Saper vedere il cinema
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Zitiervorschau

STRUMENTI BOMPIANI

Antonio Costa

SAPER VEDERE IL CINEMA [nuova edizione riveduta e aggiornata]

STRUMENTI BOMPIANI Collana diretta da Umberto Eco

Antonio Costa SAPER VEDERE IL CINEMA Nuova edizione riveduta e aggiornata

STRUMENTI BOMPIANI

Antonio Costa insegna cinema alla Facoltà di Design e Arti dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV). Visiting professor nelle università di Paris 8 e di Montréal, ha insegnato a lungo all’università di Bologna, dove ha diretto il Dipartimento di Musica e Spettacolo dal 1995 al 1998. Tra i suoi libri: La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Clueb 19892; Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Utet 1993; Il cinema e le arti visive, Einaudi 2002; I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Bulzoni 2002; Ingmar Bergman, Marsilio 2009; La dolce vita, Lindau 2010.

Realizzazione editoriale Netphilo Srl ISBN 978-88-58-76074-1 © 2011 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 20132 Milano Prima edizione digitale Strumenti Bompiani settembre 2013

Indice

Premessa

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PARTE PRIMA CHE COS’È IL CINEMA?

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1. Istituzione, dispositivo, linguaggio 2. Punti di vista sul cinema 2.1 Cinema e storia 2.2 Estetica e semiotica 3. Per una didattica dell’immagine

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PARTE SECONDA LE ETÀ DEL CINEMA

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4. Le origini: uno sguardo storico 5. Il cinema muto 5.1 Saper vedere (e ascoltare) il cinema muto 5.2 Dal cinematografo al cinema: nascita di un linguaggio

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5.3 Modi di produzione e modi di rappresentazione 5.4 L’ascesa di Hollywood 5.5 La grande stagione del cinema comico 5.6 Europa: ragioni del mercato e attrazioni dell’avanguardia 5.6.1 Dal futurismo al surrealismo 5.6.2 Germania e paesi nordici 5.6.3 Russia anni venti: cinema e rivoluzione 5.6.4 Invito al cinema muto italiano 6. Il cinema sonoro dagli anni trenta ai cinquanta 6.1 L’avvento del sonoro 6.2 L’età d’oro di Hollywood 6.3 I generi classici del cinema americano 6.3.1 Punti di vista sui generi 6.3.2 Tre esempi: melodramma, noir, western 6.4 Il neorealismo italiano 6.4.1 Storia e storie del neorealismo 6.4.2 Neorealismo e cinema moderno 7. Il cinema moderno 7.1 La “politica degli autori” e l’insegnamento di Bazin 7.2 Il nuovo cinema degli anni sessanta 7.2.1 La Nouvelle Vague 7.2.2 Il New American Cinema Group e le esperienze underground 7.2.3 Miti e realtà del cinema diretto 7.2.4 Poetiche delle Nouvelles Vagues 7.2.5 Italia anni sessanta 7.2.6 Il nuovo cinema tedesco

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8. Dopo il cinema moderno 8.1 Che fine ha fatto il cinema moderno? 8.1.1 Nuova Hollywood: dagli auteurs ai blockbusters 8.1.2 Cinema e TV: integrazione, convergenza, ibridazione 8.2 Il cinema nell’età del digitale

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PARTE TERZA TECNICHE E LINGUAGGIO

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9. Uno sguardo sul set. Il processo di produzione 9.1 Come nasce un film? Impariamolo dai titoli di testa 9.2 Che cos’è un regista cinematografico? 10. Dalla sceneggiatura al montaggio 10.1 La sceneggiatura 10.1.1 Come si scrive un film 10.1.2 Come si tra-scrive un film 10.1.3 Oltre le regole 10.2 L’inquadratura 10.2.1 Parametri tecnici dell’inquadratura 10.2.2 Il punto di vista 10.3 I movimenti di macchina 10.4 La fotografia 10.5 Gli effetti speciali 10.5.1 C’era una volta il trucco 10.5.2 Semiologia del trucco

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10.5.3 Cosa vediamo quando vediamo un effetto speciale? 10.6 Il montaggio 10.6.1 Teoria e pratica del montaggio 10.6.2 La grande sintagmatica del film di finzione 10.6.3 Il montaggio nell’età del digitale 10.7 Non solo immagini 10.7.1 Découpage sonoro 10.7.2 Effetti speciali sonori 10.7.3 Sonorità postmoderne 11. La scena e l’attore 11.1 Scenografia, architettura, paesaggio 11.2 Attori e divi

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Riferimenti bibliografici

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Indice dei film citati

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a Maria Teresa

Premessa

Dopo venti ristampe, Saper vedere il cinema esce in una nuova edizione riveduta e aggiornata. Nato dalle esperienze di corsi di introduzione al cinema, il testo conserva il più possibile le caratteristiche originarie. Esso si rivolge idealmente, oltre che all’appassionato di cinema, a studenti che stanno per finire o hanno appena finito la scuola superiore e stanno per iniziare corsi universitari di spettacolo o di comunicazione. L’obiettivo è di fornire un primo orientamento sia sul piano della storia che su quello della tecnica e del linguaggio. Piuttosto che privilegiare un determinato approccio (storico, semiotico, tecnico), il testo si propone di illustrare che cosa il lettore possa aspettarsi da ognuno di questi approcci, quali siano le tematiche e i metodi che essi implicano e quali siano gli strumenti idonei ad approfondirli. La nuova edizione ha introdotto, alla fine dei paragrafi e dei capitoli, i box “Per saperne di più”: per la ricchezza dei riferimenti e dei consigli per nuove letture, essi costituiscono anche un’aggiornata guida bibliografica. Si sono inoltre incrementati i rinvii tra i vari capitoli, in modo che il lettore sia indotto e incoraggiato a passare da una parte all’altra del libro, per esempio da un paragrafo della seconda, che segue un percorso storico, a uno della

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terza, che riguarda tecnica e linguaggio (o viceversa). In effetti, il libro potrà essere letto seguendo la successione dei capitoli, ma anche scegliendo liberamente un punto d’ingresso: il lettore potrà, per esempio, partire dagli effetti speciali e poi risalire al cinema delle origini; oppure lasciare provvisoriamente da parte un capitolo un po’ ostico, per tornarci quando avrà acquisito qualche strumento in più. I titoli dei film citati nel testo sono quelli dell’edizione italiana; quando questa non c’è stata, si è usato il titolo originale. Nell’indice dei film citati, alla fine del volume, accanto ai titoli italiani, sono forniti quelli originali. La data indicata è quella dell’edizione originale e coincide, di norma, con la data della prima proiezione pubblica documentata. I riferimenti bibliografici nel testo sono forniti con il metodo autore-data-pagina (esempio: Metz 1980: 85). Il primo numero dopo il nome dell’autore si riferisce all’edizione italiana, quando esiste. Segue, dopo i due punti, il numero della pagina. Nella bibliografia, accanto al titolo, viene fornita tra parentesi quadre la data dell’edizione originale (esempio: Metz, Christian, 1980 Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario [ed. or. 1977], Venezia, Marsilio).

PARTE PRIMA CHE COS’È IL CINEMA?

1. Istituzione, dispositivo, linguaggio

Siamo al cinema. Al cinema? Non necessariamente. Ora i film si vedono ovunque: in televisione, sul portatile, sull’iPad e sul videofonino. E noi stiamo vedendo, da soli o in compagnia, Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan. Il film, tratto da The Last Tycoon, romanzo postumo di Francis S. Fitzgerald, è ambientato a Hollywood. Robert De Niro, nel ruolo del produttore Monroe Stahr, ha appena concluso una scena entusiasmante: quella in cui spiega cos’è il cinema a uno sceneggiatore in crisi e nevrotizzato dai metodi di lavoro nello studio. Si tratta di un brano da antologia, per la regia, per la recitazione, per il ritmo e, non ultimo, per la filosofia del cinema enunciata da Stahr-De Niro. Ecco la trascrizione del dialogo dall’edizione italiana. STAHR: In ufficio ha una stufa che si accende con un fiammifero? BOXLEY: Credo di sì. STAHR: Supponga di essere nel suo ufficio […] È sfinito. Questo è lei. C’è una donna alla porta. Entra e non la vede. Si toglie i guanti. Apre la borsa e la vuota sul tavolo. Lei la guarda. Questo è lei. Adesso… la donna ha due centesimi, dei fiammiferi e un nichelino. Lascia il nichelino sul tavolo, rimette i due centesimi dentro la borsa. Poi prende i guanti. Sono neri. Li mette nella

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stufa. Accende un fiammifero. A un tratto il telefono suona… Alza il ricevitore. Ascolta. Dice: “Non ho mai avuto un paio di guanti neri in vita mia”. Riattacca. Si inginocchia vicino alla stufa, accende un altro fiammifero. Improvvisamente lei si accorge che c’è un altro uomo nella stanza. Un uomo che sta osservando ogni mossa che fa la donna. [lunga pausa] BOXLEY: Che succede poi? STAHR: Mah! Non lo so! Stavo solo facendo del cinema. BOXLEY: Il nichelino a che serviva? STAHR: [Rivolto a una collega di Boxley che assiste alla scena] Jenny, tu sai a che serviva? JENNY: Serviva a fare del cinema. BOXLEY: Ma cosa mi paga a fare? Queste strane storie non le capisco. STAHR: E invece sì! Se no non mi avrebbe chiesto del nichelino.

Il dialogo della versione italiana riproduce grosso modo il testo di Fitzgerald con alcune varianti trascurabili, meno una: nel romanzo, alla domanda di Boxley circa la funzione del nichelino, Stahr risponde in modo diverso: “Ah sì… il nichelino serviva per andare al cinema [the nickel was for the movies]” (Fitzgerald 1968: 48). È davvero un peccato, perché tale risposta, se mantenuta inalterata, avrebbe incluso anche la fase del consumo in questa lezione di economia cinematografica. In questa breve scena Stahr ha risposto in modo chiaro e divertente alla domanda “che cos’è il cinema?”, non impedendoci, alla fine, di avere un punto di vista diverso dal suo, tanto è vero che potremo poi chiederci perché Stahr risponda a quella domanda in quella precisa maniera. Partiamo dal confronto tra il testo letterario e quello filmico. Fitzgerald non dà quasi alcuna informazione sul-

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la mimica, gestualità e movimenti di Stahr durante questo dialogo. Nel film, De Niro mima tutta la scena, muovendosi in vari punti della stanza. Nel corso del dialogo, che dura meno di tre minuti, abbiamo più di quaranta cambiamenti di inquadratura (con un uso di tutte o quasi le variazioni di scala e di angolatura possibili in un ambiente come quello in cui si svolge la scena). Ciò che nel testo di Fitzgerald ci è riferito, nel film di Kazan ci viene fatto vedere e sentire, ma attraverso un duplice dispositivo di simulazione (quello dell’attore che recita e quello propriamente filmico che produce l’illusione di realtà). In questo frammento il nostro ruolo di spettatori sedotti dal gioco della finzione è rappresentato dallo sceneggiatore, un po’ nevrotico e un po’ ottuso (non offendiamoci!): Boxley si lascia adescare dal gioco seduttivo di Stahr, come noi da quello di De Niro. Boxley è lì in nostra rappresentanza: si comporta come ci saremmo comportati noi; anzi, come ci stiamo comportando noi. Egli fa ciò che il piccolo dispositivo di narrazione inscenato da Stahr prevede che faccia. Ma anche ci rappresenta (nel senso in cui si dice che un attore rappresenta un personaggio): fa la parte dello spettatore (“spettatore modello”, come si dice in narratologia), in un momento della vicenda in cui sta per essere licenziato e in cui, per cavarsela, dovrebbe assumere un ruolo meno passivo. Stahr-De Niro, quando alla fine dice “stavo solo facendo del cinema” (e non, supponiamo, del teatro), dice la verità in tutti i sensi. Della scenetta da lui narrata e rappresentata (il cinema è insieme narrazione e rappresentazione) ha saltato parecchi passaggi (rispetto al suo presumibile svolgimento reale): ha operato, per usare un termine più preciso, delle ellissi. Non solo. Si è anche spostato in vari punti della stanza: è stato in piedi, seduto, di spalle o di fronte a Box-

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ley, si è accucciato. Ha costretto Boxley a seguirlo con lo sguardo, a focalizzare l’attenzione sui dettagli dei suoi gesti isolandoli dall’insieme del suo campo visivo. Ha usato la convenzione della narrazione, sapendo che Boxley sarebbe stato perfettamente al gioco. Kazan, da parte sua, non solo ha operato alcune ellissi rispetto alla presumibile durata reale della conversazione tra i due (sa di poterlo fare, perché sa che noi non possiamo non stare al gioco), ma ha frammentato la scena in molte inquadrature, perché sa che noi siamo lì pronti a identificarci con qualunque punto di vista egli ci proponga; sa che oltre a Boxley anche la cinepresa è lì in nostra rappresentanza (e ci rappresenta). Se ci fossero difficoltà, ecco che alcuni accorgimenti di montaggio, di raccordi tra sguardi dei personaggi e la continuità del sonoro renderanno tutto più fluido. Tanto fluido che solo uno spettatore esperto (e solo con l’aiuto di una visione rallentata) sarà in grado di dire di quante inquadrature si componga la scena. Ora ci fermiamo per tirare un po’ le somme, perché le risposte alla domanda “che cos’è il cinema?” sono già più d’una, e non meno importanti né tanto diverse da quelle che troviamo nei testi teorici. Leggiamo, per esempio, un brano da un libro di Christian Metz, uno dei più autorevoli studiosi di semiotica del cinema, e ci accorgeremo che parla della stessa cosa di cui parla Stahr-De Niro (e non è un caso che proprio a questo brano è ispirato l’incipit di questo capitolo). Sono al cinema. Davanti ai miei occhi passano le immagini del film hollywoodiano. Hollywoodiano? Non necessariamente. Le immagini di uno di quei “film”, semplicemente, nel senso più comune che ha attualmente la parola – di uno di quei film che l’industria cinematografica ha oggi la funzione di produrre. L’in-

1. ISTITUZIONE, DISPOSITIVO, LINGUAGGIO

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dustria cinematografica e anche, più ampiamente, l’istituzione cinematografica nella sua forma attuale. Perché questi film non sono soltanto milioni che bisogna investire, rendere fruttuosi, recuperare accresciuti, reinvestire. Essi presuppongono anche, se non altro per assicurare il circuito di ritorno del denaro, che gli spettatori paghino il biglietto e che quindi ne abbiano voglia. L’istituzione cinematografica oltrepassa di molto questo settore (o questo aspetto) del cinema considerato esplicitamente commerciale. Questione di ideologia? Gli spettatori hanno la stessa ideologia dei film che vengono loro forniti, riempiono le sale, e così la macchina va avanti? Certamente. Ma anche questione di desiderio, e dunque di posizione simbolica. Nei termini di Emile Benveniste, il film tradizionale si dà come storia e non come discorso. Tuttavia esso è discorso se ci si riferisce alle intenzioni del cineasta, alle influenze che esercita sul pubblico ecc.; ma lo specifico di questo discorso, e il principio stesso della sua efficacia come discorso, è appunto di cancellare le marche d’enunciazione e di mascherarsi da storia. (Metz 1980: 85)

Stahr è un produttore, modellato su una figura realmente esistita: per la costruzione di questo personaggio Fitzgerald, che aveva fatto lo sceneggiatore a Hollywood, dove non aveva avuto vita facile, si era ispirato alla figura di Irving G. Thalberg, produttore della MGM negli anni chiave del passaggio dal muto al sonoro. In quanto produttore, rappresenta il punto di vista dell’industria cinematografica o, più esattamente, come dice Metz, dell’istituzione cinematografica. L’istituzione cinematografica ha a che fare prima di tutto con l’economia: è al lavoro, come sostiene Metz e come Stahr è lì a dimostrare, per riempire le sale, non certo per svuotarle. L’istituzione cinematografica, ci ricorda poi Metz, ha a che fare con l’ideologia. Sicuramente Stahr vuol convincere il suo sceneggiatore che quello capitalista

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è il migliore dei mondi possibili. Ma poiché sta “facendo solo del cinema” (è lui stesso che lo dice) e non un comizio, deve adottare certi accorgimenti. Deve, per usare le parole di Metz in un senso un po’ semplificato, cancellare le tracce del discorso e favorire al massimo l’impressione di essere pura storia. È qui enunciata la teoria del “découpage classico” hollywoodiano (vedi 10.2 e 10.6) e, per rendere la cosa più efficace, Kazan gira la scena secondo le più rigorose regole del tempo. Ma l’istituzione cinematografica ha anche a che fare con il desiderio, con l’immaginario e con il simbolico: fa leva sui giochi di identificazione e sui complessi meccanismi che regolano il funzionamento della nostra psiche, del nostro inconscio. Cerchiamo di capire per quali ragioni Boxley si identifica a tal punto con il gioco propostogli da Stahr da dimenticare per un attimo i suoi problemi, tanto che alla fine è visibilmente rilassato, ma non in misura tale da dimenticare di essere in conflitto con Stahr circa il modo di scrivere la sceneggiatura. Boxley, da “spettatore modello”, un po’ crede e un po’ no alla finzione inscenata da Stahr, si identifica un po’ con la storia che Stahr gli mima (e come potrebbe non farlo, visto che Stahr finge anche di essere Boxley?) e un po’ no perché attribuisce tutto alla sua bravura istrionica (noi, non dimentichiamolo, ci stiamo comportando nello stesso modo: un po’ ci viene voglia di applaudire Stahr, ma sappiamo che la perfetta riuscita della scena è merito di Kazan e di De Niro… e vorremmo applaudire anche loro). Metz ci spiega esattamente come vanno queste cose, dimostrando come al cinema siamo sempre un po’ scissi, viviamo una situazione di compromesso. Poiché i poteri dell’istituzione cinematografica, che proprio in tal modo si rafforzano, “precorrono desideri che, nello spettatore, non sono superficiali né momentanei”, noi viviamo

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ogni situazione che il film ci presenta come “una formazione di compromesso fra un certo grado di soddisfacimento delle pulsioni e un certo grado di conservazione delle difese, e dunque di allontanamento dell’angoscia” (Metz 1975: 286-287). Nel film di Kazan, Stahr-De Niro ha trasformato una situazione di dialogo in una situazione di rappresentazione dichiarata: ha messo in atto un piccolo dispositivo scenico, mimando il dispositivo cinematografico che è quello che ci fa vedere la scena in questione. Dispositivo, ci insegna il dizionario, è un congegno che provvede a determinate funzioni. Molte istituzioni sociali che si sono sviluppate nel corso della storia, quali i luoghi di culto, i teatri, le prigioni, gli ospedali, possono essere studiate come dispositivi, come forme di strutturazione dello spazio in relazione a diversi ruoli assunti dai diversi soggetti sociali e in relazione alle finalità perseguite. Il cinema può essere visto come un dispositivo di rappresentazione, con i suoi congegni e la sua organizzazione degli spazi e dei ruoli. Ha analogie con il dispositivo di rappresentazione della pittura, da una parte, e del teatro, dall’altra, ma anche suoi caratteri peculiari dovuti alla meccanica di produzione dell’immagine e del suono (il proiettore, lo schermo sul quale sono proiettate le immagini, i suoni riprodotti). Ma è un dispositivo anche nel senso che predetermina dei ruoli: per esempio, il ruolo dello spettatore che identificandosi con la cinepresa e cooperando attivamente in molti altri modi contribuisce alla produzione degli effetti di senso previsti dalla strategia del regista-narratore. Anche di questi problemi, resi evidenti dai comportamenti di Boxley che era lì a rappresentarci, si occupano le teorie del cinema. Di questioni relative al cinema come “dispositivo” (nozione che può essere compresa dentro quella di “istituzione” di cui parla Metz, anche se non coincide con questa) si

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sono occupati molti teorici. Ecco qualche esempio. Il critico francese Jean-Louis Baudry ha studiato il cinema come un dispositivo di rappresentazione analogo a quello della rappresentazione prospettica in pittura, sottoponendo a una serrata critica gli “effetti ideologici prodotti dall’apparecchio di base” (Baudry 1978: 13-26). L’italiano Gianfranco Bettetini (1984), in un testo intitolato La conversazione audiovisiva, si è occupato della relazione tra lo schermo e lo spettatore secondo il modello della conversazione: in un certo senso il modello cui si è riferito è lo stesso della conversazione tra Stahr e Boxley dalla quale ha preso le mosse questo capitolo. E allo stesso dispositivo “conversazionale” si sono ispirati vari studiosi che hanno lavorato sull’applicazione al cinema della teoria linguistica dell’enunciazione (Casetti 1986; Metz 1995). Infine, il cinema è un linguaggio con le sue regole e le sue convenzioni. È un linguaggio imparentato con la letteratura, avendo in comune l’uso della parola dei personaggi e la finalità di raccontare storie. Ma è anche molto diverso. Basta confrontare il brano di Fitzgerald con la sequenza di Kazan. Fitzgerald lo posso citare tra virgolette; per dare l’idea esatta della sequenza del film devo, se possibile, mostrarla; oppure riportare i dialoghi e poi usare molte parole per descrivere l’azione scenica e le modalità di ripresa (come si fa in una sceneggiatura desunta; vedi 10.1). Del cinema come linguaggio diverso dalla letteratura si occupa anche la lezione che Stahr tiene a Boxley, che è appunto uno sceneggiatore in crisi perché secondo Stahr non ha ancora ben chiaro cosa sia il cinema. Naturalmente non abbiamo voluto ripercorrere questa scena del film di Kazan per dire che qui è già spiegato tutto ciò che è utile sapere sul cinema. Anche perché, pur nella sua semplificazione spettacolare, questa sequenza ci fa

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capire che il cinema è molte cose e, oltretutto, che ha una storia che lo ha progressivamente modificato (il film è ambientato negli anni trenta). Vogliamo solo dire che nessuno degli aspetti di questa sequenza (compreso il piacere che ci ha dato) è inessenziale per la comprensione di quel fenomeno complesso che è il cinema, che ci è così familiare per la facilità e la naturalezza con cui procede la visione filmica, ma è anche così misterioso e sfuggente non appena si prova a comprenderne i meccanismi di produzione e di funzionamento. Tuttavia nessuno spettatore è autorizzato a dire, come Boxley, che non è in grado di capire questi strani discorsi. Altrimenti, come gli ricorda Stahr-De Niro, non sentirebbe il bisogno di chiedere a cosa serve il nichelino. Ma torniamo ancora un momento al film di Kazan. Nella sequenza finale, rivediamo Monroe Stahr solo, nella penombra del suo ufficio. Da qualche tempo è iniziata la sua china discendente. Kathleen (Ingrid Boulting), la giovane donna entrata all’improvviso nella sua vita con una promessa di felicità, si è congedata da lui con un telegramma (“I was married at noon today. Goodbye. Kathleen”). Il consiglio di amministrazione dello studio lo ha appena esautorato, non avendo gradito che egli abbia insultato e cercato di prendere a pugni il rappresentante del sindacato degli scrittori, uscendone in realtà malconcio. Assalito dai ricordi, Stahr replica la scena del nichelino. Nella prima versione, mimando una sequenza cinematografica, egli aveva attirato l’attenzione del suo interlocutore su vari oggetti maneggiati da una misteriosa signora: due centesimi, un nichelino, dei guanti neri, una stufa, un fiammifero, un telefono… Aveva applicato la regola, ben nota ai grandi narratori dell’Ottocento, da Flaubert e a Maupassant, secondo la quale “Ogni minima cosa contiene un po’ di mistero”. La scena mimata da Stahr cessa, in questa replica, di essere una bella mostra

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d’espedienti narrativi, di una brillante strategia narrativa. Questa volta egli si rivolge a se stesso e non ha nessun altro davanti a sé se non i fantasmi della sua immaginazione: la donna amata che ora egli vede nell’atto di bruciare non più i guanti neri ma la lettera che lui le aveva inviata, mentre l’altro uomo non è più un anonimo e misterioso osservatore, ma il suo rivale in amore. Monroe prefigura e, insieme, osserva la definitiva separazione dal proprio oggetto d’amore. È come se egli allestisse una sorta di “scena primaria”, con la quale l’immagine cinematografica (anzi, ogni immagine, secondo Barthes), intrattiene una qualche parentela: “ecco la definizione di immagine, di ogni immagine: l’immagine è ciò da cui io sono escluso” (Barthes 1979: 105). PER SAPERNE DI PIÙ A volte, un testo letterario può funzionare meglio di un testo teorico, storico o semiotico per introdurre alla comprensione del dispositivo cinematografico e dell’esperienza filmica. Oltre alla lettura del romanzo da cui Kazan ha tratto il film che ci ha qui fatto da guida (Fitzgerald 1968), consiglio due altri testi letterari, uno americano e uno italiano. Schulberg 2005: definito da Kurt Vonnegut “un piccolo capolavoro americano al cento per cento”, questo romanzo, uscito nel 1941, racconta dall’interno il mondo della produzione hollywoodiana e le tecniche di sviluppo di una sceneggiatura; Starnone 2010, nella prima parte rievoca l’esperienza della visione dei film nelle sale napoletane della sua infanzia, nella seconda racconta come si svolge il lavoro dello sceneggiatore e le fasi di realizzazione di un film (televisivo) nell’Italia “ai tempi di Silvio”. Per un affascinante e documentatissimo percorso attraverso le testimonianze (letterarie e non) sull’esperienza del “buio in sala”, Brunetta 1989 (con esauriente bibliografia).

2. Punti di vista sul cinema

Stahr e Boxley, i due personaggi di Gli ultimi fuochi, hanno punti di vista diversi sul cinema perché diversi sono i loro ruoli. Il primo è un produttore esecutivo, l’altro è uno scrittore che fa di malavoglia lo sceneggiatore. È inevitabile che il loro grado di comprensione del fenomeno cinematografico sia diverso. Il punto di vista di Stahr è quello dell’attivismo imprenditoriale hollywoodiano, percorso da venature malinconiche attribuitegli dalla penna di Fitzgerald. Nel film, la sceneggiatura di Harold Pinter, la recitazione di De Niro e la regia di Kazan assecondano l’ispirazione originaria. Tutto questo ci affascina, certamente, ma per capire il senso del fatale declino dell’eroe di Fitzgerald e Kazan, ci è utile sapere che il personaggio di Stahr è, almeno in parte, ispirato alla figura del produttore esecutivo Irving G. Thalberg. Arrivato ai vertici della MGM a solo venticinque anni, dopo aver guidato la Universal, Thalberg si era imposto grazie alla sua capacità di esercitare un ferreo controllo su tutti gli aspetti del processo produttivo e di sfruttare una perfetta combinazione tra studio system e star system (vedi 6.2). In Histoire(s) du cinéma, Godard dice di lui: “un direttore / di televisione / pensa al massimo / duecento film all’anno / Irving Thalberg / è stato il solo che / ogni giorno / pensava cinquantadue film”. Nelle iperboliche parole di

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Godard risulta ancora più prodigiosa l’opera di fondazione della potenza di Hollywood che “passa di là / per un giovane corpo / fragile e bello / come lo ha descritto Scott Fitzgerald” (Godard 1998, I: 28-31). Thalberg fu il protagonista di un memorabile braccio di ferro con Eric von Stroheim. Fu lui che impose le mutilazioni subite da Rapacità (1924), ma allo stesso tempo fu artefice della fortuna di La vedova allegra (1925), per suo esplicito volere diretto dallo stesso Stroheim. L’uno e l’altro rappresentano due modi diversi di intendere il cinema: il loro conflitto, che altro non è che il conflitto tra il potere della produzione e quello della regia, ha fatto sì che il cinema sia diventato ciò che in America è diventato, nel bene e nel male. Certo, del cinema possiamo dire molte cose: che è tecnica, linguaggio, industria, arte, spettacolo, divertimento, cultura. Tutto dipende dai punti di vista da cui lo guardiamo: e ognuno di questi è parimenti motivato e irrinunciabile. Ma se consideriamo il cinema nel suo complesso, nell’interazione dei vari aspetti appena ricordati, usciamo dal campo delle definizioni ed entriamo in quello dell’osservazione. E osserveremo quindi che il cinema è ciò che in una società, in un determinato periodo storico, in un certo assetto del suo sviluppo, in una determinata congiuntura politico-culturale o in un certo gruppo sociale si decide che esso sia. Saper vedere il cinema, in uno dei significati che abbiamo voluto dare al titolo di questo libro, vuol dire saper vedere la complessità del fenomeno che ha come risultato quel “festival di affetti che viene chiamato film” (Barthes 1988: 356). Ciò non significa negare o rimuovere, come spesso è stato fatto da una critica troppo ideologizzata, il piacere e la fascinazione della visione filmica. Il piacere e la fascinazione dipendono, come ci ha ricordato Metz, dal fatto che l’istituzione cinematografica soddisfa e, anzi, precorre de-

2. PUNTI DI VISTA SUL CINEMA

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sideri non superficiali né momentanei dello spettatore. Saper vedere il cinema significa anche imparare a prendere le distanze dall’immagine, per comprendere i meccanismi di produzione del senso. C’è, alla base della seduzione prodotta, una duplice distanza: la distanza da cui l’immagine proviene e, allo stesso tempo, la distanza dalla nostra esperienza quotidiana dell’universo in cui l’immagine ci immette. Barthes ha chiamato tutto questo distanza amorosa, mettendolo in relazione al piacere della discrezione nel suo senso etimologico, cioè capacità di discernere, distinguere, scegliere (Barthes 1988: 359).

2.1 Cinema e storia Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato da Hollywood: questo brillante titolo di un libro sui rapporti tra il cinema e l’immagine che ciascuno di noi ha della Roma antica (Cotta Ramosino - Cotta Ramosino - Dognini 2004) potrebbe essere adattato a molti altri capitoli della storia e – perché no? – della geografia. Se è vero che il grande pubblico, scolarizzato o meno, ha immaginato la vita di Roma antica grazie a decine e decine di film “storici”, da Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone a Il gladiatore (2000) di Ridley Scott, considerazioni analoghe possiamo fare per la Venezia rinascimentale, da Otello (1952) di Orson Welles a Il mercante di Venezia (2004) di Michael Radford; per la Parigi della Belle Epoque, da Il silenzio è d’oro (1947) di René Clair a Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann; per Saigon negli anni della guerra del Viet Nam, da Il cacciatore (1978) di Michael Cimino a Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson. Certo, non sono solo i film che condizionano il nostro immaginario storico; e inoltre spesso i film ci presentano

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il passato in forme completamente diverse, se non antagoniste. La Palestina dei tempi di Cristo è rappresentata secondo modelli alquanto differenti in Il Re dei Re (1927) di Cecil B. DeMille e in Il vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, pur essendo ambedue imaginative reenactments, come dicono gli inglesi: ricostruzioni fantastiche. La distanza tra i due film non è data solo dalle diverse concezioni della storia, della religione (e del cinema) dei due registi, ma anche dai differenti contesti produttivi e dai diversi assetti del linguaggio cinematografico. Né meno grande è la distanza che separa il film di Pasolini dal remake di Il Re dei Re realizzato da Nicholas Ray pochi anni prima (1961) o dalle “passioni” postmoderne come L’ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese o La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson. Insomma, fare confronti chiama in causa non solo la rappresentazione della storia nel cinema, ma anche questioni di storia (e di geografia) del cinema. Secondo lo storico francese Marc Ferro, il cinema può essere visto come fonte e come agente di storia. In quanto fonte, esso rappresenta una riserva inesauribile di documenti significativi per lo storico. Come agente, esso entra in modo attivo in processi storici (Ferro 1980 e 1993). Si pensi al ruolo che il cinema ha avuto come strumento di propaganda in Italia all’epoca del fascismo, nella Germania di Hitler o nell’America di Roosevelt e, in generale, alla sua importanza nella diffusione di modelli comportamentali e ideologici. Proviamo ora a schematizzare così le possibili articolazioni del rapporto tra cinema e storia: a) La storia del cinema Il cinema ha una sua storia, un suo inizio, una sua evoluzione. Di tutto questo si occupa la storiografia cinemato-

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grafica, una disciplina che ha un suo oggetto e una sua metodologia di indagine, al pari di altre storie settoriali (storia della letteratura, storia delle mentalità, storia della tecnica), che svolgono a loro volta un ruolo preciso nella scena storica generale. b) La storia nel cinema In quanto mezzo per rappresentare la storia del passato, il cinema condiziona l’immaginario storico di una società. Ma i film possono essere fonti preziosissime per lo storico. Questo vale per i documentari, le attualità filmate, i cinegiornali. Ma vale anche per i film di finzione, i quali possono documentare assetti urbanistici o ambientali dei luoghi in cui sono stati girati, ma anche riprodurre aspetti della vita quotidiana, dei costumi in un determinato periodo. Nell’un caso e nell’altro, i film sono oggetto di particolare interesse per gli storici che li consultano al pari di altre fonti di archivio. c) Il cinema nella storia I film possono assumere un ruolo importante nel campo della propaganda politica, nella diffusione di un’ideologia. Spesso si stabiliscono relazioni molto strette tra il contesto socio-politico e il cinema. L’aspetto che qui ci interessa principalmente è quello relativo alla storia del cinema. La difficoltà principale che si presenta (ben nota a ogni storico) è quella di unificare in una sola prospettiva (quella storica, appunto) un fenomeno così complesso che comprende molti oggetti d’indagine, separati anche se in stretta relazione. L’ambizione di ogni storico (cui corrisponde un parallelo desiderio del lettore) è di riuscire a collegare in un discorso unitario tutti que-

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sti aspetti. Jean Mitry, uno dei padri fondatori assieme a Georges Sadoul della storiografia cinematografica, ha così definito le diverse storie settoriali nelle quali si articola la storia del cinema: Una storia delle tecniche, cioè dei mezzi che hanno più o meno determinato la sua evoluzione rendendo possibili certe forme, facendone scoprire altre alle quali non si pensava. Una storia dell’industria il cui sviluppo fu una conseguenza dell’evoluzione del pubblico non meno che di quello dell’arte e delle sue tecniche. Una storia delle forme e dei modi di significare, di esprimere e di raccontare, attraverso le tendenze più disparate, influenzate spesso dai movimenti artistici contemporanei (pittura, musica, letteratura) dal momento che la specificità filmica fu cercata inizialmente sotto gli auspici delle altre arti, cioè proprio là dove essa non si trovava. Una storia dell’arte, vale a dire delle opere che hanno segnato un punto di arrivo o una svolta nella scoperta e nella messa a punto di strutture significanti, strutture la cui perfezione linguistica era legata ai progressi della tecnica e dell’industria (Mitry 1973: 115).

In quest’ultima prospettiva, oggetti privilegiati diventano, naturalmente, i film: ma ciò non significa che la storia del cinema debba essere solo storia di capolavori (“un capolavoro essendo un’opera eccezionale, sovrasta la corrente di cui fa parte, ma non la rappresenta”), né che debba chiudersi nella sua dimensione settoriale, separata o, al contrario, trascurare la propria specificità. Si tratta di mettere in valore l’apporto particolare di certe opere in relazione alle inquietudini morali e sociali che rifletto-

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no: di definire come e in che misura si sono influenzate, in che cosa hanno contribuito alla formazione o all’evoluzione del linguaggio filmico; di precisare infine le cause di questa evoluzione: problemi tecnici o economici, ricerche estetiche, condizionamento del pubblico, influenza delle altre arti o delle ideologie correnti. Tutto ciò attraverso film che, capolavori o meno, hanno contribuito più o meno a questa evoluzione (Mitry 1973: 113).

Un progetto molto ambizioso, come si vede, al quale difficilmente una storia generale del cinema riesce a mantenere fede, anche per la quantità e varietà di fonti che uno storico deve essere in grado di controllare e coordinare. Minori difficoltà, apparentemente, pone una storiografia che restringe il suo oggetto a una cinematografia nazionale. Ma anche in questo caso, non solo si impone la necessità di superare la dimensione puramente archivistica e di articolare opportunamente i vari aspetti dell’istituzione cinematografica, ma deve essere conservata, almeno in parte, la dimensione della storia comparata. È la natura stessa dell’istituzione cinematografica che impone l’adozione di un punto di vista comparatista, per lo studio della circolazione delle tecnologie, delle tendenze del pubblico, dell’evoluzione del linguaggio. Più che indicare se e quali storie generali del cinema abbiano raggiunto obiettivi così ambiziosi come quelli delineati da Mitry, è possibile oggi fare una tipologia delle storie del cinema, o meglio una tipologia della prospettiva storiografica che di volta in volta sta alla base di studi settoriali, di storie nazionali o addirittura di monografie. Casetti (1993: 311-339) ha delineato la seguente tipologia di storie del cinema: a) storie economico-industriali; b) storie socio-culturali; c) storie estetico-linguistiche; d) storie erudite e globali.

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La storiografia cinematografica ha dovuto e deve tuttora risolvere molti problemi relativi al rapporto tra le fonti che utilizza e l’oggetto di cui si occupa. Vediamo di chiarire: lo storico del cinema ha bisogno di molte informazioni spesso di difficile reperimento, soprattutto per i primi decenni, quando il cinema non aveva una sua legittimazione culturale. Come ogni altro storico egli si servirà di fonti scritte (manoscritte e a stampa), orali (nel caso in cui sia, o sia stato, possibile consultare testimoni dell’epoca) e, ovviamente, audiovisive: ognuna di queste fonti va sottoposta al vaglio della critica storica e messa in relazione con quelle che per lo storico del cinema sono le fonti primarie, i film. Le maggiori difficoltà derivano dal fatto che gran parte del patrimonio cinematografico, soprattutto dei primi decenni della storia del cinema, è andato disperso (ma spesso anche quello di epoche più vicine a noi). Non sempre, inoltre, quello conservato è in condizioni ottimali. Senza entrare in dettagli tecnici (vedi Sadoul 1966; torneremo comunque su alcuni aspetti del problema in 5.1 a proposito del cinema muto), dobbiamo osservare che in passato ci sono stati ritardi e manchevolezze nella politica di conservazione e restauro del patrimonio cinematografico, sia in Italia che negli altri paesi. In tempi più recenti, soprattutto in seguito alla ripresa di interesse per tali problemi avvenuta anche grazie agli investimenti stanziati intorno al 1995, anno di celebrazioni del centenario del Cinematografo Lumière, si sono fatti notevoli progressi (vedi Venturini 2006). Troppo spesso la storia del cinema è stata modellata sulle storie letterarie e artistiche, mentre sono più strette le affinità che essa presenta con altri settori storiografici. A titolo di esempio, ricordiamo la “storia dell’immaginario” e la “storia della mentalità”, così importanti nella nouvelle histoire (vedi Le Goff 1980). A proposito di un settore di

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ricerca come la “storia delle mentalità”, Jacques Le Goff avverte che occorre “evitare di disgiungere l’analisi delle mentalità dallo studio dei luoghi e dei mezzi di produzione” (Le Goff - Nora 1981: 252). L’istituzione cinematografica sembra prestarsi in modo ideale a studi di questo tipo, in quanto permette di ancorare a precisi processi di produzione e a precise forme di organizzazione del lavoro le indagini sull’“attrezzatura mentale” sulla quale si basa il funzionamento del dispositivo cinematografico. Se per epoche passate, come dice Le Goff, tale attrezzatura si riduceva a inventari relativi a “vocabolario, sintassi, luoghi comuni, concezioni dello spazio e del tempo, strutture logiche”, per il cinema tali inventari riguardano appunto le strutture della comunicazione audiovisiva, della narrativa filmica, le tipologie iconografiche, le grandi configurazioni dell’immaginario. Questi aspetti, che non sono certo ignorati dalle varie discipline interessate al cinema (semiotica, sociologia, critica), stanno ormai entrando in modo organico nella problematica della ricerca storiografica sul cinema. La storia del cinema può costituire un oggetto da privilegiare in questo ambito di ricerche, sia per il rilievo che l’istituzione cinematografica ha avuto nella produzione delle grandi configurazioni dell’immaginario collettivo, sia per la durata, la capacità di penetrazione e complessità di relazioni con altri settori della produzione di immaginario (una esemplificazione completa su come è possibile impostare il rapporto tra storia e storia del cinema è presentata nel capitolo 4 a proposito del cinema delle origini). L’impulso e l’influenza esercitati dai cultural studies hanno favorito, soprattutto in ambito anglosassone, l’inserimento del cinema in una problematica in cui hanno una posizione di rilievo i mezzi di comunicazione di massa, e soprattutto la TV (Uricchio 2001). C’è però chi lamenta che la “frequen-

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te assenza di prospettiva storica nei cultural studies” non ha certo favorito una prospettiva di dialogo tra differenti campi di ricerca (Lutter-Reisenleitner 2004: 56). PER SAPERNE DI PIÙ Gori 1994 offre un’ampia antologia di contributi sul rapporto tra cinema e storia. Si vedano inoltre Sorlin 1979 e 1984 e Lagny 2001. Tra i più recenti manuali di storia del cinema segnalo Bordwell 2010 e Rondolino 2010. Sulla rappresentazione della storia antica nel cinema Cotta Ramosino - Cotta Ramosino - Dognini 2004 e Iaccio-Menichetti 2010. Su strumenti, metodi e problemi della storiografia cinematografica vedi Brunetta 2001 e, per chi voglia addentrarsi anche in una bibliografia internazionale, consiglio di utilizzare: Hill - Church Gibson 1998 e Hayward 2006. Sui rapporti tra cinema e storia nella prospettiva di una didattica con le immagini, oltre che delle immagini, segnalo Maddoli 2004, che offre un percorso trasversale tra cinema, storia, letteratura e storia culturale attraverso lo studio di otto film, da Il Gattopardo e La grande guerra a Ultrà e L’ultimo bacio. La storicità del cinema riguarda non solo il linguaggio cinematografico, ma anche la lingua che i personaggi dei film parlano: Rossi 2007 presenta un’ottima sintesi sullo studio della lingua del cinema italiano che va usata anche come introduzione a lavori più specialistici dell’autore.

2.2 Estetica e semiotica Le storie estetico-linguistiche possono costituire il punto di raccordo tra la prospettiva storica e quella teorica, senza dimenticare che la teoria del cinema costituisce un’importante articolazione della sua stessa storia (Casetti 1993: 334-336).

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Il cinema può essere visto come forma d’arte e come mezzo di comunicazione. In quanto arte, sia pure di tipo particolare (arti dello spettacolo), fin dalle sue origini ha attirato l’interesse dell’estetica, la disciplina filosofica che si occupa del sistema delle arti. In quanto mezzo di comunicazione, esso è diventato uno dei campi d’applicazione di quella disciplina preconizzata da Saussure all’inizio del secolo scorso e da lui chiamata semiologia o scienza generale dei segni (oggi però si preferisce il termine semiotica). Per molto tempo, lungo la prima metà del Novecento, il discorso teorico sul cinema era stato monopolizzato dall’estetica. Si erano privilegiate le tematiche sulla natura della nuova arte, sui suoi rapporti con le arti tradizionali, sulla sua specificità rispetto alle altre forme di espressione. Poi, a partire dalla metà degli anni sessanta, lo sviluppo degli studi semiotici ha fatto sì che la dimensione estetica venisse assorbita in quella comunicativa: il modello linguistico ha avuto la meglio e ha condizionato gli studi cinematografici, dalle discussioni sulla natura del segno filmico fino ai tentativi, più o meno organici e più o meno riusciti, di studiare il dispositivo cinematografico secondo il modello dell’enunciazione linguistica. I due approcci, quello estetico e quello semiotico, sono strettamente collegati tra loro, in quanto ogni riflessione estetica sul cinema ha dovuto affrontare il problema del linguaggio filmico. D’altra parte, la semiotica, che si occupa dei linguaggi e dei processi di comunicazione, ha sempre riservato una particolare attenzione, per usare la terminologia di Roman Jakobson, al ruolo della funzione poetica (o funzione estetica) nei processi comunicativi. E che la funzione poetica (o estetica) non sia presente solo in quegli ambiti tradizionalmente considerati artistici o depositari comunque del valore estetico, Jakobson lo ha dimostrato analizzando

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la “funzione poetica” ovunque si presenti, per esempio nello slogan I like Ike, lanciato per la campagna elettorale del presidente Eisenhower: prevale la funzione estetica quando l’accento è posto sul messaggio per se stesso, sulla sua forma (Jakobson 1967 e 2002: 189-191). Del resto il grande linguista è autore di un notevole intervento sul cinema, La fine del cinema?, che risale al 1933 e che precorre alcuni temi della semiotica cinematografica degli anni sessanta (Jakobson 2009). L’interesse di Jakobson per il cinema deriva dalla sua giovanile partecipazione al gruppo dei formalisti russi, che negli anni venti si era occupato attivamente della nuova arte, influenzando non solo gli sviluppi dell’avanguardia cinematografica (vedi 5.6.3), ma fornendo anche uno dei primi esempi di applicazione di modelli linguistico-letterari allo studio del cinema (Kraiski 1971). I formalisti si proponevano di definire la specificità e l’autonomia dei materiali e dei procedimenti con i quali opera il cinema. Nello stesso tempo, per legittimarne l’artisticità, si adoperarono per dimostrare la natura formativa e costruttiva e non puramente riproduttiva e meccanica del mezzo. Posizioni analoghe, anche se nate e sviluppatesi in altri contesti, si trovano in quasi tutte le riflessioni artistiche nate nell’epoca del muto, o comunque a quella ancora fortemente ancorate. In questa direzione si muove il contributo di Rudolf Arnheim, teorico e psicologo dell’arte. Il suo interesse per il cinema, documentato in un gruppo di saggi scritti nei primi anni trenta, deriva inizialmente dal fatto che il nuovo mezzo, proprio in quanto sembra basarsi essenzialmente su una riproduzione meccanica del visibile, può costituire un oggetto particolarmente idoneo per verificare le tesi della psicologia della forma sulla funzione strutturante e creativa della percezione rispetto al dato materiale della sensazione. Partendo da tali premesse, Arnheim ela-

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bora una teoria filmica volta a mettere in evidenza i caratteri di “autonomia” e di “differenziazione” dell’immagine rispetto alla realtà riprodotta. Partendo da un esame delle caratteristiche del materiale di base del cinema, Arnheim individua nell’assenza di colore, di profondità, del suono e della voce le potenzialità artistiche (“differenzianti”). Di qui derivano le sue resistenze all’introduzione del colore, del suono (Arnheim 1983). Al lato opposto si collocano le riflessioni estetiche che si basano sul riconoscimento della natura meccanica e riproduttiva del mezzo cinematografico. Ci soffermeremo brevemente su due autori, il critico francese André Bazin, sostenitore del realismo ontologico del cinema, e lo studioso e storico tedesco Siegfried Kracauer, che vide nel cinema un mezzo di riscatto o redenzione della realtà fisica. Bazin, che non ha sviluppato la sua teoria in un’opera organica ma l’ha disseminata in una serie di articoli di critica militante, ha basato la sua riflessione sulla constatazione del carattere meccanico della riproduzione fotografica, cioè dell’assenza di un intervento di interpretazione e di deformazione: L’originalità della fotografia in rapporto alla pittura risiede dunque nella sua oggettività essenziale […]. Per la prima volta un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo dell’uomo, secondo un determinismo rigoroso. La personalità del fotografo non entra in gioco che per la scelta, l’orientamento, la pedagogia del fenomeno; per quanto possa essere visibile nell’opera finita, essa non vi figura allo stesso titolo di quella del pittore. Tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza. (Bazin 1999: 7)

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Avremo modo di discutere (in 7.1) la posizione di Bazin e la sua influenza sugli sviluppi del cinema moderno e oltre, in quanto la sua concezione del realismo ontologico dell’immagine cinematografica condiziona i critici del cinema digitale (vedi 8.2). Qui ci è sufficiente notare come alla base della svolta da lui impressa alla teoria estetica del cinema ci siano: a) il riconoscimento della radicale novità rappresentata dal cinema rispetto al tradizionale sistema delle arti; b) l’assunzione dell’impressione di realtà prodotta dal dispositivo cinematografico sullo spettatore come tema fondamentale della riflessione. Il cinema, secondo Bazin, agisce sullo spettatore allo stesso modo in cui agiscono i fenomeni naturali che esso riproduce, si tratti di un fiore, di un cristallo di neve o dell’espressione di un volto. È dalle proprietà tecniche dell’immagine (fotografica e filmica) che devono derivare le scelte estetiche del cinema. Secondo Kracauer (1995), la sostanza del cinema deriva dalle sue origini nella fotografia, e più esattamente nella fotografia istantanea. Quindi, in una prospettiva di carattere normativo, Kracauer ritiene che non è al modello teatrale, scenografico, letterario che il cinema deve guardare, ma al mondo concreto e reale, il quale deve essere colto nella sua immediatezza. Una particolare interpretazione della riproducibilità tecnica applicata al mondo dell’arte è quella del filosofo tedesco Walter Benjamin. Assumendo in primo luogo gli aspetti tecnici della riproduzione del mondo realizzata dal cinema, Benjamin colloca tutta la problematica estetica relativa a esso nel contesto di quella radicale trasformazione del sistema tradizionale delle arti (perdita dell’aura, cioè del carattere di sacralità e di unicità dell’opera d’arte) di cui le nuove modalità di percezione “collettiva” e “distratta”,

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tipiche del pubblico cinematografico, sono insieme effetto e causa (Benjamin 2000; vedi anche 4. e 5.5). Fin dai suoi inizi la semiotica del cinema, che al pari della semiotica generale nasceva come disciplina orbitante nell’area della linguistica, pose come centrale il problema del linguaggio anziché quello dell’arte. La riflessione semiotica sul cinema, che ha avuto inizio in Francia nella prima metà degli anni sessanta grazie ai contributi di Christian Metz e che ha avuto interessanti sviluppi anche in Italia (Eco, Garroni, Bettetini e, in posizioni alquanto eterodosse, Pasolini), ha nella sua fase iniziale introdotto il tema dell’applicabilità del modello linguistico allo studio del cinema. Tracciando un bilancio dell’evoluzione della ricerca semiotica in campo cinematografico che si è sviluppata in modo non sempre lineare e con continui scambi con altri settori disciplinari, il critico Raymond Bellour, riferendosi in particolare alla situazione francese, scriveva alla fine degli anni settanta: Ciò che sembra importante è che siano nati da questa fusione poco comune di iniziative, di metodi e di fantasticherie, pensieri e scritture che si trovano, ciascuno a suo modo, ma forse con una maggior precisione di prima (sarebbe questo, ed è storicamente dimostrabile, l’apporto della semiologia come tale) a contribuire, in rapporto agli oggetti e alle istituzioni che lo permettono (in questo caso i film, il cinema), a uno dei compiti critici più fondamentali di questo tempo: la logica e la storia delle rappresentazioni. (Bellour 2005: 29)

Esaurita la prima fase in cui l’oggetto centrale è stato il linguaggio cinematografico e, di conseguenza, si sono studiati soprattutto i codici (specifici e non specifici), l’attenzione si è spostata su testo filmico e scrittura al fine di

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comprendere i meccanismi e le dinamiche che definiscono i singoli film o gruppi di film. È in questo ambito che si sono poi sviluppate le problematiche relative al racconto (narrazione) e al punto di vista (focalizzazione), all’enunciazione e al testo, alle strategie che disciplinano il rapporto tra il film e il suo spettatore (Casetti 1986). Non ci è possibile seguire qui le vicende interne allo sviluppo della semiotica. Ci interessa evidenziare piuttosto come la riflessione teorica si sia sviluppata in contesti sempre più (e quasi esclusivamente) accademici, con una predominanza pressoché assoluta di problematiche metodologiche e con la progressiva perdita dell’esperienza e della conoscenza del film. Non sono mancate reazioni preoccupate a tale stato della disciplina, sulla scia di quanto andava evidenziando in campo letterario Todorov (2008), come dimostrano gli ultimi articoli, tanto lucidi quanto appassionati, di Vincenzo Buccheri (ora in Buccheri 2010b: 40-64). Del resto nei più recenti sviluppi della teoria, le metodologie d’analisi del testo filmico hanno progressivamente ceduto il campo all’analisi dell’esperienza filmica e dei dispositivi in prospettiva multimediale (Carluccio-Villa 2008). Si tratta di una svolta significativa, risultato di quella che Gianfranco Bettetini aveva chiamato già nel 1996 Sfida dei new media alla semiotica e alle scienze umane, una sfida che avrebbe dovuto indurre da una parte a riesaminare i paradigmi della scienza semiotica e dall’altra a lavorare sulle tecnologie vecchie e nuove della comunicazione e a cercare un effettivo incontro con le altre discipline senza preconcetti (Bettetini 1996: 129-171). Una collocazione del tutto originale occupa l’opera teorica sul cinema del filosofo francese Gilles Deleuze, che qui citiamo per la sua radicale negazione della possibilità di applicare al cinema il modello linguistico (Deleuze

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1984 e 1989). Secondo Deleuze il cinema non è né una lingua né un linguaggio, il cinema è “materia formata non linguisticamente”; “non è un’enunciazione, non è un enunciato”, semmai è un “enunciabile” (Deleuze 1989: 42-43). Egli considera la sua opera, che è un lungo e complesso percorso attraverso il cinema, non tanto come una teoria sul cinema, ma sui concetti che il cinema suscita. E rivendica l’intercambiabilità di pratica e teoria, affermando che la teoria si fa allo stesso modo del suo oggetto: come a dire che il modo di procedere del filosofo e del cineasta sono intercambiabili, l’uno non ha alcun privilegio rispetto all’altro (Deleuze 1989: 308). Da questo deriva, io credo, il grande fascino esercitato da quest’opera, sebbene la sua lettura sia tutt’altro che facile. L’idea di partenza della riflessione di Deleuze sul cinema è che non c’è differenza tra cinema e realtà, perché tanto l’uno che l’altra sono costituiti di immagini che senza posa agiscono e reagiscono reciprocamente, in quanto caratterizzate dal movimento. Il movimento delle immagini non è quello che il filosofo Henri Bergson, cui Deleuze in parte si ispira, condannava nel cinema come movimento illusorio, perché basato sul fotogramma, sezione immobile del movimento reale. Quello di cui Deleuze si occupa è il movimento incessante della realtà stessa che il cinema riprende attraverso il piano (plan), sezione mobile della durata, e attraverso l’articolazione delle inquadrature (profondità di campo, montaggio, movimenti di macchina). È l’interazione reciproca che permette di definire le differenti modalità dell’immagine: immagine-percezione, immagine-azione, immagine-affezione. Il cinema classico è caratterizzato dal nesso organico tra immagine-percezione e immagineazione. Tra le due si può tuttavia situare l’immagine-affezione, intervallo tra una percezione inquietante e un’azione

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esitante (Deleuze 1984: 84): sono immagini-affezione tanto il primo piano quanto gli spazi qualsiasi. L’esperienza del neorealismo, e di cineasti lontani da Hollywood come il giapponese Ozu, marca, attraverso la rottura del nesso organico e degli automatismi di percezione-azione, l’emergenza del cinema moderno, caratterizzato dal passaggio dall’immagine-movimento all’immagine-tempo (vedi 6.4.2). Da questo punto di vista, i due tomi sul cinema di Deleuze sono una sorta di riorganizzazione delle due grandi età del cinema (classico e moderno) separate dall’esperienza del neorealismo (Aumont-Marie 2007: 81). Pur non dedicando capitoli specifici ai problemi della storiografia cinematografica né a quelli dell’estetica e della semiotica, saranno comunque gli apporti di queste aree di ricerca che faranno da sfondo, in questo libro, alla trattazione delle linee di evoluzione dell’istituzione cinematografica e del linguaggio filmico (Parte Seconda) e dei rapporti tra tecnica e linguaggio (Parte Terza). PER SAPERNE DI PIÙ Chi voglia approfondire, anche in prospettiva storica, i contributi della semiotica allo studio del linguaggio cinematografico ha a disposizione: Stam - Bourgoyne - Flitterman-Lewis 1999; Forgione 2009; Cuccu-Sainati 1987. Volendo affrontare direttamente alcuni dei contributi “storici”, ecco una selezione: Metz 1972, 1975, 1980, 1995; Pasolini 1991; Bettetini 1971, 1975, 1984, 1996; Casetti 1986. Per avvicinarsi al pensiero cinematografico di Deleuze 1985 e 1989, una utilissima guida è De Gaetano 1996.

3. Per una didattica dell’immagine

David Gilmour, documentarista e critico cinematografico, è autore di un libro che nell’edizione originale s’intitola The Film Club (Gilmour 2010). Si tratta di un romanzo autobiografico che racconta una storia vera. Eccola in breve. David ha un figlio sedicenne, Jesse, che a scuola va malissimo. Senza fare tanti drammi, il padre propone al figlio un patto singolare: se proprio non ce la fai con la scuola, puoi restare a casa, ma devi impegnarti a vedere ogni settimana tre film assieme a me. Non scholae, sed vitae (non per la scuola, ma per la vita), diceva un vecchio motto che nessuno ripete più, né in latino né in italiano. In effetti, questo inedito programma educativo tramite un Film Club cambia (in meglio) la vita di ambedue, ma serve anche per la scuola del ragazzo. Nell’ultima pagina, troviamo il giovane Jesse iscritto al college dove è alle prese con la sua prima tesina, dedicata al ruolo del narratore multiplo in Cuore di tenebra di Conrad: è il testo da cui è tratto Apocalypse Now di Coppola, film che padre e figlio avevano regolarmente visionato. Insomma, c’era qualcosa di importante che Jesse poteva imparare attraverso il cinema (e il romanzo ci dice cosa, visto che qualche problema con la sua ragazza Chloë lo aveva); e così imparava anche a conoscere il cinema. Per verificare i progressi (nel cinema), David controlla di tanto

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in tanto se Jesse sa dire quali sono le innovazioni introdotte dalla Nouvelle Vague e se conosce i nomi di almeno tre registi della New Hollywood (in questo libro troverete le risposte in 7.2.1 e in 8.1.1). Lasciamo ora da parte il romanzo di Gilmour, che io faccio comunque leggere ai miei studenti del primo anno, e torniamo alle questioni di metodo. Il problema non è più, come si riteneva un tempo ingenuamente e con esiti assolutamente deludenti, di introdurre qualche “sussidio audiovisivo” nella scuola. Come già indicava Metz, l’insegnamento attraverso l’immagine è altra cosa dall’insegnamento dell’immagine (Metz 1975: 113) e, comunque, è da ritenere che le due dimensioni debbano essere contestuali. Mostrare a scuola un documentario su uno scrittore è solo la sostituzione di mezz’ora di scuola con mezz’ora di cinema o di televisione (magari mediocri); altra cosa è lavorare sul confronto tra un capitolo di Cuore di De Amicis e una sua versione cinematografica. Coltivando il gusto della scoperta (e della storia del cinema), una classe potrebbe provare a vedere Cuore (1947) di Duilio Coletti, in cui il maestro Perboni è interpretato da Vittorio De Sica. E poi provare a chiedersi se tra il film interpretato da De Sica e i capolavori neorealisti diretti da De Sica non ci siano dei tratti in comune. Un’altra classe potrebbe provare, invece, a vedere Cuore (1984) di Luigi Comencini, dove i racconti del mese del maestro Perboni sono sostituiti da proiezioni in classe di (improbabili) filmini su La Piccola Vedetta Lombarda, Il Piccolo Scrivano Fiorentino, Sangue Romagnolo, e così via. Visto che Comencini ambienta la storia ai primi del secolo scorso, potrebbe essere divertente, vedendo dei veri film di quello stesso periodo, controllare se i film ricostruiti sono attendibili o meno rispetto allo stadio del linguaggio cinematografico dell’epoca. Insomma, si può fare bene

3. PER UNA DIDATTICA DELL’IMMAGINE

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della didattica con l’immagine (imparare le differenze tra narrazione cinematografica e narrazione letteraria) se si fa anche un po’ di didattica dell’immagine. Per una buona didattica delle immagini, occorre prendere coscienza non solo del come le immagini funzionano, ma anche che le immagini hanno una storia. E, dal momento che, nell’attuale regime di consumo di immagini, la quantità ha la meglio sulla qualità e il cinema è a mala pena distinguibile dal flusso indifferenziato di immagini e di suoni, il primo problema che si pone è il riconoscimento del cinema e lo sviluppo di un’attitudine a guardarlo con l’attenzione e l’amore necessari. Il saper vedere implica quindi un amare che nasce dall’esperienza del cinema come esperienza estetica e come esperienza conoscitiva. Tutto questo si può esprimere con una parola sola, cinefilia; una parola che comprende in sé vari significati, che vanno dalla centralità della visione in sala a una concezione del cinema come una sorta di contro-cultura, quale esso è stato per i giovani che hanno “inventato” la Nouvelle Vague (de Baeque 2003; vedi anche 7.1 e 7.2.1). Per rispondere alla domanda “che cos’è il cinema?”, è necessario partire dall’esperienza dello spettatore che al cinema si accosta e che in esso si riconosce e riconosce il mondo. Ma perché questo accada, egli deve imparare a orientarsi e a orientare il suo sguardo. Deve imparare a vedere il cinema dietro i film. Questo libro si propone di guidare il giovane spettatore in questa avventura, insieme estetica (il cinema è un’arte, che molti considerano sintesi di tutte le arti) e conoscitiva (il cinema è linguaggio e istituzione). Per fare questo sono state necessarie delle scelte. Per esempio, ridurre il campo dei riferimenti alle cinematografie più facilmente accessibili, dando maggior spazio al cinema americano e a quello europeo e rinunciando a una

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maggior varietà di esempi presi da altre cinematografie. Si tratta di una limitazione che, almeno in parte, è compensata dal vantaggio di offrire un’esemplificazione con la quale sia più facile che il lettore possa avere maggior consuetudine. Il titolo del libro può suscitare il sospetto di un’impostazione di tipo normativo, che invece si è voluto accuratamente evitare. Né ci si è posti l’obiettivo di trasformare i lettori in intenditori, come il titolo potrebbe lasciar supporre. Intenditori di cinema si diventa vedendo molti e, soprattutto, buoni film; e possibilmente in condizioni ottimali. Certo, l’evoluzione della tecnologia ha risolto o a volte spostato i problemi affrontati nei primi tentativi di introduzione del cinema nella formazione scolastica. Le occasioni di acquisire dei film in formati facilmente accessibili si sono moltiplicate. I blog hanno inoltre sviluppato forme di discussione dei film che hanno tolto alla critica il monopolio del giudizio estetico (e anche politico). Inoltre videofonini, telecamere digitali, programmi di montaggio hanno diffuso in modo capillare la possibilità di manipolare, montare, organizzare le più svariate forme di testi audiovisivi. Si sono moltiplicate le occasioni di autoapprendimento e di accesso a linguaggi settoriali che un tempo erano monopolio di categorie molto limitate di persone. I siti dedicati alla programmazione cinematografica settimanale riportano opinioni, critiche e recensioni del pubblico che spesso competono con quelle dei critici professionisti (e magari senza le reticenze, i tatticismi di questi ultimi). Film interamente realizzati con il cellulare sono addirittura entrati nella normale programmazione: Vedozero (2009) è una sorta di film-diario collettivo realizzato da settanta adolescenti coordinati da Andrea Caccia. L’idea della caméra-stylo di Alexandre Astruc, della cinepresa usata come una stilografica, che aveva ispirato il movimento della Nouvelle Vague

3. PER UNA DIDATTICA DELL’IMMAGINE

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francese, è diventata più reale di quanto probabilmente nessuno all’epoca avesse osato sperare. Come reale è diventata ormai quella dialettica tra la “lettura” del film e la “scrittura” cinematografica di cui parlavano i pionieri del cinema nella scuola. Attenzione però a non farsi pericolose illusioni: il fatto che tutti sappiano (e possano) più o meno scrivere non annulla la distinzione (distanza) tra l’esercizio della scrittura e la letteratura. La quale continua a essere studiata, amata e praticata, anche se sicuramente i nuovi mezzi hanno moltiplicato le possibilità di avvicinarsi a essa, di approfondirne la conoscenza e, persino, di praticarla. Lo stesso vale naturalmente anche per il cinema. PER SAPERNE DI PIÙ Per un lavoro di didattica del cinema nella scuola, ecco qualche segnalazione: Piva 2009 è un valido strumento, ottimamente illustrato, organizzato in modo intelligente e piacevole, e soprattutto pensato e realizzato con un’attenzione particolare alle esigenze dei più giovani; Bergala 2008 è tutto focalizzato sulla situazione specifica della Francia, ma di grande suggestione, soprattutto perché lega il cinema all’alterità dell’arte piuttosto che alla tecnica e al linguaggio e perché rivendica l’unicità dell’esperienza estetica (filmica) invece di cercare mediazioni con le varie discipline scolastiche e, men che meno, con i new media; Marangi 2004 colloca invece la didattica del cinema proprio in una prospettiva multimediale, che non può essere ignorata come dimostrano efficacemente Bächler-Murcia-Vanoye 2000 che tengono conto anche delle nuove tecnologie digitali; altri utili strumenti sono Porcelli-Ferracin 2000 e Attolini 2010. Oltre ai manuali e ai testi didattici, non bisogna trascurare altre opportunità: Gilmour 2010 è un romanzo di formazione, ma con una ricchissima filmografia finale: per cominciare, può funzionare meglio di molti manuali. Per un approfondimento delle relazioni tra cinema e lette-

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ratura si veda Perniola 2002 e Tinazzi 2010; testi suggestivi sono raccolti nell’antologia Casetti-Sgarbi 2008. Diverse opportunità vengono dall’immersione nell’universo dei new media: un’utile mappa, quanto mai opportuna nell’epoca del “videofonino” e dei mobile media, è fornita da Ambrosini-Maina-Marchesini 2009 (con un’esauriente bibliografia).

PARTE SECONDA LE ETÀ DEL CINEMA

Se ci capita di vedere L’ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich, Zelig (1983) di Woody Allen o Finalmente domenica (1983) di François Truffaut, ce li godremo meglio sapendo in anticipo che si tratta di film in bianco e nero e che l’uso di tale tecnica, da almeno mezzo secolo considerata arcaica dall’industria cinematografica, dipende dalla scelta degli autori di imitare film dei decenni passati. Sarà poi la visione dei tre film a farci comprendere il significato del rifacimento nostalgico del cinema degli anni cinquanta in Bogdanovich, della contraffazione dei cinegiornali degli anni venti in Allen, della rivisitazione ironica e affettuosa dei vecchi film noir francesi in Truffaut. Quanto meglio conosciamo gli stili imitati, contraffatti o rivisitati, tanto più saremo capaci di entrare e immedesimarci nel “gioco” che ci è proposto. Anche The Elephant Man (1980) di David Lynch, Tetsuo (1989) di Shinya Tsukamoto, Ombre e nebbia (1991) ancora di Woody Allen e Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke sono film in bianco e nero, ma per ognuno di questi scopriremo le diverse relazioni che hanno con stili e tecniche del cinema del passato. La corretta comprensione di un film e il piacere estetico che se ne può trarre dipendono anche da informazioni che possono orientare il nostro sguardo e

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fornirci le regole per entrare più agevolmente nel gioco cui il film c’invita. Scopo di questa seconda parte del libro è fornire alcune informazioni sulle regole del gioco delle diverse età del cinema. Nessuna pretesa, quindi, di fornire in poche decine di pagine un riassunto di più di un secolo di storia del cinema, impresa assurda quanto ardua. Vi si troverà, invece, una periodizzazione a grandi linee, in cui le diverse età sono individuate in rapporto alle tecniche e agli assetti del linguaggio cinematografico, ai differenti modi di produzione e di rappresentazione e alle relative forme di consumo, alle grandi configurazioni che l’universo filmico ha introdotto nell’immaginario collettivo. Dall’invenzione delle immagini in movimento fino alla più recente fase di inglobamento del cinema nell’universo dei new media, sono diverse le periodizzazioni possibili a seconda che si privilegi la tecnica, l’estetica, la produzione e il consumo, la teoria e le poetiche. Fra questi campi si possono notare degli scarti, perché non sempre un’innovazione tecnologica comporta una modificazione immediata o uniforme nell’uso estetico o nella presa di coscienza teorica. Questa la periodizzazione adottata: le origini, il muto, l’affermazione del sonoro e lo statuto classico della rappresentazione cinematografica, il cinema “moderno”, il cinema postmoderno. Non è l’unica possibile e non è esente da difetti. Sarà usata per evidenziare di volta in volta l’uno o l’altro degli aspetti che definiscono il funzionamento dell’istituzione cinematografica e che presentano maggiori spunti d’interesse, sia per fornire un’idea dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, sia per introdurre a successivi approfondimenti e ricerche. Di ogni età saranno forniti i pochi dati necessari a contestualizzare alcuni aspetti trat-

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tati come exempla senza alcuna pretesa di esaustività: per questo saranno le indicazioni per gli approfondimenti che daranno una mappa per nuove letture e nuove visioni.

4. Le origini: uno sguardo storico

Possiamo osservare il cinema delle origini da diversi punti di vista: da quello tecnico-scientifico per comprendere il funzionamento degli strumenti che hanno reso possibile la ripresa e la proiezione di immagini fotografiche in movimento; dal punto di vista psicologico e sociologico per comprendere il significato assunto nell’immaginario collettivo dalle forme di riproduzione meccanica di ogni aspetto della vita quotidiana, pubblica e privata; dal punto di vista estetico per comprendere le modificazioni che la nuova tecnica riproduttiva ha introdotto nel sistema delle arti tradizionali (pittura, teatro, letteratura). L’approccio alle origini del cinema qui proposto è di tipo storico: non solo per definire il contesto sociale e politico in cui si afferma la nuova invenzione, ma anche per mostrare come questa stessa invenzione sia un particolare (e affascinante) oggetto di ricerca storica. Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento, gli anni della nascita e dell’affermazione del cinematografo, sono passati alla storia con l’etichetta frivola ed effervescente di Belle Epoque. Se, per documentarci sul periodo, guardiamo Il silenzio è d’oro (1947) di René Clair, un film che rievoca il clima gaio e spensierato dei primi teatri di posa e dei boulevards degli spettacoli nella Parigi del 1900,

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la definizione ci sembrerà appropriata. Assai meno se scegliamo, invece, la lettura di un manuale di storia. In realtà, quelli della Belle Epoque furono gli anni di massimo sviluppo dell’imperialismo coloniale. La scena internazionale era dominata dalla difficile ricerca di un equilibrio, che si rivelava sempre più precario, tra le varie potenze che praticavano una politica di esasperato nazionalismo e di rigido controllo sulle aree di sfruttamento coloniale. Altrettanto difficile si rivelava, all’interno delle singole nazioni, la ricerca di un equilibrio tra il disegno egemonico e totalizzante della borghesia industriale e le istanze emergenti del proletariato che cominciavano a trovare una adeguata espressione politica e sindacale. Furono anche anni di grande progresso scientifico, tecnologico e sociale, sia pure tra innumerevoli contraddizioni che non tardarono a esplodere. L’ideologia del progresso estesa a tutti gli strati sociali fu, anzi, il tratto dominante dell’epoca, almeno fino al tragico risveglio causato dagli esiti, catastrofici per tutti, della prima guerra mondiale. Se esaminiamo in un qualsiasi manuale di storia la tavola cronologica dell’ultimo decennio dell’Ottocento, quello in cui fa la sua comparsa il cinematografo, troviamo prima di tutto un elenco di guerre di natura, direttamente o indirettamente, coloniale: la guerra cino-giapponese (1894), la sconfitta italiana ad Adua (1896), la guerra ispano-americana (1898), la guerra anglo-boera (1899), la rivolta dei Boxers in Cina (1900). Troviamo poi registrati eventi di grande rilievo politico-sociale, come la nascita del Partito socialista italiano (1892), la costituzione della Confédération générale du travail in Francia (1895), la fondazione del Partito socialdemocratico russo (1898), l’eccidio di Milano e i processi contro i dirigenti del movimento operaio italiano (1898). Accanto a questi fatti, sono poi citate le princi-

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pali novità scientifico-tecnologiche e culturali: il cinematografo Lumière (1895), i raggi Röntgen (1895), il radium (1898), il telegrafo senza fili (1899), la teoria dei quanta di Max Planck (1900), la pubblicazione di L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (1900). In genere, nei testi scolastici la storia politica occupa la parte centrale della trattazione, mentre scienza, tecnica, sistemi di rappresentazione e di controllo sono relegati in posizione periferica, quasi si trattasse di elementi di contorno o espedienti per alleggerire le pagine troppo fitte di dati politici, economici e militari. Per saperne di più, bisogna ricorrere alle trattazioni particolareggiate delle storie settoriali (storia della scienza, della tecnica, delle mentalità, del folklore, dello spettacolo). Da tempo, anche se non sempre i manuali scolastici ne tengono conto, lo sguardo del ricercatore ha imparato a posarsi su terreni inesplorati e a indagare quelle modificazioni che, pur svolgendosi secondo ritmi propri e ai margini di quella che viene tradizionalmente considerata la “scena della storia”, investono il vissuto di intere comunità, ne regolano i comportamenti e gli sviluppi in quanto sono direttamente o indirettamente legati alle forme e ai sistemi di rappresentazione e di interpretazione dell’uomo, della natura, della società. Si tratta di aspetti che possono essere visti secondo due diverse angolature, ma ambedue essenziali per lo storico: come oggetti di indagine, che possono essere restituiti alla memoria storica attraverso un lavoro di documentazione e interpretazione; e come fattori di storia, cioè come elementi che entrano in modo attivo nei processi di mutazione, e non come semplice riflesso di altri fattori solitamente privilegiati. Ed ecco, quindi, che i raggi Röntgen aprono allo sguardo il corpo vivente modificando il rapporto tra visi-

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bile e invisibile sui quali era andata istituendosi la clinica. Il telegrafo senza fili, che inaugura un’epoca rivoluzionaria nel campo delle comunicazioni a distanza, modifica profondamente il significato delle relazioni spazio-temporali tra gli individui e le comunità. Le teorie di Planck gettano una nuova luce sui rapporti tra materia ed energia con notevoli implicazioni sul piano scientifico e filosofico. La “scienza dei sogni”, oltre ad aprire all’osservazione il territorio inesplorato dell’inconscio, permette di stabilire nuove relazioni tra psicologia individuale e collettiva. In una prospettiva di questo tipo, particolare attenzione meritano l’invenzione e la diffusione del cinema, fatti apparentemente frivoli e secondari. Da tempo gli storici, dopo i pionieristici lavori di Marc Ferro (1980) e Pierre Sorlin (1979), hanno preso a indagare le relazioni tra storia e storia del cinema, mostrando connessioni tra settori della ricerca che finora hanno proceduto separatamente e ignorandosi a vicenda. Ed oggi abbiamo a disposizione strumenti efficaci per farci un’idea della complessità e della ricchezza di queste tematiche (Gori 1994; Lagny 2001). Alcuni teorici, poi, studiando le relazioni tra visione filmica ed esperienza onirica, hanno sottolineato che il cinema fa la sua comparsa negli anni in cui prende forma la psicanalisi, indicando nuove piste per cogliere il sistema dei rapporti che unisce l’inconscio individuale, oggetto istituito dall’indagine psicanalitica, e l’inconscio collettivo, le cui configurazioni trovano nel cinema un luogo privilegiato di produzione e uno strumento di dilatazione e amplificazione (Metz 1980). Altri hanno messo in evidenza come il cinema delle origini abbia finito per compendiare tecniche, procedimenti e temi delle “sale del progresso” e delle Esposizioni universali, ponendosi come la fase tecnologicamente e produttivamente più avanzata di un processo di estensione

4. LE ORIGINI: UNO SGUARDO STORICO

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dell’area di influenza dello spettacolo (Benjamin 1976: 140154; Abruzzese 1992). A questo proposito si possono ricordare le numerose vedute dell’Esposizione universale di Parigi del 1900 che compaiono tanto nel catalogo dei fratelli Lumière che in quello di Méliès. L’Esposizione del 1900, come riferiscono i cronisti dell’epoca, fu dominata dall’elettricità e dal cinema: si trattò di una grandiosa messa in scena del progresso e della tecnica. Ai visitatori erano offerti viaggi simulati, a ritroso nel tempo: i padiglioni del “vieux Paris” visibili in fantasmagorica successione da un battello sulla Senna. O, se preferivano, in territori lontani: modelli di mezzi di trasporto che, con o senza l’ausilio di proiezioni cinematografiche, simulavano viaggi per mare, terra o aria, in una singolare fusione di informazione tecnologica, esotismo e, non ultima, ideologia colonialista. Le “vedute” girate da vari operatori hanno documentato tutto: nel catalogo dei fratelli Lumière ci sono straordinarie riprese del “vieux Paris” ricostruito da Albert Robida, ottenute collocando la cinepresa su un’imbarcazione, ma c’è anche un “finto” travelling ottenuto filmando un’altra attrazione dell’Esposizione, il “marciapiede mobile”. In questo caso, i passanti che avanzano verso di noi portati dalla piattaforma mobile producono l’illusione di un movimento in avanti della cinepresa: si realizza così una straordinaria combinazione tra una “magia” dello spazio urbano e quella della cinepresa. In tutti i casi, ci è offerta una significativa documentazione delle modificazioni delle esperienze percettive e sensoriali che solo più tardi diventeranno un tema centrale delle ricerche dell’avanguardia futurista (vedi 5.5.1). Poiché i sistemi di rappresentazione che investono l’esperienza delle masse possono avere per lo storico un interesse pari a quello dei grandi fatti della vita politica

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e dei conflitti ideologici, possiamo fare su queste vedute dell’Esposizione universale due ordini di considerazioni: 1) esse costituiscono un documento storico dell’Esposizione che, con un’efficacia e un’“oggettività” superiori alle descrizioni giornalistiche e alle fotografie, ci restituiscono l’esperienza percettiva dei visitatori del tempo; 2) esse dimostrano quale ruolo possa assumere il cinema come mezzo di diffusione, amplificata e capillare, di un processo di spettacolarizzazione e di modificazione percettiva dello spazio urbano (l’Esposizione ne è appunto l’emblema e il compendio). Allo stesso modo, L’arrivée du train à La Ciotat e La sortie de l’usine Lumière, i due film che nel 1895 diedero inizio all’avventurosa storia del cinema, possono essere preziosi anche per lo storico non solo per quello che documentano (una stazione, l’ingresso di una fabbrica, comportamenti e abbigliamenti di operai), ma soprattutto per il fatto che un treno, una fabbrica, degli operai abbiano potuto diventare oggetto di spettacolarizzazione assieme ad altri fatti che, incentrati sulla “fascinazione del potere” come un corteo regale o un’incoronazione, avevano già per se stessi un alto coefficiente di spettacolarità. La “magia” del cinema determinò forme di fruizione spettacolare che investirono gli aspetti più comuni della vita di ogni giorno, facendo leva sulla fascinazione delle tecniche di riproduzione e di animazione delle immagini. Estendendo lo spettacolo fino alla sfera del quotidiano, il cinema portò il pubblico a godere dello spettacolo di se stesso. Ciò non significa che il cinema non abbia continuato ad accordare un ruolo privilegiato alla “scena del potere” (sovrani, sfilate, esibizioni di sfarzo o di efficienza tecnologica saranno i temi preferiti delle prime attualità cinematografiche, non importa se “vere” o “ricostruite”);

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significa piuttosto che furono sfruttati secondo una logica di massima estensione i “poteri della scena” e della “magia” tecnologica. Il cinema delle origini si dibatteva tra la coscienza del carattere di autenticità di riproduzione del reale che il nuovo mezzo assicurava e la straordinaria facilità con cui esso permetteva di produrre simulazioni perfettamente accettabili, soprattutto dal pubblico ingenuo e credulone che affollava i primi cinematografi. Tra i pionieri della nuova arte ci furono subito coloro che ritennero giusto difendere il suo carattere di autenticità contro ogni tentativo di contraffazione. Ad esempio, Georges Demenÿ, costruttore di un apparecchio considerevolmente perfezionato rispetto al cinematografo Lumière, si schierò decisamente contro coloro che “hanno creduto più comodo allestire le loro scene davanti alla macchina da presa anziché andarle a cercare in natura” (Sadoul 1965: 301). E l’operatore Bolesław Matuszewski nel 1898, a soli tre anni dalla presentazione del cinematografo Lumière, pubblicò un testo dal titolo Una nuova fonte della storia (Creazione di un deposito di cinematografia storica), in cui sosteneva il carattere di “verità assoluta” e di “autenticità, esattezza e precisione” delle fonti cinematografiche, auspicando la costituzione di appositi archivi per la conservazione e la consultazione di queste nuove preziosissime fonti (Grazzini 1999: 63-68). Le cose, almeno nei primi tempi, andarono in modo diverso da quanto auspicavano i due pionieri citati. L’americano Edward H. Amet filmò con l’ausilio di modellini, nel giardino di casa sua, l’affondamento della flotta del generale Cervera, uno degli episodi salienti della guerra ispano-americana; e il suo film fu acquistato “per documentazione storica” dal governo spagnolo (Sadoul 1965: 320). Nel 1903 Méliès, con l’incoraggiamento se non con

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la collaborazione della corona d’Inghilterra, filmò nel suo studio di Montreuil nel quale aveva simulato le navate di Westminster, la “ricostruzione” dell’incoronazione di Edoardo VII e, a causa di un fortuito rinvio della cerimonia, portò a termine il “documentario” con alcuni mesi di anticipo sulla cerimonia vera e propria. La vera incoronazione di Edoardo VII d’Inghilterra si tenne a Londra il 9 agosto 1902, dopo il rinvio che essa aveva subito per una indisposizione del sovrano (il 26 giugno era la data inizialmente fissata). A riprendere l’entrata e l’uscita del corteo regale c’era, tra gli altri, un operatore Lumière. La sera stessa dell’incoronazione, nella sala Alhambra in Leicester Square, e poco dopo in varie sale di Parigi, il (falso) documentario (o “attualità ricostruita”, come si diceva allora) di Méliès veniva presentato assieme alle riprese dal vero fatte all’esterno della cattedrale. Nella logica delle attrazioni, il vero documentario e la ricostruzione in studio (non diversa però dalle tavole dei giornali illustrati) potevano convivere in una perfetta integrazione tra effetto di realtà (fotografia animata) e fascinazione spettacolare (Costa 1999). Certo, si può supporre che allora molto debole fosse la capacità del pubblico di distinguere documentari veri da quelli falsi e che, in quella fase, le vedute cinematografiche fossero guardate come quadri, o tavole di giornali illustrati, in movimento. Lo storico che le esamini dal punto di vista della loro funzione e del loro uso non ricaverà molto dalla pur necessaria distinzione tra quelle autentiche e quelle ricostruite (cosa che del resto può essere fatta in modo assai agevole). Più interessante sarà per lui prendersi carico del problema della loro intercambiabilità (il fatto che il pubblico accettasse indifferentemente le une e le altre) e affrontare la ben più ardua questione dei modelli di

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rappresentabilità e di leggibilità di un evento, sia esso un episodio della guerra ispano-americana o il caso Dreyfus, un episodio di cronaca nera o una comune scena di vita urbana. Infatti sono questi modelli che regolano le forme di ripresa e di riorganizzazione, attraverso le inquadrature, dei soggetti riprodotti, siano esse autentici o meno: solo a poco a poco l’autenticità diventerà, nella coscienza dei fruitori e nella intenzionalità dei produttori, un tratto distinguibile e apprezzabile delle immagini. Anche in decenni successivi, per esempio nei fervidi dibattiti che attorno al cinema si accesero nella Russia postrivoluzionaria degli anni venti, si riproporrà il mito, ingenuamente positivista e miracolistico, della assoluta oggettività delle riprese dal vero, del film “non recitato” da contrapporre a quello “recitato”. Ma lo storico sa che ogni documento, per quanto autentico possa essere il materiale di base, va sottoposto al vaglio della critica storica, per definire di volta in volta i rapporti tra “visibile” e “invisibile” (ciò che viene mostrato e ciò che non viene mostrato), tra “visibile” e “enunciabile” (ciò che le immagini dicono e ciò che vien fatto loro dire). Sia nel documentario (vero o falso che fosse) sia nella finzione più o meno dichiarata, il cinema cominciò fin dalle origini a sfruttare, molto più di quanto non avessero fatto la letteratura e la pittura, la fascinazione del fatto realmente accaduto. Quante volte, anche nei decenni successivi, le didascalie iniziali dei film hanno sottolineato che i fatti che il pubblico stava per vedere erano “veri”, “autentici”, sia che si ispirassero a fatti di cronaca, di vita vissuta, sia alla storia del passato? Esattamente come l’attualità, la storia si presentava come un referente sicuro al quale ancorare il prodigio delle immagini in movimento. Sono in fondo le stesse ragioni che nel corso dell’Ottocento hanno fatto la fortuna

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del feuilleton, dei quadri e delle stampe di soggetto storico, in un processo di massificazione di temi e procedimenti cari all’estetica romantica. In America le “false passioni” di Cristo facevano concorrenza alle “attualità ricostruite” e uno dei primi film di Edison, che conobbe subito un’enorme diffusione e svariate imitazioni, fu una sommaria rappresentazione della decapitazione di Maria Stuarda (The Execution of Mary Queen of Scots, 1895). In Francia, L’assassinio del duca di Guisa fu un tema trattato in un film di Lumière già tra il 1896 e il 1897, prima di essere ripreso da Pathé nel 1902 e diventare nel 1908 una delle più importanti produzioni e uno dei più grandi successi del “Film d’Art”: L’assassinat du Duc de Guise di André Calmettes e Charles Le Bargy. In Italia, l’avventura di ambientazione storico-mitologica fu uno dei temi preferiti della nostra nascente cinematografia, che in questo campo conobbe ben presto clamorose affermazioni internazionali che esercitarono una precisa influenza anche sul grande cinema americano (su Griffith, in particolare); e il film storico, assieme al documentario di propaganda, divenne uno dei pilastri della politica cinematografica del fascismo. Bisognerà, comunque, precisare che il cinema non inventò nulla di nuovo: non fece altro che sfruttare in forme tecnologicamente più avanzate temi che avevano già avuto un’enorme fortuna, oltre che nella letteratura e nelle stampe popolari, nei musei delle statue di cera (che, prodotte in serie, venivano distribuite anche nei baracconi delle fiere con un sistema che anticipa quello dei futuri circuiti cinematografici), negli spettacoli di ombre cinesi e di lanterne magiche (spettacoli d’ombre di Robertson, Théâtre Séraphin, cabaret Le Chat Noir) e nei panorami e diorami (si trattava di grandi quadri mobili che presentavano con effetti molto

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realistici, oltre a scenari architettonici e naturali, immagini storiche e di attualità). Il cinematografo Lumière costituì il coronamento di parecchi decenni di ricerche nelle quali si intrecciavano due diverse esigenze: da una parte quella di arrivare alla oggettivazione di un evento nella sua durata (e per giungere a ciò fu necessario passare attraverso procedimenti di analisi, scomposizione, “distruzione” della stessa durata e della continuità percettiva); dall’altra quella di restituire in tutta la sua fascinazione l’evento attraverso l’illusoria partecipazione a esso (e per far questo era necessario far ricorso al trucco, all’illusione ottica, fare leva sulle possibilità simulatorie e illusionistiche che la tecnica offriva). Semplificando, si potrà dire che l’una appartiene al campo della ricerca di oggettività propria della scienza; l’altra al campo della ricerca di fascinazione propria delle arti della rappresentazione e, più in generale, dello spettacolo. Tuttavia, pretendere di operare una separazione netta, oltre che impossibile, può risultare fuorviante, in quanto le due esigenze convivono in modo inestricabile non solo nella mente dei ricercatori e dei pionieri, ma anche e soprattutto in quella dei fruitori dei risultati di tali ricerche. Come distinguere nelle “cronofotografie” sull’analisi del movimento animale e umano ciò che appartiene a un’istanza di oggettivazione scientifica e ciò che appartiene all’immaginario o all’inconscio dei ricercatori? Se prendiamo in considerazione i lavori di Muybridge e di Marey, i due più importanti pionieri di questo settore che preparò l’avvento del cinema (Tosi 2006), ci possiamo rendere conto dei risultati oggettivi ottenuti con le loro “prove”, ma allo stesso tempo restiamo colpiti dall’ossessione voyeuristica del primo e da quella, altrettanto sintomatica, del secondo sempre alla ricerca di strumenti per fissare e annullare il

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corpo vivente nelle astrazioni del “segno”, della “grafia”. Allo stesso modo, non è possibile separare nettamente nel cinema delle origini una tendenza “realista”, “oggettiva”, solitamente emblematizzata nel nome di Lumière, e una “irreale”, “fantastica”, per alcuni addirittura “perversa” e “pervertitrice”, nel caso di Méliès. Accettare una simile separazione (spesso proposta, in passato, anche da teorici del cinema, ma più che mai improponibile oggi), offre ben scarsi vantaggi allo storico: non c’è documento, per quanto “autentico”, che non possa essere fruttuosamente sottoposto al vaglio della critica storica; e la stessa nozione di “reale” è sempre e comunque un prodotto storico, frutto di convenzioni culturali, semiotiche e ideologiche. E, d’altra parte, l’immaginario stesso può costituire un oggetto essenziale del discorso storico: infatti, come afferma Ferro (1980: 90) “l’immaginario è storia tanto quanto la Storia”. PER SAPERNE DI PIÙ La bibliografia sul cinema delle origini è sterminata e di carattere specialistico: per farsene un’idea e iniziare un percorso di approfondimento, può essere sufficiente Gaudreault 2004. Per approfondire il percorso suggerito in questo capitolo potranno essere utili dei testi non esclusivamente focalizzati sugli aspetti tecnico-scientifici della nascita e dello sviluppo del cinema, ma che inquadrino il cinema in un contesto più ampio che dia conto delle modifiche della percezione del mondo: tra questi, consiglio in particolare Weber 1990, suggestivo quadro storico della Francia “fin de siècle” dove fa la sua comparsa il cinematografo Lumière; Kern 1988, che contestualizza in un rigoroso quadro storico i mutamenti della percezione del tempo e dello spazio nell’epoca dell’invenzione del cinema; Milner 1989, sui rapporti tra sviluppo dell’ottica e il fantastico; Brunet-

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ta 1997; Bertozzi 2001a e Tosi 2006 (quest’ultimo va integrato con la visione dei documentari dello stesso Virgilio Tosi, compresi nel DVD dell’Istituto Luce Le origini del cinema scientifico, 2005).

