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Italian Pages 288 [281] Year 2001
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pensatori
Juan LuisArsuaga I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal
Postfazione di Giorgio Manzi Traduzione di Luisa Cortese Illustrazioni di Juan Carlos Sastre
Titolo dell'opera originale EL COLLAR DEL NEANDERTAL
En busca de los primeros pensadores (Ediciones Temas de Hoy, Madrid 1999) © Juan Luis Arsuaga Ferreras, 1999 Illustrazioni di Juan Carlos Sastre Traduzione dallo spagnolo di LUISA CORTESE
©Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Serie Bianca" aprile 2001 Seconda edizione ottobre 2001 ISBN 88-07-17049-3
A tutti i membri del piccolo gruppo familiare: alle due Dolores, a Carlos e Rocfo
Siamo fatti della stessa materia dei sogni. William Shakespeare, La tempesta
Ringraziamenti
Al momento di scrivere questo libro ho usufruito dell'aiuto di numerosi colleghi con cui ho avuto l'opportunità di discutere sui temi affrontati nel testo. Quando leggeranno alcune di queste pagine, ricorderanno certamente le nostre conversazioni. I.:elenco sarebbe interminabile perché ho cercato di imparare da tutti loro. Tuttavia meritano un ringraziamento speciale Nuria Garda, Ana Gracia, Carlos Lorenzo, Manuel Martin-Loeches e Ignacio Martinez, che hanno letto tutte le versioni del libro e lo hanno reso più chiaro e più rigoroso grazie alle loro preziose riflessioni. Pedro Maria Arsuaga Eguizabal, cioè mio padre, ha tradotto la relazione di Otto Herz sulla spedizione del mammut di Bereskowa e ha tracciato il percorso sulla carta geografica affinché viaggiassimo insieme, con l'immaginazione, fino alla lontana e gelida Siberia.
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Prologo
Quelle brume dei monti sono per me un ricordo indelebile; ho dimenticato altre cose: odi e affetti, favori e scortesie sono passati su di me senza lasciare traccia; ma quelle brume hanno inondato la mia anima per sempre; vi rimarranno per sempre, non se ne andranno mai. Pio Baroja, Fantasias vascas
Guardo dalla finestra. Piove. Le gocce d'acqua che scivolano lungo i vetri mi sembrano un'intrusione dell'ordine naturale nel mondo artificiale di cemento e asfalto della città, nella quale, a eccezione di noi stessi, non vi è quasi nulla di organico: benché assai più numerosi, siamo rimasti gli stessi uomini e donne che 25.000 anni fa vivevano all'aria aperta nei luoghi dove oggi sorgono i grandi agglomerati urbani. Per essere più precisi, siamo i loro discendenti, i bisnipoti di quei cacciatori e raccoglitori che immaginiamo felici e in perfetta armonia con gli animali e le piante. E proviamo nostalgia per i tempi in cui vivevamo come gli indiani dei film, liberi e selvaggi, senza essere costretti ad andare in ufficio tutte le mattine. Molte volte mi chiedono quando ho scoperto la mia vocazione di paleoantropologo. Nel guardarmi indietro alla ricerca di qualche ricordo scopro che, quando ero bambino, quello che davvero mi sarebbe piaciuto diventare da grande era il cacciatore e raccoglitore: forse per questo sono diventato in seguito paleoantropologo. Tutti i bambini sono un poco "selvaggi" (nel senso di "selvatici"), ragion per cui occorre "civilizzarli" mediante l'educazione, rinchiudendoli tra le quattro pareti di un'aula scolastica. Tuttavia, l'uomo preistorico nascosto in noi si risveglia ancora al richiamo della foresta. Naturalmente non pensiamo mai alla drammatica mortalità infantile dei nostri antenati preistorici, quasi la metà dei quali non arrivava a compiere i cinque anni. Né pensiamo ai rigidi inverni e alla coltre di neve perenne né alla fame degli anni di siccità, quando lombra della morte si stendeva implacabile sulle piccole comunità umane. Pensiamo, invece, ai momenti che immaginiamo gradevoli, perché dopo il lungo inverno arrivava la primavera e tutto tornava alla vita; e pensiamo alla sensazione di pienezza che ci invade quando, anche se per poche ore, ci im13
mergiamo nella natura. Il fatto è che la nostalgia consiste precisamente nel sentire la mancanza (soltanto) dei momenti belli del passato. Ammetto che in questo libro vi è molta nostalgia, e molta natura: erbivori formidabili e possenti carnivori, montagne e laghi, ghiacciai, tundre, taighe, boschi mediterranei, foglie cadenti d'autunno e le tracce degli umani che percorrevano questi scenari. Qui il clima e il paesaggio non sono la scenografia all'interno della quale si sviluppa la storia, bensì protagonisti di primo pia-. no della vicenda. Non a caso l'azione si svolge nell'era glaciale. Ma il libro è fondamentalmente la storia delle nostre origini e racconta ciò che sappiamo su come siamo giunti a essere quelli che siamo. :Lopera si divide in nove capitoli e un epilogo. I primi due capitoli trattano del posto che occupiamo tra gli altri esseri viventi, del motivo per cui siamo così soli in mezzo a tante creature, del perché su questo pianeta non vi sia un'altra specie con cui possiamo comunicare. Dove sono i nostri parenti più prossimi e che cosa è successo a tutti loro? Inoltre si esaminano sinteticamente i primi milioni di anni dell'evoluzione umana, che prese le mosse in Africa e proseguì sino alla comparsa di una specie in grado di popolare prima l'Asia e poi l'Europa. Se le nostre capacità mentali fossero un prodotto recente dell'evoluzione umana, come ritengono alcuni autori, non sarebbe necessario risalire tanto indietro nel tempo per seguirne le tracce. Se invece, come riteniamo noi, la mente propriamente umana ha iniziato a forgiarsi molto tempo fa, quando ancora non viveva niente (vale a dire nessun essere umano) al di fuori dell'Africa, sarà gioco forza tentare di penetrare il più possibile alle radici non soltanto del nostro corpo, ma anche del nostro modo di essere. In ogni caso, le informazioni che ci offrono i primi ominidi africani sono necessarie per discutere la questione se, nella storia della vita, vi siano stati altri esseri, oltre a noi, consapevoli di sé e del proprio posto nel mondo. Il terzo capitolo si occupa del popolamento dell'Europa e delle glaciazioni che si susseguirono nell'ultimo milione di anni ricoprendo di ghiaccio gran parte dell'emisfero settentrionale. Si tratteggiano poi le caratteristiche degli uomini di Neandertal e dei loro antenati europei, in particolare quelli della Sierra de Atapuerca (Burgos, Spagna). Con questo si chiude la prima parte del libro dedicata sostanzialmente alla documentazione fossile dell'evoluzione umana e alle modificazioni prodottesi nella morfologia. Il quarto e quinto capitolo approfondiscono gli ecosistemi, le comunità di animali e piante e i cambiamenti verificatisi nell'ultimo milione di anni in Europa a causa delle glaciazioni. In que14
sti capitoli parlo delle mie grandi passioni: i boschi e le montagne. Sono convinto che molti lettori condivideranno il mio entusiasmo per quello che ancora oggi resta di naturale nel nostro mondo; ma chi non è molto interessato alla botanica o ai ghiacciai può saltare queste poche pagine senza timore di perdere il filo del racconto (anche se confido che in seguito tornerà su questi passi non letti per sapere come giunsero gli abeti sino a Cadice o perché siano così diversificati i boschi che vediamo dal finestrino dell'automobile quando percorriamo le strade di Spagna). Nel sesto capitolo si analizza il posto occupato dall'uomo in questi ecosistemi e la grande ondata di estinzioni prodottesi quando il ghiaccio si sciolse ed ebbe inizio lattuale era climatica. Terminata questa parte più "ecologica" del libro, si passa alla terza e ultima, il cui oggetto di studio è la mente e il comportamento umani. Nella Sierra de Atapuerca vi è un giacimento singolare, la Sima de los Huesos, dove si è verificato il più antico dei riti funerari a noi noti: 300.000 anni fa più di trenta cadaveri umani vi furono accumulati da altri uomini, che avevano già preso coscienza dell'inevitabilità della morte. Fu una scoperta tragica da parte dell'uomo che pose fine alla sua felice ignoranza animalesca e cambiò le cose per sempre. Questa è la storia che si racconta nel settimo capitolo, una storia che ci permette di ricostruire anche lora della morte e la durata dell'esistenza dell'uomo preistorico in Europa. Nell'ottavo capitolo si parla della coscienza e del fenomeno alla coscienza indissolubilmente legato: il linguaggio. Come riuscire a individuarne le tracce nella documentazione terrestre? Quando compaiono i simboli? Si va così preparando il terreno per il nono e ultimo capitolo che ci conduce al tempo della coesistenza tra gli uomini di Neandertal e i Cro-Magnon, coesistenza cui pose fine l'estinzione dei primi. Fossili umani, clima ed ecosistemi si danno appuntamento in questo capitolo finale, dove un ruolo importante lo gioca anche l'accidentata geografia iberica. In molti luoghi e momenti, accaddero allora, con certezza, innumerevoli piccole storie che eccitano la nostra immaginazione e che hanno alimentato una ricca letteratura. Non in tutti i casi le narrazioni hanno rispettato la Storia con la maiuscola, per questo è opportuno distinguere ciò che è assodato dall'inverosimile. Qui presentiamo i dati che la scienza è andata elaborando, di modo che ognuno possa costruirsi un racconto su misura. Ma vorrei essere onesto con il lettore fin dal principio. Noi scienziati sappiamo con esattezza sempre maggiore quando scomparvero gli uomini di Neandertal, ma non è chiaro come e perché si estinsero. Dove la scienza si arresta inizia la specula15
zione, poiché le circostanze nelle quali si verificarono gli eventi ammettono differenti interpretazioni. Qui esporrò la mia versione, anche se, a volte, il lettore potrà pervenire a conclusioni differenti, poiché ciò che ci guida in questo mistero è l'intuizione e non la ragione. In ogni caso, nel libro gli uomini di Neandertal sono i grandi protagonisti e non perché siano i nostri antenati, ma proprio perché non lo furono. Nella lunga catena che ci unisce alla prima forma di vita che comparve miliardi di anni orsono, un anello in più non avrebbe rappresentato granché. Ma i Neandertaliani membri di un'umanità parallela evolutasi in Europa nel corso di 100.000 anni in modo indipendente e separato dalla nostra stirpe - costituiscono uno specchio sorprendente nel quale osservare noi stessi e, per opposizione, conoscerci meglio. Per rendere più accessibile la lettura del libro, ho eliminato quasi integralmente le sigle dei fossili e i nomi scientifici di animali e piante che esistono tuttora e che possono essere facilmente reperiti nei trattati di zoologia e botanica. Alla fine del testo si trova una bibliografia sommaria di manuali generali di paleoantropologia e preistoria, nonché un elenco di libri e articoli che permettono di approfondire quanto è stato trattato nel corso dei capitoli. Scopo dei Primi pensatori è senz'altro quello di informare, ma anche di godersi il piacere fornito dal seguire gli sforzi dei ricercatori nella quotidiana lotta per dare risposta alla domanda che inquieta noi tutti: che facciamo qui? Ma mi muove anche un intento recondito, che forse non dovrei confessare: nutro la speranza che il lettore, dopo aver terminato il libro, si rechi nella Sierra de Atapuerca, la montagna sacra, o salga fino alle alte e solitarie terre di Ambrona, contempli i cavalli e i tori incisi nelle rocce presso il fiume e il vecchio mulino in rovina a Siega Verde o, semplicemente, contempli una montagna o un bosco ... e senta esattamente lo stesso brivido che sento io. Sul mio tavolo vi sono due libri: entrambi mi hanno ispirato al momento di scrivere il mio. Uno si intitola El hombre f6sil ed è stato scritto nel 1916 da Hugo Obermaier (Ratisbona 1877-Friburgo 1946), grande maestro della preistoria spagnola. Ho avuto l'immensa fortuna di comprare uno dei rari esemplari rimasti dei duecento-trecento della prima edizione presso un antiquario olandese. Quando l'ho aperto, vi ho trovato all'interno una lettera scritta a mano dall'autore che comunicava a qualcuno l'imminente invio del libro. È diretta a un collega francese cui l'autore si rivolge con molto rispetto e il cui nome non figura. Si limita a cominciare con un "Cher monsieur". Dalle note a margine riportate nel testo deduco che si trattava del famoso paleoantropologo Marcellin Boule, direttore dell'Institut de Paléonthologie Hu16
maine di Parigi e superiore di Obermaier, che era ricercatore nello stesso istituto dal 1910. Nella lettera, Obermaier, di origine tedesca anche se finì poi per prendere la nazionalità spagnola, auspica un futuro incontro in circostanze migliori: era il tempo della grande guerra e per questo Boule si era visto costretto ad allontanarlo dall'istituto. Questo esemplare dell'opera fondamentale scritta da Obermaier, recante all'interno la sua calligrafia e quella di Boule, compendia la storia della paleontologia umana. In El hombre f6sil, Hugo Obermaier fece una sintesi esemplare della preistoria spagnola, collocandola all'interno del contesto generale della preistoria del mondo. Ciò che fa del libro un modello è il fatto di integrare magistralmente le conoscenze derivanti dai campi dell'archeologia, della geologia e della paleontologia. Senza aspirare a tanto, anche il mio libro - scritto in uno stile più informale rispetto a quello di Obermaier - intende abbracciare le varie discipline che convergono nello scavo di un giacimento preistorico: ciò che le ricerche sul campo ha unito non separino i libri. L'altro libro, in due volumi, che giace sul mio tavolo (sperando che mi trasmetta le sue qualità) è la Fisiografia del solar hispano, di don Eduardo Hernandez-Pacheco (Madrid 1872-Madrid 1965), pubblicato nel 1955 da questo importante geologo, naturalista e grande storico della preistoria. Nei suoi lavori non solo ci ha lasciato la profondità della sua scienza, ma anche il gusto del suo stile limpido e chiaro, che sembra sorgere dagli stessi luoghi di cui descrive la natura. Ritengo che don Eduardo sia uno dei grandi scrittori in castigliano del Novecento, perché con la magia delle sue parole sapeva far germogliare la vita dalle rocce che tanto ha amato. Detto di passaggio, Herr/don Hugo e don Eduardo non si amavano molto in vita, ma io ho affiancato le loro opere che convivono in perfetta armonia. Oltre a questi due testi classici ho collocato sulla mia scrivania un oggetto che in qualche modo vi ha a cqe' fare, anche se a prima vista non sembra. Si tratta della riproduzione di una figurina di pochi centimetri che rappresenta la testa di una donna con i capelli raccolti in cima. L'originale fu scolpito in avorio circa 25.000 anni fa a Dolnì Vèstonicè (Moravia, Repubblica Ceca). La testa è molto bella, tuttavia io non vi vedo soltanto un'opera d'arte, ma anche una manifestazione di un tipo di comportamento esclusivamente umano. Mi riferisco alla capacità di comunicare mediante simboli, di creare un linguaggio con immagini o suoni, di inventare mondi fantastici e misteriosi, di produrre universi inventati, tanto reali quanto la realtà stessa. I libri, la figurina e il computer su cui sto scrivendo provengono dalla stessa fonte. La mente creativa, il comportamento simbolico in generale, è anche uno dei temi principali del libro e una 17
delle chiavi per comprendere il tramonto dei Neandertaliani e la causa della nostra attuale e assoluta solitudine. Al momento di scrivere su simili argomenti, tuttavia, mi sono trovato di fronte a una difficoltà che si presentava come insuperabile: quella di tradurre in un linguaggio comune le elucubrazioni dei ricercatori nel campo della mente dell'uomo odierno e dell'uomo preistorico. Vi sono molti libri sull'argomento, ma sono pochi quelli di facile lettura. Devo ammettere che a volte anche tanto gergo psicologico mi è risultato eccessivamente artificioso. Non ci sarà una forma più semplice, più naturale anche, di spiegare le cose? Credo di aver trovato la risposta fuori dal campo scientifico, nel territorio della metafora. La chiave era in alcune righe del grande storico delle religioni Mircea Eliade, che ho trovato citate in un articolo di Eduardo Martinez Pis6n (e che riporto all'inizio dell'ultimo capitolo); in queste righe Mircea Eliade spiega come il mondo "parlava" all'uomo "arcaico" nell'era delle società mitiche. La stessa metafora volta direttamente al cuore come una freccia scoccata dalla penna di Venceslao Fernandez Fl6rez nella sua opera El bosque animado. In due occasioni mi sono permesso di copiare alcuni paragrafi di questo libro emozionante. Ho attinto anche a testi di altri autori, a cominciare da Shakespeare e da Pio Barroja, per accompagnare le mie parole. Non sono semplice arricchimento, servono invece a veicolare le idee (e, naturalmente, se queste non sono valide nulla è attribuibile alle fonti). In fin dei conti, poeti e paleoantropologi condividono lo stesso oggetto di studio: la natura umana nella sua dimensione più profonda e più misteriosa. Alla fine del prologo del libro di Obermaier El hombre f6sil si legge: "che la Spagna racchiuda tali tesori di documenti fossili umani da promettere che gli studi sul Quaternario vi raggiungeranno un livello tanto elevato quanto, forse, nessun altro paese europeo, è un fatto. Per questo provo una grande soddisfazione e nutro un grande interesse per le future ricerche dei miei amici e colleghi e sono certo che molto presto il sesto capitolo di questo libro [La penisola iberica nel Quaternario] si trasformerà in un volume corposo e ricco, che potrà portare il titolo Espana cuaternaria". Obermaier aveva visto giusto: oggi la penisola iberica occupa un posto privilegiato nella preistoria europea, come spero di dimostrare nelle pagine che seguono.
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Parte prima
Ombre del passato
1.
La specie solitaria L'Uomo, quale la scienza riesce oggi a ricostruirlo, è un animale come gli altri, così poco separabile anatomicamente dagli Antropoidi che le moderne classificazioni della zoologia, ritornando alla posizione di Linneo, lo includono con questi nella stessa superfamiglia degli Ominoidi. Ora, se dobbiamo giudicare in base ai risultati biologici della sua apparizione, non è forse l'uomo qualche cosa di completamente diverso? Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano
Così uguali, così diversi Siamo rimasti soli al mondo. Non esiste alcuna specie animale che possa dirsi simile alla nostra. Siamo unici. Un abisso ci separa nel corpo e soprattutto nella mente dalle altre creature viventi. Nessun altro mammifero è bipede, nessuno controlla e utilizza il fuoco, nessuno scrive libri, nessuno viaggia nello spazio, nessuno dipinge quadri e nessuno prega. Non si tratta soltanto di una questione di sfumature, ma di tutto o niente: vale a dire, non ci sono animali parzialmente bipedi,. che alimentino piccoli fuochi, che scrivano frasi brevi, che costruiscano rudimentali navi spaziali, e che disegnino un pochino o preghino ogni tanto. Questa assòluta originalità insita nella nostra specie non è frequente nel mondo vivente. In generale, qualsiasi specie fa parte di un gruppo di specie simili. Si osserva così una continuità nella natura da una specie all'altra. Tuttavia tale continuità viene meno tra i grandi gruppi di organismi. Attualmente non esiste una forma intermedia tra gli uccelli e i rettili o tra i rettili e i mammiferi. Neppure gli anfibi possono essere considerati mezzi pesci e mezzi rettili. Nelle classificazioni tradizionali a ciascuna di queste forme distinte di vertebrati si attribuisce la categoria di classe, a eccezione dei pesci che in realtà costituiscono tre classi distinte: quella dei pesci ossei (i pesci "normali"), quella dei pesci cartilaginei (come gli squali e le razze) e quella delle lamprede (una classe molto ridotta attualmente, ma che è stata la prima a comparire). I vertebrati rappresentano la maggioranza delle specie del grande insieme dei cordati, cui si attribuisce la categoria superiore di phylum, che è la più alta nella gerarchia degli animali secondo il sistema di classificazione usato in biologia sin dai tempi di Linneo. A loro volta i cordati sono radicalmente diversi dai vari tipi di 21
invertebrati, come le spugne, i coralli, gli echinodermi (il gruppo dei ricci e delle stelle di mare), gli anellidi (i lombrichi, per esempio), gli artropodi (insetti, crostacei, ragni), i molluschi (bivalvi, chiocciole, polipi) e molti altri tipi o phyla (plurale di phylum) meno noti di invertebrati. Ognuna di queste grandi categorie è morfologicamente isolata dalle altre. · L'antica dottrina religiosa dell'origine divina delle specie non forniva una spiegazione soddisfacente alla coesistenza nella biosfera di specie che formano gruppi, i quali a loro volta appartengono a gruppi più ampi che presentano enormi differenze di struttura. Dio era forse un artista con un'immaginazione così scarsa da essere capace di inventare un piccolo numero di modelli, a partire dai quali si è visto costretto a sviluppare delle varianti? La teoria dell'evoluzione fornisce una risposta diversa, e più convincente, a questo problema: le specie simili discendono da un antenato comune vicino nel tempo, vale a dire, sono strettamente imparentate. Per contro, i grandi gruppi (phyla) di organismi superiori si sono originati moltissimo tempo prima e hanno antenati comuni molto remoti. Dopo periodi di evoluzione indipendente così protratti, è logico che divergano. I primi vertebrati fossili hanno più di 450 milioni di anni, più di 350 i primi anfibi, più di 300 i primi rettili, più di 220 i primi mammiferi, e più di 150 i primi uccelli fossili. Tuttavia, a partire dalla comparsa degli uccelli levoluzione non ha prodotto alcuna novità davvero spettacolare. Ha forse esaurito la sua capacità di innovazione? A dire il vero, non esiste alcun metodo preciso per decidere quando dare a un gruppo di specie la gerarchia di phylum e quando quella di classe o un'altra inferiore. È sottinteso che un phylum è una categoria importante che corrisponde a una struttura biologica originale e molto diversa da qualsiasi altra forma di organismo dello stesso regno. Evidentemente un nuovo phylum può emergere in qualsiasi momento della storia dell'evoluzione, giacché non vi è alcun motivo per ritenere che le cose importanti siano successe soltanto in un passato remotissimo. Il motivo per cui in zoologia i mammiferi non costituiscono un phylum proprio, ma solo una classe, risiede nel fatto che oggi esistono altri organismi con scheletro, con i quali ci ritroviamo nel phylum dei cordati. Ma questo non significa che i mammiferi non rappresentino un tipo biologico realmente originale. In qualche modo, la stessa cosa accade a noi umani che, tramite lo sviluppo della nostra intelligenza, siamo entrati in una nuova dimensione della biologia. Il paleontologo e filosofo francese Pierre Teilhard de Chardin era convinto che ci spettasse la categoria di phylum. Visto che siamo così differenti dal resto dei mammiferi, significa che per molto tempo ci siamo evoluti separatamente? Asso22
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Figura 1. Cromosoma 4. L'affinità genetica tra scimpanzé comuni, gorilla, orangutan e umani non lascia dubbi sul profondo legame di parentela esistente tra tutte queste specie, anche se nello scimpanzé si è prodotta un'inversione in una parte del cromosoma.
lutamente no. La nostra stirpe non è affatto tra le più vecchie: non va oltre i cinque o sei milioni di anni. Da quel mom~nto si separano le linee che hanno dato luogo da un lato agli scimpanzé e dall'altro alla nostra specie. La divisione della linea dei gorilla è di poco precedente. Come si spiega allora il baratro che ci divide dalle altre creature? La risposta è duplice: da un lato, in alcune caratteristiche siamo evoluti molto in fretta, cambiando molto in poco tempo; dall'altro lato, tutte le forme intermedie (vale a dire con caratteristiche intermedie) tra noi e gli scimpanzé sono scomparse. Ho iniziato questo capitolo ricordando alcune delle principali differenze tra l'essere umano e il resto degli animali. Tra queste solo la posizione eretta è un tratto morfologico, le altre sono tutte di altra natura e, in definitiva, sono connesse molto direttamente con un unico organo del nostro corpo: il cervello. È possibile, dopo tutto, che non siamo così diversi dagli scimpanzé? A dire il vero, ciò che ci separa è solo 1'1,6 per cento circa dei nostri 60.000-80.000 geni. Anzi si valuta che i geni responsabili delle 23
differenze cognitive tra loro e noi non siano più di 100, forse 50. Un cambiamento genetico piccolo, ma non insignificante, anzi molto significativo, ci ha trasformato in una specie radicalmente diversa da tutte le altre, con proprietà mentali uniche, e non in una mera variante del già noto e sovente ripetuto. Non siamo un'ulteriore specie di scimpanzé, ma qualcosa di molto diverso. Tuttavia, lo zoologo classifica le specie animali per la loro morfologia e, nei tempi moderni, anche per i loro geni; così, perché per un attimo non ci dimentichiamo della nostra mente e ci paragoniamo agli altri animali dal punto di vista della morfologia? Mettiamoci nella sala di dissezione del laboratorio ed esaminiamo i cadaveri, puri corpi, delle varie specie di primati.
Un corpo senza mente Lo schema nella metà superiore della figura 2 mostra quali sono i nostri parenti più prossimi. Il più vicino è lo scimpanzé o meglio le due specie di scimpanzé esistenti. Un poco più discosto c'è il gorilla e più lontano ancora lorangutan. All'interno di questo gruppo, i piccoli gibboni sono i nostri parenti più lontani, come facilmente può capire chiunque li veda in uno zoo. Scimpanzé, gorilla e orangutan hanno una certa affinità e, classicamente, si raggruppavano in una stessa famiglia, la famiglia dei pongidi. I gibboni a volte venivano inclusi nei pongidi, a volte in una famiglia a se stante, gli ilobatidi. Infine, la specie umana era l'unica della sua famiglia, quella degli ominidi. In inglese vi è un termine comune per tutti i pongidi (compresi i gibboni) ed è apes, che possiamo considerare equivalente ad "antropomorfi". Ominidi e antropomorfi, ci classifichiamo tutti insieme nell'ordine dei primati. Questo schema, che mostra le relazioni evolutive di un insieme di primati, è un dendrogramma, o diagramma ad albero. Poiché tutte le specie sono contemporanee e non ve n'è nessuna fossile, l'albero non si può considerare una genealogia di specie o filogramma: mancano i nomi di tutti gli antenati, anche se gli avi comuni a due o più specie attuali sono rappresentati dai punti di ramificazione (nodi o collegamenti: A, B, C, D, E). Nel dendrogramma le specie si uniscono tra loro in una sequenza determinata, che rappresenta l'ordine secondo il quale sono andate verificandosi nel tempo le successive separazioni delle linee evolutive. Quanto più un punto di ramificazione è alto, tanto più è recente. In questo caso, la più moderna di tutte le separazioni è la suddivisione degli scimpanzé in due specie (E), che, da circa due milioni e mezzo di anni, vivono separate dal fiume Congo. Il dendrogramma non contiene ulteriori informazioni e può essere disegnato in molti modi diversi senza che nulla cambi. 24
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Scimpanzé pigmeo
Figura 2. Due cladogrammi equivalenti degli ominoidei attuali.
In realtà il dendrogramma nella metà inferiore della figura 2 è lo stesso di quello della metà superiore, benché la posizione in cui compare la specie umana sia notevolmente cambiata. Ora non si trova a un'estremità, ai margini degli altri primati, bensì in mezzo a loro. Si comprende così come la separazione tra pongidi e ominidi fosse artificiosa, perché in realtà scimpanzé e gorilla sono più vicini a noi, quanto a parentela, di orangutan e gibboni. Detto altrimenti, umani, scimpanzé e gorilla hanno un antenato comune, una sorta di "nonno" (C), da cui non discendono gli orangutan e i gibboni. Inoltre, anche l'antenato comune di tutti i pongidi, l'ipotetico A, fondatore della dinastia, era nostro avo. Se fossimo coerenti, dovremmo autodefinirci pongidi. L'unica alternativa possibile è considerare umani i pongidi. Dovremmo per questo concedere loro anche "diritti umani"? Tutto ciò che abbiamo affermato sinora colpisce molto l'attenzione perché rende evidente il fatto che parentela evolutiva e somiglianza morfologica non sono necessariamente la stessa cosa: lo scimpanzé, dal punto di vista evolutivo, è più vicino all'uomo e, tuttavia, superficialmente, assomiglia di più al gorilla e anche all'orangutan. È stato soprattutto lentomologo tedesco Willi Hennig a spiegare che, per stabilire relazioni evolutive tra le specie, non possiamo basarci esclusivamente sull'apparenza, ma dobbiamo andare con i piedi di piombo. Una simile scoperta, apparentemente semplice, è tutt'altro che ovvia, poiché contraddice la logica apparente che le specie più simili tra loro vadano classificate insieme. Solo i grandi scienziati sono in grado di vedere dietro le apparenze e scoprire ciò che noi mortali non riusciamo a scorgere neanche se ce l'abbiamo sotto il naso. Un caso simile a quello degli umani, benché su scala assai più ampia, si verifica con gli uccelli, che costituiscono un gruppo una classe - ramificato in numerose specie. I parenti più prossimi degli uccelli sono i dinosauri, e in particolare alcuni piccoli dinosauri bipedi e carnivori all'interno del gruppo dei teropodi (gruppo cui appartenevano anche altri dinosauri molto più grandi e conosciuti, come i tirannosauri). Per questo, sarebbe meglio affermare che gli uccelli sono dinosauri viventi, gli unici rimasti; ve ne sono grandi come gli struzzi - ma gli uomini ne hanno conosciuti anche di dimensioni maggiori - e piccoli come i colibrì. Gli uccelli non sono neppure gli unici dinosauri piumati, bensì uno dei gruppi di dinosauri teropodi con piume. È probabile che anche i famosi Velociraptor del film Jurassic Park non avessero il corpo ricoperto di squame, ma di piume; ed è anche possibile che, come gli uccelli, fossero endotermi, vale a dire, a "sangue caldo": a quanto pare, le piume sono un adattamento che.contribuisce a mantenere costante la temperatura corporea, costituendo un magnifico isolante termico. Se tutti i mammiferi scompa26
rissero eccetto i pipistrelli, ci troveremmo di fronte a un caso analogo a quello degli uccelli: l'ipotetico osservatore di una simile catastrofe potrebbe contemplare soltanto mammiferi volanti. Gli uccelli sono isolati rispetto agli altri vertebrati da quando, 65 milioni di anni fa, un'ecatombe ha sterminato tutti i dinosauri o, se si preferisce, i dinosauri che non erano uccelli. Tuttavia, il nostro isolamento è molto più recente, perché "eravamo" ancora antropomorfi 7 milioni di anni fa; in realtà non "eravamo" proprio niente, perché a quel tempo non si erano prodotte le due ramificazioni successive che avrebbero separato le linee dei gorilla, degli scimpanzé e degli umani. Ma, se lo studio dei corpi senza mente ci insegna qual è il nostro posto tra i primati, ci mostra anche che siamo differenti dai nostri parenti più prossimi, gli scimp~nzé, perché noi siamo bipedi e loro quadrupedi, e tutto il nostro corpo e il nostro scheletro riflettono tale differenza nella locomozione. Parliamo ora di fossili, per tentare di colmare lo spazio morfologico che ci separa dagli scimpanzé.
Uomini-scimmia Nel dendrogramma della figura 3 i nomi comuni delle specie sono stati sostituiti dai nomi scientifici in latino: Pan paniscus e Pan troglodytes nel caso degli scimpanzé, Gorilla gorilla, per il gorilla, e Homo sapiens per la nostra specie. Tra gli scimpanzé e l'uomo compaiono quattro nuove specie: Ardipithecus ramidus, Australopithecus anamensis, Australopithecus afarensis e Australopithecus africanus. Nessuna di queste esiste attualmente, perché scomparvero più di due milioni di anni fa. Si tratta di specie di ominidi, vale a dire che appartengono alla nostra linea evolutiva o stirpe, poiché sono posteriori alla ramificazione che ha separato il nostro destino evolutivo da quello degli scimpanzé. Si osservi che nel dendrogramma non compare alcuna specie fossile di scimpanzé. Il motivo è che non se ne conosce alcuna. Tuttavia, non dobbiamo aspettarci che scimpanzé fossili vengano a colmare il vuoto che ci separa dai loro discendenti vivi: per questo non sono importanti in questa discussione, perché nessuno ritiene che in passato vi siano stati scimpanzé più bipedi o più intelligenti degli attuali. Ciò di cui abbiamo bisogno sono forme in qualche modo intermedie, "anelli perduti" nella retorica tradizionale, o, per dirla più schiettamente: "uomini-scimmia". Nella figura 3 vediamo uno schema contenente sia specie fossili sia viventi, ma tutte vi compaiono alla medesima altezza, per cui non si tratta di un filogramma o genealogia di specie. Nessu27
Figura 3. Cladogramma comprendente le specie di australopitechi.
na specie è vista come antenata di un'altra. Il dendrogramma esprime invece i differenti gradi di relazione evolutiva o parentela tra le diverse specie. Gli ominidi fossili sono stati posti intenzionalmente tra gli scimpanzé e gli esseri umani. Abbiamo già visto in precedenza come la posizione da destra e sinistra dei rami del dendrogramma sia irrilevante e come l'importante sia il modo in cui le specie si relazionano tra loro in basso; per questo la posizione intermedia degli ominidi fossili è puramente arbitraria dal punto di vista delle relazioni filogenetiche (vale a dire evolutive). Tuttavia, dal punto di vista morfologico, le quattro specie di ominidi fossili occupano davvero il posto, a lungo cercato, di "anelli perduti", anche se tali anelli non sopravvivono in alcuna sperduta selva, bensì si sono perduti nel tempo, e nel tempo è molto più difficile andarli a cercare. Per dirla in altre parole, l'unica caratteristica umana che questi ominidi fossili presentavano (e magari neanche tutti) era la postura eretta, il bipedismo o bipedalismo, vale a dire, quello che è unanimemente considerato il meno "nobile" tra i segni di identità. Anche la loro mente era quella di una scimmia, la mente di un antropomorfo come gli attuali scimpanzé. Erano quindi ominidi nel senso che appartenevano alla nostra stessa famiglia zoologica, ma non erano ancora umani. 28
Ardipithecus ramidus visse nella zona dell'attuale Etiopia quasi quattro milioni e mezzo di anni fa. Negli ultimi anni l'équipe del paleoantropologo Tim White ha scoperto numerosi fossili di questa specie, quasi tutti ancora oggetto di ricerca. Non si conoscono neppure i risultati dello studio dello scheletro corporeo (o scheletro distale dal cranico). Stabilirne il tipo di locomozione è frutto di pure ipotesi. Si tratta senza dubbio di un ominide assai primitivo, che viveva nella foresta pluviale, come gli attuali gorilla e scimpanzé. Dal tipo di dentizione si è dedotto che si cibava degli stessi vegetali degli scimpanzé, vale a dire, frutta, germogli, fusti teneri e foglie fresche. Sappiamo che trascorreva molto te~po in cima agli alberi, per mangiare e per dormire, anche se, per il momento, non si sa come si spostasse da un albero all'altro. Ardipithecus ramidus, tuttavia, presentava una caratteristica che lo collega agli umani e non agli scimpanzé: i canini avevano cominciato a rimpiccolirsi. Per questo unico tratto la specie Ardipithecus ramidus è collocata tra gli ominidi. Al lettore può risultare alquanto oscuro l'utilizzo di dendrogrammi per spiegare l'evoluzione umana, in luogo del classico albero di specie o filogramma. Mi affretto ad annunciare che in un prossimo capitolo il lettore troverà uno di questi filogrammi, quello che mi piace di più, ma è meglio che non sfogli ancora le pagine per andarlo a cercare. In realtà, i dendrogrammi che ho presentato qui sono del tipo speciale detto cladogramma, per costruire il quale si seguono i principi della scuola sistemica di Willi Hennig, chiamata comunemente cladistica appunto perché classifica le specie in gruppi naturali o dadi. Secondo tale scuola, è impossibile raggiungere la certezza che una specie fossile sia l'antenata di un'altra, fossile o vivente, poiché nessuno è in grado di ripercorrere a ritroso l'intero corso dell'evoluzione. I:unico elemento che si può stabilire scientificamente è il grado di parentela tra le specie, così come è rappresentato nel cladogramma. Secondo i cladisti, gli alberi evolutivi sono pura speculazione, priva di rigore scientifico. Ciò non significa che i cladisti neghino l'evoluzione, anzi, è proprio il contrario, visto che si considerano i più fedeli seguaci delle idee di Darwin. Semplicemente rinunciano a spingersi oltre la costruzione di cladogrammi, nell'elaborare i quali utilizzano soltanto informazioni provenienti dalla morfologia. Per questo è indifferente che una specie sia fossile o vivente, provenga dall'Africa o dall'Australia. Personalmente non sono un cladista di stretta osservanza e sono convinto che l'antichità dei fossili e la loro origine geografica siano dati scientifici da tenere in grande considerazione nelle nostre analisi sull'evoluzione umana. Quando si riassumono in un cladogramma consentono di costruire quello che si definisce 29
uno "scenario evolutivo", che consiste in un'esposizione o racconto dell'evoluzione di un gruppo, in cui intervengono tutti i frammenti di informazione di cui disponiamo, come tenterò di fare in questo libro. Nel nostro caso, nell'elaborare la narrazione, interviene, e molto, anche la documentazione archeologica, assieme a ciò che sappiamo del clima e delle caratteristiche degli ecosistemi in cui gli ominidi hanno vissuto, oltre che le nostre conoscenze sugli ominidi stessi. Benché la veridicità di un determinato scenario evolutivo non possa essere dimostrata, i differenti elementi su cui si basa possono, invece, essere confermati o smentiti con nuove prove. Se i cambiamenti che vanno producendosi in virtù delle successive scoperte sono sostanziali e numerosi, sarà necessario scrivere un libro diverso. Avrò tempo di prendere in considerazione questa possibilità tra qualche anno; e magari tra non molti, dato il ritmo con cui progredisce la paleoantropologia. Attualmente possiamo affermare che Ardipithecus ramidus era un ominide molto antico e primitivo dell'Africa orientale e che noi discendiamo da questa specie, o da una specie simile, vissuta circa quattro milioni e mezzo di anni fa probabilmente in Africa orientale. Delle caratteristiche della specie sapremo molto di più tra qualche tempo: bisogna avere un po' di pazienza. :Lominide fossile successivo è Australopithecus anamensis, di cui possediamo una manciata di fossili provenienti dal Kenya, rinvenuti dall' équipe di Meave Leakey nel bacino del Lago Turkana, nelle località di Kanapoi (sponda occidentale) e di Allia Bay (sponda orientale). Tutti i fossili di Kanapoi (meno una mandibola) sono stati datati recentemente con molta precisione tra i 4, 17 e i 4, 7 milioni di anni fa. Questa specie presenta alcuni molari più grandi e con smalto più consistente rispetto a quelli di Ardipithecus ramidus; ciò significa che, oltre a frutta tenera, ingerivano anche qualche alimento vegetale, per il quale necessitava una masticazione prolungata, che provocava un'intensa usura delle corone dentali. Questi prodotti vegetali duri e abrasivi probabilmente erano costituiti da semi e frutta secca. Inoltre, si ritiene che si servissero anche di strutture sotterranee per immagazzinare piante, quali bulbi, tuberi, radici e rizomi; le particelle minerali che si mettevano in bocca assieme ai vegetali sotterrati avrebbero contribuito ad arrotarne e quindi usurarne i denti. Tutti i prodotti vegetali citati si trovano in boschi più asciutti delle foreste pluviali abitate dai presunti antenati della specie Ardipithecus ramidus; per questo si ritiene che Australopithecus anamensis abbia cambiato habitat o meglio che il suo habitat sia cambiato, diventando più secco. A Kanapoi, inoltre, è stata recuperata una tibia abbastanza completa (manca soltanto il terzo centrale), a partire dalla quale si è giunti alla conclusione 30
che questi ominidi erano bipedi. In mancanza di un'altra specie della stessa epoca, possiamo affermare provvisoriamente che si tratta dei nostri antenati; in ogni caso noi proveniamo da alcuni ominidi dello stesso tipo di Australopithecus anamensis. Ma i primi fossili di questa specie sono più moderni dei fossili di Ardipithecus ramidus di soli duecentomila anni, il che pone un interessante interrogativo: è sufficiente questo lasso di tempo affinché si producano i consistenti cambiamenti anatomici ed ecologici che vanno da Ardipithecus ramidus ad Australopithecus anamensis? Forse sì e forse no, perché l'evoluzione non avanza a ritmo costante: a volte procede molto rapidamente e altre volte sembra arenarsi. Ciò nonostante, quel che è certo è che, se in futuro si troveranno resti di Australopithecus anamensis risalenti a 4,4 milioni di anni fa, Ardipithecus ramidus smetterà di essere considerato il nostro antenato e sarà visto come un ramo laterale dell'evoluzione umana che non è approdata a nulla. Tra i 4 e i 2,9 milioni di anni fa visse un'altra specie di ominide nota come Australopithecus afarensis. I suoi resti sono stati trovati in Tanzania e soprattutto in Etiopia, nella regione degli Afar; il protagonista principale di queste scoperte è Donald Johanson. Poiché ne possediamo una documentazione più ampia delle precedenti, questa specie è perfetta per conoscere questi ominidi primitivi. Le caratteristiche dentali continuano a rinviare a un'alimentazione quasi completamente vegetariana in un bosco secco inframmezzato di radure. La postura era eretta, benché le braccia fossero lunghe in rapporto alle gambe: potevano ancora arrampicarsi molto agilmente sugli alberi. Australopithecus afarensis era una specie di dimensioni piccole in confronto alla nostra, appena più grande degli scimpanzé. I maschi probabilmente erano alti 135 cm, o poco più, e pesavano 45 kg circa, e la taglia media delle femmine doveva essere di 105 cm di altezza e circa 30 kg di peso o qualcosa in meno. In base a queste stime, la differenza tra i due sessi era più pronunciata di quanto non sia tra gli uomini e gli scimpanzé, ma più vicina ai gorilla: in questi australopitechi il peso dei maschi era una volta e mezza (1,5) quello delle femmine, nei gorilla è 1,6; 1,3 nello scimpanzé comune e 1,2 nella specie umana. Le due star tra i fossili della collezione di Australopithecus afarensis sono uno scheletro femminile molto completo soprannominato Lucy e un cranio maschile pressoché integro. Il volume del cervello di questo cranio è stato valutato in qualcosa di più di 500 cc. Un secondo cranio, più incompleto, sembrerebbe possedere una capacità nettamente inferiore ai 400 cc. Apparentemente si tratta di una specie di ominidi con un cervello solo di poco più voluminoso di quello degli scimpanzé, che in media si avvicina ai 400 cc. Poiché il peso del corpo è simile, neppure in 31
termini relativi si può attribuire ad Australopithecus afarensis un cervello molto più grande, né una mente con capacità superiori a quelle degli scimpanzé. La dimensione del cervello umano varia da persona a persona e a seconda dei popoli: infatti, essendo in definitiva un organo del corpo, dipende in parte dalle dimensioni di quest'ultimo. In generale per la nostra specie si dà il dato medio di 1350 cc, anche se i milioni di esseri umani e i differenti popoli fanno sì che questo dato sia solo una convenzione. Comunque sia, il cervello umano femminile non raggiunge i 1300 cc e quello maschile supera i 1400 cc. Questo non significa che gli uomini siano più intelligenti delle donne, come vedremo al momento opportuno. D'altro canto, circa il 10 per cento degli esseri umani del nostro tempo hanno un cervello inferiore ai 1100 cc o superiore ai 1600 cc, e sono del tutto normali. Ancora una volta, e come accade con le specie che precedono gli ominidi, non è possibile essere certi che Australopithecus afarensis sia un nostro antenato diretto. Alcuni autori ne sono convinti, altri no, come vedremo in seguito. Tuttavia, questa apparente confusione che circonda sempre l'evoluzione umana non è così grave come potrebbe sembrare. In primo luogo perché chi vuole verità assolute, dogmi indiscutibili e inamovibili deve volgersi in un altrove che non è la scienza. La scienza si limita a formulare ipotesi, incerte approssimazioni alla verità, che possono sempre essere modificate in toto o parzialmente dalla forza dei fatti: ma questo è ciò che di meglio la mente umana è capace di creare. In secondo luogo perché, salvo che per la vanità dei suoi scopritori, non è tanto importante che Australopithecus afarensis si collochi nella linea evolutiva diretta che porta agli uomini: possiamo essere ragionevolmente sicuri di avere un antenato sostanzialmente simile ad Australopithecus afarensis, vissuto in Africa tra i 3 e i 4 milioni di anni fa. È questo ciò che importa davvero. Recentemente il paleontologo francese Michel Brunet ha rinvenuto nel Ciad, nel cuore dell'Africa, resti di Australopithecus della stessa era, e questo mi ha indotto a essere prudente e a scrivere, come ho fatto più sopra, che il nostro antenato è vissuto in Africa, e non necessariamente nell'Africa orientale, come avrei scritto qualche anno fa. Il successivo ramo del cladogramma che porta nella nostra direzione corrisponde ad Australopithecus africanus. I suoi fossili risalgono a 3 e qualcosa meno di 2,5 milioni di anni fa, equesta volta non sono originari dell'Africa orientale, bensì di tre grotte sudafricane: Taung, Sterkfontein e Makapansgat. Fisicamente erano simili ad Australopithecus afarensis, e il loro cervello non sembra essere aumentato, almeno non in maniera apprezzabile. I tre crani meglio conservati, tutti del Member 4 di Sterkfontein, presentano le seguenti capacità: 375 cc, 485 cc e 515 cc. I:ultimo 32
cranio dà l'impressione di avere un gran cervello, tanto che si è giunti ad affermare che la sua capacità cranica supererebbe i 600 cc. Ma l'esemplare è deformato dalla pressione del sedimento, come la maggior parte dei fossili delle grotte africane, per cui è necessaria una ricostruzione per correggere la deformazione del fossile. Glenn Conroy e altri colleghi sono ricorsi a una tecnica moderna di radiografia medica sempre più utilizzata con i fossili umani. Si tratta della tomografia assiale computerizzata (Tac), che consente di procedere a radiografie multiple e in serie molto ravvicinate, come se si sezionasse il fossile in fette sottili. Quindi le immagini bidimensionali vengono inserite nel computer e con programmi adeguati si realizza una restituzione tridimensionale dell'oggetto, che si può modificare a video per correggere la deformazione, come nel caso descritto. Poi è possibile realizzare misurazioni quali il volume del cervello. In tal modo si è giunti a un dato tra i 500 e i 530 cc che, nonostante tutto, alcuni autori ritengono prudente considerare un valore minimo. Nell'ottobre 1998 l'esperto paleoantropologo Phillip Tobias, ex direttore degli scavi di Sterkfontein, e Ron Clarke, suo collaboratore da una vita e attuale direttore dei medesimi scavi, hanno reso nota la scoperta di uno scheletro pressoché completo, rinvenuto in un livello profondo del giacimento (il Member 2); lo scheletro in questione potrebbe essere antico tanto quanto Lucy - che ha 3,2 milioni di anni - o anche antecedente e potrebbe risalire sino a 3,5 milioni di anni. Le circostanze che hanno preceduto l'annuncio della scoperta sono rocambolesche, come accade a volte nel mondo della paleoantropologia. Nel settembre 1994 Ron Clarke identificò, tra i fossili animali estratti dal giacimento due anni prima, alcuni elementi del piede sinistro dello scheletro in questione, che fu così battezzato Little Foot ("Piccolo piede"). Clarke e Tobias individuarono in esso tratti assai primitivi, condivisi con gli scimpanzé e tipici di un animale almeno parzialmente arboricolo, elemento che altri mettono in discussione. Nel maggio 1997 Ron Clarke si imbatté in laboratorio in altri resti dello stesso piede. Tra questi resti si trovavano anche le estremità inferiori della tibia e del perone sinistri, assieme all' estremità inferiore della tibia destra e un osso del piede dello stesso lato, ugualmente appartenenti all'individuo Little Foot. In seguito, nel giugno 1997, i collaboratori di Clarke che lavoravano al giacimento ricevettero istruzioni per tentare una missione impossibile: cercare nelle pareti della grande, profonda e buia grotta un osso spezzato che si incastrasse con il frammento recuperato della tibia destra di Little Foot (insomma, come cercare un ago in un pagliaio). A dispetto di ogni previsione, ci riuscirono nel giro di soli due giorni! Little Foot resta ancora in gran parte conficcato nella roccia, giacché nella grotta di Sterkfontein i fos-
sili e la roccia dura al cui interno si è formato il minerale costituiscono un blocco unico; ma si vede già che il cranio è intero. Bisognerà attendere per sapere di che ominide si tratti, per trovare conferma della sua antichità e avere prove delle sue presunt~ caratteristiche arboricole. Sarà un'attesa emozionante, perché se lo scheletro è davvero contemporaneo di Australopithecus afarensis, e di una specie diversa (forse una forma antica di Australopithecus africanus), potrebbe competere seriamente per il posto di predecessore di tutti gli ominidi successivi (cioè con meno di 3 milioni di anni); tra questi ci siamo noi.
