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Italian Pages 251 Year 2005
Pseudo-Ippolito
LA TRADIZIONE APOSTOLICA Traduzione e note a cura dt Elio Peretto
Atanasio
IL CREDO DI NICEA Traduzione e note a cura di Enrico Cattaneo
Supplemento al numero di
di questa settimana P.I. SPA - S.A.P. - D.L. 353/2003 L. 27102104 N. 46 - a. 1 c. 1 DCB/CN Direttore responsabile: Antonio Sciortino
SAN PAOLO
Edizione In collaborazione Città Nuova Editrice © 1996-2001 - Roma e Periodici San Paolo © 2005 - Milano
Le immagini della Bibbia della Luce sono proprietà della Fototeca della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. L'immagine In copertina è di Contrasto Finito di stampare nel mese di maggio 2005 presso Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche S.p.A. Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo - Italia
Prefazione L'EREDITÀ APOSTOLICA
Con la Tradizione apostdtica e Il credo di Nicea si completa il primo scaffale della "Grande biblioteca cristiana" dedicato ai capolavori della fede e ai classici della tradizione cristiana. Restiamo, con questi scritti, nei primi secoli della Chiesa, all'interno del grande alveo della "tradizione". Spesso, nel linguaggio comune, quando si parla di "tradizione" il pensiero va piuttosto alle "tradizioni": vale a dire alle memorie storiche, alle celebrazioni e ai riti, ai mestieri e alle usanze locali tramandate di generazione in generazione. La parola "tradizione" racchiude invece un significato più ampio e profondo, alludendo a un insieme di ideali e valori, fatti ed esperienze del passato che fondano l'identità originaria di un popolo o di una comunità e che, come tali, costituiscono un'eredità che si riceve e trasmette nel tempo come inscindibile legame con la propria storia. Quando poi si parla di "tradizione apostolica", il concetto si focalizza sull'insieme della predicazione e degli insegnamenti che gli apostoli hanno ricevuto da Gesù come testimoni oculari della sua vita e del suo messaggio di salvezza; che hanno annunciato e testimoniato al mondo, nella fedeltà al loro mandato, e che la Chiesa ha raccolto e custodito, richiamandosi continuamente ad essi come fonda5
mento certo, autorevole e vivo della propria dottrina ed esperienza di fede. Infine, quando si parla di un'opera denominata Tradizione apostolica - un breve scritto, composto verso il 215, attribuito a Ippolito (170?-235?) -, si fa riferimento a un compendio di princìpi, regolamenti e istruzioni in materia di ordinamento ecclesiastico, prassi liturgica e vita comunitaria, che rappresentano la struttura e la forma con cui la Chiesa antica ha tradotto normativamente la "consegna" (traditio) degli apostoli, per il bene e l'edificazione di tutti i credenti. L'importanza, per certi aspetti unica, di quest'opera nell'ambito degli ordinamenti ecclesiastici antichi non consiste solo nell'ampio spettro di temi che affronta: si passano infatti in rassegna numerosi ministeri ecclesiali (vescovi, presbiteri, diaconi, confessori della fede, ecc.), riti, preghiere, momenti di culto e vita cristiana, e già questo conferisce al testo un valore primario ai fini di una ricostruzione storico-liturgica. La sua importanza risiede soprattutto nell'accuratezza e nella profondità della descrizione: nel definire ed evidenziare significati e peculiarità; nello stabilire nessi e relazioni; nel mettere in luce un aspetto specifico o un quadro d'insieme. Così, alla fine, si coglie una visione, uno spirito e un'impronta, che esulano dal puro e semplice assemblaggio di testi, per connotare l'opera in modo personale (anche in chiave polemica, come nel prologo e nella conclusione), quale che sia il suo autore, probabilmente un vescovo. Ed è quello che in definitiva ha fatto della Tradizione apostolica un punto di riferimento per tutte le traduzioni, rielaborazioni e adattamenti successivi. Due passi possono esemplificare questo "timbro" dell'autore: il primo, teologicamente intenso e letterariamente forbito, è la preghiera di consacrazione di un vescovo: ·Dio e Padre di nostro Signore Gesù 6
Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni conforto, che abiti nell'alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose piccole, che conosci tutte le cose prima che esistano, che hai dato le norme della Chiesa per la parola della tua grazia, che fin dal principio hai predestinato la stirpe dei giusti di Abramo, costituendo capi e sacerdoti, e non lasciando il tuo santuario senza ministri, che fin dall'inizio del mondo hai voluto essere glorificato in coloro che ti sei scelto: ora effondi la potenza dèllo Spirito sovrano, che da te viene, e che hai dato al tuo diletto figlio, Gesù Cristo, che ne ha fatto dono ai santi apostoli, che in ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a gloria e lode incessante del tuo nome•. Il secondo, non meno significativo, è focalizzato sull'unità della Chiesa nella comunione eucaristica: ·Ricordando dunque la sua morte e la sua resurrezione, ti offriamo il pane e il calice e ti rendiamo grazie per averci fatti degni di stare alla tua presenza e di renderti culto. E ti preghiamo d'inviare il tuo Spirito Santo sull'offerta della santa Chiesa. Unendo in una sola cosa, dona a coloro che partecipano dei santi misteri la pienezza dello Spirito Santo per confermare la loro fede nella verità, affinché ti lodiamo e ti glorifichiamo per Gesù Cristo tuo figlio, per il quale gloria e onore a te con lo Spirito Santo nella tua santa Chiesa ora e nei secoli dei secoli. Amen•. Sotto il titolo di Il credo di Nicea viene proposta un'opera di Atanasio (295-373), vescovo di Alessandria d'Egitto, riguardante le decisioni prese al primo Concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato nel 325 a Nicea dall'imperatore Costantino. In questo Concilio, dove Atanasio aveva svolto un ruolo da protagonista, era stata condannata l'eresia di Ario - presbitero della Chiesa di Alessandria - e dei suoi seguaci. Lo scritto in questione (De decretis Nicaenae synodi) - un trattato in forma 7
di lettera a un destinatario fittizio o semplicemente ignoto (forse Apollinare, poi vescovo di Laodicea), composto probabilmente da Atanasio nel 350-351 o poco prima - era nato per aumentare il fuoco di fila contro le tesi ariane, già ampiamente diffuse. Il cuore della controversia verteva su due punti del Simbolo niceno, negati da Ario, riguardanti il Figlio di Dio, generato "dalla sostanza" del Padre e "consostanziale" al Padre. Questo concetto, espresso tra l'altro per la prima volta nel testo ufficiale e normativo di un concilio con parole tratte, non dalla Scrittura, bensì dalla filosofia greca, aveva rappresentato un fortissimo trauma nella Chiesa antica. La crisi messa in moto da questa disputa sulla presunta paganizzazione ed ellenizzazione del linguaggio della fede si era avuta dopo la morte di Costantino (337) e aveva dato forza alle tesi sostenute da Ario circa la sostanza dissimile del Figlio e dello Spirito rispetto al Padre, l'unico Dio ingenerato ed eterno, da cui essi sono stati "generati" e al quale sono subordinati. Gesù sarebbe quindi, secondo Ario, una sorta di Dio "minore", estraneo e diverso dal Padre secondo la sostanza, impropriamente definito anche Logos e Sapienza del Padre, in quanto venuto all'esistenza, come tutte le altre creature, mediante il Logos proprio di Dio e la Sapienza che è in Dio. Perciò il Figlio non sarebbe in alcun modo assimilabile al Padre. Contro queste ed altre affermazioni di Ario si oppone vigorosamente Atanasio, che non esita a bollare come "demoniaca" la sua dottrina e a schierarsi dalla parte della definizione data dal Concilio di Nicea circa la natura del Figlio di Dio. Il testo ci riporta dunque a quel tempo così dogmaticamente inquieto e perciò profondamente lacerato, che farà paragonare la situazione della Chiesa a un combattimento navale sotto la tempesta e in piena notte, dove chi combatte non sa più neppure distinguere 8
il suo alleato dal suo nemico (Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo, xxx, 76-77). Leggere il Credo di Nicea significa calarsi in questa temperie dottrinale e andare ancora una volta alle origini della fede e della tradizione della Chiesa. GIUIJANO VIGINI
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Introduzione
LA
SCOPERTA DELLA TRADIZIONE APOSTOLICA
La Tradizione apostolica occupa un posto importante tra i documenti che descrivono le istituzioni, la vita della Chiesa antica e la sua liturgia. È senza dubbio il modello più antico di preghiere comunitarie guidate da un presidente ed ha esercitato un influsso notevole nella Chiesa antica, in particolare sulla formazione delle collezioni canoniche. La. sua preghiera eucaristica è stata· adottata dalla liturgia etiopica sotto il nome di Anafora del nostro Signore Gesù Cristo e sotto il nome di Anafora di nostra Signora Maria, Madre di Dio, che compose Abba Giorgio, e dalla liturgia siriaca col nome di Testamento del Signore nostro Gesù Cristo. Ha esercitato un influsso considerevole su tutta la famiglia delle liturgie antiochene tramite l'anafora di Basilio e quella del libro VIII delle Costituzioni apostoliche. Dopo avervi apportato modifiche e ritocchi, che consistono nell'inserimento de{Sanctus, del Post-Sanctus epicletico-pneumatologico e delle intercessioni, la Chiesa latina l'ha inserita come seconda preghiera eucaristica nel Messale Romano. La. preghiera dell'ordinazione episcopale, sempre utilizzata sotto forme derivate nei Patriarcati d'Antiochia e d'Alessandria, dal 1968 è entrata nel Pontificale romano come formula consacratoria dei vescovi di rito latino. Fino all'inizio di questo secolo si conosceva solo 11
l'esistenza della Tradizione apostolica grazie al titolo scolpito sul trono della statua detta di sant'lppolito, attualmente all'ingresso della Biblioteca Apostolica Vaticana. Era convinzione comune che il testo fosse irrimediabilmente perduto. Tuttavia E. Schwartz e R.H. Connolly con le loro ricerche hanno individuato e identificato l'opera nella Costituzione della Chiesa egiziana, conservata nel Sinodos della Chiesa d'Alessandria1; Hauler ne ha trovato una parte in un manoscritto latino della Biblioteca capitolare di Verona 2• Ulteriori ricerche hanno messo in luce l'influsso della Tradizione apostolica negli adattamenti dei Canoni di Ippolito egiziani, nelle Costituzioni apostoliche siriache, nel Testamento del Signore, ugualmente siriaco, e nellEpitomé delle Costituzioni apostoliche; influssi si rilevano ancora negli Statuta Ecclesiae antiqua della Gallia meridionale. Il manoscritto latino di Verona è un palinsesto, che si ritiene scritto tra il 486 e il 494, ma la versione latina dei tre testi, dei quali è composto, è datata tra il 3 75 e il 400. I Canoni di Ippolito sono da collocare tra il 336 e il 340. Ciò vorrebbe dire che tra questi e la Tradizione apostolica corre un lasso di tempo di circa centoventi anni. Sia che si ritenga autore della Tradizione apostolica Ippolito o un qualunque altro scrittore, la sua stesura andrebbe fissata tra il 218 e il 220. 1
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Il Stnodos è una collezione canonica del Patriarcato di Alessandria formato da tre raccolte giustapposte: i Canoni degli Apostoli (Costituzioni della Chiesa apostolica); La Tradizione apostolica (Costituzione della Chiesa egiziana); il libro VIII delle Costituzioni apostoliche. Il Sinodos non ha conservato l'originale greco, ma quattro versioni: sahidica, bohairica, araba ed etiopica, che non sono tra loro indipendenti. Le versioni bohairica e araba derivano dalla versione sahidica e quella etiopica è stata tradotta sulla versione araba. Come ben si vede le tre versioni: bohairica, araba ed etiopica si riportano alla versione sahidica primitiva e questa a sua volta a un unico manoscritto greco. Il manoscritto di Verona contiene le Sentenze d'Isidoro di Siviglia in scrittura beneventana dell'VIII secolo. Sui novantanove fogli, che lo compongono, quarantuno provengono da un manoscritto più antico.
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ORGANIZZAZIONE GENERALE E TEMATICHE DELLA T'RAD!ZIONE APOSI'OUCA
La Tradizione apostolica è composta da 43 capitoli o paragrafi comprendenti un Prologo e una Conclusione. Al Prologo è dato il numero 1 e alla Conclusione il numero 43. La titolazione dei capitoli è recente e mira ad attirare l'attenzione del lettore sui contenuti del testo che segue. Il documento ba le caratteristiche di una raccolta di regolamenti diversamente formulati. Tali caratteristiche si riscontrano nella letteratura istituzionale antica e meno antica destinata, per forza di cose, a essere integrata nelle collezioni canonico-liturgiche e rimaneggiata nel corso della trasmissione. Seguendo la distribuzione del materiale e tenendo conto, con un po' di riserbo, dei titoli, daremo una breve sintesi dei contenuti, riseroandoci un approfondimento nella trattaziome dottrinale. Il Prologo e la Conclusione sono velatamente polemici e contengono spunti interessanti. Si nota un 'allusione, per la verità non molto coperta, ad una situazione, perlomeno ambigua, all'interno della comunità destinataria della Tradizione apostolica. Nella seconda metà del Prologo, infatti, è fatto cenno a un gruppo di persone bene istruite e fedeli alla tradizione viva e attuale; persone che devono essere confermate nei loro intendimenti. A questo gruppo se ne contrappone un altro, il quale, per apostasia o per errori prodotti di recente e da mettere sul conto dell'insipienza, ba assunto un atteggiamento diverso. Alla fine del Prologo è auspicato che lo Spirito Santo conceda ai responsabili della Chiesa quella pienezza di grazia che si manifesta nelle modalità dell'insegnamento e nella fedele conservazione della tradizione. Nella Conclusione dell'opera riaffiora il concetto che l'accoglimento della tradizione apostolica sbarra la via all'azione 13
deviante degli eretici; la deliberata noncuranza della dottrina degli Apostoli ha lasciato libero il campo agli insegnamenti di quanti si sono comportati secondo il loro istinto. Nel numero 6 del Proemio della Confutazione di tutte le eresie (Philosophoumena), l'autore si proclama vescovo, ovviamente nell'ambito della sua comunità, e afferma di avere /'autorità di scomunicare i membri della Chiesa. Ma è dal libro IX, cc. 7.11.12, che si apprende quanto fosse personalmente coinvolto nella lotta contro il modalismo trinitario in Roma al tempo di Zefirino (198-217) e di Callisto (217-222) e quanto avversasse le riforme innovative di Callisto. La Chiesa di Zefirino e di Callisto è frequentemente definita -scuola ereticale di pensiero•, che si oppone alla ·chiesa ortodossa, che l'autore dice di rappresentare. All'accusa di eresia aggiunge quella di essere moralmente corrotti: Zefirino è detto avaro, incettatore di regali e avido di danaro; di Callisto scrive che è maliziosamente astuto, proclive all'eresia, imbroglione ed empio. I riferimenti della Confutazione, composta probabilmente durante l'episcopato di Callisto, non si possono presentare con disinvoltura quale certa esplicitazione delle accuse rivolte a Zefirino e a Callisto, che si vorrebbero leggere tra le righe del Prologo e della Conclusione della Tradizione apostolica. Tuttavia non va sottaciuto che nei due documenti è ribadita l'idea che nella Chiesa nessuno può convincere di errore se non lo Spirito Santo, che gli Apostoli hanno ricevuto dal Signore e trasmesso ai credenti. Nella Tradizione apostolica non è riservato ai vescovi un ruolo determinante e attivo nella difesa dell'ortodossia; fugaci sono gli accenni alla successione apostolica come garanzia dell'attendibilità della tradizione e al potere di sciogliere ogni legame. Il loro compito è descritto piuttosto nella dimensione amministrativa anziché dottrinale. Questa omissio14
ne probabilmente è intenzionale nella Confutazione, dato l'attrito tra l'autore da una parte e Zefirino e Callisto dall'altra, ai quali non riconosce la legittimità del loro ministero. Ad ogni modo nel Prologo e nella Conclusione della Tradizione apostolica sono contestati i comportamenti teorico-pratici di alcuni che godono di autorità. Non va però dimenticato che nella preghiera della consacrazione del vescovo, che l'autore ha trasmesso e fissato seguendo probabilmente un formulario precedente (c. 3), sono presenti elementi che testimoniano l'esistenza di un episcopato -monarchico•, che garantisce dalla falsificazione della tradizione. Ciò appare più chiaramente se si pone mente all'in-ompere improvviso della preghiera della consacrazione presbiterale (c. 7) nel blocco delle ordinazioni. Non è fuori luogo ricordare che l'instaurazione dell'episcopato monarchico a Roma appare allafine del secondo secolo con Vittore. Si tratta di una instaurazione avvenuta per gradi durante gli ultimi decenni del secolo per concludersi con Vittore. L'autore della Confutazione (9, 11, 1), oltre a considerarsi vero e proprio vescovo della sua comunità, afferma che Callisto aspirava alla direzione della comunità romana e si adoperava per impadronirsene. La preghiera della consacrazione episcopale, come quella presbiterale, non lasciano trapelare alcuna polemica e contestazione nei confronti della gerarchia. Nel Prologo non è fatta esplicita menzione dei destinatari del documento, né dell'autore-redattore/redattori. Quivi si hanno due espressioni che consentirebbero di individuare i destinatari. Innanzitutto i •santi•, cioè i fedeli, che, bene educati nella fede, devono conservare la tradizione, e i •capi della Chiesa·. Nel corso dello scritto non ci sono ulteriori specificazioni, se non molto generiche, come nel 15
c. 21, dove si parla di fedeli •già istrniti•, nel c. 41, dove gli stessi sono invitati a istrnirsi a vicenda e a dare l'esempio ai catecumeni, e nell'ultimo comma del c. 43, ai quali è rivolto l'appellativo •carissimi•. L'ultimo comma del c. 1 suona: ·Lo Spirito Santo conceda la grazia perfetta a coloro che hanno una fede retta, affinché coloro che sono preposti alla Chiesa sappiano come debbono insegnare e conservare tutte queste cose•. Quantunque il testo non sia molto chiaro, si individua nei capi della Chiesa i destinatari delle istrnzioni che saranno date. Ma di questi capi non sono indicati le qualità e il molo; è lasciato intendere che possiedono e sono capaci di trasmettere la tradizione. Nel c. 21 è fatta una distinzione netta tra le istrnzioni trasmesse come preparazione al Battesimo e all'Eucarestia, che vengono dopo quelle sulla resurrezione, ed altre, e i chiarimenti da chiedere al vescovo. Il vescovo, quando si tratta di istrnzioni, non è mai interpellato con la seconda persona. Questi rilievi consentono di dire che i destinatari della Tradizione apostolica non sono espressamente indicati. Si presume siano, in primo luogo, i depositari della tradizione, che sono in condizione di trasmettere correttamente, e, in secondo luogo, la comunità cristiana. Se si analizza La Tradizione apostolica, ci si imbatte in tre grandi blocchi accostati, suscettibili di divisioni interne. Un primo blocco è costituito dat rituali delle istituzioni ecclesiali, che sono di carattere -sacramentale• e di carattere non •sacramentale· (cc. 2-14); un secondo blocco detta norme circa il catecumenato e il rituale del Battesimo (cc. 1521); il terzo blocco contiene regole che riguardano la comunità (cc. 22-43). Nel primo e nel secondo blocco si riscontra una certa logica nella distribuzione del materiale e una certa omogeneità, che però non devono essere sopra16
valutate. Dapprima appare la costituzione gerarchica della Chiesa in ordine decrescente: vescovo, sacerdote, diacono (cc. 2-8); segue quindi l'elenco di coloro che non fanno parte della gerarchia, ma all'interno della comunità cristiana occupano un posto speciale: confessori, vedove, vergini, suddiaconi, taumaturghi (cc. 9-14); infine appaiono i catecumeni e i riti d'iniziazione (cc. 15-21). Il terzo blocco non mostra un filo logico e riporta prescrizioni che riguardano aspetti diversi della vita della comunità: sinassi, pasti comunitari, digiuni, ore della preghiera, doveri dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi e altro. Nei capitoli concernenti il vescovo, l'autore ha trasmesso non soltanto le modalità della sua elezione, ma anche la preghiera di consacrazione e l'anafora eucaristica, che segue la consacrazione, ed ha indicato le offerte che venivano fatte (cc. 2-6). Nei capitoli sui presbiteri e sui diaconi è riportata una preghiera di consacrazione, nella quale sono indicate le rispettive funzioni (cc. 7-8). I capitoli 2-8 contengono una prima chiara distinzione all'interno della comunità cristiana: per coloro che sono stati scelti, tra i membri della comunità, per prestare un servizio con specifica referenza agli atti di culto, vescovi, sacerdoti e diaconi, è prescritta l'imposizione delle mani e il vescovo recita una preghiera speciale per ciascuno di questi ~re gradi. L'imposizione delle mani e la preghiera sono presentate come costitutive del grado gerarchico. Invece nei capitoli 9-14 non si tratta più di imposizione delle mani, ma di istituzione che consiste o nel riconoscere uno stato di fatto (vergini, guaritori, cc. 12.14) o nel dare un titolo (vedove, c. 10) o nell'affidare un compito (lettore, suddiacono, cc. 11.13). Il confessore (c. 9) è un caso a parte: possiede l'onore del presbiterato grazie alla sua confessione della fede e non ha bisogno di ricevere l'imposizione delle mani, se è scelto come diacono o come 17
presbitero. Se invece il confessore, che accede agli ordini, è tale senza avere subito un procedimento giudiziario e la prigione, deve ricevere l'imposizione delle mani. L'autore distingue con cura l'ordinazione (rito costitutivo), che conferisce un potere e la capacità di compiere una funzione sacramentale, cioè un atto di culto ufficiale della Chiesa, e la istituzione o deputazione a un compito da svolgere a seroizio della comunità senza capacità cultuali e sacramentali. Nei capitoli concernenti i catecumeni e i riti d'iniziazione (cc. 15-21) si ravvisano delle norme rigorose e precise, come l'inchiesta sulla sincerità delle intenzioni, sulla condizione civile e sulle professioni esercitate dal candidato al catecumenato, delle quali viene indicata la compatibilità o l 'incompatibilità con la fede. L'inchiesta mira ad appurare la sincerità delle sue disposizioni e a verificare, già prima dell'iscrizione nella lista dei catecumeni, se le sue professioni civili, in base alle quali ha ordinato la vita, possono essere esercitate anche dopo la professione di fede cristiana. Si tratta di una scelta prndenziale della comunità cristiana a contatto quotidiano col mondo pagano e con la sempre incombente minaccia delle persecuzioni, fautrici di dolorose defezioni. Vi è presente anche la preoccupazione di distinguersi il più possibile dalle altre religioni, più disponibili all'accoglienza. La severità, che anima questi capitoli, potrebbe significare la riaffermazione di una linea tradizionale di accentuata prndenza e insieme essere una contestazione della moderazione e della lungimiranza iniziate con Zefirino e Callisto. Tale interpretazione, in linea teorica, non può essere esclusa, ma è difficile, se non impossibile, poterlo dimostrare a causa dell'esiguità delle prove. I cc. 15-21 sono parte integrante della sezione dedicata alle persone. 18
Dal c. 22 al c. 30 è inserita una serie di prescrizioni circa i vari momenti della vita cristiana, che si riannoda alla vita comunitaria: alla comunione, che il vescovo deve distribuire il sabato e la domenica3 (c. 22), al digiuno e alla sua frequenza per diverse categorie di persone (c. 23), ai doni ai malati che devono essere portati con sollecitudine (c. 24), all'introduzione della lucerna per il pasto serale della comunità, per la quale il vescovo innalza una preghiera di ringraziamento e sottolinea il significato simbolico della lucerna (c. 25), alla cena (c. 26), al significato della cena per i fedeli, cui non partecipano i catecumeni (c. 27), alla frugalità a tavola (c. 28), alla benedizione del cibo (c. 29), al pasto offerto alle vedove (c. 30). L'elenco mostra che le norme dettate riguardano principalmente il pasto comunitario; a queste sono aggiunte prescrizioni di vita pratica, come il portare doni alle vedove, l'invitarle a pranzo, l'esclusione del catecumeno dalla cena, il rito del lucernario. L'impostazione del pasto in comune ricalca per alcuni aspetti la cena rituale giudaica, della quale tuttavia non sono recepite le ragioni di fondo. Questa semplice elencazione dice quello che il ·legislatore· intendeva prescrivere, ma lo fa in maniera discontinua e frammentaria, toccando vari argomenti, ognuno a sé stante e senza un collegamento, fatta eccezione per le norme sul pasto in comune. Mettendo insieme le prescrizioni si evince che non riguardano l'anamnesi della cena del Signore, sia perché i •celebranti», diacono, presbitero, 3
Cfr. J.A. Jungmann, La ltturgie des premiers stècles, Paris 1962, pp. 3770. GJ. Cuming (Hippolytus: A Text for Students witb Introductlon, Translatton, Commentary and Notes [Grove Liturgica( Scudy, 8], Noningham 19792, p. 22) ha dimostrato l'esistenza di indizi della prassi dell'Eucarestia non solo alla domenica, ma anche al sabato già nel III secolo. Cfr. C.W. Dugmore, 1be Injluence of tbe Synagogue upon tbe Divine Office (Alcuin Club Collections, 55), London 1968, pp. 28-37.
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vescovo, recitano dei Salmi, che sono in sintonia con il rito, cioè salmi alleluiatici, sia perché nçm c'è alcuna allusione all'ultima cena. Nel c. 26 è fatta una netta distinzione tra pane comune, pane benedetto ed Eucarestia, •Che è il corpo del Signore». I cc. 31-42 sono una serie di norme di carattere pratico indirizzata al clero, diaconi, sacerdoti, vescovo, e di espressioni della pietà personale. Una lettura attenta permette di individuare l'affinità di alcune prescrizioni e di accorparle. I cc. 31 e 32 vertono sull'offerta delle primizie della terra: il c. 31 invita a offrire al vescovo le primizie dei frutti, sui quali pronuncia una benedizione; il c. 32 elenca quali prodotti possono essere offerti e quali no. Il c. 32 dovrebbe precedere il c. 31, dato che indica quali frutti e quali fiori possano o non possano essere presentati in offerta. Il c. 33 è doppiamente interessante: qui si ha la prima ed unica allusione alla Pasqua, che è ricordata in relazione al digiuno da osservarsi prima di ricevere la comunione, e non per il suo significato soteriologico, e alla Pentecoste, quando sollecita coloro che non hanno digiunato nel periodo pasquale, a farlo in occasione di questa solennità, che prolunga il gaudio pasquale. L'altro punto d'interesse riguarda la donna incinta e ammalata, alla quale è concesso, per la -necessità•, cioè per le difficoltà della gravidanza, di digiunare il sabato. I cc. 36.37.38 trattano dell'Eucarestia da riceversi con fede prima di qualunque altro cibo (c. 36). L'Eucarestia, riservata esclusivamente ai fedeli perché corpo e sangue di Cristo, deve essere custodita gelosamente per non divenire oggetto di disprezzo (cc. 37.38). Un problema a parte creano i due cc. 35 e 41 sui tempi della preghiera. Il c. 41 riprende e sviluppa il 20
contenuto del c. 35 e vi aggiunge delle prescrizioni minuziose, che lo differenziano notevolmente dal primo; il c. 42 sul segno della croce può essere letto come la prosecuzione del c. 41. Dom Botte ritiene che ci si trovi di fronte a due redazioni differenti: il c. 41 rappresenterebbe la redazione definitiva. Affaccia quindi l'ipotesi che il redattore della collezione tripartita si sia trovato davanti a due edizioni che presentavano delle varianti di rilievo, che non ha voluto sacrificare. Così si spiegherebbe anche il disordine dei cc. da 35 a 42. L'autore si sarebbe fermato al c. 35 nella prima edizione, che avrebbe poi completato con aggiunte. Avrebbe pertanto riscritto il c. 41 sulla preghiera completandolo col c. 42 sull'efficacia del segno della croce. Ma è anche possibile che il c. 41 avesse una esistenza separata, come il c. 21 sull'iniziazione cristiana. È opinione comune che sia difficile, se non impossibile, ricostruire la prima edizione giovandosi di testimoni secondari. L'attuale disordine dei cc. 3542 può essere dovuto a un maldestro intervento di un redattore posteriore, anziché a un disattento rifacimento dell'autore. Sorprende la connessione stabilita nel c. 41 tra la preghiera del mattino e l'invito ad andare al lavoro cui segue l'esortazione a frequentare la catechesi. Tale connessione è indice del fatto che il c. 41 accoglie in modo disordinato istruzioni che non sono state coordinate. Tuttavia considerare i cc. da 35 a 42 non autentici, in particolare il c. 41, non sembra sostenuto da argomenti decisivi. Il profilo della giornata liturgica del cristiano è delineato nel c. 41, cui si può aggiungere anche il c. 42 per la precisione delle indicazioni che offre sull'efficacia del segno di croce. Il c. 41 scandisce le ore della giornata dal momento del risveglio del mattino fino al canto del gallo. La menzione del canto del 21
gallo è un riferimento a Pietro (cfr. Mc 14,68-72), ma nelle intenzioni dell'autore è l'ultimo anello di quella catena di preghiere distribuite nel corso della giornata, che si annoda al giorno seguente. LE FONTI UTILIZZATE PER IA RICOSTRUZIONE DELIA T'RAIJJZJONE APOSTOJJCA
Si è già accennato quale sia la documentazione, sulla quale contare per il ripristino della Tradizione apostolica. Ora cerchiamo di presentare brevemente la tipologia delle versioni e delle rielaborazioni. LE VERSIONI
1. La versione latina
=
L
Il ms., nel quale è contenuta la versione latina della Tradizione apostolica, contiene anche le Sentenze di Isidoro di Siviglia in scrittura beneventana del secolo VIII. Quarantuno dei novantanove fogli, dei quali è composto, appartengono a un ms. più arcaico, che è stato raschiato per fare posto alle Sentenze di Isidoro. E. Hauler ha letto il palinsesto e ha trascritto con molta cura i testi raschiati sotto il titolo Didascaliae apostolorum fragmenta Veronensia Latina. Accedunt Canonum qui dicuntur Apostolorum et Aegyptiorum reliquiae, Leipzig 1900. Dom Botte, che ha avuto modo di controllare ad occhio nudo e di leggere il palinsesto dopo l'intervento di Hauler, ritiene la lettura di Hauler con-etta e attendibile. La Tradizione apostolica, nella versione latina, occupava tredici fogli, dei quali sei sono perduti. Ogni riga del ms. comprende dalle trenta alle trentacinque lettere, e ogni pagina comprende trentacinque righe. La scrittura è la semi-unciale databile alla fine del quinto secolo. Questa datazione 22
trova conferma nel primo foglio che contiene i Fasti consularesfino all'anno 486 in scrittura unciale; la, lista è stata poi completata in scrittura semi-unciale fino all'anno 494. Perlanto la data di copiatura dovrebbe aggirarsi attorno all'anno 494. Quanto ai testi biblici, il traduttore segue una versione latina più arcaica di quella, che servì a Girolamo per la sua revisione. La. versione latina dovrebbe quindi essere stata fatta con molta probabilità verso la fine del quarlo secolo. La Tradizione apostolica non è isolata, ma è incorporata in una collezione triparlita formata dalla Didascalia degli Apostoli, dai Canoni degli Apostoli, detti anche Costituzione della Chiesa apostolica, e dalla Tradizione apostolica, detta Costituzione della Chiesa egiziana. Un tale raggntppamento si incontra altrove e non deve essere stato fatto né dal copista del manoscritto né dal traduttore latino, ma prima ancora. Una nuova edizione della Tradizione apostolica e degli altri documenti della, collezione triparlita è stata pubblicata da E. Tidner, Didascaliae Apostolorum, Canonum ecclesiasticorum, Traditionis apostolicae Versiones latinae (1V 75), Ber/in 1963, pp. XXVI, 183. Si tratta di una edizione molto accurata con un apparato critico solido, che consente d'avere sott'occhio non solo le varianti, ma anche le citazioni sparse in altri documenti. Cinque appendici concorrono a impreziosire l'edizione. La lettura di Tidner diverge da quella di Dom Botte in alcuni dettagli. Il Palinsesto di Verona è lacunoso e manca dei capitoli sui confessori (c. 9), sulle vedove (c. 10), sul lettore (c. 11), sulla vergine (c. 12), sul suddiacono (c. 13), sul dono delle guarigioni (c. 14), su coloro che si accostano per la prima. volta alla fede (c. 15), sui mestieri e le professioni (c. 16), sulla durata dell'istruzione dopo la verifica dei mestieri e delle professioni (c. 17), sulla preghiera di coloro 23
che ricevono l'istrnzione (c. 18), sull'imposizione delle mani sui catecumeni (c. 19), su coloro che riceveranno il Battesimo (c. 20), sulla comunione (c. 22), sul digiuno (c. 23), sui doni ai malati (c. 24), sull'introduzione della lucerna (c. 25), sui diaconi e i presbiteri (c. 39), sui luoghi della sepoltura (c. 40). Queste lacune sono colmate ricorrendo alle versioni della Tradizione apostolica, delle quali tratteremo a suo luogo. 2. Il Sinodos alessandrino
Il Sinodos della Chiesa d'Alessandria è una raccolta di tre documenti accostati: i Canoni degli Apostoli (Costituzione della Chiesa apostolica), presente anche nel Palinsesto di Verona; La Tradizione apostolica (Costituzione della Chiesa egiziana); il libro VIII delle Costituzioni apostoliche, senza le formule eucologiche. Perduto il testo originale greco, il Sinodos è stato trasmesso da quattro traduzioni, tra loro dipendenti, guidate dalla traduzione sahidica fatta verso l'anno 500, dalla quale derivano le traduzioni araba e bohairica, quest'ultima del 1804; la traduzione etiopica è stata fatta sulla traduzione araba. I.e tre versioni, araba, etiopica e bohairica, dato lo stato precario della tradizione manoscritta della versione sahidica, possono favorire un avvicinamento alla forma più arcaica del testo, passando per la versione sahidica. La Tradizione apostolica nel Sinodos e nel Palinsesto di Verona è accostata ai Canoni degli Apostoli; nel Palinsesto è separata dal trattato Sui carismi ed è posta accanto ad una raccolta di tutt'altra origine. Ciò può significare che la versione latina e ti Sinodos hanno un archetipo comune.
24
Rilievi sulle versioni del Sinodos a) Versione sahidica = S (Sl, S2). Il ms. principe della versione sahidica è quello del British Museum or. 1820 datato al 1006, che fu pubblicato integralmente da P. Legarde, Aegyptiaca, Gottingen 1883. Nel 1954 una nuova edizione fu curata da W. Till - J Leipoldt, sotto il titolo Der koptische Text der Kirchenordnung Hippolyts, (TU 58), Ber/in 1954, che in pratica ripropone, con qualche lieve modifica, quella del Legarde. Il ms. British Museum or. 440 e un manoscritto del Patriarcato d'Alessandria sono copie del ms. 1820. Interessanti i pochi frammenti contenuti nel ms. British Museum 3580. La. versione sabidica copre e completa la versione veronese, fatta eccezione per le preghiere dell'ordinazione e per l'anafora che sono omesse. b) Versione araba = A. La. versione risale a prima dell'anno 1295; fu/atta su un manoscritto completo e non ha le lacune dei manoscritti sahidici. Pubblicata una prima volta sul ms. Vaticanus ar. 149, da G. Horner, The Statutes of the Apostles or Canones Ecclesiastici, London 1904, pp. 89-125, nel 1912 J e A. Périer ne fecero una edizione critica che intitolarono Les 127 Canons des Apotres, (PO 8,39,4), Turnhout 1971. c) Versione etiopica = E (El, E2). Questa versione è fatta risalire al tredicesimo secolo. È stata pubblicata integralmente sulla base del British Museum or. 793 da G. Horner, The Statutes of the Apostles or Canones Ecclesiastici, London 1904, pp.1-87, insieme con la versione araba. Un 'edizione critica, basata su un numero maggiore di manoscritti di quanti ha potuto consultare Horner, è dovuta a H. Dunsing, Der aethiopische Text der Kirchenordnung des Hippolyt (Abhandlungen der Akademie der Wissen25
scbaft in Gottingen Pbil. bist. Klas., 3 Folge 32), Gottingen 1946. Presenta più varianti di quante ne ba segnalate Dix. Questa versione, fatta su quella araba, è il testimone più completo. Ha conservato non solo le preghiere omesse nel sabidico e nell'arabo, ma anche alcuni capitoli dei quali non restavano che frammenti nei restanti testimoni. Contiene delle interpolazioni, in particolare una collezione di preghiere battesimali inserite tra il capitolo 30 e il 31. L'anafora per la consacrazione del vescovo è stata recepita nel rito etiopico sotto il nome di Anafora degli Apostoli. d) Versione bohairica = B. Dal colofone del ma- , noscritto di Berlino (or. quart. 519 [9488] ora nella Bibliolteca Universitaria di TUbingen) si apprende che questa versione è del 1804 ed è opera di un certo Giorgio, figlio di Kosma. È una traduzione recente fatta dal dialetto meridionale, il sabidico, in quello settentrionale, ti bohairico. È opinione diffusa che l'arabo fosse la lingua madre del traduttore. Tuttavia la versione è ritenuta un testimone valido della tradizione sahidica, come la collezione canonica araba proveniente ugualmente dal sahidico. Dom Botte è piuttosto diffidente nei suoi confronti e se ne valse solo per colmare la lacuna della versione sahidica nel capitolo del Battesimo. L'edizione è stata curata da H. Tattam, The Apostolical Constitutions or Canons of the Apostles in Coptic with an English Translation, London 1948. LE RIEIABORAZJONI 1. I Canoni di Ippolito = K
Questa collezione di 38 Canoni, che va sotto il nome di Canoni di Ippolito, con molta probabilità è la più antica rielaborazione della Tradizione apo26
stolica ed è stata composta in lingua greca, presumi-
bilmente ad Alessandria d'Egitto, tra il 336 e il 340. Questa datazione è di grande interesse perché porterebbe a collocare la collezione prima della versione latina della Tradizione apostolica e prima della compilazione delle Costituzioni apostoliche. Il compilatore sembra essere stato un chierico di probabile origine giudaica, come risulta da alcune riprese di forme anticotestamentarie. L'attribuzione ad Ippolito è chiaramente una finzione letteraria, che ha la sua ragion d'essere nel fatto che il redattore st è ispirato alla Tradizione apostolica, che tratta con molta libertà alterando senza scrupoli la fonte cui si ispira. Per fare un esempio: le prescrizioni sui cimiteri, c. 40, diventano nel canone 24 norme che riguardano gli ammalati, che dormono nelle chiese sperando in un miracolo; gli embrici che chiudono i loculi nelle catacombe sono trasformati in vasi di terracotta accidentalmente rotti da coloro che prestano servizio agli ammalati; i custodi dei cimiteri diventano sacrestani. La collezione è importante come testimonianza della presenza di questo e di altri passi nel ms. della Tradizione apostolica usato dal redattore, ma non come prova di una variante. Perduto l'originale greco, è sopravvissuta in traduzione araba, che è stata pubblicata da D. B. de Haneberg, Canones S. Hippolyti Arabice e codicibus Romanis, Monaco 1870. Nel 1966 R.G. Coquin ne ha curato una edizione critica dal titolo Les Canons d'Hippolyte (PO 31, 2), Paris 1966. 2. Le Costituzioni apostoliche
=C
Queste sono una compilazione in lingua greca di numerosi documenti, divisa in otto libri. I libri I-W conseroano un rimaneggiamento della 27
Didascalia degli Apostoli presente sia nel Palinsesto di Verona che nel Sinodos d'Alessandria; Il libro VII è una rielaborazione della Didaché e di altre fonti liturgiche; Il libro VIII contiene un trattato Sui carismi, un rimaneggiamento della Tradizione apostolica e degli 85 Canoni. L'opera completa è stata pubblicata per la prima volta da F. Turrianus, Constitutiones sanctorum Apostolorum, doctrina catholica a Clemente Romano episcopo et cive scripta libri octo, Venetiis 1563; 2ed. 1578. Sono seguite altre edizioni, tra le quali sono da segnalare quella di F.X. Punk, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, voli. I-II, Paderborn 1905; rist. anast. Torino 1964; E. Tidner, Didascaliae Apostolorum, Canonum Ecclesiasticorum Traditionis apostolicae Versiones latinae, (TU 75), Ber/in 1963; M. Metzger, Les Constitutions apostoliques, (SCh 320329336), Paris 1985, 1986, 1987. In questa compilazione sono accostate la Didascalia e La Tradizione apostolica. Mancano i Canoni degli Apostoli, ma è presente la Didaché, della quale una parte importante è ripresa nei Canoni degli Apostoli. Il libro VIII contiene il trattato Sui carismi, al quale accenna il Prologo della Tradizione apostolica. L'accenno al trattato Sui carismi crea un problema che non è stato ancora risolto. Dom Botte affaccia l'ipotesi che i primi due capitoli delle Costituzioni apostoliche non abbiano alcuna relazione col trattato Sui carismi inciso nel trono della cosiddetta statua di Ippolito. L'autore, in luogo di questo trattato, ne ha trovato uno Sui segni che ha configurato come trattato Sui carismi con alcune interpolazioni. Per rendere credibile la sua operazione ha sostituito la frase ·ripresentare a se stesso quell'immagine che aveva deviato• con "e come Dio denuncia la condotta di coloro che osano proferire menzogne o che sono spinti a parlare da uno spiri28
to straniero e come Dio si è servito sovente di malvagi per profetizzare e per compiere miracoli•. ]. Magne ha ripreso un 'ipotesi di Punk secondo la quale la fonte dei primi due capitoli del libro VIII delle Costituzioni apostoliche è lo scritto di Ippolito intitolato La Tradizione apostolica sui carismi. Sul trono della statua non si hanno due opere distinte, una sulla Tradizione apostolica e una Sui carismi, ma una sola opera dal titolo Tradizione apostolica sui carismi. Una cosa appare certa: il redattore delle Costituzioni apostoliche ha trovato La Tradizione incorporata nella collezione. Il manoscritto, del quale si è servito, risale al medesimo archetipo dal quale dipendono il Palinsesto di Verona e il Sinodos alessandrino. Le Costituzioni apostoliche vengono datate tra la fine del quarto secolo e l'inizio del quinto, ma con una preferenza verso l'anno 380; come luogo di composizione si pensa alla Siria. 3. L'Epitomé delle Costituzioni apostoliche VIII = Ep
L Epitomé è una collezione di testi che comprende la Didascalia dei santi Apostoli sui carismi e corrisponde a Costituzioni apostoliche, VIII, 1-2; /'Ordinamento dei santi Apostoli sull'imposizione delle mani di Ippolito corrisponde a Costituzioni apostoliche, VIII, 4-5, 16-28, 30-31; le Ordinanze dell'Apostolo Paolo sui canoni ecclesiastici corrispondono a Costituzioni apostoliche, VIII, 32; le Ordinanze dei santi Apostoli Pietro e Paolo: corrispondono a Costituzioni apostoliche, VIII, 33-34; 42-45; la Didascalia di tutti i santi Apostoli sul buon ordine corrisponde a Costituzioni apostoliche, VIII, 46. Il documento ha delle peculiarità che si riscontrano nel Palinsesto di Verona e nel Sinodos. Nella consacrazione del vescovo la preghiera è più breve e 29
certamente autentica, come si ha nel Palinsesto di Verona e nel Sinodos; nel conferimento del lettorato prevede la sola consegna del libro. Peculiarità si hanno nelle regole concernenti il concubinato degli schiavi; significativa è la citazione del nome di Ippolito nel titolo della seconda sezione, quella che coincide con l'inizio della Tradizione apostolica. La ragione della citazione di Ippolito è da collegare al manoscritto dell'epitomatore che aveva nel titolo il nome di Ippolito. Secondo G. Dix queste particolarità sono importanti e indicano che l'Epitomatore conosceva il testo originale della Tradizione apostolica, che era stato ampliato, almeno nei passi controllati, dall'autore delle Costituzioni apostoliche. La probabile data di composizione. dell'opera è l'inizio del quinto secolo e dovrebbe essere stata realizzata in Siria.
4. Il Testamento del Signore nostro Gesù Cristo
=
T
D Testamento del Signore nostro Gesù Cristo forma i primi due libri dell'Ottateuco clementina. È un codice canonico liturgico che pretende di essere dettato dal Signore ai suoi Apostoli e comprende 74 capitoli, dei quali i primi 19 formano la parte apocalittica, gli altri 55 sono una serie di prescrizioni apparentate per il loro tenore, per il loro ordine e per il testo stesso agli ordinamenti delle Chiese contenuti nelle Recognitiones. Il titolo di Testamento del Signore nostro Gesù Cristo è dovuto a un apocrifo che riporta un discorso fatto da Gesù risorto ai suoi discepoli. Il documento a volte segue molto da vicino La Tradizione apostolica. Composto ad Antiochia verso l'inizio del quinto secolo, venne tradotto dal greco in siriaco nell'anno 669 da Giacomo di Eciessa. Data l'esistenza dei 38 Canoni di Ippolito, che sono all'origine delle rielaborazioni della Tra30
dizione apostolica, è lecito domandarsi se il redattore ha conosciuto La Tradizione apostolica in una
forma indipendente oppure incorporata a qualche collezione. Poiché in altre collezioni La Tradizione apostolica è associata ai Canoni e il redattore glossa il testo dei Canoni, è probabile che l'abbia conosciuta sotto questa forma. Buona parte della Tradizione apostolica è stata incorporata nel Testamento. Solo un accurato esame potrebbe fare emergere il rapporto di dipendenza di un documento dall'altro e il grado di rielaborazione, poiché ci sono casi in cui riferisce fedelmente le parole della Tradizione apostolica, ma vi interpola parole e frasi di suo conio. Un caso è quello del •credo battesimale», dove si legge l'evidente interpolazione ·che viene dal Padre, che è eterno col Padre•, e la omissione della fede nella resurrezione della carne. Un altro caso si rileva nei riguardi del diacono, che, secondo La Tradizione apostolica c. 8, •non prende parte del consiglio di tutto il clero•; il Testamento corregge la norma dicendo che -il diacono fa parte del consiglio di tutto il clero•. La, correzione suppone la conoscenza della norma della Tradizione apostolica. Nelle istruzioni sull'elezione del vescovo ha uno sviluppo molto lungo, come non si ha nelle corrispondenti norme della Tradizione apostolica. Dix ritiene che la combinazione della versione latina e del Testamento contro le versioni araba, etiopica e sahidica sia significativa e quando l'accordo con La Tradizione apostolica è continuo, rappresenta un testo da non sottovalutare. FRAMMEN11 GRECI SCOPERTI RECENTEMENTE
M. Richard ha scoperto in un florilegio di citazioni patristiche due manoscritti, cod. Ochrid. 86 (sec. Xl/I) f 192 del Museo nazionale di Ochrid, e Paris. gr. 900 (sec. XV) f 112 del Museo nazionale di Parigi. Questi nuovi frammenti conservano l'originale 31
greco della Tradizione apostolica, c. 36, e sono sostanzialmente concordanti tra loro. Non va trascurato che ai quindici frammenti di Ochrid. 86 è premesso il titolo Diataxeis (Ordinanze) dei santi Apostoli. Un altro frammento greco fu scoperto da A. Dmitrievski in un rituale dell'unzione degli infermi, risalente all'undicesimo/dodicesimo secolo, nel monastero di santa Caterina al Sinai. Pubblicato da A. Trebelas col titolo Mikron euchologion, Atene 19505, i, p. 180, attirò l'attenzione di E. Segelberg per il fatto di essere un evidente adattamento della preghiera di consacrazione dell'olio contenuta nella Tradizione apostolica, c. 5. Le versioni e le rielaborazioni della Tradizione apostolica attestano l'interesse suscitato da questo documento antico dai molteplici aspetti. La ricostruzione dell'originale greco è difficile se non impossibile. La fatica di Hauler, di Dix, di Botte e di Tidner, che hanno preso come punto-base il Palinsesto di Verona, ha consentito di giungere ad una approssimazione ragionevole. Si può legittimamente sperare che nuove scoperte permettano ulteriori progressi.
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LA
TRADIZIONE APOSTOLICA
E I SUOI RIMANEGGIAMENTI
La Tradizione apostolica
(Roma - 218) I 38 Canoni d'Ippolito (Egitto - 336/340)
Le Costituzioni apostoliche; L. VIII, 3-46 (Siria-Palestina - 380)
Epitomé (Costituzione per Ippolito) (Siria - inizio V sec.)
Testamento del Signore (Siria - metà V sec.).
cc. 48_71 _ _ Sinod~ alessandrino (Egitto - V sec.)
33
cc. 21-47
LA
'TRADIZIONE APOSTOUCA E LE SUE VERSIONI*
(La Tradizione apostolica = originale greco perduto)
Sinodo Alessandrino
Frammenti di Verona Latino (ed. Hauler) 375/400 (466/494)
Sahidica VIII
(1006)
Araba X (XIII-XVII))
Etiopica XIII
(1440)
Bohairica 1804 • I documenti tra parentesi sono perduti. La prima data (o secolo) indica il periodo di traduzione; la seconda è quella del manoscritto più antico in nostro possesso. Per i due grafici, cfr. Faivre A., op. cit., p. 42.
