cremonini, G. (1988). Cinema e racconto. L’autore, il narratore, lo spettatore. Torino: Loescher. Cremonini, G. (1991). Le logiche del racconto. Introduzione all’analisi narratologica del film. Bologna: Thema. Cremonini, G. (1997). “Shakespeare must go on”. AA.VV., Ombre che camminano. Shakespeare I (a cura di) E.Martini, Bergamo Film Meeting. Genette, G. (1976). Figure III. Discorso del racconto. Torino: Einaudi. Genette, G. (1987). Nuovo discorso del racconto. Torino: Einaudi. Ghislotti, S. (1997). “Teatro e cinema: i tre film di Olivier”. AA.VV., Ombre che camminano, op.cit. Martini, E. (1990). “Da Olivier a Branagh. Enrico V quarantacinque anni dopo”. Cineforum 196, luglio-agosto. Martini, E. (1991). Storia del cinema inglese 1930-1990. Venezia, Marsilio. Martini, E. (1997). “Un Bardo per tutte le stagioni”. AA.VV., Ombre che camminano, op. cit. Olivier, L. (1944). “Nascita di Enrico V”. AA.VV., I registi parlano del film, a cura di L.Malerba: Sequenze, I, 2, 1949; cit. in G.B.Cavallaro, Shakespeare e il cinema. Club Bolognese Cineforum, Bologna, 1965. Viganò, A. (1996). “Dalla letteratura al cinema: problemi di trascrizione”. AA.VV., Letteratura e Cinema. La trasposizione, op.cit.

Filmografie essenziali Laurence Olivier: Enrico V [Henry V], Gran Bretagna, 1944. Amleto [Hamlet], Gran Bretagna, 1948. Riccardo III [Richard III], Gran Bretagna, 1955. Il principe e la ballerina [The Prince and the Showgirl], Gran Bretagna, 1957. Kenneth Branagh: Enrico V [Henry V], Gran Bretagna, 1989. L’altro delitto [Dead Again], Gran Bretagna, 1991. Gli amici di Peter [Peter’s Friends], Gran Bretagna, 1992. Il canto del cigno [Swan Song], Gran Bretagna, 1992. Molto rumore per nulla [Much Ado About Nothing], Gran Bretagna, 1993. Frankenstein di Mary Shelley [Mary Shelley’s Frankenstein], USA, 1994. Nel bel mezzo di un gelido inverno [In the Bleak Midwinter], Gran Bretagna, 1995. Amleto [Hamlet], Gran Bretagna, 1997. Altri film citati Anderson, L. (1963), Io sono un campione [This Sporting Life], Gran Bretagna. Ejzenstejn, S.M. (1938), Aleksandr Nevskij, URSS. Welles, O. (1966), Falstaff [Campanadas a medianoche-Chimes at Midnight], Spagna-Svizzera.

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L’inizio della battaglia. Laurence Olivier in Henry V, 1944.

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Sopra: Laurence Olivier e Renéee Asherson in Henry V, 1944. Sotto: Emma Thompson e Kenneth Branagh in Henry V, 1989.

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Scene dalla battaglia di Agincourt. Sopra: Henry V, 1944. Sotto: Henry V, 1989.

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In base al censimento, non ancora esaustivo, pubblicato in catalogo dai curatori della rassegna scespiriana organizzata nell’ambito del Bergamo Film Meeting ‘97 (Martini 1997), le versioni dell’Amleto realizzate per lo schermo sono quasi cinquanta nel solo cinema occidentale, di cui la metà messe in scena nel secondo dopoguerra. Si tratta di film molto diversi tra loro, sia per motivazione culturale sia per esiti artistici. Alcuni si propongono come diretta rilettura cinematografica dell’originale scespiriano: Laurence Olivier, 1948; il tedesco Franz Peter Wirth, 1960; il russo Grigorij Mihailovic Kozintsev, 1964: l’inglese Tony Richardson, 1969; l’americano indipendente Celestino Coronado che, nel 1976, fa interpretare Amleto da due fratelli gemelli e Ofelia e Gertrude dalla stessa attrice; Franco Zeffirelli, 1990, e Kenneth Branagh, 1996. Altri sono prodotti per la televisione: Hamlet at Elsinore, 1964, girato dal britannico Philip Saville nel vero castello di Elsinore; Hamlet nella celebre versione in abiti moderni, 1964, con Richard Burton e la regia di John Gielgud; ancora Hamlet, 1970, di Peter Wood con Richard Chamberlain; la versione ufficiale della BBC, registrata nel 1980 con il titolo di Hamlet, Prince of Denmark; lo svedese Den Tragiska Historien om Hamlet, Priz ar Danmark, 1984, di Ragnar Lyth. Un paio sono organizzati in forma di riflessione sul lavoro dell’attore: Hamlet (1983) di Mary McMurray e In the Bleak Midwinter (1995) di Kenneth Branagh; mentre non pochi si presentano come una libera trasposizione del mito teatrale nell’ambito di qualche specifico genere cinematografico: il noir (Strange Illusion o Out of the Night, 1945, di Edgar E. Ulmer), la commedia parodistica (Io, Amleto, 1952, di Giorgio C. Simonelli, con Macario), il western all’italiana (Johnny Hamlet - Quella sporca storia nel West, 1967, di Enzo G. Castellari). Altri ancora attualizzano il dramma del principe di Danimarca, ambientandolo nella Germania post-nazista (Der Rest ist Schweigen, 1959, di Helmut Kautner) o nella provincia francese (Ophélia, 1963, di Claude Chabrol) o tra gli industriali

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del legno in Finlandia (Hamlet liikemaailmassa, 1987, di Aki Kaurismaki). E non mancano neppure quelle rivisitazioni che esistano solo come una più o meno eccentrica variazione sul tema scespiriano, ordita da un regista-autore: Un Amleto in meno (1973) e Hommelette for Hamlet (1990) di Carmelo Bene, Rosencrantz and Guildenstern Are Dead, 1990, di Tom Stoppard. Nello stesso periodo di tempo, cioè nel corso degli ultimi cinquant’anni, quanti sono stati gli allestimenti di Amleto sui palcoscenici teatrali del mondo occidentale? Cento? Cinquecento? Mille? Diecimila? La domanda è legittima, ma è difficile, probabilmente impossibile, rispondere. Tanto che proprio qui, intorno al rapporto tra cinema e teatro, è individuabile una prima chiave per accedere a un terreno concettuale in cui diventi possibile affrontare la problematica del remake, anche quando si tratta di opere che nascono da un comune testo pre-esistente: sia esso letterario o teatrale. L’interrogativo può quindi essere posto in questo modo: perché per ogni nuova edizione cinematografica della stessa sceneggiatura – o romanzo o testo teatrale – è diventata norma comune parlare di remake, mentre per ogni nuova messa in scena teatrale dello stesso testo questo non accade mai: neppure quando lo stesso regista (è recente il caso del settimo Amleto che ha preso vita su un palcoscenico per la regia di Benno Besson) ripropone con un nuovo cast o in una diversa lingua o in altro paese un proprio precedente allestimento? Analizzare questa differenza di uso lessicale può essere molto istruttivo per capire che cosa sia un remake; ma per farlo in modo esauriente diventa utile, probabilmente indispensabile, premettere qualche pur schematica considerazione sulla differenza tra messa in scena teatrale e messa in scena cinematografica. Teatro e cinema A teatro, ogni rappresentazione tende a fare storia a sé, perché ciò che accade sul palcoscenico è sempre coniugato al presente. É vero che il regista o un attore possono anche mettere a confronto la propria idea interpretativa di un testo o di un personaggio con una precedente tradizione, adeguandovisi o contraddicendola, ma infine ciò che esiste concretamente come fatto teatrale è solo quanto si svolge sul palcoscenico: in quel preciso momento, per lo specifico pubblico di quella serata, in modo assolutamente irripetibile. Tanto che, se di remake si vuole proprio parlare anche in teatro, questo concetto dovrebbe essere applicato correttamente alle repliche delle stesso spettacolo, piuttosto che al rapporto tra uno specifico allestimento e qualche suo più o meno simile o famoso predecessore. Al cinema, invece, accade ‘ontologicamente’ che il passato si trasformi

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in un eterno presente, in modo tale che ciò che è stato fatto sembra sempre farsi proprio in quel dato momento in cui lo si vede: con il risultato che la morte (quello che non c’è più) diventa generatrice di una vita (quello che c’è sullo schermo) eternamente identica a se stessa. Al cinema, cioè, il prima e il poi convivono inevitabilmente nello stesso istante – sia nell’esperienza individuale, sia nella memoria collettiva dello spettatore – con la conseguenza che ogni nuova messa in scena dello stesso soggetto tende inevitabilmente – a volte anche contro la volontà dei suoi stessi autori – a proporsi come un rifacimento del già fatto, come qualcosa che non ha più solo il proprio «senso», ma anche quello che deriva dal rapporto con l’altro da sé. Ed è proprio per questo che diventa concettualmente legittimo parlare di remake. Considerato dal punto di vista dello spettatore, tutto ciò significa che un allestimento teatrale consuma inevitabilmente la propria esistenza nel presente, trasformandosi in fantasma della memoria per chi l’ha visto e in patrimonio di un passato inesorabilmente irripetibile per ogni generazione seguente; mentre un film continua a esistere nel tempo sempre identico a se stesso e – tanto più oggi, nell’epoca della riproducibilità elettronica delle immagini cinematografiche – parla direttamente a un numero teoricamente infinito di generazioni, che lo possono collocare nel passato solo per la presenza in esso di qualche elemento tecnicamente sorpassato (il bianco e nero, ad esempio) o qualche artificio stilistico non più in uso (mascherini, dissolvenze incrociate, ecc.) o in base al riconoscimento di qualche attore non più contemporaneo o sulla scorta del proprio specifico patrimonio di referenze culturali. Ora, è proprio questo eterno presente cinematografico a far sì che ogni rifacimento della stessa «storia» si trovi inevitabilmente in un rapporto di contemporaneità con il suo predecessore, o più precisamente a essergli messo direttamente in rapporto: con la conseguenza che diventa pienamente legittimo riportare tutti i film con una comune matrice narrativa (ad esempio, tutti i film che raccontano la vicenda di Amleto) nell’ambito di un discorso sul remake. Da quanto considerato sino a questo punto, deriva che il concetto di remake, inteso come atto di mettere (ri-mettere) in scena un testo dato, si trova sempre intrecciato con quello di vedere (ri-vedere) una stessa storia raccontata sullo schermo. In quest’ultimo caso, è lo spettatore che può stabilire o non stabilire un collegamento diretto tra le immagini che sta consumando e quelle di cui ha fruito nel passato e potrà fruire anche domani. Ma lo stesso discorso, in fin dei conti, vale anche per il regista o per gli attori, i quali possono sempre utilizzare l’esperienza del passato per farne rivivere frammenti nel presente o per stabilire con essi un rapporto dialettico producente senso, eventualmente anche spingendolo sino al limite

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della contrapposizione. A conclusione di questo excursus teorico sulle differenze tra messa in scena teatrale e messa in scena cinematografica, si può quindi ritornare ad Amleto con una premessa di carattere generale, valida per tutti i film tratti da opere teatrali classiche: il punto di partenza di ogni considerazione sul tema del remake è la consapevolezza che ogni messa in scena risulta essere l’evocazione di un fantasma, la concretizzazione a 24 fotogrammi al secondo di un’assoluta possibilità di essere. Ma che cosa è l’Amleto di William Shakespeare rispetto ai tanti Amleto che hanno preso vita sullo schermo? Un’entità con autonoma consistenza letteraria o più semplicemente la prima stesura di una sceneggiatura, intesa come semplice strumento di un lavoro creativo che viene svolto soprattutto a partire dal primo giorno di riprese? Testo e messa in scena Il dilemma è cruciale. Perché, mentre un testo teatrale è per definizione oggetto d’interpretazione – cioè, esiste già con un senso compiuto nella sua dimensione letteraria e viene fatto vivere sul palcoscenico sulla base di un punto di vista (semplice o complesso, più o meno approfondito criticamente) che s’incarna nella recitazione dell’attore –, una sceneggiatura resta inesorabilmente un pre-testo, sul quale si sovrappone un atto creativo esteticamente compiuto: fatto di taglio delle immagini, scelte di luce, raccordi di montaggio, determinazione di specifici ritmi narrativi, di toni recitativi e, ovviamente, anche di possibili rielaborazioni drammaturgiche. Con una conseguenza subito evidente. Il Teatro, almeno quello classicamente inteso, ha bisogno del registainterprete, il cui lavoro riguarda l’interpretazione critica di un testo già dato, da rispettare, e tende a fissarsi in modo tale da poter rivivere ogni sera sempre identico nella sua essenza. Il Cinema richiede il regista-autore, il lavoro del quale definisce una volta per tutte la realtà stessa dell’opera. Le componenti fisiche di un film, infatti, esistono solo per il tempo in cui vengono inquadrate dalla cinepresa, diventando quindi immagini sempre identiche a se stesse: reali esclusivamente nell’astrattezza immaginaria dello schermo illuminato. Questa differenza ha fatto sì che il teatro potesse essere sovente considerato come una realtà capace di esistere anche indipendentemente dalla rappresentazione, e come tale in grado di diventare oggetto di analisi critica anche senza bisogno di concretizzarsi in ‘spettacolo’; mentre il cinema è per sua natura sempre ‘spettacolo’, nel senso strettamente etimologico del termine: da spectare, cioè attinente a qualcosa da guardare.

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Che il cinema abbia a che fare con la vista è cosa che nessuno ha mai azzardato mettere in dubbio, come invece è stato più volte fatto a proposito del teatro a partire proprio da Aristotele, il quale ha scritto (1996: 141): “L’efficacia della tragedia sussiste infatti anche senza rappresentazione e senza attori”, e poco più avanti (1996: 161) specificato: “Anche senza il vedere, il racconto deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svolgono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga, ciò che si può provare udendo il racconto di Edipo”. E che il teatro possa essere inteso come un settore della letteratura è, in fin dei conti, un’idea che è sopravvissuta sino ai nostri giorni come testimonia, tra l’altro, la presenza nelle Università, non solo italiane, di cattedre di Letteratura teatrale al fianco di quelle più specifiche di Drammaturgia e Storia del teatro; con buona pace di Hegel il quale, pur nell’ambito di una concezione del teatro come interpretazione, già aveva acutamente osservato: Non è senza importanza per il poeta e la sua composizione il rivolgere l’attenzione al palcoscenico, che richiede una vitalità drammatica di tal genere; anzi, secondo il mio parere, non dovrebbe essere stampato nessun dramma, ma senz’altro, come presso gli antichi, ogni dramma dovrebbe essere incluso manoscritto nel repertorio teatrale ed avere solo una circolazione limitatissima. Noi allora non vedremmo, per lo meno, apparire tanti drammi che hanno, sì, una lingua colta, bei sentimenti, eccellenti riflessioni, profondi pensieri, ma che sono difettosi proprio in ciò che rende il dramma tale, cioè nell’azione con la sua mossa vitalità; (1963: 1570-1571)

proseguendo, quindi, con queste modernissime affermazioni (op.cit.: 1575 e 1576): “L’attore deve essere, per così dire, lo strumento su cui suona l’autore, una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisce immutati”; “Il poeta affida in tal caso ai gesti dell’attore molto di quel che gli antichi avrebbero espresso a parole”. Ora, è proprio nell’ambito della distinzione tra teatro-interpretazione e cinema-creazione che si può meglio comprendere perché ogni nuova messa in scena di Amleto possa propriamente considerarsi un remake solo al cinema. Almeno se riconosciamo al concetto di remake la definizione proposta da Michel Serceau (1989: 6): “Reconfection par autre cinéaste, à partir du même scénario, d’un film déjà réalisé”. Da ciò consegue, infatti, che le singole evocazioni del fantasma di Amleto sullo schermo non vengono più considerate come rette parallele che affondano all’infinito le proprie radici nell’autonomia letteraria del testo, ma piuttosto come una serie di prototipi che stabiliscono tra di loro un rapporto simile a una catena con più o meno evidenti anelli di congiunzione.

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Teoria del remake Certo, il concetto di remake è ancora troppo giovane per non dare origine a definizioni molto contrastate e sovente contraddittorie. Tanto che il discorso sin qui svolto si complica alquanto se, ad esempio, si prende atto con Gianni Canova (1984: 12-14) che non esiste un solo tipo di remake. Infatti, osserva il critico italiano, c’è quello del film-cult (“Il cult-remake non arriva a trasgredire vistosamente la struttura della fabula prescelta”) e quello che s’identifica con il serial (“La ricetta è semplice: basta trovare una fabula-contenitore che possa essere riempita di effetti a catena, ripetibili e sostituibili all’infinito”), quello di un personaggio (“La riproposta del “superuomo di massa”, del suo mito, degli elementi di serialità che connotano le sue avventure, costituisce uno dei settori più consistenti e corposi nelle strategie produttive del remake”) e quello che assume la forma di un restauro (“Il remake-restauro lavora sugli scarti, ricuce, ricicla, reintegra, ricompone”). E, ancora, ci sono il remake-parodia e l’auto-remake quale, ad esempio, la trilogia western di Howard Hawks (Un dollaro d’onore, Eldorado, Rio Lobo) o la serie dei Mabuse di Fritz Lang o i due L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock. Dove si colloca, in questo catalogo, il remake di un testo teatrale? Canova non sembra aver dubbio nell’assimilarlo a un cult-remake, dicendo che in questo caso “avviene un po’ come nella messinscena di un classico teatrale: si può toccare tutto, ma non il testo”; certamente, comunque, il suo posto è in una nicchia specifica che comporta la riscrittura del drammaturgicamente già dato, il quale, almeno nel caso di Amleto, è qualcosa di universalmente noto anche prima e al di fuori dell’esperienza cinematografica. Nel numero già citato di CinémAction, Daniel Protopopoff (1989: 1317) si sofferma sulla distinzione di tre categorie di remake: 1) – “Ceux qui sont inspirés d’un film”; 2) – “Ceux qui sont inspirés d’une oeuvre non cinématographique et d’un film a la fois, avec une nuance à faire suivant l’importance d’une référence par rapport à l’autre”; 3) – “Ceux qui sont inspirés “uniquement” d’une oeuvre non cinématographique”. In base a questa classificazione consegue che ogni riflessione su Amleto al cinema, essendo impensabile il riferimento esclusivo a un’opera cinematografica preesistente, attiene soprattutto ai punti due e tre. Infatti, un film dedicato alla tragedia del principe di Danimarca ora può ispirarsi direttamente al testo scespiriano e ora, contemporaneamente, a questo e a uno o più film che ne sono già stati tratti. Ne consegue, quindi, che solo in quest’ultimo caso si può propriamente parlare di remake, perché quando sia dato quello precedente sembrerebbe molto più opportuno discorrere di adattamento o di ri-adattamento. Per i motivi sopra esposti, però, al cinema accade sempre che, anche indipendentemente dalla volontà dell’autore, ogni nuovo adat-

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tamento diventa anche un remake, in quanto i frammenti del passato tendono inesorabilmente a ripresentarsi sullo schermo e/o nel processo percettivo dello spettatore. È forse utile sottolineare che il remake non può essere assolutamente confuso con la copia, perché questa non tende mai alla rilettura, ma solo alla clonazione, anche nei casi, molto numerosi nel primo cinema muto, di opere evidentemente votate al plagio (dalla serie dei Viaggio sulla luna ai maldestri ricalchi della comiche di Chaplin, sino alle singole sequenze dei primi film ‘hitchcockiani’ di Brian De Palma). Il remake propriamente inteso, invece, porta sempre qualcosa di nuovo sullo schermo: la struttura della sceneggiatura, un modo più moderno di costruire sintatticamente i dialoghi, interpreti diversi, un altro regista, l’aggiunta del colore, il taglio stilistico del racconto. Esso si presenta, cioè, come un’altra opera, che, paradossalmente, pretende un’autonoma analisi estetica, pur rivendicando allo stesso tempo la presenza di uno specifico cordone ombelicale che lo unisca al proprio prototipo. Fenomenologia di un rapporto ‘incestuoso’ Il rapporto di parentela tra cinema e teatro non è solo di carattere storico, ma si fonda su alcune somiglianze di per sé immediatamente evidenti, quali la presenza in entrambi di un testo drammatico con una vicenda e dei personaggi ben definiti, l’impiego degli attori con tutti i connessi problemi della recitazione (si veda quanto dice Amleto in atto terzo, scena seconda), il comune ricorso al concetto di messa in scena con tutti gli apporti tecnici ad essa collegati: scenografia, costumi, illuminazione, movimento, parola, gestualità, ecc. Nello stesso tempo, però, notevoli risultano essere le differenze tra i due mezzi di comunicazione drammaturgica, essendo solo il teatro caratterizzato dal rapporto diretto con il pubblico e dalla presenza fisica dell’attore, e comportando essi convenzionalità spazio-temporali nettamente distinte. Con l’utilizzo di una terminologia già cara a Bazin (1973: 142-190), si può, quindi, sottolineare che, mentre il teatro è sempre convenzionale (anche il realismo teatrale è solo un sistema di convenzioni, perché “per portare sulla scena un albero, bisogna tagliargli le radici e in ogni caso si deve rinunciare a mostrare realmente la foresta”), il cinema è sempre realista, tanto che le sue convenzionalità linguistiche si riducono solo a pochissimi elementi (dissolvenza, flash-back, etc.). Ancora, mentre il teatro eccita lo spettatore (esige cioè la partecipazione attiva e instaura un rapporto ‘individuale’ tra attore e pubblico), il cinema placa lo spettatore, chiedendogli solo di essere contemplatore solitario di un evento che lo ignora e che, in

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fin dei conti, partecipa soltanto dell’universo. E si potrebbe ancora continuare sottolineando le differenze spaziali (lo spazio teatrale è centripeto, quello cinematografico tende a essere centrifugo), temporali (il tempo teatrale è definito dalla parola e dal gesto, quello cinematografico soprattutto dal montaggio) e sociologiche (il teatro è sempre dell’uomo, mentre il cinema può fare a meno dell’uomo); ma resta il fatto che, parlando di remake, interessano in modo specifico soprattutto i diversi modi in cui l’energia drammaturgica di un testo teatrale possa essere conservata e sia in grado di perpetuarsi nella sua messa in scena cinematografica. È evidentemente improponibile analizzare in questa sede tutti i film più o meno direttamente tratti dall’Amleto scespiriano, ma procedendo sulla base pragmatica dell’analisi dell’esistente si può andare alla ricerca delle principali caratteristiche che contraddistinguono i fantasmi di Amleto che si sono aggirati e si aggirano sullo schermo, cercando contestualmente di definire quali siano i vari tipi di adattamento cinematografico possibili di un’opera teatrale. Schematizzando, credo che si possano distinguere almeno cinque categorie di adattamento. Proviamo a definirle. 1) Il cinema come fotografia del teatro L’esempio è offerto dalla versione cinematografica, ma destinata a un pubblico televisivo, che Tony Richardson ricavò dalla propria messa in scena teatrale di Amleto, con Nicol Williamson nel ruolo del titolo, Marianne Faithfull in quello di Ofelia, Anthony Hopkins in quello di Claudio. Girato quasi interamente in primo piano, il film di Richardson si prefigge con evidenza, in primo luogo, non tanto di fare del cinema, quanto di conservare traccia di una messa in scena teatrale che, svuotato lo spazio scenico, puntava soprattutto sulla valenza drammaturgica della parola e sulla funzionalità interpretativa della recitazione. Poco importa, quindi, se Williamson non ha, evidentemente, l’età del personaggio. Come a teatro, ciò che conta non è il realismo, ma quella ‘sospensione dell’incredulità’ ottenuta attraverso la consapevole gestione delle specifiche convenzioni sceniche. Questo modo di gestire sullo schermo un testo teatrale – che pur con modalità molto diverse si ritrova anche nel film che Bill Colleran ricavò dalla messa in scena teatrale di John Gielgud o nel video della serie BBC, diretto nel 1980 da Rodney Bennett – ha senza dubbio degli elementi positivi, consistenti nel suo essere documento di qualcosa altrimenti destinato all’oblio, nel fondamentale rispetto del testo che lo contraddistingue e nel netto primato dell’attore, scespirianamente inteso come dicitore-interprete di un assunto poetico; ma, nello stesso tempo, non può fare a meno di evidenziare i propri limiti: l’opera teatrale viene ridotta al testo, cioè a un fatto letterario pre-esistente; la messa in scena cinematografica tende solo a tradurre quella teatrale, con il rischio di diventare pura illu-

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strazione del già dato; lo spazio e il tempo teatrali vengono negati, ma stentano a ricostituirsi in autonome entità cinematografiche. Il risultato ultimo è quindi quello che André Bazin (1973: 153) definiva teatro filmato, ancora in attesa di “un Jacques Copeau che ne faccia un teatro cinematografico” e la cui maggiore eresia consiste nella “preoccupazione di fare cinema”. 2) Il teatro trascritto in termini cinematografici È quanto ostentatamente si sforzano di fare sia Franco Zeffirelli (1990) sia Kenneth Branagh (1996). L’obiettivo di entrambi è, con evidenza, quello di liberare Amleto dalle convenzioni spazio-temporali proprie del teatro e mettere in scena il testo di Shakespeare con la pluralità dei punti di vista che caratterizza il cinema, per questo considerato portatore di nuova e più coinvolgente forza spettacolare. La preoccupazione di rendere Amleto accattivante innanzitutto allo sguardo comporta però dei costi evidenti: la concentrazione del testo sparisce e tende a diluirsi nel compiacimento del décor (Zeffirelli) o del sorprendente effetto di montaggio (Branagh); il primato drammatico della parola scespiriana viene costantemente negato nel distraente luccichio delle immagini, confondendo l’illusione della morte del teatro nel cinema con l’ostentato scempio fatto sia del teatro (il testo ridotto a fabula), sia del cinema (il linguaggio delle immagini in movimento umiliato nel compiacimento formalista); la stessa spettacolarizzazione della cultura, tanto ostentata come finalità positiva di simili operazioni, finisce col diventare un boomerang nei confronti della cultura (così come gli sceneggiati televisivi possono portare a una maggiore vendita dei libri, ma non per questo a un incremento numerico dei lettori di romanzi; anche questi Amleto per tutti non fanno certo aumentare né i frequentatori delle opere di Shakespeare, né quelli delle sale teatrali) e dello spettacolo (sempre più ridotto alla dimensione superficiale di ciò che desta meraviglia, impedendo il libero sviluppo di stimoli conoscitivi e interpretativi del testo). Se il teatro non ha evidentemente bisogno di un cinema saprofita come questo, anche il cinema non ha nulla da guadagnare dall’ostentazione della sola ruffianeria illustrativa. 3) Attualizzazione cinematografica del teatro Tanto più perché il cinema è un’arte ontologicamente realistica e inevitabilmente coniugata al presente, ogni attualizzazione figurativa e psicologica dei suoi apparati narrativi risulta pienamente legittima. A livello pregiudiziale, pertanto, non c’è nulla da eccepire nei confronti di operazioni del tipo di quelle condotte da Kautner o Chabrol o Kaurismaki sull’Amleto scespiriano. Il giudizio estetico e culturale si sposta in modo necessario sul piano dello stile, rivendica l’esplicita dichiarazione che si sta facendo del cinema e non del teatro, e solletica la definizione del senso solo attraverso l’analisi dei singoli risultati che, nei tre casi evocati, non

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sono certo privi di qualità, anche se sempre sottesi da una certa vena aprioristica di intellettualismo. 4) Il teatro re-inventato (o parodiato) È il caso indubbiamente più estremo, quello in cui il teatro, ma anche il cinema, programmaticamente sparisce nell’onnivoro atto di appropriazione sia del comico di successo (Macario), sia del regista-attore (Carmelo Bene). 5) Il teatro tradotto in linguaggio cinematografico Si tratta della soluzione estetica e culturale più convincente, comportando non tanto la traduzione di un’azione dal palcoscenico allo schermo (come vuole il teatro filmato), ma l’unitaria trasposizione di un testo da un sistema drammatico e linguistico a un altro, ponendosi come problema centrale la conservazione della potenziale energia drammatica del testo e non più, come invece sembrano volere registi come Zeffirelli o Branagh, la semplice negazione dei limiti della ribalta e delle quinte. In questa direzione, che sconfina inevitabilmente sul terreno della creatività, si sono consapevolmente mossi, a proposito di Amleto, registi come Laurence Olivier (Hamlet) e Gregorij Kozintzev (Gamlet) che, non per caso, sono gli autori delle due riduzioni cinematografiche più interessanti del testo scespiriano, anche perché, come già ben sottolineava André Bazin (1973: 190) pur sulla base di altre esemplificazioni, “il cinema non è per loro che una forma teatrale complementare: la possibilità di realizzare la messa in scena contemporanea, quale essi la sentono e la vogliono”. Ritorno al remake Ora, pur nelle diversità, sovente anche radicali, di queste interpretazioni estetiche e culturali del rapporto tra cinema e teatro, è curioso, e nello stesso tempo facile, notare come esistano al loro interno rimandi e collegamenti che non possono fare a meno di rinviare a qualche forma di remake. L’uso del mare come schiumante e rumorosa metafora dei turbamenti interiori di Amleto, appare per la prima volta nella versione di Olivier, ma poi lo si ritrova quasi identico in quelle di Kozintzev e di Carmelo Bene, tanto che viene spontaneo pensare a un remake, anche perché di esso si trova conferma nell’acconciatura a caschetto dei capelli del protagonista. Ancora: l’apparizione del fantasma del padre, realizzata attraverso il ricorso alle nubi e ai controluce dal sapore espressionista, risulta molto simile nelle versioni di Olivier e di Kozintzev, mentre le soluzioni adottate da Richardson e da Zeffirelli tendono a dimostrare che queste non sono affatto delle vie cinematograficamente obbligate. Come, del resto, è alquanto difficile pensare che Zeffirelli non abbia tenuto presente il modello di Kozin-

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tzev, quando ha scelto di mettere in scena il funerale del vecchio Amleto nella cripta, o quando ha posto al centro della propria scenografia la scalinata rocciosa del castello, o ancora quando ha cercato di imprimere a tutto il racconto il ritmo vorticoso derivante dai continui movimenti della cinepresa. È, appunto, il concetto di remake che ritorna nel contesto del discorso sul cinema (e sul teatro) qui velocemente tracciato. Con la doverosa puntualizzazione, comunque, che anche per il remake, come per la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria, il giudizio estetico dei risultati non dipende mai tanto dalla più o meno raggiunta fedeltà alla lettera del testo originario, quanto dall’autonoma creatività con cui il singolo film ha saputo gestire il materiale tematico prescelto: nella consapevolezza che, quando si sceglie di portare sullo schermo Amleto, nulla può nascere mai dal nulla, mentre l’appiattimento su un modello già dato comporta sempre la devitalizzazione dei risultati e la perdita di personalità esteticoculturale dell’opera. Riferimenti bibliografici Aristotele (1996). Poetica. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli. Bazin, A. (1973). “Teatro e cinema”. Che cosa è il cinema? Milano: Garzanti. Canova, G. (1984). “Cinema mutante e sovversivo”. Segnocinema 15, Novembre. Hegel, G.W.F. (1963). Estetica. Milano: Feltrinelli Editore. Martini, E. (1997). Ombre che camminano. Shakespeare I. Bergamo: Lubrina. Protopopoff, D. (1989). “Qu’est-ce qu’un remake? Le remake et l’adaptation”. CinémAction 53, Octobre. Serceau, M. (1989). “Un phénomène spécifiquement cinématographique, in Le remake et l’adaptation”. CinémAction 53, Octobre.

Filmografia Hamlet, GB, 1948. Regia di Laurence Olivier, con Laurence Olivier, Jean Simmons, Eileen Herlie, Felix Aylmer. Gamlet, URSS, 1964. Regia di Gregorij M. Kozintzev, con Innokentij Smoktunovskij, Anastasia Vertijuôskaja, Michail Nazvanov.

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Il colloquio tra Eileen Herlie (la madre) e Laurence Olivier (Amleto) in Hamlet, 1948.

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Sopra: Laurence Olivier (Amleto) e Jean Simmons (Ofelia) in Hamlet, 1948. Sotto: Anastasja Vertijuôskaja (Ofelia) e Innokentij Smoktunovskij (Amleto) in Gamlet, 1964, di Grigorij Mihailovic Kozintzev.

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Destini dell’argomentare in alcune trasposizioni della Christmas Carol: voci nel testo

1. Introduzione Every writer of fiction, though he may not adopt the dramatic form, writes in effect for the stage (Charles Dickens, Speeches)

Questo sosteneva Dickens nel 1858 parlando ad una cena del Royal Theatrical Fund. Conoscendo la incredibile fortuna delle opere di Dickens nelle innumerevoli versioni filmiche, ci si consentirà di sostenere che se Dickens avesse conosciuto il film (e il cinema soprattutto), avrebbe più probabilmente concluso che ogni autore di fiction, anche quando non utilizza la forma drammatica, scrive in realtà “per il cinema”. 1 Gran parte del racconto dickensiano è tagliato per scene, alterna rapidi scorci che ci offrono una visione sfaccettata della città per poi portarci avanti nell’azione attraverso il dialogo. In molte delle opere del periodo più tardo Dickens sperimenta col flashback e col montaggio di storie parallele. Non ci stupisce quindi che le versioni filmiche delle opere di Dickens siano numerosissime. La Christmas Carol, in particolare, è un’opera in cui l’elemento visivo e il movimento hanno sicuramente un ruolo di estremo rilievo. Ma un ruolo importante giocano anche le voci, intese proprio nella loro fisicità, nella loro musicalità, nel loro alternarsi ed intrecciarsi, rappresentando diverse e talvolta conflittuali visioni del mondo. È sulla dinamica interattiva fra queste voci, sulla loro capacità o meno di argomentare, che si giocano – a mio parere – alcune riletture del testo. Ed è su questo aspetto del testo che ci soffermeremo in questo interven1 In una intervista a William Glynne-Jones, anche Noel Langley, sceneggiatore della Christmas Carol diretta da Brian Desmond Hurst (1951), sostiene di essersi convinto – studiando Dickens e la sua epoca – che se Dickens fosse stato ancora vivo avrebbe allegramente adattato le sue opere per lo schermo (cit. in Keyser, 1981: 122)

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to, restringendo di gran lunga le possibili prospettive metodologiche. 2 Collocandoci nella prospettiva degli studi sull’argomentazione, 3 e mettendo soprattutto a fuoco i meccanismi del dialogo argomentativo, col suo alternarsi di ruoli “attivi” e “passivi”,4 ci concentreremo sulle scene di apertura del racconto, quelle in cui il personaggio di Scrooge si costruisce attraverso il suo argomentare col mondo che lo circonda, in una sorta di cornice al racconto vero e proprio. Dopo una breve analisi delle scene iniziali del racconto dickensiano, affronteremo il modo in cui queste scene sono realizzate in due versioni cinematografiche animate – Mickey’s Christmas Carol (1983) e The Muppett Christmas Carol (1992). Pur rivolgendosi entrambe ad un pubblico familiare – ed essendo tra l’altro entrambe distribuite in video dalla Buena Vista – le due versioni propongono letture radicalmente opposte dell’opera e del ruolo di questa cornice in particolare. Ed è proprio in questo rovesciamento di letture che si può vedere la natura di “remake” di un film rispetto all’altro:5 il senso di eccesso e di accumulazione di voci, di piani e di elementi che certamente caratterizza The Muppett Christmas Carol sarà visto come ri-esperienza ad un tempo del testo letterario dickensiano e della più recente tradizione dei cartoons di Disney e del suo Studio.

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Il tema dei rapporti tra testo letterario e testo filmico coinvolge naturalmente una varietà di approcci e di prospettive disciplinari, per cui rinvio a Bussi e Salmon (1996) e Costa (1994). Studi specificamente legati all’ambito della letteratura inglese o della letteratura per l’infanzia si trovano in Klein e Parker (1981) e Street (1983). 3 L’analisi sarà di necessità superficiale, ma rinvia ad un campo molto vasto di studi sugli strumenti logici, retorici e linguistici dell’argomentare. Basti pensare alle prospettive sviluppatesi sulla scia della nouvelle rhétorique di Perelman e Olbrechts-Tyteca (1958). Per una rassegna delle prospettive più interessanti si possono vedere le sintesi di Plantin (1990 e 1996). Esempi di contributi interessati al campo dell’argomentazione da un punto di vista linguistico si trovano in Bussi et al.(1997) e Bondi (1998). 4 Stati (1994) propone una distinzione fra mosse attive “which essentially tend (a) to convince the addressee to accept (adopt, share...) a certain opinion or (b) to determine him to assume a certain behaviour” (1994: 259) e mosse passive, “related to the effects of the active moves, i.e. with the process of ‘being persuaded’. Such moves are Agreement, Rejection, Request for explication etc. By uttering a sentence which plays a passive role the arguer: (a) accepts or rejects the partner’s argumentation, and in doing so, he proves the success or the failure of the partner’s move, or (b) he expresses his wish (his availability / willingness) to be convinced by his partner” (1994: 259). 5 Per una riflessione sulla natura del remake, cfr. La Polla in questo volume. Sui rapporti tra remake e adattamento cfr. anche Cinem’Action (1989) e in particolare Protopopoff e Serceau (1989).

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2. La Christmas Carol e le sue molte vite La Christmas Carol è in un certo senso il racconto di una conversione che si materializza nella visione, in un sogno che è anche viaggio attraverso lo spazio e il tempo: la grande metropoli vittoriana come specchio della società intera e la vita di Scrooge, come specchio di un percorso interiore che consente di dare un peso diverso a diversi aspetti della vita. Scrooge si converte allo spirito del Natale, all’amore per la vita e per i propri simili, dopo essere stato visitato da tre fantasmi che gli mostrano una serie di scene dal suo passato, presente e futuro. Quello Scrooge che dapprincipio nega ascolto ai personaggi con cui parla, giudicando i loro valori “sciocchezze” “Humbug!”, lo Scrooge che chiede a tutti di lasciarlo in pace “Leave me alone”, accetta invece, dopo la visita dei tre fantasmi (il fantasma del Natale passato, quello del Natale presente e quello del Natale futuro), di rituffarsi nella vita della città, dividendo le gioie di chi gli sta intorno: dei charitable gentlemen che difendono la dignità dei poveri, ma soprattutto del nipote Fred e dell’impiegato Cratchit. Tra tutte le opere di Dickens, la Christmas Carol è forse quella che ha avuto il maggior numero di adattamenti e di riscritture. Se si volesse entrare nella questione terminologica di una precisa definizione di “adattamento” e studiare quale svariata tipologia di rapporti si può delineare tra un testo e un altro, la Christmas Carol si presterebbe molto bene, per l’incredibile varietà di trasposizioni che se ne sono date. Basterà consultare l’elenco delle versioni catalogate da Davis (1990) – un’opera dedicata agli adattamenti della Carol e significativamente intitolata The Lives and Times of Ebenezer Scrooge – per vedere che le potenzialità della Carol vengono colte immediatamente, sin dalla sua pubblicazione nel 1843. Da allora, diversi tipi di riedizione e di adattamento si susseguono ininterrottamente. Nel 1867 Dickens stesso ne cura una versione condensata per le sue letture drammatiche6, dopo che d’altra parte ne sono già comparsi numerosi adattamenti per il teatro7. Il testo si presta evidentemente, per il soggetto e per le sue caratteristiche generali, ad una messe di trasposizioni nel mondo dello spettacolo. La bibliografia raccolta da Davis (1990: 259-270) conta ad esempio 47 adattamenti drammatici, tra cui numerosi ‘musicals’, un’operetta, tre opere e 6 A Christmas Carol. As condensed by Dickens for his readings. Boston: Ticknor and Fields, (1867). 7 Ad esempio: Stirling, Edward, ed. (1844). A Christmas Carol, or, Past, Present and Future. London: Barth., Royal Adelphi Theatre; Webb, Charles, ed. (1844) A Christmas Carol. Or, Scrooge the Miser’s Dream. Or, Past, Present and Future, Sadler’s Well Theatre; Barnett, C. Z., ed. (1844). A Christmas Carol. Or the Miser’s Warning!, Royal Surrey Theatre; Fox Cooper, F., ed. (1854). A Christmas Carol, Strand Theatre.

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una versione mimica (di Marcel Marceau); a questi si aggiungano 7 versioni radiofoniche (a partire dalla famosa versione di Lionel Barrymore), uno spettacolo di marionette e un balletto, nonché due versioni “per la lettura ad alta voce”. Le realizzazioni sonore elencano numerosi adattamenti per incisione su disco e adattamenti musicali. Tra i testi visivi non mancano fumetti (tra cui una versione di Walt Disney) e fotoromanzi. I film sono 23 e 15 gli adattamenti televisivi. A questo si aggiunga che consultando i cataloghi di grandi biblioteche europee si incontrano facilmente adattamenti non schedati da Davis o successivi alla data di pubblicazione della bibliografia.8 A noi interessano qui soprattutto le vite filmiche della Carol, alcune delle cui tappe principali sono riportate in appendice. In particolare ci interessa la rete complessa di rapporti che si viene a creare attorno al personaggio di Scrooge in due produzioni animate relativamente recenti: Mickey’s Christmas Carol (1983), un cartone animato della Disney Productions e The Muppet Christmas Carol (1992), un film a tecnica mista, con scene recitate e scene animate. Quello che affascina nella storia delle produzioni animate della Carol è il legame ormai indissolubile tra l’originario personaggio Dickensiano e lo Scrooge Disneyano per eccellenza: Paperone in italiano, Scrooge in inglese. Da un lato ci piace pensare che Dickens, da tanti riconosciuto come grande maestro del romanzo e del cinema, sia stato anche indirettamente grande maestro del fumetto e del cartone animato. Dall’altro ci sembra impossibile che esista oggi una fruizione di una produzione animata (e no) della Carol che prescinda dal ruolo assunto dal personaggio creato da Walt Disney. Così che i confini del già complesso rapporto tra adattamento e remake si sfumano ulteriormente: The Muppet Christmas Carol – prodotto dalla Jenson Productions e distribuito dalla Disney – è sì un adattamento della Carol Dickensiana, ma è anche in un certo senso riscrittura 8

Si vedano, ad esempio, le aggiunte di materiale non-educativo (le edizioni educational sono evidentemente numerosissime) che si possono fare dal catologo della Bodleyan Library: Francis A. Hibbert, A Christmas Carol, Sheldon Press, 1928; A.Edward Newton, A Christmas Carol, A.Edward Newton, 1930; Victor Sawdon Pritchett/ Victor Anderson, Christmas with the Cratchits: a Sketch, Hart Press, 1938; Eric Jones-Evans, Scrooge the Miser: a Play, G.F.Wilson, 1973; Andrew Manley/ Jennifer Granville, A Christmas Carol, Torch Theatre, 1983; Douglas Kelso Swan / Giles Waring / Michael West, A Christmas Carol, Longman, 1987; David McGillivray/Walter Zerlin, The Farndale Avenue Housing Estate Townsmen’s Guild Dramatic Society’s Production of a Christmas Carol: a Comedy, French, 1989; Kareen Taylerson, A Christmas Carol, Orchard, 1989; Lawrence Killian, String Sextet: A Christmas Carol, De Capo Music, 1992; David Holman, The Play of Charles Dickens’ A Christmas Carol, Heinemann, 1994; Brian Sibley, A Christmas Carol: The Unsung Story, Lion, 1994; John Mortimer, A Christmas Carol, French, 1995.