Siamo quello che mangiamo Benché si ritenga che vivesse in un ambiente forestale non molto diverso da quello di Australopithecus afarensis, Australopithecus africanus aveva molari più grandi, a indicare che la sua alimentazione richiedeva una masticazione più prolungata: apparentemente si basava su prodotti vegetali, anche se più duri di quelli ingeriti dai suoi antenati. Ma esiste un modo per conoscere direttamente l'alimentazione degli ominidi fossili? Qualsiasi elemento chimico può presentarsi sotto forme diverse, chiamate isotopi. Per esempio, nelle nostre ossa si trova carbonio del tipo C 12 e, in misura assai minore, C13 , conosciuto come carbonio pesante. La differenza tra i due consiste nel fatto che il carbonio pesante ha tredici neutroni nel nucleo e il carbonio leggero dodici. Matt Sponheimer e Julia Lee-Thorp hanno condotto un magnifico studio sui rapporti tra carbonio pesante e carbonio leggero nella comunità fossile del giacimento di Makapansgat, che risale a circa 3 milioni di anni fa e comprende rappresentanti del1'ominide Australopithecus africanus. In Africa gli alberi e gli arbusti conservano meno carbonio pesante delle erbe dei pascoli aperti. Per questo gli ungulati che consumano tali erbe accumulano in proporzione più carbonio pesante di quelli che mangiano le foglie degli alberi. I due studiosi, analizzando lo smalto dei denti fossili, hanno trovato che, come ci si poteva aspettare, gli australopitechi avevano meno carbonio pesante degli animali da pascolo come le antilopi e gli Hipparion (equidi con tre dita alle estremità, invece di uno come nei cavalli); tuttavia gli australopitechi avevano più carbonio pesante degli abitanti del bosco, come le antilopi con le corna a spirale, tipo il cudù. È possibile che gli australopitechi di Makapansgat, oltre ai frutti carnosi e alle foglie tenere degli alberi, consumassero anche le radici e sementi delle alte erbe della savana. Oppure che si cibassero di insetti che si nutrivano di erbe simili e di animali che pascolavano 34
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Figura 4. Cladogramma degli ominidi. Per semplificare, i parantropi non sono stati inclusi nel cladogramma.
in campo aperto: è possibile che uccidessero animali da latte o andassero in cerca di carogne. L'aumento della dimensione dei molari che si individua in Australopithecus afarensis rispetto ad Australopithecus africanus mi fa pensare a semi, noci o a radici conservate sotto terra come riserva più che a prodotti animali; per consumare questi ultimi non sarebbe necessario aumentare la superficie atta alla masticazione, bensì dotarsi di strumenti per tagliare la carne e frantumare le ossa, elementi che non si sono mai reperiti in associazione a questi australopitechi. In ogni caso, da quanto ci dicono gli isotopi stabili del carbonio, si potrebbe dedurre che gli australopitechi di Makapansgat non vivevano chiusi nel bosco fitto e frequentavano anche ambienti più vasti. Quasi umani
Nel cladogramma della figura 4 ho inserito altri due rami tra gli australopitechi e noi. Entrambi rappresentano membri del nostro stesso genere: sono, come l'uomo odierno, Homo. Il più lontano da noi, il più vicino agli australopitéchi, corrisponde a 35
una specie chiamata Homo habilis, la prima del genere. È documentata dall'Etiopia (valle del fiume Omo e Radar), al Kenya (Lago Turkana) e alla Tanzania (canyon dell'Olduvai), e va dai 2,3 milioni a 1,5 milioni di anni fa. È interessante considerare la distribuzione geografica delle ultime tre specie di ominidi di cui abbiamo trattato, perché se volessimo far discendere Homo habilis da Australopithecus africanus e questo, a sua volta, da Australopithecus afarensis, dovremmo spostarci dall'Africa orientale (Australopithecus afarensis) al Sudafrica (Australopithecus africanus) per poi tornare all'Africa orientale (Homo habilis). I.:irruzione della biogeografia nel nostro scenario evolutivo ha suscitato un problema grave. Alcuni autori riconoscono fossili della specie Homo habilis nelle collezioni del Sudafrica: avrebbe potuto evolversi proprio qui a partire da Australopithecus africanus, per poi estendersi sino all'Africa orientale; ma io non riesco a vedere questi presunti Homo habilis sudafricani. Oltretutto i primi fossili di Homo habilis provengono dall'Etiopia. La mia ipotesi preferita è che in Africa orientale sia esistita, fra i 3 e i 2,5 milioni di anni fa, una specie prossima ad Australopithecus africanus, dalla cui evoluzione è sorto Homo habilis. Dopo aver terminato di scrivere questo libro, sono dovuto tornare a questa pagina perché l'équipe di Tim White ha individuato una nuova specie di ominide, chiamato Australopithecus garhi, a partire da resti cranici e dentali scoperti in Etiopia (all'interno del territorio Afar, nel corso medio del fiume Awash e non lontano dalle località in cui la stessa équipe aveva scoperto i fossili di Ardipithecus ramidus ). Tali resti risalgono a circa 2,5 milioni di anni fa e sembrano incastrarsi bene nel modello evolutivo che trovavo convincente, perché è ragionevole ritenere che i primi Homo habilis derivino da una specie di ominide del tipo di Australopithecus africanus, e che la loro origine si trovi in Africa, senza indicazione geografica precisa: oltre al Ciad, all'Africa orientale e al Sudafrica, un altro possibile scenario è il Malawi, situato tra le ultime due regioni. Tim Bromage e Friedemann Schrenk hanno trovato sulla sponda del Lago Malawi una mandibola risalente a circa 2,5 milioni di anni fa, che attribuiscono al genere Homo, benché io non ritenga certa neppure tale attribuzione. Il corpo di Homo habilis non era diverso da quello degli australopitechi: basso di statura, le braccia lunghe e le gambe corte. Per lo meno questo è ciò che sembra indicare lo scheletro più completo di cui disponiamo, proveniente da Olduvai (Tanzania) e trovato da Donald Johanson e Tim White. Un altro scheletro parziale, scoperto dall'équipe di Richard Leakey nel Lago Turkana, è simile. Dal punto di vista della morfologia non vi sono molti motivi per accettare Homo habilis nel nostro genere e sarebbe 36
più chiaro denominarlo "Australopithecus habilis": così il lettore saprebbe di che classe di ominidi stiamo parlando. Tuttavia non è molto chiaro se la sua mente fosse quella di un australopiteco, e quindi, in definitiva, la mente di una scimmia. In primo luogo in Homo habilis si osserva una certa espansione del cervello rispetto agli australopitechi. In un cranio proveniente dal Lago Turkana è stato rinvenuto un cervello più piccolo, di soli 510 cc. Quest'ultimo, in realtà, si differenzia poco da quello di alcuni Australopithecus africanus di Sterkfontein, anche se in alcuni particolari assai piccoli, esigui ma importanti, si rivela più vicino a noi. Altri quattro crani di Homo habilis possiedono un cervello un po' più grande: 582 cc, 594 cc, 638 cc e 674 cc (il primo proviene dal Lago Turkana e gli ultimi tre da 01duvai). Ciò nonostante vi sono dubbi profondi circa il modo in cui si sono ricostruiti i cervelli di questi fossili, che sono assai incompleti o deformati, per cui è probabile che nei prossimi anni le stime subiranno consistenti tagli in centimetri cubici. I cervelli in quanto tali non si conservano, a differenza della loro forma e dimensioni, ricostruibili in base alla cavità all'interno del cranio, l'endocranio, dove aveva sede il cervello; sarebbe meglio dire l'encefalo, perché, nonostante la maggior parte del1'endocranio corrisponda al cervello, vi hanno sede anche il cervelletto e il bulbo rachidiano. I paleontologi riempiono la cavità endocranica di gesso, silicone o lattice, ottenendo in tal modo una copia dell'encefalo di un ominide di vari milioni di anni. Di fatto è l'unico organo del corpo che, benché sotto forma di negativo, fossilizza. Per complicare la tassonomia - vale a dire la classificazione in specie - dei primi fossili del genere Homo, Richard Leakey ha trovato un cranio che non si colloca facilmente in questa storia. Leakey ha scoperto numerosi fossili famosi nella regione del Lago Turkana; inoltre è marito di Meave Leakey, di cui abbiamo già parlato. I genitori di Richard, Louis e Mary, furono i primi a effettuare ritrovamenti di fossili umani nell'Africa orientale e ottennero clamorosi successi nella gola di Olduvai, in Tanzania. Il cranio che viene a complicarci il racconto porta la sigla KNMER 1470, e la sua capacità cranica è nientemeno che di 752 cc. Potrebbe trattarsi di un grande maschio di Homo habilis, se consideriamo che tra i due sessi di questa specie vi era una pronunciata differenza, un accentuato dimorfismo sessuale, come quello degli australopitechi o anche maggiore. Ma, per accettare questa ipotesi, bisogna risolvere un problema, e cioè che la differenza tra il KNM-ER 1470 e gli altri fossili di Homo habilis non risiede soltanto nelle dimensioni, ma anche nella forma. Homo habilis presenta faccia e molari più piccoli rispetto ad Australopithecus africanus, tratti che lo avvicinano a noi. Tuttavia; ciò 37
che caratterizza il KNM-ER 1470, oltre alle dimensioni del cervello, è la sua faccia immensa e il suo possente apparato masticatorio (una strana combinazione di caratteristiche). Per questi motivi alcuni studiosi considerano il KNM-ER 1470 e alcuni altri fossili con grandi molari (come la mandibola del Malawi ricordata più sopra) una specie a parte (Homo rudolfensis). Homo habilis era un animale differente dagli ominidi che lo hanno preceduto anche in termini ecologici. È la prima specie a non essere completamente legata a un ambiente silvicolo: alla foresta pluviale, come nel caso di Ardipithecus ramidus, o a un bosco più secco e meno fitto, come per gli australopitechi. A quanto pare, Homo habilis ha abitato paesaggi molto più aperti, come le savane con alberi e cespugli, isolati o disposti a macchia tra grandi radure di formazioni erbacee. Tale mutamento ecologico riveste la massima importanza poiché apre la porta a cambiamenti anche maggiori che interverranno in seguito e che faranno sì che i discendenti di Homo habilis giungano a vivere in tutti i tipi di regioni, climi ed ecosistemi. Gli altri membri del nostro gruppo di primati, senza eccezione (gibboni, orangutan, gorilla e scimpanzé), e tutti i nostri antenati fino a questo momento sono o erano abitanti del bosco. Il cambiamento di habitat che si verifica con Homo habilis coincide temporalmente con un profondo mutamento climatico, e può costituirne la conseguenza. Negli ultimi quattro milioni di anni il pianeta è andato sperimentando una continua tendenza a diventare sempre più freddo e secco. Attorno a tale tendenza generale si verificano oscillazioni climatiche, bruschi cambiamenti termici che raffreddano e riscaldano la Terra periodicamente: a volte producono un clima secco, a volte umido. Tali oscillazioni dipendono da fattori astronomici, vale a dire dai movimenti dell'asse della Terra e dall'orbita descritta dal pianeta attorno al Sole. Simili cambiamenti astronomici fanno seguito a determinati cicli che attengono alla radiazione solare che giunge sulla Terra e determinano cicli climatici (assieme ad altri fattori non orbitali). Il fatto è che fino a 2,8 milioni di anni orsono le oscillazioni climatiche avvenivano approssimativamente ogni 23.000 anni, erano di ampiezza limitata e non modificavano sensibilmente la situazione. 2,8 milioni di anni fa iniziarono a verificarsi oscillazioni ogni 41.000 anni, questa volta di ampiezza molto maggiore, in modo che nelle epoche fredde si accumulavano grandi masse di ghiaccio attorno ai poli. Inoltre le due calotte polari, artica e antartica, erano probabilmente già ricoperte di ghiaccio perenne, che rimaneva tale, benché in dimensioni ridotte, anche nelle epoche calde. Questi periodi di raffreddamento e riscaldamento del pianeta sembrano aver avuto un enorme impatto eco38
logico in tutte le regioni, incluse le regioni africane dove vivevano gli ominidi e dove la foresta pluviale si ridusse drasticamente. Ai suoi bordi si estesero gli ecosistemi aperti. L'espansione delle savane e il conseguente mutamento dal punto di vista vegetale furono accompagnati dall'evoluzione di numerose linee di mammiferi che diedero vita a specie adattate al nuovo ambiente. Tra queste si trovava Homo habilis.
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2.
Il paradosso umano Ho utilizzato più o meno indistintamente i termini sensazione e coscienza, anche se sono solito usare sensazione (per esempio in "sensazione visiva") per qualche aspetto concreto della coscienza. Alcuni filosofi non operano distinzioni tra i due termini, ma non tutti sono concordi su quali sia la differenza. Devo confessare che, in una conversazione, uso "sensazione" quando intendo allarmare i miei interlocutori e "coscienza" quando non intendo farlo. Francis Crick, La ricerca scientifica dell'anima
L'invenzione L'adattamento di Homo habilis agli ecosistemi aperti ed erbosi, alle savane, non presuppone soltanto un mutamento di habitat, ma anche un cambiamento di nicchia ecologica, vale a dire del ruolo che la specie svolge nella catena della vita: in altre parole, come i suoi membri si guadagnano da vivere. Per la prima volta la carne e i grassi animali costituirono una parte importante della dieta degli ominidi. Tuttavia, e sorprendentemente, tale cambiamento di nicchia ecologica non sembra presupporre una modifica sostanziale nella morfologia di Homo habilis, che, come abbiamo visto, continuò a essere assai somigliante agli australopitechi. Vi sono soltanto lievi cambiamenti che riguardano la testa: la faccia è un po' più piccola e il cervello un po' più grande. L'aumento della dimensione del cervello può avere a che fare con il nuovo modo di vivere, basato sullo sfruttamento di risorse sparse e meno prevedibili rispetto a quelle della foresta tropicale. Un simile ragionamento è valido per i prodotti vegetali e, ancor più, per quelli animali. La maggiore dimensione del cervello conferirebbe a Homo habilis una capacità aggiuntiva di immagazzinare all'interno della propria testa la cartografia di un territorio assai vasto, vale a dire, di elaborare particolareggiate mappe mentali e, inoltre, di interpretare le orme degli animali e altri segni, quali il volo degli uccelli necrofagi quando individuano una carcassa. Forse un simile cervello conferirebbe a Homo habilis anche la capacità di comprendere i ritmi della vita e della terra, come i cambiamenti di stagione, di anticipare gli eventi (prevedibili) del mondo naturale e di pianificare a lungo termine. Se ciò fosse vero, ci troveremmo di fronte a un cambiamento 40
davvero assai significativo, perché, a quanto pare, gli scimpanzé non fanno alcun tipo di piano per il futuro. Nel contempo, è assai verosimile che i gruppi sociali diventassero più grandi, più integrati, più collaborativi, e che l'aumento della materia grigia corrispondesse a un aumento della complessità sociale, vale a dire, che servisse anche per anticipare il comportamento degli altri. Il primatologo Robin Dunbar ha studiato la dimensione del cervello e dei suoi costituenti nei primati per individuare le variabili riscontrabili nei grandi cervelli che si osservano in molte specie. Dopo aver scartato altre ipotesi, Robin Dunbar ne ha salvate soltanto due: la dimensione del cervello è correlata alla nicchia ecologica; è correlata anche alla dimensione e complessità del gruppo sociale. Le sue ricerche hanno portato a questo risultato finale: esiste una relazione molto stretta tra la complessità sociale di un primate e la dimensione della corteccia, mentre non esiste alcuna variabile ecologica capace di indurre un accrescimento della corteccia. Negli umani la corteccia rappresenta la maggior parte del cervello; non è però la parte dominante nei rettili e in mammiferi differenti dai primati. I.:aumento della corteccia di Homo habilis sarebbe pertanto un fenomeno sociale. A ciò possiamo aggiungere che vi furono anche degli ominidi, i paleantropi (di cui parleremo in seguito), che si adattarono, in contemporanea con Homo habilis, agli ecosistemi aperti, ma ciò non avrebbe implicato un aumento significativo delle dimensioni cerebrali. Tuttavia, dato che l'incremento della corteccia attiene alle funzioni mentali di associazione e capacità di analisi, sono certo che sia servita ai primi Homo habilis a cavarsela sia in un ambiente sociale molto ricco sia per occupare una nicchia ecologica totalmente nuova; è assai probabile che la loro insolita complessità sociale fosse la chiave del loro successo ecologico e del nostro successivo. Da ultimo, avviene una grande invenzione. Le innovazioni morfologiche che abbiamo preso in esame sinora sono il prodotto dell'evoluzione, un risultato del gioco tra mutazione e ricombinazione da un lato (vale a dire, le forze della genetica) e della selezione naturale (o, per così dire, le forze dell'ecologia) dall'altro. Ma ora la novità discende dalla mente, e per questo può essere considerata la prima invenzione: la pietra tagliata. I primi manufatti litici (cioè di pietra) datati con sicurezza sono stati raccolti a Gona, nella regione di Radar, paese degli Afar (Etiopia) e risalgono a circa due milioni e mezzo di anni fa. Altri complessi litici provenienti dal Lago Turkana, dal fiume Omo, dal Congo, dall'Uganda e dal Malawi hanno età di poco inferiori. Il primo fossile umano associato a manufatti comprende la parte inferiore di una faccia (la mascella) con il palato e alcuni denti di 41
2,33 milioni di anni, trovati dall'équipe di Donald Johanson nella stessa regione di Radar. I.:abbondanza di fossili di antilopi dei pascoli lascia pensare che l'ambiente fosse piuttosto aperto e decisamente meno boscoso di quello delle antilopi impala e di Australopithecus afarensis, che avevano abitato la stessa regione. Il fossile (A.L. 666-1) è certamente di un Homo, anche se l'attribuzione alla specie Homo habilis di un resto incompleto come questo è solo un'ipotesi che mi permetto di fare. In qualche caso, i manufatti di Radar e altri posteriori associati a Homo habilis erano costituiti da sassi rozzamente intagliati e dalle schegge che si staccavano durante l'operazione (poiché in realtà, in questi complessi primitivi, non è facile comprendere quali siano gli strumenti veri e propri e quali i residui inservibili della sc),J.eggiatura, alcuni autori preferiscono utilizzare il termine più ampio di manufatti per comprendere le schegge e ciò che resta quando si separano, ossia il nucleo). Gli archeologi si riferiscono a tale industria con il termine di olduvaiana, o Modo tecnico 1. Si è detto che gli strumenti - quali che fossero - prodotti da Homo habilis erano "strumenti biologici", vale a dire che potenziavano o prolungavano la morfologia dell'individuo. Tuttavia, quando i canini di Ardipithecus ramidus iniziarono a rimpiccolire, gli ominidi non disposero più di buoni arnesi naturali per tagliare la pelle e la carne degli animali morti, né riuscivano a frantumare le ossa per estrarne il midollo. Gli strumenti di pietra rappresentarono davvero la chiave, o una delle chiavi, per aprire una nuova dispensa. È vero che gli scimpanzé sono capaci di utilizzare strumenti naturali accuratamente selezionati (e non sono gli unici animali a farlo), e riescono anche a modificarli parzialmente per adattarli alla funzione desiderata. Per esempio, sono stati osservati mentre spaccano noci utilizzando un masso come martello e un altro come incudine. Ma nessuno ha mai visto uno scimpanzé spezzare deliberatamente una pietra, né si è riusciti sperimentalmente a ottenere che battessero una pietra contro l'altra con l'abilità necessaria a ottenere bordi affilati, i fili (o chopper). Si può, invece, far comprendere loro che il filo delle schegge è utile per tagliare: riescono così a utilizzarle, pur non essendo abbastanza abili da farsele da sé. Tutto lascia credere che le loro braccia e le loro mani non siano sufficientemente coordinate per questo tipo di attività (il che non rappresenta un grave demerito, visto che sono molto più bravi di noi nell'uso dei piedi!). Gli scimpanzé non hanno neppure molta mira nel lanciare gli oggetti e scheggiare non è altro che battere con abilità una pietra contro l'altra; bisogna trovare l'angolo giusto e il preciso punto di impatto, e poi calibrare la giusta forza. Quando gli scimpanzé intendono intimorire qualcuno, scagliano pèzzi di legno e altre cose in ma42
niera piuttosto goffa, che non ha niente a che vedere con la nostra mira. D'altro canto, è importante sottolineare che in condizioni naturali gli scimpanzé non si trovano in situazioni nelle quali è necessario disporre di uno strumento affilato, per cui le abilità (mentali o anatomiche) adatte a crearlo non sono state favorite dalla selezione naturale. Gli australopitechi avevano una conformazione delle braccia e delle mani sostanzialmente uguale alla nostra. Disponevano certamente della capacità mentale e biomeccanica per realizzare strumenti, anche se nei loro giacimenti non se ne è reperito alcuno. È possibile che non ne avessero bisogno. Per questo ritengo che, nonostante la spettacolarità della comparsa dei primi manufatti, questi non siano espressione di un salto cognitivo così straordinario come si è ipotizzato. Inoltre questo modo di scheggiare non sembra riflettere l'esistenza di un modello ideale di strumento, che si applica alla pietra come se si trattasse di uno schema mentale, ma semplicemente la volontà di ottenere, in qualche modo, un filo: si è alla ricerca di un attributo, non di una forma. In ogni caso, i fili prodotti per gli strumenti fabbricati da Homo habilis gli resero più facile l'ingresso in una nuova nicchia ecologica, la nicchia dei mangiatori di carne. Questo è il motivo per cui, forse, si deve definire Homo habilis soltanto "quasi umano", poiché la sua comparsa nell'evoluzione umana rappresenta un passo più importante dal punto di vista ecologico e sociale che nel campo cognitivo. Tuttavia, sembra che i primi costruttori di utensili di pietra, che risalgono alla bellezza di due milioni e mezzo di anni fa, ci abbiano lasciato prove di attività consapevole in rapporto all'uso di arnesi. In alcuni giacimenti, la materia prima sembra essere stata trasportata da lunghe distanze per essere utilizzata nella realizzazione di strumenti, in seguito destinati al consumo di animali. Benché nessuno abbia potuto vedere tali attività del remoto passato, restano come indizi gli strumenti di pietra abbandonati, assieme ai residui della scheggiatura, e i segni nelle ossa degli erbivori. Si può pensare che gli ominidi si mettessero a cercare le pietre di volta in volta, quando si imbattevano in una preda. Ma, in regioni dove le rocce adatte scarseggiavano, è possibile che gli ominidi portassero con sé le pietre o anche gli stessi strumenti, già preparati, quando uscivano in cerca di prede. Se si fossero imbattuti in qualche carogna, avrebbero potuto tagliarne immediatamente la carne e spaccarne le ossa (in questo modo non avrebbero corso il pericolo di perderla nella dura lotta che avrebbero dovuto sostenere con i grandi predatori e con gli altri necrofagi). Nessuno degli animali che utilizzano strumenti, compresi gli scimpanzé, mostra tanta capacità di previsione, piuttosto si 43
Figura 5. Scheggiatura della pietra. Battendo un sasso contro l'altro una o due volte dallo stesso lato (A e B) si ottiene uno strumento semplice dotato di filo (chopper); se la scheggiatura continua e si estende ai due lati si giunge al bifacciale (C).
preoccupa di procurarsi uno strumento solo quando ha necessità di usarlo. Inoltre, non si spingono mai troppo lontano per trovarlo, ma cercano i materiali nei dintorni, in un raggio di pochi metri. Se, alla fine, si dimostrerà che i primi ominidi non si limitavano ad affilare, in modo meccanico, le pietre che avevano a portata di mano, o a frantumare le ossa con un masso trovato nei dintorni, ma che si tenevano in testa per molto tempo l'idea di trovare una pietra, allora sarebbe dimostrata l'esistenza di un comportamento tecnologico cosciente che va al di là di quanto si sia mai conosciuto in alcuna specie attuale non umana. Una caratteristica del comportamento degli animali consiste nel fatto che le loro azioni sono dirette al conseguimento di obiettivi immediati, che in molte occasioni hanno davanti agli occhi. Gli scimpanzé, a volte, cacciano piccole scimmie, soprattutto colobi, tra gli altri piccoli animali, ma non sembra che pianifichino strategie per catturare prede che non siano sotto gli occhi (ma che siano semplicemente ipotetiche); il loro comportamento cinegetico è piuttosto opportunista: approfittano dell'occasione quando si presenta, e, invece di organizzarsi in squadre, sembra che i maschi prendano parte alla caccia dopo che è cominciata. Fabbricano anche spugne vegetali per assorbire liquidi, o scorticano ramoscelli per introdurli nei termitai e catturare gli insetti, però sempre con il proposito di utilizzare immediatamente le spugne o i ramoscelli. Si potrà obiettare che gli uccelli trasportano per un lungo periodo i materiali con i quali si costruiscono i nidi, come fanno i castori con le dighe, o le formiche con i formicai, e potremmo continuare così con tutti i tipi di costruzioni realizzate dagli animali. Tuttavia questi sono comportamenti completamente istintivi e quindi preprogrammati; in nessun modo stanno a indicare perseveranza nel perseguimento di un obiettivo cui si giunge come risultato di una decisione presa. I favi fatti di cellette perfettamente esagonali non indicano assolutamente lesistenza di architetti tra le api. Nel caso dei primi ominidi, se si dimostrasse che le pietre erano trasportate dal momento in cui si mettevano in cammino o, per lo meno, che gli attrezzi erano preparati in anticipo invece di essere fabbricati dopo aver trovato il cadavere, sarei ancor più fermamente convinto della loro capacità di pianificare, vale a dire, che gli ominidi sapevano ciò che intendevano fare. Come potremmo dimostrare una cosa simile? Nel caso in cui si trovassero giacimenti contenenti molte ossa di erbivori con segni di taglio o frantumate, e nessuna pietra scheggiata, allora si potrebbe interpretare tale fatto come segno che gli ominidi tenevano a tal punto ai propri strumenti, a causa della scarsità della materia prima, da non abbandonarli dopo averli usati e da portarli con sé. Questo è ciò che precisamente credono di aver 45
scoperto Tim White e i suoi collaboratori proprio nei giacimenti etiopi, datati 2,5 milioni di anni fa, nei quali sono stati recuperati i resti di Australopithecus garhi.
Il primo uomo I fossili più conosciuti di Homo ergaster, il ramo successivo del cladogramma della figura 4, sono due crani e uno scheletro quasi intero provenienti dal bacino del Lago Turkana, in Kenya. Il cranio più completo ha un'età di 1,8 milioni di anni circa e gli altri due fossili risalgono a 1,6 milioni di anni fa. Recentemente un'équipe italiana dell'Università di Firenze ha trovato nella depressione della Dancalia (Danakil), in Eritrea, un cranio che, a giudicare dallo studio preliminare, sembra di questa medesima specie e pare risalire soltanto a un milione di anni fa; la data, come sempre accade quando si giunge a realizzare una scoperta, è prowisoria: bisognerà aspettare ancora un po' per esserne sicuri. Quel che è certo è che il ventaglio cronologico della specie Homo ergaster dovrebbe estendersi tra qualcosa meno di due milioni di anni e circa un milione di anni. La sua distribuzione geografica potrebbe essere stata assai ampia, poiché dal giacimento sudafricano di Swartkrans provengono alcuni resti frammentari attribuibili alla medesima specie; l'età cronologica si situa attorno al milione e mezzo di anni. In questo caso e per la prima volta ci troveremmo di fronte a un ominide identificato sia nell'Africa orientale sia nel sud del continente. La maggior parte dei fossili di Homo habilis hanno 1,8-1,9 milioni di anni, anche se il ventaglio cronologico della specie può estendersi sino ai 2,33 milioni di anni del fossile di Radar e di altri resti meno completi provenienti dal fiume Omo. In via di principio, dal punto di vista della cronologia e della biogeografia, non vi sono problemi ad ammettere che questa specie sia l'antenata di Homo ergaster, i cui fossili datano a partire da 1,8 milioni di anni. È sicuro che alcuni campioni comunemente considerati di Homo habilis provenienti dallo strato II (Bed II) di Olduvai risalgono a 1,7~1,6 e 1,5-1,4 milioni di anni fa; gli altri fossili di Homo habilis della gola di Olduvai provengono dal Bed I, lo strato più antico, e hanno 1,8 milioni di anni. Vi è anche un fossile che considero di Homo ergaster, un osso dell'anca~ che potrebbe avere 1,8 o 2 milioni di anni. Ciò nonostante, alcuni studiosi ritengono che i fossili più moderni di Olduvai (Bed II) siano troppo "evoluti" per essere di Homo habilis, e che forse sono di Homo ergaster; d'altra parte la provenienza stratigrafica (e la cronologia) dell'osso dell'anca del Lago Turkana non è del tutto chiara; forse ha 1,8 milioni di anni o anche meno. 46
Qualcuno ritiene che la possibile (non certa) sovrapposizione tra gli ultimi fossili di Homo habilis e i primi di Homo ergaster renda problematico ammettere che la seconda specie derivi evolutivamente dalla prima. In realtà, lestinzione di una specie in tutto il mondo non deve necessariamente coincidere con la comparsa di una specie discendente, anch'essa in tutto il mondo. Tale avvicendamento potrebbe verificarsi soltanto se una specie si trasformasse in un'altra lungo tutta la sua area di distribuzione geografica, in un processo che dovrebbe riguardare tutte le popolazioni, nessuna esclusa. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la specie discendente si evolve in un luogo geografico concreto a partire da un'unica popolazione della specie precedente, per cui, in seguito, le due specie possono coesistere per molto tempo occupando luoghi differenti (per esempio Homo ergaster nei territori del Lago Turkana e Homo habilis nell'Olduvai). Non solo, se la specie discendente si diffonde in altre regioni dove abita ancora la specie antecedente, le due specie (la madre e la figlia) potrebbero anche arrivare a convivere. Ma, quando entrambe svolgono lo stesso ruolo nell'ecosistema, potrebbero entrare in competizione tra loro sul territorio in cui convivono e la specie antecedente potrebbe finire con lo scomparire. A grandi linee, questo è il meccanismo che si ipotizza riguardo al passaggio Homo habilis-Homo ergaster e per altre sequenze simili nell'evoluzione umana. Homo ergaster era molto diverso da tutti gli ominidi precedenti da numerosi e importanti punti di vista. Per cominciare, il suo corpo era cambiato, acquisendo una dimensione e proporzioni simili alle nostre e assai diverse da quelle dell'australopiteco e dei primi Homo. Così lo definiscono alcuni resti isolati, quali per esempio l'osso dell'anca già ricordato o un femore; entrambi i fossili provengono dalla riva orientale del Lago Turkana. Ma la conferma che il modello corporeo moderno è sorto in Africa con Homo ergaster è giunta con la scoperta da parte dell'équipe di Richard Leakey di uno scheletro incredibilmente ben conservato sulla riva occidentale del Turkana (in località Nariokotome). Era appartenuto a un ragazzino di 9-10 anni, al momento della morte, la cui statura era paragonabile a quella di un bambino moderno della stessa età, se non addirittura più alta. Per altro verso, in Homo ergaster si era verificato un considerevole aumento del volume encefalico, che aveva raggiunto, nei crani meglio conservati, valori pari a 804 cc, 850 cc e 900 cc. Ma siccome tale crescita del cervello in Homo ergaster avviene in contemporanea con un incremento delle dimensioni e del peso corporei, in termini relativi non rappresenta un progresso molto significativo rispetto a Homo habilis (anche se è stato detto che 47
le dimensioni del cranio di quest'ultima specie in passato sono state sopravvalutate). Tuttavia mi risulta difficile accettare che l'incremento cerebrale vissuto da Homo ergaster rispetto a Homo habilis non presupponesse anche un notevole balzo in avanti delle capacità cognitive. Sinora, ogni volta che ho fornito il dato della dimensione cerebrale di una specie, ho immediatamente aggiunto anche un commento sul peso del corpo. Il motivo di questo modo di procedere risiede nel fatto che, se le dimensioni corporee di una specie aumentano, ci si deve aspettare che ciò accada anche a tutti gli organi del corpo, e il cervello è uno di questi, né più né meno del fegato. Tale strategia scientifica funziona bene in termini generali quando si mettono a confronto gruppi assai differenti di mammiferi, con dimensioni del cervello e del corpo molto diseguali. In cambio, a livelli tassonomici inferiori, non è granché utile. Per cominciare, persone diverse, o popolazioni umane, presentano distinti pesi relativi del cervello, senza che ciò sia espressione di diversità di intelligenza. In media, e a parità di peso, il cervello di un uomo è di circa 100 cc superiore a quello di una donna. Ma, non allarmatevi, tale differenza non ha niente a che vedere con le funzioni mentali dette superiori (le capacità cognitive). La dimostrazione è che anche nei macachi, che non possiedono l'intelligenza umana, vi sono differenze tra i sessi della stessa entità. Tale dato potrebbe essere in relazione con la capacità di elaborare l'informazione visiva e spaziale che, in apparenza, è superiore nel sesso maschile della nostra specie, e, chissà?, forse anche tra i macachi. Di fatto le differenze più palesi tra uomini e donne nei test degli psicologi si verificano in prove quali ruotare mentalmente figure, leggere mappe, ricordare posizioni di cose e maneggiare i concetti di destra e sinistra. È possibile che, si chiedono Dean Falk e altri colleghi che hanno indagato sul dimorfismo sessuale riguardo alle dimensioni encefaliche, negli ominidi maschi la selezione naturale abbia favorito la capacità di orientamento? I maschi, in generale, sarebbero naviganti migliori? Ma smettiamo di fare speculazioni e torniamo al nostro argomento. Lo scimpanzé comune e il gorilla presentano cervelli di dimensioni assai più vicine tra loro in termini assoluti rispetto al peso del loro corpo. Il peso cerebrale dello scimpanzé si colloca in media sopra i 410 g e quello del gorilla si trova attorno ai 500 g. Tuttavia il peso del corpo dello scimpanzé è in media di 33 kg nelle femmine e di 43 kg nei maschi, mentre nel gorilla, in media, è rispettivamente di 98 e 160 kg. Di conseguenza, il peso del cervello è in proporzione molto inferiore nel gorilla, ma non per questo, per quanto ne sappiamo, la sua intelligenza è minore. In altre parole, due specie prossime che hanno un cervello di 48
dimensione simile solitamente possiedono capacità mentali analoghe (ereditate da un antenato comune), indipendentemente dal fatto che, nel tempo, il loro corpo sia diventato più grande o più piccolo. Il motivo principale di ciò è che il cervello è un organo energeticamente assai dispendioso, molto costoso da mantenere: nella nostra specie consuma il 20 per cento dell'energia disponibile, benché, solitamente, non superi il 2 per cento del peso del corpo (dieci volte meno). Nello scimpanzé il cervello rappresenta il 9 per cento del consumo energetico. Di conseguenza, se, nel passaggio da una specie alla specie discendente, si verifica un aumento del peso del cervello, ciò significa, probabilmente, che tale incremento era molto importante, nonostante l'enorme costo energetico. Se non fosse stato così necessario che il cervello crescesse, la selezione naturale avrebbe favorito quello che si fosse mantenuto costante, nonostante la crescita del corpo; è probabile che i gorilla siano diventati così grandi perché si sono trasformati in mangiatori di foglie e germogli, parti vegetali poco nutrienti e che necessitano di grandi apparati digestivi per essere elaborate. Per contro, la riduzione del peso corporeo di una specie non la fa diventare più intelligente solo perché il cervello ha mantenuto le stesse dimensioni. Inoltre, in rapporto ad alcuni aspetti importanti della fisiologia, e al tempo stesso del comportamento, ciò che conta è la dimensione assoluta del cervello e non quella relativa. Mi sto riferendo alla durata del periodo di sviluppo che, nella nostra specie, è più lungo di quanto non sia nei primati, poiché implica un prolungato periodo di dipendenza, alimentazione e cure, prima che l'individuo giunga all'età adulta. In questo arco di tempo, inoltre, si apprende a relazionarsi con gli altri e a vivere in società, ricevendo alcuni insegnamenti del massimo valore, perché nessun animale di una specie sociale, e la nostra lo è al massimo grado, può soprawivere da solo. In tutti gli ominidi anteriori a Homo ergaster lo sviluppo durava per un periodo uguale a quello degli scimpanzé o di poco superiore. Dal punto di vista dell'ossificazione completa dello scheletro, negli umani lo sviluppo termina dopo i 20 anni - anche se la statura di solito smette di crescere un po' prima - mentre negli scimpanzé, nei gorilla e negli orangutan cessa attorno ai 12-13 anni. Nelle femmine degli scimpanzé la prima gravidanza si verifica mediamente a 13 anni, vale a dire che la maturità sessuale, a grandi linee, coincide con la fine dello sviluppo osseo: quando questo si conclude, ha inizio la vita adulta e con essa la riproduzione. Mentre la femmina di scimpanzé era una cucciola, il suo peso aumentava di giorno in giorno, il che significa che con l'alimentazione assumeva più calorie di quante avesse bisogno per soprawivere, e con tale eccedenza di energia andava co49
struendo il proprio corpo. Una volta raggiunta la maturità riproduttiva, il suo peso non aumenta più, ma con le calorie in eccesso fa crescere un'altra creatura all'interno del suo corpo, come fosse un altro organo; poi, per un certo periodo, durante l'allattamento, il figlio cresce a sue spese fuori dell'utero, sino a che non arriva un nuovo cucciolo. In qualche modo una femmina sta sempre crescendo, prima per costruire se stessa e poi per "fabbricare" i propri figli. Nel mondo attuale la quasi totalità degli esseri umani vive in società di economia produttiva, nelle quali il cibo (le piante e gli animali) non si caccia né si raccoglie, ma si coltiva o si alleva. Tali condizioni di vita in qualche modo artificiali, soprattutto nell'Occidente ricco, dove, durante la crescita, si beneficia di un'alimentazione straordinariamente ricca e variata, possono aver alterato alcuni aspetti della nostra biologia dello sviluppo, come l'inizio dell'età riproduttiva, per cui, per poter fare paragoni, è meglio ricorrere alle poche popolazioni che ancora oggi si alimentano come i nostri antenati, mangiando animali selvaggi e raccogliendo vegetali selvatici. Per esempio, tra gli Ache del Paraguay e i Dobe !Kung della Namibia, generalmente, la prima gravidanza si verifica attorno ai sedici anni nel primo caso e attorno ai diciotto nel secondo, età assai prossime alla fine della crescita in altezza delle donne nelle rispettive popolazioni. Tornerò a parlare più avanti di questi popoli, di gravidanze e di bambini. Ora ci interessa continuare a trattare il tema del cervello. È stato dimostrato che esiste una relazione assai stretta nel gruppo dei primati tra la durata del ciclo vitale, ossia dei differenti periodi della vita, e la dimensione del cervello. Per questo, la durata dell'infanzia, dell'adolescenza e della vita complessiva di uno scimpanzé è doppia rispetto alle fasi equivalenti della vita di un macaco, il cui cervello è approssimativamente la quarta parte. Per il motivo identico, il nostro ciclo vitale è molto più lungo di quello di uno scimpanzé: la nostra longevità è legata al nostro grande cervello. Poiché la dimensione del cervello di Homo ergaster si trova a metà strada tra quella degli scimpanzé e la nostra, si deve supporre che lo fosse anche la durata della sua infanzia, adolescenza e vita totale. Un lungo periodo di sviluppo presuppone anche un esteso tempo di apprendistato e di preparazione alla vita adulta. All'età di tre anni, il cervello di uno scimpanzé, di un gorilla e di un bambino è già arrivato ai tre quarti della sua dimensione definitiva. Ciò significa che la maggior parte del cervello cresce a spese della madre, che fornisce l'energia necessaria prima durante la gestazione e poi durante l'allattamento. Dopo lo svezzamento, il cervello cresce ancora solo di poco ed è per questo che ha un senso chiedersi a cosa serva uno sviluppo così prolungato.
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Figura 6. I quattro grandi modi tecnici.
La risposta è che, durante questo tempo, si verifica la "programmazione" del cervello, l'installazione di un complessissimo software in un hardware già costruito nelle sue parti essenziali, se mi si consente l'analogia con i computer. Per tutto quanto esposto sinora, conferisco molta importanza al prolungamento di questa parte di vita, perché la considero un requisito essenziale per rendere possibile una società complessa e anche per lo sviluppo di una tecnologia sempre più elaborata.