34
I LA
CONTENUTI DOTIRINALI NOZIONE DI TRADIZIONE
La nozione di tradizione sostenuta dall'autore non si allinea con quella di altri autori vissuti nel periodo di tempo nel quale il nostro testo fu composto e tradotto in latino o rielaborato in successive collezioni. Queste infatti producono una nozione di tradizione che, a volte, ha dell'immaginario e in ogni caso rivelano una mentalità da •costituzionalisti•. Quanto riguarda le istituzioni e la disciplina ecclesiastiche è riferito come una prescrizione dettata dagli Apostoli e tramandata per iscritto. Si tratta non solo di una "finzione letteraria'', ma anche di una ''finzione giuridica'', tendente a dare autorità alle prescrizioni di vario genere invocando uno specifico intervento degli Apostoli. Questo fenomeno si registra dal secolo terzo in poi fino al secolo quinto e si rivela come un tentativo di mettere ordine in quella che poteva essere definita, particolarmente in campo liturgico, creatività esagerata e/o improvvisazione. Le collezioni perseguivano lo scopo di dare un fondamento apostolico alle istituzioni che andavano via via consolidandosi. L'appello all'autorità degli Apostoli aveva il crisma della garanzia. La Tradizione apostolica è cronologicamente anteriore all'affermarsi di questa tendenza. Non invoca in suo favore decisioni singole o collettive degli Apostoli e si annoda, ma da un 'angolazione giuridica e quindi diversa, alla nozione di tradizione tipica della seconda metà del secolo secondo, per intenderci, del secolo di Ireneo di Lione, per il quale la tradizione degli Apostoli è un fatto teologico ed equivale alla trasmissione orale degli insegnamenti del Cristo e degli Apostoli stessi. Ireneo ribadisce a più riprese che il Cristo non ha scritto nulla e neppure gli Apostoli all'inizio e che la tradizione, che 35
viene dagli Apostoli, è conseroata nella Chiesa per mezzo della catena ininterrotta dei vescovi, loro successori. La continuità storica di questa tradizione è garantita dalla presenza dello Spirito Santo. Ireneo non conosce riunioni segrete degli Apostoli, che abbiano avuto per oggetto le istituzioni e la disciplina della Chiesa e dove sia stata studiata la strategia dell'apostolato, ma sottolinea il fatto della trasmissione orale vivificata e conseroata nell'unità dall'azione dello Spirito Santo presente nella Chiesa. L'autore della Tradizione apostolica suppone l'esistenza di una tradizione, sulla quale ha lavorato e i cui referenti sono gli Apostoli. Il riferimento agli Apostoli non avviene tramite testi scritti: essi infatti hanno rimesso un deposito che si trasmette oralmente, che deve essere ritrasmesso e conseroato. Su questo concetto, proposto all'inizio, ritorna afine lavoro. Con molta serenità e modestia propone i risultati della sua fatica personale ·affinché coloro che sono bene istruiti conservino la tradizione, che si è finora mantenuta, seguendo la nostra esposizione e, conoscendola, siano più sicuri di fronte a/-· /'apostasia o all'errore che si è prodotto di recente per ignoranza e da ignoranti•. E nuovamente a conclusione dello scritto: ·Do a tutti i saggi il consiglio di custodirle, poiché se tutti coloro che ascoltano la tradizione apostolica la seguono e la custodiscono, nessun eretico né altro uomo vi potrà indurre in errore... se abbiamo omesso qualcosa, Dio lo rivelerà a coloro che ne sono degni•. La Tradizione apostolica contiene principalmente norme istituzionali e pochi elementi dottrinali. L'assicurazione che il deposito delle verità, trasmesso dagli Apostoli, non è stato adulterato, è data dai vescovi, ai quali incombe l'obbligo di trasmetter/o e di conseroarlo, ma anche di sciogliere ogni legame. Per questo hanno ricevuto la grazia dello Spirito Santo nell'ordinazione. Verificare la successione epi36
scopale significa constatare il legame con gli Apostolt e avere la garanzia dell'autenticità della tradizione. I responsabili della trasmissione e della conseroazione del deposito, per due volte, sono definiti •coloro che sono degni• (c. 43; cfr. c. 4). Alla fine dell'ordinazione e prima di iniziare l'azione di grazie sulle oblate, il popolo presente dà al novello vescovo il bacio della pace e lo saluta dicendo: ·È diventato degno•. Ancora nel corso della stessa preghiera ricorre l'espressione ·ci bai fatti degni di stare alla tua presenza•. Nella Conclusione dello scritto riaffiora la medesima espressione. Il dubbio, che può sussistere, sull'identificazione di •coloro che sono degni· con i vescovi nella citazione finale, non ha ragion d'essere, una volta constatata l'acclamazione del popolo al novello vescovo. Sono pertanto i vescovi i responsabili della fedele trasmissione della tradizione apostolica, da intendere, questa, in senso piuttosto riduttivo e istituzionale. Sostenendo questa loro responsabilità, l'autore si ricollega, in un certo modo, ad analoghe idee esposte con dovizia di particolari da Ireneo di Lione. Ireneo e l'autore della Tradizione apostolica, pur appellandosi entrambi alla tradizione, l'accostano in modo diverso: per Ireneo si tratta di un complesso dottrinale, da non identificare con le Scritture, che gli Apostoli hanno ricevuto da Cristo ed banno trasmesso ai vescovi loro successori. Questa idea è illustrata con efficacia da un 'ipotesi che egli formula: ·Se gli Apostoli non ci avessero lasciato alcuna Scrittura, non sarebbe allora necessario seguire "l'ordine della tradizione" che essi hanno trasmesso a coloro ai quali affidavano le Chiese? Proprio a questo "ordine" hanno dato il loro consenso molti popoli barbari che hanno creduto in Cristo•. L'autore della Tradizione apostolica invece intende mettere per iscritto norme liturgiche ed etiche 37
consuetudinarie, "tràdite"flnora per via orale o per iscritto, ma con insufficiente chiarezza, non codificate o, perlomeno, non ancora fissate, creando qualcosa che rassomiglia a un canone convenzionale contenente insegnamenti e riti. Da buon "tradizionalista·: come affiora dal complesso della materia che ha ordinato, accoglie le precedenti prescrizioni e dà loro concretezza storica. L'immagine della comunità cristiana, che propone, potrebbe essere la risposta indiretta e discreta alle innovazioni, che non condivideva 4• LA COS1TIVZIONE DELLA
CHIESA
La Chiesa della Tradizione apostolica si presenta con due facce: con quella della costituzione gerarchica e con quella di comunità radunata nello Spirito Santo. Allo Spirito Santo è attribuito un ruolo determinante nei momenti forti, nei quali la Chiesa si costruisce come comunità, ossia nelle istituzioni sacramentali. La responsabilità della sua conduzione ricade in modo particolare sul vescovo e in maniera decrescente sui presbiteri e sui diaconi, che sono costituiti nelle loro funzioni con l'imposizione delle mani durante un atto liturgico, dopo essere stati eletti da tutta l'assemblea (cc. 2. 7.8). Per i ministri di rango inferiore, il lettore e il suddiacono, non è prevista l'imposizione delle mani (cc. 11.13). La loro istituzione avviene rispettivamente con la consegna del libro e con la nomina. Mentre per la scelta della verginità, basta la decisione della persona stessa, che intende mantenersi vergine (c. 12); per le vedove è prevista l'istituzione con una formu• Se, tra gli altri obiettivi, La Tradizione apostolica si propone di richiamare le forme tradizionali sia in liturgia che in etica di fronte alle innovazioni di Callisto, contro il quale l'autore si scaglia, la data di composizione dell'originale andrebbe fissata all'inizio del pontificato di Callisto (217-222) e il luogo di composizione sarebbe Roma.
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la, che non è riportata (c. 10). La/rase che la vedova è istituita perché preghi e che pregare è un dovere di tutti, non dice nulla in proposito. L'autore prende occasione dall'istituzione delle vedove per spiegare che il gesto del/ 'imposizione delle mani è un gesto riseroato a coloro che sono costituiti ministri in senso proprio ed è ordinato all'oblazione e al seroizio liturgico. Pertanto sul capo della vedova non si impongono le mani. Traducendo nei termini della teologia sacramentaria, il gesto di imporre le mani sul capo è segno del sacramento dell'ordine. Ancora molta importanza ha davanti alla comunità la figura del ·confessore· (c. 9), che è stato arrestato per il nome del Signore e ha subito un processo pubblico. Non ugualmente importante è il •confessore•, che ha subito delle vessazioni private da parte dei familiari o da altre persone. Il confessore, che ha reso testimoninza davanti all'autorità giudiziaria, gode di una condizione di privilegio e d'onore all'interno della comunità, che in effetti lo eguaglia a quella del presbitero. Questa motivazione non risolve la difficoltà insita nell 'a.ffermazione che il confessore possiede l'onore del sacerdozio tramite la sua confessione della fede. Probabilmente la risoluzione va cercata in altra direzione: l'autore usa la locuzione •imposizione delle mani• in senso tecnico, indicando cioè •ordinazione• presbiterale o diaconale. Se ciò corrisponde al testo e al contesto, la sua omissione non crea il fatto nuovo di una ordinazione senza l'imposizione delle mani. La norma concernente i confessori, che banno reso pubblica testimonianza alla fede cristiana, prescrive per motivi che sfuggono, ma che sono riscontrabili in altri scrittori, come Cipriano, che questi personaggi scomodi non vengano ammessi al ministero diaconale o sacerdotale5• A loro rimane ' Cipriano, Lettere, 38.39, comunica di avere iscrino tra i lenori i due gio-
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tuttavia aperta la strada all'episcopato, che vuol dire divenire responsabile in prima persona di una Chiesa e rendere conto delle proprie azioni principalmente alla comunità. Se ciò è vero, non vengono messi in discussione l'importanza e il significato dell'imposizione delle mani, ossia il dono dello Spirito Santo, nell'ordinazione presbiterale e diaconale, ma si riconosce effettivamente che meritano tutto l'onore e il rispetto dovuti al clero senza far parte del clero. Altra figura è quella del guaritore, che non riceve l'imposizione delle mani; la sua dichiarazione di possedere il carisma delle guarigioni viene verificato in concreto nei fatti. Non si vede infatti come possa essere conferito tale potere (c. 14). L'organizzazione generale della Chiesa, in forma gerarchica discendente, nella Tradizione apostolica si presenta così: vescovo ordinato con l'imposizione delle mani dei vescovi delle comunità vicine; presbiteri e diaconi ordinati dal vescovo della comunità che impone loro le mani; confessori; vedove e lettori istituiti; vergini; suddiacono nominato; guaritore confermato dalle effettive guarigioni. I diaconi e i presbiteri, con a capo il vescovo, formano il clero; confessori, vedove, vergini, suddiaconi e guaritori svolgono funzioni che non li separano dal popolo. Il clero riceve l'imposizione delle mani perché ha un ruolo strettamente cultuale nella liturgia; per le funzioni che non hanno un ruolo propriamente cultuale è sufficiente l'istituzione. vani confes.sori Aurelio e Celerino e si augura, quando saranno più avanti negli anni, di vederli sedere tra i presbiteri. Benché non sia loro riccr nosciuto alcun titolo presbiterale, tuttavia beneficiano di un certo numero di privilegi dei presbiteri. Nella lettera 40 comunica che un confesscr re anziano, Numidico, sarà iscritto direttamente tra i presbiteri di Cartagine. La lettera 22 ricorda il caso di Luciano, il quale, avvalendosi della sua qualità di confes.sore della fede, distribuiva indiscriminatamente biglietti di comunione ai ·lapsi· anche a nome di altri confes.sori, contravvenendo alle disposizioni del vescovo.
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La, Chiesa della Tradizione apostolica è una "istituzione", dove, alla nota distinzione tra clero e laicato, se ne aggiunge un 'altra che avviene tra coloro che esercitano una funzione, tra coloro, cioè, che sono ordinati in vista di un servizio liturgico e gli altri, ai quali sono affidati compiti a favore della comunità. L'autore non nomina in questo elenco i maestri, i catechisti, che hanno un ruolo rilevante nella preparazione dei catecumeni al Battesimo (cc. 15.18.19.41); ifossori, che animano le pitture delle catacombe, sono dei semplici salariati (c. 40). L'aspetto più importante della Chiesa, che l'autore sottolinea, è di essere, in ogni luogo della terra, santuario per la gloria e la lode incessante del nome di Dio: tempio spirituale, raffigurato nell'Antico Testamento, nel quale si manifesta la gloria di Dio e dove fiorisce lo Spirito Santo. Nelle dossologie, con le quali terminano diverse formule, è fatta sempre menzione della Chiesa, del Figlio di Dio e dello Spirito Santo (cc. 3.4.6. 7.35.41). Lo Spirito Santo è invocato su coloro che ricevono l'ordinazione e sulle oblate nel corso dell'anafora eucaristica.
LE ORDINAZIONI DEL VESCOVO, DEL PRESBITERO E DEL DIACONO
La Tradizione apostolica contiene tre schemi di conferimento dell'ordine, tra loro affini, ma che indicano e sottolineano i compiti e i seroizi che ciascuno degli ordinati deve rendere alla comunità: lo schema per l'ordinazione def vescovo (c. 3), quello per il presbitero (c. 7) e quello per il diacono (c. 8). L'ordinazione episcopale è fissata di domenica, perché deve avvenire in un giorno in cui i fedeli si radunano in chiesa insieme con i presbiteri e che favorisca la partecipazione dei vescovi del vicinato. Il senso ecclesiale della collegialità è illustrato dalla
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scelta del giorno, dalla partecipazione di altri vescovi all'ordinazione e dalla presenza del presbiterio della Chiesa, per il cui governo viene ordinato il nuovo vescovo, e ovviamente dal popolo, dal quale è stato scelto. Nell'ordinazione episcopale sono previste due imposizioni delle mani: la prima è fatta in silenzio dai vescovi presenti, mentre tutta l'assemblea prega in cuor suo; la seconda è fatta da un solo vescovo, scelto all'unanimità, che pronuncia la preghiera di consacrazione rivolta a Dio Padre. Questa preghiera è composta da due parti; nella prima, in linguaggio sintetico e concreto d'ispirazione biblica, è ripresa l'idea che Dio non solo ha istituito il culto, ma ha anche stabilito la tipologia del culto, col quale voleva essere onorato e venerato da coloro che si era scelto come ministri. Fin dalla creazione del mondo, Dio ha suscitato chi gli prestasse il culto dovuto. Ricordando la figura di Abramo dimostra che, da allora fino alla venuta del Cristo e alla costituzione della Chiesa, non c'è stata soluzione di continuità. In questa parte è invocato Dio Padre perché effonda sul candidato la potenza dello Spirito sovrano, che fu dato a Gesù Cristo e da questi comunicato agli Apostoli, fondatori della Chiesa nel mondo. Nella seconda parte sono elencati i compiti specifici del vescovo: pascolare il santo gregge di Dio, esercitare il sommo sacerdozio in un seroizio continuo, offrire i doni della Chiesa, perdonare i peccati, sciogliere ogni legame in virtù del potere conferito agli Apostoli, assegnare gli incarichi. In questa preghiera il vescovo è raffigurato come pastore e gran sacerdote in ordine a Dio e al popolo. L'obbligo dell'istruzione del popolo di Dio non è esplicito, ma è da ritenere confluito nella funzione di pastore. Il concetto della successione apostolica non è in primo piano; prevale invece quello della continuità dell'economia divina, come è stata indicata nella prima parte. Questa continuità ha 42
una concretizzazione nella successiva anafora. L'acclamazione ·è diventato degno• e il bacio della pace posti alla fine significano l'approvazione di tutti i presenti, popolo e clero, dell'avvenuta consacrazione. Questa preghiera consacratoria ba avuto il crisma della "ufficialità" con l'accoglienza integrale, fatti alcuni aggiustamenti linguistici e di stile, nel ·Pontificale Romano• sotto il titolo De ordinatione episcopi, presbyterorum et diaconorum, pubblicato dalla Tipografia Poliglotta Vaticana in prima edizione nel 1968 e in seconda edizione nel 1989. Il fatto è significativo, perché questa parte della Tradizione apostolica è ritenuta in sintonia con i canoni afferenti alla costituzione del sacramento dell'ordine. L'ordinazione del sacerdote segue un tracciato analogo, i cui protagonisti sono il vescovo e il presbiterio. Si rileva, come prima cosa, che la scelta del presbitero non è fatta dal popolo. Sul capo dell'ordinando impongono la mano prima il vescovo e poi i sacerdoti •a motivo del comune e simile spirito• (c. 8). La partecipazione dei sacerdoti all'imposizione delle mani non significa che il gesto compiuto dal vescovo sia insufficiente e inadeguato e quindi sia necessario quello dei sacerdoti, ma perché essi hanno ricevuto lo stesso spirito sacerdotale, cooperano a uno stesso e unico ordine e col vescovo costituiscono il collegio presbiterale. Questa specificazione ha una verifica nel fatto che il solo vescovo recita la preghiera dell'ordinazione ed egli solo domanda per I 'ordinando spirito di grazia e di saggezza sacerdotale per essere aiutato a governare il popolo di Dio. Nel precisare che il sacerdote non interviene nell'ordinazione del diacono, che è consacrato per essere a servizio del vescovo, l'autore ritorna al problema del ruolo del sacerdote nell'ordinazione sacerdotale per mettere in luce quello che il sacerdote può fare nel caso: precisato che il sacerdote è in condi43
zione di ricevere, ma non di dare lo spirito sacerdotale, e quindi non è capace di fare il sacramento dell'ordine, chiarisce che il suo gesto di imporre le mani, mentre il vescovo ordina, equivale al riconoscimento e all'approvazione dell'ingresso del nuovo membro nel collegio sacerdotale. Nella preghiera, strutturata come un tutto completo, c'è la tipologia dell'Antico Testamento e la sua applicazione alla Chiesa. Dio comandò a Mosè di scegliersi degli anziani, sui quali aveva effuso lo stesso spirito che aveva già dato a lui (c. 7; cfr. Nm 11,17-25). Il raccordo tra la designazione degli anziani nell'Antico Testamento e quanto avviene nel Nuovo Testamento e nei tempi della Chiesa, nel profilo della tipologia e dell'attuazione, è stato recepito e riordinato nella preghiera dell'ordinazione sacerdotale del Pontificale Romano in esecuzione alla riforma liturgica voluta dal Vaticano ll6. La preghiera per l'ordinazione del diacono è preceduta da una dichiarazione che distingue, da quelli dei sacerdoti, i suoi doveri, che sono indicati con espressioni generiche e onnicomprensive: essere al seroizio del vescovo, attendere ed eseguire gli ordini che gli sono dati, tra i quali amministrare i beni della Chiesa e segnalare ciò che deve essere fatto. Non esercita funzioni di tipo cultuale, non entra nel consiglio presbiterale. Nella dichiarazione iniziale attira l'attenzione l'insistenza, tre volte ripetuta, che il vescovo è il solo ad imporre le mani e che il diacono è deputato al suo servizio. Si direbbe che la norma sia stata dettata dalle ambizioni, forse eccessive, di certi diaconi. La preghiera dell'ordinazione segue il modello delle due precedenti: ricorda il Cristo, inviato dal 6 ~
appena il caso di ricordare che le due preghiere di consacrazione sono slJlte accolte nel Pontificale Romano per la loro sobrietà e capacità di esprimere la natura sacramenlJl!e del presbiterato e dell'episcopato.
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Padre per compiere il suo volere e manifestare il suo disegno, e chiede l'invio dello «Spirito di grazia e di zelo· per seroire la Chiesa e presentare al vescovo i doni in vista dell'Eucarestia. La Tradizione apostolica annota che il compito preminente del diacono è quello di presentare l'offerta dei fedeli al vescovo, che a sua volta la consacra a Dio (cc. 4.21). Nei capitoli dedicati al clero si configura la fisionomia della Chiesa delineata dalle prèghiere di istituzione dei tre ordini: il vescovo celebra l'Eucarestia circondato dai suoi sacerdoti, che concelebrano e partecipano con i diaconi alla frazione e alla distribuzione del pane e del vino mescolato consacrati (cc. 21-22); interoiene per l'ultimo esorcismo prima del Battesimo (c. 20); pronuncia sull'olio dei catecumeni l'azione di grazie e l'esorcismo e si riseroa i riti ultimi del Battesimo, cioè l'imposizione delle mani sul battezzato e l'unzione con l'olio santificato (c. 21). A lui spetta presiedere il pasto della comunità e dirigere la conversazione. In sua assenza presiede un sacerdote o un diacono (cc. 25.28). Presbiteri e diaconi istruiscono i fedeli nel corso della settimana (c. 39); il diacono deve essere assiduamente a fianco del vescovo, deve segnalargli gli ammalati (c. 34). L ANAFORA
EUCARISTICA
L'anafora eucaristica della Tradizione apostolica è la più antica che si conosca e segue a ruota l'ordinazione del vescovo che immediatamente presiede la celebrazione dell'Eucarestia. La venerabile antichità, il successo goduto e l'influsso esercitato nella formazione e nella stabilizzazione della preghiera eucaristica ne fanno un punto di riferimento obbligato per chiunque si occupi del culto cristiano e della sua storia. Un testo, derivatone direttamente, è stato inserito nel Messale Romano di Paolo 45
W col titolo di Preghiera eucaristica II. La sua collocazione in S,tretta connessione con l'ordinazione episcopale non è arbitraria, ma risponde a una precisa intenzione dell'autore. L'Eucarestia celebrata dal vescovo neoconsacrato, dai vescovi conconsacranti, dal presbiterio e con la partecipazione festosa del popolo è il primo atto ministeriale del neoconsacrato e il primo atto cultuale, l'Eucarestia, compiuto nella nuova veste di capo di una Chiesa. L'assenza della liturgia della parola e della preghiera dei fedeli in un rito domenicale 7 è comprensibile a condizione che si tenga presente che consacrazione episcopale e celebrazione eucaristica sono poste in continuità. Altrove è rimarcata l'importanza dell'istruzione sulla parola di Dio ascoltata in chiesa, non necessariamente collegata alla liturgia eucaristica; quando l'istruzione non è fatta in chiesa, viene consigliata una lettura personale di un libro santo (c. 41). Nel c. 21, dedicato ai riti battesimali, è ricordata la preghiera dei fedeli nella celebrazione eucaristica, ed è sottolineato che i catecumeni non vi prendono parte. Il bacio della pace conchiude i riti (c. 21). Il testo è molto lineare e semplice, nessuna interruzione né digressione lo interrompe: le tematiche qui presenti vengono riprese e ampliate dalle anafore che sono loro debitrici. Il dialogo iniziale, che si instaura tra il vescovo e il popolo, non è stato variato nelle diverse Chiese e mira a fare l'unità di sentimenti tra il celebrante e l'assemblea. L'analisi matura la convinzione che, mentre è relativamente facile scoprire i nessi con la tradizione seguente, è piuttosto arduo scoprire i legami con ' Giustino CI Apologia 67) descrive l'assemblea domenicale e attesta la liturgia della parola. Non va dimenticato che Giustino non ha in oggetto l'Eucarestia, che fa seguito alla consacrazione episcopale, bensì una normale celebrazione eucaristica.
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la tradizione precedente la redazione del presente testo. Infatti l'unico altro testo che trasmette delle preghiere all'interno di ordinanze ecclesiastiche è la Didaché (cc. 9-10) di origine palestinese o siriaca. Questa regione è la patria del genere letterario delle ordinanze ecclesiastiche. Per quanto concerne la testimonianza della Didaché non va sottaciuto che non sono riportate le parole dell'istituzione. C'è da chiedersi se ritualità giudaiche, fatte proprie dal cristianesimo piantatosi in questa regione, non abbiano avuto un ruolo nella redazione dell'anafora della Tradizione apostolica. Tra le preghiere di ringraziamento giudaiche è da tener presente l'azione di grazie fatta dopo il pasto giudaico, la Birkat ha-mazon. I contenuti tematici dell'anafora permettono di intuire di quali fonti sia eco il testo in oggetto. I.e Omelie pasquali sono contestualmente un genere letterario e un genere liturgico, dove titoli cristologici, locuzioni, espressioni tipologiche, citazioni bibliche, ecc., ne sono l'intelaiatura. Questo materiale nasce dalla intetpretazione di Esodo 12 che, per mezzo della tipologia, viene applicato alla morte di Cristo. Ne sono un saggio eloquente l'Omelia sulla Pasqua di Melitone e l'Omelia pasquale dello Pseudo-Ippolito di Roma. Trattandosi di un materiale ancora allo stato fluido, aveva buon gioco la creatività del vescovo o del presbitero che presiedeva la liturgia. Nell'anafora della Tradizione apostolica si rilevano i materiali presenti anche nelle omelie pasquali che, brevemente, sono: il Cristo inviato negli ultimi tempi come salvatore e redentore, messaggero della volontà di Dio e tramite della creazione; l'incarnazione nel seno della Vergine; il compimento della volontà divina nell'accettazione della crocifissione per liberare dalla sofferenza coloro che avrebbero creduto; spezzare le catene del diavolo e calpestare l'inferno; rendere manifesta la resurrezione. 47
Un confronto approfondito mostrerebbe come queste espressioni risuonino nell'Omelia dello PseudoIppolito, nel/ 'Omelia sulla Pasqua di Melitone, nel De anima et corpore e nel cosiddetto Additamentum. Queste testimonianze sono, senza dubbio, eco di altri modi di porsi di fronte alla salvezza. Per esemplificare: l'anafora e l'Additamentum hanno in comune il riferimento agli ultimi tempi e lo scopo della missione del Verbo, che è la salvezza. Ora, per l'Additamentum la salvezza sta nel rimettere insieme le parti dell'uomo, che il peccato aveva separato. a peccato infatti è la scomposizione dell'uomo nelle sue componenti. Nell'anafora invece non appare questa concezione di separazione e di riunione, tuttavia identica è la successione dei temi: missione del Figlio, menzione degli ultimi tempi, salvezza e redenzione. La frase 41 tuo Verbo inseparabile• rimarca l'unità tra il Verbo e il Padre, per cui il Figlio è Dio. e appare veramente come Dio. È un 'espressione che non ha l'eguale nelle omelie pasquali, ma ricorda che la nuova Pasqua è operata realmente da Dio, non meno che la Pasqua degli Ebrei. Si tratta di una cristianizzazione del/Haggadah pasquale giudaica. Questa spiega che ·il Signore ci ha fatto uscire dall'Egitto: non per mano di un angelo, né per mano di un Serafino, né per mano di un inviato, ma il Santo ... Io il Signore, io stesso e non un altro•. Il Cristo, per essere l'attore di questa impresa, deve presentarsi con un titolo divino. Lo Pseudo-Ippolito afferma che il Verbo stesso assunse su di sé l'onere della nostra salvezza e intende, col termine •Verbo•, il Figlio di Dio. Non sono poche né prive di interesse altre espressioni dell'anafora, che hanno dei riscontri nell'Omelia sulla Pasqua di Melitone e in quella dello Pseudo-Ippolito: il loro confronto dimostrerebbe che sono rapportabili a tratti analoghi delle omelie pasquali e come lo siano. 48
Non sempre l'anafora della Tradizione apostolica rivela parallelismi letterari o concettuali con gli scritti, dai quali sono stati tratti gli esempi. Essa contiene anche delle espressioni che non hanno riscontri. Tra queste segnaliamo la seguente: •manifestare la resurrezione», che è assente da tutte le omelie pasquali fino a quelle dello Pseudo-Crisostomo. È presente però nella Confutazione di tutte le eresie, 10,33, 17 nell'identica formulazione e, significativamente, in un contesto dalle movenze più narrative che omiletiche, che riscrive la storia della salvezza per giungere a dire che il Verbo offri se stesso, come primizia, nelle diverse tappe della vita, affinché l'uomo non si disanimi, ma si riconosca uomo. Nella Dimostrazione della predicazione apostolica (c. 38), Ireneo di Lione usa l'espressione: .manifestò la resurrezione, divenendo egli stesso primogenito dei morti». L'espressione entra in un contesto che si estende dalla nascita del Verbo creatore fino all'ascensione al cielo. I diversi momenti biografici hanno tutti la stessa intensità e non vi è accentuazione né dell'uno né dell'altro. La prima parte del c. 38, per certi aspetti, non è molto lontana dall'impostazione dell'anafora. Vi si legge infatti che •con l'apparizione della sua luce si dileguarono le tenebre della prigione, santificò la nostra nascita e, distrntta la morte, sciolse i ceppi che ci tenevamo avvinti. Manifestò la resurrezione, divenendo egli stesso primogenito dei morti». Nell'Omelia sulla Pasqua dello Pseudo-Ippolito si legge: ·Molti giusti, annunciando la buona novella e profetizzando, (attendevano) lui, il primogenito dei morti, per la resurrezione». La Lettera di Barnaba (c. 5,6) comprende in un 'unica visione l'incarnazione e la resurrezione. Scrive: ·Per abolire la morte e per dimostrare la resurrezione dai morti» doveva incarnarsi e soffrire. Confrontando le diverse forme letterarie della 49
locuzione ·la manifestazione della resurrezione• si nota che la formulazione più lucida e trasparente è quella della Dimostrazione di Ireneo. Segue quella della Confutazione e da ultimo quella dello PseudoIppolito. Il suo significato e il contesto uniforme dei tre autori citati, presumibilmente indipendenti tra loro, fanno supporre che l'espressione dell'anafora appartenga alla tradizione delle omelie pasquali. In conclusione l'espressione non è una creazione dell'autore della Tradizione apostolica, benché non manchi di novità in un 'anafora. Il racconto dell'istituzione dell'Eucarestia è introdotto in maniera originale, che non ha riscontri in altre preghiere eucaristiche. Infatti le parole dell'istituzione sono l'ultima parte dell'azione di grazie che descrive la redenzione e la salvezza attingendo al materiale delle omelie pasquali. Sotto il profilo grammaticale, costituiscono un 'unità letteraria e non sono, come nei riti successivi, in particolare in quelli occidentali, un rito nel rito. L'istituzione dell'Eucarestia è interpretata quale ultimo gesto della vita terrena di Gesù Cristo; è posta all'inizio dell'azione di grazie ed è richiamata con una serie di pronomi relativi. Le parole dell'istituzione, •questo è il mio corpo.. . questo è il mio sangue•, sono riferite dopo un elenco di atti soteriologici, che sono raccordati alla sua scelta di consegnarsi liberamente alla morte per la salvezza dell'uomo. Cionondimeno le parole dell'istituzione hanno un innegabile rilievo, perché sono presentate come conclusione di un insieme di atti e sono accompagnate da molti più dettagli concreti di tutte le altre azioni del Salvatore. Nella disposizione cronologica di quello che Gesù ha fatto, la posizione del Verbo sulla croce con le mani stese è rievocata prima delle parole dell'istituzione ed è interpretata come gesto salvifico che libera dalla sofferenza i credenti. Dal contesto si evince la convinzione dell'autore della esistenza di un 50
nesso tra il gesto di Cristo, che nel corso della cena stende le mani, con la posizione che assumerà sulla croce con le mani inchiodate al legno. Il celebrante, fatta memoria della passione e della resurrezione, offre il pane e il vino e ringrazia Dio di avere concesso di compiere questa azione cultuale. Chiede quindi a Dio d'inviare il suo Santo Spirito sull'oblazione della santa Chiesa e termina con la dossologia trinitaria. L'epiclesi merita un rilievo, perché sull'oblazione del pane e del vino, sulla quale sono state pronunciate le parole dell'istituzione, è invocato lo Spirito Santo. Il problema non si pone sull'invocazione dello Spirito Santo, ma sul significato da dare all'espressione -unendo in una sola cosa•, che fa parte del processo invocatorio e funge da ponte tra le due richieste rivolte al Padre di inviare lo Spirito sull'oblazione della Chiesa e di riempire dello Spirito coloro che prendono parte ai "santi doni». Dom Botte, dopo un 'accurata analisi filologica del testo, propone la seguente interpretazione: ·Ti chiediamo di mandare il tuo Santo Spirito sull'offerta della santa Chiesa. Unendo in una sola cosa Oa tua Chiesa) dona a coloro che partecipano alle cose sante di essere pieni di Spirito Santo•. Conclude dicendo che l'espressione può essere riferita sia alla "Chiesa" che ai "santi che partecipano all'Eucarestia", cioè ai fedeli presenti. Il senso generale non viene intaccato. L'anafora eucaristica della Tradizione apostolica ha una struttura tripartita così formata: un rendimento di grazie con l'insistenza sull'attività salvifica del Cristo inviato dal Padre (tema cristologico relativamente sviluppato) e col quale fanno blocco il racconto dell'istituzione (mentre si consegnava liberamente alla passione...preso il pane ti rese grazie... ugualmente fece col calice); un secondo rendimento di grazie per essere stati scelti a compiere la celebra51
zione che è "hic et nunc" in corso (ti ringraziamo per averci giudicati degni di stare alla tua presenza e di essere tuoi ministri); questo secondo rendimento di grazie è preceduto dal ricordo della morte e della resurrezione che vuole essere l'attualizzazione del comando del Signore di ripetere quello che lui ha fatto; l'epiclesi che termina con la dossologia. L'attendibilità di questa lettura della strnttura dell'anafora può essere verificata da un confronto col papiro Strasbourg gr. 254, presumibilmente del terzo secolo, che presenta un 'impostazione analoga con la differenza che al posto dell'epiclesi si hanno le intercessioni, alle quali è stato impresso un forte colore ecclesiale. Il secondo rendimento di grazie, preceduto nell'anafora della Tradizione apostolica dal ricordo della morte e della resurrezione, nel papiro manca di motivazione, tuttavia è ben evidente che la celebrazione è oggetto dell'offerta. Sia nel papiro che nell'anafora si hanno due rendimenti di grazie e una invocazione rispettivamente per la Chiesa e per la venuta dello Spirito Santo. Una strntturazione tripartita di forma strofica inneroa anche la preghiera che Po/icarpo rivolge a Dio, mentre attende che venga dato fuoco alla catasta di legna: la prima strofa celebra la grandezza di Dio, la seconda è un ringraziamento per il dono del martirio e la terza è un 'invocazione affinché /'azione in corso giunga a pienezza. Nella seconda e nella terza strofa si incontrano espressioni simili a quelle de/l'anafora della Tradizione apostolica. Premesso che non c'è dipendenza tra il martirio di Policarpo e /'anafora e che Po/icarpo ha celebrato l'Eucarestia, le espressioni si rapportano al genere letterario dell'anafora eucaristica. Nella seconda azione di gràzie dell'anafora si legge: ·Ti rendiamo grazie per averci fatti degni di stare alla tua presenza e di renderti culto•. Nella sua preghiera Po/icarpo ringrazia Dio: ·Ti benedico per52
ché mi bai reso degno di questo giorno e di quest'ora, di prendere parte, nel numero dei martiri, al calice del Cristo•. ·In mezzo a loro (i martiri) sia io ammesso alla tua presenza oggi come sacrificio pingue e gradito ... •. ·Essere ammesso alla presenza di Dio• non è oggetto di rendimento di grazie, come accade nell'anafora, ma diventa oggetto di supplica. I due testi banno un altro elemento di vicinanza: il martirio e la celebrazione eucaristica sono presentati come un atto di culto. Queste consonanze riportano al genere letterario anaforico, che sostanzia l'anafora della Tradizione apostolica e che ba tracce nella preghiera di Policarpo. Nel Libro dei Giubilei (c. 22), del 100 circa a.e., si racconta di Isacco che celebrò i sacrifici e poi mandò il sacrificio di salvezza ad Abramo affinché mangiasse e bevesse. Dopo essersi saziato, Abramo dice: ·Ora, mio Dio, io ti ringrazio umilmente perché mi hai concesso di vedere questo giorno•. Questa preghiera è in rapporto col pasto sacrificale offerto da Isacco. Segue quindi la preghiera di ringraziamento per i benefici avuti da Dio durante i centosessantacinque anni della sua vita. Nella preghiera di Policarpo si legge una frase analoga: ·lo ti benedico per avermi fatto degno di questo giorno e di questa ora•. Policarpo colloca la sua morte in un contesto liturgico e sacrificale. Il cronista descrive quindi il divampare del fuoco attorno al corpo del martire: ·Era in mezzo, non come carne che brucia, ma come pane che cuoce... e noi sentimmo un profumo come di incenso portato dal vento, o di altri aromi preziosi•. Queste immagini collegano i due elementi della celebrazione della morte e del rapporto col pasto sacrifica/e. La teologia dell'anafora della Tradizione apostolica propone i seguenti elementi: a) nell'anamnesi ·la sua morte e la sua resur53
rezione• sono poste in parallelo, sullo stesso piano, come un unico atto salvifico, e sono oggetto della memoria sacramentale. Non va però dimenticato che nel brano, che inizia per compiere la tua volontà ed acquistarti un popolo santo•, la morte è presentata come l'atto salvifico per eccellenza, mentre la resurrezione è collegata allo spezzare il pane; b) le offerte del pane e del calice consacrati sono strettamente correlate all'anamnesi della morte e della resurrezione; ciò dimostra che la sua funzione è inscindibile da quella dell'anamnesi e diversa da ogni altro evento narrato all'inizio della preghiera eucaristica; c) lo Spirito Santo è invocato sull'offerta della Chiesa, l'oblazione, cioè sul pane e sul vino consacrati, ed anche - seconda invocazione - perché doni •a coloro che partecipano dei santi misteri la pienezza dello Spirito Santo per confermare la loro fede nella verità•. Nell'eventualità che qualcuno offra olio, formaggio e olive (cc. 5-6), il vescovo benedice questi doni. L'autore considera queste offerte alla stregua dell'offerta del pane e del vino, sulla quale non sono state ancora pronunciate le parole dell'istituzione, e, prima di riferire la formula di benedizione, rammenta che deve essere diversa da quella pronunciata sul pane e sul vino. La benedizione dell'olio ha un andamento più solenne di quella del formaggio e delle olive: è ricordato l'uso dell'olio per la consacrazione dei re, sacerdoti e profeti; nella seconda parte della benedizione, l'olio benedetto appare destinato a scopi medicinali e dietetici. Nella liturgia del Battesimo (c. 21) sono previste la benedizione dell'olio dell'esorcismo e quella dell'olio del rendimento di grazie; nessuna delle due ha alcunché di comune con la presente. La benedizione del formaggio e delle olive segue lo stesso schema di quella sull'olio, ma è caratteriz54
zata da discrete allusioni all'albero della croce, sorgente della vita dei fedeli. L'autore non sembra avere presente l'immagine biblica dell'albero della vita dell'Eden: egli suggerisce una connessione tra l'albero della croce di Cristo, dal quale scaturisce la vita, e la pianta dell'olivo. O linguaggio della Tradizione apostolica, in termini di teologia sacramentaria, è ancora in via di chiarificazione: lo si rileva, tra l'altro, dal fatto di definire il pane •antitypos• della carne di Cristo e il vino Khomoioma• del suo sangue; i due sostantivi sono resi in latino, rispettivamente, con •exemplum• e ·similitudo• (cc. 21.26.38). Nel c. 41 l'autore dimostra d'avere un 'idea precisa sulla correlazione immagine/figura e realtà: scrive che ~ell'Antico Testamento, la legge ordinò di offrire sempre il pane della proposizione, come figura del corpo e del sangue di Cristo; l'immolazione dell'agnello privo di ragione è figura dell'agnello peifetto•. LE TAPPE DELL JMZIAZIONE CRISTIANA
Dai capitoli dedicati alle tappe dell'iniziazione cristiana emerge chiaramente la grande importanza che aveva non solo la catechesi, i riti per il conferimento del Battesimo, la professione di fede, che sono fondamentali, ma anche la partecipazione e la testimonianza di colui che si faceva garante della retta intenzione del candidato. A questa problematica di grande interesse La Tradizione apostolica dedica i cc. da 15 a 22. C'è purtroppo da lamentare che il Palinsesto di Verona manchi di questa parte e quindi la ricostruzione del testo, dal quale dipendono le successive versioni, resta un problema serio. Non è infatti impensabile che nelle prescrizioni e nei riti conservati e tramandati dalle versioni e dalle rielaborazioni dell'originale greco non siano intervenute aggiunte, modifiche, corre55
zionf e adattamenti dettati da particolari circostanze. Per sopperire alla lacuna del Palinsesto di Verona, Dom Botte ha scelto la versione sahidica, che, dal confronto fatto con le altre versioni, appare la più attendibile. L'impostazione del catecumenato e dei riti battesimali mostra che si tratta di una tradizione oramai consolidata, che viene riproposta come una via obbligata per entrare a far parte della comunità cristiana. La Tradizione apostolica articola in tre tappe l'iniziazione cristiana: quella preliminare del catecumenato; quella della preparazione prossima dei candidati al Battesimo e quella dell'amministrazione del Battesimo. O catecumenato comporta un tempo di preparazione molto lungo: si protrae nell'arco di tre anni ed è diretto, in modo particolare, a coloro che si presentano per la prima volta ad ascoltare la parola di Dio. L'ammissione al catecumenato avviene dopo un severo esame, col quale sono appurate le disposizioni del candidato, la sua intenzione, la condizione sociale e le professioni. I maestri, che non appartengono necessariamente al clero (c. 19), svolgono un ruolo fondamentale. Essi, parallelamente a quanto avveniva per l'istruzione generale e nelle scuole, nella catechizzazione dovevano tenere presente la provenienza e la preparazione religiosa del candidato. A loro era affidata, in pratica, la sentenza d'ammissione o d'esclusione. A Roma, verso la metà del secondo secolo, si era dato vita a qualcosa di analogo, ma da quanto si apprende da Giustino, non era così caratterizzato. Nonostante le notevoli digressioni, cui si abbandona Giustino, è possibile ricostruire il percorso dell'approdo al Battesimo. Questo viene impartito dopo debita preparazione, non meglio precisata, che ri56
guarda le verità da credere e la promessa di comportarsi di conseguenza. La comunità vi partecipa attivamente pregando e digiunando col candidato. Il contributo di Giustino è doppiamente interessante: in primo luogo perché testimonia che oramai la formula battesimale aveva assunto una forma fissa (il Battesimo era impartito nel nome della Trinità ed era seguito dalla celebrazione eucaristica); in secondo luogo perché, definendolo ·illuminazione•, ne sintetizza in qualche modo gli effetti. In Giustino, probabilmente, non è solo presente la prassi romana, ma anche quella siriaca attestata dalla Didaché, 7, che, almeno un secolo prima, aveva dato le indicazioni essenziali in merito. In proporzione alla sua diffusione e con un occhio attento alla società pagana che lo attorniava, il cristianesimo doveva darsi delle norme sempre più severe per consentire l'aggregazione di nuovi adepti, che fossero davvero bene intenzionati. Il meccanismo previsto dalla Tradizione apostolica richiede al candidato precisi impegni concernenti l'impostazione del suo futuro da cristiano, l'assunzione delle proprie responsabilità da parte dei padrini, ma non è un meccanismo freddo, animato come è dall'intenzione di evitare le sorprese. L'autore ha stilato una casistica ampia, benché certamente incompleta, delle professioni e delle situazioni esistenziali del 'candidato; fatta qualche eccezione, le norme che riporta sono rigorose e non consentono compromessi. Dopo l'indagine sulle reali intenzioni, ba stilato una serie di domande indirette che verte su molte professioni, alcune delle quali sono compatibili con la vita cristiana, altre lo diventano perché l'aspirante cristiano non ha altri modi per sopravvivere e non sono intrinsecamente cattive, benché pericolose. È il caso dell'insegnante, la cui scuola è frequentata da bambini. Non entra nell'elenco il pedagogo, la cui funzione prima57
ria era quella di condurre il bambino alla scuola. Nel c. 15 attira l'attenzione la condizione sociale dello schiavo: se ha un padrone cristiano, questi è chiamato a testimoniare se è in grado di ascoltare la catechesi o no; se invece il padrone è pagano, non viene precluso l'accesso al catecumenato su garanzia di coloro che l'hanno presentato, ma il primo insegnamento che riceverà sarà quello di ascoltare il padrone. Ciò significa che l'ammissione del candidato non è subordinata al parere favorevole del padrone. Intransigenza assoluta ed esclusione senza appelli riguardano chi pratica la magia e chi è dedito alla prostituzione sia maschile che femminile, mentre per altre attività è chiesto di abbandonarle. Nel contesto degli abbandoni del tenore di vita precedente alla richiesta dell'istruzione, è fatta un 'eccezione per la schiava che convive col padrone, che fa vita maritale solo con lui e che assolve con impegno il compito della maternità. Ciò sotprende perché in fatto di morale coniugale l'autore è esigente (cc. 15-16). I candidati accettati formano il gruppo dei catecumeni ed è un gruppo ben distinto nella comunità. Il lungo cammino verso il Battesimo si svolge sotto la direzione di un -maestro/dottore•; può essere abbreviato per un catecumeno che dimostri impegno e zelo particolari (c. 17). In questo lasso di tempo i catecumeni pregano per conto loro in chiesa, in un luogo separato dai fedeli (c. 18), partecipano separatamente ai pasti comunitari e alle distribuzioni alimentari (c. 28). Dopo la preghiera, ricevono l'imposizione delle mani da parte del maestro, che recita su di loro una preghiera (c. 19). Si lasceranno salutandosi senza darsi il bacio della pace. Particolari norme sono previste per le donne. Durante il periodo del catecumenato, il candidato ha il primo contatto indiretto con la vita ecclesia58
le. In questo contesto è affermato con vigore il significato sacramentale del Battesimo. La preparazione prossima avviene con ritmo accelerato e con contatti più ravvicinati alle realtà cristiane. Non tutti i catecumeni accedono al Battesimo, ma solo coloro che, dopo l'esame della loro condotta, sono giudicati degni e passano dalla condizione di semplici aspiranti a quella di uditori, ai quali vengono esposti i contenuti del vangelo. Anche in questo passaggio hanno un ruolo importante coloro che li hanno condotti alla fede, perché devono testimoniare della loro buona condotta. Il clima di attesa è alimentato dall'assiduità all'istruzione, che diventa quotidiana, come anche dalla quotidiana imposizione delle mani finalizzata ad esorcizzare le ultime tracce della presenza diabolica. All'avvicinarsi del giorno del Battesimo il vescovo stesso deve rendersi conto di persona del grado di preparazione per ammettere quelli che lo meritano. Questi dovranno fare un bagno il giovedì, digiunare il venerdì ed essere presenti, il sabato, all'assemblea convocata dal vescovo per ricevere una nuova imposizione delle mani e sottopporsi a un più solenne esorcismo (c. 20). Veglieranno tutta la notte e, tra letture e istruzioni, attenderanno il canto del gallo, la domenica mattina, allorché avrà inizio la liturgia battesimale. I catecumeni sono divisi in tre gruppi: i bambini, che hanno la precedenza sugli altri, gli uomini e le donne. I riti, che seguono, sembrano riguardare i tre gruppi distinti. Il rito è presieduto dal vescovo attorniato dal suo clero. La cerimonia prevede, come riti preparatori, la benedizione dell'acqua corrente o di piscina da usare nel Battesimo, dell'olio di ringraziamento e di quello dell'esorcismo, la deposizione dei vestiti Oe donne scioglieranno i capelli e deporranno i gioielli). La deposizione delle vesti e di ogni gioiello per le donne è giustificata dal fatto che ogni oggetto estra59
neo può essere sotto il potere del demonio (c. 21). Appartiene ai riti preparatori la benedizione del vescovo di due vasetti contenenti, l'uno, l'olio di ringraziamento, e l'altro, l'olio dell'esorcismo. Il momento più drammatico è la rinuncia a Satana e a tutte le sue opere, cioè all'idolatria, a tutte le sue manifestazioni compresi i giochi del circo. A questo punto un presbitero unge con l'olio dell'esorcismo il candidato (cc. 20-21). Ultimate queste cerimonie, accompagnato da un diacono, il battezzando scende nell'acqua e per tre volte viene interrogato dal ministro del Battesimo, vescovo o sacerdote, sulla sua fede nelle tre persone divine, cioè: se crede in Dio, Padre onnipotente; se crede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, nato con l'interoento dello Spirito Santo dalla vergine Maria, crocifisso sotto Ponzio Pilato, morto e sepolto, al terzo giorno risuscitato vivo dai morti, salito nei cieli e assiso alla destra del Padre, che verrà a giudicare i vivi e i morti; se crede nello Spirito Santo, nella santa Chiesa (c. 21). Si tratta di tre domande seguite da altrettante risposte date sempre con la stessa parola: ·Credo•. Dopo ogni risposta, viene battezzato, mentre il celebrante gli tiene la mano sul capo. Da tutto il cerimoniale del rito si evince che il Battesimo è realmente il sacramento della fede. /A professione della fede trinitaria, fatta in questo irripetibile momento della vita del cristiano, appare come l'origine del simbolo di fede, che a sua volta ne sarà lo sviluppo progressivo. Uscito dall'acqua, il battezzato, prima ancora di asciugarsi e di riprendere le sue vesti, riceve dal sacerdote ancora un 'unzione. Entrato in chiesa, il vescovo gli impone le mani e accompagna il gesto con un 'invocazione al Signore, affinché conceda ai neobattezzati, che hanno ottenuto il perdono dei peccati, la pienezza della grazia dello Spirito per 60
compiere la sua volontà. Con una nuova unzione con l'olio del rendimento di grazie, che il vescovo fa cadere dalle sue mani, col segno della croce tracciato sulla fronte e col dono del bacio della pace, i riti del Battesimo terminano. Quanto avviene dopo in chiesa, appartiene alla messa battesimale, ma contiene elementi caratteristici. In concomitanza con l'offerta del pane e del vino mescolati presentata dal diacono al vescovo, è offerta anche una mescolanza di latte, miele e acqua. Sui tre tipi di offerta è previsto lo stesso rendimento di grazie. Di ogni offerta è indicato il significato simbolico: il pane e il vino mischiati sono simbolo del cotpo e del sangue di Cristo; il latte mescolato al miele ricorda la promessa fatta ai patriarchi di una terra ubertosa, che è la carne di Cristo, che nutre i credenti; l'acqua significa la mondezza dell'anima, segno del Battesimo ricevuto. Questo simbolismo è visto negli elementi citati, mentre sono allo stato di offerta. Il dato più interessante è che il vescovo benedice insieme col pane e col vino, simboli del cotpo e del sangue di Cristo per tutti i credenti, "il latte e il miele mescolati insieme•. Il gesto è degno di nota non solo per il significato simbolico rivelato, ma soprattutto perché l'autore ripropone l'intetpretazione di un gesto, il cui significato naturale era andato probabilmente perduto. ·Latte e miele•, come beni che caratterizzano lo stato di fecondità della terra promessa e di concerto la sussistenza di chi della terra promessa era l'erede, rievocano alla memoria l'esistenza di un pasto nel corso del quale veniva celebrata l'Eucarestia. Si muovono, in modo analogo alla Tradizione apostolica, la Lettera di Barnaba, 6,8-17 che interpreta allegoricamente Esodo 33,3 .17: ·Che significa nella terra buona, terra sgorgante latte e miele? Nostro Signore benedetto, che ha posto in noi la sapien61
za e l'intelligenza dei suoi segreti•; le Odi di Salomone, 4, 1O: ·Apri le tue ricche sorgenti, che sgorgano per noi latte e miele•; l'Ode 19, 1 parla soltanto di latte: «Una coppa di latte mi fu offerta e l'ho bevuta per la dolce benevolenza del Signore. Il figlio è la coppa•. In lPt 2,2, ritenuta una catechesi battesimale, si legge: .Come bambini appena nati, anelate al latte spirituale e genuino•. Nella Tradizione apostolica è certa la presenza dell'offerta del latte ed è presente anche il tema dei •neonati• accanto a quello della terra della promessa. Clemente Alessandrino, Pedagogo, 1,6,34, unisce i due temi. Si può quindi condividere l'osseroazione di ].K. Bernard che nella letteratura cristiana primitiva non mancano tracce della somministrazione del latte e del miele al neobattezzato. Concluso il rito con la comunione al corpo e al sangue di Cristo e con l'invito a compiere opere buone, l'autore sembra alludere a un supplemento di istruzione riseroata ai neofiti, che esige il segreto. Prima di presentare lo stile di vita cristiana proposto dalla Tradizione apostolica, è opportuno riandare con la mente alle diverse imposizioni delle mani, che fanno parte del rito del Battesimo. L'imposizione delle mani avviene fuori del rito del Battesimo e nella celebrazione del rito. Fuori del rito la prima imposizione silenziosa è quella del maestro (c. 19); altre imposizioni quotidiane silenziose sono fatte dal vescovo nell'imminenza del Battesimo (c. 20); il sabato, che precede il Battesimo, il vescovo impone ancora le mani pronunciando un esorcismo, la cui formula non è riferita (c. 20); al battezzando, sceso nell'acqua, il ministro (sacerdote o vescovo) impone la mano sul capo prima di battezzarlo (c. 21). Compiuti i sacri riti, il vescovo introduce i neobattezzati in chiesa, impone loro le mani e recita un 'invocazione, della quale è riferito il testo, e ancora una 62
volta, mentre fa cadere dalla sua mano sul capo di ciascun battezzato l'olio di ringraziamento, gli pone la mano sul capo e dichiara di ungerlo nel nome della Trinità. In seguito lo segna in fronte e gli dona il bacio della pace, che accompagna con l'augurio: «Il Signore sia con te•, al quale il battezzato risponde: «E col tuo spirito•. Di tutte le imposizioni delle mani, solo di quella che il vescovo compie in chiesa è riportata l'invocazione, nella quale si chiede a Dio di riempire i neobattezzati di Spirito Santo e di effondere su di loro la sua grazia per una vita santa. Quest'ultimo interoento del vescovo, che impone la mano, versa sul capo del neobattezzato l'olio del rendimento di grazie e quindi lo segna sulla fronte, potrebbe essere interpretato come l'atto definitivo di aggregazione al popolo di Dio, che in termini attuali può essere identificato col sacramento della Cresima, che si tende oggi a definire ·Sigillo dello Spirito•. Tutti gli elementi costitutivi sono presenti: l'imposizione delle mani, la crismazione, il segno sulla fronte e il bacio di pace. Il tutto accompagnato da formule fisse. La, preghiera ricorda gli effetti del Battesimo, che sono la remissione dei peccati e la rigenerazione, passa poi ad una epiclesi implorando la pienezza dello Spirito Santo e l'invio della grazia. Oggetto della preghiera sono lo Spirito Santo e la grazia richiesta in termini d'invio e di pienezza. È uno schema rudimentale, che contiene tuttavia gli elementi fondamentali della Cresima. Questa interpretazione, dalla quale traspare una connessione tra il Battesimo e la Cresima, ha un buon margine di probabilità. L'analisi di tutto il cerimoniale del Battesimo della Tradizione apostolica ha messo in luce una certa confusione nel succedersi delle azioni e la presenza di doppioni, che non si spiegano facilmente. Ciò ha portato ad avanzare l'ipotesi di una giustapposizione di due fonti, una romana e l'altra africana. È stato osseroato tuttavia 63
che nello stato attuale delle conoscenze è prematura una divisione così netta tra una fonte africana e una fonte romana, mancando la documentazione che consenta una seria verifica. Non va tuttavia dimenticato che il rito dell'iniziazione cristiana non ha uno sviluppo lineare. Le durezze, la ripetizione di gesti, come ripetute unzioni e ripetute imposizioni delle mani, descrizioni parallele e riprese di formule ed espressioni, sembrano indicare l'utilizzo di due fonti, giustapposte e male amalgamate, l'una delle quali fa intervenire il vescovo e l'altra no. IL CORSO DELLA VITA CRJS71ANA
La Tradizione apostolica ha già dato un saggio della sua concezione della vita cristiana nell'esame che prescriveva di coloro che intendevano iscriversi tra i catecumeni. Le inclusioni e le esclusioni erano dettate dalla compatibilità e dall'incompatibilità delle loro professioni da pagani con le norme cristiane; quello che è prescritto dal capitolo 22 in poi ne è una solerte precisazione, nonostante l'evidente frammentarietà e discontinuità. Ogni battezzato deve preoccuparsi di compiere buone azioni, di piacere a Dio, di comportarsi da cristiano, di essere zelante per la Chiesa mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti e progredendo nella pietà (c. 21). Questa è la norma generale che presiede tutti i comportamenti. La frammentarietà e l'inorganicità degli argomenti esposti nel c. 22 e seguenti sono riscattate dalla nobile e meditata trattazione della preghiera quotidiana (c. 41). Dopo una fugace allusione all'assemblea domenicale (c. 22), durante la quale il vescovo celebra l'Eucarestia circondato dal clero, negli altri tempi è prevista una catechesi della parola guidata dai pre64
sbiteri e dai diaconi e seguita dalla preghiera. !fedeli sono caldamente invitati a dare la precedenza a questa istruzione, perché devono pensare in cuor loro che Dio parla per bocca dell'istruttore e banno l'opportunità di completare l'istruzione e di rafforzare lafede (cc. 35.41). Una rapida allusione è fatta anche alla Pasqua per raccomandare il digiuno in attesa della comunione; sorte migliore non è riservata alla Pentecoste, considerata un prolungamento del gaudio pasquale, in occasione della quale sono sollecitati a digiunare coloro che non l'hanno fatto a tempo debito, cioè alla Pasqua (c. 33). Poiché la veglia pasquale era animata dai riti preparatori del Battesimo, benché non esclusivamente dato che, secondo La Tradizione apostolica, il Battesimo veniva amministrato anche in altre domeniche, si presume l'esistenza di una liturgia più complessa di quella della domenica. È noto che fin dai primi secoli cristiani, e sempre in seguito, l'anno liturgico aveva nella Pasqua il suo vertice nel senso che veniva considerato il punto più alto della storia della salvezza. Tuttavia l'autore non insiste, sicché è impossibile disegnare la disposizione dell'anno liturgico. !A disattenzione dell'autore verso la celebrazione domenicale deve essere collocata nel contesto sociale e liturgico, che in certo modo è la cornice del quadro che dipinge. Plinio il Giovane, tra gli anni 111-113, informa l'imperatore Traiano che -i cristiani di Bitinia erano soliti riunirsi in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare insieme a cori alterni un 'invocazione a Cristo considerandolo un dio ... e dopo avere terminato gli atti di culto, si ritiravano, poi si riunivano di nuovo per prendere un cibo normale e innocente•. Benché sia difficile interpretare l'espressione ·giorno stabilito•, si presume che questo ·giorno stabilito• sia la domenica. Nella società pagana 65
non esisteva un giorno della settimana da dedicare al riposo o ad atti di culto. Diventa allora comprensibile l'annotazione che, dopo l'atto di culto a Cristo compiuto prima del sorgere del sole, i cristiani andassero alle loro occupazioni per tornare a riunirsi, a giornata finita, per l'Eucarestia. Giustino, quattro decenni più tardi, tra gli anni 150-155, ricorda che i cristiani nel giorno del sole si riunivano in uno stesso luogo per leggere le ·Memorie degli Apostoli· o gli scritti dei profeti per un tempo determinato e per la celebrazione eucaristica. Questi due riscontri testimoniano l'esistenza di una celebrazione settimanale, che coincideva col ·giorno del sole•, cioè la domenica. Ora, La Tradizione apostolica, dopo avere descritto le due sinassi eucaristiche, quella celebrata dal neoconsacrato vescovo e quella che segue al Battesimo, nel c. 22 si limita ad ordinare al vescovo di distribuire personalmente l'Eucarestia ai fedeli. Questa riduzione del molo domenicale del vescovo suppone l'esistenza di una conosciuta prassi celebrativa della domenica, della quale non c'era motivo di ricordarne le fasi. Testimonia tuttavia l'uso, attestato da Giustino, proprio dei cristiani, di portare a casa l'Eucarestia, pane e vino consacrati, che devono custodire gelosamente e con ogni cura (cc. 36-38). Accanto all'Eucarestia è previsto un pasto serale comune, presieduto dal vescovo che recita la preghiera di benedizione modellata sull'anafora eucaristica. Di questo pasto non sono indicati né il luogo né la frequenza. L'autore rassicura che non è Eucarestia, ma una eulogia (c. 26). Il pasto è preceduto dall'introduzione solenne della lampada destinata a rischiarare la sala, dove era preparato il pasto comune. Il rito del lucernario è rivestito di significato cristologico. Il formulario di ringraziamento merita d'essere riferito per la sobrietà e l'eleganza: ·Ti ringraziamo, Signore, per il tuo figlio 66
Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale ci hai illuminati rivelandoci la tua luce incorrnttibile. Poiché dunque noi abbiamo vissuto un giorno intero e siamo giunti all'inizio della notte appagati della luce del giorno, che tu hai creato per la nostra sazietà, e poiché ora, per tua grazia, non ci manca la luce della sera, noi ti lodiamo e ti glorifichiamo ... • (c. 25). Nuove preghiere e la recita dei salmi alleluiatici, nonché alcuni suggerimenti pratici per conseroare al pasto comune il suo carattere sacro, conchiudono l'incontro conviviale. La Tradizione apostolica chiede alle vedove e alle vergini di praticare il digiuno e di pregare per la Chiesa (c. 23), ma non fissa i giorni di digiuno. Precisa invece il digiuno del triduo pasquale; dalla domenica di Pasqua alla Pentecoste non si digiuna (c. 33). Nel corso della liturgia al vescovo sono offerti formaggio, olive, fiori e primizie per essere benedetti (cc. 6.32.33). Non è improbabile che queste offerte siano destinate al soccorso dei poveri e di coloro che si occupano degli affari della Chiesa (c. 24). Fin dal suo primo affacciarsi sullo scenario della storia le attività caritative della Chiesa hanno costituito una nota distintiva. Gli ammalati sono portati dai diaconi all'attenzione del vescovo, perché li conforti con la sua visita (c. 34); le vedove sono invitate a condividere la mensa con i fratelli nella fede (c. 30). L'autore si preoccupa anche degli addetti al cimitero e pone delle norme differenziate a seconda dell'attività che svolgono; gli sta molto a cuore che sia assente da questo luogo, che appartiene a tutti, ogni motivo di esosità (c. 40). Questi saggi di vita cristiana rivelano una reale preoccupazione dell'autore e un certo rigore dettato dalla situazione vitale dei cristiani. Si tratta di precetti sparsi, ognuno dei quali può esistere indipendente dall'altro, ma rivelatori di una legislazio67
ne meno generica di quanto si pensi. L'attenzione per le vedove, per le vergini, per gli ammalati, per i cimiteri, per i compiti del clero, per la verjtà non molto sviluppati, per i marinai, per chi è in difficoltà, per il digiuno, per la conseroazione dell'Eucarestia, per i diversi tipi di offerte, suggerisce l'esistenza di un 'organizzazione che nulla lascia al caso e in cui tutto ha un punto di riferimento. Sono indicazioni che tendono all'edificazione della Chiesa e a proteggere la vita dei fedeli. L'ORA DELLA PREGHIERA
Il c. 41, dedicato ai tempi della preghiera, è, insieme con l'anafora eucaristica e con la professione di fede che precede il conferimento del Battesimo, uno dei tratti più significativi e illuminanti della Tradizione apostolica. I tempi di preghiera sono distribuiti lungo l'arco della giornata come una costante e affidati alla fede e alla sensibilità dell'orante. L'esposizione serena e rassicurante ha le movenze di un invito dolce, ma determinato, a ricordare Cristo e a non lasciarsi irretire dalle insidie quotidiane (c. 41). Il detto lucano ·bisogna pregare sempre senza stancarsi mai· a.e 18, 1), non citato, sembra permeare la distribuzione dei tempi della preghiera. Non si dovrebbe parlare di distribuzione del tempo della preghiera, ma di momenti, poiché tutto l'arco della giornata, non esclusa la notte, ne è costellato. L'ideale della preghiera assidua non è riservato a una particolare categoria di persone, come potrebbero essere le vergini o le vedove: è proposto a tutti i cristiani, anche a quelli la cui moglie non è cristiana. In occasione di questo caso annota che chi è sposato non è impuro e quindi può senz'altro pregare. L'autore suggerisce al fedele di lavarsi le mani 68
prima della preghiera del mattino e prima di quella di mezzanotte, senza specificarne la ragione. Gli altri tempi della preghiera sono scanditi in armonia con la divisione della giornata, i cui punti fissi sono l'ora terza, l'ora sesta, l'ora nona e il canto del gallo. Sono sette momenti diversi, coincidenti con altrettante ore, per la preghiera privata 8• La preghiera del mattino può coincidere con una riunione in chiesa per l'istruzione, alla quale si deve la preferenza, ma. tale non sembra la prassi quotidiana. Il c. 39 conosce una riunione giornaliera del clero in un luogo indicato dal vescovo, durante la quale viene fatta l'istruzione ai fedeli presenti. Prima di separarsi per andare alle rispettive occupazioni, pregheranno insieme. La Tradizione apostolica giustifica i tempi di preghiera appoggiandosi alla cronologia della Passione, ma anche a motivi extraevangelici. La preghiera del mattino non riceve alcuna spiegazione, come avviene per le altre ore. Per l'ora terza occo"e una distinzione, probabilmente valida anche per le altre ore, dettata dalle circostanze: questa preghiera, presumibilmente vocale se fatta in casa, diventa silenziosa, fatta nel cuore, se il luogo non consente quella vocale. Tale preghiera, vocale o mentale a seconda delle circostanze, ha la sua giu• Tertulliano, nel De oratione, 24-25, consiglia di pregare all"ora terza, all'ora sesta e all'ora nona, e giustifica il consiglio appellandosi alla Bibbia (cfr. At 2,15; 3,1; 10,9; Dn 6,11). Ritiene obbligatorie le preghiere del maitino e della sera; raccomanda le preghiere della mensa. In pratica, sono cinque i momenti privilegiati della giornata scanditi dalla preghiera: il mattino, l'ora terza, l'ora sesta, l'ora nona e la sera. Si può aggiungere la preghiera della mensa. Cipriano (De oratione dominica, 34-36) raccomanda di pregare al mattino, all'ora terza, all'ora sesta, all'ora nona, alla sera e alla notte. Questi due scrittori testimoniano che lo schema della tradizione giudaica, che fissava la preghiera all'ora terza, all'ora sesta e all'ora nona, è passato nella Chiesa che lo ha ritoccato. Va ricordato che la Didacbè (8, 3) raccomanda la recita della Preghiera del Signore tre volte al giorno, in riferimento ai tre momenti della preghiera giudaica. Cfr. G.-M. Oury, Office divin, in DictSpir 11 (1982), p. 688.