5. Il cinema muto

Tempo addietro ho avuto l’occasione di assistere a un singolare spettacolo ideato e condotto da Rick Altman, autorevole e versatile docente dell’Università dell’Iowa. Lo spettacolo, intitolato Living Nickelodeon, consisteva nella ricostruzione di una serata in un nickelodeon (erano chiamate così negli USA le prime sale cinematografiche il cui biglietto costava cinque cents ovvero il famoso nichelino di cui parlava Thalberg-De Niro in Gli ultimi fuochi). Altman presentava “vedute” di varia provenienza (americane, francesi, persino italiane), interloquiva con il pubblico, alternava la proiezione di film che egli stesso accompagnava al pianoforte con la presentazione di diapositive con testi di canzoni illustrate che servivano al pubblico per improvvisare una sorta di karaoke. Lo spettacolo era tanto divertente quanto istruttivo e ho sentito il bisogno, seguendo convegni e festival specializzati, di rivederlo altre due volte, verificando le varianti introdotte a seconda del paese in cui veniva presentato e del pubblico cui si rivolgeva: l’ho visto alla Cinémathèque Québécoise di Montréal, al Cinema ritrovato di Bologna e all’Auditorium del Louvre di Parigi. Altman riusciva a dimostrare in modo brillante e divertente che il cinema muto (silent come lo chiamano gli americani) era tutt’altro che silent: anzi era chiassoso e, come si direbbe oggi, addi-

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rittura interattivo. Cronisti d’epoca e storici del cinema forniscono gustose informazioni su quanto attiva fosse la partecipazione del pubblico ai film muti. Dai pittoreschi ambienti dei primi nickelodeons si è passati alle più raccolte forme di accompagnamento musicale in uso nelle sale cinematografiche dopo l’affermazione del lungometraggio, secondo un percorso che va dalla “cacofonia dei nickelodeon” alla standardizzazione degli accompagnamenti (Altman 1999 e 2005). L’avvento del sonoro modificò le abitudini del pubblico e i rapporti tra immagine, parola e musica, confermando una tendenza che si era già manifestata sul finire degli anni dieci: “Il pubblico vociante dei film muti diventò un pubblico muto per i film sonori” (Sklar 1982: 18).

5.1 Saper vedere (e ascoltare) il cinema muto Lo spettatore d’oggi incontra il cinema muto per caso e per lo più come frammento, come citazione: per esempio, in Wall•E (2008) di Andrew Stanton, quando il capitano dell’astronave Axiom vede comparire sullo schermo del suo computer un’inquadratura di A Corner in Wheat (1909) di David W. Griffith (vedi 8.2); oppure in Vincere (2009) di Marco Bellocchio, quando i due protagonisti, Benito Mussolini e Ida Dalser, vanno al cinema e vedono Saturnino Farandola (1914) di Marcel Fabre. Si tratta di fugaci citazioni, riconoscibili solo da uno spettatore esperto, che non sono molto diverse dagli oggetti desueti che ingombrano lo spazio terrestre ormai abbandonato dagli uomini quale appare in Wall•E (tra questi, c’è anche una videocassetta di Hello, Dolly, un musical del 1969, con Barbra Streisand). Certo non è facile oggi vedere il cinema muto. Le difficoltà, prima ancora che soggettive, sono oggettive e sono

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dovute alle condizioni nelle quali esso ci è pervenuto. Nella maggior parte dei casi i film muti, girati con una frequenza di sedici fotogrammi al secondo, vengono proiettati a frequenza ventiquattro (che è quella dei moderni proiettori sonori e che diventano venticinque quando sono trasmessi in TV). Ciò altera irrimediabilmente il ritmo del film. Se si tratta di una comica muta, questo non fa che accrescere un effetto che spesso è già nell’originale. Ma se il film è drammatico, il guasto è irreparabile. Inoltre, anche quando la velocità di proiezione sia giusta, esiste il problema del mascherino. Se in un film muto vedete “tagliati” testa e piedi dei personaggi, significa che il proiezionista non ha usato un mascherino adatto al formato 1:1,33 (rapporto tra l’altezza e la base del fotogramma) che è quello del cinema muto e ha lasciato inserito un mascherino adatto ai film moderni (Cherchi Usai 1991: 58). Ma non basta. Gran parte degli spettatori di oggi ignora che il colore fu ampiamente usato fin dai primordi del cinema. Non si pensi ai colori che si vedono nei film d’oggi. La Star-Film di Méliès distribuiva film colorati a mano, fotogramma per fotogramma, attraverso un procedimento lungo e costoso che faceva aumentare il prezzo delle pellicole ma permetteva di ottenere immagini “che hanno la fiammeggiante bellezza delle miniature medioevali” (Cherchi Usai 1991: 10). Successivamente furono adottati sistemi più idonei a modi di produzione sempre più industrializzati. Dapprima, la colorazione meccanica mediante pochoirs che consentiva l’uso di “tamponi” che coprivano di volta in volta una porzione del fotogramma, con la possibilità di usare diversi colori. Successivamente furono adottati sistemi di tintura che permettevano di ottenere una dominante cromatica in un’inquadratura o in un’intera scena. Questo effetto si otteneva con differenti metodi: la tintura (imbibi-

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zione della gelatina o impiego di una pellicola già colorata) oppure il viraggio e la mordenzatura, due differenti modi di fissare il colore nelle parti impressionate. A volte questi sistemi erano usati contemporaneamente per una stessa inquadratura, con effetti davvero suggestivi. Queste primitive forme di colore non costituivano un additivo più o meno efficace per lo spettacolo. Il cinema muto aveva stabilito un vero e proprio codice cromatico: a ogni tonalità dominante dell’inquadratura corrispondevano certi caratteri della scena (per esempio, il viraggio in blu serviva a produrre quello che oggi si chiamerebbe l’”effetto notte”; il rosso era adottato per le scene drammatiche e così via). Piuttosto rari, data la rapida deperibilità delle copie trattate con colori all’anilina, i casi di film a colori che siano pervenuti fino a noi. Certo, negli ultimi decenni grazie ai progressi fatti nelle tecniche del restauro e della conservazione del patrimonio del cinema muto, si sono rese disponibili copie di film in cui sono stati ristabiliti con la maggior approssimazione possibile i colori originali. Accanto al problema del restauro del testo filmico nella sua forma originale, si pone quello ancor più complesso del “testo-spettacolo”. Infatti, in molti casi, la proiezione del film era accompagnata da esecuzioni musicali (per orchestra, pianoforte o pianola meccanica), canti e letture espressive delle didascalie. In certi casi, una proiezione cinematografica poteva diventare un evento spettacolare di dimensioni difficili da immaginare al giorno d’oggi: la prima di Intolerance (1916) di Griffith al Liberty Theatre di New York nel settembre 1916 prevedeva l’impiego di un’orchestra di quaranta elementi ed effetti spettacolari di contorno, giudicati degni di un circo a tre piste, per un totale di centotrentaquattro persone, compresi i sette addetti alle esplosioni durante le scene di battaglia (in Cherchi Usai 2005: 41-42).

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Allo stesso modo, è estremamente difficile farsi un’idea di cosa poté essere la proiezione di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone senza la contestuale esecuzione per grande orchestra della Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti o quella di Rapsodia satanica (1915) di Nino Oxilia senza la musica di Pietro Mascagni. Per non parlare delle “sceneggiate” della scuola napoletana che erano accompagnate dall’esecuzione della canzone su cui si basava l’intreccio del film. L’impiego di elementi sonori di vario tipo fu un’aspirazione di alcune correnti del cinema fino dalle sue origini. Già Edison aveva concepito le sue ricerche sulla riproduzione di immagini in movimento come un perfezionamento del suo fonografo. E le “strisce” del Théâtre Optique, con il quale Émile Reynaud anticipò fin dal 1889 il cinema d’animazione, erano dotate di un ingegnoso sistema di sincronizzazione con effetti sonori di vario tipo. Non sempre, però, l’assenza del suono e della parola fu avvertita come una carenza. C’è anzi da ritenere che i risultati più significativi dei primi trent’anni della storia del cinema siano stati ottenuti attraverso un impiego coerente delle possibilità espressive della “scena muta”. In omaggio a questo principio, l’Österreichisches Filmmuseum di Vienna ha da tempo deciso di rinunciare a qualsiasi forma di musica dal vivo durante la proiezione di film muti. “La ‘povertà’ del cinema costituisce in realtà la sua ricchezza”: questa formula proposta da Jurij Tynjanov, nell’ambito delle ricerche dei formalisti russi (in Kraiski 1971: 57), sintetizza perfettamente la posizione di cineasti e teorici che si sono adoperati per portare a maturazione la potenzialità del linguaggio del silenzio e che hanno saputo fare della mancanza della “parola detta” uno dei punti di forza delle loro ricerche. Forse è proprio al cospetto della “scena muta” che lo spettatore di oggi deve fare il maggiore

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sforzo per superare le difficoltà soggettive che rendono ardua la comprensione di quel linguaggio. Non si tratta più di un problema di “restauro”, ma di recupero, attraverso strumenti critici e informativi, delle attitudini percettive indotte da quel particolare assetto del linguaggio filmico. Boris Ejchenbaum, un altro critico del gruppo dei formalisti russi, sosteneva che nel cinema muto la parola è presente come discorso interiore prodotto dallo spettatore a contatto con l’immagine (in Kraiski 1971: 23-24). Basterebbe quest’interpretazione, che sembra anticipare le recenti teorie della cooperazione interpretativa, per farci comprendere quanto complessa e “produttiva” dovesse essere la partecipazione che il linguaggio del muto richiedeva allo spettatore. Spesso per aggirare tali difficoltà si sono cercati espedienti per aggiornare, modernizzare queste pellicole, renderle più facilmente fruibili, dotandole di colonne sonore. Il caso più famoso (e discusso), in epoca di crescente fortuna della videomusic, è stata la riedizione nel 1984 di Metropolis (1927) di Fritz Lang curata da Giorgio Moroder. Il musicista italo-americano ha messo a punto una copia ridotta (87 minuti contro i 155 della versione originale e le due ore circa delle copie allora disponibili). Ha adottato per la ristampa della pellicola un sistema di viraggi (seppia, blu, rosso e oro) usati con libertà rispetto a quelli d’epoca (cioè senza troppe preoccupazioni filologiche) e con qualche coloritura additiva, senza tuttavia stravolgere la sostanza figurativa del film. Ma, soprattutto, ha missato una colonna sonora che non ha nulla a che fare con lo spartito per orchestra scritto a suo tempo da Gottfried Huppertz e che è costituita da una serie di canzoni rock eseguite da vari complessi della New Wave (tra le quali Love Kills eseguita da Freddie Mercury dei Queen, che avevano già utilizzato brani di Metropolis per il loro videoclip Radio Gaga) e da

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esecuzioni strumentali associate a varie sonorità prodotte elettronicamente. Uno dei motivi della riuscita dell’operazione di Moroder sta nella qualità visiva e ritmica del film di Lang. Le vocalità urlate del rock e le sonorità metalliche del sintetizzatore si integrano perfettamente in un film per il quale Buñuel all’epoca della sua uscita usò espressioni di questo tipo: “Che travolgente sinfonia del movimento! Come cantano le macchine in mezzo a incredibili trasparenze, arcotrionfate dalle scariche elettriche! […] Ogni acerrimo guizzo degli acciai, la ritmica successione di ruote, di pistoni, di forme meccaniche increate, sono un’ode mirabile…” (Buñuel 1984: 141). Infatti, nelle espressioni più mature e coerenti del cinema muto, i valori ritmici della sequenza giocano un ruolo essenziale. La moderna videomusic ha frequentemente fatto ricorso a citazioni dal cinema muto, per la facilità con cui può trovare sequenze di immagini visivamente ritmate. E quel cinema che è stato influenzato dai modelli della videomusic ha a sua volta recuperato tecniche tipiche del montaggio dell’epoca del muto (ritmico, sinfonico, analogico e contrappuntistico), come accade in alcune sequenze di Koyaanisqatsi (1982) di Godfrey Reggio che ha poi riproposto la stessa tecnica negli altri capitoli della sua trilogia, Powaqqatsi (1988) e Naqoyqatsi (2002), avvalendosi sempre delle musiche di Philip Glass (autore, tra l’altro, di un accompagnamento per un’altra delle edizioni “sonorizzate” di Metropolis). Metropolis con la colonna sonora di Moroder più che una riedizione del film di Lang, costituisce un remake, un rifacimento e va quindi contestualizzato in quell’estetica del remake che si è andata manifestando in diversi settori, non solo cinematografici (Dusi-Spaziante 2006). D’altra parte, le pratiche del found footage, del riciclaggio e

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del montaggio di materiali dell’epoca del muto hanno dato luogo a interessanti operazioni di interpretazione critica dei materiali d’archivio. È quanto accade in Dal Polo all’Equatore (1986) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi i quali, attraverso la tecnica della riproduzione dei fotogrammi a passo uno, il ralenti e il re-cadrage, compiono una sorta di lavoro di scavo dentro il fotogramma. Vediamo così emergere il non detto dei documentari di Luca Comerio che essi hanno riportato a nuova luce, sottraendoli all’oblio e al degrado irreversibile. Di tipo diverso è l’operazione fatta da Peter Delpeut in Lyrical Nitrate (1991), nel quale scene della passione di Cristo e di drammi passionali dei divas film italiani sono assemblati con le più famose arie dell’opera lirica. Metropolis nell’adattamento di Moroder rappresenta un fatto completamente diverso dalle presentazioni di grandi film dell’epoca del muto in copie restaurate con il ripristino dei viraggi originali e con l’accompagnamento di grandi orchestre che eseguono gli spartiti originali o musiche d’epoca. Per l’Italia si possono ricordare le pionieristiche proiezioni dei primi anni ottanta: Napoleone (1927) di Abel Gance presentato a Roma (1982) da Francis e Carmine Coppola, Maschere di celluloide (1928) di King Vidor (Firenze, 1983), Nosferatu il vampiro (1922) di Friedrich W. Murnau (Pordenone, 1984). Da allora festival specializzati come Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone e Il Cinema ritrovato di Bologna ripropongono ogni anno nuove copie restaurate di classici del cinema muto accompagnati da esecuzioni musicali dal vivo. In questi casi, il restauro filologico della copia originale convive con il recupero della dimensione spettacolare legata all’esecuzione musicale. In alcuni casi vengono poi approntate edizioni destinate prima alle sale e poi al mercato dell’home video, come è

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capitato per la nuova versione di Metropolis, distribuita sul mercato internazionale con il titolo The Complete Metropolis (2010), resa possibile dal ritrovamento a Buenos Aires (2008) di un negativo con venticinque minuti in più e finora sconosciuti.

5.2 Dal cinematografo al cinema: nascita di un linguaggio Storici e teorici del cinema sono concordi nel considerare l’età dei pionieri (grosso modo dal 1895 ai primi anni dieci) come una fase di scoperta e definizione di una tecnica riproduttiva utilizzata a fini spettacolari piuttosto che di inizio di una nuova arte e di un nuovo linguaggio. E tuttavia Edgar Morin attribuisce già a Méliès (oltre che ai pionieri di Brighton) il merito di aver attuato il passaggio dal cinematografo al cinema (Morin 1982: 70-71). Con il primo termine lo studioso francese indica il puro e semplice apparecchio di ripresa e proiezione di fotografie animate messo a punto dai fratelli Lumière che, del resto, non nutrirono mai eccessiva fiducia nelle possibilità artistiche della loro invenzione. Con il secondo, Morin vuole indicare quel complesso dispositivo espressivo-spettacolare capace di articolare un proprio linguaggio e le cui potenzialità sarebbero già messe in luce dalla produzione di Méliès. L’opinione di Morin non è condivisa da altri studiosi: Mitry, ad esempio, nega che Méliès possa essere già considerato un regista cinematografico (o anche solo teatrale) ed è disposto a concedergli tutt’al più la qualifica di scenografo (Mitry 1967: 26). Ma le disparità di opinioni sui pionieri del cinema non finiscono qui: secondo Kracauer, le riprese dal vero dei

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Lumière, per quanto anonime e apparentemente insignificanti, esprimono già la vera vocazione del cinema che è quella realistica e che deriva direttamente dalla fotografia istantanea; di conseguenza le stravaganti fantasie di Méliès, frutto di un’ingegnosa combinazione di elementi pittorici, scenografici e teatrali, costituirebbero una sorta di tradimento dell’autentica natura del cinema (Kracauer 1995: 83). Secondo altri, invece, Méliès sia pure in forme primitive, avrebbe colto il carattere essenzialmente onirico del cinema, anche quello che si presenta nelle forme oggettive e neutrali delle riprese dal vero. Questa disparità di opinioni sottintende concezioni diverse del cinema, ma soprattutto è il risultato di applicazioni spesso riduttive di categorie e parametri interpretativi elaborati in relazione agli sviluppi del cinema successivo o, in certi casi, presi in prestito dalle arti tradizionali. E tutto ciò aiuta a comprendere ben poco di quel complesso fenomeno che fu il cinema delle origini. Oggi, il pubblico che assiste per la prima volta alla proiezione di un’antologia di film di Edison, Lumière, Méliès o Porter, dopo un primo moto di curiosità divertita, perde rapidamente interesse. La “fotografia in movimento” e i “trucchi di trasformazione”, che costituivano gli elementi di attrazione dei primi spettacoli cinematografici, appaiono inevitabilmente l’esibizione ripetitiva di un prodigio tecnico che non ha ancora acquisito un suo statuto di linguaggio. Lo spettatore di oggi ha qualche difficoltà a concentrarsi su ciò che viene mostrato: le tecniche di ripresa – frontali, senza articolazioni di piani e variazioni di angolo – non fanno vedere abbastanza i soggetti e comunque non nelle forme cui è abituato. Inoltre, quando si passa dalle riprese dal vero dei Lumière, deludenti perché ci fanno vedere “la Parigi di Proust senza Proust” (Claude Mau-

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riac) al curioso e irreale universo di Méliès, la serialità ripetitiva dei trucchi fa sentire la mancanza di una dialettica tra reale e fantastico: i vari prodigi o le situazioni comiche si succedono incessantemente senza uno sviluppo narrativo vero e proprio. Il pubblico di oggi può così prendere coscienza – a proprie spese – di quanto poco universale sia il linguaggio del cinema, di quanto esso sia deperibile e soggetto a modificazioni, benché le basi tecniche del suo apparato restino grosso modo le stesse. E certo il linguaggio dei film di Lumière e di Méliès appare oggi assai più obsoleto di quanto non appaia quello della prosa giornalistica o narrativa coeva. Sia che lo spettatore di oggi consideri il cinema un’arte, sia che più modestamente lo consideri una forma di narrativa per immagini, i film proposti da queste antologie non gli sembrano riconducibili a nessuna di queste idee di cinema. E a suo modo vede giusto, perché essi non sono nessuna di queste due cose. Cosa sono allora? La risposta è semplice: una curiosità scientifico-tecnologica a uso degli ingenui spettatori dei baracconi, delle “sale del progresso”, delle fiere. Ciò non significa sminuire gli apporti spesso geniali dei pionieri del cinema, tuttavia per comprendere il significato delle loro incerte e tremolanti vedute, bisogna tener presente il contesto nel quale venivano presentate. I luoghi nei quali fa la sua apparizione il cinema costituiscono lo spazio indifferenziato dell’attrazione spettacolare. Impossibile, in tale contesto, attribuire caratterizzazioni estetiche o linguistiche ai film presentati. Quale senso può avere l’attribuzione di opzioni di tipo realistico o fantastico a questo o a quel pioniere, quando sappiamo che all’Old Poly, la sala del Royal Polytechnic Institution, dove avviene la prima londinese del Cinematografo Lumière, il pubblico può vedere contemporaneamente treni elettrici in

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miniatura, le “ruote della vita” che permettono l’animazione di piccole silhouettes dipinte, macchine elettriche che producono scintille e il coreutoscopio che proietta scheletri gesticolanti? Attribuire al cinema dei primi tempi caratteri, linee di tendenza, prese di posizione estetica che saranno propri della successiva evoluzione può, quindi, essere fuorviante. Meglio, invece, intendere l’età dei pionieri più che come la fase di inizio di una nuova arte e di una nuova forma di narrativa, come un’epoca di dissoluzione del sistema tradizionale delle arti, quella che Benjamin ha chiamato “l’epoca della riproducibilità tecnica”. A questa dissoluzione contribuì certamente l’avvento della fotografia e del cinema, anche se alla base del fenomeno vanno individuate le profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali determinate dalla rivoluzione industriale. La dissoluzione del sistema tradizionale delle arti ha, quindi, come scenario lo spazio urbano delle metropoli industrializzate, dove si affermano quelle forme di percezione estetica “collettiva” e “distratta” (Benjamin 2000: 44-45) che definiscono i caratteri strutturali di ampi fenomeni a metà strada tra spettacolo e informazione e che costituiscono le prime configurazioni della moderna cultura di massa (esposizioni universali, arredo urbano, giornalismo illustrato, cinema). È appunto il carattere indifferenziato e ripetitivo delle “attrazioni” che ci sono riproposte nelle antologie dei pionieri del cinema che viene rapidamente notato dagli spettatori di oggi. Qualcosa di analogo si verificò nel pubblico del tempo: da qui derivò la spinta alla rapida evoluzione del cinematografo. Ed è qui che troviamo le ragioni dell’altrettanto rapida decadenza dell’astro di Méliès: chiuso in una romantica concezione di artigianato artistico, egli si trovò,

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dopo gli straordinari esiti di Voyage dans la lune (1902), a coltivare un suo universo poetico, senza dubbio coerente, ma ben presto obsoleto. Già nel corso del primo decennio del Novecento, l’evoluzione del linguaggio del cinema non passava più per il laboratorio di Montreuil, avendo preso altre strade. L’americano Edwin S. Porter, partito come imitatore, o meglio contraffattore, dei film di Méliès, cominciò a dare una più complessa articolazione spaziale e narrativa al repertorio dei trucchi (Dreams of the Rarebit Fiend, 1906) e a organizzare in strutture narrative le scenette di attualità e di vita americana (La vita di un pompiere americano, 1903, e Assalto al treno, 1903). Ma fu soprattutto grazie alla frenetica attività di David W. Griffith alla Biograph tra il 1908 e il 1912 che presero forma quei procedimenti tecnici e di organizzazione logico-narrativa delle inquadrature che ci permettono di parlare di emergenza degli elementi di base del racconto cinematografico (Carluccio 1999). Nel romanzo Il 42° parallelo (1930) John Dos Passos ha descritto, con un’efficacia superiore a quella di qualsiasi storia del cinema, la forza di impatto sul pubblico di un film come La nascita di una nazione (1915) di Griffith. Lo scrittore americano si sofferma sulle emozioni suscitate dal film nel giovane Charley e nella sua ragazza e cita in particolare “le battaglie, la musica e le trombe” (ecco un’altra prova dell’importanza della musica nel cinema muto: vedi 5.1), la morte sul campo di battaglia durante la guerra civile di due giovani “l’uno nelle braccia dell’altro” e la carica del Ku Klux Klan che porta allo scioglimento finale (Dos Passos 1979: 363). All’epoca in cui Dos Passos ambienta questo episodio del suo romanzo (prima guerra mondiale) erano passati poco più di vent’anni dalle prime proiezioni cinematografi-

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che dei fratelli Lumière con le loro incerte vedute di durata inferiore al minuto. E tuttavia con La nascita di una nazione il cinema aveva già conquistato tutti i suoi primati: sul piano dello spettacolo, della narrazione e del linguaggio, e – non ultimo – dell’economia (costato all’incirca 110.000 dollari, il film ne ha incassati almeno 50 milioni). Considerazioni non meno importanti andrebbero poi fatte sulla forza propagandistica del film, come dimostra del resto la vicenda dell’eroe di Dos Passos che, sull’onda dell’emozione suscitata dal film, decide di arruolarsi. Con questo film Griffith riuscì a dimostrare le possibilità che il cinema offriva: 1) di articolare un complesso spettacolo della durata di circa tre ore al pari di una rappresentazione di un teatro d’opera; 2) di sviluppare una narrazione compiuta e di notevole complessità tematica al pari di un voluminoso romanzo; 3) di articolare la narrazione alternando le più grandiose e spettacolari scene d’insieme alla registrazione di minimi dettagli attraverso i primi piani e i “mascherini a iride” con una efficacia e un’immediatezza assolutamente nuove. Naturalmente a questi risultati il cinema arrivò non solo grazie a Griffith: furono necessari il lavoro, l’applicazione e la sperimentazione di molti con l’acquisizione di svariati risultati parziali che, diventati patrimonio comune, accelerarono la formazione e lo sviluppo del nuovo linguaggio. Limitandoci all’esperienza griffithiana, c’è da osservare che la storiografia più recente tende ad attribuire molta più importanza di quanta sia stata data in passato al ruolo di Billy Bitzer (l’operatore dei film di Griffith) che, con ogni evidenza, fu qualcosa di più di un semplice collaboratore tecnico. D’altra parte l’evoluzione del linguaggio cinematografico non può essere compresa se ci si limita a registrare soltanto una serie di “prime volte”, come ha osservato il critico fran-

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cese Jean-Louis Comolli: si rischia di cadere nell’aneddoto o nella curiosità archeologica e poco più (Comolli 1982: 41). Nel già citato romanzo Gli ultimi fuochi, Fitzgerald, parlando di una sceneggiatrice, dice ironicamente: “E si riteneva che fosse stata nel teatro di posa quel giorno stesso in cui Griffith inventò il ‘primo piano’!” (Fitzgerald 1968: 124). Al di là della battuta introdotta per ironizzare sull’onnipresenza di un’attempata sceneggiatrice, non si tratta di nient’altro che di un luogo comune storiografico. In realtà troviamo dei primi piani (e addirittura primissimi piani e dettagli) in film realizzati assai prima che Griffith iniziasse la sua attività alla Biograph (1908). C’è il famoso precedente del primo piano del bandito Barnes che spara in direzione del pubblico in Assalto al treno (1903) di Porter. Ma si trattava solo di un’attrazione a effetto senza una precisa funzione narrativa, tanto è vero che il catalogo di Edison consigliava gli esercenti di collocarla indifferentemente all’inizio o alla fine del film. Un altro esempio lo si può trovare, qualche anno addietro, tra i film della cosiddetta “scuola di Brighton” (Gran Bretagna): in Grandma’s Reading Glass (1900) di George A. Smith, vediamo – attraverso la lente di ingrandimento che la nonna usa per leggere – dettagli della pagina di un giornale, del volto della nonna stessa e primi piani della testa di un gattino e di un canarino in gabbia. Tecnicamente si tratta di primissimi piani o addirittura dettagli, il cui effetto di isolamento dal contesto è accentuato dal mascherino circolare che serve a simulare la visione attraverso la lente. La finalità di Smith è ancora quella di esibire curiosità ottiche, rompicapi visivi. Lo dimostra chiaramente la logica di messa in successione delle inquadrature: dal dettaglio magico e misterioso della realtà vista attraverso la lente al piano d’insieme, ordinario e banale.

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Smith si comporta ancora come gli operatori che lo stesso anno (1900) riprendevano gli strani effetti ottici prodotti dal “marciapiede mobile” all’Esposizione universale di Parigi. E tuttavia nel caso di Smith non c’è solo l’esibizione della curiosità ottica, ma anche la sua contestualizzazione attraverso la variazione delle inquadrature. Il rapporto che questo breve film stabilisce tra primi piani e piani di insieme ci autorizza a parlare di montaggio, non solo in senso tecnico, ma anche in senso logico-discorsivo. L’effetto di senso è prodotto dalla selezione di inquadrature diverse (i dettagli e i piani d’insieme di una stessa scena) e dalla combinazione, cioè la scelta di una particolare alternanza delle inquadrature (vedi 10.6). Anche Griffith fa uso del montaggio parallelo e, successivamente, del primo piano. Sono procedimenti tecnici che in quanto tali non fu certo lui a inventare. Ma la loro funzione è ormai compiutamente narrativa ed espressiva: solo in questo senso si potrà parlare di invenzione, ammesso che si voglia proprio usare questo termine. In After Many Years (1908), ispirato a un poema di Alfred Lord Tennyson Enoch Arden, introduce l’ardita innovazione di mostrare in parallelo i due protagonisti, separati nello spazio ma uniti da uno stesso sentimento d’amore e di nostalgia. Il film ebbe, grazie all’idea di far emergere attraverso il montaggio il significato interiore delle immagini, un successo tale che lo indusse a farne un remake tre anni dopo (Enoch Arden, 1911). Spingendosi ancora più avanti, nella nuova versione Griffith combinò la tecnica del montaggio in parallelo con quella della ripresa a distanza ravvicinata, senza alcuna giustificazione se non quella di comunicare in modo espressivo gli stati d’animo del personaggio (Cherchi Usai 2008: 68-69 e 141-145). La stessa sorte del primo piano, che con Griffith entra a far parte della nuova grammatica della narrazione per im-

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magini, è capitata anche ad altri “artifici” inventati e sfruttati dai pionieri come semplici curiosità ottiche. Tale è il caso della dissolvenza incrociata che, usata da Méliès come trucco di trasformazione, ritroviamo nel cinema di Griffith con ben altre funzioni, per esempio come segno di interpunzione per introdurre o per concludere un flashback. Con Griffith il cinema impara le regole del racconto, stabilisce i fondamenti della sua sintassi narrativa. Sembra che Griffith stesso, per rassicurare i suoi produttori che temevano che il pubblico restasse disorientato di fronte a queste innovazioni, amasse ricordare che si trattava di procedimenti già usati da Dickens nei suoi romanzi: si trattava pur sempre di raccontare in modo chiaro ed emozionante una storia, anche se con le immagini invece che con le parole (Arvidson 1969: 66).

5.3 Modi di produzione e modi di rappresentazione L’idea stessa di linguaggio cinematografico, cui ci siamo finora riferiti per dar conto di come i primi storici e teorici del cinema hanno raccontato il cinema delle origini, è stata messa in discussione da Noël Burch, autore di un libro, Il lucernario dell’infinito (1990), che ha contribuito a cambiare il nostro modo di vedere il cinema muto e la sua storia. Secondo Burch quello che è comunemente chiamato linguaggio cinematografico e che come tale, quasi fosse una lingua naturale, è anche insegnato, altro non è che un particolare modo di rappresentazione funzionale a un certo modello di sviluppo economico e produttivo (modo di produzione). Burch interpreta l’evoluzione del cinema delle origini mettendo in contrapposizione il Modo di Rappresentazione Primitivo (MRP) e il Modo di Rappresentazione

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Istituzionale (MRI). Mentre il primo riguarda la fase in cui il cinematografo era una delle tante attrazioni offerte nei luoghi di spettacolo, il secondo coincide con la progressiva conquista da parte del cinema della capacità di raccontare e rappresentare vicende anche complesse e, quindi, di rivaleggiare con il teatro e la letteratura. Il MRP è caratterizzato dalla frontalità del quadro e dalla fissità della cinepresa; dalla mancanza di articolazioni spazio-temporali e, quindi, narrative; dall’autosufficienza (“autarchia”) della singola inquadratura cui corrisponde una “esteriorizzazione” della funzione narrativa e commentativa, affidata alla voce di uno speaker e all’accompagnamento musicale. All’opposto, il MRI è caratterizzato dalla “grande forma narrativa” basata sulla discontinuità delle immagini (alternanza della scala dei piani) e sulla “linearizzazione” dei vari elementi significanti (Burch 2001). Modelli interpretativi del tutto omologhi sono quelli proposti da André Gaudreault e Tom Gunning che mettono in contrapposizione Sistema delle Attrazioni Mostrative (SAM) e Sistema dell’Integrazione Narrativa (SIN) (Gaudreault 2004). Variano le sigle e le etichette, ma quello che conta in queste contrapposizioni è la separazione del cinema delle origini dal cinema istituzionale: troppo spesso si era proiettata sulle origini un’idea di cinema che derivava invece dagli assetti successivi dell’istituzione cinematografica. Più importante è invece stabilire che solo dopo il passaggio dall’uno all’altro modo di rappresentazione il cinema acquista la capacità di articolare compiutamente una sua tecnica narrativa, pur con caratteristiche differenti da quella letteraria. Un ruolo importante in questo passaggio è assunto dalle didascalie, cioè dalla parola scritta che sopperisce alla mancanza della voce nel cinema muto, ma svolge anche funzioni descrittive e narrative.

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In quello che è stato chiamato lo stile classico hollywoodiano, l’assorbimento e l’integrazione della didascalia nel sistema narrativo avvengono non soltanto in base al principio del primato della narrazione che subordina tutti gli altri aspetti dell’espressione filmica, ma in base soprattutto al principio degli “equivalenti funzionali”, vale a dire il principio per cui lo sviluppo della narrazione può essere parimenti sostenuto dai vari elementi dell’espressione filmica, didascalie comprese (Bordwell-Staiger-Thompson 1985; vedi anche 6.2). Tale modello, divenuto dominante in quello che è comunemente chiamato lo stile classico hollywoodiano, non è l’unico possibile. Nel cinema europeo, per esempio, si sviluppano tendenze diverse sia dall’esibizione pura e semplice delle attrazioni sia dalla subordinazione al primato dell’azione e della narrazione. Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, che pure esercitò una certa influenza sul cinema americano, dipende ampiamente da modelli letterari, tanto nella straripante presenza della parola letteraria nelle didascalie (composte da D’Annunzio), quanto nell’uso coreografico dei movimenti di macchina utilizzati in modo tale da dar vita a una composizione chiaramente ispirata alla prosodia e alla metrica (simmetrie, anafore e “rime”): insomma, predominano procedimenti che anticipano per certi versi quello che i formalisti russi, prima, e Pasolini, poi, chiameranno il “cinema di poesia”. Tuttavia, grazie al predominio del sistema hollywoodiano, il modello del cinema istituzionale è diventato egemone, condizionando modi di produzione e forme di consumo in tutto il mondo. Se, per riprendere la terminologia di Burch, nel modo di rappresentazione primitivo (MRP) lo spettatore è oggetto passivo della seduzione esercitata dal sistema delle attrazioni mostrative, nel modo di rappresentazione istituzionale (MRI) egli diventa soggetto

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attivo dell’integrazione narrativa degli elementi della messa in scena, dando quindi luogo a fenomeni di immedesimazione in un universo narrativo che egli stesso contribuisce a mettere in funzione.

5.4 L’ascesa di Hollywood Nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale (1918) alla crisi di Wall Street (1929), cioè in poco più di un decennio, il cinema conosce ovunque un grande sviluppo, raggiungendo quello che è abitualmente considerato l’apogeo del cinema muto. È vero che sul finire di questo periodo, e precisamente il 6 ottobre 1927, viene presentato negli Stati Uniti il primo vero film sonoro, Il cantante di jazz, ma le conseguenze di questa fondamentale innovazione tecnologica si vedranno solo nel decennio successivo. La supremazia di Hollywood nell’economia cinematografica mondiale è il primo dato significativo. Tale supremazia è certamente una conseguenza dell’andamento e dell’esito della prima guerra mondiale, ma anche il risultato di una politica produttiva basata su ingenti investimenti di capitale e sullo sviluppo di forme di integrazione verticale, cioè di controllo da parte di singole società di tutti e tre i settori in cui si articola l’industria cinematografica: produzione, distribuzione, esercizio. Nel periodo che va dal 1928 al 1948, il mercato cinematografico statunitense e, in larga misura, quello internazionale erano dominati dalle major companies: Paramount, Metro Goldwyn Mayer, (20th Century) Fox, Warner Bros e RKO erano le cinque case a integrazione completa; accanto a queste Columbia e Universal erano produttrici e distributrici, ma non controllavano le sale, mentre United Artists era “una casa di produzione al

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servizio di diversi produttori indipendenti” (Muscio 1999: 584-585). In Europa, le difficili condizioni della ripresa dopo la tragica parentesi della guerra non impedirono una fioritura di ricerche e sperimentazioni con risultati tali che indussero i produttori americani a fare incetta di registi e attori europei. Non sempre ciò significò un punto d’incontro tra il primato economico di Hollywood e quello artistico dell’Europa e non sempre portò ai risultati sperati. La vitalità sul piano economico della produzione hollywoodiana degli anni venti (e in larga misura anche dei decenni successivi) si basò principalmente su due fattori: lo studio system e lo star system. L’avvento del sonoro non farà che dare una più complessa articolazione e un più stabile assetto a un sistema che nelle sue linee generali si era già affermato negli anni venti e che resterà sostanzialmente immutato fino al 1948, quando un decreto della Corte Suprema giudicherà illegale la concentrazione monopolistica dei tre settori dell’industria cinematografica praticato dalle major companies. La costituzione dello studio system può essere seguita attraverso l’irresistibile ascesa di Adolph Zukor che agli inizi degli anni venti portò a compimento, sotto la sigla Paramount, il progetto di una compagnia a ciclo integrato che oltre alla produzione e alla distribuzione controllasse direttamente anche l’esercizio, cioè le sale di proiezione. Emigrato in giovanissima età dall’Ungheria, dopo aver iniziato come gestore di sale, importò dapprima film europei e diede poi vita alla Famous Players, una società di produzione indipendente con la quale cercò assieme ad altri di opporsi allo strapotere della MPPC (la Motion Picture Patents Company, che monopolizzava il settore produttivo). Nel 1916 la fusione tra la Famous Players e la Lasky Feature Play

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Company, permetteva a Zukor una prima integrazione tra produzione e distribuzione che fu poi completata con una politica di acquisizione sistematica di sale cinematografiche (che divennero circa 600 nel 1921). Al vertice di una società che assunse il nome di Paramount, Zukor costituì un modello presto imitato dalle altre società che si diedero un’analoga struttura. Ai produttori indipendenti non rimase che costituire proprie compagnie di distribuzione: David W. Griffith, Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks e Mary Pickford fondarono la United Artists, che rappresentò anche il momento di massima presenza dello star system nel sistema produttivo (Balio 1985: 153). Naturalmente lo studio system non è solo una particolare forma di integrazione tra diversi settori dell’industria, ma rappresenta anche un preciso metodo di organizzazione del lavoro teso alla massimizzazione dei profitti attraverso uno sfruttamento ottimale delle risorse. Ciò comporta una rigida divisione del lavoro e una totale subordinazione di tutte le componenti della produzione (registi, attori, sceneggiatori) alla figura del produttore. “L’unità artistica sono io”, dichiara il protagonista del romanzo Gli ultimi fuochi di Fitzgerald che, come abbiamo già ricordato, si ispirò alla mitica figura di Irving G. Thalberg, producer della MGM, celebrato anche da Godard in Histoire(s) du cinéma (vedi capitolo 2). Per quanto sia Godard che Fitzgerald siano stati anche molto critici nei confronti di Hollywood, ambedue non possono non cedere al fascino dell’età eroica del cinema. Strettamente integrati nello studio system sono, da una parte, lo star system, vale a dire il divismo come peculiare e complesso strumento di promozione del prodotto cinematografico e, dall’altra, il sistema dei generi, vale a dire uno strumento efficace di differenziazione dei prodotti oltre che

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un espediente di razionalizzazione del processo produttivo basato sulla massima specializzazione delle varie componenti del lavoro artistico (registi, sceneggiatori, attori). Quanto alle forme di consumo, come dimostra il classico studio di Bordwell, Staiger e Thompson (1985) esiste una stretta relazione tra il modo di produzione hollywoodiano e il modo di rappresentazione proprio del sistema dei generi. “I produttori potevano presentare il menu, ma era il pubblico a scegliere il piatto” (Bronlow 1980: 157). Anche senza dover condividere fino in fondo questa ottimistica valutazione del fatto divistico, è indubbio che il divismo, spontaneo o indotto, fu fin dagli anni dieci uno dei principali strumenti di promozione del consumo cinematografico. I produttori cercarono inizialmente di sfruttare fenomeni divistici preesistenti: le fortune dello stesso Zukor erano cominciate con l’importazione di un film interpretato dalla diva della scena parigina Sarah Bernhardt (La regina Elisabetta, 1912), anche se i suoi successivi tentativi di utilizzare altri divi teatrali non diedero gli stessi risultati. Il maggior rilievo che il divismo americano sembra avere fin dagli anni venti è una delle conseguenze del fatto, molto semplice da enunciare, che gli Stati Uniti produssero circa l’80 per cento del totale dei film prodotti nel mondo all’epoca del muto. Fu l’enorme potere dell’industria cinematografica statunitense che amplificò e diede dimensioni inedite a un fenomeno così intimamente legato allo sviluppo della cultura di massa: il viaggio in Europa compiuto nel 1926 da Mary Pickford e Douglas Fairbanks dimostrò insieme la forza di attrazione del mito del cinema e del mito dell’America; basti pensare che al loro arrivo a Mosca furono accolti da una folla di oltre trecentomila persone (Bronlow 1980: 157). Un fenomeno come quello di Rodolfo Valentino, che interessa la storia del costume non meno che quella del ci-

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nema, dimostra la capacità che l’istituzione cinematografica ha di imporre un mito in un breve volgere di anni: da I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1921), il film di Rex Ingram che lo fece conoscere al pubblico, alla sua morte prematura passano solo cinque anni, sufficienti comunque per consolidare nel mondo intero, Italia compresa, l’immagine di una delle star più celebrate della storia del cinema (Alovisio-Carluccio 2009). Strettamente legato al fenomeno divistico è quello dei generi cinematografici: il divo è chiamato a incarnare dei ruoli fissi, a ripetere determinate prestazioni una volta che queste abbiano incontrato il favore del pubblico. Ecco quindi Douglas Fairbanks che lega la sua carriera di attore (ma anche di produttore) al genere avventuroso, Lon Chaney all’horror, mentre Theda Bara inaugura il modello della “vamp” nel film storico. Il sistema dei generi è già ben configurato negli anni venti: commedia sentimentale, melodramma, dramma epico-storico, western, gangster story e, non certo ultimo in ordine di importanza, la slapstick comedy, il genere che, per quanto non sia sopravvissuto all’avvento del sonoro, è l’unico che continui ancor oggi a essere proiettato anche per pubblici non specializzati.

5.5 La grande stagione del cinema comico Uno storico del cinema americano ha scritto che il fenomeno del cinema comico ha prodotto “alcune tra le più grandi opere dell’arte nell’America del ventesimo secolo” (Sklar 1982: 147). La formula può sembrare eccessivamente solenne per un cinema che traeva origine da forme di spettacolo come il burlesque, il vaudeville e il music-hall e che, nonostante il grado di precisione ritmica ed eleganza

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compositiva cui lo portarono Charlie Chaplin e Buster Keaton, ebbe almeno all’inizio i suoi punti di forza negli inseguimenti, torte in faccia, “bellezze al bagno” e catastrofici interventi di poliziotti incapaci (i celebri Keystone Cops). Ben presto le più sofisticate e raffinate avanguardie intellettuali riconobbero l’importanza di questo genere: basterebbe ricordare l’evidente influsso del burlesque americano su un classico dell’avanguardia dadaista come Entr’acte (1924) di Réné Clair e Francis Picabia o l’omaggio a Chaplin in Ballet mécanique (1924) realizzato dal pittore cubista Fernand Léger in collaborazione con Dudley Murphy. Quali sono le ragioni della straordinaria vitalità di questo genere che conquistò il pubblico popolare di tutti i continenti e fornì all’immaginario del Novecento dei prototipi di una condizione tragicomica dell’uomo contemporaneo? Lo “slapstick” è un congegno formato da due tavolette, detto anche “spatola di Arlecchino”, con il quale vengono simulati i rumori delle bastonate che si scambiano i personaggi. È la stessa etimologia a ricordarci che la slapstick comedy viene da lontano ed è il risultato di un’amplificazione e di una intensificazione, rese possibili dal nuovo mezzo, di una serie di effetti già codificati nel teatro, nel varietà, nel circo. Con lo sviluppo di questo genere comico, il cinema americano da una parte resta fedele al cinema delle origini (Méliès è solo il più famoso di una schiera di artisti del music-hall, del varietà convertiti al cinema) e dall’altra conquista lo spazio urbano da cui prende le situazioni, gli oggetti, i ritmi necessari alla costruzione dei suoi deliri comici. Bisognerà poi aggiungere che la slapstick comedy, che il pubblico ha sempre identificato con le maschere dei suoi attori più noti (Mack Sennett, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Harold Lloyd), fu un cinema di regia. Gli storici più

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attenti hanno sottolineato quanto Sennett debba alla lezione di Griffith e alla sua tecnica di montaggio, anche se è evidente che il conseguimento dell’effetto comico richiede ritmi più concitati e situazioni esasperate. La realizzazione di una gag di effetto irresistibile richiede un’esecuzione perfetta: una scena drammatica può essere buona o anche discreta (nello sviluppo del racconto può funzionare benissimo anche se ha qualche difetto), una gag invece può essere solo perfetta, cioè deve centrare perfettamente il bersaglio. Niente è quindi più assurdo delle accuse rivolte a Chaplin di aver fatto del “teatro filmato”, di essersi limitato a trasferire in film senza particolari elaborazioni le sue performances mimiche, gestuali. Basti ricordare che Chaplin per L’emigrante (1917), girò più di 27.000 metri di pellicola per utilizzarne poi poco meno di 600 (Sklar 1982: 140). Un’ultima considerazione non meno importante delle precedenti: non solo con Chaplin e con Keaton, ma già con le prime produzioni della Keystone di Mack Sennett e poi con Harold Lloyd, il burlesque americano fornisce il più sistematico repertorio di luoghi, situazioni, oggetti tipici dello spazio urbano e della “civiltà delle macchine”, realizzando compiutamente quell’adeguamento dell’estetica alla nuova sensibilità modificata dalla velocità e dalla macchina che il futurismo aveva preconizzato. Il traffico urbano, le automobili, la fabbrica (Tempi moderni, 1936, di Chaplin), i luoghi del divertimento e dello spettacolo: tutti quegli aspetti plastici e figurativi che ispirano le sinfonie visive del cinema europeo (da Dziga Vertov a Walter Ruttmann) e forniscono al cinema americano lo sfondo per la commedia sentimentale, le storie criminali e i drammi sociali, diventano nel burlesque gli elementi costitutivi di un “mondo alla rovescia”, replica parodistica della visione ordinaria della realtà.

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La definizione dei meccanismi e della struttura della gag è stato uno dei problemi che più ha affascinato gli storici e i teorici del linguaggio cinematografico. Naturalmente non è possibile stabilire una legge unica valida per tutti, da Chaplin a Keaton, da Sennett a Harold Lloyd, da Harry Langdon a Larry Semon, anche perché diversa è la funzione attribuita dai diversi autori alla gag. E tuttavia si può individuare nella struttura del capovolgimento di senso il comune denominatore di gag diverse. Ciò può avvenire nel cuore stesso dell’azione scenica, come nella continua trasformazione di senso che Chaplin attribuisce agli oggetti, alle situazioni, stravolgendo usi e funzioni codificati e affermando le ragioni del suo io arbitrario, lirico, imprevedibile: in Charlot usuraio (1916) lo vediamo aprire una sveglia con l’apriscatole come fosse una confezione di conserva; in La strada della paura (1917) Charlot trasforma un lampione dell’illuminazione in una sorta di micidiale “camera a gas” con la quale si sbarazza del suo avversario. Effetti analoghi di capovolgimento possono avvenire anche per accostamento di diverse inquadrature che ci portano a scoprire un senso completamente diverso da quello che avevamo colto inizialmente. Ne troviamo esempi in Harold Lloyd e in Buster Keaton. All’inizio di Preferisco l’ascensore (1923) un’inquadratura in cui il “giovanotto” Harold Lloyd ci appare sul punto di essere impiccato con accanto un prete che lo assiste e donne che piangono, si rivela essere nient’altro che un dettaglio di una comune scena di addio alla stazione: una serie di concomitanze opportunamente “isolate” dall’inquadratura hanno prodotto un effetto di senso del tutto diverso. All’inizio di My Wife’s Relations (1922) Buster Keaton, si presenta come uno scultore impegnato a plasmare le sue creazioni, ma un allargamento di campo ci fa capire che

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la “creta” è pasta e lo “scultore” è un garzone che sta foggiando pasticcini da mettere in forno. La struttura della gag di Buster Keaton si basa sulla successione di due diverse funzioni: a una prima unità di significato che può essere definita “normativa” si contrappone una seconda “perturbante”; quest’ultima polverizza il senso della prima senza contraddire la situazione ma esplicitandone un senso diverso da quello apparente (Du Pasquier 1970). Non soltanto l’incertezza e l’instabilità dei rapporti tra il corpo e lo spazio dominano l’universo della slapstick comedy: difficoltà di coordinamento motorio o ostacoli insormontabili che nascono dalle situazioni più semplici ed elementari stanno alla base dello slow-burn, un tipo di gag in cui fu maestro Buster Keaton e che consiste nel lento ma irrimediabile deterioramento di una situazione che è inizialmente semplicissima. L’ambiguità dei rapporti interpersonali, del significato delle situazioni e dei gesti, dei dati più comuni all’esperienza percettiva quotidiana: sono questi i temi ricorrenti che sorreggono le più irresistibili accumulazioni di effetti comici. A questo si può aggiungere l’ossessiva ripetitività di situazioni spiazzanti che ha permesso di accostare la struttura della gag a quella dei sogni: in La febbre dell’oro (1925) assistiamo ai disperati tentativi di Charlot di mantenere in equilibrio la baracca in cui si trova per impedire che precipiti in un burrone; in Il circo (1928), lo vediamo subire gli attacchi di un nugolo di scimmiette che gli mordicchiano sadicamente il naso, mentre è impegnato in un numero acrobatico al trapezio; ritroviamo analoghi effetti nelle catastrofi in cui si trova continuamente proiettato il fragile corpo di Buster Keaton o nelle assurde scalate di grattacieli di Harold Lloyd. La struttura della gag dei grandi comici del muto americano è la forma attraverso la quale lo scrittore italiano

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Gianni Celati (1975: 53-80) ha dato un’impareggiabile interpretazione della prosa di Samuel Beckett, co-autore con Alan Schneider di Film (1965), estremo omaggio alla maschera di Buster Keaton, che ne fu l’eccezionale interprete.

5.6 Europa: ragioni del mercato e attrazioni dell’avanguardia Il primato di Hollywood trovò piena conferma nella crisi che investì le cinematografie europee in seguito all’arresto della produzione e alle immani distruzioni causate dalla prima guerra mondiale. L’Europa subiva tale primato non solo in termini economici, ma anche culturali. Certo, Parigi era stata il crogiolo in cui si erano avviate le prime imprese cinematografiche che di lì erano partite alla conquista del Nuovo Mondo e dei mercati internazionali (la Star Film di Georges Méliès, la Gaumont, la Pathé Frères). D’altra parte, l’Italia con le produzioni storicomitologiche e con i divas film, si era conquistata, alla vigilia della guerra, una considerevole quota di mercato e un innegabile prestigio. La radicale novità rappresentata dal cinema viene recepita in Europa grazie alla straordinaria diffusione della produzione americana. Fu la proiezione a Parigi, nell’estate del 1916, di The Cheat (1915) di Cecil B. DeMille, che in Francia si chiama Forfaiture e in Italia I prevaricatori, che spinse gli intellettuali dell’avanguardia parigina a salutare insieme la nascita del cinema e la nascita dell’amore del cinema, vale a dire a riconoscere la rivoluzione che il cinema introduceva nel tradizionale sistema delle arti e a definire i riti di un nuovo culto, cioè di quella che si chiamerà la cinefilia (Carluccio 2006: 138-139).

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Diverse sono le strategie produttive americane ed europee. Hollywood si era impegnata con successo in un progetto di conquista del mercato mondiale puntando sulla trasformazione del cinema in una “lingua” internazionale, sfruttando una standardizzazione di generi e personaggi e valorizzando tutte le potenzialità combinate di studio system e di star system. Nel cinema europeo, invece, si registravano tentativi di ancorare il nuovo linguaggio ai caratteri originali delle culture nazionali, quindi si accentuavano le differenze piuttosto che cercare un’omogeneità: le differenze dell’arte rispetto alla logica dell’industria, le differenze delle singole culture nazionali. Così in Europa diventarono centrali le questioni dell’arte (la settima arte, la decima musa). Sia pure in forme diverse, in Italia come in Germania, in Francia come nei paesi nordici, il cinema si collocò all’incrocio tra le possibilità di circolazione internazionale del nuovo linguaggio e i caratteri originali delle singole culture nazionali. In Europa, già a partire dagli anni dieci e con maggiore intensità negli anni venti, si sviluppa una complessa interazione tra cinema e avanguardie artistico-letterarie. Parlare di interazione tra cinema e avanguardie, anziché direttamente di cinema d’avanguardia, comporta il riconoscimento della diversità dei due fenomeni (le avanguardie, da una parte, e il cinema, dall’altra) che sono entrati in rapporto con modalità, finalità ed esiti profondamente diversi. Il cinema, nei suoi vari aspetti di dispositivo tecnico-scientifico, di industria culturale, di nuovo strumento di comunicazione costituiva per se stesso un fenomeno profondamente innovatore o addirittura rivoluzionario, e proprio nei riguardi dell’assetto tradizionale delle arti. Tutto ciò è stato ben compreso da Benjamin (1936) che stabilì uno stretto legame tra il nuovo statuto dell’arte “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” e lo sviluppo di un suo uso rivolu-

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zionario. Con un linguaggio che sembra risentire dei più incandescenti manifesti dell’avanguardia sovietica, Benjamin così descrive l’avvento del cinema: “Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi tra le sue sparse rovine” (Benjamin 2000: 41). Al cinema, proprio per queste sue caratteristiche, guardarono con grande interesse tutte le avanguardie storiche. Ne trassero spesso indicazioni per la radicale messa in discussione dei valori estetici tradizionali (per esempio, il futurismo) e per il “lavoro distruttivo” nei riguardi dell’odiata cultura “borghese” (come avviene nel dadaismo). In altri casi invece il cinema diventa un punto di riferimento o un campo di sperimentazione per l’elaborazione di una nuova estetica e per l’attribuzione di nuove funzioni al linguaggio artistico (è quanto accade, sia pure in forme diverse, nel surrealismo e nell’avanguardia sovietica). Nell’ambito dell’interazione tra cinema e avanguardie storiche possono rientrare fenomeni molto diversi. Quello di artisti di avanguardia come Schönberg, Kandinsky, Ginna e Corra, Survage, Eggeling e Richter che hanno prefigurato o concretamente sperimentato l’impiego del cinema per dare una dimensione dinamica, ritmica e plastica alle loro ricerche sulle forme astratte (restando al di fuori o ai margini dell’istituzione cinematografica). Ma anche quello di cineasti che hanno preso spunto dalle elaborazioni formali e tematiche delle avanguardie artistico-letterarie per la realizzazione dei loro film, come accadde nel cinema tedesco che costituì un importante polo di espansione e diffusione di quanto l’espressionismo aveva elaborato in campo letterario, pittorico e teatrale.

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5.6.1 Dal futurismo al surrealismo Non è semplice orientarsi nel fitto intreccio di movimenti artistici e cinematografici della Parigi dei folli anni venti. Per fornire una mappa, un po’ semplificata ma utile, ci riferiremo alla classificazione proposta dallo storico americano Richard Abel (1984), che ha il merito di tenere presente sia movimenti e personalità, sia gli aspetti strutturali del linguaggio cinematografico. Abel individua una prima avanguardia, detta anche “avanguardia narrativa”, che è caratterizzata da una riflessione estetica sul cinema quale si era fino allora manifestato e dalla promozione del cinema come arte: essa si situa tra 1917 e il 1924, e coincide con l’attività cinematografica e pubblicistica di Louis Delluc e di Ricciotto Canudo. I registi di spicco sono Germaine Dulac, Abel Gance, Jean Epstein e Marcel L’Herbier, il cui tratto in comune è il tentativo di conciliare le esigenze di un cinema narrativo con le ragioni dell’arte e della sperimentazione (da qui la definizione di avanguardia narrativa). La seconda avanguardia è caratterizzata da una febbrile sperimentazione delle possibilità di un cinema radicalmente anti-narrativo e coincide con le esperienze cinematografiche di astrattismo, dadaismo e surrealismo, situate per lo più nella seconda metà degli anni venti. La terza avanguardia va dal 1927 al 1930: essa cerca, da una parte, il collegamento con i movimenti politici di massa e, nello stesso tempo, vive la crisi dell’avvento del sonoro che sembra decretare la fine delle più ardite sperimentazioni visive. Pur tenendo sullo sfondo la periodizzazione di Abel, proporremo qui un percorso che prende le mosse dal futurismo italiano per arrivare al cinema surrealista. Esso ci permette di seguire lo sviluppo di un’idea di cinema come arte sovversiva, sia per linguaggio che per contenuti, che costi-

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tuisce il punto di contatto tra la stagione delle avanguardie storiche e quella delle neoavanguardie e le varie forme di “cinema espanso” (Bernardi 2007: 76-142). Il manifesto La cinematografia futurista fu redatto da Filippo M. Marinetti e dai suoi seguaci nel 1916 (in Bertetto 1997: 233-237), relativamente tardi rispetto alle precedenti e più note dichiarazioni programmatiche del movimento (il manifesto di fondazione è del 1909; e già in precedenti interventi, ma in particolare nelle teorizzazioni e nelle sperimentazioni teatrali, i futuristi avevano dimostrato, anche senza nominarlo esplicitamente, di essere stati in vario modo influenzati dal cinema). Tale manifesto, in realtà, non fa altro che prefigurare una realizzazione cinematografica delle provocazioni e delle sperimentazioni già attuate dai futuristi, durante le loro “serate”, con la poesia e il teatro: fusione delle varie arti in un unico impeto di superamento dei valori estetici tradizionali, scontro caotico e dissonante di materiali visivi presi dai più diversi contesti, piena libertà da ogni uso logico, coerente, codificato o codificabile del nuovo mezzo. Non si è purtroppo sviluppato in Italia un vero e proprio cinema futurista. Vita futurista (1916) di Arnaldo Ginna è andato perduto e, da quanto ne sappiamo, realizzava solo parzialmente i programmi del manifesto, mentre in Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia gli elementi d’avanguardia sono limitati alla scenografia della parte finale, elaborata da Enrico Prampolini. Recentemente è stato ritrovato Velocità (1931) di Tina Cordero, Enrico Martina e Pippo Oriani che rielabora temi iconografici futuristi, ma arriva irrimediabilmente in ritardo, quando le avanguardie del cinema muto sono entrate in crisi. Jean Mitry (2002: 19) esprime un giudizio assai limitativo sui rapporti tra futurismo e cinema, affermando che Ma-

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rinetti nel suo manifesto “enunciava verità che il peggior film americano aveva reso evidenti da anni (simultaneità delle azioni, movimenti nello spazio e nel tempo, significato degli oggetti, primi piani ecc.)”. Tuttavia in questo drastico giudizio c’è l’implicito riconoscimento dell’influsso esercitato dal cinema sulle avanguardie artistico-letterarie. La celebrazione della bellezza della locomotiva, alla quale sono dedicati alcuni fondamentali paragrafi del manifesto di fondazione del futurismo, era cominciata con L’arrivée du train (1895) dei fratelli Lumière, quattordici anni prima che Marinetti la esaltasse come simbolo della rivoluzione estetica da lui propugnata. Inoltre, le “cronofotografie” dell’americano Eadweard Muybridge e del francese Étienne Marey, oltre a costituire una fase preparatoria all’avvento del cinema, avevano da tempo fornito esempi della straordinaria bellezza della riproduzione meccanica del corpo in movimento ai quali si ispirarono sia le avanguardie pittoriche (per esempio, Marcel Duchamp con il suo celebre Nudo che discende una scala, 1912), sia le ricerche sul “fotodinamismo” di Anton G. Bragaglia (1916). Sono inoltre evidenti le analogie tra le spirali rotanti utilizzate da Duchamp per Anémic Cinéma (1926) e gli effetti di figure geometriche in movimento realizzati, in epoca precinematografica, con il cromatoscopio, una sofisticata applicazione della lanterna magica. Allo stesso modo, la suggestione dell’universo fantastico di Méliès è costruita sulla compenetrazione degli elementi scenografici notevolmente elaborati e dei movimenti degli attori, cioè su un procedimento di costruzione dello spazio filmico che sarà frequente nelle esperienze dell’avanguardia: oltre al già citato Thaïs, vanno ricordati i film espressionisti, a partire da Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene, e quelli della prima avanguardia francese, in particolare

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L’Inhumaine (1924) di Marcel L’Herbier, noto in Italia con il titolo Futurismo. Nel movimento Dada il riferimento al cinema ha piuttosto il significato di negazione e irrisione dei valori estetici tradizionali. Si può ricordare una delle prime serate dadaiste di Parigi (5 febbraio 1920) con l’annuncio (falso) della partecipazione di Charlie Chaplin, a dimostrazione dell’interesse dell’avanguardia europea per un genere come il burlesque (vedi 5.5). Nel corso di un’altra serata dadaista, intitolata Le cœur à barbe, venne proiettato il film Le retour à la raison (1923) che il fotografo americano Man Ray aveva ottenuto montando spezzoni di pellicola impressionati nei modi più diversi, da quello tradizionale con effetti di raffinata eleganza a quello, non molto ortodosso, di mettere a contatto dell’emulsione materiali come spilli e puntine da disegno. Il più completo repertorio di “figure” del linguaggio cinematografico preso a prestito dai “trucchi” e dalle gag del cinema comico (sia dal vecchio burlesque francese sia dalla slapstick comedy americana) si trova in Entr’acte (1924) di René Clair, ricavato da una sceneggiatura del pittore dadaista Francis Picabia. Il film, il cui titolo significa letteralmente intervallo, doveva essere il clou di una serata teatrale intitolata Relâche, cioè riposo. Esso è per buona parte costituito dal grottesco funerale, trasformato in una “comica di inseguimento”, di un artista-prestigiatore che alla fine fa scomparire tutti i personaggi, compreso se stesso. Si tratta di una chiarissima esemplificazione del programma dadaista di irrisione-distruzione dell’arte borghese e di assimilazione della stessa a quel miscuglio di gioco e magia quale era appunto lo spettacolo cinematografico dei baracconi di fiera. Il movimento surrealista, che nacque a Parigi nel 1924 in seguito alla crisi del movimento Dada, non solo prefi-

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gurò e in parte realizzò un nuovo tipo di cinema, ma si interessò anche attivamente al fatto cinematografico, per le analogie che esistono tra il cinema, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più popolari, e il sogno, tra i meccanismi della visione filmica e i meccanismi dell’inconscio. Ado Kyrou (1963: 9) attribuisce a Breton, capo del movimento, il merito di avere dimostrato con l’abituale chiaroveggenza “la forza del cinema che può (e deve) essere il miglior trampolino dal quale il mondo esterno si tufferà nelle acque magnetiche e brillantemente nere dell’inconscio, della poesia, del sogno”. Il surrealismo, sulla scia del dadaismo, ha avuto un ruolo fondamentale nel suggerire o ispirare le più libere e radicali sperimentazioni in campo cinematografico. Ma spesso queste sono avvenute ai margini o al di fuori del movimento: tale è ad esempio il caso di Ballet mécanique (1924) del pittore Fernand Léger e del fotografo americano Dudley Murphy o di Le sang d’un poète (1930) del poeta Jean Cocteau che, pur presentando elementi prossimi al surrealismo, furono sempre rifiutati dal movimento. Allo stesso modo venne violentemente rifiutato La coquille et le clergyman (1928) realizzato da Germaine Dulac su un soggetto di Antonin Artaud. Nonostante la scelta infelice dell’interprete (Alex Allin) e un uso poco controllato dei trucchi, il film della Dulac rende, almeno in parte, il clima ossessivo e delirante del testo di Artaud. I progetti e le teorizzazioni di Artaud in campo cinematografico sono di grandissimo interesse, soprattutto se messi in relazione con le sue più note elaborazioni in campo teatrale. Purtroppo il cinema “visionario” da lui preconizzato ebbe solo una formulazione letteraria, come accadde del resto per gli scenari di altri poeti come Philippe Soupault e Robert Desnos (anche se di quest’ultimo si può ricordare un poema che ispirò il film di

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Man Ray L’étoile de mer, 1928, che può essere considerato autenticamente surrealista). Tuttavia i film in cui troviamo la più radicale e coerente realizzazione del verbo surrealista sono Un chien andalou (1928) e L’âge d’or (1930) di Luis Buñuel. Nel primo, realizzato in collaborazione con il pittore Salvador Dalí, troviamo un uso del montaggio e una tecnica di costruzione delle sequenze che costituiscono l’equivalente filmico della “scrittura automatica” sperimentata dai poeti surrealisti, cioè il libero accostamento, secondo i percorsi suggeriti dall’inconscio e senza controllo logico-razionale, di immagini prese dai più diversi contesti. Il celebre prologo di Un chien andalou, in cui vediamo in successione l’immagine “lirica” di una sottile nuvola che passa davanti alla luna e quella, letteralmente insopportabile, della lama di un rasoio che squarcia l’occhio di una donna, può essere assunto come il manifesto programmatico dell’incontro tra surrealismo e cinema, l’attuazione filmica della parola d’ordine surrealista come la aveva enunciata Breton: “squarciare il tamburo della ragione raziocinante e contemplare il buco”. Le violente polemiche e gli interventi censori suscitati da L’âge d’or, nel quale l’irrisione dei valori borghesi e uno spirito anticlericale e iconoclasta si accompagnano a un’esaltazione del valore eversivo dell’erotismo, spinsero Breton e i suoi compagni a sposare la causa del film e a dedicare a esso un infuocato manifesto (Bertetto 1997: 340-347). 5.6.2 Germania e paesi nordici Nel cinema tedesco, dopo la prima guerra mondiale, l’influsso dell’espressionismo pittorico, letterario e teatrale determinò la fioritura di un gruppo di film che hanno il loro

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capostipite in Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene. Con il termine caligarismo, diffusosi in seguito alla fortuna internazionale del film, si volle designare uno stile basato su scenografie e metodi di recitazione di derivazione teatrale e pittorica al fine di rappresentare una visione deformata di situazioni e ambienti, in sintonia con i soggetti che presentano personaggi decisamente patologici e vicende fortemente emblematiche. Nel Caligari, un sonnambulo manovrato durante un folle esperimento da uno psichiatra compie una serie di delitti, ma l’intera vicenda si rivela, alla fine, l’allucinazione di un malato di mente. Negli eccessi del caligarismo è però presente l’esigenza di un controllo assoluto di tutti gli elementi della messa in scena, ed è probabilmente questa l’eredità più importante dell’esperienza del cinema espressionista e del Kammerspielfilm. Con quest’ultimo termine, ricalcato sul Kammerspiel (teatro da camera) ideato dal regista austriaco Max Reinhardt, si designa un gruppo di film sceneggiati da Carl Mayer, già coautore della sceneggiatura di Caligari, con alcune caratteristiche in comune: ambientazione in spazi unitari rigorosamente delimitati; una particolare attenzione agli oggetti che, oltre ad avere precise funzioni sul piano drammaturgico, assumono complesse valenze simboliche; movimenti di macchina (carrellate, panoramiche) e variazioni degli angoli di ripresa finalizzati a una dilatazione degli effetti drammatici; una sistematica limitazione, spinta fino alla quasi totale eliminazione, dell’uso delle didascalie, nell’intento di arrivare a un tipo di narrazione basata su elementi puramente visivi e universalmente comprensibili. Questo ciclo di film, che comprende Hintertreppe (1921) di Paul Leni e Leopold Jessner, La rotaia (1921) e Sylvester (1923) di Lupu Pick, trova la sua conclusione in L’ulti-

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mo uomo (o L’ultima risata, 1924) di Friedrich W. Murnau, un’opera in cui la più rigorosa stilizzazione della messa in scena convive con il rispetto delle convenzioni del realismo cinematografico. Il film di Murnau, definito dal massimo teorico dell’incontro tra cinema ed espressionismo (Kurtz 1981: 87) “un evidente capolavoro stilizzato”, destò un enorme interesse a Hollywood i cui produttori, a caccia di talenti europei da inserire nella loro organizzazione, fecero a gara per assicurarsi l’intera équipe che lo aveva realizzato. L’esperienza del cinema espressionista lasciò tracce profonde, e non solo nel cinema tedesco. Da una parte è possibile individuare in alcuni aspetti formali e soprattutto tematici, ossessioni e prefigurazioni di ciò che si sarebbe realizzato nell’esperienza del nazismo, come fa Kracauer (2001) nel suo classico studio dedicato al cinema tedesco “da Caligari a Hitler”. Dall’altra parte, analizzando le componenti formali e le tecniche di realizzazione del cinema espressionista (vedi Eisner 1983) è possibile individuare le basi metodologiche e stilistiche di un gruppo di registi, fra i quali primeggiano Murnau e Lang, di operatori come Karl Freund e Fritz Arno Wagner, di scenografi e attori che hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo del linguaggio cinematografico. Il trasferimento a Hollywood, dopo l’avvento del nazismo, di una notevolissima parte dei quadri artistici e tecnici del cinema tedesco ha condizionato gli sviluppi del cinema hollywoodiano, non solo per quanto riguarda generi come l’horror, ma anche per determinati stili di regia basati su un controllo di tutti gli elementi espressivi, dalla luce alla composizione dell’inquadratura. L’utopia del controllo totale dell’espressione cinematografica, modellata sulla pittura, è oggi tornata di attualità grazie alle nuove tecnologie digitali che hanno di fatto ridotto le distanze tra l’espressione filmica e l’espressione pittorica.