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delle altre versioni animate, in particolare di Mickey’s Christmas Carol, che appare un ‘doppio’ totalmente opposto da molti punti di vista. La scelta simmetrica dei titoli rinvia inevitabilmente un testo all’altro. Entrambi i film modificano il titolo originale nel senso di una premodificazione che attribuisce la Carol al personaggio animato che li caratterizza e si presentano dunque sin dal titolo come fusione di due ‘testi’: la Carol Dickensiana si fonde in un caso con tutta la tradizione da Disney sintetizzata nella figura di Topolino (Mickey’s Christmas Carol), nell’altro con le molteplici trasformazioni dei Muppett (The Muppett Christmas Carol). A noi sembra però che il testo di Dickens si ponga esplicitamente in primo piano nel Natale dei Muppett e che ne venga intenzionalmente ripresa la dimensione ‘polifonica’, con un esplicito rovesciamento della soluzione Disney. Entrambi i film sembrano così reiterare, celebrare o riscrivere il lavoro del grande Walt, evidentemente affascinato, se non ossessionato, dall’opera Dickensiana, creatore di un personaggio che ha portato Scrooge in tutto il mondo – Paperone appunto – e autore anche di una (meno nota) Carol a fumetti.9 Delle due versioni animate della Carol, mettiamo a fuoco un aspetto molto limitato: il destino che in esse assumono le scene iniziali del testo, in cui Dickens costruisce il personaggio attraverso il suo tipico argomentare, in un gioco di voci che si affiancano, si dissociano e si rispondono, proprio come in un canto.10 3. Le voci che argomentano nel testo di Dickens Le prime pagine del racconto di Dickens ci presentano la voce narrante. È una voce molto diretta, colloquiale, personale, un I cordiale ed amico che ci parla confidenzialmente: 11 9

“Walt Disney’s Christmas Carol”, McCall, 85, 1957, 29-36. Nel fumetto, Cedric Mouse è un orologiaio oppresso dal suo datore di lavoro umano – Ebenezer Scrooge – che gli rifiuta un giorno di vacanza per Natale, costringendolo così a lasciare il lavoro per passare comunque la festa con moglie e 14 figli. Scrooge si pente di fronte alla vista del Natale futuro e invita Cedric ad abitare nel suo vecchio orologio di casa. 10 Anche Keyser (1981) considera le modifiche alle prime scene nella Carol di Hurst (sceneggiato da Langley) come elemento interpretativo chiave e ne conclude che “The progression suggests that not only is Scrooge miserly in the world at large and to strangers, but he is also harsh with his family and intimates” (125). 11 Le citazioni – seguite dal numero di pagina – sono da C. Dickens, Christmas Books, Oxford, Oxford University Press (the Oxford Illustrated Dickens), 1987.

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Old Marley was as dead as a door-nail. Mind! I don’t mean to say that I know, of my own knowledge, what there is particularly dead about a door-nail. I might have been inclined myself to regard a coffin-nail as the deadest piece of ironmongery in the trade. But the wisdom of our ancestors is in the simile; and my unhallowed hands shall not disturb it, or the Country’s done for. You will therefore permit me to repeat, emphatically, that Marley was as dead as a door-nail. (7)

È questa voce che ci anticipa il carattere del personaggio principale del racconto, presentandolo in una sorta di antitesi con se stesso, col narratore. Oh! But he was a tight-fisted hand at the grindstone. Scrooge! a squeezing, wrenching, grasping, scraping, clutching, covetous, old sinner! Hard and sharp as flint, from which no steel had ever struck out generous fire; secret and self-contained, and solitary as an oyster. The cold within him froze his old features, nipped his pointed nose, shrivelled his cheek, stiffened his gait; made his eyes red, his thin lips blue; and spoke out shrewdly in his grating voice. A frosty rime was on his head, and on his eyebrows, and his wiry chin. He carried his own low temperature always about with him; he iced his office in the dog-days, and didn’t thaw it one degree at Christmas. (8)

Ben presto il racconto muove dal “discorso” alla “storia” (Cfr. Chatman, 1981), dall’allocuzione diretta del narratore alla messa in azione dei personaggi, e segnala il movimento con il più classico degli incipit: “Once upon a time...”(8). Vediamo così Scrooge nel suo ambiente, seduto nel suo ufficio (counting-house) in una tremenda giornata invernale; la rapida descrizione del tempo e dell’ufficio introduce una serie di scene in cui vediamo Scrooge respingere le richieste o comunque le argomentazioni altrui con grande veemenza. Si susseguono tre scene: a) il dialogo tra Scrooge e il nipote Fred; b) il dialogo tra Scrooge e i portly gentlemen che raccolgono soldi per i poveri; c) il dialogo tra Scrooge e Bob Cratchit, il suo impiegato. Tutti e tre i dialoghi sono ripresi nel finale del racconto che si chiude così come un viaggio interiore (o come un sogno) in una cornice di dialogo col mondo esterno. I dialoghi iniziali costruiscono il personaggio attraverso i valori che mette in gioco nell’argomentare e attraverso le tecniche e strategie argomentative. I tre dialoghi lo vedono contrapporre la propria visione del mondo a tutti i riferimenti che gli altri personaggi fanno ai valori che essi associano al Natale: che si tratti della gioia di Fred, della carità dei due portly gentlemen o della semplice volontà di stare con la sua famiglia che mostra Bob Cratchit. Se tutte e tre le interazioni servono a mettere in luce il carattere di Scrooge, la sua logica, i suoi valori, le sue presunzioni, esse sono però anche legate a momenti ed aspetti diversi della conversione di Scrooge, del

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modo in cui scopre di essere diverso da quello che credeva di essere. La visita dei fantasmi, infatti, metterà Scrooge di fronte non solo ad episodi della sua vita passata e presente (e speculativamente futura), ma anche alle diverse scale di valori che egli stesso ha adottato in passato e soprattutto alle sue stesse argomentazioni, che si ritorcono contro di lui, in modo più o meno diretto. L’idea del rovesciare gli argomenti nell’alternarsi del dialogo è presente sin dal primo conflitto verbale in cui vediamo impegnato Scrooge. Il dialogo con Fred è particolarmente significativo in questo senso: ‘A merry Christmas, uncle! God save you!’ cried a cheerful voice. It was the voice of Scrooge’s nephew, who came upon him so quickly that this was the first intimation he had of his approach. ‘Bah!’ said Scrooge, ‘Humbug!’ [...] ‘Christmas a humbug, uncle!’ said Scrooge’s nephew. ‘You don’t mean that, I am sure?’ ‘I do,’ said Scrooge ‘Merry Christmas! What right have you to be merry? What reason have you to be merry? You’re poor enough.’ ‘Come, then,’ returned the nephew gaily. ‘What right have you to be dismal? What reason have you to be morose? You’re rich enough.’ Scrooge having no better answer ready on the spur of the moment, said, ‘Bah!’ again; and followed it up with ‘Humbug.’ (9)

Fred – che costituisce l’unico legame di parentela di Scrooge, il figlio della amata sorella – è in fondo anche lo specchio di Scrooge, il suo contrario, per l’indomita benevolenza che lo caratterizza. Fred rappresenta al tempo stesso il mondo degli affetti e un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Ed è l’unica persona che tiene testa a Scrooge nell’argomentare, che sa rovesciare i suoi argomenti e lo costringe a rifugiarsi dietro uno sconfitto “Humbug!”, negazione dei valori su cui si basa l’argomentazione di Fred. Questo meccanismo di ritorsione e di ripresa del discorso prosegue nel racconto. Durante la visita del fantasma del Natale passato, ad esempio, è la stessa voce narrante che – nel dipingere le scene della sua infanzia – ritorce contro Scrooge gli argomenti da lui utilizzati con Fred in quel dialogo iniziale nel momento in cui si confrontano le due visioni del Natale. Si vedano in successione estratti dal dialogo tra Scrooge e Fred e la ripresa che la voce narrante fa delle argomentazioni di Scrooge per contrastarle coi suoi stessi sentimenti. Merry Christmas! Out upon Merry Christmas! What’s Christmas time for you but a time for paying bills without money; a time for finding yourself a year older, but not an hour richer; a time for balancing your books and having every item in ‘em through a round dozen of months presented dead against you? [...] Much good may it do you! Much good it has ever done you!’

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‘There are many things from which I might have derived good, by which I have not profited, I dare say,’ returned the nephew.’ Christmas among the rest. But I am sure I have always thought of Christmas time [...] as a good time; a kind forgiving, charitable, pleasant time; the only time I know of, in the long calendar of the year, when men and women seem by one consent to open their shut-up hearts freely, and to think of people below them as if they really were fellow passengers to the grave, and not another race of creatures bound on other journeys. And therefore, uncle, though it has never put a scrap of gold or silver in my pocket, I believe that it has done me good, and will do me good; and I say, god bless it!’ (10) The jocund travellers came on; and as they came, Scrooge knew and named them everyone. Why was he rejoiced beyond all bounds to see them! Why did his cold eye glisten, and his heart leap up as they went past! Why was he filled with gladness when he heard them give each other merry Christmas, as they parted at cross-roads and bye-ways, for their several homes! What was Merry Christmas to Scrooge? Out upon Merry Christmas! What good had it ever done to him? (27)

Anche il dialogo coi portly gentlemen trova una ripresa successiva. Con le loro argomentazioni garbate e convenzionali, col loro presupporre un accordo sui valori, i due rappresentano una forma di carità e solidarietà che non regge ad una indagine puramente razionale ed escono evidentemente sconfitti dal confronto con Scrooge, che contrappone loro la logica dominante e le strategie dell’ironia e dello scherno. ‘At this festive season of the year, Mr. Scrooge,’ said the gentleman, taking up a pen, it is more than usually desirable that we should make some slight provision for the Poor and destitute, who suffer greatly at the present time. Many thousands are in want of common necessaries; hundreds of thousands are in want of common comforts, sir.’ ‘Are there no prisons?’ asked Scrooge. ‘Plenty of prisons,’ said the gentleman, laying down the pen again. ‘And the Union workhouses?’ Demanded Scrooge. ‘Are they still in operation?’ ‘They are. Still,’ returned the gentleman, ‘I wish I could say they were not.’ ‘The Treadmill and the Poor Law are in full vigour, then?’ said Scrooge. ‘Both very busy, sir.’ ‘Oh, I was afraid from what you said at first, that something had occurred to stop them in their useful course,’ said Scrooge ‘I’m very glad to hear it. [...] I help to support the establishments I have mentioned – they cost enough; and those who are badly off must go there.’ ‘Many can’t go there, and many would rather die.’ ‘If they would rather die,’ said Scrooge, ‘they had better do it, and decrease the surplus population. Besides – excuse me – I don’t know that.’ (10-11)

Si veda ora come il fantasma del Natale presente ritorce contro Scrooge

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le argomentazioni da lui utilizzate con i due gentlemen, quando Scrooge chiede di Tiny Tim e dei due bambini miseri ed emaciati che vede ai suoi piedi, Ignorance and Want. ‘Spirit,’ said Scrooge with an interest he had never felt before, ‘tell me if Tiny Tim will live.’[...] ‘If these shadows remain unaltered by the Future, none other of my race’ returned the Ghost, ‘will find him here. What then? If he be like to die, he had better do it, and decrease the surplus population.’(47) ‘Have they no refuge or resource?’ cried Scrooge. ‘Are there no prisons?’ said the Spirit, turning on him for the last time with his own words. ‘Are there no workhouses?’(57)

Diverso invece è il caso di Cratchit, che evita assolutamente il piano dello scontro verbale, limitandosi ad offrire a Scrooge lo spunto per argomentare con se stesso e semplicemente esternare le ragioni che lo spingono a concedere – pur ritenendola una ingiustizia – la giornata a Cratchit. Il silenzio di Cratchit – la sua incapacità di dare espressione al conflitto – trova una sua ripresa nel silenzio agghiacciante del fantasma del Natale futuro. La critica dickensiana e le diverse letture del racconto hanno spesso prestato più attenzione agli aspetti sentimentali dell’opera, all’elemento fantastico e ad una lettura di certi episodi in chiave sociale, che non ad una lettura in termini di riflessione sul potere del discorso, e in particolare sul potere del discorso argomentativo.12 Notiamo invece che la prova del cambiamento di Scrooge ci viene in primo luogo attraverso i mutamenti che si realizzano in lui quando lo vediamo argomentare con se stesso e con gli altri. È questo interesse per il potere dell’argomentare che giustifica appieno le scene iniziali del romanzo, soprattutto in relazione agli altri momenti in cui la cornice del mondo reale e del dialogo tra Scrooge e i fantasmi ritorna in primo piano rispetto al sogno e alla visione. Le scelte operate nei confronti di queste prime scene, coi loro echi lungo tutto il racconto, possono essere prese come elemento esemplare delle scelte divergenti dei due adattamenti in questione, di quella divergenza che caratterizza la Muppet Christmas Carol come remake – rovesciato, in negativo – della Mickey’s Christmas Carol e in un certo senso della tradizione Disney stessa.

12 Per una considerazione dell’opera dickensiana alla luce della rappresentazione che essa offre del potere del discorso, con particolare riferimento alla rappresentazione del discorso politico, cfr. Bondi (1989).

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4. Mickey’s Christmas Carol Il Canto di Natale di Topolino rappresenta tipicamente un’operazione transculturale di riduzione. Il film – nella tradizione Disney – tende ad una compattazione del racconto e dei suoi temi ed è profondamente ancorato ad una lettura del testo in chiave storica ed economica, come riflessione su di un atteggiamento nei confronti del denaro, della ricchezza, del lavoro. La filosofia di Scrooge è esclusivamente una economia di Scrooge: l’economia di Zio Paperone. Il tema della presa di coscienza individuale di una molteplicità di strade per la felicità passa in secondo piano rispetto alla riflessione sull’individualismo economico e sulla sua possibilità di conciliarsi col benessere sociale. Anche nello specifico delle scene di dialogo argomentativo tra Scrooge e altri personaggi, si assiste ad un’opera di riduzione. Il momento delle riprese centrali (nell’allocuzione della voce narrante e nel dialogo tra Scrooge e il fantasma del Natale presente) viene a mancare, I tre dialoghi di apertura si susseguono rapidamente e si riprendono nel finale in modo speculare (Bob-Fred-Gentlemen / Gentlemen-Fred-Bob), a chiudere in una cornice il viaggio coi tre fantasmi. Scrooge appare comunque vincente nel gioco argomentativo d’apertura e dal punto di vista della logica che applica nell’interazione sostanzialmente non molto cambiato nel gioco argomentativo di chiusura. La lunga introduzione della voce narrate è sostituita qui da una rapida scena che muovendo a volo d’uccello da una visione della città Vittoriana dall’alto mette a fuoco un esterno in cui vediamo Scrooge girare un angolo, attraversare rapidamente uno spiazzo, ignorando il rappresentante di una Charity che chiede “Give a penny for the poor, guv’nor. A penny for the poor”, e fermarsi sulla porta del suo ufficio, con il più classico dei suoi “Bah!”, prima di fornirci lui stesso qualche informazione su Marley. Dal punto di vista della rappresentazione dell’argomentazione, la Mickey’s Christmas Carol privilegia la lettura sociale di Dickens, traducendone tutti gli argomenti su quel piano. Particolarmente significativa in questo senso è la scena con i due portly gentlemen: l’argomento della Poor Law e delle workhouses viene evidentemente letto come uno strumento per inviare un messaggio sociale, come espressione della critica di Dickens a quelle istituzioni – piuttosto che alla loro logica, che è una logica del quantitativo rispetto al qualitativo ad esempio, o una logica della monetizzazione e dunque tradotto in termini contemporanei con il ricorso al tema della disoccupazione. SCROOGE: Yes, what can I do for you two gentlemen? 1ST GENTLEMAN: Sir, we are soliciting funds for the (nearly inaudible) for the indigent Poor and destitute.

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SCROOGE: For the what? 2ND GENTLEMAN We’re collecting for the poor. SCROOGE: Oh, Aha. Well, you realize if you give money to the poor, they won’t be poor anymore, will they? Well, and if they’re not poor anymore, then you won’t have to raise money for them anymore... GENTLEMEN: Oh, well... I suppose... SCROOGE: And if you don’t have to raise money for them any more, then you would be out of a job. Oh, please gentlemen, don’t ask me to put you out of a job. Not on Christmas Eve!

La strategia argomentativa assunta da Scrooge nei confronti dei suoi interlocutori è diversa. Lo Scrooge di Disney è molto più “furbo” di quello di Dickens, è abile nell’imbrogliare gli altri, nel prenderli in giro, nel mentire. Questo è evidente in tutte e tre le interazioni e soprattutto per confronto in quella con Fred, che appunto si comporta da Paperino e non è un interlocutore reale. Paperino si fa facilmente manipolare da Paperone, che significativamente liquida con grande rapidità la conversazione – limitata peraltro al pranzo di Natale e non al valore del Natale – concludendola con un ripetuto “Bah! Humbug!” Se Paperino si limita ad augurare buon Natale e ad invitare Paperone a pranzo, interlocutore privilegiato di questo Scrooge diventa il suo impiegato Cratchit-Topolino, cui spetta il compito del dickensiano Fred di presentare una idea del Natale che si contrapponga a quella di Scrooge: “But, sir! Christmas is a time for giving, a time for being with one’s family!” La contrattazione con Cratchit è molto ferma: a differenza dal burbero ma sostanzialmente arrendevole Scrooge dickensiano, Scrooge McDuck concede una mezza giornata di lavoro solo premurandosi di aggiungere “But I’ll dock you half a day’s pay”. Non essendo proprio possibile creare una ripresa delle argomentazioni di Fred (che sono soppresse, assieme a tutte le scene dell’infanzia di Scrooge, che vediamo fin dall’inizio cristallizzato nella sua fissità di cartone), anche la ripresa del fantasma del Natale presente sparisce. Persino il destino di Tiny Tim è in qualche modo attutito. Il fantasma parla di una empty chair, ma poi sparisce prima che Scrooge possa completare la sua deduzione: “That means Tim will...” La morte di Tim è lasciata al testo visivo che segue, all’immagine di Topolino-Cratchit che piange su di una tomba, immagine mostrata dal Natale futuro. Nelle scene conclusive il dialogo coi gentlemen rivela in Scrooge una logica non molto cambiata ma semplicemente bonaria e a loro non più avversa. L’incredulità dei gentlemen di fronte alla improvvisa donazione di Scrooge viene infatti interpretata come una tecnica di contrattazione: le venti monete diventano cinquanta e infine tutto quello che Scrooge ha in tasca (“Still not enough?Ih ih. Eheh Eheh. Well, you drive a hard bargain.

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Here you are 100 and 4 pieces. And not a penny more!”). L’animo economico di Paperone, la sua visione dell’uomo come essenzialmente homo economicus non muta, come è naturale per il personaggio, e per l’America Reaganiana degli anni ‘80. Anche l’incontro finale con Fred va nel senso dei ruoli stabiliti. L’incontro è ancora una volta brevissimo, oltretutto casuale (occasione per un incidente che ancora una volta di Paperino ci faccia ridere) e non particolarmente significativo, anche per il motivo fondamentale che Paperino è notoriamente scapolo e quindi non lo si poteva caricare dell’immagine di casa, di luogo accogliente a cui rivolgersi, di futuro ambiente famigliare che Fred rappresenta per Scrooge nel testo Dickensiano. Simbolo della casa e degli affetti diventa Bob, che fonde così i due mondi della casa e del lavoro. È con Bob-Topolino che Scrooge passerà dunque il giorno di Natale, portandogli direttamente l’oca per il pranzo e i giocattoli per i bambini. E proponendogli di diventare soci. Nella versione Disney, dunque, la chiave di lettura dominante è sicuramente quella economica, di un invito a trovare un equilibrio nel quadro dell’individualismo economico. I personaggi sono e restano di necessità se stessi. La tradizionale astuzia di Topolino è messa in ombra rispetto al suo altrettanto tradizionale senso del dovere, ma anche Topolino è sostanzialmente Topolino. E non è solo il testo dei dialoghi che non riesce a liberarsi dai personaggi di Scrooge-Paperone (Scrooge MacDuck) e di Fred-Paperino: è tutta l’impostazione del film che sembra celebrare molto più Walt Disney, con la sua capacità di farsi “conquistatore” del testo culturale (Schickel, 1968: 227), che non Charles Dickens. Il testo visivo colpisce per le sue linee essenziali, la luminosità dei colori e degli esterni sostanzialmente poco vittoriani, la ricchezza dei dettagli visivi, pur nella estrema economia del racconto. Il fantasma del Natale passato è il più tradizionale portavoce della morale Disney (Jiminy, il grillo parlante) e il fantasma del Natale futuro il più tradizionale dei villains della Disney: Gambadilegno. Il sonoro merita un discorso a parte: se le voci dei personaggi sono sicuramente caratteristiche – un marcato accento scozzese per Scrooge e la classica voce nasale per Fred-Paperino – colpisce invece che la tradizionale passione per gli elementi coreografici e musicali tanto spesso mostrata da Disney e dalla Disney non assuma un ruolo rilevante – se si esclude il ballo da Fezziwig – proprio in un testo di chiara ispirazione musicale.

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5. The Muppet Christmas Carol The Muppet Christmas Carol, invece, è forse uno degli adattamenti più attenti a questi aspetti. La sua attenzione alle voci del testo, alla loro funzione corale e ai loro diversi stili argomentativi si collega da un lato al lavoro originario, dall’altro alla messe di adattamenti che ne sono stati fatti nella vasta produzione di materiali Muppet.13 Se la tradizione Disney tende sempre ad una essenzializzazione del racconto, il canto dei Muppets tende invece ad una sua dilatazione e ad una moltiplicazione delle sue prospettive. Tutto si moltiplica, riverbera, rimbalza, a partire dalla narrazione. La voce narrante si concretizza immediatamente in due voci: in the Great Gonzo (nel ruolo di Charles Dickens) e al tempo stesso in Rizzo the Rat, “spalla” di Dickens-Gonzo e commentatore in proprio. I due personaggi fanno parte di una incredibile folla di venditori vittoriani che assembrano le strade di Londra e fanno la loro prima apparizione dietro a un banchetto di mele in qualità di venditori, ma le loro prime battute rendono evidente la volontà di rovesciare la lettura economica del Canto di Topolino e di mettere semmai in luce gli assurdi a cui il ragionamento economico sembra portare: alla critica di Gonzo, il quale osserva che le mele non dureranno molto se Rizzo continua a mangiarle Rizzo risponde con una pseudogiustificazione: “Ehi! I’m creating scarcity. It drives the prices up!”. Da qui Gonzo si presenta come Charles Dickens ed inizia la narrazione. Il commento dei due narratori ci distanzia insistentemente dal racconto intrecciando con noi spettatori una conversazione “privata” intorno al testo principale.14 Il punto di vista narrativo continua a moltiplicarsi, identificandosi anche con il punto di vista visivo (che talvolta coincide con quello dei due narratori, come nelle riprese iniziali di Scrooge dal basso all’alto,e talvolta non coincide affatto) e con i numerosissimi cori, specialmente quelli dei tanti topolini che sembrano infestare questa popolosissima città e che peraltro ci rinviano ai topi di Disney, non tanto al Mickey dell’83, 13

Evidentemente a questa riscrittura tutta interna al mondo dell’animazione si affianca anche una riscrittura legata ad altri testi filmici, tra cui possiamo pensare soprattutto al film di Brian Desmond Hurst del 1951 e a quello di Ronald Neame del 1970, con la loro attenzione per la ricostruzione dell’esterno vittoriano. 14 Si noti ad esempio che, presentando il fantasma del Natale futuro, le voci narranti si definiscono tanto spaventate che decidono di sparire e tornare per il finale (“We’ll meet you at the finale!”). E si noti anche che i due narratori possono anche rivolgersi direttamente ai personaggi: nel viaggio del Natale passato, ad esempio, il direttore della scuola congeda Scrooge e gli fa i suoi migliori auguri per il suo ingresso nel mondo del business concludendo “You’ll love business. It’s the American way”, poi Rizzo gli parla nell’orecchio e il direttore si corregge: “It’s the British way”.

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quanto alle strips del 57. Tutta l’introduzione sembra giocarsi sulla ripresa e sul contrasto con la Mickey’s Christmas Carol. Una sintesi delle prime scene potrebbe ridurre entrambi gli incipit del racconto filmico ad una ripresa dall’alto della città Vittoriana, che scende a mettere a fuoco un angolo di strada, dal quale poi compare Scrooge, per percorrere accompagnato dalla camera un tratto di strada e fermarsi sulla porta del suo ufficio con un “Bah! Humbug” nel caso di Paperone, con uno “Humbug” nello Scrooge dei Muppett (Michael Caine). Ma se la scena con Paperone è breve, lineare e priva di sorprese – il personaggio si costruisce immediatamente appena lo riconosciamo – la scena del Canto dei Muppett si costruisce in un’incredibile groviglio di particolari e di conversazioni, e con la creazione di grande suspense nei confronti di Scrooge. Di lui si vede dapprima solo il profilo tetro in controluce, ripreso dal basso, con tuba e mantello neri, poi il passo deciso e minaccioso lungo le strade affollate, sempre visto dal basso, con la camera che ne segue i piedi o lo inquadra sempre in modo da non mostrarne il volto. Il suo percorso nella città è accompagnato dal ritmo di un coro martellante, che sembra coinvolgere tutta la popolazione di questa Londra affollata di pupazzi, e che si spegne dopo 4 minuti di film con un primo piano di Scrooge, che dopo tanta attesa vediamo in faccia, proprio quando amaramente pronuncia il suo “Humbug!” L’espressione assume così l’enfasi che le spetta, in quanto tradizionale epitome dell’atteggiamento di Scrooge nei confronti di tutto quello che caratterizza la vita affettiva e la sua tipica risposta ad ogni appello ai valori che gli viene rivolto. La caratterizzazione del personaggio attraverso il dialogo e le sue risposte alle richieste altrui è evidente anche dall’inserzione di dialoghi non presenti nelle altre versioni: la risposta alla persona che chiede di protrarre il pagamento del mortgage e la richiesta degli impiegati di avere altro carbone sono tratti pronti e decisi. Tutto contribuisce a moltiplicare le voci del testo. Anche i Marley sono due. E Bob Cratchit (Kermit the Frog) non è che il portavoce di uno stuolo di impiegati (ratti), totalmente privi di identità, che ripetono sempre solo le ragioni dell’ultimo che ha parlato. L’idea del personaggio che sembra solo ripetere quello che sente si ritrova dapprincipio in uno dei due portly gentlemen (quello però che nel finale farà il suo dono personale a Scrooge), nelle due figlie della Signora Cratchit, e in numerosissimi personaggi secondari. Con l’ingresso in scena di Fred, il film rende immediatamente evidente che quello è il piano dialogico privilegiato: nel Natale dei Muppet, Scrooge e Fred sono gli unici personaggi umani – se si escludono i ruoli molto secondari di Belle, ex-fidanzata di Scrooge e di Clara, moglie di Fred – e sono realmente interlocutori. Nella moltiplicazione dei personaggi, si può

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recuperare l’importanza che Fred ha nel racconto di Dickens: la vera conversione di Scrooge inizia nel suo viaggio nel passato e prima ancora nella sua incapacità di rispondere a Fred quando gli ribatte: “What right have you to be dismal if you’re so rich?”. L’incontro coi portly gentlemen si riavvicina al testo dickensiano e consente così la ripresa centrale da parte del Fantasma del Natale presente, che contrariamente all’eufemistico silenzio del Canto di Topolino, riprende il testo dickensiano con l’affermazione che Tiny Tim morirà e con la ripresa dell’argomento usato da Scrooge contro i poveri: “What then, if he’s going to die, he’d better do it and decrease the surplus population!”. Significativamente diverso è anche l’incontro finale con i due gentlemen, incontro in cui Scrooge si rivela davvero cambiato, gentile, commosso per il dono che riceve, e pudico nei confronti della propria donazione, su cui mostra una fermezza inversa a quella di Paperone, concludendo la conversazione con un “Not a penny less!” L’astuzia business-like di Paperone trova invece una sua manifestazione, più divertita che convinta, nell’americanissimo Kermit the Frog, che riesce sempre ad affermare la sua individualità in quel mare di comparse. Kermit-Cratchit riesce ad esempio, nelle scene iniziali, a convincere Scrooge a dargli il giorno di Natale utilizzando argomenti adatti al suo uditorio, proprio come faceva Scrooge Mc Duck coi portly gentlemen: If you please, Mr Scrooge, why open the office tomorrow. Other businesses will be closed. You’ll have no-one to do business with. You’ll waste a lot of expensive coal for the fire!

Nelle diverse interazioni, Scrooge ci appare pronto al conflitto verbale, ma non necessariamente vincitore astuto come in Mickey’s Christmas Carol. Anzi: è uno Scrooge un po’ disincantato, privo della stizza e della sicurezza di Paperone, persino un po’ facile alla commozione. Uno Scrooge che vede benissimo la falsità delle argomentazioni di Cratchit, ma che accetta in fondo la regola del sociale: It’s a poor excuse for picking a man’s pocket every December 25th, but, as I seem to be the only person around who knows that, take the day!

Il suo percorso di cambiamento sarà soprattutto rivolto ad una crescita personale, ad una accettazione del mondo degli affetti e della gioia di vivere, ad una capacità di stabilire un rapporto reale col sociale, che non si realizzerà solo con la donazione ai portly gentlemen, ma con il suo stabilire una molteplicità di rapporti personali con tutti. Anche il finale della Muppett Christmas Carol deve molto alla Carol di Topolino. Mentre nel testo dickensiano Scrooge passa il Natale con Fred e manda a Cratchit il tacchino anonimamente, sorprendendolo con un

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aumento solo il mattino seguente in ufficio, qui è ancora un volta Scrooge che va da Cratchit con il tacchino – accompagnato da cori e da una massa di pupazzi e umani per le luminose vie di Londra, proprio come nelle scene iniziali aveva percorso una Londra tetra e agghiacciante. Anche nel Natale dei Muppett, Scrooge scherza bonariamente con le aspettative negative di Cratchit, scontrandosi però dapprincipio con la tenacissima Signora Cratchit-Miss Piggy, che gli ritorce tutte le prime affermazioni, salvo poi accorgersi in ritardo che Scrooge ha intenzioni benevole. Anche nel Canto dei Muppet, dunque, come in quello di Topolino, Scrooge festeggia coi Cratchit il Natale. Questa volta, però, nella scena finale di una casa aperta a tutti, si ritrovano anche Fred e Clara, con tutti i personaggi, principali e secondari, umani o pupazzi, in un grande coro che ricompone tutti i conflitti fra le diverse voci, recuperando la molteplicità di dimensioni che il Natale assume nella Carol. 6. Conclusioni L’analisi ha inteso dimostrare come le due letture cinematografiche siano fortemente collegate, nelle profonde, intenzionali differenze e come le differenze di visione tra i due lavori rispecchino una tendenza più generale. Se – come conclude Davis (1990: 221 e segg.) – le letture degli anni 80 della Christmas Carol hanno privilegiato una lettura “economica” del racconto, si potrebbe pensare che le letture degli anni ‘90 siano più attente alla molteplicità di piani su cui la Carol si muove e alla molteplicità di discorsi che vi si intrecciano sul piano personale e su quello sociale. Nella polifonia delle versioni più recenti appare fondamentale – anche se naturalmente non unica chiave di lettura – una riflessione sul dialogo in quanto dialogo argomentativo e dunque sull’argomentare in quanto disciplina delle buone ragioni, che non sempre coincidono col ragionamento razionale e possono anzi confondersi in un ossessivo rincorrersi di voci. Bibliografia Bondi, M. (1989). Dickens e il discorso politico. Analisi di una contraddizione. Bologna: Cappelli. Bondi, M. (a cura di) (1998). Forms of Argumentative Discourse. Per un’analisi linguistica dell’argomentare. Bologna: CLUEB. Bussi, G.E. e L.Salmon (a cura di) (1996). Letteratura e cinema. La trasposizione. Bologna: CLUEB. Bussi, G.E., M.Bondi e F.Gatta (a cura di) (1997). Understanding Argument. La

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logica informale del discorso. Bologna: CLUEB. Chatman, S. (1978). Story and Discourse. Narrative structure in fiction and film. Ithaca: Cornell University Press. ô ô Cmejrková, S., F. Stícha (Eds.) (1994). The Syntax of Sentence and Text. Amsterdam/ Philadelphia: Benjamins. Costa, A. (1993). Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura. Torino: UTET. Davis, P. (Ed.) (1990). The Lives and Times of Ebenezer Scrooge. New Haven and London: Yale UP. Keyser, L. J. (1981). “A Christmas Carol - 1843 - Charles Dickens. Brian Desmond Hurst 1951. A Scrooge for All Seasons”. The English Novel and the Movies, M. Klein and G. Parker (Eds.), 121-131. Klein, M. and G. Parker, eds. (1981). The English Novel and the Movies. New York: Ungar. Cinem’Action (1989). Le remake et l’adaptation. (numero speciale), 53 Perelman, Ch. et L. Olbrechts-Tyteca (1958/1970). Traité de l’argumentation La nouvelle rhétorique. Bruxelles: Editions de l’Université de Bruxelles. 3e éd. 1976. Plantin, C. (1990). Essais sur l’argumentation. Paris: Editions Kimé. Plantin, C. (1996). L’argumentation. Paris: Seuil. Protopopoff, D. et Serceau, M. (1989). “Faux remakes e vraies adaptations”. Cinem’Action 53, 37-45. Schickel, G. (1968). The Disney Version: the Life, Times, Art and Commerce of Walt Disney. New York: Simon and Schuster. Stati, S. (1994) “Passive Moves in Argumentation”. The Syntax of Sentence and ô ô Text, S. Cmejrková and F. Stícha, F. (Eds.), 259-271. Street, D. (Ed.) (1983). Children’s Novels and the Movies. New York: Ungar.

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Appendice - Filmografia 1901 Scrooge. Or: Marley’s Ghost R.W.Paul (UK)

W.R.Booth

1908 A Christmas Carol

Essanay (USA)

1910 A Christmas Carol

Thomas A. Edison (USA)

Ashley Miller

1913 Scrooge

Zenith Films (UK)

Leedham Bantock

1914 A Christmas Carol

London Film Co. (UK)

Harold Shaw

1916 The Right to be Happy

Bluebird Photoplays (USA) Rupert Julian

1922 Scrooge

Master Films (UK)

George Wynn

1923 Scrooge

British and Colonial (UK)

D.Edwin Greenwood

1928 Scrooge

British Sound Film Produc- Hugh Croise tions

1935 Scrooge

Twickenham Productions

Henry Edwards

1938 A Christmas Carol

Metro Goldwyn Mayer

Edwin Marin

1947 A Christmas Carol

(Spain)

Manuel Tamayo

1951 A Christmas Carol

Renown Pictures

Brian Desmond Hurst

1956 A Christmas Carol

CBS-TV

Ralph Levy

1959 A Christmas Carol

Paramount

Vincent Price

1960 A Christmas Carol

Alpha (UK)

Robert Harford-Davis

1962 A Christmas Carol

Coronet International Films Desmond Davis (USA)

1965 Mr.Magoo’s Christmas Carol (Animated)

Henry Saperstein Productions/ UPA

Abe Levitow

1969 A Christmas Carol (Anima- Air Programs International Zoran Jangic ted) (AUS) 1970 Scrooge

Cinema Center Films

Ronald Neame

1983 Mickey’s Christmas Carol Walt Disney Productions (Animated) (USA)

Burny Mattinson

1984 A Christmas Carol

Entertainment Partners (USA)

Clive Donner

1988 Scrooged

Art Linson / Mirage Productions (USA)

Richard Donner

1992 The Muppet Christmas Carol

Jenson Productions / Disney Brian Henson (UK/USA)

Destini dell’argomentare in alcune trasposizioni della Christmas Carol

“Spirit! Are they yours?” “They are Man’s”, said the Spirit (...). This boy is Ignorance. This girl is Want”. Da A Christmas Carol, 1843. Illustrazioni originali.

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Marina Bondi Paganelli

“Bob, my good fellow”, said Scrooge (...) “I’ll raise your salary, and endeavour to assist your struggling family (...)”. Da A Christmas Carol, 1843. Illustrazioni originali.

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1. Il romanzo e le sue letture “Perché, si chiede G. Wagner a proposito del primo adattamento cinematografico del romanzo ad opera di William Wyler, scegliere proprio questa, che non è neanche una storia d’amore?” E se non è una storia d’amore, che cos’è questo racconto che nella nozione comune esprime la quintessenza della passione romantica? La domanda non è impertinente, se si pensa al pre-letto e pre-concetto che stranamente accompagnano certe opere come un alone che predetermina le attese del lettore, e a volte resiste e sopravvive accanto alla lettura stessa, come se si trattasse di un testo fantasma difficile da abbandonare, sul quale, a volte si plasma anche l’esperienza del testo reale, allorché il lettore, quasi inconsapevolmente, sfuma, enfatizza o addirittura cancella dalla sua mente parti del testo, per assecondare questa ‘forma’ preesistente. Esistono parecchie di queste opere notorie, più che realmente conosciute, di cui una certa nozione comune, per non dire una certa ‘lettura’, continua a prevalere e ad influenzare i modi della ricezione. È certamente il caso di Wuthering Heights, (da ora WH), in italiano La voce nella tempesta nelle sue prime versioni1, un titolo che già anticipa un quadro di eventi romantici e avventurosi. Il problema è che WH è anche una grandissima storia d’amore che però ha poco a che fare col ‘romance’ intessuto nell’intrigo dei rapporti sociali dei romanzi coevi, che pure si pongono come modelli all’autrice per quanto riguarda l’ estrema attenzio1

Tra le versioni italiane del romanzo si ricorda quella di Enrico Piceni, La Voce nella tempesta, Milano, B.U.R., 1949. Il romanzo passò poi alla Einaudi, da cui fu ceduto all’Editore Mondadori che, nel 1962, lo ripubblicò col titolo di Cime Tempestose (trad. Antonio Meo). L’Editore De Agostini ripubblica il romanzo (Cime Tempestose) nel 1986, in una nuova traduzione di Lea Spaventa Filippi

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ne alla complessa struttura dell’intreccio ed a una certa geometria globale che governa il mondo della sua finzione. Ma WH ha alcuni caratteri che la rendono un’opera unica e a sé stante, e il più appariscente di essi è la molteplicità delle risonanze che vi si ritrovano, a cominciare dal folktale alla Bibbia, da Shakespeare al mito classico, da Byron a Walter Scott. Il perdurante equivoco presso il lettore comune circa la ‘grande storia d’amore’, ha condizionato non poco le diverse versioni filmiche di WH, ma prima di passare a questo problema, mi sembra utile accennare ad alcune delle varie letture critiche di un’opera che ha avuto come forse nessun’altra una ricezione alterna e contraddittoria, e che ha continuato, nel tempo, a porre problemi e ad intrigare il critico e il lettore. Inizialmente rifiutata dalla critica ufficiale come rozza, volgare, eccessiva, violenta e perversa, tale che “the reader is shocked, disgusted, almost sickened by details of cruelty, inhumanity and the most diabolical hate and vengeance” (da una recensione di Douglas Jerrold, 15 gennaio 1848, in M. Allott, 39-46), WH si presentava come un’opera troppo astrusa e diversa dai coevi ‘social realist novels’, anch’essi principalmente di mano femminile (si pensi a Austen, Gaskell, Martineau, Charlotte Brontë), che pur contenevano cospicue “tasche buie di gotica oscurità” (Jackson). Dopo l’iniziale ostilità, WH finì per essere un’opera quasi trascurata nel panorama critico del periodo, o relegata tra quelle di un genere ‘minore’ come il gotico, o considerata come un ‘caso’ a sé stante, isolato e inquietante, difficile da esaurire e da classificare. La grande rivalutazione dell’opera nel panorama critico dei primi decenni del 900 avviene inizialmente grazie ad una lettura del romanzo in chiave poetica e mitica, a cui solo successivamente seguiranno letture che ne inerpretano la trasgressività di volta in volta secondo una prospettiva socio-storica e marxista, femminista, psicoanalitica, metadiegetica. WH viene dunque riscoperta come un ‘diamante grezzo’ di remota origine e di insolita ispirazione, quasi pre-cristiana, pre-morale e pagana, un racconto che “avrebbe potuto essere scritto da un’aquila” (G. K. Chesterton). Un romanzo sospeso tra cielo e terra, più vicino al cielo che alla terra: un romanzo meteorico, dove le passioni degli uomini hanno lo stesso impeto dei fenomeni naturali, come un monumento sopravvissuto di “una specie di uomini-grifoni affatto scomparsa” (Praz, Traversi). Lo sviluppo cronologico nell’arco di 40 anni e di due generazioni di protagonisti, racchiuso entro la cornice di una duplice narrazione, quella di Lockwood che include la narrazione di Nelly Dean che a sua volta riporta a tratti il racconto di altri, ne forniscono la complicata ma accuratissima architettura narrativa costruita su generi e ispirazioni diverse (il genere realistico convive con l’horror e il gotico, con elementi del folklore e del racconto orale) che entrano in tensione tra loro e creano quell’ ‘eccesso

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di significanti’ che preme alla superficie del testo e ne forza le ordinarie strutture sintattiche e semantiche. W. Woolf in The Common Reader (1928) ascrive la forza e la asperità di WH al fatto di essere l’opera di un poeta più che di un romanziere, ispirata quindi ad una visione universale e assoluta ed espressa in una lingua che spesso ha la fulminea sinteticità della poesia. Non c’è un ‘io’ narrante con cui identificarsi, si delinea quasi un conflitto cosmico tra le aspirazioni umane e le forze avverse dell’universo: There is love, but it is not the love of men and women. Emily was inspired by a more general conception (...). She looked out upon a world cleft into gigantic disorder and felt within her the power to unite it in a book. Her characters do not merely claim ‘I love’ or ‘I hate’, but ‘we, the whole human race’, and ‘you, the eternal powers...’ the sentence remains unfinished (1996: 85).