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stiftcazione nella Bibbia: all'ora terza il Cristo fu crocifisso (cfr. Mc 15,25, il solo che ricorda questo particolare). La correlazione che stabilisce tra l'offerta del pane della proposizione• e l'immolazione dell'agnello, non ha riscontri precisi quanto all'ora nella quale nell'Antico Testamento si compivano questi riti: l'offerta dei pani non era quotidiana, ma era fatta la mattina del sabato (cfr. Lv 24,5-9); l'immolazione dell'agnello avveniva dopo il calare del sole. L'autore ha voluto avvertire il lettore della valenza prefigurativa dei due atti liturgici. L'ora sesta è ugualmente collegata alla Passione: è l'ora in cui una grande oscurità invase la terra (cfr. Mc 15,33 e par.); l'oscurità è avvenuta alla preghiera del Crocifisso. La preghiera dell'ora nona deve essere modellata su quella che i giusti rivolsero a Dio, che si era ricordato di loro. La motivazione ha due versanti: l'uno è la discesa di Cristo agli inferi; le anime dei giusti sono quelle che l'hanno accolto come inviato da Dio 9: il secondo versante è l'allusione al Cristo che all'ora nona spirò, dopo avere emesso un possente grido (cfr. Mc 15,37). L'autore pone prima della morte del Cristo la trafittura del costato provocata dal colpo di lancia del soldato, dalla quale uscì •acqua e sangue•. Con la sua morte rischiara il resto del giorno e lo porta a sera. Inaugurando un nuovo giorno, nell'ora in cui si addormentò, diede un 'immagine della resurrezione. Mentre la preghiera della sera non è commenta' Il tema della discesa di Cristo agli inferi per annunciare ai trapassati l'avvenuta salvezza non è biblico, ed è conosciuto per le citazioni che ne hanno fatto Giustino e Ireneo, dai quali, nella sua brevità, potrebbe dipendere La Tradizione apostolica. È un tema giudeocristiano. Giustino ne fa autore Geremia (cfr. Dia/. 72,4); Ireneo lo mette, a volte, sul conto di Isaia (cfr. Adv. haer. 3,20,4), a volte sul conto di Geremia (cfr. tbid., 4,22,1; Dim. 78), a volte lo cita senza nome d'autore, esplicitamente (cfr. Adv. haer. 4,33,12; 5,31,1) o implicitamente (cfr. ibid., 4,3,31). Cf. ]. Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, cit., pp. 325-345.
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ta e appare come una semplice preparazione al riposo, grande evidenza è data alla preghiera della notte. Dopo avere risolto il problema del cristiano coniugato con una donna non cristiana, non giustifica la preghiera della notte con riscontri biblici, ma con una tradizione degli anziani, secondo la quale ·a mezzanotte tutta la creazione si ferma un momento per lodare Dio•. Il tema della preghiera di tutto il cosmo, uomini, animali, angeli, si riscontra più volte negli apocrifi, che appartengono al ciclo di Adamo. Nella Vita di Adamo ed Eva, 9, sparsim, si legge che il sole e la luna con gli angeli si prostrano e pregano insieme per Adamo. Nel Testamento di Adamo si parla della preghiera degli angeli, di quella degli animali e di quella degli uccelli. Probabilmente questo tema sottintende il legame tra Adamo e gli animali, di cui tratta il testo della Genesi. Il tema della preghiera silenziosa di tutta la creazione va riportato a radici giudeocristiane. Allo stesso contesto culturale appartengono gli ·anziani•, che hanno conseroato e trasmesso la tradizione, cioè le usanze giudeocristiane. Fra le diverse ore della preghiera, quella di mezzanotte attraeva in modo particolare. Essa indicava il momento di silenzio, che separa una giornata dall'altra. La preghiera del canto del gallo chiude la serie delle preghiere private. Il canto del gallo rievoca il rinnegamento di Pietro (cfr. Mc 14, 72), ma non è a questo che l'autore pensa in prima istanza: fu al canto del gallo che Gesù fu condannato e rinnegato dai figli d'Israele. C'è anche un 'allusione alla parusia e al giorno della resurrezione. Questi momenti di preghiera, che costellano la giornata del cristiano da una mezzanotte all'altra, mantengono la mente rivolta al Cristo, preseroano dalle tentazioni e premuniscono contro la perdita del dono della salvezza. Sono momenti solenni 71
iscritti nel precetto evangelico che bisogna pregare sempre. Il c. 41, che contempla le situazioni nelle quali può trovarsi il cristiano, rappresenta uno sforzo originale per fissare le ore della preghiera. Certamente non vuole essere un 'indicazione perentoria, alla quale tutti i cristiani debbono conforma'f"Si, ma un suggerimento, la proposta di un ideale, che può essere realizzato da cristiani ferventi e impegnati, ispirata all'invito biblico di pregare senza stanca'f"Si. La sua strutturazione e le sue formulazioni fatte usando la seconda pe'l"Sona singolare e quella plurale, la terza pe'l"Sona plurale e a quella singolare, ispirano questo giudizio. Prescrizioni sulla partecipazione alle sinassi sono accostate a prescrizioni sui vari tempi della preghiera e alla sua giustificazione teologica. Si avverte che l'autore ha soprattutto di mira il cristiano, come pe'l"Sona, cui suggerisce un programma di preghiera. Per questo non fa allusione alle sinassi della sera. /L SEGNO DEUA CROCE
La croce è stata fin dalle origini un segno distintivo e cultuale per i cristiani. Il suo uso è anteriore al cristianesimo, ma solo nel cristianesimo ha acquistato, in relazione alla croce di Cristo, valore e senso soteriologico. La segnatura del cristiano col segno cruciforme ha fatto parte dei riti primitivi dell'iniziazione. Tra i significati della croce, come segno apotropaico, come strumento di supplizio, come simbolo cosmico, come oggetto dell'attesa escatologica, l'autore ha considerato quello teologico, cioè segno della potenza di Cristo manifestato nella resurrezione. Suggestiva l'interpretazione che il segno della croce è l'esternazione della forza, che l'uomo ha nel cuore, dal momento che ha assunto la somiglianza con Cristo (c. 42). 72
Nel c. 20 narra l'ultimo esorcismo col quale è comandato allo •straniero•, il diavolo, di ritirarsi dai candidati al Battesimo e di non ritornarci più; seguono quindi l'insufflazione sul viso, come simbolo del dono dello Spirito Santo, e un segno tracciato sulla fronte, sulle orecchie e sulle narici. Ciò significa che sono stati sigillati da questi segni gli accessi attraverso i quali il diavolo, secondo una concezione antica, penetra nell'uomo. I riti battesimali terminano con un 'ultima unzione che consiste in un segno fatto sulla fronte nel nome della Trinità e col bacio (c. 21). Nel c. 41 il segno della croce, dafarsi nel mezzo della notte con le mani inumidite dalla propria saliva, ricorda il Battesimo e indica che il c01po dei cristiani, grazie al Battesimo, è diventato dimora dello Spirito. Il c. 42, in certa maniera, riepiloga e focalizza quanto è disperso nei capitoli precedenti: il segno della croce sulla fronte è segno della passione di Cristo, è scudo che protegge nelle tentazioni; mostra al di fuori l'immagine del Verbo che è dentro; è simbolo della fede nell'Agnello perfetto. Il richiamo alla morte di Cristo svuota il segno della croce di ogni significato magico. Il segno sulla fronte, sulle orecchie e sugli occhi è posto in corrispondenza al segno che Mosè fece tracciare sulla trabeazione e sugli stipiti delle porte delle case in Egitto (cfr. Es 12, 7). Così Mosè conobbe profeticamente il segno della fede dei cristiani. AUTORE, DESTINATARI E DATA DI COMPOSIZIONE
Ippolito, sia in vita che dopo morte, nel corso dei secoli, è stato ed è ancora un personaggio scomodo. Lo si deduce dalle molte questioni che ha sempre imposto agli storici e a quanti, per opposte ragioni, lo hanno avvicinato. La questione "Ippolito" si tra73
scina da molto tempo e, quantunque ricerche recenti abbiano chiarito alcuni punti oscuri, non si vede ancora come si possa raggiungere una posizione a tutti gradita. Sul finire degli anni settanta gli studi ippolitei banno avuto un 'impennata, grazie a nuovi approfondimenti, che banno messo in discussione quella che si riteneva un 'acquisizione accettabile e che faceva leva sulle pur brevi notizie tramandate da Eusebio di Cesarea, da Girolamo, da Damaso, da Prudenzio e dalla lettura che si era fatta delle iscrizioni incise sul trono della statua di •Ippolito•, posta all'ingresso della Biblioteca Vaticana. Nel 1551 Pirro Ligorio trovò a Roma un blocco di marmo a forma di cattedra con iscrizioni in caratteri greci del terzo secolo cristiano. L'identificazione della tavola del Computo pasquale incisa sul trono con quello ricordato e attribuito da Eusebio ad Ippolito aveva fatto pensare all'umanista che il personaggio, che originariamente sedeva su quel trono, non potesse essere altri che Ippolito stesso. La scoperta nel secolo scorso del manoscritto dell'Elenchos (Confutazione di tutte le eresie) sul Monte Athos contribuì ad attribuirlo ad uno scrittore romano del terzo secolo, identificato con Ippolito. L'attribuzione non è stata pacifica fino alla scoperta della Biblioteca gnostica di Nag Hammadi, dove è stata trovata una Parafrasi di Sem (NH VII, 1) riferita da Ippolito (Conf. V, 22, 1), che conferma il resoconto di questi sui Setbiani (ibid., 19-22) e la sua qualifica di grande eresiologo. Prima del 1947 si erano avuti contributi su punti particolari, quando P Nautin riapri alla grande la discussione. Questi rilevò palesi e gravi contraddizioni tra la Confutazione e il Contro Noeto, mise in evidenza come entrambi rivelino una formazione culturale e dottrinale diversa, notò non trascurabili discordanze nei dati cronologici della storia della 74
salvezza fra la Cronaca e il Commento a Daniele. Sulla base di questi e di altri argomenti distinse le opere in due blocchi attribuendo il primo blocco, formato dalla Confutazione, dai frammenti Sull'universo, dalla Cronaca e dai titoli iscritti sulla cattedra ad un certo Giosippo; il secondo blocco, costituito dalle opere esegetiche sul Cantico, su Daniele, su Davide e Golia, dalle Benedizioni di Giacobbe e di Mosè, dall'.Anticristo, dalla Tradizione apostolica e dal Contro Noeto, identificato con la parte finale del Syntagma conosciuto da Fazio, lo attribuì a un vescovo orientale, di nome Ippolito, vissuto in una qualche sede orientale intorno alla metà del terzo secolo. Nautin ritenne di non dovere identificare nessuno dei due personaggi col martire romano Ippolito. Nonostante M. Richard, nel 1968, difendesse l'opinione tradizionale, oramai la discussione era avviata. Interoennero j.-M. Hanssens, per affermare che l'autore della liturgia della Tradizione apostolica non era Ippolito e non era un prete romano, ma un suo omologo alessandrino morto verso il 253 e di conseguenza la liturgia ivi proposta era d'origine alessandrina, e]. Magne. Questi, innovativo nella metodologia e nell'analisi, è approdato a due risultati degni di attenzione: La Tradizione apostolica sia nel Palinsesto di Verona che nelle Costituzioni apostoliche, VIII, 1-2, era preceduta da un trattato Sui carismi, del quale ha rintracciato il contenuto essenziale; gli schemi delle ordinazioni dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi rivelano delle interpolazioni. Il trattato Sui carismi portava il titolo di Tradizione apostolica sui carisnù, mentre quella che si dice comunemente La Tradizione apostolica aveva come titolo Diataxeis (Ordinanze) dei santi Apostoli. Per quanto concerne l'origine del testo, lo studioso è del parere che la cosiddetta Tradizione apostolica non sia intestabile a Ippolito, ma sia un "'opera letteraria" nata dai bisogni quotidiani di una comuni75
tà che ha messo per iscritto questi statuti: una compilazione anonima contenente elementi di età differenti. Il documento di Ochrid 86 l'ba inclusa, insieme con altri quindici testi, sotto il nome di Diataxeis (Ordinanze) dei santi Apostol~ nelle quali per un certo tempo è stata incorporata. n documento di 0chrid 86 avrebbe trasmesso il nome esatto del testo. In un convegno tenuto a Roma nel 1976, fu ripresa l'ipotesi enunciata da Nautin, sui due blocchi di scritti, ma venne scartata l'idea che Giosippo fosse l'autore del primo blocco di scritti e venne proposta l'ipotesi di due Ippoliti, uno romano che ba operato a Roma nella prima metà del terzo secolo e morto martire in Sardegna, e l'altro vescovo orientale, di sede sconosciuta, attivo tra la fine del secondo secolo e l'inizio del terzo. Margherita Guarducci si inserì nella discussione con una severa analisi della statua di Ippolito mettendone in rilievo il carattere composito. Vì ba distinto i seguenti elementi costitutivi: 1. la replica del secondo secolo della statua di Tbemista di Lampsaco, alunna prediletta di Epicuro, seduta su un trono, i cui braccioli sono ornati di protomi leonine di tipo epicureo. Eseguita nella prima metà del secondo secolo d.C., all'epoca di Traiano o di Adriano, fu arricchita più tardi, tra il 222 e il 235, con iscrizioni greche, sulle due fiancate e sul montante destro del trono: la tabella del Computo pasquale di Ippolito e una lista di opere; 2. la parte anteriore consiste nelle gambe e nei piedi già appartenuti ad un 'altra statua femminile di proporzioni maggiori e scolpita nel secondo secolo d.C., adattata ai resti della precedente. È incerto quale figura rappresentasse; 3. il torso e la testa dell'attuale statua sono un 'aggiunta di Pirro Ligorio fatta nel 1564-1565, non senza una tendenza a imitare la famosa statua bronzea di San Pietro nella Basilica Vaticana, per rappresentare Ippolito. L'argomento è stato ripreso dodici anni dopo nel
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1988 in un convegno organizzato ancora a Roma, intitolato Nuove ricerche su Ippolito, che si era proposto di riesaminare le ipotesi formulate nel 1976. La statua ha attirato nuovamente l'attenzione dell'archeologo P. Testini e dell'epigrafista M. Guarducci. Il Testini pensa che la statua tronca sia stata trovata a nord della via Tiburtina, di fronte a S. Lorenzo fuori le Mura, dove le carte medievali collo- . cavano il Mons Hippolyti, e dove si trovava la catacomba del martire. Quanto alla collocazione esatta del blocco nell'ambiente, è probabile che esso fosse appoggiato a qualche manufatto (parete, pilastro o altra struttura), perché, mentre appare ifruttato lo spazio disponibile sui lati anche a scapito di un 'agevole lettura, il dorso si presenta ruvido e quindi destinato a non essere visto. In base all'esame lo studioso ritiene che la statua già al terzo secolo fosse stata ridotta ad un masso marmoreo per utilizzarne il blocco ad altro fine. Trova conforto per questa supposizione nella chiara prescrizione della Tradizione apostolica, di non accogliere, tra i catecumeni, scultori e pittori di divinità pagane, se non rinunciano alla loro professione (c. 16). Il luogo del rinvenimento, il contenuto delle iscrizioni greche fanno credere che a Roma, verso la metà del terzo secolo, si identificasse il martire deposto nel cimitero con l'autore delle opere ricordate sul trono. La Guarducci sostiene che la statua della filosofa pagana Tbemista avrebbe avuto il suo posto nella biblioteca del Pantheon. Le iscrizioni incise sul trono indicherebbero non già le opere di Ippolito, ma quelle, di non importa quali autori, collocate nei palchetti o nei cassetti più vicini. Il trono quindi avrebbe avuto la funzione di indicare quali opere erano contenute nei palchetti o nei cassetti vicini e di faciltarne la consultazione. La tavola del Computo pasquale venne inserita tra quelle opere per il suo preminente interesse e per la sua relazione con l'impera77
tare. L'idea di incidere questo Computo insieme ad altri titoli di opere sul trono di una statua di donna è nata, probabilmente, dal fatto che col passar del tempo quella statua aveva perso l'originario significato personale di statua di Tbemista per assumere quello di personificazione di qualche disciplina letteraria o scientifica. Ciò consentì agli ammiratori di Ippolito di incideroi la tavola del Computo pasquale. Le iscrizioni, che alludono all'imperatore Alessandro Severo, si distinguono per grandezza e nitidezza di caratteri. Nel fianco sinistro e nel fianco destro, il Computo pasquale comincia col primo anno del regno di Alessandro Severo (222). Questi è dunque quasi l'eponimo del Computo, eseguito da Ippolito e probabilmente dedicato al suo filocristianesimo. Il monumento è stato creato pensando non tanto a Ippolito quanto all'imperatore. L'analisi della statua, operata dalla Guarducci, mette in crisi il criterio fondato sui titoli delle opere incise nel trono e, una volta accertato che Ippolito non ha nulla da spartire con la statua, resta da stabilire la paternità delle opere ivi iscritte. L'ovvia conseguenza è che La Tradizione apostolica non è di Ippolito, ma di un anonimo romano. La data della loro incisione deve essere fissata prima del 235, anno della morte di Alessandro Severo. La provenienza del blocco di marmo dall'agro Verano è messa in dubbio: esso può venire da qualunque altra località di Roma. Ma la Guarducci non precisa quale. Un punto fisso in tutto il problema è il codice latino 3965 (j. 24 v.) della Biblioteca Vaticana dal quale risulta che il 16 aprile 1551, mentre era prefetto della Biblioteca stessa il cardinale Marcello Ceroini, il futuro papa Marcello II, fu autorizzato il pagamento di due scudi e otto giulii per far trasportare dalla Loggia del Papa alla "libraria·, cioè alla biblioteca allestita da Sisto IV (14711484), il sasso, dove è iscritto il Calendario greco. Il 78
''sasso" non può essere che il trono di marmo contenente le iscrizioni "ippolitee", trasformato poi fra il 1564 e il 1565 in •statua di sant'lppolito-. Lo studio della Guarducci tocca solamente in secondo ordine e di sfuggita il problema delle opere e dà per scontato il significato della loro presenza sul trono. ]. Frickel, che ha sempre difeso l'identità dell'autore della Confutazione e del Contro Noeto, nonostante le rilevabili divergenze, sulla collocazione della statua, che ritiene essere quella di un uomo e probabilmente di Ippolito, ammette che abbia potuto avere la sua dimora nella biblioteca del Pantheon che Alessandro Severo aveva fatto allestire nelle exTerme neroniane da lui riedificate presso quel monumento. Un papiro di Ossirinco ricorda che il cristiano palestinese Giulio Africano ebbe l'incarico di allestire questa biblioteca e che, ad allestimento finito, risultò una biblioteca di lusso. · A. Brent, in uno studio molto accurato, accetta la notizia di Pirro Ligorio sul ritrovamento della statua tra la via Nomentana e la via Tiburtina; la statua non avrebbe mai perduto la sua identificazione originaria con la filosofa epicurea Tbemista e sarebbe stata accolta nella comunità ippolitea, dove aveva una finalità cultuale (come simbolo di Cristo Sapienza) e pratica (il Computo pasquale uniformato alla prassi pasquale romana con qualche concessione all'uso quartodecimano caro alla tradizione giovannea). Gli scritti, i cui titoli sono incisi sul montante, sarebbero da considerare soprattutto come opere nate nell'ambito della comunità, da ripartire non solo tra Ippolito e l'autore della Confutazione, ma anche eventualmente tra altri personaggi. L'assenza della Confutazione e del Contro Noeto è da spiegare con motivi di opportunità e di prodenza, dopo che era stata stabilita la pace tra le due comunità. Rifiuta quindi la tesi tradizionale 79
dell'unico Ippolito di Roma, scrittore e martire, e valorizza il ruolo della comunità ippolitiana: Sullo sfondo di questa valorizzazione della comunità, traccia un profilo suggestivo del protagonista. Ippolito, di formazione dottrinale esegetica e retorica asiatica, in giovane età venne a Roma al tempo di Zefirino e di Callisto. Quivi, mentre fervono le polemiche cbè scuotono la comunità, come aderente alla dottrina del Logos, prende parte per l'autore della Confutazione, che segue quando si stacca dalla comunità diretta da Callisto e forma una comunità separata. Usciti di scena Callisto e l'autore della Confutazione, prende le redini della comunità e la riappacifica con la comunità romana diretta da Ponziano, insieme col quale condivide l'esilio in Sardegna sotto Massimino. Simonetti ba modificato non solo l'ipotesi del Nautin, ma anche quella uscita dal convegno romano del 1976, almeno nella forma in cui fu proposta. Resta tuttavia convinto della validità e dell'esigenza di fondo dell'ipotesi dei due autori: non si può identificare lo scrittore romano della Confutazione e opere apparentate con l'Ippolito autore del Contro Noeto e delle opere del blocco esegetico conosciuto da Eusebio, Girolamo e Teodoreto. I due gruppi di opere mettono di fronte a due autori, diversi per cultura e per interessi: l'autore della Confutazione ba una vasta cultura profana, ba interessi filosofici e ''scientifici", è esibizionista; quello orientale resta dentro l'orizzonte ecclesiale, nascosto dietro i suoi scritti, non ba interessi profani. Inoltre l'Ippolito orientale cronologicamente va collocato tra la fine del secondo secolo e l'inizio del terzo secolo e la sua Chiesa doveva essere situata nell'Asia Minore. Ribadita la validità dell'ipotesi dei due autori distinti, non riconosce alla lista delle opere incise sulla cattedra valore documentario determinante per assegnarle al martire romano.
L'ipotesi iniziale di Nautin di un Ippolito orientale, cui attribuire i commentari biblici e in particolare quello a Daniele, esce rafforzata dall'analisi. All'autore romano (da chiamare anch'esso Ippolito?) non restano che la Confutazione, che ne fa un ve- · scovo di una comunità romana, il trattato Sull'universo e la Cronaca, cui meglio si addice il titolo di Synagoghè chr6non (Conf., 5, 10,30), citata brevemente sul trono della statua come Chronik6n. Tuttavia deve esser tenuto presente che, fatta eccezione per lo studio La statua di sant'Ippolito della Guarducci, le altre ipotesi di lavoro sono maturate sulla base di criteri letterari, che in genere non permettono conclusioni definitive a tutti gradite. Altri studiosi affrontano la questione da un 'angolazione diversa e raggiungono conclusioni che modificano le precedenti. Eusebio scrive che Ippolito era a capo - proest6s - di una Chiesa orientale, il cui nome non riporta, ed era esegeta. Il senso generalmente dato alla notizia è che Ippolito fosse •vescovo•. Questa interpretazione non sembra necessaria, anche se, di primo acchito, ovvia. Infatti afferma che Berillo era vescovo di Bostra e usa il termine ·episcopos•, mentre di Ippolito dice che era •capo. (proest6s) di una Chiesa, la cui ubicazione non conosceva. Si può aggiungere che lo storico ricorda Ippolito di passaggio tra Berillo e Gaio, è attratto dalla loro produzione letteraria di •ecclesiastici insigni per sapere• e che del solo Ippolito manca l'indicazione della sede. Girolamo completa il catalogo di Eusebio con l'aggiunta di altri undici scritti, aggiunta che non convince molto; nomina nei suoi commenti biblici quelli di Ippolito, riprende da Eusebio la notizia che Origene, di passaggio per Roma, ascoltò una sua predica, ma afferma di non essere riuscito a conoscere il nome della sua sede episcopale. Egli dipende da Eusebio e da Damaso. 81
Ippolito è citato dagli autori greci e bizantini dal IV secolo al XIV come vescovo di Roma o di Potto. Informazioni di carattere biografico, molto limitate, sono date dalla Depositio martyrurn, che fissa al 13 di agosto il giorno della sua sepoltura sulla via Tibuttina e di Ponziano nel cimitero di Callisto, e dal Catalogo liberiano che ne fissa all'anno 235 la depottazione in Sardegna insieme con papa Ponziano. Un epigramma damasiano trasforma Ippolito in un seguace dello scisma di Novaziano. Ritornato all'unità della Chiesa, avrebbe esottato i suoi a fare altrettanto. Damaso però s'inganna quando lo fa pattigiano e capo del pattito di Novaziano. Prudenzio, Peristephanon, Xl, vv. 29-32, riprende acriticamente le informazioni damasiane e specifica che morì mattire nella fede di Paolo e della cattedra di Pietro. Dalla Depositio martyrum e dal Catalogo liberiano risulta che, esiliato in Sardegna con Ponziano al tempo della persecuzione di Massimino, si è riconciliato con Ponziano ed ba esottato i suoi a fare altrettanto. /A Chiesa romana ha riconosciuto il suo mattirio. /A Confutazione contiene dati biografici da non trascurare: l'autore si presenta come «successore degli Apostoli e pattecipe della stessa grazia del ''sommo sacerdozio"- archierateia- e dell'insegnamento•. Si apprende inoltre che fu per lungo tempo prete a Roma e che venne in conflitto per motivi dottrinali e morali con Callisto (217-222), che riteneva eretico e fuori della Chiesa. Pettanto ruppe la comunione con lui e con i successori Urbano (223230) e Ponziano (230-235). Circa l'Ippolito di Potto, le documentazioni agiografiche e archeologiche, tra loro confrontate, permettono di affermare che il santo di Potto non è mai esistito, ma è una reduplicatio dell'Ippolito di Roma. lA basilica di Potto, datata all'anno 385, fu scavata e studiata dal Testini; essa è all'origine di 82
un processo al termine del quale l'Ippolito di Roma fu preso per il martire di Porto. La basilica nell'BOO fu amcchita, dal vescovo di Porto Stefano, di reliquie del martire romano sigillate e autenticate, che vennero poste sotto l'altar maggiore. Al di sopra fu elevato un ciborio di stile carolingio datato, per di più, con la menzione del papa Leone m. Berthonière ha scavato il luogo sulla via Tiburtina, dove fu sepolto il martire nel terzo secolo; al tempo di Pirro Ligorio questo luogo era conosciuto, mentre era caduta in oblio la memoria della basilica di Porto. Il racconto del rinvenimento della statua, fatto da Pirro Ligorio, può essere ridotto a questi termini: la statua, in cattive condizioni, sarebbe stata rinvenuta a Roma, tra la via Nomentana e la via Tiburtina, non molto lontano da Castro Pretorio, tra le rovine non meglio precisate di una chiesa rovinata dagli ·Heretici· (quali?), dedicata a Ippolito. Il Baronia, nell'edizione del suo Martyrologium Romanum del 1586 e nelle successive del 1593 e del 1598, fissa per Ippolito di Roma la data tradizionale del 13 agosto e quella di Ippolito di Porto al 22 agosto. Le variazioni delle edizioni successive a quella del 1586 non riguardano Ippolito di Roma, ma Ippolito di Porto. A proposito di questi nel 1586 scriveva che era stata trovata una sua statua a Porto. Nelle successive edizioni del 1593 e del 1598 ritratta quanto detto e pone il ritrovamento della statua nel Campo Verano, tra i ruderi dell'antica ·Memoria· di Ippolito. I risultati delle ricerche archeologiche compiute prospettano che il ritrovamento del trono della statua sia avvenuto nella regione del Campo Verano, dove è localizzata la catacomba d'Ippolito. Le iscrizioni incise sul trono riacquistano valore di testimonianza. Il Computo pasquale e il calendario devono essere tenuti presenti per valutare come merita la lista bibliografica del trono. 83
La nvtviscenza degli studi "ippolitei" ha dato luogo a due conclusioni contrastanti sul ritrovamento del blocco di marmo, che forma il trono: la Guarducci ritiene non attendibili le informazioni di Pirro Ligorio sul luogo del rinvenimento e quindi propende per un 'altra località; Saxer le considera sostanzialmente veritiere, nonostante le notevoli contraddizioni. L'Ippolito di Porto non entra in questa problematica se non per essere un doppione di quello di Roma. LA TRADIZIONE APOS10UCA E IL TRATIATO SUI CARISMI
Un dato letterario è offerto dalla Tradizione apostolica che nel Prologo allude a una esposizione concernente i carismi, cui fa seguire una trattazione che è il vertice della tradizione e nella Conclusione ribadisce che se la tradizione apostolica viene ascoltata, l'errore non avrà modo di affermarsi. L'interpretazione più ovvia sarebbe riconoscere che l'autore ba composto due opere distinte da denominare trattato Sui carismi e La Tradizione apostolica. Questo nel Prologo. Nella Conclusione è richiamata la funzione direttiva e protettiva della sola "tradizione". Una lettura non pregiudiziale delle incisioni sul trono della statua suggerirebbe che le righe 9 e 1011 riportano il titolo di due trattati liturgici diversi: Sui carismi e La Tradizione apostolica. Due trattati con esistenza autonoma. Saxer, dopo avere studiato la disposizione delle righe, ritiene che il lapicida si sia preoccupato di distribuire con un certo ordine i titoli delle opere da incidere sul trono. Ha notato che, se c'è un certo numero di titoli, il cui enunciato occupa più linee, il titolo che segue comincia ad una nuova riga. È il caso delle righe 9 e 10-11: (P)erì charismaton/(A)postoliké parado/sis. La distribuzione di queste parole su tre righe è dovuta alla man84
canza di spazio che non permetteva di incidere l'ultima sillaba sulla seconda riga, mentre lo spazio c'era per mettere la ''.A" di ·Apostoliké· sulla prima. Si ha dunque l'impressione che il lapicida, che ha iniziato le parole •Apostoliké paradosis· su una riga diversa da quella di ·Peri charismaton-, abbia anch'egli pensato a due titoli differenti. Sarebbero quindi, il condizionale è d'obbligo, due opere diverse: l'una di Ippolito dal titolo La Tradizione apostolica e l'altra di autore ignoto dal titolo Sui carismi. Le versioni della Tradizione apostolica e le rielaborazioni, per quanto concerne l'attribuzione, hanno atteggiamenti differenziati: non è dà scartare la supposizione che l'opera portasse il nome dell'autore, che doveva presentarsi come persona privata, che fa uso tuttavia della persona plurale ·Noi· (cc. 1.21.43). Egli si presenta nel Prologo, quando afferma di voler esporre la tradizione, che si è mantenuta fino al presente, e che consiglia di osseroare a coloro che sono prudenti; si ripresenta nel c. 21 dicendo di avere trasmesso alla breve insegnamenti e riti circa il Battesimo e l'oblazione; rispunta nella Conclusione, quando si scusa se è incappato in lacune, fiducioso tuttavia che Dio, il quale governa la Chiesa verso porti sicuri, interoerrà a colmare le lacune con comunicazioni che farà a coloro che ne sono degni. Il suo scritto quindi non è d'origine apostolica: ciò che viene da questi è la tradizione, che deve essere ascoltata e seguita. Affermando all'inizio (c. 1), nel c. 21 e alla fine del testo (c. 43) di essere una persona privata, si ritaglia un proprio posto e rifiuta l'anonimia e la pseudonimia tipica dei cultori del genere letterario apocrifo, cui si sono abbandonati l'autore della Didascalia, che immagina lo scritto composto dagli Apostoli stessi, e l'autore dei Canoni degli Apostoli, che inventa un 'assemblea deliberativa degli Apostoli, durante la quale ogni Apostolo richiama un 85
precetto del Signore, lo arricchisce di ricordi e dà delle disposizioni sulle istituzioni e sulla disciplina della Chiesa. Alla tentazione di dare importanza agli ordinamenti, che stava per trascrivere, inventando un 'assemblea degli Apostoli, ba ceduto anche l'autore del libro VIII delle Costituzioni apostoliche, che mantiene la stessa finzione letteraria nell'utilizzazione della Didascalia, e come prodromo del rimaneggiamento della Tradizione apostolica. Tre raccolte hanno conservato traccia del nome di Ippolito. L 'Epitomé delle Costituzioni apostoliche introduce la preghiera per l'ordinazione del vescovo sotto il titolo Ordinamenti dei santi Apostoli circa l'imposizione delle mani per Ippolito. Questa preghiera di ordinazione è quella della Tradizione apostolica e non quella delle Costituzioni apostoliche. L'identica titolazione ricompare nell'Ottateuco clementina, probabilmente presa a prestito dall'Epitomé. I Canoni di Ippolito, una compilazione fatta in Egitto tra il 336 e il 340, porta il titolo •Questi sono i canoni della Chiesa scritti da Ippolito, santo vescovo di Roma•. Queste tre menzioni lasciano supporre, secondo Dom Botte, che il nome di Ippolito figurasse sul modello, del quale si servirono per le rielaborazioni. Questa presenza del nome di Ippolito sorprende appena si rifletta che l'Epitomé riassume il libro VIII delle Costituzioni apostoliche, che è sotto il patrocinio di Clemente, e fa il nome di Ippolito al momento in cui, abbandonato il testo delle Costituzioni, cita la Tradizione apostolica. Il redattore dei Canoni ha forse confuso Clemente con Ippolito? Certo l'autorità di Ippolito non poteva competere con quella di Clemente. I dati raccolti farebbero autore/redattore della Tradizione apostolica Ippolito. Il titolo inciso sul trono della statua orienterebbe in questa direzione. Analizzata la statua e sottratto/e l'onore di rappresentare Ippolito, non è da questa che si può partire 86
per identificare l'autore/redattore della Tradizione apostolica. Ma che valore hanno le rielaborazioni e le testimonianze degli scrittori ecclesiastici? Se si confrontano le altre opere attribuite dalla critica ad Ippolito, alla vivacità dello stile, alle modalità della loro composizione, alla ricchezza dei contenuti e alla varietà degli interessi con la strutturazione e le numerose incongruità della Tradizione apostolica, assodato il fatto che l'intenzione dell'autore/redattore fosse solo quella di coordinare un materiale, che aveva una esistenza indipendenté, con un minimo di ritocchi, senza personalizzare il lavoro, e che il confronto è possibile con versioni tutt'altro che impeccabili, e constatata la distanza culturale che corre tra La Tradizione apostolica e la restante produzione letteraria ·ippolitea•, è molto problematico ritenere Ippolito autore/redattore della Tradizione apostolica, sia pure con le riserve e i "distinguo" che il caso impone. A. Brent sostiene che la nostra opera avrebbe visto la luce nella comunità ippolitiana, molto attiva, dove sarebbero vissuti l'autore della Confutazione, che non è Ippolito, e l'autore (Ippolito) del Contro Noeto, opera che in qualche modo attenuava le divergenze tra la dottrina monarchiana della più vasta comunità romana diretta da Callisto e quella minore guidata dall'autore della Confutazione, legata alla dottrina del Logos. Destinataria della Tradizione apostolica è la comunità romana. Quanto è stato esposto nelle pagine precedenti apre uno spiraglio sui destinatari/utilizzatori del documento? Le liturgie dell'Eucarestia, dell'ordinazione e del Battesimo non si configurano come abbozzi di riti liturgici; rispecchiano una prassi piuttosto consolidata, ma non ancora "canonicamente" definita, che lascia una certa libertà creativa al vescovo; presuppongono inoltre una visione storica e una reinterpretazione di dati, il cui retro87
terra sono la Bibbia e la liturgia giudaica. Non è peregrina l'idea che un vescovo si appropri di eucologie circolanti e le adotti per costituire l'eucologia della sua Chiesa. Tuttavia resta l'interrogativo se si tratti di una liturgia ideale, mai realizzata, o di una liturgia veramente attuata e rielaborata su materiale preesistente. Una risposta definitiva a tutti gradita è difficile, se non impossibile. La via da percorrere sarebbe quella della scomposizione del testo, avvalendosi di un metodo analogo a quello applicato alla Sacra Scrittura. Ma ci si può chiedere se sia il caso di seguire tale metodo e quali possano essere i risultati che si attendono. La comunità, destinataria della Tradizione apostolica, appare una comunità con qualche tensione interna (Prologo e Conclusione), ma sostanzialmente amalgamata; la comunità civile pagana, in cui è inserita, è numerosa, come suppone la lunga lista delle professioni e dei mestieri. Solo una città con una popolazione numerosa e dinamica può offrire uno spettro così ampio, benché mirato, di attività. Tra le attività, quella marinara è posta fuori del! 'elenco e ricordata in ordine alla soddisfazione del digiuno pasquale (c. 33). Nella valutazione dell'elenco è appena il caso di ricordare che esso è fatto in ragione dell'ammissione al catecumenato e quindi, nonostante comprenda ventiquattro professioni e mestieri, non è esaustivo; altre professioni e altri mestieri infatti non vi sono inclusi, come, per esempio, l'esazione delle tasse, la pratica dell'usura, la professione medica, l'architettura, l'insegnamento delle arti liberali, l'agricoltura. L'elenco della Tradizione si muove nell'ambito delle professioni e dei mestieri collocati al livello più basso della gerarchia sociale e si presume che ne sia accettato l'apprezzamento corrente. La vita militare e la magistratura non appartengono al rango sociale basso, ma non sono poste in discussione a motivo 88
del loro rango, bensì perché il loro esercizio poteva richiedere la condanna a morle e la sua esecuzione. La loro messa in discussione è legata al motivo cristiano del "non uccidere". Tuttavia tale elenco non rifugge da una sua rielaborazione etica che se, per un verso, si rifa a criteri di valutazione generici, come nel caso della magia, nei cui confronti la società civile era ostile, per un altro, rifiuta tutte le attività che hanno in qualche modo a che fare con l'idolatria. Le norme parlicolari dettate per l'ammissione degli schiavi al catecumenato (c. 15) indicano che le richieste non erano poche, che il loro numero era consistente e che qualche difficoltà si era profilata nell'armonizzare le esigenze dei loro padroni con quelle della vita cristiana. Le regole sui confessori della fede sono più comprensibili se si suppongono dettate all'indomani di una persecuzione, anziché durante una persecuzione (c. 9). La tipologia degli alimenti disponibili (cc. 5.6.21.31), dei fiori e dei frutti, che possono o non possono essere offerli (c. 32), l'assenza di ogni indicazione restrittiva sulla foggia del vestire sia femminile che maschile, mostrano che la comunità cristiana aveva possibilità di scelta non trascurabili e che il suo tenore di vita era piuttosto sostenuto. Gli elementi offerli per tratteggiare la fisionomia della comunità sono poco più che indizi e nati tutti dall'interno di essa: il vescovo ha un ruolo importante, ha un contatto personale e diretto con tutti i membri della comunità, sani e malati, amministra i sacramenti e parlecipa ai pasti comuni (cc. 20.21.22.26.28.34). Impossibile precisare il luogo delle assemblee. Doveva in ogni caso essere un luogo che dava una cerla sicurezza, dato che le sinassi sono quotidiane e si chiede ai presbiteri d'essere sempre presenti (cc. 22.25-30). Le norme relative ai seroizi da rendersi nella comunità suppongono una 89
prassi sperimentata. la comunità dispone di un suo cimitero e di personale addetto (c. 40). la riflessione sul materiale tramandato dalla Tradizione apostolica non è purtroppo decisiva per /'individuazione della città della comunità cristiana. Tuttavia il primo pensiero corre a Roma, la cui Chiesa appare bene organizzata. Non sembra che esistano delle controindicazioni serie per lasciare cadere questa possibilità. Il tipo di società sia civile che religiosa, che si intravede, si comprende meglio a Roma che altrove. I contenuti della Tradizione apostolica suscitano l'impressione che l'opera sia una curata aggregazione di norme, della cui validità si era fatta esperienza, concernenti riti e persone. L'assenza di termini di confronto certi non consente di fissare i confini tra il recupero del materiale preesistente e l'apporto nuovo e creativo dell'autore. Questa impressione non intacca la preziosità del documento per la storia della liturgia., indipendentemente dalle possibili interpretazioni, in quanto da esso hanno preso l'avvio formulari e testi liturgici e disciplinari del quarto secolo e oltre. Nella liturgia romana non si trova un documento, che possa essere messo a confronto, fino alla fine del quarto secolo, con i riti e le indicazioni trasmessi. Alcuni riti hanno distinto per la loro antichità la liturgia romana e le prime indicazioni si hanno nella Tradizione apostolica: /'imposizione delle mani dei presbiteri sul/'ordinando sacerdote; la doppia unzione post-battesimale: la formula di benedizione dell'olio per gli infermi. Le preghiere consacratone dell'ordinazione e dell'Eucarestia hanno, tuttavia, lasciato tracce più consistenti nelle liturgie orientali. In tempi recenti la liturgia romana ha recuperato le formule dell'ordinazione episcopale, dell'ordinazione sacerdotale e dell'Eucarestia. Dall'insieme del testo e dalla diversità e moltepli90
cità delle "cose tràdite" si evince che La Tradizione apostolica per alcuni aspetti riduce a una certa organicità norme correnti nella Chiesa; e per questa parte è difficile non riconoscerle un valore di codificazione, non puro e semplice, ma arricchito dall'apporto personale dell'autore/atto di coordinazione e di distribuzione della materia almeno in tre blocchi. Per altri aspetti conserva il marchio, il sigillo, di una persona che vive una vita spirituale intensa, della quale ha lasciato vistose tracce nella stesura del canovaccio di preghiere, nei suggerimenti circa la condotta cristiana e nella proposta di un modello di alta spiritualità nella pagina dedicata alla ripartizione della preghiera della giornata sul ritmo della passione di Cristo.