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Non si deve, tuttavia, far coincidere il cinema tedesco tra le due guerre con il caligarismo, in quanto l’eccessiva dipendenza di quello stile particolare dal modello pittorico è stata ben presto superata dagli stessi protagonisti. In Murnau, in Lang e in Pabst troviamo un’attenzione agli aspetti propriamente cinematografici dell’organizzazione dello spazio, con la progressiva conquista e con il pieno controllo della dimensione architettonica, del paesaggio, del significato simbolico della luce e degli oggetti. Parallelamente allo sviluppo del cinema tedesco, le cinematografie nordiche, in particolare Danimarca e Svezia, dimostrarono una grande attenzione alla rappresentazione del paesaggio, alla piena conquista di una dimensione naturalistica, che non escludeva ma anzi dava nuovo vigore alla ricerca dei significati simbolici di situazioni e atmosfere, come dimostrano le opere di Mauritz Stiller (La leggenda di Gösta Berling, 1924), di Victor Sjöström (Il carretto fantasma, 1920), di Benjamin Christiansen (La stregoneria attraverso i secoli, 1922). 5.6.3 Russia anni venti: cinema e rivoluzione I rapporti tra cinema e avanguardia in Russia consistono, dopo il 1917, nell’attribuzione al nuovo mezzo espressivo di un ruolo particolare nella realizzazione di un progetto rivoluzionario, in termini politici ancor prima che estetici. Ciò che caratterizza l’esperienza del cinema rivoluzionario russo è la convivenza di due progetti strettamente collegati. Da una parte, lo studio del cinema su basi sperimentali, come si pretendeva di fare nel laboratorio di Lev Kulešov (vedi 10.6), dall’altra il progetto rivoluzionario. Secondo lo spirito scientista del tempo, Kulešov e i suoi allievi studiavano le leggi costitutive della comunicazione

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filmica e gli elementi specifici del linguaggio cinematografico. In una direzione parallela procedevano le ricerche del gruppo formalista costituito da linguisti e critici letterari come Roman Jakobson, Viktor Šklovskij, Jurij Tynjanov e Boris Ejchenbaum i quali, oltre che occuparsi di cinema come teorici o come sceneggiatori, influenzarono profondamente, con le loro ricerche sulle strutture della comunicazione letteraria, le elaborazioni teoriche e le realizzazioni di un’avanguardia cinematografica che fu formalista nel senso pieno e migliore del termine (Kraiski 1971). Nello stesso tempo in cui mettevano a punto una sorta di grammatica della comunicazione visiva basata essenzialmente sul montaggio, i cineasti russi partecipavano a un movimento politico che credeva nella possibilità di liberare l’arte dalla condizione di separatezza e di isolamento in cui l’aveva collocata la cultura “borghese” e di indirizzarla alla costruzione di una nuova società. Un ruolo di primo piano venne attribuito al cinema: esso doveva non solo riflettere le modificazioni dell’esperienza percettiva prodotte dalla tecnica e dalle mutate condizioni di vita della società industrializzata, ma anche riplasmare in senso rivoluzionario le concezioni di spazio e di tempo. Secondo Dziga Vertov, autore di film di montaggio basati su riprese dal vero (Cineocchio, 1924; L’uomo con la macchina da presa, 1929; Tre canti su Lenin, 1934), il cinema doveva rinunciare ai teatri di posa, alla messa in scena e soprattutto alle tematiche “decadenti” del teatro e della letteratura “borghesi”. Solo così poteva dare il suo contributo alla liquidazione dell’arte: “il termine stesso di arte è controrivoluzionario”, affermava nel 1924. Accettando ed esaltando la sua natura di occhio meccanico, poteva restituire una “più fresca percezione del mondo” (Bertetto 1975: 6978). In realtà il maggior interesse dell’opera di Vertov sta

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nel rapporto tra la natura documentaristica del materiale e l’artificio del procedimento della sua organizzazione ritmica, secondo un metodo assai vicino alle tecniche della poesia di Majakovskij e alla teoria del metodo formale. Naturalmente questo modo di combinare impegno politico e sperimentazione formale era destinato a scontrarsi con l’incomprensione del grande pubblico, che in URSS continuava nonostante tutto ad ammirare i divi hollywoodiani come dimostrano le accoglienze tributate a Mary Pickford e Douglas Fairbanks nel 1926 (vedi 5.3). Né le cose potevano andar meglio con gli apparati burocratici del partito comunista che preferivano minore ricerca formale e maggiore efficacia propagandistica. Al “cine-occhio” di Vertov, Ejzenštejn contrappose, nello stile pittoresco e chiassoso del futurismo russo, il suo “cine-pugno”. Egli proponeva un cinema “recitato”, basato sulla messa in scena, nel quale le “attrazioni” rigorosamente prodotte e orchestrate fossero in grado di agire in profondità sulla psiche dello spettatore. Le teorie di Ejzenštejn elaborate dapprima in un contesto teatrale, trovarono applicazione nei film Sciopero (1925), La corazzata Potëmkin (1926) e Ottobre (1928). Anche Ejzenštejn dovette scontrarsi con un muro di incomprensioni, già a partire dal suo primo film. In L’atteggiamento materialistico verso la forma (1925, ora in Bertetto 1997: 136-142), egli assegnava alla forma filmica una funzione non puramente decorativa e di illustrazione di contenuti e parole d’ordine elaborati altrove. Ejzenštejn, approfondendo ricerche e sperimentazioni sul linguaggio filmico, arrivò a elaborare la sua teoria del “montaggio intellettuale”, che trovò la sua applicazione soprattutto in Ottobre (vedi 10.6). Dotato di una vasta cultura letteraria, scientifica e artistica, egli vide nel cinema un linguaggio

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complesso in grado di realizzare procedimenti analoghi a quelli del romanzo e della pittura, di diventare un terreno di sperimentazione dei processi logico-comunicativi studiati dalla linguistica e dalla psicologia. In particolare ha indagato i rapporti tra linguaggio cinematografico e scrittura ideogrammatica, tra le configurazioni filmiche e quelle del linguaggio interiore, tra le forme del “pensiero visivo” tipiche del cinema e i procedimenti della “mentalità primitiva” e del “pensiero selvaggio” studiati dalla moderna antropologia. Gli aspetti più vivaci e innovativi dell’avanguardia sovietica furono imbrigliati e repressi dall’apparato politico. L’utopia della fine della separatezza dell’arte nell’edificazione di una società in cui l’arte stessa prendeva parte al processo di produzione naufragò a causa di un apparato più incline ai dogmi che alla libera sperimentazione delle avanguardie; e quando la fede si mostrò insufficiente, si passò a metodi repressivi e polizieschi. 5.6.4 Invito al cinema muto italiano Per molto tempo in Italia si è fatto poco o nulla per approfondire e diffondere la conoscenza del cinema muto. Mentre si trascurava di impostare una seria politica di recupero, conservazione e restauro del patrimonio filmografico di quell’epoca, la critica cinematografica sembrava paga di poter citare i probabili influssi su Griffith di Giovanni Pastrone, il creatore di Cabiria (1914), o le “anticipazioni” del neorealismo in Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio, di cui si perdeva frattanto l’unica copia esistente, o in Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena. Certo la crisi degli anni venti, gli anni dell’avvento del fascismo, che ha posto il cinema italiano in una posizione

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di inferiorità nel quadro della straordinaria maturità espressiva raggiunta dal cinema in altri paesi, non ha incoraggiato né la ricerca né i tentativi di recupero. Il cinema italiano conobbe negli anni venti una lunga e travagliata crisi determinata, tra l’altro, dalla fallimentare esperienza finanziaria dell’Unione Cinematografica Italiana (UCI), un tentativo, in bilico tra megalomania e inettitudine imprenditoriale, di unificare in un trust la produzione. Riproponendo, dopo i fasti degli anni dieci e dopo l’arresto produttivo causato dalla prima guerra mondiale, i modelli già ampiamente sfruttati del kolossal storico-mitologico e del divismo dannunziano, il cinema italiano pagò a caro prezzo il mancato rinnovamento tecnico ed espressivo (Brunetta 2008: 279-291). I confronti tra la produzione italiana degli anni venti e quella delle altre cinematografie possono risultare poco esaltanti, ma non giustificare silenzi, incuria, mancanza di ricerca storico-critica. Fortunatamente la situazione è mutata negli ultimi decenni. Cineteche e festival specializzati (la Cineteca di Bologna e “Il cinema ritrovato”, la rassegna annuale a essa collegata; le Giornate del Cinema Muto di Pordenone) hanno fatto un lavoro di recupero di film dispersi, dimenticati e ormai prossimi alla definitiva scomparsa. La possibilità di vedere in condizioni ottimali molte opere da tempo cadute fuori dalla memoria storica sta favorendo un processo di revisione storica e di correzione di vari luoghi comuni storiografici. Uno degli aspetti caratterizzanti del cinema italiano nell’epoca del muto è quello che possiamo definire il policentrismo produttivo, vale a dire la presenza contemporanea di più centri di produzione dislocati in diverse città, anche minori; tale fenomeno tenderà a ridursi, se non a scomparire, negli anni trenta, anche in seguito alla politica

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accentratrice del fascismo che culmina con la creazione di Cinecittà (1937). Gli apporti, spesso originali, dati dalle singole città allo sviluppo del sistema distributivo e produttivo sono notevoli e testimoniano di quanto composita e ricca di fermenti fu questa fase della nostra industria dello spettacolo: da citare Torino, Napoli, Milano e, naturalmente, Roma, ma anche Genova, Catania e altre ancora. L’attivismo imprenditoriale di Torino giocò sicuramente un ruolo predominante e fu alla base degli straordinari risultati ottenuti dal genere storico-mitologico che toccò il suo vertice con Cabiria. Non bisogna poi dimenticare Napoli dove si sviluppò una peculiare forma di produzione a carattere regionale, nel cui ambito un particolare interesse presentano i film di Elvira Notari, ma dove prese anche avvio l’attività prima distributiva e poi produttiva di Gustavo Lombardo, futuro fondatore della Titanus. Il genere storico-mitologico fu quello di maggior spicco e assicurò la penetrazione del cinema italiano nei mercati stranieri. Degna di interesse è anche la produzione comicopopolaresca che, per quanto dominata da un certo eclettismo favorito dall’impiego di attori stranieri come André Deed (Cretinetti), Ferdinand Guillaume (Polidor), Marcel Fabre (Robinet), non è priva di tratti originali. La meridiana del convento (1915) di Eleuterio Rodolfi racconta, in un clima di pochade, un caso di epidemia voyeuristica determinata dalla foto “piccante” di una collegiale: una comicità corrosiva nei riguardi del perbenismo piccolo borghese trova uno dei suoi punti di forza nell’interpretazione di Ernesto Vaser. In Pinocchio (1911) di Giulio Antamoro è degna di rilievo la performance mimicogestuale di Ferdinand Guillaume, ma anche la curiosa contaminazione tra i principali spunti del romanzo di Col-

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lodi fedelmente rispettato ed elementi spuri che sembrano tratti dalla nascente mitologia cinematografica: Pinocchio e Geppetto finiscono in America dove il primo viene adorato dagli indiani come un dio e il secondo rischia di finire arrostito; e dove il lieto fine è assicurato dall’arrivo delle giubbe rosse. Da ricordare, inoltre, Le avventure straordinarissime di Saturnino Farandola di Marcel Fabre (Ambrosio, 1914) e L’uomo meccanico di André Deed (Milano Films, 1921), nei quali il comico si combina con il fantastico e con la fantascienza. L’eclettismo che caratterizza la produzione italiana degli anni dieci non è sempre segno di incertezza o improvvisazione, ma testimonia anche di un clima di ricerca e di sperimentazione (non a caso uno dei fattori della crisi degli anni venti sarà appunto la riproposta di modelli già sfruttati). Carattere eclettico ha senza dubbio la produzione di Pastrone che, per quanto dominata da un dannunzianesimo di fondo, si muove contemporaneamente su più fronti: dal kolossal storico-mitologico (Cabiria) ai melodrammi passionali come Il fuoco (1915) e Tigre Reale (1916), ambedue con Pina Menichelli; dal riciclaggio in chiave bellico-patriottica del mito di Maciste (Maciste alpino, 1916) all’interessante sperimentazione di La guerra e il sogno di Momi (1917), film che oggi viene attribuito a Segundo de Chomón, sia pure con la supervisione di Pastrone, e che è pur sempre il risultato di una collaborazione del regista italiano con il geniale cineasta catalano che già aveva dato un apporto determinante alle più ardite innovazioni di Cabiria. All’insegna dell’eclettismo si sviluppa anche l’ampio fenomeno del divismo femminile, nel quale il prototipo della donna fatale e impareggiabile, modellata magari su Elena Muti, protagonista del romanzo Il piacere di D’Annunzio, è una delle componenti, anche se non l’unica.

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Certo, gli elementi dannunziani sono i predominanti, tuttavia non vanno trascurati altri apporti. Quello di Verga, prima di tutto: lo scrittore siciliano è autore, sia pure per interposta persona (la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo), della sceneggiatura di Tigre Reale (1916), tratto dal suo omonimo racconto e diretto da Giovanni Pastrone. Ci sono poi gli influssi del futurismo: in La memoria dell’altro (1913) di Alberto Degli Abbati, la protagonista, l’aviatrice Lyda (Lyda Borelli), sembra modellata, almeno nella prima parte, su una mitologia di stampo futurista. E al futurismo rinvia anche il già citato Thaïs (vedi 5.6.1) che, se non è propriamente un film futurista, è sicuramente un interessante caso di incrocio tra tematiche decadenti e ardite soluzioni scenografiche (dovute al futurista Prampolini), tra cinema di consumo e ricerca di avanguardia. E, ancora, si potrebbero citare i singoli apporti delle varie personalità di attrici, sia pure nel rispetto di un cliché, come ad esempio l’enigmatica Diane Karenne, attrice di origine polacca, sceneggiatrice, produttrice e regista, un personaggio che ha suscitato un rinnovato interesse da parte della più attenta ricerca storica (Dall’Asta 2008). Eclettica è, inoltre, la personalità di Francesca Bertini che nella varietà della sua produzione riesce a differenziarsi dalla monocorde linearità delle sue rivali: basterebbe ricordare la straordinaria prova di Mariute (1918) di Edoardo Bencivenga che, pur nelle evidenti forzature della propaganda bellica e di autopropaganda divistica, costituisce un eccezionale documento storico e una prova di grande versatilità interpretativa: prodotto dalla Bertini Film, è la descrizione di una giornata della diva nella parte di se stessa. Minor presa sulla fantasia popolare ebbero i partner maschili delle dive (Mario Bonnard, Febo Mari e altri), con l’eccezione forse di Amleto Novelli. Storia a sé fa Emilio

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Ghione, “eroe notturno del primo cinema italiano, nel duplice ruolo di regista e divo” (Lotti 2008). In fatto di divismo maschile, tuttavia, difficile era competere con il prototipo, per definizione inimitabile, Gabriele D’Annunzio, vero divo dell’epoca e certamente la più riuscita invenzione della nascente industria culturale italiana. Dannunziano solo per il nome del personaggio, Maciste, che dal porto di Genova lo innalzò ai fasti dello schermo, fu Bartolomeo Pagano, capostipite di una schiera di “forzuti” che sono i veri divi maschili del muto italiano: Sansone (Luciano Albertini), Ajax (Carlo Aldini), Saetta (Domenico Maria Cambino). La duttilità con cui il mito del gigante buono e generoso si adattava ad ambienti ed epoche diversi sta alla base della vitalità e della tenuta di Maciste: dal mondo romano di Cabiria al fronte della prima guerra mondiale di Maciste alpino (1916), con l’incursione finale in un improbabile inferno dantesco di Maciste all’inferno (1926) di Guido Brignone, dove troviamo in funzione ascensori e televisori in una commistione quasi petroliniana di (finta) aulicità e di modernità, di commedia di costume e sarabanda fantastica. Quest’ultimo film costituisce l’inevitabile approdo, ormai parodistico e burlesque, del mito dell’eroe che riscatta i deboli dall’ingiustizia. Inevitabile, visto che questo ruolo si avvia a interpretarlo, senza ironia e, ahinoi!, non più nei film di finzione ma nei documentari dell’Istituto Luce, il nuovo “divo” Benito Mussolini. Arriviamo così a un altro degli aspetti poco approfonditi del periodo del muto, quello dei rapporti tra cinema e fascismo (rapporti che sono stati studiati soprattutto per il periodo degli anni trenta, e in particolare a partire dal 1934, quando prende avvio un organico intervento in campo cinematografico). È invece di estremo interesse studiarli nella loro fase iniziale, soprattutto in relazione

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al clima di restaurazione, di chiusura conservatrice che domina gran parte della cultura italiana degli anni venti, cinema incluso, per comprendere le responsabilità che il mondo della cultura ebbe nel favorire gli sviluppi del fascismo (Brunetta 2008: 300-323). In questo campo non mancano scoperte interessanti, almeno sul piano della documentazione storica. Tale è il caso di Il grido dell’aquila (1923) di Mario Volpe, nel quale si trovano già definiti i temi della politica culturale del fascismo (che successivamente avranno interpretazioni cinematografiche formalmente più raffinate e tecnicamente più complesse in film di Blasetti, Forzano, Trenker e altri): collegamento tra tradizione risorgimentale e fascismo, bozzettismo populista, esaltazione del mondo contadino in opposizione a quello operaio, recupero di tradizioni popolari (le maschere della commedia dell’arte) finalizzato alla celebrazione di un esasperato nazionalismo (Sorlin 2000). PER SAPERNE DI PIÙ Per un primo orientamento, consiglio Marie 2008, volumetto preciso e affascinante che ha il merito di stabilire paralleli tra il cinema muto e un certo cinema contemporaneo (Kiarostami, Gus Van Sant, Kitano). Ottimi capitoli sul cinema muto con sintetici approfondimenti dei film-chiave in Bernardi 2007. Oltre al già citato Gaudreault 2004, per una guida sistematica allo studio del cinema muto consiglio Cherchi Usai 1991 e Elsaesser-Barker 1991 (da abbinare a un ottimo DVD con lo stesso titolo, edito dal BFI di Londra). Di più complessa lettura, ma ricco di spunti e suggestioni, è Burch 2001, mentre Abel 2005 è un importante strumento di consultazione. Non potendo dar conto della vastissima bibliografia sul cinema americano muto, mi permetto di segnalare qualche titolo: Bronlow 1980, che offre un quadro ricco e accattivante dell’età dei pionieri, da integrare

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con il DVD con lo stesso titolo e con i due libri con DVD editi dalla Cineteca di Bologna e dedicati rispettivamente a Chaplin e a Keaton (Bronlow 2009a e 2009b). Altre letture indispensabili: Robinson 2005 (su Chaplin); Cherchi Usai 2008 (su Griffith); Faccioli 2005 (su Harold Lloyd). Una riflessione sul pensiero comico in cui una parte importante è riservata ai classici della slapstick comedy è Cremonini 2000. Hansen 2006 è ormai un classico della storiografia sul cinema americano delle origini, perché offre il punto di vista della Feminist Film Theory, ma al tempo stesso mostra eccellenti esempi di lettura critica di un film (Intolerance) e di un fenomeno divistico (Rodolfo Valentino). Per un quadro complessivo sul cinema e le avanguardie storiche consiglio Rondolino 1972; Bertetto 1975 e 1997; BertettoToffetti 1996, raccolta di contributi e materiali che definiscono una linea di continuità tra le sperimentazioni degli anni venti e le ricerche più recenti, e non solo europee. Si vedano inoltre Mitry 2006; Costa 2002a; Albera 2004 (con ampia bibliografia). Sul futurismo e cinema, i riferimenti fondamentali sono Lista 2001 e 2010. Sul cinema francese degli anni venti si veda Albera-Gili 2001; Canosa 2001. Sul cinema tedesco resta sempre una lettura ricchissima di suggestioni Kracauer 2001, nuova edizione, curata da Leonardo Quaresima, di un classico della storiografia sul cinema tedesco, integrata da un’antologia di recensioni d’epoca; oltre a due titoli altrettanto classici di Lotte Eisner (1983 e 2010), consiglio particolarmente Tone 2009 per le puntuali analisi degli aspetti tecnico-stilistici del cinema espressionista (da usare anche per l’ampia ed esauriente bibliografia). Sulle avanguardie russe, si può partire dalle antologie di Kraiski 1971 e Bertetto 1975; raccomando poi in particolare Ejzenštejn 1981 e 1982. Per il cinema italiano consiglio di partire da Brunetta 2008, riproposta di un profilo pionieristico (la prima edizione risale al 1979) che ha aperto molte strade e vari filoni di ricerca, da affiancare a due formidabili strumenti di consultazione filmografi-

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ca: Martinelli (e Bernardini) 1980-1996 (ora disponibile anche in DVD) e Bernardini 1991 (consultabile anche online: http://www. anica.it/archivio_b_dx2.htm). La bibliografia recente sul cinema muto è vastissima e chi è solo agli inizi rischia di perdersi. Mi limito a una scelta: Costa 2002b; Gili 2005, uno studio ben documentato su André Deed, il creatore di Cretinetti; Canosa 2006; Jandelli 2006; Lotti 2008; Dall’Asta 2008, un’affascinante e documentata raccolta di saggi sul fenomeno delle attrici-registe del cinema muto, che fanno emergere dall’oblio figure poco indagate come Diane Karenne. Da segnalare infine la serie di pubblicazioni, affiancate da DVD, della Cineteca di Bologna: finora sono usciti Gianetto-Dagna 2009; Lewinsky 2009 e 2010; Canosa 2011.

6. Il cinema sonoro dagli anni trenta ai cinquanta

Dal saper vedere (e ascoltare) il cinema muto, passiamo ora al saper ascoltare (e vedere) il cinema sonoro. Elementi sonori ed elementi visivi vanno intesi, secondo Michel Chion, come un tutt’uno. Chion, che è un teorico e uno studioso dell’audiovisione (2009) e del cinema come arte sonora (2007), nega qualsiasi valore alla nozione stessa di “colonna sonora”: la colonna sonora, come insieme coerente e compatto di elementi separati da una colonna visiva, semplicemente non esiste. Egli distingue, da una parte, la voce umana e, dall’altra, “tutto il resto”. È il punto centrale della teoria del “vococentrismo” che viene da Chion così sintetizzata: “la presenza della voce umana stabilisce attorno a sé una sorta di scala di percezione” o, detto altrimenti, “ridefinisce lo spazio sonoro che la contiene” (1991: 16-17). Insomma, non ci sono, secondo Chion, elementi sonori autonomi, bensì una rigorosa gerarchizzazione di tutti gli elementi percettivi che subiscono il primato della voce. Ed ecco perché non esiste neppure una colonna visiva autonoma e separata: c’è un assorbimento per così dire istantaneo della voce nell’immagine. Molto di ciò che lo spettatore (e, spesso, anche il teorico) attribuisce al visivo è in realtà il risultato di un’interazione costitutiva del suono con l’immagine.

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6.1 L’avvento del sonoro È comprensibile che quei cineasti che avevano fatto dell’assenza della parola e del suono il principio strutturale dell’espressione filmica, abbiano opposto resistenza. Fu questo il caso di Chaplin che non si adattò alla nuova tecnica, ma cercò semmai di adattarla alle sue esigenze, tra mille dubbi e incertezze. Luci della città (1931) non è un film “sonoro e parlato” come gli altri che si girano a Hollywood lo stesso anno. Pur non rifiutando la musica e le possibilità narrative del suono, Luci della città è ancora strutturato secondo i canoni espressivi dell’arte muta, di un cinema non parlato. Allo stesso modo i cineasti sovietici si preoccuparono di circoscrivere, con il cosiddetto “manifesto dell’asincronismo” (1928), le modalità di impiego del sonoro, cercando di evitare i pericoli di un ripiegamento sui modelli del naturalismo piattamente riproduttivo. Ejzenštejn, Pudovkin e Alexandrov, firmatari del manifesto, cercavano con tutta evidenza di indirizzare l’uso del suono verso il contrappunto, la conflittualità tra colonna visiva e sonora per garantire il primato del montaggio come principio compositivo ed estetico del film (Ejzenštejn 1964: 523-524). Questi e altri dubbi e resistenze, motivati anche dai risultati tutt’altro che esaltanti dei primi film sonori, non impedirono al ciclo industriale di questa fondamentale innovazione di fare il suo corso e di modificare radicalmente il linguaggio cinematografico e la sua estetica. Il cinema è prima di tutto un’industria: il potenziamento delle sue capacità riproduttive, come le altre innovazioni tecnologiche a venire, fu cercato, attuato e imposto secondo una logica puramente economica. Una delle spinte decisive alla ricerca di metodi di sincronizzazione di immagine e suono e al rapido passaggio alla realizzazione di film “sonori e parla-

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ti” fu sicuramente la concorrenza della radio. Le parentele tra radio e cinema sonoro sono molto strette, e la tecnologia messa a punto per lo sviluppo della radio trovò parallela applicazione nella soluzione di alcuni problemi del cinema sonoro: furono le industrie del settore telefonico e radiofonico a mettere a punto i sistemi di riproduzione e amplificazione del suono. L’ingresso nel settore cinematografico di una di queste, la RCA, determinò la nascita di una nuova major, la RKO. Il sonoro si avvantaggiò e fu fortemente condizionato dagli effetti prodotti dal consumo radiofonico che aveva creato un’abitudine alla voce riprodotta, al realismo documentario della viva voce dei detentori del potere e dei beniamini dello spettacolo. Non a caso uno dei primi film di lancio del Movietone, il sistema sonoro adottato da William Fox, dava la possibilità di vedere e sentire il presidente Calvin Coolidge, l’eroe nazionale Charles Lindberg e l’esotico (per il pubblico americano) dittatore Benito Mussolini. Marshall McLuhan ha definito la radio “una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare corde remote e dimenticate” e per chiarire la sua idea ha ricordato i nuovi significati e il diverso “tessuto” che le parole assumono se ci mettiamo a parlare in una stanza buia (McLuhan 1967: 321-322). Acusmatico è l’aggettivo usato da Michel Chion (2009: 65-67) per definire il suono e la voce di cui non sia visibile la fonte. La radio e il telefono sono mezzi acusmatici. Il cinema, con espedienti quali la voce off, la musica d’accompagnamento (o non diegetica) e le allucinazioni sonore, ha sempre fatto grande uso dei suoni acusmatici, soprattutto se si tiene conto che lo stesso suono nella sala cinematografica tradizionale proveniva da un altoparlante collocato dietro lo schermo. Parola e musica diffuse nel buio della sala diventano strumenti di amplificazione e potenziamento delle suggestioni dell’immagine.

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Ancora una volta però, come era già capitato nel cinema delle origini, le possibilità di documentazione, di certificazione e di impiego in generi realistici dell’innovazione tecnica vengono sfruttate parallelamente a quelle, simmetriche e complementari, di potenziamento del carattere immaginario dell’esperienza filmica. Mentre la commedia si avvantaggia della possibilità del dialogo e il melodramma acquista un maggior realismo nella rappresentazione dei conflitti, altri generi per nulla realistici decollano grazie a questa innovazione tecnologica. Al suono è strettamente legato lo sviluppo di un nuovo genere che tanta parte avrà nell’estetica e nell’ideologia del cinema americano classico, il musical. Ogni forma di stilizzazione della gestualità dell’attore, dello spazio e di componenti propriamente filmiche come i movimenti di macchina, è resa possibile dal fatto che la musica e il canto diventano fattori di unificazione e strutturazione organica di tutti gli altri elementi. Al sonoro sono dovute anche le crescenti fortune del disegno animato. Con Steamboat Willie (1928), primo cartone animato sonoro, e con The Skeleton Dance (1929), la prima delle celebri Silly Symphonies, Walt Disney inaugura una nuova era del cinema d’animazione in cui la musica e i suoni diventano componenti essenziali delle astrazioni fantastiche e delle invenzioni comiche. Disney raccoglie così l’eredità, da una parte, della slapstick comedy che con il sonoro decade o assume nuove caratteristiche e, dall’altra, delle avanguardie che avevano lavorato sui rapporti tra ritmo visivo e musicale: Oskar Fischinger, sperimentatore tedesco che aveva collaborato anche con Fritz Lang per Una donna nella luna (1928), sarà attivo nell’atelier di Disney come addetto agli effetti speciali di Pinocchio (1940) e Fantasia (1940).

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Il sonoro, inoltre, in quanto ha reso più compiuti gli effetti realistici del racconto cinematografico, viene considerato da molti autori uno dei fattori essenziali dello sviluppo del fantastico e della fantascienza. Fin dalle origini era esistito un cinema fantascientifico (basti pensare a Méliès) e anche negli anni venti erano stati prodotti film memorabili in questo campo, come Aelita (1924) del sovietico Yakov Protazanov e Metropolis (1927) di Fritz Lang. Ma solo dopo l’avvento del sonoro la fantascienza ottiene l’affermazione definitiva, a conferma dello stretto legame tra fantastico cinematografico e innovazione tecnologica.

6.2 L’età d’oro di Hollywood Tra il 1932 e il 1946, scrive James Monaco (2002: 278279), la storia del film è la storia di Hollywood, con due sole eccezioni: il cinema francese, dove si afferma la corrente del “realismo poetico”, e la scuola documentaristica inglese, capeggiata da John Grierson. Ciò significa certamente che Hollywood confermò il suo primato economico e che, pur all’interno delle ferree leggi di controllo del sistema dei generi, permise l’affermazione di autori quali Hitchcock, von Sternberg, Hawks, Welles. Ma significa soprattutto che per buona parte del pubblico in tutto il mondo, anche in quei paesi dove esistevano importanti cinematografie nazionali, il cinema fu identificato con il cinema americano. In Italia, negli anni trenta e quaranta, il mito del cinema americano non interessò solo il grande pubblico, ma divenne un punto di riferimento, al pari della letteratura, per i gruppi intellettuali che durante il fascismo cercarono di reagire al clima di chiusura e all’imperante retorica del regime. Quando, dopo la caduta del fascismo e la fine della

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guerra, i film americani, che per effetto della legge Alfieri (1938) non circolavano più liberamente da anni, tornarono sugli schermi italiani, il pubblico reagì come se avesse ritrovato un bene primario del quale era stato a lungo privato. Quasi a voler recuperare gli anni perduti, nel solo 1946 furono importati in Italia seicento film americani che ebbero l’84 per cento degli incassi (i film di altre nazioni importati furono duecentocinquanta, mentre i film italiani prodotti furono sessantadue e raccolsero il 10,2 per cento degli incassi). Le sole ragioni politico-militari, che non vanno certo trascurate, non bastano a spiegare un fenomeno di queste proporzioni. Qual è il segreto di questa affermazione incontrastata e assoluta del cinema americano? La risposta va cercata prima di tutto in quella formula organizzativa dell’economia cinematografica che abbiamo già visto delinearsi negli anni venti: studio system, star system e cinema dei generi. Si tratta di quello che viene abitualmente definito lo stile classico hollywoodiano, secondo una linea interpretativa che va da Bazin (1999: 74-92) alla scuola neoformalista statunitense (Bordwell-Staiger-Thompson 1985). L’avvento del sonoro, dopo un periodo di assestamento, aveva confermato, e anzi notevolmente rafforzato, il controllo dell’intero mercato da parte di un numero limitato di imprese, le major companies, o più semplicemente majors: Warner Bros, MGM, Paramount, RKO, 20th Century Fox, Universal, Columbia e United Artists. Con la sola eccezione di quest’ultima, che non possedeva proprie strutture produttive e si limitava alla distribuzione di film di produttori indipendenti, le majors costituivano un sistema a “integrazione verticale” (vedi 5.3) e a forte concentrazione monopolistica. Pur producendo non più del 60 per cento dei film realizzati in un anno, i profitti ricavati dalla loro distribuzione toccavano il 95 per cento del volume complessivo degli affari:

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come a dire che producendo poco più della metà dei film di un’annata, incassavano poco meno del totale dei profitti realizzati dal sistema distributivo. La concentrazione risulta ancor più evidente se si considera anche la fase terminale del ciclo, cioè l’esercizio. Le prime cinque majors (cioè Warner Bros, MGM, Paramount, RKO, 20th Century Fox) con il loro controllo diretto di tremila sale (su un totale di diciottomila, cioè poco più del 16 per cento) riuscivano a rastrellare il 70 per cento degli incassi al botteghino. Questo sistema, su cui gravavano i sospetti di infrazione delle norme antitrust, fu fiorente fino a quando la Corte Suprema, nel 1948, non ne decretò l’illegittimità. Se a questo si aggiunge la concorrenza sempre più aggressiva della televisione, alla quale Hollywood oppose una resistenza che per quanto efficace non impedì la progressiva perdita di spettatori, si ha un quadro più completo delle cause della fine dell’età d’oro di Hollywood: La golden age di Hollywood è durata circa vent’anni. È stata inaugurata all’avvento del sonoro e uccisa dalla televisione. È questo il periodo idolatrato dagli appassionati di cinema, l’epoca in cui i film raggiungono il massimo della popolarità e dell’influsso. Per molti americani la cultura cinematografica divenne la cultura più autorevole, poiché Hollywood offriva stimoli, ideali e regole di condotta a quanti erano tanto ingenui da credere ai miti di celluloide. (Balio 1984: 15)

Non fu solo la concorrenza televisiva a determinare la crisi dello studio system. Non meno determinante fu la progressiva trasformazione della composizione e delle preferenze del pubblico, all’interno come all’estero. Uno dei punti di forza dello studio system era costituito dalla rete di distribuzione all’estero. Verso la fine degli anni quaranta,

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i mercati stranieri rappresentavano per l’industria cinematografica degli Stati Uniti una quota di mercato più importante che per qualsiasi altro settore di prodotti industriali finiti. Se il mercato interno assicurava la copertura dei costi di produzione, le entrate dei mercati esteri potevano essere considerate quasi totalmente profitti (Wagstaff 2000). Con la decadenza dello studio system, decadono anche lo star system e i modi di rappresentazione a esso collegati. La produzione nell’ambito dello studio system era rigorosamente pianificata secondo criteri industriali: tutto ciò comportava una subordinazione pressoché totale delle componenti artistiche al sistema decisionale dello studio. La cosiddetta “politica degli autori” (vedi 7.1) attraverso la quale i redattori della rivista francese Cahiers du Cinéma hanno esaltato le qualità di alcuni registi hollywoodiani considerati fino allora non più che abili mestieranti, ci ha spinto a sottovalutare l’importanza che lo studio system ha avuto nel definire lo standard qualitativamente alto (e non solo sul piano tecnico) del cinema americano della golden age di Hollywood. Le tipologie dei generi, degli attori, degli aspetti scenografici e figurativi andarono definendosi all’incrocio tra le esigenze di un sistema basato sulla massimizzazione dei profitti e la necessità di mettere a punto modelli di comunicazione capaci di raggiungere il pubblico più vasto e indifferenziato. Garanti del pieno rispetto delle regole del gioco erano i responsabili della produzione, ai vari gradi e livelli: erano loro a scegliere i soggetti da realizzare, gli attori, a fissare il budget, che già per se stesso qualificava la collocazione del film (produzione di serie A o B) e, soprattutto, a occuparsi dell’edizione, cioè del montaggio finale. Questo predominio assoluto della componente finanziaria dipende dalla partecipazione massiccia delle grandi

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banche nell’industria hollywoodiana durante e dopo l’introduzione del sonoro: si cercavano tutte le possibili garanzie circa il risultato commerciale del prodotto. Spesso le condizioni di lavoro dei registi erano tali non solo da compromettere la loro autonomia creativa (problema questo che nel sistema hollywoodiano era difficile anche solo formulare in questi termini), ma la loro stessa credibilità professionale. A questo proposito si è soliti citare i clamorosi episodi di conflittualità tra Eric von Stroheim e i produttori hollywoodiani che determinarono la mutilazione e la manomissione di buona parte dei film da lui girati nell’epoca del muto e la fine precoce della sua carriera di regista agli inizi del sonoro. Clamorosi i casi di Greed (1924) che dalle originarie ventiquattro bobine fu ridotto a dieci e di Queen Kelly (1928) che rimase incompiuto. L’eccezionalità del caso Stroheim non deve farci dimenticare che il conflitto coinvolse anche registi tutt’altro che “maledetti” come Frank Capra. In una celebre lettera al New York Times (2 aprile 1939) Capra descriveva in termini molto concreti quanto fosse nobile ma ancora poco realistico dire che “i film sono il mezzo di espressione del regista”. I dati da lui forniti sono eloquenti: solo una mezza dozzina di registi aveva il privilegio di girare e montare senza controllo del supervisore; l’80 per cento dei registi era costretto a girare le scene in cui tutto era prestabilito in anticipo e il 90 per cento non aveva alcun potere circa la scelta del soggetto e la fase di montaggio. Capra ricordava, inoltre, che erano stati necessari tre anni di trattative per ottenere che al regista fossero concesse due settimane di preparazione per un film di serie A e una settimana per un film di serie B (AA.VV. 1982a: 32). Quella che viene chiamata l’età d’oro di Hollywood non è quindi tutta d’oro. Le limitazioni all’autonomia e alla libertà ebbero un peso notevole: dall’adozione del cosiddetto

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codice Hays, cioè il codice di autocensura che entrò in vigore nel 1934 e che stabiliva con una minuzia esasperante ciò che si poteva e non si poteva non solo mostrare, ma anche semplicemente narrare a Hollywood, fino ai famigerati processi degli anni cinquanta contro attori, sceneggiatori e registi sospetti di comunismo (Ceplair-Englund 1981). Lo scrittore americano Gore Vidal nel romanzo Myra Breckinridge attribuisce al suo stravagante e polimorfo personaggio la tesi secondo la quale i film del periodo centrale dell’età d’oro di Hollywood, dal 1935 al 1945, “hanno segnato il culmine della cultura occidentale, completando ciò che ebbe inizio nel teatro di Dioniso il giorno in cui Eschilo parlò per la prima volta agli ateniesi” (Vidal 1969: 41). I toni iperbolici di tale dichiarazione vanno collocati nel contesto di una spassosissima satira dei miti hollywoodiani (di cui purtroppo rimane solo una pallida traccia nel film Il caso Myra Breckinridge girato nel 1970 da Michael Sarne). E tuttavia bisogna riconoscere che i “giovani turchi” dei Cahiers du Cinéma, nelle più infuocate dichiarazioni degli anni cinquanta, esprimevano concetti analoghi, e senza ombra di ironia. Certo è che buona parte di ciò che il cinema, nel bene e nel male, ha rappresentato e forse continua ancora a rappresentare per il pubblico di tutto il mondo coincide con la multiforme produzione hollywoodiana dell’età d’oro.

6.3 I generi classici del cinema hollywoodiano Nella critica cinematografica italiana lo studio della figura dell’autore ha quasi sempre avuto la meglio su quello dei generi. Ciò è dipeso da molti fattori: estensione al campo cinematografico di metodi e impostazioni tipici della

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critica letteraria; sopravvivenza di concezioni romantiche e di teorie idealistiche poco idonee a comprendere i meccanismi di produzione e i modelli di comunicazione propri del cinema. La contrapposizione tra generi e autori non va però esasperata. Come ha dimostrato il lato più originale della “politica degli autori” promossa dalla rivista francese Cahiers du Cinéma, il sistema dei generi non ha impedito l’affermazione di grandi autori come Alfred Hitchcock, Vincente Minnelli o Howard Hawks, riconosciuti come tali proprio in quanto eccellenti registi di film di genere. La classificazione dei film in base al genere di appartenenza è un aspetto fondamentale dell’istituzione cinematografica. Può capitare che le pagine degli spettacoli dei quotidiani o le rubriche dei programmi televisivi omettano di citare il nome del regista accanto al titolo del film, ma non di dare una sommaria indicazione del genere di appartenenza. Si tratta di indicazioni spesso vaghe, del tipo: “drammatico”, “avventuroso”, “comico”. Non sempre sono di grande aiuto. La stessa etichetta “drammatico” va bene per indicare Catene (1950) di Raffaello Matarazzo e Il volto (1959) di Ingmar Bergman, cioè due film per i quali l’indicazione del genere di appartenenza non è determinante in quanto si tratta di due prodotti che appartengono a cinematografie, stili, ideologie assolutamente diversi tra di loro. Nel caso dei film hollywoodiani, invece, le pure e semplici etichette di genere come western, musical, gangster, non solo funzionano come indicatore di nazionalità, ma orientano subito lo spettatore circa ciò che potrà aspettarsi quanto ad ambientazione, stile e, entro certi limiti, ideologia, indipendentemente dal fatto che le firme possano essere di John Ford, Vincente Minnelli o Nicholas Ray. Anche se si tratta di film prodotti dopo la fine dell’età d’oro di Hollywood, essi faranno comunque riferimento alla ti-

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pologia dei generi messa a punto in quell’epoca, per riprodurla nei suoi meccanismi di base nonostante i più vistosi aggiornamenti tecnologici o per trasgredirla con intenti di demistificazione o per rivisitarla con nostalgia. Generi come il film noir, musical, western, horror sono il risultato di una messa a punto di universi figurativi e congegni narrativi che vanno considerati come vere e proprie creazioni collettive nelle quali si è espressa non solo una forma di intrattenimento, ma anche una visione del mondo e una filosofia della vita, un’estetica e un’ideologia. 6.3.1 Punti di vista sui generi I generi classici di Hollywood possono essere esaminati da vari punti di vista: a) dal punto di vista del sistema produttivo per comprendere la natura e la complessità dei processi che ne hanno determinato l’affermazione; b) dal punto di vista narrativo e figurativo, per comprenderne i meccanismi di funzionamento e le regole compositive, che in parte sono comuni con altre forme espressive come la letteratura e il teatro, e in parte sono peculiari del cinema; c) dal punto di vista politico-ideologico per comprendere i legami tra l’evoluzione dei generi e la situazione storica e sociale. Naturalmente le varie prospettive sono strettamente legate tra di loro e separabili solo per esigenze espositive. Vediamoli dapprima dal punto di vista del processo di produzione. Ancor prima che un’utile indicazione per lo spettatore o un tema di primaria importanza nello studio della narrativa filmica, la suddivisione in generi fu un’esigenza fondamentale dello studio system. L’organizzazione

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del lavoro e la programmazione produttiva dello studio si basava appunto sulla classificazione per genere dei film. Ogni studio aveva la duplice esigenza di differenziare i prodotti in modo da differenziare gli investimenti, per adeguarsi alle tendenze del mercato (mutevolezza dei gusti del pubblico, esigenze dei locali a doppia programmazione) e, nello stesso tempo, di specializzarsi, concentrando su questo o quel genere l’impegno finanziario e artistico in modo che il pubblico si abituasse a identificare una società di produzione con un determinato genere (quella che oggi si chiamerebbe “strategia d’immagine”). C’era una stretta relazione tra la tipologia dei divi a contratto e il genere attorno a cui ruotava la politica produttiva dello studio. A partire da Carioca (1933), per esempio, le fortune della RKO e quelle della coppia Fred Astaire e Ginger Rogers sono strettamente legate. Così alla Universal, agli inizi del sonoro, alcuni film dell’orrore come Dracula (1931) di Tod Browning e Frankenstein (1931) di James Whale impongono quali divi del genere Bela Lugosi e Boris Karloff. L’interazione tra generi e divismo è l’aspetto più vistoso di una politica produttiva che ha alla sua base una ferrea organizzazione del lavoro di registi, sceneggiatori, direttori della fotografia, scenografi e, soprattutto, direttori di produzione. Basterebbe ricordare i musical della MGM degli anni quaranta e cinquanta che coincidono con le espressioni più felici di questo genere e con un momento tra i più fortunati della casa di produzione. Alla base di tali risultati sta la figura di un produttore, Arthur Freed, che, grazie alla sua formazione di musicista e a un indubbio talento organizzativo, riuscì a mettere assieme un’équipe di registi, attori, musicisti e coreografi di grande valore. Film come i musical di Minnelli, da Due cuori in cielo (1943) a Brigadoon (1954), il celeberrimo Cantando sotto la pioggia

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(1952) di Stanley Donen e Gene Kelly o La bella di Mosca (1957) di Robert Mamoulian sono il risultato di una politica produttiva che ha avuto in Freed il suo geniale artefice. Certo si potrà parlare di uno stile Minnelli, Donen & Kelly o Mamoulian, ma non sarà meno legittimo parlare dello stile MGM nel campo del musical. Allo stesso modo si potrà parlare di uno stile Universal per il film noir degli anni quaranta, anche se poi, passando a citare i titoli dei film e i nomi dei registi, incontreremo opere che oggi sono studiate e discusse come film d’autore: Sabotatori (1942) e L’ombra del dubbio (1943) di Alfred Hitchcock, Lo specchio scuro (1946) e I gangsters (1946) di Robert Siodmak, La strada scarlatta (1945) di Fritz Lang e La città nuda (1948) di Jules Dassin. È improbabile che si possa arrivare a cogliere il significato del lavoro degli autori che abbiamo appena citato se non si riuscirà a capire e a penetrare gli elementi costitutivi sia sul piano narrativo sia su quello figurativo dei generi in cui hanno operato e alla cui affermazione hanno contribuito. D’altra parte gli studi di tipo neoformalista hanno dimostrato la stretta relazione che si può cogliere tra il modo di produzione e lo stile hollywoodiano classico (BordwellStaiger-Thompson 1985). Fondamentale era stato in questa direzione il contributo critico di Bazin che aveva così definito la classicità del cinema americano degli anni trenta e quaranta: “un’arte pervenuta visibilmente all’equilibrio e alla maturità” grazie a “grandi generi dalle regole ben elaborate capaci di piacere a un vasto pubblico internazionale”, a “stili fotografici e narrativi perfettamente comprensibili e conformi ai soggetti trattati” e a coordinamento e perfetta coesione tra sonoro e immagine (Bazin 1999: 81). Sulla scia di Bazin, i neoformalisti statunitensi hanno individuato i seguenti elementi costitutivi dello stile classico:

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primato della narrazione chiaramente comprensibile garantito dall’insieme del sistema produttivo; subordinazione a essa di tutti gli aspetti della messa in scena (recitazione, stile fotografico, montaggio) secondo il principio delle “equivalenze funzionali”; standardizzazione dei procedimenti e, insieme, differenziazione dei prodotti, in modo da mantenere vivo l’interesse del pubblico ma anche di garantire il progressivo assorbimento nella produzione media di ogni innovazione tecnica e stilistica (Bordwell-Staiger-Thompson 1985). Illustreremo ora un approccio al problema dei generi dal punto di vista figurativo, prendendo spunto da alcune osservazioni che si trovano in uno dei più bei libri sul cinema hollywoodiano classico che siano stati scritti, L’America al cinema di Michael Wood (1979). La frequente presenza in film di genere noir di dettagli visivi e di aspetti compositivi degni di nota induce l’autore a un paragone piuttosto impegnativo, anche se attenuato dall’ironia del contesto: questi effetti visivi, scrive Wood, “sono come gli intagli delle cattedrali medievali, quei trionfi di ingegnosità e di arte che nessuno vede tranne Dio” (Wood 1979: 111). Il paragone non deve sembrare azzardato né irriverente, tanto più che è fatto per sottolineare una sorta di sproporzione tra i valori formali di questi film e quella che Wood chiama la banalità del loro “contenuto umano” e tanto più che lo stesso paragone era già stato fatto dallo storico dell’arte Erwin Panofsky, che di cattedrali sicuramente se ne intendeva, nella sua celebre conferenza sul cinema (Panofsky 1996: 91-120). Ciò che è interessante in questo accostamento non è tanto la nobilitazione artistica e culturale del cinema, quanto piuttosto l’analogo metodo di approccio a due diverse forme di arte collettiva che implicitamente suggerisce. Nelle cattedrali gotiche anche i dettagli apparentemente più tra-

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scurabili, quelli che “nessuno vede tranne Dio”, contribuiscono a darci il senso complessivo dello spazio, a produrre un sentimento di levitazione e trasfigurazione della materia. Questo è in poche parole ciò che si preoccupa di farci comprendere quella corrente della storiografia e della critica d’arte che si richiama al metodo iconologico e che ha avuto in Panofsky il suo maggiore esponente. Tale metodo si articola su due piani: a un primo livello (iconografia) gli elementi spaziali e figurativi vengono decifrati in relazione alle loro fonti (culturali, letterarie o filosofiche); a un secondo livello (iconologia) essi sono interpretati come “forme simboliche” (le forme visibili vengono cioè messe in relazione a determinate concezioni del mondo, della realtà o dell’arte stessa). Qualcosa di simile fa Michael Wood quando analizza un motivo figurativo comune a molti film noir degli anni quaranta e cinquanta: la presenza ossessiva degli specchi e in genere di superfici riflettenti che mostrano i personaggi secondo prospettive incerte e strane. Wood si interroga sulla ricorrenza di questo motivo, basato su un gioco di combinazione di realtà e apparenza in una stessa inquadratura e trattato spesso con notevole eleganza formale anche in film altrimenti banali. Egli ne individua la fonte nell’eredità del cinema espressionista tedesco, raccolta grazie alla “presenza a Hollywood di moltissimi registi tedeschi o che avevano lavorato in Germania o subito l’influenza di chi aveva lavorato in Germania” (Wood 1979: 109). E lo interpreta come messa in forma di un universo di apparenze in cui nessuna certezza è possibile e i dati più comuni dell’esperienza visiva quotidiana sono sempre sul punto di trasformarsi in un trompe-l’oeil, in un enigma inquietante. Ma Wood va anche oltre e arriva a vedere in questi giochi di immagini riflesse un’allusione allo stesso mezzo cinema-

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tografico: essi ci costringono non solo a interrogarci sulla posizione della macchina da presa, ma anche sulla natura stessa di tale macchina, sulle sue proprietà di congegno che manipola le apparenze e scompiglia i modi della visione ordinaria (Wood 1979: 112). Ecco come un’attenta analisi di un motivo figurativo può spiegare perché i film ci dicano a volte più di quello che sembrano dire in superficie: esiste un significato che può essere anche diverso da quello che possiamo chiamare il significato letterale dell’enunciato narrativo. Anzi è proprio per questa via che il cinema hollywoodiano classico, anche nelle sue manifestazioni più commerciali, è sfuggito ai limiti delle varie censure ideologiche ed estetiche, oggettive e soggettive, imposte ai vari stadi dell’ideazione e della realizzazione. Come vedremo meglio più avanti, alcuni studiosi sono arrivati a vedere in certe espressioni del genere melodramma una forma di superamento dell’ideologia manifesta del cinema classico. In stretta relazione con gli aspetti figurativi sono quelli narrativi. I generi cinematografici, al pari di quelli letterari, dei miti e dei racconti popolari, presentano una serie di elementi costanti, riconducibili alle funzioni svolte dai singoli personaggi nello sviluppo della vicenda. Secondo tale prospettiva, lo studio dei generi si può avvalere di metodi messi a punto nell’analisi delle forme narrative tradizionali attraverso la classificazione delle funzioni svolte dai vari personaggi (attanti), anche se trattandosi di cinema non bisogna ignorare o sottovalutare l’aspetto propriamente figurativo. Si possono così individuare strutture narrative ricorrenti, per esempio, in generi come il melodramma o la commedia. Come ha dimostrato Campari, l’eroe tipico del melodramma rappresenta la funzione dell’“amore impossibile”, riconoscibile al di là delle varianti più o meno complesse presentate dall’intreccio, mentre quello della commedia

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rappresenta la funzione dell’“amore conquistato”, anche se le tappe della conquista non sono definibili in termini di “prove difficili”, “avventure” o contrasti sociali, bensì di temperamento, carattere, ruoli (Campari 1980: 23-32 e 4249). Via col vento (1939) sarà quindi definito un melodramma strutturato sul tema dell’amore impossibile, “quello di Rossella (Vivien Leigh) per Ashley (Leslie Howard) che appunto improvvisamente svanisce, nel finale, quando diventa realizzabile” (Campari 1980: 24). Mentre in Scandalo a Filadelfia (1940) di George Cukor è possibile rinvenire sotto le forme frizzanti della commedia la struttura della fiaba della Bella Addormentata: “Tale è infatti Tracy, principessa infelice, prima che un giovane estraneo al suo mondo, il giornalista Mike (James Stewart) venga a risvegliarla scoprendone la femminilità e la capacità di amare sia pure senza poi cogliere il frutto del suo intervento, un po’ per il moralismo di quegli anni, un po’ perché il giornalista non arriva al ruolo del ‘principe’” (Campari 1980: 44-45). Naturalmente il sistema dei generi cinematografici, per quanto possa essere studiato nelle invarianze che permangono al di là di ogni mutazione di superficie, vive in un rapporto dinamico con la situazione politica, sociale e culturale. Secondo una esemplificazione fornita da La Polla (1978), si potrà notare come il western rispecchi il modello dello sviluppo “espansionistico e colonialistico” degli Stati Uniti, mentre il cinema di fantascienza sarà il genere “passibile più di ogni altro di una lettura politica in chiave contemporanea durante il maccartismo e il pericolo rosso”. Allo stesso modo, “sarà possibile leggere il musical non solo come segno superficiale di fuga fantastica, ma anche come traduzione in termini decisamente spettacolari dei vari protagonisti ideali susseguitisi alla ribalta della vita nazionale”; oppure “sarà possibile rintracciare nel film

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di guerra non solo la figura immediata dell’imperialismo americano, del suo nevrotico militarismo, della sua espansione in oriente, ma anche l’intenzione della conquista di un mercato cinematografico attraverso il contrabbando di violente mitologie mascherate da difesa della libertà” (La Polla 1978: 185-197). 6.3.2 Tre esempi: melodramma, noir e western Naturalmente quello dei generi è un fenomeno che interessa il cinema in tutti i paesi e che la narrativa cinematografica ha in comune con altre forme espressive preesistenti come la letteratura e il teatro. Tuttavia si può notare che ogni cinematografia ha espresso dei generi che meglio la rappresentano e che meglio rappresentano i caratteri originali della cultura nazionale. Tale è stato il “dramma sociale” per il cinema francese degli anni trenta e quaranta e la commedia, nota al pubblico di tutto il mondo come “commedia all’italiana”, per il cinema italiano degli anni cinquanta e sessanta. Quali sono i generi più tipici dell’età d’oro di Hollywood? Ogni cinefilo ha precise idee in proposito e ogni critico adotta un suo schema di classificazione. C’è stata in passato una tendenza abbastanza diffusa a limitare la tipologia dei generi classici del cinema americano a pochi gruppi: melodramma, western, film noir, fantascienza, musical. Alcuni hanno preferito definire una tipologia più ampia con denominazioni più specifiche, quali romanzomelodramma, racconti per famiglie, avventure, commedie, musical, i campioni, polizieschi, western, film di guerra, il fantastico (Campari 1980). Altri studiosi invece si sono concentrati su una particolare tipologia di film all’interno di un genere determinato, ottenendo risultati interpretativi

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di grande interesse: tale è il caso del filosofo Stanley Cavell (1999) che, nell’ambito della commedia, ha studiato le storie di remarriage (rimatrimonio). Generi come il melodramma o la commedia, che Hollywood ha portato sicuramente a una sorta di perfezione nel periodo qui preso in considerazione, hanno assorbito influssi eterogenei: determinante quello dei registi europei emigrati a Hollywood, a conferma della capacità del sistema dei generi di amalgamare le più disparate componenti culturali. Ancor più che nella commedia brillante, nella quale ha dato un apporto insostituibile l’arte di Ernst Lubitsch, è nel melodramma che il fenomeno ha avuto maggior rilievo. L’austriaco Max Ophüls è il regista di Lettera da una sconosciuta (1948), un film che è un vero e proprio modello del genere melodrammatico, per la storia di un amore impossibile che è narrata dalla voce fuori campo della protagonista e, soprattutto, per l’esasperato clima di sogno (il film si svolge quasi tutto in flashback) ottenuto grazie a una scenografia e una illuminazione fortemente stilizzate che ricostruiscono in studio ambienti e scorci della Vienna di fine secolo. Il danese Douglas Sirk è l’autore di alcuni dei melodrammi che illustrano al meglio le caratteristiche tematiche e figurative del genere: Come le foglie al vento (1956) presenta una complessa vicenda in cui si intrecciano petrolio, sesso, alcol e in cui il senso di onnipotenza, prerogativa della classe sociale dei protagonisti, si traduce in una sorta di furore autodistruttivo. Come ognuno può osservare, si tratta di un vero e proprio prototipo delle più recenti soap operas televisive come Dallas, le quali tuttavia dal punto di vista figurativo non conservano neppure una pallida traccia di quell’insieme di regole compositive proprie della messa in scena del melodramma hollywoodiano classico: rigoroso controllo del

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valore emotivo ed emblematico degli spazi e degli oggetti; accurata ricerca degli effetti della composizione plastica e cromatica dell’inquadratura; sistematica utilizzazione degli effetti di intensificazione melodrammatica delle situazioni attraverso un calibrato uso del montaggio e della musica. Da Come le foglie al vento si potrebbe citare la sequenza in cui Marylee (Dorothy Malone), chiusa nella sua stanza, si abbandona a una danza sfrenata mentre un montaggio alternato ci mostra l’emblematica scala della villa salendo la quale il padre della ragazza trova la morte per attacco cardiaco. La musica, la danza e il montaggio imprimono un’accelerazione e un’intensificazione all’andamento romanzesco del film, introducendo una dimensione spiccatamente spettacolare, la quale non solo conquista uno spazio di relativa autonomia, ma sviluppa anche una serie di significati che vanno oltre, e per molti versi contro, l’ideologia esplicita della narrazione. All’incrocio tra la dimensione spettacolare e quella romanzesca, il melodramma cinematografico hollywoodiano trova le sue espressioni più significative in quei casi, peraltro non rari, in cui non si presenta allo stato puro ma contaminato con altri generi, meglio se quelli più fortemente ancorati alla tradizione culturale americana: con il genere epico-storico in Via col vento (1939), con il film noir in Gilda (1946), con il western in Duello al sole (1946) o Johnny Guitar (1954). D’altra parte, un genere come il melodramma, proprio per i suoi tratti specifici quali emergono con maggior forza negli anni cinquanta, costituisce uno degli snodi centrali del cinema hollywoodiano classico. Linda Willliams (1988) individua nella modalità del melodramma una sorta di transgenere che attraversa l’intero cinema popolare americano e riguarda generi che in senso stretto non appartengono al melodramma, termine che la studiosa americana propone

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di riservare al cosiddetto woman’s film, al family melodrama e a pochi altri casi. Mentre Veronica Pravadelli, in un pregevole studio sulla “grande Hollywood”, individua nella forma-melodramma linee di forza che di fatto trascendono e mettono in crisi il modello interpretativo dello stile classico hollywoodiano. Non a caso la studiosa italiana, proprio in rapporto al melodramma, sottopone a critica l’interpretazione dello stile classico della scuola neoformalista, al pari di altri studiosi dei generi hollywoodiani (Pravadelli 2007: 21; vedi anche Altman 2004, Bourget 2004, Buccheri 2010a). Tra i generi classici del cinema americano, noir e western sono sicuramente i più tipici. Nonostante la vistosa diversità dell’ambientazione (lo spazio urbano e la prateria), li lega un rapporto di complementarità. In ambedue questi generi il tema centrale è quello del conflitto tra la legge e l’arbitrio, l’innocenza e la corruzione, tra le regole della convivenza civile (Civilization) e l’universo del “senza legge” o “fuori legge”, un mondo selvaggio e primitivo (Wilderness). La grande vitalità e ricchezza dei due generi sta nel mostrare l’incertezza dei confini tra il mondo della Civilization e quello della Wilderness, anche se le regole del genere e il moralismo codificato impongono sempre il finale positivo ed edificante. Dal punto di vista narrativo, il film western si basa su conflitti perennemente riproposti: il colono bianco contro l’indiano, la comunità ordinata con le sue regole di vita contro il “fuorilegge”, il giustiziere contro le vittime designate di una giustizia sommaria che spesso sconfina nel puro e semplice spirito di vendetta, senza altra legge che il fucile o il cappio. Questo grande tema del precario equilibrio tra una legge da fondare, imporre o conservare e la violenza sia interna sia esterna al gruppo o alla comunità, trova espressione nell’universo figurativo del western. Lo spazio

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del western è lo spazio della “frontiera”, uno dei “miti fondatori della nazione americana”, per riprendere il titolo di un celebre studio (Marienstras 1976). La frontiera è la perenne mobilità del confine, la lusinga dell’avventura e della conquista di un nuovo territorio. Lo spazio del West è uno spazio perennemente decentrato. L’eroe del West entra in azione provenendo da chissà dove e abbandonando la scena alla fine: il suo è letteralmente un passaggio. Se l’ordine e la legge sono ristabiliti, si tratta pur sempre di una stabilità in cui non c’è posto per l’eroe. Egli lascia spesso una donna che lo ama: alla donna simbolo di stabilità si contrappone il cavallo, promessa di avventura e solitudine per l’eroe. Nel finale di Sfida infernale (1946) di John Ford, Clementine (Cathy Downs) rimane nel villaggio a fare l’insegnante mentre Wyatt (Henry Fonda) riprende il suo viaggio verso nuove avventure. Lo spazio del western è strutturato e scandito in base al movimento, la transizione, i mutamenti. La pianura attraversata dalle carovane dei coloni; i guadi delle mandrie; i canyons con le insidie delle imboscate; la main street sulla quale converge la vita della città o del villaggio: qui avvengono le scorribande dei fuorilegge tra la banca e il saloon, qui sostano avventurieri e qui avvengono i regolamenti di conti, qui convivono il bisogno di stabilità e di ordine dell’insediamento urbano e la mobilità della frontiera. Ma lo spazio che meglio riassume e simboleggia la mobilità del West è quello della ghost town, la “città fantasma” abbandonata dai suoi abitanti che hanno cercato altrove una promessa di benessere e stabilità: tra le più suggestive ghost towns del western sono da ricordare quelle di Cielo giallo (1948) di William A. Wellman, Dove la terra scotta (1958) di Anthony Mann e Sfida nella città morta (1958) di John Sturges (Bellour 1973: 171-172).

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Complementare al genere western, abbiamo detto, è il film noir. Questa etichetta di genere (noir) è un’invenzione francese, ha un’origine banale (nero era il colore delle copertine della collana di romanzi polizieschi di maggior successo, esattamente com’è accaduto per il “giallo” in Italia), ma ha finito per essere accettata dagli stessi americani. E non è stato un caso. Questa categoria, non priva di una certa vaghezza, permette di evidenziare stretti legami tra il sistema dei generi e il contesto sociale e culturale che lo ha prodotto e di definire anche possibili legami tra il cinema americano e il cinema europeo. Esistono indubbie analogie tra i classici del noir americano e certi film prodotti in Francia nello stesso periodo, come Il porto delle nebbie (1938) e Albergo del Nord (1938) di Marcel Carné (AlongeCarluccio 2006: 96). Sotto l’etichetta noir si possono comprendere vari generi, o meglio sottogeneri: polizieschi, gangster film, detective story, thriller. Tratto comune è di mettere in scena da vari punti di vista eventi criminosi e di creare attorno a essi un accentuato clima di suspense: circa l’esito dell’impresa criminosa, circa la scoperta del colpevole, circa la motivazione del delitto. Dal punto di vista iconografico, come scrive Marc Vernet, c’è una prevalenza assoluta dell’universo minerale (rocce, cemento, asfalto), “assieme all’acciaio e alla notte nella quale i contrasti di luce e gli effetti folgoranti concorrono a definire i confini del genere” (AA.VV. 1981: 56). Nell’arco di tempo qui preso in considerazione, si registra la prevalenza dell’uno o dell’altro sottogenere, secondo una logica di sviluppo che, pur nella permanenza di alcune caratteristiche di fondo, mostra chiaramente i legami dei generi con l’evoluzione della società americana e dell’istituzione cinematografica. Agli inizi degli anni trenta, la fortuna del film di gangster è da mettere in relazione allo

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sviluppo senza precedenti nella società americana di organizzazioni criminali dedite al traffico illegale di alcolici indotto dal proibizionismo. Il gangster è un eroe tipico della mitologia urbana allo stesso modo in cui il “pistolero” lo era stato nell’America rurale della frontiera. Il cinema, sulla spinta degli altri mass media, ne definisce l’iconografia. Con il sonoro, poi, l’ambientazione urbana si arricchisce di un repertorio di rumori: sparatorie, stridio di pneumatici sull’asfalto, clacson, vetri frantumati, che al pari degli ambienti chiusi, delle ombre proiettate sulle pareti, degli asfalti bagnati, dei fasci di luce dei fari delle automobili, divengono contrassegni del genere. Film come Nemico pubblico (1931) di William A. Wellman, Piccolo Cesare (1931) di Mervyn LeRoy, Scarface (1932) di Howard Hawks, sono considerati gli archetipi del genere, anche dal punto di vista ideologico. Questi film raccontano l’impossibile integrazione del gangster nel sistema di valori dominanti (denaro, potere, successo) e mostrano l’analogia tra la sua carriera e quella di qualsiasi altro cittadino deciso a dare la scalata al successo, suggerendo l’idea dell’incertezza di confini tra legalità e illegalità e della simmetria speculare tra sistemi di potere legali e illegali. Non a caso questi film furono avversati e sottoposti a varie censure, tanto che si preferì ben presto incentrare le narrazioni di vicende criminose sulle figure di poliziotti o di detective privati. Alla traduzione sullo schermo dei romanzi di Dashiell Hammett e Raymond Chandler si deve la grande fioritura del genere noir negli anni quaranta. Il mistero del falco (1941) di John Huston, L’ombra del passato (1944) di Edward Dmytryk, Il grande sonno (1946) di Howard Hawks, sono alcuni classici del genere “detective story”. Anche in questi casi è l’ambiguità, cioè l’adozione di for-

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me dotate di una pluralità di significati, che presiede alla costruzione di questi universi narrativi e figurativi, da considerare tra i più ricchi e affascinanti tra quelli prodotti dal cinema. Ambiguità del personaggio, innanzitutto: il detective vive un ruolo di incerta definizione, tanto è vero che è guardato con sospetto sia dalla polizia che lo considera una sorta di gangster camuffato, sia dalla malavita che lo considera dalla parte della polizia. Humphrey Bogart, il volto con il quale siamo abituati a immaginare il Sam Spade di Hammett (vedi Il mistero del falco) e il Philip Marlowe di Chandler (vedi Il grande sonno), riassume perfettamente questa ambiguità di ruoli: nella sua gestualità, nella smorfia amara del volto, nel suo malinconico distacco dalle vicende in cui viene implicato. Ambiguità figurativa: l’universo della violenza, del vizio, della corruzione, che in questi film è presentato con l’accentuazione dei contrasti di luce, le ambientazioni notturne e una simbologia elementare, non è mai disgiunto da un senso di fascino, di mistero e di avventura. Ambiguità, infine, nel rapporto che si stabilisce tra la soluzione dell’enigma instaurato dal racconto e una verità più ampia e profonda che il clima figurativo del film ha contribuito a evocare e rispetto alla quale il detective non ha strumenti di sorta. Questa “impotenza” dell’eroe è simboleggiata nella situazione iniziale e finale di L’ombra del passato in cui vediamo Marlowe (interpretato questa volta da Dick Powell) con gli occhi bendati a causa di un incidente subito nel corso della sparatoria risolutiva: la vicenda, piuttosto intricata e ricca di suspense è raccontata, idealmente, dal “punto di vista” di chi non può “vedere”. Non a caso i registi che hanno rivisitato negli anni settanta il genere noir non hanno trascurato di rievocare il motivo della ferita, del-

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lo sfregio: così in Chinatown (1974) di Roman Polanski il detective interpretato da Jack Nicholson viene sfregiato al naso e costretto a portare un cerotto per una buona parte del film (a compiere lo sfregio è un sicario interpretato dallo stesso Polanski); e in Il lungo addio (1973) di Robert Altman, Marlowe (interpretato da Elliot Gould) ci viene mostrato, dopo un incidente, completamente bendato.

6.4 Il neorealismo italiano “I film di domani si gireranno per le strade” dice il regista Ferrand in Effetto notte (1973) di François Truffaut: in un film che è una melanconica e affettuosa rievocazione del cinema fatto negli studios, sempre un po’ artificioso e manierato, Truffaut ha voluto rendere un fugace omaggio a quella rivoluzione estetica che fu il neorealismo italiano e che tanta parte ha avuto, tramite il magistero di André Bazin, nella sua formazione cinematografica. Il cinema girato per le strade, gli attori presi dalla strada, la realtà fissata senza manipolazioni e senza partiti presi: queste sono le formule entro le quali si è cercato di racchiudere l’esperienza del neorealismo, riassunta poi nella parola d’ordine di Rossellini: “La realtà è là. Perché manipolarla?”, tanto cara ai Cahiers du Cinéma e ripresa nel capitolo italiano delle Hitoire(s) du cinéma (1889-1998) di Godard. 6.4.1 Storia e storie del neorealismo Non sempre è possibile trovare effettivo riscontro di tutto ciò nei testi filmici. Roma città aperta (1945), il film di Rossellini considerato il capostipite della nuova tendenza, si avvale dell’interpretazione di due professionisti di con-

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sumata esperienza come Anna Magnani e Aldo Fabrizi e ricorre a effetti di intensificazione drammatica ottenuti attraverso un uso del montaggio non lontano dal cosiddetto découpage classico (vedi 10.2). Quanto a partiti presi ideologici, attraverso le vicende parallele e intrecciate di un intellettuale comunista e di un prete cattolico, il film rincorre insistentemente l’effetto di coinvolgimento unanimistico: Roma, città aperta si conclude con un gruppo di bambini che, dopo aver assistito alla fucilazione, da parte dei tedeschi, di don Pietro (Fabrizi), si avvia verso la città, mentre la cinepresa inquadra un paesaggio urbano inequivocabilmente dominato dalla cupola di San Pietro. Tuttavia enorme fu l’impatto prodotto da Roma città aperta e Paisà (1947) di Rossellini, da Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di De Sica, e da tutti quei film (di De Santis, Zampa, Lattuada) che in vario modo contribuirono a propagare nel mondo l’immagine dell’Italia che usciva dal fascismo con le lacerazioni della guerra, dell’occupazione tedesca e di un’endemica arretratezza. Quella che fu immediatamente chiamata la “scuola italiana” divenne un punto di riferimento obbligato per definire i nuovi sviluppi dell’estetica del film, come in passato lo erano stati la “scuola sovietica” degli anni venti, l’espressionismo tedesco o il “realismo poetico” del cinema francese tra le due guerre. Più complesso diventa il problema se guardiamo il fenomeno del neorealismo da vicino, nelle sue implicazioni politiche, ideologiche e culturali e in relazione alla situazione del cinema italiano prima della caduta del fascismo. Innanzi tutto, il neorealismo non è tutto il cinema italiano del secondo dopoguerra. Ne è la componente più nota e culturalmente prestigiosa, ma la sopravvivenza e lo stesso sviluppo dell’istituzione cinematografica italiana furono legati

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ad altre componenti come il cinema cosiddetto di genere e di consumo, con il quale del resto registi, sceneggiatori e attori del neorealismo ebbero continui rapporti di scambio. Il neorealismo non nasce da una sorta di tabula rasa rispetto al cinema precedente, cioè al cinema del regime fascista. Con quello, anzi, ci sono non pochi elementi di continuità. Il richiamo a una realtà quotidiana, ai tratti “regionali” e “paesani” della vita nazionale (contrapposti al cosmopolitismo cinematografico e letterario) era stato una componente non secondaria del dibattito culturale in epoca fascista, per esempio negli scritti di Leo Longanesi e in molti interventi apparsi sulla rivista Cinema, diretta dal figlio del duce, Vittorio Mussolini (Mida-Quaglietti 1980). Aspetti della realtà “umile” e “dimessa” avevano trovato espressione nei film “rurali” di Alessandro Blasetti (Sole, 1929 e Terra Madre, 1931), nelle commedie di Camerini (Gli uomini che mascalzoni…, 1932, Grandi Magazzini, 1939) o in Quattro passi tra le nuvole (1942) dello stesso Blasetti. La difesa di un cinema nazionale, popolare e realista che veniva fatta sulle pagine di Cinema nei due o tre anni prima della caduta del fascismo, era assai più che compatibile con il regime, dal momento che coincideva con l’esaltazione di film indubbiamente propagandistici come Sole (1929) e Vecchia Guardia (1934) di Blasetti o La nave bianca (1941) e L’uomo della croce (1943) di Rossellini. Eccoci quindi al cuore di una delle contraddizioni più vistose della genesi stessa del neorealismo. Ugo Pirro, che è stato uno degli sceneggiatori più prestigiosi del cinema italiano, così commentava questo fatto in un libro di rievocazione della nascita del neorealismo: Che poi proprio intorno a una rivista firmata da un Mussolini si ritrovassero i giovani cineasti più aperti al nuovo e tutti con

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la tessera comunista nascosta tra i libri, può sorprendere solo uno straniero. Così come resta un segreto nostro, tutto italiano e soltanto a noi comprensibile, che sia toccato a un uomo che si era fatto le ossa lavorando a film di propaganda fascista, girare il film che avrebbe dato inizio alla straordinaria storia del neorealismo italiano: a Roberto Rossellini. (Pirro 1983: 14-15)

Il neorealismo, che non fu un movimento organico e unitario, costituì una straordinaria affermazione del mezzo cinematografico che si è dimostrato capace, pur nel rispetto delle convenzioni narrative cui si atterranno nella quasi totalità i film del periodo, di cogliere il mutamento dello scenario umano e visivo, ancor prima che politico. Uno dei punti di forza del neorealismo fu la capacità di assimilare e adattare alla realtà italiana modelli cinematografici e letterari tra i più disparati, in un clima di frenetico aggiornamento vissuto come reazione alle chiusure della cultura ufficiale fascista. Già nell’ambito delle istituzioni cinematografiche del fascismo (le riviste Cinema e Bianco e Nero, il Centro Sperimentale di Cinematografia, cioè la scuola per la formazione dei quadri tecnici e artistici), critici come Umberto Barbaro, Luigi Chiarini e Francesco Pasinetti avevano promosso un vasto lavoro di aggiornamento: avevano fatto conoscere gli aspetti più avanzati delle cinematografie di tutto il mondo e divulgato la riflessione teorica sul cinema con la traduzione di scritti di Pudovkin, Ejzenštejn, Balázs e Arnheim. Ossessione (1943), film di esordio di Luchino Visconti, è considerato da molti come l’opera che anticipò, ancor prima della caduta del fascismo e la fine della guerra, temi e stile del neorealismo. Si tratta di un’opera sicuramente importante per gli elementi di novità che introduce: gli esterni sono stati girati nei luoghi stessi dell’azione (i dintorni di

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Ferrara); personaggi, situazioni e comportamenti sono in netto contrasto con gli schemi ideologici e compositivi del cinema italiano corrente. Ma l’elemento di maggior novità sta nell’assunzione cosciente di espliciti modelli di riferimento del tutto inediti nel panorama del cinema italiano. C’è innanzi tutto l’influsso della narrativa americana: il film è tratto da un romanzo di James Cain Il postino suona sempre due volte (1934) dall’intreccio serrato e avvincente e dalla scrittura nitida e tesa. Ma forse ancor più importante è il modello del cinema francese, e in particolare di Jean Renoir, un autore che aveva dato originali interpretazioni cinematografiche del naturalismo letterario dell’Ottocento (L’angelo del male, 1938, tratto da La béte humaine di Emile Zola) e che, soprattutto con Toni (1934), aveva dato un rilievo del tutto nuovo e di grande efficacia all’ambientazione, al paesaggio, alle condizioni di vita di una comunità di provincia. Ossessione esprime non solo la volontà di scoprire una realtà dimenticata dalla letteratura e dalla propaganda, ma anche l’urgenza di adottare nuovi modelli di interpretazione. Un’urgenza di apertura intellettuale e morale che non riguardò solo il cinema e che fu sintetizzata da queste parole di Cesare Pavese, in una nota scritta nel 1946: “Noi scoprimmo l’Italia […] cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia e nella Spagna” (Pavese 1968: 223). Fu questo clima di apertura, che comportò anche un certo eclettismo, il dato più importante della breve stagione neorealista, durante la quale si affermarono quegli autori che fecero circolare il cinema italiano nel mondo e che misero a punto modelli espressivi capaci di fissare quanto di nuovo si presentava nella società e nei costumi di vita degli italiani. In questo senso si può affermare che, per almeno un trentennio dopo la fine della guerra, il cinema italiano è

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riuscito a interpretare i mutamenti, gli umori e le contraddizioni della società. Lo stretto legame con la cronaca e il costume è forse il tratto che può accomunare le pur diverse personalità che diedero vita al movimento. In questa direzione un ruolo fondamentale fu svolto da Cesare Zavattini che fu lo sceneggiatore di tutti i principali film di De Sica (tra cui Ladri di biciclette, 1948, Miracolo a Milano, 1951, Umberto D., 1952), ma che estese la sua collaborazione a tutti i maggiori registi (da Visconti a De Santis, da Blasetti a Zampa, da Castellani a Germi) e svolse un’intensissima attività di scrittore e teorico, costituendo l’anello di congiunzione tra cinema, letteratura e giornalismo dalla cui interazione derivano molti dei caratteri originali del nostro cinema del dopoguerra (Tinazzi-Zancan 1983). Accanto all’attività di Zavattini va ricordata quella di molti altri sceneggiatori che si mossero nella stessa direzione: Sergio Amidei, Suso Cecchi D’Amico e Ennio Flaiano (il quale fa però storia a sé). A questi bisogna aggiungere le saltuarie collaborazioni con il cinema di scrittori come Vitaliano Brancati, Diego Fabbri, Giuseppe Berto, Vasco Pratolini. Al di là delle dichiarazioni programmatiche e delle tecniche di ideazione e progettazione-promozione dei film in cui più stretto appare il legame tra cinema e giornalismo, è evidente che l’adesione al dato cronachistico, che spesso rappresenta un puro e semplice spunto di partenza, acquista significati diversi nello stile dei singoli registi. Nei film della “trilogia della guerra” di Rossellini (Roma città aperta, 1945; Paisà, 1947; Germania anno zero, 1948), il tema conduttore sta nelle reazioni morali e nei comportamenti che nascono nell’interiorità dei personaggi e che sfociano spesso in tragedia, come appare già chiaro a partire da Germania anno zero e come andrà precisandosi

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nella successiva “trilogia della solitudine” (Stromboli terra di Dio, 1949; Europa ’51, 1952; Viaggio in Italia, 1953). Nel cinema della coppia Zavattini-De Sica, poi, i dati più comuni dell’esistenza quotidiana, colti con toni apparentemente dimessi e crepuscolari, subiscono una trasfigurazione surreale, da favola intrisa di umori ora patetici ora grotteschi. Nel caso di Visconti, che dopo l’exploit di Ossessione (1943) tace fino al 1948 quando porta a termine La terra trema, i legami con i dati cronachistici e documentaristici, per quanto a suo tempo enfatizzati dalla critica, risultano oggi meno rilevanti rispetto alla sua straordinaria capacità di assimilare in un elegante manierismo modelli tratti dalla tradizione letteraria, pittorica e musicale dell’Ottocento e del primo Novecento. Nel cinema di De Santis gli intenti documentaristici e la pretesa dell’oggettività sociologica, espressa attraverso l’autenticità dell’ambientazione, sono sovrastati da un gusto per l’intreccio melodrammatico e per la resa spettacolare del paesaggio, dell’erotismo, del folklore. È a De Santis che si deve la più singolare commistione tra le istanze ideologiche del neorealismo (alla cui definizione diede lui stesso un contributo determinante) e i più collaudati aspetti del cinema popolare (divismo, erotismo, melodramma). Una singolare commistione tra i miti arcaici del mondo contadino e l’enfasi spettacolare delle tecniche e dei miti della cultura di massa assicurò ai suoi film, e in particolare a Riso amaro (1949), un successo internazionale senza precedenti. L’immagine del neorealismo come espressione di un momento eroico, di prefigurazione di un mutamento radicale della società italiana e, insieme, di azzeramento di qualsiasi tradizione e convenzione cinematografica, in una sorta di presa diretta sulla realtà quotidiana, trova riscontri più nella critica e nell’ideologia che nei testi filmici. Certo

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è che molte delle speranze legate alla fioritura del neorealismo andarono presto deluse. Tra le cause principali va ricordato il clima di restaurazione politica, successivo alle elezioni del 1948 che videro una affermazione netta del polo conservatore rappresentato dalla Democrazia cristiana, che perdurò lungo tutti gli anni cinquanta e che non favorì certo un cinema di opposizione. Per dare un’idea di tale clima basterà ricordare un solo episodio: il processo subìto nel 1954 da Renzo Renzi e Guido Aristarco, rei di aver pubblicato su Cinema Nuovo un soggetto cinematografico su episodi poco edificanti dell’occupazione italiana della Grecia (in quanto ex ufficiali i due giornalisti furono rinchiusi nel carcere militare di Peschiera e condannati da un tribunale militare!). Fu probabilmente inevitabile che, nel clima di contrapposizione ideologica frontale che ne derivò, si sviluppassero forme di chiusura settaria che alla lunga rischiarono di assorbire ogni forza nella pura e semplice difesa di un dogma. A partire dalla retrospettiva e dal convegno della Mostra Internazionale di Pesaro del 1974 (vedi Miccichè 1975b) e, successivamente, dalla retrospettiva e catalogo di “Cinema Giovani” di Torino (Farassino 1989), l’intera stagione del neorealismo e del cinema degli anni cinquanta è stata sottoposta a un processo di revisione. Gian Piero Brunetta, nella più recente versione della sua Storia del cinema italiano (la cui prima versione risale al 1979-1982), conferma che l’idea del breve ciclo storico del neorealismo debba essere, se non accantonata, per lo meno integrata da quella storiograficamente più ricca e complessa, del processo “di trasformazione lenta e di più lungo periodo che parte da prima della fine della guerra e si spinge ben dentro gli anni cinquanta, ricollegandosi poi alla fine del decennio alla nuova spinta impressa da un vero e pro-

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prio ricambio professionale e produttivo” (Brunetta 2009: 32). In tale prospettiva, senza sacrificare nulla dell’originalità e della peculiarità dello stile dei singoli autori che vengono associati alla fioritura neorealista, è possibile raccorciare le distanze tra le “pratiche alte” e le “pratiche basse”, cioè tra le espressioni qualitativamente e stilisticamente più significative del cinema d’autore e la produzione media del cinema di genere, e porre il problema della definizione di uno “sguardo neorealista” che permea di sé il cinema del periodo (Brunetta 2009: 3-29). Della stessa opinione è anche Farassino (1989: 29) secondo il quale “se sono pochi i film e gli autori che aderiscono con convinzione al progetto neorealista, sono pochissimi quelli che non ne restano almeno occasionalmente, per lo spazio di un anno, di un film, di una sequenza, conquistati e influenzati”. Molti degli anatemi pronunciati nel corso degli anni cinquanta sono caduti. Oggi per chi voglia conoscere e gustare lo spirito di un’epoca, cogliere i caratteri originali dell’immaginario cinematografico italiano, ma anche del costume e della vita quotidiana, ci sono nuove tappe obbligate (che un tempo la critica di ortodossa osservanza neorealista avrebbe vivamente sconsigliato). Si può cominciare con il cosiddetto “neorealismo rosa” che altro non è che la commedia popolare: esso va visto, più che come involuzione del neorealismo, come aggiornamento a un nuovo linguaggio e a una nuova iconografia di una tradizione vivissima nella nostra cultura. Qualche titolo fondamentale: È primavera (1949), Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani; Pane, amore e fantasia (1953) e Pane, amore e gelosia (1954), di Luigi Comencini; Pane, amore e… (1955) di Dino Risi. Non meno interessante risulta la rivisitazione del cosiddetto “neorealismo d’appendice” che ha in Raffaello Matarazzo il suo indiscusso campione (Aprà-Carabba

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1976). È indubbio tuttavia che Matarazzo, assieme ad altri registi come Mario Costa e Guido Brignone, porta a un punto di incandescenza le tematiche e lo stile del melodramma cinematografico con ampie zone di adeguamento a quello che possiamo chiamare il linguaggio comune dell’iconografia neorealista. Titoli fondamentali: la trilogia di Matarazzo (Catene, 1950; Tormento, 1951; I figli di nessuno, 1952) alla quale si possono aggiungere vari melodrammi di qualità diseguale ma accomunati da singolari commistioni tra realismo dell’ambientazione e provocazione erotica, da Sensualità (1952) di Clemente Fracassi a La lupa (1953) di Alberto Lattuada. E infine Totò, la cui rivalutazione, che ha avuto in Goffredo Fofi il suo più fervido sostenitore (Faldini-Fofi 1977) e che è ormai un fatto stabilmente acquisito (Caldiron 2004), ha comportato un riesame dei rapporti assai complessi e fecondi tra il cinema italiano e il teatro di rivista, il varietà, la tradizione dialettale, ma anche una revisione della nozione di “popolare” quale fu applicata dai settori più dogmatici della critica cinematografica. Questa proposta di rivisitare il cinema del dopoguerra soffermandoci anche a lato e ai margini dell’esperienza neorealista in senso stretto non è solo un invito a una visione globale dell’istituzione cinematografica, ma anche al recupero di uno sguardo ironico, di quell’ironia che mancò in quegli anni alla tetraggine delle semplificazioni ideologiche di ambo le parti e senza la quale è impossibile sfogliare oggi un repertorio iconografico del cinema di allora (Pellizzari 1978). Quell’ironia che ritroviamo invece nelle pagine del romanzo La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi, in cui il protagonista racconta come il direttore di un giornale, per bocciare una sua proposta, gli spiega con incredibili argomentazioni lo storico passaggio dalla cronaca alla storia, dal neorealismo al realismo, realizzato da

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Senso (1954) di Visconti. Oppure l’affettuosa ironia con la quale il critico cinematografico Tullio Kezich ha raccontato il “dramma” della generazione dei giovani di allora che si autocondannò a vedere di nascosto i film di Humphrey Bogart e a fare pubblici dibattiti sulle mondine imposti dall’estetica neorealista: Per molti di noi Bogart era un idolo. Insomma, ci riservavamo un angolo privato per gustare il cinema così come va gustato, senza cerimoniali, senza avere per ogni film la risposta pronta in tasca, senza dover dare obbligatoriamente la pagella politica a tutto. Poi l’indomani al circolo del cinema presentavamo magari Non c’è pace tra gli ulivi, alla presenza dell’autore. Avremmo sognato di fare un dibattito su Humphrey Bogart. Ma i dibattiti si facevano sulle mondine. (Ajello 1979: 211)

6.4.2 Neorealismo e cinema moderno Per documentarci sullo spirito con il quale venne accolta fuori d’Italia la nuova esperienza del cinema italiano, il miglior testo è ancor oggi “Le réalisme cinématographique et l’école italienne de la Libération” che Bazin pubblicò sulla rivista Esprit nel 1948 (Bazin 1999: 275-303). Bazin non è stato solo un grande estimatore del neorealismo; il suo metodo di analisi del film e la sua teoria estetica, alla cui formazione hanno sicuramente contribuito i film neorealisti italiani assieme alle opere di William Wyler e Orson Welles, hanno influenzato la nascita della Nouvelle Vague e lo sviluppo del cinema moderno (vedi 7.1). Nel saggio dedicato al neorealismo Bazin si sofferma sulla tecnica narrativa, cercando di definire il rapporto tra cinepresa (tipo di inquadrature e di raccordi tra inquadrature, movimenti di macchina) e i fatti narrati, l’ambiente, gli oggetti. Ser-

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vendosi di paragoni con la tecnica di romanzieri americani come Faulkner, Hemingway, Dos Passos o di un pittore come Matisse, Bazin sostiene che la cinepresa è diventata tutt’uno con l’occhio e la mano che la guidano: in tal modo il racconto, che nasce da una necessità biologica ancor prima che drammatica, “germoglia e cresce con la verosimiglianza e la libertà della vita” (Bazin 1999: 292). È soprattutto in Paisà (1946) di Rossellini che Bazin vede un mutamento radicale nella costruzione delle sequenze: L’unità del racconto cinematografico in Paisà non è l’inquadratura, punto di vista astratto sulla realtà che si analizza, ma il “fatto”. Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo ed equivoco, il cui “senso” viene fuori solo a posteriori grazie ad altri fatti tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti. Senza dubbio il regista ha ben scelto tra questi “fatti”, ma rispettando la loro integrità di “fatto”. (Bazin 1999: 299)

Naturalmente si tratta di una interpretazione parziale del neorealismo e tuttavia, per quanto incentrata soprattutto su Rossellini, resta una delle più suggestive poiché getta un ponte tra l’esperienza neorealista e le esperienze più avanzate del cinema moderno, così frequentemente prefigurate e anticipate dal lavoro critico e teorico di Bazin. Sulla linea interpretativa di Bazin, si colloca il contributo del filosofo francese Gilles Deleuze (1984 e 1989), autore di una delle più importanti opere teoriche sul cinema della seconda metà del Novecento (vedi 2). Secondo Deleuze, che per molti versi radicalizza le posizioni di Bazin, l’esperienza neorealista segna già il passaggio dal cinema classico al cinema moderno (secondo la sua terminologia dall’immagine-movimento all’immagine-tempo). Tale passaggio

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è caratterizzato dall’emergenza di situazioni visive e sonore pure, che definiscono il venir meno del nesso organico tra percezione e azione, che è uno dei tratti fondamentali del cinema classico, e aprono la strada all’immagine-tempo che significa apertura alla “totalità” dell’avvenimento “nel suo farsi” (Deleuze 1984: 235). Già a partire dal neorealismo, Deleuze individua una sorta di trasformazione del personaggio in spettatore: il personaggio neorealista più che reagire registra, più che essere impegnato in un’azione, “è consegnato a una visione che insegue o dalla quale è inseguito” (Deleuze 1989: 13). Inoltre, Deleuze suggerisce l’esistenza di tratti in comune tra il neorealismo (e il post-neorealismo italiano) e altre esperienze eccentriche rispetto alla centralità della narrazione classica del cinema hollywoodiano, per esempio quella del grande cineasta giapponese Yasujiro Ozu. PER SAPERNE DI PIÙ Sull’avvento del sonoro e sui problemi del suono e della parola nel cinema, oltre a Chion 1991, 2007 e 2009, consiglio Altman 1992 e 1999; sul ruolo dell’immaginario radiofonico nella cultura e nel cinema americano, Minganti 1997. Wood 1979 offre una trattazione sottile e ironica dei generi classici dell’età d’oro di Hollywood soprattutto dal punto di vista dell’ideologia e del costume. Per chi voglia invece affrontare il problema dei generi classici secondo una prospettiva aggiornata a nuove metodologie, sono consigliabili Brunetta 1999-2001 (vol. II, tomi 1 e 2); Altman 2004 (produzioni discorsive e ricezione dei generi); Pravadelli 2007 (Feminist Film Theory). Per un esame d’insieme dei generi classici hollywoodiani sono consigliabili: Kaminsky 1994; Nacache 1996; Alonge-Carluccio 2006; per un confronto tra il sistema hollywoodiano e quello europeo e in particolare italiano, si vedano Campari 1980 e 1983;

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Moine 2005. Molto utili sono i repertori con accurate schede critico-informative della collana “Storia del cinema” delle edizioni Le Mani; tra questi, vorrei ricordare almeno: Viganò 1994; Pruzzo 1995; Venturelli 1995; Cristalli 2007. Sui due più tipici generi del cinema hollywoodiano classico, suggerisco: Leutrat - Liandrat Guigues 1993 (western); Venturelli 2007 (noir). Per il cinema neorealista italiano, un ottimo punto di partenza può essere Faldini-Fofi 2009 e 2010, insuperato esempio di storiografia basata sulle testimonianze dei protagonisti, da integrare con Farassino 1989, Brunetta 2009 e, per i rapporti tra cinema e letteratura del neorealismo, Tinazzi-Zancan 1983; per questa e per le altre stagioni del cinema italiano una guida sicura, con tutte le indicazioni biblio-filmografiche che si possono desiderare, è Brunetta 2003; di indubbia utilità anche Fanara 2000 (un percorso sistematico e approfondito); Noto-Pitassio 2010 (profilo storico-critico, apparato bibliografico e antologia). Per una storia a più voci, di carattere enciclopedico, del cinema italiano del secondo dopoguerra vista in tutti i suoi aspetti e integrata da documenti d’epoca, si vedano Cosulich 2003; De Giusti 2003 e Bernardi 2004. Chi voglia approfondire le relazioni tra neorealismo e teoria del cinema, oltre ai testi originali di Bazin 1999 e a Deleuze 1984 e 1989, può ricorrere a Bertoncini 2009 (per Bazin) e De Gaetano 1996 (per Deleuze). Per accurate analisi di film esemplari si veda Alonge 1997 (Ladri di biciclette) e Parigi 2005 (Paisà).