Anche altri critici del primo 900 ‘recuperano’ WH ad una valenza assoluta ma astratta e disincarnata, come se si trattasse di un’opera da leggersi al di fuori e al di là di ogni contesto socio-storico: “L’atmosfera che vi regna è come una pura chiara luce di mattino, e un vento pungente imbevuto di neve vergine soffia nelle sue pagine. Benché le passioni che vi si descrivono siano violente, non vi è in esse nulla di afoso: il loro calore è il calor bianco di una fiamma purificatrice” (D. Cecil). È lo stesso Cecil ad individuare nella opposizione tra la terra della tempesta, il mondo nudo e indomito delle alture e quello frondoso e protetto della vallata una eco del contrasto tra le categorie del sublime e del bello. Ciascuno dei due gruppi umani vive secondo la natura del suo ambiente fino allo sconvolgimento derivato dal mescolarsi tra i due mondi. Catherine – e Nelly la seguirà – scenderà in fatti alla Grange per sposarsi, e, con movimento opposto, la giovane Catherine salirà dalla Grange alle Heights per sposarsi anch’essa in un ancor più sciagurato matrimonio. Nella seconda generazione tuttavia le differenze si attenuaeranno e l’armonia si ricomporrà secondo un movimento narrativo pacificante più vicino al poema epico che non al romanzo, “secondo un disegno netto e logico come quello della fuga musicale”, dice ancora Cecil. Il romanzo si chiude, secondo il critico, sulla prospettiva di una cristiana ortodossia: She (Catherine) believes in the immortality of the soul. If the individual life be the expression of a spiritual principle(...) the mere dissolution of its fleshly integument will not destroy it. But she does more (than that) in the ortodox Christian sense. She believes in the immortality of the soul in this world (...). The disembodied soul continues to be active in this life. Its ruling preoccupations remain the same after death as before (1960, 235).

Tralasciamo queste valutazioni finali, che sembrano essere ancora un tentativo di ‘addomesticare’ un’opera intrattabile, e vediamo come invece

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tenda a riprodursi una concezione disincarnata, a-temporale, a-generica dell’opera. Questo romanzo funziona in modo diverso da tutti gli altri, sostiene Forster, ma tale diversità non viene indagata attraverso gli strumenti della critica, ma viene soltanto indicata attraverso metafore poetiche. E.M. Forster riafferma il carattere pagano ed elementale, ‘cosmico’ di WH: The emotions of Heathcliff and Catherine function differently to the other emotions in fiction. Instead of inhabiting the characters, they surround them like thunderclouds, and generate the explosions that fill the novel from the moment when Lockwood dreams of the hand at the window (...). Wuthering Heights is filled with sound – storm and rushing wind – a sound more important than words and thoughts (...). Wuthering Heights has no mythology beyond what these two characters provide; no great book is more cut off from the universals of Heaven and Hell. It is local, like the spirits it engenders, and whereas we may meet Moby Dick in any pond, we shall only encounter them among the harebells and limestone of their own country (Aspects of the Novel, 131-132).

Letture più recenti tendono ad imbrigliare l’opera attraverso vincoli di più precisa natura critica. Una lettura di ispirazione marxista ricolloca il romanzo nel suo contesto storico e culturale (Williams, Eagleton, Jackson, Runcini) e annota come, in questa luce, WH partecipi di molti elementi che fanno da sfondo al grande romanzo ottocentesco inglese: le inquietudini ingenerate dalla turbolenza sociale, con il formarsi di nuove classi di fronte al declino delle classi tradizionali, il passaggio delle ricchezze e dei beni a mani nuove, il farsi e disfarsi di grandi fortune dove la ‘rendita’ cedeva il passo alla – talora improvvisa e rapinosa – ricchezza da imprenditoria e da commerci. La duplicità dei mondi che è tipica della fiction di Dickens – sostiene Raymond Williams– esiste anche in WH, e la tradizionale ‘working farm’ dove padroni e servi sono praticamente indistinguibili, come nelle Heights, si trova messa a confronto col sussiego e il decoro della ‘mansion house’ dove abita la ‘gentry’, la nuova borghesia della Grange. Il romanzo gotico (e WH appartiene anche al genere gotico) nasce alla confluenza di ideologie vecchie e nuove, e traduce nella narrazione, ovvero sul piano della proiezione simbolica, gli effetti di smarrimento e di paura dovuti ai mutamenti negli assetti e nei rapporti sociali, l’ascesa di nuove classi, l’improvviso apparire di nuovi protagonisti di origine sconosciuta, destinati a suscitare sospetto e angoscia ma anche, talora, un misterioso fascino ed una oscura attrazione. “I critici che hanno interpretato Maldoror, The Monk, Jekyll e Dracula devono sapere che Heathcliff è segnato dalla stessa diversità, dalla stessa alterità, che però significa anche energia, vitalità, esuberanza e passione” (Jackson, 122). Secondo questa prospetti-

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va, la prima metà del romanzo è dedicata agli sconvolgimenti oggettivi e soggettivi provocati dalla intrusione del ‘non-descript’, lo sconosciuto, mentre la seconda metà del romanzo si dispiega lentamente verso il recupero di dimensioni più umane del sentire e di situazioni più vivibili e condivisibili, mentre, con il lento declino e la morte di Heathcliff (d’ora in poi H), si ricostituisce una omogeneità nel gruppo familiare. La conclusione, poi, segnala la restaurazione di un equilibrio nei caratteri e nella convivenza, una pacificazione a livello personale, sociale e di classe, e questo, nel simbolismo della narrazione, sul piano matrimoniale, patrimoniale, e residenziale (la nuova generazione opterà definitivamente per la Grange lasciando le Heights agli spettri irrequieti ed errabondi). Gradualmente, dicono i sostenitori di questa lettura ‘materialista’, si realizza una strategia di espulsione della diversità, del ‘desiderio’ estremo e sovvertitore come pure del rapinoso spirito di appropriazione e di vendetta: si allontana la minaccia dell’estraneo e del non-familiare che come un turbine aveva attraversato il racconto con la comparsa di H come del gipsy beggar, il Lascar, l’ Afreet, il ‘non-descript’ (Briggs, Jackson). Non è del tutto certo, tuttavia, che il romanzo si presti a questa lettura circolare e conclusa, in un certo senso pacificante e risolta. Quello che è certo è che esso rappresenta ancora, per il lettore di oggi, un testo irto di difficoltà, disagevole ed eccessivo, a cui ben si adatta la definizione di Fox: “The novel still represents the most violent and frightful cry of human suffering which Victorian England ever tore from a human body” (in Bluestone, 102), mentre lo sforzo classificatorio nei confronti di un’opera ‘anomala’ sembra destinato a continuare. Le alture e la vallata, la salute e la malattia, la religione bigotta della Bibbia e la religione cosmica degli spiriti e degli elementi, il realismo e la visionarietà, il buon senso e la superstizione, l’attaccamento e la perdita, il rapporto che intercorre tra i vivi e i morti, o tra i vivi e i non-morti: il romanzo trascorre tra queste opposizioni, che lo hanno fatto includere – dopo decenni di incertezza critica – entro il genere del ‘realismo fantastico’, una categoria teorica ibrida, se si vuole, entro cui sono state annoverate opere diverse, scelte entro la produzione di autori come Dickens, Gaskell, Brontë, F.Burney, caratterizzate dalla coesistenza di ispirazioni e convenzioni diverse (Citham, Bompiani). Strettamente connessa alla lettura di impianto ‘materialista’ si realizza anche una lettura ‘femminile’ di WH, condotta secondo una prospettiva critica attenta a quegli aspetti del romanzo vittoriano che rappresentano le tensioni e i conflitti, individuali e collettivi, collegati al genere, alla classe, alla sessualità e alla struttura della famiglia. Ci si chiede, in questo ambito, quali siano le ragioni che stanno dietro alla copiosissima scrittura gotica di mano femminile, quale tradizione di oppressione, reclusione, repressio-

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ne del desiderio e masochista autodistruzione stia dietro le varie figure – che tante donne scrittrici hanno disegnato– del vampiro e della vittima, dello sconosciuto che invade e sovverte la vita, dell’amante demoniaco che rapisce e conduce alla morte (Kristeva, Gilbert e Guber, Mellors, Vine, Rasy). La dinamica del desiderio investe tutti i personaggi in WH e H, l’enigma, il foundling, il senza-storia catalizza su di sé il desiderio degli altri. Lockwood vede in lui un’anima gemella, un solitario meditabondo come sente di essere lui stesso. Il vecchio Earnshaw aveva visto reincarnarsi in lui l’immagine di un figlio perduto. Nelly, a modo suo, aveva protetto il bambino rifiutato e maltrattato, al punto da inventargli un passato favoloso (“Who knows, but your father was the Emperor of China and your mother an Indian queen (...) and you were kidnapped by wicked sailors and brought to England. Were I in your place I would frame high notions of my birth” WH, 57). Certamente H è il perfetto altro per C e sarà, sventuratamente, anche il ricettacolo delle fantasie romantiche di Isabella. In realtà l’irruzione della presenza irrequieta di H accentua le latenti instabilità del microcosmo che invade: accende una dinamica di inclusioneesclusione nei suoi confronti e acuisce il contrasto tra i membri della famiglia. All’esterno, nelle moors, H è incluso nel rapporto con Catherine (da ora C), mentre all’interno della famiglia è incluso nella predilezione del vecchio Earnshaw ed anche escluso per la persecuzione del fratellastro Hindley. Marginale alla famiglia e al tempo stesso centrale ad essa, H fa esplodere le intrinseche contradditorietà della famiglia patriarcale, con la benevolenza delle sue generose ‘adozioni’ ma anche il suo sostanziale dispotismo. H innesca la ribellione di C verso il padre e verso i vincoli della ‘appropriatezza’ (quella ‘propriety’ che è semanticamente così vicina al concetto di ‘property’), ma non riesce ad arginarne la vanità borghese e l’impulso a ‘eccedere’, a travalicare i confini. Il testo fa affiorare infatti altri aspetti inquietanti relativi alla identità personale e al genere oltre che alla classe. L’autodefinizione di C –“He is more myself than I am (...) I am Heathcliff” – obbedisce ad un impulso verso la reciproca possessione ed identificazione, in linea con la concezione romantica dell’unione amorosa, ma nella acutissima percezione della Brontë, è anche un estremo tentativo di raggiungere ‘l’altro’ travalicando i confini del proprio essere, innescando un movimento di ‘alterazione’ del sé, preludio ad altre fratture e a successive deliranti estraneazioni2. 2 L’io molteplice ed irrequieto di C era già stato anticipato a Lockwood dalle iscrizioni da lui decifrate, dove C era di volta in volta Catherine Earnshaw, Catherine Heathcliff, Catherine Linton. Nell’ intreccio complesso del romanzo, nella seconda generazione si darà un rifrangersi, rispecchiarsi e ricomporsi dei personaggi e dei nomi.

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Il matrimonio con Linton è certamente la più evidente di tali estraneazioni: in uno dei suoi deliri finali C vede in fatti se stessa come “the lady of the Grange – and the wife of a stranger, an exile, an outcast, thenceforth, from what had been my world” (WH, 121), fino alla estraneazione estrema dalla propria vita e dalla propria storia, nella figura dello spettro infantile che ha perduto la strada per tornare a casa. Una lettura in chiave psicanalitica contribuisce a rendere conto del carattere trasgressivo del romanzo gotico pre e post-romantico, fino a tempi recenti considerato un genere ‘minore’ rispetto al grande romanzo sociale e ‘di formazione’ del XVIII e XIX secolo. L’immaginario del racconto gotico si presta infatti, si afferma, ad accogliere emergenze di materiali psichici repressi o rimossi. In WH la trasgressione, il continuo forzare e oltrepassare le barriere del costume, della educazione e della morale tradizionale trovano una proiezione simbolica nella violazione delle barriere fisiche che costellano il romanzo: le mura, le finestre, le recinzioni, i confini tra le due case e i due mondi delle Heights e della Grange. C’è sempre qualcuno che tenta di instaurare un controllo, tenendo dentro e respingendo fuori, in un tentativo che viene continuamente frustrato dalle fughe e dai ritorni improvvisi, dalle intrusioni e dalle incursioni, in una ricorrente dinamica di attrazione e ripulsa, inclusione ed esclusione. È una violazione che si estende, come si è notato sopra, alle barriere sociali e morali, le classi, i legami di parentela, i confini della identità personale, fino ai tabù estremi come la necrofilia3, l’incesto –appena sfiorato –4 e il limite ultimo, la barriera che separa i vivi dai morti, e trova espressione nella sfida cosmica di H nel suo finale suscitare lo spirito di C: “I pray only one prayer...haunt me, then! Be with me always – take any form, drive me mad! Only do not leave me in this abyss, where I cannot find you!” (WH, 143). Il romanzo presenta una dualità ed una opposizione tra mondi, ma anche un continuo andirivieni tra dimensioni e mondi: ogni equilibrio raggiunto diviene immediatamente precario per la minaccia, ai bordi, di una nuova dirompente intrusione di ciò che è stato allontanato. Non è tanto il centro che non regge, Kristeva obbietta alla affermazione di Yeats, ma il margine. Questa impossibilità di stabilire confini netti e stabili tra i mondi 3 Heathcliff cerca il cadavere di Cathy dopo la sepoltura e lo disseppellirà 18 anni più tardi, nell’anniversario, scoprendo la bara per controllare le fattezze – ancora quelle! – dell’amata. 4 La seconda Catherine sposa due cugini l’uno dopo l’altro, prende quasi il posto della madre morta presso il padre e instaura un rapporto particolarissimo, non detto, con Heathcliff, il quale è ossessionato dalla somiglianza tra la giovane Catherine e Hareton, e tra loro e la defunta Catherine: “About her (Catherine jr.) I won’t speak; and I don’t desire to think; but I earnestly wish she were invisible; her presence invokes only maddening sensations. He (Hareton) moves me differently” (WH, 277).

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e le dimensioni del vivere trova una corrispondenza nel rifiuto del limite – anche del proprio limite interiore – che caratterizza la protagonista del racconto. E quella “childlike quality” di C che rifugge dalla scelta tra i due amori, e finisce per autodistruggersi e morire di fronte ai dilemmi imposti dalla vita adulta e socialmente ordinata (“If I cannot keep Heathcliff for my friend, if Edgar will be mean and jealous, I’ll try to break their hearts– by breaking my own” WH, 100). C si stupisce di non essere considerata un universale ‘love object’ a cui è concesso di possedere i due mondi contemporaneamente, e quindi l’accesso ad una felicità totale, come accade in quello che Freud definiva il ‘polimorfismo’ perverso del bambino che non tollera la contraddizione e la rinuncia (Nestor). Il carattere tragicamente infantile e al tempo stesso scisso, della protagonista affiora chiaramente anche nella scena lacaniana del suo non riconoscere la propria immagine riflessa su una superficie scura (“I see a face in it.(...) Don’t you see that face? It’s behind there still! Who is it?” WH, 105), come se la follia segnasse una estraniazione totale del sé, o una regressione alla fase della non differenziazione o di una ancora confusa percezione del proprio essere tra gli oggetti del mondo. L’alienazione, la follia, il sentire – e sentirsi – a distanza, la premonizione, i sogni rivelatori, il vagare errabondo degli spettri. Tutto questo dà alla narrazione il suo carattere visionario ed onirico. Ma l’intero universo del romanzo ha un carattere onirico e a tratti delirante. Le opposizioni che sono state ricordate disegnano mondi contrapposti ma non stabilmente distinti: tra di essi stanno le barriere permeabili del romanzo gotico (Vine), veli, membrane, porte e finestre continuamente serrate da dentro e forzate da fuori, muri scavalcati, vetrate infrante, divieti violati, accessi che non ammettono, e specchi che ammettono accesso. Il romanzo disegna luoghi della lontananza ed anche della contiguità, dove le differenze possono continuare ad esistere ed ad annullarsi al tempo stesso, dove anche i pronomi personali sono trasferibili, senza definita opposizione né esclusione (“If all else perished, and he remained, I should still continue to be (...) He is more myself than I am (...) Nelly, I am Heathcliff”, WH, 69). Ma che cosa è dunque H per C ?5. Apparentemente il perfetto altro, il 5 Qui può aiutarci lo studio di Réné Girard (1961), citato anche da Laura Salmon nel suo intervento, che analizza il desiderio secondo sé come contrapposto al desiderio secondo l’altro. L’uomo debole, il vanitoso (da ‘vanità, nel senso dell’Ecclesiaste) è vittima di un desiderio mimetico, di imitazione secondo un modello mediatore del desiderio stesso: è il mediatore che designa gli oggetti del desiderio, e il vanitoso desidera i desideri del modello che si è scelto. Il modello, quindi, ingenera l’ammirazione ma al contempo anche l’invidia e il risentimento che caratterizzano l’essere vanitoso. All’opposto, l’uomo di passione desidera secondo sé medesimo, egli è colui che poggia su se stesso, e non su altri, la forza del suo desiderio.

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quasi-identico. Ma il perfetto ‘altro’ non può essere il quasi-identico, l’indifferenziato rispetto a sé. Oguno dei due vive secondo e nel desiderio dell’altro, in un incontro che è altruistico e narcisistico insieme, in una simbiosi che dovrebbe prefigurare l’unione perfetta, qui l’interferenza, che si dimostrerà fatale, è l’insinuarsi di un elemento di vanità e di imitazione, cioè la ambizione sociale di C che la conduce al matrimonio con Edgar Linton. WH è la esplorazione della (im)possibilità che il desiderio assoluto possa realizzarsi in questo mondo e, ancor più acutamente, della (im)possibilità che questo desiderio possa essere ‘contenuto’ in questo mondo 6. Solo una dimensione metafisica può colmare il divario fra l’aspirazione all’assoluto e le effettive capacità dell’uomo di porsi all’altezza del suo stesso desiderio. La frustrazione del desiderio nasce infatti dall’urto contro i limiti psichici e morali, prima ancora che sociali, dell’individuo. C decide di lasciarsi morire, non potendo sopportare né l’egoistico impulso di rivalsa di H né la inadeguatezza di Linton, da cui esigerebbe una sovrumana generosità, tale da accogliere in sé la totale essenza di lei (“comprehend in himself both my love for Heathcliff and myself”). Ma il sacrificio della morte della protagonista non compone, non riporta nessun equilibrio e nessuna redenzione, ma anzi (e qui sta la novità del ‘gotico’) esige un compenso infinito, apre uno squarcio irreparabile e H sarà consumato, per il resto della sua vita, dall’ infinita ubiquita presenza di colei che si è perduta dentro a questa dimensione sospesa, e dentro a questa irresolvibilità del racconto: “In every cloud, in every tree – filling ther air at night and caught by glimpses in every object by day – I am surrounded with her features.The most ordinary faces of men and women – my own features – mock me with a resemblance”(...) “My soul’s bliss kills my body, but does not satisfy itself” (WH, 277).

Nel gotico l’anima – la passione (‘the soul’s bliss’) – uccide il corpo ma non trova soddisfazione, non si placa. Tutti gli esseri di passione sono esseri religiosi, sostiene Girard, e la coscienza romantica, in particolare, è una coscienza infelice poiché il suo desiderio di trascendenza sopravvive all’abbandono dell’idea di trascendenza. C’è una eco di questo desiderio di trascendenza che si accompagna al senso di una assoluta inappellabile sconfitta nelle parole di H al capezzale di C: 6 Catherine a Nelly: “I cannot express it; but surely you and everybody have a notion that there is, or should be an existence of yours beyond you. What were the use of my creation if I were entirely contained here?” (WH, 81).

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“Why did you despise me? Why did you betray your own heart, Cathy?(...) What right – answer me – for the poor fancy you felt for Linton? Because misery and degradation, and death, and nothing that God or Satan could inflict would have parted us, you, of your own will did it. I have not broken your heart -YOU have broken it, and in breaking it, you have broken mine” (WH, 135)

dove echeggiano le parole di S. Paolo “Chi ci separerà dall’amore di Dio? Poiche né la morte né la vita, né il presente né il futuro, né l’altezza né la profondità, né altra creatura alcuna ci potrà separare dall’amore di Dio” (Romani 8, 38-40). Prevedibilmente, oltre al folk tale, la tragedia elisabettiana, il romance medioevale e il gotico in voga, anche il Libro Sacro del Rev. Brontë, ha avuto non poca influenza sulla concezione della passione amorosa che anima il romanzo7. L’amore romantico nella versione che se ne dà in WH, dunque, si esprime negli stessi accenti dell’amore mistico soprannaturale. Ma torniamo a letture in qualche modo a noi più vicine, che da un interesse tematico e di contenuti spostano il loro punto di vista su prospettive testuali e metanarrative. Interessante mi sembra quella di M.Kirkham (in Roe), dove si sostiene che, attraverso il racconto e il personaggio di Nelly, il contesto si modifica a favore di un ‘realismo femminile’ che si affianca continuamente alla cronaca di eventi inusitati e sconvolgenti. Ma, viene da chiedersi, quanto è affidabile Nelly? A volte appare benefica, altre volte porta con sé sventura, crea guai perché non fa le cose al momento giusto. Trattandosi dell’unica voce narrate (Lockwood lo è solo per un breve tratto), una certa volubilità di Nelly e la sua aperta faziosità produrrebbero ulteriore instabilità all’interno di un racconto –in ciò estremamente moderno –dove non esistono punti fermi che permettano al lettore un punto divista sicuro. È certo che Nelly non è il semplice story-teller: ella continuamente prende parte, giudica, porta consiglio e mette C di fronte a se stessa ripetute volte. La sua faziosità si angola diversamente a seconda che il suo racconto si ambienti nelle Heights o alla Grange. È da questa seconda collocazione che, ad un certo momento, essa parla di C in termini estremamente duri: “At fifteen she was the queen of the countryside. She had no peer, and she turned out a haughty and headstrong creature. I own I did not like her (...) Far better that she should be dead, lingering a burden and a misery- maker to all about her” (WH, 139, 140). 7

Confrontiamo un passo del romanzo dal cap IX (“If all else perished, and he (Heathcliff) remained, I should still continue to be”. WH, 69) con un verso da uno degli ultimi poemi di Emily, “No coward soul is mine”, dove l’amore per Dio si esprime con gli stessi accenti: “Though Earth and moon were gone / and suns and universe ceased to be / and Thou were left alone / every existence would exist in Thee...”

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Le presenze di Lockwood e di Nelly provvedono, comunque, certe proporzioni, come quei vettori orizzontali e verticali che, nella pittura tradizionale, permettono l’ancoraggio dello sguardo. Il ‘realismo femminile’ introdotto da Nelly, se accettiamo questa prospettiva, non ha tanto a che fare con il common sense, la visione comune e il conformismo sociale, come è stato detto, ma ha a che fare piuttosto col principio di realtà in un mondo continuamente minacciato e sovvertito dalle forze oscure del pregiudizio e della passione. Nelly conbatte contro la sua stessa tendenza alla ‘superstition’8, in quello che sembra essere il tentativo eroico di mantenersi in piedi e saldi in un vascello squassato dalle onde. Abbiamo parlato di punti relativamente stabili, anche se nulla lo è del tutto, in un romanzo che è alla radice destabilizzante. Formalmente, Nelly Dean provvede l’elemento di continuità – se non di assoluta affidabilità e coerenza – che rende possibile il racconto, appartenendo alla copiosa razza dei ‘gossips’, lo stuolo di ‘comari’ che popola la letteratura del periodo) 9. Di volta in volta ‘servants’ o istitutrici, parenti povere o amiche decadute, accompagnatrici, sarte o cameriere, depositarie di segreti mal custoditi, ma spesso vere e proprie co-madri (gossip da god-sib(ling), parente di Dio) cioè a dire coloro che hanno assistito alla nascita e possono renderne testimonianza in caso di una assenza parentale o di una incertezza genealogica, esse forniscono quella oralità nella scrittura, quel chiacchiericcio femminile che fa da sottotesto continuo al romanzo inglese del XIX secolo (Gordon). Relativamente affidabili, i ‘gossips’ tendono a perdere i loro oggetti – forbici, aghi e fili, lettere, oggetti avuti in pegno – e allo stesso modo il loro discorso si disperde, è liquido, fluisce ininterrotto in una oralità pervasiva e duttile, non necessariamente coerente (spesso si adatta alle attese dell’interlocutore), che contribuisce a sovvertire un ordine rigido –maschile– e riparare i guasti che tale ordine ingenera, o a restaurare un ordine che è stato turbato. Il ‘principio di realtà’ diviene quindi, di volta in volta, principio di libertà, di autodeterminazione, di ribellione. Libere da legami patrimoniali e matrimoniali, le co-madri e in generale i custodi o ‘pro-genitori’, finiscono per parassitare la vita altrui, ma al contempo forniscono un paradigma alternativo e di confronto, creano rottura, anomalia, svolgo8

I riferimenti ‘gotici’ sono, caratteristicamente, presenti e negati come ‘superstition’ da Nelly. La sconosciuta origine di Heathcliff induce Nelly alle più spericolate ipotesi: “Is he a ghoul or a vampire? – I mused – I have read of such incarnate demons. But where did he come from, the little dark thing harboured by a good man to his bane? – muttered superstition” (WH, 164). 9 All’inizio del racconto di Lockwood: “I desired Mrs Dean, when she brought in supper, to sit down while I ate it; hoping sincerely she would prove a regular gossip, and either rouse me to animation or lull me to sleep by her talk” (WH, 26, enfasi mia).

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no un insostituibile ruolo nella creazione di una dialettica narrativa e ideologica all’interno del racconto. Il raccontare di Nelly a Lockwood crea presso il camino un parlour, uno spazio per il discorso e il racconto in una dimora –le Hights – dove non ne esisteva alcuno10, inoltre si dimostra consolatore rispetto al silenzio cupo e cattivo che regna nella casa, tenta, fino a che le è dato, di riequilibrare gli eccessi di umore di C e cura le ferite di H, ha una influenza terapeutica sull’ipocondria di Lockwood ed infine contribuirà a restaurare rapporti vivibili e umani tra i rappresentanti della seconda generazione. L’oralità, il dono del ‘parlare’ di Nelly, insieme al suo repertorio di ‘folk lore, nursery rhymes, fairy tales, sayings and proverbs’ passerà infatti a Catherine junior, ed aiuterà a curare il malato (Linton Heathcliff) e a promuovere il primitivo (Hareton Eearnshaw). La co-madre aiuta anche a crescere, ed è quello che accade nel colloquio al cap.IX del romanzo, tra una Nelly scettica e severa e una C entusiasta che annunzia di avere accettato la proposta di matrimonio di Linton (WH, 64-72). Qui il principio di realtà diviene il principio della autocoscienza: con sottile e dialettica maieutica Nelly smaschera una ad una le premesse e le pretese di Nelly, tutte le sue infantili ‘vanità’ (per riprendere i termini girardiani) alla base della sua decisione di sposare Linton, fino a condurla a scendere dentro se stessa, venire a contatto con la natura del suo desiderio ed esprimerlo in parole, in quel passo straordinario – che rappresenta il cuore narrativo e ideologico del romanzo – dove C riesce finalmente a porre a confronto la natura dei suoi due amori, l’uno simile alla natura e alle stagioni, destinato a trasformarsi e deperire, e l’altro a-temporale, assoluto, immutabile come la roccia ipourania, non particolarmente esaltante, ma ‘necessario’. In questo segmento il God-sib ha reso possibile una vera e propria scena madre (V. Bussi, 1998), un momento di trasformazione e sviluppo della coscienza individuale, ed anche il racconto vede qui un decisivo punto disvolta: termina la fase felice dell’amore adolescente e selvaggio ed inizia, per un io diviso – o molteplice – come è quello della protagonista, la impossibile prova della vita adulta, la necessità della scelta, il disagio divenuto sintomo e inguaribile malattia contro la quale le arti della co-madre ad un certo punto non basteranno più (“It was beyond my skill to quiet or console” WH, 144). Rimanendo in questa dimensione metanarrativa, consideriamo la insolita struttura, per l’epoca, di un romanzo dove l’autore è totalmente oc10 “I shall have my supper in another room”, I (Isabella) said. “Have you no place you call a parlour?” “Parlour!” he echoed sneeringly, “parlour! Nay, we’ve noa parlours. If yah dunnut loike wer company, there’s maister’s; if yah dunnut loike maister, there’s us” (WH, 121).

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cultato e il racconto ci giunge attraverso molteplici filtri: Lockwood è un testimone turbato e scarsamente attendibile, e Nelly, il ‘gossip’, la inesauribile fonte di informazioni, riporta non solo eventi di cui è stata testimone, ma anche altri racconti da altre fonti (H, le due Catherine, Zillah, Isabella), inoltre essa, come già si diceva, è dichiaratamente faziosa, parteggia e giudica, come probabilmante lo è la furibonda Isabella nella sua lunghissima lettera. È difficile, considerando questi molteplici incastri e rifrazioni, questa programmatica ‘mise-en -abîme’ del racconto, la soggettività e parzialità della visione, immaginare che la categoria di ‘realismo fantastico’ esaurisca gli aspetti del romanzo. Continuando nella tradizione forse un po’ inane di una ‘vis’ classificatoria, possiamo cercare di attenuare il primo dei due termini, e possiamo forse rintracciare in WH i caratteri salienti del genere fantastico, il “twice told tale” per eccellenza, come Hawthorne ebbe a dire parlando dei suoi racconti (1851). Ogni storia fantastica, sembra, viene raccontata almeno due volte, una per metterne in evidenza la straordinarietà (ed è quello che fa Nelly), e l’altra per avallarne, possibilmente, la verità e la credibilità (il compito di Lockwood). Il racconto di fenomeni inusitati e inquietanti provoca nel lettore un senso di esitazione, nell’incertezza tra una spiegazione naturale ed una soprannaturale (Todorov). Caratteristica del fantastico è dunque la ambivalenza, il prestarsi a letture e interpretazioni diverse a seconda del ‘nome’ che il lettore dà all’elemento oscuro ed inquietante (Heathcliff, il fantasma di Catherine, il delirio e la follia), di fronte al quale ci si trova a dover prendere posizione senza volere necessariamente esaurirne la valenza e la suggestione. La intenzione che sta al cuore del genere fantastico si esprime infatti nel tentativo di forzare i limiti del linguaggio e della conoscenza, aprire squarci, disseppellire frammenti, credere nella potenza della parola di circoscrivere l’indicibile (Albertazzi, Ceserani). Potrebbe essere dunque questa la prospettiva di una ri-lettura aggiornata di WH? Questa prospettiva non escluderebbe nessuna delle letture precedenti, ma permetterebbe forse di accogliere il perdurante ‘disagio’ del lettore (una tipica reazione al ‘fantastico’) di fronte ad un racconto estremo ed eccessivo, crudele al limite della sopportabilità e tuttavia ispirato da una sua inimitabile forza creativa. Il fantastico non tollera una lettura poetica né allegorica, (Todorov, Ceserani), ma esige un nuovo modo di leggere, un atteggiamento creativo e una cooperazione attiva e intelligente da parte di un lettore che non si lascia sconfiggere, che osa territori nuovi come ha fatto lo scrittore prima di lui (“No coward soul is mine, no trembler in the world’s stormtroubled sphere”, nei versi già ricordati di E. Brontë). WH dunque come romanzo fantastico, ma anche ‘romance’ mistico e tragico, dove echeg-

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giano non pochi elementi di ascendenza giudaico-cristiana e shakespeariana11. 2. Wuthering Heights e il cinema Cosa può fare il cinema, di fronte a d un’opera così multiforme e complessa, che consente tante e diverse chiavi di lettura, se non decidere drasticamente per una interpretazione univoca, stralciando e ricostruendo un racconto intellegibile e coerente, adatto ad un medium con caratteristiche espressive proprie? Il film, come testo ‘breve’ e necessariamente unitario, non tollera un eccesso di significanti, pena la oscurità e la dispersione. Come trasposizione, il film deve organizzarsi attorno ad una idea centrale del – o dal – testo di origine, e costruirvi attorno con una ragionevole coerenza, la sostanza e le forme della espressione (Vedasi, a questo proposito, l’intervento di Michael Hayes in questa raccolta). Tra le numerose versioni filmiche e televisive, ‘musicals’ e canzoni a cui il romanzo ha dato origine, ne saranno prese in esame solo tre, ed in particolare quella che viene considerata la prima autorevole trasposizione (Wyler, 1939), anche se esiste una ancora precedente versione inglese (1918) non più reperibile; una seconda versione di ambientazione messicana (Buñuel, 1953), ed una terza, ad opera del regista televisivo angloceco Peter Kosminski (1992) alla sua prima prova cinematografica.. 2.1. La versione filmica di William Wyler12 La riduzione filmica di WH opta per una lettura di carattere melodrammatico, che non rientra in nessuna tra le ‘letture’ del romanzo considerate sopra, ma produce comunque una storia che ha una sua coerenza, dando ori11 Esiste una ispirazione shakespeariana in WH che risalta stranamente non solo nelle parole, ma nei gesti suggeriti dal testo. Un solo esempio: in uno dei passi finali del romanzo, quando Heathcliff – si è parlato di un Macbeth stanco della vendetta – improvvisamente rinuncia a percuotere la giovane Catherine: “He had his hand in her hair (...) he seemed ready to tear Catherine in pieces (...) when of a sudden his fingers relaxed; he shifted his grasp from her head to her arm, and gazed intently in her face. Then he drew his hand over her eyes, stood a moment to collect himself apparently, and (...) said with assumed calmness: “You should learn to avoid putting me in a passion...” (WH, 274) 12 Si ringrazia la dott.ssa Alessandra Bergamini che ha collaborato alla ricerca sulla versione filmica di WH ad opera di William Wyler, presentando questa parte al Convegno, accompagnandosi con clip illustrativi dal film stesso. Sull’argomento del rapporto tra melodramma e cinema Alessandra Bergamini ha infatti svolto anche la sua tesi di laurea sotto la guida del Prof. Franco La Polla.

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gine ad un’opera controversa come adattamento filmico del romanzo, ma di tutto rispetto se considerata per se stessa, dotata di una sua intrinseca unità e coerenza, dipanata in un linguaggio filmico di grande eleganza e nitore. Parlare di una lettura dell’opera in chiave melodrammatica ci obbliga ad aprire una breve parentesi sui rapporti strettisimi che intercorrono fra il melodramma, ‘le drame’ francese del primo ottocento, e il cinema delle origini. “Attenzione a non sbagliare! ci ricorda Peter Brooks, non era cosa da poco il melodramma, poiché era la morale della Rivoluzione”. Caratterizzato da sentimenti estremi ed univoci, monopatico e manicheo, ‘le drame’ (più tardi divenuto ‘mélo-drame’), si propone di rivelare il ‘sublime’ nel quotidiano, di portare alla luce l’occulto nelle forme di un conflitto morale tra Bene e Male, innocenza e colpevolezza, malvagità e magnanimità. Spesso, piuttosto che personaggi, il melodramma mette in scena ‘ruoli morali’ prefissati e ricorrenti, secondo un progetto di trionfo della virtù misconosciuta e punizione della malvagità e della frode, in ordine alla restaurazione e alla purificazione dell’ordine sociale. La Rivoluzione aveva liquidato il concetto del sacro assieme alle istituzioni che lo rappresentavano, ma doveva consacrare la Legge e l’ordine sociale, e perciò riprodurre il senso di una Moralità nella società e nella storia. Questo progetto positivo e fondamentalmente ottimistico fa decisamente divergere il melodramma dal gotico, anche se l’immaginario dei due generi (l’equilibrio sconvolto, l’accusa ingiusta, la costrizione e la fuga, e soprattutto la intrusione di un ‘villain’ ambiguamente crudele e affascinante, a cui nel teatro era riservato ‘le beau role’) largamente coincide. Secondo Peter Brooks c’è una affinità storica strutturale tra il melodramma e il gotico: entrambi mettono in scena l’irruzione dell’inconscio e il tentativo di abbattere le barriere della repressione. Ma mentre il gotico gioca sulla inquietante prospettiva di un un ordine apparentemente in equilibrio, ma in realtà già virtualmente minato dalla potenza sovvertitrice del ‘male’, in se stesso ineliminabile, il melodramma ambisce dispiegare e chiarire ogni motivo e ogni causa, in una costante sovrasignificazione, puntando alla chiusura e alla risoluzione finale del racconto: sarà la moralità a trionfare, conclamata e definitiva, e le malefiche potenze saranno sconfitte. Gradualmente il melodramma, che tanta influenza doveva avere sul romanzo dell’800 e 900 (per giungere fino a noi investendo in pieno la fiction cinematografica e televisiva), si restringe sempre più ad orizzonti borghesi: il teatro dei conflitti si lega ai rapporti familiari, ai ruoli maschile e femminile, individuo e società, successo e fallimento sociale, norma di comportamento e trasgressione della norma, colpa ed espiazione. L’eccesso e la sovrabbondanza nella messa in scena, la amplificazione dei conflitti, una espressività verbale e gestuale sempre marcatamente sopra le righe

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erano trapassate quasi naturalmente dal melodramma al cinema (basti ricordare le trame del muto). L’umore del melodramma e il suo repertorio di situazioni e storie che vengono continuamente rimescolate e riproposte domina un particolare ‘genere’, il ‘costume drama’, difinito anche ‘women’s film’, entro il cinema hollywoodiano del periodo ‘classico’, entro il quale si inscrive la versione wyleriana che stiamo considerando 13. Prodotto dalla Goldwyn Corporation, il film di Wyler riproduce quello che fu chiamato il ‘Goldwyn touch’, di volta in volta richiamato in tono di elogio, come segno di eleganza e raffinatezza, o di dispregio, ad indicare l’atmosfera artificiosa dei grandi Studios, una corrività con i gusti del pubblico ed un soverchio interesse per la resa commerciale dell’impresa. Some novels, ebbe a dire Samuel Goldwyn, read like scenarios. Look at Rebecca: it reads like a scenario. But not Wuthering Heights, we had to cut. And the screenplay-writers, Ben Hecht and Charles Mc Arthur, did a brilliant job (in Bluestone, 91).

La complessa struttura narrativa di WH fu dunque drasticamente semplificata: il romanzo fu letteralmente tagliato a metà, e la conclusione fu fatta coincidere con la morte di Cathy, di consunzione e non di parto, cancellando la seconda generazione. La storia fu semplificata e ridotta entro lo schema di un melodramma ottocentesco, in cui il conflitto individuosocietà, norme e comportamenti, ‘grand passion’ e ostacoli di natura sociale vengono rappresentati con forza e nitore, anche se intrattengono una relazione impallidita con la sostanza del romanzo. Secondo alcuni giudizi particolarmente drastici (Wagner) questa trasposizione dimostra un totale disprezzo intellettuale per la propria fonte, e l’amore assoluto dei due protagonisti viene abbassato al consueto ‘romance’ cinematografico americano, alla vicenda di ‘the stable boy and the lady’ (Bluestone). H, da creatura misteriosa e vampiresca, viene addomesticato a povero servo, vittima dei capricci imprevedibili di una ragazza viziata e ambiziosa, qualcosa come un Mellors di fronte ad una Lady Chatterley di ambiente vagamente celti13 Un periodo iniziato negli anni ‘30 e comunemente considerato concluso negli anni ‘60, intorno a registi come George Cukor, King Vidor, Melvyn Leroy, Vincente Minnelli, Douglas Sirk e William Wyler. Di Wyler, Bazin disse che era ‘un giansenista’ della scenografia (mise-en-scène), che ci consente di tutto vedere nella sua controllata classicità, nella discrezione del ‘montaggio invisibile’ e nel lento ‘naturale’ svolgersi dei suoi pianisequenza. Il suo stile rappresenta perfettamente quello del ‘cinema classico’, uno ‘stile senza stile’, ‘democratico’ rispetto ad uno spettatore che può privilegiare l’angolo di visione che gli interessa. Sono le ‘avenues of freedom’ di cui parla anche Arnheim, che con l’aiuto di innovazioni tecniche quali il ‘deep focus’ o profondità di campo e il ‘montaggio nel quadro’ consentono una visione fortemente autonoma: l’occhio dello spettatore è libero di vagare, nel quadro, e di affissarsi sul dettaglio che lo interessa, costruendo così, in relativa libertà, la sua lettura del testo filmico.

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co. Forse solo un giapponese, suggerisce Wagner, sarebbe capace, oggi, nel cinema, di esprimere questo sottile senso di ‘life-in death’ che pervade il romanzo (ci proverà infatti Kiju Yoshida nel 1988), mentre Wyler ci ha restituito soltanto un melodramma borghese, un ‘women’s film’, dove Merle Oberon recita con un tocco di bovarismo (nei momenti difficili “she seems not to understand her lines”), e Laurence Olivier ci regala una presenza intensa e melanconica, quasi un Amleto proletarizzato, piuttosto che lo ‘incarnated demon’ del romanzo. La versione filmica di Wyler dunque, secondo Wagner, è una tipica trasposizione hollywoodiana, convenzionale ed artefatta, di cui altri esempi cospicui costellano il cinema hollywoodiano degli anni 1930. In prove successive il regista dimostrò maggiore sottigliezza, ad esempio in The Heiress si sforzò di adottare il punto di vista femminile ed espresse un atteggiamento di critica sociale, ma qui egli è ancora alla ricerca di ‘raw materials’ per i suoi film melodrammatici basati su grandi storie d’amore. Ma perché scegliere proprio questa che non è neanche una storia d’amore? Si chiede il critico. Per potere sfoggiare la categoria CLASSIC sui cartelloni? Il film fu in stretta competizione con Gone with the Wind per l’ Academy Award, ma, rispetto a quello, ottenne soltanto un moderato successo sia presso la critica che tra il pubblico. Avendo, a mo’ di premessa, esordito con questi giudizi non particolarmente lusinghieri, vediamo come il film si apre allo spettatore. Come nel romanzo, il racconto ha una struttura a cornice, inizia e si conclude su presenze fantasmatiche che non avranno grande conseguenza sulla storia vera e propria. La sovrascritta iniziale in apertura di racconto recita: On the barren Yorkshire moors in England a hundred years ago stood a house as bleak and desolate as the wastes around it. Only a stranger lost in storm would have dared to knock at the door of Wuthering Heights.

La macchina da presa prende a seguire di spalle un Lockwood smarrito e sgomento che si fa strada a fatica nella neve, apre il cancello di un recinto dove viene accolto da cani ringhianti, e di mal garbo viene ammesso in una casa di aspetto molto ‘gotico’, angusta e inospitale. L’uso della profondità di campo permette una visione quasi tridimensionale di un ambiente domestico fortemente chiaroscurato e claustrofobico, circoscritto, come accadrà per molti interni wyleriani, da ulteriori suddivisioni dello spazio, scale, archi, porte (Fink). Qui Lockwood incontrerà finalmente il padrone di casa, uno splendido ‘villain’ nelle brune fattezze di un Laurence Olivier pensieroso e laconico, in piedi vicino al caminetto dove sono silenziosamente accomodati, ed emergono uno ad uno alla visione di Lockwood e alla nostra, una Nelly appena incuriosita, una Isabella corrucciata e triste e il servo Joseph intento alla lettura del suo Libro.