I bifacciali Un milione e seicentomila milioni di anni orsono compare in Africa un nuovo tipo di strumento di pietra (ora sì che possiamo utilizzare il termine "strumenti" perché gli oggetti cui mi riferirò sono stati confezionati senza dubbio alcuno per essere usati come attrezzi). Si tratta dei bifacciali, utensili di formato considerevole intagliati su entrambe le facce con perfezione e simmetria evidenti. Possono essere di vario tipo: asce di pietra, arnesi atti a fendere e picconi. Il ciclo industriale cui appartengono si chiama Acheuleano o Modo tecnico 2 e riflette un importante balzo tecnologico rispetto al Modo 1 (l'Olduvaiano), perché in questo ca51
so si riconosce la ricerca deliberata, vale a dire consapevole, di strumenti con una forma predeterminata, che in precedenza esistevano soltanto nella mente dell'autore. Marcel Otte considera un bifacciale una scultura a tutti gli effetti, senza escludere che oltre a essere funzionale (cioè utile) corrispondesse anche a un gusto per la bellezza (a un'estetica). Questi uomini primitivi sapevano bene ciò che tenevano in mano. Data l'epoca cui risalgono, si ritiene che i bifacciali fossero fabbricati da Homo ergaster; inoltre, nel giacimento di Konso, Etiopia, risalente a 1,4 milioni di anni fa, si trovano associate l'Acheuleano e una mandibola di Homo ergaster. Per comprendere correttamente la differenza esistente tra l'evoluzione biologica e i mutamenti culturali, è importante rilevare il fatto che i primi fossili di Homo ergaster appartengono al ciclo tecnologico del Modo 1. Per questo l'invenzione e la diffusione del Modo 2 non rappresentano un mutamento biologico in direzione di un'intelligenza maggiore. In altre parole, un milione e mezzo di anni orsono alcuni Homo ergaster utilizzavano una tecnologia più elaborata rispetto ai loro antenati o rispetto ai membri di altre popolazioni della medesima specie (compresi, come vedremo, esseri umani posteriori). Ora, benché una nuova tecnologia non presupponga necessariamente la comparsa di una nuova specie, tuttavia è certo che un'industria molto complessa non è compatibile con una mente molto semplice: vi sono esseri umani che non conoscono l'informatica, ma è del tutto impossibile che una scimmia impari a usare un computer. Non è probabile, in altre parole, che il Modo 2 fosse alla portata della mente di Homo habilis. Il famoso scrittore francese Jules Verne pubblicò nel 1901 un romanzo poco noto, intitolato Il popolo aereo, nel quale raccontava le avventure di due esploratori, un francese e un nordamericano, che scoprono alcuni esseri (i "wagddis"), con caratteristiche intermedie tra lo scimpanzé e l'uomo. I wagddis vivono in un villaggio costruito tra le chiome degli alberi della foresta tropicale africana. Il romanzo esprime alla perfezione lo spirito di quegli anni, in cui ebbe inizio l'esplorazione del continente africano, quando si scoprivano in continuazione terre con nuove specie animali e popoli fino a quel· momento ignoti in Occidente. Gli uomini-scimmia inventati da Jules Verne rappresentavano la sopravvivenza, in un luogo recondito e inesplorato della foresta del Congo, di un anello intermedio nell'evoluzione umana. In un passo del romanzo si legge: "Quanto al microcefalo, del quale si vuole fare un tipo intermedio tra l'uomo e la scimmia, specie vanamente presupposta e ricercata dagli antropologi, elemento di unione tra il regno animale e quello umano, potremmo forse ammettere che fosse rappresentata dai wagddis?". 52
Anche rispetto alla specie Homo ergaster ci troviamo davanti agli "anelli perduti tra la scimmia e l'uomo'', per usare il gergo dell'evoluzionismo ottocentesco, anche se il "contatto" tra la nostra specie e Homo ergaster è avvenuto in un giacimento e non in una foresta lontana. Fisicamente, dal collo in giù, quegli umani fossili erano molto simili a noi, mentre la dimensione del loro cervello era intermedia: dobbiamo immaginarli con una mente molto lontana da quella umana moderna, ma molto lontana anche da quella del primo ominide conosciuto, Ardipithecus ramidus, e degli australopitechi (non tanto da Homo habilis), una mente molto diversa, per prendere un esempio prossimo, da quella dell'attuale scimpanzé. Il loro ciclo vitale era più lungo in tutte le fasi, benché non fosse ancora come il nostro. Erano in grado di fabbricare arnesi molto elaborati, per i quali bisogna avere un'idea chiara in testa del risultato che si intende ottenere e dei numerosi passaggi che bisogna compiere per raggiungerlo; non si trattava soltanto di picchiare una pietra contro l'altra in qualche modo, una o due volte. Con Homo ergaster comincia a manifestarsi in tutta la sua dimensione tremenda lo straordinario paradosso rappresentato nella biologia dagli esseri umani, le persone: anatomicamente soltanto dei primati con postura eretta, novità evolutiva interessante ma, in nessun senso, più straordinaria del volo dei pipistrelli o dell'adattamento al mare dei cetacei, e, al tempo stesso, organismi radicalmente differenti da tutte le altre creature viventi per la loro stupefacente intelligenza, capacità di riflessione e piena consapevolezza di se stessi in tutte le loro azioni. Dal punto di vista ecologico, anche Homo ergaster era radicalmente diverso dai primi ominidi: aveva definitivamente abbandonato gli ecosistemi caratterizzati da una vegetazione assai fitta di Ardipithecus ramidus e degli australopitechi, e sfruttava le risorse degli ambienti aperti. Uno dei maggiori esperti mondiali dei climi del passato, Peter de Menocal, osserva negli ecosistemi africani dove ha avuto origine Homo ergaster una nuova chiave di volta nel processo di raffreddamento e di aumento dell'aridità risalente con precisione a 1, 7 milioni di anni fa, con il diffondersi delle savane e con una riduzione ancor maggiore della selva tropicale. Oltre ai vegetali, Homo ergaster consumava regolarmente la carne di altri animali che si procurava sotto forma di carogna o per mezzo della caccia. Già Homo habilis aveva iniziato questo cammino: essendo di corporatura inferiore era meno cacciatore (per lo meno per quanto riguarda prede medie e grandi) e più necrofago rispetto al robusto Homo ergaster. Inoltre, meno di due milioni di anni fa, accadde qualcosa di molto importante: l'evoluzione umana da fenomeno localizzato in un uni53
co continente si trasformò in un evento di portata mondiale; i bipedi pensanti si diffusero ben oltre il suolo africano.
Il ramo tagliato Ma prima di uscire dal continente-culla voglio fare un cenno a un ramo molto importante dell'albero dell'evoluzione umana, il ramo dei parantropi. Questi erano ominidi fisicamente molto simili agli australopitechi, tanto che molti studiosi li classificano tra questi ultimi; mostrano anche qualche leggera somiglianza con Homo habilis che, per quanto ne sappiamo finora, non rappresentava alcuna novità riguardo alla forma del corpo. Tuttavia, i parantropi sperimentarono una specializzazione considerevole nell'apparato masticatorio, che si sviluppò in modo straordinario per poter elaborare grandi quantità di prodotti vegetali duri e fibrosi, assai abrasivi. Numerosi ricercatori ritengono che i parantropi siano unarisposta al medesimo cambiamento climatico risalente a 2,8 milioni di anni fa che, come abbiamo visto, favorì il sorgere del genere Homo. Tale ipotesi è compatibile con la cronologia dei parantropi, perché la prima specie di questi, Paranthropus aethiopicus, si riscontra nell'Africa orientale 2,6 milioni di anni orsono. Specie di parantropi posteriori sono Paranthropus boisei, anch'esso dell'Africa orientale, e Paranthropus robustus, reperito in alcune grotte sudafricane (Swartkrans, Kromdai e Drimolen). Un problema non completamente chiarito consiste nell'individuare il punto di innesto del ramo dei parantropi nell'albero degli ominidi. La maggior parte degli studiosi individua una parentela con Australopithecus afarensis, che costituirebbe un antenato comune di parantropi e umani. Agli effetti pratici, l'autentico schema evolutivo può essere questo o uno assai simile. Tuttavia, per la verità, Australopithecus afarensis potrebbe non essere esattamente un antenato comune di parantropi e umani, perché al mio collega lgnacio Martinez e a me in alcuni tratti sembra già "un po' parantropo". In questo caso, l'antenato comune dei due rami sarebbe Australopithecus anamensis oppure, come sostengo sempre, una specie molto simile (in effetti, come sappiamo, anche Australopithecus afarensis e Australopithecus anamensis sono due specie simili tra loro).
Il popolamento dell'Asia Fino a questo punto è stata una storia esclusivamente africana, come quella dei gorilla e degli scimpanzé. Ardipithecus rami54
dus, gli australopitechi e Homo habilis non conobbero altri paesaggi (né altri animali o piante) di quelli esistenti nelle terre calde del continente che ha costituito il nostro primo focolare. Ogni specie animale è adattata alla propria nicchia ecologica, al posto che occupa nell'ecosistema cui appartiene. Per questo l'evoluzione l'ha dotata degli strumenti necessari e non solo a livello morfologico (che è la parte che si "vede" di un organismo), ma anche a livello fisiologico (il funzionamento dei differenti sistemi del corpo) e a livello di comportamento. Vi sono specie che tollerano poco i cambiamenti nell'ambiente; vivono sempre in condizioni molto stabili, in una sorta di bolla ecologica che costituisce tutto il loro mondo. Per tali specie è assai difficile sfuggire al proprio habitat e in generale la loro distribuzione geografica si estende sin dove quest'ultimo ha fine. I gorilla e gli scimpanzé non superano il limite della foresta pluviale, dove abitano e dove, per loro, è collocata la fine del mondo. Altre specie animali sono ecologicamente più flessibili, più tolleranti alle variazioni delle condizioni ambientali, sia in campo fisico (il clima, per esempio, o la salinità per gli organismi acquatici), sia in campo biologico (le comunità o biocenosi nelle quali si integrano). Logicamente tali specie sono distribuite in aree geografiche molto più ampie. Certe volte l'evoluzione produce una specie che occupa una nicchia ecologica nuova, o all'interno del medesimo ecosistema oppure in un altro, diverso. In generale, si tratta soltanto di lievi variazioni che differenziano in piccola misura una specie dai suoi parenti più prossimi. Molto raramente il cambiamento ecologico è così profondo da far sorgere una nuova linea evolutiva che trasforma totalmente la cornice nella quale si è sviluppata fino ad allora la sua esistenza, benché, naturalmente, a volte accada: vi sono mammiferi che si sono adattati a vivere sempre in mare e altri che trascorrono quasi tutta la vita nell'aria. Gli ominidi di cui abbiamo parlato e che hanno preceduto Homo ergaster appartengono, senza eccezione, alle specie con habitat limitato. Alcuni ominidi, i primi, vissero nella foresta e altri posteriori nella savana, ma entrambi rimasero sempre in Africa. Ma, come vedremo tra poco, arrivare sino ai confini dell'Asia presuppone un grande cambiamento ecologico, e colonizzare l'Europa uno ancora maggiore, perché nessun altro primate vive con l'uomo in quest'ultimo continente. Tuttavia, per adattarsi alle nuove e mutate situazioni ecologiche che gli umani trovarono fuori dell'Africa non si verificarono modificazioni morfologiche né fisiologiche spettacolari; la flessibilità ecologica fu conferita da un unico organo: il cervello. I primi fossili asiatici si trovano a Giava e in Cina. Benché oggi Giava sia un'isola, gli umani vi giunsero camminando. La spie55
gazione di questo apparente paradosso risiede nel fatto che Giava (come Sumatra e il Borneo) emerge dalla piattaforma della Sonda, una grande estensione del fondo marino poco profondo che durante le glaciazioni, e per effetto della diminuzione del livello del mare da queste prodotta, era unita al continente asiatico. A Giava vi sono numerosi luoghi che hanno fornito fossili umani. Sfortunatamente, nella maggior parte dei casi, non si conosce con chiarezza la provenienza esatta dei ritrovamenti, per cui non è facile stabilirne l'età geologica. Negli ultimi anni, un' équipe di geocronologi guidata dallo statunitense Carl Swisher sta tentando di costruire una cornice temporale per la documentazione fossile dell'evoluzione umana a Giava. I fossili più antichi (con tutte le precauzioni dovute per le ragioni sopra esposte) sono risultati essere: a) un cranio infantile senza faccia (un teschio o neurocranio) rinvenuto a Modjokerto, risalente (o per lo meno il terreno da cui si presume provenga) a 1,8 milioni di anni fa; e b) alcuni resti craniali incompleti e molto deformati dell'area di Sangiran di 1,6 milioni di anni (anche se bisogna nuovamente ripetere che quello che viene datato è il sedimento da cui presumibilmente provengono i fossili). Oltre a quelli citati, l'area di Sangiran, che è un grande bacino sedimentario, ha fornito un'importante collezione di crani umani. Queste date così antiche di Giava coincidono con quelle dei primi Homo ergaster africani, e potrebbe trattarsi della medesima specie. Il problema è che il bambino di Modjokerto era ancora molto piccolo (3 o 5 anni) quando è morto per poter conoscere a quale tipo umano appartenesse e i fossili datati di Sangiran forniscono informazioni scarse: la verità è che non sappiamo molto bene chi fossero o quando giunsero i primi umani a Giava. Un altro giacimento giavanese è Trinil, dove, nel 1891, Eugène Dubois scoprì una calotta cranica insieme a un molare e un femore. A partire da questi resti Dubois creò la specie Pithecanthropus erectus, che oggi è chiamata Homo erectus. Il vecchio nome Pithecanthropus erectus corrispondeva a ciò che si credeva la specie rappresentasse: un "uomo-scimmia", un essere eretto che, per le sue caratteristiche mentali, non è ancora come noi, che però lo è già nella forma del corpo. Dopo tutto, Dubois non era così fuori strada. Le capacità craniali di tutti questi fossili giavanesi non superano di molto quelle dei fossili di Homo ergaster e variano dagli 813 cc ai 1059 cc. Recenti studi di Carl Swisher indicano che tutti i fossili del bacino di Sangiran hanno più di un milione di anni, indipendentemente dalla loro provenienza. I fossili umani di Trinil, in ragione della fauna cui erano associati, probabilmente concordano con gli esemplari più moderni di Sangiran. Numerosi studiosi ritengono che non debba operarsi alcuna 56
distinzione tra i fossili di Homo ergaster e quelli di Homo erectus e che sarebbero tutti Homo erectus (a prevalere è sempre la denominazione più antica, e questa è del diciannovesimo secolo). Io stesso ho realizzato uno studio sull'architettura del cranio cerebrale e sono giunto alla conclusione che non vi sono differenze sostanziali tra gli uni e gli altri. Tuttavia, i crani asiatici sono molto più robusti - in alcuni casi estremamente robusti - degli africani; inoltre vi è qualche altra differenza alla base cranica che potrebbe giustificare la distinzione tra le specie. Ora, sia ben chiaro, queste sono discussioni tra specialisti, poiché, in entrambi i casi, si tratta di fossili africani e fossili asiatici sostanzialmente dello stesso tipo di ominide. In rapporto ai problemi che si trattano in questo libro avrei potuto tranquillamente chiamare Homo erectus i fossili di Homo ergaster del Lago Turkana. Il popolamento del continente asiatico deve essere stato senz'altro anteriore a quello di Giava, perché gli umani dovettero percorrere mezzo mondo per giungere fino all'isola. In Cina c'è un giacimento, la caverna del drago (Longuppo) che forse ha fornito utensili litici e due fossili umani risalenti a quasi due milioni di anni fa, benché non sia del tutto chiaro. I presunti utensili sono dubbi, e uno dei resti umani (un frammento di mandibola con due denti) potrebbe essere un orangutan. fossile. Di dubbio in dubbio, potremmo anche chiederci se l'altro fossile, sicuramente un incisivo umano, sia antico come il resto del giacimento o più moderno. A Dmanisi (Georgia), a sud del Caucaso, è stata rinvenuta una mandibola umana che ha un'età compresa tra l'l,5e1'1,2 milioni di anni. In Cina sono conservati un cranio (Gongwaling) e una mandibola (Chenjiawo) che sembrano situabili attorno al milione di anni. Il cranio è piuttosto deformato e incompleto, ma si intuisce che si tratta di un esemplare di Homo erectus, la stessa specie che popolava Giava nella medesima epoca. Ma la più consistente collezione di crani (in realtà teschi) di Homo erectus del continente asiatico proviene dalla caverna di Zhoukoudian, vicino a Pechino. Questi fossili sembrano abbracciare uno spazio dilatato nel tempo, tra i 300.000 e i 600.000 anni, benché alcuni studiosi aumentino un poco tale intervallo e altri lo abbassino. Franz Weidenreich, lo scienziato che li ha studiati, in cinque casi è riuscito a valutare con sufficiente esattezza la capacità cranica dei fossili di Zhoukoudian, e ha trovato che variava tra 915 cc e 1225 cc. Pechino si trova a una latitudine prossima a quella di Madrid (entrambe le capitali sono situate a 40° di latitudine nord) e gli occupanti della caverna vivevano in ambienti abbastanza simili a quelli dei loro contemporanei europei. A suo tempo conosceremo questi ecosistemi nel dettaglio, però possiamo anticipare che 57
erano molto diversi dagli ambienti africani ancestrali o dalle foreste tropicali di Giava. Praticamente tutti i fossili umani di Zhoukoudian andarono perduti nel corso della seconda guerra mondiale, anche se in un caso, Cranio V, si sono trovati ulteriori resti in scavi successivi. Si tratta di un ritovamento importante perché, pur essendo il più moderno della collezione, ha la capacità cranica che non sembra essere superiore a quella del resto del campione. Un altro fossile cinese di Homo erectus è la calotta di Hexian, la cui capacità cranica non supera di molto i 1000 cc. , Sinora, nell'isola di Giava sono stati trovati pochi manufatti. Inoltre, come accade con i fossili umani, la loro provenienza e cronologia è, in generale, problematica. Un'eccezione positiva è costituita dal giacimento di Ngebung, nell'area di Sangiran, dove un'équipe franco-indonesiana ha trovato negli ultimi anni alcuni utensili in un contesto geologico chiaro, associati, per di più, a un dente umano. Gli utensili sono poco elaborati, tipo poliedri e sfere. Tuttavia, bisogna tenere conto del fatto che l'isola di Giava non presenta rocce adatte a ricavare oggetti molto raffinati. In Cina, per contro, le cose vanno diversamente: a Zhoukoudian si sono trovati migliaia di manufatti; come a Giava, mancano i bifacciali, per cui si è ipotizzato che Homo erectus non fabbricasse oggetti secondo il Modo acheuleano, forse perché non ebbe mai la necessità di costruire bifacciali, forse perché se n'era andato dall'Africa prima che vi si originasse il Modo tecnico 2, e poi perché rimase isolato dalle popolazioni umane che avevano conosciuto questo tipo di strumenti. Una terza ipotesi suggerisce che dobbiamo fare una lettura diversa della documentazione archeologica dell'Estremo Oriente. Il cinese Huang Weiwen e lo statunitense Rick Potts hanno scoperto nella Cina meridionale utensili di 700.000-800.000 anni fa e, benché non siano propriamente acheuleani, propongono di assegnarli al Modo tecnico 2. Mentre Homo erectus si impadroniva dell'Estremo Oriente, altre due evoluzioni diverse, con protagonisti differenti, avvenivano in Europa e Africa. Alla fine di questo libro, quasi sul finire della preistoria, i tre attori del cast si troveranno in un dramma che ha come scenario il Vecchio Mondo. Il nome del personaggio europeo è Uomo di Neandertal: nei prossimi capitoli tenteremo di conoscerne il passato, prima che si verificasse il Grande Incontro con i nostri antenati provenienti dall'Africa. Siamo fortunati perché la penisola iberica ha svolto un ruolo importante in questa storia e una parte fondamentale dell'informazione di cui disponiamo proviene da un giacimento spagnolo: la Sierra de Atapuerca.
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3.
I Neandertaliani
E quando l'ultimo di questi frammenti di una razza marcirà solo e abbandonato tra la foresta e le acque, una generazione più giustiziera resterà a contemplare le praterie dell'Ovest ed esclamerà: "Qui giace la Razza Rossa, che non è stata grande perché non le permisero di diventarlo". Karl May, La morte dell'eroe
Le glaciazioni e l'evoluzione umana in Europa Tutti i fossili di ominidi più vecchi di 1, 7 milioni di anni corrispondono a un'epoca geologica denominata Pliocene, che è l'ultima del periodo Terziario, all'interno dell'era Cenozoica. Nel Pliocene vissero Ardipithecus ramidus, Australopithecus anamensis, Australopithecus afarensis, Australopithecus africanus e Homo habilis. È possibile che presto si trovino ominidi fossili di più di 5 milioni di anni, che li retrodaterebbe al Miocene (l'epoca che precede il Pliocene). Anche i primi Homo ergaster vissero probabilmente prima della fine del Pliocene, ma gli esemplari che presentano un'età inferiore a 1, 7 milioni di anni appartengono già al periodo geologico successivo, il Quaternario. Anche alcuni fossili attribuiti a Homo habilis sono del Quaternario. I parantropi vissero parte della loro esistenza in quanto specie nel corso del Pliocene, però Paranthropus robustus e Paranthropus boisei si estinsero durante il Quaternario. Tutti questi fossili sono africani; come abbiamo già precisato, è ancora difficile definire il momento del primo popolamento dell'Eurasia, che forse avvenne prima del termine del Pliocene o forse poco dopo. Come si può vedere, il limite Terziario-Quaternario coincide casualmente con due momenti importanti dell'evoluzione umana, che forse sono in rapporto tra loro: la comparsa dei primi ominidi che si possono chiamare umani e la diffusione di queste "scimmie bipedi" fuori dell'Africa. Il Quaternario è un periodo caratterizzato da un generale raffreddamento del pianeta, che, benché avesse origini precedenti, si manifesta specialmente nell'ultimo milione di anni: in questo periodo si è verificata una recrudescenza del freddo ogni mille anni, che si è fatta sentire specialmente nei territori dell' emisfero settentrionale. Sono le cosiddette glaciazioni, nel corso delle quali spessi manti di ghiaccio si estesero sulla maggior parte del59
le terre boreali (o nordiche) dell'Eurasia e del Nordamerica. Nella massima diffusione glaciale del Quaternario, attorno al milione di anni orsono, le calotte di ghiaccio coprirono l'intera Irlanda, la Scozia e il Galles, nonché tutta la Scandinavia; il fronte glaciale si spingeva così a sud del continente europeo da lasciarsi alle spalle le odierne Berlino, Varsavia, Mosca e Kiev. La quantità di acqua che gelava nel corso delle glaciazioni era tale che il mare arrivava ad abbassarsi più di cento metri rispetto al livello odierno. Tali periodi freddi erano intercalati da momenti più caldi, chiamati periodi interglaciali. Attualmente stiamo vivendo in uno di questi, che dà nome alla nostra epoca: l'Olocene. Il resto del Quaternario è noto come Pleistocene, anche se, secondo alcuni studiosi, non ha molto senso considerare l'Olocene, che abbraccia soltanto gli ultimi diecimila anni, un'epoca diversa dal Pleistocene, salvo per quanto concerne l'attività umana vera e propria, che, nonostante abbia cambiato drasticamente la biosfera e abbia fatto scomparire numerose specie, tuttavia non ne ha ancora prodotta una: per questo i termini Quaternario e Pleistocene sono quasi sinonimi. L'esistenza delle glaciazioni quaternarie era risaputa grazie allo studio delle impronte lasciate dall'avanzare e dal retrocedere dei ghiacci (anche in montagne meridionali come la Sierra Nevada) e dal ritrovamento di specie tipiche di climi freddi in giacimenti situati in terre dove oggi non potrebbero vivere: più avanti vedremo che le renne popolavano la penisola iberica e che i mammut che ogni tanto compaiono congelati in Siberia un tempo giunsero sino a Granada. Tradizionalmente le crisi climatiche di freddo intenso che devastarono il continente europeo si raggruppano in quattro grandi glaciazioni, stabilite a partire da altrettante stratificazioni alluvionali (chiamate terrazzi) lasciati dalle acque nelle epoche glaciali nel corso superiore del Danubio, nelle Alpi. Tali glaciazioni alpine sono state denominate Giinz, Mindel, Riss e Wiirm, dai nomi di quattro affluenti del Danubio. All'interno di ciascuna glaciazione si riconobbero punte molto fredde o massimi glaciali, chiamati stadi, separati da fasi di freddo meno intenso, gli interstadi. I periodi temperati tra una glaciazione e l'altra si chiamano interglaciali (sempre più prolungati e più caldi degli interstadi), come quello di cui beneficiamo da 10.000 anni. In Olanda e in Germania si sono studiate le glaciazioni in base alla geologia del bacino del Mare del Nord che sono denominate Menap, Elster, Saale e Weichsel (i periodi interglaciali sono chiamati Cromer, Holstein ed Eem). Ma il moderno studio dei mutamenti climatici ci porta direttamente sul fondo degli oceani. Tra gli elementi del plancton marino si trovano i foraminiferi, microrganismi unicellulari che possiedono un guscio calcareo (vale a dire composto di carbona60
to di calcio). Quando un foraminifero muore, il suo guscio sprofonda e si deposita sul fondo del mare; in tal modo i gusci vanno accumulandosi l'uno sull'altro, lentamente ma costantemente. Sono stati avviati alcuni progetti scientifici al fine di sondare i fondali oceanici con il proposito di ottenere una sequenza di microfossili che abbracci un ampio lasso di tempo. Poiché vi sono specie di foraminiferi delle acque calde e altre delle acque fredde, possiamo "leggere" nella successione di foraminiferi dei fondali oceanici i cambiamenti della temperatura dell'acqua. Inoltre, la proporzione nella quale si trovano nell'acqua del mare due forme dell'ossigeno (due isotopi si dice tecnicamente), una leggera e l'altra pesante, varia con la temperatura generale del pianeta, e anche tali cambiamenti chimici possono "essere letti" nei gusci dei foraminiferi. In tal modo, a partire dalla documentazione climatica dei fondali oceanici, si è pervenuti a elaborare una curva assai precisa di paleotemperature, che si scompone in fasi calde e fasi fredde: si tratta dei cosiddetti piani o stadi degli isotopi dell'ossigeno (in inglese abbreviati in OIS), che si numerano a partire dall'attuale, l'OIS 1, a ritroso. Quelli dotati di numeri dispari sono caldi, freddi i pari. In questo libro mi riferirò sia ai moderni stadi isotopici dell'ossigeno sia alle glaciazioni classiche, che sono cicli che comprendono vari stadi (pari e dispari). Una forma diretta per conoscere la proporzione degli isotopi dell'ossigeno nel passato consiste nel ricorrere al ghiaccio fossile. Sono state praticate trivellazioni nel manto di ghiaccio che ricopre la Groenlandia, raggiungendo un'antichità di 120.000 anni. Ora si sta trivellando la calotta polare antartica, più profonda di quella groenlandese, dalla quale si spera di ottenere una documentazione di qualità che copra l'ultimo mezzo milione di anni. Agli effetti dell'evoluzione umana in Europa, il Quaternario si può dividere in quattro grandi fasi. Nel Pleistocene inferiore (tra 1'1,7 milioni di anni e i 780.000) avviene il primo popolamento umano del continente. I fossili più antichi sono quelli del giacimento della Gran Dolina nella Sierra de Atapuerca, risalenti a 800.000 anni fa. Per il momento si tratta di un numero ancora non molto grande di fossili, ottanta circa, però bisogna tenere conto che sono stati trovati in una prospezione di dimensioni assai limitate. Poiché appartengono a tutte le parti dello scheletro e provengono da almeno sei individui differenti, è più che probabile che vi sia un numero molto più alto di resti umani che stanno aspettando laggiù, al livello 6 della Gran Dolina. Noi scienziati che lavoriamo sulla Sierra de Atapuerca abbiamo un appuntamento in sospeso con loro, ma siccome gli scavi dei livelli superiori del giacimento progrediscono lentamente in ragione della 61
meticolosità di cui necessita il metodo scientifico, temo che dureranno ancora qualche anno. Tuttavia i fossili della Gran Dolina di cui disponiamo sono sufficienti per concludere che non si tratta di Homo ergaster né di Homo erectus, bensì di qualche altra specie umana con caratteristiche più moderne, vale a dire, evolutivamente più vicina a Homo sapiens. La sua capacità cranica sembra superare i 1000 cc. Poiché non sono neppure uguali a noi né si tratta di Neandertaliani, bisognerà trovare un nome specifico per definirli. Uno disponibile è quello di Homo heidelbergensis, però riteniamo che tale nome sia più adatto agli antenati dei Neandertaliani, per cui abbiamo optato per denominare Homo antecessor la specie rappresentata dai fossili umani della Gran Dolina. Per quanto ne sappiamo fino a questo momento, le sue caratteristiche la collocano un po' prima della divisione delle linee evolutive che condurrebbero, separatamente, ai Neandertaliani e alla nostra specie. Per il momento è sufficiente quanto detto e, per semplificare, possiamo riferirci al Pleistocene inferiore come al tempo dei primi abitanti europei. Il repertorio di strumenti di pietra fabbricati dagli umani della Gran Dolina non comprende i bifacciali e corrisponde al primo dei grandi modi tecnici, o Modo 1. Come accade in Estremo Oriente, anche i primi abitanti dell'"Estremo Occidente" producevano una tecnologia preacheuleana, mentre il Modo 2 si era sviluppato in Africa molto tempo prima. Un aspetto importante del comportamento degli umani della Gran Dolina si può dedurre dai fossili stessi. Da segni presenti in molti di questi si deduce che furono scarnificati e fatti a pezzi da altri umani, senza alcuno scrupolo. Jane Goodall ha potuto osservare tra gli scimpanzé del Gombe l'esistenza di una violenza feroce tra gruppi vicini, spinta sino allo sterminio di uno di questi; a volte si osservano anche casi di infanticidio e cannibalismo sulla prole. Ma dei corpi di almeno sei umani (di ogni età) della Gran Dolina si è abusato fino in fondo e con calcolo, come fossero prede animali- "animali da carne"-, in un modo spaventosamente disumano, o meglio spaventosamente umano, giacché non si conoscono casi simili in altri primati. Nel Pleistocene medio (tra i 780.000 anni e i 127.000), vissero ed evolvettero gli antenati dei Neandertaliani. Il fossile più antico di questo periodo è la mandibola di Mauer, località nei pressi di Heidelberg, che si aggira attorno al mezzo milione di anni. Tra i "nonni" dei Neandertaliani spiccano i fossili della Sima de los Huesos, anch'essa nella Sierra de Atapuerca, che costituiscono la più grande collezione di fossili umani non soltanto europea, ma di tutto il mondo. A tutti questi fossili si può conferire uno stesso nome di specie, Homo heidelbergensis, in onore della mandi62
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Figura 7. Il quaternario.
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bola di Mauer. Le loro industrie, con bifacciali, sono del tipo acheuleano e appartengono al cosiddetto Modo 2. Il Modo 1 e il Modo 2 insieme costituiscono un periodo culturale che nella preistoria classicamente si denomina Paleolitico inferiore. Può risultare piuttosto sorprendente per il lettore che il Paleolitico inferiore si estenda al Pleistocene inferiore e anche al Pleistocene medio, ma i limiti dei periodi preistorici e geologici non coincidono con il tempo. Inoltre il tempo geologico è uguale in tutto il mondo, mentre i periodi archeologici non si succedono simultaneamente in tutte le popolazioni o specie umane. Nel Pleistocene superiore si definisce il tipo umano neandertaliano, anche al quale si può dare un nome specifico: Homo neanderthalensis. Benché originari dell'Europa, i Neandertaliani uscirono dal nostro piccolo continente per popolare l'Asia centrale e il Vicino Oriente. Tutta questa epoca (tra i 127.000 e i 40.000 anni fa) è il tempo dei Neandertaliani. Il tipo di industria che caratterizza i Neandertaliani è il Musteriano, che corrisponde al Modo 3 o Paleolitico medio. Per la disperazione del lettore, il Paleolitico medio in Europa si estende dalla penultima glaciazione, ancora nel Pleistocene medio, fino a circa la metà dell'ultima glaciazione, già nel Pleistocene superiore. Spero che lo schema presentato aiuti a orientarsi in questa giungla terminologica. Tuttavia, 40.000 anni fa o poco più, vale a dire, durante l'ultima glaciazione, nella penisola iberica e in Europa comparvero alcuni migranti di origine africana, i nostri antenati: i primi rappresentanti europei della specie Homo sapiens, noti generalmente come uomini di Cro-Magnon. Dopo un lungo periodo di coesistenza (10.000 anni o più), i Neandertaliani scomparvero un po' meno di 30.000 anni fa, precisamente quando aveva inizio la fase più dura dell'ultima glaciazione: al momento opportuno dovrò tornare su questa ulteriore coincidenza clima/evoluzione umana. Da allora siamo gli unici umani e gli unici ominidi sul pianeta. Chiameremo i venti millenni compresi tra 30.000 anni fa e 10.000 anni fa il tempo dei Cro-Magnon. Questi umani moderni giungono in Europa con una tecnologia propria, che è quella del Paleolitico superiore o Modo 4, benché anche alcuni Neandertaliani fossero riusciti a pervenirvi, forse per imitazione, oppure per impulso proprio e senza stimoli esterni. A sua volta nella penisola iberica il Paleolitico superiore si suddivide in una serie di industrie che vanno susseguendosi, anche se non in tutti i luoghi contemporaneamente: Aurignaziano, Gravetiano, Solutreano,Magdaleniano (al momento opportuno introdurrò un nuovo termine, molto importante: Chatelperroniense). Gli ultimi 10.000 anni costituiscono l'Olocene, il periodo in64
Figura 8. Filogenia umana. I.:Australopithecus afarensis potrebbe essere una specie nostra antenata oppure soltanto dei parantropi (nel qual caso dovrebbe chiamarsi Paranthropus afarensis). .
terglaciale in cui stiamo vivendo. Non appena ebbe inizio quest'epoca, l'ultima del tempo geologico, nel Medio Oriente sorse l'agricoltura cerealicola, con alcuni primi insediamenti temporanei conosciuti a Tell es Sultan (Gerico, nella valle del Giordano) e çatal Hiiyiik in Turchia. Tuttavia trascorsero altri due millenni prima che le pratiche agricole e di allevamento giungessero sino da noi; nella preistoria questo periodo intermedio è noto come· Mesolitico. La domesticazione di piante e animali diede avvio alla cosiddetta rivoluzione del Neolitico, da cui hanno avuto origine la nostra economia e il nostro modo di vivere. A partire da quella data noi umani produciamo ciò che mangiamo invece di limitarci a procurarcelo attraverso la semplice raccolta e la caccia. I:economia produttiva rese gli umani sedentari, li legò alla terra e·li fece più numerosi, sempre più numerosi, man mano che la superficie del pianeta si andava "umanizzando": ormai siamo quasi sei miliardi di persone al mondo e continuiamo a obbedire all'imperativo "crescete e moltiplicatevi". Attualmente gli unici alimenti di cui ci cibiamo in grande quantità e non prodotti da noi sono i pesci marini, risorsa che stiamo esaurendo. Non abbiamo ancora dato un nome all'intervallo di tempo tra i 40.000 e i 30.000 anni fa, epoca nella quale i Cro-Magnon giunsero in Europa, mentre i Neandertaliani non erano ancora scomparsi. Allora possiamo denominarlo il tempo della coesistenza tra Neandertaliani e Cro-Magnon. Benché dieci millenni sulla scala geologica siano pochi, su scala umana sono molti, tanti anni è durato l'Olocene. Il Pleistocene superiore europeo è quindi il tempo dei Neandertaliani e degli umani moderni che li sostituirono, benché entrambi i tipi umani abbiano radici più profonde, rispettivamente nel Pleistocene medio europeo e africano. Il Pleistocene superiore (127.000 anni fa) ha inizio con un clima caldo come quello attuale, benché l'esaltazione dell'effetto serra prodotto dall'emissione di gas industriali abbia elevato la temperatura un po' più di quanto si confaccia (l'effetto serra in sé è naturale e necessario per la maggior parte della vita sul pianeta). Il periodo caldo con il quale ha inizio il Pleistocene superiore è durato approssimativamente 10.000 anni, durante i quali il livello del mare si è innalzato come ai nostri giorni. È stato in questo periodo così poco freddo che gli ippopotami tornarono in Inghilterra, dove avevano vissuto in precedenza. Poi il bel tempo terminò, il clima divenne più freddo ed ebbe inizio l'ultima glaciazione che, con qualche oscillazione che commenteremo, raggiunge il punto culminante di un clima estremamente severo nell'intervallo compreso tra i 21.000 e i 17 .000 anni fa. In quel momento non esistevano già più i Nean66
Figura 9. I mantelli glaciali. Oltre alle grandi masse di ghiaccio si sviluppò un glaciarismo montano nelle Alpi e nei Pirenei (evidenziati nella figura), e anche in molte altre catene europee. Tratta da H. Kahlke (1994).
dertaliani e furono i nostri antenati a dover sopportare la neve e i lunghi inverni. In cambio delle difficoltà da affrontare, conobbero un'epoca ideale per le grandi mandrie di erbivori e i grandi cacciatori, animali e umani. Dopo questo momento gelido, il freddo cominciò ad allentarsi un poco, per poi rispuntare per un breve intervallo di tempo (meno di un millennio) noto come Dryas recente, con il quale terminò l'ultima glaciazione, circa 10.000 anni orsono. Con lo scioglimento dei ghiacci si allontanarono o scomparvero le grandi prede e iniziò a declinare la stella di alcuni formidabili predatori.