7. Il cinema moderno

L’età del cinema moderno, rispetto alle precedenti, è più difficile da circoscrivere e definire. Non c’è un’innovazione tecnologica paragonabile al sonoro che la caratterizzi, modificando e unificando lo statuto della narrazione, come accadde a cavallo tra gli anni venti e trenta. Il colore, prima, e il grande schermo, poi, non avevano avuto effetti tali da mutare radicalmente il dispositivo della comunicazione e dell’espressione cinematografica; semmai lo rafforzavano: la loro introduzione aveva avuto principalmente lo scopo di contrastare la concorrenza della televisione. Saranno altre innovazioni, meno spettacolari, a porre le premesse per lo sviluppo di nuovi usi e di nuove configurazioni del linguaggio cinematografico. Dagli anni trenta ai sessanta tali innovazioni si succedono incessantemente. La diffusione della pellicola pancromatica (cioè dotata di maggiore sensibilità), i miglioramenti dei sistemi di illuminazione e l’uso degli obiettivi a focale corta (vedi 10.2) consentono le riprese in continuità e profondità di campo, con messa a fuoco di tutti gli elementi della scena, tali da non richiedere più gli eccessivi frazionamenti del découpage classico. La diffusione di cineprese più leggere, del formato ridotto (16 mm) e il progressivo miglioramento delle tecniche di presa diretta del suono permettono la fuoriuscita dai teatri di posa. In sinte-

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si, tali innovazioni tecnologiche favoriscono la rottura degli schemi tradizionali (produttivi ed espressivi) e la diffusione di usi del cinema che in precedenza erano stati fatti solo eccezionalmente (le avanguardie storiche e certi momenti “eroici” del neorealismo). Il cinema assume nuovi ruoli, non solo per la definizione di nuovi modi di rappresentazione, ma anche per la conoscenza delle trasformazioni in atto: si diffonde una nuova coscienza delle potenzialità e dei meccanismi di comunicazione del mezzo, quella che i teorici chiamano coscienza metalinguistica, in stretta concomitanza con le tematiche sviluppate dalle scienze umane (psicologia, semiotica, estetica, sociologia) (De Vincenti 1993). L’ideologia dominante nel “cinema moderno” è un’ideologia progressista: l’espressione di una nuova soggettività individuale o collettiva, la definizione di un nuovo linguaggio e di nuove tipologie espressive devono consentire al cinema di cogliere i mutamenti e produrre o accelerare processi di trasformazione morale, sociale e politica. La “ricerca del nuovo” e il “rifiuto della tradizione”, in analogia con quanto andava verificandosi nelle altre forme di espressione, spingono il cinema ad affiancare parallele tendenze della letteratura e delle arti figurative. È difficile circoscrivere cronologicamente il “cinema moderno”, anche perché esso trova le sue radici in esperienze d’avanguardia che sono esistite precedentemente e trova le sue ragioni d’essere in una concezione della storia e del cinema che si prolunga e si definisce al di là di limiti geografici e cronologici. Tuttavia, se definiamo l’età del cinema moderno come quella in cui l’istituzione cinematografica vive concretamente la possibilità del mutamento, sia sotto le spinte dei gruppi di avanguardia sia per necessità fisiologica di rinnovamento, possiamo stabilirne i limiti cronologici, grosso modo, dalla

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fine degli anni cinquanta alla metà circa degli anni settanta: cioè dall’affermazione della Nouvelle Vague francese fino al New American Cinema, dal cinema del disgelo nei paesi del “socialismo reale” al cosiddetto “terzo cinema”.

7.1 La “politica degli autori” e l’insegnamento di Bazin Fu dopo il festival di Cannes del 1959, dove il nuovo cinema francese raccolse una lusinghiera messe di riconoscimenti, che si cominciò a parlare di una Nouvelle Vague cinematografica. L’etichetta, lanciata nel 1957 da un’inchiesta giornalistica sulle nuove generazioni condotta dal settimanale L’Express, ebbe successo anche nel cinema e divenne il termine corrente per designare un nuovo modo di fare i film e, contemporaneamente, un nuovo atteggiamento di fronte al cinema. Tra i protagonisti della “nuova ondata” vanno ricordati François Truffaut che con I quattrocento colpi (1959) ebbe a Cannes il premio per la migliore regia; Claude Chabrol che aveva esordito l’anno prima con Le beau Serge (1958) uscito però solo all’inizio del ’59 assieme al suo secondo film I cugini (1959); Jean-Luc Godard il cui esordio nel lungometraggio con Fino all’ultimo respiro (1960), desterà i maggiori scalpori; Eric Rohmer e Jacques Rivette che esordirono, rispettivamente, con Le signe du lion (1959) e Paris nous appartient (1960). La caratteristica comune di questi cinque nuovi registi era di aver cominciato a occuparsi di cinema scrivendo articoli e saggi sulla rivista Cahiers du Cinéma, fondata nel 1951 da André Bazin e Jacques Doniol-Valcroze, e sul settimanale Arts. Accanto a loro, vennero fatti rientrare sotto l’etichetta “Nouvelle Vague” Louis Malle, già assi-

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stente di Robert Bresson per Un condannato a morte è fuggito (1956) e autore di Ascensore per il patibolo (1957) e Les amants (1958), e Alain Resnais, arrivato al lungometraggio con Hiroshima, mon amour (1959), dopo una notevole carriera nel campo del documentario (Notte e nebbia, 1955, Toute la mémoire du monde, 1957). La loro attività, come quella di altri giovani o meno giovani come Agnès Varda, Chris Marker, Georges Franju, era guardata con grande attenzione dai giovani critici dei Cahiers du Cinéma per il comune interesse a rompere con il cinema tradizionale. Poco importa se ben presto quegli stessi protagonisti cominciarono a negare che la Nouvelle Vague fosse mai esistita o ammisero che fosse stata tutt’al più un’abile trovata pubblicitaria. L’avvento della Nouvelle Vague non fu importante solo perché segnò l’esordio di una nuova generazione di registi (di cui ci occuperemo più diffusamente in 7.2.1), ma ancor più per la forma in cui fu preparato tale esordio e per il significato che acquistò. Richiamandosi a un profetico testo di Alexandre Astruc apparso sulla rivista L’écran français nel 1948, “Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo” (trad. it. in Grignaffini 1984: 49-51), questi giovani andavano prefigurando un tipo di cinema personale, nel quale la cinepresa potesse essere utilizzata con la stessa semplicità e libertà con la quale il romanziere e il saggista usavano la penna stilografica. Un cinema spontaneo, immediato e a bassi costi, che potesse fare a meno delle macchinose procedure degli studios e dell’artificiosa accuratezza formale della produzione francese “di qualità”, cioè quella produzione che non aveva più saputo rinnovarsi, dopo il momento magico degli anni trenta e quaranta in cui si erano affermati gli autori del “realismo poetico”.

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Nel clima stagnante della cinematografia francese degli anni cinquanta, dove una politica di pura sopravvivenza rendeva praticamente impossibile esordi di nuovi registi, i giovani redattori dei Cahiers du Cinéma, in attesa di usare un giorno la cinepresa come una stilografica, cominciarono a esercitarsi usando la stilografica come una cinepresa e facendo dell’attività critica un momento preparatorio di quella creativa. La “politica degli autori” divenne la parola d’ordine del gruppo. Prima ancora di essere il trampolino per lanciare se stessi come autori, questa formula, introdotta dai giovani redattori dei Cahiers, propone un modo nuovo di vedere il cinema, finalizzato alla messa in valore del regista-autore. Riferita al cinema europeo e a registi come Dreyer o Bergman, Bresson o Antonioni, questa “politica” non presentava particolari problemi. Proprio in ragione delle affinità che il cinema aveva spesso mantenuto con la cultura letteraria e artistica e con metodi di produzione artigianale, in Europa la tradizione di un cinema d’autore aveva messo radici più profonde che altrove. La vera novità riguardava il cinema americano: registi perfettamente inseriti nel meccanismo produttivo hollywoodiano, come Hitchcock, Minnelli, Hawks, venivano minuziosamente analizzati come autori, mentre della produzione americana di registi europei quali Lang, Renoir o Ophüls si rivendicava la continuità rispetto all’opera precedente (e talora anche la superiorità). Tali scelte comportavano l’elaborazione di un metodo di analisi del film capace di riconoscere il valore e il significato di un’opera nella mise en scène, cioè nella regia, e non nelle dichiarazioni programmatiche o nell’intenzionalità esplicita della tesi politica o morale del film. Si trattava di un metodo che, in quanto particolarmente attento alla individuazione dei valori tecnico-formali del film, può essere

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definito formalista e può essere avvicinato al metodo della critica stilistica in letteratura. André Bazin, che di questo gruppo di giovani fu una sorta di padre spirituale, difese con vigore la validità del metodo seguito, anche quando poteva avere qualche dubbio sulle scelte operate. In un famoso articolo intitolato “Comment peut-on être hitchcocko-hawksiens?” pubblicato sui Cahiers du Cinéma nel 1955, scrisse in difesa dei suoi giovani colleghi queste parole: Ma se essi stimano a tal punto la mise en scène è perché vi scoprono in larga misura la materia stessa del film, un’organizzazione degli esseri e delle cose che trova in sé il proprio significato, intendo dire sia morale sia estetico. Ciò che Sartre scriveva del romanzo è vero di tutte le arti, del cinema come della pittura. Ogni tecnica rimanda a una metafisica. L’unità e il messaggio morale dell’espressionismo tedesco non ci si rivelano oggi più nella mise en scène che nei soggetti o, più precisamente, non è proprio ciò che del suo “progetto” morale si era perfettamente sciolto nell’universo visivo a restare per noi la cosa più significativa? (trad. it. in Grignaffini 1984: 148-149)

Una delle conseguenze dell’affermazione della Nouvelle Vague è stata anche quella di dare una più ampia risonanza al lavoro critico e teorico di Bazin, grazie alla stretta relazione che si è stabilita nel suo gruppo tra la dimensione teorica e quella creativa. Il contributo fondamentale di Bazin consiste nell’aver elaborato una teoria del linguaggio cinematografico non più basata sul montaggio (come si era continuato a fare dal tempo del muto in poi), ma piuttosto su quegli elementi – come il sonoro, la pellicola pancromatica, gli obiettivi capaci di rendere la profondità di campo, lo schermo panoramico – che, accentuando l’impressione

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di realtà dell’immagine filmica, avevano progressivamente evidenziato il carattere manipolatorio e artificioso del montaggio tradizionale. Attraverso lo studio dell’opera di William Wyler, Orson Welles (in particolare di Quarto potere, 1941) e di Rossellini (vedi 6.4), Bazin prese le distanze sia dalle teorie del “montaggio sovrano” elaborate dai sovietici, in particolare Ejzenštejn e Pudovkin (vedi 5.5.4), sia dal découpage classico del cinema hollywoodiano (vedi 10.2 e 10.3). Bazin prefigurò un tipo di cinema integralmente realista, attraverso un metodo di analisi basato su un intervento attivo che non si limita alla parafrasi e alla ripetizione di ciò che nel film è evidente. A partire da un “realismo tecnico” reso possibile dal mezzo di riproduzione meccanica e da un “realismo psicologico” che consente il rispetto delle condizioni quotidiane della percezione delle cose, degli oggetti, della vita, il cinema porta a compimento un “realismo estetico” che nella formulazione del grande critico si distacca dalle concezioni correnti di realismo, quali erano state elaborate nell’ambito del cinema sovietico, del “realismo poetico” francese e, anche, di buona parte del neorealismo italiano (De Vincenti 1993: 25-50; Bertoncini 2009: 25-53). Ontologia e linguaggio è il titolo del primo tomo della sua opera, pubblicata postuma, Qu’est-ce que le cinéma? (195862; trad. it. parziale in Bazin 1999), il cui motivo conduttore è la necessità di coniugare realismo ontologico, cioè “capacità riproduttiva come essenza tecnica del cinema”, e consapevolezza del cinema come linguaggio (De Vincenti 1993: 41). Restituendoci la dimensione visiva di un evento senza ricorrere alla manipolazione e all’interpretazione di un soggetto (in quanto la riproduzione è appunto meccanica), il cinema ce ne può rivelare l’essenza. Per questo motivo, il cineasta deve rispettare la continuità e la durata reale dell’evento

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drammatico rappresentato, senza interruzioni e interpolazioni di montaggio. Ne consegue una norma così enunciata nel testo Montaggio proibito: “Quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito” (Bazin 1999: 72). Questa norma nasce dalla necessità di rispettare, più che l’oggettività dell’evento rappresentato, la soggettività dello spettatore e l’ambiguità di ogni situazione. Il montaggio, in quanto riduzione del punto di vista a quello di chi opera i “tagli”, viene interpretato come un procedimento che predetermina e “chiude” il senso della sequenza. Bazin chiama questo tipo di ripresa in continuità piano-sequenza (planséquence). Secondo Bazin il piano-sequenza avrebbe la proprietà di permettere allo spettatore un percorso di lettura più libero, autonomo. Ci sono evidentemente delle forzature in tale teoria. L’uso del piano-sequenza non abolisce il montaggio (che si ricostituisce come montaggio interno al piano o montaggio in continuità, come riconobbe lo stesso Bazin) né porta miracolosamente a un grado zero la scrittura filmica. Anzi, in autori come Godard, Straub & Huillet, Philippe Garrel, Miklós Jancsó e Andrej Tarkovskij, il ricorso a tale procedimento di ripresa diventerà esibizione di stile, dichiarazione di poetica, esplicitazione di una visione del mondo (e del cinema). E tuttavia c’è in queste idee di Bazin un intento, ricco di implicazioni e di sviluppi futuri, di adeguare il cinema alle tendenze dell’estetica contemporanea che affida al destinatario del messaggio estetico un ruolo attivo e che concepisce il testo come una struttura aperta nella quale la funzione dei procedimenti tecnicoformali è di moltiplicare i percorsi di lettura e rendere ambiguo (cioè non rigidamente prefissato) il senso.

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7.2 Il nuovo cinema degli anni sessanta È possibile individuare una serie di caratteristiche comuni che – al di là delle notevoli differenze di culture nazionali, di tradizioni cinematografiche, di situazioni politiche – possano restituirci un’immagine unitaria del rinnovamento che, sulla scia o a lato dell’esperienza della Nouvelle Vague, investì il cinema negli anni sessanta? Lino Miccichè, che negli anni sessanta ha ideato e diretto un festival interamente dedicato alla conoscenza e alla diffusione del nuovo cinema (Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro), ha sintetizzato nei seguenti quattro punti le innovazioni di questo movimento che, sia pure in gradi diversi, interessò l’istituzione cinematografica in tutto il mondo: a) Struttura narrativa: è abbandonato l’intreccio romanzesco tradizionale e la costruzione del personaggio a tutto tondo e sono adottate soluzioni più affini alle nuove tendenze letterarie (anche se non sempre o non necessariamente a esse ispirate). b) Linguaggio filmico: abbandono delle forme sintattiche ed espressive tese a occultare il procedimento di messa in scena e adozione di tecniche di ripresa, di recitazione e di montaggio di tipo “antinaturalistico” e comunque finalizzate a evidenziare la soggettività dell’autore. c) Ideologia: alla messa in evidenza di un messaggio ideologico univoco e diretto, affidato per lo più a un eroe positivo (come in passato nel cosiddetto “realismo socialista”, in taluni momenti del neorealismo italiano e del realismo francese), si sono andate sostituendo forme più sfumate e indirette, basate su procedimenti metaforici o allegorici. d) Strutture produttive: si manifesta ovunque una esigenza di mutamento, anche se in forme assai dissimili; si può variare dai progetti di un circuito di distribuzione radical-

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mente alternativo come quello prefigurato negli Stati Uniti da Jonas Mekas e dai film-makers del New American Cinema Group, alle proposte “riformistiche” dei cineasti dei paesi dell’Est socialista che lottavano per conquistare un minimo di controllo sull’apparato produttivo e distributivo (Miccichè 1972: 12-16). Accanto a questi tratti distintivi che permettono di accomunare esperienze nate e sviluppatesi in contesti diversi e lontani tra loro, bisogna ricordare la formazione e la rapida maturazione di un nuovo tipo di pubblico che assegna al cinema un ruolo diverso da quello tradizionalmente svolto, un pubblico più maturo e preparato sia sul versante politico-culturale sia su quello della conoscenza del cinema e del suo linguaggio. Nel nuovo cinema degli anni sessanta convergono quindi alcune istanze che mettono in discussione tanto i modi di produzione (organizzazione industriale basata sul primato della produzione, del sistema degli studi sia nella versione hollywoodiana che in quella europea), quanto i modi di rappresentazione del cinema classico, caratterizzato dal primato della narrazione e dall’ideologia della trasparenza (Burch 2001; vedi anche 5.3). A volte queste nuove istanze cercavano una mediazione con il cinema classico, altre volte la contrapposizione era radicale, in tutti i casi è decisivo il riferimento alle istanze del cinema moderno (De Vincenti 1993). 7.2.1 La Nouvelle Vague Ogni buon film – diceva Truffaut – deve saper esprimere insieme una concezione della vita e una concezione del cinema. La Nouvelle Vague francese non rappresentò solo l’esordio di una nuova generazione di cineasti decisi a esprimere le proprie inquietudini e il proprio malessere.

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Fu anche – e forse soprattutto – l’affermazione di un nuovo tipo di cineasta per il quale la presa di coscienza critica del mezzo espressivo usato e la riflessione sulla sua natura sono importanti quanto una scelta morale. Noi siamo i primi cineasti – diceva orgogliosamente Godard agli inizi degli anni sessanta – a sapere che Griffith esiste. Una nuova coscienza del linguaggio cinematografico – tema che è fatto proprio dalla ricerca critico-teorica nel decennio che vede anche la nascita della semiologia del cinema (vedi 2.2) – accompagna e alimenta buona parte della produzione dei registi della nuova ondata. Ciò è particolarmente evidente nel cinema di Godard. I temi trattati nei suoi primi film possono essere i più disparati: ritratti di “ribelli senza causa” in Fino all’ultimo respiro (1960) e Il bandito delle ore 11 (1965); la guerra d’Algeria in Le petit soldat (1960) e la guerra in genere in Les carabiniers (1963); i problemi della donna, della coppia, la prostituzione in La donna è donna (1961), Questa è la mia vita (1962), Una donna sposata (1964), Due o tre cose che so di lei (1966). E tuttavia, al di là degli aspetti narrativi e sociologici, ognuno di questi film è anche un saggio sulle immagini e sul cinema, sul rapporto tra il regista e le storie che racconta, tra l’attore e il personaggio che interpreta; sul rapporto tra le parole e le immagini; sul ruolo dei vari mezzi di comunicazione (la parola, il cinema, la pubblicità, i giornali) nel plasmare e definire l’orizzonte delle nostre esperienze. Le tecniche di recitazione e di ripresa basate sull’improvvisazione (reale o simulata, poco importa); le tecniche di montaggio poco rispettose o addirittura noncuranti delle regole classiche che garantivano raccordi fluidi e “invisibili”; le tecniche di missaggio, cioè la combinazione delle varie componenti della colonna sonora (dialoghi, rumori):

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tutti gli aspetti tecnici ed espressivi del cinema di Godard tendono a una destrutturazione della continuità filmica e una scompaginazione del flusso narrativo. Da questa poetica della dissonanza, che lo imporrà come il più innovativo dei registi della sua generazione, Godard, approfondendo ed esasperando procedimenti ispirati alle tecniche di straniamento introdotte dal commediografo tedesco Bertolt Brecht, approderà dopo il 1968 a una stretta osservanza marxista-leninista che spesso si tradusse in una negazione del cinema proclamata attraverso il cinema stesso. Più fedele alla tradizionale vocazione narrativa del cinema è l’opera di Truffaut che non può tuttavia essere definito un narratore tradizionale. Truffaut può trovare ispirazione nella sua esperienza autobiografica come nel cosiddetto “ciclo di Antoine Doinel”, iniziato con I quattrocento colpi (1959) e concluso con L’amore fugge (1979), oppure in opere letterarie come in Jules e Jim (1961), Le due inglesi (1971), La camera verde (1978), o rivisitare generi tradizionali del cinema americano o francese come in Tirate sul pianista (1960), La sposa in nero (1967) o Finalmente domenica (1983): in tutti i casi, nelle sue storie, i temi ricorrenti sono le inquietudini dell’adolescenza e la difficoltà degli esseri a dare una forma compiuta al proprio bisogno di amare e di comunicare con gli altri. Spesso i racconti di Truffaut, tratteggiati sempre con grande eleganza e senso della misura, ripropongono il dissidio tra l’arte e la vita, tra la compiuta armonia dell’opera, del testo, dello spettacolo, e l’incertezza, la disarmonia dell’esistenza: questo è il tema centrale di Effetto notte (1973), il più bel film mai girato sul cinema e sulla realizzazione di un film. Ma continui riferimenti o allusioni a questo tema e, in genere, a momenti, miti, stili e situazioni del cinema precedente costellano tutta l’opera di Truffaut.

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Il momento di più stretto contatto tra cinema e nuove tecniche di narrativa letteraria è rappresentato dai film di Alain Resnais. Con Hiroshima, mon amour (1959), scritto da Marguerite Duras, e L’anno scorso a Marienbad (1961), sceneggiato da Alain Robbe-Grillet, Muriel (1963) e La guerra è finita (1966), Resnais ha sviluppato una vasta indagine sull’interiorità, il tempo e la memoria, unendo sempre un eccezionale impegno sul piano dello stile e della ricerca formale a una intensa partecipazione alle problematiche contemporanee. Accanto agli autori sopra citati, l’esperienza della Nouvelle Vague ha portato all’affermazione di altri nuovi registi come Claude Chabrol e Louis Malle, Jacques Rivette e Eric Rohmer, tutti autori che hanno continuato a dare prove di alto livello e di grande interesse anche nei decenni successivi: basti ricordare tra questi Rohmer che, rimanendo fedele a una sua idea estremamente rigorosa di cinema, è riuscito a raggiungere un pubblico più numeroso con film come La femme de l’aviateur (1980), Il bel matrimonio (1982) e Le notti di luna piena (1984), Il raggio verde (1986), Racconto d’autunno (1998). Anche se molto presto si sono dissolti i legami ed è venuta meno la situazione che aveva fatto parlare di gruppo o di scuola, il merito indiscusso della Nouvelle Vague è stato quello di funzionare da detonatore e di favorire la nascita o per lo meno il riconoscimento di movimenti di rinnovamento del cinema alle diverse latitudini del mondo. Di alcuni dei protagonisti della Nouvelle Vague sono da ricordare anche le opere di critica. Tra queste si possono segnalare quelle capaci di fornire ancor oggi stimoli per chi voglia accostarsi al cinema con uno spirito analogo ai giovani di allora: Rohmer e Chabrol hanno scritto assieme Hitchcock (1957) un libro che si continua ancor oggi

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a ristampare in tutto il mondo (Rohmer-Chabrol 2010); a Hitchcock è dedicato il libro-intervista di Truffaut (2009), considerato da molti uno dei migliori libri mai scritti sul cinema. Di Godard, oltre alla raccolta dei suoi scritti critici (2007), vorrei ricordare le Histoire(s) du cinéma, un film che ha avuto anche un’edizione in volume (1999) e un’edizione italiana in DVD con annesso quaderno introduttivo (2010). 7.2.2 Il New American Cinema Group e le esperienze underground La fondazione a New York nel 1960 del New American Cinema Group, cui farà seguito di lì a poco la costituzione della New York Film Makers Cooperative (1962), sono le due tappe che sanciscono la formazione di un movimento di avanguardia cinematografica negli Stati Uniti e coronano quasi un trentennio di tentativi di cinema sperimentale, nel cui ambito un ruolo centrale aveva avuto Maya Deren, che con Mashes of the Afternoon (1943) aveva tentato di sviluppare un cinema di ricerca fortemente influenzato dalle esperienze dell’avanguardia europea (Bertetto 1992). L’idea di un cinema personale, praticato al di fuori di ogni condizionamento, viene perseguita da questo gruppo di avanguardia che utilizza il formato ridotto (16 e 8 mm) e rifugge da ogni forma di distribuzione tradizionale. Tutto ciò che per motivi di mercato, di censura e di ideologia era stato ignorato da Hollywood diventa oggetto di questo cinema che assumerà ben presto l’etichetta di cinema underground, cioè la stessa dei vari movimenti artistici, letterari e musicali che costituirono la variopinta costellazione delle avanguardie degli anni sessanta. Pur essendo impossibile trovare tra i film-makers (come si autodefinirono) del New American Cinema una linea

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unitaria, si può tuttavia individuare una comune volontà di usare il cinema con la stessa libertà e autonomia di altre forme di espressione: di qui i riferimenti all’esperienza poetica in Stan Brackhage (Dog Star Man, 1965) e in Gregory Markopoulos (Twice a Man, 1963), a quella teatrale in Shirley Clarke (The Connection, 1961) e in Jonas Mekas (The Brig, 1964); gli ultimi due film citati documentano performances del Living Theatre che fu il più importante gruppo teatrale di avanguardia operante negli anni sessanta. Il legame con la pittura d’avanguardia è garantito dalle esperienze cinematografiche del pittore Andy Warhol, uno dei più significativi rappresentanti della pop art. In un programma di negazione del cinema narrativo e delle sue leggi compositive, Warhol realizzò film in un’unica inquadratura fissa con un unico soggetto: Sleep (1964), ritrae per la durata di sei ore un uomo che dorme, mentre Empire (1965), ha per unico soggetto l’Empire State Building, il più celebre grattacielo di New York, ripreso lungo l’arco di otto ore. Il New American Cinema Group cercò di prefigurare, realizzare e far circolare un tipo di cinema tale da non lasciare margini di mediazione o compromessi con Hollywood. E tuttavia non va trascurata la frequenza con cui i miti di Hollywood e le più tipiche configurazioni dell’immaginario cinematografico ritornano nei film: allusioni o espliciti riferimenti al cinema hollywoodiano classico si trovano in Flaming Creatures (1963) di Jack Smith, in Scorpio Rising (1963) e Inauguration of Pleasure Dome (1966) di Kenneth Anger, per non parlare della pittura e del cinema di Warhol (dalle serigrafie dedicate a Marilyn Monroe a film come Lonesome Cowboys, 1968). Naturalmente si tratta di rivisitazioni della mitologia hollywoodiana di tipo ironico o dissacratorio, che tuttavia riconoscono implicita-

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mente a Hollywood un ruolo essenziale nella produzione della mitologia contemporanea (Sklar 1982: 352). Come in altri paesi, uno dei momenti di maggior interesse di queste esperienze alternative è rappresentato dal cinema documentario, che andava prendendo nomi come “cinema verità”, “cinema diretto”, “candid camera”. Si tratta di esperienze che, oltre all’intrinseco interesse che presentano (vedi 7.2.3), hanno preparato il rinnovamento del cinema narrativo. Tale è stato il caso del Free Cinema in Gran Bretagna, dove una nuova generazione di registi (Karel Reisz, John Schlesinger, Tony Richardson ecc.) iniziò facendo le prime prove in campo documentario. Negli Stati Uniti il film di maggior spicco in quest’area che sta tra documentario e finzione è probabilmente Ombre (1959-60) di John Cassavetes che è comunque il rifacimento “recitato” di una precedente versione, fino a poco tempo fa ritenuta perduta, e basata su improvvisazioni. 7.2.3 Miti e realtà del cinema diretto Una spinta importante al rinnovamento dei modi di rappresentazione e produzione che caratterizza gli anni sessanta viene dal “cinema diretto” o “cinema verità”. La diffusione delle attrezzature leggere (cinepresa a 16 mm e registratore per la presa sincrona del suono) e il ricorso a moduli espressivi mutuati dal reportage televisivo o basati sull’improvvisazione danno un nuovo impulso al cinema documentario di carattere etnologico e sociologico. Fuorvianti possono essere i richiami a precedenti esperienze: i francesi adottarono la formula “cinema verità” con un riferimento non del tutto pertinente al sovietico Dziga Vertov, mentre i canadesi si riferirono alle esperienze britanniche e al grande documentarista John Grierson che fu

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il fondatore del National Film Board, l’organismo che diede un grande impulso alla ricerca e sperimentazione in questo campo. Gilles Marsolais, docente a Montréal e profondo conoscitore di tutta l’esperienza del cinema diretto del Québec, ha fissato nei seguenti punti la tecnica e lo spirito di questo tipo di cinema: a) ripresa in sincrono di immagini e suono; b) impiego di apparecchi maneggevoli e perfezionati, tali da consentire la ripresa in qualsiasi condizione; c) attori non professionisti che si limitano a interpretare se stessi; d) ricorso all’improvvisazione e relativo rifiuto delle tecniche di studio; e) ruolo attivo della cinepresa che cerca di stabilire un contatto diretto e immediato con il reale; f) registrazione delle parole nel momento stesso dell’azione; g) assunzione da parte del cineasta di tutte le conseguenze, anche etiche oltre che estetiche, di tali tecniche. (Marsolais 1974: 335)

I centri di sviluppo e di diffusione del cinema diretto furono il Canada (Terrence McCartney Filgate, Wolf Koenig, Roman Kroitor, Michel Brault, Pierre Perrault), gli Stati Uniti (Robert Drew, Richard Leacock, Albert Maysles, Donn Alan Pennebaker, Shirley Clarke, Robert Kramer, John Cassavetes) e la Francia dove l’esponente più famoso fu Jean Rouch, un etnologo che ha fatto della cinepresa uno strumento di ricerca. In ambito canadese, si può ricordare la serie “Candid Eye” (quindici mediometraggi per la televisione) che ci appare oggi piuttosto… ingenua. L’occhio della cinepresa non è mai candido, ingenuo, semmai perverso: esso si fa strumento di quella perversione accettata e condivisa (come la

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definisce Metz 1980) che è il voyeurismo cinematografico, cioè il piacere di vedere senza essere visti. Uno degli sviluppi più interessanti di questa esperienza è rappresentato dal film Lonely Boy (1961-62), che Koenig e Kroitor hanno dedicato al cantante Paul Anka e ai suoi concerti. Qui la tecnica delle riprese a distanza, con l’uso del teleobiettivo, per registrare di sorpresa comportamenti e reazioni del pubblico acquista un valore di analisi sociologica, oltre che di curiosità. Questo film può essere considerato il precursore di più famosi documentari dedicati a concerti rock, a partire da Monterey Pop (1969) di Pennebaker e Woodstock (1970) di Michael Wadleigh. In questi film l’analisi sociologica e la registrazione di un fenomeno divistico e di un rituale collettivo si traducono di fatto in una dilatazione e in un prolungamento dell’effetto spettacolare dovuti alle proprietà del medium impiegato (televisione e cinema). Una funzione assai diversa è attribuita alla cinepresa nella serie di film di Brault e Perrault dedicati agli abitanti dell’Ileaux-Coudres: Pour la suite du mond (1963), Le règne du jour (1967) e Les voitures d’eau (1969). Nel primo di questi film, la comunità degli abitanti dell’isola accetta di ridar vita, sotto lo sguardo della cinepresa, a un’attività abbandonata da tempo: la pesca del marsuino bianco. In questo caso i cineasti non fingono di riprendere non visti un evento, né i “protagonisti” fingono di non sapere di essere ripresi. Sono i cineasti a provocare la produzione di un evento e i protagonisti lo predispongono e lo realizzano perché sia ripreso. I vecchi e i giovani dell’isola assumono coscientemente il ruolo di attori, di protagonisti del recupero di una pratica desueta. Vivono un evento non fingendo che sia abituale, ma con la piena coscienza di attuare una messa in scena. Esperienze di questo tipo nascono dalla constatazione che ogni documentario classico, da Nanuk l’eschimese

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(1922) di Flaherty a Drifters (1929) di Grierson, è un film “recitato”, non solo per quel tanto di “messa in scena” del profilmico che qualsiasi ripresa, anche la più apparentemente casuale, comporta, ma soprattutto per il ruolo di attore che il soggetto ripreso, consciamente o meno, assume. Anziché simulare un evento attraverso l’occultamento della sua messa in scena, sono la stessa messa in scena di un evento e la sua ripresa che diventano il soggetto del film. In tal modo alla cinepresa e all’insieme degli atti relativi alla riproduzione visiva e sonora viene attribuito un ruolo attivo, maieutico. Un procedimento analogo, che si fonda sulla coscienza dell’impossibilità di tener distinti “documentario” e “finzione”, sta alla base della vasta produzione dell’etnologo e cineasta Jean Rouch, che con il sociologo Edgar Morin realizza Cronaca di un’estate (1960). Qui la presenza della cinepresa e dell’“osservatore” ha la funzione di suscitare reazioni e di facilitare il processo di liberazione dell’interiorità e dei ricordi degli intervistati chiamati a parlare delle proprie esperienze. È indubbio che esiste una relazione tra le tecniche del diretto e le innovazioni stilistiche del nuovo cinema degli anni sessanta. Ma è altrettanto indubbio che attorno a tali esperienze, spesso più citate che conosciute a fondo, si sono costruite ingenue mitologie di riproduzione diretta della realtà, di spontaneità creativa che conobbero una grande diffusione nell’ambito delle lotte studentesche e operaie del 1968 e degli anni immediatamente successivi. 7.2.4 Poetiche delle Nouvelles Vagues La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, in occasione del trentennale della Nouvelle Vague, ha pubblicato un volume che raccoglieva dichiarazioni e intervi-

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ste di protagonisti del nuovo cinema degli anni sessanta e che suggeriva esplicitamente l’idea di un passaggio di testimone, dalla Nouvelle Vague alle Nouvelles Vagues (Aprà 1989). È significativo che in questa antologia, gli autori del cinema del disgelo dei paesi dell’Est europeo (URSS, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia) figurino accanto a Fernando Solanas e Octavio Getino, registi argentini autori di La hora de los hornos e del manifesto del “Terzo Cinema”, e a Glauber Rocha, la figura di maggior spicco del Cinema Nôvo brasiliano; e inoltre, che documenti sul New American Cinema Group stiano accanto a dichiarazioni e interviste sul cinema indipendente giapponese e indiano. In diversi paesi le istanze della lotta politica e le forme del cinema moderno si incontrarono con risultati significativi. Posizioni politiche della sinistra radicale trovarono espressione anche nel cinema commerciale, preoccupato di intercettare il pubblico giovanile politicizzato e sensibile al rinnovamento estetico portato dalle arti visive, dalla musica e dal cinema stesso. Per dare un’idea dei mutamenti in atto, ci soffermeremo brevemente sui due fenomeni più innovativi sul piano cinematografico, il cinema del disgelo dei paesi dell’Est europeo e il Cinema Nôvo brasiliano. Un’ondata di rinnovamento interessò i paesi socialisti, dove il cinema, pur non conoscendo i condizionamenti del mercato ed essendo quindi meno vincolato che in Occidente alle esigenze del profitto, subiva ben altre restrizioni dovute allo strapotere dell’apparato politico-burocratico. Già negli anni cinquanta, dopo la morte di Stalin (1953) e il XX congresso del PCUS (1956), nel corso del quale si erano per la prima volta denunciate ufficialmente le “deviazioni” staliniane, si era cominciato a parlare di un cinema del “disgelo”. Qui ci interessa mettere in evidenza quei tentativi di rinnovare tematiche e linguaggio che si distaccava-

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no dalle forme del cinema celebrativo e propagandistico e affrontavano problematiche più attuali. Anche nell’URSS e nei paesi satelliti si affermarono negli anni sessanta nuovi autori che furono seguiti con grande interesse in Occidente, sia perché confermavano la validità del primato dell’autore proclamato dalla Nouvelle Vague, sia per la novità delle tematiche e, in alcuni casi, anche delle ricerche espressive. Tra gli esordienti il più interessante è Andrej Tarkovskij, che si segnalò dapprima alla Mostra di Venezia dove ottenne il Leone d’oro con L’infanzia di Ivan (1962) e, poi, al Festival di Cannes del 1968 con Rublëv (presentato in una versione incompleta, per quanto fosse stato già concluso nel 1966). L’opera di Tarkovskij, che a partire da Nostalghia (1980) si svilupperà fuori dei confini dell’URSS, non si basa solo su un singolare percorso spirituale e umano, ma è caratterizzata da un’elevata coscienza dei rapporti tra cinema e altre arti, tra cultura russa e orientale, da una parte, e cultura occidentale, tra visione mistico-religiosa del mondo e visione laica; e presenta in modo originale alcuni dei tratti del cinema della modernità soprattutto per quanto riguarda il livello di consapevolezza che la sorregge. Basterebbe ricordare il ruolo delle riprese in continuità (piano-sequenza) attraverso le quali prende forma nel cinema di Tarkovskij un’idea di tempo e di durata che si stacca radicalmente dalla concezione classica del montaggio, sia quella del cinema narrativo che quella ejzenstejniana (Tarkovskij 1988: 106-116). In Polonia, dove tra la fine degli anni cinquanta e i primi sessanta, Andrzej Wajda, Andrzej Munk, Jerzy Kawalerowicz avevano tentato di affrontare tematiche contemporanee in termini anticonformisti, incontrando però dure critiche dell’apparato, ci furono i clamorosi esordi di Ro-

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man Polanski e Jerzy Skolimowski: il primo con Il coltello nell’acqua (1962), che era stato preceduto da tre brevi film sperimentali (Due uomini e un armadio, Quando gli angeli cadono e Il grasso e il magro) impostati su un registro grottesco e surrealista; il secondo con Segni particolari: nessuno (1964), primo capitolo di una sorta di trilogia a sfondo autobiografico che sarebbe proseguita con Walkover (1965) e Bariera (1966). Anche per la Cecoslovacchia si parlò di una Nouvelle Vague (nová vlna) a proposito di autori come Milos Forman (L’asso di picche, 1963; Gli amori di una bionda, 1965) e Evald Schorm (Il coraggio quotidiano, 1964). Il processo di rinnovamento del cinema di Praga, testimoniato anche dalle ricerche di avanguardia di Vera Chytilová e Jan Nemec, ebbe la sua brusca interruzione con l’intervento armato delle truppe del patto di Varsavia che pose fine alla politica riformistica di Dubþek (1968). Anche il cinema ungherese dimostrò nel corso degli anni sessanta una grande vitalità con le opere di nuovi registi come István Gaál (Anni verdi, 1965; I falchi, 1970) Imre Gyöngyössy (La domenica delle palme, 1969), István Szabó (Il padre, 1966; Via dei pompieri 25, 1973), ma tra questi fu sicuramente Miklós Jancsó che, con I disperati di Sandor (1964), L’armata a cavallo (1967) e Silenzio e grido (1968), si impose con maggior clamore per l’originalità del suo stile basato su una singolare e complessa orchestrazione dei movimenti della macchina da presa e di quelli dei personaggi che disegnano astratte coreografie negli spazi vasti della scena (vedi 10.3). Le affermazioni internazionali di autori come quelli citati hanno portato a una maggiore conoscenza delle cinematografie nazionali di appartenenza. In tal modo espressioni originali del linguaggio cinematografico, partecipanti

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a un clima di rinnovamento in atto a livello internazionale, diventarono lo strumento di conoscenza e di rappresentazione di aspetti profondamente radicati in culture e tradizioni nazionali o di peculiari situazioni storico-politiche. Va comunque notato che i più significativi e dotati autori dei paesi dell’Est europeo (Polanski, Forman, Skolimowski, Szabó, Tarkovskij) emigrarono prima o poi in Occidente, dove conobbero affermazioni internazionali, perdendo quasi sempre i caratteri originari della loro ricerca, con l’unica eccezione, forse, di Tarkovskij. Fenomeni come quelli osservati nei paesi dell’Est europeo si verificarono anche in altre cinematografie come quelle dell’America Latina o del Sudest asiatico. Il caso più noto fu quello del Cinema Nôvo brasiliano che ebbe in Glauber Rocha il suo più valido rappresentante. In film come Il dio nero e il diavolo biondo (1964), Terra in trance (1967) e Antonio das Mortes (1969), l’adozione di modelli espressivi dell’avanguardia cinematografica internazionale convive con un forte impegno di conoscenza e interpretazione dei caratteri originali della cultura brasiliana (tropicalismo, “cannibalismo”) e delle contraddizioni della situazione politica e sociale. 7.2.5 Italia anni sessanta In che modo il cinema italiano, che con l’esperienza neorealista aveva sui tempi lunghi influenzato l’insorgenza del nuovo cinema, partecipa alla stagione del cinema moderno? Il neorealismo come movimento o piuttosto come stagione irripetibile del nostro cinema e della nostra storia lascia il posto ad autori che a quell’esperienza, a torto o a ragione, continueranno a richiamarsi, magari per andare oltre, e a generi che in vario modo ne furono la continuazione.

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Gli autori che avevano legato il loro nome al neorealismo o che nel nome del neorealismo avevano esordito o si erano riciclati, proseguono le loro carriere che vanno quindi giudicate “al singolare”. Raramente la crisi del neorealismo comporta crisi di questi autori che dimostrano risorse creative e produttive che vanno oltre le tematiche di quella stagione (è il caso di Visconti); o che riescono a gestire con dignitosa professionalità quella impegnativa eredità (è il caso di De Sica). Solo in Rossellini si andrà manifestando negli anni sessanta una crisi profonda che investirà le ragioni stesse del fare cinema e che determinerà una sempre più precisa attenzione al mezzo televisivo e a una funzione didattica dei linguaggi audiovisivi. Autori come Antonioni e Fellini, che pur avendo esordito in ambito neorealista avevano mostrato una chiara tendenza al suo superamento, aprono alla fine degli anni cinquanta, rispettivamente con L’avventura (1960) e con La dolce vita (1960), la stagione della loro maturità approfondendo tematiche legate soprattutto alla soggettività dei personaggi e affermando propri inconfondibili caratteri stilistici. Quanto al cinema di genere, la commedia di costume (o all’italiana) ha saputo seguire l’evoluzione della società italiana nel passaggio dal dopoguerra al miracolo economico, raccogliendo (come abbiamo già osservato in 6.4) l’eredità del neorealismo. Il suo punto di forza, oltre all’indubbia capacità di ripercorrere le fasi salienti della storia recente, sta nella presa diretta sulla realtà contemporanea. Soprattutto negli anni del cosiddetto boom economico (primi anni sessanta), la commedia ci offre un quadro disincantato delle rapide trasformazioni delle condizioni di vita degli italiani, sottolineando le componenti di cinismo e di disinvoltura morale che caratterizzano la tumultuosa corsa al benessere economico. Pur all’interno di un modello interpretativo

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in cui il moralismo risentito convive sempre con una sorta di epico compiacimento, la commedia è riuscita a restituire tensioni, contraddizioni e velleità di un paese in rapida trasformazione. Accanto ad autentici capolavori, primo fra tutti Il sorpasso (1962) di Dino Risi con Vittorio Gassman in una delle sue più celebri interpretazioni, la commedia all’italiana è riuscita a elaborare una tipologia di maschere, situazioni e moduli espressivi che lungo tutti gli anni sessanta e per buona parte dei settanta ha consentito di rappresentare puntualmente le trasformazioni del paese, mostrandone sia i difetti, sia la vitalità. Questa premessa era indispensabile per chiarire le ragioni per cui in Italia, in campo cinematografico, non ci sarà negli anni sessanta una rivolta contro i padri neorealisti. Non c’è nel cinema una revisione critica di quella esperienza né una netta frattura con la tradizione paragonabile a quella promossa in campo letterario dall’avanguardia del Gruppo 63 (neoavanguardia che, peraltro, non avrà rapporti di rilievo con il cinema); né le esperienze underground riescono a diventare un movimento che entri in rapporto dialettico con l’istituzione cinematografica, a eccezione di Carmelo Bene che è un caso isolato e per il quale il cinema è una breve parentesi. Quanto alle esperienze, reali o solamente vagheggiate, di cinema “militante” durante il Sessantotto e nei suoi prolungamenti, se c’è stata polemica con il neorealismo, essa si è sviluppata in una direzione di settarismo tale da far riemergere i più cupi fantasmi ideologici degli anni cinquanta. Sono numerosi, e spesso eccellenti, gli autori che esordiscono negli anni sessanta: Ermanno Olmi, Elio Petri, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini, Marco Ferreri, Marco Bellocchio. Ma in nessuno si avverte una frattura netta con la tradizione neorealista. Sono riscontrabili in varia misura, ma senza ac-

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quistare mai proporzioni di movimento, quei tratti distintivi del nuovo cinema degli anni sessanta quali abbiamo definito in 7.2: una politica produttiva a bassi costi, e tale da favorire esordi di nuovi autori, viene tentata nei primi anni sessanta, ma mancano i presupposti per la nascita di un’esperienza analoga alla Nouvelle Vague francese. L’abbandono del messaggio ideologico univoco non sempre si accompagna alla capacità di affrontare con strumenti adeguati i mutamenti economici e sociali, e non impedisce riproposte, sia pure aggiornate, di miti e ideologie neorealiste. Sul piano della narrazione e del linguaggio si registrano tentativi di aggiornamento, cui mancano tuttavia elementi di tensione teorica o stilistica paragonabili a quelli presenti in altri paesi o in altre aree espressive (vedi Miccichè 1975a). Pasolini è l’unico che si dimostri capace di collegare produzione creativa e riflessione teorica (con aggiornamenti alla linguistica, alla semiologia e alle teorie del cinema moderno): egli presenta, a metà degli anni sessanta e proprio nell’ambito della già citata Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, la sua proposta di un “cinema di poesia” a partire dalle esperienze di registi diversi come Antonioni, Godard e Bertolucci, ma avendo presenti anche le esperienze di Rocha, Jancsó o Olmi. Le teorizzazioni di Pasolini rappresentano un tentativo, fortemente ancorato alla propria personalissima vicenda creativa e intellettuale, di rielaborazione della “teoria dell’autore” e della nuova coscienza critica del linguaggio cinematografico che caratterizzano l’avventura del cinema moderno (AA.VV. 1989; Pasolini 1991: 171-191). 7.2.6 Il nuovo cinema tedesco Concludiamo questo rapido panorama del nuovo cinema e delle Nouvelles Vagues con il cinema tedesco oc-

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cidentale, che nasce negli anni sessanta come Junger Deutscher Film (Giovane cinema tedesco) e si afferma nel decennio successivo come Neuer Deutscher Film (Nuovo cinema tedesco): esso presenta alcuni di quei tratti della transizione dal cinema moderno al cinema postmoderno che esamineremo nel prossimo capitolo. Il movimento ha origine negli anni sessanta con il “Manifesto di Oberhausen” (1962), con la costituzione del Kuratorium junger deutscher Film (1965) e con l’affermazione di nuovi autori come Alexander Kluge (La ragazza senza storia, 1966, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, 1968), Volker Schlöndorff (I turbamenti del giovane Törless, 1966), Edgar Reitz (Mahlzeiten, 1967). Tuttavia il fenomeno del nuovo cinema tedesco esplode negli anni settanta e presenta alcune caratteristiche peculiari rispetto a quelle del “nuovo cinema” degli anni sessanta. Il primo aspetto riguarda la base economico-politica del nuovo cinema tedesco che emerge con tutta chiarezza negli anni settanta. Si tratta prima di tutto di un cinema che, a differenza di quello americano e analogamente a quello dei principali paesi europei, vive in un regime protezionistico basato su finanziamenti statali e, soprattutto, di enti televisivi. Questa situazione della struttura della produzione ha sicuramente reso possibile una politica di nuovi esordi, che ha creato le condizioni per lo sviluppo di una cinematografia tedesca capace di imporsi sul piano internazionale e modellata a grandi linee sulla “politica degli autori” introdotta dalla Nouvelle Vague francese. La mappa del nuovo cinema tedesco degli anni settanta comprende varie aree di espressione cinematografica, per così dire, specializzata e settorializzata: a) l’Heimatfilm che possiamo definire un tipo di cinema regionalistico sia a livello linguistico, sia tematico;

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b) l’Arbeiter-film nel quale convergono le istanze sociali successive al ’68 e la tradizione del cinema proletario della Repubblica di Weimar; c) il cinema “al femminile” con un gruppo nutrito di autrici (Helma Sanders, Margarethe von Trotta, Ulrike Ottinger, Jutta Brückner); d) il film-saggio, ovvero una “scrittura filmica” praticata come prolungamento di un’attività saggistico-letteraria: è questo il caso di Kluge che in questo genere si è impegnato con coerenza e con risultati spesso di grande interesse; e) adattamenti di opere letterarie classiche o contemporanee che costituiscono il settore più ricco del cinema tedesco a causa della struttura del finanziamento televisivo e statale che privilegia finalità di divulgazione culturale. È in questo settore che è avvenuta gran parte di quella sperimentazione che ha portato all’affermazione di Rainer W. Fassbinder, tra i cui adattamenti letterari si possono ricordare Effi Briest (1974), tratto da Fontane, e Berlin Alexanderplatz (1980) da Döblin; di Wim Wenders che, con Peter Handke come sceneggiatore, ha realizzato una versione in chiave moderna di Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato di Goethe (Falso movimento, 1974); di Volker Schlöndorff con I turbamenti del giovane Törless (1966) tratto da Musil e Il tamburo di latta (1979) da Günter Grass. In questa varietà di tendenze e motivi è possibile individuare il modo d’essere del cinema nell’epoca della sua “de-istituzionalizzazione” e della sua convivenza con l’istituzione televisiva o il suo inglobamento in essa (vedi 8.1). Tuttavia va registrato un aspetto che caratterizza in modo diverso le personalità di maggior spicco del nuovo cinema tedesco: vale a dire il rapporto in cui si collocano, rispetto alla tradizione e al cinema del passato, personalità diversissime tra loro come Fassbinder, Wenders, Syberberg e Kluge.

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In Wenders, il riferimento al cinema americano (di cui ha ripreso nella struttura e nei ritmi uno dei generi più tipici e più radicati nella sua tradizione culturale, il road movie) è un elemento costante e definisce i termini del suo elegante manierismo. In Fassbinder, anche se è difficile isolare un solo aspetto della sua filmografia eccezionalmente vasta, c’è un prevalente riferimento alla tradizione del melodramma cinematografico hollywoodiano e in particolare a quello di Douglas Sirk (vedi 6.3.2) del quale riprende il gusto per gli eccessi, per un materiale narrativo e drammaturgico sovrabbondante. Il remake di Nosferatu il vampiro (1922) di Murnau, realizzato da Herzog (Nosferatu, il principe della notte, 1978), costituisce un momento fondamentale di confronto con la tradizione del cinema tedesco che l’avvento del nazismo aveva disperso e alla quale il cinema del secondo dopoguerra non aveva saputo o potuto riallacciarsi. Nel suo complesso l’esperienza del nuovo cinema tedesco degli anni settanta ha offerto una tipologia sufficientemente ampia delle potenzialità di sviluppo del cinema europeo d’autore dopo l’esperienza del cinema moderno, e in regime protezionistico. PER SAPERNE DI PIÙ Sul cinema moderno e Bazin: De Vincenti 1993 e Bertoncini 2009. Sui Cahiers du Cinéma, la “politique des auteurs” e la nascita della Nouvelle Vague: Grignaffini 1984; de Baecque 1993; Marie 1998; Turigliatto 1995; Moscariello 2008. Sul cinema diretto: Marsolais 1974; per gli influssi in Italia: Bertozzi 2008. Sul nuovo cinema degli anni sessanta e le Nouvelles Vagues: Miccichè 1972; Aprà 1989; Pistagnesi 1991. Sul New American Cinema: Aprà 1986; Bertetto 1992. Sulla nová vlna cecoslovacca: Turigliatto 1994. Sul cinema nôvo brasiliano: Giusti-Melani 1995. Sul cinema italiano degli anni sessanta:

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Miccichè 1995. Sulla commedia all’italiana: Giacovelli 1990 e D’Amico 2008; per un approccio interpretativo originale sul piano dei rapporti tra teoria del genere (comico) e società: Grande 2003, tanto suggestivo quanto impegnativo. Sul nuovo cinema tedesco vedi Spagnoletti-Izzi 2009.

8. Dopo il cinema moderno

8.1 Che fine ha fatto il cinema moderno? Negli anni sessanta l’idea stessa di cinema moderno presupponeva una vitalità e uno sviluppo illimitati dell’istituzione cinematografica. Era stata la Nouvelle Vague francese a diffondere con la “politica degli autori” un’idea di cinema come koinè, come una sorta di lingua comune: lingua franca, transnazionale, e tuttavia parlabile con accenti locali. Jacques Rivette, uno dei protagonisti della Nouvelle Vague, aveva definito la mise en scène un valore assoluto, una “sintesi di personaggi e scene, una rete di rapporti, un’architettura di relazioni, mobile e come sospesa nello spazio” (de Baecque 1991, I: 158). E aveva proclamato che non il giapponese bisognava imparare, ma la messa in scena, vera lingua universale, per capire “il Mizoguchi” (Aprà 1980: 37): come a dire che gli autori, da Renoir a Rossellini, da Hawks a Hitchcock e a Mizoguchi, parlavano la stessa lingua, quella della “registrazione di corpi in relazione nello spazio” (de Baecque 1991, I: 158). E, come abbiamo già visto in 7.2.5, Pasolini, a metà degli anni sessanta, aveva individuato nel cinema di poesia (o più esattamente nella “lingua tecnica della poesia” nel cinema) l’elemento che accomunava registi come Godard, Antonioni e Bertolucci,

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il brasiliano Glauber Rocha, il cecoslovacco Milos Forman e, via via, tutti i rappresentanti del nuovo cinema (Pasolini 1991: 179). Ma la stessa “politica degli autori”, proprio per l’interesse che aveva riservato ad alcuni registi americani, presupponeva la possibilità di una mediazione tra modello hollywoodiano e altri modelli o, comunque, l’esistenza di un’istituzione cinematografica in pieno sviluppo ed espansione nel cui ambito fosse possibile tracciare percorsi alternativi, e anche antagonisti, senza negarla in quanto tale. In questo quadro ha preso avvio un nuovo cinema, che ha coinvolto cinematografie e situazioni politico-culturali anche profondamente diverse e lontane tra loro, in quella che è stata definita l’età delle Nouvelles Vagues. Purtroppo della politica degli autori si tende a vedere solo un aspetto, quello tutto sommato più ovvio, cioè l’autore; e si dimentica quello ben più complesso e ramificato, la politica appunto, che riguarda il rapporto tra differenti modi di produzione, differenti assetti dell’istituzione cinematografica. Tuttavia, assieme allo sviluppo delle più ardite e radicali ipotesi del cinema moderno, che trovano un terreno fertile nei rivolgimenti politico-culturali degli anni sessanta e poco oltre, bisogna prendere in considerazione un fatto nuovo ma che ha radici lontane: la crisi del cinema come istituzione, la sua decadenza e riconversione. A partire dalla seconda metà degli anni settanta si diffonde nella pubblicistica cinematografica la lugubre tematica della “morte del cinema”. In realtà il cinema, dopo aver conosciuto varie crisi congiunturali nel corso della sua storia, entra in una crisi che è strutturale, che riguarda cioè il suo assetto complessivo. Per avere un’immagine delle proporzioni della crisi e un’indicazione immediatamente verificabile circa le sue cause, basta confrontare il numero di biglietti venduti nell’anno di massimo sviluppo

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del consumo cinematografico in Italia (1955) con le cifre raggiunte a metà circa degli anni settanta. Dagli 819 milioni di biglietti venduti nel 1955, cioè quando la televisione era appena agli inizi, si passa ai 454 milioni del 1976, con una riduzione percentuale del 44,5 per cento. La discesa continua negli anni successivi: nel 1983 gli spettatori sono stati 162 milioni, per scendere a 86 milioni nel 1995, anno del centenario del cinema (un certo recupero c’è poi stato nel primo decennio del nuovo millennio, con valori medi attestantesi intorno ai 110 milioni, scesi però a 108 circa nel 2008 e nel 2009)1. Confrontando dati paralleli relativi ad altri paesi si ha un quadro ancor più catastrofico. Negli Stati Uniti, l’anno di maggior sviluppo (anticipato di circa dieci anni rispetto all’Italia, proprio perché la televisione era stata introdotta con notevole anticipo) è il 1946 e registra 4 miliardi e mezzo di spettatori. Qui, nel 1976 la cifra è scesa a 948 milioni, con una caduta del 78 per cento. Una certa ripresa c’è stata negli anni successivi, arrivando a superare di poco 1200 milioni nel 1995, attestandosi su 1400 milioni nel 2007). Resta comunque il fatto che nell’arco di circa sessant’anni, negli Stati Uniti gli spettatori sono diminuiti circa del 75 per cento. Nel frattempo, però, si registra un fenomeno inverso. Se la crisi strutturale del cinema determina una diminuzione drastica della produzione (si producono meno film) e un ridimensionamento dell’esercizio (si chiudono molte sale), il consumo di film attraverso la televisione aumenta in modo 1

Fonti di questi e altri dati statistici di questo paragrafo: Media Salles Yearbook 2008 (http://www.mediasalles.it/ybk08fin/index. html); Rapporto 2009 sullo stato dell’editoria audiovisiva in Italia, compilato dall’Unione Italiana Audiovisiva (http://www.univideo.org).

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vertiginoso. È stato calcolato che in Italia, agli inizi degli anni ottanta, il numero di spettatori di film trasmessi dalle varie emittenti televisive raggiungesse in un anno la cifra di 3 miliardi e mezzo, cioè un numero quattro volte superiore a quello dei biglietti venduti nell’anno di massimo sviluppo. A tutto questo va poi aggiunto il vertiginoso sviluppo del consumo individuale di film in videocassetta prima, e poi in DVD, blu-ray e, infine, in rete. Nella stagione 2003-2004, il fatturato dell’home video (vendita e noleggio di cassette e DVD) ha per la prima volta superato quello delle sale cinematografiche (709 contro 627 milioni di euro). L’incremento della vendita e noleggio di DVD, che raggiunge il suo picco nel 2004, con un aumento del 45 per cento rispetto all’anno precedente, andrà successivamente ridimensionandosi (+11,6 per cento nel 2005 e 2,2 per cento nel 2006), per segnare infine un –17,8 per cento nel 2008, dovuto solo in parte all’affermarsi del blu-ray disc che triplica le vendite rispetto all’anno precedente. Nel complesso, una tendenza alla crescita del mercato dell’home cinema che sembrava irresistibile ha subito una battuta d’arresto, dovuta però alla possibilità sempre più ampia di acquisire i film dalla rete, legalmente e più spesso illegalmente. Cercando di definire i caratteri della crisi del cinema quando ancora il fenomeno non aveva raggiunto le dimensioni attuali, Casetti parlava di de-istituzionalizzazione (Casetti 1978: 166). Cosa significa? Principalmente tre cose: a) la fine di un sistema di produzione strutturato sul prodotto medio, ma articolato su più livelli (film di serie A e B, film d’autore ecc.) che costituiva un quadro di riferimento anche per il cinema moderno; b) la disarticolazione e la disgregazione della produzione, per cui sono i singoli film (dal super colosso al film marginale) che hanno una loro identità;

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c) la caduta della capacità del cinema di aggregare il pubblico più vasto e eterogeneo; e lo sviluppo di una fruizione frantumata e dispersa: quella variamente specializzata (film d’autore, cult movies nei cineclub, film per giovani, film “al femminile”, film pornografici ecc.) e quella disattenta dei film in televisione (Casetti 1978: 164-167). A differenza di quanto era avvenuto nel cinema degli anni sessanta, in cui potevamo vedere la ricerca teorica affiancata alle posizioni più avanzate del “cinema moderno”, a partire dalla seconda metà degli anni settanta il discorso teorico sembra impegnato a definire il cinema come “istituzione smarrita” (Casetti 1978: 164-167), come oggetto perduto. È sicuramente questo lo spirito che domina il libro di Metz sui rapporti tra cinema e psicanalisi (Metz 1980). La domanda chiave della critica e della teoria a metà del secolo scorso, negli anni del maggior sviluppo dell’istituzione cinematografica, era “Che cos’è il cinema?”: le risposte che venivano date erano caratterizzate da una forte progettualità (che cosa sarà, potrà e dovrà essere il cinema del futuro). Oggi le domande sono completamente cambiate: non che cos’è il cinema, ma cos’era il cinema. E, quanto al futuro, la domanda “Che cosa diventerà il cinema digitale?” (Rodowick 2008: 102), sembra sottintenderne un’altra, più inquietante: “cosa il cinema non sarà più?”. Se l’idea che stava alla base del “cinema moderno” è quella di una negazione dell’esistente e di ogni legame con la tradizione in nome di un linguaggio sovranazionale e metastorico, si può parlare di una “postmodernità” del cinema, in un senso analogo a quello in cui il termine postmoderno viene usato nel campo dell’architettura, delle arti figurative e della letteratura (Ceserani 1997). Il cinema postmoderno sembra esprimere un rapporto con la tradizione e con la storia (del cinema) che può essere, di volta

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in volta, di rifacimento, di ripensamento, di rivisitazione ironica, di regressione, di nostalgia. La riflessione teorica, quando ambisce a essere ancora teoria del cinema e non sociologia dei new media, sembra sempre più orientata verso il cinema del passato, e magari verso la storia della teoria. Un analogo orientamento retrospettivo sembra caratterizzare le attività promosse dalle istituzioni politicoculturali (festival, rassegne). Per esempio, la Mostra del Cinema di Venezia nelle edizioni del primo decennio del nuovo secolo, ha raccolto notevoli consensi programmando retrospettive sui generi popolari del cinema italiano, da Capitani coraggiosi. Produttori italiani 1945-1975 (2003) a Italian kings of the B’s - Storia segreta del cinema italiano (2004), da Questi fantasmi (2008 e 2009) a La situazione comica (2010). Per molti aspetti le retrospettive di cinema italiano hanno avuto più risonanza delle opere nuove italiane presentate nelle varie sezioni (ufficiali e non). In una delle retrospettive italiane è passato Quel maledetto treno blindato (1977) di Enzo G. Castellari, un film che è assurto recentemente agli onori della cronaca perché è la fonte dichiarata di Bastardi senza gloria (2009), il più recente successo di Quentin Tarantino. Il film di Castellari è un war movie all’italiana che sta al cinema di guerra americano classico come gli spaghetti western stanno al western classico. Qui si stabilisce un dialogo del tutto inedito tra cinema popolare europeo e cinema hollywoodiano secondo la prospettiva dell’estetica del postmoderno. Si tratta di un dialogo e di uno scambio che era del tutto mancato nell’età delle Nouvelles Vagues e che avevano invece saputo fare le cinematografie asiatiche che, come ha scritto Elsaesser in un importante studio sui rapporti tra cinema europeo e Hollywood, hanno saputo essere “molto più ibride, postmoderne ed eclettiche” (Elsaesser 2005: 496).

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8.1.1 Nuova Hollywood: dagli auteurs ai blockbusters La rinascita di Hollywood (o Hollywood Renaissance) negli anni settanta è il fatto non solo di maggior rilievo dell’ultimo quarto del secolo scorso, ma anche quello che forse meglio ci permette di definire, proprio in quanto epoca di transizione, alcuni dei caratteri fondamentali del cinema contemporaneo. La “transizione” per il cinema americano significa prima di tutto passaggio dalla crisi produttiva e culturale degli anni sessanta alla riconquista dell’egemonia, non solo economica, verso la fine degli anni settanta e i primi ottanta. Negli anni sessanta negli Stati Uniti si era toccato il fondo della crisi che aveva le sue origini nello smantellamento del monopolio a integrazione verticale delle majors, determinato dall’applicazione delle leggi antitrust (1948), e nella concorrenza televisiva (vedi 6.2). I termini della crisi sono dati dalla drastica diminuzione del numero di spettatori e di film prodotti e dalla riconversione delle strutture produttive hollywoodiane che in misura sempre più ampia venivano impiegate nel settore televisivo. A tale crisi economica si era aggiunta una crisi politico-culturale (contestazione studentesca, opposizione alla politica imperialista nel Sudest asiatico) che aveva reso sempre più ampio il divario tra valori tradizionalmente esaltati dal cinema americano classico e la mutata sensibilità del pubblico, soprattutto giovanile. Il cinema americano per sopravvivere aveva dovuto rinnovarsi nelle strutture produttive, ma anche nei suoi contenuti e nei suoi mezzi espressivi. La “rivoluzione estetica” della nuova Hollywood tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta è stata così schematizzata da La Polla:

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a) incremento delle produzioni indipendenti b) piccoli budget produttivi c) ricerca di un pubblico giovanile d) messa in discussione dei valori etico-sociali sostenuti dal cinema precedente e) attenzione alla politica e al costume f) costruzione di stilemi di carattere documentaristico g) rinuncia agli studios e ricerca degli spazi quotidiani h) ricambio delle leve registiche i) abbandono dello star system l) revisione ideologica dei “generi classici” (La Polla 1981: 99-100)

Molti dei punti in cui è stato sintetizzato il processo di rinnovamento del cinema americano lasciano intravvedere una sorta di nouvelle vague in versione hollywoodiana, con relativa “politica degli autori”. I più significativi registi che si impongono nel cinema americano degli anni settanta hanno i tratti degli auteurs. Grazie ai vantaggi della produzione indipendente essi danno una caratterizzazione personale ai loro film; inoltre i loro contatti con la tradizione hollywoodiana non sono quelli dell’opposizione radicale, semmai quelli del ripensamento, della rivisitazione critica. Alcuni di loro hanno studiato cinema all’università e hanno coltivato nelle cineteche e grazie alla televisione una profonda conoscenza di tutto il cinema classico, compreso quello europeo, e in particolare italiano. Quando si parla di produzione indipendente, non si deve pensare a una produzione completamente svincolata dalle leggi del mercato (come nel cinema underground newyorkese o in analoghe forme europee). Per fare un esempio, Easy Rider (1969) di Dennis Hopper fu una produzione indipendente della Raybert Productions che si ga-

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rantì la distribuzione di una major, la Columbia: il risultato fu che un film costato quattrocentomila dollari ne fruttò alla distribuzione 19 milioni. Un’altra importante società di produzione indipendente integrata con il circuito di distribuzione delle majors fu quella del regista-produttore Roger Corman che tenne a battesimo gli esordi di Francis F. Coppola, Martin Scorsese, Peter Bogdanovich, Monte Hellman e altri. Questo sistema di integrazione tra produzione indipendente e strutture distributive, che, pur rimanendo controllate dalle tradizionali majors, andavano adeguandosi alle mutate esigenze del pubblico, è all’origine dello straordinario rinnovamento del cinema americano degli anni settanta. Ciò spiega anche un fatto che risulta di difficile comprensione se guardato dal punto di vista europeo: la frequenza con cui registi con indubbie ambizioni di autori si sono trovati contestualmente o in fasi successive coinvolti in veri e propri blockbusters, cioè in film campioni di incasso. Spielberg poco dopo aver realizzato Duel (1971) e Sugarland Express (1974), iniziava con Lo squalo (1975) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) una serie di produzioni che ormai sono nella graduatoria degli incassi maggiori di tutti i tempi pubblicati annualmente dalla rivista Variety. Considerazioni analoghe si possono fare per Coppola, che ha alternato film come La conversazione (1974) a megaproduzioni come Il Padrino (parte I, 1972 e parte II, 1974); o per Lucas che passa da American Graffiti (1973) a Guerre stellari (1977). Per comprendere un fenomeno di questo tipo, che abbiamo sintetizzato con la formula “dagli auteurs ai blockbusters”, bisogna tener conto delle modificazioni che intervengono nell’assetto dell’economia cinematografica

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americana. Se da una parte le majors comprendono la necessità di un rinnovamento tematico e formale appoggiandosi sulla maggior flessibilità dei sistemi di produzione indipendente, dall’altra impostano una rigorosa ristrutturazione al loro interno. Secondo Claude Degand, la politica delle majors, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, può essere sintetizzata in questi punti: a) riduzione del volume di produzione (per esempio, si passa dai 306 film prodotti dalle majors nel 1970 ai 210 prodotti nel 1976); b) una conduzione molto rigorosa della politica produttiva attraverso un controllo di tutta la catena che va dalla scelta del soggetto alla pubblicità e al marketing; c) “una presenza sempre più affermata nel settore televisivo e negli altri media”, secondo un modello di integrazione tra media paralleli e tra le varie tecnologie; d) “integrazione – per la maggior parte delle majors – in un insieme industriale e commerciale detto ‘conglomerato’, cioè con ripartizione di investimenti in diversi settori collegati” (in Torri 1980: 74). Il risultato di questa politica, che si basa anche su una efficiente rete di distribuzione all’estero, si può riassumere in questi dati comparativi che danno l’esatta idea di come si sia andata riconfigurando la supremazia mondiale di Hollywood. Come abbiamo già visto in 5.3, di tutti i film realizzati al mondo nell’epoca del muto, circa l’80 per cento era stato prodotto negli Stati Uniti. Secondo uno studio di Thomas Guback, alla fine degli anni settanta la produzione di film negli Stati Uniti costituiva non più del 6-7 per cento della produzione mondiale, ma questa “piccola parte” copriva “circa metà dei tempi di proiezione nel mondo” raccogliendo con ogni probabilità circa la metà dell’incasso mondiale” (in Torri 1980: 89).

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Schematizzando, il rinnovamento del cinema americano che lo ha portato alla riconquista della supremazia mondiale è passato attraverso le seguenti fasi: 1) Revisione ideologica (e rinnovamento estetico) dei generi classici di Hollywood. Questa operazione, iniziata già verso la fine degli anni sessanta, è stata condotta da registi come Penn, Peckinpah, Pollack, Altman e altri ancora. Mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, Soldato blu (1970) di Ralph Nelson, Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn, I compari (1971) di Robert Altman hanno aperto la strada a un rinnovamento del genere western, iniziando una demitizzazione e una revisione dell’ideologia tradizionale del western, soprattutto per quanto riguarda gli indiani. 2) Aggiornamento dell’iconografia dei generi tradizionali. Il genere più frequentemente rivisitato e aggiornato è stato sicuramente il noir (in tutte le sue varianti di sottogeneri: gangster film, detective film, spy film). Ecco qualche titolo: Bersaglio di notte (1975) di Arthur Penn, La conversazione (1974) di Coppola, Yakuza (1975) e I tre giorni del condor (1975) di Sydney Pollack, Il lungo addio (1973) e Gang (1974) di Altman, Una squillo per l’ispettore Klute (1971) di Alan Pakula, Marlowe, il poliziotto privato (1975) di Dick Richards. Pur nella diversità degli autori, questi film hanno in comune una resa dello spazio, degli oggetti, delle superfici, della luce, del movimento come espressione di un’estetica iperrealista. Va precisato però che iperrealismo, (o photorealism, come dicono gli americani) è da intendere non solo come specifica corrente pittorica di epigoni della pop art, ma soprattutto come assunzione di un orizzonte visivo in cui è l’eccesso di evidenza tipico dei media riproduttivi meccanici a definire la nostra stessa idea di realtà (La Polla 1996: 155-178).

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3) Commistione dei generi e integrazione delle tecnologie. Anche in passato molti generi non si presentavano allo stato puro; il melodramma poteva intrecciarsi con il western o il noir. Negli anni settanta il fenomeno si radicalizza; e non solo i confini tra i generi si fanno meno precisi, ma soprattutto si impongono dei megageneri che inglobano, magari camuffate, parecchie caratteristiche dei generi classici. Due esempi sono costituiti dal “film catastrofico” e dalla rinnovata fantascienza. Il film catastrofico, al di là della sua specifica iconografia che predilige spesso lo scenario apocalittico-metropolitano, sembra raccogliere la duplice eredità del film di avventura (almeno per quanto riguarda le peripezie dell’eroe che passa attraverso innumerevoli pericoli per salvare la comunità) (vedi Campari 1980: 95-97) e del kolossal biblico-mitologico (Bourget 1985: 179). Nella nuova fantascienza, poi, convergono molti dei generi classici del cinema americano: western, avventura, cartoni animati. Basterebbe citare la saga di Guerre stellari, a partire dal primo episodio diretto da George Lucas (1977) o la filmografia di Spielberg a partire da Incontri ravvicinati del terzo tipo, per avere il quadro completo. La fortuna di questo genere ad alta tecnologia (effetti speciali, tecniche di ripresa sofisticate), ci dà lo spunto per un’ultima osservazione riguardante l’integrazione tecnologica. Con questo termine intendiamo definire il ruolo che una sofisticata tecnologia di ripresa e di effetti speciali (riservata in passato prevalentemente alla fantascienza) sta assumendo progressivamente in diversi generi, favorendo la loro commistione. Nella serie inaugurata da Spielberg con I predatori dell’arca perduta (1981) in cui una delle più antiche scienze umanistiche, l’archeologia, diventa pura science fiction, si avvera ogni forma di contaminazione tra la più classica iconografia hollywoodiana e le più avveniristiche soluzioni tecniche. Il fenome-

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no riguarda anche il comico, da 1941: allarme a Hollywood (1979) ancora di Spielberg al “comico demenziale” di John Landis (a partire da The Blues Brothers, 1980) e, non ultimo, il film musicale, da Hair (1979) di Milos Forman a All that Jazz (1979) di Bob Fosse. Il cinema americano mantiene viva la tradizione dei generi, pur nella forma della commistione, e si evolve in un rapporto di continuità con la sua storia e il suo mito. In prospettiva storica, il contatto con la tradizione e il sostanziale rispetto del primato della narrazione dello stile classico hollywoodiano appaiono i tratti dominanti, nonostante la revisione cui sono stati sottoposti generi e iconografia. Ma il fatto che alcuni dei protagonisti della Hollywood Renaissance abbiano poi legato i loro nomi ad alcuni clamorosi blockbusters degli anni settanta (Lucas, Spielberg, Coppola) dimostra che, nonostante il rinnovato prestigio acquisito dalla figura del regista, il sistema hollywoodiano rimane ancora strutturato secondo il principio del primato dello studio, quanto a modo di produzione, e del primato della narrazione, quanto a modo di rappresentazione. Come ha ben sintetizzato Geoff King, sulla scia di quanto continua a sostenere Bordwell che è il maggior studioso del cinema classico, non c’è mai stato nella New Hollywood un totale abbandono dello “stile classico”, nemmeno nei prodotti più interessanti e rivoluzionari: lo stile dei blockbusters “deriva” e nello stesso tempo “si allontana” da quelle esperienze (King 2004: 56 e 114). Dopo gli indubbi contatti che il cinema hollywoodiano degli anni settanta ha avuto con il “cinema moderno”, ciò che sembra oggi riemergere è appunto questo nuovo legame con la tradizione. C’è chi lo ha chiamato neoclassicismo, chi postclassicismo; altri hanno creduto di poter ricorrere, prendendo ancora in prestito un termine dalla

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critica d’arte, alla categoria del manierismo (o di “supermanierismo”) non solo per l’importanza che hanno i modelli di riferimento del cinema classico per le varie operazioni di remake, riscrittura, rivisitazione, ma anche per il gioco di contaminazione o ibridazione dei modelli frequentemente praticato. 8.1.2 Cinema e TV: integrazione, convergenza, ibridazione In Italia il cinema si trova dapprima a convivere, in un regime di forte concorrenzialità, con il medium televisivo per poi adattarsi a un regime di integrazione con la tecnologia elettronica, con significative ricadute sui modi di produzione, modi di rappresentazione e forme di consumo. In una fase iniziale il rapporto tra le due tecnologie, che è uno degli aspetti del rapporto tra due istituzioni (cinema e televisione), si è andato configurando, schematicamente, secondo queste modalità: a) distribuzione di immagini cinematografiche mediante supporto elettronico (film in TV, diffusione di film mediante videocassette-VHS e videodischi, diffusione di film mediante TV cavo, TV satellitare e pay TV); b) intervento diretto dell’istituzione televisiva nella produzione cinematografica (con tecnologie, metodologie, quadri artistici e tecnici tradizionali) con modalità di sfruttamento, differito, sul doppio circuito (sale cinematografiche e circuito televisivo); c) integrazione tra la tecnologia cinematografica tradizionale e le tecnologie elettroniche nella produzione cinematografica; d) sperimentazione di tecnologie esclusivamente elettroniche nella prospettiva che queste avrebbero prima o poi soppiantato le tecniche tradizionali.