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L’effetto creato da questa sequenza è di un mondo ostile cupo, silenzioso e ‘cattivo’, e lo spettatore viene indotto alla ricerca di indizi chiarificatori. La piccola voce nella notte che sveglia Lockwood e la stretta glaciale di una mano infantile – che non vediamo – attraverso il vetro infranto ci aprono su ben più inquietanti paraggi. Di fronte a tutto ciò sta un Lockwood confuso e sconvolto: l’uomo coltivato, razionale e urbano inventato dallo screenplay-writer (‘I must have had a dream, I don’t believe in ghosts, I don’t believe in the dead coming back to earth to haunt the living’) non vuole lasciare le sue abitudini mentali, ma accetta tuttavia di sedere di fianco al caminetto ad ascoltare il racconto che Nelly gli offre: “Yes, tell me a story”, come ad accogliere nella rappresentazione uno sfondo affabulatorio di story-telling – matrice essenziale del romanzo – che sarà ripreso soltanto alla fine quando si richiude la cornice della narrazione. Dopo questo splendido inizio, lo story-telling e le presenze spettrali con tutto il loro simbolismo resteranno estranee alla sostanza della vicenda: un melodramma in piena regola dove la tragica frattura si colloca nella instabile personalità della protagonista, divisa tra l’impulso spontaneo dell’amore per H e le virtù cristiane (sic) e sociali a cui è stata allevata. Qui, sembra di capire, non sono tanto le potenze cosmiche ad avversare l’amore umano, quanto la malasorte a cui si addebita uno sciagurato scarto di tempi. Peccato! Un matrimonio che avrebbe potuto essere più che accettabile, tra un H ‘who has come up in the world’ ed una C finalmente appagata sia negli aneliti del cuore che nelle aspirazioni sociali viene reso impossibile dalle circostanze. Su un totale di cinquanta scene dalla prima metà del romanzo, come ci fa notare con acribia Bluestone, trenta, inclusa quella iniziale di cui abbiamo riferito, sono fortemente modificate o inventate e aggiunte rispetto al romanzo. Nella impossibilità di condurre una analisi dettagliata, realizzabile soltanto attraverso un ‘découpage’ del testo filmico in sinossi col testo del romanzo, cercheremo di categorizzare le più cospicue aggiunte, di analizzare le elisioni significative e di decidere se il film è una ‘rendition’ del romanzo o altra cosa. Alcune aggiunte hanno a che fare con la necessaria espansione che la ‘messa in film’ ha da operare rispetto al racconto, come la scena iniziale del ritorno del padre col trovatello H, il matrimonio tra C e Linton, la convalescenza, dove poche righe del racconto danno origine ad intere sequenze, dialoghi e scambi. Altre espansioni e aggiunte sfruttano visivamente i valori suggestivi e simbolici degli spazi e degli elementi naturali. Una accentuazione visiva particolare viene data alle dicotomie simboliche dell’interno / esterno, spazi chiusi / spazi aperti, sporco / pulito, stracci / vestiti eleganti, capelli

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sciolti / coiffure e cappello, corsa libera / incedere o andare in carrozza, affettazione / rudezza, tutti correlativi visibili del contrasto tra natura(lezza), impulso, libertà, passione e, all’opposto, costrizione, contegno, convenzioni, apatia. Tutta la prima parte del film e il racconto del rapporto tra i bambini che abitano nelle Heights nasce da quella operazione che Bluestone definisce ‘romanticizing the plot’: il film con un flashback ci riporta alla adolescenza di C e H, alla loro vita felice – in realtà ‘reckless and wild’, nel romanzo – nella natura come terzo spazio in opposizione ai due spazi sociali, The Heights e The Grange, in cui il rapporto tra i due non può reggere per l’ostilità che circonda H, il senza nascita, un disprezzato ‘gipsy beggar’ e ‘servant’. La vicenda si stereotipizza e le modifiche verbali del testo filmico rispetto a WH sono la spia di una torsione melodrammatica impressa da sceneggiatori e regista ad una vicenda che diventa ben presto, come dirà il già citato Bluestone in modo lapidario, “the story of the stable boy and the lady”. Si abbandona la quasi insopportable preternaturale violenza che pervade il romanzo, forse virtualmente irrappresentabile, e il lato oscuro e demoniaco di H viene cancellato per lasciare il posto ad un atteggiamento di dignità offesa, di giustificata delusione e quindi al progetto di vendetta. In questa semplificazione anche il tema della mutua identificazione e della unione degli spiriti tra i protagonisti è grandemente alleviato, e così – in quella che abbiamo chiamato sopra la ‘scena madre’ – la risposta di Cathy a Nelly che le chiede che cosa, alla fine, le impedisca di sposare Linton (nel romanzo: “Here and here! replied Catherine, striking one hand on her forehead, and the other on her breast: “in whichever place the soul lives. In my soul and in my heart, I’m convinced I’m wrong!” WH, 66) viene omessa, lasciando quindi in campo solo la motivazione di ordine sociale (“It would degrade me to marry Heathcliff now”). A questo punto la affermazione di C che ha scoperto il fondo di se stessa (“Nelly, I am Heathcliff!”), risulta nel film eccessiva e strana, una vera e propria ‘enormità’, pronunciata da una C/Merle Oberon con gli occhi sbarrati dal terrore (si sente invasa da forze medianiche?) in piedi tra due finestre attraverso le quali la tempesta, in questo preciso momento, scoppia in tuoni e fulmini di luce abbacinante. In questo che è uno dei momenti più infelici del film, maggiormente si rivela la insufficienza critica di sceneggiatori e regista, che sembrano trovarsi di fronte ad un testo irrimediabilmente incomprensibile. Nelle scene inventate, invece, si produce il chiacchiericcio della piccola borghese vanesia (‘Oh Heathcliff, you could come back to me rich, and take me away (...) This is what I like: dancing and singing in a pretty world, and I’m going to have it! (...) Go, Heathcliff and bring me the world!’, e simili), una C che non ha alcuna corrispondenza nel romanzo.

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Nel film il ritorno di H dal grande mondo dopo la precipitosa fuga dalle Heights (‘he had been in the army’, si dice nel romanzo, mentre nel film l’eroe ha, caratteristicamente, trovato la fortuna in America) è rappresentato con la enfasi che ci si aspetta. La comparsa di H alla Grange fa sensazione, dal momento che egli è certamente diventato l’uomo più compìto ed affascinante di tutto il vicinato, con un tocco di mistero in più, e nelle donne della casa si riaccende la fantasia. Prominenza centrale ha la scena del ballo (anche questa di pura invenzione), che nel genere filmico del ‘costume drama’ rappresenta il luogo sociale per eccellenza, e poi il furtivo ritirarsi della coppia sul terrazzo, terreno intermedio tra il sociale e il privato, luogo deputato alle dichiarazioni d’amore, alle scene di gelosia e alle lacrime a margine dell’evento mondano. Anche questo scambio è di invenzione, e il dialogo tocca il massimo della prevedibilità (H: “If your heart were only stronger than your dull fear of your God and the world, I would live silent and contented in your shadow (...) But no, you must destroy me with the weakness you call virtue. You must keep me tormented with that cruelty you think so pious”). A questo punto, dice Wagner, sembra proprio che H si accontenterebbe di un ‘affaire’ adultero che C, però, non vuole concedergli. Essa si ammala e muore di una malattia inspiegabile, dolce e morbida, detta consunzione, tipica delle eroine del melodramma, ben lontana dall’atrocità della morte praticamente auto-imposta di cui si narra nel romanzo. Anche se un sospetto trapela: “I think she wants to die”, dice il medico di famiglia, altra figura immancabile di saggia quanto inutile mediazione nei film del ‘genere’. La scena della morte dell’eroina sulle braccia dell’amante, di fronte alla grande finestra che dà sulle moors (ancora una soglia simbolica tra interno ed esterno, fra costrizione e desiderio) è una citazione da Borzage (Farewell to Arms, 1932), e sarà sostanzialmente ripresa anche nell’adattamento di Buñuel, che a sua volta prenderà da Borzage anche l’idea per il testo musicale di accompagnamento, i temi dal Tristano di Wagner come sfondo all’agonia e alla morte. Nel caso di Buñuel, si tratterà dell’agonia e della morte violenta di H, ucciso a fucilate sul cadavere di C. Nell’adattamento di Wyler la rete di aggiunte, cancellazioni e alterazioni del testo di origine vanno tutte nella direzione di semplificare, rendere comprensibile e accettabile la storia, tessendola sul convenzionale dissidio tra ambizioni di status sociale e ragioni del cuore, cambiando la natura dell’eroe dal demoniaco al melanconico, cancellando la seconda generazione e tutte le rifrazioni e le mutazioni che là si verificano. Al di là di questa sostanziale diversità, nella lettera e nello spirito, dalla fonte romanzesca, il film ha una sua indubbia unità e coerenza che ne fanno un prodotto autonomo di qualità tra i film cosiddetti ‘weepies’. Si noti, ad esempio, il lavoro delicato della macchina da presa che,

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dopo avere seguito gli adolescenti H e C mentre si arrampicano per spiare, attraverso la finestra, la festa, dei Linton, ripeterà – da sola –lo stesso movimento. Il discorso filmico riprende più volte questo sguardo da fuori a dentro, verso il salotto della Grange (attraverso la finestra H guarda C adagiata nel salotto, trattenuta dai Linton dopo il morso dei cani). La macchina si riappropria di questo movimento quando, alla Grange, ha inizio il grande ballo in onore di C, ora sposa di Edgar, e finalmente quando H ritorna e guarda i danzatori da fuori, –ancora e sempre outsider – dopo il colloquio ostile con C. La insistenza di questo sguardo, alternatamente in soggettiva e della macchina, fa del salotto dei Linton un centro di attrazione sintattico e tematico particolarmente forte: ancora una volta, e dunque anche a livello di discorso filmico, la aspirazione alla ascesa sociale viene affermata come il fulcro della vicenda. Una felice aggiunta di invenzione è l’episodio in cui H, sdraiato sul suo giaciglio nella stalla in cui è stato confinato dal nuovo’master’, Hindley, infrange il vetro della finestra spingendovi le sue mani che hanno schiaffeggiato C, in una metafora visiva della frustrazione e del rimorso. Se qualcosa dell’aspro umore del romanzo e dell’ acerbissimo dolore che ne trapela viene trasmesso allo spettatore, lo si deve al discorso filmico e dunque al piano delle forme dell’ espressione. Wyler è un maestro della teatralizzazione dei conflitti (Fink) che esprime nelle opposizioni binarie tra luci e ombre, esterno e interno, società e natura, immagini simboliche ricorrenti a cui già si è fatto cenno. Il regista racchiude lo spazio, lo incornicia, ed entro quello colloca accuratamente i suoi personaggi secondo una geometria drammatica che delinea il campo di forze delle relazioni reciproche. Si giustifica così il gioco degli sguardi e dei gesti, il raccordo delle posture e dei movimenti entro uno ambiente emotivamente pregnante. Sotto questo aspetto magistrali sono le scene dell’inizio (il già descritto arrivo di Lockwood) e la sequenza della morte di C, dove la protagonista giace su di un letto a baldacchino (il drappeggio offre uno sfondo scuro ai volti che man mano le si avvicinano), accanto al quale figure vestite di nero variamente si dispongono, si raccolgono e si inginocchiano, offrendo quasi un contorno di antica ‘pietà’ (o un ‘tableau vivant’ melodrammatico?) alla figura eretta di H che pronuncia le sue terribili imprecazioni e impetrazioni finali nel chiarore livido della stanza. 2.2. Abísmos de Pasión: la versione filmica di Luis Buñuel L’esergo in soprascritta ad inizio del film: Il film è ispirato all’opera di Emily Brontë, Cime Tempestose, della quale rispetta lo spirito.

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È l’istinto e la forza delle passioni a condizionare i personaggi. L’amore di Alejandro per Catalina è un sentimento feroce e inumano che si realizza solo con la morte.

Queste sono le parole poste ad introduzione di un film che appartiene al periodo messicano del regista, ed è considerato dalla critica come insolito e sorprendente. Scegliendo soltanto tre capitoli dal romanzo, (la sceneggiatura è dello stesso Buñuel coadiuvato da Pierre Unik, non menzionato nei titoli) il regista propone un racconto di ambientazione rusticomessicana, eliminando il sottotesto fantasmatico nordico a vantaggio di un cupo e superstizioso cattolicesimo di stampo ispanico, che si rivela nelle pratiche esorcistiche di Joseph e nei segni di croce di Nelly/Maria, e nelle sue ripetute esclamazioni-imprecazioni (“Questa è la casa del diavolo!”). Fin dal 1933 Buñuel aveva scritto la sceneggiatura di WH, per Bataille ‘uno dei più bei libri della letteratura di tutti i tempi’. Solo nel 1953 fu possibile al regista riprendere in mano il progetto ma a quell’epoca, a suo dire, l’idea non gli interessava più: il film, per lui, ‘era già vecchio’, e fu quindi realizzato come un pellegrinaggio alle origini e un omaggio postumo al surrealismo degli anni ‘30. Questo il parere autorevole del regista e di buona parte della critica, che in molti casi non fa neanche menzione di questa opera entro la produzione bunueliana. Alcuni vi hanno invece visto un lavoro magistrale (Cattini), una versione filmica ben più vicina allo spirito del romanzo di quanto non fosse riuscito a Wyler. In ogni caso è interessante notare come si tratti di una altra lettura, diversa ancora, autonoma ed indipendente, una delle molteplici rese possibili dalla ricchezza e complessità del romanzo. Il racconto inizia col ritorno di Heathcliff/Alejandro, a turbare il ménage domestico di Eduardo e Catalina e della sorella Isabel (“Perché mi hai sposato se amavi Alejandro?” “Perché ti volevo bene, e poi volevo un figlio da te”), e si conclude con la morte per parto della protagonista. È un racconto a ritmi serrati e netti di una vicenda presentata come un dramma popolare oscuro e fosco, giocato su passioni elementari e crudeli, senza mezzi toni o incertezze. La recitazione trapassa direttamente dalla aggressività al pathos, e le maschere degli attori non conoscono sfumature, si trasformano repentinamente dalla cattiveria ad una disperata dolcezza, sullo sfondo di un paesaggio calcinato dal sole e dal vento, dove la Grange è diventata una ‘fazenda’ messicana. Per esprimere il ‘feroce’ e l’’inumano’ Buñuel ricorre essenzialmente alla associazione libera delle immagini, al naturale affiorare dell’archetipo e del mito, attraverso il linguaggio simbolico del bestiario rappresentato nelle forme translucide ed eccessive della sensibilità surrealista. Mentre per esprimere la impossibilità dell’amore-passione avversato dai poteri del mondo, egli ricorre all’archetipo culturale: la tomba di C è essenzial-

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mente una catacomba, e il cadavere sul catafalco è, in filigrana, quello di Giulietta, mentre la discesa di Alejandro nel sotterraneo è come una discesa nel mondo degli Inferi. Tutto questo viene tessuto su un montaggio drammatico realizzato ad un ritmo serrato e nervoso fino alla sovraeccitazione. Nella prima scena del film una Catalina armata di carabina, spara ai corvi che si sparpagliano clamorosamente nell’aria volando via da una pianta secca e smunta alla Dalì, mentre i cani latrano sull’aia. (‘Non soffrono, passano direttamente dalla libertà alla morte’, Catalina risponde a Isabel che la accusa di crudeltà). Altre forme di crudeltà si realizzano all’interno della casa, simboleggiate ancora dai rapporti col mondo animale: Catalina tiene prigioniero un piccolo canarino in una gabbia(“Lui è contento così”, C risponde alla solita accusa di Isabel). Dal canto suo Eduardo infila spilli nel dorso di farfalle ancora vive e le dispone nella teca della sua collezione. Nell’altra fattoria il servo Joseph fa bollire piccoli rettili per le pratiche esorcistiche con cui vuole scacciare il demonio dalla casa, facendosi aiutare da uno sventurato bambino/servitorello che il padre Hindley/Ricardo percuote regolarmente come fa con i suoi cani. Alla Grange, mentre si delinea l’ostracismo contro Alejandro che è tornato dal suo viaggio ed è deciso a riprendersi Catalina, i contadini uccidono il maiale e ne raccolgono il sangue, in un correlativo metaforico immediato e brutale quanto incerto. Chi verrà ucciso in questo modo cruento? Alejandro o Catalina, o entrambi? Le metafore animali continuano: nel bel mezzo di un litigio con un Alejandro divenuto padrone, Ricardo fulmineamente cattura una mosca e la lancia nel bel mezzo di una ragnatela dove l’insetto viene immediatamente divorato. È la logica spietata della vita animale espressa in continuità con la vita degli uomini, e in essa rientra, stranamente, anche il figlio del non- amore che sta nel grembo di Catalina, e che la ucciderà (“So bene che non riuscirò a sopravvivere alla nascita del bambino, quando arriverà la mia ora non devi piangere, è una cosa che deve accadere”). In forme surreali si proietta una concezione primordiale e selvaggia dei rapporti umani, mentre una recitazione nervosa e aggressiva traduce, nelle forme della espressione, la tensione di eventi in rapida successione (“Non potrò riposare in pace, Alejandro, neanche sotto terra, l’Alejandro che ho amato lo porterò con me”. “Sono io che ti ho ucciso, e i morti devono perseguitare i loro assassini”). Ricardo congiura con Isabel una trappola per uccidere Alejandro (“Un giorno ci riuscirò, un giorno si dimenticherà di chiudersi a chiave dentro la sua camera, e allora...un bel foro rosso non nel cuore, ma in mezzo agli occhi”), mentre Joseph legge le parole del Libro Sacro: “Gli empi non pos-

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sono capire i misteri del Signore. Per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e quelli che lo seguiranno ne faranno l’esperienza”. La dinamica multipolare dei rapporti tra i cinque personaggi principali viene giocata direttamente e senza intermediari del racconto, in questa riduzione dove lo story-teller non ha funzione, e il personaggio di Nelly-Maria svolge una ruolo puramente sussidiario e di coro: si dispera, lancia invocazioni e maledizioni, si fa il segno di croce quando vede comparire Alejandro e tenta invano di presidiare le frontiere, porte, finestre e cancelli, in un alternarsi di esclusioni/effrazioni che a tratti si delinea come esplicita citazione da Wyler. Ma ben diversamente dalla quella accattivante versione americana, in Buñuel si accentuano le linee essenziali di un dramma rusticano sul possesso della donna, e un omaggio all’idea dell’ ‘amour fou’ che rifiuta i legami sociali, morali e religiosi del mondo borghese (così come i ruoli ancestrali maschile/femminile) ed è votato alla morte: la morte fisica per Catalina che è la donna che ha osato scegliere l’adulterio, la morte sociale per Isabel, la donna non posseduta, rifiutata da tutti e tre gli uomini della vicenda, il fratello, il marito e, da ultimo, anche da Ricardo. La grande casa bianca, i crinali, i percorsi tortuosi e gli alberi e le nuvole sono i correlativi visibili, quasi archetipi di un mondo naturale degli istinti e della libertà a cui i due protagonisti principali appartengono. La scena finale vede un Ricardo ubriaco, barcollante ma implacabile, che insegue Alejandro e lo colpisce a colpi di carabina: il primo colpo esplode mentre questi, sulle note ossessive del Tristano, forza l’ingresso della tomba sotterranea dove giace il cadavere di Catalina. Laggiù scende faticosamente Alejandro ferito, come un Orfeo agli Inferi in cerca della compagna, in attesa delle Menadi. Dal fondo della catacomba Alejandro si sente chiamare dalla voce di Catalina: con gli occhi morenti si volge e vede sopra di sé, all’ingresso del sotterraneo, Catalina in una nube di luce tendergli le braccia come una sposa, e da quella luce una canna di fucile spara su di lui il colpo finale. È un momento alto del film, quando nell’agonia, nella estrema visione di Catalina, la musica – il lamento incalzante dell’anelito amoroso – viene interrotta bruscamente dallo sparo. Ne segue un silenzio senza redenzione, in quella che viene rappresentata come una resa dei conti finale e definitiva tra la passione (i sentimenti) e il potere. 2.3. Emily Brontë’s Wuthering Heights: la versione filmica di Peter Kosminsky A inizio del film vediamo una figura di donna in mantello e cappa che si aggira per un paesaggio solitario mentre la ‘voice over’ recita con tono lento e sommesso:

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“On the barren Yorkshire moors in England a hudred years ago was a house as bleak as the wastes around it. Only a stranger lost in storm would have dared to knock at the door of Wuthering Heights. First I found the place. I wondered who had lived there, what their lives were like. Something whispered to my mind and I began to write. My pen creates stories of a world that might have been, worlds of my own imagining, and there’s one I want to tell. But take care not to smile at any part of it”

Segue la prima scena dell’ingresso di Lockwood e il primo scambio di battute con H, poi la voce riprende a narrare: “Lockwood has stumbled into the end of a strange story, a story that began thirty years before, when a man returned to Wuthering Heights weary after a long journey”.

Inizia il racconto vero e proprio col ritorno del vecchio Earnshaw da Liverpool, col piccolo zingaro nascosto sotto il mantello. Regista televisivo alla sua prima prova cinematografica, Kosminsky include Emily Brontë nel racconto, impresonata dalla cantante Sinead O’Connor in mantello a cappuccio, che si aggira in luoghi solitari di rovinose abitazioni, creando così una ulteriore cornice, dove l’autrice diviene anch’essa personaggio romanzesco. Ed è durante questa passeggiata introduttiva che sentiamo dalla voce fuori campo le parole riportate anche in sovrascritta, che già danno una idea della versione ‘romantica’ che ci attende. Questa nuova versione filmica, mai doppiata né circolata in Italia, è stata accolta con un certo scetticismo dalla critica inglese. “Kosminsky, a first-time director with a television background, does not vary the pace enough to give a sense of the book’s emotional intensity, slipping too often into the visual Vaseline of cliché” (Hugo Davenport, The Daily Telegraph, 15 ottobre 1992). La trasponibilità del romanzo viene ancora una volta messa in dubbio, la recitazione degli attori viene fatta segno ad osservazioni abbastanza sarcastiche: On his first appearance Fiennes wears a long coat of the sort more associated with spaghetti westerns than Yorkshire moors, and the hint of a moral brutality is well born thereafter (...). As to Juliette Binoche, her English accent is shaky, and more than once she sounds more like Catherine Clouseau than Linton (Adam Mars-Jones, The Independent, 16 ottobre 1992).

Questa versione filmica ottiene tuttavia un generico avallo, come accettabile trasposizione, a tratti in chiave illustrativa ma con buoni momenti di inventiva registica: At its heart, this version of the novel is not actually a disgrace to the original or the earlier (Wyler’s) film. Encroached on by video imagery on one side and by soap opera plotting on the other, there is still a little wildness in this much

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visited tract of romancing, and from time to time the actors bring it up fresh” (Adam Mars-Jones, ibid.).

La riduzione affronta, unica fino a questo momento, (ma imitata poi in questo dalla versione filmica di D.Skynner del 1997), la complessa struttura narrativa delle due generazioni, e l’aver affidato entrambe le parti di Cathy e Catherine jr. alla interpretazione di Juliette Binoche contribuisce in modo non banale a rendere l’elemento di rifrazione e ciclicità della narrazione originale. Ma l’aspetto che fa di questa versione filmica un esempio interessante di ritorno al testo originale privilegiandone una certa ‘lettura’ è la prominenza data al personaggio di Nelly, la co-madre, colei che aiuta a crescere. E in questo senso il brano indubbiamente più riuscito del film è la sequenza centrale, il colloquio tra Nelly e C (WH, cap. IX, 6467), la già ricordata scena-madre che ha inizio come confidenziale lieve racconto serale (“Nelly, can you keep a secret?”, chiede una fanciullesca scanzonata C alla governante, mentre questa sta cullando sulle ginocchia il piccolo Hareton). Segue il racconto confidenziale della – accettata – proposta di matrimonio di Linton, ma il dialogo prosegue e si avvia, dietro la sapiente guida maieutica del ‘gossip’, a diventare uno straordinario percorso di auto-consapevolezza da parte della protagonista. Lo stile televisivo del regista, in coerenza con la sua formazione, contribuisce a fare di questo segmento, tutto giocato su quella che appare come una ricerca interiore, sulla parola e l’espressione, il centro drammatico assoluto dell’intera vicenda. La tecnica televisiva di ripresa ravvicinata e intimista, che insiste sui volti e sui mutamenti minimi delle espressioni e delle posture, le sfumature e i toni smorzati delle voci, si dimostra straordinariamente efficace, in questo come in altri momenti di grande intensità emotiva, (il colloquio estremo tra H e C). Per quanto attiene ad elementi obbligati di ‘genere’, ritroviamo un ‘gotico’ vampiresco di facciata (il fiammeggiante colore sulfureo della scena iniziale, o la mano insanguinata di H intorno al collo di C nell’episodio del disseppellimento), su cui conviene sorvolare. Altrettanto conviene sorvolare sulle scene di invenzione, come quella che si vorrebbe animata da empito panico, dove i due parlano con gli elementi della natura, l’albero, gli uccelli, il cielo in tempesta, in un apprezzabile ma debole tentativo di rendere la dimensione elementale e cosmica della narrazione originale. Anche il demonismo di H si appiattisce non poco nella presenza scenica di un Fiennes che un critico definisce come un chiaro esempio di ‘male chauvinistic boor’, e il selvaggio carattere di C viene di molto attutito nella interpretazione di una attrice, Binoche, che ha una notevole gamma a disposizione, dal momento che sa essere di volta in volta fanciullesca e scherzosa, oppure dolcissima e mesta, ma assolutamente mai tragica, delirante e implacabile.

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Tuttavia è’ sufficiente, a mio avviso, che in qualche parte la versione filmica sia riuscita ‘in its own right’, in coerenza cioè con la natura del mezzo e nel contesto a disposizione (produzione, attori, regista, sceneggiatori ed altro) perché si realizzi qualcosa di valido, come può accadere per una inedita variazione su tema, dove sono riconosconibili certi primordiali rapporti e proporzioni, mentre tutto il resto, incluso forse il senso finale comunicato allo spettatore, inevitabilmente muta e si trasforma. La pervasiva oralità del romanzo, come si è detto, è certamente una matrice inscindibile che sostiene la struttura narrativa di WH: un racconto, appunto, raccontato presso il camino. È un elemento appena accennato nella versione filmica di Wyler (“Yes, tell me a story”) che trova invece, nella versione che stiamo considerando, una inaspettata corrispondenza, e questo grazie alla contaminazione tra il linguaggio filmico tradizionale e la intrinseca familiare ‘oralità’ del mezzo televisivo, noto e consono al regista. Oltre al passo già citato, pensiamo anche alla affettuosa domesticità di certe scene, dove si rende evidente il potere leniente e terapeutico della conversazione, il dono di Nelly poi passato a Catherine jr. L’esergo aveva anticipato la cifra di questa versione filmica, dove WH è presentato anche come opera di recupero di nuclei narrativi preesistenti, in un villaggio “full of eccentric lonely houses and terrible legends”, dove le storie che si tramandano obbediscono a schemi di ancestrale memoria: il piccolo nucleo familiare, il viaggio del padre (cosa vi porterò?), i doni previsti e quelli imprevisti, il trovatello ovvero ‘the cuckoo in the nest ‘che prenderà il posto del figlio perduto nel cuore del padre suscitando la gelosia del figlio legittimo, e quindi l’usurpazione di status sociale da un lato, lo spirito di vendetta dall’altro. A questo genere di mitemi, abbastanza consueto nel folklore di ogni paese, si accompagnano altri elementi del ‘terrore’ popolare celtico: il ‘sentire’ e ‘sentirsi’ a distanza, il sogno premonitore, la vita-in-morte, lo spettro, il ritorno dei non-morti. Nelle parole della ninna-nanna che Nelly canta al piccolo Hareton, appena accennata nel film, la madre morta ode, dalla tomba, il pianto del figlio, una leggenda danese tradotta da Scott negli stessi anni della composizione del romanzo. Sono tutti elementi che il film non rifiuta, avendoli messi in abisso grazie alla iniziale cornice di story-telling che non si dissolve mai del tutto nella percezione dello spettatore, grazie all’uso intermittente e discreto della voce narrante fuori campo. Conclusioni Come concludere circa i rapporti tra WH e il cinema? Quello che è certo è che, se confrontiamo tra loro i tre esempi scelti, dobbiamo ammettere

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che non siamo in presenza di remake veri e propri, ma di continui ritorni alla fonte romanzesca, per attingerne ben più che spunti o motivi, ma per derivarne storie diverse, con una accresciuta attenzione, in tempi recenti, alle intrinseche virtualità del testo, piuttosto che ad una ‘libera ispirazione’ alla ‘fabula’ ivi contenuta. Questo fatto riveste un grande interesse se si accompagna, come nella terza delle versioni filmiche considerate, ad una ricerca innovativa circa una plurifocalità, plurivocità che il testo-fonte pienamente giustifica: una Nelly perenne mente giovane accompagna, quasi una figura del Coro, lo svolgersi degli avvenimenti, e la sua presenza quasi si ritaglia lo spazio che il racconto originario le riservava. Molte, tuttavia, sono le angolazioni non ancora sfruttate o perdute, altre storie possono essere derivate e rese raccontabili partendo da WH secondo le convenzioni di altri ‘generi’. Pensiamo alla nuda semplicità della tragedia classica e del mito, o all’opposto, alle forme allucinate della tragedia elisabettiana, dove potrebbe ben essere accolta la follia di C. Pensiamo al momento in cui la donna, delirante, lacera la fodera del cuscino e comincia a raccogliere e a riconoscere ad una ad una le piume degli uccelli che lo riempivano, quasi un ricordo di Ofelia che compone e dedica i fiori e le erbe raccolti nel suo sperdimento. Oppure la stessa lenta agonia finale di H, quasi un Macbeth esausto e stanco della crudeltà, perseguitato dalla immagine di C. Quale genere cinematografico potrebbe accogliere queste valenze del testo? Forse il genere fantastico, il più adatto a far affiorare l’archetipo della narrazione e della immaginazione. Avendo acquisito la forza resistente del mito, WH emerge qua e là nei racconti più diversi, continua a servire, nel tempo, come remota ispirazione ideale e poetica per rappresentare il rapporto amoroso di fronte alla atemporalità e alla morte. Si è nominato Borzage a proposito della versione cinematografica di Wyler, e non a caso. Anche nel suo film dal romanzo Farewell to Arms, vengono accolte le parole del dialogo estremo, quando la protagonista (ancora una Catherine), esprime una promessa di fronte alla protesta del tenente Henry: “‘You are not going to die. You must not be silly’. ‘All right, Catherine said, I’ll come and stay with you nights’, she said. It was very hard for her to talk” (Hemingway, 1995, 331). In tempi più recenti, ancora un testo ed un film, Lezioni di piano, vagamente inquietanti e di non facile interpretazione, di cui la regista dice: “I feel a kinship between the kind of romance that Emily Brontë portrayed in Wuthering Heights and this film”. Quello della scrittrice inglese non è l’idea di romanticismo a cui siamo abituati, sostiene Jane Campion, è una concezione molto aspra e crudele, con cui sento una sorta di affinità. Ada, la donna muta dunque, un’altra reincarnazione di C? La misteriosa protagonista di una ‘strange story’? Dopo l’orrenda mutilazione inflittale dal marito come punizione per il suo adulterio, Ada viene curata dalle

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donne della piccola comunità, Nessie, zia Morag, che la coprono con una coperta e le accarezzano il volto. La sua parola impedita, la sua sofferenza emanano da lei come una enorme forza misteriosa: “Look at her lips. Who knows what strange story they are trying to tell”. “She is one of God’s difficult children. And yet, inside her you can perceive His presence, awful like a storm” (Jane Campion, The Piano, New York, Hyperion, 1993, 111). Ancora un’eroina romantica, animata da una forza soprannaturale e implacabile, trasmigrata, questa volta, sulle coste della Nuova Zelanda. Riferimenti bibliografici Allott, M. (Ed.) (1990). Emily Brontë’s Wuthering Heights. London: Macmillan. Albertazzi, S. (1993). Il punto su: La letteratura fantastica. Bari: Laterza. Arnheim, R. (1994). Il potere del centro. Torino: Einaudi. Balàzs, B. (1970). Theory of Film. New York: Dover. Bloom, C. (1990). Screening the Novel. The theory and the Practice of Literary Dramatization, London: Macmillan. Brontë, E. (1847) (1938). Wuthering Heights. London: Dent & Sons Ltd.(edizione di riferimento). Ultima edizione in Inghilterra: Harmondsworth, Penguin Books, 1995. Brontë, E. (1971), Poesie. Introduzione e traduzione di G. Bompiani. Torino: Einaudi. Bluestone, G. (1957). Novels into Film. Baltimore: The Johns Hopkins Press. Bompiani, G. (1992). Lo spazio narrante. Milano: La Tarta. Briggs, J. (1977). Night Visitors. London: Faber and Faber. Tr.it. (1981). Visitatori notturni, Milano: Bompiani. Brooks, P. (1985). The Melodramatic Imagination, Yale, New Haven, London: Methuen. Tr.it. (1985). L’immaginazione melodrammatica. Parma: Pratiche. Bussi, G.E. (1988). “La scena madre”. Howard’s End da E.M.Forster a J.Ivory, in M.Bondi (a cura di) (1998). Forms of Argumentative Discourse. Bologna: CLUEB. G.E.Bussi, L.Salmon Kovarski (a cura di) (1996). Letteratura e Cinema: la trasposizione. Bologna: CLUEB. Catania, S. (1999). “Whuthering Heights as a Cinefantastic Text: the (de)constructed ghostly absence in Kosminski, Wyler, Buñuel, Yoshida and Fuest”. GB, The University of Bath: The Millennium Film Conference. 29 June- 3 July. Cattini, P.A. (1996). Luis Buñuel. Milano: Il Castoro Cinema. Cecil, D. (1934) (1960). Early Victorian Novelists. London: Constable. Ceserani, R. (1996). Il Fantastico. Bologna: Il Mulino. Citham, E. (1987). Emily Brontë. A Life. Oxford: Blackwell. Cremonini, G. (1988). Cinema e racconto. L’autore, il narratore, lo spettatore. Torino: Loescher.

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Filmografia 1918, Wuthering Heights, di Thomas Bentley 1939, Wuthering Heights, di William Wyler, prod. Samuel Goldwyn, screenplay: Ben Hecht e C.Mac Arthur, con Laurence Olivier, Merle Oberon, David Niven, Flora Robson 1953, Abismos de pasiòn, di Louis Buñuel, screenplay: Luis Buñuel, Pierre Unik, con Irasema Diliàn, Jorge Mistral, Lilia Prado 1967, Wuthering Heights, adattamento televisivo per la BBC, di Jan MacShane 1970, Wuthering Heights, di Robert Fuest, con Anna Calder-Marshall, Timoty Dalton, Harry Andrews 1970, Wuthering Heights, The Monthy Python Production 1979, Les soeurs Brontë, di André Téchiné, con Isabelle Huppert 1985, Hurlevent, di Jaques Rivette, screenplay: Pascal Bonitzer, con Lucas Belvaux, Fabienne Babe, Olivier Cruveillier 1988, Arashi Go Oka (Le colline della tempesta), di Kiju Yoshida, con Yuko Tanaka e Yusaku Matsuda. 1992, Emily Brontë’s Wuthering Heights, di Peter Kosminsky, screenplay: Anne Devlin, con Juliette Binoche, Raoul Fiennes, Sinead O’Connor 1995, Wuthering Heights, Versione musicale di Cliff Richard 1997, Emily Brontë’s Wuthering Heights, di David Skynner, con Robert Cavanah, Orla Brady, Polly Georgeson

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Laurence Olivier e Merle Oberon in Wuthering Heights, di William Wyler, 1939.

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Winthering Heights si trasforma in una vicenda messicana. Sopra: Jorge Mistral (Alejandro), Irasema Diliàn (Catalina) e Ernesto Alonso (Eduardo). Sotto: Irasema Diliàn e Jorge Mistral in Abismos de Pasión, di Luis Buñuel, 1953.

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“Nelly, can you keep a secret?” Sopra: Il colloquio tra Juliette Binoche (Catherine) e Janet McTeer (Nelly). Sotto: Juliette Binoche (Catherine) e Ralph Fiennes (Heathcliff) in Emily Brontë’s Wuthering Heights, di Peter Kosminski, 1992.

Remake e ricezione interculturale

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Remake e ricezione interculturale. Il sole anche di notte ovvero il buio anche di giorno.

Se anche avesse potuto avere una signora in carne ed ossa, Tolstoj, nel suo racconto, non avrebbe saputo che farsene. V. ‹klovskij (1927)

1.1. Considerando le diverse accezioni del termine remake ci si scontra con una certa difficoltà a definire (e intendere) in modo univoco questo diffuso fenomeno cinematografico. Come spesso avviene quando si tenta di rendere oggetto di studio sistematico un fenomeno culturale ancora estraneo alla ricerca accademica, ci si trova, infatti, in presenza di motivate e stimolanti divergenze. Per questa ragione, auspico che il presente contributo venga recepito essenzialmente come spunto per la discussione teorica. Tanto più che il remake cinematografico è divenuto il modello di varie forme di remake letterario, particolarmente interessanti per i teorici della comunicazione. Da questo punto di vista, l’ambito culturale, i film e i testi che prenderò in considerazione verranno considerati come pre-testo per mostrare l’utilità di alcune forme di remake interculturale come strumento di indagine intersemiotica. In altre parole, come strumento per indagare lo scarto nella ricezione di uno stesso testo-fonte in culture diverse. Quanto dirò sui film, pertanto, non avrà lo scopo di proporre o sostenere un giudizio etico-estetico sulle opere in questione, ma riguarderà essenzialmente l’operazione interpretativa – cioè traduttiva – che implicano tanto la trasposizione quanto la ri-trasposizione. Nell’uso comune e prevalente, il termine inglese remake si limita alla definizione di un’opera filmica chiaramente ispirata ad una precedente, avente lo stesso soggetto. Questa definizione presenta alcuni problemi: da un lato, non circoscrive quanto e come un film debba o possa ‘ispirarsi’ ad un opera antecedente; dall’altro, non sembra contemplare quella catena di ispirazioni in cui ogni opera si immette (ovvero i legami con il polisistema

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culturale di cui non solo il cinema è parte). Infine, ma soprtatutto, questa definizione richiederebbe un accordo preliminare sul concetto di soggetto. La polisemicità di questo termine, infatti, propende a confondere ancor più le accezioni di remake. Anche in ambito cinematografico, infatti, troppo spesso si considera il concetto di soggetto secondo ciò che la tradizione formalista ha in qualche modo imposto, ovvero come modo di sviluppare la fabula, l’oggetto di un ‘racconto’ o narrazione. Eppure queste questioni, che nel 1927 Jurij Tynjanov considerava del tutto insondate, anche nei suoi chiarimenti restano piuttosto nebulose (cfr. Tynjanov 1987: 77). Tanto che, stando alle indicazioni dello studioso russo, lo sceneggiatore non conosce affatto il soggetto del film, ma solo la sua fabula (83) e “orientarsi al massimo sul soggetto” equivale ad “orientarsi al minimo sulla fabula e viceversa” (85). Ma allora, ci si può chiedere, a cosa si riferiva qualche anno prima V. ‹klovskij quando affermava che nel romanzo quasi niente può essere trasferito sullo schermo “all’infuori del nudo soggetto” (1987a: 117), oppure che il cinema “senza soggetto” è “poetico” (1987b: 150)? Questa opacità terminologica rende lecito un ulteriore quesito: è poi vero che il ‘rifacimento’ di qualcosa debba attenere solo alla sfera dell’espressione, cioè a una fabula che viene espressa secondo lo stesso soggetto, ma in linguaggio diverso? Non esiste forse anche un rifacimento dovuto ad uno slittamento interpretativo, stilistico, ma soprattutto culturale? In altre parole: è una ‘stessa cosa’ che viene ‘rifatta’ in un altro modo, oppure non esiste nessuna ‘stessa cosa’, perché un medesimo testo viene considerato dai suoi vari interpreti come un oggetto-soggetto fondamentalmente diverso?1 Schematizzando il quesito: perché si decide di ‘fare’ un film ispirato a un testo (sceneggiatura o narrativa) che già è stato portato sullo schermo? Potrei suggerire almeno tre risposte: 1) perché si ritiene che il ‘vero’ ‘soggetto’ di X non sia stato reso bene dal primo film o che il film precedente, pur con una interpretazione condivisibile, abbia fallito nella rappresentazione cinematografica; 2) perché si ritiene che non esista un ‘vero’ soggetto, bensì che sia lecito ri-rappresentare X tante volte quante sono le sue legittime, infinite interpretazioni; 3) perché si ritiene che il film precedente sia ‘invecchiato’, almeno da alcuni punti di vista. Resta poi da considerare, almeno a livello teorico, una quarta possibilità: il caso in cui il film precedente sia del tutto ignorato, come se non fosse mai stato realizzato. Nel caso di quest’ultima situazione si dovrebbe 1 La risposta è tutt’altro che scontata: nei testi più noti da me consultati, questo problema non è neppure considerato. Anche nel saggio di Lotman “L’intreccio nel cinema” questo aspetto non è contemplato (cfr. 1979: 87 e ss.).

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parlare di remake inconsapevole o involontario. Quest’ultimo caso potrebbe riguardare i film di cui mi occupo nel presente lavoro. Infatti, il film dei fratelli Taviani Il sole anche di notte (Italia, 1990), a quanto riferito da uno degli autori, prescinderebbe da entrambi i film russi ispirati allo stesso racconto di L. Tolstoj, Otec Sergij (Padre Sergio).2 Tuttavia, confrontando le opere in questione, potrebbe dedursi che ci si trovi di fronte ad un conclamato caso di remake. Di un tipo particolare di remake, tuttavia, visto che siamo in presenza non tanto di un rifacimento cinematografico, quanto di una radicale re-interpretazione del testofonte (cioè della fonte letteraria). In realtà, se l’impressione di trovarsi di fronte a un remake derivi da una parentela con i film precedenti o da un’attenzione puntigliosa di tutti gli autori alla parola tolstojana è un dato non solo indimostrabile, ma soprattutto irrilevante. Volontario o involontario che sia, questo remake costituisce comunque un esempio straordinario del fatto che uno stesso testo, trasferito in una cultura molto diversa, può condurre ad un’interpretazione diametralmente opposta a quella canonica. La lontananza culturale, cronologica e affettiva del nuovo film dal canone di ricezione che la cultura di partenza e i film precedenti hanno sancito costituisce una preziosa fonte di informazione per un’indagine interculturale. La scelta di studiare il doppio vincolo che lega il film dei fratelli Taviani alla cultura russa costituisce il tentativo di accrescere il dibattito in direzione di una più ampia interpretazione del termine remake. Il remake che qui affronto si presenta, infatti, non tanto come trasposizione rispetto a un testo filmico di partenza, ma come un globale tentativo di tradurre la cultura russa di partenza nella cultura italiana di arrivo. I film russi, quindi, costituiscono un riferimento contraddittorio: da un lato possono essere considerati il modello di numerose sequenze, dall’altro, la loro interpretazione risulta capovolta. Rispetto al curioso esempio di bi-linguaggio creato da Nikita Michalkov in Oci Ciornie (cfr. Salmon Kovarski 1996), che utilizza consapevolmente il divario culturale Italia vs Russia, il film di Paolo e Vittorio Taviani prescinde drasticamente dal mondo russo cui consapevolmente ed esplicitamente si ispira. 1.2. I due registi italiani, autori con Tonino Guerra della sceneggiatura del film, “liberamente tratto dal racconto Padre Sergio di L. Tolstoj” (cito i titoli di apertura), procedono ad una interessante e ardita italianizzazione, non tanto del soggetto, ma soprattutto della ricezione del racconto di Tolstoj. In chi ben conosca l’opera di Tolstoj il film italiano suscita subito 2 In un’intervista telefonica concessami da Paolo Taviani, mi è stato riferito che i registi, pur sapendo della loro esistenza, non conoscevano (né conoscono ora) i film di Ja. Protazanov e di I. Talankin.