N.B. Una traduzione, il cui fine primario fosse stato quello di mettere al corrente il lettore della reale condizione della tradizione testuale della Tradizione apostolica, come risulta dalle ricerche più recenti, molto interessate allo stato di conservazione del testo, delle quali, per la verità, abbiamo tenuto conto nella presente versione, avrebbe richiesto il ricorso ad un procedimento diverso. Avrebbe cioè richiesto che fosse data la versione del Palinsesto di Verona per tutta la parte conseroata e la traduzione almeno della versione sahidica ed eventualmente di quelle parti della Tradizione apostolica conseroate nelle rielaborazioni che hanno tramandato un testo vicino a quello comunemente preso come punto di riferimento. Ciò sarebbe stato non solo opportuno, ma estremamente interessante per quelle parti dove le differenziazioni sono notevoli. Ne sarebbe risultata una sinossi di versioni che avrebbe permesso a chiunque di rendersi conto dello stato attuale del testo tramite le convergenze e le divergenze e delle ragioni che banno consigliato Dom Botte a fare determinate scelte. Per ora non è stato possibile adottare questo criterio. 91
PARTE
I
LA TRADIZIONE APOSTOLICA
1. Prologo Abbiamo esposto, come richiedeva l'argomento, quanto riguardava i carismi1 , dei quali Dio fin dall'inizio ha fatto dono agli uomini secondo il suo volere per ripresentare a se stesso quell'immagine, 1
Il termine latino donatlones è stato tradotto con -carismi., che, pur avendo lo stesso significato di ·doni spirituali•, meglio rivela l'intervento di Dio. Nella traduzione di questo Prologo, senza voler chiarire a tutti i costi quello che chiaro non è, si è tentato di esplicitare, nella forma consentita dal testo, l'allusione ad una •trattazione- sui •carismi•, che l'autore dice di essere voluti da Dio per ricreare nell'uomo la propria immagine e di essere concessi a coloro che hanno responsabilità nella Chiesa. La versione letterale sarebbe stata: ·Abbiamo esposto, come era giusto, quanto riguardava i carismi .. .-. Per una migliore comprensione è opportuno aver presente l'inizio del libro V dell'Ottateuco clementino, nel quale il redattore combina il testo del libro III, 1-2 delle Costituzioni apostoliche col Prologo della Tradizione apostolica, ottenendo il seguente risultato: ·Abbiamo dunque trattato in maniera appropriata e pertinente dei carismi, che Dio fin dall'origine liberamente ha dato agli uomini per presentare a sé quell'immagine che aveva deviato. Ora, mossi dall'amore per tutti i santi, abbiamo preso entusiasmo per ciò che è più determinante e sublime nella fede, che s'addice e s'incontra nelle chiese>. Cfr. F. Nau - P. Ciprotti, La version syriaque de l'Octateuque de Clément, Paris 1967, p. 92; R.H. Connolly, 7be Prologue of the Apostolic Tradition of Hippolytus, in JourTheo!St 22 (1921), pp. 356-361. Il libro VIII delle Costituzioni apostoliche, cc. 1-2, inizia con un breve trattato Sui carismi, ed è seguito, nei cc. 4-5; 16-28; 30-31, da un rimaneggiamento e da una amplificazione dei testi delle preghiere e dei riti di ordinazione e di altre prescrizioni presenti in forma molto breve nella Tradizione apostolica. Il c. 3 del libro VIII delle Costituzioni apostoliche può essere letto come testo di transizione dal trattato dei carismi alle indicazioni circa riti e preghiere, che seguono, oppure come
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che aveva deviato. Ora, spinti da amore verso tutti i santi, siamo giunti al vertice della tradizione, che si addice alle Chiese, affinché coloro che sono bene istruiti conservino la tradizione, che finora si è mantenuta, seguendo la nostra esposizione e, conoscendola, siano più sicuri di fronte all'apostasia o all'errore che si è prodotto di recente per ignoranza e da ignoranti. Lo Spirito Santo conceda la grazia perfetta a coloro che hanno una fede retta, affinché coloro che sono preposti alla Chiesa sappiano come debbono insegnare e conservare tutte queste cose. 2. I vescovi
Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, che è irreprensibile. Quando sarà stato fatto il suo nome e sarà bene accetto, il popolo si radunerà insieme con i presbiteri e con i vescovi presenti nel giorno di domenica. Col consenso unanime, gli impongano le mani e i presbiteri assistano senza far nulla 2 • Tutti tacciano e preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito. Uno dei vescoprologo alle indicazioni stesse. Anche la versione etiopica del Synodos alessandrino attesta che questo ·Prologo- o •transizione• è posto tra una prima parte dedicata ai carismi e una seconda parte dedicata alla "Tradizione": cfr. H. Dunsing, Der aethiopische Text der Kirchenordnung des Hippolytos, c. 39, Vandenhoeck und Ruprecht, Gottingen 1946, pp. 78-81. Questo Prologo, non presente all'inizio del Synodos, è recuperato tra il capitolo dedicato al •pasto delle vedove· e una serie di testi sull'iniziazione cristiana, che non provengono da Ippolito. Cfr. A.G. Martimort, La Tradition apostolique d'Hippolyte et le rltuel baptisma/ antique, in BullLittEccl 60 (1959), pp. 57-62. • Questo fa difficoltà, soprattutto se viene messo a confronto col c. 7, dove all'inizio indica che nell'ordinazione del prebistero si procede in modo analogo a quanto detto a proposito del vescovo, ma poi viene provveduta una preghiera di consacrazione diversa. Ciò vorrebbe dire che il vescovo e i presbiteri impongono le mani su colui che viene consacrato vescovo. A parte La Tradizione apostolica, la prima evidenza per la partecipazione dei vescovi vicini alla consacrazione di un nuovo vescovo viene da Cipriano, Ep. 55,8; 67,5. Questi è testimone di un nuovo modo di intendere il ruolo del vescovo: grazie alla natura colle-
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vi presenti, a richiesta di tutti, imponendo la mano sull'ordinanda, preghi dicendo:
3. Preghiera di consacrazione di un vescovo Dfo e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni conforto, che abiti nell'alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose piccole, che conosci tutte le cose prima che esistano, che hai dato le norme3 della Chiesa per la parola della tua grazia, che fin dal principio hai predestinato la stirpe dei giusti di Abramo, costituendo capi e sacerdoti, e non lasciando il tuo santuario senza ministri, che fin dall'inizio del mondo hai voluto4 essere glorificato in coloro che ti sei scelto: ora effondi la potenza dello Spirito sovrano, che da te viene, e che hai dato al tuo diletto figlio, Gesù Cristo, che ne ha fatto dono ai santi apostoli, che in giale dell'episcopato, il vescovo non è più solo responsabile del benessere della Chiesa per la quale è stato ordinato, ma anche delle altre, come si arguisce dalla presenza di altri vescovi alla sua consacrazione. Questo mutamento avrebbe una traccia nella Tradizione apostolica, che prescrive ai presbiteri di assistere in silenzio. Cfr. P.F. Bradshaw, 1be Participation of others Bishops In the Ordination of a Bishop in the •Aposto/ic Tradition- of Hippolytus, in StudPatr XXIII/2 (Leuven 1989), pp. 335-337. ' L'Epitomé delle Costituzioni apostoliche ha il termine greco horos (al plurale), che significa in senso proprio •termine/confine• e in senso tra· siate •norma/ordinamento-. Il contesto chiede che si dia la preferenza al senso traslato. La frase •parola della tua grazia· è un eufemismo che sta per -sacra Scrittura•. In At 14,3; 20,32 la frase ha un significato più preciso e indica in senso obiettivo il •Vangelo-; cfr. At 20,24. Le Costituzioni apostoliche (8,5,3) riprendono l'idea della norma/ordinamento, ma apportano un chiarimento notevole, facendo riferimento all'incarnazione: ·Tu che hai dato gli ordinamenti della Chiesa con l'Incarnazione del tuo Cristo-. 4 Il verbo latino piacere è un eufemismo per esprimere la propria volontà ed è termine tecnico per indicare decisioni, delibere del senato, dei consoli e dei giudici. Qui nella locuzione bene tibi placuit potrebbe essere tradotto alla lettera ·li sei compiaciuto-. Tuttavia, data una certa sfumatura non troppo velatamente giuridica, si è preferito tradurre ·hai voluto-. Cfr. il pronunciamento della sentenza di morte dei martiri scillitani (Atti del martiri scillitani, 16).
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ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a gloria e lode incessante del tuo nome. Concedi, Padre, che conosci i cuori, a questo tuo servo che hai scelto per l'episcopato, di pascere il tuo santo gregge, di esercitare senza biasimo davanti a te il sommo sacerdozio, stando al tuo servizio notte e giorno, di rendere incessantemente propizio il tuo volto e di offrirti i doni della tua santa Chiesa e per virtù dello spirito di sommo sacerdote di avere il potere di rimettere i peccati secondo il tuo comando, di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine e di sciogliere ogni legame5 in virtù del potere che hai dato agli apostoli, di piacerti per la dolcezza e la purezza del suo cuore offrendoti un soave profumo per mezzo del tuo servo Gesù Cristo, per il quale a te gloria, potenza e onore6 con lo Spirito Santo, ora e nei secoli dei secoli. Amen.
' Cfr. Mt 18,18; 28, 18. Se si confrontano le due parti della preghiera di consacrazione, si nota che il centro della prima parte, indubbiamente la più importante e istitutiva dell'episcopato, è nella domanda che su quelli che dovranno prendere il posto di Gesù e degli Apostoli nel governo e nel culto del nuovo popolo di Dio, scenda lo stesso Spirito Santo che è già stato dato loro. Questa forte domanda è volta ad ottenere che i vescovi, grazie alla comunicazione dello stesso dono, lo Spirito Santo, continuino l'opera di Gesù e degli Apostoli e siano capaci di compiere la missione loro affidata. Nella seconda parte il consacrante chiede a Dio di concedere al suo eletto di svolgere degnamente il suo ministero e di essere virtuoso. Le funzioni principali di questo ministero e le virtù da praticare possono essere concentrate nelle locuzioni •pascere il santo gregge•, -esercitare in modo irreprensibile il sommo sacerdozio-, •essere modello di dolcezza, di bontà e di servizio•. Cfr. A. Santantoni, op. cit., pp. 36-45. 6 La dossologia con la quale l'Epitomé termina questa preghiera di consacrazione non nomina né il Padre né il Figlio, e ha un'andatura singolare: •... per il tuo servo Gesù Cristo, per il quale a te gloria, potenza e onore con lo Spirito Santo-. Il cod. L presenta la formula trinitaria. ].A. Jungmann (Die Doxologle In der Klrcbenordnung Hlppolytos, in ZeitKathThebl 86 [1964), 323-324) critica l'argomento in forza del quale Dom Botte ha posto tra parentesi i nomi ·Padre e Figlio- ritenendo incoerente la loro menzione. Argomenti più precisi sarebbero stati il testo dell'Epitomé e la consuetudine del tempo preniceno di non introdurre la dossologia col relativo •per mezzo di lui· riferito a Cristo.
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4. L'offerta Dopo che è stato fatto vescovo, tutti gli diano il bacio della pace salutandolo: «È diventato degno!•. I diaconi gli presentino l'offerta ed egli, imponendo le mani su di essa insieme con tutti i presbiteri, rendendo grazie dica: ·Il Signore sia con voi•. Tutti rispondano: E con il tuo spirito. ·In alto i cuori•. Sono rivolti al Signore. ·Rendiamo grazie al Signore.. È cosa buona e giusta. E quindi prosegua: Ti rendiamo grazie7 , o Dio, per mezzo del tuo diletto figlio Gesù Cristo, che negli ultimi tempi hai inviato a noi come salvatore, redentore e messaggero della tua volontà; egli è il tuo Verbo inseparabile, per mezzo del quale hai creato tutte le cose e fu di tuo gradimento, che hai mandato dal cielo nel seno di una vergine e, accolto nel grembo, si è incarnato e si è manifestato come tuo figlio, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. Per compiere la tua volontà ed acquistarti un popolo santo, egli stese le mani nella passione per liberare dalla sofferenza coloro che confidano in te. Mentre si consegnava liberamente alla passione per distruggere la morte, spezzare le catene del demonio, calpestare l'inferno, illuminare i giusti, fissare la norma8 e manifestare la resurrezione, preso il pane 7
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Questa è la più antica anafora che si conosca; probabilmente è servita da modello a tutte quelle che sono state composte dopo. Nonostante non comprenda il ·Sanctus•, vi sono presenti le altre parti essenziali della grande preghiera: il ringraziamento, il racconto dell'istituzione, l'anamnesi, l'epiclesi e la dossologia. Cfr. nota 9. Nell'attuale contesto liturgico, il significato della frase latina termlnum figat non può essere rapportato che al comando, dato da Gesù durante la celebrazione della Cena, di reiterare quello che stava
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ti rese grazie e dissè: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo che sarà spezzato per voi.. 9•
Allo stesso modo (fece) col calice dicendo: •Questo è il mio sangue che sarà versato per voi. Quando · fate questo, voi fate la mia memoria..10• Ricordando dunque la sua morte e la sua resurrezione, ti offriamo il pane e il calice e ti rendiamo grazie per averci fatti degni di stare alla tua presenza e di renderti culto11 • E ti preghiamo d'inviare il tuo Spirito Santo sull'offerta della santa Chiesa. Unenfacendo. Secondo il precetto del Signore, le comunità cristiane celebreranno l'Eucarestia in memoria della cena. Cfr. Costituzioni apostoliche, 8, 12,35.38. Qualche autore interpreta nel senso di ·fissare il limite(dell'inferno), qualche altro ·fissare i confini· in senso temporale, o ·fissare la regola· come allusione alla -costituzione del CristQo. Il contesto liturgico invita a preferire il senso di regola della celebrazione eucaristica (cf. M. Metzger, Les deux prières eucharistlques des Constitullons apostoliques, in RechScRel 45 11971], p. 59; E. Mazza, Ome/le pasquali, in EphLit 97 (1983], p. 433). ' Il testo è vicino alla tradizione occidentale di 1Cor 11,24 (codd. dg. Ambst), che ha sostituito il verbo •donare>, dal senso oblativo, con -spezzare-. 10 Il cod. L ha per due volte il verbo ·fare• all'indicativo presente della seconda persona plurale e omette davanti a •memoria· la preposizione •in•, rendendo possibile la versione che è stata data, in verità poco scorrevole e ostica. Se si accetta la tradizione testuale di E, si deve tradurre: -Quando farete questo, lo farete in memoria di me•. Sia la versione L che la versione E suppongono la lettura del verbo ·fare• all'indicativo presente/futuro. Le Costituzioni apostoliche (8, 12, 37) hanno: ·Fate questo in memoria di me-. 11 Cfr. Dt 10,8; 2 Cr 29,11, dove si legge la frase -stare alla presenza del Signore- in concomitanza col servizio che i leviti devono prestare. Tale frase, a volte, è enfatizzante nell'Antico Testamento, e significa semplicemente davanti all'altare, all'arca o al luogo dove il Signore -abita•, il tempio. Nella Tradizione apostolica significa stare in comunione con Dio nella Chiesa, il luogo del nuovo culto, che il verbo ministrare indica. Il contesto richiede che questo verbo debba essere inteso nel suo riferimento a tutta l'assemblea coinvolta nell'azione cultuale. L'ecc/esia ringrazia il Signore per essere stata fatta degna di celebrare l'Eucaristia. Cfr. E. Mazza, Omelie pasquali e Blrkat ha-mazon: fonti dell'anafora di Ippolito?, in EphLit 97 (1983), p. 460 (questo contributo di E. Mazza è stato riprodotto nella recente ricerca L'anafora eucaristica. Studi sulle origini de/l'anafora eucaristica [Bibliotheca ·Ephemerides Liturgicae-. Subsidia, 621, Roma 1992, pp. 167-168); Id., Le odierne preghiere eucaristiche, 1. Struttura, teologia, fonti, EDB, Bologna 1984, pp. 151-158. Dom Botte intende il termine come riferito al ministero episcopale che è stato appe-
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do in una sola cosa12, dona a coloro che partecipano dei santi misteri la pienezza dello Spirito Santo per confermare la loro fede nella verità, affinché ti lodiamo e ti glorifichiamo per Gesù Cristo tuo figlio, per il quale gloria e onore a te con lo Spirito Santo nella tua santa Chiesa ora e nei secoli dei secoli . .Amen13•
na conferito all'eletto e fonda la sua argomentazione sull'uso del verbo ierateuo nell'anafora del libro VIII delle Costituzioni apostoliche (cfr. Die Wendung -adstare coram te et tibl ministrare• In Eucbaristtschen Hochgebet Il, in BibLit 49 (1976], pp. 101-104). A. Couratin (cfr. D.H. Tripp, 7be 7banksglving: an F.ssay by Artbur Couratin, in B.D. Spinks [ed.], 7be Sacrifice of Praise, Rome 1981, p. 30) sostiene che nel secondo/terzo secolo non esiste ancora una chiara distinzione tra clero e popolo e, quindi, ministrare può indicare solo l'azione cultuale dell'assemblea. La distinzione tra clero e popolo esiste già nel secondo/terzo secolo ed è attestata dagli scherni relativi all'ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi e dalle prescrizioni riguardanti altre categorie di persone riferiti dalla Tradizione apostolica. Non è una contrapposizione. Nella celebrazione dei santi misteri è tutta l'assemblea che vi partecipa, clero e popolo, ciascuno secondo il proprio rango. Dom Botte, in un articolo pubblicato postumo, è ritornato sull'argomento e, pur accettando che l'anafora non è una preghiera personale del vescovo appena consacrato, contro le sue stesse premesse conchiude che ·il vescovo rende grazie a Dio di essere stato giudicato degno di celebrare il sacrificio eucaristico- (B. Botte, Adstare coram te et tibi ministrare, in QuaestLit 63 (1982], pp. 224-225). È appena il caso di segnalare che la frase latina adstare coram te et ttbi ministrare ha una lieve carica eufemistica e può essere tradotta: ·Ci hai fatti degni di stare alla tua presenza per renderti cult0>. 12 Questa è la più antica epiclesi che si ricordi, nella quale si riscontrano I due aspetti complementari di consacrazione e di comunione fruttuosa e il Signore è pregato d'inviare lo Spirito sulle offerte affinché chi le riceve riceva i doni dello stesso Spirito. La frase, prendendo come punto di partenza la teologia delle omelie pasquali, potrebbe esser interpretata nel senso che lo Spirito Santo e l'offerta sono uniti come una sola cosa, dal momento che lo Spirito Santo è stato invocato sull'offerta. Tuttavia, considerando debitamente il tenore del testo e la "filosofia• sottesa, è preferibile l'interpretazione che vede indicata l'unità della Chiesa e/o dei santi che partecipano all'Eucarestia (cfr. l'analisi di E. Mazza, op. cit., pp. 157-162). Una versione scorrevole, che però ha il sapore di una esegesi, potrebbe essere la seguente: •Dona a tutti coloro che, riuniti insieme, partecipano dei santi misteri, la pienezza dello Spirito Santo ..... 13 Questa anafora è stata introdotta nel Messale Romano, come seconda preghiera eucaristica, non senza un rimarcato intervento di adattamento sul testo.
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5. (Offerta dell'olio) Se qualcuno offre olio, (il vescovo) renda grazie come nell'offerta del pane e del vino, non usi le stesse parole, ma simili nel senso, dicendo: ·Come con la santificazione di quest'olio, col quale hai unto re, sacerdoti e profeti, tu doni, o Dio, la sanità a coloro che lo ricevono e ne sono unti, così procuri conforto a coloro che lo gustano e la salute a coloro che lo usano•.
6. (Offerta del formaggio e delle olive) Ugualmente se qualcuno offre formaggio e olive, dica: ·Santifica questo latte, che si è cagliato14 e coagula anche noi alla tua carità. Fa che non si allontani dalla tua dolcezza questo frutto dell'olivo, che è simbolo della tua ricchezza, che hai fatto stillare dal legno per la vita di coloro che sperano in te·15 • In ogni benedizione si dica: ·Gloria a te, Padre e Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen·16 •
7. I sacerdoti Quando viene ordinato un presbitero, il vescovo imponga la mano sul suo capo, mentre i presbiteri lo si prendono alla lettera le due voci ·formaggio- e ·latte che si è cagliato-, si dovrebbe pensare a una contraddizione: il latte cagliato è di recente lavorazione, è fresco, morbido, bianco; il formaggio non è di lavorazione recente e le sue caratteristiche non sono identiche a quelle del latte cagliato. L'autore non si è preoccupato di questa sottigliezza e quindi ha usato due voci per indicare la stessa cosa. J.-M. Hanssens (op. clt., p. 422) ritiene che si tratti proprio di latte cagliato. L'offerta dell'olio, del formaggio e delle olive è facoltativa, ma non si sa in quale momento della celebrazione avvenga, se dopo l'anafora, dopo la comunione o in concomitanza con l'offerta del pane e del vino. In ogni caso, l'autore si preoccupa di non identificare la benedizione di queste due offerte con quella del pane e del vino, che ha un'altra desti-
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nazione. 16 Questa
dossologia non è posta solo a conclusione della celebrazione precedente, ma è proposta come modello per qualunque altra benedizione.
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toccano, e si esprima nel modo che abbiamo già detto, come abbiamo indicato a proposito del vescovo, pregando e dicendo17: ·Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, volgi lo sguardo su questo tuo servo e donagli uno spirito di grazia e di saggezza sacerdotale, affinché aiuti e governi il tuo popolo con cuore puro, come volgesti lo sguardo sul popolo che hai eletto e ordinasti a Mosè di scegliere degli anziani che ricolmasti del tuo spirito che avevi dato al tuo servo. E ora, Signore, concedi che non venga mai meno in noi lo spirito della tua grazia e rendici degni, ripieni (del tuo spirito), di servirti con un cuore semplice lodandoti per il tuo figlio Gesù Cristo18, per il quale a te gloria e potenza, con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli. Amen•. 8. I diaconi
Quando si ordina un diacono, sia scelto nel modo già detto, il solo vescovo gli imponga le mani, preghiera che segue indica chiaramente che l'autore riporta delle formule usate per la consacrazione e del vescovo e del sacerdote. Probabilmente, non hanno ancora raggiunto una fissità liturgica. Il richiamo a •quanto detto sopra• sembra avere come primo obiettivo la ritualità della consacrazione sacerdotale e non la ripetizione della formula di consacrazione del vescovo con varianti introdotte in ordine alla diversa funzione e alla diversa dignità del sacerdote. La preghiera per la consacrazione del sacerdote è compiuta nella sua articolazione: c'è la tipologia dell'Antico Testamento e la sua applicazione alla Chiesa. E.C. Ratcliff (·Apostolic Tradltion•. Qu.estion concerning tbe Appointment of the Bisbop, in StudPatr 8/2 [Texte u. Untersuch., 937], Berlin 1966, p. 406) ritiene che con l'espressione •quanto detto sopra• l'autore alluda all'opera Sul carismi. 18 Nell'ultimo periodo della preghiera per la consacrazione sacerdotale è invocato lo Spirito Santo anche per i presenti, ricordati con un generico •noi•; questo •noi· potrebbe essere la comunità o il vescovo col suo presbiterio. Nel contesto della preghiera di ordinazione è un'aporia, conservata anche nella preghiera di ordinazione presbiterale delle Costituzioni apostoliche (8, 16, 5), dove però si chiede anche che il neoordinato svolga il suo ministero in maniera irreprensibile. 17 La
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come abbiamo prescrittc19• Nell'ordinazione del diacono solo il vescovo imponga le mani, perché non è ordinato al presbiterato, ma al servizio del vescovo per fare quello che questi gli indica. Difatti non prende parte del consiglio del clero, ma amministra e segnala al vescovo ciò che è necessario, né riceve lo spirito comune del presbiterato del quale partecipano i presbiteri, ma quello che gli è conferito per il potere del vescovo. Per questo solo il vescovo ordini il diacono. Sul presbitero impongano le mani anche i presbiteri, perché al clero è comune e simile lo spirito. Il presbitero infatti ha il solo potere di riceverlo, ma non quello di darlo, perciò non ordina il clero. Per l'ordinazione presbiterale ratifica, mentre il vescovo ordina. Ordinando il diacono il vescovo dica: ·Dio, che hai creato tutte le cose e le hai disposte mediante il tuo Verbo, Padre di nostro Signore Gesù Cristo, che hai inviato per eseguire la tua volontà e manifestarci il tuo disegno, concedi lo spirito della tua grazia, dello zelo, e della diligenza a questo tuo servo, che hai eletto al servizio della tua Chiesa e per presentare nel tuo santuario ciò che viene offerto da colui che è stato stabilito tuo sommo sacerdote a gloria del tuo nome, affinché, adempiendo il suo compito in modo irreprensibile e con cuore puro, sia trovato degno di questo elevato ufficio, ti lodi e glorifichi per il tuo figlio Gesù Cristo nostro Signore, per il quale a te gloria, potenza e lode, con lo Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen•.
frase •come abbiamo prescritt0> è infelice, perché sembra riferita all'imposizione delle mani, sulla quale ritornerà nella frase seguente. È probabile che l'inciso riguardi tutta la cerimonia.
19 La
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9. I confessori Se un confessore è stato imprigionato per il nome del Signore, non gli siano imposte le mani per il diaconato o per il presbiterato dal momento che, per la sua confessione, possiede l'onore del presbiterato. Ma se viene nominato vescovo, gli siano imposte le mani20 • Se c'è un confessore che non è stato condotto davanti all'autorità, che non è stato arrestato, né incarcerato, né condannato ad altra pena, ma è stato soltanto occasionalmente deriso per il nome del Signore e vessato dai propri familiari, se ha confessato, gli sia imposta la mano per qualsiasi ordine, di cui è degno. Il vescovo renda grazie, come è stato detto. Non è necessario21 che ripeta le stesse parole che abbia-, mo detto sforzandosi di recitarle a memoria, rendendo grazie a Dio, ma ciascuno preghi come è capace. Se qualcuno è capace di recitare una preghiera più lunga e più solenne, bene. Ma se qualcuno, quando prega, recita una preghiera più semplice, non gli sia vietato. È importante che la sua preghiera sia corretta e ortodossa22 • 20 Questa
nonna dei confessori della fede è una spia per dire che si è in tempo di persecuzioni. Le Costituzioni apostoliche (8,23), redatte in altra temperie, omettono tale norma. 21 Le versioni araba ed etiopica omettono la negazione •non• davanti a •necessario-, modificando sensibilmente il testo, che direbbe: ·In ogni caso è necessario.,,•, La libertà creativa del vescovo ha il solo limite dell'ortodossia. Va sottolineato che questo comma del n. 9 è un blocco erratico caduto tra il regolamento concernente i confessori e le prescrizioni sulle vedove, sul lettore, sulle vergini e sui suddiaconi, Tutto il n, 9 manca nel Palinsesto di Verona. La preghiera del vescovo nella tradizione delle versioni è detta •preghiera gloriosa, solenne, elevata, nobile, inno, lode-, Ciò potrebbe indicare che diverse erano le forme di preghiera che venivano fatte nel corso dell'assemblea. Cfr. M, Metzeger, Enquétes autour de la protendue ·Tradition apostolique•, in •Ecclesia Orans- 9 (1992), pp. 8-9. 22 L'ultirno periodo sulla tipologia della preghiera del vescovo è fuori posto in un contesto riservato ai confessori della fede.
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10. Le vedove
Quando si istituisce una vedova, non riceve l'ordinazione, ma solo il titolo. Se il marito è deceduto da molto tempo, si faccia l'istituzione; se invece è deceduto da poco tempo, non si abbia fiducia in lei; se poi è anziana, sia tenuta in prova per un tempo determinato. Spesso infatti le passioni invecchiano con colui che le ha alloggiate nel proprio interno. La vedova venga istituita con la sola parola e poi venga aggregata alle altre. Non si imporranno le mani, perché non fa l'offerta e non presta alcun servizio liturgico. L'ordinazione è riservata al clero per il servizio liturgico, mentre la vedova è istituita perché preghi, che poi è dovere di tutti23 • 11. Il lettore
Il lettore viene istituito nell'atto in cui il vescovo gli consegna il libro: infatti non gli sono imposte le mani24 . · 12. La vergine
Non s'imponga la mano su una vergine: è la sua decisione che la fa vergine25. 13. Il suddiacono
Non si imponga la mano sul suddiacono, ma sia nominato al servizio del diacono26 • non mostra interesse per il ruolo che le vedove possono svolgere nella comunità cristiana; gli sta a cuore l'aspetto ascetico. rivalutazione dell'ufficio del lettore nel Concilio Vaticano II, cfr. Sacrosanctum Concilium, 29. "Cfr. Mt 19,12; 1 Cor7, 8.25-28.32-35. Qui la verginità è inserita nell'elenco delle istituzioni e ha un rango ufficialmente riconosciuto nella. società ecclesiale. 26 Nella riforma liturgica del Vaticano II, la figura del suddiacono è sparita nella Chiesa di rito latino. Il decreto Orientalium Ecc/esiarum, 17 impo23 L'autore
24 Sulla
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14. I doni di guarigione
Se uno dice: ·Ho ricevuto il dono della guarigione in una rivelazione•, non si imporrà la mano su di lui. I fatti stessi dimostreranno se ha detto la verità. 15. Coloro che si accostano per la prima volta alla fede
Coloro che si presentano per la prima volta ad ascoltare la parola, siano subito condotti alla presenza dei maestri 27 , prima che tutto il popolo arrivi, e sia loro chiesto il motivo per cui si accostano alla fede. Coloro che li hanno condotti testimonino se sono in grado di ascoltare la parola'. Siano interrogati sul loro stato civile: se hanno moglie, se sono schiavi. Se qualcuno è schiavo di un fedele e il padrone lo consente, ascolti la parola; ma sia rinviato se il padrone non garantisce che è buono. Se il suo padrone è pagano, gli si insegni di dare soddisfazione al padrone per non essere calunniato. Se un uomo ha moglie o una donna ha marito, si insegni a contentarsi, il marito della moglie e la moglie del marito. Se uno non vive con una donna, gli si insegni a non fornicare, ma a prendersi una donna secondo la legge o a rimanere come è 28 • ne il ritorno all'antica disciplina d'ogni singola Chiesa quanto agli obblighi dei suddiaconi, derogando al "motu" di Pio XII Cleri sanctitati. Il termine usato dalle versioni sahidica, araba, etiopica per indicare la funzione di colui che impartisce un insegnamento catechetico corrisponde al greco didaskalos. Per conservare questo significato si è preferito ricorrere al termine "maestro" che non crea confusione, come avverrebbe se si usasse "dottore". Si intuisce facilmente che sono cristiani incaricati dell'insegnamento della loro religione. Il termine "catechista" sarebbe stato più espressivo, ma non avrebbe reso bene l'importanza del loro ruolo nella Tradizione apostolica. Nel Nuovo Testamento sahidico, la voce didaskalos indica colui che impartisce un insegnamento. Cfr. B. Botte, La Traditlon apostolique, cit., p. 33, nota 3. 28 Cfr. 1 Cor 7,7-9. A quale legge alluda l'autore non è chiaro; probabilmente ha in vista il dettato del diritto romano sul matrimonio. 27
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Se uno è posseduto dal demonio, non ascolti la parola dell'insegnamento fino a che non si sia purificato.
16. Mestieri e professioni Siano esaminati i mestieri e le professioni di coloro che sono condotti per essere istruiti. Se uno gestisce un postribolo, smetta o sia rimandato. Se uno è scultore o pittore, gli sia detto di non rappresentare più idoli: smetta o sia rimandato. Se uno è attore o dà rappresentazioni in teatro, smetta o sia rimandato. Chi insegna ai fanciulli, è bene che smetta; se non ha altra occupazione, gli sia concesso. Ugualmente il cocchiere che gareggia o colui che prende parte ai giochi, smetta o sia rimandato. Il gladiatore, o l'istruttore dei gladiatori, o il bestiario che caccia nel circo le fiere, o il funzionario che organizza i giochi gladiatori, smetta o sia rimandato. Chi è sacerdote degli idoli o guardiano di idoli, smetta o sia rimandato. Il soldato subalterno non uccida alcuno. Se riceve tale ordine, non lo eseguirà e non presterà giuramento. Se rifiuta, sia rimandato. Chi ha il potere di vita o di morte, o il magistrato d'una città, che indossa la porpora, smetta o sia rinviato. Il catecumeno o il fedele che vogliono arruolarsi nell'esercito, siano rimandati, perché hanno disprezzato Dio. La prostituta, il lussurioso29, il dissoluto o l'autore di azioni infami, siano rinviati, perché sono impuri. Botte (op. cit., p. 37, nota 7) ammette che il testo della versione sahidica che legge -colui che si è evirato- è traduzione errata del termi-
29 Dom
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Il mago non sia nemmeno ammesso all'esame. L'incantatore, l'astrologo, l'indovino, l'interprete dei sogni, il ciarlatano, colui che taglia i lembi delle vesti30 , il fabbricante di amuleti, smettano o siano rimandati. La concubina di qualcuno, se è sua schiava, se ha allevato i figli e ha rapporti solo con lui, sia ammessa, altrimenti sia rimandata. Chi ha una concubina, smetta e prenda moglie secondo la legge; se non vuole, venga rimandato31• Se abbiamo fatto delle omissioni, le professioni stesse vi faranno da maestre. Tutti, infatti, abbiamo lo Spirito di Dia32 • ne greco kinaidos. Aggiunge che una etimologia popolare lo equiparava a -eunuco-. Il contesto esclude che si tratti di uno che si è autoevirato e continua nella enumerazione delle persone dedite alla lussuria. Pertanto, si è preferito tradurre •lussurioso-. Cfr. Costituzioni apostoliche, 8,32,11 (Epitome). 30 B. Botte, Psellistes-Psalistes (RevEtByz 16 [1958], pp. 162-165), è dell'avviso che non si tratti di una pratica magica, bensì di una specie di attività che consisteva nel ridurre il peso delle monete limandone i bordi. Pertanto traduce ·le coupeur qui rogne le bord des pièces (de monnaie)•. Un aspirante cristiano non può continuare a comportarsi cosl. Questa spiegazione è interessante; tuttavia, difficilmente trova posto in un contesto dedicato alle pratiche magiche. G. Cuming (Htppolytus: A Text /or Students wllh Introductton, Trans/ation, Commentary and Notes, Nottingham 1979, p. 16) è dell'avviso che il testo abbia di mira coloro la cui professione consisteva nel ritagliare frange o tasselli sulla veste, che il portatore riguardava come una protezione contro gli spiriti maligni. ''L'autore contempla due casi: quello del concubinato monogamico con prole e quello senza prole. Sono due casi ben distinti: il primo, che viene accettato, ha per protagonista la donna; il secondo, invece, l'uomo. La presenza della prole e la fedeltà della donna sembrano motivi sufficienti per l'accettazione. Nel secondo, invece, si richiede che il caso venga regolato a norma del diritto romano. Si potrebbe avere qui un'eco della disciplina matrimoniale introdotta da Callisto, il quale consentiva matrimoni validi tra donne libere e ùomini di condizione infima, benché vietati dal diritto romano. Cfr. Ippolito, Conf. 9,12,22-25. Si intuisce che era intenzione di Callisto di favorire le donne di nobile famiglia in via di conversione al cristianesimo che avevano di fatto difficoltà a sposarsi con un cristiano che non era di pari rango sociale. "Le Costituzioni apostoliche (8,32,9-13.16) sostanzialmente riprendono quest'elenco dei mestieri e delle professioni, cui ne aggiungono altri.
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17.Durata dell'istruzione dopo l'esame dei mestieri e delle professioni I catecumeni siano istruiti per tre anni. Se qualcuno poi è sollecito e vi si dedica con impegno, non sia giudicato il tempo, ma sia solo la condotta a essere giudicata. 18. La preghiera di còloro che ricevono l'istruzione
Quando il maestro termina l'istruzione, i catecumeni preghino in disparte, separati dai fedeli. Le donne preghino in un luogo loro riservato nell'assemblea, siano esse fedeli o catecumene. Quando avranno finito di pregare, non si danno il bacio della pace, perché il loro bacio non è ancora santo33. I fedeli invece si saluteranno scambievolmènte, uomini con uomini e donne con donne; ma gli uomini non saluteranno le donne. Le donne poi si coprano il capo col mantello, ma non con la sola stoffa di lino, che non vela. 19. L'imposizione delle mani sui catecumeni
Quando il maestro, dopo la preghiera, ha imposto la mano sui catecumeni, preghi e li congeda. Faccia così l'istruttore sia esso chierico o laico. Se un catecumeno è arrestato per il nome del Signore, non sia indeciso per quanto riguarda la sua testimonianza. Se infatti subisce violenza e viene ucciso, benché non abbia ancora avuto il perdono dei suoi peccati, sarà giustificato. Ha ricevuto infatti il battesimo nel suo sangue. Rm 16, 16; 2Cor 13, 13; lTs 5,26; lPt 5, 14. Il divieto imposto ai catecumeni di salutare gli altri fedeli col bacio della pace si spiega probabilmente col fatto che questo gesto avveniva nel corso dell'assemblea liturgica ed era segno di piena comunione, che ai catecumeni ancora mancava.
33 Cfr.
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20. Coloro che riceveranno il battesimo
Quando sono scelti coloro che dovranno ricevere il battesimo34 , si esamini la loro vita: se hanno vissuto correttamente il loro catecumenato, se hanno onorato le vedove, se hanno visitato gli ammalati, se hanno fatto le opere buone. Se coloro che li hanno presentati testimonieranno ·che ciascuno si è comportato in questo modo, allora ascoltino il Vangelo. Dal momento in cui sono scelti, si impongano su loro ogni giorno le mani per esorcizzarli. Quando s'avvicina il giorno del battesimo, il vescovo li esorcizzi singolarmente per vedere se sono puri. Se qualcuno non è buono o non è puro, sia scartato, perché non ha ascoltato con fede la parola: è impossibile infatti che lo "Straniero"35 si nasconda sempre. Si ordini a coloro che devono ricevere il battesimo di prendere un bagno e di lavarsi il quinto giorno della settimana36. Se una donna ha le regole, venga messa in disparte e riceva il battesimo in un altro giorno. Coloro che riceveranno il battesimo, digiunino il venerdì37 e si riuniscano il sabato nello stesso luogo a discrezione del vescovo. Si ordini loro di pregare e di inginocchiarsi, e imponendo loro la mano, (il vescovo) comandi a ogni spirito straniero di allontanarsi da essi e di non ritornare mai più. Quando avrà finito l'esorcismo, soffi loro sul viso, segni loro la 34 Nel
rito romano I catecumeni, che sono prossimi al battesimo, sono detti e/ectl. 35 Il testo latino ha alienus, termine inusitato per indicare il diavolo nella letteratura protocristiana latina. Esso traduce il greco allotrios, che indica il diavolo nel senso di lontano da Dio, straniero a Dio, avversario. Cfr. Ef 4,27; 1Tm 5,14; Const. ap. 8,6.7.8; Gregorio Nazianzeno, Discorsi, 14,27. 36 Il quinto giorno della settimana corrisponde al nostro "giovedi". "'La Dldaché (7,4) prescrive al battezzando di digiunare uno o due giorni prima del battesimo, e ordina di digiunare al battezzante e a quanti possono.
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fronte, le orecchie, le narici38, li faccia quindi alzare. Veglieranno tutta la notte ascoltando letture e istruzioni. I battezzandi non portino nulla con loro, se non ciò che ognuno porta per l'Eucarestia39 . È bene infatti che chi è divenuto degno, faccia l'bfferta alla stessa ora. 21. Rito e amministrazione del santo battesimo
Al canto del gallo, prima d'ogni cosa, si preghi sull'acqua. Sia acqua che scorre in una fontana o che cade dall'alto40• Si faccia in questa maniera, a meno che non ci sia altra necessità. Se c'è una necessità permanente e urgente, si usi l'acqua che si trova. I battezzandi depongano le loro vesti. Battezzate per primi i bambini41 • Coloro che sono in grado di rispondere da sé, rispondano. Coloro che non sono in grado di rispondere da sé, rispondano per loro i genitori o qualcuno della famiglia. Battezzate poi gli uomini e quindi le donne, dopo che avranno sciolto i loro capelli e deposto i gioielli d'oro42 che portano addosso. Nessuno scenda nell'acqua portando oggetti estranei. All'ora fissata per il battesimo, il vescovo renda grazie sull'olio, che metterà in un vaso e si chiami 38
n rito romano ha conservato questi gesti modificandone la forma.
testo ha in vista l'offerta che il battezzando portava con sé e che presentava dopo avere ricevuto il battesimo. 40 1.a Didacbé (7,1) raccomanda l'uso d'acqua corrente anche fredda. 41 Si intuisce che il rito del battesimo era identico per i bambini e per gli adulti. "'La versione sahidica aggiunge -e d'argento-. Se in questa prescrizione c'è un'eco della norma del trattato Sbabbatb, 6,1 della Mishnah, secondo la quale alla donna, di sabato, non è consentito uscire con cinture di lino o di lana o con nastri in capo, perché non può prendere il bagno senza slacciarli, né con altri ornamenti, gioielli, orecchini, pendenti d'oro, si potrebbe dire che come la donna giudaica, che voleva compiere un rito purificatorio, doveva sciogliere i capelli e deporre gli ornamenti, analogamente doveva comportarsi la donna che si prestava a ricevere il battesimo. 39fi
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olio del rendimento di grazie. Prende poi altro olio, che esorcizzerà, e si chiami olio dell'esorcismo43• Un diacono poi porta l'olio dell'esorcismo e si pone alla sinistra del presbitero, un altro diacono prende l'olio del rendimento di grazie e si pone alla destra del presbitero. Prendendo uno per uno i battezzandi, il presbitero ordini a ciascuno di rinunciare dicendo: ·lo rinuncio a te, Satana, a tutto il tuo culto44 e a tutte le tue opere•. Dopo che ciascuno ha rinunciato, lo unga con l'olio dell'esorcismo dicendogli: ·Ogni spirito si allontani da te.. Così lo affidi, nudo, al vescovo o al presbitero, che sta vicino all'acqua per battezzarlò. Un diacono scenda nell'acqua col battezzando nella maniera seguente. Quando il battezzando sarà sceso nell'acqua, colui che battezza gli imponga la mano sul capo chiedendo: ·Credi in Dio Padre onnipotente?•. Il battezzando risponda: ·Credo•. Lo battezzi allora una prima volta tenendogli la mano sul capo. Poi chieda: •Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio, che è nato per intervento dello Spirito Santo dalla vergine Maria, fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì, fu sepolto e il terzo giorno risuscitò vivo dai morti, è salito nei cieli e siede alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti?·. Quando avrà risposto: ·Credo•, lo battezzi una seconda volta. Nuovamente chieda: ·Credi nello Spirito Santo, nella santa Chiesa?·45 . Il battezzando risponderà: ·Credo•, così sia 43 Qui
per la prima volta è ricordata la distinzione tra l'olio del rendimento di grazie e l'olio dell'esorcismo . .. Se la voce latina servitlum fosse la versione del termine greco pompe, la traduzione potrebbe essere ·fasto•, •apparato•, ·seduzione• o anche •pompe·. Il termine ·pompe•, al plurale, nel linguaggio ecclesiastico indica la seducente fastosità delle opere del diavolo. "Il cod. L ha subìto l'influsso dell'ulteriore sviluppo della confessione di fede, perciò aggiunge: •nella santa Chiesa e nella resurrezione della carne- (cfr. P. Nautin, je crols à l'Esprit Saint dans la sainte Égllse pour la résurrectton de la chair, Paris 1947); B. Botte (Note sur le symbo/e baptlsmal de saint Hippolyte, in Mélanges f. de Ghel/inck, Gembloux
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battezzato per la terza volta. Quando sarà uscito (dall'acqua), il presbitero lo unga con l'olio del rendimento di grazie dicendo: «Ti ungo con l'olio santo nel nome di Gesù Cristo.. Quindi si asciughino, si rivestano ed entrino in chiesa. Il vescovo, imponendo loro le mani, reciterà l'invocazione: «Signore Dio, che li hai resi degni di ottenere il perdono dei peccati mediante il lavacro della rigenerazione dello Spirito Santo46 , effondi su 1951, pp. 189-200) difende la lezione scelta -nello Spirito Santo nella santa Chiesa., poiché non ritiene •nella santa Chiesa• un articolo di fede, ma un complemento di luogo. Il testo originale non doveva avere la preposizione greca eis con l'accusativo, con la quale viene indicato l'oggetto della fede, come il Padre e il Figlio, ma en col dativo di stato in luogo. Il significato sarebbe quindi che la professione di fede nella Trinità si fa nella chiesa. La ·chiesa/luogo• sarebbe raccordata alle tre Persone. Cf. B. Botte, L'Esprit-Saint et l'Église dans la ·Traditton apostollque• de saint Hippolyte, in ·Didascalia•, 2 0972), pp. 224-225. G.J. Cunting (op. clt., p. 19) propone la formula lunga: •Credi nello Spirito Santo e nella santa Chiesa e nella resurrezione della carne?•. 46 Il testo della versione latina dice: ·li hai resi degni di ottenere il perdono dei peccati mediante il lavacro di rigenerazione dello Spirito Santo-. Il testo fa certamente difficoltà se si ritiene che sia attribuita allo Spirito Santo la rentissione dei peccati. La teologia sacramentaria della Tradizione apostolica, fatta eccezione per il sacramento del battesimo e della Eucarestia, non ha altre espressioni qualificanti. Dom Botte (op. cit., p. 53) suppone che il traduttore latino (perché non il copista?) abbia saltato una riga, come suggeriscono le versioni sahidica, araba ed etiopica, che dovrebbe essere restituita. L'ipotesi della ontissione di una riga è una congettura impossibile da sostenere, a motivo della precarietà dei testi. t il caso di ricordare che il Synodos alessandrino legge: ..Signore Dio, che ci hai resi degni di ottenere la remissione dei peccati mediante il lavacro della rigenerazione, rendili degni di essere riempiti dello Spirito Santo e invia su di loro la tua grazia ... •. I Canoni di Ippolito offrono un testo che è sulla linea di quello della Tradizione apostolica: ·Noi ti benediciamo, Signore Dio ... poiché hai fatto questi degni di nascere una seconda volta, d'essere riempiti del tuo Spirito Santo e d'essere uno solo nel corpo della Chiesa, concedi loro la caparra del tuo regno ...•. Cfr. R. Coquin, Les Canons d'Hippolyte, PO 31/2, 383. Gli interventi degli studiosi sul testo della Tradizione apostolica, se per un verso ne testimoniano l'importanza in teologia sacramentale, per un secondo verso ne denunciano la difficoltà. Cfr. B. Botte, La Tradltion apostolique de saint Hippolyte. Addenda di A. Gerhards, pp. 120-123. Si deve sottolineare l'accordo tra la versione latina e i Canoni di Ippolito, dove il dono dello Spirito Santo fa parte dell'anamnesi, quindi è considerato un dono già accordato, mentre nel Synodos alessandrino il dono dello Spirito Santo fa parte delle domande
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di loro la tua grazia, affinché ti servano secondo la tua volontà, poiché a te è gloria, al Padre e al Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa47, ora e nei secoli dei secoli. Amen•. Poi versandogli l'olio santificato dalla sua mano e imponendogli (la mano) sul capo, dica: «Ti ungo con olio santo nel Signore, Padre onnipotente, nel Cristo Gesù e nello Spirito Santo•. Lo segni sulla fronte, lo baci e dica: «Il Signore sia con te., e colui che è stato segnato risponda: ·E con il tuo spirito•. Così faccia con ciascuno. Oramai preghino insieme con tutto il popolo; non preghino con i fedeli prima d'avere ottenuto tutto ciò. Dopo avere pregato, diano il bacio della pace. A questo punto, i diaconi presentino l'offerta al vescovo, che renderà grazie sul pane, perché diventi simbolo del corpo del Cristo, sul calice di vino mescolato, perché diventi il simbolo del sangue, che è stato versato per tutti coloro che credono in lui; sul latte e il miele mescolati insieme, perché indichino l'adempimento della promessa, fatta ai padri, che chiamò •terra dove scorre latte e miele•, che Cristo ha dato (come) sua carne48 , della quale si nutrono, alla maniera dei bambini, i credenti, e che con la soavità della parola trasforma in dolcezza l'amarezza del cuore; infine sull'acqua offerta perché significhi il bagno, affinché l'uomo interiore, cioè l'anima, riceva gli stessi effetti del corpo. Il vescovo dia tutte della cbetrotesla, che comporta una epiclesi dello Spirito Santo sui battezzati. Cfr. M. Metzger, Enquetes... , cit., p. 4. 47 La formula trinitaria ha un riscontro in Ippolito, De Anticbristo, 59. Nel testo è significativa l'invocazione dello Spirito Santo sui banezzatl come grazia impersonale. ""Il significato del testo è che la carne di Cristo è la terra che nutre i credenti. Questa scelta interpretativa è in sintonia con lo stile icastico impresso a cuno il rito del banesimo e con l'accentuato simbolismo del tesco. Cfr. Ippolito, De benedictione jacob in Deut. 33,13; cfr. anche Lettera di Barnaba, 6,10.