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Per quanto riguarda il primo punto, offerta televisiva o comunque su supporto elettronico di cinema, diremo che essa è avvenuta all’insegna dell’eccesso. Abbiamo già ricordato come in una sola annata televisiva, agli inizi degli anni ottanta, l’audience di film trasmessi dalle emittenti televisive raggiungesse i tre miliardi e mezzo, mentre nel decennio 1980-1990 si registra una caduta verticale della vendita dei biglietti nelle sale: cinquemila sono le sale cinematografiche che nello stesso periodo sono scomparse (Menduni 2005: 87-89). In pochissimo tempo la memoria cinematografica custodita nei magazzini delle case di distribuzione, nelle cineteche e nelle collezioni private è stata messa a disposizione degli spettatori televisivi. Il rapporto tra spettatori e memoria cinematografica si è radicalmente modificato: ciò che precedentemente era possibile solo a un pubblico esiguo di frequentatori di filmstudio, cineteche e festival specializzati veniva messo a disposizione di un pubblico vastissimo e le emittenti televisive si trasformarono in cineclub di massa o, quantomeno, in circuito distributivo parallelo. Da una parte la diffusione di film attraverso la televisione e l’uso del videoregistratore sembravano destinati ad avere, per la conoscenza della storia del cinema, la stessa importanza che la stampa a colori e le collane economiche di pittura hanno avuto per la diffusione della conoscenza della storia dell’arte. Dall’altra, solo uno spettatore con una buona o almeno discreta acculturazione cinematografica poteva trarre profitto o anche solo orientarsi in questo eccesso di offerta. Nella situazione televisiva italiana hanno preso forma fenomeni sicuramente originali. Uno di questi è stata la programmazione televisiva di cinema di Enrico Ghezzi, critico cinematografico di formazione filosofica approdato a RaiTre alla fine degli anni settanta, dopo esperienze nelle rivi-

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ste specializzate (Filmcritica) e nei filmstudio. A differenza di altre forme di programmazione televisiva di cinema che consistevano nell’ospitare il cinema in televisione, Ghezzi ha trasformato il cinema in un genere televisivo, adattandolo alla logica del flusso catodico. Di qui la realizzazione di eventi-cinema, secondo la sua stessa definizione, come La magnifica ossessione (1985) per i novant’anni del cinema e, dieci anni dopo, per il centenario, La magnifica ossessione. Cent’anni di invenzione senza futuro (1995), che ha coinvolto per tre giorni tutte e tre le reti della RAI: si è trattato di un tentativo di rendere al presente, nella dimensione squisitamente televisiva della “diretta”, la memoria di un secolo di cinema (Grasso 2004: 433). Trasformate in videocassette a opera di cinefili nottambuli che continuano ancor oggi a scambiarle con nuovi e vecchi adepti, dopo averle prudentemente riversate in DVD, le maratone di Ghezzi si affiancano alla programmazione notturna di Fuori orario, iniziata alla fine degli anni ottanta, che ha fatto e fa tuttora compiere “a milioni di cinedipendenti nottambuli straordinarie avventure attraverso zone oscure o dimenticate di tutta la storia del cinema” (Brunetta 2007: 529). Con Ghezzi la programmazione televisiva di cinema si imparenta con le pratiche delle avanguardie artistiche novecentesche, il reperto cinematografico è trattato alla stregua degli objets trouvés di Marcel Duchamp, la scena televisiva diventa “messa in scena museale”, come nelle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard (vedi Ghezzi 1995 e 1996). Spostandoci sul versante della produzione, notiamo che, nel momento stesso in cui la televisione contribuiva alla crisi dell’industria cinematografica, si registravano i primi interventi diretti dell’istituzione televisiva nella produzione cinematografica (con tecnologie, metodologie, quadri artistici e tecnici tradizionali) con modalità di sfruttamento,

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differito, sul doppio circuito (sale cinematografiche e circuito televisivo). L’intervento degli enti televisivi nella produzione cinematografica è un fatto ormai ampiamente diffuso e costituisce, assieme alle varie forme di finanziamento pubblico, uno degli aspetti fondamentali del regime protezionistico di cui ha usufruito il cinema in Italia, e più in generale in Europa, almeno finché questo tipo di interventi era di competenza quasi esclusiva della televisione pubblica. Abbiamo già visto l’importanza che questi finanziamenti hanno avuto per il decollo del “nuovo cinema tedesco” (vedi 8.1.2). In Italia, fondamentale è stato l’intervento dell’ente televisivo statale: la RAI, nelle sue varie articolazioni, ha partecipato alla realizzazione di film che i produttori privati non avevano più interesse a realizzare, ma ha anche impegnato i quadri tecnici, artistici e le infrastrutture cinematografiche per la realizzazione di grandi produzioni televisive progettate per un mercato internazionale. La produzione della RAI è intervenuta su più fronti. Quello delle nuove tecnologie, innanzitutto, all’incrocio tra elettronica e cinema. Un esempio è costituito da Il mistero di Oberwald (1980) di Antonioni, che ha sperimentato le possibilità di manipolazione elettronica del colore in un film per tutti gli altri aspetti tradizionale (anzi, assai più tradizionale degli altri girati da Antonioni in quanto dotato di un intrigo romanzesco convenzionale), se non fosse che invece della cinepresa sono state impiegate telecamere ad alta definizione: si tenga presente che Oberwald, una volta ripreso e montato elettronicamente, è stato trasferito su normale pellicola, con risultati peraltro insoddisfacenti per la perdita di definizione dell’immagine. Sempre nell’ambito del cinema d’autore, la RAI ha permesso a Fellini di realizzare piccoli capolavori come Prova d’orchestra (1979). Ha inoltre promosso produzioni di alta qualità che hanno ottenuto

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importanti riconoscimenti internazionali: per esempio, Padre padrone (1977) dei fratelli Taviani e L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, vincitori in anni consecutivi della Palma d’oro a Cannes. Nello stesso tempo la RAI ha impegnato autori prestigiosi del cinema italiano nella realizzazione di kolossal epico-storici: Renato Castellani (Giuseppe Verdi, 1982), Giuliano Montaldo (Marco Polo, 1983), Alberto Lattuada (Cristoforo Colombo, 1985). Accanto a queste produzioni che non sempre hanno avuto la doppia circolazione (cinematografica e televisiva), si sono registrati tentativi di incrocio tra un tradizionale genere televisivo come lo sceneggiato a puntate e il cinema d’autore, affidandone la direzione a registi cinematografici appartenenti alla tradizione del cinema di qualità: per esempio, …e la vita continua (1984) di Dino Risi, La piovra (1984) di Damiano Damiani, Cuore (1984) e La storia (1986) di Luigi Comencini. Si tratta di una formula produttiva che ha poi avuto differenti sviluppi. Da una parte un prodotto più legato alla tradizione del cinema d’autore: e su questa via arriviamo a risultati come La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, premiato a Cannes nella sezione “Un certain regard”. Dall’altra invece, come accadde con le varie serie di La piovra (9 dal 1984 al 1998), si accentuano i caratteri del prodotto medio, del serial televisivo che può di volta in volta ammiccare ai telefilm americani o addirittura al western all’italiana (Grasso 2004: 413-417). Nel sistema produttivo hollywoodiano assistiamo a fenomeni di ibridazione tra cinema e televisione, che vanno in ambedue le direzioni. Gli high concept movies, formula diventata celebre in relazione ai blockbusters degli anni settanta, traggono la loro origine nell’ambito della produzione degli MFT (Movies For Television), cioè film a basso costo destinati alla sola distribuzione televisiva. Qui nasce la ne-

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cessità di studiare metodi di ottimizzazione della struttura narrativa, non consentendo i modesti budget televisivi il ricorso alle attrazioni delle star (10.1). Una formula produttiva nata negli studi della ABC (American Broadcasting Company) viene poi pantografata e arricchita dalle attrazioni dei divi e di una confezione visiva sontuosa: così sono nati i blockbusters (Wyatt 1994). Inverso è il caso delle modificazioni progressivamente subite dai kolossal hollywoodiani nell’impiego del montaggio. Sono stati fatti studi quantitativi che dimostrano la progressiva riduzione dei campi lunghi e delle vedute d’insieme (establishing shots), mettendo a confronto Spartacus (1960) di Kubrick con Il gladiatore (2000) di Ridley Scott. Nel film di Kubrick, realizzato nel rispetto delle regole dello stile classico hollywoodiano, le infrazioni alla regola dei 180°, che proibisce lo scavalcamento di campo, erano rare e giustificate, per esempio, da esigenze di intensificazione del ritmo durante il combattimento tra gladiatori. Nel film di Ridley Scott quest’infrazione diviene la norma, così come diviene norma la rinuncia alle visioni d’insieme, ai campi lunghi e lunghissimi, insomma gli establishing shots (10.2), quelli che permettono allo spettatore di contestualizzare quello che vede. Quali sono le ragioni di questa “mutazione”? Da una parte assecondare le abitudini percettive dello spettatore sempre più assuefatto ai montaggi ultrarapidi di MTV e dei clip musicali. Dall’altra, adottare uno stile di regia che non risulti eccessivamente penalizzato quando dovrà passare dal grande schermo cinematografico al piccolo schermo televisivo. Ciò che il film perde in enfasi mostrativa (come ben sintetizza il termine kolossal) lo guadagna in intensificazione ritmica. Questa differenza ha una sua quantità di misura indicata con l’acronimo ASL, cioè Average Shot Length ovvero durata media dell’inquadratura (vedi

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10.2.1). Secondo Geoff King, l’ASL di Spartacus è di 7,89 secondi, quello di La caduta dell’impero romano (1964) è di 8,72 secondi, mentre quello di Il gladiatore è “di 3,36 secondi, valore che scende tra i 2,08 e 0,59 secondi per le sequenze di battaglie o di combattimenti tra gladiatori” (King 2006: 306). Tra le altre forme di ibridazione di modello televisivo e modello cinematografico, si possono citare i reality show che alla loro origine hanno i cosiddetti media events, la cui gestione è sempre avvenuta con uno sguardo alla cronaca e alle esigenze della presa diretta, da una parte, e dall’altra a consolidati modelli narrativi, si trattasse di un’incoronazione o dello sbarco sulla luna (Dayan-Katz 1993). Del resto, come abbiamo visto nel capitolo 4, uno dei primi media events realizzati grazie al cinematografo (l’incoronazione di Edoardo VII d’Inghilterra) fu ottenuto attraverso un dosaggio di riprese dal vero (operatori Lumière) e di messa in scena nello studio di Montreuil di Méliès. Un’altra forma di ibridazione riguarda l’esplicita ed esibita adozione del modello cinematografico in una serie televisiva, come è accaduto per Mad Men, che è recentemente salita agli onori di una sezione monografica e della copertina dei Cahiers du Cinéma, la rivista universalmente nota come la bibbia del cinema moderno (AA.VV. 2010). Del resto, mentre gli autori di serie televisive vengono consacrati dalla rivista cinematografica che ha inventato la “politica degli autori”, si moltiplicano i casi di autori cinematografici che si impegnano in serie televisive. David Lynch passa da I segreti di Twin Peaks (1990-1991) a Mulholland Drive (2000) che originariamente nasce come pilot, mai andato in onda, di una serie televisiva per ABC. Martin Scorsese è l’autore del pilot, presentato al Festival del cinema di Roma, di Boardwalk Empire (2010), una serie televisiva realizzata

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da HBO, TV via cavo leader nella produzione di alta qualità. Qui non si tratta solo di un’ibridazione tra modi di rappresentazione (commistione di gangster movie, cinema d’autore e serie TV), ma anche di modi di produzione: in una serie in dodici puntate dal costo complessivo di sessanta milioni di dollari, il pilot, unico diretto da Scorsese, ne è costati diciotto, cioè quasi un terzo dell’intera serie.

8.2 Il cinema nell’età del digitale Rivediamo una sequenza di Wall•E (2008), un film della Pixar diretto da Andrew Stanton, la stessa che abbiamo citato per introdurre il cinema muto (vedi 5.1) e che ci servirà ora per introdurre il cinema digitale. È la sequenza in cui il robottino Wall•E è appena arrivato sull’astronave Axiom, al seguito di Eve, la sonda spaziale bianca e levigata come un iPod della quale si è follemente innamorato. Qui, dove vive quello che resta del genere umano che ha abbandonato il pianeta, Wall•E incontra il comandante con cui scambia una stretta di mano: un piccolo grumo di terra rimane, però, nella mano dell’uomo che, preoccupatissimo, lo fa analizzare dalla strumentazione di bordo. Il responso è “agente inquinante”, accompagnato da una dettagliata nomenclatura: “terreno [soil], terriccio [dirt], terra [earth]”. Il comandante chiede allora la definizione di terra (Define Earth). Sullo schermo del computer compare un’inquadratura di un vecchio film muto di Griffith del periodo Biograph (A Corner in Wheat, 1909), in cui si vede un contadino che semina il grano sulla terra appena arata. E questa è la definizione di terra: “la superficie del mondo distinta dal cielo e dal mare”. Quest’immagine di un film realizzato in 3D digitale ci interessa per vari motivi. Prima di tutto perché mostra

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un’immagine digitale che ingloba, avendola ovviamente digitalizzata, un’immagine analogica. Poi, perché ci insegna che le immagini hanno una storia, cioè vivono nel tempo: un secolo di storia del cinema separa l’immagine del film di Griffith dall’immagine del film della Pixar che la contiene. E, inoltre, che immagini e parole possono essere trattate allo stesso modo, attraverso memorie digitali che le mettono in connessione e le gestiscono in base alle esigenze di un fruitore: la memoria dei vecchi dizionari e quella delle cineteche convergono sulla medesima piattaforma del computer di bordo. Come a dire che un’unica memoria digitale gestisce i contenuti del Devoto-Oli, per citare un celebre dizionario della lingua italiana, e della Cineteca di Bologna. Abbiamo scelto questa sequenza perché ci illustra in modo emblematico lo statuto dell’immagine analogica (cinematografica) nell’età del digitale. Tra testualità verbale e testualità audiovisiva non solo si è ridotta la distanza, ma sono in atto forme di integrazione, ibridazione e convergenza, per usare la formula di Jenkins (2007). Secondo lo studioso americano la cultura convergente è caratterizzata da una distribuzione orizzontale dei saperi veicolati da differenti media. Essa si oppone alla cultura organizzata secondo un modello verticale e gerarchico. E tuttavia è proprio un’immagine come quella del film di Griffith convocata sulla piattaforma digitale dell’astronave Axiom che chiede di essere messa in prospettiva, di essere identificata e interpretata. Saper vedere il cinema all’interno del flusso di immagini, suoni e parole della piattaforma digitale significa saper riconoscere e interpretare come cinema le immagini di Griffith. Identificare il film come A Corner in Wheat (vedi Cherchi Usai 2008: 107-115) significa, tra le altre cose, riconoscere un film di denuncia contro le speculazioni sul prezzo del grano che riducevano alla mise-

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ria contadini e proletariato urbano nell’America dell’inizio del secolo scorso e che sono l’equivalente delle attuali bolle speculative dell’alta finanza che hanno piegato l’economia mondiale sotto il peso di una crisi senza precedenti. Ripercorrendo le varie epoche in cui convenzionalmente si divide la storia del cinema (origini, cinema muto, cinema sonoro, cinema moderno), abbiamo dapprima evidenziato una certa convergenza tra il MRI, il Modo di Rappresentazione Istituzionale (Burch 2001), e lo stile classico hollywoodiano (Bordwell-Staiger-Thompson 1985). Abbiamo poi osservato come il cinema moderno sia stato un tentativo di superare sul piano dei modi di produzione, e ancor più forse su quello dei modi di rappresentazione, gli assetti del cinema classico. Dobbiamo ora chiederci come è possibile definire lo statuto del cinema postmoderno. Ripartiamo da Nöel Burch che, alla fine del suo libro Il lucernario dell’infinito, dedicato alla nascita del linguaggio cinematografico e alla storia della transizione dal MRP al MRI (vedi 5.3), mette in evidenza alcune impressionanti analogie tra i caratteri del Modo di Rappresentazione Primitivo e gli attuali assetti della produzione audiovisiva, quali aveva potuto osservare nella televisione dei network americani in cui vedeva una sorta di “ritorno” all’epoca dei nickelodeons (Burch 2001: 266). Per capire cosa possa significare questa regressione ritorniamo un momento alla fine dell’Ottocento, quando il cinema faceva la sua comparsa negli spazi dello spettacolo dominati dalle attrazioni diffuse, nei quali sembrava dissolversi tutto il sistema rappresentativo della grande tradizione narrativa ottocentesca e si affermava il sistema delle attrazioni mostrative (Gaudreault 2004). La comparsa di un’invenzione, l’affermazione di una nuova tecnica (il cinema) conviveva con una forma di regressione quanto a

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modi di rappresentazione, con una prevalenza dell’attrazione spettacolare, l’esibizione del prodigio tecnico. Sappiamo però che fu a partire di lì, attraverso una rapida evoluzione, che prese forma un nuovo modo di produzione (la nascita del cinema come industria) e un nuovo modo di rappresentazione (quello che Burch ha chiamato il Modo di Rappresentazione Istituzionale). Ora, nel momento in cui sta per affermarsi e diventare ovunque dominante una nuova tecnologia, quella digitale, vediamo come riaffiorino contestualmente modi di rappresentazione basati sull’esibizione delle attrazioni (il cinema degli effetti speciali, dei prodigi tecnologici sempre più sbalorditivi). Nel tentativo di definire il nuovo statuto dell’immagine in questa che viene ormai convenzionalmente chiamata l’epoca del cinema postmoderno, teorici e storici ricorrono a categorie usate per interpretare il cinema del passato e si chiedono quali siano i mutamenti effettivi, quanto ci sia di nuovo e quanto non sia altro che riproposta di strategie già note, in forme rinnovate. Una delle questioni più dibattute riguarda la regressione del cinema contemporaneo alla logica delle pure attrazioni, con progressivo allentamento dei vincoli propriamente narrativi, quelli che erano diventati dominanti all’interno dello stile hollywoodiano classico. Secondo alcuni teorici il modello della costruzione dello spettacolo cinematografico sarebbe diventato quello delle “montagne russe”, ovvero quello della messa in serie di forti stimolazioni sensoriali come accade appunto nei Luna Park (King 2006: 231-243). Dello stesso avviso sono altri studiosi come il francese Laurent Jullier, il quale vede nella progressiva perdita di qualsiasi legame tra l’immagine e una realtà esterna e nell’esibizione di prodigi tecnici che non rinviano che a se stessi il carattere dominante del cinema postmoderno (Jullier 2006:

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36-64). Da parte loro, Bolter e Grusin (2002: 191), teorici dei new media, vedono nel cinema della pura stimolazione sensoriale la liquidazione dei principi costitutivi del cinema hollywoodiano classico, basato sul montaggio e sulla articolazione dei punti di vista (vedi 10.7.3). Diversa è l’opinione di David Bordwell (2006), strenuamente attaccato all’idea della persistenza e della stabilità del modello classico legato al modo di produzione hollywoodiano. Secondo lo studioso americano, il cinema contemporaneo è ancora regolato dal principio della continuità e dai tratti distintivi dello stile classico. La novità è data dagli effetti d’intensificazione visiva che, a suo giudizio, non modificano né i meccanismi compositivi della storia né i modelli della ricezione spettatoriale. Anzi, secondo Bordwell, un’estetica dell’intensificazione visiva riguarda tanto il cinema destinato al mercato internazionale di massa, quanto quello che egli chiama il cinema d’autore d’esportazione. Bordwell, pur dovendo registrare importanti innovazioni negli stili di regia degli ultimi decenni, non ritiene che si sia realizzato un totale stravolgimento dello stile classico basato sulla continuity, vale a dire sullo sviluppo funzionale del montaggio al fine di ottenere una narrazione coerente. Egli preferisce parlare, semmai, di “intensificazione delle tecniche convenzionali” e di “intensified continuity”, cioè di “continuità tradizionale amplificata, portata a un più ampio grado di enfasi”. Per capire cosa questo significhi sul piano concreto, basti pensare al problema dei tempi di successione delle inquadrature, cioè del ritmo. Bordwell fa una dettagliata descrizione dei mutamenti degli stili di regia in questo campo: abbassamento dei tempi di durata media delle inquadrature (ASL), intensificazione dei movimenti di macchina non legati a movimenti dei soggetti ripresi, rarefazione o in certi casi quasi totale scomparsa degli esta-

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blishing shots, vale a dire delle inquadrature di ambientazione. Si tratta di tendenze anch’esse regressive, che fanno pensare alle esasperazioni ritmiche del montaggio e alle arditezze nella ricerca di movimenti di macchina di forte impatto visivo degli anni venti (L’Herbier, Gance): sono quei procedimenti cari al cinema delle avanguardie che l’avvento del sonoro aveva praticamente fatto scomparire e che ora ritornano in auge, anche se con significati alquanto diversi (Bordwell 2010). Per quanto riguarda il rapporto tra il cinema postmoderno e la tradizione del moderno, un quadro di grande chiarezza è quello tracciato di Bruno Fornara, docente alla Scuola Holden di Torino, sull’ibridazione degli stili di regia. Comunemente si distinguono stili di regia basati sul montaggio e stili di regia basati sulla ripresa in continuità (piano sequenza). Quanto al montaggio, due sono le varianti principali: il cinema del montaggio esibito, tipico delle avanguardie europee; e lo stile del montaggio invisibile, tipico dello stile classico hollywoodiano. Quanto alle riprese in continuità, esse possono essere caratterizzate dalla mobilità della cinepresa o dalla ripresa fissa. Secondo Fornara, questi differenti stili non servono più a definire un cinema moderno in opposizione a un cinema classico e possono benissimo convivere addirittura in uno stesso regista o in uno stesso film. In sintesi, il cinema postmoderno è caratterizzato da un’equivalenza o intercambiabilità degli stili di regia o, per usare la definizione di Fornara, dall’ibridazione dei modelli di messinscena (o messincinema) (Fornara 2001: 250-256; riprodotto in Fadda 2009: 96-100). In effetti, sono le nuove tecnologie del digitale che determinano inedite convergenze e ibridazioni tra differenti assetti delle tecniche e dei procedimenti. Come caso emblematico potremmo citare il procedimento del flow motion

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(o bullet time photography), reso celebre da alcune memorabili sequenze di Matrix (1999) dei fratelli Wachowski, il quale (come vedremo in 10.3) combina una tecnica addirittura pre-cinematografica (la cronofotografia di Muybridge e Marey) e le più sofisticate tecniche di animazione digitale (il morphing). Per molti versi, quelle forme di manipolazione che il montaggio realizzava nella costruzione della sequenza oggi, per effetto delle tecnologie digitali, sono possibili già a livello di inquadratura. Vari teorici mettono pertanto in contrapposizione un cinema della traccia, dell’impronta e un cinema del simulacro. C’è invece chi sostiene che, grazie alle tecnologie digitali, i cineasti sono finalmente in grado di ottenere effetti foto-realistici senza dover più dipendere dagli effetti foto-chimici prodotti dagli eventi profilmici: è questa la conclusione cui giungono Elsaesser e Buckland (2010: 227-253) in un’analisi di Jurassic Park (1993) di Spielberg condotta a partire dalla teoria baziniana del realismo. Queste differenti posizioni confermano la difficoltà da parte della teoria di comprendere le innovazioni tecnologiche, che risultano evidenti tanto in chi preannuncia catastrofi e apocalissi prossime venture, quanto in chi cerca di convincerci che tutto è come prima. Nell’universo dei new media, nelle forme della spettacolarità ipermedializzata sembra compiersi una sorta di regressione al modo di rappresentazione primitivo. Ma è proprio l’immagine del film di Griffith, inserita all’interno della sequenza di Wall•E, che ci impone di conoscere, anche se ancora non sappiamo cosa e come sarà il cinema del futuro prossimo, cosa esso sia stato. E proprio da un teorico dei nuovi media ci viene confermata la centralità dello studio della storia e della teoria del film “per comprendere i problemi di teoria estetica e sociologica sollevati dai media digitali” (Rodowick 2008:

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204-205). Le questioni che erano state centrali nella teoria classica si ripropongono al giorno d’oggi, di fronte a una radicale mutazione della base tecnica del cinema che da medium analogico è diventato medium digitale. E se per il momento viviamo ancora in una situazione transitoria, basata sulla integrazione, ibridazione e, a volte, convergenza tra le diverse tecniche, sembra ai più inevitabile un’unificazione del sistema dei media all’insegna del digitale. PER SAPERNE DI PIÙ Sulla New Hollywood, oltre a La Polla 1996 e 2004, si vedano King 2004 e 2006. Molto utili anche i materiali critici in AA.VV. 1979a e 1979b; Torri 1980. Fadda 2009 fornisce attraverso un’antologia ragionata di testi, apparati introduttivi e bibliografici un ottimo strumento per la conoscenza e l’approfondimento dei caratteri del cinema americano contemporaneo, contestualizzandolo nello scenario dei new media ma senza perderlo di vista. Sul cinema postmoderno: Canova 2000; Jullier 2006. Elsaesser-Buckland 2010 offrono un originale approccio al cinema americano contemporaneo come banco di prova di vari modelli d’analisi. Per quanto riguarda il cinema digitale e i new media, questi sono i contributi di maggior interesse: Manovich 2002 e 2010; Rodowick 2008; sullo stesso tema, ottimi contributi di autori italiani e orientati in direzione del cinema più che dei new media in De Giusti 2008. Importanti spunti per la comprensione dei fenomeni in atto in Bolter-Grusin 2002; Jenkins 2007; Menduni 2007. Aggiornato alle nuove tecnologie e alle problematiche poste dal cinema postmoderno è il manuale di didattica del cinema Marangi 2004.

PARTE TERZA TECNICHE E LINGUAGGIO

9. Uno sguardo sul set. Il processo di produzione

9.1 Come nasce un film? Impariamolo dai titoli di testa Passano sullo schermo i titoli di testa di I protagonisti (1992) di Robert Altman. Come capita sempre più spesso a partire dagli anni settanta-ottanta, i titoli di testa non si succedono su uno sfondo neutro, ma sono incorporati nella prima sequenza che è già a tutti gli effetti il primo capitolo del film. In questo caso, mentre discretamente passano i titoli, ci viene mostrato già in azione il protagonista, Griffin Mill (Tim Robbins). Conosciamo il suo ambiente di lavoro, uno studio hollywoodiano in piena attività, e comprendiamo con chiarezza quali sono le sue mansioni: è un produttore esecutivo che si occupa della selezione dei nuovi soggetti da realizzare. Nello stesso tempo, veniamo a conoscere due importanti elementi che, provocando il conflitto, determineranno lo sviluppo dell’azione. Griffin è doppiamente preoccupato: nello studio è in atto una ristrutturazione che potrebbe mettere in forse il suo ruolo e, inoltre, riceve inquietanti cartoline minatorie. Il tutto è inframezzato da una fitta serie di riferimenti alla storia del cinema: alle pareti vediamo una gigantografia delle riprese di Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder e nello studio di Griffin c’è un manifesto di L’angelo azzurro (1930), mentre nei dialoghi

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sono citati non meno di una mezza dozzina di film famosi e famosissimi, da Nodo alla gola a L’infernale Quinlan, da Promontorio della paura a Il tè nel deserto di Bertolucci. Si tratta di una sequenza ideale per iniziare la terza parte di questo libro perché ci fa capire in modo divertente come prende avvio l’avventura produttiva di un film; e poi perché infila i titoli di testa, senza che lo spettatore, che già segue l’azione, quasi se ne accorga. E processo di produzione e titoli di testa sono appunto gli argomenti di questo capitolo. Ora, però, concentriamoci sulle scritte che si accendono sopra le immagini. Secondo un ordine rigidamente codificato, viene enunciata la denominazione della distribuzione/ produzione: Avenue Pictures presents / in association with Spelling Entertainment / a David Brown/Addis-Wechsler production. Subito dopo appaiono nome del regista e titolo del film: A Robert Altman Film / The Player. Segue l’elenco degli interpretti (solo i principali: Tim Robbins, Greta Scacchi, Fred Ward, Whoopi Goldberg, Brion James, Dean Stockwell, Lyle Lovett). Sono quindi elencati i più importanti collaboratori artistici. Le funzioni accreditate in questo elenco sono poche: molte meno e meno dettagliate di quelle che si possono leggere nei titoli di coda. Si comincia con il wardrobe designer, cioè il costumista o costume designer (Alexander Julian). C’è poi il production designer, cioè colui che è responsabile dell’aspetto formale di tutto ciò che apparirà sullo schermo: la sua funzione a volte coincide e a volte integra quella più specifica dell’art director. In questo caso il production designer è Stephen Altman, figlio del regista, mentre i titoli di coda accreditano anche come art director Jerry Fleming. Seguono, nell’ordine, montaggio (Géraldine Peroni); musica (Thomas Newman) e direzione della fotografia (Jean Lépine). Le ultime tre scritte sono dedicate alla sceneggiatura (ve-

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niamo a sapere che il film è stato tratto da un romanzo di cui è autore lo stesso sceneggiatore Michael Tolkin), alla produzione, per la quale sono accreditati tre nomi: David Brown, Nick Wechsler e, sorpresa, lo stesso sceneggiatore Michael Tolkin, e infine alla regia. Nei primi anni di diffusione della semiotica del cinema (vedi 2.2), ebbe molta fortuna nei cineforum e nei circoli del cinema l’espressione “leggere il film”, un modo metaforico di definire l’attività di analisi e di interpretazione del testo filmico. Imparare a leggere correttamente, questa volta in senso non metaforico, i titoli di testa, che i francesi chiamano générique e gli americani cast and credits (o cast and crew), significa imparare a conoscere l’organigramma di quella complessa impresa che è la realizzazione di un film, imparare a districarsi tra le diverse fasi del processo di produzione. I film contemporanei di grande impegno produttivo, avendo dei cast and credits molto fitti, preferiscono distribuire i titoli tra l’inizio ( front credits) e la fine del film (closing credits), mentre in opere dei primi decenni della storia del cinema tali titoli, posti sempre all’inizio, erano molto essenziali (anzi nei primissimi anni, non c’erano per niente). Se guardiamo un classico da cineteca come Il segno di Zorro (1920) troviamo la seguente impaginazione. Il primo “cartello” porta la scritta: DOUGLAS FAIRBANKS in “THE MARK OF ZORRO” COPYRIGHT 1920 DOUGLAS FAIRBANKS PICTURES CORPORATION

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Successivamente viene dato il nome del regista con la formula: directed by FRED NIBLO

Viene poi indicata la fonte letteraria del film: based on the story THE COURSE OF CAPISTRANO by JOHNSTON McCULLEY published in “All-Story Weekly”

In successione vengono quindi nominati i responsabili della fotografia: photographed by WILLIAM MCGANN and HARRY THORPE

Seguono l’art director (che corrisponde al nostro scenografo) e, infine, gli interpreti (the players), in questo caso dieci in tutto, dalla protagonista femminile, Marguerite De La Motte, messa al primo posto, a Douglas Fairbanks, protagonista maschile, che chiude la lista. In realtà Fairbanks, che è anche il titolare della società di produzione, è citato tre volte: siamo già in pieno star system (vedi 5.4). Per contro, le competenze professionali accreditate sono assai poche. Se facciamo dei controlli andando su Internet Movie Data Base (http://www.imdb.com), troviamo segnalato qualche errore di grafia nei nomi (per esempio Harris Thorpe è accreditato come Harry Thorpe). Viene citata la fonte letteraria del soggetto, ma non si fa menzione di sce-

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neggiatori: essi sono, come ci informa IMDB, Eugene Miller e lo stesso Douglas Fairbanks. All’epoca evidentemente la funzione dello sceneggiatore non era ancora ben individuata e veniva eclissata da quella dell’autore del testo letterario di partenza. Lo stesso accade per il montatore le cui funzioni evidentemente non erano ancora ben differenziate. Appare invece bene in vista la società di produzione con l’indicazione della data del copyright, cioè del deposito legale a tutela dello sfruttamento di copie abusive, informazione preziosissima per lo storico che deve stabilire con esattezza la data di produzione del film. Assai più complessa e ricca di dati è la lettura dei titoli di testa di un film più recente, perché assai più complesso e differenziato si è fatto il processo di produzione. Facciamo una verifica sui titoli di testa (e di coda) di un film degli anni settanta, L’ultima donna di Marco Ferreri. Siamo in un’epoca in cui non c’erano ancora quegli interminabili closing credits che ci sono al giorno d’oggi, ma in cui possiamo trovare le informazioni significative per il percorso che stiamo facendo. La prima informazione che otteniamo riguarda la genesi del film da un punto di vista economico: troviamo infatti, nei titoli di testa, il marchio della società di distribuzione FIDA e, in quelli di coda, il nome delle due società produttrici: una coproduzione FLAMINI PRODUZIONI CINEMATOGRAFICHE, Roma, e LES PRODUCTIONS JACQUES ROIFELD, Paris. Veniamo così a sapere che il film è il risultato di una coproduzione, cioè che per la sua realizzazione sono stati impegnati capitali italiani e francesi. Il sistema coproduttivo offre notevoli vantaggi, perché permette di utilizzare le facilitazioni a favore delle produzioni nazionali previste in ambedue i paesi interessati. Inoltre, esso garantisce in anticipo la distribuzione del film in entrambi i mercati, in quanto è prassi comune

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che al reperimento dei capitali partecipino anche le società di distribuzione (sia con la sottoscrizione dell’impegno alla distribuzione che potrà essere usato dal produttore per accedere al credito bancario, sia sotto forma di anticipi di denaro sui diritti). I titoli ci informano anche sulla genesi artistica del film. Nel nostro caso veniamo a sapere che l’idea del film non è stata ricavata da un’opera letteraria o teatrale, ma che si tratta di un soggetto originale: Da un’idea di MARCO FERRERI Soggetto e sceneggiatura RAFAEL AZCONA MARCO FERRERI DANTE MATELLI

È probabile che, a partire da un’idea del regista, sia stato steso un soggetto più o meno articolato: si può trattare di alcune pagine che raccontano succintamente la trama del film, come di una scaletta (una descrizione sommaria della successione delle principali scene) o di un trattamento (che contiene indicazioni più precise sull’articolazione del racconto e sul carattere dei personaggi). In genere è sulla base di una di queste fasi di elaborazione del soggetto che si comincia a costruire il progetto finanziario. La sceneggiatura, come vedremo meglio più avanti, è invece la descrizione analitica del film, con l’indicazione precisa delle scene e dei dialoghi (vedi 10.1.2). Nelle scritte che stiamo esaminando, tra il marchio della società di distribuzione e le indicazioni relative al soggetto e alla sceneggiatura, troviamo, prima ancora del titolo del film, i nomi degli attori che hanno il ruolo di protagoni-

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sti: Ornella Muti e Gérard Depardieu (altri nomi di attori appaiono dopo il titolo del film; i responsabili dei ruoli minori sono relegati ai titoli di coda). Dimensioni dei caratteri dei nomi, ordine di successione, le formule con cui sono introdotti sono regolati per contratto tra gli attori e la produzione e dipendono dalla loro quotazione sul mercato, dalla loro forza contrattuale e dall’abilità del loro agente. Proseguendo nel nostro esame troviamo nell’ordine: Scenografia MICHEL DE BROIN Costumi GITT MAGRINI Trucco ALFONSO GOLA

Queste tre funzioni investono la progettazione o l’adattamento dei principali elementi “profilmici”, così chiamati perché la loro messa a punto è precedente e finalizzata all’azione della ripresa cinematografica vera e propria. Lo scenografo non sempre deve progettare e realizzare “scenografie”, come avviene nel teatro: il suo lavoro può limitarsi alla scelta e all’adattamento di ambienti e spazi preesistenti. Come veniamo a sapere dai titoli di coda, “vari interni dal vero ed esterni” del nostro film campione sono stati ripresi a Parigi. La qual cosa non dispensa dal fare delle riprese anche in studio: una scritta successiva a questa ci dà l’indicazione dei teatri di posa (Rizzoli Palatino a Roma) nei quali sono state fatte tali riprese. Anche se, come nel nostro caso, il film è di ambientazione contemporanea e quindi non richiede l’impiego di abbigliamenti e di accessori d’epoca, il lavoro del costumista è importante in quanto riguarda gli abiti indossati dagli attori e, quindi,

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contribuisce a definire gli elementi figurativi del film, al pari di quello dello scenografo (a volte le due funzioni sono svolte da una stessa persona). Abbiamo infine il trucco: il lavoro del truccatore che si occupa del maquillage dei volti e del corpo degli attori (funzione quindi assai importante in questo film) non va confuso con quello dello specialista degli effetti speciali visivi o trucchi ottici (vedi 10.5), ma in questo film in cui il protagonista dovrà alla fine simulare la sua automutilazione, il truccatore avrà dovuto occuparsi sicuramente dei dettagli profilmici di questa scena decisamente grandguignolesca. Strettamente collegate a queste ultime funzioni sono alcune altre che troviamo nei titoli di coda e che vanno dalla parrucchiera all’aiuto scenografo, dalle calzature alle sculture animate. È abituale che eventuali autori di opere artistiche implicate nel film siano regolarmente accreditati, come nel caso degli affreschi in Tre donne (1977) di Robert Altman, delle pitture su vetro in Teorema (1968) di Pasolini o le sculture in legno di Matthew Spender in Io ballo da sola (1996) di Bernardo Bertolucci. Le due funzioni fondamentali per la forma visiva finale del film sono la fotografia e il montaggio (vedi 10.4 e 10.6). Il direttore della fotografia, la cui funzione può essere nominata anche con la semplice dizione fotografia (o cinematography, come leggiamo nei film americani) è il responsabile dell’illuminazione della scena in funzione della resa fotografica delle riprese. Egli non è quindi l’operatore alla macchina, anche se a volte le due funzioni possono coincidere (ma negli studios hollywoodiani gli accordi sindacali impongono una netta separazione delle due funzioni). Nel nostro caso le direttive di Luciano Tovoli troveranno applicazione nel lavoro dell’operatore alla macchina, dell’assistente operatore e dell’aiuto operatore. Abbiamo poi il montatore il quale cura la messa a punto della copia finale del

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film, ma il suo lavoro comincia prima della cosiddetta fase di edizione, infatti gli spezzoni di pellicola impressionati, sviluppati e stampati (i “giornalieri”) vengono selezionati giorno per giorno e quindi organizzati dal montatore in una continuità provvisoria, che comunque costituirà la base per il lavoro finale di montaggio (dall’avvento del digitale, però, le cose vanno in modo un po’ diverso: vedi 10.6.3). Importanza non certo minore della parte visiva ha quella sonora, alla quale sono dedicati parecchi titoli. Innanzitutto la parte musicale con la designazione della composizione, della direzione e dell’edizione Musiche PHILIPPE SARDE Direzione Musicale HUBERT ROSTAING PRIME EDIZIONI MUSICALI, Roma PARAMUSIC, Parigi.

La musica non esaurisce la parte sonora del film. Vediamo quindi tra i titoli di coda tutte le altre informazioni relative al sonoro Fonico: JEAN PIERRE RUH Microfonista: LOUIS GIMEL Sonorizzazione: INTERNATIONAL RECORDING ROMA Effetti sonori: SERGIO BASILI Sincronizzazione effettuata con la collaborazione della DEFIS Collaborazione ai dialoghi italiani: ANNABELLA CERLIANI Le voci di GERARD DEPARDIEU e di ORNELLA MUTI sono doppiate da FLAVIO BUCCI e MICAELA PIGNATELLI

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Tali competenze riguardano le riprese del suono sul set e le successive elaborazioni: funzione del microfonista è quella di regolare la posizione dei microfoni in relazione alle esigenze di registrazione facendoli tuttavia restare “invisibili”, mentre quella del fonico consiste nel controllare la qualità della registrazione e, successivamente, di curare la sincronizzazione delle immagini con i suoni, gli aspetti tecnici del doppiaggio e del missaggio. Un’ultima informazione riguarda il doppiaggio. Veniamo a sapere che Gerard Depardieu è doppiato da Flavio Bucci: e la cosa non deve stupire, in quanto Depardieu è francese. Mentre la voce di Ornella Muti è stata sostituita da quella di Micaela Pignatelli: e neanche questo deve stupire, perché – almeno nel cinema italiano – non è certo una novità che un’attrice prima si imponga come diva, e poi magari impari anche a recitare. Accadrà anche a Ornella Muti, come era accaduto a Sophia Loren, Claudia Cardinale, Stefania Sandrelli (vedi Giraldi-Lancia-Melelli 2010). La realizzazione di un film richiede un’organizzazione ferrea, sia per garantire la qualità dei risultati, sia per rispettare i piani di lavoro. Ed ecco quindi una serie di funzioni di primaria importanza: Direttore di Produzione ROBERTO GIUSSANI Organizzatore Generale MAURIZIO AMATI Segreteria di Edizione LAURENCE ROSSINI

Chi svolge quest’ultima funzione si chiama anche scriptgirl: il suo compito è di tenere una sorta di diario di bordo che non ha finalità storiche ma strettamente operative. È

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grazie a lei che si può sapere a quale fase della lavorazione si è rispetto alla sceneggiatura, i tempi cronometrati delle riprese effettuate, le caratteristiche precise delle scene girate, la quantità di pellicola impressionata: tutte informazioni che sono indispensabili al regista, al montatore, agli attori. Come dice Truffaut a proposito del personaggio della script-girl nel suo già citato Effetto notte: “elle tire les ficelles du tournage”, cioè tiene le fila delle riprese. L’organizzatore generale, che a volte viene designato come produttore esecutivo, ha la funzione di curare tutta la complessa organizzazione che rende possibile la realizzazione del film, occupandosi soprattutto degli aspetti finanziari; il direttore di produzione che è alle sue dirette dipendenze è responsabile della messa in funzione materiale di questa complessa organizzazione, definendo il piano di lavoro e curandone poi l’attuazione. Vediamo ancora due voci che non riguardano la realizzazione del film, ma che sono ugualmente essenziali per la sua “vita” e la sua circolazione: Fotografo di scena VITTORIO BIFFANI Ufficio stampa ANNAMARIA TATÒ

Il primo ha la funzione di fotografare le principali scene del film. Le inquadrature da lui scelte, l’interpretazione luministica e cromatica da lui data alle scene fotografate, servono per il lancio pubblicitario del film, per la preparazione delle foto esposte nelle bacheche delle sale cinematografiche. Funzione dell’ufficio stampa (o più semplicemente dell’addetto stampa o eventualmente dell’agenzia specializzata) è quella di diffondere, mediante comunicati spesso

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corredati da documentazione fotografica, notizie sulle fasi di lavorazione del film. L’abilità dell’addetto stampa consiste nel cogliere e diffondere informazioni che “fanno notizia” (e, se è necessario, inventarle), per fare in modo che la stampa abbia occasione di parlare del film ancor prima della sua presentazione. Abbiamo voluto ripercorrere i titoli di testa di un film italiano degli anni settanta, per tributare un omaggio a due registi del nostro cinema: Marco Ferreri che è l’autore del film e Nanni Moretti, all’epoca giovanissimo, curatore del découpage après montage del film e ricordato solo con una noticina nell’edizione in volume della sceneggiatura (Ferreri 1976: 135). Quest’ultima è una precisazione a uso degli studenti di cinema (o aspiranti tali), per suggerire l’idea che un lavoro assolutamente “modesto” come la trascrizione di un film può costituire un ottimo apprendistato, anche per chi abbia ambizioni più alte. Qualsiasi film italiano e francese, per quanto riguarda l’aspetto produttivo, allinea oggi un elenco ben più nutrito sia del film di Ferreri sia di quello di Altman che abbiamo esaminato. Per esempio, Il Caimano (2006) di Nanni Moretti è presentato come “Una coproduzione Sacher Film, Roma - Bac Films - Stephan Films - France 3 Cinéma, Parigi, con la collaborazione di Wild Bunch Canal+ e Cinecinema”. Si tratta cioè di un cartello produttivo italofrancese, con partecipazioni televisive varie, cosa ormai del tutto abituale, dal momento che dalla distribuzione televisiva derivano gli anticipi indispensabili per raggiungere la cifra necessaria alla produzione del film.

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9.2 Che cos’è un regista cinematografico? Sembra che in uno stadio di calcio italiano, anni addietro, un gruppo di tifosi in polemica con l’arbitro abbia innalzato un cartello con la scritta: “Vogliamo un arbitro direttore e non regista”. Come a dire: vogliamo un arbitro che si limiti a dirigere la partita e che non abbia l’ambizione di trasformarla in uno spettacolo di sua invenzione e col suo nome più in vista di quello dei calciatori! (Raffaelli 1978: 288). Un gioco di parole come questo, che è la prova del riconoscimento diffuso degli aspetti creativi del lavoro di regista, non sarebbe possibile negli Stati Uniti dove la regia di un film viene siglata con il classico directed by… e dove il regista si chiama appunto director. Da noi, invece, le parole regia e regista si sono affermate negli anni trenta con l’avallo di un illustre linguista, Bruno Migliorini (Raffaelli 1978: 264-267), e dal teatro sono state immediatamente estese al cinema, acquistando una vasta popolarità come dimostra l’aneddoto linguistico-calcistico appena ricordato. La storia delle parole serve spesso a cogliere problemi non solo linguistici. Il fatto che nella nostra lingua si sia impiegato tanto tempo per trovare una parola sufficientemente chiara e pratica per definire una funzione può voler dire prima di tutto che tale funzione non era chiaramente affermata e riconosciuta. D’altra parte le espressioni francesi mise en scène e metteur en scène, abbastanza diffuse anche da noi in campo teatrale e sufficientemente chiare ed efficaci, male si prestavano a essere italianizzate (soprattutto la seconda). Altrove si sono presentati problemi analoghi: Vachel Lindsay, nel primo testo di teoria del cinema uscito negli USA (1915), era a tal punto incerto che, tutte le volte che doveva nominare il responsabile di un film, finiva per mettere in successione tre nomi diversi e di volta in volta

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diversamente combinati: author, producer, photographer (Lindsay 2008): insomma le funzioni che sarebbero state del regista non erano ancora chiare e, al momento, mancava la parola che le sintetizzasse. Se in un film si vuol far capire che un personaggio è un regista, il modo più rapido ed efficace consiste nel mostrarlo a fianco di una cinepresa, mentre impartisce in modo esagitato e con l’aiuto di un megafono ordini del tipo: “Azione! Motore! Stop!” (e, se si vuole aggiungere un po’ di colore, lo si fa inveire contro qualcuno che, entrando per errore nel campo visivo della cinepresa, ha rovinato un’inquadratura altrimenti perfetta!). Naturalmente il lavoro e le funzioni di un regista sono assai più complessi, come si può vedere nel più volte citato film di Truffaut Effetto notte. Nel corso di questo film il regista Ferrand, interpretato dallo stesso Truffaut, dice a un certo punto: “Che cos’è un regista? Un regista è un tale al quale vengono poste in continuazione domande, domande su tutto”. Un modo certamente efficace per dire che il regista è il centro verso cui converge tutto il complesso lavoro che si svolge sul set e da cui devono partire le direttive che permettono al film di assumere la sua forma. Truffaut voleva alludere anche alle angosce del regista, che non sempre ha risposte adeguate a ciò che gli viene chiesto e che a volte vede le riprese come il viaggio di una diligenza nel Far West: all’inizio – dice Ferrand-Truffaut – si pensa che sarà un bel viaggio, ma ben presto si finisce per chiedersi se si arriverà mai a destinazione. Il ruolo del regista come demiurgo e come figura centrale della mitologia cinematografica ci appare assai meno problematico in questa simpatica e iperbolica descrizione di Fellini che ha così rievocato la sua prima visita a un set cinematografico, quando faceva ancora il giornalista e si

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era recato a Cinecittà per intervistare Osvaldo Valenti, un divo del cinema italiano degli anni trenta. Così quella mattina era la prima volta che entravo a Cinecittà. Fingevo una gran disinvoltura, come Fred MacMurray nel film dove faceva il giornalista, ma in verità ero molto intimidito e sono rimasto sotto il sole a guardare a bocca aperta le torri, gli spalti, i cavalli, le torve palandrane, i cavalieri imbottiti di ferro e le eliche di aeroplani in funzione che sollevavano ovunque nuvoloni di polvere; richiami, grida, trilli di fischietto, il frastuono di enormi ruote in corsa, clangore di lance, spade, Osvaldo Valenti in piedi su una specie di biga dalle cui ruote spuntavano affilatissime lame e le urla terrorizzate di una gran massa di comparse, un caos tenebroso, soffocante… ma al di sopra di tutta quella confusione, una voce potente, metallica, tuonava ordini che parevano verdetti: “Luce rossa gruppo A attacchi sulla sinistra! Luce bianca gruppo barbari retroceda in fuga! Luce verde cavalieri e elefanti retroceda in fuga! Gruppo E e gruppo F rovinare al suolo! IM-ME-DIA-TA-MEN-TE!!!” […] Non riuscivo però a capire da dove provenisse la voce. […] Poi tutto a un tratto, in un silenzio improvviso, il braccio lunghissimo di una gru cominciò a sollevarsi nell’aria e a salire in alto, sempre più in alto, al di sopra delle costruzioni, al di sopra dei teatri di posa, oltre gli alberi, oltre le torri, su, ancora più su, verso le nubi, fino a fermarsi nel riverbero incandescente di un tramonto con milioni di raggi. Qualcuno mi prestò un cannocchiale e lassù, a più di mille metri, su una poltrona Frau saldamente avvitata alla piattaforma della gru, con i gambali di cuoio, scintillanti, un foulard al collo di seta indiana, un elmo in testa e tre megafoni, quattro microfoni e una ventina di fischietti appesi al collo c’era un uomo: era lui, era il regista, era Blasetti. (Fellini 1980: 43-44)

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Il regista è innanzi tutto un professionista dotato di un complesso bagaglio di competenze e come un buon manager deve avere capacità direzionali: ciò che da lui pretende il produttore è che concluda il film nel tempo previsto, rispettando il preventivo e lo standard qualitativo del prodotto. Come un regista teatrale deve tenere sotto controllo ogni minimo dettaglio delle scene (preesistenti o adattate, naturali o ricostruite) in cui si svolge l’azione e deve dirigere la recitazione degli attori in modo da ottenere la migliore resa possibile; deve inoltre controllare tutte le fasi della ripresa e dell’edizione, sovrintendendo al lavoro di molte persone dotate di differenti professionalità tecniche e artistiche. Non si può ovviamente tracciare un profilo professionale unico, valido per registi di diversi paesi e diverse tradizioni produttive e culturali. Ma al di là di queste differenze che possono essere anche notevoli, come ben sanno quei registi europei che hanno avuto l’occasione di girare a Hollywood, c’è da chiedersi quali siano i tratti comuni tra chi è chiamato a dirigere una produzione di parecchi milioni di dollari e chi dirige un film dotato di una troupe e un budget ridottissimi, tra chi gira un film con forti ambizioni artistiche e chi fa un lavoro dichiaratamente commerciale. Credo che un tratto comune, che può essere assunto anche come una possibile definizione dell’arte della regia, sia la capacità di finalizzare i mezzi a disposizione al raggiungimento di un obiettivo comunicativo ed espressivo. È facile che un regista che ha a disposizione un’équipe e un budget inadeguati faccia un brutto film, ma non è per nulla automatica la riuscita di un film per il quale il regista abbia a disposizione mezzi faraonici. Ci sono stati film poveri che sono divenuti dei classici o, addirittura, degli eccellenti affari economici: per esempio, La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero e Easy Rider (1969) di Dennis Hopper. Al contrario, film

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ricchissimi sono entrati nella storia del cinema solo come esempi di colossali fiaschi economici ed estetici. Doveroso a questo punto citare Cleopatra, con Elizabeth Taylor, che nel 1963 mise a repentaglio la carriera del regista Joseph Mankiewicz, oltre che le sorti di una delle più gloriose società produttive di Hollywood, la 20th Century Fox. Ci sono stati registi che, pur lavorando all’interno di un sistema rigorosamente basato sulla divisione dei generi e la massimizzazione dei profitti, hanno prodotto non solo grandi successi commerciali, ma anche dei classici universalmente riconosciuti (si pensi a Hitchcock). Il principio dell’economia dei mezzi (il che non vuoi dire risparmio, bensì utilizzo ottimale) sta alla base del lavoro registico. Per convincersene, basta leggere quello che è e che resterà a lungo il più bello e appassionante libro sull’arte della regia: Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, minuziosa e appassionata intervista che il regista francese ha fatto al “maestro del brivido” (Truffaut 2009). Eccone subito un esempio. A un certo punto del loro colloquio, Truffaut osserva che, nel film La finestra sul cortile (1954), il cortile tutto intero viene mostrato una sola volta, quando la donna grida dopo la morte del suo cane. Hitchcock fa allora notare al suo giovane collega-intervistatore che la scelta di un’inquadratura non va mai fatta al solo scopo di mostrare la scenografia che si è preparata, ma sempre e solo “in funzione degli scopi drammatici e dell’emozione”. E così, per chiarire meglio quello che egli considera evidentemente un principio tanto estetico quanto professionale, lascia cadere per un momento, con l’aria di voler minimizzare (il suo celebre understatement!), il discorso su uno dei suoi capolavori indiscussi e fa un esempio tratto da una sua recente esperienza televisiva:

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L’altro giorno stavo girando uno spettacolo di un’ora per la televisione e si vedeva un uomo che entrava in un commissariato per costituirsi. All’inizio della scena ho ripreso piuttosto da vicino l’uomo che entra, la porta che si richiude; egli si dirige verso una scrivania, ma non ho fatto vedere tutta la scenografia. Mi hanno detto: “Non vuole mostrare tutto il commissariato in modo che la gente sappia che ci si trova proprio in un commissariato?”. Ho risposto: “Perché? Abbiamo il sergente di polizia che ha tre gradi sul braccio e si trova vicino alla macchina da presa: è sufficiente per far capire che siamo in un commissariato. Il campo totale potrà essere molto utile in un momento drammatico, perché sciuparlo?’’. (Truffaut 2009: 183)

Un serial televisivo ha naturalmente caratteristiche produttive diverse da un film di grande impegno come La finestra sul cortile. E tuttavia vediamo che Hitchcock enuncia un unico criterio, che è quello della subordinazione della forma adottata alla funzione: “totale consapevolezza della forma”, questa potrebbe essere la formula, ricavata dalle parole stesse di Hitchcock, che riassume i principi cui dovrebbe attenersi, in ogni sua fase, il complesso lavoro del regista. PER SAPERNE DI PIÙ Michel Chion, grande studioso di tutti gli aspetti relativi alla colonna sonora, ha scritto un ottimo testo di introduzione ai mestieri del cinema: assolutamente da raccomandare per un primo approfondimento dei temi trattati in questo capitolo (Chion 1999). Il lavoro del regista e la vita del set sono rappresentati in modo ineguagliabile nel film Effetto notte (1973) di François Truffaut. Nello stesso film di Truffaut si ironizza sul metodo italiano della post-sincronizzazione: tutto ciò che c’è da sapere sulla pratica del doppiaggio in Italia (dove ci sono i doppiatori più

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bravi del mondo), lo si può trovare in Guidorizzi 1999 e GiraldiLancia-Melelli 2010. A leggere le Lezioni di cinema, raccolte a cura del Festival di Cannes (AA.VV. 2007), si direbbe che i registi cinematografici siano persone che non sono capaci o non hanno voglia di fare “lezioni di cinema”. Tuttavia sanno raccontare bene le loro esperienze e il loro mestiere. Queste Lezioni di cinema, grazie alla grande varietà di esperienze presentate, possono essere molto utili per capire in cosa consista questo lavoro nelle varie parti del mondo: troverete gli interventi di registi statunitensi come Oliver Stone e Sidney Pollack, italiani come Francesco Rosi e Nanni Moretti, ma anche africani come l’egiziano Youssef Chahine e il senegalese Ousmane Sembene; europei che hanno lavorato anche a Hollywood, o in pianta stabile come il cecoslovacco Milos Forman o saltuariamente come l’inglese Stephen Frears. Né manca il cinema cinese (Wong Kar-wai), russo (Andrej Konþalovskij), greco (Anghelopulos). Peter Bogdanovich, critico ed egli stesso regista, è autore di un memorabile libro-intervista con Orson Welles (Welles-Bogdanovich 1993) e ha raccolto in volume anche le sue interviste ai grandi registi hollywoodiani (Bogdanovich 2010). Oltre al già citato Il cinema secondo Hitchcock (Truffaut 2009), un altro grande libro sull’arte della regia è Conversazioni con Billy Wilder (Crowe 2002), la cui lettura (piacevolissima e quanto mai istruttiva) andrebbe accompagnata con la visione del film Billy, ma come hai fatto? (1992) di Volker Schlöndorff e Gisela Grischow. Chi è interessato a I protagonisti, il film dal quale ha preso avvio questo capitolo, e alla figura del suo regista, Robert Altman, potrà leggere con grande profitto il libro-intervista che gli ha dedicato David Thompson (2010): un’ottima occasione per ripercorrere vicenda creativa, metodi di lavoro e contraddizioni di un altro grande di Hollywood.

10. Dalla sceneggiatura al montaggio

10.1 La sceneggiatura “Venticinque parole”: tante è disposto a concederne ai suoi interlocutori il giovane produttore esecutivo Griffin Mill, protagonista del film di Altman che ci fa da guida in questo percorso dentro il processo di produzione (9.1). È una regola dura, ma un executive deve trovare il tempo di ascoltare tutti, per non lasciarsi sfuggire nessuna delle storie potenzialmente valide che gli siano presentate. In questa veste, gli capita di ascoltare di tutto. C’è chi gli propone un sequel di Il laureato, un “Laureato parte II”, con gli stessi attori (Dustin Hoffman, Anne Bancroft, Katharine Ross) invecchiati di venticinque anni e una figlia che sarebbe appunto “la laureata” (un possibile ruolo per Julia Roberts). E c’è chi gli propone la storia di un senatore che, divenuto veggente a causa di un infortunio, vede nella mente delle persone: un giorno guarda in quella del presidente degli Stati Uniti e la trova vuota. Quella delle venticinque parole non è un’ossessione di Griffin, ma risponde in pieno alla filosofia dell’high concept movie, abbracciata da Hollywood fino dagli anni settanta del secolo scorso, quando cominciò la corsa ai blockbusters (8.1). Cosa si intende per high concept? E l’high concept riguarda solo i blockbusters? Una

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delle definizioni più efficaci che potrete trovare è questa: una storia dotata di uno sviluppo narrativo tale da poter essere riassunta in poche parole capaci di catturare l’interesse di un executive super-occupato e, di riflesso, di uno spettatore che guarda distrattamente la pubblicità nei network (D’Agostino 2008). Per quanto abbia poi avuto i suoi sviluppi più noti e commentati nella produzione dei blockbusters degli anni settanta (a partire da Lo squalo di Steven Spielberg), l’high concept nasce in ambito televisivo e deriva dalla decisione di ottimizzare la struttura narrativa degli MFT (Movies For Television, film a basso budget destinati alla sola circolazione televisiva). La filosofia era la seguente: non potendo attingere alla riserva dei grandi best sellers, si trattava di reperire nei grandi temi diffusi dalla cronaca e dall’attualità storie capaci di colpire l’immaginario collettivo. Inoltre non potendo puntare sulla forza d’attrazione delle star, si trattava di puntare tutto sulla narrazione. L’idea originaria di high concept, quella elaborata da Barry Diller, in qualità di responsabile dello sviluppo delle storie presso l’American Broadcasting Company (ABC), poneva l’accento sulla struttura narrativa. Successivamente Justin Wyatt, che ha sempre riconosciuto a Diller la paternità della formula, l’ha adattata per definire un più complesso fenomeno in cui l’aspetto narrativo, sempre di primaria importanza, si combinava con più vaste e aggressive strategie di marketing e di design visuale (Wyatt 1994; D’Agostino 2008). Che sia di venticinque parole o di cento, il punto di partenza di un film è lo story concept. Lo story concept consiste nella definizione di circostanze, personaggi, azione. Non c’è azione se non c’è conflitto. E la definizione del conflitto deve essere collegata a un tema. Mentre il conflitto si traduce in un’azione, cioè un predicato verbale, il tema è dato da un termine astratto, un’idea, un universale.

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Come scrive Robert McKee, “una storia è la conversione di un’idea in un’azione”. Lo sviluppo di uno story concept in un soggetto è, nel sistema produttivo hollywoodiano, il primo atto del processo di produzione. Non a caso è proprio su questa delicatissima fase che vengono fatti significativi investimenti, perché è a questo livello che il progetto del film prende la sua forma, a partire dalla quale è possibile passare alle ulteriori fasi del processo produttivo, una delle quali è la scrittura della sceneggiatura vera e propria (McKee 2000: 139; Bandirali-Terrone 2009: 33-34 e 47). 10.1.1 Come si scrive un film La definizione del soggetto è solo il primo passo del lavoro di sceneggiatura: si tratta non solo di ideare un buon soggetto ma anche di convincere chi ne ha il potere (il produttore) della sua bontà ed efficacia. Nella progettazione di un film, soprattutto – ma non solo – nella sua fase iniziale, c’è una componente “ideativa” (sviluppare una buona idea) e c’è una componente “seduttiva” (convincere qualcuno a investire denaro, mezzi ed energie di varie persone su questa idea). Registi come Rossellini e Fellini sono descritti dai loro biografi come grandi seduttori di produttori, attori e tecnici. L’ideazione e la gestione del soggetto sono le fasi che precedono la stesura della sceneggiatura vera e propria. Oggi esistono ottimi manuali molto efficaci nella definizione delle tecniche relative alla scrittura del film nelle sue varie fasi. Si parte dalle regole che stanno alla base di una buona costruzione drammaturgica: la prima di queste regole è la struttura in tre atti, che troviamo formulata, a proposito della tragedia, nella Poetica di Aristotele e ripresa dai manuali tenuti in massima considerazione dagli sceneggiatori di Hollywood (Field 1991; Seger 1994; McKee 2000). La struttura in tre

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atti consiste nell’organizzazione della narrazione in tre parti, delle quali la prima deve presentare la situazione di partenza, il protagonista e i suoi obiettivi; la seconda mette all’opera quei conflitti che si oppongono al raggiungimento dello scopo e quindi definisce l’evoluzione del personaggio e il tono della storia; la terza infine consiste nel mostrare come il conflitto viene risolto, con il raggiungimento o meno degli scopi. Dentro una struttura di questo tipo, lo sceneggiatore deve individuare le scene attraverso le quali raccontare la storia, definendone lo sviluppo, per esempio attraverso quelli che vengono chiamati i “turning point”, cioè i punti di svolta che normalmente marcano il passaggio da un atto a un altro. È nella scrittura delle scene che vanno definiti tutti i tratti relativi agli ambienti, i personaggi e, soprattutto, il loro linguaggio, cioè i dialoghi (Robbiano 2000: 65). La sceneggiatura, intesa come tecnica di progettazione o di “previsualizzazione” di un film, è il presupposto per la messa a punto di tutte le procedure tecnico-organizzative della realizzazione. Nel sistema hollywoodiano, come abbiamo visto, alla sceneggiatura si arriva dopo che la macchina economico-finanziaria del film è già stata messa in moto. La sceneggiatura è un testo di tipo assai particolare, che in Italia viene chiamata dagli addetti ai lavori più semplicemente copione. Essa deve avere delle qualità espressive e drammatiche tali da trasmettere efficacemente significato e potenzialità del progetto a quanti sono coinvolti nella realizzazione, in particolare agli attori che trovano qui i dialoghi che dovranno recitare. Ma la sceneggiatura deve avere anche una sua funzionalità pratica: deve permettere al direttore di produzione di stabilire il piano di lavorazione. Nel sistema italiano, dove è abituale che produttore e regista accedano ai contributi ministeriali, la sceneggiatura serve al produttore per fare il piano produttivo, calcolare

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tempi e costi di lavorazione, e alla commissione ministeriale per valutare il progetto e la sua coerenza. Alla base di un film che rientri nel normale processo di produzione (con esclusione quindi di particolari tipi di sperimentazione basati sull’improvvisazione e di tutte le produzioni atipiche) c’è una sceneggiatura che può essere redatta in varie forme, ma che deve comunque contenere indicazioni funzionali al passaggio da una fase ideativa e progettuale a una realizzativa. Vediamo ora di seguire le fasi di sviluppo dal soggetto alla sceneggiatura prendendo come guida una preziosa documentazione del lavoro di Zavattini (2005) relativo alle varie fasi di scrittura del film Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica. Come si vedrà, Zavattini in questo caso fa precedere il trattamento alla scaletta, secondo un metodo che ha una sua coerenza di poetica più che rispondere a esigenze di modi di produzione. Infatti, a seconda dell’importanza e del valore operativo che si danno alle varie fasi, la scaletta (in inglese outline) può precedere il trattamento (in inglese treatment) che a volte può anche essere abolito per passare direttamente alla sceneggiatura (screenplay) e al découpage tecnico (shooting script) (Muscio 2009). La scelta di quest’esempio zavattiniano non è solo un omaggio al più geniale degli sceneggiatori italiani, colui che sicuramente ha dato un decisivo contributo allo sviluppo di una via italiana alla sceneggiatura, ma anche il riconoscimento dell’attualità che il soggetto conserva ancora oggi, nonostante un contesto politico e sociale completamente diverso da quello dell’Italia del secondo dopoguerra. a) Il soggetto In questo caso si tratta di un soggetto originale dello stesso Zavattini. Altre volte, come nel caso di Ladri di biciclet-

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te, il soggetto può essere costituito da un’opera letteraria o teatrale preesistente che viene adattata. Il testo di Zavattini ha le dimensioni di un piccolo racconto. Anche la forma è quella letteraria. Non ci sono indicazioni tecniche, né di ambientazione. È invece sviluppato, nello stile colloquiale tipico di Zavattini, uno spunto narrativo che può essere così riassunto: disavventure e momenti, ora drammatici ora comici, della vita di un pensionato che non ha una pensione adeguata a mantenere un livello di vita decoroso. Ne riportiamo l’inizio: Che cos’è un vecchio? I vecchi puzzano, disse una volta un ragazzo. Io temo che sui vecchi non la pensino diversamente molti che questa frase crudele non hanno mai detto. Esagero? Io voglio raccontarvi la storia di un vecchio e mi auguro alla fine che non direte che l’ho inventata. Si chiama Umberto D., ha sessant’anni e una faccia sorridente perché ama la vita, l’ama tanto che protesta con tutte le forze contro il governo che non vuole aumentare la sua magra pensione. Non meravigliatevi quindi se lo vediamo a un ordinato corteo di vecchi che attraversano la città con dei cartelli sui quali è scritto Vogliamo soltanto il necessario per vivere. Ma le guardie hanno avuto l’ordine di proibire ai dimostranti di proseguire e i dimostranti cercano allora di forzare il cordone. Ne nasce un parapiglia. Niente di grave, per fortuna. Il nostro Umberto con le sue gambe un po’ arrugginite fugge per una via traversa; quasi pentito, certamente meravigliato, di avere osato tanto. A un angolo della strada incontra altri vecchi che corrono, e con loro si rifugia in un portone. Tenteranno un’altra volta, dicono. La speranza li sorregge. Hanno lavorato trent’anni, quarant’anni fedeli allo stato, curvando la schiena per il miraggio di una vecchiaia tranquilla. La loro vecchiaia invece è piena di umiliazioni. […] (Zavattini 2005: 27)

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b) Il trattamento In questo secondo testo gli spunti narrativi del soggetto sono sviluppati e approfonditi. La forma è ancora quella letteraria, ma è meglio definita sul piano narrativo, più funzionale allo sviluppo delle varie scene in cui si articola la vicenda: sono indicati i luoghi dell’azione e le situazioni sono meglio precisate. Ecco l’incipit del trattamento che fornisce immediatamente un’idea del diverso registro di scrittura e della diversa finalità: Una bella mattina d’autunno uno strano corteo percorre le vie di Roma. Sono cinque o seicento persone, forse di più, ciascuna delle quali porta al guinzaglio un cane, persone di tutte le età e di tutte le condizioni sociali. Il corteo è serio e disciplinato e i cani si comportano bene come i loro padroni. Il corteo si dirige tra la curiosità dei cittadini verso piazza Venezia. Non riusciamo a capire di che cosa si tratta. Pensiamo, vedendo apparire in fondo l’Altare della Patria, che il corteo si diriga là per un omaggio, ma invece svolta a destra e sale la scalinata del Campidoglio. Ma sul sommo della scalinata ecco apparire un folto nugolo di guardie che avanza deciso verso il corteo. Il corteo si ferma. Il capo delle guardie dice che il corteo non può salire nella piazza del Campidoglio. Molti del corteo protestano, gridano, spingono, vogliono proseguire. Allora le guardie sono costrette a fermarli con la forza. Un tale sale sul piedistallo di una statua e si mette ad arringare la folla mentre le guardie si ritirano sull’alto della scalinata in attesa degli eventi. L’oratore ci fa sapere con parole patetiche che queste persone rappresentano i padroni di cani di tutta Roma venuti qui per protestare contro una nuova tassa sui cani. […] (Zavattini 2005: 34)

In questa fase, lo spunto iniziale del corteo di protesta dei pensionati viene sviluppato e, in parte, modificato: diventa cioè un corteo di protesta contro una tassa sui cani.

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Si tratta di una variante che prevede una presentazione del protagonista e delle sue condizioni di solitudine e di disagio economico in forma più indiretta e sfumata, con l’aggiunta di qualche spunto comico. Come vedremo nelle fasi successive, questa variante verrà poi abbandonata. Per dare qualche altro esempio di come uno spunto del “soggetto” venga elaborato in fase di trattamento, vediamo come la frase “ha una faccia sorridente perché ama la vita, l’ama tanto che protesta ecc.” si trasforma in una scenetta: Umberto D. esce dalla mensa con un altro vecchio molto malvestito. “Che bel sole” dicono appena in strada. Umberto dice che il mondo è bello e che a lui basterebbe che aumentassero di poco la pensione per essere felice. (Zavattini 2005: 36)

Ecco, ancora, come la decisione di Umberto di chiedere l’elemosina, che nel soggetto è descritta come un tentativo incerto e maldestro subito rientrato a causa dell’arrivo di una persona conosciuta, viene focalizzata in una vera e propria gag (che sarà mantenuta nel film): Il vecchio si appoggia al muro e resta lì fermo per un minuto. Poi allunga una mano. Passa un uomo frettoloso. Umberto si vergogna e fa finta di avere allungato la mano per vedere se piove. Allora anche l’uomo frettoloso guarda in alto, scruta il cielo, poi prosegue. (Zavattini 2005: 48)

c) La scaletta In questa fase il progetto si presenta come la descrizione della successione delle scene con l’indicazione sommaria di ciò che accade. Ecco come diventa l’incipit che abbiamo già esaminato nelle fasi di soggetto e di trattamento:

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Corteo dei vecchi pensionati in via Nazionale. Presentazione di Umberto e del suo cane. La Celere scioglie il corteo perché fatto senza permesso: nei pressi del Viminale. Umberto si rifugia durante il fuggi-fuggi in un portone con un altro vecchio: il vecchio, uditi i suoi guai, gli consiglia un posto dove si ottengono piccoli prestiti. […] (Zavattini 2005: 57)

d) La sceneggiatura Vediamo, infine, come le schematiche indicazioni della scaletta vengano sviluppate nella sceneggiatura. A partire da una di queste (“Presentazione di Umberto e del suo cane”), possiamo vedere come le notazioni sulla mancanza di solidarietà nei riguardi dei vecchi presenti nel soggetto siano risolte in bozzetto comico-patetico. Una strada centrale di Roma - Esterno, giorno Un corteo ordinato e pacifico percorre una strada centrale. Il corteo è composto soprattutto di vecchi e vecchissimi. Ce ne sono dei curvi, degli zoppicanti, di quelli che faticano a seguire il corteo e fanno delle brevi corsettine per stare a fianco degli altri. Quelli di testa hanno dei grandi cartelli sui quali è scritto: Abbiamo lavorato tutta la vita. Anche i vecchi devono mangiare. Giustizia per i pensionati. Siamo i paria della Nazione. Aumentate le pensioni. La gente ai lati della strada guarda indifferente questo corteo. Qualcuno sorride. Qualche guardia segue e sorveglia con discrezione i dimostranti. Un autobus sopraggiunge da piazza Venezia con un grande strombettio e obbliga il corteo a un rapido scompaginamento. STROMBETTIO DELL’AUTOBUS. L’autobus prosegue portandosi dietro una scia di proteste del corteo che si ricompone in fretta.

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IMPRECAZIONI, GRIDA DI DIMOSTRANTI. Il corteo svolta per una via laterale. Via laterale - Esterno, giorno Il corteo sta dirigendosi verso una piazzetta. Là in fondo appare un nugolo di guardie su camionette che sbarrano la strada. Il corteo prosegue in silenzio. ABBAIAMENTO DEL BAMBINO. Un bambino dal marciapiede abbaia verso un cane che un vecchio sui sessant’anni – Umberto D. – (un vecchietto molto simpatico, sempre un po’ imbarazzato, vestito modestamente ma con dignità) tiene al guinzaglio. Il cane risponde abbaiando e cercando di svincolarsi dal guinzaglio per correre contro il bambino. ABBAIAMENTO DEL CANE. Il bambino sul marciapiede gli cammina a fianco continuando ad aizzarlo con abbaiamenti. Il vecchio a disagio per l’abbaiamento del cane, guarda i suoi vicini di corteo con l’aria di chi vuole domandare scusa: poiché il cane continua ad abbaiare, Umberto D. minaccia di inseguire il bambino, batte i piedi. Il bambino scappa via mentre… …tutti i dimostranti cominciano a scandire in coro le proteste. CORO PROTESTE: Au - men - to! Au - men - to! Au - men to! Au - men - to! Pen - sio - ni! Pen - sio - ni! Il vecchio si associa anche lui al coro dei dimostranti dopo un attimo di esitazione come a prendere coraggio, mostrando così la sua timidezza. (Zavattini 2005: 69-71)

Il brano sopra riportato ha la forma della sceneggiatura letteraria; mancano cioè precisazioni tecniche circa la suddivisione in piani, il tipo di inquadrature. Indicazio-

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ni, queste ultime, che appaiono in quello che si chiama il découpage tecnico, alla cui definizione contribuiscono in varia misura il regista e i suoi più stretti collaboratori nella fase conclusiva della progettazione o contestualmente alle riprese. Anzi si può affermare che il découpage definitivo si realizza anche attraverso un certo grado di improvvisazione sul set e poi in sede di montaggio, quando ancora possono essere introdotte varianti in base al materiale girato. Naturalmente non si può enunciare una regola fissa, in quanto il tipo di sceneggiatura elaborata e il grado in cui viene rispettata in fase di ripresa varia a seconda dei registi, cinematografie, modi di produzione. Hitchcock ha sempre ostentato una sorta di indifferenza rispetto al momento della ripresa vera e propria: e questo non certo perché ne sottovalutasse l’importanza, ma perché arrivava a questa fase avendo definito un découpage tecnico talmente preciso da richiedere solo la sua esecuzione. Mentre è altrettanto noto il valore che i registi della Nouvelle Vague attribuivano all’improvvisazione, alla costruzione del découpage giorno per giorno, in base alle reazioni degli attori alle situazioni prospettate dalla sceneggiatura o agli imprevisti offerti dall’ambiente di ripresa. Al contrario, ci sono dei tipi di produzione in cui il découpage tecnico è sostituito o integrato da uno storyboard, vale a dire da una visualizzazione grafica più o meno sommaria che fornisce, quasi si trattasse di un fumetto, lo schizzo degli elementi che entrano nell’inquadratura. Questo procedimento si rende particolarmente importante nei film che devono fare ampio ricorso a effetti speciali o a particolari tecniche di ripresa. Negli ultimi anni, grazie all’impiego di tecniche elettroniche si è andata profilando una nuova forma di integrazione tra la previsua-

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lizzazione letteraria di un film, qual è la sceneggiatura, e una previsualizzazione in video, una sorta di story-board digitale. Una delle prime sperimentazioni si è avuta nella realizzazione di Un sogno lungo un giorno (1981) di F.F. Coppola (AA.VV. 1982b). Per questo film è stato usato innanzitutto un computer per l’elaborazione elettronica dei testi che permetteva a tutti i membri della troupe di avere in qualsiasi momento la sceneggiatura aggiornata alle ultime correzioni e alle ultime note tecniche aggiunte in fase di prove. Le prove, particolarmente complesse e accurate, prima di arrivare alle riprese vere e proprie su pellicola, comprendevano: la registrazione di una sorta di colonna sonora preventiva con musiche e dialoghi, l’elaborazione di intere sequenze registrate su videonastro nei luoghi reali di Las Vegas (e non ancora nella ricostruzione in studio) per far entrare meglio gli attori nell’ambiente visivo della vicenda e per studiare gli effetti cromatici e luministici da ottenere. Tutto ciò ha permesso la messa a punto di una nuova metodologia di elaborazione della sceneggiatura in cui la tradizionale scrittura del film trova integrazione con vari sistemi di “previsualizzazione” elettronica che consentono di arrivare alla fase della ripresa vera e propria su pellicola avendo già preventivamente verificato molti dei fattori che determinano il risultato finale. Si tratta di un metodo che offre numerosi vantaggi sia in fase di ripresa che di montaggio (vedi 10.6.3). È probabile che l’insuccesso di questo film di Coppola sia dovuto al fatto che il grande battage pubblicitario, che ne ha preceduto l’uscita e che enfatizzava l’impiego di una sofisticata tecnologia elettronica, abbia creato delle attese sbagliate o comunque inadatte a entrare nello spirito di un’opera che non ha nulla a che fare con le produzioni di

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tipo fantascientifico alle quali si associa l’impiego di tecnologie di avanguardia. L’incomprensione di questo film deriva, paradossalmente, da quel fenomeno di feticizzazione della tecnica che spesso assicura il successo di altri tipi di produzione. In realtà è difficile che i soli espedienti tecnici possano reggere un film che non si basi anche su una buona sceneggiatura. Eravamo ancora ai primi passi del cinema tecnologico quando Michael Chapman, uno dei più prestigiosi direttori della fotografia del cinema americano degli anni settanta (Taxi Driver), dichiarava: “Ancor oggi la risposta a un problema tecnico è una sceneggiatura migliore” (AA.VV. 1979b: 89). 10.1.2 Come si tra-scrive un film Quando un film ha un grande successo, è abituale che venga pubblicata la sua sceneggiatura. C’è stata tutta un’importante stagione del cinema italiano durante la quale i maggiori film prodotti erano accompagnati dall’uscita di un prezioso volume di documentazione, che conteneva tra le altre cose la sceneggiatura. La collana, ideata e diretta da Renzo Renzi per la Cappelli di Bologna, si chiamava “Dal soggetto al film” (Renzi 1999). Ancor oggi ci sono editori che hanno collane di questo tipo, per esempio l’editore Bompiani che, in concomitanza con la presentazione a Venezia di Bastardi senza gloria (2009) di Tarantino, ha mandato in libreria la sceneggiatura del film. Si tratta di una sceneggiatura in fase avanzatissima (porta infatti la dicitura “ultima stesura 2 luglio 2008”), ma non è ancora un découpage tecnico, che risulterebbe di lettura abbastanza complicata per un lettore comune (Tarantino 2009). Più tecniche sono invece le sceneggiature ricavate a posteriori dal film concluso. Infatti, alla scrittura

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del film nella fase progettuale corrisponde una riscrittura dopo che il film ha assunto la sua forma definitiva, ha raggiunto il pubblico ed è, magari, diventato un classico. È quello che sull’Avant-Scène du Cinéma, la più prestigiosa e rigorosa collezione di sceneggiature del cinema mondiale, viene chiamato il découpage après montage définitif e che corrisponde all’italiano sceneggiatura desunta dalla copia definitiva. La lettura di una sceneggiatura desunta, meglio se di un film di cui si dispone di una copia da controllare alla moviola o in DVD, è la forma più piacevole e sicura per apprendere tutto ciò che bisogna sapere sulla tecnica di scrittura analitica di un film. Per fornire degli esempi di queste tecniche di scrittura riportiamo ora alcuni brani di sceneggiature desunte. Primo esempio: incipit di Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder. In questa trascrizione, curata da Fernaldo Di Giammatteo, viene seguito il metodo della separazione in due colonne, che è quello usato abitualmente anche dagli sceneggiatori: nella colonna di sinistra sono fornite tutte le indicazioni relative alla parte visiva, in quella di destra quelle relative al sonoro (dialoghi, voci fuori campo, musica, rumori). Nella colonna di sinistra sono indicati tra parentesi, dopo il numero progressivo dell’inquadratura, i dati tecnici utilizzando abbreviazioni che, in genere, sono spiegate in una nota (vedi 10.2), mentre le parole in corsivo evidenziano dati relativi a effetti ottici (per esempio le dissolvenze) o i movimenti di macchina (panoramiche, carrellate).

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Dissolvenza di apertura Un marciapiede. In sovraimpressione la dicitura: “Un film Paramount”. La mdp carrella indietro sino a scoprire una palina che reca scritto: SUNSET BLVD. Continua il carrello indietro, sull’asfalto della strada. In sovraimpressione si succedono i titoli di testa: [scorrono i titoli di testa] 1 - (continua l’inquadratura con cui il film è iniziato, sotto i titoli di testa). Panoramica verso l’alto, sino a inquadrare tutto il Sunset Boulevard. Vengono verso la mdp due motociclette, seguite da tre automobili della polizia. (Musica. Sirene. Rombo di motori.) VOCE DI GILLIS: Sì, è il Sunset Boulevard, a Los Angeles, California. Sono le cinque del mattino. Ecco la squadra mobile… con i giornalisti. Panoramica rapidissima per seguire il “corteo”, che passa oltre. Dissolve in: 2 (CL) - Sunset Boulevard. Le motociclette e le macchine della polizia vengono verso la mdp. (Musica. Sirene. Rombo di motori.) VOCE DI GILLIS: In una di queste grandi ville, alla periferia, è stato commesso un assassinio. Se ne occuperanno le ultime edizioni dei giornali. (Musica. Sirene. Rombo di motori.) Dissolve in: 3 (CL) - Sunset Boulevard. I due motociclisti entrano in campo e svoltano in una strada laterale. VOCE DI GILLIS: Ne sentirete parlare alla radio, vedrete i parti-

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colari alla televisione. C’è di mezzo una “diva” del “muto”… una delle più famose. 4 (CL dall’alto) - L’esterno della villa di Norma Desmond. Entrano in campo i due motociclisti e si fermano. Seguono le macchine della polizia. Ne scendono gli agenti, i giornalisti e i fotografi. Sciamano verso l’ingresso della villa e salgono la scaletta che conduce alla piscina. (La mdp segue quelli che si avviano per ultimi). (Musica. Sirene. Rombo di motori.) VOCE DI GILLIS: Ma prima che la notizia vi giunga “gonfiata” e alterata, prima che ci mettano le mani i giornalisti di Hollywood, forse non vi dispiacerà sapere come sono andati, realmente, i fatti. È così? Allora, ecco l’occasione buona. Nella piscina della villa dove abita la “diva”, galleggia il cadavere di un giovanotto… con due pallottole nella schiena e una nello stomaco. 5 (CL) - Agenti, giornalisti e fotografi (che fanno scattare le macchine) intorno alla piscina, in cui galleggia il cadavere. (Musica.) VOCE DI GILLIS: Non è una persona importante, vi assicuro. Si tratta di un soggettista cinematografico che aveva all’attivo un paio di film di secondo piano. 6 (CM dal basso) - Il cadavere di Gillis nella piscina, inquadrato di sotto. Sul fondo, visti attraverso l’acqua, gli agenti e i giornalisti.