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la sensazione, per usare un’espressione di V. ôSukôsin, che “Tolstoj ci aveva portato a qualcos’altro” (1980: 219).3 Gli autori – così sostiene Paolo Taviani – si sono svincolati integralmente da qualsivoglia limite interpretativo, riconoscendosi la totale libertà di ‘ri-fare’ Tolstoj. Questa posizione, del tutto legittima, prevede comunque che la loro interpretazione sia sottoposta al confronto con le interpretazioni precedenti. Chiunque può proporre la propria ricezione di Tolstoj, ma otterrà maggior o minor consenso a seconda che abbia o meno preso preventivamente atto delle interpretazioni che lo hanno preceduto. Questo può evitare di presentare come novità un’interpretazione già canonizzata oppure, al contrario, di presentare come ovvia un’interpretazione anti-canonica. Per chiarire questo concetto dal punto di vista della semiotica, propongo di applicare al nostro caso uno schema di Ju. Lotman (cfr. 1979: 31). Se una serie A → B può proseguire come → C oppure come → D (cioè, l’evento comunicativo può avere esiti informativi differenti), all’interno della cultura russa, lo stesso racconto segue la sequenza informativa A → B → C, mentre all’interno di quella italiana segue la sequenza A → B → D, in grado di produrre un’informazione alternativa. Nel caso che C e D costituiscano elementi informativi di segno contrario, l’esito interpretativo è di notevole rilevanza semiotica. Non intendo con ciò disattendere il concetto di universalità della cultura, ma sottolineare che in ogni cultura esistono particolarità semiotiche difficilmente ricodificabili nei codici di un’altra cultura senza interferenze semantiche. Come osserva U. Eco: Decidere come funziona un testo significa decidere quale dei suoi vari aspetti sia o possa diventare rilevante o pertinente al fine di una sua interpretazione coerente, e quali rimangano marginali e incapaci di legittimare una lettura coerente (1995b: 175; rilievo mio).

La prima tesi che intendo avallare è che l’interpretazione alternativa dei fratelli Taviani, data la loro proverbiale, statutaria devozione a Tolstoj, non sia dovuta ad un’operazione coerente di ribaltamento dei canoni, ma costituisca la somma di semplici e inevitabili qui pro quo culturali (semiotici). In secondo luogo, vorrei sottolineare come questa ‘eversione’ interpretativa, che suppongo irrilevante sul piano della quotazione cinematografica, sia invece di grande interesse per la riflessione teorica sulla ricezione interculturale. Per evitare equivoci: questo film mi interessa perché indica emblematicamente che, nella convinzione di poter decodificare e comprendere i valori di una cultura estranea, la si interpreta co3 Questo

caso ha attratto il mio interesse in modo particolare anche perché, a suo tempo, sono stata traduttrice in italiano del racconto medesimo (Tolstoj 1987).

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munque secondo le proprie strutture mentali e i propri canoni culturali, e che l’esito – dal punto di vista della cultura di partenza – risulta quello di una misinterpretazione. Esemplificando: non intendo affermare che è necessario aver trascorso un’estate in una daôca russa per acquisire il significato della parola daôca, ma che, dinnanzi alla ‘descrizione russa’ di una daôca russa, uno straniero vivifica quell’immagine secondo le proprie emozioni culturali. Nella sua immaginazione, in quella ‘casa di campagna’, si muovono figure inverosimili per la realtà russa (lo straniero non saprà immaginarne gli abiti, i pensieri, la lingua, i gesti). Nel tradurre l’immagine daôca in una casa della campagna toscana o siciliana, si creerà non solo un’icona (un segno) notevolmente diversa da quella di partenza (se buona o cattiva è ininfluente), ma si evocherà e comunicherà un’esperienza diversa. Il problema che più mi sta a cuore è dunque quello della consapevolezza di questa sfasatura. Per esempio, ambientando in una daôca dell’Ottocento russo le vicende trecentesche delle novelle di Boccaccio, il risultato sarà diversissimo a seconda che ci si renda o meno conto della totale risignificazione cui il Decameron viene sottoposto. Tanto più che la re-interpretazione filmica interferisce con certa diffusa confusione non solo del grande pubblico, ma anche della critica; valga per tutti la voce dedicata al film dei Taviani sul Dizionario dei film di Pino Farinotti: Tutto parte da un racconto di Tolstoj, in cui si narra la storia di un nobile stimato dal re delle due Sicilie, Carlo III, che abbandona la carriera militare dopo aver saputo che la donna che deve sposare è stata a letto con il sovrano in persona... (1993: 141; rilievo mio).4 4 Il racconto di Tolstoj è ambientato in Russia all’epoca di Nicola I (1826-1855). La fabula può essere sintetizzata come segue. Un nobile russo (Stepan Kasatskij), iroso e superbo, arde di passionale amore per Nicola I e aspira a servirlo da cadetto. Divenuto cadetto, chiede, per interesse, la mano di un’ambita nobildonna. Due settimane prima delle nozze, ‘platonicamente’ commosso dalla purezza della fidanzata, le confessa pentito le mire iniziali. Per ricambiare la sincerità, la donna confessa a sua volta di essere stata l’amante dello zar. Il giovane, colpito nel suo più grande amore (lo zar) e ferito nell’orgoglio, fugge, si disfà di ogni bene terreno e prende i voti monastici col nome di Sergij. Anche nel monastero, nei continui contatti con la mondanità, lo perseguitano l’astio e l’orgoglio; egli accetta quindi il consiglio della sua “guida spirituale” e diviene eremita. Lo spinge la superbia, non la fede. Quando ormai ha 50 anni, durante il carnevale, una nobildonna bella e libertina, per scommessa, va a tentarlo. Per non cedere, Sergij si amputa un dito con l’accetta. La donna sconvolta si fa monaca. Sergij diventa una sorta di ‘santo guaritore’, ma non trova né la fede, né una strada verso Dio. Nel momento di massima ‘fama’ egli cade (sessualmente), stanco delle proprie contraddizioni. Fuggito dal monastero, spinto da un sogno, ritrova una mite compagna d’infanzia che, senza saperlo, gli dimostra come lei “pensando di vivere per gli uomini viva per Dio”, mentre lui, “credendo di vivere per Dio, aveva vissuto per gli uomini”. Sergij, come accattone, viene deportato in Siberia dove vive assistendo il prossimo.

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Un simile errore deve far pensare alle modalità secondo cui la traduzione interculturale interagisce con il polisistema di riferimento. Deve far meditare, ad esempio, sul fatto che la letteratura russa, anche la più nota, resta in realtà così lontana da consentire un errore così macroscopico su un autore che è per i russi più di quanto sia Dickens per gli inglesi o Dumas per i francesi. Nel suo noto saggio Letteratura e cinema, Viktor ‹klovskij si rivolgeva a Tolstoj come se lui fosse la letteratura russa o, addirittura, la letteratura in assoluto.5 Analizzando in un altro saggio la ricezione dei film stranieri da parte di spettatori culturalmente ignari delle associazioni originarie, ‹klovskij concludeva dicendo: “Insomma, tutto il film ha bisogno di essere tradotto” (1987c: 182). Ora, un traduttore professionista sa bene che ogni letteratura, e la lingua in cui essa si esprime, afferiscono ad un sistema mentale e culturale differente, e ha il dovere di rendersi conto di ciò che il fruitore della traduzione, per quanto virtuosisticamente completa, non capirà o re-interpreterà. Ovvio che il fruitore ha pieno diritto al proprio straniamento e alla propria lontananza, e che, anzi, questo sfasamento culturale può essere fonte di nuove esperienze cognitive ed estetiche. Ma lo stato di estraneità non può essere valutato negli stessi termini per chi si chiama consapevolmente a tradurre un’opera ben precisa. Non si tratta, quindi, di non poter tradurre a priori il segno “monastero russo-ortodosso del primo Ottocento” con il segno “convento cattolico di metà Settecento”. Si tratta, prima di ribaltarli, di decodificare i segni di un’ossessione russa nei termini e nell’intensità di una mente russa dell’Ottocento che si divincola nelle potenti contraddizioni prodotte dal suo ambiente, dalla propria educazione e dalle proprie lacerazioni morali. Qui, la legittima libertà di interpretazione, che lo si voglia o meno, si misura con l’interpretazione dominante di quella cultura e di quell’autore. 2.1. Dal punto di vista semiotico, l’analisi di un film, che può considerarsi non solo un remake rispetto al film che lo ha preceduto, ma anche rispetto al testo-fonte letterario, non può prescindere dai problemi interpretativi che questo testo-fonte ha posto. L’affermazione di Peter Szondi che “le parole notoriamente non designano soltanto gli oggetti ma anche li interpretano” (1992: 71) va estesa ai segni del codice iconico o figurativo della comunicazione filmica: ogni immagine o sequenza di immagini interpreta ciò che intende designare. 5

Nel 1954, L. Tolstoj, “pilastro della coscienza nazionale dell’immensa Unione Sovietica” (Anninskij 1980: 135) era già stato tradotto in 75 lingue diverse della sola URSS.

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Da un punto di vista ermeneutico, l’affermazione di Paolo Taviani, che il “soggetto” di Il sole anche di notte era stato utilizzato “in tutta libertà” non per “interpretare” Tolstoj, ma per raccontare una storia “loro” (dei Taviani), appare una contraddizione in termini. Tanto più che, per quanto “liberamente tratto” dal racconto Otec Sergij, il film ne ricalca con attenzione tanto la fabula (trama) quanto il sjuôzet (la rappresentazione della trama) e per di più propone molteplici ossequienti calchi del testo tolstojano.6 La novità del film non risiede pertanto nell’aver raccontato un’altra storia, ma nell’aver ri-letto la stessa storia secondo un’altra interpretazione, diversa e per alcuni aspetti opposta a quella corrente. L.A. Anninskij, che nel 1980 a Lev Tolstoj e il cinema ha dedicato un volume monografico, afferma: Una trasposizione costituisce sempre un’interazione attiva con il materiale, un proprio punto di vista, è sempre un’interpretazione, altrimenti il film, bisogna ammetterlo, come opera non funziona. Ma se si deve scegliere, ritengo allora, come risulta dall’esperienza degli ultimi decenni, che le interpretazioni più interessanti non si ottengano là dove i registi lottano contro Tolstoj, ma là dove essi vanno a scuola da lui (1980: 192; trad. mia).

Nei saggi di I limiti dell’interpretazione, U. Eco (1995) spiega molto bene che, da un lato, ogni lettore ha una personale ricezione di una vicenda narrata, ma che, dall’altro, sarebbe legittimo restare perplessi qualora Jack lo squartatore dichiarasse che le sue azioni sono ispirate all’insegnamento del Vangelo (1995: 54). Questa lettura ‘inusuale’ da parte di Jack costituirebbe, secondo Eco, un misreading. Proprio come un film ‘tratto’ dal Vangelo che offra un’immagine di Gesù in contraddizione con quella che generalmente (canonicamente) si considera la storia di Gesù. Il paragone tra l’opera di Tolstoj e il Vangelo non è né azzardato, né casuale. Nell’Unione Sovietica, epurata da ogni mito religioso, i nuovi miti laici erano stati rinvenuti principalmente nella letteratura nazionale che aveva assunto un ruolo centrale nella nuova ‘religione di stato’. Anninskij mostra come, nel rapporto tra cinema e letteratura, Tolstoj fosse divenuto ben presto un importante mito di riferimento: Tolstoj è un punto di riferimento irrinunciabile nello sviluppo della cinematografia mondiale poiché è un punto di riferimento irrinunciabile nello sviluppo della cultura moderna, come Shakespeare, Dickens o Dostoevskij (1980: 266; trad. mia).

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Per la lettura di Padre Sergio, i fratelli Taviani hanno utilizzato la traduzione di Agostino Villa (Tolstoj 1981).

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Tolstoj, afferma Anninskij, appartiene all’affettività recondita e non può essere “capovolto”; il contatto con Tolstoj costituisce “una grande prova” che pochi sono in grado di superare (1980: 117). Analizzando i film russi tratti da Tolstoj, Anninskij parla di “trasposizione del nostro Tolstoj” (1980: 141) poiché, evidentemente, chi è estraneo alla cultura russa conosce in ogni caso un altro Tolstoj. Più esplicitamente, A. Svobodin sostiene che qualsiasi regista che intraprenda la trasposizione filmica di un testo letterario rappresenta sempre il suo scrittore (1989: 76). 2.2. Dal 1908 al 1978, erano già stati realizzati cento film ispirati a Tolstoj, di cui una cinquantina stranieri, la cui metà di produzione americana. Ma qui è il punto: a differenza che in Russia, in America nessuno andava al cinema a cercare Anna Karenina, il pubblico cercava Greta Garbo. In America, la fedeltà di un film a Tolstoj era garantita dalla partecipazione ai lavori cinematografici di un discendente dello scrittore (che possibilmente portasse il nome Tolstoj), non certo da una lettura meditata del testo letterario e tanto meno dal rispetto per la cultura russa. Il cinema russo, al contrario, fino agli anni Sessanta si era cautamente e devotamente astenuto dalla rappresentazione dei grandi romanzi tolstojani, proprio per la consapevolezza di aver a che fare con un mito della cultura nazionale. Anninskij resta infatti convinto che Tolstoj sia un gigante inesauribile e inafferrabile per qualsiasi regista “di tutti i tempi e di tutti i popoli”: su questa convinzione si fonda interamente la sua analisi del rapporto tra il cinema e il grande scrittore (cfr. discussione con L.K. Kozlov e commento, 1980: 263-282). Tuttavia, le motivazioni che lo studioso adduce in proposito, ovvero il tentativo che egli fa per dare spiegazione di questa “inafferrabilità” di Tolstoj per lo schermo, non appaiono affatto chiare e si basano su affermazioni paradossali che aiutano a riflettere, ma non propongono soluzioni coerenti. Anche per Svobodin, la soluzione per ricreare Tolstoj sarebbe quella di percorrere una non meglio definita strada “dal trattato alla vita” (1989: 72). Purtroppo nei commenti degli studiosi sovietici sul rapporto tra cinema e letteratura troppo spesso si rinviene la tendenza a valutare le scelte registiche e quelle di sceneggiatura come ‘giuste’ o ‘erronee’ (cfr. ad es. Fradkin 1962 che parla di “grandi errori” e di “precisione”).7 Il sole anche di notte ha due precedenti cinematografici: il film sovietico Otec Sergij, del regista Igor’ Talankin (URSS 1978), remake a sua 7

Questa rigidità trova la sua naturale conseguenza in un assunto categorico e infondato di Fradkin che ricalca i dogmi idelogici della cultura sovietica: “Lo scopo della trasposizione cinematografica di un’opera letteraria risiede nella riproduzione della sua idea con i mezzi dell’arte cinematografica. Una trasposizione che si prefigga altri scopi non ha diritto di esistere. Non è solo inultile, è dannosa” (Fradkin 1962: 5; corsivo nel testo).

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volta dell’omonima pellicola russa di Jakov Protazanov (1881-1945) del 1917-18 (prod. della Reppublica Socialista Federativa Russa). I tre film costituiscono altrettante esplicite trasposizioni (meglio, in russo, ekranizacii) del racconto Otec Sergij.8 Si tratta di uno dei capolavori dell’‘ultimo Tolstoj’, ovvero del Tolstoj giustamente definito ‘dostoevskiano’. Il racconto, assieme a D’’javol (Diavolo) e alla Krejcerova Sonata (La sonata a Kreutzer), costituisce, infatti, un’inquietante e appassionante riflessione sui temi che, col passare del tempo, sempre più ossessionarono il grande scrittore: la superbia, la tentazione, il peccato. Tolstoj comprese gradualmente che tra questi peculiari aspetti del ‘male’ terreno vi era un profondo legame. Nella disperata e totale assenza dell’amore, la figura della donna assume nella trilogia i tratti speculari delle carnevalizzate eroine dostoevskiane: da un lato, la donna fredda, pura e sessualmente ‘morta’ (l’eterna fidanzata), dall’altro quella passionale, anzi, demoniaca, che concupisce con le sue pulsioni la vittima maschile portandola alla morte. Negli ultimi quindici anni della sua vita, Tolstoj condusse una lotta indefessa contro l’ultimo bastione irremovibile dell’“animalità” umana. Come nota A. Svobodin, lo scrittore presentò il problema della sessualità e delle conseguenze psicologiche individuali prima di Freud, anche se, ovviamente, non a livello di terapia analitica, ma di indagine etica (1989: 71). Come del resto Freud, Tolstoj spogliò il rapporto fisico tra donna e uomo di qualsiasi alone poetico, riconoscendogli solo la funzione di appagamento dell’istinto. Se il Tolstoj didascalico e moralista trova poco convincenti parole di comprensione per la donna, vittima – egli ne conviene – di una società perversa, l’irrefrenabile e oscuro genio dello scrittore lo spinge nella fiction alla distruzione di ogni sua ‘creatura’ femminile e di tutto ciò che è entrato in contatto con lei. Fino all’episodio conclusivo di Otec Sergij, Tolstoj nega ai suoi eroi la benché minima possibilità di salvezza che non sia la morte (fisica o sessuale). Solo nell’ultimo episodio di Otec Sergij, il cosiddetto “episodio di Pasen’ka”, all’improvviso, come un raggio di sole nella tempesta, viene individuata da Tolstoj una soluzione, una possibile strada verso Dio, paradossalmente difficilissima ed elementare. Un epilogo in tutto e per tutto simile a quello assai discusso 8 L’idea di Otec Sergij nacque a cavallo tra il 1889 e il 1890 e il lavoro alla prima stesura continuò fino all’estate del 1891 per poi essere sospeso. Nel 1898 L. Tolstoj riprese a redigere il racconto, ma – scontento del risultato – decise per il momento di non pubblicarlo. Nel 1900 lo scrittore espose oralmente la trama di Otec Sergij a Maksim Gor’kij che ne fu molto colpito. L’opera venne pubblicata postuma, a Mosca nel 1911, nel secondo volume della raccolta Posmertnye chudoôzestvennye proizvedenija L.N. Tostogo, a cura ô di V.G. Certkov.

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di Delitto e castigo. Proprio questa soluzione costituirà – lo mostrerò in seguito – un discrimine particolarmente interessante tra i film in questione. 2.3. Al di là delle importanti considerazioni di ordine psicoanalitico, che per nulla guasterebbero in un’analisi dei tre racconti, il peccato è inteso da Tolstoj come cedimento alla tentazione (a sfondo quasi sempre sessuale) e come atto di superbia contro l’anelito alla religiosità pura (castità assoluta). L’idea – tutt’altro che convincente per l’autore stesso – che la castità offrisse l’unica soluzione per “umanizzare” l’uomo, cioè per renderlo privo di animalità, è il filo rosso che unisce il pensiero e l’opera del Tolstoj ‘dostoevskiano’. La contraddizione tra la veemenza didascalica dell’espressione e il messaggio in realtà trasmesso costituiscono l’aspetto più originale di questi racconti. E infatti: per mostrare il male della sessualità, Tolstoj – a dispetto della sua intenzione cosciente – produceva una vera e propria narrativa erotica (tanto da dover ricorrere ad una “Postfazione” dopo le inattese reazioni del pubblico e della critica alla sua Sonata a Kreutzer). Non a caso, questi racconti vengono definiti “dostoevskiani”: Tolstoj, in termini diversi e secondo la propria sensibilità, rivisitava il tema raskol’nikoviano dell’opposizione tra persone ordinarie e straordinarie, e quello karamazoviano della lotta tra Dio e il demonio per la conquista del nostro cuore.9 Il Tolstoj ‘classico’, più noto e più amato, era convinto della necessità di perseguire una virtù straordinaria; ogni “caduta” rappresentava non solo un fallimento personale rispetto a questo proposito, ma anche la conferma che egli era “come tutti”, come tutti coloro verso i quali non aveva mai nascosto il suo più categorico disprezzo. I racconti “dostoevskiani”, invece, costituiscono il tentativo sofferto di una sorta di ribaltamento ideologico: l’anelito alla straordinarietà viene ora inteso come emblema di una superbia che assurge a strumento interiore del male, cui si aggiunge quello esterno della tentazione. Tolstoj, nel suo modo tipicamente contorto, si era convinto alla fine che – almeno in lui e per lui – ogni tentativo consapevole di rifuggire la superbia e la sessualità era a sua volta mosso da un atto di superbia e di “animalità”. Ciò costituisce l’elemento propriamente tragico dei racconti ‘dostoevskiani’, in cui si alternano la violenza, la misoginia, il voyeurismo e la profonda frustrazione di un modus vivendi che lo scrit9 L’avvicinamento alla sensibilità del collega-antagonista è, a mio avviso, molto superiore a quanto la critica, sovieticamente indirizzata, abbia finora riconosciuto. Svobodin, nel suo commento al film La sonata a Kreutzer (sceneggiatura di M. ô Svejcer; regia di M. ô Svejcer e S. Mil’kina, URSS, Mosfil’m, 1987), sottolinea la sfasatura tra intento didascalico e “inquietante passione”, ma loda il film proprio per essere riuscito nello sforzo di trasmettere questa “vibrazione”, questo “tremito di passione” (1989: 72).

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tore e i suoi personaggi alter-ego aborrono e subiscono. Si tratta, in sintesi, della contraddittoria e sofferta misoginia tolstojana, assolutamente emblematica della cultura russa che, in modo tacito ma inequivocabile, difende, nell’immaginario collettivo, l’equazione donna-diavolo (tentatrice, infida, infedele, rovinosa) e, nella prassi sociale, l’equazione donna-essere inferiore (stupida, gretta, nata per servire, predisposta a ruoli prestabiliti dallo strapotere maschile). Questo atteggiamento si è codificato in ingannevoli manierismi comportamentali di stile occidentale – apparentemente inspiegabili rispetto alla reale, sottomessa condizione della donna russa – che costituiscono però un codice di segni sfasato rispetto a quello occidentale. In realtà, le coquetteries stereotipiche e anacronistiche del dominante modello femminile russo si traducono ad occhi occidentali nell’immagine di una donna-caricatura, parodia di se stessa. Questa sfasatura rispetto alla cultura occidentale si presta ad osservazioni interessanti per i film in questione. 3.1. Il primo film Otec Sergij, progettato alla vigilia della Rivoluzione, girato durante le sommosse e distribuito in epoca sovietica, appartiene ancora al cinema muto. Il regista, Jakov Protazanov, aveva deciso di sperimentare soprattutto la ricerca psicologica ed aveva scelto di liberarsi del tutto dai canoni già attestatisi nella cinematografia russa. 10 Nel maggio 1918, quando il film Otec Sergij comparve nelle due capitali, ebbe un successo senza precedenti. Il pubblico era rimasto particolarmente colpito e incuriosito dalla rappresentazione cinematografica della vita religiosa russa, delle funzioni e della clausura monastica. Non a caso, giunta in Occidente, la pellicola divenne il simbolo della Russia cristiana e della resistenza al bolscevismo (cfr. Anninskij 1980: 108). Quando, nel 1928, in occasione del centenario della nascita di Tolstoj, il film venne redistribuito in URSS e per la prima volta mostrato al grande pubblico, fu drasticamente attaccato dalla critica sovietica (che lo definì, per non citare i giudizi meno eleganti, “porcheria ideologica e povincialume fuori moda”; 1980: 112) e fu ritirata dai circuiti pubblici.11 Il film era in parte incentrato sulla lotta contro la sessualità, che costituisce il centro della tragedia tolstojana. In realtà, infatti, Padre Sergij non può essere recepito come un sempli10 Ma, come osserva Anninskij, questi stereotipi sono ai giorni nostri talmente lontani che nessuno spettatore è in grado di valorizzare l’encomiabile sforzo. 11 Il film divenne parte della produzione ‘classica’ russa, ma in seguito e fino ad oggi, è comparso esclusivamente in manifestazioni ‘chiuse’. Secondo Anninskij, il film di Protazanov rappresenta l’emblematico momento di addio al vecchio cinema russo borghese che apre le porte al nuovo cinema sovietico: “la solida opera di Protazanov è invecchiata assieme al suo stile” (1980: 115).

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ce dramma; la solitudine di un singolo individuo, nella narrazione di Tolstoj, assume i connotati grandiosi e tragici dell’epos russo. 3.2. All’ultimo periodo del cinema sovietico appartiene invece il film di Igor’ Talankin. Il regista e sceneggiatore, ancora studente All’Istituto Statale di Cinematografia (il famoso VGIK), aveva scelto di girare per la prova di diploma una scena da Guerra e pace con il giovane Georgij Danelja. Questo film, Toôze ljudi (Pur sempre uomini; 1958), era addirittura arrivato al grande pubblico. Quando torna a Tolstoj con Otec Sergij, Talankin è ormai un regista di successo, sicuro di sé e molto attento alle strategie. Ad esempio, osserva Anninskij, per ovviare all’inconveniente del passaggio dal giovane Kasatskij al monaco Sergij, decide acutamente di non riprendere mai il giovane principe e di utilizzare un bambino, anticipando idealmente le vicende del cadetto Kasatskij, e un unico attore per il Kasatskij adulto – il grande Sergej Bondarôcuk – già in età per incarnare alla perfezione padre Sergij dai quarantadue anni della prima apparizione fino ai quasi settanta dell’ultima.12 Il film di Talankin, da cima a fondo, enfatizza il forte vincolo con l’opera letteraria cui si ispira: la pellicola (omaggio per i centocinquant’anni dalla nascita di Tolstoj), si apre con l’inquadratura della copertina della prima edizione di Otec Sergij (1911) e, successivamente, più realista del re, l’autore, suddivide il film in quattro “capitoli” cui egli trova titoli riassuntivi che vengono mostrati in una lunga inquadratura stampati sulla carta. Per non perdere un solo passo significativo dei monologhi tolstojani, di cui nulla trascura, Talankin cade spesso nella pesantezza stilistica, riscattandosi solo con alcune sequenze che rendono memorabile il suo film: si tratta del carnevale russo e dei famosi koljadki, i canti tradizionali russi, cristiani di adozione, ma saporitamente pagani nella sostanza. Il valore di queste sequenze è apprezzabile esclusivamente dal punto di vista della cultura russa. La scelta è particolarmente importante poiché, dal punto di vista della tentatrice, Tolstoj presenta la “tentazione” proprio come una “carnevalata”. La scena del carnevale, pur discutibile per la realizzazione scenica, risolve il contrasto centrale tra mondo spirituale e mondo carnevalesco e consente allo spettatore di percepire la lacerazione tipicamente russa tra superstizione pagana e religiosità estatica, tra edonismo smisurato e penitenza autolesionista: ter12 Protazanov, al contrario, aveva trasformato virtuosisticamente Mozôzuchin in tre persone completamente diverse (per dimostrare il potere del cinema; cfr. Anninskij 1980: 258). I Taviani, invece, per ovviare al problema, ricorrono ad una significativa alterazione del testo, ovvero riducono il tempo diegetico di dieci anni prima della tentazione e di sette prima della caduta. Al termine del film, quindi, il loro Sergio non è un vecchio venerando, bensì un uomo poco più che quarantenne.

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tium non datur. In modo altrettanto efficace, Talankin riproduce poi un tratto peculiare del racconto: l’amore morboso e passionale di Stepan per lo zar: “...amava alla follia, ma proprio alla follia, Nikolaj Pavloviôc” – dice Tolstoj – davanti a lui Kasatskij “provava l’estasi di un innamorato, proprio quella che avrebbe provato più tardi dinnanzi all’oggetto del suo amore. Solo che l’estatico sentimento per Nikolaj Pavloviôc era più forte” (1987: 164). Nel film russo è assolutamente chiaro che la donna non diviene, né può divenire oggetto di amore e che il desiderio è invece triangolare, secondo il più rigoroso schema di René Girard (1981). Il dramma di Stepan è quello di non poter uccidere il suo rivale proprio perché è lui il suo idolo, il suo vero oggetto d’amore: “Se l’ex-amante della sua fidanzata fosse stato un uomo qualsiasi, lo avrebbe ucciso, ma si trattava dell’adorato zar” (Tolstoj 1987: 169). Talankin traduce abilmente allo spettatore questo sentimento inquietante, mostrando Stepan ragazzo in chiesa in mistica adorazione del sovrano che – dice testualmente Tolstoj – “egli ama quanto Dio”. Di conseguenza, il regista è attento a riprodurre la distanza fisica tra Stepan e la fidanzata Mary. Come si è detto, per Tolstoj, tra uomo e donna, poteva esistere o un rapporto asessuato-estatico o un peccaminoso sopruso. Lo dimostra proprio l’apparente contraddizione nel modo in cui Stepan guarda alla fidanzata: “...quel giorno era particolarmente innamorato e non avvertiva verso la fidanzata la benché minima sensualità” (ivi: 168). Questi aspetti vengono del tutto misconosciuti nel Sole anche di notte, dove, al contrario, Sergio arde d’amor sensuale per Cristina (questo è il nome dato a Mary), e la devozione per il re di Sergio bambino risulta poco significativa (come se fosse irrilevante ai fini interpretativi). Rispetto al film di Talankin, nel film dei Taviani vi sono numerosi elementi di contrapposizione che spiccano tanto più, quanto più le inquadrature sono invece somiglianti. Ma soprattutto: la misoginia di Tolstoj, ottimamente condivisa da Talankin nel raffigurare in modo caricaturale la tentatrice, nei Taviani si trasforma nel rispetto per una donna capricciosa, ma intelligente e accattivante, figura non caricaturale, ma realmente drammatica. Gli sguardi e le parole che i due protagonisti si scambiano nella cella di Sergio su un piano totalmente paritetico rendono profonda dignità umana alla tentatrice mediterranea. 3.3. Il remake dei fratelli Taviani traduce nel codice della cultura italiana e nel codice del loro cinema una tragedia radicalmente estranea alla nostra cultura, rendendola compatibile con la nostra visione del mondo. Nell’italianizzare Otec Sergij, Paolo e Vittorio Taviani hanno modificato il ‘linguaggio’ di Tolstoj pur mantenendo una compiacente adesione

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tanto alla ‘lingua’, quanto al ‘montaggio’ (cioè al sjuôzet del racconto).13 Mentre il testo recitato del Sole anche di notte è in buona misura una trascrizione delle parole di Tolstoj, l’opera affronta un arduo passaggio di attualizzazione in cui, pur trasferendosi a ritroso dall’Ottocento al Settecento, si offre un’interpretazione in chiave occidentale contemporanea; la sensibilità russa di stampo mistico-populista viene interpretata secondo l’ideologia di un laico socialismo occidentale che non ha nulla a che vedere né con il Tolstoj classico, né con il Tolstoj ‘dostoevskiano’. Dalla sensibilità di un residuo populismo russo pervaso di tradizionale spiritualità ortodossa (Tolstoj) si passa ad una concezione pragmatica di un caso individuale. Stepan Kasatskij era per Tolstoj uno strumento per mostrare l’alternativa popolare russa alla falsità della nobiltà. La chiesa ortodossa russa, quella chiesa che, dalla sua pomposa e dorata lontananza, aveva scomunicato lo scrittore ribelle, doveva secondo lui ritornare alle origini popolari di un tempo. Ora, l’opposizione tra mondanità e spiritualità è vissuta, in ambito ortodosso russo, in modo diversissimo da quello della chiesa cattolica. La contraddizione che tormentava Tolstoj non è proponibile in termini di cattolicesimo. Mentre il nostro cattolicesimo è in primo luogo consolante e condiscendente, l’ortodossia russa è tradizionalmente la custode intransigente della ‘vera fede’. Sergio Giuramondo, il protagonista del film dei Taviani, pur parlando con le precise parole del monaco Sergij di Tolstoj, risulta un ‘prodotto’ del cattolicesimo, per il quale ogni storia personale ha un proprio diritto all’esistenza. La cultura russa, invece, solo tardi, gradualmente e molto parzialmente, ha riconosciuto agli autori un diritto all’individualità e alla finzione creativa; ancora nell’Ottocento, i personaggi letterari tendevano a rappresentare emblemi del carattere nazionale. Questa opinione è suffragata dal giudizio di Anninskij sul Tolstoj ‘italiano’, ovvero sulle rappresentazioni cinematografiche italiane di Tolstoj. Secondo lo studioso furono inizialmente gli italiani ad essere di tutti gli stranieri “i più distanti da Tolstoj” (1980: 150), mentre successivamente, a partire dal neorealismo, la nostra sensibilità si sarebbe “tolstojzzata” al punto da rendere il grande prosatore russo “una sorta di simbolo spirituale” (151). Eppure, non appena gli italiani cercavano di impadronirsi ô dell’‘idea’ russa (fosse di Tolstoj, Dostoevskij o Cechov), cedevano alla tentazione di enfatizzare non l’‘universalità’ dell’idea, ma la storia di un particolare individuo oppresso dalle sue nevrosi e dai suoi complessi (ivi). 13 Per

quanto riguarda le profonde affinità tra le proprietà diegetiche del montaggio cinematografico e quelle narrative e descrittive del montaggio letterario è ancora oggi preziosa la seconda parte della dispensa di L. Fradkin Ekranizacija russkogo klassiôceskogo romana i problemy montaôza (La trasposizione cinematografica del grande romanzo russo e i problemi del montaggio), pubblicata a Mosca nel 1971 (Fradkin 1971).

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Alla “piccolezza” e contingenza italiane sfuggirebbe, secondo lo studioso, la grandiosità e la inafferrabilità del mondo russo. E cogliere una distanza culturale è tanto più difficile, quanto più si è convinti di aver assimilato la cultura russa: più si crede di essersi avvicinati, più ci si è in realtà allontanati. Sempre secondo Anninskij, della concezione di Tolstoj, manca agli occidentali la “compenetrazione delle anime”, il fatto che un singolo individuo divenga una persona proprio e solo in quanto parte di una “collettività spirituale” (187). Con sue parole, lo studioso ritorna all’idea dell’individualismo occidentale opposto al comunitarismo russo, pur riconoscendo ad alcuni autori stranieri una piena purezza di sentimenti nei confronti del mito letterario russo (cioè, la serietà nella lettura dell’opera di Tolstoj). Questa sfasatura culturale risalta particolarmente nella ricezione del messaggio che Tolstoj, in modo tormentato e perciò suggestivo, rimaneggiando per anni le pagine di Padre Sergio aveva intenzionalmente eletto a epilogo del racconto. A differenza degli altri due film, quello precedente e quello successivo, la scelta interpretativa di Talankin risiede nell’aver incentrato il suo film proprio sull’epilogo ideologico e didascalico, sulla “soluzione” (razvjazka) del racconto di Tolstoj: l’episodio di Paôsen’ka. Questo episodio, trascurato tanto da Protazanov prima, quanto dai fratelli Taviani poi, occupa ben venti minuti del film ultimato di Talankin. Per meglio enfatizzare l’importanza che attribuisce all’episodio, il ruolo di Paôsen’ka viene delegato da Talankin alla pluripremiata star del cinema sovietico, Alla Demidova, già celebre attrice del teatro alla Taganka. 14 Recitando nel ruolo di Paôsen’ka assieme a Sergij Bondarôcuk, l’attrice trasforma l’episodio – che è la parte meno interessante del racconto – nella parte cinematograficamente migliore del film, rimarcata dal passaggio al bianco e nero. Pur sottolineando la perfezione artistica dell’episodio, Anninskij rinviene nell’interpretazione della Demidova connotati più dostoevskiani che tolstojani. Proprio questo fatto, che turba lo studioso sovietico perché lo costringe in veste di spettatore a “dimenticare Tolstoj”, è quello che più rende merito al regista. Paôsen’ka, personaggio “basso” è in realtà, come la Sonja Marmeladova dostoevskiana, l’unico vero tramite con Dio in cui Sergij possa sperare. Come in Dostoevskij, proprio la “bassezza” della donna, l’infinita capacità di utilizzare le sofferenze e le umiliazioni della vita come trampolino per raggiungere la “mitezza” è la premessa per il suo ruolo “alto”, tipicamente dostoevskiano. Come in Dostoevskij, Paôsen’ka non ha attributi femminili, ma, figura sessualmente neutra, as14

Mutatis mutandis, Alla Demidova può essere paragonata alla Anna Magnani del nostro cinema.

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surge ad emblema della madre Russia. Come per Dostoevskij, la “soluzione” ha funzione ideologica, non estetica. Dopo tante emozioni inattese, il lettore si ritrova quindi ad una ennesima lezione di “catechismo tolstojano”.15 Protazanov aveva eliminato l’epilogo semplicemente perché poco “cinematografico” (in un film muto era di fatto irrealizzabile, in quanto statico e incentrato su dialoghi e monologhi). Per quanto riguarda il film dei Taviani, invece, secondo le parole di Paolo, l’episodio non aveva convinto i registi (così come non convinceva Tolstoj stesso) in quanto “estraneo” alla storia del racconto. Paradossalmente Talankin, che mantiene in tutto il film la cupezza tolstojana, stabilisce che è la storia ad essere un pretesto per lo sforzo dello scrittore di andare oltre padre Sergij, di guardare al di là della propria disperazione. I Taviani, invece, guardando solo alla storia, la rileggono in chiave ideologica anti-tolstojana. Nel film Il sole anche di notte, si potrebbe dire, i registi – senza rendersene conto – hanno tentato di scorporare il Tolstoj artista dal “predicatore russo”, dal Tolstoj-mito. Questa operazione di rottura con la ricezione russa è avvenuta in modo straniato (ingenuo). Ma, come si è detto, la violazione del canone, che nella creazione artistica può essere non solo legittima, ma anche necessaria, funziona in modo inverso a seconda che chi la opera abbia familiarità con il canone che infrange. L’inconsapevolezza di un interprete non preclude la ricezione estetica di un’opera, ma interagisce sull’intreccio delle funzioni testuali. Se l’operazione fosse stata consapevole, questo ribaltamento interpretativo avrebbe acquisito una rilevanza critica straordinaria. Si ha invece l’impressione che le soluzioni estetiche del Sole anche di notte restino fuori dal gioco espressivo, che siano finalizzate a se stesse, che si limitino a “mostrare” più di quanto vogliano interpretare. Il film italiano, direbbe Lotman, si occupa più del “che cos’è?” (testo non artistico, denotazione) che non del “come mai è accaduto?” (testo artistico, connotazione = narrazione) (1979: 87). Anche assumendo una posizione meno rigida, la coraggiosa 15 Anninskij è mosso dall’ideologia a vedere nell’opera di Talankin un’ulteriore misinterpretazione di Tosltoj: gli sembra che Dio sia presentato come una sorta di domovoj (di lare) che si nasconde a padre Sergij; nel Dio nascosto di Talankin allo studioso non pare possa riconoscersi la vera e propria possibilità della Sua (obbligatoria) non-esistenza (cfr. 1980: 261). Inoltre, nel film di Talankin, Anninskij non ritrova la ‘grandezza’ tolstojana del dramma spirituale che sarebbe insito e vincolato all’opera scritta, alle parole e alle frasi di Tolstoj che descrivono un circolo vizioso in cui la sottomissione si trasforma in superbia. Mancherebbe al film di Talankin la ‘grandezza’ della russa tragicità tolstojana, così lontana dalla tragicità ‘esaltata’ (sovieticamente inaccettabile) di Shakespeare (ivi: 266). Sul film di Talankin si chiude il lungo studio di Anninskij, lasciando la curiosità di sapere cosa lo studioso avrebbe scritto oggi, meno condizionatamente, del film dei Taviani.

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traduzione interculturale di Paolo e Vittorio Taviani lascia perplessi proprio per questa evidente ingenuità interpretativa. La tragedia di Padre Sergio viene letta come una commedia pirandelliana, in cui il caustico sarcasmo di Tolstoj si trasforma in umorismo, in un atteggiamento (per usare la definizione dello stesso Pirandello), che è assolutamente estraneo tanto al Tolstoj artista, quanto al Tolstoj ‘predicatore’. In questa sfasatura, la fabula e il suo ‘montaggio’ non c’entrano. Non è una questione di espedienti retorici, ma di due inconciliabili visioni del mondo: quella russa da un lato, quella occidentale dall’altro. Non a caso i Taviani aprono il film con una panoramica mediterranea, un albero in fiore e il piccolo Sergio, solo e sorridente, che parla fiducioso con Dio, mentre Talankin apre con una buia scena corale, Sergij settantenne e il monologo di un muôzik contro Dio. Per questo, il film italiano è ‘benevolo’, solare, tutto sommato confortante. Mentre Tolstoj, rompendo con il suo stesso canone si faceva cupo, spietato, sconfortante. Per questo i Taviani, leggendo una tragedia riescono a trasformarla nel sole anche di notte, mentre Talankin – alla ricerca del “raggio di sole” – ci racconta con Tolstoj “il buio anche di giorno”. Riferimenti bibliografici: AA.VV. (1980). Film URSS ‘70. La critica sovietica. vol. I. Venezia: Marsilio. AA.VV. (1980). Film URSS ‘70. Materiali critici e informativi. vol. II. Venezia: Marsilio. Anninskij, L.A. (1980). Lev Tolstoj i kinematograf. Moskva: Iskusstvo. Eco, Umberto (1995a). I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani (1990). Eco, Umberto (1995b). Interpretazione e sovrainterpretazione. Milano: Bompiani (1992). Fradkin, L.Z. (1962). Ekranizacija russkogo klassiôceskogo romana. vyp.I. Moskva: VGIK. Fradkin, L.Z. (1971). Ekranizacija russkogo klassiôceskogo romana i problemy montaôza. vyp.II. Moskva: VGIK. Girard, René (1981). Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita. Milano: Bompiani (1961). Karskij, Giorgio (a cura di) (1987). I formalisti russi nel cinema. Milano: Garzanti (1971; i testi sono tradotti dal russo dal curatore). Lotman, Jurij (1979). Introduzione alla semiotica del cinema. Roma: Officina Edizioni (raccolta di saggi pubblicati nel 1972, 1977, 1978). ô Salmon Kovarski, L. (1996). ‘Oci ciornie: da Cekov allo schermo’. G.E. Bussi e L. Salmon Kovarski (a cura di), Letteratura e Cinema, la trasposizione. Bologna: CLUEB. ‹klovskij, Viktor (1987a). “Letteratura e cinema”. In Giorgio Karskij (a cura di). I formalisti russi nel cinema. Milano: Garzanti, 1987 (1923), 99-144. ‹klovskij, Viktor (1987b). “La poesia e la prosa del cinema”. In Giorgio Karskij

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Filmografia Otec Sergij (Repubblica Socialista Russa), 1918. Regia di Jakov Protazanov, con Ivan Mozôzuchin e Ol’ga Kondorova. Otec Sergij (URSS), 1978. Regia di Igor’ Talankin, con Sergij Bondarôcuk, Alla Demidova. Il sole anche di notte (Italia/Francia), 1990. Regia di Paolo e Vittorio Taviani, con Julian Sands, Nastassia Kinski, Massimo Bonetti, Charlotte Gainsbourg.