I calpensi Solo per un soffio i Neandertaliani non si sono chiamati "calpensi", in onore di un cranio del tipo neandertal trovato nel 1848 nella cava Forbes a Gibilterra: Calpe è il nome classico di Gibilterra (nell'Alicante vi è un altro roccione e un paese chiamato Calpe); l'attuale denominazione di Gibilterra deriva da Yabal Ta67
riq, in arabo "il monte di Tariq", a sua volta nome di uno dei due capi della conquista araba della Spagna (l'altro generale era Musa). Il secolo e mezzo del ritrovamento del cranio è stato commemorato con la celebrazione a Gibilterra di un congresso dal titolo Calpe '98. Per la verità quello di Gibilterra non è stato il primo Neandertal a essere trovato, poiché nella caverna di Engis (Belgio) in precedenza (1829 o 1830) erano stati scoperti i resti di un bambino di circa due anni e mezzo dello stesso gruppo umano. Il ritrovamento del cranio di Gibilterra precedette di otto anni quello della caverna Feldhofer nella valle del fiume Neander (Germania) che diede il nome al famoso tipo fossile (Neandertal, o Neanderthal secondo l'antica ortografia, significa "valle del Neander"), ma i ritrovamenti di Engis e di Gibilterra non richiamarono l'attenzione e quindi fu lo scheletro fossile di Feldhofer a scatenare la polemica sul significato della specie all'interno dell'evoluzione umana, polemica continuata, come vedremo, fino ai nostri giorni. Il nome scientifico Homo neanderthalensis è stato creato da William King in una comunicazione letta nel congresso del 1863 della British Association for the Advancement of Science. In quell'occasione accadde che lo zoologo George Busk ricordasse (sedici anni dopo il ritrovamento!) l'esistenza del cranio di Gibilterra, che nel frattempo era stato inviato a Londra. Quando, nel settembre 1864, si svolse a Bath la riunione della British Association, Busk presentò una comunicazione assieme al paleontologo Hugh Falconer. Questi suggerì a Busk di denominare il fossile di Gibilterra Homo var. calpicus, anche se tale nome scientifico non giunse mai a diventare ufficiale; in ogni caso si trattava della stessa specie già denominata in precedenza Homo neanderthalensis da King (la versione scritta della comunicazione di King fu pubblicata nel gennaio 1864). I Neandertaliani, senza dubbio alcuno, sono gli umani estinti che conosciamo meglio. Come vedremo, Erik Trinkaus utilizzò nientemeno che 206 individui per studiarne l'età della morte. Per questo possiamo descriverne le caratteristiche fisiche, basandoci sulle ossa, con sufficiente cognizione di causa. Tuttavia, nonostante la relativa abbondanza di fossili, alcune parti cruciali dello scheletro, come l'anca o la base del cranio, sono ancora poco note. In entrambi i casi si tratta di strutture importanti in rapporto a due aspetti distintivi della nostra condizione umana: il modo di parlare e il parto. Il parto è importante non soltanto perché nella donna si presenta particolarmente difficoltoso ma anche perché la strettezza del condotto che il nascituro deve attraversare ci costringe a nascere ancora relativamente immaturi, non potendo crescere oltre un certo limite. Anche l'informazione ottenuta dagli antenati dei Neanderta-
liani nel Pleistocene medio (tra i 780.000 e i 127.000 anni orsono) è piuttosto precaria, soprattutto per quanto si riferisce allo scheletro postcranico (dal collo in giù). Fortunatamente possiamo contare sulla stupenda eccezione della Sima de los Huesos, nella Sierra de Atapuerca, per colmare questo vuoto fossile. Qualcosa di simile accade con la nostra specie. Ci è nota nel nostro stadio attuale, ma ci sono pochissimi resti dello scheletro postcranico del Pleistocene medio: ci vorrebbe una Sima de los Huesos africana per ovviare alla scarsità di fossili dei nostri antenati diretti. Tornando ai Neandertaliani, cominceremo con il descriverne e interpretarne la morfologia, prima di tentare di conoscerne la psicologia. Alcuni dei tratti fisici che li differenziano da noi sono semplicemente arcaismi, attributi primitivi posseduti dai nostri ascendenti, ma che noi abbiamo perduti in qualche momento della nostra evoluzione recente. Mentre noi abbiamo innovato tali caratteristiche, i Neandertaliani, semplicemente, sono rimasti immutati. In altri tratti è accaduto esattamente il contrario: la nostra specie è stata conservatrice, mentre i Neandertaliani hanno sviluppato aspetti propri ed esclusivi nel corso dei 100.000 anni durante i quali si sono evoluti per proprio conto, isolati, in Europa. Il lavoro del paleontologo consiste nel distinguere i due tipi di caratteristiche. Sino a pochi anni orsono tale distinzione non veniva compiuta e per questo si verificava molta confusione al momento di stabilire le relazioni evolutive tra i fossili. Per esempio, gli umani moderni di 100.000 anni fa scoperti in Israele, dei quali parleremo a suo tempo, presentavano ancora alcune caratteristiche primitive, assieme ad altri tratti già propriamente m9derni: in ragione di simili arcaismi si mettevano in relazione con i Neandertaliani (che mantennero per tutta la loro esistenza evolutiva questi tratti primitivi in particolare, mentre andavano sviluppando propri elementi originali in altre parti dello scheletro). In tal modo, si è giunti a ritenere che gli umani moderni arcaici, i "proto-Cro-Magnon" di Israele, rientrassero nella variabile Neandertal: erano loro discendenti oppure erano ibridi tra Neandertaliani e uomini di Cro-Magnon. Tuttavia, ora vediamo con chiarezza che la presenza di tratti moderni li collocano all'interno dei nostri ascendenti e che i caratteri arcaici non sono in relazione con i Neandertaliani. La separazione, a livello di analisi, fra tratti primitivi e tratti evolutivi o derivati - che sono quelli che contano - è la lezione principale fornitaci dalla cladistica, metodologia scoperta da Willi Hennig, menzionata nel primo capitolo. Ora abbiamo l'opportunità di metterla in pratica. Vedremo subito che si tratta di un compito molto difficile e in certi punti speculativo, quando vi 69
è scarsità di fossili. Ma si tratta di un problema che troverà certamente soluzione man mano che si scopriranno nuovi resti. Ho fiducia che, una volta trovato il punto di vista corretto grazie alla cladistica, i ritrovamenti di un numero maggiore di fossili spiegheranno in gran parte, nei prossimi anni, il panorama del1'evoluzione umana. Questa è la buona notizia, perché la cattiva è che quanto meglio conosciamo levoluzione umana, tanto più ci rendiamo conto di quanto fosse straordinariamente complessa per gli innumerevoli rami di cui è dotata. La disquisizione, forse un po' prolissa, sui tratti primitivi e i tratti derivati serve anche allo scopo di chiarire con decisione che i Neandertaliani non erano semplicemente versioni primitive di noi stessi, persone in scala minore, con facoltà mentali piuttosto limitate. I Neandertaliani condividevano con noi molte caratteristiche, ereditate da un'intera storia evolutiva comune, durata fino al momento in cui le due linee si sono differenziate. Ma, a partire dal momento della sua separazione, il ramo europeo non restò immutato, anzi nella sua evoluzione diede luogo ai Neandertaliani, che svilupparono caratteristiche distintive proprie (come, fuori dell'Europa, abbiamo fatto anche noi). I Neandertaliani non erano fossili viventi appartenenti a un tempo pas- . sato, una sorta di anacronismo; semplicemente, erano diversi dai nostri antenati. Alla loro epoca erano "moderni" come i CroMagnon. Inoltre, per quanto riguarda una caratteristica molto importante, la dimensione del cervello, i Neandertaliani evolvettero in parallelo con i nostri antenati e raggiunsero uno sviluppo simile, se non superiore. La capacità cranica media (o volume endocranico o encefalico) dei Neandertaliani si calcola a partire dai crani fossili, e poiché numerosi sono incompleti e quindi devono essere ricostruiti, vi è un certo margine di discrepanza. Tuttavia tutto fa pensare che la media dei Neandertaliani fosse superiore a quella umana attuale, e in ogni caso non era certo inferiore. Il più grande di tutti i crani Neandertaliani rinvenuti proviene da Amud (un giacimento israeliano): la sua capacità cranica era di 1750 cc, di fatto il maggior volume endocranico della documentazione fossile. Se è vero che i Neandertaliani evolvettero sino a raggiungere un cervello sempre maggiore contemporaneamente ai nostri antenati, ma indipendentemente da questi, potremmo trovarci di fronte alla più affascinante delle storie, la storia di due specie umane che raggiunsero l'intelligenza separatamente e poi entrarono in contatto (o forse sarebbe meglio dire in collisione?). Non affrettiamo le conclusioni, perché per ammettere il raggiungimento in parallelo di una simile evoluzione è necessario prima eliminare due spiegazioni alternative. Una è che i Neandertaliani e gli umani moderni ereditarono la considerevole dimensione 70
del cranio da un antenato comune; l'altra è che ci fu uno scambio di geni tra entrambe le linee evolutive, la nostra e quella dei Neandertaliani, e questo è il motivo per cui abbiamo in comune un cervello così grande (e forse anche altre cose). Tuttavia non siamo in condizione di compiere stime affidabili sul volume encefalico di Homo antecessor: pare che, come abbiamo detto, superasse i 1000 cc, ma di quanto è ancora un'incognita. Tuttavia vi sono alcuni, pochi, crani fossili del Pleistocene medio europeo, quindi antenati dei Neandertaliani, che possono aiutare le nostre ricerche. Uno di questi è il cranio di Steinheim (Germania) del quale, essendo piuttosto deformato, è difficile stabilire con sicurezza la capacità cranica. Direi che superava di poco i 1000 cc, forse era attorno ai 1100 cc. Neppure l'età di tale fossile si conosce con precisione: potrebbe avere dai 300.000 ai 420.000 anni, anche se il primo dato mi sembra più vicino alla verità. Un altro cranio europeo del Pleistocene medio è il cranio di Petralona (Grecia), con una capacità di 1230 cc, ma di cui è impossibile individuare l'età. Fortunatamente nella Sima de los Huesos vi sono tre crani la cui capacità encefalica può essere calcolata con un ridotto margine di errore. Uno è il Cranio 4, con una capacità di 1390 cc, un altro è il Cranio 5, con 1125 cc di capacità, il terzo è il Cranio 6, con una capacità di 1220 cc. I fossili della Sima de los Huesos risalgono a circa 300.000 anni fa, anno più anno meno. Intanto, cosa accadeva in Africa nel Pleistocene medio? Nel 1921 vi è stato trovato un cranio molto completo che è diventato classico: il cranio di Broken Hill o Kabwe (Zambia), la cui capacità è di 1285 cc. Tanto per cambiare, neppure questa volta sappiamo con molta esattezza l'età del fossile, anche se ci sembra che sia tra i più antichi del Pleistocene medio africano; è possibile che fosse contemporaneo ai fossili burgalesi della Sima de los Huesos. Una capacità cranica piuttosto superiore a quella di Broken Hill, a volte attorno ai 1400 cc, spetta al fossile KNM-ER 3834, rinvenuto sulla riva orientale del Lago Turkana (Kenya), la cui età è più o meno simile. Altri fossili africani del Pleistocene medio, con un volume encefalico valutabile, sono i fossili di Florisbad (Repubblica sudafricana), di circa 1280 cc e quello di Ndutu (Tanzania) prossimo ai 1100 cc. Inoltre abbiamo un cranio proveniente da Salé (Marocco) che, pur non essendo completo, sembra avere una capacità cranica ridotta, vicina o addirittura inferiore ai 1000 cc. Mentre i crani di Salé e di Ndutu sono più antichi di quello di Broken Hill, e possono aggirarsi attorno ai 400.000 anni, il cranio di Florisbad sembra un po' più moderno, intorno al quarto di milione di anni. In Africa, in un periodo compreso tra i 200.000 e i 100.000 anni fa, vi è anche una serie di crani dal volume encefalico misura71
bile. Benché non siano ancora morfologicamente moderni, già si stanno evolvendo in questa direzione, tanto che li si può tranquillamente definire premoderni. Si tratta di Eliye Springs (riva occidentale del Lago Turkana, Kenya), Omo Kibish 2 (Etiopia), Laetoli 18 (Tanzania), Jebel Irhoud 1 e Jebel Irhoud 2 (Marocco); il loro livello di capacità cranica va dai 1300 cc ai 1430 cc. Dai dati presentati credo si possa dedurre che nel Pleistocene medio (periodo che va dai 780.000 ai 127.000 anni fa) si verificò un aumento della dimensione dell'encefalo sia in Africa sia in Europa. Circa 300.000 anni fa, alcuni encefali nei due continenti raggiunsero volumi che si aggiravano già attorno ai 1400 cc, come nel caso del Cranio 4 della Sima de lòs Huesos e del fossile KNM-ER 3834 della riva orientale del Lago Turkana. Probabilmente la media delle rispettive popolazioni, europea e africana, era ancora inferiore a quella dei Neandertaliani e a quella degli umani moderni, giacché vi fu un'ulteriore espansione del volume encefalico alla fine del Pleistocene medio e nella prima parte del Pleistocene superiore (meno di 127.000 anni fa). È interessante segnalare che i fossili più antichi del Pleistocene medio (europei e africani) si associano alla tecnologia acheuleana o Modo tecnico II. Siamo agli inizi del Paleolitico medio, Ciò che caratterizza il Paleolitico medio è una nuova strategia di taglio - chiamato metodo levalloisiano - che consiste nella meticolosa preparazione di un primo nucleo da cui ricavare successivamente lo strumento, in definitiva una scheggia. Pertanto si tratta di una catena operativa con due fasi del tutto differenti. Possiamo immaginare gli Homo ergaster mentre intagliavano un ciottolo o un blocco di pietra con in testa un'immagine - una rappresentazione mentale di carattere visivo - di un bifacciale. In altre parole, nella nostra testa vediamo un Homo ergaster con un bifacciale dipinto all'interno della testa; nel linguaggio visivo dei fumetti si rappresenterebbe il bifacciale all'interno di un grande cerchio unito alla testa dell'uomo preistorico da una catena di cerchietti (in questo modo si esprime convenzionalmente ciò che il personaggio sta pensando). In definitiva Homo ergaster in questione vede - anche se non con i due occhi normali, bensì con l'occhio interiore o terzo occhio - il risultato dell'intaglio prima che avvenga; si può dire che trasferisce l'immagine alla pietra. Nel caso della tecnica levallois, ciò che l'intagliatore deve immagi,nare è sia la preparazione del primo nucleo, primo obiettivo della catena operativa, sia lo strumento che, tutto d'un colpo, produrrà in seguito. In tutto il processo vi è una complessità nuova che pare esprimere una maggiore capacità di pianificazione rispetto alle tecniche precedenti, e la pianificazione, come abbiamo detto, è una caratteristica prettamente umana. 72
Le manifestazioni iniziali del Modo tecnico 3 coincidono, nel tempo e nello spazio, con i primi encefali che raggiungono il volume di 1400 cc. In tale associazione potremmo vedere una relazione causa/effetto. Lipotesi secondo la quale l'aumento della materia grigia ha a che vedere con la produzione di strumenti più elaborati è suggestiva, ma difficile, quasi impossibile, da verificare. Ih ogni caso, quello che invece dimostra la documentazione archeologica è una certa continuità tra Europa, Africa e parte dell'Asia (fino al Gange) nella tecnologia, una sorta dicomunicazione culturale tra popolazioni di continenti diversi. Ciò nonostante, all'interno del Paleolitico medio si riconoscono chiaramente varianti regionali, compatibili con un modello di diversità geografica in campo biologico e culturale e con una certa permeabilità delle frontiere alle influenze tecnologiche altrui. In Europa e in parte dell'Asia si è sviluppato il Musteriano, come in Nordafrica (soprattutto nella zona orientale: Libia ed Egitto). In India e nel resto dell'Africa il Paleolitico medio o Modo 3 ha adottato modelli differenti. Ora voglio citare un termine coniato da Pierre Teilhard de Chardin: la noosfera. Come (secondo Vladimir Verndaskij) si può parlare di biosfera in riferimento all'involucro vivo della Terra, quella sottile pellicola formata da una molteplicità di esseri indipendenti, ma collegati tra loro a formare una fitta maglia, così, riteneva Teilhard de Chardin, gli umani costituiscono una pellicola intelligente, a mo' di sfera che avvolge il pianeta. Una comunità di creature viventi che pensano all'unisono o collegate mentalmente: un mantello esterno alla biosfera vera e propria. Teilhard de Chardin (che è morto nel 1955) non poteva immaginare quanto il suo sogno/metafora fosse prossimo a realizzarsi in una realtà materiale in quella che oggi chiamiamo "la rete". Nel nostro caso, l'estensione del Modo 3 (o Musteriano) a tutta l'Europa, l'Africa e parte dell'Asia (come era precedentemente accaduto con il Modo 2 o Acheuleano) potrebbe essere espressione dell'esistenza di una vera e propria noosfera, benché sotto forma di una rete assai allentata e geograficamente circoscritta a una regione del pianeta; questa sarebbe la prova del fatto che, al di là delle frontiere biologiche, vi erano legami culturali o per lo meno tecnologici tra le popolazioni dei due continenti (e si consideri che Homo erectus dell'Estremo Oriente - al di là del Gange - con la sua tecnologia invariata ferma al Modo 1, non si sarebbe inserito in nessuna di queste noosfere). Tuttavia vi è un'altra spiegazione possibile per ciò che ci mostra la documentazione archeologica e paleontologica. Forse le 'popolazioni europee, africane e delle regioni asiatiche più prossime a questi due continenti furono sempre collegate tra loro biologicamente, mantenendo sì un certo isolamento, ma scam73
biandosi simultaneamente i geni attraverso le frontiere, geni come quelli che produssero l'aumento del cervello. Questo modello si chiama modello di evoluzione interregionale, i cui principali difensori attualmente, benché con sfumature differenti, sono gli statunitensi Milford Wolpoff, Fred Smith e David Frayer, il cinese Wu Xinzhi e l'australiano Alan Thorne. Il modello evolutivo si estende anche alle popolazioni di Homo erectus dell'Estremo Oriente, anche se in queste ultime l'aumento del cervello fu assai meno significativo. La documentazione fossile dell'isola di Giava termina con una serie di quattordici teschi e due tibie trovate nei terrazzamenti del fiume Solo, a Ngadong. La datazione è oggetto di polemica: secondo l'équipe di Cari Swisher avrebbero tra i 54.000 e i 27.000 anni, mentre vi sono geocronologi, come il francese Christophe Falguères che attribuiscono loro 200.000 anni se non più. Altri teschi di Giava che sembrano più o meno contemporanei di quelli di Ngadong sono i teschi di Sambungmacan e di Ngawi. In sei di quelli di Ngadong si può calcolare (o almeno stimare) la capacità cranica, che varia dai 1013 cc ai 1251 cc; quella di Ngawi si calcola in circa 1000 cc e quella di Sambungmacan non va oltre i 1200 cc. In Cina vi è un paio di fossili risalenti a un periodo compreso tra i 150.000 e i 300.000 anni fa (non è possibile stabilirlo con esattezza) che si differenziano dai classici Homo erectus. Uno è il cranio ·di Dali, che possiede una morfologia che si avvicina a quella moderna in alcuni tratti, per esempio nella faccia, benché la sua capacità cranica sia bassa, cioè di circa 1100 cc. Da Jinniu Shan proviene uno scheletro frammentario, faticosamente descritto, che in futuro farà molto discutere. La sua capacità cranica (stimata) sembra piuttosto grande, e vicina ai 1260 cc. Questi fossili si potrebbero interpretare come immigrati africani che sostituirono nel continente gli Homo erectus locali; tuttavia, dal punto di vista dei multiregionalisti, si potrebbero considerare Homo erectus evoluti per influsso di geni africani (vale a dire tramite la mescolanza del sangue e non per sostituzione completa di popolazioni). Se si stabilisse che i fossili di Dali e di Jinniu Shan sono contemporanei degli ultimi Homo erectus di Zhoukoudian potremmo parlare della coesistenza in Cina di due tipi umani diversi (forse anche di due specie differenti), uno di origine locale (Homo erectus) e l'altro giunto dall'esterno e rappresentato dai fossili di Dali e di Jinniu Shan. Se questi ultimi risulteranno essere posteriori, l'ipotesi dell'evoluzione locale a partire da Homo erectus, con l'inserimento di geni esterni, sarà più difendibile. Come si può vedere, le cose in Cina sono molto complicate, perché vi sono pochi fossili, un grande territorio da considerare e, forse, molte storie da raccontare. Per questo sono convinto 74
che la migliore strategia in questo libro sia quella di limitarci alle regioni sulle quali si hanno più informazioni e lasciare in disparte (speriamo soltanto per pochi anni) la Cina, poiché non sappiamo con precisione che cosa accadde nel periodo che va dagli ultimi Homo erectus di Zhoukoudian fino al momento in cui giunsero gli umani completamente moderni. Per disfare una matassa la cosa migliore è tirarne i due capi separati; in questo caso ne abbiamo due che conosciamo particolarmente bene: la nostra specie e i Neandertaliani. I capi slegati delle catene evolutive sono le specie viventi che non hanno ancora discendenti, e le specie che si sono estinte senza discendenti. Poiché quest'ultimo è il caso dei Neandertaliani, come spero di dimostrare, cominceremo da qui.
Come identificare un Neandertaliano nella metropolitana di New York In qualche occasione si è sostenuto che i Neandertaliani erano tanto simili a noi che, vestiti all'europea, sarebbero passati inosservati nella metropolitana di New York (per accentuare la somiglianza Carleton Coon, nel suo libro del 1939, rappresentava una neandertaliano in cravatta e cappello, in un ritratto molto noto). So che rion è così, e per esperienza personale. Non che mi sia mai imbattuto in un Neandertaliano nella metropolitana di Madrid, ma ho partecipato alla ricostruzione della testa di un uomo della Sima de los Huesos per il pluripremiato documentario di Javier Trueba intitolato Atapuerca. El misterio de la evoluci6n humana. Poi abbiamo camuffato uno dei nostri (o meglio l'abbiamo mascherato) con una riproduzione della faccia: posso assicurare che l'effetto era impressionante. Quando si ricrea un ominide primitivo, per esempio un australopiteco, la creatura che compare davanti ai nostri occhi ci risulta più familiare, meno sconvolgente, poiché ricorda uno scimpanzé, anche se è costituita da una forma inesistente di scimpanzé bipede. Tuttavia non vi è un equivalente attuale dei Neandertaliani, così simili a noi, così umani e paradossalmente così diversi. Scoprire un neandertaliano, anche se ricostruito, è un'esperienza appassionante (e certamente lo fu ancor di più per i nostri antenati che lo conobbero di persona). Che cosa avevano di diverso i Neandertaliani? Che cosa saranno sembrati ai Cro-Magnon la prima volta che li videro? Per cominciare, i Neandertaliani erano molto bianchi, mentre i CroMagnon non tanto. Come si fa a sapere il colore della pelle degli uomini fossili? È più facile di quanto sembri. Le popolazioni umane che vivono vicino all'Equatore ricevono una tale quantità 75
Figura 10. Cranio neandertaliano. Negli schemi inferiori si paragona la_morfologia neandertaliana (destra) con quella di un ipotetico antenato non eccessivamente specializzato (sinistra); schemi ispirati a Rak (1986).
di raggi solari da risultare dannosa alle persone dalla pelle chiara. Possono insorgere mortali tumori della pelle, come in effetti accade agli europei che si espongono continuativamente e senza protezione alle radiazioni intense. Per questo i nativi delle terre del Mezzogiorno si difendono, biologicamente, con un pigmento chiamato melanina che si trova negli strati profondi dell' epidermide. Sia gli abitanti dell'Africa detta per questo nera sia, per esempio, gli aborigeni australiani - che non hanno niente a che vedere con questi ultimi - sono molto scuri. I.:antropologo Earnest Hooton, professore ad Harvard, nel 1936 scriveva che una curiosa e contorta psicologia spinge certi appartenenti alle razze "bianche" ad arricciarsi i capelli e a patire danni fisici per abbronzarsi e, nonostante ciò, considerano i capelli naturalmente ricci e la pelle scura un segno di inferiorità razziale! Sotto l'epidermide si trova un secondo strato, il derma, dove si produce la vitamina D 3; questa vitamina è indispensabile per la formazione delle ossa, ma affinché si produca la sintesi della vitamina D3 le cellule del derma devono ricevere una quantità sufficiente di raggi ultravioletti. Nonostante il colore scuro della pelle, gli africani e gli australiani sono esposti a una tale quantità di raggi solari da averne più che a sufficienza. Tuttavia gli africani (di origine) che vivono in terre situate a latitudini alte possono soffrire di un deficit di vitamina D3 (a meno che non venga somministrata loro la vitamina che non producono naturalmente), con i conseguenti problemi di sviluppo e con la comparsa del rachitismo, che nelle donne provoca frequentemente gravi difficoltà a partorire. In situazioni di scarsa insolazione, le persone con la pelle chiara sono avvantaggiate, perché sono favorite dalla scarsa quantità di radiazioni ultraviolette. Di conseguenza, i Neandertaliani, evolutisi in Europa a latitudini medie e alte, sarebbero più bianchi dei Cro-Magnon, che ebbero origine in Africa, per lo meno finché i nuovi europei non si adattarono alle condizioni locali (ci sarebbero volute alcune migliaia di anni). Nel delizioso romanzo incentrato su uomini preistorici Dance of the Tiger (La danza della tigre), l'unico che abbia letto scritto .da un paleontologo di professione - Bjorn Kurten - i Neandertaliani sono chiamati i "Bianchi" e gli umani moderni i "Neri". I Neandertaliani avevano un torus sopraorbitario ben sviluppato, vale a dire una protuberanza ossea sopra le cavità orbitali dove, nel cranio, sono situati i globi oculari. Il torus sopraorbitario è poco visibile in Homo habilis, ma diventa grosso e assai cospicuo a partire da Homo ergaster. Nella nostra specie è mancante, anche se alcuni Homo sapiens di 100.000 anni fa non lo avevano ancora perduto completamente. Tuttavia il torus sopraorbitario dei Neandertaliani era assai caratteristico, perché formava due archi di circonferenza che si univano al di sopra del naso. In 77
altre specie umane prowiste di torus sopraorbitario la curvatura al di sopra delle orbite non era così regolare e inoltre presentava una depressione centrale tra i due archi. Al di sotto del torus sopraorbitario i Neandertaliani mostravano una fronte più piatta rispetto alla nostra. Non si capisce bene a cosa il torus servisse, anche se potrebbe aver avuto numerose funzioni, come proteggere gli occhi da colpi provenienti dall'alto e, contemporaneamente, assorbire le tensioni meccaniche che si generano nelle ossa della masticazione; tali sforzi si trasmettono a partire dai denti verso l'alto e potrebbero letteralmente staccare la faccia dal resto del cranio all'altezza della fronte se non fosse per questa struttura di rinforzo (il torus). La fronte alta della nostra specie è la continuazione in senso verticale della faccia, senza un cambiamento di piano tra faccia e fronte, come in tutti gli altri ominidi; per questo potrebbe assolvere alle stesse funzioni del torus sopraorbitario, vale a dire dissolvere lo stress meccanico. Generalmente si è soliti considerare che il torus sopraorbitario e la fronte piatta conferiscano ai Neandertaliani un aspetto arcaico e grossolano, mentre l'assenza di torus e la fronte alta renderebbero più vivaci i Cro-Magnon, nostri ascendenti. Tuttavia Bjorn Kurten considera la questione da un altro punto di vista, dal punto di vista dei Neandertaliani. Questa sorta di visiera ossea sopra agli occhi conferirebbe loro un profilo altero e fiero e lo sguardo orgoglioso di un'aquila. Gli umani moderni, invece, con la loro fronte concava, la mancanza di torus sopraorbitario e una faccia più piccola, ricorderebbero i figli dei Neandertaliani. In tutti i mammiferi, infatti, una fronte bombata e una faccia di dimensioni ridotte e piatta sono caratteristiche infantili e, per di più, svolgono la funzione universale di ispirare sentimenti di protezione e tenerezza, inibendo così l'aggressività degli adulti di fronte ai piccoli (sicuramente questi stessi caratteri, e per le stesse ragioni, sono anche femminili). Nei fumetti e nei pupazzi di animali e persone si potenziano i tratti infantili per rendere i personaggi più simpatici (questi stessi segni, assieme a quelli sessuali, molte volte vengono esagerati nelle rappresentazioni dei personaggi femminili). Se, come pare, tali meccanismi sono inscritti nei nostri geni (come in quelli di tutti i mammiferi), i Cro-Magnon dovevano sembrare molto teneri ai Neandertaliani! A dispetto di ciò, dovevano scoprire molto spesso che tipo di persone (e di comportamento) si nascondesse dietro a un'apparenza così dolce! Il neurocranio o calvario - la scatola ossea che contiene al proprio interno l'encefalo - nei Cro-Magnon (come in noi) tendeva a una forma sferica, altra caratteristica infantile (e femminile), mentre nei Neandertaliani era molto allungato, con un occi78
pite - losso posteriore del cranio - proiettato verso la parte posteriore. Inoltre in questi ultimi il neurocranio presentava una serie di originalità non note in alcun altro tipo di fossili (su cui non mi soffermerò). Benché sia certo che tali particolari non sarebbero apprezzabili in una testa dotata di capelli - non so se vi fossero calvi tra i Neandertaliani, anche se è probabile, poiché tutti i mammiferi tendono a perdere il pelo con letà -, non passano inosservati agli occhi del paleontologo e ci informano che i Neandertaliani furono esseri umani davvero singolari che si evolvettero al margine delle altre umanità del loro tempo. Lo scheletro della faccia dei Neandertaliani era davvero speciale, con una morfologia unica. Per dirla in poche parole, l'apertura nasale - la porta su cui si apre la cavità nasale - era situata in una posizione molto anteriore rispetto ai lati della faccia (più che nella nostra specie). Le ossa nasali - che formano il tetto della cavità nasale - erano disposte quasi orizzontalmente, tanto erano proiettati verso la parte anteriore. Le ossa mascellari e malari insieme formavano superfici piane alla destra e alla sinistra dell'apertura nasale, ed erano orientate in modo tale da dare alla faccia un'apparenza appuntita, come a cuneo: in untaglio orizzontale la sezione della faccia di un Neandertaliano ricorda il profilo triangolare delle ali di un aereo da combattimento a reazione. Il citato Alan Thorne una volta mi ha descritto la faccia degli uomini di Neandertal come "faccia da velocità", perché sembra adatta a fendere l'aria. Poiché ovviamente non era stata disegnata a questo fine - l'alta velocità - si sono cercate altre spiegazioni. Le due più serie sono l'ipotesi biomeccanica e quella climatica. In base alla prima, una morfologia facciale a cuneo disperderebbe sui lati lo stress generato nella parte anteriore dell'ossatura facciale dall'uso intenso degli incisivi, che nei Neandertaliani appaiono sempre consumati, sin dalla tenera età; ignoriamo il motivo per cui utilizzassero tanto i denti anteriori, ma si suppone che lo facessero con un intento "paramasticatorio", vale a dire non legato all'alimentazione, per esempio per afferrare oggetti e tirarseli dietro (come se si trattasse di una "terza mano"). L'ipotesi climatica ipotizza che la faccia dell'uomo di Neandertal rappresenti un adattamento a un freddo intenso, quasi polare: l'enorme cavità nasale avrebbe funzionato come un radiatore volto a inumidire e riscaldare laria gelida prima che questa entrasse nei polmoni; seni mascellari e frontali straordinariamente sviluppati ai lati e in cima trasformerebbero la faccia in una grande maschera vuota, e quindi isolante, interposta tra l'atmosfera esterna e il cervello. Lespressione "faccia da alta velocità" sembra suggerire che le aree più laterali della faccia emigrarono verso la parte posteriore 79
("sfuggirono" se si vuole) per dar luogo a una morfologia facciale appuntita, tipica dei Neandertaliani. Questo, letteralmente, è il modello formulato dallo statunitense Erik Trinkaus per spiegare come andarono le cose. La porzione di faccia che sarebbe retrocessa, la parte periferica, è quella che sostiene i principali muscoli della masticazione (i masseteri e i temporali), mentre la parte che contiene i denti, la parte centrale, sarebbe rimasta al suo posto. Dietro al terzo e ultimo molare della mandibola dei Neandertaliani si osserva uno spazio vuoto chiamato spazio retromolare, conseguenza della separazione tra la parte masticatoria della faccia- fissa - e la parte muscolare, che è quella che sarebbe retrocessa. L'israeliano Yoel Rak ritiene, invece, che tale retrocessione della regione periferica della faccia rispetto alla parte centrale non abbia avuto luogo, ma vi sia stato soltanto un nuovo modellamento della faccia e un mutamento della sua topografia per le ragioni biomeccaniche esposte sopra; lo spazio retromolare si spiegherebbe con un'altra causa, vale a dire con il fatto che i molari dei Neandertaliani divennero più piccoli, mentre la dimensione della mandibola sarebbe rimasta uguale, lasciando così un vuoto dietro all'ultimo molare. Il mento dei Cro-Magnon, una strana protuberanza nella parte anteriore della mandibola (la cui funzione non si conosce con certezza), doveva suscitare una certa curiosità nei Neandertaliani, che non l'avevano, poiché si tratta di un carattere originario tipico degli umani moderni. Uno sguardo retrospettivo alla documentazione europea del1'evoluzione umana rende possibile comprendere come giunse a formarsi la faccia dei Neandertaliani. Il più completo cranio fossile del Pleistocene medio europeo (e anche di tutta la documentazione fossile dell'evoluzione umana fino ai Cro-Magnon) è Cranio 5 della Sima de los Huesos ad Atapuerca. Gli altri crani europei di questa epoca che, bene o male, conservano la faccia sono quello di Steinheim (Germania), quello di :LArago (Francia) e quello di Petralona (Grecia). Se la morfologia facciale neandertaliana si potrebbe descrivere, con una battuta, da "alta velocità", potremmo aggiungere che i Neandertaliani "ingranavano" la "quinta", mentre i loro antenati "circolavano" in seconda o al massimo in terza, poiché i loro tratti non sono così esagerati o, se si preferisce, i lati della faccia non erano tanto "tesi" verso la parte posteriore. Cranio 5 e gli altri fossili della Sima de los Huesos mostrano lo spazio retromolare - il vuoto dietro al dente del giudizio - caratteristico dei Neandertaliani, indicando così che questi erano i loro antenati. Grazie anche a Cranio 5 possiamo chiarire la controversia, cui abbiamo accennato, circa le modalità di formazione della faccia neandertaliana; entrambe le ipate80
si hanno in parte ragione. In un primo tempo si è ridotta la dimensione dei molari e.la faccia ha iniziato a rimodellarsi (i fossili della Sima de los Huesos si trovano a questo stadio), e poi si è verificato l'arretramento della parte della mandibola in cui si innestano i muscoli della masticazione. I fossili della Gran Dolina ad Atapuerca, risalenti a 800.000 anni orsono, sono quelli più vicini all'antenato comune di Neandertaliani e umani moderni. È curioso che il fossile più completo della Gran Dolina sia quello di un bambino di circa undici anni, la cui faccia è assai più moderna, più somigliante alla faccia umana attuale, di quanto non fosse quella dei più recenti Neandertaliani. La faccia moderna è sempre stata presente nei bambini, ma con la nostra specie si è mantenuta per tutta la vita; abbiamo già detto che i Cro-Magnon sarebbero apparsi molto infantili ai Neandertaliani. Analizzando in dettaglio le varie caratteristiche craniche dei Neandertaliani si conclude che la maggior parte di esse era già presente nei resti fossili del giacimento di Biache-Saint-Vaast (Francia) di circa 200.000 anni. Vi sono frammenti cranici con caratteristiche neandertaliane provenienti dal giacimento tedesco di Ehringsdorf, anche se la data è oggetto di discussione: secondo alcuni studiosi sarebbe tra i 120.000 e i 127.000 anni, secondo altri sarebbero più antichi di circa un 250.000 anni; probabilmente gli ultimi sono nel vero. La comparsa, inizialmente timida, come abbozzata, e poi, alla fine del Pleistocene medio, sempre più decisa e chiara delle caratteristiche del cranio neandertaliano, c~ serve anche per mettere alla prova i due modelli di evoluzione umana di cui abbiamo discusso in precedenza. A mio parere, poiché nessun fossile del Pleistocene medio africano o asiatico mostra tali tratti, neppure a uno stadio iniziale, deduco che gli antenati dei Neandertaliani non scambiarono geni con altre popolazioni limane contemporanee, ma evolvettero in Europa in completo (o quasi completo) isolamento genetico.
Elvis, la pelvis Neandertaliani e uomini di Cro-Magnon non erano diversi soltanto per le caratteristiche della testa, ma si potevano riconoscere da lontano anche per la forma e le proporzioni del corpo. I Neandertaliani, tuttavia, non erano più simili alle scimmie, come si potrebbe pensare. Al famoso Marcellin Boule, il paleoantropologo francese ricordato nel prologo, si rimprovera di aver ricostruito l'uomo di Neandertal con le ginocchia flesse e il collo inclinato in avanti, vale a dire, non completamente eretto. Il suo 81
errore fu dovuto al fatto che non riconobbe in alcune caratteristiche dello scheletro di La Chapelle-aux-Saints elementi patologici, vale a dire dovuti a malattia. Un modo di affrontare lo studio della forma del corpo umano è quello di assimilarlo a un cilindro. Il peso e il volume del cilindro, come la sua superficie, dipendono dall'altezza e dal diametro: allo stesso modo varia il rapporto tra la superficie e il volume; tale rapporto è molto importante per la termoregolazione dei mammiferi, in quanto animali che tendono a mantenere costante la temperatura corporea. Due cilindri della stessa larghezza (con uguale diametro della sezione) hanno necessariamente un identico rapporto tra la superficie laterale e il volume, qualunque sia l'altezza. Ma quanto maggiore è la larghezza, tanto minore sarà il quoziente tra superficie laterale (il numeratore) e volume (il denominatore). Una superficie corporea proporzionalmente piccola è adatta ad animali che vivono in climi freddi, poiché evitano così la dispersione del calore corporeo attraverso la pelle. Esattamente il contrario accade nei climi caldi e secchi, dove l'ideale è ridurre la sezione del cilindro: un filo di ferro è praticamente tutto superficie con un diametro minimo. Le differenze possono essere davvero importanti nelle persone. Vediamo ora il caso di due individui con lo stesso volume e peso corporeo (per esempio, 70 kg): le rispettive superfici corporee possono essere molto diverse poiché dipendono dalla costituzione; se un individuo è alto e magro l'area della pelle può essere 1,7 volte più grande di quella di un soggetto piccolo e grasso. Il primo perderebbe molte calorie in un clima freddo e il secondo avrebbe molte difficoltà a regolare la propria temperatura, nonostante un'abbondante sudorazione, in un clima caldo e secco. Nel caso di un essere umano, un modo di stimare il diametro del cilindro corporeo consiste nel misurare la larghezza massima dell'anca, poiché la pelvi è abbastanza simile a un anello formato dalle due ossa dell'anca (ai lati e davanti) e dal sacro (che chiude il cinto pelvico da dietro). La larghezza massima della pelvi è una misura trasversale che si prende tra i bordi superiori delle ossa dell'anca (in antropologia è nota come larghezza biiliaca). Questo diametro, a sua volta, viene a essere una misura abbastanza prossima alla larghezza di tutto il tronco. L'altezza del cilindro corporeo è data, naturalmente, dalla statura dell'individuo. Ora, sfortunatamente, non vi sono numerosi scheletri antichi nei quali si possa misurare contemporaneamente la larghezza della pelvi e la statura; anzi, per la verità, ve ne sono pochissimi, per cui generalmente bisogna far ricorso a stime di tali parametri, con un notevole margine di errore. Nel caso di Atapuerca siamo stati ancora fortunati, con la scoperta nella Sima de los Hue82
sos di consistente materiale pelvico; all'anca più completa, che è di un maschio, abbiamo dato il nome di Elvis. Lo studio dello scheletro postcranico dei fossili umani di Atapuerca è stato realizzato da José Miguel Carretero e da Carlos Lorenzo, ma devo confessare che, dal collo in giù, la mia passione è l'anca, una parte dello scheletro su cui ho realizzato la mia tesi di dottorato ormai molti anni fa, prima di avere a disposizione i fossili di Atapuerca. Tale preferenza per la pelvi su tutte le altre ossa è più che giustificata scientificamente, perché la pelvi ci permette di studiare sia l'acquisizione della postura eretta nell'evoluzione umana, che il parto e la dimensione di una testa in grado di passare attraverso questo anello osseo, fornendoci informazioni sullo stato di sviluppo del neonato nelle varie specie di ominidi. Come se non bastasse, ci serve anche a conoscere il sesso e persino l'età in cui è avvenuta la morte. Inoltre, come vedremo in seguito, è la chiave per valutare il peso di un ominide fossile. Tutto ciò, aggiunto all'enorme scarsità di pelvi fossili, fa sì che, per conoscere l'evoluzione umana, l'anca sia importante come il cranio, e, direi, che oggi lo è ancor di più. Il paleoantropologo statunitense Christopher Ruff ha dimostrato che esiste uno stretto collegamento nella nostra specie tra il peso di un individuo (nella sua forma migliore, vale a dire senza eccesso di grasso) e queste due variabili: la larghezza dell'anca e la statura. Una volta stabilita questa relazione, era sufficiente applicare le formule calcolate per gli umani viventi ai fossili e conoscere così il loro peso corporeo, compito cui si è applicato Ruff assieme a Erik Trinkaus e Trenton Holliday. I Neandertaliani avevano grandi anche, superiori alle nostre, ma una statura inferiore. Un aspetto del tipo fisico dei Neandertaliani che parla in favore del loro adattamento al clima freddo risiede nel fatto che l'ulna e il radio, da un lato, e la tibia, dall'altro, erano ossa piuttosto corte; i Neandertaliani, con i loro busti larghi e con avambracci e gambe (dal ginocchio in giù) corte, sembravano molto compatti rispetto ai Cro-Magnon. Tale morfologia sembra rispondere a una legge - nota come regola di Allen - che si osserva tra i mammiferi e anche nelle razze umane. Gli arti, braccia e gambe, si allungano nelle popolazioni che vivono in climi caldi e secchi (il caso estremo è il deserto equatoriale), mentre si accorciano nelle alte latitudini dell'emisfero settentrionale. Apparentemente la regola di Allen smentisce quanto abbiamo detto prima, vale a dire che l'altezza del cilindro corporeo non influisce sul rapporto superficie laterale/volume, ma non è così poiché il corpo umano non è proprio un unico cilindro, ma cinque: il tronco e le quattro estremità (più la testa); così accade che un aumento della lunghezza di gambe e braccia 83
Figura 11. Cilindri corporei. La superficie relativa del corpo diminuisce con l'aumentare del diametro del cilindro corporeo (D), secondo la regola biogeografica di Bergmann, in base alla quale le popolazioni boreali sono più pesanti di quelle tropicali della stessa specie, per evitare in tal modo la perdita di calore corporeo (ispirato a Ruff-Walker 1993).
contribuisca maggiormente alla superficie corporea che al peso del corpo, facilitando in tal modo la perdita di calore. Il peso corporeo calcolato per i Neandertaliani è assai elevato, superiore in media a qualsiasi razza umana moderna. Gli individui maschi avrebbero superato frequentemente gli 80 kg, anche se la media si collocherebbe sopra i 76 kg. Con un simile peso corporeo, il cervello dei Neandertaliani, in proporzione, non sarebbe così grande; di fatto, secondo Ruff, Trinkaus e Holliday, sarebbe relativamente più piccolo del nostro. Devo fare un chiarimento in proposito. Quando si considera un gruppo di specie affini con pesi corporei diversi (per esempio i mammiferi) si osserva che il peso del corpo e quello del cervello non aumentano allo stesso ritmo. Il peso del corpo aumenta più in fretta: quanto più grande è l'animale, più piccolo, in proporzione, è il suo cervello (al contrario, un topo possiede un cervello proporzionalmente più grande di quello di un elefante). Dal punto di vista matematico, il rapporto tra le due variabili in un complesso di specie più o m~no prossime si può esprimere come 84
segue: y ==web, dove y è il peso del cervello, x quello del corpo, mentre a e b sono costanti; nel caso dei mammiferi i valori (calcolati dal primatologo Robert Martin) sono rispettivamente 11,2 e 0,76. Secondo Ruff, Trinkaus e Holliday, i Neandertaliani àvevano un encefalo 4,8 volte quello che spetterebbe - calcolato seconda la formula citata - a un mammifero del loro peso corporeo, mentre noi possediamo un encefalo 5,3 volte quello di un mammifero delle nostre dimensioni (tale proporzione è nota come quoziente di encefalizzazione); come si può vedere, entrambe le specie umane sono assai encefalizzate, anche se vi è una certa differenza, ma piuttosto piccola, in nostro favore. Come ho già detto nel primo capitolo, tuttavia, preferisco prendere con cautela il quoziente di encefalizzazione quando si tratta di paragonare le capacità di specie molto vicine, giacché l'aumento o la diminuzione del peso corporeo per cause differenti potrebbe influire sul valore del quoziente di encefalizzazione, senza che per questo si producano mutamenti a livello dell'intelligenza. In ragione di ciò preferisco basarmi sulle curve evolutive, come farò in seguito. La larghezza delle pelvi della Sima de los Huesos è davvero assai consistente. Inoltre nella collezione vi sono numerosi femori che consentono di valutare stature tra i 170 e i 180 cm. Con questo tipo di stature e con queste larghezze di busto, il peso dei maschi sarebbe tremendo, almeno di 90 kg. Credo che il valore reale sarebbe addirittura superiore (prossimo ai 100 kg), perché probabilmente gli umani di Atapuerca di 300.000 anni fa, come i successivi Neandertaliani, avevano una muscolatura molto più sviluppata della nostra. Anche il peso dello scheletro sarebbe superiore a quello attuale, che rappresenta approssimativamente un 15 per cento del peso corporeo. A tutto ciò bisogna aggiungere il grasso. Lo stato fisico di un atleta professionista forse non è molto rappresentativo di quello di un uomo preistorico, che probabilmente immagazzinava riserve di energia sotto forma di grasso quando vi era cibo in eccesso. Un corridore o un ciclista non lo fa, perché sa che non gli mancherà mai il cibo necessario a compiere il suo lavoro e per questo può prescindere da tutto ciò che non è muscolo o grasso essenziale. Lo stesso accade a un ghepardo o a un leone, che devono mantenere la propria velocità massima se vogliono acchiappare la gazzella o la zebra. Quando questi veloci predatori perdono in sprint la loro sorte è segnata, come accade alle loro prede il giorno in cui per una ferita, una malattia o per la vecchiaia corrono di meno. Tuttavia, poiché noi umani non basiamo la nostra capacità cinegetica sulla velocità massima, ma sulla forza, sulla resistenza, sulla strategia e sulla tecnologia, mi sembra più corretto immaginare gli umani della 85
Figura 12. Alcune caratteristiche dello scheletro neandertaliano. Basato su Churchill (1998).
Sima de los Huesos con grasso di riserva nei periodi buoni e molto magri nei periodi di carestia. In rapporto al loro peso enorme, la dimensione dell'encefalo degli umani della Sima era inferiore rispetto sia al nostro che a quello dei Neandertaliani. Utilizzando i due valori estremi di capacità cranica nella collezione, 1390 cc (Cranio 4) e 1125 cc (Cranio 6), il quoziente di encefalizzazione si situerebbe tra 3,1 e 3,8. Ma, come ho detto, per valutare l'intelligenza di entrambi in funzione della curva evolutiva dobbiamo conoscere la complessione fisica di ominidi anteriori nel tempo. Il primo di cui possiamo parlare è Lucy (Australopithecus afarensis), che aveva anche molto larghe in rapporto alla sua statura assai ridotta. Non disponiamo ancora di nessuna pelvi di Homo habilis, ma possiamo ipotizzare proporzioni simili a quelle degli australopitechi. Di Homo ergaster abbiamo lo scheletro piuttosto completo del bambino di Nariokotome (WT 15000); poiché è in giovane età, attorno ai dieci anni, dobbiamo procedere a una valutazione induttiva sulle sue dimensioni da adulto. È possibile che avrebbe raggiunto una statura considerevole, attorno ai 185 cm, anche se recentemente è stato affermato che la sua colonna vertebrale era accorciata a seguito di una malattia, e forse la sua statura definitiva ne avrebbe risentito, restando piuttosto bassa (ci rimane comunque il dubbio su quanto sarebbe cresciuto se non fosse stato malato). In ogni caso, ciò che importa ora è che l'individuo venne ricostruito da Christopher Ruff e Alan Walker con anche strette e membra lunghe, vale a dire come un cilindro alto e stretto, un biotipo simile a quello degli attuali abitanti della regione (la somiglianza sarebbe dovuta a un adattamento simile a un clima caldo e secco, non perché vi sia una relazione evolutiva particolarmente stretta tra gli africani di un milione e mezzo di anni fa o più e gli africani attuali). Se questo è vero, una volta che gli umani popolarono l'Europa, sarebbero diventati, con il tempo, più larghi e più bassi, forse come adattamento al clima freddo, sino all'arrivo dei Neandertaliani. I Cro-Magnon, che si sono evoluti in Africa, avrebbero riportato in Europa pelvi strette e gambe e braccia lunghe. Tuttavia, non penso che le cose siano andate così, per lo meno per quanto si riferisce alla larghezza delle anche (e quindi del tronco). La ricostruzione della pelvi del bambino di Nariokotome si basa su alcuni resti molto incompleti e poco affidabili (che inoltre è necessario far "crescere" per trasformarli in una pelvi adulta). Vi è un osso delle anche isolato della medesima specie (già ricordato) che è così simile a quelli della Sima de los Huesos che ritengo che la morfologia adulta sarebbe sostanzialmente identica in entrambe le specie. A partire da questa interpretazione ricostruisco così la storia dei cambiamenti nelle dimensioni 87
del corpo e del cervello negli ultimi due milioni di anni: Homo ergaster possedeva un'imponente complessione fisica e un encefalo proporzionalmente piccolo. Abbandonando l'Africa gli umani conservarono la medesima forza fisica, mentre nel ramo europeo (quello dei Neandertaliani) e in quello africano (quello degli umani moderni) si verificava indipendentemente un aumento cerebrale, che non ha riguardato nella stessa misura Homo erectus, nell'Estremo Oriente. Approssimativamente 300.000 anni fa i quozienti encefalici in Europa e in Africa erano compresi tra i valori di 3 e 4. In seguito, l'aumento del cervello è continuato in entrambe le linee. Nei Neandertaliani le estremità si sono ridotte come adattamento al freddo e, forse, si è ridotta anche la forza fisica (la larghezza del tronco), e di conseguenza è diminuito leggermente il peso corporeo (facendo sì che il quoziente encefalico crescesse fino a raggiungere quasi il valore di 5). Nella linea africana è cambiata la costituzione fisica, il biotipo: le anche diventarono più strette e diminuì il peso ancor più che nei Neandertaliani, il che determinò un quoziente encefalico leggermente superiore (un po' più di 5), anche quando la capacità cranica grezza fosse stata minore. A partire da questi dati giungo a una doppia conclusione: da un lato la gente dell'epoca della Sima de los Huesos, in Europa e in Africa, era assai meno encefalizzata di noi o dei Neandertaliani, e, dall'altro, non si può dedurre che gli umani moderni fossero più encefalizzati dei Neandertaliani. Pertanto, a partire dai fossili non abbiamo argomenti per supporre che i Neandertaliani fossero meno intelligenti di noi; sarà meglio affermare che noi siamo meno pesanti. I primi scheletri di tipo moderno sono quelli delle sepolture di proto-uomini di Cro-Magnon della caverna di Jebel Qafzeh e della grotta di Skhul, giacimenti scoperti in Israele e risalenti attorno ai 100.000 anni orsono. Ciò nonostante vi sono fossili meno completi ma più antichi (tra i 100.000 e i 150.000 anni fa) in Africa (come quelli di Klasies River Mouth, nell'Africa meridionale). La paleontologia dimostra che l'Africa è stata il luogo di origine della nostra specie, e i dati che hanno ottenuto i biologi molecolari studiando le popolazioni attuali non lo smentiséono. Già negli scheletri israeliani troviamo il biotipo e le anche strette della nostra specie. Tale strettezza pelvica si manifesta negli umani di tipo moderno a due livelli diversi: in alto, nel bordo superiore (dove si prende la larghezza bi-iliaca) e più in basso tra gli acetaboli (le articolazioni delle due teste femorali). La larghezza superiore dell'anca è in rapporto con quella del tronco, che nella nostra specie è diventato un cilindro più affusolato, il che certamente presuppose un miglior adattamento al clima caldo (ricordiamo la nostra origine presumibilmente africana). 88
Però, mentre si riduceva la larghezza superiore della pelvi, ciò avveniva anche per la larghezza inferiore, o distanza tra le teste dei due femori. Poiché siamo bipedi, tale riduzione indusse un grande vantaggio biomeccanico quando si trattava di percorrere grandi distanze, per la seguente ragione: nella camminata, tutto il peso del tronco e della gamba che resta sollevata si regge sulla testa del femore della gamba che poggia a terra; con il restringimento dell'anca il centro di gravità si avvicina all'articolazione, consentendo un risparmio di energia a ogni passo. Contemporaneamente le ossa, che erano molto grosse a partire da Homo ergaster, si fecero più leggere nei primi umani moderni. Il canale midollare, che si trova all'interno delle diafisi (cavo delle diafisi) delle ossa lunghe, aumentò di volume e le pareti del cranio divennero più sottili. Inoltre scomparvero (o si fecero molto più esili) le protuberanze o torus del cranio. I Neandertaliani avevano mani spettacolari e con grande capacità prensile; i femori e i radi erano fortemente incurvati, mentre le articolazioni delle ossa degli arti erano molto grandi. Tutti i cambiamenti vissuti dai primi umani moderni nello scheletro, che di conseguenza si alleggerì notevolmente, furono accompagnati da una riduzione della massa muscolare. Le caratteristiche dei Neandertaliani e di altri ominidi "arcaici" (si usa chiamarli così, ma io uso l'aggettivo solo in contrapposizione a moderno o proprio della nostra specie) sono oggetto di interpretazioni differenti, anche se queste coincidono nel ritenere che riflettano una grande forza fisica, indispensabile dato il loro stile di vita. Siamo tentati di spiegare l'alleggerimento dello scheletro dei primi umani moderni come conseguenza di un cambiamento dello stile di vita, che sarebbe stata basata in minor misura sulla forza fisica. Tuttavia, le trasformazioni morfologiche subite dai nostri antenati non coincidono con un cambiamento di tecnologia: gli umani moderni di Qafzeh e Skhul fabbricavano utensili musteriani come i Neandertaliani europei o, senza spingersi troppo lontano, come i Neandertaliani del Medio Oriente (posteriore, come vedremo, a questi proto-Cro-Magnon). I primi umani giunti in Europa erano alti e magri secondo il modello neandertaliano, anche se erano ancora molto forti rispetto ai loro discendenti, giacché si verificò una progressiva riduzione della dimensione e della robustezza fisica durante il Paleolitico, continuata nel Mesolitico e nel Neolitico. Secondo gli studi di Vincenzo Formicola e Monica Giannecchini, la statura media dei Cro-Magnon della prima parte del Paleolitico superiore, prima del punto massimo della glaciazione di 18.000 anni fa, era di 176 cm circa, mentre quella delle donne superava i 163 cm. Tali stature non si discostano molto da quelle della popolazioni occidentali moderne. Tuttavia, le medie maschile e femmi89
nile si abbassarono a 166 cm e 154 cm rispettivamente nell'ultima parte del Paleolitico superiore (tra i 18.000 e i 10.000 anni fa), e ancora di più nel Mesolitico (163 cm e 151 cm). Tale tendenza alla gracilità si è invertita nel penultimo secolo. I nostri bambini sono sempre più alti e forti, come se nei geni che ci hanno tramandato i nostri lontani antenati dell'inizio del Paleolitico superiore fosse racchiusa una potenzialità che non si era espressa sinora, probabilmente a causa della cattiva alimentazione e dell'alta consanguineità delle popolazioni, e che la migliore alimentazione e la maggiore mobilità sta facendo esplodere nelle nuove generazioni: torniamo a essere uomini di Cro-Magnon.