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Si scorgono i lampi delle “vacublitz”. (Musica.) VOCE DI GILLIS: Poveraccio. Aveva sempre desiderato una piscina. Beh, alla fine ce l’ha avuta… ma l’ha pagata un po’ troppo cara. Facciamo un passo indietro. (Musica termina.) Si passa alla rievocazione. Dissolve in: 7 (CLL dall’alto) - Hollywood. Ivar Street sino a Hollywood Boulevard. Animazione. VOCE DI GILLIS: Tutta la storia è cominciata sei mesi fa.

(Wilder 1952: 17-19)

Secondo esempio: una scena, per l’esattezza l’ottava di un cult movie degli anni settanta, Nel corso del tempo (1976) di Wim Wenders, in una trascrizione che adotta un criterio diverso dalla precedente, adeguato alle tecniche di scrittura oggi in uso nelle sceneggiature (per i termini tecnici relativi alle inquadrature e ai movimenti di macchina vedi 10.2 e 10.3).

1.

Sulla riva dell’Elba. Esterno giorno Bruno, al finestrino, è ripreso in ravvicinato, mentre si insapona con il pennello, guardando nello specchietto retrovisore esterno che risulta in primo piano. Improvvisamente ode qualcosa e si volta indietro sporgendosi un po’ dal finestrino. La mdp si alza a mezzo della gru sino a riprendere, in totale, il cassone del camion e la strada dietro, dove sta en-

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2.

3. 4.

2a. 4a.

2b. 5.

2c. 6.

7. 6a. 7a. 8.

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trando in campo la macchina di Robert. Continua in panoramica a seguire la Volkswagen che finisce nel fiume con un grande schizzo d’acqua. L’automobile galleggia nell’acqua. Ravvicinato frontale: Bruno rimane stupito mentre continua a tenere in mano il pennello da barba. Si volta verso il fiume, poi torna a guardare verso la mdp. Totale dell’automobile che galleggia nel fiume. La macchina a mano inquadra in ravvicinato laterale Robert che nella Volkswagen si agita furioso contro il volante mentre l’acqua comincia a entrare nell’abitacolo. Bruno non può trattenere una gran risata. Robert apre il tettuccio scorrevole della Volkswagen mentre l’acqua continua ad aumentare. Prende la giacca e la appoggia fuori sul tettuccio. Bruno è tornato serio. Robert spinge fuori anche la valigia. La macchina a mano si muove verso l’alto a riprendere in ravvicinato Robert che esce dal tettuccio della macchina. Bruno fa per scendere dal camion. Totale frontale: sulla destra il camion, Bruno sulla sinistra dell’inquadratura guarda a terra i suoi oggetti da barba che sono caduti mentre scendeva. Totale del fiume: al centro l’automobile dove Robert si è arrampicato sul tetto. Chiuso lo sportello del camion, Bruno raccoglie i suoi oggetti da barba e li appoggia sul paraurti. Robert con la valigia salta in acqua e comincia a nuotare verso riva. Mezzototale frontale di Bruno con un asciugamano sulle spalle. La mdp lo riprende, con una carrellata laterale (sino a ravvicinato), mentre ridendo si avvia verso la riva dell’Elba. Con l’asciugamano si leva la crema da barba che ha ancora sul viso.

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9.

Totale di Robert che nuota verso la riva spingendo avanti la sua valigia. 10. Primo piano di Bruno che lo osserva sorridente e curioso. 9a. Da totale a ravvicinato: Robert raggiunge la riva, esce dall’acqua, scola la valigia e tutto bagnato prosegue. Gli è entrata acqua in un orecchio, perciò piega la testa e con un dito cerca di farla uscire. 10a. Bruno lo scruta da capo a piedi. 11. Mezzototale poi panoramica sino a ravvicinato: Robert raggiunge Bruno sulla riva. La mdp li inquadra mentre si guardano in faccia e scoppiano a ridere. Robert fa un cenno alle sue scarpe. ROBERT: Sono zuppe, eh! Robert si volta verso la macchina che sta definitivamente affondando. Lentamente i due, seguiti dal carrello laterale, si dirigono verso il camion. Robert ripete: ROBERT: Sono zuppe!! Giunti di fronte al camion, i due si fermano, Robert si appoggia con le spalle al camion. Bruno fa una piroetta e scoppia di nuovo a ridere mentre Robert lo osserva irritato. […] (Wenders 1979: 22-23)

Terzo esempio: le prime due pagine della sceneggiatura di Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino:

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1.

EST - FATTORIA - GIORNO

Una modesta fattoria nella campagna di Nancy, Francia (quella che i francesi chiamano "campagna da vacche"). Leggiamo in sovrimpressione, nel cielo sopra la fattoria: CAPITOLO UNO "UN TEMPO... NELLA FRANCIA OCCUPATA DAI NAZISTI" La scritta scompare, sostituita da un'altra: "1941 Un anno dopo l'occupazione tedesca della Francia". La fattoria consiste in una casa, un piccolo granaio e dodici vacche sparpagliate nei dintorni. Il padrone, un massiccio FATTORE FRANCESE, fa andare su e giu' l'ascia contro un ceppo d'albero che gli rovina la proprietà. Per quanto la situazione appaia semplice, non si capisce se stia lottando contro quel ceppo da un anno o se abbia appena incominciato. JULIE una delle sue graziose figlie adolescenti, sta stendendo i panni sul filo. Mentre appende un grande lenzuolo bianco, sente un rumore, scosta il lenzuolo e vede: PUNTO DI VISTA DI JULIE: una lussuosa decappottabile nazista, con due bandierine naziste attaccate sul cofano e un SOLDATO NAZISTA al volante, un UFFICIALE NAZISTA solo sul sedile posteriore, seguita da ALTRI DUE SOLDATI NAZISTI in moto, risale la collina sulla strada di campagna che conduce alla loro fattoria. Papà!

JULIE

Il fattore francese pianta l'ascia nel ceppo, si guarda al di sopra della spalla e vede i tedeschi che si avvicinano. La MOGLIE DEL FATTORE, CHARLOTTE, viene sulla porta di casa, seguita dalle ALTRE DUE FIGLIE ADOLESCENTI, e vede i tedeschi che si avvicinano. Il fattore grida alla famiglia, in FRANCESE, CON SOTTOTITOLI IN INGLESE: FATTORE Tornate dentro e chiudete la porta.

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2. FATTORE (A JULIE) Julie, prendi l'acqua per lavarmi alla pompa e poi vai dentro con tua madre. La ragazza corre alla pompa accanto alla casa. Prende una catinella e si mette a pompare, dopo qualche pompata l'acqua esce e cade nella bacinella. Il fattore francese si siede sul ceppo che stava tagliando, tira fuori di tasca un fazzoletto, si asciuga il sudore dalla faccia e aspetta l'arrivo del convoglio nazista. Dopo un anno vissuto con la spada di Damocle sulla testa, questa potrebbe benissimo essere la fine. Julie finisce di riempire la bacinella e la mette sul davanzale della finestra. Pronta, papà.

JULIE

FATTORE Grazie, cara, adesso vai dentro e occupati di tua madre. Non correre. Julie entra nella casa camminando normalmente e si chiude la porta alle spalle. Quando suo padre si alza dal ceppo e si avvicina al davanzale con la bacinella piena d'acqua... ...Il RUMORE dei MOTORI delle due moto e della macchina aumenta di INTENSITA'. Il fattore SI LAVA la faccia e il petto con l'acqua della bacinella. Prende un asciugamano appeso a un chiodo e si asciuga mentre guarda le due moto, l'auto e i quattro rappresentanti del Partito nazional-socialista che si fermano sulla sua proprietà. Non ci avviciniamo a loro, ma continuiamo a guardarli da una certa distanza, come il fattore. I DUE SOLDATI NAZISTI sono scesi dalle moto e sono sull'attenti li' di fianco. L'AUTISTA è sceso dall'auto, ha fatto il giro della macchina e ha aperto la portiera per il suo superiore. L'UFFICIALE NAZISTA, in TEDESCO SENZA SOTTOTITOLI, chiede all'autista: UFFICIALE NAZISTA Questa è la proprietà di Perrier La Padite?

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La trascrizione di un film o di una sua parte costituisce un eccellente esercizio per penetrare le regole compositive di un’opera o la peculiarità dello stile di un autore (Bruni 2006). La diffusione dell’uso dei videoregistratori, prima, e dei DVD, poi, rende questo tipo di analisi relativamente semplice, e comunque libera dalla necessità di dover utilizzare una moviola. Pur dovendo sempre tener conto che la qualità dell’immagine è diversa da quella della proiezione su grande schermo (ma ciò vale anche per la moviola), questo esercizio permette a chiunque di ripercorrere il processo di elaborazione e costruzione delle sequenze di un film. I programmi di lettura dei DVD sono oggi forniti della funzione snapshot che permette di “impadronirsi” delle immagini in modo più facile e meno rischioso di quello di Antoine Doinel in I quattrocento colpi dove rubava una locandina del film Monica e il desiderio (1953) di Ingmar Bergman. 10.1.3 Oltre le regole Concludiamo con la citazione di un film e di un libro che raccontano le disavventure della scrittura di una sceneggiatura. Il film è Il ladro di orchidee-Adaptation (2002) di Spike Jonze, che fa del lavoro di adattamento di un best seller il soggetto di un film. Protagonista è lo sceneggiatore Charlie Kaufman (Nicholas Cage), l’autore dello script di Essere John Malkovich (1999), quindi un personaggio reale che qui diventa l’eroe di una finzione di cui è insieme protagonista e sceneggiatore (e infatti il suo nome compare nella lista dei personaggi e anche tra gli autori dello screenplay, tra i quali oltre Susan Orlean c’è anche quello di Donald Kaufman, immaginario gemello del protagonista del film). Il nostro eroe è in crisi perché non riesce a portare a termine

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l’adattamento del best seller Ladro di orchidee scritto da Susan Orlean, che qui è impersonata da Meryl Streep. Mentre Charlie si intristisce sempre più a causa del lavoro che non riesce a portare a termine, il suo fratello gemello, Donald, non solo si gode la vita alla grande ma, attenendosi alle regole di Robert McKee (che nel film è interpretato da Brian Cox), scrive una sceneggiatura di successo. Imprevedibile è l’avventura dello scrivere: Charlie, lavoratore metodico e ordinato, non riesce a concludere con successo il compito di adattare un testo difficilmente filmabile, mentre lo sregolato Donald scrive un soggetto attenendosi alle regole del più tipico prodotto hollywoodiano di genere. La morale è che non puoi andare oltre le regole se non le hai assimilate, ma anche che nel cinema come nella vita i traguardi più ambiziosi possono essere raggiunti nei modi più imprevedibili. Il romanzo è invece italiano e lo ha scritto Domenico Starnone, scrittore e sceneggiatore: si intitola Fare scene. Una storia di cinema. Nella prima parte del libro, il narratore ci racconta gli incantamenti nelle sale cinematografiche della Napoli della sua infanzia e adolescenza, dove incontrastato dominava quello che qui chiamiamo il cinema hollywoodiano classico, con i suoi divi, James Stewart e Deborah Kerr. Nella seconda parte, il narratore, diventato uno sceneggiatore professionista, ci racconta, con i toni grotteschi della commedia all’italiana, come uno story concept, “quattro paginette”, diventa una sceneggiatura prima e poi un film. Starnone ci introduce nei meandri dell’attuale sistema produttivo italiano, tra produttori indipendenti, RAI, Mediaset e Medusa; e ci racconta le fasi dello sviluppo in sceneggiatura di uno story concept incentrato su un tragico evento (il suicidio di un operaio) in una zona industriale del paese (Ravenna, la stessa città in cui Antonioni aveva ambientato il suo Deserto rosso). “Oltre le regole” dei manuali

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di sceneggiatura ma dentro le regole non scritte del sistema produttivo italiano, un soggetto che parte con il titolo La fine della coscienza di classe dopo vari passaggi e differenti produttori diventa La vita danza sempre con l’amore. I dettagli di questa avventura si trovano nel libro. Personaggi, situazioni e titoli sono naturalmente inventati, ma il senso appartiene integralmente alla storia del cinema italiano dei primi anni del nuovo millennio (Starnone 2010). PER SAPERNE DI PIÙ Grazie al diffondersi anche in Italia di scuole e corsi di scrittura creativa, sono stati ampiamente divulgati anche da noi i metodi adottati dagli sceneggiatori hollywoodiani, sia mediante manuali concepiti per il lettore italiano, sia mediante traduzioni. Ne forniamo una rapida selezione: tra i testi italiani, Aimeri 1998, Robbiano 2000, D’Agostino 2008, Brandirali-Terrone 2009; tra le traduzioni, Field 1991, Seger 1994, McKee 2000 e, per chi voglia un manuale alternativo di un cinema “oltre le regole” (avendo ben chiaro che le regole, se si vogliono trasgredire, bisogna conoscerle bene), Dancyger-Rush 2000. Vorrei però segnalare anche alcuni manuali più legati al modo di produzione italiano, per esempio quello di Age (Agenore Incrocci), protagonista assieme a Furio Scarpelli della grande stagione della commedia all’italiana, il cui successo fu dovuto anche all’ottima qualità delle sceneggiature; questo testo deriva da una serie di lezioni tenute da Age agli inizi degli anni novanta per allievi sceneggiatori (Age 2009). Un altro testo vicino ai metodi seguiti nel nostro cinema è quello di Ugo Pirro (2001), sceneggiatore di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, vincitore di un Premio Oscar: assieme a Pirro 1983, costituisce una sorta di autobiografia artistica di uno dei nostri maggiori sceneggiatori, dal quale un giovane ha oggi ancora molto da imparare.

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10.2 L’inquadratura Un uomo e una donna viaggiano in automobile. Lui è Philip Marlowe, l’investigatore privato creato da Raymond Chandler, che qui ha il volto di Humphrey Bogart. Lei è Vivian Regan Sternwood (Lauren Bacall). Il film è Il grande sonno (1946) di Howard Hawks. La scena è piuttosto breve: il tempo necessario perché lei dica “Credo di essere innamorata di te” e lui ripeta “Credo di essere innamorato di te”. Raymond Bellour, che ha dedicato a questo segmento una minuziosa analisi, prima di rivelarci che si compone di ben 12 inquadrature, nota che qualsiasi spettatore, anche uno attento, sarà pronto a giurare “che il segmento consiste in una lunga inquadratura sostenuta dal dialogo, nella migliore delle ipotesi in tre o quattro inquadrature” (Bellour 2005: 100). “È il découpage classico, bellezza!”, si potrebbe dire, parafrasando una celebre battuta di Humphrey Bogart. Pur nell’estremo frazionamento di inquadrature e grazie anche alle integrazioni del sonoro, lo spettatore ha (deve avere) un’impressione di unità e di continuità della ripresa. Perché preoccuparsi allora di enumerare esattamente le variazioni di angolatura e di scala? La posta in gioco è l’impressione di evidenza suscitata dal cinema di Hawks e celebrata da Jacques Rivette con la formula “L’evidenza è il segno della genialità di Howard Hawks” (in Grignaffini 1984: 139). Il critico vuole dimostrare che tale impressione è il risultato di una tecnica di montaggio rigorosamente codificata. Ancor prima di essere un’esigenza del critico che vuole comprendere i meccanismi del linguaggio filmico, quella della definizione esatta dell’inquadratura è un’esigenza di tutti coloro che partecipano all’elaborazione e alla esecuzione del découpage tecnico, cioè di quelli che il film lo fanno.

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Abbiamo finora parlato di inquadrature, senza preoccuparci di darne una definizione. Ma il carattere del tutto intuitivo ed empirico della nostra descrizione ci dispensava dal farlo. E tuttavia una definizione ci può essere di grande utilità, prima di tutto perché questo termine, che abitualmente in inglese è reso con shot e in francese con plan, è impiegato in accezioni diverse. Finora lo abbiamo usato in relazione alla sua durata. Il primo parametro che definisce l’inquadratura è infatti il tempo: quanto è lunga, quanto dura? Di qui una delle definizioni più comuni di inquadratura: una porzione di pellicola impressionata tra due stacchi o giunte. Altri parametri riguardano la scala, l’angolatura e, eventualmente, il movimento: un’inquadratura può essere fissa, cioè realizzata con la cinepresa immobile, come accadeva nel cinema dei primi tempi (ma già gli operatori dei Lumière realizzarono dei travellings), oppure in movimento. Quando una scena è ripresa attraverso una lunga inquadratura senza stacchi si parla di pianosequenza: in italiano si è adottato correntemente questo termine ricalcandolo sul francese plan-séquence, anche se noi dovremmo più correttamente parlare di inquadraturasequenza. Il termine plan-séquence è stato introdotto da André Bazin (1999: 74-92) per definire le riprese in continuità e in profondità di campo utilizzate nei primi anni quaranta da William Wyler e Orson Welles, grazie all’adozione di obiettivi a focale corta, all’accresciuta sensibilità della pellicola e al miglioramento dell’illuminazione della scena. Il termine sta a indicare la resa di una successione di eventi attraverso un’unica inquadratura, là dove il cinema classico avrebbe fatto uso di una sequenza di inquadrature prese da angolazioni diverse. Bazin ne fa un principio estetico e un principio morale, come abbiamo già visto in 7.2.1: “Quando l’essenziale di un evento dipende da una

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presenza simultanea di due o più fattori, il montaggio è proibito” (Bazin 1999: 72). Bazin vede quindi nel pianosequenza “uno strumento del realismo, che permette di evitare la frammentazione del reale e di rispettare dunque, allo stesso tempo, il reale stesso e la libertà dello spettatore” (Aumont-Marie 2007: 233). 10.2.1 Parametri tecnici dell’inquadratura Di durata variabile, fissa o in movimento, ogni inquadratura è il risultato di scelte relative: a) agli elementi profilmici, cioè alla scena e agli attori predisposti per essere ripresi, da includere o da escludere; b) alle modalità tecniche adottate, cioè alle diverse possibilità di resa cinematografica degli elementi profilmici. Tali scelte sono naturalmente complementari: per esempio, la scelta di includere solo il volto di un attore comporta la modalità tecnica di una ripresa da distanza ravvicinata, o di un procedimento equivalente, come l’uso di un teleobiettivo che, a parità di scala, produrrà una diversa definizione dell’immagine. Nella terminologia corrente, cioè in quella adottata nelle sceneggiature e nelle descrizioni analitiche, si fa una distinzione tra il campo di ripresa che definisce la porzione di spazio inquadrato e il piano di ripresa che viene solitamente definito in rapporto alla distanza da cui viene inquadrata la figura umana. Non si tratta, però, di una distinzione rigorosa, sia perché non esattamente definita sia perché non sempre rispettata. Diamo comunque un elenco con abbreviazione, definizione e corrispondenti inglesi e francesi dei principali tipi di campi e piani.

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CT: Campo totale o semplicemente Totale Si definisce in relazione alla scena, inquadrata nella sua totalità. Se la scena è il cortile di uno stabile, l’esterno di una fabbrica o l’interno di una palestra o di un soggiorno, il CT è l’inquadratura che coglie questi spazi nel loro insieme. Si può considerare equivalente al CLL (campo lunghissimo) e al CL (campo lungo). Inglese: Extreme Long Shot (ELS) o Long Shot (LS). Francese: Plan d’ensemble o Plan général. A volte il CT coincide con quello che in inglese si chiama Establishing Shot (ES), per esempio quando serve a definire e a rendere riconoscibile lo spazio in cui è ambientata la storia (una veduta di Roma con la cupola di San Pietro o della Monument Valley in un film di Ford), ma si usa ES anche per definire un interno d’abitazione, come la sala da pranzo in I pugni in tasca (1965) di Bellocchio o l’atrio della villa in cui si svolge la sequenza finale di Notorius L’amante perduta (1946) di Hitchcock. CM: Campo medio Qualcuno lo definisce come un’inquadratura che dà già risalto alla figura umana, senza però isolarla dall’ambiente; altri precisano una distanza di ripresa compresa tra i trenta metri e la figura intera. Espressioni equivalenti: Mezzo campo lungo, Mezzo totale o Semitotale. Inglese: Medium Long Shot (MLS). Francese: Demi-ensemble. FI: Figura intera Il parametro della figura intera che compare nell’inquadratura è utilizzato per definire altre nomenclature, più o meno equivalenti, del tipo Piano ravvicinato. Inglese: Full Length Shot (FLS) o Full Shot (FS). Francese: Plan moyen (PM) o Plan rapproché taille (PRT).

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PA: Piano americano La figura umana è ripresa dalle ginocchia circa in su. Inglese: Medium Shot. Francese: Plan américain. PP: Primo piano La figura umana è inquadrata da metà busto circa in su. Qualcuno usa anche MPP, cioè Mezzo primo piano, intermedio tra il PA e il PP. Inglese: Close up (CU). Francese: Gros Plan (GP). PPP:

Primissimo piano Inquadratura del solo volto. Inglese: Extreme Close Up (ECU). Francese: Très gros plan (TGP). DETT.

o PART.: Dettaglio o Particolare Qualche autore riferisce il primo a oggetti e il secondo alla figura umana. Riferito alla figura umana riguarda una sola parte del volto o del corpo (bocca, occhi, mani ecc.). Inglese: Detail Shot, Insert. Francese: Insert, Détail. Alcuni autori usano ECU o TGP anche per un dettaglio del volto o del corpo e preferiscono usare Insert per indicare una breve inquadratura inserita con funzione di raccordo tra due inquadrature più lunghe o nella continuità di un’inquadratura (Siety 2004: 89). Oltre che dalla scala dell’inquadratura che abbiamo esaminato nelle principali varianti in uso, l’immagine è definita da altre caratteristiche legate alle modalità tecniche di ripresa. Vediamo le principali. Angolo di ripresa Definisce l’angolatura da cui il soggetto viene ripreso. La ripresa può essere frontale rispetto all’asse orizzontale

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e verticale del soggetto ripreso; oppure angolata: da destra a sinistra, o viceversa; dall’alto al basso, o viceversa. L’altezza e l’angolo della cinepresa rispetto al soggetto inquadrato trovano la loro motivazione in quello che possiamo chiamare un modello antropomorfico. Tanto è vero che quando la ripresa viene effettuata secondo un’angolatura ritenuta impossibile, le grammatiche del film parlano di “oggettiva irreale” (vedi 10.2.2). Si tratta di inquadrature effettuate da un punto di vista inaccessibile (o non plausibile) per un osservatore ordinario. Tale è, in Intrigo internazionale (1959) di Hitchcock, l’inquadratura dall’alto che mostra Thornhill (Cary Grant) che fugge dal Palazzo dell’ONU a New York, dove è stato fotografato con in mano l’arma di un delitto che non ha commesso: il punto di vista, esterno al grattacielo, consente di riprendere in una vertiginosa prospettiva verticale sia lo specchio della facciata del palazzo di vetro, sia l’astratta geometria dell’arredo urbano sottostante, con un effetto di stupefacente straniamento. Diverso è il caso di una (quasi) altrettanto celebre inquadratura dall’alto di Contratto per uccidere (1964) di Don Siegel: per quanto ellittica, essa indica il punto di vista (una finestra dell’immobile di fronte) da cui Ronald Reagan spara ai due sicari che stanno uscendo dall’albergo in cui soggiorna Angie Dickinson. Inquadrature oblique (cioè angolate rispetto all’asse verticale del quadro) indicano uno stato alterato del personaggio (ubriachezza) o sono un artificio stilistico, come nel caso di L’amore probabilmente (2001) di Giuseppe Bertolucci. Tipico del cinema di Yasujiro Ozu, è l’uso della “camera bassa” (tatami shot), adatta a riprendere personaggi seduti per terra, secondo le usanze nipponiche, ma diventata poi una figura di stile. Si tratta di una tecnica di cui è stato maestro Yuharu Atsuta, l’operatore di Ozu, e sulla quale indaga

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Wim Wenders nel suo bellissimo documentario Tokio-Ga (1986). Rientrano ugualmente tra le scelte stilistiche quelle inquadrature che volutamente si distaccano dalle regole di ordine, simmetria, evidenza proprie dello stile hollywoodiano classico. Esse ricorrono con una certa frequenza nel cinema moderno, nel quale si sviluppano forme dis-narrative e prevale il gusto del dé-cadrage (lett. dis-inquadratura), come in Antonioni o in Godard (Bonitzer 1995). Luminosità e messa a fuoco Riguardano entrambe le qualità propriamente fotografiche dell’immagine, che dipendono sia da elementi profilmici (il tipo di illuminazione adottato) sia da elementi propriamente filmici (messa a fuoco, tipo di obiettivi, aperture di diaframma, tipo di pellicola). La possibilità di tenere a fuoco tutti gli elementi dell’inquadratura è stata facilitata dall’introduzione della pellicola pancromatica e da particolari obiettivi. Mentre la luminosità dipende dal rapporto tra l’apertura del diaframma e la lunghezza focale dell’obiettivo, come ben sa ogni appassionato di fotografia, e riguarda la resa dei contrasti di luce (definizione) e della distribuzione dei valori luministici e cromatici sui volumi e le superfici (tonalità). Questi valori sono in ogni caso il risultato dell’interazione tra le condizioni di luce prodotte a livello profilmico e le tecniche di ripresa adottate. Gli obiettivi A parità di scala dell’inquadratura, la resa dello spazio e del rapporto tra figura e sfondo varia notevolmente a seconda dell’obiettivo usato, o più esattamente della sua lunghezza focale. Ad esempio le focali corte (18/20 mm per il 35 mm e 10/18 mm per il 16 mm) “collocano il personaggio sullo sfondo, allargano lo spazio, accelerano gli spo-

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stamenti, il tutto al prezzo di deformazioni marginali (le verticali si incurvano sui bordi dell’immagine)”. Le focali lunghe (50/135 mm per il 35 mm e 30/75 mm per il 16 mm) “schiacciano la prospettiva, restringono lo spazio, appiattiscono quanto si trova in lontananza, rallentano gli spostamenti” (Pinel 1983: 26-27). Per concludere, una scena può essere ripresa secondo tre fondamentali modalità: 1) Inquadratura fissa È quella usata, per necessità, dal cinema primitivo, quello di Méliès per esempio, costretto ad adottare un punto di vista unico, a distanza fissa, quello che, secondo un modello di derivazione teatrale, i primi storici del cinema hanno chiamato del “direttore d’orchestra” o del “signore in platea”. 2) Sequenza di inquadrature variate quanto a durata, scala, angolo di presa In questo caso la ripresa viene effettuata spostando più volte la macchina da presa, ma lo spettatore vede solo gli effetti di tali spostamenti. Questo insieme di variazioni può essere mantenuto chiaramente avvertibile a causa degli scarti considerevoli dei parametri delle varie inquadrature e della forte scansione ritmica (come accade nel cinema sovietico degli anni venti: vedi 5.6.3, 8.1.3 e 10.6). Al contrario, le variazioni anche se frequenti possono essere rese quasi impercettibili per la rigorosa funzionalizzazione dei raccordi allo sviluppo dell’azione e per il ruolo egemone che la “continuità” della colonna sonora gioca rispetto alla “discontinuità” delle inquadrature (è, come abbiamo già ricordato, l’effetto del découpage classico).

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3) Inquadratura in movimento La scena viene ripresa muovendo la macchina da presa sia per focalizzare meglio e in fasi successive i vari elementi che compongono la scena, sia per produrre effetti di intensificazione espressiva. L’effetto concitato ottenuto nella sequenza finale di I quattrocento colpi, in cui la cinepresa segue la lunga fuga di Antoine Doinel verso il mare viene per così dire suggellata dal fermo fotogramma che la conclude e conclude così anche il film, creando un clima di sospensione. Il significato e il valore espressivo di ognuna di queste inquadrature dipendono dal contesto, cioè dal rapporto che si stabilisce con gli altri elementi dell’espressione filmica (per esempio, il suono), ma soprattutto con le altre inquadrature, in relazione alla durata. ASL è l’acronimo che esprime il valore della durata (Average Shot Length, cioè lunghezza media dell’inquadratura). Come osserva David Bordwell nel cinema contemporaneo la durata media delle inquadrature tende continuamente ad abbassarsi, raggiungendo valori impensabili fino a pochi anni fa: mentre tra il 1961 e il 1999, egli aveva trovato un solo film con una durata media delle inquadrature inferiore ai due secondi, Dark City (1997) di Alex Proyas con ASL di 1,8’, a partire dal 2000 se ne poteva trovare almeno uno all’anno; e cita tra gli altri Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann (Bordwell 2006: 122). 10.2.2 Il punto di vista Finora abbiamo definito gli aspetti ottico-percettivi dell’inquadratura: l’aspetto ottico riguarda le procedure seguite per effettuare le riprese; l’aspetto percettivo l’inquadratura in quanto ripresa da un certo punto dello spa-

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zio ovvero la sua prospettiva, proprio come nella pittura. Oltre a un punto di vista ottico e percettivo, l’inquadratura implica un punto di vista narrativo (Aumont 1983). È a partire dall’inquadratura che si realizza il punto d’incontro tra l’aspetto mostrativo e l’aspetto narrativo del cinema. Come abbiamo già visto in 5.3, nel SAM (Sistema delle Attrazioni Mostrative) il cinema dei primi tempi era condizionato dall’inquadratura unipuntuale, cioè dal punto di vista unico e fisso. Nel SIN (Sistema dell’Integrazione Narrativa) la gestione di una pluralità di punti di vista ha permesso di articolare delle vere narrazioni, integrando la successione delle inquadrature in una logica narrativa (Gaudreault 2004: 4043). Ai parametri tecnici dell’inquadratura dobbiamo quindi aggiungere la loro definizione in rapporto alla gestione dello sguardo narrativo. In altre parole, dobbiamo rispondere alle due domande a partire dalle quali ogni universo narrativo si costituisce: Chi parla? Chi vede? Non è un caso che in narratologia, la disciplina che studia le tecniche della narrazione letteraria, si sia adottato il termine focalizzazione, che deriva dall’ottica e che bene evidenzia una costitutiva parentela tra gestione dello sguardo e gestione del racconto. Ogni spettatore è abituato a considerare le immagini che il film gli propone come oggettive, cioè come oggettivamente registrate dalla macchina da presa e, come tali, offerte al suo sguardo, sia pure secondo una logica che rispetta le regole della narrazione per immagini e che comporta un certo grado di deformazione o stilizzazione dovute alla soggettività del narratore. Per esempio, la veduta d’insieme, quella che come abbiamo visto si chiama Establishing Shot, viene data (e percepita) come oggettiva; ed è una prerogativa del narratore onnisciente, che il cinema eredita dal romanzo ottocentesco, di renderla visibile anche quanto non

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lo sia a uno sguardo esteriore. Lo sviluppo della narrazione può prevedere confronti o conflitti tra i personaggi: in questo caso la scena si anima attraverso la variazione dei punti di vista, quindi singole inquadrature possono essere date (e percepite) come soggettive. È quanto avviene abitualmente in una scena di dialogo. Guardiamo una sequenza di Rebecca (1940), un classico del cinema hitchcockiano, e precisamente la seconda. Dopo averci mostrato il sogno durante il quale la protagonista (Joan Fontaine) era tornata tra i ruderi del castello di Manderley, dove il suo matrimonio era stato sul punto di naufragare, il film ci presenta, in flashback, il primo incontro tra la ragazza e il suo futuro marito. Siamo in Costa Azzurra, su un alto dirupo che dà sul mare. Lui è in piedi, meditabondo, guarda le onde, fa un piccolo passo in avanti. Da una certa distanza, lei lo vede e pensa evidentemente che stia per compiere un gesto inconsulto: lancia un grido acuto, come per fermarlo. Tra i due si svolge un dialogo concitato. L’uomo la tratta come un’importuna e la congeda bruscamente. Per quanto riguarda la qualificazione delle inquadrature, ne abbiamo di tre tipi: inquadrature oggettive che definiscono il punto di vista del narratore; inquadrature soggettive che definiscono il punto di vista del personaggio femminile; inquadrature che definiscono il punto di vista del personaggio maschile. C’è tuttavia un’inquadratura che ci pone qualche problema particolare: è la prima della sequenza, quella che ci fa passare senza stacchi dalla visione dall’alto dei flutti marini, attraverso un complicato movimento di macchina, a quella, dal basso verso l’alto e con una fortissima angolatura, del personaggio maschile che fissa il mare sottostante. Questo ampio e sinuoso movimento di macchina verrebbe forse definito dalle vecchie grammatiche del cinema un’oggettiva irreale: in quanto visualizza la realtà da un punto di

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vista che può essere solo quello di una macchina da presa che sembra librarsi nell’aria: infatti potremmo definire questo movimento una combinazione di panoramica e di travelling aereo. Metz (1995) rifiuta tuttavia la definizione di oggettiva irreale e preferisce in casi di questo tipo parlare di oggettiva orientata. Cosa significa? Il narratore qualifica come oggettivo quello che ci mostra, ma nello stesso tempo lo mostra attraverso un procedimento che caratterizza in senso forte l’immagine sul piano dello stile. Nel caso di Hitchcock si tratta di un movimento di macchina eccessivo, sontuoso, di una grande potenza espressiva grazie anche all’intervento della musica, un pezzo di bravura del grand imagier (il grande venditore di immagini) come amava dire Metz. Un altro studioso francese, François Jost (1983), ha proposto di usare il termine ocularizzazione, per definire gli aspetti ottico-percettivi: in questo caso abbiamo ocularizzazione multipla, perché abbiamo visto inquadrature oggettive (il punto di vista del narratore) e soggettive (il punto di vista ora dell’uno ora dell’altro personaggio). E riserva quello di focalizzazione agli aspetti propriamente narrativi (che riguardano cioè il sapere): in questo caso il racconto è a focalizzazione interna, è cioè focalizzato sulla donna, in quanto lo spettatore non viene a sapere più di quanto di volta in volta venga a sapere la protagonista (come accade appunto nel romanzo di Daphne Du Maurier da cui il film è tratto e che è narrato appunto in prima persona). Quindi, ocularizzazione multipla (varietà di qualificazione otticopercettiva dell’inquadratura), ma focalizzazione unitaria (il racconto è focalizzato sul personaggio femminile e gli eventi sono narrati a partire dal suo punto di vista). In sintesi, possiamo avere inquadrature: oggettive; oggettive orientate; soggettive. Oggettive orientate e soggettive, dal punto di vista ottico-percettivo possono avere in

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comune una certa alterazione, da mettere in carico alla soggettività rispettivamente dell’autore o del personaggio. È chiaro che un flou o un’angolatura particolarmente deformante acquisteranno significati e funzioni diverse a seconda che siano contestualizzati come inquadrature soggettive o oggettive. Un flou in un primo piano contestualizzato come oggettivo è solo un espediente di enfatizzazione lirica o drammatica scelto dal regista. Un’inquadratura insistentemente sfocata, se contestualizzata come soggettiva, può invece acquistare significati in relazione al personaggio. Un espediente di questo tipo è utilizzato da Murnau in L’ultimo uomo (o L’ultima risata, 1924) per designare l’ubriachezza del protagonista dopo una festa. Simmetrico è il significato, anche se opposta è la contestualizzazione, del flou in una celebre sequenza di Amleto (1948) di Laurence Olivier, quella dell’apparizione dello spettro del padre. Prima che questa avvenga, alcune vistose e insistenti sfocature in un primissimo piano di Amleto (Olivier) ci fanno partecipi dell’imminente apparizione dello spettro. Una serie di rapidi passaggi dal fuoco al fuori fuoco dell’inquadratura producono un effetto di pulsazione dell’immagine che sembra oggettivare un’alterazione psico-fisica del personaggio di fronte a una manifestazione del soprannaturale. In tutti e due gli esempi, le inquadrature ci rendono lo stato d’animo del personaggio: quella di Murnau qualificata come soggettiva, quella di Olivier come oggettiva. Considerazioni analoghe si possono fare per gli angoli di ripresa. L’angolatura dal basso verso l’alto è solitamente un espediente che ingigantisce ed enfatizza il personaggio; all’inverso quella dall’alto verso il basso può diventare un contrassegno di debolezza, oppressione. Se sono date come soggettive in uno scambio campo-controcampo tra due personaggi (shot/reverse-shot), esse indicano rispettivamente

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un sentimento di dominio e di sudditanza. Ejchenbaum, nell’ambito delle ricerche dei formalisti russi sui rapporti tra linguaggio verbale e visivo, considerava un procedimento di questo tipo la realizzazione visiva della metafora “guardare qualcuno dall’alto in basso” (in Kraiski 1971: 50-51). Tuttavia, si danno casi in cui viene capovolto questo significato, legato peraltro a una simbologia assai elementare dell’alto e del basso. In Freaks (1932) di Tod Browning, nelle sequenze finali in cui i piccoli “mostri” hanno deciso di coalizzarsi e di vendicarsi della bella Cleopatra che li ha traditi, le insistenti inquadrature soggettive dall’alto esprimono un senso di terrore per questa forza misteriosa e irresistibile che sembra emergere dal “sottosuolo”. In questo caso il “guardare dall’alto verso il basso” non esprime dominio ma, con un singolare effetto di straniamento, paura per l’ignoto, il diverso. Abbiamo finora parlato dell’inquadratura come di un elemento statico, considerandola virtualmente fissa. Tutto ciò è un’astrazione necessaria per lo studio e la definizione di un fenomeno, come sono astrazioni le inquadrature di un film riprodotte in un libro. Ogni inquadratura è in realtà un elemento dinamico; e non solo perché, come abbiamo appena visto, interagisce con altre inquadrature che, contestualizzandola, determinano variazioni di usi e significati. C’è infatti un dinamismo interno all’inquadratura che interessa sia il materiale profilmico (i movimenti degli attori o di altre componenti della scena) sia la sua resa cinematografica in quanto l’organizzazione dei materiali plastici (composizione dell’inquadratura) può generare effetti dinamici, esattamente come accade in pittura o in fotografia. Detto in altri termini, l’inquadratura definisce, letteralmente circoscrive, elementi in movimento, e attraverso i suoi valori compositivi (equilibrio tra pieni e vuoti, predo-

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minanza di linee verticali, orizzontali o oblique), produce o accentua valori dinamici, anche per quanto riguarda tensioni e spinte tra il campo (ciò che è effettivamente inquadrato) e il fuori campo. C’è infine un dinamismo dell’inquadratura legata al suo movimento. Essa si oppone all’inquadratura fissa che è ottenuta mantenendo immobile la macchina da presa per la durata di ogni singola ripresa. L’inquadratura fissa, a sua volta, non deve essere confusa con il fermo fotogramma (ingl.: Freeze Frame o solo Freeze; franc.: arrêt sur image) che è un effetto speciale che si ottiene in sede di stampa e svolge funzioni analoghe a quelle di altri “trucchi” codificati come segni di interpunzione o marche enunciative (vedi anche 10.5.3). Il fermo fotogramma fa emergere la dimensione del fotografico all’interno del filmico, con effetti di grande forza emotiva, come il già citato fermo fotogramma sul quale si conclude la sequenza finale di I quattrocento colpi. PER SAPERNE DI PIÙ Siety 2004 è un testo ideale per cominciare un approfondimento delle problematiche relative all’inquadratura: tra l’altro presenta un’utilissima tabella comparativa tra diverse terminologie adottate dai vari autori e nelle diverse lingue (pp. 88-89) e precisamente: Pinel 1996; Konisberg 1997; Bordwell-Thompson 2003. Un percorso di grande interesse, per il modo in cui intreccia la relazione tra tecnica e linguaggio, è quello offerto da Briselance-Morin 2010; più sintetico, ma di esemplare chiarezza, è Dick 2010. Per quanto riguarda l’inquadratura e il punto di vista, trattazioni molto sintetiche ed efficaci si trovano nei relativi capitoli sul punto di vista in Casetti - di Chio 1990: 228253 e Bertetto 2010: 135-150. Più discorsiva e corredata di molti esempi e di un selezionato apparato iconografico e bibliografico

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è Magny 2004. Per chi voglia intraprendere un approfondimento degli aspetti teorici dell’inquadratura in relazione alla narratologia e alla semiotica, i testi di riferimento sono: Chatman 2010; Cuccu-Sainati 1987; Casetti 1986. Per altre indicazioni, vedere 10.3 e 10.4.

10.3 I movimenti di macchina Nella sequenza d’apertura di I protagonisti di Altman, un curioso personaggio, interpretato da Fred Ward, si aggira per lo studio cinematografico ripetendo in modo ossessivo: “I film che si fanno oggi sono tutti dei videoclip… stacco… stacco… stacco”; “Odio tutti questi stacchi… stacchi…stacchi…”. A chiunque gli dia retta, cita i film di una volta, quando si facevano riprese in continuità, senza stacchi, come la lunga scena iniziale di L’infernale Quinlan di Welles o come Nodo alla gola di Hitchcock (“La trama non era un granché, ma ha girato tutto senza uno stacco”). E senza stacchi è girato anche questo incipit che non solo è uno dei più virtuosistici piani-sequenza della storia del cinema (dura più di otto minuti), ma anche una perfetta antologia di tutti (o quasi) i possibili movimenti di macchina. Prendendo spunto da questa famosa sequenza, vediamo ora analiticamente i più comuni movimenti di macchina che sono la base tecnica dell’inquadratura in movimento, a eccezione dello zoom e di altri procedimenti, come il flow motion che è reso possibile dalle tecniche digitali (vedi oltre). Panoramica Si tratta di un movimento rotatorio della macchina da presa attorno a uno dei suoi assi (orizzontale o verticale). Si parlerà quindi di panoramica orizzontale (da destra a si-

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nistra, o viceversa) e, se la rotazione è completa, di panoramica a 360°; di panoramica verticale (dall’alto verso il basso o viceversa). Carrellata La macchina da presa, collocata su un supporto mobile, compie un movimento in avanti, indietro, a destra o sinistra o obliquo. Abitualmente si tratta un carrello che scorre su binari predisposti, ma può essere anche un veicolo a pneumatici, camera car, o sistemi analoghi. Nel caso di una ripresa dall’alto (elicottero, aereo), si parla di “carrellata aerea”: al giorno d’oggi tutto è facilitato dall’uso della sky cam, una cinepresa sostenuta da fili aerei che consentono spostamenti in tutte le direzioni e comandata da un operatore a terra. Se viene seguito il movimento di un personaggio, un animale o un veicolo, si parla di carrellata (o carrello) a seguire; se il movimento della macchina precede, si parla di carrellata a precedere. Il termine inglese travelling è ormai il più diffuso e non necessita di specificazioni né ingenera equivoci circa il metodo usato per ottenere il movimento. A volte, per indicare una combinazione di panoramica e travelling, si usa il termine pano-travelling. La carrellata o travelling può essere simulata attraverso l’impiego del transfocatore, più noto con il nome di zoom, cioè di un obiettivo a focale variabile che permette effetti di avvicinamento o allontanamento del soggetto inquadrato, ottenendo variazioni della scala e di tutti gli altri parametri dell’inquadratura. Con lo zoom si può ottenere il passaggio, in un tempo desiderato, da un campo lungo a un dettaglio o viceversa, senza dover muovere la macchina da presa. Con le nuove tecnologie digitali si arriva a simulazioni ancora più complesse, come vedremo più avanti a proposito di Matrix (1999) dei fratelli Wachowski.

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Gru, dolly, Louma La cinepresa e i tecnici che la azionano sono sistemati su una piattaforma che può essere spostata verticalmente, orizzontalmente o obliquamente mediante una gru (ingl.: crane) o un dispositivo più agile (dolly). In tempi più recenti è stato introdotto un nuovo dispositivo, Louma (o Louma crane) che consente di muovere la sola cinepresa che è sistemata all’estremità di un braccio mobile e viene azionata da terra mediante una strumentazione elettronica. Macchina a mano Si tratta di movimenti ottenuti attraverso spostamenti dell’operatore stesso che manovra la cinepresa senza l’aiuto della abituale strumentazione (cavalletto munito di testata alla quale è fissata la cinepresa, carrello ecc.); metodo di ripresa reso possibile dall’introduzione di mezzi leggeri e esteso dal cinema diretto (vedi 7.2.3) al cinema narrativo. Steadycam La macchina da presa, collocata su un braccio meccanico che è a sua volta assicurato al corpo dell’operatore mediante un’imbragatura e tuttavia da questo perfettamente isolato grazie a un sistema di ammortizzatori, acquista il massimo di mobilità propria delle cineprese portatili e il massimo di regolarità e di fluidità rese possibili dai congegni di precisione: steady significa appunto stabile (Steadicam è il nome commerciale del dispositivo nelle due versioni più diffuse). Efficace e suggestiva questa definizione del lavoro degli operatori di steadycam: “una prodigiosa combinazione di sollevamento pesi e di balletto” (Monaco 2002: 81). Dopo questa sommaria elencazione dei principali movimenti di macchina, dobbiamo introdurre una riflessione

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sulla natura, l’uso e i significati di queste configurazioni del linguaggio e dello stile cinematografici. Quelli che chiamiamo “movimenti di macchina” sono spostamenti del punto di vista rispetto alla scena ripresa. Vanno considerati simulazioni dei movimenti e delle traiettorie dello sguardo di un osservatore virtuale? Oppure sono da considerare movimenti e traiettorie “convenzionali” che, pur presentando parziali analogie con quelli della vita quotidiana e della visione ordinaria, hanno acquistato una loro relativa autonomia consolidata dall’uso e dalle abitudini percettive dello spettatore? Per esempio, l’apertura angolare del campo visivo umano è di circa 180°, mentre un obiettivo a focale media non supera i 40°. E tuttavia si considera l’obiettivo a focale media idoneo a simulare una modalità di visione ordinaria e, all’opposto, si ritiene il grandangolare, cioè l’obiettivo che è più vicino all’apertura angolare del campo visivo dell’occhio umano, più adatto a simulare modalità di visione straordinaria e a valorizzare, grazie alle distorsioni prospettiche, il carattere spettacolare di una scena. L’effetto cosiddetto di “camera a mano” è il risultato di una modalità di ripresa in cui i sobbalzi e le irregolarità di spostamenti sono diventati contrassegni di una partecipazione per così dire fisica all’evento ripreso, anche se si tratta di effetti che non hanno riscontro nelle modalità di visione ordinaria della vita quotidiana in cui un uomo che cammina o corre continua a mantenere la capacità di variare in modo fluido e regolare il suo campo visivo. È rispetto alla precedente “convenzione” delle panoramiche e dei carrelli “fluidi” del cinema fatto negli studios che, negli anni sessanta, l’uso della “camera a mano” produce effetti “straordinari” (vedi 7.2), ma si tratta pur sempre di una nuova “convenzione” con caratteri trasgressivi rispetto a una precedente.

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Un’altra osservazione, apparentemente paradossale, riguarda la straordinaria fluidità dei movimenti della steadycam, grazie a cui l’occhio della cinepresa diventa tutt’uno con il corpo dell’operatore e, depurato da ogni residuo di effetti legati alle manovre meccaniche e manuali, sembra aver raggiunto la perfetta simulazione dell’occhio umano. Tuttavia, il modo in cui è stato usato e recepito questo procedimento sembra andare in tutt’altra direzione. Esso è stato finora usato per la simulazione di modalità di visione straordinaria, quasi una performance tecnologica assai prossima alle “oggettive irreali” o “oggettive orientate” (vedi 10.2.1), o agli effetti speciali (ai quali viene a volte assimilata), tanto è vero che ci sono operatori che, proprio a causa di questo effetto indotto, ne limitano l’uso o addirittura lo rifiutano. I casi in cui i movimenti di macchina sono dati come plausibili e motivati, cioè sono presentati come il punto di vista di un personaggio che coglie la scena secondo la traiettoria di un suo movimento nello spazio, hanno un’importanza marginale (o comunque limitata alla casistica delle inquadrature soggettive) rispetto alle funzioni e ai significati di quei movimenti che non hanno nessuna altra motivazione se non la funzionalità narrativa e l’efficacia espressiva. Pasolini, all’epoca dei primi passi della semiotica cinematografica, cioè verso la metà degli anni sessanta, ha elaborato una tipologia dei possibili rapporti tra movimenti della cinepresa e movimenti dei personaggi o oggetti inquadrati. Tre sono i principali tipi di rapporti che ha individuato chiamandoli “i modi della qualificazione filmica”. In analogia con i modi verbali, Pasolini distingue tra qualificazione attiva, passiva e deponente. Si ha qualificazione attiva quando “è la macchina da presa che si muove o comunque prevale”. In questo caso la macchina “agisce”

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e il soggetto “subisce”. Essa prevale nei film di tipo “liricosoggettivo” che Pasolini faceva coincidere con le tendenze più significative del nuovo cinema degli anni sessanta (vedi anche 7.2). Si ha, invece, la qualificazione passiva “quando la macchina da presa è ferma e non si sente, mentre si muove l’oggetto della realtà”. In questo caso è il personaggio che agisce e la macchina da presa si limita a subire (registrare) la sua azione. Essa prevale nei film di tendenza realistica, in quanto implica una fiducia da parte del regista nell’oggettività del reale. Si ha, infine, la qualificazione deponente, quando il movimento della macchina e il movimento del soggetto ripreso nella realtà si equivalgono o comunque si elidono a vicenda (Pasolini 1991: 212). Nonostante il suo schematismo, questa classificazione ha il merito di sottolineare il valore “lirico-soggettivo” (cioè espressivo) dei movimenti di macchina (nel secondo e nel terzo caso i movimenti, se anche ci sono, non sono avvertiti dallo spettatore). Sarebbe un errore ritenere che raccordi tra gli elementi in gioco in una scena ottenuti attraverso i movimenti di macchina, anziché attraverso la giustapposizione di inquadrature variate per angolazione e scala, siano più naturali o consoni alle modalità di visione ordinaria nella vita quotidiana. Abbiamo già osservato (e torneremo su questo argomento in 10.5 a proposito degli effetti speciali) che l’ordinario e lo straordinario nelle modalità di visione simulate dal cinema vanno sempre messi in relazione con la convenzione comunicativa dominante e con l’effetto ottenuto in relazione al contesto. Ad esempio, il frazionamento delle inquadrature, utilizzato secondo un criterio tale da renderlo quasi impercettibile, attuato nel cosiddetto découpage classico (di cui abbiamo visto un esempio nella scena de Il grande

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sonno già citata in 10.2), diventa una modalità ordinaria di visione rispetto alla quale la ripresa in continuità di un intero film realizzato da Hitchcock in Nodo alla gola appare come una palese infrazione, e acquista quindi un carattere straordinario. Hitchcock s’impose un vero e proprio tour de force registico e stilistico, girando l’intero film in un unico piano-sequenza. C’è solo un breve segmento iniziale che ha funzione di prologo e che è costituito da un movimento composito di carrellata all’indietro e panoramica che ci fa vedere dapprima uno scorcio di strada inquadrato dall’alto verso il basso dalla terrazza di un immobile, per fermarsi poi a riprendere la finestra dell’appartamento al cui interno si svolgerà l’intera vicenda. Per il resto, il film si snoda senza stacchi apparenti, facendo coincidere durata del racconto filmico e durata dell’azione. In questo caso i continui e complessi movimenti di macchina necessari per variare angolature e punti di vista nello sviluppo drammatico della vicenda e per mascherare i raccordi (inevitabili a ogni cambio di bobina), anziché produrre un’impressione di naturalezza o di adeguamento alle modalità di visione ordinaria, producono l’effetto opposto. A Bazin, infatti, il film non piacque: colui che per primo aveva teorizzato il piano-sequenza (vedi 7.1), giudicò quello adottato da Hitchcock un espediente artificioso per arrivare a inquadrature di tipo tradizionale. Secondo Claude Chabrol e Eric Rohmer, invece, questo film di Hitchcock segnava il definitivo distacco dalla concezione tradizionale di inquadratura, basata principalmente sui valori compositivi, e quindi ancora dipendenti dal modello pittorico, alla quale erano rimasti legati sia Ejzenštejn che Welles (Rohmer-Chabrol 2010: 92). Senza entrare nel merito, prendiamo spunto da questa divergenza di opinioni per sottolineare la varietà di signi-

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ficati assunti o attribuibili ai movimenti di macchina, indipendentemente dalla tecnica con cui sono prodotti e dalle finalità con cui sono stati introdotti. È evidente che l’impiego di gru e dolly nel musical quale si è andato codificando a partire dagli anni trenta (pensiamo in particolare a Busby Berkeley) ha la funzione di dinamizzare lo spazio e di offrire non solo punti di vista spettacolari ma anche, per così dire, lo spettacolo dello spostamento ascensionale della prospettiva rispetto alle più complesse e sbalorditive “figurazioni” della coreografia. Ma non può sfuggire che movimenti di questo tipo costituiscono anche una sorta di “forma simbolica” della fantasticheria del volo, della perdita del peso corporeo, di una spazialità che è quella del sogno e del desiderio. Ritroviamo lo stesso movimento di gru in contesti e con funzioni assai differenti. Ecco due esempi lontanissimi dal musical. All’inizio di Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis un ampio movimento di gru prende avvio dal primo piano di un radiocronista e ci porta a scoprire progressivamente il vasto scenario di una stazione in cui stanno raccogliendosi le mondine in partenza: è un procedimento tipico del cinema di De Santis che si configura come enfatizzazione ideologica e dilatazione spettacolare della relazione tra il singolo e la collettività (Lizzani 1978: 58-59). Nel finale di Mamma Roma (1962) di Pasolini, un triplice movimento di dolly sul corpo senza vita di Ettore steso sul lettino di contenzione assume, anche per l’analogia con il tema iconografico del Cristo morto, un significato rituale, secondo una dichiarazione dello stesso Pasolini (Magrelli 1977: 54). La più complessa orchestrazione di movimenti di macchina si registra proprio nell’ambito del “nuovo cinema” degli anni sessanta (vedi 7.2). Tra i vari esempi possibili, ricordiamo I disperati di Sandor (1964), L’armata a cavallo

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(1967) e Silenzio e grido (1968) dell’ungherese Miklós Jancsó (vedi 7.2.4). Qui il movimento “orizzontale e continuo e quasi ossessivo raramente interrotto da movimenti verticali” sembra nascere da un adeguamento, e non da una sovrapposizione artificiosa, alle circostanze ambientali, “alla natura stessa del paesaggio ungherese, piatto, con sterminati orizzonti circolari”. E tuttavia le complesse figurazioni disegnate dagli interminabili piani-sequenza di Jancsó diventano “quasi una metafora della inafferrabilità del senso evanescente, un segno di vanità” (Buttafava 1974: 66). Sulla linea di Jancsó, anche se con motivazioni e radici culturali diverse, si può collocare l’opera del greco Theodoros Angelopulos che ha i suoi esiti più significativi in alcune tra le sue produzioni dei primi anni settanta, come I giorni del ’36 (1972) e La recita (1975). Altrettanto importanti sono i movimenti di macchina e le riprese in continuità nel cinema di un altro ungherese, Béla Tarr, che predilige i movimenti lenti, quasi impercettibili della cinepresa nel corso di interminabili piani sequenza, come all’inizio di Perdizione (1987, noto in italiano anche come Dannazione). L’idea di far entrare in un unico piano-sequenza l’intera storia da raccontare è stata realizzata da Aleksandr Sokurov in L’arca russa (2002). Anzi, il regista russo ha realizzato qualcosa di ancora più grandioso: ha contenuto, nel suo film interamente girato in un solo piano-sequenza all’Ermitage di San Pietroburgo, l’intera storia russa. Lo sviluppo delle tecnologie digitali lo hanno senz’altro aiutato. L’adozione di una steadycam ad alta definizione (videocamera digitale Sony 24P-HD a 24 fotogrammi al secondo), capace di registrare direttamente su hard disk, gli ha permesso di girare l’intero film di 96’ in un unico piano-sequenza, e di sottrarsi alla schiavitù del cambio di bobina ogni dieci minuti, alla quale aveva dovuto sottostare Hitchcock. Ma questa effet-

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tiva continuità della ripresa lo ha costretto a subire una ben più impegnativa costrizione: quella di mobilitare nel tempo reale dei 96 minuti l’esercito di attori e figuranti e orchestrare perfettamente i loro movimenti. Questa incursione nel cinema moderno caratterizzato da una sorta di esasperazione dei movimenti di macchina e del long take, non ci deve far dimenticare che anche nel cosiddetto découpage classico si possono trovare dei movimenti di macchina estremamente complessi, ma caratterizzati da un rigoroso equilibrio tra le esigenze della narrazione (introdurre immediatamente elementi narrativi chiaramente riconoscibili in relazione al genere di appartenenza) e la funzione simbolica (che non è mai sovrapposta artificialmente all’azione, ma ne è per così dire determinata). Un esempio può essere offerto da Lo specchio scuro (1946) di Robert Siodmak, un classico del film di genere noir di produzione Universal (vedi 6.3.2). La sequenza di apertura è sorretta da una complessa combinazione di movimenti diversi (panoramiche e carrelli). Dapprima vediamo un paesaggio urbano di notte, con le luci dei grattacieli che emergono dallo sfondo buio: da qui prende avvio una panoramica da sinistra a destra che, al di là di una finestra aperta con una tenda appena mossa da una brezza, ci mostra in primissimo piano un orologio (sono le 11 meno 10); quindi la macchina arretra ed entra attraverso una porta in un’altra stanza vistosamente in disordine, con una lampada caduta a terra; enfatizzata da un carrello in avanti, ecco l’incrinatura di uno specchio che appare come una sorta di geroglifico; un successivo movimento ci permette di scorgere un cadavere con un pugnale piantato nella schiena. Dal punto di vista narrativo questo segmento fornisce le informazioni fondamentali che determinano l’avvio di un buon “giallo” (romanzo o film): è stato commesso un delit-

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to, l’ora del delitto (l’orologio), l’arma del delitto (pugnale), il luogo (appartamento di un immobile in una metropoli). Dal punto di vista iconografico il segmento presenta: visione notturna del paesaggio urbano suggestivo e misterioso che contestualizza elementi figurativi come la tenda mossa dal vento, l’orologio, lo specchio incrinato, la lampada rovesciata. Sono questi elementi che attribuiscono all’andamento apparentemente descrittivo dei movimenti analizzati una funzione indiziale (Hamon 1980: 143 e 150-151) e diventano pertanto contrassegni di genere; il complesso movimento che li evidenzia ha, infatti, termine solo con la “scoperta” del cadavere. Il tutto è enfatizzato da un’atmosfera luministica cupa e a forti contrasti con predominanza di grigi e di neri, ottenuta con la tecnica del low-key-lighting, tipica del genere noir (vedi 10.4). Dal punto di vista simbolico, il movimento labirintico della macchina da presa produce quasi in filigrana un’enigmatica geometria che non solo richiama il “geroglifico” dell’incrinatura dello specchio, ma anche i “geroglifici” delle “macchie di Rorschach”, utilizzate come è noto nei test psicologici, che compaiono come motivo grafico di sfondo nei titoli di testa, ma che avranno anche un ruolo importante nella vicenda (uno psichiatra le usa per individuare la personalità patologica di una delle due gemelle indiziate del delitto). Considerazioni a parte devono essere fatte per il cosiddetto travelling ottico, cioè il movimento di macchina simulato attraverso lo zoom. Ci sono registi che lo preferiscono al travelling vero e proprio: uno di questi è Rohmer, il quale ha dichiarato: Quando qualcuno parla o si concentra trovo più naturale restringergli il campo piuttosto che avvicinarmi a lui; o quando ci

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si concentra su un quadro, un oggetto che l’attore guarda con attenzione trovo che il movimento dello zoom sia più vicino all’occhio umano. (in Mancini 1983: 17)

Altri registi invece rifiutano o ne limitano fortemente l’uso considerandone l’effetto più artificioso e “visibile” di quello ottenuto dal travelling con cinepresa mobile, cioè per le stesse ragioni per cui lo zoom ebbe una grande fortuna nell’ambito del nuovo cinema degli anni sessanta come contrassegno dell’intervento della soggettività dell’autore e come procedimento trasgressivo rispetto alla sintassi misurata e composta del découpage classico. Nell’attuale panorama caratterizzato da uno sviluppo e un perfezionamento delle tecnologie digitali, assistiamo a un impiego sempre più ardito dei movimenti di macchina. In quello che si chiama il cinema della postmodernità, un’estrema mobilità della cinepresa è presente, sia pure con valenze diverse in vari autori, da Stone a Spielberg, da Scorsese ai fratelli Cohen, da Lynch a Tarantino, da Kathryn Bigelow a James Cameron: a proposito di quest’ultimo, in Avatar (2009) c’è da registrare una sistematica combinazione di elementi scenografici (vegetazione, rocce) e di complessi movimenti di macchina, in piani sequenza supportati da una grande mobilità di carrelli e dolly. Inoltre, le nuove tecnologie, che hanno reso sempre più stupefacenti per varietà e qualità di esecuzione i movimenti di macchina, hanno determinato anche un progressivo abbassamento della durata delle inquadrature, che si succedono a un ritmo vertiginoso, in combinazione con altrettanto rapidi movimenti. Ma c’è di più. Le tecnologie digitali hanno progressivamente fatto venir meno quel legame per molti versi costitutivo tra sguardo della cinepresa e sguardo umano, hanno progressivamente indebolito le componenti per così dire

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antropomorfe della cinepresa, ancora così presenti tanto nella tecnica della “macchina a mano” quanto nella steadycam. L’introduzione, a partire da Matrix (1999) del flow motion o bullet time photography (Mazzoleni 2004: 182183), segna una frattura nella storia dei movimenti di macchina, alla quale apparteneva tanto il carrello di Cabiria (1914) inventato da Pastrone e Segundo de Chomón quanto la steadycam di Shining. La tecnica del flow motion consente di realizzare (simulare) suggestive carrellate circolari che avvolgono per così dire i personaggi in movimento. Ma attenzione: il fatto nuovo è che movimento del personaggio e movimenti della cinepresa sono diventati variabili indipendenti. Tanto è vero che mentre la cinepresa gira vorticosamente attorno al personaggio, questo si muove al ralenti. Ecco, in una sintesi piuttosto schematica, la tecnica usata. Collocando lungo un perimetro circolare, attorno al personaggio in movimento, un certo numero di fotocamere si ottiene, come accadeva nella cronofotografia di Eadweard Muybridge, un certo numero di pose, di sezioni immobili del movimento: 122, per l’esattezza quelle utilizzate per la lotta tra Neo e l’agente Smith sul tetto del palazzo in Matrix (Uva 2009: 150-153). Ci pensa poi il computer a raccordare attraverso il morphing e a mettere in movimento le immagini, secondo cadenze che possono accelerare o rallentare il movimento. A rigor di termini la cinepresa non esiste più. Mentre nel cinema analogico era il movimento della cinepresa che simulava la traiettoria di uno sguardo in movimento su un oggetto in movimento, in questo caso è la successione di immagini statiche leggermente variate a simulare sia il movimento dell’oggetto sia la presenza di una cinepresa in movimento. Torniamo alla sequenza dei titoli di testa di I protagonisti di Altman dalla quale eravamo partiti. Contrariamente

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a quello che accadeva con la sequenza di Humphrey Bogart e Lauren Bacall in automobile (vedi 10.2), in questo caso qualsiasi spettatore che la veda per la prima volta sarebbe disposto a giurare che è composta da un numero molto alto di inquadrature (più di trenta ha azzardato un giorno un mio studente) e rimane sbalordito quando viene sapere che si tratta di un’unica inquadratura (il primo stacco, sulla segretaria che risponde al telefono guardata in soggettiva da Griffin, interviene dopo otto minuti e qualche secondo, poco dopo che abbiamo letto l’ultimo cartello: Directed by Robert Altman). L’impressione di frequenti mutamenti di inquadratura è ottenuta attraverso la straordinaria mobilità della macchina da presa combinata con quella, altrettanto calcolata, dei personaggi sulla scena, e attraverso la tecnica del re-cadrage, letteralmente riquadro, cioè riprendendo vari aspetti della scena attraverso una porta o una finestra. A questo si aggiunga che la colonna sonora tiene costantemente in “primo piano” le voci dei personaggi implicati, nonostante la variazione dei punti di ripresa. Esasperando la tecnica della ripresa in continuità, in questo pezzo di bravura senza precedenti, Altman si diverte a dimostrare che si può usare la ripresa in continuità per simulare effetti da cinema classico: in tutti i casi, una performance tecnico-stilistica così prodigiosa viene esibita per un effetto di senso lontano sia dall’evidenza come segno di grandezza del cinema classico, sia dalle “oscurità” ricercate ed esibite dal cinema moderno. Né l’uno né l’altro, sembra dirci Altman. L’artificio e la macchinosità degli spostamenti della cinepresa e dei personaggi in questa incredibile concentrazione di informazioni diventa la forma simbolica della macchina hollywoodiana come macchina invasiva che tutto controlla, tutto programma e che finisce per schiacciare i suoi personaggi.

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PER SAPERNE DI PIÙ Per un’informazione esauriente su tecnica, linguaggio ed estetica dei movimenti di macchina si consigliano Arijon 1999 (il vol. II, dedicato a un ampio esame dei movimenti di macchina nel quadro di un manuale di regia cinematografica) e Mazzoleni 2004, da integrare per quanto riguarda il cinema digitale con Uva 2009. Per un approfondimento dell’uso dei movimenti di macchina e delle riprese in continuità, si vedano: per Jancsó, Buttafava 1974; per Béla Tarr, Signorelli-Vecchi 2002; per Aleksandr Sokurov, l’ottima monografia di Brotto 2010. Per altri suggerimenti vedere i capitoli sugli effetti speciali (10.5) e sul montaggio (10.6).

10.4 La fotografia Giuseppe Rotunno ha dichiarato in un’intervista: “Senza voler togliere nulla alla letteratura, bisogna dire che è facile scrivere un’alba livida, ma come fare a tradurla in immagini?” (Consiglio-Ferzetti 1983: 155). Ecco spiegato in poche parole il lavoro del direttore della fotografia: egli deve cercare “in natura” o produrre artificialmente quelle condizioni di luce che, combinate con le tecniche di ripresa e di stampa, diano il risultato fotografico previsto dalla sceneggiatura o richiesto dal regista; deve far sì che l’espressione alba livida si traduca in luce e colore. Certo, una stessa espressione può diventare banale o sublime in una poesia o in un romanzo a seconda del contesto in cui appare. Lo stesso vale per il suo equivalente cinematografico. Anche se realizzata in modo tecnicamente perfetto, tale cioè da non essere confusa con un’alba radiosa o con un’aurora dalle dita di rosa, l’alba livida di Rotunno acquisterà valori o significati diversi a seconda che appaia, in bianco e nero,

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in un film di Marcel Carné degli anni trenta o di Woody Allen degli anni novanta o, a colori, in un film dell’ultimo Fellini o di Martin Scorsese. Il direttore della fotografia opera “al limite tra la certezza della tecnica e le possibilità della creazione” (ConsiglioFerzetti 1983: 11): da una parte è il depositario di una tradizione di tecnica e di mestiere cui il regista fa ricorso per realizzare le sue idee; dall’altra è chiamato a partecipare direttamente al processo creativo e quindi a vivere il rischio della sperimentazione e l’avventura dell’innovazione. Attualmente il lavoro del direttore della fotografia consiste nella cura e nel coordinamento dell’illuminazione delle scene da riprendere: essa viene realizzata mediante riflettori e superfici riflettenti e può essere variamente orientata (dall’alto, dal basso, “di taglio”) e distribuita (diretta, diffusa). Lo schema del cinema hollywoodiano classico si basa sull’illuminazione fondamentale (basic lighting) articolata in tre fonti di luce: 1) luce fondamentale (key light): si tratta di una fonte direzionale che illumina pienamente il soggetto ripreso o la scena; se è collocata in alto con l’effetto di illuminare un’area più ampia e ridurre le ombre viene denominata high key light; 2) controluce o luce di contorno (back light): è collocata dietro i soggetti ripresi e ha la funzione di creare dei contorni luminosi che li stacchino dallo sfondo; 3) luce di riempimento (fill light): si tratta di un’illuminazione frontale e diffusa, che deve rischiarare le zone della scena che non sono raggiunte dalla key light (Konisberg 1997: 214-216; Visconti 2010: 134-135). Il lavoro del direttore della fotografia non si limita alla fase delle riprese: esso riguarda anche, in fase di editing e di stampa, l’operazione delicatissima di bilanciamento di luci (lighting balance) e colori (color balance) tra un’inquadratura e un’altra e quella dell’integrazione degli effetti speciali.

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La qualità fotografica dell’immagine è determinata dal rapporto tra luce naturale, illuminazione artificiale (usata assai più di quanto il pubblico non immagini anche nelle riprese in esterni) e tecniche di ripresa e stampa. Come ha detto Luciano Tovoli, direttore della fotografia di Professione: reporter (1973) di Antonioni: L’operazione più complessa e interessante, comunque, sta nel ricreare la luce, ovvero nel partire dalla luce naturale per inventare una luce completamente astratta, funzionale alla situazione del film, e questo è uno dei compiti del direttore della fotografia. (Consiglio-Ferzetti 1983: 203)

Le caratteristiche fotografiche di un film sono il risultato di un insieme di competenze diverse: il direttore della fotografia ha la funzione di coordinarle e soprattutto di controllare i risultati in relazione agli effetti voluti, preventivamente concordati e discussi con il regista. La distribuzione del lavoro e delle competenze può variare secondo il luogo o il periodo: ci sono stati momenti della storia del cinema (o determinati tipi di produzione) in cui il regista si occupava solo della direzione degli attori, mentre al direttore della fotografia competeva tutta (o quasi) la parte visiva. Attualmente a Hollywood è tassativamente escluso dagli accordi contrattuali che il direttore della fotografia possa occuparsi della ripresa vera e propria, possa cioè – come si dice in gergo – “sedere in macchina”, compito questo che spetta all’operatore alla macchina (di ciò si lamentano spesso i direttori europei chiamati a lavorare a Hollywood). In Italia per lungo tempo le due funzioni non erano distinte; anzi, con il termine operatore si indicava il direttore della fotografia che spesso sedeva anche alla macchina. Ma al di là di questi problemi, ci interessano le

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funzioni di quella che gli americani chiamano cinematography; che al giorno d’oggi sono sempre più demandate a un’équipe coordinata dal direttore della fotografia (cinematographer) e che comprende varie figure professionali (operatore alla macchina, assistente operatore, operatore steadycam, squadra elettricisti). Purtroppo la fotografia nel film è stata a lungo sottovalutata. Critici e teorici si sono preoccupati ben poco degli aspetti strettamente fotografici, tanto che fino a non molto tempo fa poteva capitare di trovar definita, nella recensione di un illustre critico, la fotografia come “cornice figurativa” del film: un curioso caso in cui la tanto vituperata critica impressionistica dei quotidiani si trovava d’accordo con i più sistematici critici di ispirazione linguistica, per i quali le immagini sono solo manifestazioni di superficie, e in quanto tali inessenziali ai fini dell’analisi. Inoltre, per la priorità assoluta accordata all’autore, troppo spesso ci si è limitati a valorizzare la funzione del direttore della fotografia solo in relazione all’opera di un regista con il quale si fosse stabilito un particolare rapporto di collaborazione. Di qui il suo destino di essere sempre citato in coppia: Billy Bitzer con Griffith, Edouard Tissé con Ejzenštejn, G.R. Aldo con Visconti, Segundo de Chomón con Pastrone, Ben Reynolds con Stroheim, Gregg Toland con Orson Welles, Anatolij Golovnja con Pudovkin, Vittorio Storaro con Coppola, Christopher Doyle con Wong Kar-wai. Non è un caso, poi, che si siano spesso privilegiati aneddoti (noti a ogni cinéphile) buoni per dimostrare il carattere fortuito e in genere puramente tecnico degli apporti del fotografo che acquistano significato di necessità espressiva solo una volta assunti nel linguaggio artistico dell’autore. Tale è l’episodio della scoperta casuale della chiusura e apertura a iride da parte di Billy Bitzer, che sarebbero diventate importanti

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elementi della sintassi filmica griffithiana. Né diverso è il senso di un altro episodio altrettanto celebre, relativo a La corazzata Potëmkin (1925): si tratta delle riprese estemporanee fatte da Tissé nel porto di Odessa in una mattinata di nebbia fittissima che furono poi recuperate da Ejzenštejn in sede di montaggio per realizzare il “lamento delle nebbie” per la morte di Vakulinþuk. Oggi la situazione è notevolmente mutata. A partire dalla seconda metà degli anni settanta, si è imposto un nuovo divismo dei direttori della fotografia che è del resto parallelo a quello dei tecnici degli effetti speciali (vedi 10.5), le cui funzioni tendono a integrarsi. E questo non solo nelle produzioni super-spettacolari in cui ingenti investimenti, di capitali e di risorse creative, sono diventati fattori essenziali per la riuscita economica del film. Per Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Spielberg ha lavorato un’équipe di ben undici direttori della fotografia comprendente alcuni dei più prestigiosi nomi del settore (John Alonzo, Lázló Kovács, William A. Fraker, Douglas Slocombe) sotto la direzione di Vilmos Zsigmond. La presenza di Zsigmond, e di Kovács, nel dipartimento cinematography di uno dei primi blockbusters degli anni settanta conferma come il lavoro del direttore della fotografia possa esprimersi contemporaneamente nelle grandi produzioni commerciali e in opere più attente alla ricerca e alla sperimentazione. Negli anni settanta Vilmos Zsigmond ha contribuito, soprattutto nelle sue collaborazioni con Altman, a mettere a punto un nuovo stile fotografico, grazie a un uso sistematico della tecnica del pre-fogging, che consiste in una leggera velatura del negativo prima delle riprese, con l’effetto di attenuare i contrasti e produrre un morbido effetto di diffusione (Masi 2009: 669-671). L’importanza sempre maggiore che nel processo creativo hanno acquistato le nuove tecnologie (steadycam, Panaflex,

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obiettivi ultrasensibili) e l’impegno sempre più ampio richiesto al direttore della fotografia nelle sperimentazioni a cavallo tra cinema tradizionale e tecnologie digitali, stanno facendo venir meno una rigida distinzione di ruoli. Le prime avvisaglie si sono avute quando, sul finire degli anni settanta, hanno cominciato a diventare sempre più frequenti casi del tutto impensabili nell’“età d’oro” di Hollywood, come quello di un Haskell P. Wexler che dirige interi frammenti di American Graffiti (1973) di George Lucas o di un Bill Butler che “inventa” intere sequenze di Grease (1978). Nonostante questo nuovo divismo dei cinematographers, che è in realtà un divismo della tecnica del quale hanno beneficiato anche grandi direttori italiani come Vittorio Storaro e Giuseppe Rotunno, è difficile trovare nelle loro filmografie elementi di continuità e di unità allo stesso modo in cui sono riscontrabili in quelle di un regista (vedi la parte relativa alla politica degli autori in 7.1). E tuttavia si sta sempre più diffondendo la definizione di “autore della fotografia” che Storaro ha proposto in sostituzione di quella tradizionale di “direttore della fotografia”. Assai più del regista-autore, il direttore della fotografia vive le contraddizioni dell’istituzione cinematografica la cui continuità è certamente assicurata dalla capacità di produrre innovazioni (per le quali l’apporto del tecnico è determinante), ma anche di assorbirle e istituzionalizzarle lungo tutto il loro ciclo di vitalità espressiva ed economica. Il direttore della fotografia si trova quindi nella condizione di partecipare direttamente ai processi creativi e innovativi e, nello stesso tempo, a essere il tramite della loro normalizzazione in lavori convenzionali. Facciamo qualche esempio italiano. Nella filmografia di Alfio Contini possiamo trovare film come Il sorpasso (1962) di Dino Risi o Zabriskie Point (1970) di Antonioni, ma anche Gep-

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po il folle (1978) di Adriano Celentano e Il bisbetico domato (1980) di Castellano e Pipolo. Così Luciano Tovoli può firmare la fotografia di Professione: reporter (1975) di Antonioni e di lì a poco di Il Pap’occhio (1980) di Renzo Arbore, passare da …e vennero in quattro per uccidere Sartana (1969) di Demofilo Fidani a Diario di un maestro (1973) di Vittorio De Seta, con il quale aveva esordito in Banditi a Orgosolo (1961). Un direttore della fotografia può, quindi, essere chiamato a dare un apporto determinante a opere di grande impegno tecnico ed estetico (è il caso dei film di Antonioni), ma può anche dare il suo contributo a definire uno standard figurativo a un cinema di genere, si tratti di commedia o di western all’italiana. Se film, all’epoca trattati come prodotti di genere, sono ora considerati capolavori, come Il sorpasso, ciò si deve certo ai meriti di regia, sceneggiatura e interpretazione, ma non si dimentichi la qualità della fotografia che ha dato un tocco di grande eleganza formale alle commedie degli anni sessanta: per restare ai film di Risi fotografati da Contini, sono da ricordare Il giovedì (1963) e Il Gaucho (1964). È, inoltre, il contributo determinante di un direttore della fotografia che può rendere possibile e importante un esordio nella regia: questa è stata sicuramente la funzione di Tonino Delli Colli per i primi film di Pasolini. Mentre all’epoca delle origini, un pioniere come Méliès era responsabile in toto di tutti gli aspetti delle sue straordinarie invenzioni figurative, sono rari oggi i casi di registi che curano personalmente la fotografia: tra queste eccezioni va ricordato Ermanno Olmi. Con L’albero degli zoccoli (1978), di cui oltre alla fotografia ha curato anche la sceneggiatura e il montaggio, Olmi ci ha-dato l’esatta misura dei risultati che può produrre un controllo unitario e diretto di tutte le componenti di un’opera.