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Due immagini del film “Il sole anche di notte” dei fratelli Taviani: Julian Sands, nei panni di Sergio, con Nastassia Kinski (in alto) e con Charlotte Gainsbourg.

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Introduction This paper is an attempt to find a way of mapping the relationship which results from the process of adapting plays, books and films into further plays, books, and films. The purpose of this enquiry is to advance, albeit tentatively at this stage, the notion that studies of adaptation have a legitimate place in communications research. A place that can only be justified if the process of mapping goes beyond the stage of what Rosengren calls ‘informal analogies or metaphors.’ (Rosengren 1995: 11) Furthermore, if the mapping is to be non-trivial ‘we may perhaps judge of the importance of [the] advance … in terms of the change which this advance compels the neighbouring sciences to make in their methods and in their thinking.’ (Bateson 1960b: 215) The fields which initially seem to me to be susceptible to some influence through this process of adaptation mapping are epistemology, aesthetics and semiotics. When a book or play is adapted for radio or film we see a process of restructuring that might be compared with the phenomena of evolutionary adaptation. What is particularly interesting about this type of evolution in the field of fictions is that it is essentially a cognitive exploration. Changes can be effected by reasons, among others, of historical time, or cultural transposition or psychological difference. The explication of such factors that bring about changes in patterns of thinking allows us to investigate the adequacy of theoretical positions. If the mapping process is precise we have a means of contributing usefully to the critical endeavour in the sciences initiated by Kuhn.1 1 Kuhn T. The Structure of Scientific Revolutions. 1962. In this work Kuhn identifies the basic conservation of scientific theory that slows down even prevents innovation if it goes against the accepted ‘paradigm’.

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Aesthetics has fallen out of favour in relation to literature in English Universities, having been superseded by critical theory. In relation to film there is a dichotomy between the development of a critical theory approach derived from literary study and a practical approach derived from film-making concerning the effects of specific techniques. In neither study does aesthetics get more than a perfunctory acknowledgement. But there are signs of change: the notion of jouissance in Barthes and the carnivalesque in Bakhtin pressage a renewal of interest in the sheer exuberance of beauty that was traditionally central to our relation with art. Philosophically the terms of aesthetic discussion in the twentieth century can be traced, in general, back to Santayana’s late nineteenth century work The Sense of Beauty. Santayana delineates three areas as crucial to aesthetic experience: it can be defined as consisting of sensuous stuff, form and association. While all three areas have been radicalised in artistic practice since the nineteenth century, (a radicalisation exemplified by Picasso’s presentation of a gas ring standing on its input tube) the centrality of Santyana’s categories for aesthetic discussion remain. However it is particularly in the areas of form and association that I see adaptation theory making its contribution, a contribution all the more effective since association has been subsumed and elaborated by intertextuality. The notion that it is not authors who write books but books that write books has a poetic and persuasive presence both as an idea and as an image. The library in Umberto Eco’s Name of the Rose, where the books endlessly murmur to each other, still whispers to us long after we have finished reading. However, potent as the idea is, it lacks both precision and rigour: it is a series of empirical generalisations awaiting formal shape. A theory of adaptation might be expected to contribute to that shaping by its handling of one specific area and type of intertextuality. Another field, and perhaps the most significant one, to which a mapping of adaptations might contribute is semiotics/semiology (hereafter semiotics), the study of the meaning of signs. Saussure saw semiotics as the superordinate study embracing all meaning systems including language, number, non-verbal systems and so on. Adaptations not only include transformations of medium, but of culture, of time, and of evolution. They are concerned with the potential of signs to change and to reconstruct their meanings in new contexts. Approaching a Cartography of Adaptation Interest in adaptation is not new. Whenever a new means of communication, such as radio or film, comes into being its main source of material is

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what already exists and is popular. At first the degree of adaptation is minimal, consonant with the medium and attention span of the receivers. Soon new possibilities for the medium are realised and the adaptation becomes “a metaphor for the [original] rather than a transcription.” (Garvey 1982: x) A. Nicholas Vardac’s masterly history of the contribution of theatre to early cinema, Stage to Screen, sees film as fulfilling so much that theatre was trying to achieve – it is as if film was demanded by theatre. “The cinema, by doing so much better the selfsame things which had been the aim and objective of the popular nineteenth century theatre, became the most widely patronised and effective art force in the world.” (Vardac [1949] 1987: 251) The epic subject matter can be seen as inherited from the melodrama, “The cinema, to be sure, did extend its length and did carry it into a higher plane” (ibid: 251) but essentially it is the continuation of the spectacular. On seeing Cabiria the American W. P. Eaton ‘wailed’ that “not even on the Hippodrome stage could such an effect be achieved.” (ibid: 251) Vardac’s book, first published in 1949, is about the American situation only quoting such European films, like the early Italian spectaculars, as support his account of the American experience. Interestingly Eisenstein in 1926 acknowledges “cinema is the contemporary stage of theatre. The next, consecutive phase.” (trans. Taylor 1997: 82) Towards the end of the article he writes more emphatically “There’s no point in perfecting the wooden plough. The tractor has been invented.” (ibid 1997: 84) He sees cinema as both inheritor of theatre but also a major point in its evolution. Another important source of adaptations which has remained significant since cinema’s early days is the novel. Itself a recent form, often seen as accompanying the rise of capitalism, it provided material for theatre and continues to do so for film.2 Again, Eisenstein seems to see the novel as on the way to film “Fedorchenko and Joyce are very close to contemporary cinema. Certainly more than half way to what lay ahead.” (ibid: 96) But there is something more to the novel – it acts for Eisenstein as a source of inspiration: Before each new project I reread the appropriate volume of his works. Before The Strike: Germinal. Before The General Line: Earth. Before October: The Debâcle for the attack of 18 June 1917 and The Happiness of Women for the rape … of the Winter Palace … (his pages [Zola’s] read like complete cue sheets). (ibid: 276) 2

A good example of a novel leading to a proliferation of adaptations is A Christmas Carol, discussed in the present volume.

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Some five years later in Cinema and the Classics which still acknowledges the importance for film makers of the classics he is more precise as to the relationship “We must interpret their signs and observe how a particular element should develop into a new one, passing through different stages in time and class” (ibid: 276). Literature is a spawning ground for film but successful gestation demands appropriate selection and transformation.3 A clue to the development of adaptation studies lies in Eisenstein’s statement “we must interpret their signs.” This is the approach taken by McFarlane who proposes a theory that will advance and unify the field of adaptation. Central to his theory is the use of Barthes codes, a system which has proved so productive in the investigation of literary texts. Barthes’ own deployment of the codes, for example in S/Z sheds light on the possibilities of interpretation. The problem for followers is that the various codes do not have specific surface realisations – their identification is subject to the vagaries of the interpreter. As Barthes himself expresses it the divisions of the text “will imply no methodological responsibility.” In the hands of Barthes there is an appearance of inevitability, but to lesser sensibilities there is the ever present problem of misidentification. If a theory of adaptation is to be coherent and workable it must have agreed units of structure, rules of combination, hierarchies of ordering, and a method for handling transformations between different media. Rather than having the temerity to propose a theory that fulfils all these conditions I am suggesting a way of mapping some central features which might carry forward the invaluable discussions that have been pursued in the past, notably the work of the University of Bologna’s School for Interpreters and Translators at Forlì. With Theodolite and Line The cartographer has to have his tools if he is to fulfil his task of turning landscapes into mathematical shapes, of turning the poetry of the world into a geometric analogue with practical implications and applications. Saussure foresaw “A science that studies the life of signs within society”(trans. Baskin 1966: 16) and although he could not say what it would be like, “since the science does not yet exist” (ibid: 16), he states that “lan3

A sensitive close study of the contribution of Joyce’s The Dead to Rossellini’s ‘Viaggio in Italia’ elucidating how ‘particular elements[s]... develop’ can be found in G. Elisa Bussi “From ‘The Dead’ to ‘Viaggio in Italia’. Joyce’s story into Rossellini’s picture?” in Letteratura e Cinema La Trasposizione (a cura di) G. Elisa Bussi and Laura Salmon Kovarski, Bologna, CLUEB, 1996.

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guage, better than anything else, offers a basis for understanding the semiological problem.” (ibid: 16) There is some argument among semioticians and linguists as to which is the superordinate, language or semiotics, but agreement that the study of language is crucial to the semiotic endeavour. In a closely argued article Elisa Bussi suggests that We can and do match items from different systems all the time, items definable as equivalent in that they occupy the same position within their respective systems. The verbal code may offer the starting point. (Bussi 1997: 204)

This stance unequivocally aligns itself with the tradition of seeing film as language-like, not simply in a metaphorical sense but in the sense of being open to a grammatical analysis like language. The problem is in finding the right kind of grammar. Christian Metz in Film Language (translation 1974) attempted to apply Saussure’s ideas on language to film. Influenced by André Martinet, a structuralist, he developed what is called the grande syntagmatique. In his system segments of narrative are identified, classified, and rules written describing their linkage into longer sequences called syntagmas. Criticism of his system centres on indeterminacy, “the syntagmas appear to be clearly defined, in practice they are difficult to identify.” (Johnston 1985: 229) The syntagma are difficult to identify because, while being partly identified within the language system, they are also the object of study, lying outside the system. Put another way by John M. Carroll, Metz, Pasolini and Sperber all “apparently confuse the theoretical claim that film is a language with the methodological assumption that film can be studied as language.” (Carroll 1980: 45) The problem arises at source with Saussure for whom “Linguistics then works in the borderland where the elements of sound and thought combine; their combination produces a form, not a substance.” (Saussure op. cit.: 113) “The realms of speech-sound and of meaning are inherently formless, unstructured; a given language imposes a particular structure on each.” (Sampson 1980: 66) By treating film as susceptible to the same kind of analysis as the class of objects called languages is not the same as saying films belong to the same class of objects as languages. Logically Russell’s theory of class membership needs applying to the field of semiotic and language codes but in the meantime pragmatically we can go forward on the basis of Bussi’s contention quoted above ‘The verbal code may offer the starting point’. The second major problem arises from the notion put forward by Saussure that linguistics is somehow the study of form not substance. Since the manifestation of our objects of study is always substance, a signifying system, we have an obligation to identify a rule-based relationship between form and its concommitant substance.

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Hjelmslev underlines the ambivalence of Saussure’s position with his assertion that we can interpret as both true and ridiculous that “in the past there may well have existed languages that never had any speakers”. (Sampson op. cit.: 166)4 Form may well have cognitive potential that could lead to language, like Lenneberg’s example of the potential of mosquito larvae, but without the actualisation conditions of the right environment no mosquitoes and no language. So while supporting the correctness of Saussure’s division of form and substance he reformulates the relations between them. “It becomes precisely clear that the substance depends on the form to such a degree [that it] can in no sense be said to have independent existence.” (quoted De Beaugrande 1991: 131) The two are inextricably linked but the phrasing still allots priority to form which gives substance its shape. Sampson takes this argument about the relations between form and substance a step further. He concludes his chapter on relational grammar with the proposition “linguistic substance largely determines linguistic form, our languages are the way they are in large part because they are spoken.” (Sampson 1980: 186) Sampson’s point is a generalised one but he is emphasising the contingent necessity of the organs of speech, a contingency that in the case of film would be matched by the technology of film-making. A failure to consider such features of substance would force us to consider only the logic of signifying systems which so far has been a ‘sterile’ failure. Although Hjelmlsev himself maintained that “linguistic theory starts from the text as its datum [and] object of interest” (De Beaugrande 1991: 134) his linguistic investigations are not supported by any extensive applications to real language examples. The main proponent of Hjelmslev’s glossematics5 is Sydney Lamb whose development and applications is called relational or stratificational theory (hereafter stratificational). It is due to his influence that the theory has found the applications that it has, leading Sampson to describe it as “the most highly developed theory known to me of communicational descriptions of language.” (Sampson 1974: 250) It is significant that Lamb’s major development of the theory was between 1958-64 when he was directing the Machine Translation Project at Berkley, a task demanding primary concentration on the communicative aspects of the text. Further stratificational descriptions have been applied to areas of non-linguistic communication as various as Base4 It is only fair to acknowledge that Sampson does not interpret this statement as I have chosen to, he believes it was made “with no suggestion of deliberate paradox.” (Sampson 1980: 168) 5 The term was chosen by Hjelmslev deriving from ‘glossa’ meaning language.

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ball, Plains Indian Sign Language, and Classical East Indian Dance Gestures. So going back to the problem of which grammar to choose posed at the beginning of this section I have arrived at an answer, stratificational grammar. The task of the next section is to identify and define which aspects of the grammar are likely to be most useful for descriptive and analytical purposes. Mapping the Territory A play, novel, or fiction film have in common that they are communications, they are tales told. In stratificational terms they are the realisation of patterns of relationships through various strata whose outcome is either an element of text or a complete text. Viewed diagrammatically we have: 6

A

B

C

D

I content substance content II content form Text III expression substance expression IV expression form realisation (text or element of text)

Substance represents concrete but formless, existing ‘things’. So content substance consists of anything which may be thought to exist inde6 Hjelmslev has III and IV inverted so putting content form and expression form together as being the strata of linguistic interest with content substance and expression substance as the ‘real world’ manifestations. Since I am interested in relating form and substance more closely with an instrumental view of expression form (i.e. type of lens, speech organs, printed page, etc.) I want to emphasize the strata as leading to the realization of a communicative artefact.

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pendently of language. Expression substance represents the materials out of which codes are constructed, so speech sounds, marks anterior to writing systems and pictures would be the formless raw materials out of which codes can be constructed. Form is the relationship between formless ‘things’ which defines their meaning, so content form is the distinction between ideas or concepts or objects which delineates them, making them not something else. As Pierce wrote “if all the world was red then red would not exist”. Expression form is the relationship between speech sounds, or pictures, or any other system out of which specific codes or languages are constructed. We are familiar with the normal range of phonemes that constitute most European languages though they differ to some extent, we are less familiar with the clicks and implosives sometimes found in exotic languages but can place their phonetic value once they are identified for us. Column D represents the realisation either of the complete text, play, novel or fiction film, or the realisation of any UNIT which goes to make up the text. In language the units have common currency whether phoneme, word or sentence, but with film we shall have to give definitions of the units to be deployed that are as clear and unambiguous as possible. The core of the grammar is the description of the relationship of the content strata to the expression strata. But we also have the relationships within the strata of the sub-strata levels of content substance and form and expression substance and form: substance content form substance expression form

While the relationship between content and expression seems reasonably coherent and defensible the sub-strata level of content substance and content form is far more problematic. What, for example, is content substance? Both Saussure and Chomsky defer the issue, and although Hjelmslev recognises that it cannot be deferred without creating more problems, the nature of his solution is not clear. While ‘things’ exist prior to language it is only with language or some other code of identification

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that we can, in our analysis, identify them as content substance. 7 However by emphasising inter-strata relations and being more cautious about intrastrata relations it is possible to make progress. There are two key relations between strata called REALISATIONS. These are the AND relationship together with the OR relationship. These relationships can work downwards from content → expression or upwards from expression → content.

content

downwards

upwards

undergo

go past

e.g. AND relationship: expression

under

went

go

upwards

downwards throw

content

throw

e.g. OR relationship:

expression

fling

cast

Allocate roles in play/film

cast

In other words in the AND relation the single notion undergo is realised by two separate expressions under and go, while the expression went is the realisation of two notions go and past. In the OR relation the notion throw can be realised either by the expression fling or the expression cast. Alternatively the expression cast can realise the content of throw or the content of allocate role in play or film. Finally, in endeavouring to trace a single word through both inter- and intra-strata levels we might have:

7

An interesting extract that engages with this problem is Kristeva, J. ‘Is Sensation a Language?’ Writing and Psychoanalysis. Lechte, J. (Ed.) (1995). London: E. Arnold.

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content substance

the natural process of vegetative growth

content form

grow

expression substance

vegetate

sprout

etc.

g r o u

expression form voiced

velar plosive

The obvious problem is that ‘grow’ is only the content form by a stretch of imagination because it is, more reasonably, the expressive realisation of a content namely ‘the natural process of vegetative growth’. Still, by treating it as expressive realisation it does preserve the distinction between this form of grow and other forms such as ‘to grow wealthy’ or the wonderfully bizarre ‘to grow smaller’. Again the description of the expression substance by the phonetic transcription ‘grou’ is usefully distinct from the expression form ‘voiced, velar, plosive’ but equally one might describe ‘grow’ as the content and the description of the articulation as the expression. For the purposes of the article I shall concentrate on the inter-strata levels but where it seems analytically useful I will try to make use of the intrastrata levels of both content and expression. Finally we need a means of ‘chunking’ film into definable elements that are equivalent to omit units used in linguistic analysis. My first thought was to deploy the units being developed by linguists in conversation analysis developing out of the work of Sinclair and Coulthard. But as yet a good deal of controversy surrounds them and the message their use might give could suggest that language has primacy, whereas my belief is that picture has absolute primacy in film. 8 The system 8 Gillo Pontecorvo has argued that music, at times, directs/takes over our response rather than the visual. While the force of his argument as a supreme practitioner, who wrote his own film scores, is persuasive, I am tempted to suggest that the visual gives way to music for its own ends rather than music taking over. In evidence I would quote Hangover Square.

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I have chosen to use is that presented by the guru of Hollywood, screen writer Bob McKee, whose system is both practical and derived from various technical and theoretical sources: BEAT:

Smallest element of structure, a Beat is an exchange of behaviour in the form of action/reaction

SCENE:

an action through conflict in more or less continuous time and space that turns the value-charged condition of a character’s life on at least one value with a degree of perceptible significance.

SEQUENCE:

a series of scenes – generally two to five – that culminates with greater impact than any previous scene.

ACT:

a series of sequences that peaks in a climactic scene which carries a major reversal of values. (McKee 1997: 35-41)

There are problems with McKee’s divisions hinging on the definitions at each level. But the big advantage of the system is that by focusing on the substance of the film it allows us to bring into consideration the various channels of communication used and commenting on their effectiveness in supporting the visual channel. Mapping the Postman’s Route Any text that has had re-tellings would serve as an example. The attraction of James M. Cain’s The Postman Always Rings Twice is that the book appeared in America in 1934 whereas it’s first re-tellings appeared in Europe. The first film adaptation entitled Le Dernier Tournant, was in France in 1939, directed by Pierre Chenal a founding figure of French noir. The next adaptation, also in Europe, was Luchino Visconti’s 1942 Ossessione. It was not until the third adaptation in 1946 that we have an American version directed by Tay Garnett and called after the book The Postman Always Rings Twice, which was also the title of Bob Rafelson’s remake in 1981. By choosing the book, Visconti’s and Garnett’s versions we have film adaptations from Europe and America made within four years of each other. This provides not only the chance to go from book to film but also the opportunity to consider the influence of historical and cultural differences. Cain’s original ‘hard-boiled’ novel concerns the passion of a depression era hobo Frank for Cora the wife of Nick who runs a roadside diner. The lovers murder Nick and become embroiled with law whose cunning and articulacy confuse and outwit them at every turn. Struggling through

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guilt and misapprehension passion becomes love, only for Cora, with tragic irony, to be killed in an accident that mirrors Nick’s murder and causes Frank to be executed. Visconti’s film following the same narrative development is set in the Ferrarese delta in a rural community. The neo-realistic style of the film explores the eruption of passion between the itinerant Gino and Giovanna wife of the owner of the trattoria Bragana. Forces of choice and chance bring about the murder of the husband. After the murder Gino becomes lethargic with a guilt that is eventually washed away one night when he surrenders himself to the indeterminate margins of the river, leaving both lovers free to love. Together they set out for a new start only for the tragic irony of Giovanna’s death in an accident similar to her husband’s to point an accusatory finger at Gino. In contrast Garnett’s film has two major stars John Garfield and Lana Turner leading a cast of very well know actors. The calculated erotic image of Turner combined with the evasions consequent on the laws of censorship never allow a fully satisfactory image of passion to develop. The murder and subsequent machinations of the law render Frank impotent, an impotence turning to love in line with the plot rather than with any internal logic. The irony of Cora’s death and of Frank’s imminent execution is rescued by Garfield’s performance in the death cell which shows a naive man enhanced to tragic stature by his experience of love. As we see all three versions share three events, an illicit love affair, the murder of the husband and the punishment of the lovers. They also share a world-of-the-story, namely a road-side petrol and refreshment place. But this similarity conceals differences. In his preface to Double Indemnity Cain explained what he was trying to achieve in his writing, how the content was to be shaped even “invented” by the “logos of the American countryside”. He was trying to give voice to what William Carlos Williams called the “loose dissociated (linguistically) yawping speakers of a new language”. As Cain himself puts it: I make no conscious effort to be tough, or hard-boiled, or grim or any of the things I am usually called. I merely try to write as the character would write, and I never forget that the average man, from the fields, the streets, the bars, the offices and even the gutters of his country, has acquired a vividness of speech that goes beyond anything I could invent, and that if I stick to this heritage, this logos of the American countryside, I shall attain a maximum of effectiveness with very little effort. (quoted Bloom, C. 1996: 80)

Taking the book as a whole I would suggest that the Content Substance concerns the workings of restricted choice and chance in the lives of ‘average’ people, the Content Form is a tale of illicit love, murder and retribution. The Expression Substance is the nature of the language both spo-

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ken and written and the Expression Form is the written text of the book. What gives the book its power is the way use of language plays its part in creating situations. Frank Chambers and Cora fall in love and want to be together even if it means murder. Their first attempt is foiled by the combination of their incompetence and chance, their second attempt is successful. Even though they ostensibly get away with the murder, tension is created between them and they fall out. The source and visible, manifestation of their turning against each other is the complaint that Frank signs against Cora, followed by her signed confession. Both these documents are inveigled out of them by their sense of inferiority and incompetence confronted by the language of officialdom. Frank is pressed by District Attorney Sackett who is in every way linguistically more adequate than Frank and whom Frank insistently calls Judge. Cora is out manoeuvred by her lawyer Katz, once she realises Frank has signed the complaint. Together Frank and Cora have the physical power to love, to murder and, when Cora becomes pregnant, to live with themselves – “we took a life, didn’t we? And now we’re going to give one back.” (Cain 1934: 117) But their inadequacy with spoken language and sense of awe confronted with written language serves to oppress and limit them: an oppression that is finally thrown off as Frank himself writes out his account of their love, the murder and asks for forgiveness. “If you’ve got this far, send up one for me, and Cora, and make it that we’re together, wherever it is”, (Cain: 124) which of course they are in the narrator’s hard earned literacy. Luchino Visconti in Anthropomorphic Cinema writes, “the most humble gesture of a man, his face, his hesitation and his impulses, impart poetry and life to the things which surround him and to the setting in which they take place.” (quoted Bondanela 1990: 26) The emphasis is on the power form has to give life to substance, surroundings, and settings; the property of gesture, whether human or camera, is to reveal the individuality and vitality implicit in that world. Where Cain emphasises the power of his medium to make meanings, Visconti is emphasising the power of his medium to reveal meanings: the film-makers’ motto “show, don’t tell.” When Visconti comes to The Postman Always Rings Twice he eliminates the bungled murder attempt just retaining the murder itself. In this way the story has a simpler structure, reinforcing the illicit love, murder and retribution phases.9 Where Cain emphasises the transient nature of the setting – Papadakis is an immigrant providing for a passing trade – in Visconti’s version Bragana is a man indigenous to the area providing for a 9 My regrettable lack of Italian does not allow me to comment on the use, or otherwise, of accent and dialect in the film, as complementary to the visual and to the theme of linguistic incompetence in the book.

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regular clientele of locals as well as passing drivers. This allows Visconti to explore the geography, customs and characters of the Ferrarese delta giving a rich texture within which the love of Gino and Giovanna takes on a mythic structure of fate, transgression and retribution. Analysing the film according to the schema outlined the Content Substance is the conflict between change and stasis. The Content Form is the illicit love of Gino and Giovanna embodying the wife’s desire for change. Gino does not want love to bring about change, in his own way he is as fixed as Bragana. For Giovanna love is change, but she also wants to hold on to what she has. This leads to conflicting approaches to the murder and its aftermath – interestingly this transgressive act takes place off screen. The Expression Substance is the ‘weighting’ and value of long shots, medium shots and close ups as well as camera movement, the Expression Form is the filmic text. The film opens with a shot through the front windscreen of the lorry that shows a long dusty road running alongside the river. It is held for one minute thirty seconds (approx.) while the credits roll, the next shot is the lorry stopped by the Trattoria which in the following shots we see lies in a dip down from the road, isolated. The road which borders the river serves also as a protective dyke shielding the inn from the indeterminacy of the river, from change. At the end of the film we have a close-up this time through the cab windscreen looking at Gino and Giovanna, through the rear window of the cab we see the same road stretching behind. This time the shot of the road is interspersed with shots of the police in pursuit and the lorry in front slowing them down. Giovanna has changed, she has left the inn which represented her security and with Gino’s baby inside her has set off on her journey. Gino too has changed, after a night wandering along the reaches of the changing river he has admitted his love for Giovanna which means accepting the ties and responsibilities of intimacy. But the movement which has led to change, the overcoming of stasis represented by Bragana’s traditional ways, has been achieved at the fatal price of transgression – the murder of Bragana. The final move of the film, ironically, echoes the murder. The van is tumbled off the road into the river. Retribution might be complete but the poetry of understanding flowing through the film enhances the lives of all three. Tay Garnett was a journeyman Hollywood director with a career running from title writing for Hal Roach in silent screen days through directing films and on to directing television series such as Rawhide, Gunsmoke and Bonanza. In his autobiographical memoir, written with Fredda Dudley Balling called Light Your Torches and Pull Up Your Tights he prides himself on his ability to bring in pictures on or under time and on or under budget: a robust and good natured professional. As he says “my intent,

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like that of the theatre since time began, had been to provide an escape from boredom and drudgery, and to give the Good Guys a victory over the Bad Guys.” (Garnett 1973: 24) Garnett uses the book’s narrative as the Content Substance – illicit passion, murder of husband and final retribution. But even in retaining the basic narrative important contextual changes occur which weaken the resonance of the original novel. Nick Papadakis becomes Nick Smith and whilst still an immigrant he is what is termed an ‘invisible’ immigrant, coming from Canada. Instead of being an older man, he is an old man, making of the marriage a rather odd misalliance. Cora herself is more interested in upward mobility, the lunch-room is not just a refuge but also a means of getting on. Frank tells us he has itchy feet, several times, but there is little evidence of it in the film, rather he is someone who just has not yet settled down. The Content Form plays out the narrative in the ever present shadow of society, represented by the appearance of district attorney Sackett at key points in the narrative. He is present at the very beginning, giving Frank a lift, his is the car that stops after the murder, and he comes with Keats (name changed from Katz) when Frank and Cora are living under the same roof running the road-house, all this in addition to his role before during and after the trial. The Expression Substance is a somewhat ambivalent entity that very self-consciously invokes the original novel constraining the film-adaptation. The first image in the film shows a copy of the book, with the introductory title sequence being played on top of it. Our next image is of the written notice MAN WANTED which is an effective introduction to the situation and has a nice irony to it, but it reinforces our sense that the movie is informing us about something and the film is merely a device for doing it. As a result the Expression Form is a film that too often becomes simply a channel for those monologues, dialogues, and written texts that are the essence of the book. Unfortunately on film that essence is lost, without being read the information conveyed exists merely to tell the story and loses its self-reflective quality. The film is dominated by static midshots which show the star principals to good effect, but vitiate the interactive possibilities of the scenes. As regards tension the film is an effective thriller machine. The two representatives of the law, Sackett and Keats, are played into the narrative at major points, a constant reminder that the murder is a puzzle to be unravelled. Even their rivalry has something of a game about it which, with the limited filmic expression, makes the star protagonists little more than decorative plot devices. If stratification is to be a useful mapping device it must be able to han-

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dle the text at all levels, from phoneme to text, from shot to film. Absent and invented episodes will also have to be accounted for at some level in the description but for the moment I want to consider an episode that is present in all three versions – the sequence where Frank and Cora leave the road-house, ostensibly going away to start a new life. In Cain’s novel Nick spends a week in hospital after the farcical attempted murder. Frank and Cora get to live together and the nature of their relationship deepens, “I got to sleep with him, ‘stead of you”. (Cain: 33) Frank decides they are going to go away, and this time Cora agrees. FRANK CORA FRANK CORA FRANK

Just you and me and the road, Cora. Just you and me and the road. Just a couple of tramps Just a couple of gypsies we’ll be together. That’s it. We’ll be together. (Cain: 33)

Referring the episode back to our original analysis the CONTENT SUBSTANCE refers to a choice being made in the FORM of an agreement to go away together. The EXPRESSION SUBSTANCE is a dialogue between them which the FORM makes clear is more ambivalent than it seems. Cora simply echoes Frank as a way out of a situation she does not want to face. She is taking on his dialogue, in the second exchange turning his word ‘tramps’ into the rather more romantic ‘gypsies’. Finally, he ignores her augmentation ‘gypsies’ but repeats her words “We’ll be together.” This insecure basis for the decision is reinforced when we learn that Frank has only the suit he has bought while Cora has a packed hatbox and expects to take the car. She put her things in a hatbox. When she got down with it, she handed it to me. ‘Put that in the car, will you?’ ‘The car?’ ‘Aren’t we taking the car?’ ‘Not unless you want to spend the first night in jail, we’re not. Stealing a man’s wife, that’s nothing, but stealing his car, that’s larceny.’ ‘Oh!’ (Cain: 33)

Even the way Cora is dressed is totally unsuitable for the road, the “little blue suit and blue hat” is her view of what she wants, not the reality of what is. They only get a quarter of a mile without a lift before she gives up and starts back. The pull of the material past is too strong for Cora, she can echo Frank’s language but not his lifestyle, the romantic poverty he offers does not fulfil her desire for stability. Taking the same sequence in the Visconti we see it as a reaction to Cora’s unbearable life with Bragana not as in the novel a reaction to Nick’s homecoming.

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1.

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Breaking the sequence into beats. we have a long shot with Giovanna and Gino coming towards the camera, along the road. ACTION: Gino is walking ahead, on his own, playing the harmonica. REACTION: Giovanna calls to him, he stops and turns. She says she cannot go any further.

2.

ACTION: Gino says they will get a lift. REACTION: Giovanna says that she is not tired.

3.

ACTION: Gino reminds her that she agreed last night. He moves off and is on screen in mid-shot on his own playing his harmonica again. REACTION: camera moves back to Giovanna who sits by the road.

4.

Both in shot. Gino comes back. ACTION: Giovanna says she was not made to tramp about like him. REACTION: He sits beside her, we see farm people winnowing corn in the background as in a mediaeval painting

5.

ACTION: The conventional life has too much pull for her REACTION: He gets up and walks off without looking back, or heeding her cries.

If we go back to our original schema the sequence is about change versus stasis. Gino is on the move, he stops to persuade her, cannot and then moves off. What Giovanna is trying to achieve is change, she is looking for change that will bring freedom from Bragana, but adding intimacy to security. At this stage all Gino has to offer is freedom from Bragana – the long shots show separation between Gino and Giovanna, even the shots of them together are without intimacy. The open road is without security and without the intimacy that Giovanna craves as the accompanying manifestation of love. In Garnett’s version the sequence starts with the note Cora writes to Nick 1.

ACTION: note: ‘I’m going away with Frank – I love him.’ Cora, dressed up, complete with two suitcases, they leave the roadhouse. REACTION: While trying to hitch a lift a car pushes Cora off the road. Her white clothes are getting dirty, she steps in a patch of oil.

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2.

ACTION: Frank encourages her, puts a suitcase down for her to sit on. REACTION: They sit together in mid-shot but apart from each other. Cora starts to complain that she will be left with nothing. She wants to be somebody and for Frank to be somebody.

3.

ACTION: She gets up and moves out of frame. We next see them walking back to the roadhouse, Cora is smiling in triumph. REACTION: She suddenly remembers the note and orders Frank to stop a bus, she must get back before Nick.

4.

ACTION: They arrive and she runs to the security of the roadhouse, to retrieve the note. REACTION: Frank follows disconsolately, Cora has the upper hand.

The development of the sequence is about Cora’s struggle to gain the upper hand – to hold on to the security she has, and to hold on to Frank as well. She starts out as if going on her honeymoon, smartly dressed in white and with Frank carrying two suitcases. Trying to hitch a lift or “begging for a ride” as Cora puts it, brings about a rapid deterioration in her mood and in her clothes. As she openly admits, she wants to be somebody and that in her mind means having material possessions, she wants Frank with his intelligence to want the same things. She sees their partnership as a business merger, upward mobility under-written by love. All three versions of the sequence have similarities: the wife leaving with the lover to start again. In all three the relationship unravels under pressure. All three women want security. When Cora in the novel is confronted with the road she realises it will not give her the security she wants, she regains her own resistant voice, “I don’t feel like nothing, only ashamed that I’m out here asking for a ride.” (Cain: 34) When the wife and lover take to the road in the Visconti, Giovanna realises that the intimacy she craves is not there, neither is the security, she calls after Gino but, unlike Frank who watches Cora go Gino, with tears in his eyes, does not even look back. The Cora of Garnett’s film has left under a misapprehension, she saw Frank as someone with the same aspirations as herself and when she realises he is not she quickly returns to security, in this version with Frank trailing along. Presenting the three versions stratificationally allows us to map the similarities and differences just discussed with the advantage of seeing them more directly side-by-side. In each of the three version we start the sequence with a choice, go through the event of the lovers going off to-

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gether and end with a decision, the wife’s return to her husband. Labelling the three versions Cain (Ca), Visconti (Vi), Garnett (Ga) we map them as follows: the starting point is choice (Ca, Vi, Ga) centring on the major theme of love or not love: content substance

choice (Ca, Vi, Ga)

content form

not love

love

But at the expression level it is easy to bring out clearly the different nuances of the three versions. Shown below: choice

expression substance Ca

expression form

romanticised love

physical distaste

Frank romantic poverty

stability

Greek immigrant

choice

expression substance Vi

expression form

passion

Gino

freedom of the road

physical distaste

business with potential

Nick

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choice

expression substance Ga

expression form

partnership

Frank

unambitious

physical misalliance

business with potential

Nick

If we look more closely at the features concomitant with the lover in each case, since they are so crucial to the decisions that close the sequences, we might map them as follows. In the Cain version if we scrutinise the implications of romantic poverty we find the outcome is disillusion, the difference between language and reality. content substance

romantic poverty

content form

poor and begging

expression substance

disillusionment

expressive form

Cora «I don’t feel like no gypsy.» Frank/narrator «but now she looked all battered»

(Cain: 34)

In the Visconti version the freedom of the road turns out to be counter to the passion and intimacy that Giovanna relies on to be her security, in the bright glare of the open road Gino’s lack of consideration offers only isolation. N.B. beat 3.

The Postman from J. Cain to Tay Garnett to Visconti content substance

freedom of the road

content form

two figures approach from long shot to revealing close-up

expressive substance

images of separation

expressive form

close up of Gino walking ahead playing his mouth-organ, ignoring Giovanna who stumbles

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In the Garnett version Frank happily carries the bags but treats the business of hitch-hiking as a light-hearted interlude. Cora has set out like a newly-wed bride in an appropriate white suit and she cannot take Frank’s lack of ambition. content substance

Frank’s robust acceptance of being on the road

content form

articulated by his attitude and Cora’s petulance in the face of his cheerful acceptance

expression substance

the increasing disorder of Cora’s appearance against Frank’s consistency

expression form

the dishevelled appearance of her once white suit, and stepping on a patch of oil while Frank’s appearance remains the same N.B. beat 1

In other words the larger units can be mapped but in their turn they consist of smaller units which can be mapped after the fashion of a mandelbrot diagram. The objection to the above process is that the expression form of an upper unit is simply turned into the content substance of a lower level unit. The problem is one already broached – content substance has to be expressed in words. What we can say about the system is that the notion

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154

of content substance, although philosophically a problem, does serve to open up the text in ever greater detail. Mapping the incident in Cain’s novel we have: SEQUENCE

content substance

choice (Ca)

content form expression substance

expression form

love

not love

romanticised love

Frank

romantic poverty

entails BEAT

content substance

romantic poverty

content form

poor image

begging

expression substance

dishevelled

self-doubt

“now she looked all battered”

“I don’t feel like nothing, only ashamed”

expression form

The Postman from J. Cain to Tay Garnett to Visconti realisations of process of Frank choice and event

expression strata

romantic poverty

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stability

accept

reject

content strata

Nick

DECISION

The pattern of the decision in the Visconti is the same with just the realisations of choice and event being Gino, freedom, security, Bragana, but the path to the decision is identical. However in the Garnett the mapping is rather different with Frank being re-introduced into the road-house, in spite of an essential part of his personality being rejected. realisations of process of Frank choice and event

expression strata

content strata

unambitious

business with potential

accept

reject

DECISION

Nick

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In the Ca and Vi versions the rejections are a conclusion to the sequence which leaves the problem unresolved – the desired is absent and the desire still unfulfilled. Following the protagonists we learn that they still have Cora/Giovanna very much in mind – Frank phones a couple of times only to get Nick and put the phone down – Gino has one of Giovanna’s stockings that Lo Spagnolo picks up when Gino’s clothes fall out of his case. In the Ga version the inclusion of an emasculated Frank at the point of decision weakens his presence in the narrative shifting the focus onto Cora with a corresponding weakening of the love story and a strengthening of the tale of upwardly mobile aspiration. Conclusion The purpose has been to attempt to map adaptations by using a model which is independent of either the original or the adaptation, in the way that Euclidean Geometry is independent of, say, Geography. The tool chosen has been, following the path of a number of interested scholars, a linguistic one, in this case stratificational grammar. This choice has been determined by stratificational grammar’s sensitivity to communicational features and by its flexibility. With the worked examples I have tried to demonstrate that the grammar can engage with the whole work as well as with an incident of sequence. It is my contention, that the grammar can equally deal with a unit as small as a word, a single shot, or a beat. The advantage it has, as opposed to some other grammars, is that like Pike’s Tagmemics, it can move through the whole of a text from phoneme or shot to the complete narrative or film. Not only does it need to be demonstrated that all units can be satisfactorily identified and dealt with by the grammar but also levels of significance need to be dealt with as well as narrative absences and alterations. Why for example is the bungled murder attempt not included in the Visconti? My contention would be that its presence is replaced by the initial intimacy between Giovanna and Gino running through from references to chickens to Giovanna’s fondling the eggs in the basket on the bar to their scene in the bedroom. In effect this gives us a portrait of their initial relationship which in Cain’s book is presented in part by their attempted murder. We may view this as similar in content substance assuming different forms and expression within the widely differing cultures of an unstable aspiring American and a stable peasant culture of the Ferrarese Delta An altered feature is the presence in Garnett’s version of a sign reading MAN WANTED. In the Visconti version this is supplanted by Bragana

The Postman from J. Cain to Tay Garnett to Visconti

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saying he does not need anybody. The transformation is brought about by the world of the story. Just as Cain’s Nick Papadakis becomes Garnett’s Nick Smith so he becomes an old man with a young wife. There is a gap both in business and sexual competence inviting to be filled. In Visconti’s world Bragana is competent in running his business, even in his position in the community to all intents and purposes he does not NEED a man, he is a man and in this case the absence lies in his ability to offer sensitivity and intimacy. The need to be filled is more subtle than even Gino realises. If the so-called mapping offers an accurate picture of structure, elisions and differences then we have a basis for genuine comparison. The three world’s of our example can be related to historical, cultural and aesthetic contexts. Can it also contribute to related fields? The most obvious field to consider is aesthetics. Mapping the development of an adaptation allows us to consider the resultant stratificational description as the form of the narrative. As such it has potential for consideration as aesthetic form and my comments about the shaping of a sequence lead on to judgements about the relative merits of the three versions Ca, Vi and Ga. The rather odd decision in the Ga version, with the emasculation of the hero allowing for a false resolution, reveals the emergence of other motivations of the heroine that we have not been adequately prepared for. In a way the decision restarts the story as if the first telling was not adequate as opposed to the Ca and Vi versions where the story prior to the decision hovers over the continuation like an unsatisfied ghost. Whether such a coincidence of interests between adaptation theory and aesthetics is substantial or metaphorical remains to be explored. For the present I would suggest that a stratificational approach might serve to organise and codify some of the wealth of commentary that adaptation studies have revealed. Afterword I am grateful to the University of Bologna’s School of Interpreters and Translators at Forli, for allowing me to explore my ideas at the Conference on Adaptation and to the staff, conference members and students for their kind attention. More particularly I am grateful to Prof. Elisa Bussi for the intelligence and delicacy with which she read an earlier version of this paper leading to questions and suggestions that helped clarify my ideas considerably. Flaws and inconsistencies remain my own.

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Filmografia The Postman Always Rings Twice, USA, 1946. Director: Tay Garnett. Starring: Lana Turner, John Garfield, Cecil Rellaway. Ossessione, Italy, 1942. Director: Luchino Visconti. Starring: Clara Calamai, Massimo Girotti, Juan De Lauda.

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Cora – vestita elegantemente e con due valigie – e Frank iniziano la loro fuga. Lana Turner (Cora) e John Garfield (Frank) in The Postman Always Rings Twice, di Tay Garnett, 1946.

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Lui va avanti senza voltarsi, suonando il suo organetto. Massimo Girotti (Gino) e Clara Calamai (Giovanna) in Ossessione, di Luchino Visconti, 1942.