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queste spiegazioni a coloro che si comunicano49. Spezzando il pane e distribuendone un pezzetto a ciascuno, dica: ·Il pane del cielo nel Cristo Gesù•. Chi lo riceve risponda: ·Amen•. Se i presbiteri non bastano, anche i diaconi tengano i calici e s'attengano con compostezza al seguente ordine: primo quello che ha in mano l'acqua, secondo quello che ha in mano il latte e terzo quello che ha il vino. Coloro che ricevono (la comunione) bevano da ognuno dei calici, mentre ciascuno, porgendo il calice, dirà: •In Dio Padre onnipotente•. Colui che beve risponda: «Amen•. «E nel Signore Gesù Cristo•. (Risponda: ·Amen•). ·E nello Spirito Santo e nella santa Chiesa•. Risponda: •Amen•. Così si faccia per ciascuno. Terminati questi riti, ciascuno sia sollecito nel fare del bene, di piacere a Dio e di vivere rettamente, dedicandosi alla Chiesa, mettendo in pratica gli insegnamenti appresi e progredendo nella pietà50 • Vi abbiamo trasmesso brevemente queste istruzioni sul battesimo e sulla santa oblazione, perché siete già stati istruiti sulla resurrezione della carne e su tutto il resto, come è stato scritto51 • Ma se è opportucod. S ha compreso il testo come se trattasse del battesimo. Il contesto verte chiaramente sulla catechesi eucaristica. "'La versione latina termina con la frase -ciascuno sia sollecito nel fare del bene ... •; le versioni sahidica, araba, etiopica proseguono con altre esortazioni. Se il testo, lungo o breve, ha un senso, esso vuole dire che l'Eucarestia è la celebrazione della comunità riunita attorno al presbiterio, vescovo, presbiteri e diaconi, in memoria del Signore. L'agape, cui tra l'altro sembra alludere, è un modo di fare del bene, accanto all'esortazione a comportarsi correttamente. C'è da chiedersi se l'autore, accennando all'opera buona da compiere, non abbia vagamente presente la Lettera di Giacomo, laddove parla dell'accoglienza da riservare a chi si presenta in assemblea, ricco o povero che sia. Un'eco certamente si ha nella Didascalia degli Apostoli (ed. F.X. Punk, Paderbomae 1964; rist. anastatica, pp. 168.170) e nelle Costituzioni apostoliche (SCh 320, Paris 1985, p. 322), che modificano il testo della Didascalia. "Questo periodo non è la conclusione della prima parte della Tradizione apostolica, ma del c. 21. Il tutto sembra riguardare una catechesi
49 Il
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no ricordare qualche cosa, il vescovo la dica, sotto segreto, a coloro che hanno ricevuto il battesimo. Gli infedeli non ne vengano a conoscenza, se non dopo che hanno ricevuto il battesimo52 • Questo è il sassolino bianco del quale Giovanni disse: ·Un nome nuovo vi è scritto, che nessuno conosce, se non colui che riceverà il sassolino·53 • · 22. La comunione
Il sabato e la domenica 54 il vescovo, se può, distribuisca personalmente (la comunione) a tutto il popolo, mentre i diaconi spezzano il pane. Anche i presbiteri spezzeranno il pane. Quando il diacono porta (l'Eucarestia) al presbitero, la porgerà su un lembo della sua veste, e il presbitero si comunicherà lui stesso, e la distribuirà di sua mano al popolo 55 •
postbattesimale incorporata all'opera, che forma un corpo a sé stante. Cfr. B. Botte, op. cit., p. XXXV. "È preferibile seguire il testo della versione sahidica, che ha la voce ·battesim0>. Infatti la discriminazione tra fedele e infedele sta nell'avere o non avere ricevuto il battesimo. Della -disciplina dell'arcano- si hanno tracce dalla fine del secondo secolo, ma non si può dire che il presente testo sia una prova. 53 Ap 2,17. L'autore si riferisce alla nuova condizione del neobattezzato, che ha ricevuto un nome nuovo, quello di cristiano, e all'Eucarestia. Il senso più ovvio del testo sacro è il seguente: ·la manna nascosta• è la grazia divina, il ·sassolino bianco-, colore della vittoria, è la tessera per entrare nell'eredità beata, espressa dal •nome nuovo•. 54 È da preferire la lezione della versione etiopica, che ha ·il sabato e la domenica•. Secondo G.J. Cuming, op. cit., ci sono indizi di una prassi eucaristica al sabato nel terzo secolo. Cfr. C.W. Dugmore, 7be Inj/uence of the Synagogue upon the Divine Office (Alcuin Club Collections, 55), London 1968, pp. 28-37. "].M. Hanssens (La liturgie d'Hippolyte. Ses documents, son titu/aire, ses origines et son caractère, Roma 1959, p. 145) conserva il testo della versione etiopica, che spiega nel modo seguente: il diacono si limita a presentare al presbitero, su un lembo del proprio vestito, il pane eucaristico, che il presbitero prende di sua mano per comunicarsi. Ai fedeli, invece, il diacono distribuisce personalmente la comunione.
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23. Il digiuno Le vedove e le vergini digiunino spesso e preghino per la Chiesa. I presbiteri e parimenti i laici digiunino quando vogliono. Il vescovo non può digiunare se non quando digiuna tutto il popolo. Può accadere, infatti, che qualcuno voglia fare un'offerta: il vescovo non può rifiutare. Quando spezza il pane, ne gusti in ogni caso.
24. I doni ai malati Il diacono, in caso di necessità, darà, con sollecitudine, il segno al malato, se non c'è il presbitero. Dopo aver dato quanto è necessario e ricevuto ciò che viene distribuito, renderà grazie e lì stesso lo consumeranno56. Coloro che ricevono i doni siano solleciti nel loro ministero. Se qualcuno ha ricevuto qualche cosa da portare o a un malato o a chi è al servizio della Chiesa, la porti il giorno stesso. Se non l'ha portata, la porti il giorno seguente aggiungendovi del proprio, poiché è rimasto presso di lui il pane dei poveri.
25. Introduzione della lucerna durante la cena della comunità Quando il vescovo è presente, venuta la sera, il diacono porti la lucerna. Stando in piedi in mezzo ai fedeli presenti, (il vescovo) renderà grazie. Dapprima saluti57 dicendo: "Il testo è molto oscuro. La voce -segno- potrebbe avere lo stesso significato che ha la voce exemp/um/similitudo (greco, antitypos) nel paragrafo 21, dove il pane è detto ·simbolo del corpo del Cristo- e il calice ·immagine del sangue versato-. "A prima vista, soggetto del verbo sembrerebbe il diacono che saluta l'assemblea; egli è l'ultimo arrivato e non dice ·in alto i cuori•, invito riservato alla celebrazione eucaristica. Tuttavia, trattandosi di un rendimento di grazie, probabilmente, è fatto dal vescovo. In ogni caso, a un
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·Il Signore sia con voi•. Il popolo risponderà: E con il tuo spirito. •Ringraziamo il Signore•. E il popolo risponderà: È cosa degna e giusta: grandezza, esaltazione e gloria gli sono dovute. Non dirà: ·In alto i cuori•, perché così si dice all'offerta. E pregherà dicendo così: ·Ti ringraziamo, Signore, per il tuo figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale ci hai illuminati rivelandoci la tua luce incorruttibile. Poiché dunque noi abbiamo vissuto un giorno intero e siamo giunti all'inizio della notte, appagati della luce del giorno, che tu hai creato per la nostra sazietà, e poiché ora, per tua grazia, non ci manca la luce della sera, noi ti lodiamo e ti glorifichiamo per il tuo figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per il quale a te gloria e potenza e onore con lo Spirito Santo, ora e sempre e
nei secoli e dei secoli. Amen•58• Tutti rispondano: Amen. Terminato il pasto, si alzino per pregare; i fanciulli recitino i salmi, così anche le vergini. In seguito il diacono, prendendo il calice mescolato dell'offerta, reciterà uno dei salmi, in cui ci sia l'alleluia. Quindi se il presbitero dà l'ordine, reciterà anche altri salmi dello stesso tipo. Dopo che il vescovo ha offerto il calice, reciterà un salmo, di quelli che si addicono al calice, che abbia l'alleluia, mentre tutti diranno: ·Alleluia•. Quando si reciteranno i salmi, tutti diranno: ·Alleluia·, cioè ·lodiamo colui che è Dio: gloria e lode a colui che ha creato il testo chiaro corrisponde un'attribuzione molto incerta (cfr. la Tradizione apostolica, c. 5). "'Secondo P. Plank (Phos h11aron. Christushymnus umi Llcbtdanksagung der friihen Cbristenheit, Wtirzburg 1985, p. 65) la preghiera fonde insieme due formule di ringraziamento sinagogali, quella per il giorno e quella privata per la luce.
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mondo intero con la sua sola parola•. Dopo il salmo, il (vescovo) benedirà il calice e distribuirà pezzetti di pane a tutti i fedeli 59 •
26. Il pasto comune I fedeli, che partecipano al pasto comune, riceveranno dalla mano del vescovo un pezzetto di pane prima di spezzare il proprio, perché è una benedizione e non una Eucarestia, come carne del Signore. È bene che tutti, prima di bere, prendano una coppa e rendano grazie su di essa, poi berranno e mangeranno così in purezza. Ai catecumeni si dia il pane dell'esorcismo6o e ognuno offra un calice. 27. I catecumeni non devono mangiare con i fedeli Il catecumeno non prenda parte al pasto del Signore. Durante il pasto, colui che mangia ricordi colui che lo ha invitato: proprio per questo è stato pregato d'entrare nella sua casa. 28.
Bisogna mangiare con disciplina e con moderazione
Quando mangiate e bevete, fatelo con moderazione e non fino alla ubriachezza, per non diventare ridicoli, o rattristare ·con la vostra intemperanza chi vi ha invitato; ma si auguri di essere stimato degno che i santi entrino in casa sua. Voi infatti, dice, siete il sale della terra. Se a tutti, nell'assemblea, è offerto quello che in 59Il
brano, chiaro nelle singole frasi, non lo è nell'insieme: gli attori sono il diacono, il presbitero e il vescovo; sembra che ognuno canti un salmo alleluiatico. 60 Il testo è oscuro: non ci sono dati che aiutino a identificare questo pane. Una cosa sembra certa: era distinto da quello che ricevevano i fedeli.
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greco si dice •apoforeto..61 , prendetelo. Se poi siete stati invitati tutti a mangiare, mangiate quanto basta in modo tale che ne avanzi e colui, che vi ha invitato, possa mandarne a chi vorrà, come se fossero resti santi, e fiducioso gioisca. Durante il pasto gli invitati mangino in silenzio, senza discussioni, ma (dicendo) ciò che il vescovo consente e rispondendo alle sue domande. Quando il vescovo prende la parola, tutti tacciano e ascoltino con modestia, finché non ponga nuove domande. Se i fedeli prendono parte al pasto alla presenza di un presbitero o di un diacono, e non del vescovo, mangino con uguale moderazione. Ognuno si affretti a ricevere la benedizione dalla mano del presbitero o del diacono. Da parte sua il catecumeno riceva un pane esorcizzato. Se si riuniscono solo dei laici, agiscano secondo la norma: il laico non può fare la benedizione.
29. Bisogna mangiare rendendo grazie Ognuno mangi nel nome del Signore. Infatti piace a Dio che noi siamo di esempio anche ai pagani, vivendo uniti e sobri. 30. Il pasto delle vedove
Se uno invita a pranzo vedove di età matura, le congedi prima della sera. Se non può invitarle, a 61
La voce greca apophoreton, al plurale, indicava i regali che avuti a tavola, potevano essere portati via dall'invitato a mensa: cfr. Ateneo Grammatico, 229. Nonostante il vocabolo sia usato qui al singolare, non sembra avere un significato diverso. E. Peterson (Merl.s, Hostlen-Partikel und opfer-Anteil, in EphLit 61 (19471, pp. 3-12) ha ricercato nuovi testi per precisare il senso di apophoreton. È sembrato opportuno tradurre l'avverbio communiter con -assemblea•, anziché ·in comune-. Il l.ampe (A Patrlstic Greek Lextcon, Oxford 1968, p. 219) si rifà unicamente al testo della Tradizione apostolica.
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causa dell'incarico ricevuto, dopo aver dato cibo e vino, le congedi. Esse poi a casa loro mangino a piacere.
31. !frutti da offrire al vescovo Tutti s'affrettino ad offrire al vescovo le primizie dei frutti delle prime raccolte. Egli, offrendole, le benedica e nomini l'offerente dicendo: «Ti ringraziamo, o Dio, e ti offriamo le primizie dei frutti, che ci hai dato da raccogliere, dopo averle portate a maturazione per la tua parola e dopo avere comandato alla terra di produrre ogni specie di frutti per la gioia e per il nutrimento degli uomini e di tutti gli animali. Per tutto questo ti lodiamo, o Dio, e per tutti i benefici che ci hai accordato adornando per noi tutta la creazione di vari frutti, per mezzo di tuo figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per il quale gloria a te nei secoli dei secoli. Amen•.
32. Benedizione dei frutti Si benedicono i frutti: uva, fichi, melagrane, olive, pere, mele, more, pesche, ciliegie, mandorle, prugne, ma non poponi, meloni, cetrioli, cipolle, agli, né alcun altro legume. Talvolta si offrono fiori: si offrano rose e gigli e non altri fiori. Qualsiasi cosa si prenda, si renda grazie a Dio santo, prendendone in sua gloria.
33. Non si deve prendere nulla a Pasqua prima dell'ora in cui si può mangiare Nessuno a Pasqua prenda alcunché prima che sia fatta l'oblazione; chi agisce altrimenti non gli viene computato come digiuno. Ma una donna incinta e ammalata e impossibilitata a digiunare due giorni, digiunerà il sabato, per necessità, prendendo pane e acqua. 122
Se qualcuno, trovandosi in navigazione o in qualche necessità, ha ignorato il giorno (di Pasqua), quando ne viene a conoscenza, digiuni dopo il cinquantesimo giorno62 . La Pasqua, che noi celebriamo, non è figura - la figura in effetti è passata -, e per questo cessa nel secondo mese63. Perciò occorre digiunare quando si è appresa la verità.
34. I diaconi devono stare assiduamente col vescovo Ogni diacono e i suddiaconi stiano assiduamente col vescovo e gli segnalino gli ammalati, affinché, se il vescovo vuole, li visiti. Grande è la gioia del malato, quando si vede ricordato dal sommo sacerdote.
35. Il momento della preghiera I fedeli, appena alzati e lavati, prima di mettersi al lavoro, preghino Dio e poi s'affrettino al lavoro. Se c'è una catechesi, ognuno dia la preferenza all'ascolto della parola di Dio a conforto della sua anima. Frequenti l'assemblea, dove lo spirito fiorisce 64• versioni hanno qui l'espressione post qutnquagesimam, che è un'evidente traduzione del termine greco pentekoste (•pentecoste•). Indirettamente lascia intendere che il tempo che va dalla Pasqua alla Pentecoste è per il cristiano un tempo che non deve essere turbato da digiuni e Uistezze. 6! La tradizione testuale è infelice: sia che si segua quella della versione latina come quella della versione sahidica, nessuna delle due offre un senso soddisfacente. La versione sahidica, cosl come giace, suppone che il cristiano dica di non celebrare la vera Pasqua. Il problema si risolve ripetendo la parola .figura· (gr. typos). Si recupera cosl la tradizione tipologica che affonda le sue radici nel Nuovo Testamento. La Pasqua ebraica era prefigurazione di quella cristiana, come il sacrificio di Melchisedeèh era prefigurazione dell'Eucarestia, Adamo prefigurava il Cristo, la roccia percossa da Mosè era figura del Cristo, Agar e Sara rappresentavano l'Antica e la Nuova Alleanza. 64 L'espressione ·lo spirito fiorisce• è ambigua: può essere interpretata tanto nel senso dello Spirito Santo quanto dei carismi dello Spirito Santo; può essere interpretata anche come lo spirito dell'uomo che nel62 Le
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36. Bisogna accostarsi all'Eucarestia quando si fa l'offerta prima di prendere qualche altra cosa Ogni fedele, prima di prendere qualche cosa, si preoccupi di accostarsi all'Eucarestia. Se la riceve con fede, anche se qualcuno gli somministrasse un veleno mortale, dopo ciò non potrà nuocergli65 •.
37. Bisogna conseroare con cura l'Eucarestia Ognuno abbia cura che nessun infedele gusti l'Eucarestia, né un topo o un altro animale, né che parte di essa cada per terra e vada perduta. È infatti il corpo del Cristo, che deve essere mangiato dai credenti e non deve essere disprezzato66 •
38. Niente deve cadere dal calice Benedicendo il calice nel nome di Dio, lo hai ricevuto come simbolo del sangue del Cristo. Perciò non versarne, per timore che uno spirito maligno lo lecchi; sarebbe come se tu lo disprezzassi. Tu sarai responsabile, come colui che disprezza il prezzo con il quale è stato comprato.
39. I diaconi e i presbiteri I diaconi e i presbiteri si riuniscano ogni giorno l'assemblea sboccia come un fiore. In qualunque modo si interpreti, l'immagine non perde la sua efficacia e bellezza. '°Questo capitolo è riportato in greco con qualche trascurabile variante dal cod. greco 900 (sec. XV) della Biblioteca nazionale di Parigi e dal cod. 86 (sec. XIII) del Museo nazionale di Ochrid. Cfr. M. Richard, Opera Minora, I, Leuven-Turnhout 1976, pp. 52-53. Il testo dke: ·Ogni fedele, prima di prendere alcunché, si preoccupi di partecipare all'Eucarestia. Se partecipa con fede, quand'anche qualcuno gli desse qualcosa di letale, dopo ciò non ne avrà danno•. Non si comprende il motivo dell'accenno a un tentativo di avvelenamento. L'Eucarestia preserva dagli effeni del veleno. Cfr. Mc 16,18. "Questa raccomandazione, come già la precedente, testimonia l'uso domestico dell'Eucarestia.
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nel luogo stabilito dal vescovo. I diaconi non omettano di radunarsi ogni giorno, a meno che non siano ammalati. Quando tutti sono riuniti, istruiscano coloro che si trovano in chiesa e così, dopo aver pregato, ciascuno si avvii al proprio lavoro67•
40. I luoghi della sepoltura Non si imponga una tassa per seppellire nei cimiteri: è cosa di ogni povero. Tuttavia sia pagato il salario dell'operaio a colui che scava la fossa68 e il costo dei mattoni. Il vescovo provveda a coloro che stanno in questo luogo e ne hanno cura, perché a chi viene qui non sia chiesta una tassa d'ingresso.
41. I tempi della preghiera Tutti i fedeli, uomini e donne, quando si alzano, prima di fare checchessia, si lavino le mani e preghino Dio; poi vadano al loro lavoro. Se c'è un'istruzione e si fa la parola di Dio, ciascuno preferisca di andarvi, stimando dentro di sé che ascolta Dio stesso in colui che fa l'istruzione. Chi prega in chiesa potrà sottrarsi al male del giorno69• Il timorato di Dio ritenga una grande perdita se non va dove si fa l'istruzione, in particolare se sa leggere70 o se interviene il maestro. Nessuno di voi sia in ritardo alla chiesa, luogo dove si fa l'istruzione. vescovo indicava volta per volta il luogo della riunione? Se si tratta della stessa riunione del mattino, di cui parla nel secondo periodo, si ha un'evidente contraddizione, a meno che non si dica che anche I fedeli erano informati del luogo dove avveniva. 611 Nel quarto secolo i fossori si organizzarono in una vera e propria corporazione. Ciò che il testo qui non suppone. 69 È una discreta allusione a Mt 6,34: ·Basta a ciascun giorno la sua pena .. 70 Non è comprensibile la relazione tra l'andare alla chiesa e il saper leggere. È probabile che sia caduta la negativa •non•. Chi sa leggere ha la 67 Il
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Allora a colui che parla sarà dato di dire cose che sono utili a ognuno, e tu ascolterai cose che non pensi, e trarrai profitto da ciò che lo Spirito Santo ti darà per mezzo di colui che fa l'istruzione. In questo modo la tua fede sarà rafforzata su quanto avrai ascoltato. Ti si dirà ivi anche quello che devi fare in casa. Pertanto ciascuno s'affretti ad andare alla chiesa, luogo dove lo spirito fiorisce. Quando non c'è l'istruzione, ciascuno a casa sua prenda un libro edificante71 e legga quanto basta di ciò che gli sembra essere di sua utilità. Se sei a casa tua, all'ora terza prega e loda Dio; se, in questo preciso momento, sei altrove, prega Dio nel tuo cuore. A tale ora infatti il Cristo fu visto inchiodato sul legno. Per questo, nell'Antico Testamento, la legge ordinò di offrire continuamente il pane della proposizione, come figura del corpo e del sangue del Cristo; l'immolazione dell'agnello privo di ragione è figura dell'agnello perfetto. Il Cristo infatti è il Pastore ed è anche il pane che discende dal cielo. Prega parimenti all'ora sesta, perché, quando il Cristo fu inchiodato sul legno della croce, il giorno fu interrotto e si ebbe una grande oscurità. Pertanto si faccia una preghiera vigorosa a quest'ora, imitando la voce di colui che pregava e ricoprì di tenebre tutta la creazione per i Giudei increduli. All'ora nona si faccia una lunga preghiera72 e si protragga la lode imitando il modo col quale l'anima dei giusti loda Dio, che non mente, che si è reale possibilità di istruirsi in fatto di fede con la lettura; ciò invece è impossibile all'analfabeta. sembra che l'autore abbia in mente la sacra Scrittura. 72 Il simbolismo delle ore, terza, sesta, nona è fondato sull'orario della Passione. L'originalità della Tradizione apostolica è quella di mettere al centro la Passione del Signore per guidare la preghiera. L'ora terza richiama la crocifissione e l'Eucarestia, l'ora sesta evoca le tene_bre della Passione e la preghiera del Cristo, l'ora nona ricorda la morte del Cristo che non può essere dissociara dalla resurrezione. Cfr. G.M. Ouiy, Office divin, in DictSpir 11, pp. 688-689.
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ricordato dei suoi santi ed ha inviato il suo Verbo per illuminarli73• A quest'ora, dunque, il Cristo, colpito nel costato, effuse acqua e sangue e rischiarando il resto del giorno lo fece arrivare fino alla sera. Perciò, inaugurando un nuovo giorno all'ora in cui cominciò ad addormentarsi (nella morte), diede un'immagine della resurrezione74 • Prega anche prima di coricarti. Verso la mezzanotte alzati, lavati le mani con acqua e prega75 • Se è presente anche tua moglie, pregate insieme; ma se ella non è ancora battezzata76 , ritirati in un'altra stanza per pregare e poi ritorna nel tuo letto. Non esitare a pregare: chi è sposato non è impuro. Coloro che sono lavati non hanno bisogno di lavarsi di nuovo, perché sono mondi. Se ti segni col tuo fiato umido prendendo con la mano la saliva, il tuo corpo è purificato fino ai piedi. Difatti il dono dello spirito e l'acqua che bagna, che salgono dal cuore 1 3 Nel
secondo secolo era diffuso un testimonium giudeo-cristiano sulla discesa di Cristo agli inferi per annunciare ai giusti dell'Antico Testamento ivi dimoranti, l'avvenuta salvezza. Probabilmente si tratta di un midrasb cristiano costruito su un supposto testo che il profeta Geremia non ha mai scritto. Giustino cita questo preteso passo profetico (Dialogo con Trifone, 72,4), Ireneo vi allude sei volte attribuendolo due volte a Geremia (Adv. baer. 4,22,l; Epideixis, 78), un volta a Isaia (lbid., 3,20,4) e tre volte in modo generico alla Scrittura (ibid., 4,33,1.12; 5,31,1). Di questa convinzione della discesa di Cristo si hanno tracce vistose in Ignazio, Ai Magnesii, 9,2; in Erma, Il Pastore. Parabole, 9,16,5-7; nel Vangelo di Pietro, 41-42; nel Vangelo di Nicodemo, 17-27; negli Oracoli Sibillini, 8,310-312; nella Lettera degli Apostoli, 27; in Ippolito, Benedizione di Giacobbe, 7; in Clemente Alessandrino, Stromatt, 2,9,44, 1-2; nell'Homilia in Sanctum Pascba, PG 43,439.462-463. 14 Da notare il simbolismo: la morte di Cristo è luce che prolunga il giorno facendolo diventare un nuovo giorno e dona un'immagine della resurrezione. 15 At 16,25 ricorda la preghiera di mezzanotte, accompagnata dal canto di inni e salmi, di Paolo e Sila, in prigione a Filippi. 16 Al di là dell'argomento principe dei tempi della preghiera, l'autore fa conoscere con chiarezza il suo pensiero sui matrimoni misti. Diversamente da Tertulliano (Alla moglie, 2,1-2; 3,1; 4,3; 5,2; 6,2), non li condanna, ed esorta il coniuge cristiano a ritirarsi in un'altra stanza a pregare da solo.
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credente come da una fonte 77, purificano il credente stesso. Bisogna pertanto pregare a quest'ora. Infatti gli anziani, che ci hanno trasmesso questa tradizione, ci hanno insegnato che a quest'ora tutta la creazione riposa un momento per lodare Dio: le stelle, le piante e le acque si fermano un momenta78 e tutte le schiere degli angeli, che lo servono-, lodano Dio insieme con le anime dei giusti. Perciò i credenti devono in quest'ora essere solleciti a pregare. Anche il Signore rende testimonianza di ciò e dice: ·Ecco, nel mezzo della notte si è alzato il clamore di coloro che dicevano: "Ecco, viene lo sposo: alzatevi e andategli incontro",,, E continua dicendo: ·Per questo vegliate, perché non sapete a che ora viene•. Al canto del gallo alzati e fa lo stesso, perché a quell'ora, mentre il gallo cantava, i figli d'Israele rinnegarono il Cristo79, che noi abbiamo conosciuto per mezzo della fede, sperando nella luce eterna e nella resurrezione dei morti con gli occhi rivolti verso questo giorno. Pertanto voi tutti fedeli, facendo ciò e conservandone il ricordo, istruendovi l'un l'altro e dando esempio ai catecumeni, non potrete essere né tentati, né perdervi, dal momento che ricorderete sempre il Cristo.
42. Il segno della croce Quando sei tentato, segnati devotamente la fron"L'autore mette in relazione il momento in cui il battezzato esce dall'acqua, e il segno della croce fatto con la mano inumidita dalla saliva, che interpreta come immagine del rito battesimale. '"Questo periodo non sembra di derivazione lirurgica. Analoghe sospensioni dello svolgimento normale della vita del cosmo a causa di eventi straordinari (cfr. Protovangelo di Giacomo, 18) e il cosmico silenzio notrumo (Sap 18, 14; Alcmane, fr. 60; Eneide, 6,522-527; Argonautica, 3) hanno i contorni di una pausa della vita, mentre nella Tradizione apostolica è una sosta dalle attività terrene per elevare lo spirito a Dio. 19 Mc 14,68-72. L'autore accomuna nel rinnegamento di Cristo l'apostolo Pietro e rutti i giudei.
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te: è il segno della Passione, conosciuto e sperimentato contro il diavolo se lo fai con fede, non per essere visto dagli uomini, ma presentandolo con abilità come uno scudo. L'Avversario infatti, vedendo quella forza che viene dal cuore per cui l'uomo mostra all'esterno l'immagine scolpita del Verbo, fugge, non perché gli sputi addosso, ma al soffio della tua bocca. Per raffigurare questo nell'agnello pasquale che veniva ucciso, Mosè asperse il sangue sulla soglia e unse gli stipiti delle porte. Indicava così la fede che noi abbiamo nell'Agnello perfetto80• Segnandoci con la mano la fronte e gli occhi, allontaniamo colui che tenta di annientarci.
43. Conclusione Se si accolgono con gratitudine e con retta fede, queste istruzioni procurano edificazione alla Chiesa e ai credenti la vita eterna. Do a tutti i saggi il consiglio di custodirle, poiché se tutti coloro che ascoltano la tradizione apostolica la seguono e la custodiscono, nessun eretico né altro uomo vi potrà indurre in errore. Infatti le eresie si sono moltiplicate in questo modo, perché i capi non vollero istruirsi sull'insegnamento degli apostoli, ma hanno fatto ciò che hanno voluto, seguendo il loro capriccio e non ciò che conviene. Carissimi, se abbiamo omesso qualcosa, Dio lo rivelerà a coloro che ne sono degni, poiché egli governa la Chiesa affinché approdi al porto della pace.
"°Nel testo si intravedono due simbolismi: l'agnello pasquale immolato da Mosè era imperfetto rispetto all'agnello pasquale perfetto dei cristiani. Mosè fece segnare col sangue del suo agnello le soglie e gli stipiti delle porte delle case degli ebrei per distinguerle da quelle degli egiziani (Es 12,21-30); il segno della croce, segno di salvezza, allontana il diavolo dai cristiani. L'autore riconduce a un profondo significato teologico un segno liturgico cui poteva essere attribuita una valenza apotropaica.
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PARTE Il
IL CREDO DI NICEA
Introduzione
Questo Concilio di Nicea è veramente una testimonianza indelebile contro ogni eresia. (Atanasio ed episcopato egizio-libico, Lettera ai vescovi africani, 11, PG 26, 1048 A)
IL CONCILIO DI NICEA
(325)
Verso un concilio generale
Per contestualizzare l'opera di Atanasio De decretis Nicaenae Synodi (=c DD), dobbiamo riper-
correre a grandi linee gli avvenimenti che hanno portato alla convocazione del concilio ecumenico di Nicea, nonché quelli immediatamente successivi. La. vicenda può farsi iniziare ad Alessandria verso il 320, quando la predicazione del presbitero Ario fu messa sotto inchiesta dal vescovo di quella città, Alessandro. Ario infatti affermava che Cristo in quanto Logos non è coeterno con il Padre, ma fatto dal nulla, come la prima delle creature. L'inchiesta si concluse con la deposizione di A rio e di alcuni suoi seguaci in un sinodo locale. Questo tipo di provvedimento non era nuovo, bensì usuale nella Chiesa dei primi secoli. Anche Origene, una novantina di anni prima, sia pure per altri motivi, aveva subito la stessa sorte. Se colui che era colpito dalla scomunica riteneva ingiusto tale 141
giudizio, allora si poteva appellare a qualche altro vescovo tn grado di convocare un sinodo alternativo. Se non trovava nessuno pronto ad accogliere questo ricorso, la sua causa era chiusa; ma se c'era qualcuno disposto a dargli retta, il processo poteva considerarsi ancora aperto. Così in e.fletti fece Origene, che fu accolto dai vescovi della Palestina. Anche Ario fece appello a un vescovo suo amico, Eusebio di Nicomedia, compagno di scuola presso Luciano di Antiochia. Eusebio accolse Ario e sposò in pieno la sua causa, cogliendola come l'occasione propizia per far valere la sua personale influenza. Scrisse infatti ai vescovi delle regioni vicine, dichiarando apertamente il suo sostegno ad Ario. Alessandro non vide volentieri questo allargamento del conflitto e scrisse una lettera enciclica, chiedendo a tutti i vescovi di non accogliere Ario e compagni, essendo stati riconosciuti come eretici e apostati, e presentando Eusebio di Nicomedia come un vescovo assetato di potere. Fino allora l'unità della Chiesa, nonostante le numerose tensioni sul piano dottrinale e pratico, si era mantenuta grazie alla buona volontà dei vescovi, al loro sensus Ecclesiae e alla paziente ricerca di un consenso per mezzo di sinodi locali e di un continuo contatto epistolare. Ora però il contrasto tra i vescovi egiziani e quelli orientali pareva insanabile, tanto più che il risvolto dottrinale della questione era molto più serio di quanto si potesse pensare. In e.fletti Ario, oltre ad avere in Eusebio di Nicomedia un sostenitore dal punto di vista ecclesiale, aveva trovato in Asterio il Sofista, originario della Cappadocia e anch'egli discepolo di Luciano di Antiochia, un valido teorizzatore della sua posizione dottrinale. Tutto ciò portava divisione e confusione anche tra i fedeli. Questa era la situazione che trovò Costantino quando, nel 324, sconfitto Licinio, rimase unico 142
imperatore romano. Già da tempo egli aveva manifestato le sue simpatie per il cristianesimo, il cui universalismo poteva fare da supporto all'unità dell'impero. Per questo Costantino prese a cuore le questioni che allora agitavano la Chiesa. Come già per il problema donatista nell'Africa Romana, anche nella questione ariana egli volle interoenire direttamente. Costantino scrisse una lettera ad Alessandro e Ario, invitandoli alla pacificazione. Ma, evidentemente, egli aveva sottovalutato la portata teologica della disputa. Si venne così all'idea di un concilio generale, suggerita forse a Costantino dal vescovo amico Ossio di Cordova. Certamente tale idea poté realizza-rsi grazie all'appoggio logistico dello Stato romano, altamente centralizzato, che mise a disposizione dei vescovi i suoi mezzi di trasporto e una sede conveniente 1 • L'inaugurazione del Concilio
Il 20 maggio del 325 nel palazzo imperiale di Nicea, ridente cittadina non molto lontana dalla riva asiatica della Propontide (Mar di Marmara), si apriva solennemente il primo Concilio ecumenico della Chiesa cattolica. Vi parteciparono da 250 a 300 vescovi, venuti soprattutto dalla parte orientale dell'impero romano, assieme a molti presbiteri e dia1
Pare che in un primo tempo Costantino avesse pensato ad Ancira come sede del concilio, per· poi ripiegare su Nicea, più accessibile. Molto importante, per la storia della reazione antiariana, è il documento redatto dal sinodo di Antiochia all'inizio del 325. Esso contiene un simbolo di fede e un anatematismo che sono chiaramente antiariani e riflettono la teologia di Alessandro di Alessandria (testo siriaco e retroversione greca di E. Schwartz in AW 3/1, Urkunde n. 18). Eusebio di Cesarea, presente a tale sinodo, non sottoscrisse il documento, per cui la sua posizione ecclesiale rimase compromessa. A Nicea egli poi riuscirà in qualche modo a regolarizzare la sua situazione, firmando il simbolo niceno. Sul sinodo di Antioclùa del 325, cfr. Kelly, I simboli di fede, pp. 206-209; Simonetti, La crisi ariana, pp. 39-41; Hanson; Tbe Search, pp. 146-151.
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coni2 • Tra essi spiccava l'anziano vescovo di Alessandria, Alessandro, accompagnato da un suo giovane diacono e futuro successore, Atanasio 3 • Vi erano poi Marcello di Ancira ed Eustazio di Antiochia. Non mancava qualche rappresentate del/ 'Occidente: oltre al già citato Ossio di Cordova, amico e consigliere di Costantino, troviamo Ceciliano di Cartagine e i presbiteri Vito e Vincenzo, legati di Silvestro di Roma. Vi erano pure alcuni vescovi giunti dalla Persia e dalla Mesopotamia. All'ordine del giorno c'erano parecchie questioni, alcune di ordine pratico, come quella di trovare una data comune per la celebrazione della Pasqua4; altre erano di ordine disciplinare, concernenti Chiese locali, come lo scisma di Melizio in Egitto; altre infine di ordine dottrinale, come quella sollevata da Ario circa il rappotto tra Dio Padre e il Figlio, Gesù Cristo. Era questo il problema di gran lunga più spinoso 5 • La dottrina di Ario e degli ariani
La dottrina di Ario si radicava sul terreno della teologia alessandrina, che sottolineava la reale diForse per questo motivo fu difficile farne un computo esatto. Solo più tardi, dopo il 361, comparve la cifra 318, che richiamava i servi di Abramo ed era già stata interpretata dalla tradizione in senso cristologico (cf. Boularand, L'hérésie, pp. 202-207; COD, p. 1). 3 Alessandro fu una delle figure preminenti al Concilio, e probabilmente uno dei presidenti: cfr. Concilio di Nicea, Lettera alla Chiesa di Alessandria, 11 (AW 3/1, Urkunde n. 23, p. 50). Atanasio succederà ad Alessandro nel 328. • Cfr. Concilio di Nicea, Lettera alla Chiesa di Alessandria, 12 (AW 3/1, Urkunde n. 23, pp. 50-51); Atanasio, Lettera ai vescovi africani, 2: ·Il Concilio di Nicea fu riunito a motivo dell'eresia ariana e della [data di] Pasqua. Infatti, i ffratelltl della Siria, della Cilicia e della Mesopotamia non concordavano con noi, ma facevano aa Pasqua] nella data nella quale la fanno i Giudei. Ma, grazie al Signore, come riguardo alla fede, così anche riguardo alla santa festa si raggiunse un accordo- (PG 26, 1032CD). Coloro che celebravano la Pasqua seguendo il calendario giudaico venivano chiamati Quartodecimanl (cfr. V. Loi, in DPAC, 2963-2964). 5 È probabile che per Costantino il problema dottrinale fosse secondario 2
144
stinzione delle tre persone divine (Padre, Figlio e Spirito Santo), considerate come tre "ipostasi" o realtà sussistenti. Questo punto era un 'acquisizione teologica irrinunciabile, contro la tendenza sabelliana o modalista, che considerava la Trinità una semplice manifestazione dell'unico Dio. Meno chiara e ancora in via di elaborazione, nella teologia alessandrina, era la formulazione dei rapporti reciproci tra le tre ipostasi. Lo stesso Origene, con le sue affermazioni a volte ambigue, poteva dare adito a diverse intmpretazioni. Ario, da parte sua, pur professando con tutta la Chiesa il monoteismo, era incapace di includeroi la Triade divina, che veniva così a essere separata in se stessa. Per Ario infatti vi è un solo Dio Eterno, Principio senza principio, Increato. Il Figlio, diceva, è stato generato dal Padre prima di tutti i secoli, prima quindi del tempo e della creazione, ma ciò non significa che egli fosse "eterno". In effetti, ragionava Aria, se il Figlio fosse eterno come il Padre, allora ci sarebbero due Eterni, due Increati, due Princìpi, il che è assurdo, oltre che contrario alla fede. Inoltre Ario e gli ariani avevano sempre temuto che il concetto di "generazione" fosse associato a qualcosa di materiale, comportante una divisione in Dio, per cui si erano sempre rifiutati di considerare il Figlio 'Parte consostanziale" (méros homoousios) del Padre6• Di conseguenza essi hanno costantemente intetpretato la generazione del Figlio come
6
(cf. Pietras, Le ragioni, pp. 34-35). Ciò però non significa che la questione fosse marginale. Cfr. Ario e compagni, Lettera ad Alessandro di Alessandria, 3. 5 (AW 311, Urkunde n. 6, pp. 12.13; Bellini, Alessandro e Arlo, pp. 50-51; Simonetti, Il Cristo, p. 74-79). Osseiva Simonetti: •L'avversione ariana per bomoousios discende dalla preoccupazione, tipica della tradizione teologica alessandrina, di non concepire in modo corporeo e materiale la generazione del Figlio da parte del Padre• (Ancora su bomoousios, pp. 96-97). Origene, da parte sua, si era chiaramente espresso sulla "incorporeità" di Dio e la natura spirituale della generazione del Figlio.
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"creazione". Il Figlio pertanto è stato generato- cioè creato- prima di ogni realtà creata, perché così Dio ba voluto nella sua sapienza, in vista della creazione stessa. Il Figlio infatti non è la sapienza propria del Padre- questa non può essere considerata come sussistente, distinta dal Padre - ma è la sapienza creata, generata appunto perché presiedesse all'opera della creazione. Per Ario questa dottrina ven-ebbe suffragata da tutta la Scrittura. Già l'Antico Testamento dice che la Sapienza 1u creata come principio delle opere• di Dio (cjr. Prv 8,22). Il Nuovo Testamento afferma che tutto è stato creato da Dio per mezzo• del Figlio, il quale perciò è il primogenito di tutta la creazione· (Col 1,15). In realtà, nell'affermare il ruolo del Figlio nella creazione, nonché la sua totale dipendenza dal Padre, gli ariani non si discostavano molto da quello che i teologi del Logos avevano sempre sostenuto7 . Nei primi secoli il problema del rapporto tra Dio Padre e il Figlio Gesù Cristo era stato toccato più volte, mai però affrontato alla radice. La maggioranza dei cristiani si accontentava di ripetere le parole del simbolo di fede battesimale (•Credo in un solo Dio, Padre onnipotente... e in un solo Signore, Gesù Cristo... e nello Spirito Santo•), interpretandole ora in senso monarcbiano ora sulla linea dei teologi del Logos. Presso questi ultimi un certo "subordinazionismo" era senz'altro ammesso, non solo perché la Scrittura afferma che il Figlio dipende in tutto dal Padre e riceve tutto da Lui (cfr. Mt 11,27; Gv 5, 19), ma anche perché non sempre è chiaro se essa si riferisca al Logos preesistente o al Figlio incarnato. Il fatto che gli ariani non abbiano recepito questa lezione origeniana, denota uno dei limiti più evidenti del loro pensiero. ' Un chiaro esempio di questa teologia si può leggere in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 1,1,7 - 1,4,15 (in Simonetti, /I Cristo, pp.
16-43).
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La reale incompatibilità della posizione ariana con la fede della Chiesa venne allo scoperto quando Ario, radicalizzando le posizioni, fece il seguente ragionamento: se il Figlio è generato, allora non è eterno come il Padre; se non è eterno, ha avuto un inizio, per cui bisogna ammettere che •Ci fu un tempo in cui il Figlio non esisteva•, e quindi Dio •non da sempre è stato Padre• e il Figlio è stato creato ·dal nulla•. In altre parole, l'eternità di origine è solo di Dio e non può essere condivisa da nessuno. È vero, ammettevano gli ariani, che è alquanto improprio parlare di tempo prima che sia creato il tempo, ma questo è un limite del nostro linguaggio. Proprio per questa loro radicalità, le tesi ariane hanno obbligato la teologia a uscire dall'equivoco del medio e neoplatonismo, che concepivano il passaggio dall'Essere Supremo (Dio, l'Uno) alla materia informe secondo una serie di gradazioni discendenti. Per i teologi influenzati dal platonismo, era normale vedere nel Logos il primo e il più importante di questi esseri intermedi, attribuendogli un titolo divino subordinato (secondo Dio). La crisi ariana mise in chiaro che la dottrina biblica della creazione rendeva insostenibile quella concezione di tipo platonico. Infatti, stando alla metafisica implicita nella rivelazione biblica, ci potevano essere solo due categorie ontologiche: l1ncreato e il creato. Questo Ario lo aveva ben capito. Ma, non potendo negare al Logos il titolo di Dio, concludeva che esso era solo un titolo acquisito. Propriamente parlando, il Logos andava messo dalla parte delle creature, sia pure come la prima e la più singolare di esse, dato che egli ·è il solo a essere venuto all'esistenza per opera diretta del Padre•. In altri termini, Ario pose la cesura tra l1ncreato e il creato già all'interno del rapporto Padre-Figlio. Fu questo che fece scattare la reazione compatta dell'episcopato, sia quello di formazione origeniana
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(alessandrini), sia quello di tendenza monarchiana (asiatici e occidentali). Lo svolgimento del Concilio
Non possediamo gli atti del Concilio e non risulta che siano stati fatti. Non è possibile, in questa sede, prendere in esame tutte le fonti antiche sull'argomento, le quali spesso cadono nel! 'aneddoto e nella leggenda. Ci accontenteremo di considerare solo i testimoni oculari che ne hanno parlato, cioè il Concilio stesso, Eusebio di Cesarea e Atanasio 8 • 1. La testimonianza del Concilio Un breve sommario dei lavori si trova nella lettera che i vescovi riuniti a Nicea, prima di sciogliersi, scrissero alla Chiesa degli alessandrini. Da essa apprendiamo che fu discussa, prima l'eresia ariana, poi lo scisma meliziano e infine la questione della data della Pasqua. Sull'eresia ariana, la lettera così riassume il dibattito: ·Innanzitutto fu esaminata l'empia e iniqua dottrina di Ario e dei suoi seguaci, alla presenza del devotissimo imperatore Costantino. All'unanimità fu condannata tale empia opinione nonché le espressioni e i termini blasfemi da lui usati e che suonano bestemmia contro il Figlio di Dio, e cioè che fil Figliol "è dal nulla", che "non esisteva prima di essere generato': che "c'era un tempo in cui non esisteva"; diceva inoltre che il Figlio di Dio, in fO'rza del suo libero arbitrio, è capace di vizio e di virtù, e lo chiamava creato e fatto. Il santo concilio ha condannato tutto ciò, non sopportando neppure di udire quell'empia e stolta opinione, nonché quelle espressioni blasfeme•. 8
Anche Eustazio di Antiochia ha scritto un resoconto del dibattito conciliare, ma ce ne resta solo un franunento, riprodotto da Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, 1,8,1-5 (GCS, NF, 5, pp. 33-34).
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È curioso che questa lettera ritenga importante menzionare solo l'aspetto negativo della decisione conciliare, cioè la condanna delle proposizioni ariane espressa nell'anatematismo finale, e non l'aspetto positivo, cioè il simbolo di fede, con le espressioni ek tes ousfas e homoousios. In effetti, soprattutto per homoousios, era più facile dire ciò che negava che non ciò che affermava. In se stesso il termine non era privo di ambiguità: da una parte era pregno di connotazioni materiali (sostanza = materia) e dall'altra poteva essere interpretato in senso sabelliano.
2. ltl testimonianza di Eusebio di Cesarea Eusebio di Cesarea, nella lettera alla sua diocesi, scritta all'indomani del concilio e riportata da Atanasio ( = DD 33), ci fornisce importanti informazioni sullo svolgimento del concilio, informazioni da prendere però con molta precauzione. Anzitutto egli dice di aver fatto una pubblica lettura del simbolo di fede in vigore nella sua diocesi, attestando di avere sempre creduto in quel modo (DD 33,1-5) 9. I Padri conciliari, prosegue Eusebio, non vi fecero nessuna obiezione, anzi lo stesso imperatore Costantino riconobbe che quel simbolo esprimeva la retta fede ed esortò tutti a sottoscriverlo, suggerendo solo di introdurvi il termine •consostanziale· (homoousios), da intendersi in senso spirituale e non corporeo (DD 33, 7). Allora i padri, con il pretesto dell'homoousios, composero la formula di fede, che Eusebio riporta, compreso l'anatematismo finale (DD 33,8). Su questa formula avvenne quindi una lunga discussione, nella quale gli eusebiani dapprima si opposero fino all'ultimo all'introduzione del 9
Eustazio di Antiochia (vedi nota 24) menziona un intervento di Eusebio, giudicato blasfemo dai padri conciliari. Ma si tratta certamente di uno scritto di Eusebio di Nicomedia, non del testo letto da Eusebio di Cesarea (cf. Hanson, 1be Searcb, pp. 160-161).
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nuovo testo (DD 33, 17), poi avanzarono domande di chiarimento sulle espressioni ·dalla sostanza del Padre• e •consostanziale al Padre•, nonché sul senso dell'anatematismo. Avendo avuto delle risposte giudicate soddisfacenti, sottoscrissero la nuova formula difede (DD 33,9-17). Circa il termine homoousios, Eusebio riconosce che esso non è nuovo, ma che lo si trova già usato ·dagli antichi vescovi e scrittori nelle loro riflessioni teologiche sul Padre e sul Figlio• (DD 33,12). Sembra evidente che questa ricostruzione, piuttosto tendenziosa, è sulla linea di un 'autodifesa. In effetti, Eusebio doveva giustificare, davanti ai fedeli della propria diocesi e ai suoi stessi amici, come mai era passato da un 'opposizione rigida verso la formula nicena alla sua accettazione. Egli lo fa cercando di presentare il simbolo niceno come una variante di quello di Cesarea. In realtà, Eusebio doveva dar prova della sua ortodossia, pesando su di lui la recente condanna del sinodo di Antiochia. Egli poi nella sua lettera cerca di ricondurre il simbolo niceno nell'alveo dalla propria teologia del Logos, chiaramente subordinazionista. Inoltre Eusebio dichiara di evitare le espressioni più radicalmente ariane (·dal nulla•, •c'era un tempo in cui non esisteva•) non perché sono errate, ma semplicemente perché non contenute nelle Scritture (DD 33, 15). Infine egli enfatizza l'apporto di Costantino, attribuendogli l'iniziativa dellhomoousios (DD 33, 7), nonché un intervento di natura prettamente teologica (DD 33, 16).