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Ma a parte questi casi e quelli di sodalizi particolarmente lunghi (oltre a quelli già citati, si possono ricordare anche la collaborazione tra Sven Nykvist e Bergman, John Alcott e Kubrick), l’unicità e la coerenza del lavoro del direttore della fotografia non possono essere misurate sulla dimensione della sua produzione, secondo un modello che il cinema ha mutuato dalla letteratura e dalla pittura e che meglio si adatta al lavoro del regista. Lee Garmes, per esempio, è considerato l’inventore di un tipo di bianco e nero a forti contrasti, ottenuto con un uso sistematico dell’illuminazione diretta e con un controllo assoluto della composizione dell’inquadratura. Questi tratti stilistici della fotografia trascendono le opere dei singoli registi e definiscono il clima figurativo del cinema americano dei primi anni trenta che accomuna film pur diversi tra di loro come la “trilogia” di Sternberg (Marocco, 1930; Disonorata, 1931; Shanghai Express, 1932), Le vie della città (1931) di Robert Mamoulian e Scarface (1932) di Howard Hawks. Lee Garmes, che fu influenzato dalla fotografia espressionista di Karl Freund, l’operatore di Murnau, adottò il sistema della northern light, vale a dire una luce proveniente da un punto preciso, per esempio una finestra sul modello del trattamento della luce nella pittura di Rembrandt. La sua tecnica di illuminazione del volto di Marlene Dietrich fu diversa da quella di William Daniels per fotografare Greta Garbo. Pochi, anche tra coloro che hanno scritto pagine memorabili sul “volto” di Greta Garbo, hanno dato il giusto rilievo all’arte di William Daniels, il direttore della fotografia che la diva imponeva ai suoi registi. Fu certamente Daniels a garantire continuità interpretativa ai valori espressivi del volto della Garbo. Ne è derivato quel particolare clima figurativo che accomuna i film della diva indipendentemente dai registi che l’hanno diretta. Molti lo

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hanno notato, attribuendolo non senza ragioni alla carismatica presenza scenica della diva, dimenticando però il complesso e delicato lavoro di Daniels. La tecnica del low-key-lighting, con la quale si ottiene una predominanza di grigi e di neri, viene adottata negli Stati Uniti per influsso degli operatori tedeschi e del cinema espressionista: l’uso che ne fece in particolare Arthur Edeson ha contribuito alla formazione dell’inconfondibile stile figurativo del cinema americano dei primi anni quaranta, da Il mistero del falco (1941) di John Huston a Casablanca (1942) di Michael Curtiz. E che si tratti di due film fotografati da Edeson è un dato certamente meno noto al grande pubblico, ma forse non meno importante del volto di Humphrey Bogart al quale abitualmente si associano i due titoli. Allo stesso modo, Massimo Terzano, operatore di La segretaria privata (1931) e di Acciaio (1933), o Arturo Gallea, direttore della fotografia di La mazurka di papà (1938) e Una romantica avventura (1940), hanno impresso uno stile inconfondibile alla controversa stagione del cinema italiano degli anni trenta: e il loro lavoro definisce lo spirito di un’epoca non meno di quello di registi e di scenografi. Così, nei film fotografati nel dopoguerra da Carlo Montuori, pur nelle differenze che ci sono tra un acclamato capolavoro come Ladri di biciclette (1948) di De Sica e il meno fortunato Mio figlio professore (1946) di Castellani, si potrà evidenziare la comune presenza di una vena crepuscolare che tanta parte ha avuto nella formazione dell’immaginario neorealista. Le caratterizzazioni figurative che troviamo disseminate in film di diverso valore e importanza, sono il risultato di un lavoro diretto su quella che è per eccellenza la materia dell’espressione del film, la luce. Per questo esse sono

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destinate a incidere in profondità sull’immaginario dello spettatore, in forma diversa ma non meno importante di quanto non possa incidere lo stile di un regista o la maschera di un divo. La storia del cinema non è soltanto storia di capolavori capaci di rappresentare da soli le tendenze in atto in un determinato periodo. Certo, è vero che, per l’uso della profondità di campo e per la resa plastica degli interni (elementi legati all’impiego di nuovi obiettivi e nuove tecniche di illuminazione), la collaborazione tra Gregg Toland e Orson Welles in Quarto potere (1941) ha prodotto una vera e propria rivoluzione figurativa, come la intese Bazin (vedi 7.1). Ma c’è anche la necessità di capire come prima, contemporaneamente e dopo Quarto potere si impongano in film di qualità anche diversa alcuni caratteri strutturali dell’immagine che definiscono il linguaggio comune di un’epoca del cinema. È certamente importante stabilire le differenze (qualitative) tra il film di esordio di Welles e quello di Huston (Il mistero del falco, 1941), ma non è meno importante prestare attenzione ad alcune analogie tra la fotografia di Toland per il primo e quella di Edeson per il secondo: riprese frequenti dal basso verso l’alto, soffittatura delle stanze che entra nell’inquadratura sia per l’angolazione delle riprese che per il tipo di illuminazione. Come ha mostrato in modo esemplare David Bordwell, le innovazioni introdotte da Gregg Toland, dapprima in casi isolati e poi sfruttate in modo sistematico da Welles, furono dapprima giudicate troppo ardite dall’industria hollywoodiana, ma poi furono progressivamente assimilate e infine vennero standardizzate e assorbite nelle regole compositive dello “stile classico” (BordwellStaiger-Thompson 1985: 341-353; vedi anche 6.2). Così sarà utile studiare la rottura delle convenzioni fotografiche del cinema italiano prodotta dal modo in cui Aldo

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Tonti, sotto la direzione di Visconti, ha ripreso Clara Calamai in Ossessione (1943), distruggendo letteralmente la precedente immagine, levigata e leziosa, della diva, ma sarà altrettanto importante comprendere quanto delle tecniche e delle convenzioni fotografiche del cinema degli anni trenta sopravvive nel neorealismo. Nestor Almendros, che in gioventù aveva studiato fotografia al Centro Sperimentale di Roma, ricorda, in un suo libro di memorie, che agli inizi degli anni cinquanta tra gli operatori del neorealismo solo G.R. Aldo attirava l’interesse dei giovani studenti di fotografia. Essi ritenevano che il nuovo movimento, pur così importante per le tematiche, le intenzioni programmatiche e i soggetti affrontati, non avesse ottenuto un analogo rinnovamento nella fotografia, ancora legata alle convenzioni del cinema precedente (Almendros 1988: 13-14). La circolazione, la permanenza e l’esaurimento di procedimenti e tecniche non sempre avvengono secondo i ritmi e la logica che regolano l’evoluzione di altri aspetti più vistosi e conosciuti dell’istituzione cinematografica. Ne abbiamo la prova se affrontiamo il colore, un altro aspetto dell’espressione filmica che ha strette relazioni con il settore fotografico, sia per le diverse modalità di illuminazione della scena che la ripresa a colori comporta, sia per tutti gli altri problemi tecnici connessi (sensibilità della pellicola, sviluppo e stampa). Al problema del colore del cinema primitivo abbiamo già accennato in 5.1. L’introduzione del colore nelle forme che ci sono ancora oggi abituali (fine degli anni trenta e inizio dei quaranta, ma il primo film a colori italiano, Totò a colori, è del 1952), non determinò immediatamente i risultati attesi. Da una parte si registrò una forte resistenza, superiore a quella opposta al sonoro, a opera di registi, particolarmente attenti ai valori estetici, che vedevano per

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lo più limiti e impicci in una tecnica giudicata come espediente spettacolare non ancora perfettamente controllabile. Dall’altra, si determinò una sorta di tacita convenzione per cui determinati generi (film epico-storico, musical, western ecc.) furono preferibilmente girati a colori, mentre altri (film noir, dramma psicologico) rimasero più a lungo fedeli al bianco e nero. Solo negli anni sessanta si arrivò a una diffusione generalizzata del colore, alla quale contribuì sicuramente il progressivo miglioramento delle tecniche: Antonioni, per esempio, vi arrivò solo con Deserto rosso (1964), mentre Dreyer non girò mai a colori. Il fatto è che colore e bianco e nero vennero a lungo considerati difficilmente omologabili, tanto è vero che fino al 1966 compreso, furono attribuiti due Oscar separati alla fotografia in bianco e nero e a colori: solo nel 1967, con il premio a Burnett Guffey per la fotografia di Gangster Story, il premio divenne unico. La convivenza di colore e bianco e nero nel cinema degli anni quaranta e cinquanta dimostra la convenzionalità delle due diverse tecniche; c’è semmai da registrare la preferenza del bianco e nero per i film di genere realistico. Ancor più evidente è il carattere convenzionale del colore e la vastità di funzioni e significati che esso può assumere in quei film che, con diverse motivazioni espressive e stilistiche, utilizzano l’alternanza di sequenze a colori e in bianco e nero, da Bonjour Tristesse (1958) di Otto Preminger a C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola e a Segreti di famiglia (2009) di Francis F. Coppola. Ma l’esempio più significativo è Notte e nebbia (1955) di Alain Resnais, basato sulla contrapposizione tra le riprese a colori sui luoghi dei campi di sterminio nazisti rivisitati al presente e il bianco e nero delle sequenze montate con materiali documentari d’epoca. Qui l’alternanza ha una funzione di differenziare

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tempo presente e passato, ma anche di produrre un effetto contrappuntistico tra la levigata irrealtà delle luci e dei colori di questi luoghi trasformati in musei e l’ossessiva e inquietante realtà documentata in modo agghiacciante dal bianco e nero. In La congiura dei Boiardi (1946-1958), seconda parte di Ivan il Terribile di Ejzenštejn, c’è un’unica sequenza a colori che si presenta come una sorta di finale “esplosione” cromatica in un film in bianco e nero, ma anche come un saggio di quella che sarebbe dovuta essere la terza parte del film, interamente a colori, e mai realizzata per la sopravvenuta morte dell’autore (Venzi 2006: 73-86). Altre volte bianco e nero e colore convivono all’interno della stessa inquadratura, come in Rusty il selvaggio (1983), in cui i pesci nell’acquario sono gli unici elementi colorati in un film totalmente in bianco e nero. Una tecnica analoga è usata per far risaltare il cappottino della piccola ebrea in Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, una “macchia” di colore rosso che attraversa l’intero film (Venzi 2006: 5665). Deriva, invece, dalla grafica dei fumetti Sin City, la cui sostanza figurativa è fornita dalle tavole di Frank Miller (che ne è co-autore, assieme a Robert Rodriguez e, non accreditato, Quentin Tarantino): qui una fotografia in bianco e nero fortemente contrastata è continuamente integrata da accensioni cromatiche di tutti i tipi, a partire dall’abito da sera della ragazza che compare nella sequenza d’apertura. A partire dagli anni settanta si è registrata una significativa ripresa nell’uso del bianco e nero, dopo un periodo di abbandono quasi completo. Da ricordare L’ultimo spettacolo (1971) e Paper Moon (1973) di Peter Bogdanovich, dove prevale l’intento di una riproduzione perfetta di tecniche fotografiche del cinema dei decenni passati. A questi si possono aggiungere molti altri casi variamente interessanti: Toro scatenato (1980) di Martin Scorsese (fotografia di Mi-

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chael Chapman), The Elephant Man (1980) di David Lynch (fotografia di Freddy Francis), Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg (fotografia di Janusz Kaminski), oltre ad alcuni dei film più significativi di Wim Wenders: Alice nella città (1974), Nel corso del tempo (1976), Lo stato delle cose (1982). E ancora Manhattan (1979), Stardust Memories (1980), Broadway Danny Rose (1983), Zelig (1983) di Woody Allen in cui un bianco e nero molto elegante e sofisticato (dovuto all’arte di Gordon Willis) è diventato un contrassegno aggiuntivo, ma essenziale, del particolare stile umoristico del regista newyorkese. Più tardi Allen è tornato a usare questa tecnica in film come Ombre e nebbia (1991), in cui con la collaborazione del cinematographer italiano Carlo Di Palma ha rivisitato il clima figurativo del cinema tedesco tra le due guerre, e come Celebrity (1998), in cui con la collaborazione di Sven Nykvist ha fatto rinascere in ambienti newyorkesi lo smagliante bianco e nero del cinema italiano degli anni sessanta. La conquista del colore ha spesso indotto vari registi a misurarsi con la pittura correndo il pericolo di cadere negli effetti stucchevoli del tableau vivant, del quadro animato. Certo, non mancano registi e direttori della fotografia che hanno studiato e assimilato i valori cromatici e luministici di opere di pittura, ma i risultati che si possono ottenere in campo cinematografico dipendono dalla capacità di rielaborazione in funzione delle possibilità espressive del cinema e della coerenza stilistica del testo. Citazioni esplicite o evidenti suggestioni pittoriche nell’uso del colore, della luce e nella composizione delle inquadrature si trovano in film di Pasolini (La ricotta, 1963; I racconti di Canterbury, 1972), Bergman (Sussurri e grida, 1972), Antonioni (Deserto rosso, 1964), Stanley Kubrick (2001: odissea nello spazio, 1968; Barry Lyndon, 1975),

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René Allio (Moi, Pierre Rivière…, 1976), o Wim Wenders (Paris, Texas, 1984). Si tratta di stabilire, di volta in volta, la funzione che il riferimento pittorico assume nel film. Le frequenti citazioni della pittura manieristica nel cinema di Pasolini hanno precise relazioni con la poetica di un autore che aveva assunto gli eccessi, i preziosismi e le deformazioni plastiche e cromatiche tipici del manierismo pittorico come componenti essenziali del suo stile. Mentre in film storici come Barry Lyndon o Moi, Pierre Rivière…, sono rispettivamente la pittura del Settecento inglese o dell’Ottocento francese che costituiscono le fonti per ricreare con coerenza di tonalità cromatiche e di atmosfera luministica le immagini di un’epoca passata. La resa cinematografica delle suggestioni pittoriche rientra tra i compiti del direttore della fotografia, anche se poi è l’organizzazione complessiva degli aspetti visivi, di cui è responsabile il regista, a definirne il valore e il significato. PER SAPERNE DI PIÙ Un impareggiabile strumento di studio del lavoro dei direttori della fotografia è il dizionario di Masi 2007-2009, che fornisce il più vasto repertorio di informazioni biografiche, tecniche, critiche e bibliografiche disponibile in Italia, e non solo. Per una chiara e sintetica trattazione dei vari aspetti della fotografia e della funzione della luce nella realizzazione di un film vedi Buccheri (2003: 195-211). Tutti gli aspetti della fotografia in un film di cui devono aver conoscenza tanto il direttore della fotografia quanto il regista sono trattati in modo esauriente nei due volumetti di Brown 2004, che prende in considerazione gli aspetti comuni a tutti i tipi di ripresa (pellicola, video, digitale). Ma i percorsi più ricchi e affascinanti sono quelli offerti dai professionisti. Mi limiterò a citarne alcuni disponibili in italiano: Almendros 1988; Storaro 2010. vera e propria summa che percorre l’intera carriera

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di uno dei nostri maggiori cinematographer (con video allegato); Visconti 2010, anche questo accompagnato da un video che contiene una ricca antologia delle sequenze citate nel testo. A Giuseppe Rotunno, grande direttore della fotografia del cinema italiano e internazionale, è dedicato il libro intervista di Caldiron 2007: la carriera di Rotunno, che ha lavorato tra gli altri per Visconti (Il Gattopardo, 1963), Fellini (Amarcord, 1973), Altman (Braccio di ferro, 1981) e Bob Fosse (All that Jazz, 1979), è ripercorsa da Caldiron anno dopo anno, dagli esordi con Rossellini fino al remake di Sabrina (1995) di Pollack e a La sindrome di Stendhal (1996) di Dario Argento.

10.5 Gli effetti speciali Sembra che il termine effetti speciali (special effects in inglese, abbreviato in sp-efx) abbia cominciato a circolare alla Fox Film Company a proposito di Gloria (1926) di Raoul Walsh. Ma all’epoca gli effetti speciali erano per lo più effetti meccanici, insomma una versione aggiornata di trucchi teatrali, quali botole, fili per simulare il volo e armamentari pirotecnici, cose in uso in teatro da generazioni e adattate alle dimensioni più ampie dei set cinematografici (Brosnan 1983: 9). Dovranno passare vari decenni prima che il termine diventi veramente popolare: e questo avviene negli anni settanta con la rinnovata fortuna del genere fantascientifico. A partire da Guerre stellari (1977) di George Lucas e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg, senza però dimenticare il precedente di 2001: odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, fu chiara a tutti l’importanza di una tecnologia sempre più sofisticata per la riuscita spettacolare ed economica di un film. Cadde così in disuso l’antiquato termine “trucchi”, che evocava i

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tempi di Méliès e le meraviglie futili e sbalorditive offerte agli spettatori dei baracconi di fiera, ed ebbe sempre maggior fortuna l’avveniristico “effetti speciali” più idoneo a evocare alta tecnologia. Ma “trucchi” ed “effetti speciali” sono davvero la stessa cosa? E riguardano solo il cinema di fantascienza? E che relazione c’è tra trucchi e linguaggio cinematografico? 10.5.1 C’era una volta il trucco Cominciamo con un po’ di storia delle parole e andiamo a guardarci un glossario compilato negli anni del boom della nuova fantascienza: alla voce “trucco” leggiamo che una distinzione tra trucchi ed effetti speciali non è codificata, “sebbene – aggiunge il dizionario – questi ultimi richiedano un più complesso apparato della fantasia e delle innovazioni tecnologiche” (Grazzini 1980). Allarghiamo il nostro campo d’indagine e passiamo alla teoria: troveremo autori come Christian Metz che non si pongono neppure il problema e usano indifferentemente l’uno o l’altro termine (Metz 1975: 269-293), mentre altri suggeriscono sottili distinzioni: Trucco ed effetto speciale non sono dunque nozioni omologhe poiché si pongono a due diversi livelli di esistenza del film: il trucco è ciò che produce l’effetto speciale, il trucco, è vero, c’è ma non si vede, l’effetto speciale, invece, come lo spettacolo, si vede e si deve vedere. Se il trucco non può far lo spettacolo, l’effetto speciale è spettacolo per eccellenza e lascia indecifrabile il rapporto con ciò che c’è, con la realtà. (Farassino 1980: 201)

Se consultiamo invece un classico dell’argomento, come per esempio il già citato Brosnan, troveremo indicazioni di

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tipo diverso, basate su una più precisa attenzione ai dati empirici e ai modi di produzione, anche se meno sistematiche sul piano teorico. Brosnan separa, in base anche a una distinzione attestata nei credits, gli effetti speciali (special effects) dagli effetti fotografici speciali (special photographic effects). I primi sono propriamente effetti fisici e meccanici e, aggiunge Brosnan, ci sono dei casi in cui il lavoro di uno specialista di effetti non ha nulla a che fare con i trucchi e l’illusione “come quando fa saltare davvero un edificio o manda realmente un treno giù da un ponte” (Brosnan 1983: 9). È sufficiente questa osservazione per rendere assolutamente inadeguata l’abituale definizione di effetti speciali come “procedimenti attraverso i quali si ottengono immagini cinematografiche alterate o illusionistiche rispetto alla realtà oggettiva o a quanto risulta dalle riprese”. La questione al giorno d’oggi si è ulteriormente complicata con lo sviluppo delle tecnologie digitali. Sotto la formula special digital effects (o solo digital effects) si comprende tutto ciò che il cinema contemporaneo può fare in un’epoca di CGI (Computer Generated Imagery). E tuttavia c’è ancora chi continua a far riferimento a uno stato del cinema in cui tutto, compresi i trucchi e gli effetti speciali, venivano interpretati a partire da un’idea, più o meno legittima, di “realtà oggettiva”, come abbiamo appena visto. Scrive Lev Manovich, studioso dei nuovi media: L’immagine pubblica del cinema sottolineava l’aura di realtà “impressa” sulla pellicola, diffondendo l’idea che il cinema fotografi ciò che esiste e non ciò che non è mai esistito, il “mai successo” degli effetti speciali. (Manovich 2002: 368)

Secondo Manovich fu in virtù di questa “immagine pubblica” del cinema che storici, critici e teorici hanno di fat-

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to reso marginali questi aspetti pur presenti e popolari fin dalle origini (basti pensare a Méliès). Ripartiamo da qui, cercando di chiarirci le idee, almeno sul piano lessicale. Per molto tempo, c’è stata una certa indistinzione tra trucchi ed effetti speciali. Qualcosa di nuovo è accaduto quando i due termini hanno cominciato ad acquisire connotazioni diverse e il secondo (effetti speciali) ha cominciato ad avere maggior fortuna rispetto al primo, sintomo di mutazioni in atto nell’istituzione cinematografica. Il termine “trucchi” ha una connotazione negativa: ci rinvia a un’epoca remota del cinema o evoca certe necessità non sempre esaltanti o divulgabili della “fabbrica delle illusioni”, come quella di Alan Ladd che, per quanto abbia impersonato Shane in Il cavaliere della valle solitaria (1953), uno degli eroi più puri e mitici del genere western, era costretto a recitare sopra “invisibili” sgabelli per nascondere la sua bassa statura. Il termine “effetti speciali” si è rivelato più consono al ruolo sempre più importante che le tecniche di ripresa e di manipolazione dell’immagine hanno assunto nel cinema contemporaneo, soprattutto da quando gli investimenti in tecnologia hanno cominciato a prendersi una buona fetta del budget complessivo di un film e da quando le tradizionali tecniche cinematografiche sono state integrate o sostituite da quelle digitali. Tuttavia, è ancora oggi utile studiare la classificazione dei trucchi fatta da Metz, prima di tutto perché ci serve a capire differenti assetti del linguaggio cinematografico, ma anche perché ci spiega in che modo e secondo quali regole (condivise) noi ci poniamo di fronte a un film (Metz parla di regimi percettivi). I trucchi e gli effetti speciali, come tutti i fatti che hanno a che fare con il linguaggio, sono nella storia. E ciò che oggi percepisco come trucco, come effetto speciale, come prodigio, domani sarà accettato e percepito come

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un fatto ordinario: è capitato così con il montaggio, con la steadycam e altro ancora. 10.5.2 Semiologia del trucco Sul versante della produzione, Metz distingue i “trucchi profilmici” dai “trucchi cinematografici”. Specificato che a “profilmico” va dato il significato di “tutto ciò che viene messo davanti alla cinepresa perché questa lo riprenda”, Metz definisce profilmici quei trucchi che intervengono prima dell’atto del riprendere: per esempio, la sostituzione dell’attore con una controfigura o con un manichino, oppure l’uso di espedienti teatrali come botole, congegni per far volare un attore e simili (Metz 1975: 274-276). Essi corrispondono grosso modo a quelli che Brosnan definisce effetti fisici o meccanici. I trucchi cinematografici appartengono invece all’atto del filmare e non come i precedenti a quanto viene filmato. Essi sono prodotti durante le riprese (trucchi di cinepresa) o in laboratorio di stampa (trucchi di stampa) e possono essere dotati di diverso grado di specificità. Tale è ad esempio il flou, cioè una ripresa sfocata con un procedimento che il cinema ha in comune con la fotografia; oppure l’accelerato o il rallentato che si ottengono diminuendo o aumentando il numero di fotogrammi al secondo rispetto alla frequenza dei ventiquattro utilizzata in fase di proiezione (un procedimento, questo, che invece è specifico del cinema) (Metz 1975: 276-277). La distinzione proposta da Metz dovrà essere integrata da alcune osservazioni. Il piano profilmico e quello cinematografico di realizzazione del trucco non sono nettamente separabili: è ovvio che la riuscita dell’uso della controfigura o del manichino richiede una serie di accorgimenti in

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fase di ripresa (per esempio l’uso dell’accelerato per rendere più difficile la conoscibilità del trucco). Quindi anche quando il trucco è attuato sul piano profilmico, c’è un intervento a livello propriamente cinematografico teso a occultare (leggera accelerazione e scelta di piani particolari, nel caso dell’uso di una controfigura) o a rendere più visibili (uso del rallentato in una esplosione) i dettagli di quanto si produce a livello profilmico. Già prima dell’avvento del digitale, le tecniche di produzione degli effetti speciali rendevano difficile o addirittura impossibile la distinzione tra profilmico e cinematografico. Due esempi saranno sufficienti a chiarire queste affermazioni. Prendiamo la tecnica di ripresa dei voli delle astronavi in Guerre stellari (1977) di George Lucas. Fu messa a punto una particolare cinepresa, la Dykstraflex (il cui inventore John Dykstra ebbe il premio Oscar per gli effetti speciali nel 1978), che costituì un modello per le successive innovazioni. Si tratta di una cinepresa montata su un braccio snodabile i cui movimenti sono programmati da un computer: è il movimento della cinepresa rispetto al modellino dell’astronave, che rimane fermo, a produrre l’illusione del volo spaziale. In questo caso l’effetto finale sarà costituito da una perfetta simulazione di un’astronave in volo, combinando un trucco profilmico (modellino di astronave) con una complessa modalità di ripresa. Considerazioni analoghe si possono fare per lo zoptic effect, il procedimento messo a punto da Zoran Perisic e utilizzato con grande successo in Superman (1978) di Richard Donner, che permette di simulare la visione di un uomo o di un oggetto in volo mediante l’impiego di un proiettore (che proietta lo sfondo “paesaggistico”) e una cinepresa (che riprende l’uomo o l’oggetto immobili sullo sfondo paesaggistico proiettato): l’uno e l’altra sono dotati di zoom sincronizzati, per cui

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il proiettore rettifica l’angolo di visuale del paesaggio che sembra allontanarsi, mentre la cinepresa ottiene l’effetto di avvicinamento (e quindi l’illusione di volo radente) dell’uomo e dell’oggetto che in realtà sono fermi. La distinzione tra profilmico e filmico, già problematica all’epoca e ancor più al giorno d’oggi, ha ormai un interesse solo storico o puramente teorico. Più attuale risulta, invece, la classificazione dei trucchi, proposta da Metz, sulla base del modo in cui vengono percepiti dallo spettatore (regimi percettivi del trucco). Metz ne individua tre tipi: trucchi impercettibili, trucchi invisibili ma percettibili, trucchi visibili. Sono impercettibili quei trucchi che “funzionano” solo a patto che lo spettatore non si accorga di nulla: per esempio l’uso di una controfigura. Questo tipo di trucco “è sempre compatibile con la convenzione, tipica della maggioranza dei film attuali, di un grado minimo di realismo medio, cioè di ciò che viene definito un film realistico”. Sono invisibili ma percettibili quei trucchi circa i quali lo spettatore non sa dove siano e in quale punto del testo filmico intervengano, ma ne percepisce l’esistenza (come nel trucco dell’uomo invisibile): essa non può essere messa in dubbio e anzi costituisce uno dei punti di interesse del film. Ci sono, infine, i trucchi visibili, quelli che sono chiaramente individuati come tali: è il caso del flou, dell’accelerato, del rallentato, della sovrimpressione, della dissolvenza incrociata. Essi sono presentati e percepiti come manipolazioni esplicite dell’immagine e svolgono per lo più la funzione di procedimenti retorici che Metz chiama “marche di enunciazione”, cioè modalità particolari di enunciazione filmica (Metz 1975: 278). Per chiarire quanto dice Metz, si potrà citare l’uso dell’accelerato nel film La ricotta (1963) di Pasolini in cui il protagonista Stracci viene mostrato, tramite l’impiego dell’accelerato, mentre divora a velocità inverosimile

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del cibo. In questo caso l’accelerato ha la stessa funzione che in letteratura o nella lingua parlata ha la figura retorica dell’iperbole che, come ci dice il dizionario, consiste nell’usare parole esagerate per esprimere un concetto oltre i limiti della verosimiglianza. Quindi l’effetto viene accettato nella sua artificiosità esplicita che in questo caso ha una funzione comico-grottesca. Queste ultime considerazioni ci portano ad affrontare infine il problema del rapporto tra “trucchi” e “linguaggio”, che è centrale nella trattazione di Metz e dovrebbe essere centrale per ogni storico e teorico del linguaggio cinematografico. Si tratta di comprendere come la “piccola meraviglia insieme futile e sbalorditiva”, quale era il trucco nel cinema delle origini, abbia finito per diventare un vero e proprio procedimento grammaticale e sintattico. È quanto è accaduto con la dissolvenza incrociata, procedimento che consiste nel progressivo dissolvimento di un’immagine che sfuma fino a scomparire mentre in sovrimpressione si costituisce il profilo di un’immagine successiva. Inizialmente essa fu introdotta come trucco di trasformazione, cioè come procedimento ottico per ottenere straordinarie metamorfosi di personaggi (un uomo in una donna, un vecchio in un giovane, e così via). In seguito è diventato un procedimento per indicare, nel passaggio da una scena a un’altra, un cambiamento di luogo o di tempo, oppure per sottolineare rapporti di somiglianza o di vicinanza tra una scena e un’altra o per indicare un passaggio dalla sfera della realtà a quella del sogno o del ricordo. Un procedimento dapprima usato (e preso dallo spettatore) alla lettera (mutazione magica della realtà) si è quindi trasformato in procedimento grammaticale, retorico. In successivi assetti del linguaggio cinematografico, come dice Metz, lo stesso effetto può essere assegnato dallo spettatore all’ordine della diegesi (cioè degli eventi narrati) oppure all’ordine

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della narrazione (cioè l’atto del narrare, dell’enunciare ovvero dei procedimenti discorsivi, retorici, che possono riguardare eventi del tutto ordinari, comuni). Nel primo caso, possiamo aggiungere, l’effetto speciale simula un evento straordinario, nel secondo un procedimento mentale. 10.5.3 Cosa vediamo quando vediamo un effetto speciale? Una riflessione sugli effetti speciali ci può aiutare a vedere i limiti di ogni teoria del cinema direttamente o indirettamente ancorata all’idea di riproduzione. Se si parte invece da una teoria basata sull’idea di simulazione, trucchi o effetti speciali che dir si voglia potranno essere integrati organicamente in una teoria del linguaggio cinematografico, e non più trattati a parte o addirittura ignorati o banditi. Nell’analisi del racconto si fa una distinzione tra il piano del discorso (enunciazione, narrazione) e quello della storia (Metz 1980: 85-90). Nel cinema la narrazione avviene principalmente attraverso una “mostrazione”. La narrazione si compone di esistenti e di eventi: qualcosa accade a qualcuno o qualcuno fa accadere qualcosa. Gli esistenti sono i personaggi e l’ambiente di una storia, gli eventi sono gli accadimenti che occorrono a quei personaggi e in quel contesto (Casetti - di Chio 1990: 163-166). Faremo quindi una distinzione tra le modalità di visione, da una parte, e gli esistenti/eventi, dall’altra. Il termine “effetti speciali” presuppone, almeno implicitamente nella coscienza degli spettatori, il suo contrario: “effetti ordinari”. Ciò significa che la rappresentazione (simulazione) di certi eventi può avvenire mediante una procedura percepita come ordinaria o straordinaria in relazione alla natura dell’evento e alla modalità di visualizzazione. Come abbiamo appena ricordato, nell’analisi del racconto

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sia letterario che cinematografico per caratterizzare l’universo narrativo si parla di esistenti e di eventi. Qui, per non complicare troppo il discorso, ci limiteremo agli eventi, precisando che la tipologia proposta si può estendere con qualche adattamento anche agli esistenti. Come fanno gli studiosi di generi letterari o cinematografici quali il fantastico, la fantascienza o l’horror (vedi Prédal 1970; Todorov 2000), possiamo chiamare ordinari gli eventi che rientrano nell’ambito delle leggi naturali note e delle possibilità tecnico-scientifiche che sono patrimonio comune dell’umanità; straordinari quelli che trasgrediscono le une o le altre o ambedue. In genere gli effetti speciali sono stati usati proprio per rendere rappresentabili eventi di questo tipo. Bisognerà tuttavia precisare che i confini tra ordinario e straordinario sono andati modificandosi in seguito al progresso tecnico-scientifico. Il volo spaziale, evento straordinario sia in Voyage dans la lune (1902) di Méliès sia in Destinazione luna (1950) di Irving Pichel, lo è già un po’ meno in Conto alla rovescia (1967) di Robert Altman, uscito alla vigilia del primo sbarco sulla luna, e non lo è più oggi con i voli ormai frequenti delle navicelle spaziali. Tuttavia, anche nei film di fantascienza, si continuano a usare gli effetti speciali per rappresentare eventi che non sono più straordinari nel senso sopra precisato, non solo per l’ovvio motivo che è più economico simulare i voli con i modellini piuttosto che realizzarli e riprenderli dal vero, ma anche perché la loro simulazione permette di offrire modalità di visione assai più suggestive. Basta confrontare le riprese di un volo (reale) della navicella spaziale del programma “Shuttle” con quelli che si vedono nei film della serie Guerre stellari per cogliere la differenza. Diremo quindi che gli effetti speciali possono simulare eventi sia ordinari sia straordinari presentati a loro volta

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attraverso la simulazione di modalità di visione ordinarie e straordinarie. Naturalmente anche i confini tra modalità di visione ordinaria o straordinaria sono mobili e variano con il variare della competenza visiva dello spettatore. Un criterio per definire lo straordinario e l’ordinario in questo campo può essere quello della compatibilità con l’orizzonte delle attese dello spettatore, cioè con quelle che sono le sue abitudini percettive che possono coincidere con le convenzioni di rappresentazione realistica, ma anche con quelle che si sono stabilizzate nei generi non realistici. L’impiego della steadycam, almeno finché l’uso non si è generalizzato (vedi 10.2), poteva offrire la simulazione di modalità di visione straordinaria anche di eventi ordinari. Si pensi alle riprese con la steadycam della corsa in triciclo del piccolo Danny attraverso i corridoi nell’Overlook Hotel di Shining (1980) di Kubrick: in questo caso l’evento è ordinario (un bambino che corre con il suo triciclo); è la modalità di visione straordinaria che produce una particolare accentuazione finalizzata ad accrescere il clima orrorifico del film. Riassumendo il tutto in uno schema semplice, gli effetti speciali possono essere finalizzati alla produzione sia di eventi sia di modalità di visione che potranno trovarsi in quattro possibili relazioni: modalità di visione

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Esempi del primo caso (visione ordinaria/evento ordinario) si possono trovare in qualsiasi film di genere non fantastico (un western o un melodramma) in cui la presenza di effetti speciali di vario tipo quanto a modalità di produzione e di fruizione non risulta incompatibile con ciò che caratterizza un film realistico (è sufficiente pensare all’ultimo western o all’ultimo melodramma del periodo classico visto in televisione). Va aggiunto però che in questo caso si può far rientrare anche quello che può essere definito il più atipico, inquietante e “ingombrante” dei film dell’orrore: Freaks (1932) di Tod Browning (i “mostri” che il film mette in scena non sono il risultato del lavoro dei tecnici degli effetti speciali). Esempi del secondo caso (visione straordinaria/evento ordinario) riguardano quei film realistici quanto al genere di appartenenza (basati cioè su eventi che sono compatibili con l’insieme delle nostre conoscenze tecniche, scientifiche e storiche) che presentano, grazie all’impiego degli effetti speciali, modalità di visione eccedenti sia la nostra esperienza quotidiana, sia quella cinematografica precedente: possiamo citare gli “eccessi” di realismo negli effetti di lacerazione delle carni prodotti dai proiettili nei western di Peckinpah (risultato di una combinazione di sofisticati e perfezionati effetti profilmici o fisico-meccanici con quelli propriamente cinematografici del flou e del rallentato); oppure tutto l’insieme degli effetti speciali utilizzati in Apocalypse Now (1979) di Coppola, per quanto riguarda il genere bellico, o in Un sogno lungo un giorno (1981) dello stesso Coppola per quanto riguarda la commedia musicale. Esempi del terzo caso (visione ordinaria/evento straordinario) potranno essere scelti tra quei film che pur mettendo in scena eventi che eccedono le nostre attuali conoscenze tecnico-scientifiche, catturano l’interesse dello spettato-

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re attraverso il plot e nell’impiego degli effetti speciali si attengono alle convenzioni di un film realistico: un esempio in campo fantascientifico può essere rappresentato da Wargames-Giochi di guerra (1983) di John Badham e, nel campo del genere horror, da quei film che, pur mettendo in scena fenomeni circa i quali non è possibile dare una spiegazione naturale, non utilizzano effetti che trasgrediscano le convenzioni del realismo. L’ultimo caso invece (visione straordinaria/evento straordinario) trova una vastissima esemplificazione nel cinema di fantascienza e nell’horror film contemporanei: da 2001: odissea nello spazio (1968) di Kubrick a Blade Runner (1982) di Ridley Scott, da Guerre stellari (1977) di Lucas a La cosa (1982) di John Carpenter. Quest’ultimo film citato, confrontato con La cosa dall’altro mondo (1951) di Nyby e Hawks, di cui costituisce il remake, può offrire un eccellente esempio di diverse modalità di visione rispetto a un evento dello stesso tipo, ma anche di un’estetica dell’eccesso di visibilità che si è andata affermando nel contemporaneo cinema di fantascienza e dell’orrore. Questa tipologia offre sicuramente il vantaggio di integrare in un unico schema sia riprese che, per convenzione, produttori e fruitori considerano ordinarie, sia quelle che sono il risultato di effetti speciali (prodotti in diverso modo e a diversi livelli). Essa è applicabile sia al cinema realistico sia al fantastico. Rispetto alle tradizionali tipologie del fantastico offre il vantaggio di integrare aspetti tematici e aspetti tecnico-linguistici. Per esempio, la tipologia del fantastico proposta da Prédal (1970) in relazione al rapporto ordinario e straordinario prende in considerazione solo aspetti tematici. Essa prevede tre casi: a) intrusione di un elemento straordinario in un mondo ordinario;

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b) immissione di un elemento ordinario in un mondo straordinario; c) analisi di elementi straordinari in un mondo straordinario (vedi Prédal 1970: 8-9). Al contrario, la tipologia che abbiamo sopra illustrato non solo definisce le relazioni tra aspetti tecnico-linguistici (modalità di visione) e tematici (quelli classificati da Prédal), ma definisce anche il ruolo degli effetti speciali in film che tematicamente non appartengono al genere fantastico. Questo spiega anche il fenomeno, più volte osservato, della rapida obsolescenza dei film fantastici o fantascientifici, dovuta all’invecchiamento non tanto delle loro tematiche, quanto della loro base tecnica che nel frattempo è entrata nell’uso comune, ha perso il suo carattere straordinario. In questo caso, modalità di visione straordinarie sono progressivamente assimilate nella coscienza degli spettatori alla sfera dell’ordinario. Il fenomeno è dello stesso tipo di quello che abbiamo osservato a proposito della dissolvenza incrociata che da trucco di trasformazione è diventata normale procedimento di interpunzione. Non va tuttavia dimenticato che anche quando un effetto ottico è stato, come dice Metz, grammaticalizzato, è diventato un procedimento enunciativo come un altro, esso conserva qualcosa della sua fascinazione primitiva di evento magico. Anche quando è diventata un puro e semplice segno di interpunzione, la dissolvenza incrociata conserva “qualcosa della fusione sostanziale, della trasmutazione magica, dell’efficacia mistica” (Metz 1975: 255). Ma l’evoluzione della tecnica introduce nuove sorprese come nel caso del morphing che sicuramente ha qualche parentela con la vecchia dissolvenza incrociata ma che, soprattutto, ha conosciuto un’evoluzione paragonabile a quella. Il morphing, effetto che oggi si può facilmente realiz-

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zare sul proprio portatile con uno dei programmi offerti in rete, consiste nella trasformazione di un’immagine in un’altra, letteralmente nella realizzazione di una metamorfosi esattamente come il buon Méliès faceva con le sue dissolvenze incrociate. Fu usato una prima volta per visualizzare la trasformazione di un animale resa possibile dalle arti magiche di una strega in Willow (1988) di Ron Howard prodotto dalla Lucasfilm. Da allora le applicazioni sono state molte. Memorabili quelle che si vedono in tre film di James Cameron. In Abyss (1988) assistiamo alle metamorfosi delle inquietanti forme acquatiche che abitano le profondità marine. In Terminator 2 - Il giorno del giudizio (1991) vediamo un cyborg trasformarsi in cose e persone. In Titanic (1997), nel corso di una sola inquadratura, passiamo dal 1912 al 1998, da Rose giovane (Kate Winslet) a Rose vecchia con il volto arato di rughe (Gloria Stuart): in modo del tutto fluido e naturale – verrebbe da dire – se non fosse che invecchiare è naturale nel corso di una vita, un po’ meno nel corso di una breve inquadratura. In questo caso, secondo il nostro modello, ci viene proposta una modalità di visione straordinaria di un evento del tutto ordinario come l’invecchiamento. Come è stato detto efficacemente a proposito del morphing, abbiamo il passaggio da un montaggio delle immagini a un montaggio nell’immagine (Hamus-Vallée 2006: 87). Quello che nel cinema analogico si realizzava lungo la catena sintagmatica (il montaggio metteva in successione, ovvero linearizzava, unità significanti), nel cinema digitale si può attuare nell’ambito di una sola inquadratura, attraverso un procedimento di condensazione. Tornando alla distinzione che abbiamo sopra indicato tra simulazione di modalità di visione e simulazione di eventi e applicandola a un film come Abyss, noteremo che attraverso la tecnica

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del morphing vengono simulate modalità di visione assolutamente straordinarie: mai il cinema aveva visualizzato la metamorfosi di una forma con la fluidità con la quale noi vediamo la trasformazione delle creature acquatiche nel film di Cameron. Che queste creature e gli eventi che occorrono ai protagonisti dell’avventura sottomarina siano straordinari non richiede specificazioni di sorta. La fascinazione e, insieme, la paura provocate da queste creature in perenne metamorfosi sono da attribuire all’ordine della storia raccontata oppure sono dovute alla magia degli effetti speciali che le generano in forme del tutto nuove e inusuali? Qui ci torna utile la teoria dell’esitazione che Todorov (2000) ha esposto in un saggio ormai classico sulla letteratura fantastica. Todorov sostiene che l’essenza del fantastico consiste nell’esitazione del lettore (che dura tutto il tempo della lettura) tra una spiegazione naturale e una spiegazione soprannaturale degli eventi straordinari di cui il testo lo mette a parte. La teoria dell’esitazione di Todorov potrebbe essere estesa al cinema fantastico, ma ci offre anche lo spunto per individuare nella “esitazione” la proprietà fondamentale degli effetti speciali: di fronte a questi il piacere dello spettatore si nutre dell’incertezza di attribuire il fascino allo straordinario universo in cui viene immesso o allo straordinario dispositivo che lo simula. All’esitazione possiamo affiancare la teoria della metamorfosi degli affetti speciali in effetti speciali. L’ha formulata una studiosa americana, Vivian Sobchack, in un’opera dedicata agli sviluppi della fantascienza. Secondo Sobchack (2002), non si pone più il problema se sia credibile o meno quanto viene mostrato, ovvero, per usare la terminologia che abbiamo qui adottata, se gli esistenti/eventi siano da considerare ordinari o straordinari, perché sembra non esserci più l’esigenza di una rappresentazione oggettiva delle meraviglie del futuro che

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trascendono le nostre attuali conoscenze. A contare è solo la resa attraverso l’effetto speciale dell’intensificazione soggettiva della percezione degli eventi. Tradotto nei termini della nostra tassonomia, non c’è più neppure la necessità di distinguere tra modalità di visione ed eventi. L’evento è la modalità di visione. E l’effetto speciale è l’affetto speciale. PER SAPERNE DI PIÙ Una sintesi semplice ed efficace, che vi guida dai trucchi agli effetti digitali, da Méliès alla Pixar, è Hamus-Vallée 2004. Per un approfondimento degli aspetti tecnici e anche della terminologia in uso, bisogna senz’altro rivolgersi a testi in lingua inglese: semplice e molto illustrato, adatto anche a chi sta muovendo i primi passi, è Miller 2006. Un valore più che altro storico ha Brosnan 1976, ma ancor oggi utile, soprattutto per chi è interessato agli effetti speciali prima di Guerre stellari. Per un livello più avanzato, oltre a Goulekas 2001 che è un dizionario di tutti i termini tecnici, si possono suggerire: Pierson 2002, che inserisce gli effetti speciali del cinema più recente in una storia e teoria della visione e della meraviglia, e Rickitt 2007. In lingua francese Lefebvre 1999 e Pinteau 2003 (di quest’ultimo esiste anche una versione in inglese). Chi voglia approfondire i rapporti tra effetti speciali e i nuovi orizzonti aperti dalle tecniche digitali, potrà indirizzarsi a BeauDubois-Leblanc 1998, in cui si trova un bel saggio di Hamus-Vallée sul morphing (sul quale si veda anche Sobchack 2009); Jullier 2006; Manovich 2002 e 2010; Rodowick 2008.

10.6 Il montaggio Filming Othello (1978) di Orson Welles inizia con un elogio della moviola, detta anche tavolo di montaggio:

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Questa è una moviola, la macchina per montare i film. Badate, però, quando diciamo che stiamo curando l’edizione e il montaggio di un film, in realtà non diciamo abbastanza. I film non si realizzano solo sul set: gran parte del lavoro avviene proprio qui, per cui una moviola come questa è importante quasi quanto la cinepresa. Qui i film vengono salvati, sottratti talvolta al disastro oppure massacrati. Questa è l’ultima fermata di quel lungo percorso tra il sogno creativo di un cineasta e il pubblico cui quel sogno è diretto. [trascrizione dal doppiaggio dell’edizione italiana]

Welles impiegò circa quattro anni per portare a termine il suo Otello (dal 1948 al 1952): aveva incontrato molte difficoltà produttive, problemi per l’indisponibilità degli attori; aveva dovuto interrompere e ricominciare le riprese più volte, mutando continuamente i luoghi, da Venezia al Marocco. Per fortuna esiste il montaggio, ci dice Welles in Filming Othello, e ci ricorda quali “miracoli” esso può fare: Jago passa dal portico di una chiesa di Torcello, un’isola della laguna veneziana, a una cisterna portoghese al largo della costa africana. Ha attraversato il mondo trasferendosi da un continente all’altro nel bel mezzo di una sola frase. Nel mio Otello è una cosa che capita in continuazione. Uno scalone toscano e un parapetto moresco fanno entrambi parte di quello che nel film è un unico ambiente. Rodrigo sferra un calcio a Cassio a Mazagan e riceve in risposta un pugno a Orvieto, a mille miglia di distanza. Le tessere del puzzle erano separate nel tempo e da numerosi viaggi in aereo. Non c’era alcuna continuità. [trascrizione dal doppiaggio dell’edizione italiana]

È curioso che questo elogio del montaggio venga pronunciato dal regista che forse più ha influenzato le teorie di

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Bazin sulla fine del “montaggio sovrano”. D’altra parte tale elogio, incentrato con sottile ironia sul potere di simulazione del cinema, è fatto a proposito della versione filmica di un dramma shakespeariano in cui messa in scena e simulazione hanno un ruolo non secondario. Né dobbiamo dimenticare che Welles è anche l’autore di F come falso (1973), un divertissement in forma di inchiesta filmata sui rapporti tra arte e falsificazione. 10.6.1 Teoria e pratica del montaggio Sia pure con personalissime motivazioni, Welles definisce in Filming Othello la prima, e più elementare, funzione del montaggio: una funzione assai vicina a quella dei trucchi, tanto è vero che i primissimi manuali di tecnica cinematografica indicavano il montaggio come il principale dei trucchi. Con il montaggio, ci ricorda Welles, si può dare l’illusione che due porzioni di spazio, riprese in luoghi diversi, costituiscano le componenti di una scena unitaria e continua. Questa impressione di unità (di luogo) e di continuità (di tempo) è il risultato sicuramente di una serie di accorgimenti adottati in sede di ripresa e di montaggio, ma anche di una cooperazione dello spettatore che integra le informazioni desunte dalle singole inquadrature attivando una serie di relazioni spazio-temporali suggerite dalla loro successione. A lungo i teorici del cinema hanno discusso sul cosiddetto “effetto Kulešov”, dal nome del regista russo che lo sperimentò (AA.VV. 1986). Kulešov ha montato, in tre diversi segmenti, una medesima inquadratura, non particolarmente espressiva, dell’attore Ivan Mozžuchin, cui ha fatto succedere tre diverse inquadrature: una di un piatto di minestra; la seconda della salma di una donna composta in una bara; la terza di una bambina intenta a giocare. I gruppi di spettatori

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ai quali mostrò i tre segmenti furono tutti concordi nell’attribuire all’identica immagine di Mozžuchin tre espressioni di significato completamente diverso. Nel primo segmento videro nel volto dell’attore l’espressione della fame, nel secondo del dolore, nel terzo della gioia e serenità. Pudovkin, che riferisce e commenta questo esperimento, cui egli stesso aveva partecipato, parla di “montaggio costruttivo”, in quanto produce significati che non sono nelle singole inquadrature, ma nelle relazioni tra inquadrature stabilite dal regista-montatore. La definizione di “montaggio costruttivo” a proposito dell’effetto Kulešov potrebbe essere accettabile ancor oggi, precisando però che la costruzione del senso è opera dello spettatore non meno che del regista. La semiotica contemporanea prenderebbe l’effetto Kulešov come un comunissimo caso di cooperazione interpretativa (Eco 1979: 79-81): la relazione tra lo sguardo dell’attore e i diversi oggetti induce nello spettatore l’attivazione di un frame o “sceneggiatura” che prevede per l’espressione del volto significati precostituiti. Semmai è curioso notare come sia la semiotica anglosassone che quella italiana abbiano adottato in questi casi termini cinematografici come “frame” e “sceneggiatura”. Nell’epoca del muto, e soprattutto nell’ambito del cinema sovietico degli anni venti, era invece abituale ricondurre qualsiasi effetto di senso alle proprietà del montaggio, con il quale si faceva coincidere il cosiddetto “specifico filmico”. Nello stesso tempo la grande attenzione prestata al montaggio, considerato la base estetica del film, serviva a esaltare i punti di convergenza tra cinema e nuove forme d’espressione . Nei movimenti d’avanguardia, dal futurismo al cubismo e al surrealismo, c’era un vivo interesse per le tecniche del collage, dell’assemblaggio, della giustapposizione di materiali figurativi, verbali e sonori presi dai

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più diversi contesti e (ri)prodotti con i mezzi più disparati (Lawder 1983). Consideriamo dapprima il montaggio nei suoi aspetti operativi e tecnici, precisando che esso è il risultato di due operazioni contestuali: la selezione e la combinazione o, detto in termini più familiari, tagliare e incollare. Sono le operazioni che compie il montatore sulla pellicola girata e sviluppata, sotto la direzione del regista, al tavolo di montaggio o moviola. Cut e paste sono le parole che usa il menu del nostro programma di scrittura quando facciamo al computer un’operazione di montaggio tra le varie parti di un testo. La rivoluzione digitale ha di fatto avvicinato la produzione di testi scritti e di testi audiovisivi, in forme tali che le più ardite avanguardie artistiche e le più spericolate teorie semiotiche non avevano neppure osato immaginare. La funzione selettiva e quella combinatoria del montaggio, che in italiano sono rese dalla stessa parola, in altre lingue sono tenute distinte. In francese, ad esempio, la prima si chiama découpage e la seconda montage. In inglese la prima si chiama cutting. Per la seconda si usa generalmente editing, che definisce la fase conclusiva della lavorazione di un film; ma si può trovare anche montage, francesismo con cui si definisce una sequenza costruita su una rapida successione di inquadrature (montage sequence, cioè sequenza di montaggio) e che viene riservato per designare la concezione di montaggio tipica del cinema muto sovietico (Millar-Reisz 2001: 109; Katz 1982: 820-821). La lingua francese rende assai chiaramente l’idea che la funzione selettiva del montaggio comincia già in fase di sceneggiatura, chiamando quest’ultima découpage. Questo termine, che è stato poi accettato in altre lingue, compresa la nostra, rimanda esplicitamente all’idea del tagliare, ritagliare, operando inclusioni ed esclusioni. Infatti si usa

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in particolare per la fase finale della sceneggiatura, quella che prevede l’articolazione delle scene in inquadrature: rispetto all’indefinita continuità della scena, si “ritagliano” i momenti significativi dal punto di vista narrativo e visivo. Considerazioni analoghe valgono per l’inglese cutting script. La funzione selettiva del montaggio, che quindi ha inizio già nella fase del découpage e delle riprese, si esercita rispetto alla continuità spazio-temporale. Proviamo a osservare le cose più da vicino. a) Selezione rispetto allo spazio Le “vedute” dei film primitivi di Méliès simulavano, come amava dire Sadoul con riferimento al modello teatrale, il punto di vista del signore in platea. Tale punto di vista, unico e fisso, coincide con quello che Burch ha chiamato il MRP (Modo di Rappresentazione Primitivo) caratterizzato dall’immobilità della cinepresa collocata a una certa distanza dal soggetto e dall’autarchia, cioè autosufficienza, dell’inquadratura (Burch 2001; vedi anche 5.3). In seguito, il racconto filmico, grazie all’articolazione in inquadrature e angoli di presa diversi, cominciò a simulare il punto di vista del narratore onnisciente del romanzo ottocentesco. In tal modo, rispetto al continuum spaziale, vengono di volta in volta selezionate modalità di visione (da vicino, da lontano, dal basso, dall’alto) funzionali alle esigenze narrative ed espressive. Poiché ogni inquadratura è già una forma di organizzazione di rapporti spaziali (tra figura e sfondo, tra personaggi e oggetti, tra “linee di movimento” dominanti) è evidente che già questa fase, che abbiamo definito “selettiva”, comporta una contestuale operazione “combinatoria”: è in questo senso che si parla di “montaggio interno” (all’inquadratura), tanto più evidente quando l’inquadratura non è fissa.

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b) Selezione rispetto alla durata Rispetto al continuum temporale di una scena e alla durata di un accadimento o dell’intera vicenda narrata, il découpage isola i momenti significativi, ricorrendo a ellissi temporali più o meno marcate. La selezione temporale riguarda sia l’intera struttura dei film, sia le singole sequenze. Per esempio, Ottobre (1928) di Ejzenštejn sintetizza in meno di due ore i dieci giorni cruciali della rivoluzione di ottobre (il film è ispirato al reportage giornalistico di John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo), mentre Gertrud (1964) di Dreyer impiega lo stesso tempo per raccontare la vita di una donna dalla giovinezza alla maturità. Se esaminiamo, però, l’organizzazione delle sequenze dei due film, vediamo che in Ottobre ci sono ellissi temporali evidenti e marcate, tanto che si può parlare di una sorta di distruzione del tempo reale dei singoli eventi narrati e di produzione di una temporalità astratta. Il montaggio intellettuale teorizzato da Ejzenštejn prevedeva un uso simbolico degli elementi scenografici e degli oggetti: si doveva partire dai dati concreti dell’esperienza visiva per arrivare alle idee astratte. Al contrario, Gertrud si compone di segmenti la cui durata coincide con quella reale dei singoli episodi: si tratta di vari segmenti narrativi unitari, per lo più di scene di conversazione che si svolgono in epoche diverse della vita della donna. Questi sono naturalmente due estremi opposti che esemplificano due diverse modalità di intervento sulla durata. Contestuale e complementare all’operazione selettiva (che tecnicamente si attua in fase di découpage e di ripresa) è quella combinatoria che si colloca nella fase finale del processo di produzione, anche se un primo abbozzo di montaggio viene costituito giorno per giorno in base ai “gior-

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nalieri” cioè agli spezzoni di pellicola impressionata che quotidianamente arrivano dal laboratorio di stampa. A un primo livello il montaggio deve produrre una continuità, cioè unire i vari spezzoni di pellicola scelti per la messa a punto della copia definitiva. Tale operazione non consiste solo nell’incollare gli spezzoni, ma anche nello scegliere i raccordi idonei a esaltare e potenziare l’impressione di continuità spazio-temporale di ogni singola scena che è stata frazionata in sede di découpage e di ripresa. Tali raccordi, codificati in epoca di découpage classico, sono finalizzati a una equilibrata messa in sequenza delle diverse inquadrature: raccordi sull’asse, su assi paralleli, a 180° o a 30°, sugli sguardi, campo/controcampo (shot/reverse-shot). L’uso di raccordi “scorretti” e disarmonici (jump cut, letteralmente salto) può essere una scelta stilistica: è questo, per esempio, uno degli aspetti più vistosi sul piano tecnicostilistico di Fino all’ultimo respiro (1960), il lungometraggio di esordio di Godard che fece scalpore anche per la sua ostentata disinvoltura nei confronti della sintassi filmica più collaudata e rispettata. Abbiamo visto finora i raccordi in modo generico, e per lo più tra inquadrature nell’ambito di una stessa scena. Se osserviamo le cose un po’ più da vicino, troviamo anche i raccordi tra scene o sequenze, cioè tra inquadrature che si riferiscono a spazi e luoghi diversi e che si possono realizzare in diversi modi. Il montatore dispone di una serie di raccordi tutti ampiamente collaudati sul piano della tecnica e codificati su quello delle funzioni e dei significati. Partiamo da quello che è oggi il più diffuso, il puro e semplice stacco: due inquadrature, l’ultima della scena A e la prima della scena B, si succedono per pura e semplice giustapposizione. Ci sono poi la dissolvenza in chiusura (ingl. fade) e la dissol-

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venza in apertura (taluni preferiscono assolvenza, corrispondente all’inglese fade in): l’ultima inquadratura della scena A si dissolve più o meno lentamente in uno sfondo nero o neutro o, se il film è a colori, in una delle tonalità dominanti, mentre la prima inquadratura della nuova scena viene giustapposta con o senza l’effetto di “dissolvenza in apertura”, cioè può apparire immediatamente nitida e a fuoco oppure emergere gradualmente dallo sfondo in cui si è dissolta l’inquadratura precedente. Molto diffusa nel cinema classico e oggi quasi del tutto in disuso è la dissolvenza incrociata: l’ultima inquadratura della scena A si dissolve, svanisce mentre a essa lentamente si sovrappone la prima inquadratura della scena B, in modo tale che per qualche istante le due immagini risultano in sovrimpressione. Altri metodi che appaiono al giorno d’oggi decisamente arcaici prevedevano l’uso di mascherini (chiusura e apertura “a iride”) e tendine. Questi raccordi, ottenuti un tempo in truka (o stampatrice ottica) e oggi realizzati mediante il montaggio digitale, possono essere considerati veri e propri segni di punteggiatura o, più propriamente, di macropunteggiatura, come li definisce Metz, in quanto hanno una funzione analoga agli spazi bianchi tra un paragrafo e un altro o tra i vari capitoli di un libro (Metz 1975: 245). Spesso tuttavia gli effetti ottici di questo tipo mantengono o assumono, al di là della convenzionale e codificata funzione di segni di punteggiatura, un valore e un significato più complessi e più difficili da definire, tanto è vero che Metz li ha presi a pretesto per studiare le modalità di percezione (“regimi percettivi”) dello spettatore (Metz 1975: 269-293) e per studiare i rapporti tra linguaggio cinematografico e configurazioni oniriche (Metz 1980). Oltre a essere un fatto tecnico di montaggio e una forma convenzionale di punteggiatura, tali raccordi possono

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assumere un particolare valore nella struttura di un singolo testo filmico. Le dissolvenze incrociate in L’uomo con la macchina da presa (1929) di Vertov contrassegnano con evidente valore simbolico una sorta di continuità tra la dimensione del biologico (la figura umana, i movimenti del corpo), del meccanico (la macchina, l’automazione) e del sociale (l’aggregazione degli individui nei vari spazi e momenti della vita urbana). Anche nel cinema hollywoodiano classico la dissolvenza incrociata può acquistare valenze metaforiche: in La luna sorge (1948) di Frank Borzage una dissolvenza incrociata, che mette in relazione l’immagine del padre impiccato con quella di un pupazzo che pende dalla culla del figlio, oltre che raccordare l’antefatto con l’inizio vero e proprio della narrazione, ha la funzione di introdurre plasticamente l’ossessione della predestinazione che domina la psicologia del protagonista. Dissolvenze in chiusura scandiscono la successione delle scene in Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman: in questo caso la dissolvenza viene fatta in modo tale da determinare la formazione di un’uniforme campitura di rosso che è la tonalità dominante nell’arredamento della villa in cui è ambientata la vicenda. È evidente la funzione di clausola metrica, di scansione ritmica, ma anche di “forma simbolica” che acquistano queste astratte campiture in cui sembra continuamente annullarsi la sostanza figurativa del film: “io ho sempre immaginato il rosso come l’interno dell’anima”, ha dichiarato Bergman (1992: 75). Le dissolvenze incrociate disseminate in C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone, non sono solo un arcaismo del resto coerente con il clima figurativo del film, sono anche una precisa scelta stilistica funzionale allo sviluppo del tema della ricerca di un tempo perduto, nella vita del protagonista non meno che nella storia del cinema.

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Naturalmente non sono solo i segni di interpunzione a definire i valori ritmici di un film, anche se è immediatamente intuibile il diverso effetto prodotto dalla prevalenza dei raccordi per “stacchi” o per dissolvenze o per dissolvenze incrociate. Il ritmo è uno degli effetti prodotti da tutto l’insieme delle operazioni relative al montaggio e la sua funzione è parimenti importante non solo nel cinema non narrativo (detto anche “di montaggio”) ma anche in quello narrativo. Ai valori ritmici del montaggio furono particolarmente attenti i registi del cinema muto, anche se con diverse motivazioni. In Griffith il ritmo è finalizzato alla resa dell’incalzare drammatico dell’azione. Pudovkin tende invece all’illustrazione epico-sinfonica delle grandi vicende storiche: si pensi a film come La madre (1926) o La fine di San Pietroburgo (1927). Ejzenštejn, infine, è attentissimo ai valori ritmici che scandiscono i più arditi percorsi del montaggio “intellettuale” da lui teorizzato e praticato: da ricordare alcune sequenze di Ottobre (1928), come la celebre “sequenza degli dei” in cui una frenetica orchestrazione di simboli religiosi, da un Cristo barocco a un amuleto animista, esprime l’idea dell’asservimento, attraverso i secoli, della religione al potere politico. Il montaggio intellettuale di Ejzenštejn è il risultato di forme sottostanti di montaggio impostate su valori prosodico-musicali: a) il montaggio metrico, basato sulla durata delle inquadrature (assimilata alla lunghezza delle sillabe in metrica); b) il montaggio ritmico, in cui oltre alle corrispondenze relative ai valori della durata (ai quali l’occhio non è sensibile quanto lo è l’orecchio in musica) entrano in gioco i rapporti tra contenuti e scala dei piani; c) il montaggio tonale, dando a “tonale” lo stesso valore che ha in musica e concependo la sequenza come orchestrazione e sviluppo di elementi tematici e formali;

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d) il montaggio armonico, con lo stesso significato che ha in musica, vale a dire la fusione dei suoni secondari con il suono fondamentale [Ejzenštejn 1929: 60-66; AumontMarie 2007: 202-203]. Valori ritmici e prosodici del montaggio furono ampiamente sperimentati da tutte le avanguardie. La celebrazione dei ritmi vertiginosi dello spazio urbano è un tema che percorre vari film degli anni venti: Rien que les heures (1926) di Alberto Cavalcanti, Berlino, sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann, L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov, A propos de Nice (1930) di Jean Vigo. Ma il problema del ritmo è essenziale anche nel montaggio del cinema d’azione, cioè in quello più direttamente finalizzato alle esigenze narrative: Nascita di una nazione (1915) di Griffith e Ombre rosse (1939) di John Ford offrono eccellenti esempi di “montaggio alternato” come procedimento narrativo i cui effetti di suspense sono sorretti e amplificati dai valori ritmici delle sequenze. L’effetto di suspense è il risultato di un lavoro di dilatazione del tempo ottenuto essenzialmente attraverso i procedimenti di montaggio. In questo senso è particolarmente calzante la definizione di suspense data da Jean Douchet in un saggio su Hitchcock, definizione che, al di là del contesto hitchockiano in cui è stata formulata, è applicabile a ogni cineasta che abbia lavorato su questo effetto: “dilatazione di un presente preso fra due possibilità contrarie di un futuro imminente” (Douchet 1999: 6). 10.6.2 La grande sintagmatica del film di finzione Il montaggio come fondamento della narrativa cinematografica è stato ampiamente studiato e teorizzato a partire

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dai contributi dei cineasti sovietici, influenzati dal formalismo, e di Ejzenštejn in particolare. In un celebre saggio di Ejzenštejn pubblicato nel 1944 e intitolato “Dickens, Griffith e noi” vengono analizzate le analogie tra le tecniche di strutturazione del racconto nel romanziere inglese e nei procedimenti di montaggio affermatisi nel cinema da Griffith in poi (Ejzenštejn 1964: 73-221). Per quanto il montaggio sia stato radicalmente messo in discussione in seguito ai contributi di Bazin e alle poetiche del cinema moderno (vedi 6.4 e 7.1), il ruolo del montaggio nel cinema narrativo ha costituito uno dei temi centrali della nascente semiotica del cinema, a metà degli anni sessanta. La “grande sintagmatica del film di finzione” studiata da Metz (1972: 175-249) non è altro che un tentativo di stabilire il codice delle principali forme di concatenazione delle inquadrature all’interno delle singole unità di montaggio. Metz fa una distinzione tra “piani autonomi” e “sintagmi”. I primi sono segmenti autonomi di un film costituiti da un solo piano (o inquadratura). Il tipo principale di piano autonomo è il piano-sequenza. Questo si ha quando “tutta una scena è trattata in un solo piano”; in questo caso è l’“unità di un’azione a conferire al piano la sua autonomia” (Metz 1972: 182). I sintagmi sono invece segmenti formati da più parti, cioè da più inquadrature che costituiscono un’unità nettamente individuabile e dotata di un significato autonomo. Metz distingue tra sintagmi a-cronologici e sintagmi cronologici: nei primi vengono collegati vari elementi in assenza di una precisa denotazione di rapporti temporali; nei secondi, invece, i rapporti temporali tra i fatti presentati dalle immagini sono chiaramente indicati (Metz 1972: 182-183). Un caso di sintagma a-cronologico è il “sintagma parallelo”: il montaggio avvicina e intreccia due o più motivi

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senza però indicare precisi rapporti temporali o spaziali, ma facendo emergere semmai analogie o contraddizioni che hanno valore simbolico (Metz 1972:183-184). È quello che nelle tradizionali grammatiche cinematografiche si chiama “montaggio parallelo”, che non va confuso con il montaggio alternato che nello schema di Metz è un sintagma cronologico. Nel sintagma narrativo alternato, “il montaggio presenta alternativamente due o più serie di avvenimenti in maniera tale che all’interno di ciascuna serie i rapporti temporali siano di consecuzione, ma che tra le serie prese in blocco il rapporto temporale sia di simultaneità” (Metz 1972: 186187). Citazione d’obbligo: la sequenza finale di Nascita di una nazione (1915) di Griffith, tutta basata sull’alternanza delle inquadrature che mostrano i Cameron stretti d’assedio e quelle dei salvatori del Ku Klux Klan. L’utilità della distinzione tra sintagmi a-cronologici e cronologici risulta evidente mettendo a confronto altri due tipi di montaggio che vengono spesso confusi. È a-cronologico il “sintagma a graffa” che viene così definito: “una serie di brevi scenette rappresentanti avvenimenti che il film dà come campione di un medesimo ordine di realtà, astenendosi deliberatamente dal situarle una in rapporto alle altre nel tempo, per insistere invece sulla loro supposta parentela in seno a una categoria di fatti”. Come esempio Metz cita l’inizio di Una donna sposata (1964) di Godard nel quale, attraverso una serie di scenette collegate tra loro, viene espresso un “significato globale inteso come amore moderno” (Metz 1972: 183-184). A differenza del sintagma a graffa, la sequenza a episodi allinea inquadrature caratterizzate da una discontinuità temporale, ma ordinate secondo un criterio cronologico, secondo una progressione consequenziale. Quale esempio

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Metz cita la sequenza di Quarto potere (1941) di Orson Welles in cui il naufragio del matrimonio tra Kane e la prima moglie è espresso “attraverso una serie cronologica di rapide allusioni a pasti consumati in comune dalla coppia in un clima sempre meno affettuoso” (Metz 1972: 188-190). Senza addentrarci nella definizione degli altri tipi di sintagmi isolati da Metz, saranno sufficienti quelli citati per comprendere come la logica di implicazione spaziotemporale coinvolga i più comuni procedimenti di montaggio del cinema narrativo. Pur avendo separato il piano-sequenza come piano autonomo da tutti gli altri tipi di sintagmi, Metz non esclude che un’analisi più approfondita del piano-sequenza porterebbe a individuare forme di costruzione di immagini con funzioni analoghe a quelle individuate nei vari sintagmi da lui isolati. In altri termini, Metz ammette che il cinema moderno ha reso inattuale una certa teoria e una certa pratica del montaggio inteso come collage, ma non per questo siamo autorizzati a sbarazzarci della nozione di montaggio in senso lato, “inteso come costruzione di una intelligibilità per mezzo di ‘ravvicinamenti’ di vario tipo”, in quanto “il film è comunque discorso, e cioè luogo di co-apparizione di diversi elementi attualizzati” (Metz 1972: 94-95). Questa precisazione di Metz ci offre lo spunto per riflettere su troppo schematiche contrapposizioni tra il principio del montaggio e quello del piano-sequenza. Lo stesso Bazin (1951: 7) aveva ammesso che “il piano-sequenza in profondità di campo del regista moderno non rinuncia al montaggio […] ma lo integra nella propria plasticità”. Mentre Ejzenštejn si era soffermato, in modo del tutto autonomo, sugli stessi film (Piccole volpi di Wyler e Quarto potere di Welles) che avevano ispirato a Bazin la teoria del pianosequenza; ed era arrivato a concludere che il principio del

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montaggio funziona anche nella composizione dell’inquadratura; anzi l’applicazione di tale principio “rappresenta un balzo in avanti verso una nuova dimensione”: “a un determinato grado di tensione drammatica il conflitto interno frantuma i limiti dell’inquadratura” (Ejzenštejn 1947). 10.6.3 Il montaggio nell’età del digitale Le integrazioni delle tecniche tradizionali del montaggio con quelle fornite prima dall’elettronica e poi dal digitale stanno mutando progressivamente i tempi e le scansioni dell’operazione tecnica del montaggio. È stato Coppola uno dei primi a sperimentate nuove procedure già a partire da Apocalypse Now e soprattutto con Un sogno lungo un giorno. Coppola ha cominciato attraverso una combinazione di tecniche cinematografiche e tecniche che erano già diffuse in campo televisivo. Grazie alla simultanea e contestuale registrazione su videonastro di ogni ripresa fatta su pellicola, e alla loro codificazione su computer, il montatore e il regista potevano confrontare simultaneamente su monitor la qualità delle immagini ottenute con le varie riprese e verificare in tempi brevi una grande varietà di raccordi ed effetti ritmici. In tal modo le scelte e la pianificazione dei tagli e dei raccordi (che solo in seguito erano fatti sulla pellicola) potevano avvenire secondo tempi molto più rapidi e soprattutto con modalità di controllo assai più precise. Già con tali innovazioni si andavano accorciando le distanze tra i procedimenti mentali e logico-discorsivi attraverso i quali il film è pensato e le operazioni materiali attraverso le quali esso assume la sua forma definitiva. Oggi è abituale contrapporre il montaggio cosiddetto “materiale” al montaggio “virtuale”, allo stesso modo in cui si contrappone un cinema analogico a un cinema di-

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gitale. Anche quando non vengano effettuate simultanee e contestuali riprese su supporto analogico (pellicola) e digitale (video), i giornalieri vengono digitalizzati. A partire da questo momento tutte le operazioni che erano materialmente eseguite nel montaggio tradizionale sono realizzate virtualmente senza dover mai neppure toccare (tagliare) il negativo originale che pertanto può essere conservato nella sua integrità e nella sua totalità. È da quest’ultimo che sono scannerizzate le parti scelte e poi assemblate in una copia da proiezione in alta definizione (HD) che permette di effettuare tutte le verifiche e i controlli prima di procedere alla stampa su pellicola dal negativo originale della versione definitiva del film (Pinel 2004: 90-91). Come accade quando si introducono importanti innovazioni tecnologiche (è accaduto con il sonoro, con il colore, con il cinemascope), c’è chi accetta con entusiasmo la novità e si applica nella sperimentazione, e c’è chi oppone resistenza e rimpiange i bei tempi andati. Tutto questo si sta puntualmente verificando con il digitale. Il problema investe non solo chi il cinema lo fa (o lo faceva), ma anche chi lavora sulla riflessione teorica. La convivenza di analogico (pellicola e video) e digitale, prima, e l’attuale predominio pressoché assoluto del digitale, introducono notevoli modificazioni nella teoria e nella pratica del montaggio. L’acquisizione in digitale delle immagini filmiche ha rivoluzionato la pratica del montaggio, ma ha anche modificato la natura dell’unita di base del montaggio, cioè l’inquadratura. Cosa possa significare, lo spiega molto bene David Rodowick, professore di Visual and Environmental Studies alla Harvard University. Prendendo come esempio L’arca russa, di cui abbiamo già parlato in 10.6 a proposito di film interamente girati in un unico pianosequenza, Rodowick (2008) sostiene paradossalmente che

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il film di Sokurov, lungi dall’essere costituito da un unico long take, è “un lavoro di montaggio non meno complesso (no less complex)” di Ottobre di Ejzenštejn (ed. or. p. 165). Lo studioso americano fa questa affermazione non in base a considerazioni alla Bazin (vedi 10.3) che, come abbiamo ricordato, riteneva che in Nodo alla gola di Hitchcock attraverso movimenti di macchina e spostamenti dei personaggi riproponesse tutti gli artifici e le manipolazioni del montaggio tradizionale. Secondo Rodowick la manipolazione, l’artificio e la discontinuità proprie di quel tipo di montaggio condannato da Bazin sono ormai diventati la sostanza stessa dell’inquadratura. Perché? L’acquisizione digitale dell’immagine avviene attraverso una scomposizione della luce in unità discrete, numeriche: la luce – egli afferma – “è frammentata in un mosaico di elementi pittorici che vengono poi interpretati come valori matematici distintivi” (Rodowick 2008: 183). Il realismo ontologico dell’immagine filmica, la riproduzione meccanica del reale quali, secondo Bazin, si realizzavano con la ripresa cinematografica, vengono meno con il digitale. Quello che Rodowick chiama l’evento digitale e che è costituito da acquisizione digitale, sintesi e combinazione (digital capture, synthesys, and compositing) muta la natura stessa dell’immagine. Essa non è più il prodotto di un “contatto” chimico-fisico tra l’evento ripreso e l’emulsione fotosensibile sul supporto (la pellicola), ma della combinazione di unità separate (discrete), cioè di valori numerici. Senz’altro è discutibile sul piano concettuale assimilare unità minime discrete (cioè dei numeri) alle unità minime del montaggio che sono le inquadrature, cioè unità dotate di significati, complessi e diffusi, come hanno sostenuto fin dai primi tempi della ricerca semiologica tanto Metz quanto Pasolini. Tuttavia è a partire da questa rivoluzione del

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digitale che avvengono delle modificazioni radicali nella pratica del montaggio cinematografico, come abbiamo già visto, ma anche altri fatti. È in fondo quello che Rodowick chiama l’evento digitale che permette di realizzare a livello di inquadratura ciò che il cinema tradizionale cercava di ottenere attraverso la combinazione di inquadrature. La tecnica del morphing riporta l’arcaica dissolvenza incrociata alla sua funzione originaria, quello di mostrare delle trasformazioni, delle metamorfosi (Cassani 2006: 326). Se in Il Dottor Jekyll e Mr Hyde (1941) di Victor Fleming, la metamorfosi di Jekyll in Hyde era il risultato di un paziente lavoro di make up (cui si sottoponeva il povero Spencer Tracy) e di montaggio (dissolvenze incrociate), in Abyss noi vediamo le fluttuanti forme acquatiche trasformarsi, con la stupefacente fluidità del morphing, in “sculture” (copie) dei personaggi che le stanno osservando. Inoltre, per fare un altro esempio, il morphing consente di mostrare, di far emergere i tratti dell’animalesco dentro un volto, senza dover ricorrere all’accostamento di due inquadrature, come era costretto a fare Ejzenštejn in Sciopero (1925), in cui illustrava i “caratteri” di alcuni personaggi collegando mediante dissolvenze teste di animali (il gufo, la bertuccia, la volpe) e volti umani. PER SAPERNE DI PIÙ Il modo migliore per iniziare un approfondimento del montaggio è prestare ascolto alla voce di grandi professionisti: consiglio quindi prima di tutto la lettura di un libro-intervista, in cui Michael Ondaatje, l’autore del romanzo da cui è stato tratto Il paziente inglese, conversa con Walter Murch, montatore dei più importanti film di Coppola e autore anche di un sintetico saggio sull’arte del montaggio (Ondaatje 2003; Murch 2000); di grande interesse sono anche gli scritti di uno dei nostri maggiori mon-

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tatori, Roberto Perpignani (2006), del quale voglio ricordare il titolo che trovo suggestivo, Dare forma alle emozioni. Un percorso attraverso la storia del cinema vista secondo la prospettiva delle tecniche del montaggio è il libro che Karel Reisz, uno dei protagonisti del “Free Cinema” britannico, scritto in collaborazione con Gavin Millar (Millar-Reisz 2001). Ottimi manuali sul montaggio sono Dancyger 2007 e Cassani 2006; quest’ultimo corredato da un utile e essenziale dizionario dei principali montatori. Più sintetici, ma esaurienti e ben aggiornati, sono Vitella 2009 (molto attento anche alla prospettiva storica) e Grespi 2010 (che si concentra sugli aspetti teorici ed estetici). Al montaggio sono dedicati due volumi delle opere scelte di Ejzenštejn (1985 e 1986), anche se riflessioni su questo aspetto essenziale dell’arte cinematografica sono sparsi in tutta la sterminata produzione teorica del grande regista, nella quale il cinema è sempre visto nell’ambito di una riflessione estetica che comprende tutte le arti.

10.7 Non solo immagini Nel nostro percorso dalla sceneggiatura al montaggio abbiamo seguito prevalentemente l’elemento visivo, anche se non sono mancati riferimenti al suono (9.1 e 10.1), del quale abbiamo già parlato anche in 5.1 e 6.1. Selezione e combinazione, operazioni che stanno alla base della produzione di senso dal découpage fino al montaggio, riguardano i suoni non meno che le immagini. Dall’avvento del sonoro in poi, bisogna prendere in considerazione, accanto alla selezione e combinazione delle immagini, una contestuale operazione selettiva e combinatoria degli elementi sonori: parole, rumori, musica. E non si tratta solo di combinazione tra gli elementi sonori, ma ancor più tra suoni e immagini che si condizionano a vicenda. L’esperienza

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sonora condiziona la percezione visiva a tal punto che una nuova teoria della percezione filmica è stata costruita a partire dalla definizione del cinema come arte sonora (Chion 2007). I suoni possono determinare i significati di un’immagine, ma anche la percezione della loro durata e di conseguenza il ricordo che ne conserva lo spettatore (Chion 2009: 11-27). Inoltre, le innovazioni tecnologiche introdotte nei dispositivi sonori delle sale cinematografiche e nell’home video hanno fatto sì che l’ambiente sonoro sia diventato una componente sempre più importante della percezione cinematografica. 10.7.1 Découpage sonoro Abbiamo già illustrato, con l’esempio di Viale del tramonto (10.1), come una sceneggiatura si articoli sul duplice binario del découpage visivo e del découpage sonoro. Quando leggiamo una sceneggiatura, non importa se a priori o a posteriori, ci accorgiamo di quanta poca attenzione venga riservata all’universo sonoro: si riportano i dialoghi, d’accordo, ma nulla si dice sulle voci, i rumori, quasi nulla sulla musica. Le indicazioni sul sonoro sono quasi sempre molto generiche, approssimative o inesistenti. Basterà “ascoltare” attentamente un paio di volte una sequenza e poi provarsi a integrare la sceneggiatura, desunta secondo i criteri abituali, con tutte le informazioni analitiche relative all’universo sonoro: qualità e intensità dei rumori, timbri di voce, grado di fusione tra musica, rumori e parole o prevalenza di un elemento sugli altri, intensità e durata dei silenzi. Ci si accorgerà che una sceneggiatura di questo tipo sarebbe forse impossibile da scrivere e da leggere, ma si potrà anche individuare una quantità di effetti di senso prodotti dal suono, o meglio dall’integrazione tra immagine e suono.

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Esiste infatti una procedura molto complessa per la “ripresa sonora” del film e a volte importante almeno quanto quella visiva, con diverse modalità di “inquadratura del suono” (Villain 1984: 87-101). L’esempio più significativo lo troviamo probabilmente in un film di Bresson, L’argent (1983), in cui “il microfono attende invece di seguire” e “raccoglie la voce dei personaggi in relazione alla loro distanza”: ecco come può essere messa in discussione “l’uniformità del piano sonoro, che dà l’impressione di continuità”, non diversamente da quanto accade per l’immagine “in cui cambiamenti di inquadratura e rottura del punto di vista sono praticati a partire da Porter a Griffith” (Villain 1984: 95-96). Alla continuità del “piano sonoro” dobbiamo appunto attribuire un’importante funzione negli effetti di continuità e fluidità dei raccordi nel “découpage classico” (vedi 10.2), mentre il cinema moderno, grazie anche allo sviluppo delle tecniche di presa diretta, ha attribuito un’importanza nuova al suono, prima di tutto per quanto riguarda la parola, la voce. Già Bazin aveva elaborato l’idea di “messa in scena” come “scrittura filmica” che giunge a compimento solo con la conquista e la padronanza del suono, della parola: “al tempo del muto il montaggio evocava ciò che il realizzatore voleva dire”, il découpage classico descriveva, “oggi finalmente si può dire che il regista scrive direttamente in cinema” (Bazin 1999: 92; vedi anche AA.VV. 1981: 144). Un inedito accostamento tra la scrittura e la voce è stato proposto dal semiologo Roland Barthes che conclude il suo saggio Il piacere del testo con la suggestiva descrizione di un “primo piano” sonoro (e visivo) in cui mette in relazione testo letterario e testo filmico. Barthes parla dell’effetto di seduzione e di godimento che si realizza ogniqualvolta “il cinema prenda molto da vicino il suono della voce” e “faccia sentire nella loro materialità e nella loro sensualità il

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respiro, la rocaille, la polpa delle labbra, tutta una presenza del volto umano” (Barthes 1975: 76). 10.7.2 Effetti speciali sonori Esistono, accanto agli effetti speciali visivi, quelli sonori con una gamma di funzioni molto ampia: per esempio, la simulazione dell’aspetto sonoro di un evento, oppure l’integrazione sonora di un effetto speciale visivo per accentuarne il carattere di modalità di visione straordinaria (vedi 10.5). Gli effetti speciali sonori spesso si confondono e si integrano con quella che viene genericamente chiamata “musica elettronica”. Soffermiamoci a questo proposito su un’osservazione del musicista Vittorio Gelmetti, compositore di partiture sperimentali ed elettroniche, che ha collaborato tra l’altro alla colonna sonora di Deserto rosso (1964) di Antonioni: “L’operazione del cinema di utilizzare la qualità inaudita del suono elettronico imprime allo sviluppo di tali mezzi una svolta decisiva” (in Aristarco-Aristarco 1985: 184). La definizione di “qualità inaudita” introdotta da Gelmetti può integrare quella, di cui abbiamo discusso in 10.5, di “modalità di visione straordinaria” e, seguendo alcune osservazioni dello stesso Gelmetti, può farci comprendere in quale modo possa avvenire l’assimilazione di musica e rumore, anche se è ormai difficile mantenere la tradizionale distinzione tra musica e rumore (Calabretto 2010: 211-228). Gelmetti mostra con due esempi come l’integrazione della musica elettronica nel contesto cinematografico determini la codificazione, grazie a una sorta di interscambio tra i due linguaggi, di nuovi significati. Il primo esempio riguarda il cinema di fantascienza: in questo caso, “l’associazione del suono elettronico a una vicenda fantascientifica proietta tout court sulla musica elettronica un significato che di per

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sé essa non possedeva e che le resterà comunque in qualche modo legato”. Il secondo riguarda Deserto rosso: qui “le sonorità elettroniche”, tratte da composizioni dello stesso Gelmetti, o elaborate per l’occasione, “si qualificano, nel continuo ambiguo trapasso tra esse e altri rumori, come sonorità dell’inconscio e come tali vengono recepite dallo spettatore” (in Aristarco-Aristarco 1985: 184). È in questa fase di integrazione tra le nuove modalità di produzione dell’immagine e del suono, in cui l’elettronica gioca un ruolo determinante, che si stanno producendo nuove configurazioni del linguaggio cinematografico o meglio, ormai, audiovisivo. Nel campo del suono il livello di elaborazione della colonna sonora, corrispondente al montaggio delle immagini, è il missaggio, cioè la riunificazione in un’unica pista magnetica di tutti gli elementi sonori preregistrati separatamente (dialoghi, rumori, musica). L’operazione è completa solo quando la pista magnetica viene “riversata” in quella ottica, che è la forma propria di registrazione e lettura del suono in uso nel cinema. Di fatto, per quanto riguarda i meccanismi di produzione di senso del film, montaggio e missaggio vanno considerati due operazioni contestuali e interdipendenti, che portano a compimento il processo di produzione, anche se il ruolo assegnato alle varie componenti dell’opera è spesso predeterminato nella fase di ideazione, a seconda del genere o dell’autore. La possibilità di basare le relazioni tra colonna sonora e colonna visiva sull’asincronismo, teorizzato dai registi sovietici alla fine degli anni venti (vedi 6.1), è stata in realtà utilizzata ampiamente anche da chi non ha preteso di farne un criterio estetico generale. Anche nei film più esplicitamente narrativi, ci possono essere momenti “asincronici”: l’esempio più ovvio è quello della voce o della musica over (cioè sopra), espediente ampiamente usato nel “découpage

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classico”, da non confondere con la voce o la musica off (cioè fuori), quando le rispettive fonti non siano visibili sullo schermo, ma presenti nel fuori campo. Più importante è comprendere quale degli elementi sonori del film diventa l’elemento strutturante e il principio organizzatore del testo. Possiamo magari partire, per chiarire meglio, dai casi di una totale o parziale rinuncia agli elementi sonori che diventa appunto fattore costruttivo o principio dominante. Si pensi a Luci della città (1931) e a Tempi moderni (1936) in cui la rinuncia alla parola determina non solo la struttura narrativa, ma anche l’organizzazione dello spazio filmico. Detto in altri termini, Chaplin volle rimanere fedele al principio strutturale della gag muta, subordinando i soli elementi sonori da lui accettati (musica e rumori) a questa scelta. Altri comici seguirono vie diverse. Stan Laurel e Oliver Hardy inventarono una integrazione tra gag visiva e gag verbale; anzi, è proprio una sorta di continuo cortocircuito tra il piano visivo e verbale che produce il loro totale, assoluto ed esasperante spaesamento in ogni luogo e in ogni situazione. Il film I fanciulli del West (o Allegri vagabondi, 1937) è tutto costruito su un gioco di interferenze tra il piano metaforico (della parola) e quello letterale (dell’azione). Il gioco assume qui la forma della realizzazione (visiva) di una metafora (verbale). Esempi: Stan è costretto a fare ciò che aveva detto: “se non riesco a portar via il documento, ti mangio il cappello”; Stan, avendo sentore di un raggiro, dice: “sento odor di bruciato”, dopodiché scopriamo che ha messo il piede, lasciato nudo dalla suola consumata, su un mozzicone acceso di sigaretta. Al contrario, i fratelli Marx hanno privilegiato la gag verbale, come del resto farà più tardi Woody Allen, il che non significa che nei loro film non abbia importanza l’aspet-

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to visivo, significa che l’elemento strutturante è quello verbale; mentre è l’assenza di parola nel protagonista che costituisce il fattore costruttivo delle gag più tipiche dei film di Jacques Tati. Per chiarire meglio come la parola possa diventare elemento strutturante di procedimenti essenzialmente visivi come per esempio i movimenti di macchina, citerò un segmento dalla scena iniziale, che si svolge in un bar, di Detour (1945) di Edgar Ulmer. Una canzone proveniente da un jukebox fa ricordare al protagonista un suo passato amore; è la sua voce (monologo interiore; voice over) che per così dire “guida” un complesso movimento di macchina che dal primissimo piano del suo volto arretra fino a inquadrare l’astratta geometria del dettaglio di una tazza da caffè per raggiungere poi la forma geometrica del disco che suona, prima dello stacco sul quale prende avvio il flashback. In questo modo una complessa inquadratura contestualizzata visivamente come oggettiva (il protagonista non segue con lo sguardo il movimento di macchina) si carica di una valenza di soggettività grazie all’integrazione del parlato. Considerazioni analoghe si possono fare a proposito del musical, un genere dove la musica è, per così dire, obbligatoria, ma dove può svolgere funzioni diverse in relazione alla struttura del testo. Michael Wood, che abbiamo già avuto occasione di citare per la capacità di ancorare le sue acute osservazioni sociologiche a una rara attenzione agli elementi formali, definisce genericamente il musical “veicolo di una gioia per tutti gli usi, di qualunque gioia, di qualsiasi cosa che ti faccia venir voglia di cantare e ballare” (Wood 1979: 135). Tuttavia egli propone anche una distinzione tra quei musical in cui l’introduzione della musica costituisce un palese artificio, una sovrapposizione macchinosa basata

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su “grossolani pretesti” offerti dall’intreccio, e quelli invece basati su quasi inavvertibili passaggi o addirittura una “continuità autentica” tra vita quotidiana e musica: […] C’è un tipo di musical che immette sfacciatamente musica dove non c’è, compensandoci totalmente della squallida mancanza di musica nelle nostre attività quotidiane. L’altro tipo suggerisce che la musica è dappertutto, disseminata attorno a noi, se appena ci pigliamo la briga di guardare e ascoltare (Wood 1979: 136).