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The 1934 version of The Man who knew too much is the first of Hitchcock’s twelve espionage films, including the remake, and is firmly collocated in his so-called ‘British’ period. While on holiday in Switzerland with their daughter Betty, an English couple, Bob and Jill Lawrence are witness to the murder of a fellow guest, who, before dying manages to convey a message to the couple which reveals a plot to assassinate a foreign statesman in London. Betty is kidnapped and the Lawrences are warned not to disclose any information to the police if they wish to see the child again. The couple return to London, refuse to collaborate with the police and set out to find their daughter on their own. They discover the time and place of the assassination plot, a concert at the Albert Hall, and thanks to Jill Lawrence the attempt is thwarted. The film closes after a lengthy and bloody gunfight between London Bobbies and the terrorists which culminates in Betty’s release. The plot of the remake is, of course, basically the same. The Lawrences are replaced by the McKennas, an American couple played by James Stewart and Doris Day, vacationing with their son Hank in Morocco. The couple are befriended by Frenchman Louis Bernard (Daniel Gélin) and retired British couple the Draytons (Bernard Miles and Brenda de Banzie). Bernard is murdered and, with his last words passes information about a plot to assassinate a statesman in London to Ben McKenna. Hank is kidnapped by the Draytons in order to silence the McKennas who subsequently fly to London to pursue the Draytons without the aid of the police. As in the original film Mrs McKenna manages to thwart the assassination at the Albert Hall after which Hank is located in a London Embassy and is recovered. 1. Remakes fall into different categories. There are those who consider the screen rendition of any literary or theatrical work to be a remake, thus Zeffirelli’s Romeo and Juliet (Italy/UK; 1968) is a ‘remake’ of Shakespeare’s

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famous tragedy. On the other hand, Zeffirelli’s film is itself a remake, in cinematic terms, of the film of the ballet (Kziner, UK; 1966), which by changing species is itself a genetically engineered remake. Again, Luhrmann’s William Shakespeare’s Romeo and Juliet (USA;1996), which brings the lovers’ tale to the end of the twentieth century, is also a remake. And what of West Side Story? How far can the famous musical from the fifties be considered a remake of Romeo and Juliet? What is the lowest common denominator which permits one film to be the direct offspring of another film or book? Whatever the answer, the spectator is faced with a series of Chinese boxes which repeat themselves eternally, each a copy of a prototype, yet never quite as large or as perfect as the original. Rather different are remakes which are new or updated versions of films which were never inspired by literary works in the first place. Interestingly, while cinematic versions of literary classics are often criticised for their inability to meet up to the audience’s expectations and never being quite as ‘good’ as the book, remakes of films seem to trigger off almost even greater, emotional reactions of inacceptability with the public. Remaking a film is, generally speaking, no easy task because of the inevitable comparison with the original and as, almost certainly, the choice of remake, with whichever meaning we wish to ascribe to the word, often falls upon one of cinema’s classics, the new edition rarely passes the test set by audiences and critics. Numerous Hollywood classics were remade during the nineties – from Father of the Bride, and Robin Hood to Sabrina, few classic films managed to escape this refurbishing operation. Not even animations managed to escape from undergoing a face lift, and, in fact, the close of the century has seen Glenn Close competing with an animated Cruella De Ville in A Hundred and one Dalmatians – and coming up rather the worse for wear, as well as an animated Hunchback of Notre Dame which infuriated the French for the mere fact that Disney had dared manipulate a French literary classic, but irritated the general public even more because the performance of an animated drawing did not match that of Charles Laughton. The Man who knew too Much falls within none of the categories mentioned so far. The 1934 version of the film was inspired by the so-called Sydney Street siege of 1910 in which a group of Russian anarchists barricaded themselves in a house in London and started shooting. As the British police do not carry weapons, the artillery had to be called in, and even the Prime Minister Winston Churchill arrived on the scene to supervise operations. However, fortunately the army never got to use their rifles as the house caught fire. The gunfight at the end of the film vaguely echoes this episode. This film, in fact, provides us with a rare example of a director who re-

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makes one of his own films and the question we must ask ourselves is what was it that led Alfred Hitchcock to remake The Man who knew too Much? Why is it that he should decide to re-elaborate it in 1956, twenty two years after making his classic suspense film The Man who knew too Much, widely considered to be the best of his British period, and turn it into a bigbudget suspense film starring two of Hollywood’s stars of the moment, James Stewart and Doris Day? Of course, it could it be just that. Perhaps Hitchcock was unable to resist the temptation of a remake in Technicolor with two popular actors or perhaps, he simply wanted to create a fresh updated version of what must have appeared in those early post-war years, as a pretty archaic film, at least aesthetically. However, what is most likely, was the whim of a successful film director in his mid-fifties who, on looking back on a film made in his professional youth, sees its shortcomings, and with the knowledge of hindsight cannot resist the urge to remake it with the cinematic know-how of his maturity. Whatever the reason behind the remake, the 1956 version passes the test and turns out to be every bit as successful, as ‘good’, if not indeed better, at least in parts, than the original, as Hitchcock himself admits in his famous interview with Truffaut (1977:76). What seems to emerge from a close study of the two films is indeed an attempt in the Hollywood version to polish and perfect features which perhaps did not quite satisfy Hitchcock in the original. After all, in this remake, we have the original director remaking himself, so to speak. In fact, in terms of turn of the century aesthetic tastes, the black and white version is certainly considered the more elegant of the two. Here we have the young Hitchcock experimenting with what are to become his famous odd angle shots together with some sublime examples of affective mimicry by an actor who has since become a cult figure – Peter Lorre. Undoubtedly, the original is a generally more sober film, yet at the same time it contains numerous examples of Hitchcock’s wry humour while in the remake attempts at humour are rather more obvious and possibly cloying. On the other hand, what is more convincing in the remake, is elaboration of character. In the thirties version, the audience never really gets to know much about anyone but is literally swamped by an all-important plot often combined with elaborate camera movement and odd angle shots. The audience is left to do a lot of guesswork through extreme close-ups of people’s faces, so that we are left to wonder, for example, whether Abbot (Peter Lorre) really is all bad, but we never really find out. On more than one occasion in the film Hitchcock holds still on a facial expression which leads us to wonder whether our villain does not really conceal a soft-heart, however we only get to know him through his mimicry. In fact, when Abbott is finally killed by the police, the audience is left with mixed feelings.

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The remake runs at a slower pace and it is precisely through character development, that our director enjoys doing what he perhaps became most famous for, playing with his audience, sending them, as well as Ben McKenna up cul-de-sacs and on wild goose chases, so that they never quite know which character to trust and when. It is exactly this element, of Hitchcock playing cat and mouse with his audience that more than makes up for the lack of elegance and the class present in the original. 1.1. Let us begin by examining the poster of the remake (fig.1). Here we see the core elements of the film. If we split the poster into two diagonally cut halves we find mostly verbal information about the film in the left triangle and non-verbal in the right triangle. Slightly left of centre we have a large close up of the stars. Their stance tells us that they are a couple and that they represent a unit of solidarity. The expressions on their faces are of preoccupation and fear with Stewart’s face, eyes looking downwards signalling added tension possibly betraying the fact that he is, perhaps, in possession of extra knowledge of which his wife is not – i.e. that he is the man who knows too much. In the fifties James Stewart, was the archetype of the upright American citizen, Capra’s image of George Bailey in It’s a Wonderful Life has certainly stuck, while Doris Day, let us not forget, is an icon of the wholesome American female, all gingham aprons and apple pie. Thus audiences are highly likely to approach the film with pre-conceived ideas which are bound to presume the integrity and moral strength of the leading characters. Superimposed upon Stewart’s chest is an image of a dying man, with Stewart bending over him, possibly feeling his pulse – in the film he plays the part of a doctor. Behind the stars in the background we see a theatre filled with people and to the left a cymbalist poised to clash his cymbals. Below a gun is pointing towards the couple. The poster thus contains the main points of the film. 1.2. The film itself opens with a clash of cymbals followed by a long shot of an orchestra over which the credits are then superimposed. The camera slowly moves in towards the orchestra and gradually, as the music being played rises to a crescendo, moves towards the right of the image to focus upon the cymbalist. As the final credits disappear, he picks up his cymbals and gradually moves forward to meet the camera. He slowly lifts his cymbals, holds them for a split second and crashes them, after which he holds them against his chest, facing outward. The final title reads: ‘A single crash of cymbals and how it rocked an American family.’ Now the point is that, in both films, the marksman is instructed to shoot the statesman at a precise point during the concert – at the clash of cymbals. Hitchcock discusses with Truffaut (op. cit: 73) the fact that in many suspense films, the

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audience gets lost during the most thrilling scenes because they may concentrate on the wrong features on the screen. Our director was particularly preoccupied that this may have happened in the original. In an attempt make audiences explicitly aware of the significance of the cymbals so that dramatic tension would then be greater, he decides to pre-empt their importance from the very start of the film and to accentuate them at every possible opportunity. Such great emphasis on the cymbals is indeed an addition with regards to the original. Through extra attention given to the cymbals Hitchcock intended drawing the audience’s attention to the cymbals from the start of the film so that the importance of the instrument could be picked up in the Albert Hall scene. In fact, Hitchcock admits that the entire Albert Hall scene was more successful in the remake than in the original because, not only does the audience get this initial hint regarding the significance of the cymbals in the film, but also has the information reinforced by Drayton in the scene in which the marksman, who is about to go to the concert and shoot the Prime Minister, is told to listen for the exact point at which to shoot i.e. at the clash of cymbals. In fact, Drayton has the marksman listen to the point at which the cymbals clash more than once, and as if this were not sufficient, once the marksman has left, Drayton listens to the same bit of music once again – in the original, Abbot (Peter Lorre) merely has his marksman, Ramond (Frank Vosper) listen once. However, the most crucial difference between the two scenes is that in the original version Lawrence is kept prisoner by the villains and his wife is alone at the Albert Hall while in the remake McKenna manages to escape and join his wife. Furthermore, at the Albert Hall while Jo McKenna’s (Doris Day) eyes dart backwards and forwards between the marksman’s box and the prime minister’s box, we, the audience are given the chance to read the music and at one point in the crescendo the camera actually follows the notes and as Hitchcock tells us, suspense is much greater for those who can read music and thus anticipate the clash of cymbals more precisely. In fact, spectators with particularly good eyesight can actually read the word ‘cymbals’ at the bottom right hand corner of the cymbalist’s music sheet. 1.3. Both Albert Hall scenes are narrated from the leading actresses’ point of view. In the original, we see the curtains of the marksman’s box moving, and the shape and movement in the curtain fabric clearly indicates a pointed object. Seconds before the clash Jill Lawrence (Edna Best) looks upwards from the stalls where she is sitting first to the marksman’s box and then to the Prime Minister’s, the camera then focuses on her face, we get a close-up and then we witness her blurred vision. As her head and vision clear, we see the barrel of a gun slowly emerge from the right of the

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screen i.e. from behind the curtains of Ramon’s box, the barrel turns to face the camera, the conductor of the orchestra turns his sheet of music, the cymbalist picks up his cymbals, the gun turns towards the statesman’s box, Jill screams, the cymbals clash and Ramon shoots. As we have said, we know that Hitchcock was not entirely satisfied with the Albert Hall scene in the original. He felt the scene needed to be more thrilling still, and he tells Truffaut that by continually drawing the viewers’ attention to the cymbals he could achieve greater suspense. In the 1956 version, in fact, Hitchcock paces the scene much more slowly. It is a much longer scene altogether, and we actually hear more of the Storm Cloud Cantata. – in fact 300 metres of footage are dedicated to the music alone. Jo McKenna’s attention moves from orchestra, to choir, to soloist and to the boxes in rapid succession, but at the same time lingering at length at each. The camera focuses on the cymbalist more than once as well as on the actual cymbals lying on the chairs beside him. As the musical crescendo approaches we see the cymbalist slowly rising as the camera returns to the conductor’s music sheet and then into the marksman’s box where we see his partner following the libretto, and once again we see the musical transcription. When she stops reading the libretto, rises and leaves the box, the marksman does too. The kettle drums begin to pound as Ben McKenna arrives, we see his wife explaining the situation and while McKenna tries to convince the police of what is about to happen we begin to discern a pointed object moving around behind the curtain of the marksman’s box, the cymbalist rises slowly, picks up his cymbals and waits. Between the cymbalist’s slow movements we focus on the male choir and then the female choir and on the police who refuse to pay attention to McKenna. The marksman begins to position his gun, the statesman moves in his seat, the camera returns to the pointed gun behind the curtain, we then see the music sheet which is almost at the crescendo, the cymbals rise and while McKenna tries to force the doors of the boxes the exact scene of the original is repeated – as the cymbals are poised we see the hall from the cymbalist’s point of view i.e. from between the cymbals, the barrel of the gun emerges from the right of the screen, faces the camera which then moves towards the Prime Ministers box and then moves downwards to focus on a medal on his trunk, Jo screams, the cymbals clash and the statesman is shot. In the words of Hitchcock the cymbalist is totally devoid of emotion. He is unaware of being the instrument of death. Without realising it, he is the real assassin. As well as the initial hint in the credits, in the remake Drayton makes sure the marksman is certain of when to shoot by having him listen for the exact point at which to pull the trigger i.e. at the clash of cymbals twice, and as if this were not sufficient, once the marksman has left, Drayton lis-

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tens to the same bit of music once again – physically responding through gesture at the clash of cymbals. Preparing the audience in this way, according to Hitchcock would accentuate tension. In the original, as we said, Abbot merely has his marksman, Ramond (Frank Vosper) listen once. 2.1.It is a well known fact that Alfred Hitchcock possessed a deep and thorough knowledge of the human psyche as is more than obvious in his later psychological thrillers, however, as far back as the early thirties not only does he direct what appears to be very much a feminist film, but he also shows us that he was capable of sharp insight into the female mind. In the second shot of the original we see Jill Lawrence at a clay pigeon shooting match against marksman Ramond. Because her daughter Betty distracts her more than once, she misses her target and loses the match, “Let that be a lesson to you” she says “Never have children”, she is of course joking, as she is joking when she adds in aside to her husband “You would have this child”. However she has lost her match because of her daughter. We never really learn much more of Jill as a character, we can only guess that she must have been a top league markswoman – for the rest of the film she goes on to play the part of the distraught mother. On the other hand, in Jo McKenna, the part of the woman whose career is sacrificed for her husband is amply developed. However, returning to the initial shots of the original, Jill’s facial expressions give away her dislike of fellow marksman Ramon while daughter Betty overtly claims that she doesn’t like him because he has “many too many teeth and too much brillantine”. This gives Hithcock an excuse to use interesting angles each time Ramon appears on the screen. The first shot of Ramon is a close up of a head full of brillantine which moves outwards to then include his whole body, at other times he appears through a bird’s eye view of the top of his brillantined-head and at the Albert Hall, Jill recognises the back of his head. These early shots of the film are packed with dramatic irony. Betty almost kills Louis (Pierre Fresnay) – the spy who later confides in the Lawrences – when she runs across the slope he is jumping down, Louis crashes into Abbot (Peter Lorre) and his nurse Betty (Cicely Oates) – we later find out that they are the organisers of the assassination attempt. Jill and Betty’s dislike of Ramond is a good example of justified feminine intuition – he turns out to be a professional killer while according to Bob Lawrence he’s merely “a bit of a bore” who means well. Betty also seems to instinctively dislike Abbot who accidentally puts Jill off her aim when shooting. Ironically, in the final shots of the film, it is Ramond who takes Betty on to the rooftop of the house in which he and Abbot are barricaded, the police are unwilling to shoot him down for fear of shooting Betty too. Jill takes the rifle from a policeman aims at Ramond and shoots him dead,

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thus reminding us of her words in the early shots of the film “We must have another battle one day, shall we?” to which Ramon replies “I shall live only for that day.” As we shall see, he will only live until that day. In the remake, we learn that Jo McKenna is rather a frustrated housewife and despite our expectations, her husband is neither George Bailey or Harvey, but a man who is prone to anger and possibly even violence, before telling his wife that their son has been kidnapped, for example, there is a shot in which he coerces her into taking tranquillisers. Here he comes across as a negative patriarchal figure who sees his wife as a weak and fragile creature. Stewart/McKenna is also aggressive during the interrogation with the French-Moroccan police where he is bad tempered to the point of aggression, but he is still deep down James Stewart, the American citizen who can do no wrong. So while Hitchcock does indeed present his audience with a couple with whom they are to align their sympathies, at the same time he is implying that the McKenna’s have a less than perfect relationship, thus putting the audience on guard. What’s more Hitchcock clearly takes the woman’s side. What Ben McKenna interprets as female paranoia turns out to be justified intuition. We also learn that Jo McKenna, also known as Jo Conway, has given up a career in show business as a singer in order to promote her husband’s career as a doctor. We learn that if her husband were to practise in a large city instead of Indianapolis then she could return to the stage; furthermore, Ben McKenna seems slightly taken aback and even slightly irritated when his wife asks him when they are going to have another baby. “You’re the Doctor,” she asks “you know all the answers”. However as in the original it is the leading lady who, thanks to her professional skills finally frees her offspring. In the final scene, Jo McKenna sings a loud and lengthy version of Que serà serà, Hank whistles the tune, her husband is able to locate him and the boy is eventually freed. This scene neatly re-echoes an early scene in the film in which Hank accompanies his mother’s singing by whistling along with the tune. Thus the theme of female intuition is carried on and developed from the original. 2.2. Let us now go on to consider, the ‘cat and mouse’ element of the film, that is how Hitchcock plays with audience’s powers of reasoning through his characters leading us to misjudge those we should not misjudge and to align our sympathies with those who may well turn out to be the real villains. Now, in the 1956 version the McKennas meet Bernard, the spy who confides in them on a bus journey from Casablanca to Marakesh and Jo McKenna is immediately suspicious of him. Bernard asks too many questions and the audience, whose sympathies are naturally all Jo’s (let us not forget she is really Doris Day) automatically ‘sides’ with her and sees him

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as shady character. He bombards the McKennas with dozens of personal questions, but gives away nothing about himself, to the point of avoiding answering questions poised by Jo. Next, Jo instinctively dislikes the Draytons who stare at her when they arrive at the hotel. Hitchcock’s close up of Lucie Drayton’s sneering expression also aligns the audience with Jo McKenna. The audience knows that this is a Hitchcock film, therefore there has to be a villain somewhere and even from our point of view the McKennas are indeed being stared at. Our feelings are reinforced when Bernard cancels a dinner appointment with our leading couple but turns up at the same restaurant, where they just happen to be dining with the Draytons, who we have since found out were staring because they had recognised Jo. In the final shot of the restaurant, Bernard’s ladyfriend asks him in low, mumbled French whether they are the couple he is looking for, to which Bernard answers “Oui.” Bernard is of course ‘reinstated’ to our eyes when he is stabbed in the back in a market place the following day, staggers towards Ben McKenna and confides in him. Ben feels guilty “I feel kinda funny” he says “after all the things we said about him last night”, and we begin to think that he cannot have been all bad. The plot thickens when, while the McKennas are making a statement at the police station, Hank is kidnapped by the Draytons – the couple Bernard had been looking for, the true villains. It is clear that we have been sent up our first blind alley and if we were to watch the film again from the beginning now, we could re-interpret Bernard’s behaviour in a different light. He was looking for the Draytons, hence his initial interrogation, he had mistaken the McKennas for the Draytons but had realised he was wrong, located the real Draytons at the restaurant who then had him killed. Another example of this kind occurs in London. The McKennas know that Ambrose Chappell is involved in Hank’s kidnapping, Bernard whispers this name to McKenna who presumes it is a proper name. Mckenna sets off to find Ambrose Chappell who turns out to be a taxidermist. As he approaches Chappell’s workshop tension rises. It is clear that Stuart is being followed. We hear the sound of loud distorted footsteps, they get closer and closer until a gentleman overtakes him, stops and turns back to face McKenna before entering the shop. McKenna follows him along a suspicious looking alleyway into a seedy building where he is greeted by another suspicious looking gentleman. Canted framing of the lugubrious Ambrose Chappell Jr. leaves us certain of the fact that we have found our villain. This is further supported by the connotations of taxidermy which fit in so well with our plot. However, taxidermy is also a source of humour for many and once again, because Ambrose Chappell Jr. looks suspicious and doesn’t say much (it doesn’t occur to anyone in the audience that he

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is simply taken aback by McKenna’s accusations) we think he is a villain.. We witness a scene in which Hitchcock creates suspense, Chappell and McKenna are surrounded by macabre looking stuffed animals, we must be in the villains hideaway we think, suddenly switches from grotesque to farcical as Chappell and his employees chase McKenna away with the help of a stuffed barracuda and a half stuffed tiger. So, we have a plot in which the villains are the Draytons and Hank is imprisoned at Ambrose Chapel where Mr Drayton pretends to be the vicar. Just when everything is clear and the audience feels it can relax and wait for the plot to sort itself out, we suddenly begin to suspect that Lucie Drayton is not a totally bad character. Her facial expressions tell us that she is fond of the boy and wants no harm to come of him, in fact in the final scene it is she who helps him escape. The flow chart (Fig.2) illustrates just how Hitchcock keeps the audience on its toes, creating surprise and emotional turmoil too, by forcing us to take sides with the wrong person. Nothing in the two films is included by chance. Each and every detail is there for a reason which we will discover sooner or later. As we saw previously, the 1935 version, presents us with Jill, a shooting champion who loses her match through her daughter’s distraction. We have also seen Jo McKenna singing away as she prepares her son for bed and training him to sing and whistle along, if she no longer sings professionally it is due also to Hank. Neither the shooting scene nor the hotel scene we saw at the beginning are there by chance. Neither are they there to make a statement about women with offspring and careers. It is Ramond, the brillantined marksman and Jill’s opponent who takes Betty on to the rooftop of the house in London in which he and Abbot are barricaded and as the police are unwilling to shoot him down for fear of shooting Betty too, who shoots him dead. Also in the 1956 film, it is the leading lady who, thanks to her professional skills finally frees her offspring. In the final scene, Jo McKenna sings Que serà serà, Hank from the room in which he is kept prisoner whistles the tune, her husband is able to locate him and the boy is eventually freed. How does Hitchcock end the remake? As you would expect. A blank screen and a clash of cymbals.

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HITCHCOCK's 'CAT & MOUSE' TECHNIQUE

McKennas sympathies

-

Bérnard

Draytons

+

Draytons

Bérnard

Lucie DRAYTON

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Sopra: Frank Vosper, Leslie Banks, Nova Pilbeam e Peter Lorre ascoltano il disco della “Sinfonia per solo assassino e cembali”. Sotto: Frank Vosper, Peter Lorre e Leslie Banks in The Man Who Knew Too Much, prima versione, 1934.

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Sopra: Bernard Miles, Brenda de Banzie, Doris Day e James Stewart in The Man Who Knew Too Much, seconda versione, 1956. Sotto: Il suonatore di cembali, 1956.

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Zeenat Saleh

Metamorphosis and Ideology in The Little Mermaid from Andersen to Disney

Vous êtes tous les deux ténébreux et discrets Homme, nul ne connaît le fond de tes abîmes O Mer, nul ne connaît tes richesses intimes Tant vous êtes jaloux de garder vos secrets. Et, cependant, voilà dès siècles innombrables Que vous vous combattez sans pitié ni remords Tant vous aimez le carnage et la mort O lutteurs éternels, ô frères implacables. Charles Baudelaire, L’homme et la Mer

What governs one’s choice in the analysis of a text? How does one become, in Jean Bellemin-Noël’s term, a texte-analyste when confronted with a work of art? This is a subjective concept because the choice one makes necessarily stems from some forces of the personal psyche – in which case it inevitably becomes a question of auto-transference. The psychoanalytic term normally used in reference to the patient’s discourse on the couch and the analyst’s interpretation, is applicable here in the parallel drawn between the bond created between the text and its reader who does not necessarily read what the author and his woven fantasies may have intended him to. The genre chosen for this paper – the fairy tale – may seem somewhat strange as it does not correspond to what is generally considered as Literature in its most noble sense. However, this genre is no doubt what nourished our own childhood psychic development, and similarly to legends and myths, cannot be shelved. As Jack Zipes so rightly affirms: Les contes de fées pour enfants sont universels, hors du temps, thérapeutiques, miraculeux et superbes. C’est de cette façon qu’ils nous ont été transmis historiquement, gravés dans nos esprits quand nous avons été enfants puis, plus

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tard, adultes. Ils semblent vouloir nous imposer cette impression qu’il importe peu de connaître autre chose que leur passé mystérieux pusiqu’ils sont là, ont été, et seront là, et qu’ils continuent d’être écrits et publiés. (Zipes, 1983: 10).

The very mode on which the fairy tale is built comprises a totally different syntax as opposed to other literary genres. The fairy tale stems from an age-old tradition of oral folk tales and is organised in a certain way. According to Propp, within the traditional folk tale, there are a limited number of functions and an identical succession of events. The hero, suffering from something that is lacking in his life, leaves home in search of some help, which could be given by animals and/or secondary (although indispensable to the narrative) characters he encounters on the way, in order to fulfil his mission, and thus attain his quest for happiness which is, more often than not, marriage. The structure of each traditional folk tale rarely deviates from this trajectory. (Zipes, 1983: 14). Lüthi, on the other hand, considers the hero’s status similar to that of the vagabond’s as both have to undertake a difficult task: Puisque la réponse ou la solution de cette quête est connue d’avance, on peut dire qu’il n’existe pas dans le conte traditionnel de facteur tel que la chance ou coïncidence. (Zipes, 1983:14).

The verbal channel, the first to be used, obviously brought about the variations which one sees in the countless versions of the same tale, since, at first, its receptivity depended perhaps in the way it was recounted by the story-teller. Western Society is indeed greatly indebdted to the Brothers Grimm, Perrault, Andersen and Wilde, who used the written medium to communicate to the reader what have become ‘classics’ in fairy tales today. The main disadvantage stems from the fact that the versions do not always correspond to one another but, alas, very often, no source is given as to the translations. Of the six versions of The Little Mermaid which have been used for this paper – four in English and two in French – it is only in the 1996 French version translated from Danish by Grégoire, Moland and Soldi, and the 1994 English version translated by Naomi Lewis, that we actually find out who has ‘reworked’ the tale. With the four other versions, although the plot is similar, the two French versions have different endings from the English ones. Moreover, depending on which market the Andersen tales are aiming at, the style varies from one extreme to another: either easy to read or fairly literary and poetic. The beginning and the end of the tale are so different stylistically when compared to other more traditional fairy tales which inevitably begin with “once upon a time” and end with “they lived happily ever after”. Andersen has radically broken off from this traditional beginning and examples from two different versions in English will be more explicit:

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Far, far out to sea the water is as blue as the petals of the loveliest cornflower, and as clear as the clearest glass; but it is deep, very deep, deeper than any anchor has ever sunk. Countless church towers would have to be placed on top of one another to reach from the sea-bed to the surface. Down in those depths live the mer-people. (Lewis, 1994: 41). Far out at sea the water is as blue as the bluest cornflower, and as clear as the clearest crystal, but it is very deep (...) It is down there that the Mermen live. (Smith, 1993: 1).

As is the case with numerous other tales written by Andersen, in The Little Mermaid, the narrator does not address himself to the reader by using “I” but prefers to use the third person pronoun. Moreover, depending on the versions, the narrator prefers to directly ‘speak’ to the reader, thus involving him emotionally, by using “you”/“you see”. Andersen’s Little Mermaid, written in 1837, among the thirty of his most popular tales – he wrote 156 tales in all – was certainly not aimed at children, but, as N.Lewis adds, it contains much more of Andersen himself and is “a tale of unrequited love”. An in-depth analysis of the tale and Andersen’s life will bring out a parallel between the writer and his doomed protagonist. Despite being acclaimed for his work, Andersen always remained an outsider insofar as social class was concerned. Apparently, his working-class status became a stigma far too difficult to bear. All his life, Andersen aspired to move up the social ladder. He despised his mother’s humble origins and yet, paradoxically, his tales reveal to what extent his sympathies lie with the oppressed and the innocent. If differences can be found in the printed versions then it is not surprising to find drastic changes insofar as the cinematic adaptations are concerned.1 The adaptations or remakes of the most popular tales have now got the Disney brand name firmly attached to them. In the case of The Little Mermaid, Prosperine Productions brought out the first cinematic adaptation in 1979, but this animated version was perhaps doomed to failure, suffering the same fate as Andersen’s mermaid, as it remained fairly close to the actual tale. In 1989, Disney’s much publicised animated story for children was a box-office hit and viewers who have never read the story 1 The two cinematic adaptations of the tale have had to resort to different techniques in order to bring out the message of the story, by trying to render the beginning of the story as appealing as it is in the written version. Proseperine Productions begin their version, once the credits roll, by means of an intradiegetic song, which speaks of the happy existence of the Merfolk and the viewer is taken right to the depths of the castle in company of various Merfolk. Disney, for its part, shows the Prince and the sailors on a boat and the song is sung by the sailors. Explicit references to King Triton and the Merfolk are made by the sailors, much to Prince Eric’s astonishment. It is only at the end of the song that the credits roll.

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believe that the Little Mermaid’s name is Ariel. The Properine version flopped (and was withdrawn from video clubs and retailers) because it did not bring about the expected happy Hollywood end which Disney of course managed so successfully, despite having ‘massacred’ the poignant tale which, although popular to an extent, does not have much critical reading on it contrary to classics like Snow White, Cinderella, or Beauty and the Beast. Since ideology forms one of the two themes I have decided to treat in this paper, Disney’s demagogic marketing policies – which could almost make up a separate paper – are very strongly reflected in its remake of The Little Mermaid through the struggle for political power and its sublimation of the core of existential issues such as death, sacrifice, religious undertones and the power of love omnipresent in the tale but erased very subtly by Disney for obvious commercial reasons. 2 “Adapting,” according to Elisa Bussi Parmiggiani (1997), “therefore, will largely mean accomodating text 1 into one of the pre-existing genres, and, as it is inherent, to the commercial implications of film industry and the importance of complying with audience expectations.” In fact, both the filmed versions of this tale go against the grain of the text as they add and delete what they deem unfit for the viewers. Disney’s happy, stereotyped end (complete with the final Hollywoodian kiss and the rainbow) correspond exactly to the viewer’s expectations. The little Mermaid can now marry her prince and tell him “Oh, Eric, I really wanted to tell you!” once she has regained her beautiful voice! Somehow, filmed versions of fairy tales always make a stronger impact on viewers when they are animated as children, in particular, who are the main target, will respond to the subconscious identification with the characters at a stronger level than were it simply a feature film with real actors playing the characters. One such example is the remake of 101 Dalmatians (Buena Vista: 1996), in which the director has had to use techniques similar to those of animated versions particularly in the portrayal of Glenn Close as Cruella De Ville. She cannot compete with her animated counterpart or with the two sea witches in The Little Mermaid. The very specific mode of the fairy tale is bowdlerized by the cinematic adaptation and in particular Disney’s. The characters in fairy tales are anonymous or when they do have a name it will be a very common one like Hans, Jack or Jeannot. The characters are usually characterised by 2 Delia Chiaro quotes Hollingdale’s three categories on aspects of ideology: the explicit, whereby writers openly express their political, moral or social beliefs, the implicit (e.g. The Three Bears), and, lastly, ideology within the language, whereby the language itself may become an object of struggle. 1998: 98.

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their professions and/ or rank: woodcutters, merchants, or king, queen, prince, princess, or simply brother and sister. And, there is, of course, usually the fairy (good or bad), the witch and the animals who help the hero/ heroine to attain their goal. Prosperine has taken fewer liberties in this respect as the only names in the film are given to the little Mermaid – Marina – her playmate, companion, Fritz the dolphin, and Jamie, the Prince’s wicked cat who, out of jealousy, is adamant on ruining the chances of Marina being able to marry the Prince. The Disney version, on the contrary, has deformed the original tale so cleverly that each character has a name and something which is so very reminiscent of Hollywood at its worst. The little Mermaid is Ariel, her playmate is Flounder the fish (more immature than Fritz), Scuttle the seagull who is their friend; Prince Eric and his dog Max, his tutor Grimsby whom he calls Grim(m)! (One wonders if the nickname is a deliberate allusion on Disney’ part to pay tribute to the Brothers Grimm. It is most unlikely that young “media-literate” viewers will understand this allusion in bad taste!). Ariel’s father is King Triton and his ADC is Sebastian, the official court composer, a crab with an Afro-Caribbean accent. The witch is a deformed octopus called Ursula who even changes herself into a beautiful black-haired human, Vanessa, the one Eric is going to marry as he thinks she is the one he has been looking for ever since he was rescued by the beautiful girl with that beautiful voice. Fairy tales have a second characteristic: they belong to no age but to a distant past and thus it becomes easier for the child to cope with the complexities of Oedipal conflict, for example, when he/she is plunged into a world of fantasy which only the written fairy tale can adequtely provide as basic material. According to B.Bettelheim, “nothing can be as satisfying to the child and adult alike as the folk fairy tale. True, on an overt level fairy tales teach little about the specific conditions of life in modern mass society; these tales were created long before it came into being. But more can be learned from them about the inner problems of human beings, and of the right solutions to their predicaments in any society, than from any other type of story within a child’s comprehension.” (Bettelheim,1975:5). And yet, as Zipes puts it, fairy tales were a means of teaching good manners to children: Un soin extrême et des attentions exquises furent adoptés pour cultiver un discours qui, par les contes de fées, devait aller dans le sens d’un processus civilisateur dont profiteraient les enfants bien élevés (...) Les contes pour enfants furent écrits et produits dans le but de socialiser les enfants, pour les confronter à des normes précises et aux attentes définies à l’école, dans la vie publique ou chez eux. Les exemples moraux étaient expressément codifiés dans les livres de bonne manière et de civilité. Ce qui signifie que l’acte symbolique so-

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ciale correspondrait aux canons du mode de socialisation de cette époque. (Zipes, 1983: 20).

Disney’s version is totally anachronistic as it can only be understood by young viewers living in Western society of the end of the 20th century. The clichés, language and style of the film would be incomprehensible to the reader of Andersen’s age. Modern technology has now become subservient to literature and it has proved an effective tool to channel a message which is translatable and comprehended by viewers of that particular generation. It seems obvious to point out how the cinematic versions, Prosperine and then its remake by Disney, make the tale so remote. Let us note that the opening credits of Prosperine clearly show ‘based on the original story by H.C.Andersen’, whereas when the credits roll at the end of the Disney version, a very quick mention is made as to the source of its adaptation. The adding of a faithful friend in the form of some animal, such as Fritz the Dolphin (Prosperine) or Flounder the fish (Disney), serves as a sort of reminder to the child viewer of the pet/playmate/best friend. Both films have added songs which are intradiegetic in the Prosperine and Disney versions (somewhat reminiscent of the musical comedies of the Hollywood studio heydays) but which very subtly convey the message and, simultaneously add to the popularity of the film thanks to the musical score. Wheras in Andersen’s tale, the mermaids use their beautiful voices which no mortal voice can match in order to entice the sailors to go down to the Merworld, the songs in Disney convey the meaning more clearly. Young viewers will not only identify with their favorite characters but also memorise their attractive songs and surely be affected by the underlying ideology. The Disney version has been summarised and in order to make the paper coherent, a summary of the Prosperine version may also be useful as an element of comparison. The Little Mermaid, Prosperine Productions, 1979: the plot. The Sea-Witch triggers a massive storm at the beginning and a ship is wrecked. Marina is rebuked by her father, the Merking, for having gone up to the surface – she is not of age yet – and he makes her and her sisters go to bed as a punishment. Marina’s grandmother consoles her by saying she should have a little more patience and soon she will go up too. Marina, exploring the ocean bed with Fritz, finds a statue in white stone which has landed on the ocean bed after the shipwreck. Fritz suggests to Marina that they slip away from the castle and go up to the surface, and he asks his uncle Duke, the whale, to give them a ride up. The two companions are dazzled by the beautiful fireworks, the music, beautifully dressed people dancing, and merriment on board a ship. Marina watches the scene from an iceberg. She sees the Prince and he

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reminds her of the statue she had found. The prince sees a mermaid but his Chamberlain insists that it is only a hallucination. The witch starts the second storm. Marina realizes that the prince is in danger and must be saved. A fairly long scene of the rescue follows. Marina lays the Prince gently on the shore and kisses him, praying to God that he should live. She has fallen in love with him.She weeps and leaves behind a scale from her fish tail. She hides when she sees some young maidens coming out of a church/convent. The Prince vaguely sees a dark-haired girl leaning over him. Marina and Fritz are captured by the sea-police and taken back to the castle. The Merking is furious with Marina for having disobeyed but she is saved by her grandmother who explains to her son that Marina has saved a human life. As a reward, she will be given the pearl flower (her “passport”) for the coming of age ceremony which takes place the next day. Marina is told by two fish where the Prince lives and decides to ask the sea-witch to help her. Fritz begs her not to, but Marina is ready to sacrifice everything to marry the Prince. The witch puts forward three conditions to Marina who accepts to give her voice (her prized asset) in exchange for a pair of legs. The witch prepares the magic potion which Marina drinks outside the Prince’s castle before sunrise. The Prince sees her and she is rescued. She is clothed and the Prince exclaims how very much they look like twins if it were not for her long hair. As she is mute, he asks her to write her name but she cannot. She adjusts to life on earth after a month and is ecstatic about being with the Prince who is growing fonder of her and calls her “Princesse des Mers” because she plays the harp, and the tune reminds him of the sea. The Prince takes her out riding and because of Jamie, the jealous cat in the palace, Marina falls off her horse and is attacked by wolves. The Prince saves her. The Chamberlain is commanded by the Prince’s parents to get him on board the ship which will take him to the Kingdom of Sumiau to marry the Princess. The Prince lives in the Summer Palace, away from his parents. The Prince refuses to obey the orders because the only girl he will marry is that black-haired maiden who saved his life. He would rather marry Marina. The cat informs the Queen of the Prince’s refusal and the parents plot with the Chamberlain to get the Prince on board the ship by pretexting that the Queen is ill. Marina accompanies the Prince on the ship; she is arrested by the king’s guards. The King, Queen, and the Prince arrive at the Princess’ palace. When the Prince sees the Princess, he recognizes her as being the one who rescued him. He decides to get married immediately. Delighted, he informs Marina of his happiness; the mirror Marina has in her hand breaks. On the Prince’s wedding night, which is her last, Marina sends the Pearl flower and Fritz responds to her call. He is heartbroken and swears he will die if Marina dies. Her sisters have sacrificed their long hair to the witch in exchange for Marina’s life. She has to stab the Prince with the dagger given by the witch and then she can return to the sea not as foam but as a mermaid again. She attempts twice at plunging the dagger into the Prince but her love for him is stronger. She would rather be near him even as sea foam. She leaves her pearl flower on the deck railing and jumps into the sea before the Prince’s

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very eyes. The Prince sees foam on the sea and clutches the pearl flower. Marina’s body is transformed into a coloured “bubble” which flies up in the air with other coloured bubbles. She blesses the Prince. Voice-over at the end: “and thus the little Mermaid’s soul rose up into the sky.” The Little Mermaid, Walt Disney, 1989: the plot Mermaid City. Sixteen-year-old Ariel is reprimanded by her father, King Triton, because of her sympathy for the dangerous humans. But Ariel continues to collect their treasure, a horde accidentally discovered by the court composer, Sebastian the crab, while keeping an eye on her for the king. Aboard a ship sailing in the waters overhead, young Prince Eric is presented with a heroic statue of himself by his tutor Grimsby, with the wish that the prince soon finds himself a suitable wife. Attracted by the sight of birthday fireworks, Ariel makes for the celebrations and surreptiously catches sight of Eric, whereupon she falls instantly in love. During a violent storm that later destroys the ship, Ariel saves Eric’s life and he falls for her mermaid voice. Ariel’s friend Flounder retrieves the statue of Eric and brings it to her, but after Sebastian blurts out to Triton that Ariel is in love with a human, the king destroys all her human possessions. Aware of the conflict between the king and Ariel, the sea witch Ursula, bainshed from Mermaid City and ever since intent on usurping Triton, lures Ariel into a deal whereby she is granted human shape – at the cost of giving up her voice to Ursula – for three days. During that time Eric has to give her the kiss of true love, so that Ariel will be free to live with him as a human; if he fails to do so, she will become Ursula’s possession. Ariel is transported into Eric’s presence, and although he can’t shake the memory of the mermaid’s voice, he is taken with the mute girl and it’s not long before they make plans to marry. Although a remorseful Triton sets out to find his daughter, Sebastian has gone against the king’s instructions and is now actively helping Ariel; after narrowly escaping the culinary attentions of the court chef Louis, he almost stage-manages the big kiss, only to be foiled by Ursula’s cronies, Flotsam and Jetsam.Taking on human form, Ursula easily wins Eric over by using Ariel’s voice. As Ursula and Eric depart on their wedding ship, Ariel’s friend Scuttle the seagull enlists the help of various animals in an attempt to sabotage the wedding. Chaos ensues, Ariel’s voice is freed and returned to her, but not before the three-day time limit expires. With Ariel now completely under Ursula’s control, Triton agrees to relinquish all his power in exchange for his daughter’s freedom. But during a violent storm, Prince Eric confronts and kills the now gigantic Ursula by ramming her with a ship’s hull. All Ursula’s imprisoned sea creatures, including Triton, are released. As Eric plants a wedding kiss on Ariel, the king returns to Mermaid City, knowing that he will miss his now human daughter. (Monthly Film Bulletin, October 1990).

Contrary to the original tale, the Disney version, by almost distorting the narrative, focuses on elements which are anachronistic but relevant to Western adolescence and the generation gap which become central in

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most families in contemporary society. Ariel lives in a male-dominated world. Thus, until the end, the oedipal crisis cannot be resolved. However, it is Ariel who hugs her father at the end, when she separates from him to go with Eric, and the only time in the film when one hears the true declaration of love is when she says “I love you, daddy.” From the beginning of the film the whole atmosphere is one in which the male represents power. As King Triton cannot cope with Ariel, he entrusts her to Sebastian’s care. Ariel is never in a female/feminine world; she has six sisters who are non entities and have no existence of their own. They are seen twice in the film and the question of sacrifice on their part does not come up. It is thanks to Scuttle, Flounder and Sebastian that Eric is stopped in time from marrying Ursula. The grandmother, is very present in the tale and in the film, responsible for bringing up her six grandaughters by compensating for the absence of the mother. She is the woman of wisdom, who knows everything there is to know about the world above the sea. In the Prosperine version she is the homely, kindly maternal figure, different to the haughty albeit loving dowager, proud of her noble rank. Zipes accurately describes the concept of the extended family (Grossfamilie) in the world of fairy tales. The family very often comprises several children and distant/close relatives and even domestic animals are naturally part of this world. At its head, the male dominating figure takes most decisions concerning the welfare of the group. When a mother or a surrogate (grandmother, fairy godmother) is present in the tale, she will perhaps be more actively involved in the family and yet, she will strive towards maintaining patriarchal authority in place. (Zipes,1983: 182). Since Ariel’s sisters are so insignificant in the film,3 contrary to Andersen’s tale in which they become the mermaid’s condfidantes and even sacrifice their beautiful hair to save their sister, Ariel explores the world around her with Flounder, her playmate. It is only when she feels the pangs of love that her desire to gain independence becomes stronger and this is her first experience of teenage love. Scuttle, the Seagull, is the “wise fool”, the buffoon, who is supposed to know everything about the human world and gives Ariel her first lessons on the human world. Sebastian gives her a few basic lessons on how to attract Eric. The only female figure is Ursula, the witch. But she can hardly be said to personify feminity, although she is the one to arouse Ariel’s sexual desires by referring to “body language” and for her, Ariel giving up her voice is but a trifle, “a token” 3 Ariel’s sisters appear precisely twice in the whole film. At the concert where Ariel is to make her debut, the sisters begin the opening song by thanking their father, “their genitor.”