3. La testimonianza di Atanasio Atanasio, che fu presente al Concilio di Nicea in qualità di diacono, riporta proprio nel DD l'andamento della discussione, così come si è fissata nella sua memoria (cfr. DD 32, 4). Egli però non fa opera 150
di storico, ma si attiene strettamente al dibattito dottrinale, senza mai nominare né l'imperatore né nessun altro vescovo, a parte Eusebio di Cesarea, ma solo contrapponendo i padri conciliari al gruppo degli ariani-eusebiani. Una prima rapida presentazione del dibattito conciliare è data in DD 3, 1-2: iniziano a parlare gli ariani, che presentano le loro tesi; i vescovi chiedono loro spiegazioni; nel rispondere gli ariani si contraddicono tra di loro e rimangono senza parola. Allora i vescovi espongono la retta fede e tutti la sottoscrivono. Atanasio poi si sofferma a descrivere l'atteggiamento volteggiante di Eusebio di Cesarea: fino all'ultimo si era rifiutato di sottoscrivere il simbolo, poi alla fine lo fece e si giustificò di tale atteggiamento con una lettera inviata alla sua Chiesa (DD3,3-4). In DD 19-20 Atanasio fornisce una descrizione più dettagliata della discussione teologica. I padri conciliari, nel respingere le tesi ariane, avrebbero voluto attenersi al linguaggio scritturistico e dire che ·il Figlio non proviene dal nulla, ma da Dio, e inoltre è Logos e Sapienza, non creatura né opera, ma frutto della generazione propria del Padre• (DD 19, 1). Ma poiché per gli eusebiani l'espressione ·da Dio· era ritenuta comune al Logos e agli uomini, allora i vescovi, per evitare questo equivoco, usarono l'espressione ·dalla sostanza del Padre• (ek tes ousfas tou patr6s), che può essere applicata solo al Figlio, non alle creature (DD 19,1-5). Questa prima affermazione implica la reale distinzione del Figlio dal Padre, quindi una vera e propria generazione (contro la tendenza sabelliana). Tuttavia c'era il pericolo di considerare il Figlio come una realtà separata da quella del Padre. Perciò i vescovi dissero che bisognava scrivere che ·il Logos è la Potenza vera del Padre e sua Immagine, e che egli è perfettamente simile in tutto (h6moion 151
katà panta) al Padre, immutabile, da sempre esistente e da sempre inseparabilmente nel Padre• (DD20,1).
Anche in questo caso però, dice Atanasio, si produsse lo stesso equivoco di prima. Infatti gli eusebiani si trovarono d'accordo per dire che •''simile': "sempre': il nome ''potenza" e l'espressione "in lui" erano anch'esse comuni al Figlio e a noi• (DD 20, 1), per cui non avevano nessuna difficoltà ad accordarsi su tali termini. Allora i vescovi, per evitare questo gioco, 1urono costretti a sintetizzare il pensiero delle Scritture, a esprimerlo più chiaramente e a scrivere che il Figlio è "consostanziale (homoousios)1° al Padre"• (DD 20, 3) e mostrare così che -il Logos è altro dalle realtà create• (DD 20, 5). Quanto alle espressioni ek tes ousias e homoousios, Atanasio si preoccupa di rilevare, come Eusebio nella sua lettera, che esse non sono state inventate dal concilio, ma che si trovano già usate nella tradizione teologica (DD25-27).
Indubbiamente, anche nel riportare la discussione teologica, Atanasio non ba l'atteggiamento dello storico, ma piuttosto quello dell'apologeta, che cerca di difendere l'operato del concilio e mostrarne l'unanimità. 4. Il dopo Concilio (325-360) Come conseguenza della scomunica, Ario e compagni, tra i quali c'erano due vescovi, furono condannati all'esilio. Per la prima volta nella storia della Chiesa, le decisioni di un concilio venivano sanzionate dall'autorità statale. La pena ecclesiastica della scomunica, che separava un membro dalla comunità in vista di un suo ravvedimento, acquista10
Atanasio attribuisce l'introduzione di questo termine a tutti i vescovi, senza indicare da chi sia venuta l'iniziativa.
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va così un effetto penale anche davanti allo Stato, il quale poteva costringere lo scomunicato all'esilio. Tale convergenza Chiesa-Stato veniva ad acquistare una forza dirompente allorché lo scomunicato era un vescovo: egli infatti veniva ipso facto deposto, la sua sede dichiarata vacante e perciò provvista di un successore. Tutta la vicenda ariana è segnata dall'uso e dall'abuso di questo terribile strumento. L'esilio di A rio e dei suoi seguaci tuttavia durò poco. Nel 327/328 Ario fu richiamato, sulla base di una generica professione di fede accettata da un sinodo locale (in pratica i vescovi di corte). Sostenuto da Eusebio di Nicomedia, che a Nicea si era alquanto dissimulato firmando la formula di fede assieme a Eusebio di Cesarea - il che non gli evitò un breve esilio -, il partito ariano riprese vigore. L'intento era di eliminare l'opposizione nicena. Furono deposti Eustazio d'Antiochia (329) e Marcello di Ancira (335). Il Concilio di Tiro del 335, manovrato sempre da Eusebio di Nicomedia, sulla base di accuse provenienti dai seguaci di Melizio, depose Atanasio, che fu esiliato dall'imperatore a Treviri 11 • Tuttavia Ario non fece a tempo a usufruire di questa situazione favorevole, perché mon~ ormai vecchio, a Costantinopoli nel 336, alla vigilia della sua riammissione alla comunione. Nel 33 7 moriva anche Costantino, dopo aver ricevuto il battesimo dalle mani dello stesso Eusebio di Nicomedia. L'impero fu suddiviso fra i suoi tre figli: Costantino U ebbe la Gallia, la Spagna e la Britannia; Costante ebbe l'Italia, l'Africa e la Macedonia; Costanzo U ebbe tutto l'Oriente. Atanasio poté allora ritornare nella sua sede. Ma gli antiniceni, considerando irregolare questo ritorno, fecero di tutto per ricacciare Atanasio da Alessandria e metteroi un altro vescovo. 11
Tuttavia, per deferenza ver.so Atanasio, Costantino non impose un nuovo vescovo ad Alessandria. ·
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Fu mandato Gregorio di Cappadocia con l'appoggio militare. Atanasio dovette fuggire e si rifugiò in Occidente, dove aveva il sostegno dell'imperatore Costante e di papa Giulio. Con base a Roma, ma operando numerosi spostamenti, vi rimase sette anni (339-346). Soprattutto in questo periodo il dibattito teologico e le questioni politico-ecclesiastiche appaiono talmente intrecciate, che è impossibile stabilire quale dei due aspetti abbia avuto il peso prevalente nello sviluppo degli eventi. Il sinodo romano del 341, sotto papa Giulio, riconobbe l'innocenza di Atanasio e degli altri esuli, annullando così le decisioni prese al Concilio di Tiro, cosa che i vescovi orientali non accettarono. Nel frattempo, il sinodo di Antiochia del 341, detto in encaeniis e guidato da Eusebio di Nicomedia, riapriva la questione teologica proponendo una formula di fede, che, almeno apparentemente, prendeva le distanze dall'arianesimo radicale, nell'intento reale di mettere da parte il simbolo di Nicea, che non viene neppure nominato. Il Concilio di Serdica del 343, voluto dai due imperatori Costante e Costanzo come momento di riconciliazione tra l'episcopato occidentale e quello orientale, fu un sostanziale fallimento, avendo i vescovi orientali abbandonato i lavori. Frattanto, dopo la scomparsa di Costantino II (340), Costante era rimasto il solo imperatore del1'0ccidente. Egli fece pressioni sul fratello Costanzo per far ritornare Atanasio dall'esilio, dato che il vescovo usurpatore Gregorio era morto (345). Così avvenne. Atanasio fu accolto trionfalmente ad Alessandria (346), non senza prima essere passato da Antiochia, dove incontrò l'imperatore Costanzo. A La.odicea di Siria fu accolto calorosamente dal presbitero Apollinare senior, originario di Alessandria, con il figlio Apollinare junior (lettore o forse an154
eh 'egli presbitero), con il quale strinse una durevole amicizia. Fu questo un momento favorevole per i niceni. Attorno ad Atanasio si strinse la stragrande maggioranza dei vescovi, al punto che anche Ursacio e Valente, prima accesi filoariani, chiesero la comunione con Atanasio. Ma fu solo uno dei tanti loro voltafaccia. Per il partito degli eusebiani, capeggiato allora da Acacia di Cesarea, era sempre valido il sinodo di Tiro (335) che aveva deposto Atanasio, il quale dunque occupava la sua sede in modo irregolare. È probabile che in questo momento di stasi politica, gli acaciani abbiano iniziato ad attaccare direttamente il simbolo niceno, con il pretesto del suo carattere non del tutto scritturistico, a causa dei termini ousfa e homoousios. Nel 350 uscì di scena Costante e, vinto l'usurpatore Massenzio (351), unico imperatore rimase Costanzo II. Il partito antiniceno allora rialzò la cresta e, forte dell'appoggio incondizionato dell'imperatore, fece di tutto per ottenere una condanna di Atanasio anche da parte dell'episcopato occidentale. Costanzo usò la mano pesante, e prima ad Arles (353), poi a Milano (355), costrinse i vescovi a sottoscrivere quella condanna. Coloro che rifiutarono furono esiliati (Dionigi di Milano, Eusebio di Vercelli, Ilario di Poitiers e lo stesso papa Liberio). Ad Alessandria fu dato ordine di arrestare Atanasio, ma questi riuscì a fuggire, nascondendosi presso i monaci nel deserto egiziano (terzo esilio: 356362). Fu installato con la forza un nuovo vescovo, Giorgio, originario della Cappadocia (febbraio 357). Egli governò la Chiesa con la violenza e il terrore, ma finì trucidato dalla popolazione di Alessandria alla fine del 361. Questi anni del terzo esilio atanasiano furono densi di avvenimenti, che il vescovo alessandrino seguì attentamente, nonostante la sua posizione emar155
ginata. Nel 357 i vescovi filoariani per la prima volta in un sinodo vennero allo scoperto e proscrissero i termini di ousfa, homoousios e homoioousios, in quanto non scritturistici, e propòsero senza mezzi termini una cristologia di tipo subordinazionista (seconda formula di Sirmio). Questo fatto apri gli occhi a quella parte dell'episcopato orientale che era sinceramente antiariana, anche se non filonicena. Questa corrente era capeggiata da Basilio di Ancira, e sosteneva la formula del Figlio •simile (h6moios) al Padre secondo la sostanza (kat'ousfan)•. Si parlò di un nuovo concilio generale, ma, date le difficoltà logistiche, si pensò a due sessioni, una per gli Occidentali a Rimini e una per gli Orientali a Seleucia (359). A Rimini, le cose volsero in un primo momento a favore dei niceni, ma poi le pressioni dell'imperatore Costanzo imposero la posizione ariana (della corrente omea). A Seleucia, Acacia sferrò un nuovo attacco al simbolo niceno, ma si trovò in minoranza. La situazione era oltremodo confusa, data anche la presenza degli anomei. Chi decideva la linea da seguire era però di fatto l'imperatore, al quale bisognava riferire. Egli aveva abbracciato la posizione omea (h6moios), che fu confermata dal Concilio di Costantinopoli del 360. Tutto questo susseguirsi di concili e di formule aveva pure un risvolto concreto, perché comportava la deposizione di numerosi vescovi e l'elezione di altri di opposta corrente. Quanto fosse grande il danno per le Chiese, non è difficile immaginarlo. In conclusione, nonostante che i simboli di fede promulgati dagli Orientali dal 341 al 357 mostrino una qualche presa di distanza dall'arianesimo, non si può negare che questo sia rimasto ben vivo, forse proprio sotto la copertura di quelle formule. Sembra che i neoariani abbiano adottato una duplice strategia, una a livello più popolare, per guadagnare alla loro causa la gente sotto il paravento di for156
mule difede dal tenore biblico; l'altra a livello teologico, con attacchi diretti al simbolo niceno. Questa almeno è la percezione atanasiana dei fatti, sostanzialmente esatta, anche se parziale. 12 Altrimenti non si spiegherebbe tutta la produzione antiariana del vescovo alessandrino riportabile agli anni quaranta e agli inizi degli anni cinquanta, nella quale poniamo i Discorsi contro gli ariani e il nostro De decretis, assieme al De sententia Dionysii. IL
DE DECREI1S DI ATANASIO
Occasione, importanza e contenuto dello scritto L'Epistula de decretis Nicaenae synodi (= DD) riveste una notevole importanza negli scritti antiariani di Atanasio. Qui per la prima volta egli difende apertamente l'homoousios niceno e ne dà l'interpretazione teologica, senza però ancora farne il vessillo dell'ortodossia. L'occasione dello scritto è offerta dalla richiesta di un amico, con il quale Atanasio è in corrispondenza (DD 5, 7) e che ha sostenuto una disputa con alcuni ariani (DD 1, 1). Pare che la disputa sia avvenuta attorno al passo di Proverbi 8,22 (DD 13,2). L'amico di Atanasio riferisce che gli ariani, messi alle strette, iniziarono a contestare il simbolo di Nicea nelle parole ·dalla sostanza• e •consostanziale•, perché non contenute nella sacra Scrittura (DD 1, 1). Egli allora chiede ad Atanasio, che aveva partecipato a quel Concilio, di esporgli come sono andate effettivamente le cose (DD 2,3). Atanasio risponde che questa contestazione del simbolo niceno è un mero pretesto. Essa dimostra infatti che solo più tardi, verso il 359, Atanasio si sia accorto che non tutti coloro che avevano preso le distanze dal credo niceno erano degli ariani.
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l'incosistenza e la volubilità degli eusebiani, dato che gli stessi loro capi avevano sottoscritto quel simbolo: lo testimonia la lettera scritta da Eusebio di Cesarea alla sua diocesi e riportata in appendice (DD 33). Inoltre, sostiene Atanasio, se è vero che quelle espressioni usate dal concilio non sono scritturistiche, tuttavia esse esprimono bene la mente delle sacre Scritture e sono suffragate dalla stessa tradizione teologica. Data di composizione
Gli studiosi oscillano nel datare il DD tra il 345 e il 357. Seguendo Schwartz, Opitz et Tetz optano per il 3501351; Simonetti lo colloca tra il 351 e il 355, Pietri nel 355 (356), mentre Barnes vede nel DD una risposta di Atanasio a una richiesta di papa Liberio (352). Anche Camplani pone il DD in rapporto con Liberio, come sostegno all'iniziativa del papa, che, in una lettera a Costanzo, aveva raccomandato di attenersi al simbolo niceno; ciò avrebbe provocato la reazione degli eusebiani, capeggiati da Acacia, i quali avrebbero cominciato a contestare tale simbolo per le sue espressioni non scritturisticbe; a essi avrebbe risposto Atanasio con il DD, databile perciò tra il 353 e il 356 o, meglio ancora, dopo l'estate del 356, prima de I sinodi. Altri ancora, come Brennecke, Ulrich e Heil, considerano il DD una reazione al concilio di Sirmio del 357, che aveva condannato l'uso dellhomoousios. Di per sé il DD non offre molti riferimenti interni per una possibile datazione, sia pure relativa. Oltre al Concilio di Nicea, non vi è nessun richiamo ad altri concili tra quelli tenuti tra il 341eil357 e neppure a quelle formule di fede, che gli ariani_ ripetutamente proposero in quegli anni per soppiantare il Credo niceno. Anche sugli avvenimenti personali della vita di Atanasio il DD tace, segno probabile di 158
una situazione piuttosto tranquilla. Non compare il nome di nessun imperatore. L'unico vescovo vivente nominato è Acacio, il successore di Eusebio sulla sede di Cesarea. Il passo che parla di lui finora non ha attirato l'attenzione degli studiosi, ma potrebbe essere illuminante ai fini della datazione, anche se non è di facile interpretazione. Scrive Atanasio: •Questo fatto [cioè che Eusebio ha sottoscritto il credo di Nicea] lo sa bene anche Acacio, sebbene anch'egli ora (nun), intimorito (phobetheis) per la circostanza (kair6n), dissimuli e neghi la verità· (DD 3,5). In che cosa consista questa dissimulazione e negazione della verità, nella quale è coinvolto anche Acacio, è chiaro dal contesto: gli ariani della seconda generazione, e in particolare gli acaciani, per meglio attaccare il simbolo di Nicea e lhomoousios, negavano o dissimulavano il fatto che i loro predecessori lo avessero sottoscritto. Ma qual è la circostanza, cui fa riferimento Atanasio, e che vede Acacio preso dalla paura (ph6bos)? Potrebbe essere la stessa riferita nella Storia degli ariani. Lì in/atti Atanasio scrive che, dopo il suo trionfale ritorno dall'esilio (346), vedendo che le dichiarazioni di comunione con il vescovo alessandrino diventavano generali, Acacio e compagni furono presi dall'invidia nonché dalla paura (ph6bos) di perdere i consensi e di trovarsi condannati da tutti. Questo timore era reale, se si pensa che i due più feroenti ariani dell'Occidente, i vescovi Valente e Ursacio, dissimulando i loro veri convincimenti, avevano indirizzato ad Atanasio una richiesta di comunione. Si può allora ipotizzare che Acacia e compagni, per rompere l'isolamento in cui vedevano sprofondare la corrente eusebiana, abbiano cercato di reagire attaccando direttamente il concilio di Nicea. L'argomento addotto era duplice: (1) ousfa e homoousios non sono termini scritturistici e (2) essi non fanno parte della tradizione teo159
logica. Solo però con l'avvento di Costanzo a unico imperatore (351) gli eusebiani ripresero a manovrare con successo contro Atanasio sul piano politico. Se questo accostamento è verosimile, si può allora ipotizzare la composizione del DD nel 3471348. È vero che la contestazione dellhomoousios niceno è venuta allo scoperto solo nella seconda formula di Sirmio del 357 e che tale questione ha occupato la scena fino al 360. Ma è da escludere che il DD appartenga a questo triennio, proprio per il linguaggio teologico che esso usa e che ancora non conosce le dispute di quegli anni. Potrebbe essere stato composto a ridosso di quegli stessi anni, cioè tra il 3541355, per il buon motivo che la contestazione di Nicea non può essere esplosa all'improvviso nel 357, ma deve essere iniziata un certo tempo prima. Ci sono però elementi per pensare che essa sia apparsa ancora prima e cioè già agli inizi degli anni Quaranta. In effetti, ·in Contro gli ariani 1,30, 3 abbiamo un primo chiaro accenno a coloro che ·biasimano i vescovi convenuti a Nicea per aver usato termini non scritturistici•. La datazione del Contro gli ariani I-li non è sicura, ma vi è una certa convergenza tra gli studiosi a datare questi due trattati agli inizi degli anni Quaranta se non prima. Tuttavia non è verosimile che tale contestazione si sia manifestata ancora vivo Eusebio di Nicomedia, l'ultimo rappresentante di quel gruppetto che aveva firmato il simbolo di Nicea, pur non condividendolo. È invece più probabile pensare che essa sia sorta dopo la morte di quest'ultimo, cioè subito dopo il 342. Ora in DD 1,1 Atanasio si mostra meravigliato nel sentire quella contestazione, come se ne venisse a conoscenza per la prima volta. È dunque ragionevole pensare che siamo ancora abbastanza lontani dalla data del 357 e più vicini al 342. Inoltre è provato che Atanasio nel DD ha utilizzato del materiale presente in Contro gli ariani 1-JI, il chefa sup160
porre ragionevolmente anche una certa vicinanza nel tempo tra i due scritti. L'obiezione più forte a questa ipotesi può venire da una considerazione sul linguaggio trinitario di Atanasio. In effetti, fino alla Lettera ai vescovi d'Egitto e Libia, cioè fino al 3561357, Atanasio usa senza difficoltà il termine h6moios (katà panta, kat'ousian), mentre esso è criticato in I sinodi (359-361). In mezzo ci deve essere stata una svolta, e questa sarebbe testimoniata proprio dal DD, dove Atanasio afferma esplicitamente l'insufficienza dellh6moios (DD 20,3.5). Quindi il DD andrebbe collocato poco dopo la Lettera ai vescovi d'Egitto e Libia e prima di I sinodi, dunque nel 356, senza quindi connetterlo con il sinodo di Sirmio del357. Riconosco che questa obiezione è molto forte, ma anch'essa presenta qualche lato debole. Anzitutto suppone l'ipotesi di uno sviluppo lineare, senza tentennamenti, del linguaggio teologico di Atanasio. Ora nella ricostruzione della storia del pensiero atanasiano vi sono alcuni punti fermi, ma altri ancora oscuri. Così il fatto che Atanasio in DD 20 precisi meglio il senso che va dato a h6moios, non indica ancora, a mio avviso, una vera svolta terminologica, che si avrà solo quando Atanasio verrà a conoscenza della posizione omousiana. Perciò non dovrebbe sorprendere il fatto che nella Lettera ai vescovi d'Egitto e Libia Atanasio usi ancora tranquillamente il termine h6moios ed esorti i vescovi a rimanere fedeli al simbolo di Nicea senza neppure nominare lhomoousios. In realtà, la situazione lì descritta è molto diver-sa da quella ricavabile dal DD. In quella lettera infatti Atanasio mette in guardia i confratelli vescovi contro la manovra dei neoariani, che volevano far sottoscrivere con la forza una nuova formula di fede, presentata come perfettamente scritturistica. Non viene quindi attaccato direttamente il Credo di Nicea, ma, ancora una 161
volta, si cerca di aggirarlo in modo subdolo, nell'intento di ingannare i semplici. In realtà, afferma Atanasio, dietro quelle formule apparentemente bibliche, ci sta tutta quanta la dottrina ariana. Questa viene riassunta e confutata come è possibile nello spazio di una lettera pastorale, senza entrare nel dettaglio di una discussione dottrina/e. Il DD si situa invece a un livello prettamente teologico. In esso inoltre nulla traspare della drammatica situazione in cui venne a trovarsi la Chiesa alessandrina dopo la fuga di Atanasio del 356 e l'insediamento de/I 'usurpatore Giorgio di Cappadocia. Al contrario, sembra che Atanasio scriva da una posizione di forza, dal momento che indica l'eresia ariana come •condannata da tutti• (DD 1,1; cfr. anche 15,3). In conclusione, pur riconoscendo l'ipoteticità di molte delle considerazioni qui esposte e il valore delle obiezioni, mi sembra più plausibile collocare il DD prima del 350, verso il 3471348. Il destinatario
Il DD, che non ha un titolo proprio, ha la forma di un trattato epistolare, come risposta a una richiesta di informazioni sulla discussione teologica avvenuta a Nicea. Il destinatario non viene nominato, tuttavia indirettamente Atanasio ci fornisce un certo numero di notizie dalle quali è possibile ricavarne un ritratto abbastanza preciso. Anzitutto è una persona con la quale Atanasio è già in corrispondenza epistolare (cfr. DD 5, 7), segno che tra i due esiste una conoscenza e una frequentazione a livello teologico, come da maestro a un più giovane discepolo. Questi è a sua volta qualificato come •Uomo dotto• (16gios aner) (DD 1,2), titolo che Atanasio non dà a nessun altro dei suoi contemporanei. Si tratta dunque di una persona erudi162
ta, colta, cioè con una buona preparaztone lettera. ria e filosofica. Inoltre viene lodata la sua nepsis,
cioè la vigilanza con la quale egli ba confutato gli ariani (DD 1,1-2). Atanasio ci informa che, assieme alla lettera dell'amico, ba ricevuto il resoconto di quella disputa, che si era svolta attorno a Proverbi 8,22, testo sovente addotto dagli ariani a loro sostegno e che l'amico di Atanasio ba difeso •con molte dimostrazioni (apode!xeis)• (DD 13,2). Perciò, dato che la disputa è avvenuta attorno a un passo della Scrittura, possiamo dedurre che tale amico, oltre che essere un biblista, era anche abile nella dialettica, capace cioè di usare il ragionamento dimostrativo (ap6deixis). Inoltre deve essere ancora abbastanza giovane, perché non è al corrente della discussione teologica avvenuta a Nicea, e perciò chiede ad Atanasio informazioni al riguardo. Abbiamo quindi /'identikit di una persona sui quarant'anni, colta, biblista, abile nella dialettica, attenta a smascherare l'eresia ariana, amico e discepolo di Atanasio. Non è possibile dire se fosse un laico o un monaco o un ministro. Dal DD non vi è nessun indizio che Atanasio stia scrivendo a un vescovo, anzi l'appellativo di anèr sembra escluderlo. In ogni caso lo vediamo dirigere una pubblica disputa con gli ariani, alla presenza di numerosi fedeli (DD 1,1). Si tratta dunque certamente di un didaskalos, forse già avviato alla carriera ecclesiastica, al massimo nel grado di presbitero. Ora verso il 3471348 c'è una sola persona della cerchia atanasiana che corrisponde a questi requisiti, ed è Apollinare junior, che diventerà più tardi (verso il 360) vescovo di La.odicea di Siria 13 . SapAtanasio fu in vita gos ( ~ Ragione, Verbo) e dlogos (-privo di ragione). Cfr. Letterafesta/e 19, 6 (PG 16, 1427 D).
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I
IL COMPORTAMENTO DEGLI EUSEBIANI A NICEA
IMPUGNARE IL CONCILIO È SEGNO DI IGNORANZA E DI MALAFEDE
4. Esamina anche tu, carissimo, se le cose non stanno così. Se essi si fanno forti dei malvagi pensieri da loro escogitati - o piuttosto seminati in loro dal diavolo - per prima cosa dimostrino di non aver nulla a che fare con quelle accuse che hanno provato la loro eresia, e solo allora potranno incriminare, se ne sono capaci, ciò che è stato definito contro di loro. Nessuno infatti, riconosciuto colpevole di omicidio o di adulterio, dopo la condanna ha ancora spazio per incriminare la sentenza del giudice, impugnando questa o quella parola. Ciò non libera il condannato, ma anzi aumenta l'accusa a motivo della sua sfrontatezza temeraria. 5. Pertanto anche costoro, o mostrino che il loro modo di pensare è conforme alla retta fede - infatti, non sono stati subito incolpati, ma furono riconosciuti colpevoli solo dopo essere stati accusati, ed è giusto che chi è accusato non faccia altro che difendersi - oppure, se hanno la coscienza sporca e si accorgono di essere fuori della fede, non incolpino ciò che non conoscono, per non attirarsi un duplice male, cioè l'accusa di empietà e il biasimo di ignoranza. 6. Esaminino piuttosto la cosa diligentemente, in modo da imparare ciò che prima ignoravano: così potranno lavare le loro orecchie inquinate dall'errore con l'acqua della verità e con gli insegna178
menti della retta fede. Così infatti anche nel concilio di Nicea avvenne per i seguaci di Eusebio. IL COMPORTAMENTO DEGLI ARIANI A NICEA
[AW 31 3,1. Come gente empia, che ama contestare e cerca di opporsi a Dio, quelli1 proferivano parole piene di empietà. I vescovi invece, che si erano radunati in numero più o meno di trecento 2 , con atteggiamento mite e benevolo chiedevano loro di dare ragione di quanto dicevano e [di fornire] dimostrazioni conformi alla retta fede. Ma poiché anche solo ad aprir bocca si condannavano e disputavano tra di loro, vedendo l'estremo imbarazzo della loro eresia, rimasero senza parola, e con il loro silenzio confermavano la vergogna insita nella loro cattiva dottrina. 2. I vescovi allora, annullando le parole escogitate da quelli, esposero contro di essi la sana fede della Chiesa. Tutti, anche quelli della cerchia di Eusebio, sottoscrissero quelle parole, di cui ora questi si lamentano. Mi riferisco a "dalla sostanza" (ek tes ousias) e "consostanziale" (bomoousios), con cui si esprime che il Figlio di Dio non è creatura od opera, né è una delle realtà divenute, ma che il Logos è generato dalla sostanza del Padre. IL COMPORTAMENTO DI EUSEBIO DI CESAREA
3. La cosa sorprendente è che Eusebio di Cesarea di Palestina, il quale fino alla vigilia si era rifiutato [di sottoscrivere], alla fine sottoscrisse e mandò una lettera alla sua Chiesa, dicendo che quella era la Cioè gli ariani presenti al concilio e guidati da Eusebio di Nicomedia. • Questa cifra approssimativa è attestata da più fonti. Solo in seguito il numero fu fissato a 318, in analogia con i servi di Abramo (cfr. Atanasio, Lettera al vescovi africani, 2, PG 26, 1032 B).
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fede della Chiesa e l'insegnamento trasmesso dai padri. Così mostrò chiaramente a tutti che prima [gli ariani] avevano sbagliato, mettendosi vanamente contro la verità. 4. Infatti, anche se allora fu reticente a scrivere quelle parole e le giustificò come volle lui alla [sua] Chiesa, tuttavia attraverso quella lettera non negando il "consostaziale" (bomooUsios) e "dalla sostanza" (ek tés ousias), chiaramente volle manifestare ciò [che cioè prima avevano sbagliato]. E successe qualcosa di strano: come per difendersi, finì per accusare gli ariani, perché essi, scrivendo che •non esisteva il Figlio prima di essere generato•, venivano a negare che egli fosse esistito persino prima della sua generazione secondo la carne. 5. Tutto questo lo sa bene anche Acacio, sebbene anch'egli ora, intimorito per la circostanza, dissimuli e neghi la verità. Pertanto ho riportato alla fine la lettera di Eusebio, perché da essa tu conosca la malafede degli oppositori di Cristo - e in special modo quella di Acacio - verso i loro stessi maestri. QUELU CHE SI OPPONGONO AL CONCILIO ECUMENICO SONO FALSI MAESTRI
4,1. Come possono dunque costoro non essere colpevoli, anche solo se progettano di pronunciarsi contro quel così grande ed ecumenico concilio? 3 Come non sono trasgressori, essi che osano opporsi a ciò che è stato così ben definito contro l'eresia ariana ed è stato approvato da quelli stessi che prima insegnavano loro l'errore? 2. Se poi i seguaci di Eusebio, dopo aver sottoscritto, hanno mutato 3
Come già aveva fatto Eusebio nella sua Vita di Costantino, 3, 6, 1 (GCS, Eusebius, Vl, p. 83), Atanasio chiama spesso -ecumenico- il concilio di Nicea (cfr. anche più avanti, DD 27, 4 e Miiller, Lexlcon, col. 975). Il senso immediato è quello di "concilio generale" di tutta la Chiesa, ma soggiacente vi è l'idea che esso è ecumenico perché rappresenta la fede della Chiesa cattolica (cfr. DD 20, 5; 27, 5).
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parere e sono tornati al loro errore come cani al loro vomito, ciò non rende forse gli attuali oppositori degni di maggior disprezzo? Essi hanno venduto ad altri la libertà delle loro anime e vogliono avere come guide della loro eresia uomini, come disse Giacomo, oscillanti e incostanti in tutte le loro vie, incapaci di avere un'unica opinione, continuamente mutevoli da una parte e dall'altra: ora lodano quello che dicono e poco dopo biasimano quello che hanno detto, per poi lodare di nuovo ciò che poco prima avevano screditato. [AW 41 3. Ora questo atteggiamento, come ha detto il Pastore, proviene dal diavolo ed è distintivo di commercianti, non di maestri. Segno della vera dottrina e dei veri maestri, come i padri hanno insegnato, è convenire tutti nelle stesse cose e non essere in disaccordo né con se stessi né con i propri padri. 4. I [filosofi] greci, che non insegnano le stesse cose, ma sono in disaccordo gli uni con gli altri, non possiedono una vera dottrina. Invece i santi [autori], veri araldi della verità, sono concordi, non discordi tra di loro. Infatti, anche se sono nati in epoche diverse, avanzano tutti verso il medesimo [fine), poiché sono profeti dell'unico Dio e annunziano concordemente lo stesso Logos. LA
CONTINUITÀ DEUA TRADIZIONE
5,1. Ciò che Mosè insegnò, già lo osservava Abramo; ciò che Abramo osservava, Noè ed Enoc lo conoscevano, poiché sapevano distinguere le cose pure da quelle impure e come essere accetti a Dio. Anche Abele ha testimoniato di sapere queste cose, avendole apprese da Adamo, il quale a sua volta le ha apprese dal Signore. Questi, venuto alla fine dei tempi per togliere il peccato, disse: Non vi do un comandamento nuovo, ma un comandamento antico, che avete ascoltato fin dall'origine. 2. Per que181
sto, il beato apostolo Paolo, che ha imparato da lui, dando gli ordinamenti della Chiesa, ha voluto che i diaconi non fossero doppi nel parlare, e neppure i vescovi; rimproverando poi i Galati, si è espresso in modo più generale dicendo: Se qualcuno vi porta un evangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema, come vi ho già detto e ancora ripeto: anche se un angelo dal cielo vi annunziasse un evangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema. CONDOTIA INSTABILE DEGIJ ARIANI
3. Se l'Apostolo dice ciò, [AW 5] allora una delle due cose: o anche costoro anatematizzino quelli della cerchia di Eusebio, perché hanno cambiato e hanno detto cose diverse da quelle che avevano sottoscritte4; oppure, se riconoscono che quelli hanno fatto bene a sottoscrivere, non mormorino contro un così grande concilio. Se poi non fanno né questo né quello, è chiaro che anch'essi sono portati qua e là da qualsiasi vento e tempesta, attratti non dalle proprie convinzioni, ma da quelle altrui. 4. Ma poiché essi sono proprio così, neppure ora sono degni di fede con queste loro apparenti obiezioni, ma la smettano di accusare cose che non conoscono. Forse non sapendo nemmeno discernere, chiamano il male bene e il bene male, e ritengono che l'amaro sia dolce e il dolce amaro. 5. Evidentemente, vogliono che sia valido ciò che è stato condannato e respinto, mentre ciò che è stato definito correttamente, si sforzano di toglierlo di mezzo. Perciò bisognerebbe che noi non facessimo più nessuna difesa di quegli avvenimenti né 4
Potrebbe essere questa un'allusione al Concilio di Antiochia del 341, dove Eusebio di Costantinopoli propose un nuovo simbolo di fede, mettendo da parte quello di Nicea, pur da lui sottoscritto.
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rispondessimo alle loro stolte obiezioni, e che anch'essi smettessero di fare polemica, ma acconsentissero a quanto hanno sottoscritto i capi della loro eresia, sapendo che il susseguente voltafaccia dei seguaci di Eusebio è sospetto e in malafede5. 6. Il sottoscrivere, dopo [non] essere stati in grado di difendersi neppure per un attimo, indica che l'eresia ariana è veramente empia. Infatti, non avrebbero sottoscritto se prima non l'avessero condannata. E non l'avrebbero condannata se, confutati su tutta la linea, non fossero rimasti senza parola. Per cui l'aver mutato parere è prova del loro spirito di contesa. 7. Perciò bisognava che anche questi, come è stato detto, stessero zitti. Ma essi sono tremendi nella loro sfrontatezza e pensano forse di essere più capaci dei loro predecessori di presiedere a questa diabolica eresia. Perciò, anche se nella lettera che precedentemente ti ho mandato ho già svolto una più ampia confutazione del loro errore, nondimeno come per quelli, così ora anche per questi esamineremo una per una le loro affermazioni6. Così apparirà in modo non meno evidente che questa loro dottrina non è sana, ma ha qualcosa di demoniaco.
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Troviamo qui espresso l'atteggiamento di Atanasio, che ha sempre considerato in malafede i tentativi dei vescovi orientali di prendere le distanze dall'arianesimo, almeno quello più radicale. Atanasio in questo testo distingue chiaramente gli ariani (o eusebiani) della prima generazione - contro i quali dice di avere già scritto -, da quelli della seconda generazione, contro i quali si accinge a scrivere.
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II BREVE CONFUTAZIONE DELL'ARIANESIMO
LE
TESI ARIANE SUL FIGLIO
6, 1. Essi pertanto tengono lo stesso linguaggio temerario dei loro maestri e dicono: •Non da sempre vi è un Padre e non da sempre vi è un Figlio; infatti prima di essere generato, il Figlio non esisteva, ma è stato creato anch'egli dal nulla. Perciò Dio non da sempre è stato Padre del Figlio; ma quando il Figlio fu fatto e creato, allora anche Dio fu chiamato Padre suo. Il Logos infatti è creatura e opera, estraneo e diverso dal Padre secondo la sostanza (kat'ousian). Inoltre il Figlio non è il naturale e vero Logos del Padre, né la sua unica e vera Sapienza, ma è una creatura, ed essendo una delle opere, solo impropriamente è chiamato Logos e Sapienza. Anch'egli infatti è venuto all'esistenza, come tutte le altre cose, mediante il Logos che è in Dio. Perciò il Figlio non è Dio nel senso vero e proprio del termine»1 ,
1
Osserva Opitz che ·Atanasio non cita da uno scritto, ma riporta le concezioni degli ariani nelle loro principali frasi. Cfr. anche Lettera ai vescovi di Egitto e Libia, 12 (PG 25, 564 B), le cui parole ricorrono alla lettera in Contro gli ariani, 1,5 CPG 26, 21 A). (AW 2/1, p. 5). Già una prima sintesi della dottrina ariana era stata fatta da Alessandro nella lettera enciclica Henòs somatos, 7-9: ·[7] Dio non era Padre da sempre, ma c'era un tempo in cui Dio non era Padre. Non da sempre c'era il Logos di Dio, ma è stato fatto dal nulla. Dio infatti, che è l'essere, ha fatto dal non essere colui che non aveva l'essere. Per questo c'era un tempo in
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lL DUPIJCE SIGNIFICATO DI "FIGIJO": PER ELEZIONE E PER NATI.JRA
2. lo però [AW 6) vorrei anzitutto chiedere a costoro che cos'è "figlio" in generale e che cosa significa questo nome, perché così possano capire quello che dicono. 3. In effetti, la Sacra Scrittura ci indica un duplice significato di questo nome. Il primo lo si trova dove Mosè dice nella legge: Se voi ascolterete la voce del Signore Dio vostro e metterete in pratica tutti i precetti che io oggi ti comando, così da fare ciò che è bene e ottimo davanti al Signore Dio tuo, sarete figli del Signore Dio vostro. Parimenti nel Vangelo Giovanni dice: A quanti lo banno accolto, ha dato loro il potere di diventare figli di Dio. L'altro significato si ha quando diciamo che Isacco è figlio di Abramo, Giacobbe è figlio di Isacco e i capostipiti delle [dodici] tribù sono figli di Giacobbe 2 • 4. Ora essi, per dire quelle favole sul Figlio di Dio, secondo quale delle due accezioni lo intendono? Sono convinto infatti che essi vanno a finire cui non esisteva. Il Figlio infatti è creatura e opera; non è simile al Padre secondo la sostanza (h6moios kat'ousfan), non è il vero e naturale Logos del Padre, né la sua vera Sapienza, ma è una delle opere e delle realtà divenute, chiamato Logos e Sapienza non in senso proprio, in quanto anch'egli fu fatto per mezzo del Logos proprio di Dio e della Sapienza che è in Dio, per mezzo della quale Dio ha fatto tutto, anche il Figlio•. Fin qui il testo di Alessandro è quasi identico con quello di Atanasio. Poi Alessandro continua: [8] ·Perciò anch'egli è soggetto al mutamento e al cambiamento per natura, come tutti gli esseri razionali. Il Logos è estraneo, diverso e separato dalla sostanza del Padre, il quale è invisibile per il Figlio. Infatti la conoscenza che il Logos ha del Padre non è perfetta ed esatta, e neppure lo può vedere perfettamente. Ma il Figlio neppure conosce la sua propria sostanza, come essa è. (9] Infatti è stato fatto a motivo nostro, affinché Dio creasse noi, servendosi di lui come di uno strumento. Non sarebbe esistito, se Dio non avesse voluto creare noi· (AW 3/1, Urkunde n. 4b, pp. 7-8 = OD 35, AW 2/1, p. 32). Il tema della inconoscibilità del Padre da parte del Figlio non è trattato da Atanasio nel DD. • La distinzione tra il Figlio per natura e i figli per adozione risale già ad Origene (cfr. Simonetti, Studi, p. 122).
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nello stesso errore degli eusebiani. Se dunque [il Logos) è [Figliol secondo la prima accezione - cioè nel senso di coloro che attraverso il progresso morale ottengono la grazia del nome e ricevono il potere di diventare figli di Dio (dò infatti dicevano anche quelli) - [il Figlio) non differirebbe in nulla da noi e non sarebbe più Unigenito, avendo anch'egli ottenuto l'appellativo di Figlio a partire dalla sua virtù. 5. «Ma, essi dicono, egli ha ricevuto in anticipo il nome [di Figliol e la gloria relativa a questo nome subito al suo primo esistere, perché [Dio) nella sua prescienza sapeva che sarebbe stato tale, [cioè) virtuoso• 3. Anche ammesso questo, egli però non differirebbe da coloro che ricevono il titolo [di figli) in seguito alle loro azioni, finché questo rimane anche per lui il motivo del suo essere Figlio. 6. Anche Adamo ricevette in anticipo la grazia appena fu creato e posto nel paradiso; eppure non differisce in nulla da Enoc, il quale dopo il tempo della nascita, essendo piaciuto fa Dio] fu trasportato [in cielo). Non differisce neppure dall'Apostolo, il quale in seguito alle sue azioni fu rapito in paradiso, né differisce da quel ladrone, il quale mediante la sua confessione [di fede) ricevette la promessa che sarebbe entrato subito in paradiso. 3
Benché per comodità di traduzione io abbia riportato questo passo tra virgolette, qui in realtà Atanasio non fa una citazione vera e propria, ma riporta ad sensum il pensiero degli ariani. Sotto forma di citazione dalla 7balla di Ario si trova invece in Contro gli ariani, 1,5,8: ·Dio, sapendo nella sua prescienza che egli [il Logos] sarebbe stato buono, gli diede in anticipo quella gloria che egli in seguito ebbe come uomo dalla sua virtù, per cui Dio fece che egli ora diventasse tale per le sue opere, da lui preconosciute· (AW 1/1, p. 115; PG 26, 21 C = Lettera ai wscovi d'F,gitto e Libia, 12,3, AW 1/1, p. 52; PG 25, 564 C). Cfr. Bellini, Alessandro e Aria, fr. 9, p. 44. Per gli ariani il titolo di Figlio e la gloria relativa a questo nome non esprimono uno stato "naturale'', ma acquisito, in previsione dei futuri meriti. I.a critica a tale idea era già stata fatta da Alessandro di Alessandria, Lettera ad Alessandro di Tessalonlca, 1114.34 (AW 3/1, Urkunde n. 14, pp. 21-22.25; Bellini, Alessandro e Ario, pp. 72-74.80).
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INTERPRETAZIONE ARIANA DI "UNIGENITO"
7, 1. Messi alle strette con questi argomenti, forse essi diranno ciò che spesso hanno detto vergognosamente: •Noi riteniamo che il Figlio è superiore alle altre creature - e per questo è detto Unigenito perché egli è il solo a essere stato fatto da Dio solo, mentre tutte le altre cose sono state create da Dio mediante il Figlio•. Chi dunque vi ha suggerito questa idea stolta e nuova, che vi fa dire: ·Solo il Figlio è stato creato direttamente dal Padre stesso, mentre tutte le altre cose sono state fatte mediante il Figlio, in funzione di aiutante•4? 2. Se infatti Dio si è limitato a creare direttamente solo il Figlio per stanchezza, questo è un pensiero indegno di Dio, soprattutto per chi ascolta Isaia che dice: Dio eterno, Dio che dispone le estremità della te17'a, non sente la fame e la fatica, né la sua mente può essere investigata. È lui piuttosto [AW 7] che dà forza agli affamati e, mediante il suo Logos, ristora gli affaticati. 3. Se poi ritenne umiliante creare lui stesso direttamente le cose dopo il Figlio, anche questo è un pensiero indegno di Dio. Non c'è superbia in Dio: egli scende in Egitto con Giacobbe; mediante Abramo castiga Abimelec a motivo di Sara e parla bocca a bocca con Mosè che era un uomo; scende sul monte Sinai e, assieme al popolo, combatte contro Amalec con la sua invisibile mano 5• • Il titolo di "Unigenito" è spiegato dagli ariani sempre sulla linea della creazione: la singolarità del Figlio rispeno alle altre creature sta nell'essere stato creato direnamente da Dio solo, mentre le altre cose sono create ·anraverso il Figlio· (cfr. Contro gli ariani, 2,29,1, AW 1/1, p. 205; PG 25, 208 B). Il termine "aiutante" (bypourg6s) indica chiaramente la funzione subalterna del Figlio. Cfr. anche DD 8,1 e Contro gli ariani, 2,24,4 (AW 1/1, p. 201; PG 26,197 C). Cfr. Vinzent, Asterius, fr. 28-29, p.
96. 5
Ritengo che la lezione Invisibile mano (kryphafa cheinJ, anche se anestata dal solo ms P, sia senz'altro da preferire a quella di invisibile grazia (kryphafa cbiirit1), presente in tuni gli altri e adonata da Opitz.
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4. Inoltre questa vostra affermazione è parimenti falsa. Infatti, Egli stesso ci ba fatti, non noi. Egli stesso è colui che, mediante il suo Logos, ha creato tutte le cose, piccole e grandi. Non si può dividere la creazione, e dire che questo è stato fatto dal Padre e quest'altro dal Figlio, ma è l'unico Dio che si è servito del proprio Logos come di una mano e in lui ha fatto tutte le cose. Dio stesso lo ha detto chiaramente: La mia mano ha fatto tutte queste cose. E Paolo, avendo appreso ciò, insegnava: Vi è un solo Dio da cui tutto proviene e un solo Signore per mezzo di cui tutto è stato fatto. 5. Egli dunque come sempre, così anche ora parla al sole ed esso sorge, e comanda alle nuvole di far scendere la pioggia in una data regione, mentre dove non piove vi è siccità; ordina alla terra di produrre i frutti e plasma Geremia nel grembo. Se egli stesso dunque opera queste cose, non vi è dubbio che anche all'inizio egli non ha disdegnato di fare tutto mediante il Logos: queste cose [particolari] in effetti sono parte del tutto. IL
LOGOS NON È INTERMEDIARIO
8,1. ·Poiché le altre creature non erano in grado di sopportare l'azione della potente mano del Nondivenuto (agenétou), solo il Figlio fu fatto da Dio solo, mentre le altre cose furono fatte tramite il Figlio quale aiutante subalterno•: ecco che cosa ha Questi infatti non ha rilevato che n vi è un'allusione quasi letterale a Es 17,16 (LXX). Dal contesto poi si evince senza alcun dubbio che Atanasio intende usare l'immagine della mano per indicare il Logos. La stessa immagine è usata in Contro gli ariani, 2,31,3 (AW 1/1, p. 207; PG 26, 212 C). A proposito di questo paragrafo, è interessante notare che mentre gli autori preniceni si preoccupavano di attribuire quegli interventi divini o teofanie al Logos, per salvaguardare la trascendenza di Dio, Atanasio non fa più questa differenza (cfr. I sinodi, 52,2, AW 1/1, p. 276; PG 26, 785 C). Sulle teofanie veterotestamentarie in Atanasio, cfr. Simonetti, La crisi ariana, p. 278.
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scritto Asterio il sacrificatore. Ario poi ha trascritto ciò per darlo ai suoi seguaci, i quali si servono di questa frasuccia come di una canna rotta, ignorando, gli stolti, il difetto che c'è in essa. 2. Se infatti le cose che divengono non possono sopportare la mano di Dio e se il Figlio, come voi sostenete, è una delle cose che divengono, come ha potuto essere fatto egli [solo] da Dio solo? Se per creare le cose c'è stato bisogno di un intermediario, e se, come voi dite, il Figlio è "divenuto", bisognava che, per poter essere creato, prima di lui ci fosse qualcuno di mezzo. Ma poiché l'intermediario è anch'esso una creatura, necessariamente anche quello aveva bisogno di un altro intermediario per la propria esistenza. Ammesso questo, bisognerà pensare un intermediario per il precedente, e così via all'infinito. Dovendo allora sempre ricorrere a un intermediario, [AW 8] si finisce per negare la possibilità della creazione, dato che, come voi dite, •nessuna delle creature è in grado di sopportare la potente mano del Non-divenuto•. 3. Se poi rendendovi conto di tale assurdità, cominciate a aire che il Figlio, che è creatura, fu in grado di essere fatto dal Non-divenuto, necessariamente anche tutte le altre cose, essendo divenute, dovevano essere in grado di essere create direttamente dal Non-divenuto: in effetti, se anche il Figlio, secondo voi, è creatura, allora lo è come tutte le altre cose. Di conseguenza, secondo il vostro modo di pensare empio e stolto, la generazione del Logos sarebbe del tutto superflua, essendo sufficiente Dio stesso a creare direttamente tutte le cose, le quali sono in grado di sopportare la potente mano di Dio.
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ADAMO, CREATO PER PRIMO,
NON HA UNA NATIJRA DIVERSA DAGLI ALTRI UOMINI
4. Se il modo di ragionare di quegli empi è folle, vediamo se questo loro particolare sofisma non appaia più assurdo degli altri. Solo Adamo fu creato da Dio solo, mediante il Logos. Tuttavia nessuno oserebbe dire che per questo Adamo abbia qualcosa di più degli altri uomini o differisca da quelli che sono venuti dopo di lui, se non che lui solo è stato fatto e plasmato direttamente da Dio, mentre noi tutti discendiamo da Adamo per successione di generazione. L'unica differenza è che egli è stato plasmato dalla terra e così è venuto all'esistenza, mentre prima non esisteva. 9,1. Se poi si vuole dare al protoplasto qualcosa di più, perché ha avuto il privilegio della mano di Dio, lo si metta in conto all'onore non alla natura. Anch'egli infatti è dalla terra, come tutti; e la mano che allora plasmò Adamo, è la stessa che ora e sempre plasma e forma quelli dopo di lui. 2. Lo afferma Dio stesso, come ho già detto, a Geremia: Prima di plasmarti nel grembo [di tua madre}, ti conoscevo. E riferendosi al tutto dice: La mia mano ha fatto tutte queste cose. E di nuovo per mezzo di Isaia: Così dice il Signore, colui che ti ha riscattato e ti ha plasmato dal grembo: Io, il Signore che opera tutto, ho disteso il cielo da solo e ho reso stabile la terra. Davide, che conosceva ciò, disse nei Salmi: Le tue mani mi hanno fatto e mi banno plasmato. La stessa cosa indica colui che dice nel libro di Isaia: Così dice il Signore, che mi ha plasmato suo seroo dal grembo. Dunque nessuno di noi differisce per natura, anche se è cronologicamente anteriore, dato che tutti siamo costituiti e creati dalla medesima mano.