Assai diverso dal musical classico, di cui parla Wood, è quello di Bob Fosse, per esempio, da Sweet Charity (1969) a All that Jazz (1979): il raccordo molto più stretto e serrato tra gli elementi coreografico-musicali e gli interventi di regia filmica (scansione ritmica degli stacchi, delle angolature, dei movimenti di macchina) non qualifica la messa in scena come forma simbolica del desiderio realizzato ma, al contrario, di pura virtualità irrealizzata. Quanto più l’universo figurativo del musical si fa imprevisto e prezioso (arricchito di preziosità cromatiche, fotografiche, luministiche che conferiscono al tutto una iperrealistica evidenza), tanto più domina su di esso un senso di totale irrealtà, di allucinazione. 10.7.3 Sonorità postmoderne Attualmente le tecniche di registrazione dei suoni e della loro diffusione nella sala sono diventate molto più complesse: il flusso dei suoni che avvolge lo spettatore è andato acquistando un ruolo sempre più determinante, dal THX, ovvero il marchio di qualità oggetto di certificazione imposto dalla Lucasfilm a partire da Guerre stellari (1977), fino al DTS (Digital Sound System), introdotto a partire da Jurassic

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Park (1993) di Steven Spielberg che combina la lettura ottica del suono con una traccia esterna registrata su CD. Concentriamo la nostra attenzione sul rapporto tra immagini e musica. Le formule effetto videoclip e effetto circo servono a descrivere le principali modalità di impiego della musica nei film. Abbiamo l’effetto videoclip quando è il sonoro che condiziona l’organizzazione delle immagini, il loro montaggio, in altre parole quando le immagini sono assoggettate al sonoro, e più precisamente alla musica come accade nei videoclip. Abbiamo l’effetto circo quando è il sonoro, e in particolare la musica, che segue, accompagna le immagini, come fa l’orchestra al circo dove il direttore tiene d’occhio quello che accade sulla pista e si adegua a seconda delle evenienze (Jullier 2007: 59). Da ultimo, però, si va imponendo un nuovo modello per definire la situazione percettiva dello spettatore nello spazio delle sale dotate delle nuove tecnologie, che può essere di volta in volta sintetizzata con la formula film-luna park o filmconcerto (Jullier 2006: 36-64). Prendendo spunto da una dichiarazione fatta da George Lucas: “I miei film sono più vicini a un giro in giostra (amusement park ride) che a una pièce teatrale o a un romanzo”, Jullier si orienta verso una definizione un po’ meno generica del rapporto tra suono e immagine che caratterizza quello che egli chiama il cinema postmoderno, e all’espressione film-luna park preferisce film-concerto. Dopo aver precisato che non si deve pensare a film che riproducono eventi musicali, egli individua tre caratteristiche essenziali del film concerto: 1) il ricorso a un dispositivo tecnologico di diffusione del suono appositamente concepito per questo tipo di film (si pensi al già citato Jurassic Park); 2) “l’idea dello spettacolo come hic et nunc”: non c’è più alcun rinvio a una realtà passata di cui le immagini sareb-

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bero le tracce, le impronte, e la tecnologia non rinvia che a se stessa, alla sua capacità di rendere presente lo spettacolo; 3) il prevalere della dimensione sonora su quella visiva, con un apparato riproduttivo del suono che ha un effetto avvolgente, di immersione dello spettatore in un bagno sonoro (Jullier 2006: 37). Si tratta di una situazione di stimolazione sensoriale dello spettatore, del tutto simile a quella della cosiddetta realtà virtuale, nella quale sembrano essere fuori corso i principi del montaggio del cinema hollywoodiano classico basato sul “punto di vista” (Bolter-Grusin 2002: 191); punto di vista, possiamo aggiungere noi, basato su un’integrazione funzionale di visivo e sonoro. C’è stato un tempo in cui si poteva rimproverare al cinema di ridurre la funzione della musica alla pura e semplice funzione strumentale, pratica, ma pur sempre nell’ambito di un processo comunicativo. Un grande musicologo italiano, Massimo Mila, criticava le partiture nelle quali “la musica viene abitualmente impiegata non per il suo valore artistico, bensì per il suo valore semantico, per le sue possibilità di pratica comunicazione” (cit. in Calabretto 2010: 50). Oggi il problema va posto in termini completamente diversi, in quanto l’attuale assetto degli apparati sonori nelle sale a diffusione multicanale sembra aver abbandonato il modello comunicativo sostituendolo con quello immersivo. Jullier parla di “effetto bagno” procurato dal film-concerto, “che dà allo spettatore la sensazione di fluttuare al centro di un magma, i cui suoni, soprattutto quelli gravi a grande dinamica, toccano direttamente, come l’acqua del bagno – e persino in modo più intrusivo – tutto il suo corpo” (Jullier 2007: 56). Le nuove tecnologie adottate dalle sale e imposte dai nuovi prodotti cinematografici hanno radicalmente muta-

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to l’ambiente sonoro della fruizione filmica. Avviene nel campo del suono qualcosa di parallelo e complementare a quanto è avvenuto nel campo dell’immagine. Abbiamo visto (10.3) come tramite la tecnica del flow motion vengano condensati in un’unica inquadratura il movimento del personaggio e il movimento della virtuale cinepresa, con un effetto che ha del sensazionale, ma che è reso possibile dal fatto che i due differenti movimenti sono diventati variabili indipendenti che esistono solo grazie ai dispositivi ottici che li generano (modi di rappresentazione) e li rendono riproducibili (modi di fruizione). Quanto abbiamo osservato per i dispositivi ottici vale anche per quelli sonori, con questa precisazione: i dispositivi sonori sono essi stessi diventati variabili indipendenti e svolgono ormai un ruolo assolutamente predominante; di qui la definizione di filmconcerto di Jullier. PER SAPERNE DI PIÙ Sintetiche introduzioni alla storia, tecniche e teorie del sonoro in Valentini 2006 e Jullier 2007 e, per la musica, Rondolino 1991. L’autore di riferimento fondamentale per lo studio di tutti gli aspetti della colonna sonora è Chion 1991, 2007, 2009 (Michel Chion, oltre che critico cinematografico, è musicologo e musicista e la musica resta il suo interesse preminente: vedi Chion 1996 e 2004). Per percorsi più approfonditi si consigliano Simeon 1995 e Calabretto 2010; da ricordare inoltre Miceli 2000; Miceli e Morricone 2001. Per un approfondimento dell’uso del suono (e del silenzio) nel cinema di Bresson vedi Piva 2004. Utilissimo per la ricchezza delle informazioni è Comuzio 2004, dizionario ragionato degli autori di musica per film.

11. La scena e l’attore

11.1 Scenografia, architettura, paesaggio Scenografia, architettura e paesaggio sono elementi profilmici, vale a dire dotati di esistenza e significati preesistenti alla ripresa cinematografica. Inoltre, sono termini che, nella nostra cultura, si riferiscono ad arti della rappresentazione anteriori al cinema. La scenografia rinvia al teatro ed è strutturalmente legata alla pittura. L’architettura, oltre a produrre spazi funzionali e “abitabili”, è anche rappresentazione. Il paesaggio non è soltanto un genere pittorico, né solo il modo in cui una cultura vede la natura: esso è propriamente la forma in cui una società organizza il rapporto tra natura e cultura. Un insediamento umano, sia esso un villaggio di capanne o una metropoli industriale, modifica il paesaggio: per estensione, chiamiamo paesaggio l’insieme di queste modificazioni. Ci sono generi come il western in cui il paesaggio in tutte le accezioni appena richiamate costituisce l’elemento essenziale e per così dire qualificante. Secondo Philip French (2005), critico di The Observer e studioso del western, “stupore, abbondanza, incongruità, vastità e malinconia” possono essere indicati come i caratteri dominanti del paesaggio western, ma si trovano tutti,

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in varie proporzioni, ogni volta che la cinepresa posa il suo sguardo sul paesaggio americano. Al pari di quella teatrale, esiste una scenotecnica cinematografica, con le sue competenze regolarmente accreditate nei titoli di testa (vedi 9.1): a essa è demandato il compito di allestire interni ed esterni, ambienti arredati e sfondi spettacolari. Elementi scenografici hanno la funzione di simulare spazi reali, sia in film di ambientazione realistica (si vedano a questo proposito i riferimenti alla scenografia di La finestra sul cortile di Hitchcock in 9.2), sia in film di genere fantastico, in cui essi diventano tutt’uno con gli effetti speciali (del resto ci sono manuali tecnici che trattano, senza distinzioni precise, effetti speciali e apparati di scena; vedi anche 10.5). Dall’avvento delle tecnologie digitali in poi, lo spazio dell’azione filmica è sempre più spesso frutto della simulazione digitale, tanto è vero che la distinzione della filmologia (ripresa poi dalla semiotica di Metz) tra profilmico e filmico tende a diventare di difficile applicazione, e forse anche di scarsa utilità. Oggi si parla abitualmente di set virtuale, e ormai non c’è aspetto scenografico del film che non possa essere ottenuto attraverso elaborazioni digitali (Terzo 2010). Non bisogna dimenticare però che anche nel cinema analogico lo spazio dell’azione era il risultato di manipolazioni e assemblaggi di vario tipo. Pensiamo a L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais. Il castello, il giardino, gli interni sovraccarichi di stucchi e specchi, che appaiono ai nostri occhi come un tutt’uno stilisticamente omogeneo e coerente, sono il risultato di riprese effettuate in luoghi diversi (per l’esattezza, Schloss Nymphenburg, Amalienburg e Schloss Schleissheim, nei dintorni di Monaco di Baviera). D’altra parte il rapporto che questo film stabilisce con lo spazio profilmico è completamente diverso da quello che

11. LA SCENA E L’ATTORE

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esiste, per esempio, in un documentario sui castelli della Baviera: la cinepresa di Resnais non si prefigge di documentare e illustrare un determinato spazio architettonico, semmai si propone di utilizzarlo per produrre degli effetti funzionali al tema e allo stile della storia che racconta. Il compito dello scenografo spesso è di riprodurre elementi architettonici preesistenti e di inglobarli nell’universo immaginario messo in scena dal film. Un caso esemplare e che ha fatto scuola è quello di Blade Runner di Ridley Scott: il Bradbury Building, edificio che appartiene all’archeologia industriale di Los Angeles, è l’immobile che ospita il laboratorio del progettista genetico J.F. Sebastian, mentre gli elementi compositivi di un edificio realizzato da Frank Lloyd Wright (Ennis-Brown House, 1924) hanno ispirato le superfici della piramide della Tyrell Corporation. È questo eclettismo il tratto che caratterizza molti degli scenari urbani del cinema fantastico e fantascientifico. A proposito della Gotham City messa in scena da Tim Burton in Batman (1989), lo scenografo Anton Furst ha dichiarato: Ho fatto un mélange di vari stili, c’è un pizzico di architettura carceraria, ci sono i grattacieli di Chicago, l’art nouveau spagnola, il costruttivismo russo, il nazismo del Terzo Reich, insomma un pot-pourri, un miscuglio di stili quasi dadaista […]. È una fantasia verosimile. Gli scenari di Gotham City sono stati costruiti pensando ai peggiori aspetti di New York. (cit. in Monteleone 1996: 81)

Scenografia, architettura e paesaggio in quanto elementi profilmici ripresi (dal vero) o ricostruiti in studio, simulati mediante modelli o generati al computer, diventano elementi costitutivi dello spazio filmico, ma non sono lo spazio filmico. La differenza è chiarita in modo esemplare da

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Eric Rohmer, che ha dedicato uno studio al tema della organizzazione dello spazio in Faust (1926) di Murnau. Nella sua analisi Rohmer individua tre spazi: 1) Lo spazio pittorico. L’immagine cinematografica, proiettata sul rettangolo dello schermo – per quanto sfuggente o mobile sia –, viene percepita e considerata come la rappresentazione più o meno fedele, più o meno bella di questa o quella parte del mondo esterno. 2) Lo spazio architettonico. Queste stesse parti del mondo, naturali o ricostruite, così come la proiezione sullo schermo ce le presenta, più o meno fedelmente, sono dotate di una esistenza obiettiva che, a sua volta, può essere oggetto di un giudizio estetico, in quanto tale. È con questa realtà che il cineasta si misura al momento delle riprese, sia che la restituisca, sia che la tradisca. 3) Lo spazio filmico. In verità, lo spettatore non ha l’illusione dello spazio filmato, ma di uno spazio virtuale ricostruito nella sua mente, sulla base degli elementi frammentari che il film gli fornisce (Rohmer 2005: 19). A ognuno di questi tre spazi corrispondono fasi e competenze diverse del processo di produzione (rispettivamente, la fotografia per lo spazio pittorico, la scenografia per quello architettonico, la messa in scena e il montaggio per quello filmico), anche se devono ovviamente costituirsi in unità, tanto più coerente quanto più il regista tenderà a mantenere un equilibrio. Un perfetto equilibrio tra queste componenti, che poi coincide con il rapporto tra astrazione e realismo è, secondo Rohmer, il contrassegno di ogni grande opera cinematografica, in cui il rigore geometrico-compositivo risulta non sovrapposto “come un vano ornamento”, ma “consustanziale” (in Grignaffini 1984: 21). Tale è, per Rohmer, il caso del cinema di Murnau in cui scorrono paralleli due sogget-

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ti: una drammaturgia delle forme e un dramma nel senso corrente del termine, che risultano però intimamente fusi. Rohmer ci indica nel suo aureo volumetto che lo spazio nel film è sempre un prodotto (prodotto di una tecnica, ma anche della mente dello spettatore): esso si basa su una serie di significati codificati nella cultura di un’epoca, di una società, ma anche sulle relazioni tra tali significati definite dalla struttura del testo filmico. La prevalenza di una delle tre componenti spaziali può caratterizzare una particolare tendenza o il tratto distintivo di un genere o lo stile di un autore; e definire le relazioni tra l’organizzazione dello spazio filmico e altre forme di rappresentazione e di interpretazione della società e della natura. Una dominante dello spazio pittorico, nell’accezione di Rohmer, si ha quando prevalgono i valori compositivi dell’inquadratura oppure un’attenzione ai valori luministici tale da subordinare tutti gli altri. È quanto accade nei film che ricercano l’effetto pittorico nelle inquadrature, nei colori, nel taglio della luce: un esempio per tutti, Barry Lyndon di Kubrick. Il primato della componente scenografica (in senso teatrale più che architettonico) prevale nel cinema primitivo di Méliès, dominato dalla ricerca del pittoresco, dello strano. Nelle sue vedute, un decorativismo visionario subordina tutti gli altri elementi, compreso il movimento e la gestualità degli attori. Procedimenti analoghi, anche se con ben diversa caratterizzazione estetica e ideologica, si ritrovano nel cinema espressionista tedesco e, in particolare, nel suo capostipite, Il gabinetto del dottor Caligari (1920). Qui la deformazione scenografica dello spazio acquista valenze metaforiche al pari della stilizzazione di tutte le altre componenti della messa in scena: gestualità e trucco degli attori, illuminazione. Naturalmente gli stessi elementi stilizzati possono essere impiegati con funzioni opposte, come accade, per

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esempio, in La bambola di carne (1919) di Ernst Lubitsch che costituisce una sorta di rovesciamento ironico dello stile espressionista (Fink 1977: 32). Spesso la teatralità e l’esibizione del carattere scenografico dello spazio sono una scelta controllata e significativa. Max Ophüls ci offre alcuni eccellenti esempi in Amanti folli (1932), Lettera da una sconosciuta (1949) e Il piacere e l’amore (1950): in questi film, la ricostruzione vistosamente scenografica di Vienna è una scelta stilistica oltre che una necessità pratica essendo stati tutti girati altrove (vedi 6.3.2). Ancor più vistoso è l’esempio che ci è offerto dall’irrealismo scenografico di Fellini. In Amarcord (1973) o in Casanova (1976), gli artifici della ricostruzione in studio risultano più esibiti che occultati. E, ancora, si potrà ricordare il cinema di Minnelli che ha fatto dell’artificiosità della scenografia del musical e dei suoi eccessi pittorici un elemento di contrapposizione tra le ragioni del sogno e del desiderio e il principio di realtà : è questo il senso di Brigadoon (1954), in cui lo spazio della favola e del sogno, reso con un eccesso di ricchezza e artificiosità pittorica e scenografica, diventa una scelta contro la piatta banalità della vita quotidiana, rappresentata secondo i canoni del cinema realista. Le relazioni tra le componenti del testo filmico determinano anche diverse interpretazioni dello spazio rappresentato. Prendiamo in esame lo spazio urbano; spazio nel quale si stratificano significati simbolici preesistenti al cinema, ma dei quali il cinema è stato, fin dalle sue origini, un veicolo di dilatazione (vedi il capitolo 4). Sicuramente esiste un rapporto tra generi e rappresentazione dello spazio urbano. Se pensiamo ai generi del cinema americano, potremo individuare una “messa in forma” lirico-elegiaca nella commedia sentimentale, scenografico-spettacolare nel mu-

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sical, labirintica e iperbolica nel burlesque, allegorica nel fantastico e nell’horror, apocalittica nel cinema fantascientifico e catastrofico, espressionista nel film noir del periodo classico e iperrealista nel noir contemporaneo. Inoltre, si può osservare che determinati generi si affermano anche in relazione alle fasi di sviluppo delle metropoli industrializzate e ai diversi valori che lo spazio urbano acquista nell’immaginario collettivo. La fortuna del gangster movie è strettamente legata all’espansione della criminalità organizzata nell’epoca del proibizionismo e della grande depressione: basti ricordare i classici Piccolo Cesare (1930) di Mervyn LeRoy, Nemico pubblico (1932) di William A. Wellman e Scarface (1932) di Howard Hawks. Un genere, difficilmente definibile secondo i parametri abituali e nel quale confluiscono vari generi tradizionali, è quello che potremmo chiamare “metropolitano” in quanto l’elemento caratterizzante è lo scenario degradato della metropoli “postindustriale” con le sue aree di emarginazione e di violenza: ricordiamo I guerrieri della notte (1979) di Walter Hill, film che rappresenta un punto di dissoluzione di vari generi classici (dal musical all’horror); oppure Distretto 13, le brigate della morte (1976) e 1997: fuga da New York (1981), ambedue di John Carpenter, in cui la rispettiva appartenenza al noir e alla fantascienza diventa in un certo senso secondaria rispetto alla pregnanza che in ambedue acquista la rappresentazione del degrado dello spazio metropolitano. Il cinema offre sicuramente il più vasto repertorio non solo di documentazione dell’evoluzione dello spazio urbano, ma soprattutto dell’idea di città quale è andata modificandosi dalla fine dell’Ottocento a oggi. C’è la rappresentazione lirico-sinfonica in certa avanguardia degli anni venti e trenta, permeata di spirito “futurista” e “costruttivista” come in Berlino, sinfonia di una grande città (1927) di W.

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Ruttmann o in L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov. Al lato opposto, si colloca l’esperienza del cinema espressionista che spesso individua nelle più tipiche ed emblematiche configurazioni dello spazio urbano (strade notturne, facciate, insegne, alberghi, luna park) non solo gli elementi costitutivi di una grammatica spaziale, ma anche le “forme simboliche” in cui si cristallizza “l’urlo primitivo” (Urschrei) della rivolta espressionista. Parodistica e derisoria è la “lettura” della città nel film Entr’acte (1924) di Clair, una delle espressioni più rigorose dello spirito dadaista (vedi 5.5.1), mentre in L’âge d’or (1930) di Luis Buñuel lo spazio urbano diventa una sorta di topografia dell’inconscio dove ogni incontro è possibile: con i fantasmi del desiderio amoroso come con le configurazioni più stranianti della violenza e dell’assurdo. L’esemplificazione potrebbe continuare, ma rischia di farci perdere di vista il rapporto tra tecnica e linguaggio che deve fare da sfondo a questa trattazione della scenografia cinematografica. Quindi tralasciamo l’esemplificazione molto ricca che potrebbe esserci fornita dal cinema americano classico (ma alcuni cenni si trovano in 5.4 e 6.3.2) e arriviamo direttamente a esaminare le modificazioni che il cinema contemporaneo basato sugli effetti speciali e sull’integrazione con le tecniche digitali ha introdotto nella rappresentazione dello spazio urbano. Da un punto di vista iconografico, notiamo una presenza ossessiva delle luminescenze, delle intermittenze e delle discontinuità degli schermi elettronici (televisori, monitor ecc.) nelle scenografie del cinema della New Hollywood (vedi 8.1.1). In Blade Runner (1982) di Ridley Scott una Los Angeles degradata e flagellata da una pioggia continua ospita un’umanità larvale e brulicante. Su questo scenario da

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“medioevo prossimo venturo” campeggiano enormi schermi televisivi con i mosaici mobili e intermittenti dell’iconografia elettronica, mentre la classe dei tecnocrati esercita il suo dominio assoluto da spazi sopraelevati e con tutti gli strumenti più sofisticati dell’elettronica e della robotica. In 1997: fuga da New York (1981) di Carpenter i luoghi del dominio sono definiti da una scenografia “elettronica”, dalla linearità immateriale della scrittura computerizzata e dalle luminescenze dei monitor. Mentre la città – una Manhattan trasformata in un immenso carcere speciale – diventa uno spazio insieme “archeologico” e “d’oltretomba”, in cui il protagonista compie il suo “viaggio all’inferno”. Un film che imposta in modo esemplare il rapporto tra la rappresentazione dello spazio urbano e l’uso degli effetti speciali resi possibili dall’adozione di tecnologie elettroniche è Un sogno lungo un giorno (vedi 8.2.2.). In questo caso, l’iconografia di una Las Vegas tutta ricostruita in studio, ridisegnata e riprodotta a partire dalla materia stessa di cui sono fatti il cinema e la città (o almeno quella città) – la luce, il colore, la scenografia, le “apparenze” – ridefinisce lo spazio urbano come mappa del sogno e del desiderio (ricollegandosi in questo al musical classico): nella sequenza d’apertura la protagonista dà gli ultimi ritocchi alla vetrina di un’agenzia di viaggi in cui lavora e sposta la silhouette di un grattacielo in una scenografica rappresentazione dello skyline di New York ispirata a un celebre balletto di Quarantaduesima strada (1933) di Lloyd Bacon. L’impiego frequente di una particolare forma di sovrimpressione (un’immagine che si accende su uno specchio, una parete ecc.) costituisce il modo abituale di introdurre quelli che Metz chiamerebbe “sintagmi alternati” (vedi 10.6) e che mettono in relazione le diverse situazioni in cui si trovano i due protagonisti.

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Ciò produce un effetto che ricorda molto da vicino i raccordi televisivi tra i personaggi in studio e le immagini del Chroma-Key (cioè lo sfondo prodotto elettronicamente con immagini che provengono da una fonte diversa dalla scena ripresa). Sono effetti che oggi ci sembrano pateticamente artigianali rispetto alle più recenti e sofisticate tecnologie, ma continuano a mantenere una loro poetica efficacia, grazie anche alle canzoni di Tom Waits e Crystal Gayle che compongono la colonna sonora. I personaggi sembrano vivere e muoversi nello scenario irreale di un set virtuale, con un gioco continuo di scambi tra immagini reali e immagini virtuali (perché solo sognate o perché prodotte come trompe-l’oeil dai dispositivi illusionistici dello spazio urbano). Il risultato è un clima figurativo di intercambiabilità, indecidibilità tra il piano del reale e quello dell’immaginario, in cui le continue variazioni delle tonalità dominanti producono l’impressione di uno spazio pulsante, senza dimensioni. Non ci sono più superfici e volumi che definiscono la profondità, ma solo luminescenze intermittenti che simulano superfici, volumi: forme puramente illusorie e sempre mutanti. Le nuove tecnologie digitali hanno consentito di dare un’accentuazione sempre più spettacolare all’ambientazione metropolitana di molto cinema contemporaneo, la quale diventa sempre più un elemento autonomo di attrazione che accomuna film di generi anche diversi. Pensiamo al ruolo che ha il dispositivo scenografico, ottenuto integralmente o meno con i procedimenti dell’immagine digitale in film di generi differenti: pensiamo alla Gotham City di Batman (1989) e Batman il ritorno (1992) di Tim Burton o alla Hong Kong di 2046 (2004) di Wong Kar-wai, proiezione di ossessioni personali e rielaborazione di ricordi cinematografici; oppure agli spazi urbani misteriosi e vi-

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sionari di La città perduta (1995) di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, e alla New York sommersa dalle acque di A.I. Intelligenza artificiale (2001) di Steven Spielberg; e, ancora, alle visioni metropolitane di Il corvo (1994) e Dark City (1997) di Alex Proyas, ampiamente debitrici della grafica dei fumetti, come del resto Sin City (2005) di Frank Miller, Robert Rodriguez (e, non accreditato, Quentin Tarantino). In quest’ultimo, come del resto anche in Dark City, si ha l’impressione che il dispositivo scenografico abbia la meglio sull’intreccio e sulla caratterizzazione dei personaggi e rischi di diventare il principale, se non il solo, motivo d’interesse del film. Per quanto riguarda la rappresentazione di spazi virtuali, l’evoluzione delle tecnologie è stata così rapida da rendere oggi vagamente archeologici i primi tentativi realizzati in questo campo. Basta confrontare Tron (1982) di Steven Lisberger con Tron Legacy (2010) di Joseph Kosinski. Nel primo Tron, le CGI (Computer Generated Images), della durata di poco più di un quarto d’ora (in un film di 68 minuti), riguardano la sequenza dell’inseguimento tra motociclette: esse convivono e si integrano con immagini riprese normalmente e altre manipolate con tecniche tradizionali (il cosiddetto backlighting che produce avveniristiche profilature luminiscenti sui corpi dei personaggi e negli sfondi, ma è realizzato con una tecnica più vicina alla colorazione a mano che alla grafica computerizzata). Il nuovo Tron Legacy è interamente realizzato in digitale 3D. Vediamo il giovane protagonista Sam Flynn (Garrett Hedlund) ripercorrere i labirinti del videogioco alla ricerca del padre Kevin (Jeff Bridges): si tratta di una sorta di discesa agli inferi, in un “paesaggio” che ci fa scoprire il lato oscuro dello spazio virtuale.

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PER SAPERNE DI PIÙ Sono per lo più raccolte di saggi in cataloghi di mostre gli strumenti più utili per approfondire i temi iconografici relativi ad architettura, urbanistica e paesaggio. Consiglio di partire da alcune mostre interdisciplinari allestite al Centre Pompidou di Parigi: da AA.VV. 1987, che ha inaugurato un lavoro di approfondimento sul tema del rapporto città-cinema, a Bajac-Ottinger 2010 che, pur riguardando una mostra sull’architettura e l’urbanistica, riserva ampio spazio al cinema. Si possono utilizzare inoltre Puaux 1995, Costa 2001 e Bernardi 2002. Edito dai Cahiers du Cinéma e redatto da un’équipe internazionale di autori è il volume enciclopedico sulla città al cinema curato da Jousse e Paquot (2005). Un’accurata documentazione sugli stili delle scenografie cinematografiche si trova in Albrecht 1986 e in Neuman 1996. Per quanto riguarda i contributi italiani, suggerisco i saggi raccolti in Bertozzi 2001b.

11.2 Attori e divi Tra gli aspetti meno conosciuti e analizzati del cinema vanno paradossalmente ricordati il fenomeno dell’attore cinematografico, il ruolo della recitazione nel processo di produzione di un film, il problema dei rapporti tra la tecnica dell’attore e tutte le altre tecniche che fanno da supporto al linguaggio cinematografico. Diciamo paradossalmente perché l’attore cinematografico è stato, fin dagli anni dieci del secolo scorso, l’elemento con cui più facilmente e direttamente si è identificato il cinema. Sono passati molti decenni dalla fine dell’età d’oro di Hollywood, si sono imposti nuovi divismi (degli autori, dei direttori di fotografia o, come sostengono alcuni, degli stessi effetti speciali), ma l’attore-divo resta ancor oggi un elemento fondamentale.

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In realtà il divo e l’attore non sono la stessa cosa, e non solo per l’ovvia considerazione che non tutti gli attori sono divi, né tutti i divi celebri sono stati grandi attori. D’altra parte è indubbio che tra divo e attore, proprio in quanto realtà diverse, esiste un’interdipendenza. Scrive David Kehr: “La critica cinematografica, per non parlare della sociologia e della psicologia, è ancora lontana dal capire i processi con cui l’attore diventa un divo e un divo diventa un attore” (in AA.VV. 1979a: 186). Non si tratta certo di arrendersi di fronte all’ineffabilità del fenomeno. L’attore partecipa in forma diretta alla produzione del testo filmico, ma la sua qualità di divo sembra appartenere più all’istituzione cinematografica che al singolo film. In realtà tra il divo e il testo filmico esiste un rapporto complesso, anche perché il fenomeno divistico è disseminato e prodotto in molti altri testi che non sono i film. Citiamo ancora da Kehr: Una persona autentica di divo è un’opera d’arte senza autore, opera che non appartiene né all’attore, né al pubblicitario, né ai registi dei film dove quella persona viene utilizzata. Esiste da qualche altra parte, in qualche posto nello spazio tra un film e il suo pubblico. (AA.VV. 1979a: 186)

Schematizzando diremo che il fenomeno divistico: a) eccede il testo filmico, anche se può essere uno dei fattori della sua riuscita; b) interferisce con il testo filmico (si pensi ai film costruiti “su misura” per un divo); c) si sviluppa in uno spazio intertestuale e intermediale; è cioè il risultato delle relazioni tra vari testi di diversa natura (stampa, radio, televisione). Non ci occuperemo qui del fenomeno divistico se non come di una delle componenti del fenomeno dell’attore ci-

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nematografico e quindi come uno degli aspetti che possono condizionare il processo di produzione e, quindi, l’organizzazione del testo filmico. Per affrontare questa complessa problematica della recitazione che, per un paradosso che abbiamo già ricordato, riguarda l’aspetto più popolare del cinema (in tutte le sue età) e il meno conosciuto nelle sue implicazioni nel processo di produzione del film, seguiremo la traccia di un saggio di Jan MukaĜovský che, pur risalendo al 1931, rimane ancora oggi uno strumento efficace per affrontare in modo rigoroso il problema dell’attore in relazione alle altre componenti dell’opera. In Tentativo di analisi strutturale del fenomeno dell’attore, MukaĜovský studia il problema dei rapporti tra le componenti strutturali dell’attore (cioè i vari piani in cui si articola la sua prestazione) e il metodo di composizione del racconto cinematografico. Il film assunto come campione per l’analisi è Luci della città (1931) di Chaplin. Essendo l’attore una struttura parziale del testo, bisognerà prima di tutto individuare le principali relazioni tra l’attore e altre componenti parziali. MukaĜovský ne individua tre: l’attore e lo spazio scenico, l’attore e il testo drammatico, l’attore e i suoi colleghi (MukaĜovský 1973: 342-349). Utilizzando queste indicazioni, potremo già osservare diverse relazioni tra l’attore e queste componenti in vari momenti della storia del cinema o in diversi generi. Per esempio, l’interpretazione di Renée Jeanne Falconetti in La passione di Giovanna d’Arco (1928) e lo stile registico di Dreyer, basato essenzialmente sul primo e primissimo piano, sono finalizzati a isolare l’attore dallo spazio e assolutizzare l’espressione della sua interiorità. Nel cinema di John Ford, al contrario, attore e spazio scenico sono mantenuti in un rapporto di equilibrio: nonostante la vastità degli scenari naturali del West e la forte caratterizzazione del suo

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interprete più tipico, John Wayne (si pensi a Ombre rosse), nessuna delle due componenti sovrasta l’altra, ma vivono in equilibrio. Quanto al rapporto con il testo drammatico, potremo notare che ci sono film che richiedono una totale subordinazione dell’attore al testo (con problemi di immedesimazione, di resa della psicologia del personaggio e, soprattutto, di dialoghi). È quanto avviene in quei film che hanno un’impostazione di tipo teatrale o, comunque, sono pensati in funzione soprattutto del testo drammatico: due esempi, pur diversi tra loro per molti motivi, possono essere i film di Bergman, da una parte, e i numerosi film hollywoodiani ricavati da pièces di Tennessee Williams dall’altra (drammaturgo più volte messo in scena a teatro dallo stesso Bergman). È lo stesso film di Chaplin analizzato da MukaĜovský che ci offre l’esempio della subordinazione della recitazione di tutti gli altri attori a quella del protagonista: in questo caso infatti Chaplin è “l’asse attorno al quale si accentrano tutti personaggi, per il quale esistono” (MukaĜovský 1973: 343). Quello di Chaplin (e del genere burlesque) è un caso limite in quanto è assai più comune che i rapporti tra le varie componenti recitative siano più dialettici. Tuttavia va notato che un rapporto di questo tipo si realizza nei film costruiti in funzione della diva nell’età più fiammeggiante dello star system: il corpo degradato (meccanizzato e risibile) del burlesque e quello idealizzato della star assolvono due funzioni opposte ma complementari nell’organizzazione delle varie tecniche recitative. MukaĜovský divide le componenti strutturali della recitazione in tre gruppi: 1) l’insieme delle componenti vocali; 2) l’insieme di mimica, gesti e atteggiamenti; 3) l’insieme dei movimenti del corpo che esprimono il rapporto dell’attore con lo spazio scenico. In Luci della città man-

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cano le componenti del primo gruppo: è un film sonoro ma non parlato. Quanto a quelli del terzo gruppo, pur essendo importantissimi in tutto il cinema burlesque, vengono nell’analisi di questo film lasciati in ombra perché, secondo MukaĜovský, risultano subordinati alla funzione gestualeespressiva: “l’andatura di Chaplin riflette sensibilmente ogni mutamento del suo stato d’animo” (MukaĜovský 1973: 343-344). Dopo aver individuato nella gestualità (termine che sinteticamente comprende la mimica, i gesti veri e propri, gli atteggiamenti) la componente dominante della recitazione chapliniana, MukaĜovský distingue due differenti tipi di gestualità. La prima è una gestualità con funzioni sociali e comunicative: sono i “gesti-segno” convenzionali che, come le parole, designano determinati stati d’animo più o meno obbligatori a seconda delle circostanze e che, pertanto, non danno alcuna garanzia di sincerità. La seconda è una gestualità di tipo individuale-espressivo: sono i “gestiespressione” che denotano l’effettivo stato d’animo di chi li adopera (MukaĜovský 1973: 346-347). Tutta la performance chapliniana si regge sull’interferenza della gestualità-segno sociale con i gesti individualmente espressivi. È questo gioco di interferenze che definisce la dissociazione psicologica e sociale del personaggio. Egli è costretto a mascherare, attraverso una serie di gesti sociali idonei a esprimere un inesistente senso di sicurezza, un suo intimo e profondo complesso di inferiorità che si rivela invece nei gesti individualmente espressivi. L’interferenza dei due piani gestuali costituisce dunque la dominante alla quale Chaplin subordina tutta la struttura del dramma. I due personaggi laterali sono costruiti in modo tale da percepire solo uno dei due piani: la fioraia cieca coglie solo – a causa della sua infermità – gli atteg-

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giamenti di sicurezza sociale; il miliardario – quando è sotto l’effetto dell’alcol – coglie solo i gesti individualmente espressivi. In questo senso, la funzione di tutto il racconto è quella di evidenziare nei suoi aspetti tragicomici, e non già comporre, la dissociazione del personaggio, punto di partenza e d’arrivo della narrazione. Il film di Chaplin non può avere il solito “lieto fine”. Un “lieto fine” segnerebbe la negazione completa del contrasto drammatico tra i due piani gestuali sul quale è basato il film e non già il suo esito coerente (MukaĜovský 1973: 348). L’importanza di questa analisi, che abbiamo riferito per sommi capi, non sta solo nella chiarezza per così dire didattica dell’esemplificazione dei rapporti tra tecnica di recitazione e struttura drammatico-narrativa del film. Questa analisi ci mostra anche come il personaggio-Chaplin, con le sue componenti che sono definite dall’insieme dei suoi film precedenti, non si risolva nell’intreccio qui messo in scena, ma in qualche modo lo trascenda, trascenda cioè quella che è la dimensione della storia narrata, per collocarsi in una dimensione diversa. Anche in questo caso troviamo una relazione tra il cinema burlesque e il divismo, che del resto non ha nulla di strano essendo stati i comici del muto tra i primi divi, anzi strutture portanti del nascente star system. La dimensione divistica di un attore si esprime nella possibilità di trascendere la storia che interpreta e di raggiungere una dimensione che non è più quella dell’economia linguistico-narrativa del film, ma quella “eccessiva” dell’esibizione di sé (è per questo che più sopra abbiamo detto che il fenomeno divistico “eccede” il testo filmico). Per chiarire meglio, osserviamo che il paradosso dell’attore cinematografico consiste nel fatto che nel momento stesso in cui si esibisce deve fingere di non essere visto: di

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qui l’interdizione, come si dice in gergo, tipica del cinema classico, di “guardare in macchina”, di far ricorso cioè alla complicità del gioco degli sguardi che, se reciproco, interromperebbe la finzione instaurata dalla storia e rivelerebbe allo spettatore il suo ruolo di “voyeur” (vedi Metz 1980). Tuttavia il cinema classico trasgrediva costantemente questa regola introducendo quei momenti, frequentissimi in un certo assetto dello star system imperniato sui sex symbols, in cui il corpo della star si esibisce, si dà allo sguardo del pubblico senza infingimenti. Per esempio, nei film con Rita Hayworth, da Gilda (1946) a Trinidad (1952), i frequenti numeri di danza costituiscono altrettanti momenti di sospensione dell’ordine della storia, del racconto (che impone alla diva la regola dell’ignoranza di essere guardata) e di trionfo dell’ordine dell’esibizione, in un gioco di “scambio” e “identificazione” tra gli spettatori del film e gli spettatori nel film. Un analogo meccanismo scatta in film anche di tipo diverso e sta alla base, per esempio, della già citata sequenza di Gli ultimi fuochi (1976) di Kazan, che appartiene a un’epoca di tramonto dello star system solo se con questo termine intendiamo un determinato metodo di produzione. Anche in questo caso Robert De Niro si esibisce in un pezzo di grandissima bravura, che oltretutto ha per tema il “fare del cinema”, interrompendo l’infingimento dell’ignoranza di essere guardato in un gioco di identificazione (al quale noi ci prestiamo in quanto è questo il ruolo che il testo ci affida) tra il personaggio del film che lo sta guardando (Boxley) e gli spettatori in sala (vedi capitolo 1). Per tornare però al cinema hollywoodiano classico, con più sottile ambiguità passaggi dall’uno all’altro piano si trovano nella recitazione di Humphrey Bogart. In Casablanca (1942) di Michael Curtiz, per esempio, è il personaggio

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Bogart che dà spessore e ambiguità al personaggio di Rick che, analizzato secondo criteri narrativi e drammaturgici, risulterebbe di una piattezza e di uno schematismo sconcertanti (sul gioco in chiave spettacolare della “risonanza dell’intertestualità” in questo film vedi Eco 1975). Sono questi motivi che impediscono non solo di trattare il problema dell’attore cinematografico secondo i criteri usati per il teatro, ma anche di analizzare il film secondo criteri puramente narrativi. E anche il fenomeno dell’attore è una delle tante componenti del film che dimostrano, secondo modalità complesse di cui abbiamo esaminato solo qualche aspetto, che la dimensione narrativa non è l’unica, anche se è quasi sempre presente. Il cinema classico hollywoodiano lo sapeva benissimo, collocando l’attore-divo in equilibrio tra il racconto filmico e il mito cinematografico. Per questo è così frequente che il personaggio-divo assuma una traiettoria centrifuga rispetto alla “chiusura” del racconto: l’eroe-divo si colloca in uno spazio più o meno decentrato rispetto a quello degli altri personaggi, destinati a rientrare nell’ordine ristabilito dalla conclusione della vicenda. Si pensi a Bogart in Casablanca oppure a John Wayne in Sentieri selvaggi (1956) o a Bette Davis in Perdutamente tua (1942). Quest’ultimo film, secondo lo schema del cinema hollywoodiano dell’epoca, mette in scena un’iniziale esaltazione della trasgressione, del piacere, della passione cui succede però una chiusura rigorosamente rispettosa della morale corrente (e del codice Hays). Alla fine la Davis, al suo partner che sta per abbandonarla perché felicemente sposato e che le chiede “Sarai felice?”, risponde “Non chiediamo la luna. Abbiamo le stelle” (Oh Jerry, don’t let’s ask for the moon. We have the stars). Secondo Michael Wood si tratta di una battuta “che fa la vera delizia di tutti i veri intendi-

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tori dell’autentico ciarpame, cioè del ciarpame con stile” (Wood 1979: 98). Noi, seguendo la panoramica che inquadra subito dopo un cielo stellato (quasi un marchio finale dello star system), la proponiamo come ultimo esempio (plateale, lo ammettiamo, ma sarebbe difficile fare altrimenti, data la materia): così un’autentica star si sottrae alla “chiusura” narrativa, esce dalla scena del racconto e raggiunge lo spazio mitico che le è proprio. Le nuove tecnologie digitali tendono a mutare radicalmente il rapporto tra attore e personaggio, di conseguenza sono destinati a mutare i rapporti tra attore e divo. È probabile che sarà sempre più il personaggio ad acquisire uno statuto divistico, a scapito dell’attore che viene per molti aspetti relegato nell’ombra, come è capitato, per Avatar (2009) di James Cameron, con il personaggio di Neytiri, la giovane Na’vy, interpretata da Zoe Saldana. Cameron ha portato a un livello fino a poco tempo fa impensabile la tecnica della performance capture, resa famosa per l’uso fattone nella creazione del personaggio di Gollum in Il signore degli anelli (2001) di Peter Jackson e ampiamente utilizzata da Zemeckis con esiti ragguardevoli, soprattutto in A Christmas Carol (2009). La performance capture è una tecnica che, attraverso la disseminazione, sul volto e sul corpo dell’attore, di un certo numero di sensori, consente a un computer di creare un personaggio digitale senza che sia più necessario ottenere, come nel cinema analogico, una sorta di impronta del volto e del corpo dell’attore sull’emulsione fotosensibile della pellicola. La performance capture definisce un nuovo statuto dell’attore e del personaggio nell’epoca del digitale: certo la recitazione e la rappresentazione del personaggio sono ancora essenziali, non più per se stessi, ma per i materiali che attraverso i sensori vengo-

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no trasmessi al computer per l’elaborazione digitale. Se nel cinema analogico il rapporto tra attore e divo consentiva al pubblico di apprezzare come il divo fosse capace di scendere dallo spazio mitico cui lo elevava lo star system e calarsi con realismo nella verità umana di un personaggio qualunque, ora avviene il contrario. E lo spettatore, osservando la verità e la semplicità che emanano dal volto di Zoe Saldana, non può che stupirsi della distanza che sembra essersi frapposta tra l’attrice e la dimensione mitica del personaggio di Neytiri che lei stessa ha alimentato e nutrito con i suoi gesti e con le espressioni del suo volto. PER SAPERNE DI PIÙ Una sintetica storia del cinema vista secondo la prospettiva dell’attore è quella di De Benedictis 2005. Un’eccellente guida per un approfondimento del rapporto attore/divo è il testo, dallo stesso titolo, di Pitassio 2003; per un approfondimento del divismo cinematografico suggerisco di partire da Jandelli 2007, autrice anche di uno studio sulle dive italiane del muto e titolare di una rubrica dedicata agli attori cinematografici sulla rivista Segno-Cinema (Jandelli 2006, 2010). Su analogie e differenze tra recitazione cinematografica, teatrale e televisiva, si veda Vicentini 2007. Per approfondire il problema della direzione degli attori nel cinema, si vedano i numerosi e interessanti materiali raccolti da Bertetto 2007. Peter Bogdanovich, autore di memorabili libriinterviste su Welles, Hawks e Ford, è anche autore di uno dei più bei libri mai scritti sulle star di Hollywood, un libro che combina l’arte del ritratto con quella della conversazione (Bogdanovich 2008). Sull’evoluzione dell’arte dell’attore nell’epoca della digital performance, Uva 2011.

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Indice dei film citati

...e la vita continua (D. Risi, 1984) 208 ...e vennero in quattro per uccidere Sartana (D. Fidani, 1969) 300 1941: allarme a Hollywood (1941, S. Spielberg, 1979) 203 1997: fuga da New York (Escape from New York, J. Carpenter, 1981) 361, 363 2001: odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, S. Kubrik, 1968) 307, 309, 321 2046 (2046, Wong Kar-Wai, 2004) 364 A propos de Nice (J. Vigo, 1930) 336 A.I. Intelligenza artificiale (A.I. Artificial Intelligence, S. Spielberg, 2001) 365 Abyss (The Abyss, J. Cameron, 1988) 323, 343 Acciaio (W. Ruttman, 1933) 302 Aelita (Ⱥɷɥɢɬɚ, Y. Protazanov, 1924) 125 After Many Years (D.W. Griffith, 1908) 84 Âge d’or, L’ (L. Buñuel, 1930) 105, 362 Albergo del Nord (Hôtel du Nord, M. Carné, 1938) 144 Albero degli zoccoli, L’ (E. Olmi, 1978) 208, 300 Alice nella città (Alice in den Städten, W. Wenders, 1974) 307 All That Jazz - Lo spettacolo continua (All That Jazz, B. Fosse, 1979) 203, 309, 351 Amanti folli (Liebelei, M. Ophüls, 1932) 360 Amanti, Gli (Amants, Les, L. Malle, 1958) 164 Amarcord (F. Fellini, 1973) 309, 360

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American Graffiti (American Graffiti, G. Lucas, 1973) 199, 299 Amleto (Hamlet, L. Olivier, 1948) 277 Amore fugge, L’ (L’amour en fuite, F. Truffaut, 1979) 172 Amore probabilmente, L’ (G. Bertolucci, 2001) 270 Amori di una bionda, Gli (Lásky jedné plavovlásky, M. Forman, 1965) 182 Andrej Rublëv (ȺɧɞɪɟɣɊɭɛɥɺɜ, A. Tarkovskij, 1966) 181 Anémic Cinéma (M. Duchamp, 1926) 102 Angelo azzurro, L’ (Der Blaue Engel, J. von Sternberg, 1930) 221 Angelo del male, L’ (La bête humaine, J. Renoir, 1938) 151 Anni verdi (Zöldár, I. Gaál, 1965) 182 Anno scorso a Marienbad, L’ (L’année dernière à Marienbad, A. Resnais, 1961) 173, 356 Antonio das Mortes (O dragão da maldade contra o santo guerreiro, G. Rocha, 1969) 183 Apocalypse Now (Apocalypse Now, F.F. Coppola, 1979) 43, 320, 340 Arca russa, L’ (Ɋɭɫɫɤɢɣɤɨɜɱɟɝ, A. Sokurov, 2002) 288, 341 Argent, L’ (R. Bresson, 1983) 346 Armata a cavallo, L’ (Csillagosok, katonak, M. Jancsó, 1967) 182, 287 Arrivée du train à la Ciotat, L’ (A. e L. Lumiere, 1895) 60, 102 Artisti sotto la tenda del circo: perplessi (Die Artisten in der Zirkuskuppel: ratlos, A. Kluge, 1968) 187 Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l’echafaud, L. Malle, 1957) 164 Assalto al treno (The Great Train Robbery, E.S. Porter, 1903) 81, 83 Assassinat du Duc de Guise, L’ (A. Calmettes, C. Le Bargy, 1908) 64 Asso di picche, L’ (ýerný Petr, M. Forman, 1963) 182 Assunta Spina (G. Serena, 1915) 111 Avatar (Avatar, J. Cameron, 2009) 291, 374 Avventura, L’ (M. Antonioni, 1960) 184 Avventure straordinarissime di Saturnino Farandola, Le (M. Fabre, 1914) 70, 114 Ballet mécanique (F. Léger, D. Murphy, 1924) 93, 104 Bambola di carne, La (Die Puppe, E. Lubitsch, 1919) 360

INDICE DEI FILM CITATI

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Banditi a Orgosolo (V. De Seta, 1961) 300 Bandito delle ore 11, Il (Pierrot le fou, J.-L. Godard, 1965) 171 Barriera (Bariera, J. Skolimowski, 1966) 182 Barry Lyndon (Barry Lyndon, S. Kubrick, 1975) 307-308, 359 Bastardi senza gloria (Inglourious Bastards, Q. Tarantino, 2009) 196, 253, 259-261 Batman (Batman, T. Burton, 1989) 357, 364 Batman il ritorno (Batman Returns, T. Burton, 1992) 364 Beau Serge, Le (C. Chabrol, 1958) 163 Bel matrimonio, Il (Le beau mariage, E. Rohmer, 1982) 173 Bella di Mosca, La (Silk Stockings, R. Mamoulian, 1957) 134 Berlin Alexanderplatz (Berlin Alexanderplatz, R.W. Fassbinder, 1980) 188 Berlino, sinfonia di una grande città (Berlin, Symphonie einer Großstadt, W. Ruttmann, 1927) 336, 361 Bersaglio di notte (Night Moves, A. Penn, 1975) 201 Billy, ma come hai fatto? (Billy Wilder, wie haben Sie’s gemacht?, V. Schlöndorff, G. Grischow, 1992) 239 Bisbetico domato, Il (Castellano e Pipolo, 1980) 300 Blade Runner (Blade Runner, R. Scott, 1982) 321, 357, 362 Blues Brothers, The (The Blues Brothers, J. Landis, 1980) 203 Boardwalk Empire (serie, 2010-) 210 Brig, The (J. Mekas, 1964) 175 Brigadoon (Brigadoon, V. Minnelli, 1954) 133, 360 Broadway Danny Rose (Broadway Danny Rose, W. Allen, 1983) 307 Buongiorno tristezza! (Bonjour Tristesse, O. Preminger, 1958) 305 C’era una volta in America (S. Leone, 1984) 334 C’eravamo tanto amati (E. Scola, 1974) 305 Cabiria (G. Pastrone, 1914) 27, 73, 87, 111, 113-114, 116, 292 Cacciatore, Il (The Deer Hunter, M. Cimino, 1978) 27 Caduta dell’impero romano, La (The Fall of the Roman Empire, A. Mann, 1964) 210 Caimano, Il (N. Moretti, 2006) 232 Camera verde, La (La chambre verte, F. Truffaut, 1978) 172

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Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain, S. Donen, G. Kelly, 1952) 133 Cantante di jazz, Il (The Jazz Singer, A. Crosland, 1927) 88 Cape Fear - Promontorio della paura (Cape Fear, M. Scorsese, 1991) 222 Carabiniers, Les (J.-L. Godard, 1963) 171 Carioca (T. Freeland, 1933) 133 Carretto fantasma, Il (Körkarlen, V. Sjöström, 1920) 108 Casablanca (Casablanca, M. Curtiz, 1942) 302, 372, 373 Casanova (F. Fellini, 1976) 360 Caso Myra Breckenridge, Il (Myra Breckinridge, M. Sarne, 1970) 130 Catene (R. Matarazzo, 1950) 131, 156 Cavaliere della valle solitaria, Il (Shane, G. Stevens, 1953) 312 Celebrity (Celebrity, W. Allen, 1998) 307 Charlot usuraio (The Pawnshop, C. Chaplin, 1916) 95 Chien andalou, Un (L. Buñuel, 1928) 105 Chinatown (Chinatown, R. Polanski, 1974) 147 Christmas Carol, A (Christmas Carol, A, R. Zemeckis, 2009) 374 Cielo giallo (Yellow Sky, W.A. Wellman, 1948) 143 Cineocchio (Ʉɢɧɨɝɥɚɡ, D. Vertov, 1924) 109 Circo, Il (The Circus, C. Chaplin, 1928) 96 Città nuda, La (The Naked City, J. Dassin, 1948) 134 Città perduta, La (La cité des enfants perdus, J.-P. Jeunet, M. Caro, 1995) 365 Cleopatra (Cleopatra, J.L. Mankiewicz, 1963) 237 Coltello nell’acqua, Il (NóĪ w wodzie, R. Polanski, 1962) 182 Come le foglie al vento (Written on the Wind, D. Sirk, 1956) 140, 141 Compari, I (McCabe & Mrs. Miller, R. Altman, 1971) 201 Condannato a morte è fuggito, Un (Un condamné à mort s’est échappé, R. Bresson, 1956) 164 Connection, The (The Connection, S. Clarke, 1961) 175 Conto alla rovescia (Countdown, R. Altman, 1967) 318 Contratto per uccidere (The Killers, D. Siegel, 1964) 270 Conversazione, La (The Conversation, F.F. Coppola, 1974) 22, 199, 201, 384

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Coquille et le clergyman, La (G. Dulac, 1928) 104 Coraggio quotidiano, Il (Každý den odvahu, E. Schorm, 1964) 182 Corazzata Potëmkin, La (Ȼɪɨɧɟɧɨɫɟɰɉɨɬɺɦɤɢɧ, S.M. Ejzenštejn, 1926) 110, 298 Corner in Wheat, A (D.W. Griffith, 1909) 70, 211- 212 Corvo, Il (The Crow, A. Proyas, 1994) 365 Cosa dall’altro mondo, La (The Thing from Another World, C. Nyby, H. Hawks, 1951) 321 Cosa, La (The Thing, J. Carpenter, 1982) 321 Cristoforo Colombo (A. Lattuada, 1985) 208 Cuore (D. Coletti, 1947) 44 Cuore (L. Comencini, 1984) 44, 208 Dal Polo all’Equatore (Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, 1986) 76 Dark City (Dark City, A. Proyas, 1997) 273, 365 Deserto rosso (M. Antonioni, 1964) 264, 305, 307, 347-348 Destinazione luna (Destination Moon, I. Pichel, 1950) 318 Detour (E. Ulmer, 1945) 350 Diario di un maestro (V. De Seta, 1973) 300 Dio nero e il diavolo biondo, Il (Deus e o diabo na terra do sol, G. Rocha, 1964) 183 Disonorata (Dishonored, J. von Sternberg, 1931) 301 Disperati di Sandor, I (Szegénylegények, M. Jancsó, 1964) 182, 287 Distretto 13, le brigate della morte (Assault on Precinct 13, J. Carpenter, 1976) 361 Dog Star Man (S. Brackhage, 1965) 175 Dolce vita, La (F. Fellini, 1960) 184, 410 Domenica delle palme, La (Virágvasárnap, I. Gyöngyössy, 1969) 182 Donna è donna, La (Une femme est une femme, J.-L. Godard, 1961) 171 Donna nella luna, Una (Frau im Mond, F. Lang, 1928) 124 Donna sposata, Una (Une femme mariée, J.-L. Godard, 1964) 171, 338 Dottor Jekyll e Mr Hyde, Il (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, V. Fleming, 1941) 343 Dove la terra scotta (Man of the West, A. Mann, 1958) 143

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Dracula (Dracula, T. Browning, 1931) 133 Dreams of the Rarebit Fiend (E.S. Porter, 1906) 81 Drifters (J. Grierson, 1929) 179 Due cuori in cielo (Cabin in the Sky, V. Minnelli, 1943) 133 Due inglesi, Le (Les deux anglaises et le continent, F. Truffaut, 1971) 172 Due o tre cose che so di lei (Deux ou trois choses que je sais d’elle, J.-L. Godard, 1966) 171 Due soldi di speranza (R. Castellani, 1952) 155 Due uomini e un armadio (Dwaj ludzie z szafą, R. Polanski, 1958) 182 Duel (Duel, S. Spielberg, 1971) 199 Duello al sole (Duel in the Sun, K. Vidor, 1946) 141 È primavera (R. Castellani, 1949) 155 Easy Rider (Easy Rider, D. Hopper, 1969) 198, 236 Effetto Notte (La nuit américaine, F. Truffaut, 1973) 147, 172, 231, 234, 238 Effi Briest (Fontane - Effi Briest, R.W. Fassbinder, 1974) 188 Elephant Man, The (The Elephant Man, D. Lynch, 1980) 51, 307 Emigrante, L’ (The Immigrant, C. Chaplin, 1917) 94 Empire (A. Warhol, 1965) 175 Enoch Arden (D.W. Griffith, 1911) 84 Entr’acte (R. Clair, 1924) 93, 103, 362 Essere John Malkovich (Being John Malkovich, S. Jonze, 1999) 262 Etoile de mer, L’ (Man Ray, 1928) 105 Europa ’51 (R. Rossellini, 1952) 153 Execution of Mary Queen of Scots, The (A. Clark, 1895) 64 F come falso (F for Fake, O. Welles, 1973) 327 Falchi, I (Magasiskola, I. Gaál, 1970) 182 Falso movimento (Falsche Bewegung, W. Wenders, 1974) 188 Fanciulli del West, I (Way Out West, J.W. Horne, 1937) 349 Fantasia (Fantasia, W. Disney, 1940) 124 Faust (Faust, F.W. Murnau, 1926) 358 Febbre dell’oro, La (The Gold Rush, C. Chaplin, 1925) 96

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Figli di nessuno, I (R. Matarazzo, 1952) 156 Film (Film, A. Schneider, 1965) 97 Filming Othello (O. Welles, 1978) 325-327 Finalmente domenica (Vivement dimanche!, F. Truffaut, 1983) 51, 172 Fine di San Pietroburgo, La (Ʉɨɧɟɰɋɚɧɤɬɉɟɬɟɪɛɭɪɝɚ, V.I. Pudovkin, 1927) 335 Finestra sul cortile, La (Rear Window, A. Hitchcock, 1954) 237238, 356 Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, J.-L. Godard, 1960) 163, 171, 332 Flaming Creatures (J. Smith, 1963) 175 Frankenstein (J. Wahle, 1931) 133 Freaks (Freaks, T. Browning, 1932) 278, 320 Fuoco, Il (G. Pastrone, 1915) 114 Futurismo (L’Inhumaine, M. L’Herbier, 1924) 103 Gabinetto del dottor Caligari, Il (Das Cabinet des Dr. Caligari, R. Wiene, 1920) 102, 106, 359 Gang (Thieves Like Us, R. Altman, 1974) 201 Gangster Story (Bonnie and Clyde, A. Penn, 1967) 305 Gangsters, I (The Killers, R. Siodmak, 1946) 134 Gattopardo, Il (L. Visconti, 1963) 34, 309 Gaucho, Il (D. Risi, 1964) 300 Geppo il folle (A. Celentano, 1978) 299 Germania anno zero (R. Rossellini, 1948) 152 Gertrud (Gertrud, C.T. Dreyer, 1964) 331 Gilda (Gilda, C. Vidor, 1946) 141, 372 Giorni del ’36, I (ȂȑȡİȢIJȠȣ ’36, T. Angelopulos, 1972) 288 Giovedì, Il (D. Risi, 1963) 300 Giuseppe Verdi (R. Castellani, 1982) 208 Gladiatore, Il (Gladiator, R. Scott, 2000) 27, 209, 210 Gloria (What Price Glory?, R. Walsh, 1926) 309 Good Morning, Vietnam (Good Morning, Vietnam, B. Levinson, 1987) 27 Grande guerra, La (M. Monicelli, 1959) 34

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Grande sonno, Il (The Big Sleep, H. Hawks, 1946) 145-146, 265, 285 Grandi Magazzini (M. Camerini, 1939) 149 Grandma’s Reading Glass (G.A. Smith, 1900) 83 Grasso e il magro, Il (Le gros et le maigre, R. Polanski, 1961) 182 Grease (Grease, R. Kleiser, 1978) 299 Grido dell’aquila, Il (M. Volpe, 1923) 117 Guerra è finita, La (La guerre est finie, A. Resnais, 1966) 173 Guerra e il sogno di Momi, La (S. de Chomón, 1917) 114 Guerre stellari (Star Wars, G. Lucas, 1977) 199, 202, 309, 314, 318, 321, 325, 351 Guerrieri della notte, I (The Warriors, W. Hill, 1979) 361 Hair (Hair, M. Forman, 1979) 203 Hello, Dolly (Hello, Dolly, G. Kelly, 1969) 70 Hintertreppe (P. Leni, L. Jessner, 1921) 106 Hiroshima, mon amour (Hiroshima, mon amour, A. Resnais, 1959) 164, 173 Histoire(s) du cinéma (J.-L. Godard, 1988-1998) 25, 90, 174, 206, 398 Inauguration of Pleasure Dome (K. Anger, 1966) 175 Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, S. Spielberg, 1977) 199, 202, 298, 309 Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (E. Petri, 1970) 264 Infanzia di Ivan, L’ (ɂɜɚɧɨɜɨɞɟɬɫɬɜɨ, A. Tarkovskij, 1962) 181 Infernale Quinlan, L’ (Touch of Evil, O. Welles, 1958) 222, 280 Intolerance (D.W. Griffith, 1916) 72, 118 Io ballo da sola (B. Bertolucci, 1996) 228 Ivan il Terribile, Parte II - La congiura dei boiardi (ɂɜɚɧȽɪɨɡɧɵɣ Ȼɨɹɪɫɤɢɣɡɚɝɨɜɨɪ, S.M. Ejzenštejn, 1946) 306 Johnny Guitar (Johnny Guitar, N. Ray, 1954) 141 Jules e Jim (Jules et Jim, F. Truffaut, 1961) 172 Jurassic Park (Jurassic Park, S. Spielberg, 1993) 217, 352

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INDICE DEI FILM CITATI

Koyaanisqatsi (G. Reggio, 1982)

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Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948) 148, 152, 160, 245, 302, 379 Ladro di orchidee, Il (Adaptation, S. Jonze, 2002) 262 Laureato, Il (The Graduate, M. Nichols, 1967) 241 Leggenda di Gösta Berling, La (Gösta Berlings Saga, M. Stiller, 1924) 108 Lettera da una sconosciuta (Letter from a Unknown Woman, M. Ophüls, 1948) 140, 360 Lonely Boy (Lonely Boy, R. Kroitor, W. Koenig, 1961-62) 178 Lonesome Cowboys (A. Warhol, 1968) 175 Luci della città (City Lights, C. Chaplin, 1931) 122, 349, 368-369 Luna sorge, La (Moonrise, F. Borzage, 1948) 334 Lungo addio, Il (The Long Goodbye, R. Altman, 1973) 147, 201 Lupa, La (A. Lattuada, 1953) 156 Lyrical Nitrate (Lyrisch Nitraat, P. Delpeut, 1991) 76 Maciste all’inferno (G. Brignone, 1926) 116 Maciste alpino (G. Pastrone, 1916) 114, 116 Mad Men (serie, 2007-) 210 Madre, La (Ɇɚɬɶ, V.I. Pudovkin, 1926) 335 Mahlzeiten (E. Reitz, 1967) 187 Mamma Roma (P.P. Pasolini, 1962) 287 Manhattan (Manhattan, W. Allen, 1979) 307 Marco Polo (G. Montaldo, 1983) 208 Mariute (E. Bencivenga, 1918) 115 Marlowe, il poliziotto privato (Farewell, My Lovely, D. Richards, 1975) 201 Marocco (Morocco, J. von Sternberg, 1930) 301 Maschere di celluloide (Show People, K. Vidor, 1928) 76 Mashes of the Afternoon (M. Deren, 1943) 174 Matrix (The Matrix, A. e L. Wachowski, 1999) 217, 281, 292 Mazurka di papà, La (O. Biancoli, 1938) 302 Meglio gioventù, La (M.T. Giordana, 2003) 208 Memoria dell’altro, La (A. Degli Abbati, 1913) 115

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Mercante di Venezia, Il (The Merchant of Venice, M. Radford, 2004) 27 Meridiana del convento, La (E. Rodolfi, 1915) 113 Metropolis (Metropolis, F. Lang, 1927) 74-77, 125 Mio figlio professore (R. Castellani, 1946) 302 Miracolo a Milano (V. De Sica, 1951) 152 Mistero del falco, Il (The Maltese Falcon, J. Huston, 1941) 145-146, 302-303 Mistero di Oberwald, Il (M. Antonioni, 1980) 207 Moglie dell’aviatore, La (La femme de l’aviateur, E. Rohmer, 1980) 173 Moi, Pierre Rivière... (R. Allio, 1976) 308 Monica e il desiderio (Sommaren med Monika, I. Bergman, 1953) 262 Monterey Pop (Monterey Pop, D.A. Pennebaker, 1969) 178 Moulin Rouge! (Moulin Rouge!, B. Luhrmann, 2001) 27, 273 Mucchio selvaggio (The Wild Bunch, S. Peckinpah, 1969) 201 Mulholland Drive (Mulholland Dr., D. Lynch, 2000) 210 Muriel, il tempo di un ritorno (Muriel, A. Resnais, 1963) 173 My Wife’s Relations (B. Keaton, 1922) 95 Nanuk l’eschimese (Nanook of the North, R.J. Flaherty, 1922) 178 Napoleone (Napoléon, A. Gance, 1927) 76 Naqoyqatsi (G. Reggio, 2002) 75 Nascita di una nazione, La (Birth of a Nation, D.W. Griffith, 1915) 81-82, 336, 338 Nastro bianco, Il (Das weiße Band, M. Haneke, 2009) 51 Nave bianca, La (R. Rossellini, 1941) 149 Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit, W. Wenders, 1976) 257-259, 307 Nemico pubblico (The Public Enemy, W.A. Wellman, 1931) 145, 361 Nodo alla gola (Rope, A. Hitchcock, 1948) 222, 280, 286, 342 Non c’è pace tra gli ulivi (G. De Santis, 1950) 157 Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, F.W. Murnau, 1922) 76, 189

INDICE DEI FILM CITATI

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Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht), W. Herzog, 1978) 189 Nostalghia (ɇɨɫɬɚɥɶɝɢɹ, A. Tarkovskij, 1980) 181 Notorius - L’amante perduta (Notorious, A. Hitchcock, 1946) 268 Notte dei morti viventi, La (Night of the Living Dead, G.A. Romero, 1968) 236 Notte di San Silvestro, La (Sylvester, L. Pick, 1923) 106 Notte e nebbia (Nuit et brouillard, A. Resnais, 1955) 164, 305 Notti di luna piena, Le (Les nuits de la pleine lune, E. Rohmer, 1984) 173 Ombra del dubbio, L’ (Shadow of a Doubt, A. Hitchcock, 1943) 134 Ombra del passato, L’ (Murder, My Sweet, E. Dmytryk, 1944) 145146 Ombre (Shadows, J. Cassavetes, 1959-60) 176 Ombre e nebbia (Shadows and Fog, W. Allen, 1991) 51, 307 Ombre rosse (Stagecoach, J. Ford, 1939) 336, 369 Ossessione (L. Visconti, 1943) 150-151, 153, 304 Otello (The Tragedy of Othello: The Moor of Venice, O. Welles, 1952) 27, 326 Ottobre (Ɉɤɬɹɛɪɶ, S.M. Ejzenštejn, 1928) 110, 331, 335, 342 Padre padrone (P. e V. Taviani, 1977) 208 Padre, Il (Apa, I. Szabó, 1966) 182 Padrino, Il (The Godfather, F.F. Coppola, 1972) 199 Padrino, Il - parte II (The Godfather: Part II, F.F. Coppola, 1974) 199 Paisà (R. Rossellini, 1947) 148, 152, 158, 160 Pane, amore e fantasia (L. Comencini, 1953) 155 Pane, amore e gelosia (L. Comencini, 1954) 155 Pane, amore e... (D. Risi, 1955) 155 Pap’occhio, Il (R. Arbore, 1980) 300 Paper Moon - Luna di carta (Paper Moon, P. Bogdanovich, 1973) 306 Paris nous appartient (J. Rivette, 1960) 163 Paris, Texas (Paris, Texas, W. Wenders, 1984) 308

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Passione di Cristo, La (The Passion of the Christ, M. Gibson, 2004) 28 Passione di Giovanna d’Arco, La (La passion de Jeanne d’Arc, C.T. Dreyer, 1928) 368 Paziente inglese, Il (The English Patient, A. Minghella, 1996) 343 Perdizione (Kárhozat, B. Tarr, 1987) 288 Perdutamente tua (Now, Voyager, I. Rapper, 1942) 373 Petit soldat, Le (J.-L. Godard, 1960) 171 Piacere e l’amore, Il (La ronde, M. Ophüls, 1950) 360 Piccole volpi (The Little Foxes, W. Wyler, 1941) 339 Piccolo Cesare (Little Caesar, M. LeRoy, 1931) 145, 361 Piccolo grande uomo (Little Big Man, A. Penn, 1970) 201 Pinocchio (G. Antamoro, 1911) 113 Pinocchio (Pinocchio, W. Disney, 1940) 124 Piovra, La (serie, 1984-) 208 Popeye - Braccio di ferro (Popeye, R. Altman, 1981) 309 Porto delle nebbie, Il (Le quai des brumes, M Carné, 1938) 144 Pour la suite du mond (M. Brault, P. Perrault, 1963) 178 Powaqqatsi (G. Reggio, 1988) 75 Predatori dell’arca perduta, I (Raiders of the Lost Ark, S. Spielberg, 1981) 202 Preferisco l’ascensore (Safety Last!, F.C. Newmeyer, S. Taylor, 1923) 95 Prevaricatori, I (The Cheat, C.B. DeMille, 1915) 97 Professione: reporter (M. Antonioni, 1973) 296, 300 Protagonisti, I (The Player, R. Altman, 1992) 221, 239, 280, 292 Prova d’orchestra (F. Fellini, 1979) 207 Pugni in tasca, I (M. Bellocchio, 1965) 268 Quando gli angeli cadono (Gdy spadają anioły, R. Polanski, 1959) 182 Quarantaduesima strada (42nd Street, L. Bacon, 1933) 363 Quarto potere (Citizen Kane, O. Welles, 1941) 167, 303, 338-339 Quattro cavalieri dell’Apocalisse, I (The Four Horsemen of the Apocalypse, R. Ingram, 1921) 92 Quattro passi tra le nuvole (A. Blasetti, 1942) 149

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Quattrocento colpi, I (Les quatre-cents coups, F. Truffaut, 1959) 163, 172, 262, 273, 279 Queen Kelly (E. von Stroheim, 1928) 129 Quel maledetto treno blindato (E.G. Castellari, 1977) 196 Questa è la mia vita (Vivre sa vie, J.-L. Godard, 1962) 171 Racconti di Canterbury, I (P.P. Pasolini, 1972) 307 Racconto d’autunno (Conte d’automne, E. Rohmer, 1998) 173 Ragazza senza storia, La (Abschied von Gestern, A. Kluge, 1966) 187 Raggio verde, Il (Le rayon vert, E. Rohmer, 1986) 173 Rapacità (Greed, E. von Stroheim, 1924) 26, 129 Rapsodia satanica (N. Oxilia, 1915) 73 Re dei Re, Il (The King of Kings, C.B. DeMille, 1927) 28 Re dei Re, Il (King of Kings, N. Ray, 1961) 28 Rebecca, la prima moglie (Rebecca, A. Hitchcock, 1940) 275 Recita, La (ȅĬȓĮıȠȢ, T. Angelopulos, 1975) 288 Regina Elisabetta, La (Les amours de la reine Élisabeth, H. Desfontaines, L. Mercanton, 1912) 91 Règne du jour, Le (P. Perrault, 1967) 178 Retour à la raison, Le (Man Ray, 1923) 103 Ricotta, La (P.P. Pasolini, 1963) 307, 315 Rien que les heures (A. Cavalcanti, 1926) 336 Riso amaro (G. De Santis, 1949) 153, 287, 403 Roma città aperta (R. Rossellini, 1945) 147-148, 152 Romantica avventura, Una (M. Camerini, 1940) 302 Rotaia, La (Scherben, L. Pick, 1921) 106 Rusty il selvaggio (Rumble Fish, F.F. Coppola, 1983) 306 Sabotatori (Saboteur, A. Hitchcock, 1942) 134 Sabrina (Sabrina, S. Pollack, 1995) 309 Sang d’un poète, Le (J. Cocteau, 1930) 104 Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, G. Cukor, 1940) 138 Scarface - Lo sfregiato (Scarface, Shame of the Nation, H. Hawks, 1932) 145, 301, 361 Schindler’s List (Schindler’s List, S. Spielberg, 1993) 306-307

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Sciopero (ɋɬɚɱɤɚ, S.M. Ejzenštejn, 1925) 110, 343 Sciuscià (V. De Sica, 1946) 148 Scorpio Rising (K. Anger, 1963) 175 Segni particolari: nessuno (Rysopis, J. Skolimowski, 1964) 182 Segno del leone, Il (Le signe du lion, E. Rohmer, 1959) 163 Segno di Zorro, Il (The Mark of Zorro, F. Niblo, 1920) 223 Segretaria privata, La (G. Alessandrini, 1931) 302 Segreti di famiglia (Tetro, F.F. Coppola, 2009) 305 Segreti di Twin Peaks, I (serie, 1990-1991) 210 Senso (L. Visconti, 1954) 156 Sensualità (C. Fracassi, 1952) 156 Sentieri selvaggi (The Searchers, J. Ford, 1956) 373 Sfida infernale (My Darling Clementine, J. Ford, 1946) 143 Sfida nella città morta (The Law and Jake Wade, J. Sturges, 1958) 143 Shanghai Express (Shanghai Express, J. von Sternberg, 1932) 301 Shining (The Shining, S. Kubrick, 1980) 292, 319 Signore degli anelli, Il - La Compagnia dell’Anello (The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring, P. Jackson, 2001) 374 Silenzio è d’oro, Il (Le silence est d’or, R. Clair, 1947) 27, 55 Silenzio e grido (Csend és kialtas, M. Jancsó, 1968) 182, 288 Sin City (Frank Miller’s Sin City, F. Miller, R. Rodriguez, 2005) 306, 365 Sindrome di Stendhal, La (D. Argento, 1996) 309 Skeleton Dance, The (W. Disney, 1929) 124 Sleep (A. Warhol, 1964) 175 Sogno lungo un giorno, Un (One from the Heart, F.F. Coppola, 1981) 252, 320, 340, 363 Soldato blu (Soldier Blue, R. Nelson, 1970) 201 Sole (A. Blasetti, 1929) 149 Sorpasso, Il (D. Risi, 1962) 185, 299-300 Sortie des usines Lumière, La (A. e L. Lumiere, 1895) 60 Spartacus (Spartacus, S. Kubrick, 1960) 209-210 Specchio scuro, Lo (The Dark Mirror, R. Siodmak, 1946) 134, 289 Sperduti nel buio (N. Martoglio, 1914) 111 Sposa in nero, La (La mariée était en noir, F. Truffaut, 1967) 172

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Squalo, Lo (Jaws, S. Spielberg, 1975) 199, 242 Squillo per l’ispettore Klute, Una (Klute, A. Pakula, 1971) 201 Stardust Memories (Stardust Memories, W. Allen, 1980) 307 Stato delle cose, Lo (Der Stand der Dinge, W. Wenders, 1982) 307 Steamboat Willie (W. Disney, 1928) 124 Storia, La (L. Comencini, 1986) 208 Strada della paura, La (Easy Street, C. Chaplin, 1917) 95 Strada scarlatta, La (Scarlet Street, F. Lang, 1945) 134 Stregoneria attraverso i secoli, La (Häxan, B. Christiansen, 1922) 108 Stromboli terra di Dio (R. Rossellini, 1949) 153 Sugarland Express (The Sugarland Express, S. Spielberg, 1974) 199 Superman (Superman, R. Donner, 1978) 314 Sussurri e grida (Viskningar och rop, I. Bergman, 1972) 307, 334 Sweet Charity - Una ragazza che voleva essere amata (Sweet Charity, B. Fosse, 1959) 351 Tamburo di latta, Il (Die Blechtrommel, V. Schlöndorff, 1979) 188 Taxi Driver (Taxi Driver, M. Scorsese, 1976) 253 Tè nel deserto, Il (B. Bertolucci, 1990) 222 Tempi moderni (Modern Times, C. Chaplin, 1936) 94, 349 Teorema (P.P. Pasolini, 1968) 228 Terminator 2 - Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment Day, J. Cameron, 1991) 323 Terra in trance (Terra em Transe, G. Rocha, 1967) 183 Terra Madre (A. Blasetti, 1931) 149 Terra trema, La (L. Visconti, 1948) 153 Tetsuo (Tetsuo, S. Tsukamoto, 1989) 51 Thaïs (A.G. Bragaglia, 1917) 101-102, 115 Tigre Reale (G. Pastrone, 1916) 114-115 Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, F. Truffaut, 1960) 172 Titanic (Titanic, J. Cameron, 1997) 323 Tokio-Ga (Tokio-Ga, W. Wenders, 1986) 271 Toni (J. Renoir, 1934) 151 Tormento (R. Matarazzo, 1951) 156

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Toro scatenato (Raging Bull, M. Scorsese, 1980) 306 Totò a colori (Steno, 1952) 304 Toute la mémoire du monde (A. Resnais, 1957) 164 Tre canti su Lenin (ɌɪɢɩɟɫɧɢɨɅɟɧɢɧɟ, D. Vertov, 1934) 109 Tre donne (Three Women, R. Altman, 1977) 228 Tre giorni del condor, I (Three Days of the Condor, S. Pollack, 1975) 201 Trinidad (Trinidad Affair, V. Sherman, 1952) 372 Tron (Tron, S. Lisberger, 1982) 365 Tron Legacy (Tron: Legacy, J. Kosinski, 2010) 365 Turbamenti del giovane Törless, I (Der junge Törless, V. Schlöndorff, 1966) 187-188 Twice a Man (G. Markopoulos, 1963) 175 Ultima donna, L’ (M. Ferreri, 1976) 225-232, 396 Ultima tentazione di Cristo, L’ (The Last Temptation of Christ, M. Scorsese, 1988) 28 Ultimi fuochi, Gli (The Last Tycoon, E. Kazan, 1976) 15, 25, 69, 372 Ultimo bacio, L’ (G. Muccino, 2001) 34 Ultimo spettacolo, L’ (The Last Picture Show, P. Bogdanovich, 1971) 51, 306 Ultimo uomo, L’ (Der letzte Mann, F.W. Murnau, 1924) 106, 277 Ultrà (R. Tognazzi, 1990) 34 Umberto D. (V. De Sica, 1952) 152, 245, 248, 250 Uomini che mascalzoni..., Gli (M. Camerini, 1932) 149 Uomo con la macchina da presa, L’ (ɑɟɥɨɜɟɤɫɤɢɧɨɚɩɩɚɪɚɬɨɦ, D. Vertov, 1929) 109, 334, 336, 362 Uomo della croce, L’ (R. Rossellini, 1943) 149 Uomo meccanico, L’ (A. Deed, 1921) 114 Vangelo secondo Matteo, Il (P.P. Pasolini, 1964) 28 Vecchia Guardia (A. Blasetti, 1934) 149 Vedova allegra, La (The Marry Widow, E. von Stroheim, 1925) 26 Vedozero (A. Caccia, 2009) 46 Velocità (T. Cordero, E. Martina, P. Oriani, 1931) 101

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Via col vento (Gone with the Wind, V. Fleming, 1939) 138, 141 Via dei pompieri 25 (Tuzoltó utca 25, I. Szabó, 1973) 182 Viaggio in Italia (R. Rossellini, 1953) 153 Viale del tramonto (Sunset Boulevard, B. Wilder, 1950) 221, 254-257, 345 Vie della città, Le (City Streets, R. Mamoulian, 1931) 301 Vincere (M. Bellocchio, 2009) 70 Vita di un pompiere americano, La (Life of an American Fireman, E.S. Porter, 1903) 81 Vita futurista (A. Ginna, 1916) 101 Voitures d’eau, Les (P. Perrault, 1969) 178 Volto, Il (Ansiktet, I. Bergman, 1959) 131 Voyage dans la lune (G. Méliès, 1902) 80, 318 Walkover (Walkower, J. Skolimowski, 1965) 182 Wall•E (Wall•E, A. Stanton, 2008) 70, 211, 217 Wargames-Giochi di guerra (WarGames, J. Badham, 1983) 321 Willow (Willow, R. Howard, 1988) 323 Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica (Woodstock, M. Wadleigh, 1970) 178 Yakuza (The Yakuza, S. Pollack, 1975) 201 Zabriskie Point (M. Antonioni, 1970) 299 Zelig (Zelig, W. Allen, 1983) 51, 307