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to attract the Prince. The absence of the mother figure, causing the lack of identification with the parent of the same sex – a vital shortcoming in the child’s psychic development – can be considered as partly responsible for Ariel’s initial immaturity and her ability to be so easily influenced by an older figure – Ursula in this case. Paradoxically, she is the one to teach Ariel the facts of life, but her aim is motivated by the lust for power and frustration at having lost her youth and her power to seduce. She manipulates Ariel by using her two moray eels, Flotsam and Jetsam, her cronies, to “convince” Ariel, by luring her, to come to her. Ariel is influenceable and not as determined as her counterpart in Andersen who wants, above all, an immortal soul for which she will give up her three hundred years. 4 In the Disney version, Ariel merely sings “what would I give just to lie on the sand for one day”;“if only I could be part of that world,” because “up there they don’t reprimand their daughters.” Ariel is portryed as a spoilt, capricious teenager, but a gullible victim and a pawn in Ursula’s struggle to recover her political power. What clearly comes out in Andersen’s tale and in the cinematic adaptation is the desire for independence. However, as Bettelheim states: self-realization requires leaving the orbit of the home, an excruciatingly painful experience fraught with many psychological dangers(...) The fairy tale leaves no doubt in the child’s mind that the pain must be endured and the risky chances taken since one must achieve one’s personal identity; and despite all anxieties, there is no question about the happy ending. (Bettelheim,1975: 79).

The confrontation with the witch immediately foretells the fate of the little Mermaid; and, despite that, she does not hesitate to risk everything to marry the Prince and gain a human soul. This leitmotiv is parallel to Oscar Wilde’s fisherman, in The Fisherman and his Soul, (the situation is re4

In many of Andersen’s tales, reference to God and Protestant ethics, which influenced him throughout his life, are omnipresent in order to sanction the actions of his protagonists. The Little Mermaid can never have the power she enjoys in the Merkingdom. In order to be a part of the human world and gain an immortal soul, she has to suffer torture: her tongue is cut off and she becomes mute; each step she takes is like a sword piercing her legs. She is both physically and psychologically undermined, contrary to Ariel (since Disney has totally erased the elements of pain and sacrifice), in order to “serve” the prince. Although she saves his life twice, he selfishly never acknowledges her good deeds. When given the last chance to save herself and become a mermaid again, she sacrifices her own life to spare the prince’s and becomes a wandering spirit, “a daughter of the air”, and now she will have to serve God for another three hundred years in order to gain an immortal soul. Her punishment or her reward will depend on the behaviour of the children whose houses she has to visit. Her life finally results in renunciation and abstinence. Andersen was deeply convinced by the idea of a virtuous existence and attaining happiness was a question of self-effacement.

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versed) in which, for the love of a mermaid, he is prepared to sacrifice everything, but the price he has to pay is parting with his soul – a notion totally contrary to Christian ethics. And ever did his Soul tempt him by the way, but he made it no answer, nor would he do any of the wickedness that it sought to make him do, so great was the power of love. (O.Wilde, 1976: 269).

But, as Bellemin-Noël implies: Le faire-valoir d’un mérite pour obtenir une récompense, ce ne peut être qu’un barrage de fait; l’énoncé d’une absence. Là où est formulée une condition il faut entendre une négation: il n’y a pas en toi, jusqu’à nouvel ordre, de place pour la parole et la joie. (Bellemin-Noël, 1984: 54).

There are numerous examples of the deformation and, hence, damage done to the tale by Disney. Disney’s world is one where the fundamental existential questions do not come into play unlike in Andersen’s tale. The ingredients of any stereotyped Hollywood production can be found in this film. It is the classic cinematic genre with the idea of normality, disruption caused by some external event, the fight between the “goodies” and “baddies”, the return to normality with the happy end where lovers “walk away into the sunset”. Even stories for children, other than fairy tales, have more substance to them than the classic schema used by Disney in this film. 5 Disney has perhaps followed the ideology of the prevalent parental belief “that a child must be diverted from what troubles him the most: his formless, nameless anxieties, and his chaotic, angry or even violent fantasies. Many parents believe that only conscious reality or pleasant and wish-fulfilling images should be presented to the child – that he should be exposed only to the sunny side of things. But such one-sided fare nourishes the mind only in a one-sided way, and real life is not all sunny.” (Bettelheim,1975: 7).

This quote, from Bettelheim’s The Uses of Enchantment, is in perfect accord with the leitmotiv in Andersen’s tale about wanting to gain an immortal soul – the very goal that the little Mermaid is striving to attain, regardless of the sacrifice she has to make. Instead, the sequences showing Ariel in conflict with her father, her feeling of being misunderstood and her being so easily convinced by Ursula that the payment (Ariel’s voice) 5 In Andersen’s tale, the only survivor of the shipwreck is the Prince, thanks to the Mermaid risking her own life. In the Disney version, not only do all the sailors and the tutor Grimsby survive but they even manage to get on to a life-boat. Moreover, Eric goes back to the burning ship in order to rescue his hound Max. The ship containing gun powder explodes just then, but Eric is saved; Max presumably managed to get onto the lifeboat in time!

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is but a trifle, a mere token as Prince Eric “is quite a catch” poses problems to a young viewer watching these scenes who cannnot but imagine that all life’s problems have a happy end à la Disney, despite the grotesque ending in which Triton himself gives a pair of legs to his beloved daughter and worse still, he gives her away to a human, a “barbarian”. Ariel, like Marina, transgresses paternal authority – one can well apply Lacan’s concept of “in the name of the Father” – because unconsciously both know that “on ne viole vraiment un tabou qu’après avoir établi qu’on est conscient de ce caractère défendu qu’est la racine du sacré.” (Bellemin-Noël, 1994: 38). The term “metamorphosis” has a deeper significance viewed in this light: it can mean, according to the definitions given by the New Shorter Oxford Dictionary, (1) “the transformation which some animals undergo in the course of becoming adult; (2) the action or process of changing in form, shape or substance especially transformation by supernatural means; (3) a complete change in appearance, condition or character, circumstances”. The idea of sacrifice, overshadowed by other elements in Disney, is very powerful in Andersen’s tale and has been partly maintained in the Prosperine film. However, in both we find the idea of castration, which Disney would not consider showing the viewer, at least not at an overt level although castration does take place in the form of Eric annihilating Ursula by ramming the hull of the boat into her. Ursula, the ogress, the permanent threat of danger and evil, the huge devouring Mouth (la goule), the Phallic Mother, personifies the destructive aspects of orality, and yet this female antithesis of femininity, armed with tentacles, suffers castration at the hands of Prince Eric.6 In this respect, the significance of the dagger in the tale and in the Prosperine version is somewhat reversed. If the dagger represents the phallus and the mermaid the virgin, here, it is up to the pure and chaste virgin to plunge the dagger into the Prince’s heart and only if his blood flows on her feet (for Bellemin-Noël, red is the colour of castration) will she then regain her fish tail. She has obtained this very last chance to save her own life because her sisters have sacrificed what makes the beauty of a mermaid: they have given up their hair and are exposed to nudity which is the price they have paid to save their sister. But she remains a virgin and would rather give up her life than castrate the Prince. The idea of self-effacement and virtue become all the more meaningful in Andersen’s tale. The moral undertones in it are ‘reworked’ subtly by Dis6

Eric annihilating Ursula cannot be viewed as immoral for she is Evil personified. She deserves her fate all the more as, not only has she imprisoned several merfolk, but has transgressed all limits by reducing King Triton to a mere polyp. Triton, out of paternal love, is prepared to relinquish his power and even give up his life in exchange for Ariel’s freedom.

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ney so that the dominating themes become the struggle for political power, adolescence crisis and the quest for independence as an unconscious reaction against paternal and male authority in general, and, finally, resolution of the Oedipal conflict. After studying the first cinematic adaptation and then the Disney remake from Andersen’s tale which can be read in so many different ways, one cannot help but agree with Bettelheim in this particular context whereby Disney, for commercial and ideological reasons, has totally changed the set of values governing readers of the nineteenth century. In view of this one cannot totally condemn Disney’s version, given the context, as it encompasses the prevailing ideas of young viewers at the end of the twentieth century and conforms to their expectations: Starving the imagination of the child was expected to extinguish the giants and ogres of the fairy tale – that is, the dark monsters residing in the unconsciousness – so that these would not obstruct the development of the child’s rational mind...This was not to be achieved by the ego’s conquering the dark forces of the id, but by preventing the child from paying attention to his consciousness or hearing stories which would speak to it. In short, the child would supposedly repress his unpleasant fantasies and have only pleasant ones. (Bettelheim, 1975: 120).

It is interesting, however, to conclude with Woody Allen’s comment while promoting his Everyone says “I love you”(Allen:1997). Allen’s film, a fairy tale, shows how disillusioned he is with life’s eternal problems which do not seem to free him from the angst he lives with: Le fléau qui nous menace tous c’est une overdose de réalité. (...) je ne me suis jamais senti très à l’aise dans le monde réel. Je le trouve terrifiant, il s’y passe des choses horribles, tout le monde peut s’en rendre compte. Mais on passe sa vie à nier cela. A faire comme si. A vivre comme si on n’allait pas mourir. Dans un sens, c’est aussi bien, car si vous commencez à trop y penser, vous êtes cerné. Le malheur, la souffrance, la maladie, le crime, le vieillissement vous guettent. Insoutenable. Alors on se débrouille pour ne pas trop penser... (Télérama, n° 2457, 12 février 1997, p.12).

References Allen, Woody Interview in Télérama, n° 2457, 12/2/1997, 12. Bellemin-Noel, Jean (1994). Les contes et leurs fantasmes. Montréal: Balzac. Bettelheim, Bruno (1976). The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tale. Harmondsworth: Penguin. Bussi Parmiggiani, Elisa “Adaptation. The Theory and the practice.” Le cinéma et ses objets. Actes du colloque de Besançon. Costa de Beauregard, R., Men-

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Zeenat Saleh

galdo, R. (Eds.) Portiers: La Licorne. Chiaro, Delia (1998). “Talking Disney: Reflections on what children watch.” British/American variation in language, theory and methodology: The AngloAmerican Centaur, Carol Taylor Torsello, Louann Haarman & Laura Gavioli (Eds.) Bologna: CLUEB. The New Shorter Oxford English Dictionary. (1993). Oxford: Oxford University Press. Grimm, Wilhelm; Grimm Jacob (1812). Kinder und Hausmärchen. English Translation: The Grimms’ Complete Works. London: Collins, 1980. Wilde, Oscar (1976) Complete Works. London: Collins. Zipes, Jack (1983). Les contes de fées et l’art de la subversion. Paris: Payot.

Versions of the Little Mermaid: Lewis, Naomi (1994). Hans Andersen’s Fairy Tales. Harmondsworth: Penguin. Andersen, Hans Christian (1995). Andersen’s Fairy Tales. Wordsworth Children’s Classics. Andersen, Hans Christian (1993) The Little Mermaid and Other Fairy Tales by Hans Chritian Andersen. Dover Children’s Thrift Classics. Andersen, Hans Christian (1994). Fairy Tales, Hans Andersen. Harmondsworth: Penguin. Andersen, Hans Christian (1949). Les contes d’Andersen. Paris: Editions G.P. Andersen, Hans Christian (1996). Hans Christian Andersen: La petite sirène et autres contes. Paris: Booking International.

Video cassettes: La petite sirène, d’après le contes d’Andersen, Prosperine Editions, 1990 (original English version 1979). The Little Mermaid, Walt Disney Home Video, 1989.

Metamorphosis and Ideology in The Little Mermaid

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Hans Christian Andersen(1837) CINEMATIC ADAPTATIONS THE LITTLE MERMAID

PROSPERINE (1979)

DISNEY (1989)

Merking - widower Grandmother/Dowager

Merking - widower Grandmother

King Triton - widower No grandmother/Sebastian (Crab/guardian)

6 princesses- mermaids Little Mermaid (youngest)

6 princesses - mermaids Marina (youngest)

7 princesses - mermaids Ariel (youngest/Triton's favourite)

Friends: her 5 sisters + mer- Friend: Fritz (dolphin) maids

Friends:Flounder (fish ) + Scuttle (seagull)

Prince + parents x x

Prince Eric/no parents Grimsby, tutor (guardian) Max (dog)

Prince + parents Chamberlain Jamie (cat)

PHYSICAL CHARACTERISTICS Little mermaid: skin like Blond hair a rose petal/leaf. Eyes: blue as the deepest sea/lake Most beautiful of all.

Red hair

Fish tail Age: 10 + 5 = 15 No tears except at the end (Mermaids can't cry)

Fish tail Age: 16 Weeps: teenage crisis

Fish tail Not of age yet Weeps

Suffers agony - excrucia- A little physical pain. ting physical and emotional First steps painful. pain to get legs. Feet bleed; each step like a sword.

No pain to get her legs; tail changes into legs in the water.

Drinks potion (colourless). Drinks potion (red). Sleeps on velvet cushion Room and comfort. outside Prince’s door. A month’s adaptation

Potion+written contract. Room, comfort; takes it all for granted

CHARACTER OF L.M./MARINA/ARIEL Pensive, quiet, dreamy: “curious child, quiet and thoughtful”. Has to wait 5 years before going up. Desires most: to gain an immortal soul and win Prince's love.

Curious, wilful, determined to discover human world. Disobeys father. Desires Prince; deeply in love .

Exuberant, extrovert. Disobeys father: teenage rebellion. Typical American teenager in love.

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In her garden she plants Explores and finds human only red flowers like the sun objects. Finds the statue of and a red-rose weeping wil- boy after the first shipwreck. low; a white marble statue of a boy; contrary to her sisters who collect human objects from shipwrecks.

Has a treasure trove “full of gadgets and gizmos”. Flounder finds Eric’s statue in bronze after he is shipwrecked.

Merfolk live 300 years. No Merfolk live 3000 years. X soul. No soul. PRINCE/PRINCE ERIC Age: 16; birthday festivities. After finding Little Mermaid considers her “a foundling”, “a sweet child”. Higher status than the other slaves.

Age: imprecise. Grows fond of Marina; refuses to marry unknown princess. Obsessed by black-haired maiden who “rescued” him.

Age: imprecise. Has not found the “right girl”. Birthday festivities. Begins to fall in love with Ariel. Obsessed by the girl with the voice (Ariel is mute).

FATHER/FATHER/KING TRITON Mentioned at the beginning Slightly dominating but Power conscious. Pater of the tale. More or less rewards Marina. Loves her. familias, doesn’t accept absent. Grandmother domi- Absent from then onwards. disobedience. Generation nates. gap. Non resolution of oedipal conflict. Too attached to Ariel; remorse and guilt when Ariel escapes. Hatred for humans but, paradoxically, he, himself, given her away to a human – Eric – by using his magical power to give legs back to Ariel. WITCH/WITCH/URSULA-VANESSA Dangerous, terrifying. Draws black blood from her breasts to make potion. Predicts Mermaid’s misfortune. Cuts off Mermaid”s tongue.

Tall, thin, angular; two fangs – like the snakes she drapes around her. Shows her power by causing storms. Takes Marina’s voice.

Obese, ugly, hungry and wants to be ruler of the sea, to regain what was “usurped”. Loathes Triton. Uses Ariel as pawn to get back the trident. Even reduces Triton to a mere polyp. Makes Ariel sign a contract. Takes away her voice, hangs it in a shell around her neck. Changes herself into the girl with a voice – Vanessa.

Metamorphosis and Ideology in The Little Mermaid

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WITCH’S/URSULA’S CONTRACT Prince should love mermaid more than his father and mother. Union must be blessed by a priest/bishop (Prince’s right hand in hers). Thus Mermaid will get an eternal soul. If not, she will become foam.

Marina will never be a mermaid again if the Prince does not love her. She will become foam.

Before the third sunset Eric must give Ariel the kiss of true love. If he does not, according to the contract Ariel has signed, she will become Ursula’s property.

END Tragic; Little Mermaid’s heart is broken. Prince does not love her. Marries another. She becomes one of the spirits/daughters of the air. Her selfless love and good deeds will entitle her to an eternal soul after three hundred years.

Marina cannot get herself to kill the Prince. Blessed him, throws away dagger and jumps into the water. Transformed into a “coloured” bubble.

Marriage ceremony between Prince and ‘Vanessa’ (Ursula) stalled in time. Ursula’s shell containing Ariel’s voice returns to Ariel. Third sunset – too late, Ariel is changed back into a mermaid. Eric tries to get her back. Rams the ship into Ursula, destroys her. Triton recovers his trident and is King once more. Changes Ariel’s tail into legs. Ariel and Eric reunited by the kiss. Triton casts a rainbow.

Contributori

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Contributori

MARINA BONDI è Professore di Linguistica inglese presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena-Reggio Emilia. Ha pubblicato opere sui vari aspetti della analisi del discorso e dei generi, con particolare riferimento al discorso accademico, al discorso economico e alla analisi della argomentazione. È autore di una monografia su Dickens e il discorso politico, Bologna, Cappelli, 1989, e di uno studio su English Across Genres. Language Variation in the Discourse of Economics, Modena, Il Fiorino, 1999. Co-curatore di Understanding Argument, (V. Bussi) ha inoltre curato Forms of Argumentative Discourse. Per un’analsi linguistica dell’argomentare, Bologna, Clueb, 1998. Il suo contributo in questo volume si incentra sulla rappresentazione del dialogo argomentativo attraverso diverse versioni della Christmas Carol. G. ELISA BUSSI è stata Professore di Linguistica inglese presso le Facoltà di Scienze Politiche e SSLiMIT dell’Università di Bologna. Attualmente insegna presso le Università di Parma e Modena-Reggio Emilia. Si è interessata ai problemi del discorso politico e pubblicitario, e alle dinamiche della argomentazione. Su queste tematiche ha scritto e curato alcuni volumi e saggi, tra cui si ricordano L’Arte bastarda. Analisi del linguaggio della pubblicità televisiva inglese, Bologna, Patron, 1988; Rivoluzione e Contro-rivoluzione, il linguaggio del Conflitto 19776-1792 (a cura), Bologna, Patron, 1992; Understanding argument. La logica informale del discorso, (a cura, con M. Bondi e F. Gatta), Bologna, 1997, Clueb; sta attualmernte curando, con altri, un volume dal titolo Il ‘fantastico’ nella letteratura e nel cinema. I suoi recenti interessi convergono sui rapporti tra letteratura e cinema e sul cinema visto in una prospettiva di storia, cultura e identità nazionale. In questo volume ha contribuito con una Introduzione di carattere generale e con uno studio su alcune versioni filmiche di Wuthering Heights.

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Contributori

DELIA CHIARO è professore associato di Linguistica inglese presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Bologna. Si interessa di duplicità linguistica e i suoi filoni di ricerca sono il gioco verbale, il bilinguismo e il doppiaggio cinematografico, argomenti sui quali ha pubblicato diversi saggi. Ha pubblicato un volume sul gioco verbale, The Language of Jokes: Analyzing Verbal Play, London, Routledge, 1992. Ha contribuito qui con uno studio su Hitchcock che rifà se stesso in “The Man who Knew Too Much”. GIORGIO CREMONINI è nato nel 1936 a Bologna dove vive e insegna all’Università (Scienze della Terra). Dai primi anni ’70 si interessa e scrive di storia e critica del cinema. Ha pubblicato numerosi libri sul cinema comico e sulla narrazione nel cinema. Con Fabrizio Frasnedi ha pubblicato, per Il Mulino, Vedere e Scrivere,1982 e Scena e racconto, Lingua e cinema, Lettura e narrazione, 1984. Per Thema ha pubblicato Le logiche del racconto. Introduzione all’analisi narratologica dei film, 1991. Le ultime opere sono i due volumi monografici dedicati ad Arancia Meccanica e a The Shining, Torino, Lindau, 1997 e 1999. Collabora assiduamente alle Riviste “Cineforum” e “Garage” . Ha qui contribuito con un saggio sui remake da Henry V. MICHAEL HAYES insegna Linguistica inglese presso l’università di Central Lancashire, e conduce ricerca presso il Dipartimento di Cultural Studies di quella Università. Applica gli strumenti della analisi linguistica a forme di cultura popolare come il cinema e la fantascienza. Ha collaborato regolarmente alle pubblicazioni della SERCIA, ed in particolere ai volumi editi da La Licorne: Le cinéma et ses objets, 1997; Les dispostifs narratifs policiers au cinéma, 1998, Myths and Myth-making (in corso di pubblicazione). Ha contribuito con una ricerca di carattere teorico - metodologico sulla analisi dei testi filmici da J. Caine, “The postman always rings twice”. FRANCO LA POLLA insegna Storia della Cultura Nord Americana presso l’Università di Bologna. Ha scritto volumi sul romanzo americano del Novecento e sulla narrativa statunitense postmoderna. Esperto di cinema, con particolare attenzione per il cinema americano, tra i suoi numerosi saggi sull’argomento si ricordano in particolare: Il nuovo cinema americano 1967-1975, Genova, Marsilio, 1978; Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Bari, Laterza, 1987; L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Torino, Lindau, 1991; Questa non è l’Australia? Torino, Lindau, 1993; Star Trek al cinema, Bologna, PuntoZero,1999. Ha contribuito a questo volume con un saggio di carattere teorico sulla pratica del remake.

Contributori

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ZEENATH SALEH è Maître de Conférences in inglese (EFL) presso l’Università della Franche-Comté, Besançon. Ha iniziato le sue ricerche nel campo dei ‘film studies’ nel 1989. È uno dei membri fondatori della SERCIA (Associazione Universitaria di ricercatori sul cinema anglofono) con sede presso l’Università di Toulouse - Le Mirail, di cui è tuttora Segretaria. Ha pubblicato articoli su Greenaway, Laughton e Scorsese, Demme e Frears nei volumi degli “Actes des Colloques de la SERCIA”, ed in particolare: Le Cinéma et ses objets, 1995; Les Dispositifs narratifs policiers au cinéma, 1996; Myths and Mythmaking, 1998; Cinéma/Arts, 1999, tutti nelle “Publications de La Licorne”, UFR, Languages Littératures, Poitiers. LAURA SALMON KOVARSKI è professore associato in lingua e traduzione Russa presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Bologna, sede di Forlì. Ha scritto numerosi saggi sulla traduzione ed è autrice di una monografia sulla letteratura Russo-Ebraica, Una voce dal deserto. Ben-Ami, uno scrittore dimenticato (1995). Da alcuni anni fa parte del progetto di ricerca della Facoltà sulla traduzione multimediale in cui si occupa particolarmente della semiotica nel cinema. Con G.E. Bussi ha curato il volume su Letteratura e Cinema. La trasposizione, Bologna, Clueb,1996. Ha collaborato a questa raccolta con uno studio sulle versioni filmiche del racconto di Tolstoj, “Padre Sergio”. ALDO VIGANÒ, è nato a Milano nel 1941. È stato insegnante di Storia e Filosofia in Licei genovesi, e dal 1974 al 1995 è stato critico cinematografico e teatrale de Il Secolo XIX. Presidente del Gruppo Ligure Critici Cinematografici, collabora con alcune riviste specializzate italiane (Film D.O.C., Cinecritica) e spagnole (Dirigido). È consigliere culturale del Teatro Stabile di Genova, di cui dirige la collana editoriale. Ha pubblicato numerosi saggi e i seguenti volumi: Dino Risi (Moizzi Editore), Federico Fellini (Gremese Ed., in coll. con Claudio G. Fava), Le parole del montaggio (Erga Ed., in coll. con Luca Viganò), Western in 100 film (Le Mani Editore), I film di Pietro Germi (a cura di, Comune di Genova), Commedia Italiana in cento film (Le Mani Editore), Salvo Randone tra scena e schermo (a cura di, Genova), La Resistenza nel cinema italiano (ISRL, in coll. con Mauro Manciotti), Sentieri di John Ford (a cura di, Le Mani Editore), Storico in cento film (Le Mani Editore), Claude Chabrol (Le Mani Editore). Ha contribuito a questo volume con un saggio sui remake da Amleto.

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Nomi citati Abbot 163, 165 Ada 106 Albertazzi, S. 91 Alejandro 100-102 Allen, W. 13, 186, 187 Allott, M. 107 Amleto 51-55, 95 Andersen, H. C. 18, 176, 177, 180, 185-187, 188 Anna Karenina, 120 Anninskij, L.A. 118-120, 123, 124, 126-129 Ariel 178, 182-184, 186 Aristotole 49, 55 Arnheim, R. 26, 94, 107 Astaire, F. 27 Austen, J. 16-18, 80 Bailey, G. 164, 168 Bakhtin, M.M. 134 Balàzs, B. 107 Balzac, H. de 24 Banks, L. 32 Bardolph (Bardolfo) 34-35, 38-39 Barrymore, L. 62 Barthes, R. 32, 40, 134, 136 Baskin, S. 136 Bateson, G. 133 Baudelaire, C. 175

Bazin, A. 26, 32, 39, 40, 51, 52, 54, 55, 94 Beckett, S. 26 Belle 72 Bellemin-Noel, J. 175, 185, 186 Bene, C. 45, 54 Besson, B. 45 Bennett, R. 52 Berger, T. 29 Berlioz, H. 27 Bernard 168 Best, E. 165 Bettelheim. B 179, 184, 185, 187 Betty 166, 167 Binoche, J. 103, 104 Bloom, C. 107 Bloom, H. 23, 31, 40, 144 Bluestone, G. 83, 94, 96, 97, 107 Boccaccio, G. 117 Bogart, H. 13, 28, 29 Bogdanovich, P. 23 Bompiani, G. 107 Bondanella, P. 158 Bondarôcuk, S. 124, 127, 130 Bondi, M. 18, 60, 67, 74, 107 Borzage, F. 98, 106, 107 Bosinelli Bollettieri, R.M. 11 Bragana 144-146, 148, 149, 156 Branagh, K. 16, 28, 31, 33, 36, 37, 3941, 45, 52, 54 Briggs, J. 83, 107

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Brontë, E. 17, 80, 83, 84, 91, 103, 106, 107 Brooks, M. 27, 28 Brooks, P. 93, 107 Buchanan, J. 27 Buñuel, L. 20, 92, 98-100, 102 Burney, F. 83 Burton, R. 45 Bussi, G.E. 11, 31, 40, 60, 74, 90, 107, 136, 137, 178, 187 Byron, G. 80 Cain, J.M. 19, 143, 148-157 Caine, M. 72 Calabrese, O. 20 Campari, R. 20 Campbell, J. 23 Campion, J. 106, 107 Canova, G. 49, 55 Capra, F. 164 Carlo III 117 Carlos Williams, W. 144 Carroll, J. M. 137 Castellari, E.G. 45 Catania, S. 107 Catalina 100-102 Cathy / Catherine 20, 80-82, 84-91, 94, 96-101, 104-106 Cattini, P.A. 100, 107 ô Cechov, A. 126 Cecil, D. 80, 107 ô Certkov V.G. 121 Ceserani, R. 91, 107 Chabrol, C. 45, 52 Chamberlain, R. 45 Chaplin, C. 51 Chappell, A. 169-170 Chatman, S. 19, 32, 40, 63, 75 Chenal, P. 143 Chesterton, G.K. 80 Chiaro, D. 15, 178, 188 Chisciotte, Don 13 Chitham, E. 108 Chomsky , N. 140 Churchill, W. 162 Cinzio, G. 24

Citham , E. 83, 107 Clair, R. 27 Clara 72, 74 Claudio 52 Close, G. 162, 178 Clouseau, C. 103 Colleran, B. 52 Copeau, J. 52 Cora 143, 145, 147-156 Coronado, C. 45 Costa, A. 14, 20, 60, 75 Costa de Beauregard, R. 20 Coulthard, M. 142 Cozza, A. 36, 38, 39, 40 Cratchit, Bob 61, 64, 67-69, 72-74 Cratchit, Mrs 72, 74 Cremonini, G. 17, 31, 32, 34, 40, 41, 107 Cukor, G. 94 Davenport, H. 103 Davis, P. 61, 74, 75 Day, D. 163, 164, 168 De Angelis, M.P. 107 De Beaugrande, R. 138 De Palma, B. 51 De Turris, G.F. 107 De Ville, Cruella, 162, 178 Dean, Nelly 80, 84, 89-91, 95, 102, 104-106 Demidova, A. 127 Di Gaula, A. 13 Dickens, C. 18, 59, 61, 70, 71, 82, 83, 118, 119 Disney, W. 18, 60, 62, 63, 67-71, 177, 178, 180-182, 184, 185, 187 Dostoevskij, F. 119, 126, 127 Dracula 82 Drayton, L. 168 Drayton, Mr. 166, 170 Dreiser, T. 24 Dumas, A. 118 Eagleton, T. 82, 107 Earnshaw 84, 103 Easthope, A. 107

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Eaton, W.P. 135 Eco, U. 19, 20, 116, 119, 129, 134 Eduardo 101 Eisenstein, S.M. 135, 136 Elkin, S. 29 Eric 178, 182, 183, 186 Fabray, N. 27 Faithfull, M. 52 Falstaff 34, 36 Farinotti P. 117 Fedorchenko, F. 135 Felix, A. 13 Fezziwig 70 Fiennes, R. 103, 104 Fink, G. 15, 20, 39, 95, 99, 107 Flotsam and Jetsam 184 Flounder 179, 180, 183 Ford, H, 29 Forster, E.M. 17, 82, 107 Fortunati, V. 107 Fowles, J. 25 Fox, C. 83 Fradkin, L.Z. 120, 129 Franci, G. 107 Frank 143, 147-156 Fred 61, 64, 65, 68-70, 72-74 Frenay, L. 167 Freud, S. 23, 29, 86, 121 Fritz 179-181 Gambadilegno 70 Garbo, G. 120 Garfield, J. 144 Garnett, T. 19, 143, 147, 149-157 Garrick 28 Garvey , M. 135, 158 Gaskell, E. 80, 83 Gatta, F. 74 Genette, G. 13, 29, 32, 41 Gesù 119 Ghislotti, S. 39, 41 Gielgud, J. 45, 52 Gilbert S.M., Gubar, S. 84, 108 Gino 144, 146, 149-156

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Giovanna, 144, 146, 149-156 Girard, R. 86, 87, 108, 125, 129 Giulietta 101 Giramondo, S. 126 Gledhill, C. 108 Goethe, J.W. 27 Gonzo, the Great 71 Gordon, G.B. 89, 108 Gor’kij, M. 121 Gounod, C.F. 27 Grimm, Brothers 176, 179, 188 Grimsby 179, 182 Guerra, T. 115 Guildernstern 29 Hank 168-170 Hans 178 Hareton 84, 90, 104 Harfleur 39 Hart, J.E. 23 Hawks, H. 50 Hawthorne, N. 91 Hayes, M. 19, 92 Heathcliff, 20, 82-91, 96-100, 104, 106 Hecht, B. 94 Hegel, G.W.F. 49, 55 Hemingway, E. 108 Hepburn, A. 28, 29 Hindley, 84, 99, 101 Hitchcock, A. 15, 50, 163-167, 170 Hjelmslev , L. 19, 138-140 Hollingdale, 178 Homans, M. 108 Hopkins, A. 52 Hurst, B.D. 71 Isabel 100 Isabella 84, 91 Jack lo squartatore 119 Jack 178 Jackson, R. 80, 82, 83, 108 Jakobson, R. 11 Jacobi, D. 33

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Jamie 179 Jeannot 178 Jekyll 82 Jerrold, D. 80 Jiminy Cricket 70 Johnson, A. 27 Johnstone, S. 158 Joseph 95, 101 Joyce, J. 135, 136 Jung, C.G. 23 Karskij, G. 129 Kasatskij, S. 117, 124-126 Kaurismaki, A. 45, 52 Kautner, H. 45, 52 Kean 28 Keats 147 Kermit the Frog 72 Keyser, L.J. 63, 75 King Triton 179, 182, 186 Kirkham, M. 88 Klein, M. 60, 75 Kosminski, P. 20, 92, 102, 109 Kozintzev, G. 17, 54 Kozlov, L.K. 120 Kristeva, J. 84, 85, 108, 141 Kuhn, T. 133 Kurosawa, A. 16, 40 Kziner, F. 162 La Polla, F. 13, 60 Lacan, J. 186 Lady Chatterly 94 Lamb, S. 19, 138 Lang, F. 50 Laughton, C. 162 Lawrence, J. 165, 167, 170 Lechte, J. 141 Lefevere, A. 12 Léon, 28 Leroy, M. 94 Levant, O. 27 Lewis, N. 176, 177 Linton, Edgar 86, 87, 96-97, 99, 104 Lockwood 88-91, 95, 96, 99, 103

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Loncraine, R. 18 Lorre, P. 163, 165 Lotman, J. 114, 116, 129 Louis 167 Lubitsch, E. 27, 28 Luhrmann, B. 162 Lüthi, P. 176 Lyth, R. 45 Macario 45, 52 Macbeth 106 Magnani, A. 127 Maldoror 82 Marceau, M. 62 Maria 101 Marina 179-182, 186 Marley 68 Marlowe 27 Marmeladova, S. 127 Mars-Jones, A. 103 Martinet, A. 137 Martini E. 31, 37, 38, 41, 45, 55 Mary 125 Mayne, J. 20 Max 179, 185 McArthur, C. 94 McCall 63 McFarlane, B. 108 McKee, R. 158 McKenna, B. 163, 165, 166, 168170 McKenna/Conway J. 165, 166, 168170 McMurray, M. 45 Mellors, A.R. 84, 94, 108 Meo, A. 79 Metz, C. 39, 137 Michalkov, N. 115 Mil’kina, S. 122 Minelli, V. 27, 94 Miss Piggy 74 Moby Dick 82 Moland 176 Monk, The 82 Morag, zia, 107

Indice dei nomi

Mozôzuchin 124 Murnau, F.W. 27 Neame, R. 71 Nepoti, R. 16, 20 Nessie 107 Nestor, P. 86, 108 Nick Papadakis / Smith 143, 145, 147 Nicola I 117 Ninotchka 28 Nym 34, 35 O’ Connor, S. 103 Oates, C. 167 Oberon, M. 95, 97 Ofelia 106 Olbrechts-Tyteca, L. 60, 75 Olivier, L. 17, 28, 31, 34, 36, 37, 3941, 45, 54, 95 Ormond, J. 29 Paperino 69, 70 Paperone / Scrooge / McDuck 62, 63, 68-70, 72, 73 Parker, G. 60, 75 Paôsen’ka 127 Perelman, Ch. 75 Pasolini, P.P. 137 Pavloviôc, N. 125 Perrault, C. 176 Piceni, E. 79 Pierce 140 Pike 156 Pistol (Pistola) 34, 35, 39 Plantin, C. 60, 75 Pollack, S. 28, 29 Poggi, V. 107 Pontecorvo, G. 142 Praz, M. 80 Propp, W. 176 Protazanov, J. 18, 121, 123, 124, 127 Protopopoff, D. 50, 55, 60, 75 Proust, M. 15 Rafelson, B. 143 Ramon 165-168

201

Rasy, N. 84, 108 Ricardo 101 Richardson, T. 45, 52 Rizzo, the Rat, 71 Roach, H. 146 Roe, S. 88, 108 Rosencrantz 29 Rosenfield, C. 23 Rosengren, K.G. 133, 158 Rossellini, R. 136 Runcini, R. 82, 108 Russell 137 Sackett 147 Saleh, Z. 18, 158 Salmon Kovarski, L. 18, 19, 40, 60, 86, 107, 115, 129, 130, 136 Sampson, G. 137, 138, 158 Santayana 134 Saussure 134, 136, 137, 140 Saville, P. 45 Schickel 70 Scott, W. 80 Scrooge 61, 63-74 Scuttle 183 Sebastian 179, 183 Serceau, M. 49, 55, 60, 75 Sergij 117, 124 Shakespeare, W. 16, 17, 28, 30, 31, 40, 119 Schickel, G. 75 Simonelli, G.C. 45 Sinclair, J. 142 Sirk, D. 94 ô Sklovskij, V. 113, 114, 118, 129, 130 Skynner, D. 104 Smith, M. 171 Soldi 176 Spaventa Filippi, L. 79 Sperber, D. 137 S. Paolo 88 Stam, R. 14, 20 Stati, S. 60, 75 Stendhal 24 Stewart, J. 163, 164

Indice dei nomi

202

Stoppard, T. 17, 29, 45 Street, D. 60, 75 ô sin, V. 116 Sukô ô Svejcer, M. 122 Svobodin, A. 120, 121 Szondi, P. 118

Wirth, F.P. 45 Wolfe, T. 24 Wood, P. 45 Woolf, V. 17, 81, 108 Wyler, W. 15, 20, 79, 92, 93, 98-100, 102, 103, 105, 106

Talankin, I. 18, 120, 124, 125, 127-129 Taviani, fratelli 18, 115, 116, 119, 124-130 Taviani, P. 115, 116, 119, 128 Taviani, V. 115, 127 Taylor 135 Tinazzi, G. 14, 20 Tiny Tim 69, 73 Todorov, T. 91, 108 Tolstoj, L. 113, 115-129 Topolino/ Mickey 63, 70-71 Traversi, D. 108 Tristano, 98 Truffaut, F. 163, 164 Turner, L. 144 Tynjanov, J. 114

Yeats, W.B. 85 Yoshida, Y. 95

Ulmer, E.E. 45 Unik, P. 100 Ursula 182-184, 186 Vardac, A.N. 158 Verdi, G. 24 Vidor, K. 94 Viganò, A. 17, 20, 31, 41 Villa, A. 119 Vine, S. 84, 86, 108 Visconti, L. 18, 143, 145, 146, 150157 Vosper, F. 166, 167 Wagner, G. 79, 94, 95, 98, 108 Welles, O. 23, 35 Wilde, O. 176, 185, 188 Wilder, B. 28, 30 Williams, R. 82 Williamson, N. 52 Winnifrith, T. 108

Zeffirelli, F. 45, 52, 54 Zillah, 91 Zipes, J. 175, 176, 179, 188 Testi letterari citati Act Without Words 26 All That Fall 26 Bad Man, A, 29 Beauty and the Beast 178 Bostonians, The, 25 Boswell 29 Christmas Carol, A, 18, 61, 73, 74 Cinderella 178 Common Reader, The, 81 D’ ‘javol / Diavolo 121 Daniel Martin 25 Decameron 117 Delitto e Castigo 122 Double Indemnity 144 Emma 18 End-Game 26 Eneide, 13 Europeans, The, 25 Falstaff 35 Farewell to Arms 98, 106 Fisherman and His Soul, The, 184 Krejcerova Somata 121 Little Big Man 29 Little Mermaid, The, 18,176, 177 Macbeth 37, 40 Midsummer Night’s Dream, A, 32 Neighbors 29 Odissea, 13

Indice dei nomi

Otec Sergij, 18 Otello, 24 Persuasion, 17 Postman always Rings Twice, The, 19, 143 Re Lear 28, 37, 40 Rebecca 94 Riccardo III 18 Rosencrantz and Guildenstern are Dead 29, 45 Snow White 178 Sonata a Kreutzer, La, 122 Ulisse 13 Wuthering Heights (Cime Tempestose / La voce nella tempesta) 16, 79-94

Film citati Alexandr Nevskij 41 Abísmos de Pasión 99, 109 101 Dalmatians 178 Bostonians, The, 25 Cape Fear 16 Childrens’ Hour, The, 15 Clueless 18 Daisy Miller 25 Dead Again (L’altro delitto) 41 Den Tragiska Historien om Hamlet, Priz ar Danmark 45 Der Rest ist Schweigen 45 Eldorado 50 Emily Brontë’s Wuthering Heights 102, 109 Essere o non Essere 27, 28 Everyone Says ‘I love you’ 187 Falstaff (Campanadas a medianoche Chimes at Midnight) 41 Father of the Bride, 162 Gamlet, 54, 55 Gone with the Wind 95 Hamlet (Amleto) 17, 28, 29, 32, 41, 45, 46, 48, 49, 52, 53, 55 Hamlet at Elsinore 45

203

Hamlet liikemaailmassa 45 Hamlet, Prince of Denmark 45 Hamlet. 17 Heiress, The 95 Henry V (Enrico V), 17, 28, 31, 32, 37, 39-41 Henry V, 17, 32-40 Homelette for Hamlet 45 Hunchback of Notre Dame 162 Hundred and One Dalmatians, A, 162 In the Bleak Midwinter 41, 45 Io, Amleto 45 It’s a Wonderful Life, 164 Jane Eyre 16 Johnny Hamlet (Quella sporca storia nel West) 45 Lezioni di Piano 106 Little Mermaid, The, 18, 178, 180-182 Mabuse 50 Man who knew too much, The (L’uomo che sapeva troppo) 15, 50, 161, 163, 171 Mary Shelley’s Frankenstein (Frankenstein di Mary Shelley) 41 Mickey’s Christmas Carol (Il Canto di Natale di Topolino) 60, 62, 63, 67, 68, 72-74 Much Ado About Nothing (Molto rumore per nulla) 41 Muppett Christmas Carol, The, 60, 62, 63, 67, 71, 73, 74 Oci Ciornie 115, 129 Ophélia 45 Ossessione, 19, 143, 158 Padre Sergio / Otec Sergij 115-130 Petite Sirène, La, 188 Play it again, Sam 13 Portrait of a Lady 25 Postman always Rings Twice, The, 16, 143, 158 Prince and the Show Girl, The (Il principe e la ballerina) 41 Richard III (Riccardo III) 18, 41 Rio Lobo 50 Robin Hood 162

204

Romeo and Juliet, 160 Sabrina 16, 28, 30 Sole anche di Notte, Il, 18, 119 Spettacolo di varietà 27 Strange Illusion o Out of the Night 45 Suspense 25 These Three 15

Indice dei nomi

This Sporting Life (Io sono un campione) 41 Un Amleto in meno 45 Un dollaro d’onore 50 Vogliamo vivere! 27 West Side Story 162 Wuthering Heights 105, 106, 109