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IL
FIGLIO NON È CREATO
3. Pertanto, se voi ariani pensate che il Figlio di Dio è venuto all'esistenza anch'egli in questo modo, la sua natura, stando a voi, non differirà in nulla da quella delle altre cose, dal momento che anch'egli non esisteva e ha cominciato ad esistere, e con lui è stata creata la grazia del nome [di Figlio], [in previsione] della sua virtù. Infatti, stando alle vostre parole, anche per lui vale ciò che lo Spirito dice nei Salmi: Egli disse, e furono fatti; egli comandò, e furono creati. 4. Chi è allora colui al quale Dio ha comandato, perché questi fosse creato? Ci dev'essere infatti un Logos a cui Dio comanda e nel quale crea le cose. Ma non riuscirete a mostrare che esiste un altro Logos oltre quello che voi negate, a meno che non inventiate un'altra idea. ·Sì, diranno, l'abbiamo trovata!• È quella che tempo fa ho sentito dire anche dai seguaci di Eusebio: ·Noi pensiamo [AW 9] che il Figlio di Dio ha qualcosa di più delle altre creature, e per questo è chiamato Unigenito, perché egli solo partecipa del Padre, mentre tutte le altre cose partecipano del Figlio·6. Evidentemente si sono spossati nel voltare e rivolatare le parole come i colori! Ma anche così si mostrano - e lo vedremo - come gente che vaneggia dalla te"a e che si avvoltola nei propri pensieri come nel fango. 10,1. Se infatti egli è ·Figlio di Dio•, e se noi fossimo chiamati ·figli del Figlio•, sarebbe ragionevole la loro fantasia; ma se anche noi siamo chiamati ·figli di Dio•, cioè di Colui di cui anch'egli è Figlio, allora è chiaro che anche noi partecipiamo del Pa6
Qui la differenza tra il Figlio e le altre creature è vista nel concetto di partecipazione: solo il Figlio partecipa del Padre, mentre le altre creature partecipano del Figlio. Lo schema mentale è sempre quello neoplatonico, che sottolinea l'assoluta non-partecipabilità di Dio. Questo pensiero potrebbe essere stato preso da Asterio: cfr. Vinzent, Asterlus, fr. 31, 1-4, p. 98.
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dre, che dice: Ho generato e allevato dei figli. Se non partecipassimo di lui, non avrebbe detto ·ho generato•. Se invece egli ha generato, allora non un altro, ma egli stesso è nostro Padre. LA
DIFFERENZA TRA LA GENERAZIONE DEL FIGUO E QUELLA DEI CREDENTI
2. •Non fa differenza - sussumono - che quello abbia di più e sia esistito prima, noi invece abbiamo di meno e siamo venuti dopo, dal momento che tutti partecipiamo dello stesso [Dio] e siamo detti figli dello stesso Padre. Infatti il più e il meno non fanno diversità di natura. È la pratica della virtù che aggiunge questo. Così c'è chi riceve potere su dieci città, chi su cinque. C'è chi sta seduto su dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele, e c'è chi si sente dire: Venite, benedetti del Padre mio oppure: Bravo, servo buono e fedele-. 3. Se quelli dunque ragionano in questo modo, per forza devono immaginare che Dio non sempre è stato Padre di un tale Figlio né che questi è sempre esistito, ma che è stato creato dal nulla come una creatura e prima di essere generato non esisteva. Infatti un figlio così è altro dal Figlio di Dio nel senso vero e proprio del termine. FIGUO PER NATURA
4. Ma poiché non è accettabile che costoro affermino ancora ciò - in effetti questo modo di pensare è piuttosto dei sadducei e di [Paolo di] Samosata7 - resta da dire che il Figlio di Dio è tale secondo l'al7
Paolo, originario di Samosata, fu vescovo di Antiochia, ma fu deposto da un Concilio Il riunitosi nel 268. La cristologia di Paolo era di tipo adozionista, come lascia intendere Atanasio in questo passo (vedi anche più avanti, OD 24,4). Solo nel 358 gli omousiani solleveranno la questione del termine homooU.Sios, che sarebbe stato usato da Paolo per
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tra accezione, quella cioè per cui diciamo che Isacco è figlio di Abramo. La natura infatti intende per figlio ciò che è generato da un altro per via naturale e non acquistato dall'esterno, e questo è il significato del nome. 5. ·Allora, dunque, la generazione del Figlio è come la generazione umana?•. Ecco l'obiezione che, nella loro ignoranza, vorranno farci costoro come i precedenti. Niente affatto! Dio, infatti, non è come l'uomo, dal momento che neppure gli uomini sono come Dio. I primi infatti furono creati da una materia soggetta a mutamento, mentre Dio è immateriale e incorporeo. 6. È vero che nelle divine Scritture a volte le stesse espressioni sono dette di Dio e degli uomini; ma è proprio delle persone perspicaci fare attenzione alla lettura, come ha raccomandato Paolo, e così discernere e distinguere ciò che è scritto secondo la natura di ciascuna delle realtà significate, senza confondere il pensiero. Così, la realtà di Dio non va pensata alla maniera umana, né la realtà umana va applicata a Dio. Questo sarebbe mescolare il vino con l'acqua e porre sull'altare assieme al fuoco divino un fuoco estraneo. DISTINGUERE A SECONDA DEI SOGGETTI
11,1. Ad esempio, Dio crea, e anche degli uomini si dice che creano. Dio è, e anche degli uomini si dice che sono, avendo ricevuto l'essere da Dio. Bisogna dunque concludere che Dio crea come gli uomini o che Dio ha l'essere come un uomo? No assolutamente! Queste espressioni, applicate a Dio, vanno prese in un certo modo, diverso da quando intendiamo riferirle agli uomini. 2. Dio infatti crea negare l'ipostasi distinta del Logos rispeno al Padre, e per questo quel termine sarebbe stato respinto dal concilio del 268. Cfr. Simoneni, in DPAC, 2, coli. 2633-2635.
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chiamando all'essere ciò che non è, senza bisogno di nulla; gli uomini invece lavorano una materia soggiacente, non senza prima aver pregato e aver ricevuto la scienza del fare da Dio, che ha tutto creato mediante il suo proprio Logos. 3. E ancora: [AW 10] gli uomini, che non possono darsi l'essere da se stessi, sono contenuti in un luogo e sussistono nel Logos di Dio; Dio invece esiste da se stesso, tutto contiene e non è contenuto da nulla. È in tutte le cose, secondo la sua bontà e potenza, ma trascende tutte le cose secondo la sua propria natura. Così dunque non allo stesso modo gli uomini •creano• e Dio •crea•, né gli uomini ·hanno l'essere• come Dio ·ha l'essere•. LA
GENERAZIONE DIVINA NON
t COME QUELLA UMANA
Parimenti, la generazione umana è una cosa, l'essere il Figlio dal Padre è un'altra. 4. I figli nati dagli uomini sono in qualche modo una parte dei genitori, poiché la natura dei corpi non è semplice ma fluida e composta di parti. Gli uomini quando generano emettono qualcosa e poi, attraverso il cibo, immettono in sé delle sostanze. Per questo gli uomini nel tempo possono diventare padri di molti figli. Dio invece, non essendo composto di parti, è Padre del Figlio senza subire divisione o mutazione. Essendo incorporeo, in lui non vi è nessuna emissione né immissione come per gli uomini. La natura di Dio è semplice, per cui egli è Padre del solo e unico Figlio. 5. Per questo è Unigenito e il solo a essere nel seno del Padre. Che sia così, lo mostra il Padre stesso quando dice: Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Costui è il Logos del Padre, ed è possibile capire che anch'egli non è soggetto a mutazione o divisione, come non lo è il Padre. Se già la parola umana è generata senza mutazione e divisione, quanto più il Logos di 194
Dio. 6. Perciò egli, come Logos, "siede" alla destra del Padre: dove infatti è il Padre, lì c'è anche il suo Logos. Noi invece, come creature, •Stiamo in piedi•, giudicati da lui. Egli è adorato, perché è Figlio del Padre, che è degno di adorazione; noi invece lo adoriamo, professandolo Signore e Dio, perché noi siamo creature e altri da lui. LA
GENERAZIONE DEL FIGLIO È ETERNA
12,1. Stando così le cose, per confonderli basta chiedere a chi voglia di loro se sia lecito dire che ciò che è ·da Dio· come sua propria progenie, sia ·dal nulla•, o se sia ragionevole anche solo formulare l'ipotesi che ciò che è ·da Dio· sia qualcosa a lui accidentale, per cui osi dire che il Figlio non esiste da sempre. In effetti, la generazione del Figlio supera e trascende i pensieri umani. 2. Noi infatti diventiamo padri dei nostri figli nel tempo poiché noi stessi prima non c'eravamo e poi siamo venuti all'esistenza. Dio invece, che è da sempre, da sempre è Padre del Figlio. La nostra generazione è attestata da coloro che esistono in modo simile [a noi]. Poiché invece nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare per questo i santi [autori], ai quali il Figlio lo ha rivelato, ci hanno dato una certa immagine di ciò che hanno visto, dicendo: Egli è lo splendore [AW 11] della gloria e l'impronta della sua sostanza. E di nuovo: Poiché presso di te è la fonte della vita, nella tua luce vedremo la luce. Allora, rimproverando Israele, il Logos dice: Hai abbandonato la fonte della sapienza. Questa è la fonte che dice: Hanno abbandonato me, fonte di acqua' viva. 3. Sebbene questi paragoni siano piccoli e assai oscuri rispetto a ciò che si desidera, tuttavia è possibile ricavare da essi un concetto di qualcosa superio-
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re alla natura umana e non pensare che la generazione del Figlio sia uguale alla nostra. Chi infatti può anche solo pensare che non c'era una volta lo splendore, per cui osi dire che il Figlio non esiste da sempre o che il Figlio non esisteva prima di essere generato? È forse qualcuno in grado di separare lo splendore dal sole o pensare che la fonte [della vita] sia priva della vita? Sarebbe proprio una pazzia dire che il Figlio è dal nulla, egli che ha detto: Io sono la vita, oppure dire che è estraneo alla sostanza del Padre, egli che ha detto: Chi ha visto me ha visto il Padre. Se i santi [autori] ci hanno dato questi paragoni, era perché volevano che noi pensassimo in quel modo. Sarebbe perciò assurdo e assai scorretto che, avendo queste immagini dalla Scrittura, noi discorressimo del Signore a partire da altre [immagini] che non stanno scritte e non conducono alla rena fede. L'ERRATA INTERPRETAZIONE DI PROVERBI
8,22
13,1. Pertanto, che ci dicano da dove hanno appreso o chi ha loro trasmesso queste idee sul Salvatore. "Abbiamo letto, diranno, nel libro dei Proverbi: Il Signore mi cre(j principio delle sue vie in vista delle sue opere- 8• 2. Questo infatti è proprio quello che dicevano gli eusebiani, e tu nella tua lettera hai mostrato che costoro, sebbene siano stati confutati con molte dimostrazioni e respinti, nondimeno sbandieravano quel detto [della Scrittura], conclu8
In effetti, Prv 8,22 fu uno dei cavalli di battaglia degli ariani. Ricordiamo che, nel contesto di Prv 8, chi parla è la Sapienza divina personificata, identificata dai padri con il Logos. Sull'interpretazione patristica di Prv 8,22, cfr. Simonetti, Studi, pp. 9-87. Atanasio si è spesso e a lungo soffermato sulla sua interpretazione, applicandolo all'incarnazione di Cristo, in senso antiariano: cfr. Contro gli ariani, 2,44-82 CPG 26, 240321); Lettere a Seraptone, 2,7 (PG 26, 620; trad. it. E. Cattaneo, CIP 55, pp. 117-119); Lettera ai vescovi di Egitto e Libia, 17 (PG 25, 576-Sn). Cfr. Simonetti, Studi, pp. 56-67.
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dendo che il Figlio è una delle creature e va annoverato con le realtà divenute. 3. Tuttavia mi pare evidente che la loro interpretazione non è buona. [Quel passo] ha un senso teologicamente del tutto corretto: se anch'essi l'avessero capito, non avrebbero bestemmiato il Signore della gloria. Confrontino infatti le affermazioni esposte prima con questo detto, e vedranno quanto grande è la differenza che c'è in esse. 4. Chi avendo un retto pensiero non vede che le cose create e fatte sono "da fuori" del Creatore, mentre il Figlio, come è stato precedentemente mostrato, non è "da fuori", ma "dal Padre", che lo ha generato? Dell'uomo si dice che "fa" una casa e "genera" un figlio: nessuno scambia le parole e dice che la casa o la nave è "generata" dal fabbricante e che invece il figlio è "creato" o "prodotto" dal medesimo; né si dice che la casa è immagine di chi l'ha fatta o che il figlio non è simile al genitore. Si dirà piuttosto che un figlio è immagine di suo padre, mentre una casa è prodotto di una tecnica, a meno che uno sia malato di mente e abbia il cervello sconquassato. 5. Ora appunto, la Sacra Scrittura, che conosce meglio di tutti la natura di ciascuno, tramite Mosè dice delle realtà create: In principio Dio fece il cielo e la terra. Riguardo al Figlio invece essa mostra il Padre stesso, non un altro, che dice: Dal ventre prima dell'aurora ti ho generato. E di nuovo: Figlio mio sei tu, io oggi ti ho generato. E il Signore dice di se stesso nei Proverbi: Prima di tutte le colline mi ha generato. Quanto al Vangelo di Giovanni, circa le cose create dice: Tutto fu fatto per mezzo di lui; del Signore invece dice: Il Figlio Unigenito, che è [AW 12] nel seno del Padre, egli stesso ce l'ha rivelato. 6. Se dunque è Figlio, non è creatura; se invece è creatura, non è Figlio: infatti vi è una grande differenza tra le due cose. Non potrebbe essere insieme Figlio e creatura, altrimenti bisognerebbe pensa197
re che la sua sostanza (ousia) sia insieme ·da Dio• e ·da fuori• di Dio. PROVERBI 8,22 SI RIFERISCE ALL'INCARNAZIONE
14,1. ·Dunque questa parola è stata forse scritta senza ragione?•. Questo infatti essi di nuovo vanno ronzando, come uno sciame di zanzare. Niente affatto! Non è stata scritta senza ragione, ma con ragione sommamente necessaria. In effetti pure [del Figliol si dice che viene creato, ma in riferimento a quando si fece uomo 9: [l'essere creato] infatti è proprio dell'uomo. Questa interpretazione si ricava facilmente dalle parole [del testo sacro], purché non se ne conduca una lettura superficiale, ma si esamini a quale "momento" esse si riferiscono, chi sono le "persone" che parlano e la "necessità" delle cose scritte: così la lettura sarà fatta con discernimento e intelligenza10 • 2. Il "momento" dunque a cui si riferisce questo detto sarà facilmente trovato: il Signore, che è da sempre, in ultimo, alla fine dei tempi, si è fatto uomo, ed essendo Figlio di Dio si è fatto anche figlio L'interpretazione che riferisce Prv 8,22 all'incarnazione del Logos si trova già in Eustazio di Antiochia e in Marcello di Ancira (cfr. Simoneni, Studi, pp. 38-48). Atanasio vi si aniene costantemente. Tuttavia in Contro gli ariani, 2,77,4- 80 (AW 1/1, pp. 255; 258; PG 26, 309-317) troviamo un'interpretazione alquanto diversa: poiché in tutte le cose create c'è l'impronta della Sapienza divina, questa può ciire di essere stata -creata• nelle sue stesse opere. Questi capitoli, giudicati dagli studiosi una sorte di "appendice", meriterebbero uno studio più approfondito (cfr. qualche accenno in Meijering, Ortbo:x:y, pp. 117-119). Simonetti (Studi, p. 64 in nota) si chiede dove Atanasio abbia mai potuto prendere tale interpretazione, che non è quella sua personale. Per Kannengiesser (Atbanase, pp. 90-92) si tratta di un "annesso", sul cui contenuto però sorvola completamente. 10 Atanasio enuncia qui alcune fondamentali regole ermeneutiche da utilizzare nella lettura della Sacra Scrittura: (I) il momento (kair6s) - all'interno del piano di salvezza - nel quale sono state pronunciate le parole in questione; (2) chi sta parlando (pr6sopon); (3) la necessità. (cbreia) delle cose dette, cioè la finalità salvifica (altrove chiamata skop6s), alla quale è orientata tutta la Scrittura. 9
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dell'uomo. Se ne comprende poi la "necessità", poiché egli, volendo distruggere la nostra morte, si è preso un corpo dalla vergine Maria, per presentarlo al Padre in sacrificio a vantaggio di tutti, e liberare così tutti noi, che per timore della morte eravamo soggetti a schiavitù per tutta la vita. Infine la "persona" che parla è certamente il Salvatore, ma si riferisce al momento in cui, avendo preso il corpo, dice: Il Signore mi creò principio delle sue vie in vista delle sue opere. 3. Come infatti di lui, in quanto Figlio di Dio, ben conviene dire che è eterno e nel seno del Padre, così in quanto si è fatto uomo a lui si confà la voce che dice: Il Signore mi creò. Di fatti, solo allora si dice di lui che ebbe fame, ebbe sete, si informò dove Lazzaro giaceva, patì e risuscitò. E come quando sentiamo [la Scrittura dire] di lui che è Signore, Dio, Luce vera, comprendiamo che egli è dal Padre, così quando sentiamo espressioni quali "creò'', "servo", "patì", è giusto non attribuirle alla divinità - cosa impropria - ma assegnarle a quella carne, che egli ha portato per noi. Sono infatti cose proprie della carne, la quale, a sua volta, non è di altri che del Logos. 4. Se poi uno vuole apprendere l'utilità che deriva da ciò, troverà anche questo: infatti il Logos si è fatto carne per offrire [il suo corpo] a vantaggio di tutti e perché noi, partecipando al suo Spirito, potessimo essere divinizzati. E ciò non sarebbe stato possibile se egli non avesse rivestito il nostro corpo creato. Così infatti noi in seguito abbiamo cominciato a essere chiamati non solo uomini, ma anche figli di Dio e uomini in Cristo. 5. Ma come noi, ricevendo lo Spirito, non perdiamo la nostra propria sostanza, così il Signore, fattosi uomo per noi e avendo portato un corpo, non ha smesso di essere Dio: l'essersi rivestito del corpo, non l'ha sminuito, al contrario ha divinizzato questo [corpo] e alla fine lo ha reso immortale. 199
III IL VERO INSEGNAMENTO DELLE SACRE SCRITfURE
IL FIGUO È LOGOS E SAPIENZA PROPRIA DEL PADRE
15,1. Quanto abbiamo detto basta a bollare l'eresia degli ariani. E infatti, come il Signore ci ha concesso, abbiamo confutato il loro errore a partire dalle loro stesse parole. Ora prendiamo noi l'iniziativa e chiediamo che siano essi a rispondere. È questo il momento opportuno, visto che essi sono a corto di argomenti, per essere interrogati da noi: forse così [AW 13) quegli stolti arrossiranno, vedendo dove sono caduti. 2. Come abbiamo detto in precedenza, le Sacre Scritture ci insegnano che il Figlio di Dio è il Logos e la Sapienza propria del Padre. Dice infatti l'Apostolo: Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio. E Giovanni dopo aver detto che il Logos si è fatto carne, subito aggiunge: e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito da presso il Padre, pieno di grazia e di verità. Vale a dire: essendo il Logos Figlio unigenito, proprio in questo Logos e in questa Sapienza furono creati il cielo e la terra e tutto ciò che vi è in essi. 3. Il libro di Baruch poi ci insegna che Dio è la sorgente di questa Sapienza, quando rimprovera Israele perché ha abbandonato la sorgente della sapienza. Ora, se essi negano le Scritture, non possono più chiamarsi col nome [cristiano), ma giustamente saranno chiamati da tutti atei e nemici di Cristo: è il nome che essi stessi si sono dati. 4. Se invece rico200
nascono con noi che le parole della Scrittura sono ispirate, osino dire apertamente ciò che pensano nascostamente, e cioè che Dio fu un tempo senza Logos e senza Sapienza, e dicano nella loro follia: ·C'era un [tempo] quando [il Figliol non esisteva•1 e •prima di essere generato, Cristo non esisteva•. E ancora dicano chiaramente che la Sorgente non ha generato da se stessa la Sapienza, ma se l'è procurata da fuori, così che oseranno affermare: ·Il Figlio è stato fatto dal nulla•. Questo infatti non è più indicare la sorgente, ma è come se a un lago, che riceve acqua da fuori, venisse dato il nome di sorgente. LOGOS E SAPIENZA NON SONO SOLO APPELLATIVI DEL FIGLIO
16,1. Che tutto questo sia pieno di empietà, penso che nessuno, per quanta poca intelligenza abbia, ne può dubitare. Ma poiché essi borbottano dicendo che •Logos e Sapienza sono solamente nomi del Figlio·2 , bisogna loro chiedere: se questi sono solamente nomi del Figlio, allora egli sarà altro da essi. 2. Ora, se egli è superiore ai nomi, non è corretto indicare un essere superiore con nomi inferiori; se invece egli è inferiore ai nomi, ci sarà un motivo per cui ha ricevuto un appellativo migliore, ma ciò di nuovo indica un suo progresso, affermazione non meno empia della precedente. Infatti affermare che Colui che è nel Padre e nel quale è il Padre, Colui che dice: Io e il Padre siamo uno e Chi ba visto me ha visto il Padre, [affermare dico] che sia reso migliore da qualcosa a lui esterna, supera ogni follia. 1
2
Questa formula esisteva già al tempo di Origene, che la respinge (cfr. più avanti DD 27,2). Per gli ariani il Figlio non si identifica con la Sapienza e il Logos proprio di Dio, ma riceve il nome di Sapienza e di Logos solo per partecipazione. Cfr. Contro gli ariani 1,5 (PG 26, 21 B); 9 (21 B; 32 A); 2,38 (228 AB).
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IL LOGOS DI DIO
È UNICO
3. Ma dopo aver perso anche questo confronto e trovandosi, come gli eusebiani, nell'incapacità totale di rispondere, non resta loro altro argomento che quello inventato da Aria nelle sue canzonette e nella sua Tbalia, con l'intento di sollevare un dubbio: ·Molte parole (l6goi) dice Dio· 3• Voi insensati e tutto tranne che cristiani, [diteci]: quale di queste [parole] chiamiamo noi Figlio e Logos unigenito del Padre? 4. Anzitutto, dicendo ciò di Dio, poco ci manca che lo considerino come un uomo, il quale quando parla supera le parole precedenti con quelle susseguenti, come se l'unico Logos che è da Dio non fosse capace di adempiere tutta la creazione che il Padre ha voluto e la sua provvidenza. 5. Se [Dio] deve dire molte parole, significa che sono tutte insufficienti, ciascuna avendo bisogno dell'aiuto dell'altra; invece se a Dio basta usare una sola parola, come è [AW 14] in verità, questo mostra la potenza di Dio e la perfezione del Logos che è da lui, nonché l'intelligenza religiosamente corretta di coloro che così pensano. 17, 1. Se almeno essi, anche a partire da quanto affermano, volessero ora riconoscere la verità! Infat~
Questa frase, come osserva Opitz (AW 2/1, p. 13), non è mai citata altrove e va compresa nel contesto di Eb 1,1-2, dove appunto si dice che ·Dio ha parlato molte volte e in diversi modi.. Quindi, secondo Ario, il Logos non sarebbe che uno dei tanti 16goi ( = parole) di Dio. 1balia (= Banchetto) è il titolo di un'opera di Ario, scritta in versi o in prosa ritmica, nella quale egli espone la sua dottrina. Secondo Atanasio, Ario l'avrebbe scritta dopo la sua cacciata dalla Chiesa, sollecitato dai seguaci di Eusebio (cfr. I sinodi, 15, PG 25, 705 C). Alcuni studiosi moderni invece pongono la sua composizione al periodo alessandrino (cfr. Kannengiesser, Arius and Atbanasius, p. 206). I frammenti superstiti sono stati raccolti da G. Bardy, in Revue de Pbilologle 53 (1927), pp. 211-233, tradotti in italiano e commentati da Bellini, Alessandro e Ario, pp. 36-46 (tuttavia il frammento di DD 16,3 non è riportato). Per Kannengiesser (1984), le ·bestemmie di Ario· che si leggono in Atanasio, I sinodi, 15, non proverrebbero dalla 1balia, ma da uno scritto neo-ariano.
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ti, se ammettono un Dio che proferisce [molte] parole, sanno nondimeno che egli è Padre. Ammes-
so ciò, esaminino che non volendo ammettere un unico Logos di Dio, finiscono per immaginare Dio padre di molti [Logoi]. Inoltre, che ci sia un Logos di Dio, non vogliono negarlo, ma non lo riconoscono come Figlio di Dio. Ora questo è ignoranza della verità e non conoscenza delle Sacre Scritture. 2. Se infatti Dio è Padre del Logos, perché mai colui che è generato non è Figlio? E ancora, chi potrebbe essere Figlio di Dio se non il suo Logos? E infatti non ci sono molti Logoi, altrimenti ciascuno sarebbe bisognoso, ma uno solo è il Logos, unico e perfetto; e poiché Dio è unico, pure unica deve essere la sua immagine, che è il Figlio. 3. Dalle Scritture stesse apprendiamo che il Figlio di Dio è egli stesso il Logos, la Sapienza, l'Immagine, la Mano e la Potenza di Dio. Unico infatti è il generato da Dio, e queste sono le note della generazione dal Padre. 4. Infatti, se nomini il Figlio, indichi ciò che è dal Padre per natura; se pensi al Logos, di nuovo consideri ciò che è dal Padre ed è inseparabile da Lui; dicendo la Sapienza, di nuovo pensi senz'altro a ciò che è da Lui e in Lui, non fuori di Lui; se poi nomini la Potenza e la Mano, di nuovo parli di ciò che è proprio della sostanza (ousias); parlando dell'Immagine, indichi il Figlio. 5. Che cosa infatti potrebbe essere simile a Dio se non ciò che è da lui generato? Certamente, le cose. create mediante il Logos sono state fondate con la Sapienza. E le cose fondate con la Sapienza, tutte sono state fatte con la Mano e mediante il Figlio. LA VERITÀ INSEGNATA DALLE SCRITTURE
Noi attingiamo la fede in queste verità non dai filosofi, ma dalle Scritture. 6. Dio stesso dice infatti tramite il profeta Isaia: La mia mano ha fondato la 203
tetra e la mia destra ha fissato i cieli; e ancora: Ti proteggerò sotto l'ombra della mia mano, con la quale ho costituito il cielo e ho fondato la tetra. Davide, avendo appreso ciò e sapendo che la Mano [di Dio] è la sua Sapienza, canta nei salmi: Hai fatto ogni cosa con sapienza; la tetra è piena della tua creazione. Anche Salomone, istruito da Dio, disse: Dio con la Sapienza ha fondato la ten-a. 7. E Giovanni, conoscendo che la Mano e la Sapienza erano il Logos, proclamava nel suo Vangelo: In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto. L'Apostolo poi, vedendo che la Mano, la Sapienza, il Logos stesso sono il Figlio, dice: Dio, che aveva parlato nei tempi antichi molte volte e in molti modi ai nostri padri per mezzo dei profeti, alla fine dei giorni - che sono questi - ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede universale: per mezzo suo anche ha fatto i secoli. E ancora: Vi è un solo Signore, Gesù Cristo, per mezzo del quale esiste ogni cosa, e noi per mezzo di lui. 8. Sapendo poi che il Logos, la Sapienza e il Figlio stesso sono l'Immagine del Padre, dice nella lettera ai Colossesi: Ringraziamo Dio e Padre, il quale ci ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. Egli ci ha strappato dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio del suo amore, nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è l'Immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e [AW 15) quelle sulla tetra, quelle visibili e quelle invisibili, troni, dominazioni, principati e potestà. Tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui ed egli stesso è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. 9. Infatti, come tutto è stato creato per mez204
zo del Logos, così [tutto è stato creato] in lui, in quanto immagine sua [cioè di Dio]. Chi pensa così del Signore, non urterà contro la pietra d'inciampo, ma piuttosto camminerà verso lo splendore, avendo innanzi la luce della verità. Questo è veramente il modo di pensare secondo la retta fede, dovessero pure crepare nella loro ostinata contesa, essi che non venerano Dio né arrossiscono, confutati dalle nostre dimostrazioni.
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IV PERCHÉ A NICEA FURONO INTRODOTI'E DELLE NUOVE ESPRESSIONI
DIFESA DEL CONCIUO DI NICEA
18, 1. Gli eusebiani dunque in quella circostanza1 sottoposti a interrogazione in molti modi, condannando se stessi, come ho detto in antecedenza, sottoscrissero [la formula di fede] e ritrattando tacquero e si ritirarono. Ma poiché questi tali, ringalluzziti dalle loro empietà e incapaci di fissare la verità, non fanno altro che parlar male di quel concilio, ci dicano da quali Scritture hanno appreso o da quale dei santi [padri] hanno sentito quelle frasette che hanno messo insieme: "dal nulla"; "prima che fosse generato non esisteva"; "c'era un tempo in cui non esisteva"; "mutevole"; "preesistere"; "per volontà" 2: questo è prendersi gioco del Signore e dire sciocchezze. 2. Infatti il beato Paolo dice nella lettera agli Ebrei: Per fede comprendiamo che i secoli sono stati formati con un detto di Dio, così che la realtà visibi1 2
Cioè durante il Concilio di Nicea. Cioè il Figlio sarebbe stato generato "per volontà" del Padre, senza necessità. Questa era una delle tesi care agli ariani e ad Asterio in particolare (cfr. Bardy, Astérlus, p. 259). Il documento dei vescovi orientali al Concilio di Serdica (343) nel can. 29 condanna espressamente chi afferma che ·il Padre ha generato il Figlio non per suo consiglio e volontà· (cfr. Simoneui, La crisi ariana, p. 179). Nello stesso senso, ma in maniera più diffusa, si esprime il c. 8 del testo souoscriuo da alcuni vescovi orientali nel 345, chiamato Ektbesis makrostikos (in Atanasio, I sinodi, 26, AW 2/1, p. 253; PG 26, 732 C-733 A; cfr. Simonetti, La crisi ariana, p. 191). Una estesa confutazione di questa tesi ariana si ha in Atanasio, Contro gli ariani, 3, 6o-67 (AW 1/1, pp. 372-381; PG 26,
448-468).
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le derivasse da ciò che non appare. Ma non vi è nulla di comune tra il Logos e i secoli: egli infatti preesiste ai secoli, i quali sono stati fatti per mezzo suo. 3. Nel Pastore poi - scritto di cui essi si avvalgono, anche se non è tratto dal canone3 - si legge: ·Prima di tutto credi che vi è un solo Dio, il quale ha creato e ordinato l'universo, e ha fatto tutto dal non esistente all'essere-. Ma anche questo non riguarda per nulla il Figlio: "tutto" è detto di ciò che è stato fatto per mezzo suo, ma egli è altro da esso. Non è possibile infatti mettere sullo stesso piano colui che crea e le cose da lui create, a meno che uno sia così pazzo da dire che l'architetto è identico alle case da lui costruite. 4. Perché dunque essi adducono in modo teologicamente scorretto espressioni non contenute nelle Scritture, mentre poi accusano coloro che le usano correttamente? Pensare in modo teologicamente scorretto è assolutamente proibito, anche se poi uno cerca di mascherare quel pensiero con parole varie e seducenti. Invece il pensiero teologicamente corretto è riconosciuto da tutti come cosa santa, anche se uno lo esprime con parole non abituali, purché chi parla pensi in modo teologicamente corretto e, attraverso quelle parole, intenda significare quello che ha correttamente pensato. 5. Il nostro discorso ha dunque dimostrato, sia ' Notiamo che Atanasio usa qui il termine "canone" come già usuale in riferimento alle Sacre Scritture. Sulla non canonicità del Pastore di Erma, Atanasio si esprime anche nella Lettera festa/e 39 (PG 26, 1437 C), annoverandolo - assieme a Sapienza, Siracide, Ester, Giuditta, Tobia e Didacbè- tra le letture consigliate per i catecumeni. Il passo del Pastore qui citato si trova, nelle opere atanasiane, anche ne L'incarnazione, 3, 1, assieme a Eb 11,3 (SCh 199, p. 268), nella Lettera festa/e 11,4 (PG 26, 14o6 A) e nella Lettera ai vescovi africani, 5 (PG 26, 1037 B). Gli ariani lo utilizzavano per sostenere che •tutto• (tà panta) - compreso il Figlio - è stato fatto dal nulla. Cfr. anche Alessandro di Alessandria, Lettera ad Alessandro di Tessalonica, 11 (AW 3/1, p. 21; Bellini, Alessandro e Aria, p. 72).
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allora sia ora, che le vili frasette usate da quegli avversari di Cristo sono piene di ogni empietà. Ben diverse sono invece le cose scritte e definite dal concilio contro di loro: se uno le esamina attentamente, troverà che esse contengono la pura intenzione della verità, soprattutto dopo aver ascoltato, con animo desideroso di apprendere, i giusti motivi che hanno portato all'uso di quelle espressioni. Eccoli. PERCHÉ IL CONCILIO HA DEFINITO IL F'IGUO •DAll.A SOSTANZA DEL PADRE•
19,1. Il concilio voleva da una parte eliminare le espressioni errate degli ariani, e dall'altra scrivere le parole attestate nelle Scritture, cioè che ·il Figlio non proviene dal nulla, ma da Dio, e inoltre è Logos e Sapienza, non creatura né opera, ma frutto della generazione propria [AW 161 del Padre•. Gli eusebiani invece, spinti dalla loro inveterata cattiva dottrina, sostenevano che l'espressione "da Dio" fosse comune a noi e al Logos di Dio, e che in questo Egli non differisse in nulla da noi, adducendo questi testi scritturistici: Vi è un solo Dio, dal quale tutto proviene e: Le cose vecchie sono passate, ecco ogni cosa è diventata nuova, ma tutto viene da Dio. 2. Ma i padri4, vedendo la malizia di quelli e il modo teologicamente scorretto di argomentare, furono allorà costretti a dire più chiaramente che cosa significasse "da Dio", e scrissero che il Figlio proveniva "dalla sostanza" (ek tés ousias) di Dio, affinché non • Sieben, ZtJr Entwicklung, pp. 356-357, osseiva che qui per la prima volta i vescovi riuniti a Nicea sono chiamati "padri" o "beati padri" (DD 27,5), e commenta: ·La scelta di questo termine dovette essere sintomatico per la prima fissazione scritta della sua [di Atanasio) idea di concilio: poiché i sinodali di Nicea sono in senso eminente tradenti e organi della divina 'Paradosis', cioè della 'didaskalla' trasmessa "dai padri al padri", sono anch'essi designati con questo titolo, che certamente è il più alto che Atanasio poteva dare-.
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si pensasse che l'espressione "da Dio" fosse comune e identica per il Figlio e per le cose create, ma si esprimesse la fede che solo il Logos è "dal Padre", mentre tutte le altre cose sono create. 3. Infatti, sebbene si possa dire che tutto è da Dio, diverso è il modo in cui lo si dice del Figlio. Le cose create non esistono per caso né si generano da se stesse o fortuitamente, come dicono quelli che ne sostengono l'origine dalla combinazione degli atomi e delle parti simili; e neppure l'universo è stato formato da un diverso creatore, come dicono alcuni degli eretici o, come sostengono altri, da certi angeli. Invece Dio, che esiste di per se stesso, mediante il Logos ha fatto sì che tutte le cose, che prima non esistevano, giungessero all'esistenza, e per questo si dice che [tutto è] "da Dio". 4. Il Logos invece, poiché non è una creatura, è detto ed è lui solo "dal Padre", e questo concetto si esprime con chiarezza dicendo che il Figlio è ·dalla sostanza (ek tes ousias) del Padre•: in effetti, di nessuna delle cose create si può dire questo. Del resto, quando Paolo dice che tutte le cose sono da Dio, subito aggiunge: E vi è un solo Signore, Gesù Cristo, per indicare a tutti che il Figlio è altro da tutte le cose fatte da Dio: le cose fatte da Dio sono state fatte per mezzo del Figlio. Egli dunque ha detto queste cose a motivo della creazione fatta da Dio, non perché tutte le cose sono dal Padre come lo è il Figlio. 5. Né tutte le cose sono come il Figlio, né il Logos è una delle cose: Egli piuttosto è Signore e Creatore di tutto. Per questo il santo concilio disse esplicitamente che Egli proviene ·dalla sostanza (ek tes ousias) del Padre•. In questo modo si affermava la fede che il Logos è altro dalla natura delle cose create, essendo Egli solo veramente ·da Dio.. , e non si lasciava pretesto di inganno a chi non pensava correttamente la fede. Questo dunque è il motivo per cui si è scritto "dalla sostanza" (ek tes ousias). 209
PERCHÉ IL CONCILIO HA DEFINITO IL FIGUO •CONSOSTANZIALE• AL PADRE
20,1. I vescovi dissero inoltre che bisognava scrivere che «il Logos è la Potenza vera del Padre e sua Immagine, e che egli è perfettamente simile in tutto (h6moion katà panta) al Padre, immutabile, da sempre esistente e da sempre inseparabilmente nel Padre•. Infatti mai ci fu un [tempo in cui] non c'era, bensì il Logos da sempre esisteva eternamente presso il Padre, come splendore di luce. Gli eusebiani si trattenevano, non osando contraddire per la vergogna di essere stati precedentemente confutati. Tuttavia furono sorpresi nuovamente a mormorare tra di loro e a fare segni con gli occhi. [Dicevano] che •"simile", "sempre", il nome "potenza" e l'espressione "in lui" erano anch'essi comuni al Figlio e a noi, per cui non avevano nessuna difficoltà ad accordarsi con noi su tali termini. 2. Infatti "simile" è attribuito dalla Scrittura anche a noi: L'uomo è immagine di Dio e sua gloria; come pure "sempre": Sempre noi siamo i viventi; e "in lui": In lui viviamo e ci muoviamo ed esistiamo, e anche "immutabile", come sta scritto: Niente ci separerà dall'amore di Cristo. Circa il nome "potenza", anche la cavalletta e il bruco sono chiamati "potenza" e "potenza [AW 17] grande", e [tale termine] viene spesso riferito al popolo, come ad esempio: Tutta la potenza del Signore uscì dalla terra d'Egitto. Inoltre, ci sono altre potenze celesti: Il Signore delle potenze è con noi, nostro soccorritore è il Dio di Giacobbe-. Tali cose ha scritto anche Asterio, detto il Sofista, avendole apprese da loro; da lui poi le apprese Ario, come è stato detto5.
Pro
' Il testo qui è corrotto (tutti i mss hanno autou) e viene emendato da Opitz in par'autou (p. 17), in coerenza con DO 8,1. Il quadro che ne risulta lascia tuttavia un po' perplessi: gli eusebiani del concilio sarebbero i maestri di Asterio; questi sarebbe il maestro di Ario, che
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3. Ma i vescovi, scorgendo anche qui l'ipocrisia di quelli e [sapendo che], come sta scritto, nei cuori degli empi vi è l'inganno, [di coloro cioè] che ordiscono il male, furono costretti a sintetizzare il pen-
siero delle Scritture e, come dicevo prima, a esprimerlo più chiaramente e a scrivere che il Figlio è •consostanziale (homoot1sios) al Padre•. In questo modo affermavano che il Figlio non solo è "simile" (b6moios), ma identico (taut6n) per quella somiglianza [che deriva dal suo essere] dal Padre. In altri termini, la somiglianza e immutabilità del Figlio è diversa da quell'imitazione (mimesis) che è detta essere in noi e che noi acquisiamo per virtù, mediante l'osservanza dei comandamenti. 4. Le realtà corporalmente simili tra loro, possono essere separate e venire all'esistenza a distanza l'una dall'altra, come sono i figli degli uomini rispetto ai genitori, come sta scritto di Adamo e del figlio Set, nato da lui, e che era a lui simile secondo la sua immagine (idéa). 5. Invece la generazione del Figlio dal Padre è diversa dalla natura degli uomini, di modo che [il Figliol non, solo è simile, ma è anche inseparabile dalla sostanza del Padre. Egli e il Padre sono una cosa sola, come egli stesso ha detto; e il Logos è da sempre nel Padre e il Padre nel Logos, come è lo splendore rispetto alla luce e come la parola stessa lo indica. Perciò il concilio, avendo risulta cosl una figura piuttosto secondaria, almeno sul piano dottrinale. In Contro gli ariani, 1,5 leggiamo un estratto, probabilmente di Asterio, dove si dice che il termine "potenza" non è dato solo a Cristo, ma a molte altre realtà: ·Vi sono molte potenze. Ora una sola è quella propria di Dio, per natura ed eterna; Cristo invece non è la vera potenza di Dio, ma anch'egli è una di quelle che hanno ricevuto tale nome; così ad esempio la cavalletta e il bruco sono chiamati non solo "potenza", ma "potenza grande" [Gioele 2,2]. Ce ne sono poi molte altre simili al Figlio, a proposito delle quali Davide dice nei salmi: Signore delle potenze [Sai 23, 10; 45,8]· (PG 26, 21 BC). Altri estratti di Asterio sullo stesso argomento sono riportati in Contro gli ariani, 1,32 (PG 26, 77 B); 2, 37 (PG 26, 225 A - 228 A); I sinodi, 18 (PG 26, 716 A). Cfr. Vinzent, Asterlus, fr. 46, p. 112.
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compreso questa verità, giustamente ha scritto •consostanziale· (homoousios), per rovesciare la perversità degli eretici e mostrare che il Logos è altro dalle realtà create. Infatti, dopo aver scritto questo, aggiunsero subito: ·Coloro che dicono che il Figlio di Dio proviene dal nulla, ovvero è creato, ovvero è mutabile, ovvero è fatto, ovvero è da un'altra sostanza (ousia), costoro anatematizza la Chiesa santa e cattolica•6• 6. Dicendo questo, essi hanno mostrato chiaramente che le espressioni "dalla sostanza" (ek tes ousias) e "consostanziale" (homoo11sios) sono estremamente efficaci contro le frasette degli eretici, [che affermano il Figlio essere] "creato'', "fatto'', "divenuto'', "mutabile" e "non esistente prima di essere generato". Chi pensa così si pone contro il concilio; chi invece non pensa come Ario, necessariamente pensa e ragiona come il concilio, interpretando giustamente [il rapporto del Figlio con il Padre], come è lo splendore rispetto alla luce e traendo da qui la rappresentazione della verità. NON È SOLO QUESTIONE DI PAROLE
21,1. Se dunque costoro adducono come pretesto che le parole [usate dal concilio] sono insolite, accolgano [almeno] il pensiero che il concilio ha avuto nello scriverle, e condannino ciò che il concilio ha condannato: solo allora potranno - se riescono - biasimare le espressioni usate. Ma so bene che se accolgono il pensiero del concilio, accoglieranno pienamente anche le parole che esprimono quel pensiero. Se poi vogliono contestare anche questo, 6
Atanasio è piuttosto impreciso nel citare il testo dell'anatematismo. In particolare, tralascia hyp6stasis, che invece è nel testo dopo ousia. Sulla riluttanza di Atanasio a usare questo termine, cfr. Simonetti, La crisi ariana, p. 276.
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è chiaro per tutti che parlano a vuoto e si inventa-
no solo pretesti [AW 18) a sostegno della loro eresia. 2. Questo è dunque il motivo che [ha portato il concilio a usare] tali espressioni. Se poi di nuovo quelli si mettono a mormorare, dicendo che esse non si trovano nelle Scritture, vanno subito respinti come gente che parla al vento e non ha la mente sana. È con se stessi però che dovrebbero prendersela, perché non capendo il motivo di tali parole non scritturistiche, sono essi per primi che hanno cominciato a porsi contro Dio. Comunque, se uno è amante del sapere, riconosca che anche se quelle parole non si trovano tali e quali nelle Scritture, tuttavia, come è stato detto prima, esse esprimono il pensiero delle Scritture e questo intendono significare con la loro proclamazione, per coloro che ascoltano senza pregiudizio, ma in modo teologicamente corretto. IL VERO PENSIERO DELLE SACRE ScRITIURE
3. Tu puoi esaminare ciò, ed essi ascoltare bene nella loro ignoranza. È stato dimostrato precedentemente - e questa è la vera fede - che il Logos è dal Padre, ed egli solo è sua propria e naturale progenie (génnema). Quale altra origine si potrebbe infatti pensare per il Figlio, che è la Sapienza e il Logos nel quale tutto è stato fatto, se non Dio stesso? 4. Eppure è proprio quello che abbiamo appreso dalle Scritture. Dice infatti il Padre per bocca di Davide: Il mio cuore ha emesso un logos buono; e: Dal ventre prima dell'aurora io ti ho generato. Il Figlio poi, indicando se stesso, diceva ai giudei: Se Dio fosse vostro padre, voi mi amereste. Io infatti sono uscito dal Padre. E ancora: Non perché qualcuno ha visto il Padre, se non chi è da Dio: costui ha visto il Padre. Quando poi dice: Io e il Padre siamo uno, e: Io sono nel Padre e il Padre è in me, 213
è come se dicesse: ·lo sono dal Padre e inseparabile da lui». E Giovanni quando dice: Il Figlio unisenito, che è nel seno del Padre, egli stesso ce l'ha rivelato, ha detto queste cose perché le ha apprese dal Salvatore. Che altro significa infatti ·nel seno• se non la vera e propria generazione del Figlio dal Padre? DIO SI IDENTIFICA CON LA SUA INCOMPRENSIBILE ESSENZA
22, 1. Se dunque uno ritiene che Dio sia composto, come l'accidente nella sostanza (ousia), o che abbia e si celi dietro un rivestimento esterno, o che ci sia qualcosa attorno a lui che faccia da complemento alla sua sostanza (ousia), per cui quando diciamo "Dio" o nominiamo il "Padre" non indichiamo la sua invisibile e incomprensibile sostanza (ousia), ma qualcosa di ciò che gli sta attorno, quelli hanno ragione di criticare il concilio per aver scritto che il Figlio è "dalla sostanza" (ek tes ousias) di Dio. Riflettano però che in questo modo cadono in una duplice bestemmia. 2. Infatti introducono un Dio corporeo e affermano falsamente che il Signore è Figlio non del Padre stesso, ma di ciò che è attorno a lui. Ma se Dio è qualcosa di semplice, come lo è in realtà, allora è chiaro che dicendo "Dio" e nominando il "Padre" non nominiamo qualcosa che sta attorno a lui, ma indichiamo la stessa sua sostanza (ousia). 3. Sebbene infatti non sia possibile comprendere ciò che è la sostanza (ousia) di Dio, ma solo pensare che Dio esiste, tuttavia sia la Scrittura sia noi stessi, quando diciamo "Dio", "Padre", "Signore", non vogliamo indicare nessun altro che Lui. Quando dunque egli dice: Io sono Colui che è, oppure: Io sono il Signore Dio, e dovunque la Scrittura nomina "Dio", noi leggendo comprendiamo che è indicato nient'altro che la stessa sua incomprensibi214
le sostanza (ousia) e che egli è colui che [quelle parole] dicono. 4. Nessuno dunque si stupisca sentendo dire che il Figlio di Dio è "dalla sostanza" (ek tés ousias) di Dio, ma piuttosto approvi [AW 19) i padri [conciliari], che ne hanno chiarito il senso, scrivendo con tutta evidenza e come in parallelo, "da Dio" e "dalla sostanza". Infatti ritennero che sia la stessa cosa dire che il Logos è "da Dio" e dire che è "dalla sostanza" di Dio, poiché il termine "Dio", come ho detto prima, non indica altro che la sostanza di Colui che è. IL
LOGOS
È VERO FIGLIO DEL PADRE PER NA1URA
5. Se dunque il Logos non è da Dio, nel senso di vero Figlio del Padre per natura, ma anch'egli è detto da Dio come tutte le cose create, cioè mediante un atto di creazione, allora non è ·dalla sostanza del Padre•, né il Figlio stesso è Figlio secondo la sostanza, ma per virtù, come noi che siamo chiamati figli per grazia. Se invece - come è in realtà - egli solo è da Dio come Figlio suo proprio, giustamente si deve dire che il Figlio è ·dalla sostanza· di Dio. 23,1. In effetti, l'esempio della luce e dello splendore ha proprio questo significato. I santi [autori] non dissero che il rapporto del Logos con Dio era come il fuoco acceso dal calore del sole che poi di nuovo si spegne, come se fosse un'azione esterna e un'opera del Creatore, ma tutti proclamarono che egli è splendore, per indicare che egli è dalla sostanza, inseparabile e uno con il Padre. 2. In questo modo si salvaguarda veramente il suo essere immutabile e inalterabile. Come infatti potrebbe essere tale, se non fosse progenie propria della sostanza del Padre? Anche in questo deve essere salvaguardata la sua identità (taut6téta) con il Padre. Così, se questo discorso appare teologicamente cor215
retto, ne segue che quei nemici di Cristo non dovrebbero meravigliarsi del termine "consostanziale" (homoousios), che possiede un senso perfettamente dimostrabile. 3. Se infatti diciamo che il Logos è "dalla sostanza" di Dio - e speriamo che anch'essi riconoscano quest'espressione-, che altro indichiamo se non la vera ed eterna sostanza, dalla quale è stato generato? Non [indichiamo] qualcosa di specie diversa, per non fondere la sostanza del Padre con qualcosa di estraneo e dissimile; né [lo indichiamo] simile semplicemente dall'esterno, per non mostrarlo in parte o in tutto di sostanza diversa (heteroousios), come il bronzo splendente, l'oro, l'argento e lo stagno. Questi elementi infatti sono tra loro estranei, di diversa origine e distinti per la natura e le proprietà. Né il bronzo ha la stessa proprietà dell'oro, né il piccione viene dalla colomba, ma, anche se sembrano simili, sono tra loro di sostanza diversa. 4. Se fosse così anche per il Figlio, allora egli sarebbe creatura come noi e non consostanziale (homootlsios). Se invece il Figlio è Logos, Sapienza, Immagine del Padre e suo splendore, giustamente sarà "consostanziale" (homootlsios). Il concilio dunque ha pensato rettamente e ha scritto bene, a meno che non si mostri che [il Logos] non è da Dio, ma è come uno strumento di altra natura e di altra sostanza. LE IMMAGINI SENSIBIU VANNO COMPRESE IN MODO INfELLIGENTE
24,1. In tali questioni bisogna allontanarsi da ogni ragionamento corporeo e, superata ogni immaginazione dei sensi, con il puro pensiero e con la sola mente pensare il Figlio come vera progenie del Padre, il Logos come proprio della natura di Dio, e lo splendore [AW 20] come perfettamente simile alla luce. Come infatti i termini "progenie" e "Figlio" 216
vanno presi non in modo umano, ma come conviene a Dio, allo stesso modo sentendo dire "consostanziale" (bomoousios) non dobbiamo cadere nei sensi umani e pensare che ci siano parti e divisioni nella divinità, ma, come quando pensiamo a realtà incorporee, non dividiamo l'unità della natura e l'unicità della luce. Questo è proprio il caso del Figlio con il Padre e questo mostra che Dio è veramente Padre del Logos. 2. Qui è necessario riprendere l'esempio dello splendore e della luce. Chi oserà dire che lo splendore è estraneo e dissimile dal sole? O chi piuttosto, vedendo come lo splendore si rapporta al sole e siano la stessa luce, non dirà francamente: «In realtà, la luce e lo splendore sono una cosa sola: uno si mostra nell'altro e lo splendore si trova nel sole, di modo che vedendo questo si vede anche quello·? Ora questa unità e identità di natura, come può essere chiamata dai credenti e da coloro che vedono rettamente, se non progenitura "consostanziale"? 3. E questa progenitura di Dio, come potrebbe essere pensata propriamente e convenientemente se non come Logos, Sapienza e Potenza? Essa non può essere detta estranea al Padre senza mancare di rispetto, né è lecito anche solo pensare che essa non sia eternamente presso il Padre. Questi infatti ha creato ogni cosa tramite questa progenitura e mostra il suo amore per l'umanità estendendo a tutti la sua provvidenza per mezzo di lei. L'UNITÀ SOSTANZIALE DEL PADRE E DEL FIGUO
4. Così dunque, come è stato detto, egli e il Padre sono uno; se non che di nuovo quei cattivi ragionatori potrebbero dire che altra è la sostanza (ousia) del Logos e altra è la luce che è in lui dal Padre, per cui la luce che è nel Figlio sarebbe uno con il Padre, ma il [Figlio] stesso sarebbe estraneo secondo la 217
sostanza, come una creatura. Ma questo è semplicemente il pensiero di Caifa e di [Paolo] di Samosata, pensiero che la Chiesa ha respinto e che essi ipocritamente mascherano, perché non siano anch'essi dichiarati eretici, avendo deviato dalla verità. 5. Insomma, se [il Logos] partecipa della luce che viene dal Padre, perché non è piuttosto lui stesso ad essere partecipato, per evitare che si introduca una realtà intermedia tra lui e il Padre? Se non è così, non si può più dimostrare che tutto è stato fatto per mezzo del Figlio, bensì per mezzo di quella realtà di cui anch'egli parteciperebbe. Se invece questi è il Logos, la Sapienza del Padre, in cui il Padre si rivela, è conosciuto e crea, e senza del quale il Padre non fa nulla, chiaramente egli è la realtà che proviene dal Padre. In effetti, tutte le· cose divenute, partecipando dello Spirito Santo, partecipano di lui. Essendo così, non sarà dal nulla, né assolutamente creatura, ma piuttosto progenitura propria del Padre, come lo splendore dalla luce.