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Parte seconda
La vita nell'Era glaciale
4.
Il bosco animato Questa vaga emozione, questo anelito di voltare la testa, questa tentazione - cui tante volte ho ubbidito - di fermarci ad ascoltare non sappiamo che cosa, quando ci troviamo nella sua luce verdeggiante, nascono dal fatto che l'anima del roveto ci ha avvolto e sfiora la nostra anima. Femandez Fl6rez, El bosque animado
Siamo così abituati al fatto che l'uomo viva in pressoché ogni regione del globo che la cosa ci appare persino banale. Siamo una specie ubiqua, capace di vivere nei climi più vari e nei paesaggi dei cinque continenti. Tuttavia il gruppo zoologico cui apparteniamo, quello delle scimmie o primati, si è evoluto in alcuni ambienti assai concreti e non ha mai posseduto specie cosmopolite. I primati hanno vissuto per più di 65 milioni di anni nella foresta, alla quale ci lega la nostra storia. Di fatto, le caratteristiche che condividiamo con tutti i primati e che ci differenziano dagli altri animali sono adattamenti che ci consentono di muoverci sui rami degli alberi. Accanto a noi umani non sono mai esistiti primati adattati ad ambienti completamente privi di alberi. Semplicemente non erano preparati. Benché, per la verità, vi siano alcuni primati viventi che costituiscono un'eccezione, come i babbuini gelada, che vivono nelle verdi praterie degli altopiani etiopi, come gli amadriadi delle fosse secche dell'Etiopia e della Somalia e, in misura minore, i babbuini e gli eritrocebi delle savane dell'Africa orientale con pochi alberi. Ma il continente europeo è ricco di boschi e tuttavia non vi troviamo altri primati se non noi, anche se in passato ci sono stati, prima della venuta dell'uomo, quando il clima era più caldo e anche la vegetazione era diversa. Soltanto una scimmia ha sopportato assieme a noi i rigori del Quaternario europeo, la cosiddetta Era glaciale. Si tratta del macaco di Barberia o scimmia di Gibilterra, attualmente estinto in Europa, a eccezione della popolazione residente a Gibilterra, introdotta dall'uomo; allo stato naturale vive ancora nell'Africa settentrionale. La biogeografia vegetale, vale a dire lo studio della distribuzione geografica delle piante, consente di dividere la vegetazione del pianeta in una serie di unità che si organizzano gerarchicamente. La categoria superiore a tutte è il regno e quella che segue è la regione. Nel mondo si distinguono sei regni floristici. La di93
stribuzione geografica dei primati coincide praticamente con i regni paleotropicale e neotropicale. Il primo comprende il Madagascar e quasi tutta l'Africa subsahariana, a eccezione della punta più meridionale del continente che appartiene a un altro regno, chiamato capense, dove vivono parimenti scimmie. Il regno paleotropicale si estende in Asia dalla penisola dell'Indostan Pakistan, India, Bangladesh - alla Birmania, al Sud-Est asiatico continentale - Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam - e insulare (Indonesia) che comprende anche le Filippine. Il regno neotropicale comprende tutto il Centro e Sudamerica, a eccezione del Cono Sud (che appartiene al regno antartico). Tutte le terre dei regni paleotropicale e neotropicale sono calde e, in gran parte, sono comprese tra il tropico del cancro a nord e quello del capricorno a sud. La causa principale della quasi assenza di scimmie al di fuori dei tropici risiede nella stagionalità, che si fa più marcata man mano che ci allontaniamo dall' equatore. I primati non possono sopportare lunghi periodi nei quali non vi sono frutta, foglie verdi, polloni e germogli freschi, o insetti di cui cibarsi. Le stagioni dipendono dall'inclinazione dell'asse terrestre che, con piccole variazioni, è sempre esistita. Ma anche il raffreddamento del pianeta negli ultimi milioni di anni è una causa importante per spiegare la distribuzione geografica attuale dei primati, perché la stagionalità è esasperata dal cambiamento climatico. Le terre lontane dall'equatore ora sono più fredde che in passato. A nord di questi due regni paleotropicale e neotropicale troviamo il regno olartico, che comprende il Nordamerica, l'Africa settentrionale, tutta l'Europa e quasi tutta l'Asia (quella che non appartiene al regno paelotropicale). Nel regno olartico i primati vivono soltanto nella regione dell'Asia orientale, che comprende la Cina, la Corea e il Giappone. Come si è detto, vi sono anche macachi di Barberia nell'Africa settentrionale. In nessun paesaggio del resto del regno olartico si notano scimmie: né nella tundra artica, nella taiga boreale, nel bosco temperato, né nel bosco mediterraneo, nella steppa o nel deserto. Infine il regno australiano è formato dall'Australia e dalla Tasmania, dove i primati non sono mai giunti. Anche gli zoologi dividono il mondo emerso in regni e regioni seguendo la ripartizione geografica delle specie di vertebrati terrestri. In termini generali, le divisioni biogeografiche di zoologi e botanici coincidono, giacché in realtà riflettono le storie degli animali e delle piante, che non sono molto diverse tra loro. Tutte le specie hanno un centro di origine a partire dal quale si diffondono. Ciò che rende possibile che un essere vivente risieda in un determinato punto del pianeta diverso dal suo luogo d'origine è, in primo luogo, il fatto che sia riuscito ad arrivare sino a lì (lui o 94
Figura 13. Distribuzione di primati moderni e fossili. Sono rappresentati anche i confini dei regni zoogeografici e delle regioni dell'artogea. Attualmente i primati moderni vivono tra i due tropici, ma loro fossili si sono trovati abbastanza più a nord, in un 'area un tempo caratterizzata da clima caldo.
i suoi antenati) e, in secondo luogo, che nell'ambiente vi siano le condizioni di cui necessita per svilupparsi. Nel corso del tempo geologico la posizione delle terre è cambiata notevolmente: si sono unite, si sono separate una dall'altra per azione di forze che operano nelle regioni profonde del pianeta. Per questo motivo la distribuzione geografica degli organismi racconta anche la storia geologica della crosta terrestre. I regni biogeografici degli zoologi sono tre. Uno è la neogea, che corrisponde al Sudamerica e al Centramerica. Poiché questa zona è stata un continente-isola per molti milioni di anni, la sua fauna è assai speciale, e lo sarebbe ancor di più se 3-3,5 milioni di anni fa le terre americane del nord e del sud non fossero entrate in contatto attraverso l'istmo di Panama. Come conseguenza di questo fatto geologico si è verificato uno scambio di fauna e molti animali che vivevano nel Sudamerica si estinsero di fronte all'arrivo di animali immigrati dal nord. Tra le specie del continente meridionale estinte troviamo le scimmie platirrine, anche se nessuno sa come giunsero sin lì. Probabilmente alcune lo fecero via mare dall'Africa in traversate di fortuna su zattere na95
turali costituite da alberi, come quelle che si formano sui grandi fiumi durante le tempeste tropicali. " I.:altro regno zoogeografico è l'artogea, che comprende tutta l'Eurasia, l'Africa e il Nordamerica. Si divide a sua volta in regione neartica (Nordamerica), regione paleartica - Europa, Africa settentrionale e quasi tutta l'Asia-; regione etiopica - tutta l'Africa salvo la frangia mediterranea, più la penisola arabica e il Madagascar-, e regione orientale - la parte tropicale del sud e del1'est dell'Asia continentale, Indonesia e Filippine. I primati abitano le regioni etiopica orientale e mancano nella neartica e nella paleartica, a eccezione del macaco di Barberia e del macaco giapponese. Australia, Nuova Guinea, Tasmania e un pugno di isole dell'Indonesia costituiscono il regno di notogea, con una fauna molto originale, espressione del loro passato di prolungato isolamento. Solo poche specie di primati (uomo a parte) attraversano la linea di Wallace, la frontiera zoogeografica che, come osservò il grande naturalista, separava la fauna della regione orientale dal regno di notogea. A questo punto possiamo tentare una sintesi della fauna e della flora europee, dividendole in unità ecologiche su grande scala geografica o biomi, che corrispondono ai grandi paesaggi. A nord abbiamo la tundra senza alberi. Come mammiferi più caratteristici della tundra ricordiamo la renna, il bue muschiato, l'orso polare, la lepre, la volpe artica e i lemming (piccoli roditori che ogni 3-4 anni danno luogo a vere e proprie esplosioni demografiche). La distribuzione di tutti questi animali è situata, o è stata situata, attorno al polo, vale a dire in tutto il nord dell'Eurasia e del Nordamerica sino alla Groenlandia. A sud della tun: dra si estende, anche in questo caso a formare un anello attorno al polo, la taiga o bosco boreale, nel quale predominano le conifere. Mammiferi tipici della taiga sono l'alce e il ghiottone, un carnivoro della famiglia dei mustelidi di cui tornerò a occuparmi. La causa della distribuzione attorno ai poli degli animali che popolano la tundra e la taiga risiede nel fatto che Eurasia e Nordamerica si trovano molto vicine proprio alle alte latitudini, le latitudini del circolo polare artico, nello stretto di Bering, situato all'estremità orientale della Siberia e dell'Alaska. In ragione del ruolo importante rivestito nell'Era glaciale, sarà opportuno tornare in un altro punto del libro sulla regione di Bering. La quasi totalità del resto d'Europa è popolato dai boschi temperati di foglia caduca e dai boschi mediterranei, a foglia permanente. Non è necessario descrivere le specie animali caratteristiche, perché entrambi i tipi di bosco si trovano in Spagna, come vedremo in seguito. Dall'Europa orientale sino alla Mongolia, passando dall'Asia centrale e dalla Cina, troviamo una 96
steppa continua, un mare di erba, i cui animali più tipici sono il cavallo di Przewalski, l'emione (un altro equide), l'antilope saiga, la gazzella della Mongolia e altri tipi di gazzella, la puzzola della steppa (un mustelide) e una serie di roditori (del tipo dei gerbilli) e di lagomorfi (come le lepri fischianti). Più a sud, dove la steppa cede il passo al deserto di Gobi, abitano gli ultimi esemplari selvatici del cammello a due gobbe. Dallo studio della distribuzione geografica di animali e piante dovremo concludere che l'Europa non è un continente favorevole ai primati, a eccezione della nostra specie, per la quale tutti i continenti sono adatti. L'origine degli ominidi, il nostro gruppo di primati, risiede in Africa, come abbiamo visto, e il nostro arrivo in Europa è relativamente recente. Il paesaggio della nostra infanzia evolutiva sono le foreste pluviali dell'Africa tropicale; siamo diventati uomini (vale a dire umani) in ambienti più aperti, boschi radi e savane con cespugli e alberi sparsi. Questo è stato il nostro primo e unico focolare, e quando gli umani giunsero in Europa dovettero adattarsi agli ecosistemi locali, assai diversi dall'ancestrale patria africana. Inoltre, da quando l'uomo vive in Europa, si sono alternati cicli di clima temperato, come l'attuale, con lunghi periodi di freddo intensissimo, le glaciazioni, che cambiavano drasticamente la vita animale e vegetale. Ciò significa che prima abbiamo dovuto smettere di essere primati arboricoli ed esclusivamente boschivi, in Africa, e più tardi alcuni umani, quelli che arrivarono in Europa, impararono a vivere in un clima che non era già più tropicale. Se non fossimo esistiti, sarebbe impossibile trovare un primate in un querceto, in una pineta o in un faggeto spagnolo. Ma per conoscere più a fondo l'ambiente in cui si è sviluppata l'evoluzione umana nella penisola iberica inizieremo dalla parte più viva e visibile del paesaggio: le comunità vegetali.
Panorama della vegetazione spagnola attuale in quattro quadri Quasi tutta la superficie della penisola iberica è potenzialmente boschiva. Ciò significa che era tutta ricoperta da alberi prima che l'uomo, con l'ascia e il fuoco, aprisse immense radure per le coltivazioni e il bestiame, o per sfruttare il legname. Queste aggressioni al bosco provocate dalle attività di allevamento e di agricoltura cominciarono nel Neolitico e da allora non si sono fermate, anzi nel ventesimo secolo si sono esasperate. Ma prima che ciò accadesse, le varie specie umane che sono esistite hanno modificato pochissimo il paesaggio vegetale nel quale vivevano. Gli uomini cacciavano e raccoglievano prodotti vegetali e costituivano piccoli gruppi sparsi; erano tempi in cui regnava un'ar97
mania con la natura, ora perduta per sempre. Si suole attribuire a Strabone, scrittore greco contemporaneo di Gesù Cristo, ~a frase secondo la quale la penisola iberica era talmente ricoperta di boschi che uno scoiattolo avrebbe potuto attraversarla da un capo all'altro senza scendere dagli alberi. Benché l'attribuzione sia falsa, è indubbio che all'epoca di Strabone il bosco abbracciava un'estensione maggiore della penisola rispetto a oggi, sebbene le coltivazioni di cereali e i pascoli dei paesi spagnoli dovevano occupare aree già assai ampie a spese del bosco. I botanici manifestano la "vocazione" forestale della Spagna e del Portogallo affermando che la vegetazione climax, ciò che "chiede" il terreno, è sempre un bosco dei tanti tipi che, più o meno minacciati o ridotti, ancora si conservano nel nostro paese. Soltanto sulle alte cime delle montagne fa troppo freddo per~ ché gli alberi possano vivere su un terreno generalmente gelato per gran parte dell'anno. Si sviluppa allora una vegetazione di cespugli striscianti, prati alpini e praterie allagate d'estate che ricordano vagamente le tundre artiche, prossime al polo nord; in entrambi i casi, cime e tundre, il bosco si ferma quando la temperatura media del mese più caldo non supera i 1O°C. Il limite superiore in altezza del bosco si colloca generalmente sopra i 2300 m nei Pirenei, sino ai 1700 nella Cordigliera cantabrica e attorno ai 2000 m nella Cordigliera betica e nel Sistema iberico centrale. D'altra parte, nella penisola iberica vi sono regioni in cui la pioggia è così scarsa che gli alberi vi crescono appena o sono assai radi e il paesaggio assomiglia a una steppa arida. Questo accade nei terreni secchi della Spagna sudorientale, in Alicante, Murcia, Almeria soprattutto, come nella zona del Capo di Gata. Ciò che provoca l'assenza di alberi non è il caldo, ma la mancanza di acqua; le coltivazioni tropicali crescono molto bene quando si provvede all'annaffiatura. Molto aridi sono anche alcuni territori centrali della depressione dell'Ebro, cui si aggiunge l'elemento sfavorevole di un clima continentale, con forti gelate invernali; i Monegros costituiscono un buon esempio di ciò. Disgraziatamente l'azione distruttrice dell'uomo ·ha esasperato la nudità del terreno in queste zone già di per sé difficili per la crescita del 'bosco. La vegetazione della vecchia Spagna si divide in due grandi regioni floristiche (all'interno del regno olartico) che si estendono ben oltre le sue frontiere. Esse sono: a) la regione eurosiberiana, che occupa la frangia basco-cantabrica, la Galizia, il nord del Portogallo e i Pirenei; e b) la regione mediterranea, cui corrisponde il resto del manto vegetale del suolo spagnolo. Grazie alla sua collocazione settentrionale e all'influsso dell'Oceano Atlantico che porta le piogge, l'Iberia eurosiberiana è più umida e fre98
sca di quella mediterranea che, ingenerale, è secca e calda. Nella prima predominano i boschi di alberi a foglie semplici di una grande varietà di specie (chiamate nel complesso latifoglie caducifoglie), quali faggi, roveri, betulle, noccioli, aceri, olmi, tigli, sorbi ecc. Tutte le specie citate perdono le foglie in autunno, e si sviluppano al massimo d'estate, che è la stagione più favorevole, con temperature miti e umidità sempre presente, almeno a livello del terreno; questi alberi possono avere il "corpo" secco, ma ha:nno bisogno di avere i "piedi" bagnati. Il paesaggio forestale dell'Iberia umida riflette bene l'awicendarsi delle stagioni, perché gli alberi si spogliano d'inverno e cambiano il colore del loro manto dal verde della primavera e dell'estate al marrone delle foglie secche in autunno. Nelle montagne dei Pirenei al di sopra del livello delle latifoglie si trovano i boschi di conifere, con pini silvestri e pini neri. Al livello inferiore gli abeti convivono con i faggi. Il pino nero è l'albero che raggiunge la maggior altitudine nella penisola, superando frequentemente, nei Pirenei, la quota dei 2300 m. Questi boschi assomigliano superficialmente - vale a dire nella loro fisionomia, benché le specie non siano sempre le stesse - alle interminabili moltitudini di conifere che nelle taighe formano una sorta di cintura a sud delle tundre, lungo tutte le fredde terre boreali di Eurasia e Nordamerica. Nella fascia basco-cantabrica e in Galizia non vi sono pini naturali, a eccezione di pochi boschi relitti di pino silvestre in Le6n e Palencia. Alcuni boschi galiziani di pino marittimo - chiamato anche resinoso o rosaceo - potrebbero essere originari, anche se da tempo la specie è stata molto favorita da opere di ripopolamento. Di fatto, questo pino occupa la maggior superficie in Spagna perché è stato estesamente piantato. Il pino di Monterrey, che proviene dalla California, è molto diffuso a nord, nel Paese Basco soprattutto (a Guipiizcoa rappresenta il 46 per cento della superficie forestale e a Vizcaya niente meno che il 62 per cento). Queste pinete non naturali, come le altrettanto ampie piantagioni di conifere e di eucalipti (di origine australiana), non possono considerarsi propriamente boschi, ma coltivazioni di alberi, con una biodiversità notevolmente inferiore a quella dei boschi autoctoni. I nostri boschi sono assai più preziosi da tutti i punti di vista se, naturalmente, non sono indeboliti da interessi economici a brevissimo termine. Gli abitanti di Zamakola (Dima, Vizcaya) raccontarono al grande preistorico ed etnologo José Miguel de Barandiaran che i vecchi geni pagani furono scacciati dalle campane degli eremi cristiani. A Dima vi è un gigantesco ponte naturale di pietra chiamato Jantilzubi, il ponte dei Gentili, che si credeva costruito da uomini giganteschi che abitarono i luoghi prima dell'arrivo dei 99
Figura 14. Le due Iberie dei botanici.
baschi. Se non ricordo male, vi è anche una caverna con due ingressi chiamata Balzola, oltre a un giacimento preistorico noto come Axlor, una grotta in cui abitarono i Neandertaliani e dove sono stati rinvenuti alcuni resti fossili. Questo giacimento è stato scavato proprio da José Miguel de Barandiaran, ed è stato il primo che, ancora studente, ho visitato in vita mia. Sono stato lì, in quel luogo così carico di storia e di leggende, come sono stato in altri luoghi simili, per questo so che sono stati i pini di Monterrey e gli eucalipti a scacciare per sempre esseri come Galtxagorri, il piccolo genio (ve ne sono quattro in un agoraio) che aiuta chi lo protegge; le Lamie, che trascorrono tanto tempo a pettinarsi sulle rive dei ruscelli; Basajaun, signore della selva; Erensuge, la signora che abitava le caverne e le montagne basche. Nelle colture di pini ed eucalipti, dove non si sente il canto degli uccelli né crescono l'erba e la felce, dove non vi è magia né mistero, dove la nebbia non resta impigliata tra i rami dei faggi, dei castagni e dei roveri, in questi monotoni paesaggi tutti uguali, i fragili esseri della mitologia non poterono trovare dimora. Le specie arboree dei boschi dell'Iberia mediterranea sono meno diversificate, ma formano macchie impenetrabili, con un sottobosco di arbusti e cespugli molto più fitto e vario di quello dei cupi boschi di caducifoglie. Gli alberi predominanti, la quercia e la sughera, hanno foglie semplici e piccole, sclerotizzate (cioè dure) e con grosse cuticole nelle quale sprofondano i piccoli stomi (pori). Si tratta di adattamenti per evitare la perdita di acqua nel lungo periodo di siccità estiva che le latifoglie dalle foglie caduche non sono in grado di sopportare. La quercia e la sughera sono alberi sempreverdi, che non restano spogli in nessuna stagione dell'anno (per questo sono chiamate latifoglie a foglie persistenti) e possono mantenere la propria attività quasi in continuazione, salvo quando fa molto freddo. Nel paesaggio delle grandi querce, il ritmo delle stagioni non balza agli occhi tanto facilmente come nelle terre umide della penisola. In condizioni particolarmente difficili, dove i terreni sono sabbiosi e poco compatti o, al contrario, affiora la roccia nuda, così come nelle terre più aride o in quelle dove il clima è più continentale e con grandi escursioni (molto freddo d'inverno ed estrema aridità d'estate), in tutte queste situazioni sfavorevoli i querceti sono sostituiti dalle conifere del tipo dei pini, ginepri e sabine. In questo paragrafo meritano di essere ricordati il pino di Aleppo o carrasco e il pino marittimo, molto resistenti al caldo e alla siccità e poco esigenti rispetto alla qualità del terreno. Ma la mia preferita è la sabina silvestre, una conifera della famiglia del cipresso assai austera e resistente, capace di sopportare il freddo, il caldo e la mancanza di umidità, e di sopravvivere nei terreni più poveri. Nei desolati paesaggi delle alte regioni aride 101
interne, i boschi radi delle indomite sabine conferiscono una nota di scabra e selvaggia bellezza. La suddivisione della vegetazione iberica in due grandi regioni, una secca e l'altra umida, non è in realtà così drastica. Da un lato, in numerosi luoghi della costa cantabrica si possono vedere querceti, sia in enclave più secche sia in prossimità del mare, che mitigano i freddi e le gelate invernali. Dall'altro, si trovano anche boschi di caducifoglie nella regione mediterranea in luoghi dove vi è umidità sufficiente tutto l'anno. Così, per esempio, vi sono ancora delle faggete nel massiccio Somosierra-Ayll6n (Madrid, Segovia e Guadalajara) e più a est nei valichi di Beceite (Tarragona e Castell6n). Vi sono anche conifere che proliferano nelle due Spagne. Nel Sistema iberico, nelle Sierra Cebollera (Soria) e di Gudar (Teruel), vi sono piccoli boschi di pino nero, il pino silvestre più largamente diffuso nei Sistemi iberico, centrale e betico. Sui Pirenei e sulle montagne della parte orientale della penisola iberica, dove la siccità estiva rende impossibile la sopravvivenza del pino silvestre, si sviluppano boschi di pino di Corsica, più adatto alle condizioni fredde e asciutte della montagna mediterranea media e alta. È difficile trovare esempio migliore di enclave eurosiberiana in piena regione mediterranea dei famosi abeti nobili di Spagna, abeti che sopravvivono nella Sierra Bermeja e nella Sierra de las Nieves (Provincia di Malaga), e nella Sierra del Pinar de Grazalema (Cadice). Questi particolari abeti, come altri simili che vivono nel Mediterraneo, si rifugiano in montagne dove, grazie all'altitudine, si concentrano le piogge. Bisogna aggiungere che la loro conservazione è della massima priorità. Inoltre anche i boschi che crescono sulle rive dei fiumi (pioppeti, frassineti, olmeti, ontaneti) costituiscono avamposti di caducifoglie nell'Iberia mediterranea, questa volta grazie all'umidità del terreno. Dove i corsi d'acqua sono irregolari, questi boschi di foglie caduche che :Si sviluppano sulle rive sono sostituiti da macchie di oleandri e di tamerici. Vi sono due specie di latifoglie che riflettono alla perfezione il carattere ecologicamente intermedio, quasi indeciso, di alcuni alberi iberici: si tratta del rovere cerro e del leccio, molto più simile alla quercia. Entrambe le specie, che costituiscono boschi sia nella regione eurosiberiana sia in quella mediterranea, sono marcescenti, vale a dire che le foglie si seccano completamente in autunno, come nelle latifoglie caducifoglie, ma molte non pervengono a cadere dall'albero sino allo sbocciare delle nuove foglie a primavera. Forse sarebbe più realistico dividere la vegetazione iberica in una zona d'influenza atlantica, una seconda zona mediterranea 102
(che è la predominante) e ampie regioni interne di caratteristiche intermedie, subatlantiche o submediterranee. Se la penisola iberica fosse una pianura continua, la vegetazione sarebbe più uniforme e il passaggio dalle terre aride a quelle umide più graduale. Ma la complessità orografica del territorio peninsulare moltiplica, ora come sempre, la diversità dei terreni e dei climi e la varietà dei paesaggi. Ancor oggi la Spagna è il paese che, in ambito europeo, presenta la maggiore biodiversità. Nelle belle parole di Eduardo Hernandez-Pacheco, "La caratteristica generale dei rilievi spagnoli è costituita da tutto ciò che è montuoso, scosceso, aspro; tutto ciò che è roccioso e accidentato. Da entrambi i confini della penisola, dagli Alti Pirenei alle meridionali Alpujarras, dalla verde e piovosa Galizia alle aride e secche coste di Almeria, dalle montagne costiere catalane alle coste atlantiche portoghesi, i territori e i massicci montuosi si collegano l'uno all'altro senza soluzione di continuità". Tale diversità ecologica ha fatto sì che nel Quaternario iberico i cacciatori preistorici potessero trovare in un piccolo settore di territorio animali tipici delle rocce e delle cime montuose assieme ad abitanti dei boschi e dei prati ed erbivori delle grandi praterie. D'altro canto, la stessa varietà di habitat in così poco spazio, che caratterizza la natura iberica fa sì che risulti impossibile al ricercatore associare i fossili di un giacimento a un unico ambiente, perché spesso gli erbivori provengono da diverse comunità e sono stati radunati dai predatori o dall'uomo. Ad Altamira, per esempio, si trovano fossili di capriolo, un cervide tipicamente boschivo, assieme a resti di renna, un cervide che immaginiamo mentre vaga per la tundra o ai limiti della taiga.
Il mondo perduto Come si può vedere, l'attuale flora spagnola varia con il clima, vale a dire con la temperatura e con le precipitazioni, ma non solo nelle medie annue, bensì nel modo in cui le piogge e le gelate si distribuiscono nel corso dei mesi dell'anno. Per esempio un importantissimo fattore climatico che condiziona la vegetazione della penisola iberica è il lungo periodo di siccità estiva che colpisce la regione mediterranea. In funzione del clima, le comunità vegetali sono diverse secondo la latitudine (più a nord o più a sud) e l'altitudine (sulle alte montagne o a livello del mare). In un certo modo, quando scendiamo da un massiccio montuoso troviamo una successione di climi e comunità vegetali paragonabile a quella che si osserva quando ci spostiamo dal Mediterraneo al polo nord. Nel caso della penisola iberica tale parallelismo tra le vegetazioni delle alte cime e quelle delle terre del nord è 103
potenziata poiché sulle nostre montagne hanno trovato rifugio alcune piante che in epoche di clima più freddo dell'attuale si estendevano alle terre basse. Un altro importante fattore della distribuzione delle specie di piante è il tipo di terreno su cui vegetano. Benché alcune piante siano indifferenti al substrato, altre, come il leccio o il pino di Corsica, sono in sintonia con i calcari che affiorano in gran parte della penisola, mentre molti alberi non sopportano la calce e preferiscono terreni che ne sono privi, come nel caso del rovere cerro e del pino resinoso. In ogni modo, dato che i tipi di terreno non hanno subito sostanziali modificazioni nell'ultimo milione di anni, i cambiamenti nella vegetazione che hanno riguardato il nostro territorio si devono esclusivamente alle variazioni climatiche (e soltanto da poche migliaia di anni al fattore umano). Parlando in termini molto generali, il clima del pianeta era più caldo nel Miocene (tra i 25 e i 5 milioni di anni fa) e nel Pliocene (tra i 5 e l'l,7 milioni di anni orsono) che nel Quaternario (gli ultimi 1,7 milioni di anni). Anche l'umidità era superiore prima del Quaternario e, come si può immaginare, la vegetazione della penisola era diversa dall'attuale. Insomma, era più "tropicale" (il che non significa che non ci fossero regioni ed epoche più aride o più temperate di altre); in questa vivevano scimmie di vario tipo. Nel Miocene e nel Pliocene iberico c'erano boschi temperati di roveri, frassini, noccioli e alissi, ma esistevano anche grandi boschi con numerose specie che non hanno un equivalente moderno nella regione. Tuttavia, in alcune zone delle isole Canarie, rispettate dall'uomo (come anche nelle Azzorre e nell'isola di Madeira), si possono ancora trovare formazioni vegetali che ricordano alcune delle selve peninsulari precedenti alle glaciazioni. Si tratta delle cosiddette selve di lauro o boschi di nebbia, formate da alberi con foglie sempreverdi come quelle del lauro, vale a dire larghe, con cuticola grossa, consistenza coriacea e lucide (brillanti) sulla pagina superiore. Questi boschi lauroidi necessitano di un clima temperato tutto l'anno e un'umidità costante nell'ambiente prodotta dalle piogge e dalle nebbie, condizioni che non sono presenti nell'attuale situazione climatica della penisola, e ancor meno nelle oscillazioni più fredde delle glaciazioni. Tuttavia, anche senza giungere a formare selve, il lauro cresce ancora in luoghi particolarmente favorevoli della penisola, come nei dirupi del sud della provincia di Cadice, dove le abbondanti nebbie formano un microclima speciale. Anche il corbezzolo iberico deriva dalle selve terziarie di lauri e come il lauro ha un parente prossimo nelle Canarie. Un'altra specie di questo mondo terziario perduto è un alberello noto come "pappagallo" che vegeta sia nelle Canarie sia nella penisola, dove forma bo104
schetti in anfratti umidi e temperati. Nelle nostre montagne plioceniche crescevano le grandi sequoie che oggi in Europa possiamo vedere soltanto piantate nei giardini.
I ghiacci nella penisola iberica Nel massimo della glaciazione di 21.000-17.000 anni fa, il clima dovette essere assai rigido in tutta Europa. Il livello del mare scese di circa 120 m rispetto al livello attuale. Sulla Scandinavia si formò una calotta di ghiaccio che raggiunse uno spessore di 3 km, e sulla Gran Bretagna e sull'Irlanda si sviluppò un'altra calotta spessa 1,5-2 km. Gli iceberg giunsero sino a Lisbona. Nella penisola iberica la temperatura media annua era di circa 10-12 °C inferiore alla temperatura attuale. Per farsi un'idea di ciò che rappresenta tale diminuzione termica si consideri che, in termini molto generali, la temperatura media annua si abbassa di 1 °C quando ci spostiamo di 200 km verso nord (gradiente termico di latitudine), di un ulteriore grado quando ci allontaniamo dal mare di 10° verso est (gradiente termico di longitudine) e un grado ogni spostamento in altezza di 150 m (gradiente di altitudine). Semplificando al massimo si può rappresentare il cambiamento climatico come uno spostamento di 2000 km verso nord della penisola iberica o un innalzamento di 1,5 km sul livello del mare. Se spostassimo la penisola iberica di 2000 km verso nord, Madrid si troverebbe all'altezza della Scozia settentrionale. Con l'importante differenza rispetto alla Gran Bretagna che la cima più alta dell'isola è il monte Ben Nevis (situato a sud del Lago Ness, in Scozia) alto soltanto 1342 m, mentre in Spagna vi sono molte cime che superano tale altitudine. In ogni modo, bisogna osservare che il clima non è controllato soltanto da fattori elementari come la latitudine, l'altitudine e la continentalità (o distanza dal mare). Tornando al caso della Gran Bretagna e dell'Irlanda, queste isole sono situate tra il 50° e il 60° di latitudine nord, vale a dire alla stessa latitudine della penisola del Labrador e di parte della Baia di Hudson, in Canada. Il motivo che sta alla base del clima più clemente dell'Europa atlantica rispetto alla riva atlantica nordamericana non è altri che la Corrente del Golfo, che trasporta acqua calda verso le nostre coste per mezzo del suo prolungamento, la Corrente dell'Atlantico del nord, mentre le coste nordamericane sono bagnate dalle acque fredde della Corrente del Labrador proveniente dal polo nord. Le correnti marine sono così importanti per il clima che alcuni studiosi ritengono che il sollevamento dell'istmo di Panama, che risale a 3,5-3 milioni di anni orsono, sia da mettere in rapporto con l'inizio del raffreddamento generale del pianeta, individuato chiaramente in 105
molte regioni 2,8 milioni di anni fa. Con la scomparsa della comunicazione tra l'Oceano Pacifico e l'Oceano Atlantico, tramite l'unione del Nordamerica con il Sudamerica in quello che oggi è l'istmo, si sarebbe prodotto un cambiamento radicale della circolazione oceanica che ha portato alla formazione di grandi manti di ghiaccio nelle terre settentrionali. Nella penisola iberica sembra che sopra i 700 m di altitudine la temperatura media annua non abbia superato i 3 °C nell'epoca della massima glaciazione. Anche le cime delle principali montagne peninsulari furono coperte da nevi perenni. È molto difficile stabilire sino a che punto nel passato si abbassarono le nevi perenni delle montagne, ma poiché risulta un modo più intuitivo di esprimere l'impatto delle glaciazioni darò di seguito alcune cifre orientative. Nei monti di Le6n e nei Picos de Europa la neve si accumulerebbe in grandi quantità e in forma persistente sopra i 1500 m. Una simile quota minima corrisponderebbe alle nevi che non si sciolgono mai nella Sierra de la Estrella, all'estremo occidente della Cordigliera Centrai, e andrebbe aumentando verso est, collocandosi al di sopra dei 1800 m nella Sierra de Gredos, e un po' al di sotto di quota 2000 m nella Sierra de Guadarrama. Nella Sierra Nevada le nevi perenni si collocherebbero ancor più in alto, forse sopra i 2400 m in media, e nei Pirenei approssimativamente a partire dai 1500 m nel settore occidentale e dai 2100 m in quello orientale: il limite delle nevi sale da ovest a est nelle grandi catene montuose della penisola così orientate, nella stessa misura in cui diminuisce l'influenza atlantica e quindi l'intensità e la frequenza delle nevicate. In alcuni luoghi di alta montagna, specialmente nei piccoli bacini e nei circhi o anfiteatri naturali, la neve depositata si accumula e si trasforma in ghiaccio. Così si forma un ghiacciaio di montagna che può limitarsi al circo o scendere sotto forma di lingua di ghiaccio incassata in una valle, che ne risulta modellata per il logorio prodotto dalla frizione del ghiaccio contro le rocce delle pareti e contro il terreno. La famosa valle di Ordesa è stata occupata da una lingua glaciale che le ha conferito la sua caratteristica forma a madia (tronco di piramide rovesciata). I ghiacciai possono scendere di varie centinaia di metri in altitudine al di sotto della quota inferiore delle nevi perenni. Nel loro avanzare staccano e trascinano molti blocchi di roccia che poi depositano sul fondo, ai lati e alla fine della lingua (dove questa si scioglie e si trasforma in acqua). In tal modo si formano cumuli a forma di collina, le morene, grazie alle quali e alla forma che la massa glaciale ha impresso al paesaggio durante il suo passaggio, possiamo conoscere i progressi e i regressi dei ghiacciai nelle glaciazioni antiche. Durante il periodo della punta massima di freddo dell'ultima 106
glaciazione si è formato un piccolo scudo di ghiaccio, che si chiama ghiacciaio scandinavo o inlandsis, nei monti di Le6n. Da qui partivano lingue glaciali, come quella che ha prodotto il Lago di San Martin de Castaneda o Lago de Sanabria (Zamora), situato a circa 1000 m di altitudine e delimitato da colline moreniche. Anche nel massiccio degli Ancares si è sviluppato un piccolo ghiacciaio inlandsis. In quella che fu la penisola iberica fredda vi furono molti ghiacciai sia di circo sia vallivi, nei Pirenei, nel Sistema centrale, nella Sierra Nevada, sulle montagne Galaico-Leonesas, nella Cordigliera cantabrica e nel Sistema iberico. Soprattutto nei Pirenei si formavano grandi ghiacciai vallivi come quelli che si possono trovare attualmente nelle Alpi. Alcuni si svilupparono su fronti superiori ai 30 km e con un ghiaccio spesso a volte più di 400 m. Nonostante la sua posizione centrale nella penisola, il glaciarismo fu importante a Gredos, con la presenza di ghiacciai vallivi, mentre alcune cime furono coperte da "elmi" di ghiaccio. Nella Sierra de Guadarrana, invece, e nel Sistema iberico (Moncayo, Sierre de la Demanda, Urbi6n, Neila e Cebollera), gli apparati glaciali erano piccoli e si riducevano praticamente a ghiacciai di circo, quasi senza lingua, e ghiacciai di nicchia, ancor più piccoli. Nella Sierra Nevada si è verificato il glaciarismo più meridionale d'Europa. Qui si formarono molti ghiacciai di circo, ma si svilupparono anche ghiacciai vallivi, come quelli delle sorgenti dei fiumi Lamjar6n e Genil. Nei Pirenei, negli Ancares, nella Cordigliera cantabrica e nella Sierra de la Estrella, alcuni ghiacciai vallivi scendevano al di sotto dei 1000 m sul livello del mare. In cambio, il fronte dei ghiacciai giungeva come massimo sino ai 1400 m nella Sierra de Gredos, ai 1500 m nel Sistema iberico e ai 1650 m nella Sierra de Guadarrama e nella Sierra Nevada. Attualmente in tutto il territorio peninsulare non restano ghiacciai vivi, con le uniche eccezioni di focolai minimi, oltretutto in decisa regressione, nei Pirenei (ghiacciai di Marboré, Cilindro e Monte Perdido). Quante volte si sono formati i ghiacciai nella penisola iberica nel corso del Quaternario? Sembra certo che ciò non accadde in tutte le glaciazioni che si succedettero nell'emisfero nord. Hugo Obermaier ha creduto di scoprire nel Sistema centrale (Sierra de Guadarrama) e nei Picos de Europa prove dell'esistenza di due avanzamenti di ghiacci, che attribuiva alle due ultime glaciazioni, vale a dire quella di Wiirm e quella di Riss (secondo lo schema alpino). Delle due, quella di Riss, la più antica, sarebbe stata anche la più importante in queste cordigliere. Javier de Pedraza e altri geomorfologi che hanno studiato i ghiacciai del Sistema centrale rilevano soltanto due importanti oscillazioni. Nella prima i ghiacciai raggiunsero l'estensione 107
massima, mentre nella seconda fase si stabilizzarono a un' altitudine maggiore. Tutto fa pensare a questi studiosi che il primo di questi due momenti corrisponda al picco dell'ultima glaciazione, quando non esistevano i Neandertaliani, e il secondo alla fine del Pleistocene. Juan Carlos Casta:fi6n e Manuel Frochoso hanno studiato il glaciarismo nei Picos de Europa e anch'essi lo attribuiscono al climax dell'ultima glaciazione. Di conseguenza è possibile che i Neandertaliani e i loro antenati non abbiano mai conosciuti i ghiacciai della penisola, salvo che nei Pirenei: non faceva tutto quel freddo che in seguito avrebbero dovuto sopportare i Cro-Magnon. Nella Sierra Nevada sono state segnalate alcune morene molto degradate, e pertanto dubbie, che forse appartengono al penultimo ciclo glaciale, ancora nel periodo degli antenati dei Neandertaliani, anche se la maggiore estensione della fauna fredda nella penisola sembra corrispondere al tempo dei Cro-Magnon, il che avalla la tesi secondo la quale il glaciarismo iberico in quell'epoca si ridusse. Nel corso del Quaternario, ogni volta che una glaciazione gravava sull'Europa, il paesaggio cambiava drasticamente. Le grandi calotte di ghiaccio occupavano una parte considerevole delle terre settentrionali. La discesa del livello del mare prodotta dall'accumulazione di acqua sotto forma di ghiaccio faceva sì che si potesse giungere sino all'attuale Irlanda e Inghilterra (benché solo le regioni più meridionali fossero prive della calotta glaciale) attraversando a piedi il Canale della Maniea, che era privo d'.acqua. In un'ampia fascia che si estendeva largamente a sud del fronte dei ghiacci, si verificavano condizioni climatiche definite periglaciali. easpetto più considerevole di questi ambienti è che il terreno è gelato in permanenza sino a parecchi metri di profondità, fenomeno noto come permafrost. In Alaska e in Siberia il permafrost può raggiungere una profondità di 300 me in alcune zone della Siberia può essere anche più profondo. Gli alberi non possono affondare le radici in questo substrato gelato e il paesaggio è costituito da una tundra coperta di 'muschi, licheni ed erbe. Poiché d'estate la temperatura diurna sale al di sopra dello O °C, si produce il disgelo dello strato più superficiale del terreno (sino a 3-6 m di profondità), dando luogo a estesi allagamenti e zone paludose, poiché l'acqua non riesce a filtrare attraverso gli strati più profondi del terreno gelato, che diventano impermeabili. Ai piedi dei grandi massicci montuosi, coperti di nevi perenni durante le glaciazioni, la vegetazione sarebbe simile a quella degli ambienti periglaciali. A sud delle tundre una parte del continente sarebbe coperta da immensi boschi di conifere del tipo delle taighe, i boschi boreali. Ma anche in estese aree lontane dalle coste e quindi dall'azione moderatrice del mare, un clima più continentale (con 108
grandi contrasti di temperatura e precipitazioni scarse) determinerebbe un paesaggio di steppe prive di alberi e con poca protezione vegetale del terreno, dove il vento trasporta ingenti masse di polvere dai depositi glaciali, che poi abbandona formando profonde accumulazioni di limi chiamati loess, che oggi accolgono fertili coltivazioni di cereali. Infine, nella parte meridionale del continente, in alcune enclave di clima più dolce e umidità maggiore, si perpetuerebbero i boschi di caducifoglie: roveri, faggi e altri, e nelle coste più calde del mediterraneo, i querceti, in attesa per entrambi dell'opportunità che un nuovo rovesciamento climatico ne permetta l'espansione a spese delle tundre, delle taighe e delle steppe fredde. Tutte queste alternanze ebbero ripercussioni sulla penisola iberica, ma, data la sua latitudine, le glaciazioni produssero un impatto minore rispetto ai territori del Grande Nord, anche se non fu insignificante. :Levoluzione della vegetazione in Spagna dall'ultimo periodo glaciale sino ai nostri giorni si conosce ragionevolmente bene, grazie agli studi realizzati sul polline e sulle spore fossili conservati nelle torbiere, sul fondo dei laghi e nei giacimenti archeologici in caverne. Nel picco del freddo di 21.000-17.000 anni fa la Cordigliera cantabrica e i Montes de Le6n sarebbero stati territori inospitali sino a una quota assai bassa, nettamente inferiore ai 1000 m. Ci sarebbero stati pochi alberi, a eccezione di striscianti cespugli di ginepro, alcune sabine silvestri e pini di montagna (come il pino silvestre e il pino nero), insieme a betulle, soprattutto sulle pendici orientali più a sud e nei fondovalle. Terre spoglie e molto fredde nei lunghi inverni, poco frequentate dall'uomo e dagli animali, ma nelle quali avrebbero pascolato grandi mammiferi nelle brevi estati; e dietro a questi sarebbero venuti i cacciatori a quattro e due zampe. Una situazione simile si sarebbe verificata a una quota di circa 100 m al di sotto delle nevi perenni nelle altre grandi catene montuose della penisola. Vi sono estese regioni interne della Spagna che, pur non essendo cime elevate, sono situate ad altezze notevoli, superiori ai 700 m, come gli altopiani della Castiglia, della Mancia, di Alcarria e iberico, e la Sierra Morena. In queste aree si sarebbero sviluppate steppe fredde, con alberi sparsi come quelli citati nel precedente paragrafo. I boschi di conifere, invece, sarebbero stati più folti ed estesi nelle terre basse dell'interno della penisola. Riassumendo, i pini erano la specie arborea dominante in epoca glaciale. Tuttavia, nel versante marittimo della fascia cantabrica e in altre enclave propizie lungo le coste atlantiche della penisola, come pure in Catalogna, sarebbero esistite aree rifugio di boschi misti caducifogli di roveri, alissi, noccioli, sorbi, frassini, olmi, aceri, faggi ecc. Una stretta fascia litoranea della costa orien109
tale avrebbe mantenuto una vegetazione mediterranea. Dalla fine del Pleistocene e soprattutto nell'Olocene, vale a dire negli ultimi 10.000 anni, in quasi tutto il territorio peninsulare si è andata producendo l'espansione di boschi misti di latifoglie caducifoglie e dei boschi di quercia e sughere, relegando le conifere in luoghi meno favorevoli per la scarsità di pioggia, per la povertà del terreno, per il freddo o per tutte queste cause combinate tra loro. Il risultato finale è che l'Iberia intera si è trasformata in bosco. Sinora abbiamo visto come i cambiamenti climatici abbiano colpito la vegetazione della penisola iberica, modificando il paesaggio conosciuto dagli umani che vi abitarono. Però dobbiamo ancora presentare gli animali che facevano parte degli stessi ecosistemi e che non conosciamo soltanto per le ossa fossili, come è uso in paleontologia. Possiamo contare anche sulle rappresentazioni artistiche tramandateci dai nostri antenati e su un tipo eccezionale di fossili: i cadaveri ibernati di alcuni animali.
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Arrivano le renne! Vicino al guado di Nahiktartorvik, nel corso inferiore del fiume Kazan, si innalza una collinetta rocciosa che dà nome al luogo: "il belvedere". Da lì si possono individuare per la prima volta i branchi di renne che procedono verso nord; man mano che si avvicina il momento alcuni cacciatori degli accampamenti circostanti sono soliti dirigersi qui in slitta per essere certi di riuscire a partecipare al lieto evento. Arrivammo a uno di quegli accampamenti nel momento preciso in cui le slitte stavano tornando, e quando fu avvistata la prima, nelle capanne di neve risuonò il grido "arrivano le renne!". Kaj Birket-Smith, Gli esquimesi
Il mammut venuto dal freddo È il 3 maggio 1901 quando tre viaggiatori salgono su un treno nella città russa di San Pietroburgo. La loro destinazione è Irkutsk, sulle rive del Lago Bajkal, in Siberia. Si tratta della stessa città dove, da Mosca, sarebbe dovuto recarsi Michele Strogoff nel celebre romanzo di Jules Verne. La rivolta dei "tatari", guidati da Feofar Jan e dall'ufficiale traditore Ivan Ogareff, costrinse il corriere dello zar a compiere il viaggio tra difficoltà quasi insuperabili, in un paese in guerra. Tuttavia, a differenza di quanto accade nel romanzo di Verne, la vera avventura dei tre storici passeggeri inizia a Irkutsk, invece di finire qui. I loro nomi sono Otto Herz, zoologo e capo del gruppo, e i suoi collaboratori D.P. Sewastianoff (studente di geologia) e D.P. Pfizenmayer (tassidermista). Non sono agenti segreti, ma scienziati dell'Accademia imperiale di scienze di San Pietroburgo. Il loro obiettivo era di recuperare e trasferire a San Pietroburgo il corpo di un mammut ibernato, rinvenuto alla metà di agosto dell'anno precedente presso il fiume Beresowka, un affluente di destra del Kolyma, oltre il circolo polare artico. Per far ciò dispongono dei 16.300 rubli concessi dal ministro delle Finanze russo ... e di molto coraggio. Il resoconto sommario che segue è tratto dal libro pubblicato da Otto Hertz nel 1902. Gli scienziati lasciano Irkutsk e devono cavalcare sino all'insediamento di Yakutsk, sul fiume Lena: un percorso di 2800 verste (una versta equivale a 1,067 km, poco più di un chilometro). 111
Poi, su un'imbarcazione a vapore, scendono il Lena fino allo sbocco nel fiume Aldan, che risalgono in barca. Sbarcano il 22 giugno a Jara-Aldan e continuano la cavalcata: altre 938 verste fino a Verjoiansk (dove giungono il 9 luglio), ancora 2150 verste, a cavallo e a tratti in barca, sino a Musovaya (arrivo il 30 agosto); altre 130 verste e il 9 settembre finalmente si trovano davanti al gigantesco animale. Alla partenza da Jara-Aldan Otto Hertz e i suoi due valorosi compagni avevano 20 cavalli ed erano accompagnati da due cosacchi e tre guide; una di queste ultime scomparve nell'attraversare un affluente del fiume Aldan, inghiottita dalle acque con il cavallo e tutto quanto. Una volta trovato il mammut, si pongono due gravi problemi: come conservarlo e come trasportarlo? Otto Hertz studia il modo di seccarlo all'aria aperta o di trattarlo con allume e sale. Alla fine decide, per mancanza di tempo, di tagliarlo a pezzi, caricarli su dieci slitte trainate da cavalli o renne e affrettarsi a giungere a San Pietroburgo durante l'inverno, prima che il carico si scongeli: per questo il ritorno si effettuerà viaggiando giorno e notte. Il 15 ottobre la spedizione si mette in marcia, ma il viaggio di ritorno si realizzerà in condizioni assai più penose di quello di andata. Non soltanto per il peso del carico (1638 kg di mammut ibernato), ma anche per l'inclemenza dell'autunno e dell'inverno siberiano. Fu particolarmente faticoso attraversare a piedi, in pieno dicembre, le montagne di Verjoiansk, coperte di neve e con temperature di - 40 °C e - SO °C e aiutando le magre renne a tirare le slitte. I.:eroica spedizione riesce infine ad arrivare a Irkutsk, dove il prezioso carico è sistemato su vagoni ferroviari fino alla destinazione finale del mammut di Beresowka: il Museo zoologico di San Pietroburgo, dove si può ancora ammirare, preparato tassidermicamente come fosse un animale imbalsamato. Il 12 febbraio 1902, l'ingresso dei membri della spedizione alla stazione di San Pietroburgo, avvolti dal vapore di un treno speciale, costituì un grande evento. E ce n'erano tutti i motivi, visto che in dieci mesi avevano percorso, esclusi i tratti in treno e in battello a vapore, 6000 verste in slitta e 3000 a cavallo. Come si è formato un fossile così speciale? Il cadavere del mammut ibernato non era rinchiuso in un blocco di ghiaccio, come si potrebbe pensare. Nelle gelide terre artiche non vi sono cubetti di ghiaccio con dentro mammut. I mammut si conservano sepolti nel terreno ghiacciato della tundra, il permafrost, fino a che l'erosione di un fiume o l'opera dell'uomo li fanno emergere. In qualche remota occasione uno di questi giganteschi animali è morto in un cupo fondovalle dove il sole non giungeva mai (o il suo corpo è finito lì chissà come). Il cadavere si è essiccato per effetto del freddo, trasformandosi in una mummia na112
turale. Il sole estivo ha fatto sì che durante questa breve stagione il ghiaccio dello strato più superficiale del permafrost si sciogliesse. Poiché il liquido non poteva attraversare gli strati profondi, sempre ghiacciati e quindi impermeabili, la superficie del terreno si è allagata e ammorbidita, scivolando sulla pendenza sino al fondo della valle, fenomeno noto come solifiusso, molto importante negli ambienti periglaciali. Numerose di queste valanghe di fango dovettero seppellire il mammut di Beresowka tanto da conservarlo ibernato sino ai nostri giorni. In questo modo ci sono arrivati non soltanto le ossa dei mammut, ma, in molti casi, anche resti più o meno completi della loro pelle, peli, carne e persino visceri che consentono di conoscere persino quello che hanno mangiato prima di morire. Il primo corpo di mammut ibernato è stato trovato nel 1799 nella Penisola di Bikovski, nel delta del fiume Lena. Un altro ritrovamento assai famoso è quello del cucciolo di mammut rinvenuto completo nel 1977 nella valle del Kirgilyaj. Il principale alimento dell'animale, che morì a sei o otto mesi, sarebbe il latte materno, ma il logorio dei suoi molari ci indica che pascolava già. Il suo stomaco vuoto e la mancanza di grasso corporeo fa pensare che negli ultimi giorni abbia sofferto molto la fame e che forse sia morto di inanizione (forse si è perso, o sua madre è morta?). Mentre sto scrivendo queste righe giunge notizia da mezzi di comunicazione che una spedizione franco-russa è giunta sino a un mammut assai ben conservato nella Penisola di Taimir in Siberia; intendevano recuperare tutto lesemplare per trasportarlo a Jatanga, sede del futuro Museo del freddo, ma, a causa dei sopraggiunti rigori invernali, è stato possibile farlo solo con la testa del mammut. E pensare che questi giganteschi e pelosi animali giunsero a vivere in quasi tutta la penisola iberica! I mammut (della specie Mamuthus primigenius) conosciuti in Iberia dai nostri antenati, i Cro-Magnon, non erano alti come gli attuali elefanti africani, ma anche così erano pachidermi imponenti e compatti, con zanne grandi e ricurve che si ripiegavano a spirale. La loro testa era piuttosto rotondeggiante e il punto più alto del dorso si trovava nel garrese gibboso, che scendeva rapidamente verso i quarti posteriori. Le loro orecchie erano piccole, naturalmente in confronto con altri proboscidati, perché orecchie grandi danno molto freddo vicino al polo. I mammut di cui stiamo parlando erano molto pelosi per proteggersi dal freddo: erano mammut lanosi. Gli esemplari ibernati hanno il pelo castano o giallastro e così vengono dipinti spesso. Tuttavia, da altri tipi di cadaveri disseccati e conservati per lungo tempo, come le mummie umane, sappiamo che il pigmento nero del pelo si ossida e con il tempo diventa rossiccio, per questo è meglio immaginare i mammut in lutto stretto. I mammut avevano peli lunghi 113
(se ne sono trovati alcuni di quasi un metro) e peluria fine, e sotto la pelle un grosso strato isolante di vari centimetri di grasso. Racconta la leggenda che i componenti della spedizione del fiume Beresowka si concessero un banchetto di carne di mammut. La realtà è più prosaica. Sembra che soltanto uno di loro, in onore della scienza, assaggiò un saporito boccone dell'animale, che rimase poco nel suo stomaco. Se il mammut di Beresowka non era commestibile neppure per il più eroico dei ricercatori, vi è un caso più fortunato di conservazione nel tempo del gusto della carne. Nel 1976 è stato scoperto un bisonte di 36.000 anni sepolto nel permafrost dell'Alaska, soprannominato Blue Babe per il colore azzurro assunto dalla sua pelle, dopo morto, reagendo con i minerali della terra. Questo animale apparteneva alla specie Bison priscus, la stessa dipinta ad Altamira e in molte altre caverne. Attualmente esistono due specie di bisonti strettamente imparentate tra loro: di fatto è possibile incrociarle e produrre ibridi fertili. Una è europea, l'altra americana. Nelle ere glaciali il livello del mare si abbassava molto e le sue rive si allontanavano dalle antiche linee di costa perché le piattaforme continentali restavano a secco. Questo è anche il caso dello stretto di Bering, che si trasformava in un freddo ponte di terra tra continenti, sopra il quale si poteva camminare; la distanza più breve tra le due rive era di circa 85 km. Lo stretto di Bering faceva parte allora di un esteso territorio compreso tra il fiume Lena in Siberia e lo Yukon in Canada, noto come Beringia. È stato proprio da qui che gli antenati di Blue Babe entrarono in America e più recentemente, 13.000 anni fa, i primi esseri umani. Come i bisonti, gli umani provenivano dall'Asia e la prova sta nel fato che gli indiani americani del nord e del sud, gli amerindi, sono imparentati con le popolazioni mongoloidi dell'Estremo Oriente, quali cinesi, coreani, giapponesi e vietnamiti. Nell'Olocene, il livello del mare tornò ad alzarsi e le popolazioni eurasiatiche e americane di bisonti si separarono per sempre e iniziarono a differenziarsi (come accadde anche per gli umani). Ma il lettore sta aspettando che gli si chiarisca se la carne di Blue Babe era commestibile, e la risposta è affermativa se dobbiamo credere al paleontologo Bjorn Kurten, che ha partecipato alla degustazione di uno stufato di carne di Blue Babe e ha trovato che sotto la pelle azzurra la carne era rossa e fresca e aveva un gusto gradevole, con un lieve profumo di terra. Ma la storia non finisce qui, perché non furono Kurten e i suoi colleghi i primi ad addentare la carne di Blue Babe. 36.000 anni fa un branco di leoni lo uccise, lasciando sul suo corpo segni di artigli e canini; anche i leoni e i mammut lanosi passarono in America per la stessa strada del ponte di Bering, e i leoni si diffusero sino in 114
Peru, anche se poi si estinsero in tutto il continente. Gli assassini di Blue Babe non riuscirono a terminare di cibarsi della loro preda perché il freddo intenso dell'ambiente (forse al sopraggiungere della notte) ne congelò il corpo, che divenne così duro che dovette essere abbandonato ancora pressoché intero. Qualche tempo dopo intervenne la sepoltura naturale del bisonte e la sua definitiva conservazione nelpennafrost. Ma prima di ciò, un leone tentò nuovamente di consumare la carne gelata e si ruppe un molare, lasciandone una parte nella pelle del bisonte, rinvenuta in seguito dagli scienziati.
L'Età della renna Il mammut lanoso è il rappresentante più tipico del clima freddo. Al termine dell'ultima glaciazione, anche i mammut scomparvero (quasi completamente come vedremo in seguito). Con lo scioglimento dei ghiacci pleistocenici si estinse anche un altro mammifero ugualmente coperto di pelo, il rinoceronte lanoso (Coelodonta antiquitatis). Se queste due grandi specie di erbivori con il mutare del clima non disposero più degli ambienti di cui avevano bisogno per vivere, altre specie tipiche di quell'età sono sopravvissute sino alla nostra epoca trovando rifugio nelle terre del Grande Nord: si tratta della renna e del bue muschiato. La prima si trova oggi in Eurasia, Groenlandia e Nordamerica, e il secondo soltanto in Groenlandia e Nordamerica. Il bue muschiato, nonostante il nome e l'aspetto, non è parente del toro e del bisonte, cioè un bovino. In realtà gli zoologi lo classificano tra i caprini ed è più simile alla pécora, alla capra e al camoscio, anche se i maschi possono raggiungere un peso superiore ai 400 kg. Anche la volpe artica, che d'inverno diventa completamente bianca, è una specie superstite che, nei giacimenti, a volte è associata alle precedenti specie di erbivori. Molto note sono le grandi migrazioni annuali delle renne nordamericane, qui chiamate caribù. Gli indiani e gli esquimesi, come facevano un tempo gli uomini preistorici in Europa, conoscevano le stagioni del passaggio dei grandi branchi di renne per cacciarle. Presumibilmente né i mammut né i rinoceronti lanosi svernavano nella tundra gelata, ma si spostavano verso terre più favorevoli per tornare d'estate negli umidi pascoli del nord o delle montagne. I:influenza del mare è molto importante per il clima, non solo come regolatore della temperatura, ma anche in relazione al!'apporto di umidità necessaria a che si producano precipitazioni. Per questo, quanto più una terra è lontana dalla costa, tanto più il suo clima si fa continentale: le piogge diventano meno abbondanti perché i venti che giungono fino a tale territorio si so115
Figura 15. Ricostruzione del rinoceronte lanoso e pitture rupestri della grotta Chauvet. Nelle prime pitture rupestri abbondavano animali temibili: leoni, rinoceronti lanosi e mammut lanosi.
no lasciati alle spalle il carico d'acqua; al tempo stesso le escursioni termiche si fanno più marcate perché non sono attenuate dalla gigantesca massa d'acqua del mare. Nei periodi interglaciali come l'attuale, le coste dell'Europa centrale sono lambite dalle acque del Mar Baltico e del Mare del Nord. Il primo è quasi un lago salato, strettamente collegato al secondo. Una causa importante dell'estremo rigore del clima dell'Europa centrale nelle ere glaciali risiede nel fatto che il Mar Baltico gelava completamente e il Mare del Nord in parte, oltre a prosciugarsi per la diminuzione del livello delle acque. I.:assenza dell'influsso del mare, o aumento della continentalità, unita alla vicinanza della grande calotta glaciale della Scandinavia e a quella più piccola della Gran Bretagna e dell'Irlanda, fece sì che il clima centroeuropeo divenisse estremamente continentale e che le tundre si prolungassero a sud verso le steppe fredde e secche. Per la verità, il mammut, la renna, il bue muschiato e il rinoceronte lanoso abitavano sia tundre sia steppe, tanto che alcuni studiosi si riferiscono a questo complesso di specie come alla "fauna di tundra-steppa del mammut". Una specie delle steppe 116
fredde che ugualmente si diffuse in Europa nel Pleistocene è l'antilope saiga. Si tratta di un caprino, e non di un'antilope vera e propria, che vive in enormi branchi e compie grandi migrazioni stagionali. Possiede una piccola proboscide che le serve per filtrare la polvere della steppa e le conferisce un aspetto insolito. È stata sul punto di estinguersi nel 1930, quando la popolazione si ridusse a poche centinaia di esemplari. Fortunatamente furono presi provvedimenti per la sua tutela e oggi si contano più di due milioni di saighe dalla riva occidentale del Volga sino alla Mongolia. Benché a nord dei Pirenei il clima si facesse molto freddo e continentale durante le glaciazioni, la penisola iberica restò, come oggi, largamente insulare; intorno ad essa il mare non gelò mai, anche se era più distante dalla costa attuale. La piattaforma continentale che circonda la penisola è molto limitata e ha un pendio pronunciato, per cui un abbassamento del mare di 120 m non ne indusse un allontanamento della costa molto consistente. Ciò nonostante, Maiorca e Minorca si unirono e in alcuni punti del Mediterraneo la riva del mare si situava a varie decine di chilometri dalla linea attuale: la curva batimetrica dei 100 m si allontana per più di 50 km dalla costa valenciana di La Plana. Per questi motivi alcuni giacimenti di caverne che oggi si trovano sulle scogliere, in realtà, durante le glaciazioni dominavano un'ampia pianura litoranea. Poiché, nonostante ciò, la superficie della penisola non aumentò, la continentalità non ebbe un influsso considerevole sui territori interni. Inoltre, poiché la penisola si trovava più a sud, il clima non giunse a essere così ferocemente freddo come nell'Europa centrale, nei Paesi Bassi e nella Francia settentrionale. Il mammut lanoso, il rinoceronte lanoso, la renna e l'antilope saiga giunsero in Europa dalla Siberia e dall'Asia centrale, andando a costituire elementi tipici dell'ultima glaciazione, anche se in alcuni giacimenti si registrano già in precedenti epoche fredde. Il caso del bue muschiato è molto interessante. Questo animale sembra essere stato tipico degli ambienti stepposi dell'Eurasia durante il Pleistocene, adattandosi al clima freddo nell'ultima glaciazione e trasformandosi da allora in una specie artica. Alla volpe artica potrebbe essere accaduta la stessa cosa. Oltre ai fossili, possiamo conoscere gli animali che convissero con i nostri antenati attraverso le rappresentazioni di animali dipinti o incisi sulle pareti rocciose (arte parietale o rupestre) o su lastre di pietra e su supporti organici di osso, avorio e corno (arte mobile), realizzate dall'uomo di Cro-Magnon. I.:elemento appassionante di queste manifestazioni dell'arte paleolitica è che ci consentono di contemplare il mitico mammut, il possente rinoceronte, il temibile leone e il gigantesco orso delle caverne attra117
verso lo sguardo dell'uomo preistorico. Il paleontologo Bjorn Kurten scrisse in una certa occasione che la sua scienza, la nostra scienza, non tratta di esseri che morirono tanto tempo fa, ma di esseri che vissero tanto tempo fa. Per un paleontologo sarà sempre emozionante contemplare sulle pareti di una caverna i grandi mammiferi fossili dell'Era glaciale, pieni di vita. Spagna e Francia condividono il primato di essere i paesi d'Europa nei quali si trova la maggior parte delle manifestazioni dell'arte rupestre paleolitica; quelle spagnole si concentrano soprattutto nelle caverne della cornice cantabrica, ma se ne trovano altre in caverne nel resto del territorio peninsulare. Inoltre, negli ultimi anni è stato scoperto un meraviglioso e grandissimo complesso di incisioni di animali all'aria aperta a Foz Coa (Portogallo), Siega Verde (Salamanca) e Domingo Gracia (Segovia). I.:arte mobile, invece, ha avuto una diffusione assai maggiore, e abbraccia l'intera Europa e se ne trovano tracce fino alle regioni siberiane. Tra gli animali ampiamente rappresentati.nell'arte paleolitica spagnola, rupestre e mobile, si trovano cervi, cavalli, bisonti, capre e uri (tori selvatici). Altri animali, come la renna, il camoscio, il cinghiale, il mammut, il rinoceronte lanoso e i carnivori, sono più rari. La distribuzione geografica della renna è interessante poiché si tratta di una specie indicativa di condizioni climatiche molto fredde e un ambiente di tundra o tundra/taiga. A tal punto è connessa con l'ultima glaciazione che si è giunti a chiamare quest'ultima Età della renna. Troviamo fossili di questo cervide in varie caverne della cornice cantabrica, e ne rintracciamo figurazioni nell'arte rupestre e mobile della stessa regione. Si sono trovati fossili di renna anche a Puebla de Lillo (Le6n) e, anche se dubbi, ad A Valina (Lugo). D'altro canto, José Javier Alcolea, Rodrigo de Balbin e altri colleghi hanno reso nota un'incisione di renna di una caverna, per questo motivo chiamata caverna della renna, a Guadalajara (a 850 mdi altitudine) e in un'altra nella caverna di La Hoz (a 1050 m) nella stessa provincia, il che dimostrerebbe che le renne arrivarono fino all'entroterra; questi autori identificano nelle renne gli animali delle incisioni all'aperto di Siega Verde. Qualcosa di simile si può dire dei rinoceronti lanosi, i cui fossili sono stati rinvenuti più a sud della cornice cantabrica; per restare in famiglia, mio fratello Pedro Maria ha studiato un cranio di questa specie proveniente dal giacimento di Arroyo Culebro a Madrid. Il rinoceronte lanoso aveva due corni, quello anteriore molto lungo (più di 130 cm), e dimensioni poderose, paragonabili a quelle dell'attuale rinoceronte bianco: i due grandi maschi supererebbero le due tonnellate e avrebbero un'altezza al garrese di 185 cm o anche superiore. Come nel caso del mammut, dispo118
niamo di alcuni esemplari mummificati che ci consentono di studiare la specie in dettaglio. Il rinoceronte lanoso è poco rappresentato nel bestiario paleolitico spagnolo, anche se è nota una figura nella caverna di Los Casares, molto vicina alla citata caverna di La Hoz, a Guadalajara, e un'altra, secondo Rodrigo de Balbin e José Javier Alcolea, su una parete all'aperto del complesso di Siega Verde, e una terza è stata identificata da Losedad Corch6n in una lastra incisa proveniente dalla caverna di Las Caldas (Asturie). Dai fossili sappiamo che i mammut lanosi percorsero gran parte della penisola, giungendo a ovest sino alla Galizia e al Portogallo e a sud fino alla torbiera di Padul, situata nelle vicinanze di Granada, a mille metri di altitudine. Le rappresentazioni artistiche di questo animale sono poche: nella caverna del Pindal (Asturie), nella caverna del Castillo (Cantabria), numerose nella stessa lastra di Las Caldas, sovrapposte tra loro e al rinoceronte lanoso citato in precedenza, più alcune attribuzioni dubbie nelle caverne di Los Casares (Guadalajara), La Lluera (Burgos) e El Reguerillo (Madrid). Il mammut rosso della caverna del Pindal è molto speciale: sul suo petto è disegnato un cuore dello stesso colore. La penetrazione di rappresentanti della fauna fredda nel Mediterraneo non sembra essere stata profonda, benché vi sia qualche fossile di mammut, renna e bue muschiato nei livelli del Paleolitico superiore al nord dell'Ebro (in Catalogna). Recentemente J esus Altuna e Koro Mariezkurrena hanno classificato come antilope saiga sei fossili trovati dall'archeologa Pilar Utilla nella caverna di Abauntz (Navarra), a un livello del Paleolitico superiore che ha fornito anche resti di renna. Nella caverna di Altxerri, in Guipuzcoa, Jesus Altuna aveva già riconosciuto come saiga due incisioni di animali che altri autori avevano interpretato come camosci. Già si sapeva che le antilopi saiga si erano spinte molto vicino alla penisola iberica, perché se ne erano trovati resti nel giacimento di Isturitz nella Bassa Navarra (Paese Basco francese) e nel Dufaure, unpoco più a nord, nella zona meridionale delle Landas. Le renne e le antilopi saiga furono abbondantissime nell'ultima glaciazione nelle grandi pianure di Aquitania, dall'altro lato dei Pirenei. Di fatto, poiché si tratta di cinque falangi e di un tarso (un osso del piede), Jesus Altuna e Koro Mariezkurrena ritengono che i resti di saiga potrebbero essere giunti ad Abauntz con una pelle trasportata da qualche umano, poiché il paesaggio accidentato della regione dove si trova la caverna è poco favorevole a questi animali, amanti degli spazi aperti e delle pianure delle grandi steppe. Nella penisola iberica, quando i resti appaiono in contesti archeologici, la presenza del mammut, del rinoceronte lanoso e dell'antilope saiga si individua soltanto nei livelli del Paleolitico 119
Figura 16. Diffusione massima dell'antilope saiga nell'ultima glaciazione (macc, chiara).
superiore, corrispondenti agli umani moderni. Tuttavia J esus 1 tuna, che da numerosi anni sta studiando la fauna dei giacime ti del Paese Basco e della cornice cantabrica in generale, identi ca fossili di renna nei livelli occupati da Neandertaliani (os1 musteriani) di Axlor (Vizcaya), Lezetxiki (Guipuzcoa) e Abaur (Navarra). Non solo, Obermaier cita quattro resti di renna in i livello della caverna del Castillo che sembra appartenere al I riodo della penultima glaciazione. Nella documentazione fossile cantabrica si sono identific: alcuni resti dello spettacolare cervide Megaloceros giganteus 1 in livelli Neandertaliani sia in livelli occupati da Cro-Magnon. megacero spicca per le sue grandi dimensioni e per l'enorr apertura del suo palco palmato, che raggiunge anche i quatt metri, con un peso che poteva raggiungere i 45 kg. Con una te~ così coronata non è facile che i grandi maschi potessero penet1 re nei boschi senza impigliarsi nei rami degli alberi; è ragione\ le pensare che vivessero in ambienti più aperti e probabilmer in zone fresche. Poiché si sono trovati molti resti di megace nelle torbiere irlandesi, per questo chiamati anche "alci irlanc si", benché non possiedano una speciale parentela con gli alci : tuali, o "gran cervo delle paludi", benché non sia nemmeno i 120
cervo come quelli odierni. Sembra che i megaceri, di questa specie e di altre più antiche, siano sempre stati presenti nel Pleistocene iberico, anche se è possibile che non fossero molto numerosi. Anche i Cro-Magnon iberici avrebbero rappresentato i megaceri se, come ritengono Rodrigo de Balbin e José Javier Alcolea, un disegno animale di Siega Verde risultasse essere uno di questi. In ogni caso questa specie si è estinta alla fine del Pleistocene. A parte gli erbivori che abbiamo ricordato, nell'ultima glaciazione si contavano anche caprioli (una specie indicativa del bosco), e un equide estinto di dimensioni inferiori a quelle del cavallo, più o meno della taglia di un asino (Equus Hydruntinus), anche se probabilmente senza relazione con questo. Non dobbiamo dimenticare neppure l'altro primate europeo, il macaco di Barberia, rinvenuto nel giacimento di Cova Negra, databile a quest'epoca, a Jativa, prima che il gelo dell'ultima glaciazione lo uccidesse. I macachi sono una specie mediterranea presente in Europa per tutto il Pleistocene in numerosi luoghi (anche nella penisola iberica), spintasi a nord fino in Germania e Inghilterra, ma sempre nei periodi interglaciali. È probabile che il macaco come molte altre specie "interglaciali", per esempio l'ippopotamo, tornerebbero a colonizzare· l'Europa nel caldo Olocene in cui stiamo vivendo: ma non li lasciamo abitare tra noi. Alcuni carnivori dell'ultima glaciazione ci risultano familiari, come il gatto selvatico, la lince, la lepre comune e il lupo. Invece poche persone in Europa conoscono il cuon, parente di questi ultimi. Ciò nonostante, per molti di noi il cuon porta con sé cari ricordi legati alla fine dell'infanzia, poiché appaiono iri un drammatico passo del Libro della giungla di Rudyard Kipling, nel capitolo nel quale si racconta la lotta senza quartiere tra il branco di lupi di Mowgli e i cani rossicci; questo era il nome dei cuon nella traduzione che ho letto (e ricordo ancora lo sconforto provocatomi dalla morte di Akela nella terribile battaglia; Akela era stato il capo del branco di Seeonee e protettore di Mowgli). Ben- · ché siano presenti in giacimenti musteriani (vale a dire dell'epoca dei Neandertaliani) e anteriori, i cuon sembra siano diventati molto rari nella penisola, o che si siano estinti, prima della fine del Pleistocene. L'unica testimonianza che conosco per il periodo dei Cro-Magnon è un resto di Arnalda (Guipuzcoa), rintracciato in un livello del Paleolitico superiore, che contiene anche delle renne. I cuon vivono oggi soltanto in Asia e benché siano più piccoli dei lupi i loro branchi sono terribilmente feroci. La lepre polare è uno splendido indicatore di climi freddi, anche se è difficile da distinguere dalla lepre comune quando si dispone soltanto di poche ossa o denti. Anche così, Jesus Altuna ha identificato un resto nel già citato livello di Arnalda. Vi sono diverse prove della presenza nella penisola durante 121
Figura 17. Diffusione. massima della renna in Eurasia durante l'ultima glaciazione (macchia chiara).
l'ultima glaciazione del ghiottone, che non è una persona con una smisurata passione per il cibo, ma il più grande dei mustelidi (la famiglia delle martore, delle faine, delle donnole, degli ermellini, dei visoni, dei tassi e delle nutrie). Attualmente il ghiottone vive nel Grande Nord, dalla Scandinavia sino al Canada, però si è trovato un resto in un livello del Paleolitico superiore di Lezetxiki che contiene anche un rinoceronte lanoso, e un altro in un giacimento senza contesto archeologico (Mairuelegorreta, in Alava). Inoltre è possibile che un'incisione della caverna di Los Casares in Guadalajara rappresenti uno di questi animali nordici; nell'alta valle del Jarama, nella stessa provincia, è stato trovata (nella caverna Jarama II) una scultura in avorio di una testa che Jesus Jorda attribuisce a un ghiottone: in questo caso si tratterebbe della figura di un rappresentante della fauna fredda, il ghiottone, scolpita su un fossile di un altro animale, il mammut dal quale proveniva l'avorio. La caverna di Los Casares è un buon esempio della vita nelle alture dell'interno della Meseta durante il Pleistocene superiore. Nel giacimento vi sono livelli neandertaliani con una fauna varia che riflette un clima non molto freddo e un ambiente di mezza montagna: marmotte, castori, cinghiali, caprioli, camosci, cervi, 122
cavalli, un bovino (uro o bisonte), capre, rinoceronti della steppa, gatti selvatici, linci, leopardi, leoni, lepri, lupi, cuon, orsi (bruni o delle caverne) e iene macchiate; si è trovato anche un metacarpo umano di un Neandertaliano (quello del mignolo destro). Poi i Neandertaliani scompaiono e nel giro di 15.000 o più anni arrivano i Cro-Magnon che incidono e dipingono sulle pareti della caverna alcuni animali che vedono all'esterno: cavalli, uri, cervi, capre, un rinoceronte lanoso, forse un mammut, forse un ghiottone e un grande felide (probabilmente un leone o una leonessa). Vi è inoltre una serie di figure antropomorfe, rappresentazioni piuttosto distorte di forme umane. Il rinoceronte lanoso e, se l'identità ne fosse confermata, il mammut e il ghiottone indicano chiaramente un ambiente freddo nella Meseta all' epoca dei Cro-Magnon, con steppe nelle quali pascolavano i grandi branchi di cavalli; ma i cervi stanno anche a indicare l' esistenza dei boschi, probabilmente nei fondovalle: ancora una volta bisogna ricordare il carattere accidentato dei rilievi spagnoli per poter spiegare tali associazioni di specie che, a prima vista, potrebbero sembrare incompatibili. Anche se a Los Casares manca la renna, questa è rappresentata nella vicina caverna di La Hoz, che è ancora più alta (1050 m). Gli uomini di Neandertal e i Cro-Magnon convivevano ed erano in competizione con leopardi e leoni. Nell'arte paleolitica spagnola non vi sono buone rappresentazioni di felidi, ma chi desidera "vedere" in diretta i leoni delle caverne non ha che da guardare i dipinti della caverna Chauvet in Francia, di un realismo incredibile. In questo e in altri casi noti (come quello di Los Casares per esempio) sono rappresentati individui senza criniera, forse perché gli uomini preistoÌ'ici intendevano rappresentare soltanto leonesse o perché i maschi della specie, nell'Europa glaciale, mancavano della criniera che adorna gli attuali leoni africani e indiani. Nelle regioni più fredde i leoni raggiunsero grandi dimensioni, per la stessa ragione per la quale i mammut lanosi avevano orecchie più piccole degli elefanti attuali; si tratta di un problema, già commentato in precedenza, di rapporto tra la superficie e il volume. In un ambiente freddo gli organismi a sangue caldo perdono il calore interno attraverso la pelle, per cui devono avere la minor estensione possibile di superficie corporea in rapporto alla massa. Paradossalmente, questo si può ottenere crescendo. Un cubo di 1 m di lato ha un volume di 1 m 3 e una superficie di 6 m 2 • Invece un cubo di 2 mdi lato ha un volume di 8 m 3 , vale a dire 8 volte maggiore, mentre la superficie è di 24 m 2 , ossia solo 4 volte maggiore. In altre parole, la superficie relativa è la metà nel cubo di 2 m di lato rispetto a quello di 1 m dilatò, e anche la perdita di calore risulta inferiore. Ma se i Neandertaliani e i Cro-Magnon sono stati chiamati 124
Figura 19. A sinistra, leoni dipinti nella grotta Chauvet.
uomini delle caverne, vi è un orso che merita talmente l'aggettivo di cavernicolo da essergli assegnato come nome scientifico: Ursus spelaeus, letteralmente "orso delle caverne". Si trattava di animali che raggiunsero dimensioni gigantesche, superiori a quelle degli attuali orsi bruni. La media di questi, per tutte le popolazioni e per entrambi i sessi, si colloca attorno ai 160 kg, anche se i nostri pochi orsi cantabrici e i praticamente estinti orsi dei Pirenei sono di dimensioni assai più modeste: è molto raro che i grandi maschi si avvicinino ai 200 kg. I più grandi orsi viventi sono i grizzly della Columbia Britannica e dell'Alaska, soprattutto quelli dell'isola Kodiak (nel Golfo di Alaska); quando si sono ben nutriti di salmoni possono raggiungere i 400 kg e anche superarli. Il peso medio degli orsi delle caverne maschi sarebbe attorno ai 450 kg e quello delle femmine sarebbe inferiore, ma in ogni caso supererebbe i 300 kg. r;altezza al garrese degli orsi delle caverne supera i 120 cm, un dato non eccessivamente elevato, poiché ciò che caratterizza questi plantigradi scomparsi è la loro enorme corpulenza. Gli orsi delle caverne svernavano nelle grotte, come fanno anche gli orsi contemporanei, e i cadaveri degli animali che morivano durante il letargo si sono accumulati in numerose cavità sotterranee andando a formare grandi cumuli, con centinaia e a 125
volte migliaia di scheletri. A dispetto del loro aspetto possente, gli orsi delle caverne non erano grandi cacciatori. I loro molari enormi servivano più per masticare frutti che per tagliare carne. Gli impressionanti canini si smussavano perché venivano usati con fini diversi da quelli dell'uccidere le prede. Nonostante tutto non doveva essere divertente competere con questi giganteschi plantigradi al momento di cercare il "cibo". r:orso delle caverne era una specie quasi esclusivamente europea e viveva sia nei boschi temperati sia nelle fredde steppe. Non sembra invece che sia vissuto nel mondo mediterraneo: nella penisola non lo si è mai trovato al di fuori dei Pirenei, della cornice cantabrica, della Galizia o delle due Mesete. Il giacimento più meridionale di questi enormi plantigradi è quello della grotta del Reguerillo (Madrid). Nel Quaternario europeo, a fianco degli orsi delle caverne e dei loro antenati, si trovano gli orsi bruni, anche se i loro fossili sono più rari. Nella grotta di Ekain (Guipuzcoa) è dipinta una coppia di orsi bruni, uno dei quali privo di testa; uno simile, molto bello, lo si può osservare nella grotta di Santimamifie (Vizcaya); si distinguono bene dagli orsi delle caverne perché in questi ultimi gli arti anteriori erano sufficientemente più lunghi di quelli posteriori, producendo una brusca caduta della linea del dorso dal garrese alla groppa. Un magnifico esemplare di orso delle caverne è inciso nella grotta di Venta de la Perra (Vizcaya). Alla fine dell'ultima glaciazione gli orsi delle caverne smisero di essere competitori degli orsi bruni, scomparendo per sempre avvolti nelle ultime nebbie dell'Era glaciale. Infine, in più di un'occasione i Neandertaliani e i Cro-Magnon si disputarono le carogne delle terribili iene maculate, che, come gli umani, possono essere possenti cacciatrici in grado di cacciare in gruppo e che inoltre, durante l'ultima glaciazione, raggiunsero grandi dimensioni. Le iene striate erano meno pericolose, anche se non per questo smettevano di essere necrofaghe: vale a dire pericolose per lo stomaco se non per l'integrità fisica degli umani; nella penisola sembrano essere state meno free quenti delle iene maculate, giacché se ne sono trovate soltanto nel giacimento musteriano portoghese di Furninha.