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V
LA TESTIMONIANZA DELLA TRADIZIONE
IL PENSIERO DI ThOGNOSTO
25,1. Questo dunque è il pensiero di coloro che si riunirono a Nicea e queste sono le espressioni che hanno scritte. Che poi non siano stati loro a inventarsele - poiché anche questo obiettano - ma che le abbiano ricevute da quelli che erano venuti prima di loro, sarà ciò che discuteremo ora, per non lasciare ai [nostri oppositori] neppure questo pretesto. 2. Imparate perciò, o ariani nemici di Cristo, che Teognosto, uomo dotto, non ha evitato di usare l'espressione "dalla sostanza" 1 • Infatti nel secondo libro delle Ipotiposi, scrivendo sul Figlio così [AW 21] disse: ·La sostanza (ousia) del Figlio non è qualcosa apparsa dall'esterno, né fatta uscire dal nulla, ma 1
Di questo teologo alessandrino, attivo probabilmente tra il 247 e il 280, conosciamo solo che ha scritto un'opera in sette libri intitolata Ipotiposi, di cui ci restano pochi frammenti, due dei quali sono citati da Atanasio, uno qui e l'altro nelle Lettere a Serapione, 4,11 (PG 26, 652 AC; trad. it. E. Cattaneo, crP 55, pp. 150-151). Da quello che si può ricostruire, ·la teologia di Teognosto non presenta elementi originali. Essa è molto vicina a quella di Origene e di san Dionigi, cioè nella linea tradizionale della scuola alessandrina. Se Gregorio di Nissa e soprattutto Fozio hanno di che criticarla, Atanasio non si mostra così rigoroso; cita al contrario il vecchio maestro come un'autorità degna di venerazione- (G. Bardy, in Dict. de Tbéol. Catb. 15, col. 337). Il brano qui citato insegna che l'ousia del Figlio non è tratta dal nulla, ma emana dalla ousia del Padre, senza che questa subisca divisione o cambiamento. Altrove Teognosto dice che l'ousfa del Figlio è ·simile in tutto• al Padre (cfr. Bardy, cit., col. 336). Cfr. M. Simonetti, in DPAC, coli. 3407-3408.
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è nata dalla sostanza del Padre, come lo splendore dalla luce, come il vapore dall'acqua. Infatti né lo splendore è il sole stesso, né il vapore è l'acqua
stessa, ma neppure sono qualcosa di estraneo. Né [la sostanza del Figlio] è il Padre stesso, né gli è estranea, ma è emanazione della sostanza del Padre, senza che la sostanza del Padre subisca alcuna divisione. Come infatti il sole rimanendo se stesso non è diminuito dai raggi che si effondono da lui, così neppure la sostanza del Padre ha subito alcun cambiamento avendo il Figlio come propria immagine•. Questo è quello che ha scritto Teognosto, esprimendo la propria opinione, mentre prima aveva esposto [altre opinioni] a modo di esercizio. IL
PENSIERO DI DIONIGI DI ALESSANDRIA
3. Dionigi, vescovo di Alessandria, scrivendo contro Sabellio e spiegando con molti argomenti il disegno dell'incarnazione del Salvatore, in base ad essa confutava i Sabelliani, [dimostrando] che non il Padre si fece carne, ma il suo Logos, come disse Giovanni. Venne però sospettato di dire che il Figlio è creato e divenuto, e non consostanziale (homoousios) al Padre. Scrive allora al suo omonimo, Dionigi vescovo di Roma, per difendersi da quella che egli riteneva una calunnia nei suoi riguardi. [Lo] rassicura di non aver mai detto che il Figlio è creato, ma di sostenere che è consostanziale (homootlsios). 4. Queste sono le sue parole: ·Scrissi pure un'altra lettera, dove dimostravo che era falsa l'accusa addotta contro di me, come se io affermassi che Cristo non è consostanziale (homootlsios) a Dio. Infatti, anche se dico che questo termine non si trova mai nelle Sacre Scritture, tuttavia le argomentazioni da me addotte - e che essi hanno passato sotto silenzio non discordano da questo concetto. Esposi poi il paragone della generazione umana, che avviene 220
chiaramente all'interno di uno stesso genere (bomogené), dicendo che i genitori sono diversi dai figli solo per il fatto che essi non sono i figli, altrimenti non ci potrebbero essere né genitori né figli. 5. Purtroppo nelle circostanze in cui mi trovo non posso esibire la lettera di cui ho parlato; altrimenti ti avrei mandato il passo in questione o, meglio ancora, una copia dell'intera lettera. Ma appena potrò, non mancherò di farlo. Comunque mi ricordo bene di aver portato molti esempi di realtà che appartengono allo stesso genere (syggenfm). Dissi che la pianta uscita dal seme o dalla radice è diversa da ciò da cui è germinata, eppure è dello stesso genere. Dissi anche che il fiume che scorre dalla sorgente acquista un altro nome: infatti la sorgente non è detta fiume, né il fiume sorgente, e tuttavia esistono entrambi e il fiume è l'acqua che esce dalla sorgente•. IL PENSIERO DI DIONIGI DI ROMA
26,1. Il grande concilio [di Nicea] ha scritto che il Logos di Dio non è prodotto né creato, ma generato senza separazione proprio dalla sostanza del Padre. Ora anche il vescovo di Roma, Dionigi 2, scrivendo contro i sabelliani, si sdegna contro [AW 22) coloro che osano sostenere il contrario e scrive: 2. •Proseguendo, giustamente dovrei parlare anche contro coloro che dividono, scindono e annullano la venerabile predicazione della Chiesa di Dio concernente l'unicità divina (monarchia), introducendo tre potenze e ipostasi separate, e [di conseguenza] tre divinità. Sono venuto a sapere infatti che alcuni tra i vostri catechisti e insegnanti della parola divina si sono fatti portavoce di tale opinione, che è per così 2
Fu vescovo dal 259/60 al 268. Cfr. M. Simonetti, in Enciclopedia det Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, voi. I,
Roma 2000, pp. 292-296.
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dire all'opposto di quella di Sabellio. 3. Costui W'atti bestemmia dicendo che il Figlio è il Padre stesso e viceversa; quelli invece in un certo senso predicano tre dèi, dato che dividono la santa monade (monds) in tre ipostasi estranee l'una all'altra e completamente separate. Infatti è necessario che il Logos divino sia unito al Dio dell'universo, e lo Spirito Santo deve stare e dimorare in Dio. È poi necessario assolutamente che la divina triade (trias) si ricapitoli e si raccolga in uno (eis héna), come in un vertice, dico il Dio dell'universo, l'onnipotente. L'insegnamento vano di Marcione, che porta alla separazione e alla divisione dell'unicità divina (monarchfa) in tre principi, è una dottrina diabolica, che non appartiene ai veri discepoli di Cristo, che si compiacciono negli insegnamenti del Salvatore. Costoro sanno bene che la triade è predicata dalla Sacre Scritture, però sia l'Antico sia il Nuovo Testamento non parlano mai di tre dèi. 4. Non meno meritevoli di biasimo sono coloro che ritengono che il Figlio sia stato fatto, e pensano che il Signore sia venuto all'esistenza come una delle cose veramente fatte. Le Sacre Scritture infatti attestano che egli è stato generato, in modo a lui adatto e conveniente, non che è stato plasmato o fatto. Affermare dunque che il Signore è stato in qualche modo fabbricato, non è una bestemmia qualunque, ma gravissima. Se infatti fu fatto Figlio, ci fu un tempo in cui non esisteva. Invece Cristo è da sempre, poiché è nel Padre, come egli stesso dice, essendo Logos, Sapienza e Potenza [di Dio]. Questo dicono di lui le Sacre Scritture, come ben sapete. Ora queste potenze appartengono all'essere di Dio. Se dunque il Figlio è stato fatto, ci fu un tempo in cui esse non c'erano, e dunque ci fu un momento in cui Dio era senza di esse, cosa del tutto assurda. ·5. Ma perché mi dilungo con voi su questi argomenti, con gente cioè che possiede lo Spirito e conosce bene le assurdità che escono dal ritenere il Figlio 222
un'opera? Ad esse non fanno attenzione, mi pare, i fautori di questa opinione, i quali perciò sono completamente fuori della verità e comprendono il passo Il Signore mi creò principio delle sue vie, diversamente da come vuole la divina e profetica Scrittura. [AW 23) 6. Voi sapete infatti che il significato di creò non è unico. Qui va inteso nel senso di "porre a capo" delle opere da lui fatte, cioè fatte per mezzo dello stesso Figlio. Creò non ha qui lo stesso significato di fece. "Creare" infatti non è la stessa cosa che "fare" 3• Nel grande cantico del Deuteronomio, Mosè dice: Non è questo il padre tuo che ti possedette, ti fece e ti creò? Allora uno potrebbe dire loro: "O uomini temerari, può dirsi fatto colui che è generato prima di ogni creatura, colui che fu generato dal ventre prima dell'aurora, colui che come Sapienza dice: Prima di tutti i colli mi ha generato?". E in molti altri passi delle Sacre Scritture si può trovare che il Figlio è detto "generato", non "fatto". Dal che si possono chiaramente confutare coloro che hanno una falsa idea della generazione del Figlio, e osano dire che tale divina e ineffabile generazione è una produzione. 7. Pertanto non bisogna dividere in tre divinità l'ammirabile e divina monade (monds), né abbassare al rango di produzione la dignità e la sovreminente grandezza del Signore. Bisogna invece credere in Dio Padre onnipotente e in Cristo Gesù suo Figlio e nello Spirito Santo. Inoltre [bisogna credere] che il Logos è unito al Dio dell'universo: Io e il Padre, dice infatti, siamo uno; e: Io sono nel Padre e il Padre è in me. In questo modo si salvaguarda sia la santa triade, sia la santa predicazione dell'unicità divina (monarchia)•. 3
Qui Dionigi cerca di dare al verbo ktfzetn un significato compatibile con la fede nella generazione eterna del Figlio. Ciò che egli scarta risolutamente è l'identificazione di ktfzetn con polefn (cfr. Simonetti, Studi, pp. 30-32).
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IL PENSIERO DI 0RIGENE
27,1. Che il Logos sussista eternamente con il Padre e che non sia [dal un'altra sostanza o ipostasi, ma [progenie] propria di quella del Padre, come dissero quelli nel concilio, lo potrete anche sentire dall'infaticabile Origene. Le cose che egli ha scritto per la ricerca e l'esercitazione, non vanno prese come pensiero suo proprio, bensì di quelli che, nel corso della ricerca, entrano in lizza nella discussione. Quelle cose invece che egli esprime in maniera definitoria, queste rappresentano il pensiero proprio dell'infaticabile [maestro]. 2. Dopo dunque le cose che egli ha esposto disputando con gli eretici, subito introduce il suo proprio pensiero dicendo così: ·Se Egli è immagine del Dio invisibile, è un'immagine invisibile. Io anzi oserei aggiungere che, essendo somiglianza del Padre, non c'è un tempo in cui non esisteva. Quando infatti Dio, che secondo Giovanni è detto "luce" - Dio infatti è luce - è stato senza lo splendore della propria gloria, così che si osi affermare che il Figlio, che prima non esisteva, abbia avuto un inizio (archèn) del suo esistere? Quando non esisteva il Logos, che conosce il Padre, ed è l'impronta, l'immagine della sua sostanza (hyp6stasis) indicibile, superiore a ogni nome e ineffabile? Ci rifletta colui che osa dire: "C'era un tempo in cui il Figlio non esisteva''. Questo significa dire che la Sapienza non esisteva, il Logos non esisteva, la Vita non esisteva•4• 3. Di nuovo [AW 24] in un altro luogo dice: •Non è lecito né senza pericolo, a motivo della debolezza del . nostro modo di vedere le cose, privare Dio del Logos unigenito che è sempre con lui ed è la Sapienza • Atanasio non dice da dove ha tratto il passo di Origene, ma esso corrisponde a I principi, 4,4, 1, conservato solo nella traduzione latina di Rufino (cfr. GCS, Origenes 5, pp. 349-350; SCh 269, pp. 244-246).
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nella quale Egli si dilettava; altrimenti bisognerebbe pensare che non sempre si è dilettato•. LA
FEDE DELl.A CHIESA CATIOLICA
4. Ecco che noi, passando da un padre all'altro, abbiamo dimostrato [la fondatezza] di questa concezione. Ma voi, o nuovi giudei e discepoli di Caifa, quali padri adducete a sostegno delle vostre parole? Certamente nessuno di quelli che sono prudenti e saggi. Tutti infatti vi respingono, tranne il diavolo. Solo lui infatti può essere stato il padre della vostra apostasia, egli che fin dal principio ha seminato in voi questa cattiva dottrina e ora vi ha persuasi a oltraggiare il concilio ecumenico, perché ha scritto non le vostre [parole] ma queste, che ci hanno trasmesso coloro che furono testimoni oculari fin dal principio e divennero servitori del Logos. 5. Infatti quella fede che il concilio professò per iscritto, questa è la fede della Chiesa cattolica. Per difenderla, i beati padri così scrissero e condannarono l'eresia ariana. Soprattutto per questo [gli ariani] cercano di calunniare il concilio. Infatti non sono le espressioni [usate dal concilio] che li angustiano, ma il fatto che con tali espressioni sono stati dichiarati eretici e più sfrontati di ogni altra eresia.
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VI
SUL TERMINE AGENÉTOS1
ORIGINE FILOSOFICA DEL TERMINE
28,1. In realtà, poiché le espressioncelle da loro usate furono allora dimostrate inconsistenti e facilmente confutate come teologicamente errate, essi ricorsero al termine "non-divenuto" (agéneton), mutuato dai [filosofi] greci, e con il pretesto di questo nome hanno di nuovo affermato che il Logos di Dio 1
Agénétos è un aggettivo verbale da gf(g)nomai (=divengo), e significa •non-soggetto-al-divenire", quindi "non-fatto", "non-divenuto". Nella filosofia greca è applicato al primo principio o ai primi principi, che sono -non-divenuti•. Ciò che diviene (genet6s), deriva necessariamente da un principio "non-divenuto". Presso gli autori cristiani, questi termini sono associati con l'idea di creazione, per cui agénétos viene a significare "increato" e gerret6s "creato". Questi termini sono spesso confusi con le parole agénnetos e gennet6s, derivate dal verbo gennaé! (-genero), e che significano rispettivamente "ingenerato" e "generato". Da qui la confusione che si trova nei manoscritti e anche in alcune edizioni a stampa, tra i termini con una n e quelli con due nn. La confusione divenne eclatante quando la teologia venne a occuparsi del problema trinitario, soprattutto durante la crisi ariana. Che il Padre fosse agénnetos (ingenerato) nel senso anche di agénétos (increato, non-divenuto), era ammesso da tutti. E che le creature fossero geneta, cioè "divenute", •create" (infatti prima di venire all'esistenza non c'erano), anche questo era un'idea pacifica. Che dire però del Figlio-Logos di Dio? In quanto Figlio era "generato" (gennet6s); ma, in quanto derivato dal Padre, poteva dirsi anche genet6s, cioè "divenuto"? Questo lo sostenevano gli ariani, poiché per loro non vi poteva essere che un solo agén(n)etos, cioè un solo Dio senza principio e senza divenire. Ma ciò equivaleva a porre il Figlio come uno dei geneta, cioè delle creature. Da qui gli sforzi per distinguere il Figlio dagli altri geneta, in quanto egli sarebbe il solo a essere stato creato direttamente da Dio solo, mentre le altre cose sono state create mediante il Logos. Questa parte attinge abbondantemente da Contro gli ariani, 1,30-34 (A.W 1/1, pp. 139-144; PG 26,73-84).
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- per mezzo del quale sono state fatte le stesse realtà divenute - fa parte anch'egli delle cose divenute e create: talmente essi sono svergognati nell'errore e quasi bramosi di bestemmiare il Signore! 2. Se dunque sono così svergognati da ignorare [il significato] di quel termine, avrebbero dovuto apprenderlo da coloro che glielo hanno dato. Costoro infatti affermano che la Mente (Nofls) procede dal Bene (.Agath6n) e l'Anima (Psyche) dalla Mente; e pur conoscendo il principio da cui esse procedono, tuttavia non esitano a chiamarle "non-divenute" (agéneta), sapendo che dicendo ciò non diminuiscono il Primo [Essere] dal quale anch'esse provengono 2 • Ora [gli eusebiani] avrebbero dovuto parlare anch'essi così, oppure non parlare proprio di cose che non sanno. Se poi ritengono di conoscerle, è necessario interrogarli, [AW 25) soprattutto perché quel termine non si trova nelle Sacre· Scritture ed essi di nuovo contendono senza una base scritturistica. 3. lo da parte mia ho spiegato la causa e la ragione per cui il concilio ha usato le espressioni ·dalla sostanza· (ek tés ousias) e "consostanziale" (homooU5ios) in accordo con quanto la Scrittura dice del Salvatore; ho esposto inoltre quanto i padri prima di loro hanno sostenuto e scritto. Adesso tocca a loro rispondere, se ne sono capaci, come hanno trovato questo vocabolo non scritturistico o in che senso dicono che Dio è "non-divenuto" (agénétos). SIGNIFICATI DEL TERMINE
4. Ho appreso infatti che questo termine ha diversi significati. Dicono dunque [i filosofi] che "nondivenuto" (agénéton) si dice di qualcosa che non è ancora diventata, ma può diventare; oppure di qual2
-Questa è l'unica esplicita allusione al neoplatonismo In Atanasio• (Meijering, Die dritte Rede, p. 150).
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cosa che non esiste né può venire all'esistenza; terzo, indica qualcosa che esiste senza essere diventata e senza aver avuto un inizio al suo esistere, bensì è eterna e imperitura. 5. Circa i primi due significati, probabilmente essi sono d'accordo nel tralasciarli per l'assurdo che ne deriva: infatti secondo il primo significato, le cose che già sono diventate o aspettano di diventare, saranno "non-divenute" (agénéta). Il secondo significato è ancora più assurdo. Non resta loro che ricorrere al terzo e prendere "non-divenuto" (agénéton) in conformità a quel significato. Ma anche così non cessano di essere fuori dalla retta fede. 6. Infatti, se ciò che non ha un inizio nell'essere, non essendo diventato né creato ma eterno, essi lo chiamano "non-divenuto" (agénéton), e poi sostengono che il Logos di Dio è il contrario di ciò, chi non vede l'astuzia di questi nemici di Dio? Chi non li condannerebbe alla lapidazione per questa loro insania? Poiché infatti si vergognano di riproporre le prime frasette delle loro favole, per le quali sono stati condannati, quegli sventurati hanno pensato di dire le stesse cose mediante il termine "non-divenuto" (agénéton), come essi dicono. Se infatti il Figlio fa parte delle cose divenute (genétà), è chiaro che anch'egli è stato fatto dal nulla; e se ha avuto un inizio al suo esistere, prima di essere fatto non esisteva; e se non è eterno, c'era un tempo in cui non esisteva. SOFISMI INCONSISTENTI
29,1. Se questo è il loro nuovo sentire, bisognava dunque segnalare la loro fallace opinione nelle loro stesse parole e non lasciar coperto il loro malvagio pensiero dietro il termine di "non-divenuto" (agéneton). Ma non ci riusciranno, quei maligni, sebbene facciano tutto con astuzia, come fa il dia228
volo, loro padre. Come infatti quello cerca di ingannare travestendosi, così costoro hanno escogitato il vocabolo "non-divenuto" (agénéton), affinché con il pretesto di parlar bene di Dio, potessero tener nascosta la loro bestemmia contro il Signore e, così nascosta, indicarla agli altri. Ma scoperto anche questo loro sofisma, che cos'altro resta loro? Vediamo cosa dicono. 2. ..Abbiamo trovato!», dicono quei malvagi e, in aggiunta ai precedenti significati, dicono che ..nondivenuto (agénéton) è ciò che ha l'essere [AW 26) senza causa, ma è egli stesso causa dell'esistenza delle cose divenute». Ingrati e veramente ignoranti delle Scritture! Fanno e dicono tutto non per onore di Dio, ma per disonorare il Figlio, ignorando che chi disprezza il Figlio disprezza anche il Padre. 3. Anzitutto, anche se chiamano Dio così, non segue che il Logos sia una delle cose divenute (genéta). Essendo progenie della sostanza del Padre, egli è a sua volta presso di lui eternamente. Questo nome "non-divenuto" (agénéton) infatti non distrugge la natura del Logos, né di conseguenza è detto in rapporto al Figlio, ma in rapporto alle cose divenute attraverso il Figlio. 4. Chi chiama l'architetto creatore (démiourg6n) di una casa o di una città, non include in questo nome il figlio nato da lui; ma se lo chiama creatore è a motivo dell'arte e della scienza operativa, indicando che egli stesso è diverso dalle cose da lui fatte. Chi invece considera la natura dell'architetto, sa che il figlio da lui generato non è una delle cose da lui prodotte, e quindi lo chiama padre a motivo del figlio, mentre rispetto alle opere lo chiama creatore o fabbricatore. Allo stesso modo, chi chiama Dio "non-divenuto" (agénétos), lo chiama così a partire dalle opere, volendo significare non solo che Dio non è divenuto, ma che egli ha fatto le cose divenute. Sa pure che il Logos è altro dalle realtà 229
divenute ed è progenie unica e propria del Padre, e che per mezzo di lui tutto è stato fatto e sussiste. INTERPRETARE BENE LE SCRITTURE
30,1. In effetti, quando i profeti chiamavano Dio ·dominatore di tutto•, non lo chiamavano così perché il Logos è una parte di questo •tutto•: sapevano infatti che il Figlio è diverso dalle cose divenute e che anch'egli è ·dominatore di tutto• a motivo della sua uguaglianza con il Padre. Questi dunque domina tutte le cose, fatte mediante il Figlio, e ha dato al Figlio il potere su di esse, per cui è sempre il Padre che domina su tutto per mezzo del Logos. E ancora, quando chiamavano Dio ·Signore delle potenze•, non dicevano ciò come se il Logos fosse una di queste potenze, ma perché [Dio] rispetto al Figlio è Padre, mentre rispetto alle potenze fatte mediante il Figlio è Signore. 2. E infatti lo stesso Logos, che è nel Padre, è Signore di tutte queste [potenze] e domina l'universo: tutto ciò infatti che ha il Padre è del Figlio. Se dunque così bisogna intendere, si può pure dire, se proprio si vuole, che Dio è "non-divenuto" (agénetos), ma non perché il Logos sia una delle cose divenute, ma perché Dio, come è stato detto prima, non solo non è divenuto, ma è egli che ha fatto divenire le cose mediante il suo proprio Logos. 3. Così, quando nominiamo il Padre, a sua volta diciamo che il Logos è immagine del Padre e a lui consostanziale (homooU.Sios). Se è sua immagine, è diverso da tutte le cose che sono venute all'esistenza. Possiede infatti la proprietà e la somiglianza di Colui di cui è immagine, per cui chi dice che il Padre è "non-divenuto" (agénetos) e "onnipotente", vi include anche [AW 27] il suo Logos e Sapienza, cioè il Figlio. 4. Ma quegli stravaganti e sempre inclini all'ero230
pietà, hanno escogitato il termine "non-divenuto" (agénetos) non preoccupati dell'onore di Dio, ma del loro perverso pensiero contro la grazia del Salvatore. Se infatti fosse stato loro a cuore l'onore e il buon nome di Dio, avrebbero dovuto molto meglio conoscere e chiamare Dio con il termine di "Padre", piuttosto che con quell'altro. Infatti, chiamando Dio "non-divenuto" (agénetos), lo designano soltanto come creatore a partire dalle cose divenute, come ho detto prima, al fine di poter chiamare anche il Figlio creatura, secondo il loro gradimento. Chi invece chiama Dio con il termine di "Padre", in esso indica subito anche il Figlio, e non ignorerà che, essendoci il Figlio, tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui. •PADRE NOSTRO•
31,1. In conclusione, è meglio e più vero indicare Dio a partire dal Figlio e quindi chiamarlo Padre, piuttosto che nominarlo solo a partire dalle opere e chiamarlo "non-divenuto" (agénetos). Questo termine infatti indica le opere che Dio liberamente ha fatto mediante il Logos. Invece il termine "Padre" fa conoscere la progenie propria della sua sostanza. Quanto il Logos differisce dalle cose divenute, altrettanto, e ancora di più, dire che Dio è Padre differisce dal dirlo "non-divenuto" (agénetos). 2. Questo termine, non scritturistico e ambiguo, ha un significato vario, mentre l'altro è semplice, scritturistico, più vero, perché si riferisce solo al Figlio. Il termine "non-divenuto" (agéneton) è stato trovato dai [filosofi] greci, che non conoscono il Figlio, mentre il termine "Padre" ci è stato fatto conoscere benevolmente dal Signore nostro. Egli infatti, sapendo di chi è Figlio, diceva: Io sono nel Padre e il Padre è in me; e: Chi ha visto me, ha visto il Padre; e: Io e il Padre siamo uno. Mai lo vediamo chiama231
re il Padre "non-divenuto" (agénetos), e anche quando ci ha insegnato a pregare non ha detto: •Quando pregate, dite: "Dio non-divenuto'\ ma invece: Quando pregate, dite: Padre nostro, che sei nei cieli. 3. Egli poi ha voluto che il punto principale della nostra fede mirasse proprio a questo: infatti ci ha comandato di battezzare non nel nome del "nondivenuto" (agénetos) e del "divenuto" (genet6s), né nel nome dell'"increato" e del "creato'', ma nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così battezzati anche noi diventiamo figli [di Dio] veramente, e dicendo il nome del Padre riconosciamo da questo nome anche il Logos che è nel Padre. 4. Se poi [il Figlio] vuole che noi chiamiamo •Padre nostro• il suo proprio Padre, questo non significa che dobbiamo equipararci al Figlio secondo la natura. Infatti noi diciamo questo per mezzo suo. Poiché il Logos ha portato il nostro corpo ed è venuto in noi, di conseguenza Dio è detto anche Padre nostro, a motivo del Logos che è in noi. Infatti lo Spirito del Logos, che è in noi, attraverso di noi chiama il suo proprio Padre come nostro. Questo intende affermare l'Apostolo quando dice: Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida: Abbà, Padre! LE
PAROLE VANNO USATE CORRETIAMENTE
[AW 28) 32, 1. Ma forse quelli, confutati sul termine "non-divenuto" (agéneton), secondo il loro modo malvagio vorranno anch'essi dire: ·Circa il Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo bisognava usare solo le parole contenute nelle Scritture, è non introdurre termini non scritturistici». Sì, sono d'accordo anch'io: gli argomenti della verità sono più esatti se presi dalle Scritture che non da altre parti. Tuttavia la malvagità e l'empietà degli eusebiani, capaci di mascherarsi con astuzia, costrinsero i vescovi, come 232
ho detto più sopra, a esporre nel modo più chiaro le parole atte a confutare la loro empietà. 2. Abbiamo già dimostrato che le cose scritte dal concilio hanno un significato corretto, mentre gli ariani sono apparsi inconsistenti nelle loro parole e malvagi nel loro modo di fare. Anche il termine "non-divenuto" (agénéton), che ha un suo significato e può essere usato correttamente, essi di nuovo lo hanno preso come hanno voluto, secondo il loro proposito di oltraggiare il Salvatore, bramosi solo, come i giganti, di combattere contro Dio. 3. Non evitarono la condanna, a motivo delle espressioni da loro proposte, né sono riusciti a nascondersi dietro il termine "non-divenuto" (agénéton), che può essere usato in modo teologicamente corretto, ma che essi però hanno distorto. Così furono svergognati in tutto, e la loro eresia fu proscritta dappertutto.
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CONCLUSIONE
4. Ho esposto queste cose come ho potuto, sul ricordo di ciò che si è svolto allora al concilio. So però che questi amanti della contesa e nemici di Cristo non saranno convinti a cambiare da queste mie parole, ma si affretteranno a cercare di nuovo altri pretesti e poi altri ancora. Se è vero il detto profetico: Può cambiare l'Etiope la sua pelle o il leopardo le sue chiazze?, allora è possibile che chi si è fatto discepolo dell'eresia voglia mettersi a pensare secondo verità. 5. Quanto a te, carissimo, ricevi questo scritto per la tua personale lettura e, se ritieni che sia bene, leggilo anche ai fratelli che erano presenti alla discussione. In questo modo anch'essi, così istruiti, potranno comprendere la preoccupazione del concilio di difendere la verità e di esporla in modo esatto, e potranno condannare la temerità degli ariani, nemici di Cristo, e i loro vani pretesti, che essi a motivo della loro empia eresia hanno escogitato in se stessi. A Dio Padre sia gloria, onore e adorazione, assieme al suo coeterno Figlio e Logos, e con il santissimo e vivificante Spirito, ora e per gli infiniti secoli dei secoli. Amen.
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LETTERA DI EUSEBIO DI CESAREA AI [FEDELI] DELLA SUA DIOCESI
33, 1. Le questioni concernenti la fede della Chiesa trattate nel grande concilio riunito a Nicea saranno certamente giunte a vostra conoscenza, carissimi, anche da altre fonti, [AW 29) dal momento che la fama suole precedere l'esatta relazione dei fatti. Ma affinché questo "sentito dire" non finisca per annunciarvi una verità alterata, abbiamo ritenuto necessario mandarvi prima il documento da noi esposto riguardo alla fede, quindi il secondo [documento] che quelli hanno pubblicato, dopo aver inserito delle aggiunte alle nostre parole 1 . 2. Ecco dunque il nostro testo, letto alla presenza del nostro devotissimo imperatore, e giudicato retto e degno di approvazione: 3. •Quella fede che abbiamo ricevuto dai vescovi nostri predecessori, sia nella prima catechesi e sia quando siamo stati battezzati; quella fede che abbiamo appreso dalle Sacre Scritture; quella fede che abbiamo professata e insegnata sia nel presbiterato e 1
Da questo passo non è molto chiaro il rapporto che esiste tra i due documenti. Secondo un'opinione abbastanza comune, Eusebio avrebbe proposto il simbolo di fede della sua Chiesa come base di discussione; esso sarebbe stato accettato, ma con l'aggiunta di alcune affermazioni chiaramente antiariane (cfr. Simonetti, La crisi ariana, pp. 83-84). Oggi però l'interpretazione più accreditata è quella che vede nella professione di fede letta da Eusebio un'attestazione di ortodossia, dato che su di lui pendava la minaccia di scomunica inflittagli alcuni mesi prima dal sinodo di Antiochia. La formula prodotta a Nicea non sarebbe perciò il simbolo di Cesarea ritoccato, ma un nuovo testo (cfr. Kelly, I simboli, pp. 221-224).
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sia nello stesso episcopato, questa fede, che è la nostra attuale, la proponiamo anche a voi. Essa dice2: 4. "Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose, visibili e invisibili; e in un solo Signore, Gesù Cristo, Logos di Dio, Dio da Dio, luce da luce, vita da vita, Figlio unigenito, primogenito di tutta la creazione, generato dal Padre prima di tutti i secoli, per mezzo del quale tutto è stato fatto. Per la nostra salvezza si è incarnato, è vissuto tra gli uomini, ha sofferto, è risorto il terzo giorno, è salito al Padre e verrà di nuovo nella gloria per giudicare i vivi e i morti. Crediamo anche in un solo Spirito Santo. 5. Crediamo che ciascuno di questi [tre] sia e sussista, [e cioè] che il Padre è veramente Padre, il Figlio veramente Figlio e lo Spirito Santo veramente Spirito Santo3, come il Signore nostro, mandando per la predicazione i suoi discepoli, disse: Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Attestiamo che le cose sono veramente così e che così pensiamo, come sempre abbiamo ritenuto, e che fino alla morte difenderemo questa fede, dichiarando anatema ogni eresia negatrice di Dio. 6. Attestiamo in verità, al cospetto di Dio onnipotente e del Signore nostro Gesù Cristo, di avere sempre professato queste cose dal profondo del cuore e dell'anima, fin dal momento in cui conosciamo noi stessi, e di pensarlo e professarlo anche ora, potendo mostrarvi con prove e persuadervi che an• Questa è la più antica formula di fede battesimale di una Chiesa orientale a noi giunta. Verosimilmente era la formula in uso nella Chiesa di Cesarea (cfr. Kelly, I simboli, pp. 179-181). 3 Cf. Asterio, fr. 60 (Vinzent, p. 120). Stranamente Eusebio non usa qui il termine "ipostasi", forse per non urtare la corrente monarchiana (Marcello di Ancira). Un testo simile, ma con la chiara affermazione delle "tre ipostasi", si legge nella professione di fede di Antiochia del 341 (cfr. Simonetti, Il Cristo, pp. 130, 2-11).
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che nei tempi passati abbiamo creduto e predicato nello stesso modo"•, 7. Dopo che noi esponemmo questa fede, non ci fu nessuna obiezione, ma lo stesso devotissimo nostro imperatore per primo attestò che essa conteneva cose rettissime. Inoltre affermò che quella era pure la sua fede, e raccomandava a tutti di darvi il loro assenso, di sottoscrivere gli insegnamenti ivi contenuti e conformarsi ad essi. Disse che bisognava aggiungervi soltanto il termine "consostanziale" (homoo'l1sios), che egli stesso spiegò così: "[Il Figlio] non deve essere detto "consostanziale" (bomoo'l1sios) secondo quanto avviene nelle realtà corporee, come se egli esistesse in seguito a una divisione o separazione dal Padre. Infatti la natura [divina], che è immateriale, spirituale e incorporea, non può sottostare a un qualche mutamento corporeo, ma tali realtà vanno pensate con concetti divini e ineffabili». Così espresse il suo pensiero il sapientissimo e religiosissimo nostro imperatore4• Invece quelli, col pretesto dell'aggiunta del termine "consostanziale" (bomoousios), composero questo documento: [AW 30] 8. •Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose, visibili e invisibili; e in un solo Signore, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza (ek tés ousias) del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consostanziale (bomoo'l1sion) al Padre; per mezzo di lui tutto è stato fatto, le cose nel cielo e quelle nella terra; per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato, facendosi uomo; ha sofferto ed è risorto il terzo giorno, è salito ai cieli e verrà per giudicare i vivi e i morti. E [crediamo] nello Spirito Santo. ~
Questo intervento di Costantino appare determinante nello svolgimento del concilio.
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Coloro che dicono, riguardo al Figlio di Dio, che c'era un tempo in cui non esisteva e che prima di essere generato non c'era, e che fu fatto dal nulla, ovvero dicono che è da un'altra ipostasi o sostanza5, che è creato, o mutevole o soggetto a cambiamento, costoro anatematizza la Chiesa cattolica e apostolica•. 9. Dopo che essi ebbero formulato questo documento, che cosa intendessero dire con le espressioni "dalla sostanza del Padre" e "consostanziale (bomootlsios) al Padre", non glielo lasciammo passare senza averlo sottoposto a esame. Ci fu allora uno scambio di domande e risposte, e tale dibattito mise al vaglio il senso di quelle parole. Essi furono d'accordo nello spiegare che "dalla sostanza" significa che [il Figlio] è "dal Padre", ma non come una parte del Padre. 10. A questa spiegazione parve bene anche a noi acconsentire, poiché appunto la retta dottrina insegna che il Figlio è ·dal Padre•, ma non è una parte della sua sostanza. Perciò anche noi approvammo quella spiegazione e non ricusammo il termine "consostanziale" (bomootlsios), avendo davanti agli occhi il fine di mantenere la pace e di non deviare dalla retta dottrina. 11. Allo stesso modo accettammo anche le parole •generato, non creato•, perché, come si disse, "creato" è denominazione comune delle altre creature, fatte mediante il Figlio e con le quali il Figlio non ha nulla di simile; perciò Egli non è una creatura somigliante a quelle fatte per mezzo di lui, ma ' Il Concilio intende qui hypéstasis e ousia come sinonimi, ma non afferma esplicitamente che in Dio vi è una sola hypéstasis o una sola ousia, come ha inteso Loofs, vedendovi un influsso della teologia occidentale (cfr. Skarsaune, A Neg/ected, pp. 47-48). Il problema qui toccato è l'origine del Figlio. Il concilio lascia cosl irrisolta la questione terminologica trinitaria, che solo con fatica sarà chiarita dalla successiva riflessione. Ricordiamo che hyp6stasis è un termine biblico già usato in un contesto trinitario (cfr. Eb 1,3).
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possiede una sostanza (ousfa) superiore a ogni creatura, generata dal Padre, come insegnano le Sacre Scritture, anche se il modo della generazione rimane indicibile e inspiegabile per ogni natura creata. 12. Parimenti la discussione ha messo in chiaro che il Figlio è "consostanziale (bomoousios) al Padre" non al modo delle realtà corporee né come avviene negli esseri dotati di vita mortale; dunque non per divisione di sostanza né per separazione, e neppure per qualche affezione o mutamento o cambiamento della sostanza e della potenza del Padre. Infatti la natura "non-soggetta-a-divenire" (agéneton) del Padre è estranea a tutto ciò. 13. Invece l'espressione "consostanziale (bomootlsios) al Padre" indica che il Figlio di Dio non ha nessuna somiglianza con le creature divenute (genetd), mentre è perfettamente somigliante al solo Padre che l'ha generato; non è dunque da un'altra ipostasi o sostanza, ma dal Padre. A questa spiegazione ci parve bene acconsentire, tanto più che ci consta che alcuni degli antichi vescovi e scrittori persone dotte e illustri - nelle loro riflessioni teologiche sul Padre e sul Figlio hanno usato il termine "consostanziale" (bomootlsios). 14. Ecco dunque quanto riguarda la formula di fede, che tutti approvammo, non senza un attento esame, ma secondo quelle spiegazioni che furono date alla presenza dello stesso devotissimo imperatore e alle quali acconsentimmo nei termini sopra esposti. 15. Quanto poi all'anatematismo da essi posto dopo la formula di fede, lo ritenemmo privo di inconvenienti, fAW 31] dal momento che esso vieta solo di usare termini non scritturistici, per i quali forse si è avuto tutto questo scompiglio e sconvolgimento nella Chiesa. Poiché dunque la Scrittura, divinamente ispirata, non usa mai le espressioni ·dal nulla· o •c'era un tempo in cui non esisteva• e quelle che 239
vengono di seguito, parve bene di evitare di dirle e di insegnarle. Questo ragionamento ci parve giusto e fu da noi approvato, tanto più che nel passato non ci era mai capitato di usare quelle espressioni. 16. Anche la condanna della frase "prima di essere generato non esisteva", non fu giudicata insensata, dal momento che tutti erano d'accordo sul fatto che il Figlio di Dio esiste prima della sua nascita secondo la carne. Inoltre il nostro devotissimo imperatore fece un bel discorso, dimostrando che [il Figlio] anche secondo la sua generazione divina è prima di tutti i secoli: infatti, prima di essere generato in atto, era nel Padre in potenza, in maniera agenerata. Per cui si può dire che il Padre è sempre Padre, così come è sempre Re e sempre Salvatore, essendo tutto ciò in potenza, ed essendo sempre il medesimo sotto tutti gli aspetti6• 17. Abbiamo ritenuto necessario, o carissimi, mandarvi questo scritto, per mostrarvi con quanta ponderatezza abbiamo esaminato e approvato [la nuova formula di fede], e come giustamente dapprima ci siamo opposti fino all'ultimo, allorché ci urtammo con un testo formulato diversamente, e come in seguito abbiamo accettato con disponibilità [quelle aggiunte] per le quali non ponemmo obiezioni, allorché, chiedendo ragionevoli spiegazioni, queste ci parvero concordare pienamente con quanto era stato professato da noi nella nostra formula di fede.
6
Eusebio mette sulla bocca di Costantino una spiegazione che certamente non corrisponde al pensiero del concilio (cfr. Simonetti, Il Cristo, pp.
556-557).
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SIGLE
AW
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INDICE
Prefazione di Giuliano Vigini . Introduzione ................... .
. .......... pag.
5 11
Parte I TRADIZIONE APOSTOLICA
di Pseudo-Ippolito 1. Prologo . 2. I vescovi ........ . 3. Preghiera di consacrazione di un vescovo ........... . 4. L'offerta .. 5. (Offerta dell'olio) . . ....... . 6. (Offerta del fonnaggio e delle olive) . 7. I sacerdoti ............. . 8. I diaconi 9. I confessori 10. Le vedove . 11. Il lettore . 12. La vergine 13. Il suddiacono ..... 14. I doni di guarigione 15. Coloro che si accostano per la prima volta alla fede 16. Mestieri e professioni ... ·... 17. Durata dell'istruzione dopo l'esame dei mestieri e delle professioni . 18. La preghiera di coloro che ricevono l'istruzione . 19. L'imposizione delle mani sui catecumeni 20. Coloro che riceveranno il battesimo 21. Rito di amministrazione del santo battesimo ... 22. La comunione 23. Il digiuno .. 24. I doni ai malati . . . .. 25. Introduzione della lucerna durante la cena della comunità
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26. Il pasto comune . . . .. .. . . . . . . . .. . .. . . . . .. . . . . . . . . . .. . . . . . . . . 27. I catecumeni non devono mangiare con i fedeli . . . .. . . . . . .. . .. . . . . .. . . .. .. .. . . .. .. .. 28. Bisogna mangiare con disciplina e con moderazione .. .. . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. . . . .. .. . .. . .. 29. Bisogna mangiare rendendo grazie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30. Il pasto delle vedove . . . .. . .. . . . . . . . . . .. . . . . . . .. . . . . . . . .. . 31. I frutti da offrire al vescovo . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . . . . 32. Benedizione dei frutti .. .. . .. . .. . . . .. .. . .. .. . . .. . . . . . .. . .. . 33. Non si deve prendere nulla a Pasqua prima dell'ora in cui si può mangiare.................. 34. I diaconi devono stare assiduamente col vescovo . . . .. . .. . . . . . . . .. .. .. . .. . .. . . . .. 35. Il momento della preghiera .. . . .. . . . . . . .. . .. . . . . . . . . . . .. 36. Bisogna accostarsi all'Eucarestia quando si fa lofferta prima di prendere qualche altra cosa . . . . .. .. . . . . . . . . . .. . . . . . . . 37. Bisogna conservare con cura l'Eucarestia .. . . . . . . . . . . . 38. Niente deve cadere dal calice .. . . . . . . .. . . .. . .. . . . . . . .. .. 39. I diaconi e i presbiteri .. .. . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. .. .. . . 40. I luoghi della sepoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . 41. I tempi della preghiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . 42. Il segno della croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43. Conclusione . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Parte II IL CREDO DI NICEA di Atanasio
Introduzione ....................................................... IL CONCLIO DI NICEA (325) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Verso un concilio generale ............... : . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'inaugurazione del Concilio ................................... La dottrina di Ario e degli ariani .............................. Lo svolgimento del Concilio .................................. 1. /,a. testimonianza del Concilio .......................... 2. /,a. testimonianza di Eusebio di Cesarea .............. 3. /,a. testimonianza di Atanasio . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Il dopo Concilio (325-360) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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IL DE DECRE17S DI ATANASIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Occasione, importanza e contenuto dello scritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Data di composizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . Il destinatario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I personaggi ariani o ftloariani nominati nel DD . . . . . . . . . . 1. Ario ..........................................................
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2. Asterio il Sofista .......................................... . 3. Eusebio di Nicomedia . . .. .. .. ......... . 4. Eusebio di Cesarea ...................................... . 5. Acacio di Cesarea .. . .. . . . .. .. .. . .. .. .. ........ .. La struttura del DD ............................................. . La teologia atanasiana del DD .............................. .. 1. Il problema del linguaggio teologico .................. . 2. Ci può essere •generazione· senza un ·divenire·? ......................... .. 3. La spiegazione atanasiana dellhomoousios niceno 4. L'edizione di H.G. Opi.tz Introduzione
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. . . . . . . . .. . .. . . ........................ . 174 174
OCCASIONE DELLO SCRITTO IL PRETISJ'O ADDOTIO DAGLI ARIANI ........................ .. IL VERO MOVENTE DEGLI ARIANI: NEGARE LA DMNITÀ DI CRISTO ............................ . INCAPACI DI RAGIONARE, GLI ARIANI RICORRONO AL POTERE IMPERIALE .. . .. .. ............................... . I IL COMPORTAMENTO DEGLI EUSEBIANI A NICEA ................ .
Impugnare il Concilio è segno di ignoranza e di malafede ........................... .. Il comportamento degli ariani a Nicea .................. . Il comportamento di Eusebio di Cesarea ..... . Quelli che si oppongono al Concilio ecumenico sono falsi maestri ......................... . La continuità della tradizione ................. . Condotta instabile degli ariani ........................... .. Il BREVE CONFUTAZIONE DELL'ARIANESIMO ................. . Le tesi ariane sul Figlio .. . ..................... . Il duplice significato di "figlio": per elezione e per natura . . ........................ .. Interpretazione ariana di "Unigenito" ....... . Il Logos non è intermediario Adamo, creato per primo, non ha una natura diversa dagli altri uomini ................ . . . .. . .. ............... .. Il Figlio non è creato . La differenza tra la generazione del Figlio ............. .. e quella dei credenti Figlio per natura . . . . .. . . . .. .. .............. . Distingure a seconda dei soggetti ............. . La generazione divina non è come quella umana . . . . . .. ............ . La generazione del Figlio è eterna ..................... .. L'errata interpretazione di Proverbi 8, 22 ............... .
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Proverbi 8, 22 si riferisce all'incarnazione . . . . . . . . . . . . . . . 198 III IL VERO INSEGNAMENTO DELLE SACRE SCRfITURE . . . . • . . . . . . . • . .
Il Figlio è Logos e Sapienza propria del Padre . . . . . . . . . Logos e Sapienza non sono appellativi del Figlio .. .. .. . .. .. . . .. .. .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. Il Logos di Dio è unico . . . . .. .. .. . .. . .. .. . .. .. .. .. .. .. .. . .. . La verità insegnata dalle Scritture .. .. .. . .. .. .. .. . . . . .. . .. . IV PERCHÉ A NICEA FURONO INTRODOTTE DELLE NUOVE ESPRESSIONI .. . .. .. .. .. .. .. .. . . .. . .. . • .. .. .. • .. .. .
Difesa del Concilio di Nicea .. .. .. .. .. .. .. .. . .. . . . . . . .. . .. Perché il Concilio ha definito il Figlio ·dalla sostanza del Padre· .. . .. . .. .. .. .. . .. .. .. .. .. .. .. .. Perchè il Concilio ha definito il Figlio •consostanziale- al Padre .. .. . .. .. .. . .. .. .. . .. .. . .. .. .. .. Non è solo questione di parole .. .. .. .. . .. . .. .. . . .. .. . .. . . Il vero pensiero delle Sacre Scritture . .. .. .. .. .. .. .. . .. .. . Dio si identifica con la sua incomprensibile essenza ................................ Il Logos è vero Figlio del Padre per natura .. . .. .. .. .. .. Le immagini sensibile vanno comprese in modo intelligente .. .. .. .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. .. .. . .. . .. . L'unità sostanziale del Padre e del Figlio .. .. .. . .. .. . .. ..
200 200 201 202 203
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V LA TESTIMONIANZA DELLA TRADIZIONE • .. .. .. . .. • .. .. • .. .. .. • .. . 219
Il pensiero di Teognosto .. . .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. . .. .. .. . .. Il pensiero di Dionigi di Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il pensiero di Dionigi di Roma ............................ Il pensiero di Origene .. .. . .. .. .. . .. . .. . .. . .. .. .. .. . .. . .. . .. La fede della Chiesa cattolica . .. .. . .. . .. . .. .. .. .. . .. .. .. . ..
VI SUL TERMINE
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AG/JNtToS . .. .. .. .. .. .. .. . • .. • .. .. .. .. • .. .. • .. .. . .. .
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Origine filosofica del termine .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. . . . Significati del termine .. . . . . .. . .. .. .. .. . . . . .. .. . .. .. . .. . . . .. . Sofismi inconsistenti .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. . .. . Interpretare bene le Scritture .. .. . .. . .. . .. .. . .. .. . .. .. .. .. . ·Padre nostro• . . . . . . .. . .. .. .. . .. .. . . .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. .. . .. . Le parole vanno usate correttamente .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..
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Conclusione . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . .. .. . .. . . . . . . . .. .. . .. . . . .. . . . . . .. Lettera di Eusebio di Cesarea ai [fedeli] della sua diocesi .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . .. . . . . . . . . . .. . . . .. . . .. . Sigle ................................................................
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