La montagna magica: Atapuerca Finora abbiamo passato in rivista i grandi mammiferi dell'ultima glaciazione, che convissero con i Neandertaliani e i CroMagnon. Ma quali erano gli erbivori e i carnivori del tempo dei primi abitanti dell'Europa e del periodo degli antenati dei Neandertaliani? Per saperlo, niente di meglio che raggiungere nuovamente la Sierra de Atapuerca, dove un'équipe spagnola di pa126
leontologi sta portando alla luce un'importantissima testimonianza fossile che abbraccia la maggior parte di questo periodo. La Sierra de Atapuerca è una grande collina di pietra calcarea. Il calcare si è formato in fondo al mare 85 milioni di anni orsono nel corso dell'ultimo periodo (il Cretacico) dell'Era secondaria o Mesozoico, l'era dei dinosauri. Più tardi, già nel Cenozoico o era dei mammiferi, nel periodo chiamato Terziario, e all'interno di questo nell'epoca nota come Oligocene, le gigantesche forze che muovono la crosta terrestre produssero lemersione e la deformazione dei calcari che andarono a formare una piccola montagna, che in realtà è una piega (o anticlinale) coricata. Una volta ritiratesi per sempre le acque del mare, lerosione ha spianato la cima della Sierra de Atapuerca, che ora ha un vertice piatto con un'altitudine massima di 1082 m sul livello del mare. In seguito, nell'epoca successiva, il Miocene, quella che ora è la Meseta del Duero si trasformò in un gigantesco avvallamento senza sbocco al mare, vale a dire un grande bacino continentale che andò riempiendosi con i sedimenti derivanti dall'erosione delle montagne che, come una muraglia, la circondavano: la Cordigliera cantabrica al nord, il Sistema iberico a est, il Sistema centrale a sud e i Monti di Le6n e Tras Os Montes a ovest. Don Eduardo Hemandez-Pacheco paragonava il bacino del Duero, l'altopiano di Castiglia, alla vasta piazza d'armi di un enorme castello difeso da bastioni montuosi. La Sierra de Atapuerca si trova all'angolo nord-orientale del grande bacino del Duero, a pochi chilometri dalla Sierra de la Demanda, che fa parte del Sistema iberico. Precisamente è situata in una delle gole che danno accesso all'interno della Castiglia: il corridoio di La Bureba; le altre due entrate si trovano nell'angolo sud-est, in territorio di Soria, e a sud-ovest, in territorio di Ciudad Rodrigo, dove il Duero si apre il cammino verso il mare, addentrandosi in Portogallo attraverso la regione di frontiera di Los Arribes. Un poco oltre la Sierra de Atapuerca, dopo il valico della Pedraja (1130 m), si trova il bacino dell'Ebro. La strada di Santiago segue questa via naturale di comunicazione tra i due bacini, il che esprime con grande chiarezza la posizione strategica e geografica della Sierra de Atapuerca; probabilmente è in relazione alla continuità e all'intensità della presenza umana in queste zone della Castiglia. Tanta è stata la quantità di sedimento accumulato nel bacino del Duero che alla fine del Miocene la Sierra de Atapuerca quasi non spuntava più al di sopra della pianura che la circondava. Si depositarono allora nuovi calcari, continentali invece che marini, nei laghi poco profondi che si estendevano in tutto il bacino. I calcari della fase finale della sedimentazione costituiscono oggi 127
tavolati orizzontali (terreni piani, aridi e scoperti), che si trovano quasi allo stesso livello del vertice della Sierra de Atapuerca. Il riempimento del bacino del Duero ebbe fine nel Pliocene (l'epoca che segue il Miocene), quando mediante il sollevamento del centro della penisola, si costituì una rete fluviale che iniziò a erodere e a trascinare verso l'Atlantico i sedimenti accumulati in milioni di anni, come continua ad accadere tuttora. In tutto il bacino l'erosione fluviale ha tagliato i manti calcarei di tavolati orizzontali e scavato i sedimenti morbidi, argille e marne, che si trovano al di sotto. Laltopiano castigliano così ha due livelli: la vecchia superficie del tavolato, di roccia calcarea in generale con poco terreno coltivabile, e la superficie nuova dei fondovalle, più fertile e abitata. Entrambe le superfici sono collegate tramite forti inclinazioni: i "pendii". Queste forme di rilievo (tavolati e pendii) si possono osservare agevolmente nel margine sinistro del fiume Arlanz6n, all'altezza del paese di Ibeas de Juarros e di fronte alla Sierra de Atapuerca, che si trova sulla riva destra. Il fiume Arlanz6n scorre a poca distanza dalle pendici meridionali della Sierra de Atapuerca, pochi chilometri a monte della città di Burgos. Come in tutti i fiumi, nel corso superiore svelle e trascina grandi massi, che arrotonda e trasforma in sassi rotolanti. Quando si producono le grandi piene dell'Arlanz6n, ancor oggi si depositano molte di queste ghiaie nella pianura alluvionale. Come si è detto, nel corso del tempo il fiume è andato scavando sempre più i sedimenti morbidi, tipo le argille e le marne, che riempirono il bacino"del Duero durante il Miocene. Nel paesaggio restano elementi sospesi, che in geologia si chiamano terrazzamenti, delle antiche pianure pietrose. I depositi più alti si trovano a 85 m sopra l'attuale livello del fiume, e a una quota assoluta di 994 m, vale a dire, molto vicino alla cima della Sierra. Studiando i terrazzamenti possiamo conoscere il percorso del fiume Arlanz6n nella preistoria. Scopriamo così che le grotte della Sierra de Atapuerca, nelle epoche nelle quali si formarono i giacimenti, erano prossime alle rive del fiume. Possiamo immaginare gli uomini preistorici mentre scrutano dai pendii della Sierra gli erbivori che pascolano tranquillamente nella stretta valle dell'Arlanz6n, e nel fondovalle di Valhondo, dove oggi scorre il Pico, un suo piccolo affluente. Il calcare. marino che costituisce il substrato della Sierra de Atapuerca è una roccia che l'acqua scioglie facilmente. In tal modo si formarono lunghi condotti sotterranei pieni d'acqua, che circolava a pressione e andava ampliando la rete delle cavità, formando quello che si chiama un fenomeno carsico. Quando il livello delle acque, o livello freatico, si è abbassato perché la rete fluviale è andata incassandosi sempre più profondamente nella 128
valle, le alte cavità carsiche sono rimaste a secco e, al tempo stesso, hanno prodotto crolli nelle coperture che hanno aperto passaggi all'esterno. Anche la retrocessione dei pendii, per effetto dell'erosione, incidendo le gallerie, ha dato luogo a nuovi ingressi. A partire da questo momento le grotte potevano essere visitate dai carnivori e dagli umani. I tre giacimenti nei quali si è lavorato di più finora si chiamano Gran Dolina, Galena e Sima de los Huesos; sono molto vicini tra loro, soprattutto i primi due. Vi si trovano fossili che vanno dal milione di anni fino a circa un quarto di milione di anni. Sappiamo che vi sono fossili più antichi e più moderni in altre grotte della Sierra de Atapuerca che attualmente si stanno esplorando e dalle quali ci si aspetta molto (la Sima del Elefante possiede i livelli più antichi e quelle del Mirador e la Cueva Mayor nel Portal6n i livelli più moderni). Il tesoro paleontologico e archeologico della Sierra, lungi dall'esaurirsi, si amplia di giorno in giorno. I paleontologi che studiano i fossili di animali di questi giacimenti sono Gloria Cuenca, esperta in roditori, Nuria Garda, che compie ricerche sui carnivori, e Jan van der Made, che è il nostro esperto di erbivori. Sono loro che, assieme alla paleobotanica Mercedes Garda Ant6n, ci accompagneranno nel nostro viaggio attraverso gli ecosistemi della Sierra de Atapuerca nel remoto passato. Per dividere in due grandi periodi la documentazione fossile dei giacimenti ricorreremo a un ratto, o meglio a un topo d'acqua. Poco più di mezzo milione di anni fa, approssimativamente 600.000, si estingue un topo d'acqua denominato Mimomys savini che è sostituito da una specie (Arvicola cantianus) già molto vicina agli attuali topi d'acqua (che per la verità hanno poco a che fare con i topi grigi di città, salvo che per il fatto di essere roditori). Tutti i fossili che compaiono assieme alla specie Mimomys savini sono perciò anteriori al mezzo milione di anni. Nella Gran Dolina si trova il Mimomys savini nei livelli che vanno dal terzo alla parte inferiore dell'ottavo, circa otto metri e mezzo di spessore di sedimento che comprendono un lasso temporale che va da quasi un milione di anni fino a qualcosa di più di mezzo milione di anni (i livelli inferiori al terzo non possiedono fossili). È opportuno chiarire che nella Gran Dolina i livelli si numerano dal basso verso l'alto, contrariamente alla numerazione, consueta: i,~ fatto è che il giacimento è stato tagliato dallo scavo di una ferrovia mineraria costruita a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo; di conseguenza la stratigrafia del giacimento è a vista: bisogna solo aspettare di scavarlo completamente per conoscerlo e numerarne i livelli.· La fauna dei grandi mammiferi che abitava in quest'epoca antica la Sierra de Atapuerca era molto varia e, paragonata al129
l'attuale, per noi spettacolare. Iniziando dagli erbivori, allora c'erano grandi rinoceronti con due coma della specie Stephanorhinus etruscus, cinghiali, cavalli, cervi, daini e probabilmente caprioli. C'erano anche megaceri primitivi (Eucladoceros giulii). Da questi livelli inferiori della Gran Dolina proviene un magnifico cranio di bisonte (Bison voigtstedtensis ). Nel livello 7 apparvero le zampe posteriori di un bue muschiato, antenato o almeno parente della specie attuale; come abbiamo già osservato, in quest'epoca i buoi muschiati non si erano ancora adattati agli ambienti periglaciali e abitavano le steppe. Per completare il panorama degli erbivori che gli uomini di Atapuerca vedevano dalla soglia delle grotte, il lettore può includere un gruppo di ippopotami che nuotavano nel fiume Arlanz6n e nei suoi affluenti, dove i castori costruivano le loro dighe. Per sorprendente che possa apparire, gli ippopotami hanno vissuto nella penisola iberica fino all'arrivo dei freddi dell'ultima glaciazione, e i castori non hanno abbandonato mai il continente europeo, anche se si sono estinti nella penisola. Oltre al castoro, tra i roditori recuperati nei livelli più antichi della Gran Dolina vi sono altre due specie di grandi dimensioni che meritano attenzione. Cominciamo con il porcospino (Hystrix refossa). Le specie attuali più vicine sono tutte di clima caldo e vivono in Africa e Asia; una di queste si trova nei Balcani, in Sicilia e in parte dell'Italia peninsulare, anche se probabilmente fu introdotta dall'uomo nell'antichità. Il porcospino è stata una specie frequente nel Pleistocene europeo, soprattutto in luoghi e periodi caldi. Il terzo grande roditore di Atapuerca è la marmotta, che oggi vive sulle Alpi e sui monti Tatra, ed è stata reintrodotta con grande successo nei Pirenei. Le marmotte abitano nelle praterie alpine sopra il livello boschivo e vanno in letargo nelle loro tane. E possibile che la Sierra de Atapuerca in un qualche momento molto freddo tra i 600.000 e i 900.000 anni fa sia stata quasi totalmente sprovvista di alberi nella parte superiore, ma è anche possibile che qualche aquila o gufo reale cacciasse le marmotte nelle alture della vicina Sierra de la Demanda e le trasportasse nel suo nido nella Sierra de Atapuerca o che lo abbia fatto qualche predatore terrestre. Vediamo ora chi erano i cacciatori negli antichi ecosistemi della Sierra de Atapuerca. Lasciando da parte per il momentò la discussione sul posto occupato dall'uomo nella catena alimentare attraverso la quale circolava la materia e l'energia, il massimo predatore era un grande felide dai denti a sciabola, Homotherium latidens. Questo grande gatto aveva una dimensione paragonabile a quella del leòne ed enormi canini superiori (le zanne), ricurvi e con i bordi finemente seghettati. Benché sia scomparso dall'Europa mezzo milione di anni orsono, i suoi cugini della 130
specie Homotherium serum sopravvissero in America sino alla fine dell'Era glaciale. Un problema ancora senza risposta definitiva riguarda il modo in cui utilizzavano i loro grandi canini superiori gli omoteri e gli altri felidi simili con i denti a forma di sciabola (tutti insieme formano il gruppo dei macairodontidi). Secondo alcuni studiosi, li usavano come pugnali, per uccidere le prede e dissanguarle. Altri ritengono che con i canini trapassassero la pelle e i tessuti adiacenti dell'addome delle vittime, e chiudendo la bocca e tirando strappassero un grosso boccone dall'animale. Anche se la preda fuggiva, non dovevano far altro che seguirla e aspettare che morisse dissanguata. In tal modo, mordendo e allontanandosi subito, i grandi gatti dai denti di sciabola potrebbero uccidere prede molto più grandi di loro, come i giovani mammut. Alan Turner e Mauricio Ant6n, al contrario, pensano che le zanne di questi felidi non avrebbero resistito senza spaccarsi alle forti pressioni presupposte dalle teorie citate. E un paio di canini rotti farebbe pensare all'inevitabile morte del suo proprietario. Questi due studiosi ritengono più credibile che i grandi gatti utilizzassero le loro lunghe scimitarre soltanto dopo aver fermamente immobilizzato al suolo la preda, per perforare la gola del1'animale e provocare la morte per asfissia o tagliando qualcuno dei grandi vasi del collo, in modo simile a come fanno oggi i leoni quando abbattono un grande erbivoro. In tal modo i canini non rischierebbero tanto. Un altro grande felide dell'epoca più antica della Sierra de Atapuerca era il giaguaro europeo, la Panthera gombaszoegensis, che si estinse circa 400.000 anni fa. Le sue dimensioni erano inferiori a quelle dell'omoterio, ma superiori a quelle di un leopardo (vale a dire come quelle di un giaguaro americano moderno). Un felino ancora più piccolo i cui resti sf"trovano anch'essi nei livelli inferiori della Gran Dolina è la lince. Quindi, negli ecosistemi della Sierra de Atapuerca sembra vi fossero felini di tutte le dimensioni (probabilmente non mancavano neppure i gatti selvatici). I.:omoterio era il più grande di tutti. È possibile che i leoni siano comparsi in Europa per la prima volta circa 600.000 anni orsono, e poco dopo siano scomparsi gli omoteri dal continente, con i quali probabilmente i leoni erano entrati in competizione per il ruolo di massimo predatore degli ecosistemi. Tra i canidi, si sono trovati resti di due specie: la Vulpes praeglacialis, un antenato della lepre artica che non si era ancora adattato agli ambienti periglaciali, e il Canis mosbachensis, un lupo di piccole dimensioni, non molto più grande del moderno sciacallo. Questo canide divenne grande, trasformandosi nell'attuale specie di lupo, 400.000 anni fa. I livelli inferiori della Gran Dolina hanno fornito i resti più an131
tichi d'Europa di iena macchiata, un carnivoro sociale e possente competitore degli umani, sia nella caccia sia nell'approvvigionamento di carogne. Con la loro dentatura specializzata, le iene macchiate potevano giungere al midollo delle ossa dei grandi erbivori, come facevano pure gli umani, anche se questi utilizzavano blocchi di pietra o sassi per riuscire a spezzare le ossa. Nel registro fossile di Atapuerca manca invece, almeno per il momento, la iena Pachycrocuta brevirostris, la più grande di tutte quelle esistite. Questa mancanza è interessante perché la specie è stata trovata in altri giacimenti contemporanei del resto dell'Europa. Nella penisola compare nei giacimenti più antichi rispetto alla Gran Dolina, come Cueva Victoria (Murcia), Venta Micena (Granada), Incarcal (Gerona) e Pont6n de la Oliva (Madrid). Nuria Garda ritiene che, appena giunta, la iena macchiata andò sostituendo la Pachycrocuta brevirostris, dapprima nel sud dell'Europa, come si può constatare ad Atapuerca, e poi nel resto del continente, sino alla sua totale scomparsa circa 400.000 anni fa. Nei livelli bassi della Gran Dolina si sono trovati anche numerosi resti di orso, appartenenti a una specie antica, che può rappresentare una forma primitiva dell'orso bruno, o forse dell'orso delle caverne. Abbiamo anche numerosi fossili di animali di un'epoca posteriore nei giacimenti della Galena, nella Sima de los Huesos e nella parte alta della Gran Dolina (livelli dall'8 all'l l). Nel complesso questi depositi vanno da poco meno di mezzo milione di anni sino a un quarto di milione di anni fa. Tra gli erbivori contirn,iano a esserci cavalli, daini, cervi, megaceri, bisonti e rinoceronti. Data la scarsità del materiale, vi sono problemi ad assegnare i fossili di bisonte a una specie determinata. Potrebbero essere del Bison schoetensacki, il cosiddetto bisonte della selva, o del Bison priscus, il bisonte della steppa, di dimensione maggiore. In ogni modo e al di là degli aggettivi, i bisonti fossili non sono buoni indicatori ecologici, giacché passavano da un ambiente all'altro. Alcuni dei resti di bovini trovati potrebbero appartenere all'uro (Bos primigenius) e anche al bufalo acquatico, oggi residente soltanto in Asia, ma che giunse ad abitare anche in Europa. È difficile distinguere tra le differenti specie di bovini a partire da ossa sciolte dello scheletro. All'epoca di Atapuerca vi erano rinoceronti della specie Stephanorhinus Hemitoechus. Si trattava di un rinoceronte che pascolava nelle steppe; in Europa lo si trova per molto tempo assieme a una specie di rinoceronte di dimensioni inferiori, il rinoceronte di Merck (Stephanorhinus kirchbergensis ). Quest'ultimo era davvero impressionante: alto 2,5 m, non è paragonabile a nessuna delle specie attuali. I due rinoceronti fossili, quello della steppa e quello di Merck, potevano coesistere perché erano adat132
tati a servirsi di risorse differenti e ognuno di loro occupava una nicchia ecologica diversa, riducendo così la concorrenza. Il rinoceronte di Merck si nutriva brucando il fogliame degli alberi e quindi era più silvicolo, poiché mangiava le parti tenere (foglie, germogli, frutti compresi) delle piante legnose. Una simile situazione di coesistenza tra due specie di rinoceronti avviene attualmente in Africa, dove nella stessa regione si possono trovare il rinoceronte nero, che si nutre dagli alberi, assieme al rinoceronte bianco, che pascola nelle praterie. In tutti i modi, non è sicuro che i rinoceronti di Merck siano stati molto numerosi nella penisola. Tanto il rinoceronte della steppa quanto quello di Merck erano adattati ai climi temperati e scomparvero dall'Europa centrale all'inizio dell'ultima glaciazione, vale a dire nell'epoca dei Neandertaliani, ma nella penisola il rinoceronte della steppa sopravvisse un po' di più, sino a che il freddo si intensificò, lasciando il rinoceronte lanoso padrone del terreno, già all'epoca dei Cro-Magnon. Tra i roditori di grandi dimensioni, continuano a rinvenirsi nella seconda epoca di Atapuerca marmotte e porcospini (anche se di un'altra specie: 'Hystrix vinogradovi). L'associazione di carnivori della Sima de los Huesos comprende numerose specie. La megliorappresentata è un antenato dell'orso delle caverne, chiamato scientificamente Ursus deningeri. Ci sono anche lupi e lepri, oltre a linci della linea evolutiva della lince iberica e gatti selvatici. Si trovano anche leoni e un enigmatico resto di felino, un frammento di metatarso (osso del piede) che per le dimensioni potrebbe corrispondere a un leopardo o a un giaguaro europeo. Insomma, nella Sima vi sono felini di quattro taglie diverse. Alcuni piccoli carnivori quasi sempre dimenticati sono i mustelidi, che in questo giacimento sono rappresentati da due specie: una grande, tipo martora o faina, e un'altra piccola, come la donnola o l'ermellino. Nel giacimento della Galeria si sono trovati inoltre resti di cuon e di tassi. Nella Sima de los Huesos, nella Galena e negli scavi effettuati sinora nei livelli superiori della Gran Dolina sorprende l'assenza di iene. Nuria Garda ha avanzato l'ipotesi che forse gli umani le avessero scacciate dalla Sierra de Atapuerca. Essendo competitori tra loro, si può ipotizzare che solo a quel punto gli umani furono in grado di batterle. Precedentemente erano troppo poco numerosi, male organizzati, e forse soggiornavano nella regione per periodi troppo brevi: per questo troviamo iene solo nei livelli più vecchi della Gran Dolina. Tuttavia, le iene sono numerose nella penisola iberica in epoche posteriori a quelle dei menzionati giacimenti di Atapuerca. Si potrebbe ipotizzare che gli umani diventarono più cacciatori e meno necrofagi, e con ciò la nic133
chia ecologica per la quale erano in competizione umani e iene (più necrofaghe e meno cacciatrici) rimase a queste ultime. Sinora nei giacimenti di Atapuerca si sono recuperati soltanto due resti, non classificabili, di elefante (uno nella Gran Dolina e l'altro nella Sima del Elefante, che si chiama così proprio per questo). Il che non significa che non vi fossero elefanti nei dintorni della Sierra nel lungo periodo di tempo abbracciato dai registri paleontologici esplorati. :Lelefante dalle zanne dritte (Palaeoloxodon antiquus) abbondava in Europa, poiché, come l'ippopotamo, era un animale tipico dei periodi interglaciali. Nella penisola si sono trovati numerosi resti di questo elefante, la cui altezza al garrese era di 3,7 m. I più famosi forse sono quelli di Torralba e Ambrona (Soria), dei quali parleremo a suo tempo. Nelle epoche glaciali l'elefante con le zanne dritte scompare in Europa, almeno dalle regioni più fredde, ed è sostituito dal Mammuthus trogontherii, il mammut della steppa, antenato del mammut lanoso. Il Mammuthus trogontherii è stato il più grande elefante europeo della storia, con un'altezza al garrese che raggiungeva i 4,5 m e un peso superiore alle 10 tonnellate. Come nel caso del rinoceronte della steppa e di quello di Merck, gli ultimi elefanti con zanne dritte sembra siano sopravvissuti nelle penisole del Mediterraneo sino all'arrivo definitivo del freddo, che portò i mammut e i rinoceronti lanosi ed eliminò anche gli ippopotami europei. Ora parliamo un poco delle piante. Sia i roveri e i lecci sia le querce e le sughere appartengono al genere Quercus: nei primi due le foglie cadono, mentre gli altri due alberi sono sempre verdi. Nel registro pollinico della Sierra de Atapuerca si sono trovati pollini di entrambi i gruppi e di altre specie che ci raccontano che, in generale, i boschi non erano diversi da quelli che si possono trovare ancor oggi proprio in questa zona o nella vicina Sierra de la Demanda. Alcune volte appaiono pollini di specie che indicano condizioni più mediterranee rispetto alle attuali, come il carrubo, il bagolaro, l'olivastro (olivo selvatico), il liburno e il lentisco. Altre volte dominavano il paesaggio specie fredde di pini con cupressacee, la famiglia dei ginepri e delle sabine. Come si può facilmente dedurre dalla lista delle specie fossili, in tutto il Pleistocene vi è stata una straordinaria varietà animale e vegetale nella Sierra de Atapuerca. Una simile quantità di erbivori e di carnivori differenti non si spiega con l'esistenza di un unico sistema particolarmente ricco di specie, ma probabilmente con la grande varietà di habitat offerta dalla Sierra e dai suoi dintorni: le comunità delle ampie pianure, quelle delle alte cime iberiche. Ancor oggi restano qui e là frange di boschi naturali. Proprio nella Sierra de Atapuerca si sta rigenerando spontaneamente, da quando non viene tagliato, il bosco di querce e lecci 134
che cresce sul calcare, dove il vomere dell'aratro non è mai arrivato a penetrare. I pendii hanno avuto una sorte peggiore e i cerri che crescevano sui terrazzamenti e i terreni terziari sono quasi completamente scomparsi per lasciare il posto alle coltivazioni di cereali. Pertanto è vitale difendere a tutti i costi l'isola dinatura (a soli 14 km dalla città di Burgos!) nella quale si è trasformata la Sierra de Atapuerca. E ciò per ragioni scientifiche e pedagogiche: solo in ambiente naturale e integrati nel loro paesaggio si possono comprendere e spiegare i giacimenti che costituiscono il suo tesoro più prezioso, di valore incalcolabile per il presente e per le generazioni future. La Sierra de Atapuerca è un luogo unico al mondo, perché documenta come nessun altro i cambiamenti nel clima e nell'ecosistema, nella tecnologia umana e negli stessi esseri umani e nel loro modo di vivere in un amplissimo arco di tempo, che abbraccia almeno l'ultimo milione di anni. Qui si sono trovati i fossili umani più antichi d'Europa, e con essi si è designata una nuova specie. Si è scoperto il più antico caso di cannibalismo e la più antica pratica funeraria. Questa eccezionale documentazione paleontologica e archeologica trasforma Atapuerca in uno dei migliori complessi di giacimenti del mondo, nel luogo più storico d'Europa e nel cuore roccioso di Spagna: in una montagna magica.
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La grande estinzione Nei pochi giorni seguenti camminammo seguendo le pendici meridionali della çordigliera di Mann. Per la maggior parte dei bianchi quella regione è desolata, ostile, "una terra dimenticata da Dio". Gli indigeni pensano il contrario; per loro il paesaggio è molto interessante. Gli alberi non sono semplicemente alberi, ma i corpi trasformati degli eroi del passato; i ruscelli non sono puri alvei in cui scorre l'acqua, ma le tracce di giganteschi serpenti che strisciavano sinuosamente attraverso il paese. Charles P. Mountford, Volti bruni e sabbie rosse attraverso l'Australia selvaggia
Un sesso forte o due sessi forti? ·Quando si parla dell'economia dell'uomo preistorico, si sostiene che era cacciatore e raccoglitore, vale a dire che viveva di ricerca. In questo momento non mi sto riferendo ai primi ominidi africani, l'Ardipithecus e gli australopitechi e i parantropi, che si considerano quasi esclusivamente vegetariani. Non si tratta neppure dell'Homo habilis, il primo ominide che oltre che vegetariano era anche consumatore di carne. Sto pensando a quelli che erano fisicamente come noi, gli uomini veri e propri (dall'Homo ergaster in poi), che ebbero origine in Africa all'incirca 2 milioni di anni fa e che poi popolarono l'Eurasia. In che cosa consista il mestiere di cacciatore è facilmente comprensibile. Nel Pleistocene l'Europa formicolava di vita animale e i grandi erbivori, potenziali prede per qualsiasi predatore, erano abbondanti e diversificati. Questione differente è se erano alla portata dei cacciatori umani o se più che uccidere capre, cervi, cavalli, tori, bisonti, rinoceronti o elefanti, gli uomini preistorici approfittassero degli animali che morivano naturalmente o abbattuti dai grandi carnivori. È possibile che più che assomigliare ai leoni si comportassero come iene: un carnivoro generalmente considerato poco nobile e che non si è soliti adottare come logo di nessuna azienda commerciale, unità militare, squadra sportiva ecc. (nonostante il fatto che le iene, oltre che necrofaghe, siano anche grandi cacciatrici). Si ha l'impressione che agli umani non piaccia identificarsi con il quadrupede che ride. Il dilemma cacciatore/necrofago è un tema che affronterò più 136
avanti. Ora mi occuperò di un altro dilemma non meno importante: l'alternativa uomo cacciatore/donna raccoglitrice. Poiché l'attività cinegetica è eminentemente maschile, la visione tradizionale secondo la quale la caccia è stata la fonte principale dell'alimentazione umana nel corso della preistoria assegna un ruolo di protagonista al sesso cosiddetto "forte", che da allora lo è sempre stato in quanto capacità fisica, ma non necessariamente in riferimento al suo apporto di calorie al gruppo. Se, al contrario,. la raccolta di prodotti vegetali avesse rappresentato nella preistoria la base del sostentamento umano, allora dovremmo demistificare l'immagine dell'orgoglioso cacciatore che torna al focolare carico di selvaggina abbattuta, accolto festosamente sulla porta della capanna dalla sua compagna, dalla numerosa prole e forse da qualche progenitore (o suocero!) a carico. Per raccogliere more non è necessaria molta forza: è un'attività alla portata delle donne, degli anziani e anche dei bambini appena svezzati. Quanto sarebbe diversa la scena dei cacciatori che tornano a mani vuote all'accampamento e si trovano davanti al fatto di dover far ricorso ai vegetali raccolti dai membri più deboli del gruppo! Questo completo cambiamento di prospettiva, questo sovvertimento degli schemi tradizionali della preistoria ci costringe a volgere lo sguardo su noi stessi: se è stata la donna il sesso forte per quanto riguarda il fornire cibo, forse la selezione naturale ha prodotto in lei qualche caratteristica speciale, esclusiva del sesso femminile della nostra specie e che non si riscontra nelle femmine di altri primati. Kristen Hawkes, James O'Connell e Nicholas Blurton Jones ritengono di averla trovata nella menopausa, un fenomeno fisiologico che, effettivamente, non si presenta nelle femmine delle altre specie. Mettendo a confronto il ciclo vitale umano, le stagioni della vita, con quello dei nostri attuali parenti più prossimi, le due specie di scimpanzé, si notano differenze consistenti. Nella nostra specie lo sviluppo è molto più lungo, la crescita più lenta e il primo figlio giunge più tardi: tra i 13 e i 14 anni tra gli scimpanzé e tra i 17 e i 19 anni tra gli Ache del Paraguay e i !Kung del Botswana, due gruppi moderni di cacciatori e raccoglitori. Anche il momento della morte viene più tardi per gli umani: gli scimpanzé più vecchi superano appena i 40 anni, mentre non sono rari gli individui più che sessantenni tra gli Ache e i !Kung. Fin qui sembra che tutte le tappe della vita della nostra specie siano uniformemente allungate. Ma non è così. Le femmine degli scimpanzé sono fertili praticamente sino al giorno della morte o, per parlare più propriamente, il loro apparato riproduttivo è sottoposto allo stesso processo di deterioramento vissuto dagli altri sistemi alla fine della vita, e che chiamiamo vecchiaia. Le 137
donne, al contrario, diventano sterili molto prima di essere fisiologicamente vecchie. Il risultato è che nelle società. di moderni cacciatori/raccoglitori su cui ci stiamo soffermando il 40 per cento delle donne può essere in menopausa. In realtà la durata tota~ le della vita fertile non è molto differente tra gli scimpanzé, i gorilla e le donne (in media meno di trent'anni); ma il fatto è che nelle donne esiste un lungo periodo di esistenza postriproduttiva che manca nelle femmine degli altri primati. Kristen Hawkes, James O'Connell e Nicholas Blurton Jones ritengono che la menopausa sia intervenuta affinché le madri aiutassero le figlie ad allevare i nipoti: si tratta della cosiddetta "ipotesi della nonna". Secondo questi studiosi, dal punto di vista della perpetuazione dei geni sarebbe più vantaggioso per una femmina che ha già superato il proprio apogeo tentare di garantirsi una discendenza attraverso i nipoti (che hanno la quarta parte del suo sangue) che avere figli propri (con la metà del proprio sangue), quando ormai le mancano le forze per crescerli o possano correre il pericolo di restare orfani prima di essere pronti a sopravvivere da soli (dato il lunghissimo periodo di sviluppo). Benché la potenziale longevità della nostra specie si avvicini ai 100 anni, poche donne vivrebbero nella preistoria fino a vedere un figlio/a concepito per esempio a 50 anni diventare uomo o donna. Il comportamento delle femmine che condividono il cibo prima con i propri figli e più tardi con quelli delle figlie è esclusivo degli umani, giacché in altre specie (come gli scimpanzé) le femmine condividono il cibo soltanto con i propri figli e si disinteressano dei nipoti. Nel paragrafo precedente ho sottolineato che, secondo I'"ipotesi della nonna", le nonne aiuterebbero soltanto i figli delle figlie e non quelli dei figli. La spiegazione risiede nel fatto che, mentre possono essere sicure che la discendenza delle figlie porti i loro geni, non hanno invece questa garanzia per quanto riguarda la prole delle "nuore", che può essere di maschi diversi dai propri figli: che le nuore si facciano aiutare dalla loro madre! Per accettare questa ipotesi bisogna porsi due quesiti: 1) l'aiuto prestato dalle nonne· è davvero così importante per la sopravvivenza dei rampolli delle figlie? 2) Perché non si comportano allo stesso modo le nonne delle altre spècie di primati, come per esempio gli scimpanzé? La risposta al primo quesito è che l'aiuto delle nonne potrebbe essere vitale durante lo svezzamento, un periodo critico dell'infanzia nel quale i bambini perdono l'apporto del latte materno, che oltre a nutrirli fornisce loro le difese dalle infezioni, e non sono ancora capaci di cavarsela da soli. La collaborazione della nonna in questi momenti delicati consentirebbe di aumentare le possibilità di sopravvivenza dei bambini 138
appena svezzati, compreso il fatto di affrettare il momento dello svezzamento e di conseguenza di accorciare l'intervallo tra una nascita e l'altra: insomma di aumentare il numero totale dei discendenti. Questa spiegazione mi sembra molto ragionevole e consente di comprendere la ragione che sta alla base della menopausa, o meglio, perché la vita fertile della donna non si è prolungata con l'incremento della longevità. Di fatto, gli studiosi citati ribaltano il problema e concludono che, in realtà, la vita si è allungata perché sarebbe esistita la menopausa delle donne. I maschi avrebbero beneficiato di ciò indirettamente; la grande longevità maschile è dovuta al fatto che i geni selezionati per prolungare la vita delle donne si trasmettono anche agli uomini. Come è sorta la menopausa nell'evoluzione umana? Se prima si fosse prolungata la vita e poi si fosse accorciato il periodo riproduttivo, l'evoluzione avrebbe dovuto compiere due passi. In realtà sembra che anche gli scimpanzé terminino la vita fertile qualche anno prima di morire (ma, naturalmente, non varie decadi come accade alla nostra specie). Se nel passato comune di scimpanzé e ominidi esistevano geni che limitavano a meno di trent'anni il periodo di fertilità, affinché esista la menopausa nelle donne di oggi l'evoluzione dovette compiere un solo passo: aumentare la longevità; il periodo di fertilità semplicemente si mantenne invariabile. Nella biologia evolutiva si è soliti considerare più apprezzabile l'ipotesi che implica una maggiore economia di passi evolutivi, che consiste nel seguire il percorso più corto; tale criterio è chiamato tecnicamente "principio di parsimonia" (parsimony in inglese). Devo confessare che non riesco a spingermi così lontano come Kristen Hawkes e i suoi colleghi per accettare che la mia longevità sia dovuta alla menopausa delle donne. Tuttavia questi studiosi vanno ancora oltre e sostengono che il contributo della nonna all'economia familiare è così importante tra i popoli cacciatori/raccoglitori perché sono proprio le donne a fornire al gruppo la parte più importante di cibo; su questo piano i maschi svolgono (e avrebbero svolto in passato) un ruolo secondario. Nello loro ricerche sul campo con gli Hadza della Tanzania, questi antropologi hanno osservato che la caccia, attività esercitata esclusivamente dai maschi, costituisce una fonte molto importante di calorie, ma troppo irregolare perché da essa dipenda la soprawivenza del gruppo: vi sono periodi di tempo troppo lunghi durante i quali i maschi tornano all'accampamento a mani vuote, senza aver cacciato nulla (né aver trovato alcuna carogna). Se questo accade agli Hadza, si chiedono, che dispongono di archi e frecce awelenate e vivono in un territorio in cui abbondano i grandi erbivori, la situazione dei cacciatori del 139
passato non sarebbe ancora peggiore senza questa tecnologia moderna? I prodotti vegetali consumati dagli Hadza comprendono molti tipi di frutta e di organismi sotterranei, ma ve ne è uno di importanza speciale. Si tratta del tubero della pianta Vigna frutescens (ekwa in hadza), che cresce a grande profondità e che gli Hadza dissotterrano con l'aiuto di un semplice bastone che funge da zappa. Il tubero in questione è disponibile tutto l'anno, compresi i periodi in cui scarseggiano altri prodotti vegetali e non è possibile cacciare. L'ekwa, inoltre, è un alimento cui i bambini appena svezzati non possono accedere per mancanza della forza necessaria e che le nonne forniscono loro: una situazione che si verificherebbe soltanto nella nostra specie, che è l'unica che disponga di zappe. D'altronde, i bambini umani, come i piccoli degli altri primati, partecipano molto attivamente alla raccolta. Un piccolo di 5 anni è capace di procurarsi sino alla metà delle calorie che consuma ogni giorno, anche se, naturalmente, non lo fa per conto proprio, ma seguendo i passi e le indicazioni della madre. Per avere un quadro completo dell'alimentazione degli Hadza, bisogna infine accennare a un prodotto importante che può attribuirsi ai due sessi indistintamente: il miele selvatico. Kristen Hawkes, James O'Connel e Nicholas Blurton Jones presentarono la loro "ipotesi della nonna" sulla rivista statunitense "Current Anthropology". Si tratta di una pubblicazione scientifica che ha la buona abitudine di includere opinioni di altri studiosi alla fine degli articoli di fondo come questo, per promuovere in tal modo una riflessione sulle idee esposte. I commenti suscitati dall"'ipotesi della nonna" furono di vario tipo. In primo luogo, la durata della vita è talmente e direttamente connessa con il periodo di sviluppo che risulta difficile ammettere che la longevità sia aumentata perché esista la menopausa; pare più logico ritenere che viviamo un numero maggiore di anni rispetto agli scimpanzé proprio per la ragione che abbiamo bisogno di più tempo per diventare adulti (e in qualche modo sembra che le grandi dimensioni del nostro cervello abbiano a che vedere con questo). E c'entrerebbe ancor di più se la scomparsa della speranza nelle donne mature di avere ancora figli non 'si accompagnasse a una altrettanto drastica riduzione di tale speranza negli uomini maturi. In altri termini, in queste società di cacciatori/raccoglitori studiate dagli antropologi con quale frequenza un uomo vecchio ha figli con una donna giovane, cioè della generazione successiva? È possibile che, in generale, anche i maschi smettano di procreare quando la loro compagna giunge all'età della menopausa? In questo caso non vi sarebbe differenza tra nonne fisiologicamente in menopausa e nonni che in pratica r:ion generano 140
più, anche se in teoria potrebbero farlo. Tuttavia, nel caso dei nonni non si può pensare che aiutino le figlie nel mantenimento dei nipoti, giacché tra gli Hadza i maschi si dedicano alla caccia e quando catturano una preda dividono la carne con tutto il gruppo. I padri e i nonni non nutrono la propria famiglia, ma il proprio gruppo. D'altro canto, !"'ipotesi della nonna" può funzionare solo se le figlie restano accanto alle madri quando diventano adulte e non emigrano. Tra gli scimpanzé, al contrario, non appena le femmine raggiungono la maturità sessuale, se ne vanno e perdono i contatti con la madre. Nei gorilla emigrano entrambi i sessi, mentre gli orangutan sono solitari e i gibboni vivono in coppia (negli ultimi due casi nessuno abbandona il gruppo perché non vi è gruppo alcuno da abbandonare). Pertanto, tra le specie di primati più vicine alla nostra, non esiste alcun caso di società matrilocale, nella quale le figlie rimangono nel gruppo natale dopo aver raggiunto la maturità sessuale, mentre i figli se ne vanno in un altro. Inoltre, la maggior parte dei popoli con economia di caccia e raccolta che ci sono noti sono patrilocali, vale a dire che sono i figli a restare nel gruppo natale e le figlie a lasciarlo. In ragione di tutto ciò molti ritengono più credibile che anche gli ominidi in passato fossero patrilocali, anche se Hawkes e colleghi non sono d'accordo. Vi è un altro argomento da considerare oltre a quelli esposti dagli autori che hanno commentato !"'ipotesi della nonna". Gran parte di quest'ultima si basa sull'esistenza di un'importante risorsa vegetale che i bambini non possono ottenere da soli: il tubero ekwa. Tuttavia, affinché l' ekwa risulti commestibile deve essere previamente tostato sul fuoco; allo stato naturale è tossico. Ma non è certo che più di 200.000 anni fa il fuoco fosse utilizzato in maniera sistematica. Per date anteriori vi sono prove incerte, che sembrano indicare un uso del tutto sporadico del fuoco. Dopo tanto ragionare, sembra che continuiamo a ignorare per quale motivo esista la menopausa, vale a dire perché all'allungarsi della vita delle donne non abbia corrisposto un allungarsi del periodo fertile. La spiegazione fornita dall'"ipotesi della nonna" ha troppi punti deboli per suscitare quel "Ah, sì!" che producono le spiegazioni convincenti. Anzi provoca nuove domande. Ho l'impressione che il nocciolo del problema stia nel fatto che la questione è analizzata dalla prospettiva delle selezione naturale a livello della competizione tra gli individui: le donne che investono le proprie energie e il proprio tempo nei nipoti alla lunga avranno un maggior numero di discendenti (che diffonderanno i loro geni) rispetto alle donne che non aiutano i nipoti e che invece hanno figli tardivi. In questa dimensione individua141
le non credo si giunga a trovare una soluzione soddisfacente al problema. Io la cercherei piuttosto nell'ambito teorico della selezione a un livello superiore, il livello di gruppi in concorrenza tra loro. Nel libro La especie elegida che ho scritto assieme a Ignazio Martinez, a livello di indagine, tentiamo di seguire questa strada, che è quella che conferisce significato al comportamento sociale e cooperativo, all'interno del quale rientrano sia le nonne che dissotterrano tuberi per alcuni dei loro nipoti (esclusivamente), sia i padri e i nonni che cacciano per tutto il gruppo. In definitiva il problema centrale sta nel sapere fino a che punto gli Hadza possono essere utilizzati come modello universale per capire l'evoluzione umana. L'importanza della componente vegetale nella dieta, per esempio, varia a seconda dei popoli e delle regioni. Tra gli Ache del Paraguay le calorie di origine animale rappresentano il componente principale della dieta e ancor maggiore è la dipendenza dalla caccia tra gli Inuit (gli esquimesi). In questi popoli la risorsa importante per i bambini appena svezzati, il prodotto che non possono ottenere da soli, a volte ha corna e zoccoli. Kaj Birket-Smith, un noto studioso degli Inuit, nel 1927 commentava in proposito che la quantità di carboidrati nella dieta degli esquimesi era minima se paragonata a quella di grassi e proteine animali. Ciò faceva sì che il fegato delle balene si trasformasse, per l'abbondanza di glicogeno (un carboidrato) in esso contenuto, in un apprezzatissimo manicaretto, analogamente al contenuto dello stomaco delle renne, composto di vegetali già fermentati. Da tutto quanto detto possiamo trarre una conclusione. Gli esseri umani con un'economia di cacciatori e raccoglitori sono molto adattabili e quello che dobbiamo chiederci è quando è iniziata tale flessibilità ecologica. Penso che ciò sia avvenuto 2 milioni di anni fa e che fu quello che rese possibile l'uscita dell'uomo dall'Africa. Ma la penisola iberica è situata a una l;;ttitudine intermedia tra l'Equatore, dove vivono gli Hadza, e il Grande Nord, dove abitano gli Inuit. Di conseguenza ciò che si dovrà tentare di scoprire è quale modello di economia bisogna attribuire agli abitanti preistorici della penisola e che ruolo vi avrebbero svolto i due sessi.
La ricerca Per toglierci un dubbio possiamo passare ad analizzare le possibilità offerte dalla raccolta di prodotti vegetali nella nostra penisola. Una prima riflessione ci porta a pensare che questa debba essere una fonte di cibo che presenta una qualche grave difficoltà per i primati: diversamente vi sarebbero molte scim142
mie che vivono in Europa e abbiamo già visto che l'unica che ci ha accompagnato nell'ultimo milione di anni è stata il macaco di Barberia. Nelle righe seguenti indagherò sulle possibilità offerte dal consumo di cibi vegetali a un mammifero che in un certo modo occupa attualmente una nicchia ecologica simile a quella che possiamo attribuire agli uomini preistorici, ossia, basata sulla caccia, lo sfruttamento di carogne e la raccolta. Mi sto riferendo all'orso bruno, i cui ultimi esemplari iberici risiedono nei Pirenei (in entrambi i versanti) e soprattutto nella Cordigliera cantabrica, nelle Asturie, Castilla e Le6n e marginalmente Cantabria e Galizia. I pochissimi esemplari pirenaici, non più di otto, sono praticamente sull'orlo dell'estinzione, per cui si tenta di ampliarne la popolazione con orsi "trapiantati" dall'Europa centrale. Le prospettive sono assai poco lusinghiere e temo molto che I'orso dei Pirenei seguirà le orme dello stambecco, la capra dei Pirenei; orme che portano verso la definitiva scomparsa. Neppure gli orsi cantabrici sono numerosi, perché ve ne sono soltanto 60-80. Inoltre sono divisi in due nuclei, quello orientale - che ha le migliori zone con tane nelle riserve cinegetiche di Saja, Fuentes Carrionas e Riafio - e il nucleo occidentale, i cui territori si trovano soprattutto a Somiedos e Ancares. Poiché gli orsi della penisola abitano oggi nella Spagna eurosibeìiana, il modello su cui indagherò è valido soltanto per questo ambiente. Sfortunatamente non restano orsi mediterranei, così numerosi in passato. Nel Libro de la monteria, che incaricò di scrivere nella prima metà del quattordicesimo secolo il re di Castilla y Le6n Alfonso XI, si descrivono i monti migliori per gli orsi del regno, dove si accerta quanto numerose fossero queste fiere in tutto il territorio, sino a Tarifa e Algeciras. Lo scudo di Madrid ha un orso e non è strano poiché i re lo cacciavano nel Monte del Pardo, un immenso querceto nei sobborghi della capitale. Lo stesso Filippo II ne uccise due, "che facevano molto danno in quella terra", a quanto narrano le cronache: uno lo finì con un colpo di balestra e l'altro "il re prudente" lo eliminò con l'archibugio. Quello che racconto qui di seguito sull'alimentazione degli orsi deriva dai lavori sul campo di Rafael Notarlo, Gerardo Caussimont e Roberto Hartasanchez. Mescolerò osservazioni dei Pirenei e della Cordigliera cantabrica, giacché ciò che ora ci interessa è indagare sulle possibilità offerte dagli ecosistemi del passato. Seguirò le peripezie dell'orso nel corso dell'anno, iniziando dalla primavera, quando l'orso inizia a uscire dal rifugio dove ha svernato: se si tratta di una femmina, in questo periodo avrà partorito uno o due cuccioli. Una grande differenza tra l'orso e l'uomo è che il primo è un animale solitario mentre i nostri antenati cacciavano e raccoglievano in gruppo. 143
Quando, in aprile, l'orso abbandona la sua dimora invernale è affamato perché ha consumato le sue riserve di grasso. Se poi si tratta di una femmina con i cuccioli, deve allattarli. Tuttavia, vi è poco cibo in campagna in questa epoca primaverile e gli orsi devono spostarsi parecchio per trovare qualcosa da mettersi in bocca. Nei faggeti dei Pirenei l'orso si nutre di foglie di luzula campestris e di faggiola, nei rovereti cantabrici delle ghiande che nessuno ha consumato in autunno e che si sono conservate sotto la neve. La luzula campestris è un giunco che cresce in luoghi umidi. Quando la neve si scioglie gli orsi approfittano, se ne trovano, dei cadaveri appena scongelati degli animali morti durante l'inverno per la fame o per le valanghe. Dalla fine di maggio e sino a luglio l'orso "ara" i pascoli per cercare i tuberi del conopodio, che hanno le dimensioni di una nocciola e sono molto nutrienti; il conopodio è una ombrellifera dai fiori bianchi. Se trova riserve di conopodi dei criceti campagnoli le divora. L'orso cerca riserve sotterranee di molte altre piante, come i bulbi dell"'aglio degli orsi", diverse radici, tuberi e fusti interrati. Come in primavera, continua a cibarsi di gemme, germogli e delle punte tenere delle erbe, che letteralmente "pascola". Se può, caccia qualche erbivoro, selvatico o domestico. In questo periodo gli orsi nutrono una grande attrazione per le ciliegie, che sono disponibili all'inizio dell'estate. Frequentemente salgono sugli alberi e spezzano i rami per far cadere i frutti. Il cibo vegetale continua a scarseggiare per gli orsi sino ad agosto, quando cominciano a maturare numerosi frutti polposi (molto ricchi di zucchero), che sono davvero abbondanti alla fine dell'estate e all'inizio dell'autunno: pere e mele selvatiche, sorbi, frutti del biancospino, ribes, more selvatiche, lamponi, fragole selvatiche, frutti della rosa canina, prugnoli, mirtilli, bacche di ginepro, di agrifoglio, frutti di agresto, uva orsina ecc. Possiamo ampliare questo lunghissimo elenco con le tardive bacche rqsse del corbezzolo, prodotti dell'autunno e dell'inizio dell'inverno. Benché la maggior parte di questi frutti sia piccola in confronto alla dimensione di un orso, è sorprendente la quantità - in termini di chilogrammi per ettaro - che un cespuglio come il mirtillo può produrre in una buona annata: più di 200 kg (un ettaro è la superficie di un quadrato di 100 m di lato, più o meno come un campo di calcio). E il plantigrado va matto per le bacche di mirtillo. In autunno l'orso deve accumulare una sufficiente riserva di energia sotto forma di grasso per trascorrere parte dell'inverno addormentato, in letargo. La frutta secca, ricca di oli e amido, costituisce una parte molto importante dell'alimentazione autunnale: nocciole, castagne, noci e, soprattutto, ghiande. In dicembre e gennaio gli orsi vanno in letargo. 144
Oltre ai cibi vegetali ricordati, gli orsi cercano affannosamente il miele dei vespai e degli alveari (sia selvatici sia "domestici"), ribaltano sassi per mangiare formiche e relative cove, e mangiano larve di insetti del legno che trovano nei tronchi marci. Quando sono affamati possono scortecciare gli alberi per consumare il libro (liquido ricco di zucchero). Si nutrono anche dei numerosi funghi che spuntano per gran parte del ciclo autunnale e con il loro olfatto fine riescono a localizzare i tartufi in autunnoinvemo. Dall'elenco precedente si deduce facilmente che non c'è quasi niente da raccogliere sino alla fine dell'estate e che la stagione forte è l'autunno, vale a dire un periodo che rappresenta soltanto quattro o cinque mesi l'anno. La dimostrazione del fatto che, in determinati momenti, le condizioni si fanno critiche è che i nostri orsi si vedono costretti ad andare in letargo da dicembre ad aprile, come i ghiri, i ricci e le marmotte. Tutti questi animali sono mammiferi e perciò mantengono una temperatura corporea costante. D'inverno la temperatura ambientale scende sovente al di sotto dello zero, per cui è necessario un grande dispendio di energia supplementare per conservare il calore corporeo e l'attività fisica. Poiché in quei momenti non vi è disponibilità di cibo che fornisca le calorie necessarie, l'orso si addormenta in un sonno che non è profondo come quello degli altri mammiferi ricordati, anch'essi soggetti a letargo. La temperatura corporea si riduce soltanto di 3-5 gradi e anche il ritmo cardiaco e respiratorio diminuisce: nel riccio comune, invece, la temperatura corporea scende con la temperatura della tana sino a raggiungere i 4 gradi, il polso si riduce a 20 battiti al minuto e la respirazione a 10 al minuto. La sopravvivenza dell'orso nello stato di torpore dipende dalla sua "provvista" fisiologica, vale a dire dai grassi accumulati durante il periodo di pastura. Se lautunno precedente la produzione di frutti oleosi è stata cattiva, l'animale può anche non riuscire a veder spuntare i fiori della primavera seguente: così è la natura o, come diceva un mio professore di ecologia all'università, dove c'è molta vita c'è molta morte. La situazione non è molto diversa nei boschi mediterranei. Nella metà meridionale della penisola vi sono alcuni alberi che allungano l'elenco di piante che producono frutti di cui l'uomo può usufruire, quali il pino da pinoli e il bagolaro, ma in cambio si fanno rare o mancano del tutto altre piante come il ribes, il ciliegio, il prugnolo, il melo, il sorbo, il mirtillo, il nocciolo ecc. A ciò bisogna aggiungere che alcuni degli alberi censiti, in concreto il castagno, il ciliegio e il pino da pinoli, oltre al noce, forse non sono autoctoni, ma piantati in tempi storici, dai romani in poi, in ragione dell'interesse economico dei frutti. Anche se si è persino ritenuto che gli uomini preistorici della penisola non 145
abbiano mai conosciuto queste piante, vi sono testimonianze fossili di castagno, pino da pinoli e noce anteriore all'ultima glaciazione massima. È possibile che questi alberi si siano estinti con il sopraggiungere dei freddi più intensi e che poi siano stati reintrodotti, ma è anche possibile che siano sopravvissuti in alcuni rifugi e che posteriormente abbiano colonizzato nuovamente il territorio peninsulare, questa volta sì aiutati ampiamente dalla mano dell'uomo. Se è reale la situazione di scarsità di risorse vegetali per gran parte dell'anno in un'epoca interglaciale come quella attuale, il lettore immagini come doveva essere difficoltosa la raccolta durante le rigide glaciazioni, che ogni 100.000 anni raggiungevano punte di freddo estremo, anche nella penisola. L'ultimo periodo, che è quello che conosciamo meglio, è stato. specialmente crudo, come già abbiamo detto più volte e come stanno a indicare i registri di pollini studiati da Maria Fernandez Sanchez Gofii nelle grotte della cornice cantabrica. Benché i giacimenti siano situati a meno di 400 m sul livello del mare, non vi sono pollini di alberi. Tutto sembra indicare che fuori dalla grotta il paesaggio fosse molto aperto. Non vi è dubbio che vi fossero alcuni boschetti in luoghi particolarmente protetti e vicini al mare, giacché nei giacimenti, assieme ai fossili di renna, si trovano sovente fossili di erbivori che preferiscono le foreste, come i cervi e soprattutto i caprioli e i cinghiali; ciò nonostante queste macchie dovevano essere poco estese. Nella grotta della Carihuela, situata a 1020 m di altitudine, ma molto a sud, a 45 km dalla città di Granada, gli studi di José Carri6n e di altri paleobotanici mostrano come la vegetazione fosse steppica, vale a dire senza alberi, nei momenti più freddi e/o secchi dell'ultima glaciazione ... e gli esseri umani non vanno in letargo ... In base a quanto affermato, bisogna ammettere che le proteine e i grassi animali sono sempre stati una risorsa necessaria per la sopravvivenza umana in Europa e che nelle epoche fredde la loro importanza era massima. Anche i prodotti vegetali hanno svolto un ruolo importante alla fine dell'estate e in autunno, soprattutto nelle epoche meno fredde nel corso delle quali gli ecosistemi forestali erano dominanti nel paesaggio. Il metodo degli isotopi stabili, applicato ai paleoregimi alimentari, presenta l'inconveniente di dover distruggere una piccola quantità di fossile. Per complicare ancor di più le cose, generalmente si dispone di un numero limitato di fossili umani nei giacimenti che hanno la fortuna di contenerne e l'alimentazione di un solo individuo potrebbe non riflettere quella di una popolazione intera. Tuttavia vi è un metodo non distruttivo che è stato applicato al consistente campione della Sima de los Huesos, 146
nella Sierra de Atapuerca, da Alejandro Pérez-Pérez, un antropologo dell'Università di Barcellona, con una profonda esperienza nell'analisi delle microstriature prodotte dal cibo sullo smalto dei denti. Con l'ausilio del microscopio elettronico, Alejandro paragona i piccoli graffi che si osservano sui denti fossili a quelli presentati dai denti di popolazioni moderne di cui è nota l'alimentazione. È così giunto alla conclusione che gli umani della Sima de los Huesos consumavano cibi vegetali molto abrasivi, tipo bacche, radici o tuberi. Ciò che fa sì che un prodotto sia abrasivo è il suo alto contenuto di silice o il fatto che al cibo si mescoli della terra; i vegetali di cui si cibavano, dunque, probabilmente erano piuttosto legnosi, né erano stati previamente ammorbiditi o ripuliti. I denti della Sima de los Huesos si rovinavano a ritmo assai rapido, come si può constatare semplicemente a prima vista, senza che sia necessario ricorrere al microscopio, e mangiare carne non provoca grandi danni ai denti. Benché lo studio di Alejandro Pérez ci dica che gli alimenti di origine vegetale erano molto importanti nella dieta degli umani della Sierra de Atapuerca, non ci racconta di che tipo di alimenti si tratti. Ma forse possiamo trovare la risposta in un testo classico, la'Storia naturale di Plinio il Vecchio, terminata nel 77 d.C. Un passo dell'opera di Julio Caro Baroja Los pueblos del norte mi ha messo sulla pista di questo paragrafo dell'autore latino (XVI,15): "Glande opes nunc quoque multarum gentium etiam pace gaudentium, constant. Nec non et inopia grugum arefactis emolitur farina, spissaturque in panis usum: quin et hodieque per Hispanias secundis mensis glans inseritur". Non pretendo di esibire conoscenze di latino che non possiedo, ma forse al lettore, come a me, suonano alcune parole: glande (ghianda) emolitur, farina, panis, Hispanias. La traduzione del testo sarebbe: "È certo che anche oggi la ghianda costituisce una ricchezza per molti popoli anche in tempo di pace. Poiché vi è scarsità di cereali si fanno seccare le ghiande, si sbucciano e si impasta la farina a forma di pane. Attualmente, anche in Spagna, la ghianda figura tra i dolci"; e aggiunge subito dopo: "tostata nella cenere è più dolce". Julio Caro Baroja prestava fede a questa informazione fornita da Plinio, come a quella riferita da Strabone (Geografia Ili, c 155), riguardante i popoli dell'Iberia settentrionale (galiziani, asturiani, cantabrici, baschi e abitanti dei Pirenei): "Tutti questi abitanti della montagna sono sobri: bevono soltanto acqua, dormono sul terreno e portano capelli lunghi come le donne, anche se per combattere si cingono la fronte con una fascia ... Per tre quarti dell'anno i montanari si cibano soltanto di ghiande: le lasciano seccare, le triturano e poi le macinano, fabbricandovi un pane che si conserva per molto tempo ... Come ho già detto, questo è i~ tipo di vita delle popolazioni montanare" (sup147
pongo che il lettore mi perdonerà se non ho trascritto la citazione nell'originale greco). Gaius Plinius Secundus (Plinio il Vecchio) visse nel primo secolo della nostra era (tra il 23 e il 79). Soggiornò in Spagna come procuratore dell'imperatore e morì in servizio mentre contemplava l'eruzione del Vesuvio, a causa dei gas che si sprigionarono dal vulcano e che ebbe la disgrazia di respirare per un eccesso di curiosità scientifica. Strabone fu un geografo greco, nato nel 64 o 63 a.e. e morto attorno al 23 d.C. Credo che da queste fonti classiche si debba ragionevolmente dedurre che le ghiande possono nutrire un gran numero di persone (sempre che si tratti di genti sobrie, per dirla con Strabone) nell'epoca in cui gli alberi che le producono fruttificano, vale a dire in autunno, quando se ne trovano a profusione; a questo si può aggiungere che se gli uomini preistorici sapevano seccarle, frantumarle, fame torte e conservarle (cosa che non sembra molto difficile, ma di cui non abbiamo prove che lo facessero), allora questa risorsa potrebbe averli aiutati a sopravvivere per una parte più lunga dell'anno. In ogni caso, né con questo né con altri prodotti vegetali l'uomo può sostentarsi in ecosistemi di carattere segnatamente stagionale come sono quelli dell'Europa e di gran parte dell'Asia; né in un periodo caldo come il presente, né tanto meno durante le glaciazioni. La carne e i grassi degli animali devono aver costituito una risorsa imprescindibile per la sopravvivenza umana alle nostre latitudini e più a nord. Per questo motivo, sembra conveniente fissare l'attenzione su altri animali più carnivori degli orsi per stabilire patagoni con gli umani. I.:esempio più prossimo di cui disponiamo nella penisola è quello dei lupi; inoltre, le popolazioni che vivono a nord del Duero occupano gli stessi ecosistemi degli orsi iberici, ,dei quali ci siamo occupati in precedenza. Assieme agli animali domestici discendenti da antiche specie selvatiche che popolarono l'Europa, come il cavallo, il toro, la capra e la pecora, i lupi cacciano tutti gli ungulati presenti nella regione: capriolo, cervo, camoscio e cinghiale. Resta da ricordare un tipo di alimentazione basata su prodotti animali che, in un certo senso, può considerarsi più raccolta che caccia. Mi riferisco alla raccolta di molluschi e crostacei e alla pesca nei fiumi e negli estuari o nella battigia. Ancor oggi si utilizzano, di frodo, molte piante per avvelenare i fiumi e uccidere i pesci, come il tassoverbasco, l'oleandro, la cicuta acquatica, la canapa, la ferola e il mezereo; è possibile che l'uomo preistorico le conoscesse e le usasse e anche che arpionasse i pesci o li acchiappasse con le mani, almeno occasionalmente; la pesca però non sembra ricoprire grande importanza sino al Paleolitico superiore (l'epoca dei Cro-Magnon), quando si amplia la gamma 148
alimentare, che giunge a includere tutto ciò che è commestibile, dai conigli sino ai frutti di mare, e forse anche una varietà maggiore di vegetali delle epoche precedenti. Quasi al termine del Paleolitico superiore, nell'ultimo Magdaleniano, gli uomini preistorici fabbricavano, con corna di cervidi con una o due file di rami, arpioni belli e raffinati che usavano certamente per la pesca. Sembra che in questo momento i pesci di acqua dolce, specialmente il salmone (che lo è solo stagionalmente) cominciassero a rivestire importanza economica in alcuni giacimenti • I europeI. Benché vi siano tracce precedenti ai Cro-Magnon, le conchiglie dei molluschi marini non iniziano a essere presenti in maniera abbastanza consistente nei giacimenti fino al Paleolitico superiore, anche se non bisogna dimenticare che la linea costiera allora era molto lontana dall'attuale e che l'innalzamento del livello del mare nell'Olocene sommerse certamente la maggior parte dei giacimenti costieri. Nel Mesolitico, quindi nell'Olocene, tutta l'Europa è libera dai ghiacci e in molte regioni costiere vivono popolazioni umane che giungono ad accumulare enormi quantità di conchiglie: i molluschi erano quindi una risorsa ampiamente sfruttata, sia quelli di roccia (chiocciole del Cantabrico, patelle, cozze), sia quelli che vivono sepolti nei fondali sabbiosi (vongole, cappelunghe ecc.); in questi depositi si riconoscono anche resti di ricci di mare, crostacei e pesci. Nel nord della penisola, a cavallo tra Asturie e Cantabria, nel Mesolitico vissero popolazioni che praticavano questo tipo di economia basata in gran parte su prodotti marini. La loro tecno~ logia litica era caratterizzata da ciottoli rozzamente scheggiati che avrebbero utilizzato per staccare i molluschi dalle rocce e per aprire le conchiglie; i più caratteristici terminano con una punta e sono chiamati punte asturiane. Anche sulle rive del fiume Muge, un affluente del Tajo a monte di Lisbona, e nella valle del Sado, a sud di Lisbona, si sono trovati grandi depositi di conchiglie di questa stessa epoca (7000 anni fa). Le popolazioni costiere mesolitiche usavano ami e reti e a volte si sono scoperti i resti di pesci d'alto mare. Si può quindi pensare che queste popolazioni fossero in grado di allontanarsi dalla costa su piccole imbarcazioni.
Cacciatori o necrofagi? Abbiamo già visto come gli uomini preistorici delle alte latitudini (lontani dall'equatore) dovessero necessariamente ricorrere a una dieta carnivora per integrare gli apporti di calorie di origine vegetale. Tuttavia la nicchia ecologica del cacciatore è 149
molto diversa da quella del necrofago, e anche se tutti i carnivori appartengono in qualche modo a entrambe le categorie, vale la pena tentare di investigare se gli antichi europei facessero parte del clan del leone o della iena. I fossili degli erbivori si trovano molte volte in grotte come quelle di Atapuerca ma, dato che questi animali non pascolano all'interno di cavità, è chiaro che le loro carcasse vi sono state trasportate. Responsabili di ciò possono essere tanto animali carnivori che l'uomo ed è necessario tentare di distinguere tra queste due possibilità. Se sono intervenuti soltanto gli umani, le ossa degli erbivori mostrerebbero esclusivamente segni di macellazione. Gli uomini preistorici utilizzavano il filo degli utensili di pietra per tagliare i tendini e staccare i muscoli dalle ossa, smembrare i cadaveri e scuoiarli, lasciando così una serie di tracce molto caratteristiche, studiate dagli specialisti. Si possono anche trovare striature naturali nelle ossa fossili, ma se i tagli appaiono in luoghi strategici per l'estrazione della carne, per disarticolare le estremità o per scuoiare l'animale, allora non vi sono dubbi su chi sia il responsabile. I carnivori, invece, lasciano sulle ossa le impronte dei denti. Anche il modo in cui gli umani spezzano l'interno delle ossa lunghe per estrarne il midollo è molto caratteristico e diverso dal modo in cui i carnivori attaccano le ossa, per esempio mordendo le estremità superiori dell'omero e del femore (rispettivamente le articolazioni con la scapola e l'anca). Per complicare le cose, anche le iene vanno in cerca del midollo osseo e anch'esse le spaccano come gli uomini, creando così molti problemi di interpretazione. Infine, anche se sappiamo che un erbivoro è stato trasportato nella caverna e qui consumato da umani, dobbiamo ancora scoprire se la preda è stata cacciata o rinvenuta come carogna, vale a dire, chi ha avuto il primo contatto con l'animale morto (che in linea di massima è colui che lo ha cacciato, benché anche umani e carnivori non disdegnino animali morti accidentalmente o per altre cause naturali). Per far ciò dobbiamo concentrarci sul tipo di ossa presenti nel giacimento. Se disponiamo dell'animale completo, ciò significa che gli umani si sono impadroniti di tutto il corpo (che possono aver trasportato intero o, se è di grandi dimensioni, a pezzi). Quando mancano le ossa delle parti che contengono la maggior parte della carne - anche, femori, tibie, scapole e omeri-dobbiamo sospettare che gli uomini siano arrivati tardi al festino e abbiano dovuto accontentarsi dei resti. Gran parte dei tagli di manzo che consumiamo provengono da queste parti: la spalla nel quarto anteriore, e l'anca, la coscia e la parte inferiore della zampa nel quarto posteriore; per non dimenticare la squisita lombata, che si trova accanto alla colonna 150
vertebrale. Se invece nel giacimento si trovano soltanto le teste e le estremità delle zampe degli ungulati, dobbiamo pensare che gli umani siano giunti tardi sulla preda, vale a dire che si siano comportati da necrofagi e non da cacciatori. In tal modo, e con una buona dose di pazienza e buon senso, gli studiosi esaminano le ossa degli erbivori che si trovano nei giacimenti e vanno elaborando le loro statistiche. Si analizzano anche altri dati, come per esempio letà degli animali. Se vi è un gran numero di esemplari molto giovani, è ipotizzabile che la grotta sia stata occupata dagli umani in primavera/estate, aridosso della stagione in cui avvengono i parti. In ogni caso la grotta costituisce sempre il rifugio dove gli umani portano il cibo per poterlo consumare più comodamente. Di conseguenza è meglio che ci spostiamo all'aperto per individuare lo scenario in cui si è realizzata la partita di caccia. Poiché gli studi che si conoscono sono numerosi e differenti, sarà meglio che ci concentriamo sullo studio di giacimenti che possono fornirci maggiori informazioni. Il giacimento di Boxgrove balzò alla ribalta del mondo della paleoantropologia nella primavera del 1994, quando la rivista "Nature" annunciò la scoperta di una tibia umana. A quel tempo, la tibia di Boxgrove, assieme alla mandibola di Mauç:r, era il resto umano più antico d'Europa, risalente a circa mezzo milione di anni. Pochi mesi dopo, nell'estate di quello stesso anno, trovammo fossili umani nella Gran Dolina, nella Sierra de Atapuerca, più antichi di 300.000 anni. Benché avesse conosciuto soltanto un'effimera gloria primaverile sui mezzi di comunicazione, il nome di Boxgrove era già importante nel campo della preistoria da qualche anno, poiché si tratta di un magnifico giacimento nel quale si sono trovati riuniti resti fossili di molte specie e numerosi utensili di silice, con una predominanza di asce a mano di forma ovoidale. Si sono rinvenute anche ossa (femori) e corna di cervo e di megaceri modificate da utilizzarsi come percussori leggeri (al posto dei pesanti percussori di pietra), nel momento in cui era necessario dare un ritocco finale più raffinato all'utensile. Situato sulla costa meridionale dell'Inghilterra (West Sussex), sul Canale della Manica, Boxgrove, fino a mezzo milione di anni fa era una laguna salina frequentata da animali e umani, in una vasta pianura costiera che dalla riva del mare giungeva a rocce scoscese. Si tratta di un giacimento all'aria aperta che riunisce condizioni eccezionalmente favorevoli per lo studio delle attività umane nella preistoria, giacché, grazie all'immobilità delle acque basse, gli oggetti (fossili e utensili) si sono conservati quasi nelle loro posizioni originali, così come erano stati abbandonati. Mezzo milione di anni orsono, in questo luogo gli umani inta151
gliarono i loro strumenti, e squartarono e consumàrono grandi erbivori come megaceri, cervi, bisonti e rinoceronti. Non si sa con certezza assoluta se gli umani cacciarono questi animali o se lo fecero altri predatori, come i lupi e gli orsi, anch'essi trovati nel giacimento di Boxgrove. Mark Roberts, l'archeologo che dirige i lavori di scavo, è convinto che furono i cacciatori umani, agendo in collaborazione tra loro, la causa della morte della maggior parte degli erbivori. Vi è anche una scapola di cavallo che, a suo parere, fu perforata dalla punta acuminata di un proiettile di legno (che non è stato trovato; il legno non fossilizza ... quasi mai). Una terza possibilità è che almeno alcuni animali siano morti per cause naturali, senza essere abbattuti da nessuno. Non siamo in grado di stabilire quanto tempo abbracci questo giacimento, ma l'ipotesi che corrisponda a un solo periodo è da scartare; tale osservazione si può estendere alla maggior parte dei giacimenti, che in realtà sono il risultato della sovrapposizione di numerosi eventi accaduti nel corso di una parte di un passato che ci appare immenso. Di un cosa è sicuro Roberts ed è che nella maggior parte dei casi gli umani ebbero accesso alla carne dei cadaveri prima che lo facessero i carnivori, poiché i segni dei denti di questi ultimi si sovrappongono alle tracce prodotte dai bifacciali umani nell' opera di spolpatura, tracce che, pertanto, sarebbero precedenti. La possibilità di accedere per primi ai cadaveri può derivare dal ritrovamento casuale di un animale morto in modo naturale, dalla caccia, oppure dalla sottrazione dell'animale a chi lo ha ucciso prima che questi vi conficchi i denti troppe volte. Gli Hadza, di cui ci siamo occupati varie volte, sono attivi sia nella caccia sia nel furto del bottino di altri predatori. Per il popolo Hadza l'attività necrofaga non è sistematica né esclusiva rispetto alla caccia o alla raccolta. Semplicemente non disdegnano le carogne quando ne hanno lopportunità. Questi cacciatori e raccoglitori osservano con attenzione i cerchi disegnati nel cielo dagli avvoltoi e ascoltano i rumori prodotti da leoni e iene per localizzare la carogna. James O'Connell e Kristen Hawkes nel 1998 (durante un corso estivo che ho organizzato assieme a Leslie Aiello) raccontavano che quando qualche Hadza arriva alla preda, le iene, i leopardi e persino i leoni la abbandonano, lasciandola interamente agli umani. "E se non lo fanno?" ho chiesto. "Li trafiggono con le loro frecce," mi hanno risposto. Gli umani di Boxgrove non avevano frecce, il che li avrebbe obbligati ad avvicinarsi maggiormente ai predatori. Tornerò in seguito su questo tema; in ogni caso Mark Roberts è dell'opinione che furono gli umani a cacciare gli erbivori, che poi consumarono a Boxgrove. Vicini per età al giacimento di Boxgrove sono i livelli F e G 152
della grotta di I..:Arag6, nel Roussillon francese, scavata molti anni fa dal celebre archeologo Henry de Lumley. I~ qu~sti due livelli è stato trovato un buon numero di mufloni (Ovis antiqua), rispettivamente 83 e 42, che, a parere di Hervé,Manchot, furono cacciati dall'uomo e trasportati interi nella grotta, per esservi consumati. La maggior parte dei mufloni era composta cli adulti giovani, il cui peso in molti casi superava i 100 kg. La conclusione di Hervé Manchot che gli umani erano cacciatori e non necrofagi si basa sul fatto che, a quanto pare, l'uomo è stato l'unico cacciatore che preferisce concentrare i propri sforzi su adulti giovani piuttosto che su esemplari immaturi e vecchi, che invece sono le prede più frequenti di lupi, felidi e iene. Studi compiuti sulle prede dei lupi della Sierra de la Culebra (Zamora) confermano che i cervi in tenera età e i cervi vecchi corrono un pericolo molto maggiore di essere attaccati e uccisi degli adulti giovani. Tant'è vero che soltanto il 30-45 per cento dei cerbiatti arriva a compiere i sei mesi di età. Le lance di Schoningen
Nel gennaio 1997 mi sono recato, assieme a Eudald Carbonell e a Jan van der Made nella città tedesca di Jena, invitati dal nostro collega Dietrich Mania. Il nostro obiettivo era quello di conoscere in prima persona il famoso giacimento di Bilzingsleben e le importanti scoperte che vi si stavano compiendo. Intendevamo anche approfittare d~l viaggio per fare visita a un altro amico tedesco, Hartmut Thieme, che avevo avuto l'opportunità di conoscere l'estate precedente durante un simposio celebrato a Burgos sui primi europei, dove Thieme ci aveva messo al corrente di alcuni ritrovamenti strepitosi. Hart:qmt venne a prenderci alla stazione ferroviaria e ci accompagnò con la sua automobile al giacimento che stava scavando: il suo nome è Schoningen e si trova a 100 km a est di Hannover. Quel mese di gennaio fu straordinariamente freddo, nevicava e Hartmut ci condusse attraverso un paesaggio bianco su una strada ghiacciata su cui l'automobile slittava. Quando giungemmo al luogo dello scavo, ci trovammo di fronte a .un'enorme buca nel terreno, dove una macchina gigantesca lavorava notte e giorno, nonostante le basse temperature. Si trattava di una miniera di carbone a cielo aperto; l'immenso scavo avanzava su un fronte esteso, divorando tutto nel passaggio, mentre la terra rimossa veniva depositata nuovamente alle sue spalle e ripopolata di alberi. Per anni, prima dell'intervento della macchina mineraria, un'équipe diretta da Hartmut aveva recuperato ogni genere di resti archeologici. 153
Ma in quell'occasione la macchina aveva deviato percorso per qualche anno, vista l'importanza del ritrovamento. Gli operai che si trovavano nello scavo, nonostante quel gelido mese di gennaio, lavoravano in maniche di camicia all'interno di una serra climatizzata da un generatore di aria calda. Passammo all'interno di una galleria semicircolare di plastica e ciò che vidi lì non si cancellerà mai dalla mia memoria. Su di un terreno di torba nerastra e sotto una pelvi fossile di cavallo spuntava una lancia di legno lunga un metro risalente a 400.000 anni fa. Hartmut ci guardò sorridendo: sapeva di aver compiuto una scoperta storica. Finora Hartmut Thieme ha trovato a Schoningen quattro lance ben conservate. Una misura 1,82 metri, l'altra 2,25 e una terza 2,30. Quella che ci apparve davanti agli occhi era rotta in quattro pezzi e anch'essa misurava più di due metri. Queste lance sono fatte con tronchi di alb.eri giovani (non con i rami) di picea. La picea è una conifera che non esiste nella penisola iberica allo stato naturale, anche se viene piantata frequentemente nei giardini ed è utilizzata come albero di Natale. È simile all'abete, ma, a differenza di questo, ha le pigne che pendono dai rami, invece di esservi piantate erette. Nelle picee di Schoningen gli anelli di crescita sono molto vicini, e indicano così ritmi di accrescimento bassi e un clima freddo. L'analisi dei granelli di polline fossile suggerisce un paesaggio di prati con pini, picee e betulle. Sinora ho definito lance queste armi di legno, ma è necessario chiedersi se questa era davvero la loro funzione, vale a dire, se erano saldamente impugnate a un'estremità, o piuttosto erano usate per pungere, oppure erano armi da lancio, cioè proiettili. Hartmut Thieme ritiene che fossero concepite come lance vere e proprie, ossia che fossero più giavellotti che picconi. Basa tale affermazione sul fatto che erano costruite, con grande perizia, in modo che il centro di gravità permanesse vicino alla punta, consentendo così, una volta lanciate, di giungere molto distanti. Questi giavellotti pesavano probabilmente poco più di due chili, peso che non doveva essere eccessivo per le braccia robuste degli europei dell'epoca, che avrebbero potuto così uccidere le prede da una certa distanza, senza esporsi più di tanto a una cornata o a un calcio. Nel giacimento di Schoningen abbondano i resti equini, sui quali sono percepibili i segni di squartamento e di scarnificazione: sulle rive di un lago, 400.000 anni fa, gruppi di cacciatori umani facevano la posta alle mandrie di cavalli, magari avvolti dalla bruma delle prime ore del giorno; poi si avvicinavano nascosti da canne e giunchi e, una volta arrivati a breve distanza, li trafiggevano con i giavellotti. Se erano fortunati, ogni cavallo ab154
battuto avrebbe portato al gruppo un quintale di carne, assolutamente necessaria per sopravvivere in quei luoghi gelidi.
Caccia agli elefanti sull'altopiano Visto che stiamo parlando di caccia grossa, perché non occuparci della più grossa di tutte le cacce possibili sulla superficie del pianeta, la caccia agli elefanti? I nomi di due villaggi della provincia di Soria, Torralba del Moral e Ambrona, da molti anni occupano un posto importante nelle pagine dei manuali di preistoria in tutte le università del mondo: si sono trovati numerosi resti di elefanti fossili associati a bifacciali e ad altri strumenti di pietra in terreni di questi villaggi, situati nella valle del fiume Ambrona o Mansegal (affluente del Jal6n). Molti ricercatori hanno ritenuto che gli elefanti fossero stati cacciati da esseri umani, poco dopo l'epoca delle lance di Schoningen. Altri scienziati sono convinti che i giacimenti non siano stati interpretati correttamente e che le scene di caccia all'elefante tante volte riprodotte non abbiano mai avuto luogo. Nel 1888 fu_rono realizzate opere per la costruzione della ferrovia che avrebbe collegato Soria con la linea Madrid-Zaragoza; si era deciso di collocare il raccordo, con una stazione, nel villaggio di Torralba del Moral. Nel procedere agli scavi comparvero os~ig~!ltesche che richiamarono una grande attenzione. I prrnii scavi scientifici furono realizzati, verso il 1909-1911, dal marchese di Cerralbo (Enrique Aguilera y Gamboa), un aristocratico appassionato di archeologia, e dal sacerdote Justo Juberias. Il marchese di Cerralbo comunicò le scoperte compiute nel corso del congresso internazionale di antropologia e archeologia di Ginevra nel 1912. Più tardi, tra il 1961eil1963, vi furono nuove campagne di scavo, questa volta sotto la responsabilità del famoso paleoantropologo americano, e mio buon amico, F. Clark Howell, riprese poi nei primi anni ottanta dallo stesso Clark e da L. Freeman. Tra i resti di animali di questi giacimenti vi è una prevalenza di cavalli ed elefanti dalle zanne dritte (Palaeloxodon antiquus ). Le preferenze dei cavalli vanno chiaramente alle grandi formazioni erbacee, alle steppe di graminacee, che costituirebbero pascoli anche per gli elefanti, anche se è probabile che questi ultimi avessero un regime misto di pascolo e brucatura di é).lberi, come le specie odierne. Un altro elemento dell'ecosistema, più raro nei giacimenti, era il rinoceronte della steppa (Dicerorhinus hemitoechus). Vi erano inoltre cervi, daini e uri; rarissimi invece erano i carnivori (qualche iena, volpi, lupi e leoni). Anche se la vegetazione della zona è stata descritta come di tipo alpino, gli elefanti 155
a zanne dritte, i rinoceronti e i rinoceronti della steppa sono incompatibili con il freddo intenso. Il clima dell'epoca non era quindi peggiore di quello attuale, e in nessun caso pienamente glaciale. Era probabilmente un clima interglaciale o forse una fase relativamente calda all'interno di un periodo glaciale (classicamente noto come interstadio). Oltre a ciò, è segnalata la presenza del macaco, un primate mediterraneo che non resiste al freddo intenso, o meglio, alla caratteristica mancanza di risorse vegetali di tale clima (ma Clark Howell non considera sicura tale presenza). Torralba e Ambrona sono situate su un altopiano (i giacimenti si trovano a circa 1100 mdi altitudine) dove sarebbero migrati in cerca di pascolo gli animali una volta inariditisi i territori più bassi; la regione è collocata tra i bacini del Duero, del Tajo e dell'Ebro. Per il turista che percorre l'autostrada Madrid-Zaragoza-Barcellona vale la pena fermarsi all'altezza di Medinacelli per visitare la città vecchia e il suo arco romano, dal quale si domina il percorso del Jal6n, affluente dell'Ebro. Solo pochi chilometri più in là, si trova il borgo di Ambrona e, per la strada che porta a Torralba, sulla sinistra, si giunge alla Lima de los Huesos, uno dei giacimenti esplorati nel 1911 dal marchese di Cerralbo, poi scavato da Clark Howell. Qui, in situ, sono conservate e si possono ammirare le ossa di alcuni elefanti scoperti nella campagna del 1963 e che Emiliano Aguirre, il nostro amato direttore di tanti anni di scavi ad Atapuerca, ha protetto con una soluzione modesta, ma efficace, alzando quattro pareti e un tetto. A pochi passi, in un piccolo museo, vi sono altri fossili e utensili di pietra. Il paesaggio che si scorge impressiona per la sua nudità. Oggi è completamente privo di alberi (per opera dell'uomo e non del clima) e non è difficile immaginare, sulle ondulate colline che la vista abbraccia dal giacimento, i branchi di elefanti e ungulati che pascolano nelle verdi praterie. Allora, come oggi, erano assai numerose nella zona pozze e lagune. Si è pensato che gli uomini spaventassero gli elefanti per spingerli sino ai terreni inondati, dove rimanevano intrappolati nel fango, diventando prede più facili. Non si può non chiedersi perché un branco di enormi elefanti avrebbe dovuto temere gli esseri umani (per quante urla e strepitii lanciassero) sino al punto di fuggire impazziti e andare a ficcarsi in una trappola; nella sola Ambrona, Clark Howell ha portato alla luce i resti di 4 7 elefanti, anche se non è dato pensare che siano morti nella stessa occasione. La risposta potrebbe risiedere nell'uso del fuoco da parte dei cacciatori umani, che forse incendiavano le stoppie riarse dei pascoli (come si presentano nel plastico che si può vedere al Museo archeologico nazionale di Madrid). Queste cacce 156
organizzate, ripetute nel corso del tempo, avrebbero costituito i grandi giacimenti di Torralba e Ambrona. Tuttavia vi è un altro modo, diametralmente opposto, di interpretare questi stessi elementi. Un importante ricercatore, Richard Klein, ritiene che il profilo di mortalità degli elefanti osservato corrisponda a una mortalità naturale nell'arco del tempo più che al profilo risultante da una caccia indiscriminata (il cosiddetto profilo catastrofico). Nei giacimenti che corrispondono al primo caso (profilo naturale) predominano gli esemplari vecchi sui giovani adulti nel fiore degli anni e della loro capacità riproduttiva; nel secondo caso (profilo catastrofico) accade il contrario: nel giacimento vi sono più adulti giovani che vecchi, semplicemente perché i vecchi sono in minoranza nelle popolazioni viventi (animali e umane) e in maggioranza nei cimiteri. Un altro celebre archeologo, Lewis Binford, individua un rapporto tra gli strumenti di pietra e i cavalli, i cervi e gli uri più che con gli elefanti. Questi nuovi studi suscitano dubbi profondi sulla teoria delle grandi carneficine di elefanti nella valle del Mansegal. Forse gli umani si sono limitati ad approfittare, in modo assai marginale, sporadico e non pianificato, di alcune carcasse di elefanti morti per cause naturali; invece che fieri cacciatori di elefanti sarebbero semplicemente affamati opportunisti. La polemica però non può considerarsi assolutamente conclusa. Clark Howell infatti controbatte alle critiche con diversi argomenti. Non bisogna dimenticare che, oltre alle capacità fisiche degli umani di 100.000 anni fa di cacciare elefanti, quello che è in discussione è se possedevano capacità mentali atte a sviluppare complesse strategie di caccia e a programmarle nel corso del ciclo annuale. La pianificazione è uno dei tratti più evidenti della coscienza. Ma, se non siamo sicuri di ciò che realmente avvenne a Torralba e Ambrona, vi è un giacimento, circa della stessa epoca, dove le tracce sono più chiare. Si tratta del giacimento di Aridos, molto vicino a Madrid, su un terrazzamento del fiume Jarama. Ad Aridos si sono trovati resti di due elefanti a 200 m di distanza l'uno dall'altro. Uno è una femmina giovane (Aridos I) e l'altro un maschio vecchio (Aridos II). Le ossa non mostrano segni di denti di carnivori. Non esistono prove che gli animali furono cacciati dagli umani, mentre ve ne sono che questi ebbero accesso primario ed esclusivo alla carne degli elefanti. I madrileni di quel tempo compirono un gran lavoro di macellazione nella valle del Jarama. Gli archeologi che scavarono il giacimento, diretti da Manuel Santonja e Angeles Querol, constatarono che gli utensili necessari a squartare gli elefanti furono intagliati sul posto. In molte occasioni si è riusciti a incastrare gli uni negli altri i vari prodotti 157
dell'intaglio, vale a dire lo strumento creato e i residui, per ricomporre il nucleo di silice o pietra di quarzite da cui aveva avuto inizio la catena operativa; si è constatato anche che quando i fili degli strumenti di pietra erano smangiati, venivano riaffilati sul posto per continuare lopera di squartamento. Si è così ricostruita la sequenza completa di quello che accadde ad Aridos dal momento in cui gli umani giunsero presso gli elefanti al momento in cui se ne andarono. Un dato molto interessante è che, mentre la quarzite era reperita sulle riva del vicino Jarama, la silice dovettero andarla a cercare sulle sponde del Manzanares, a circa 3 km di distanza; ciò rappresenta un sicuro indizio di pianificazione delle attività, anche se a breve termine e dopo il ritrovamento, che poteva essere casuale, di un cadavere. In questo caso, e contrariamente a quanto sostenuto qualche paragrafo fa, Aridos I e II rappresentano due momenti isolati del tempo geologico, non la sovrapposizione di numerosi eventi accaduti nel corso di un ampio spazio di tempo. Ciò rende più semplice l'interpretazione del giacimento, al contrario dei casi di Torralba e Ambrona, che rappresentano senz'altro la somma di molti eventi e dove - secondo i èritici dell'ipotesi del cacciatore hanno potuto intervenire anche fenomeni geologici a modificare gli accumuli di ossa e manufatti. In alcuni di questi episodi della storia dei giacimenti di Torralba e Ambrona furono certamente presenti gli umani, ma in che modo e quali? Per ora non è possibile fornire una risposta definitiva a tali quesiti, che forse saranno risolti negli scavi che attualmente stanno portando a termine Manuel Santonja e Alfredo Pérez-Gonzalez (che è anche responsabile degli studi di geologia nel progetto Atapuerca). Quella che oggi come oggi pare essere l'ipotesi più accreditata è che a Torralba e Ambrona non si verificarono grandi carneficine di elefanti da parte degli umani del Pleistocene medio iberico (che sarebbero gli antenati dei Neandertaliani) e che questi si limitavano ad approfittare occasionalmente dei cadaveri degli animali morti per cause naturali. Le cacce di rinoceronti lanosi e mammut lanosi di La Cotte de Saint-Brelade, un'isola del Canale della Manica (allora collegata al continente), hanno un maggior numero di sostenitori; qui gli animali potrebbero essere stati spaventati e fatti precipitare in un dirupo in un'epoca, alla fine del Pleistocene medio, posteriore a quella di Torralba e Ambrona (e i cacciatori sarebbero ormai quasi pienamente Neandertaliani). Se la caccia dei grandi pachidermi è pericolosa, quella dei grandi carnivori non lo è di meno. 200.000 anni orsono sulla riva di un fiume nel Biache-Saint-Vaast (vicino al Pas-de-Calais e non molto lontano da La Cotte de Saint-Brelade) si è depositato un gran numero di ossa di erbivori: caprioli, cervi, megaceri, tori, ri158
noceronti di Merck e della steppa, cavalli e piccoli equidi. Il paesaggio dell'epoca conisponde a un periodo non molto freddo (un interstadio) all'interno della penultima glaciazione; comprendeva un bosco con radure, dove il capriolo brucava i rami degli alberi e dove pascolavano il cervo e l'uro, vaste praterie sulle quali si nutrivano i cavalli e i rinoceronti, e paludi aperte dove i megaceri con le loro grandi corna potevano spostarsi senza incontrare ostacoli. Tutti gli animali citati furono consumati da esseri umani, che probabilmente li cacciavano; in questo stesso giacimento sono stati rinvenuti due crani umani con caratteristiche già marcatamente neandertaliane. Ciò che sorprende a Biache è che si trovano anche i fossili di vari orsi bruni e orsi delle caverne (almeno dieci in un solo livello, il base II), che erano stati scuoiati, disarticolati e spolpati, e le ossa frantumate per estrarne il midollo; vale a dire che erano stati sfruttati integralmente. Patrick Auguste, il paleontologo che li ha studiati, ritiene che gli orsi fossero stati cacciati da antenati dei Neandertaliani e non raccolti già morti, poiché la maggior parte degli individui è costituita da adulti giovani e non da cuccioli o vecchi, che sono le età in cui avviene la morte "naturale". Si potrebbero prendere in esame molti altri giacimenti all'aria aperta del Pleistocene medio, che sono oggetto di studio, per tentare di capire la relazione tra l'uomo e la fauna. Per esempio, si è sostenuta l'esistenza di un comportamento molto organizzato con accampamenti e consumo di grandi erbivori a Bilzingsleben, ipotesi che si accorderebbe con l'ipotesi dell'uomo come grande cacciatore sociale. Ma, per non prolungare all'infinito la polemica, esporrò ora chiaramente le mie conclusioni. Credo che vi siano pochi dubbi sul fatto che le proteine e i grassi animali siano imprescindibili per la sopravvivenza dell'essere umano in Europa, data l'assenza quasi completa di risorse vegetali d'inverno e in primavera. Probabilmente l'acquisizione di carne può essere avvenuta mediante la caccia, la necrofagia o, naturalmente, tramite entrambe le strategie combinate. Nel nostro caso, penso che la necrofagia non sia un'alternativa alla caccia o alla raccolta e che un primate non sia dotato per essere un necrofago di "professione", ma occasionale, come complemento di altre attività (analogamente a quanto accade tra gli Hadza, come abbiamo visto). Poiché nel nostro continente la raccolta è segnatamente stagionale, la necrofagia può essere per gran parte dell'anno un complemento della caccia, che resta l'attività principale. Infine sono del tutto certo che la forza enorme degli umani del Pleistocene medio europeo - rivelata da fossili della Sima de los Huesos - sia in rapporto con la necessità di uccidere le prede da distanza ravvicinata. Vale a dire, è un adattamento in funzione della caccia. Niente mi sembrava più ridicolo dell'idea, ferma159
mente sostenuta da alcuni autori, come il citato Lewis Binford, secondo la quale quegli esseri umani (e anche i Neandertaliani) fossero creature deboli e indifese che si limitavano a raccogliere vegetali e ad approfittare di quando in quando degli ultimi resti di un cadavere. Sempre timorosi dei carnivori, sempre alla mercé di un fortunato ritrovamento, praticamente i più miserabili mammiferi dell'ecosistema! E, nonostante u,n'esistenza così meschina, gli esseri maggiormente dotati di cervello e quelli dalla vita più lunga, assieme agli elefanti! Io invece immagino un gruppo di cacciatori formidabiii di quasi 100 kg di peso (muscoli puri), vestiti con pelli d'orso e armati di lunghe lance di legno con un'estremità molto acuminata, davanti ai quali i leoni arretravano. Non molto diversa deve essere stata la vita dei Neandertaliani, che compaiono alla fine di questo periodo e che conseniano la stessa forza fisica. I primi umani moderni d'Europa, gli Aurignaziani, avevano una diversa costituzione fisica, con anche e tronco più stretti, ma erano altrettanti forti. Il paleoantropologo Steven Churchill ha studiato l'omero di un Aurignaziano, proveniente dal giacimento di Vogelherd e ne ha messo in rilievo la notevole robustezza, paragonabile a quella di un omero neandertaliano (benché fosse diverso per altre caratteristiche) che ci dice quanto potente fosse quel braccio. Tuttavia lo scheletro dei CroMagnon diventò più leggero nel corso del Paleolitico superiore (e lo è ancor di più nel Mesolitico). La spiegazione di tale minore robustezza può risiedere nella comparsa sullo scenario della caccia di nuove, mortali armi: il propulsore, l'arco e la freccia. Nel Pleistocene medio, i giavellotti potevano avere un'estremftà. acuminata, ma, a volte, è possibile che avessero anche una punta di pietra. Senza andare molto lontano, in uno dei giacimenti di Schoningen si sono trovati anche tre frammenti di rami di abete con una fenditura a un'estremità come per incastrarvi una di queste punte; si tratterebbe delle prime armi composte di due materiali diversi (legno + pietra). È quasi certo che i Neandertaliani utilizzassero con lo stesso scopo punte di pietra molto caratteristiche che sono state trovate nei giacimenti musteriani. Nell'Aurignaziano compaiono per la prima volta lunghe punte di osso e corno, chiamate zagaglie (in realtà sarebbero punte di zagaglia) che vanno inserite all'estremità di un'asticciola di legno, ma la forza per lanciare il proiettile continua a essere applicata dal braccio nudo. Il propulsore, sostanzialmente, è una corta sbarra con un gancio o tacca su cui si appoggia la base della lancia, mentre l'altra estremità del propulsore è afferrata dalla mano. Ha leffetto di prolungare la lunghezza e la potenza del braccio. I propulsori conservatisi sino a oggi sono confezionati con corno di cervo o 160
renna e avorio e possono essere decorati in modo eccellente, a indicare che si trattava di oggetti di prestigio; è certo, però, che la maggior parte era fatta di legno (per questo non si sono conservati), come nei moderni popoli cacciatori. Si ritiene che il propulsore sia comparso nel Solutreano (il tecno-complesso che segue l'Aurignaziano e il Gravetiano), 20.000 anni orsono. I.:epoca dell'invenzione della freccia non è molto chiara, ma alcune delle punte solutreane sembrano essere concepite per far parte di una freccia, specialmente quelle che hanno delle alette di lati e un peduncolo centrale per l'incastro, molto caratteristiche del Solutreano della regione di Valencia. La più antica freccia che si conosca ha circa 11.000 anni e più o meno della stessa età è una figura incisa in una lastra della Grotte des Fadets (Francia), che è stata letta come quella di un arciere. Nel levante spagnolo vi è una grande quantità di pitture rupestri (note nel loro insieme come Arte levantina) che rappresentano arcieri, ma sembra che tutte abbiano meno di 10.000 anni (tornerò a occuparmene nell'epilogo). Queste forme rivoluzionarie di uccidere a distanza (il propulsore e l'arco) cambiarono certamente l'equilibrio tra l'uomo e le sue prede. Vi è una grande differenza tra l'avvicinarsi a un bisonte con una lancia o trafiggerlo a grande distanza con una lancia scagliata con un propulsore, o con una freccia. Se i proiettili fossero stati avvelenati, cosa che ignoriamo, il loro effetto sarebbe stato ancora più terribile. Numerosi autori ritengono che la rottura di tale equilibrio, prodotta dalla tecnologia, sfociò nell'estinzione di numerose specie di mammiferi: per la prima volta l'essere umano avrebbe prodotto un impatto ecologico su vasta scala, che non sarebbe perciò un crimine moderno ed esclusivo delle società industriali.
L'ultimo mammut I mammut lanosi sono forse gli animali più emblematici dell'Era glaciale, il Pleistocene. Quando questo terminò ed ebbe inizio l'Olocene, i mammut lanosi svanirono per sempre assieme ai megaceri, ai rinoceronti lanosi e agli orsi delle caverne. Specie di mammiferi che avevano pascolato insieme nell'Europa occidentale, come la renna, il bue muschiato e l'antilope saiga, si ritirarono in direzioni diverse: la renna e il bue muschiato seguirono il ritiro delle tundre verso nord e l'antilope saiga il ritiro delle steppe verso est. Se questo avveniva in Eurasia, nelle Americhe la catastrofe fu molto maggiore e colpì un gran numero di specie di grandi mammiferi. Soltanto nell'America del Nord, e comprendendo soltanto specie di peso superiore ai 40 kg, si può eia161
barare il seguente elenco delle perdite. Tra i proboscidati si estinsero i mammut, lanosi e di altre specie, e i mastodonti; questi ultimi erano parenti piuttosto lontani dei precedenti, ma altrettanto possenti. Scomparvero anche varie specie di cammelli e lama, alci e cervi, pezzati (antilocapridi), pecari (imparentati con i maiali) e buoi muschiati. Tra i felidi soccombettero grandi gatti con denti a sciabola del genere Smilodon, così come l'Homotherium citato in precedenza. In Nordamerica alla fine del Pleistocene vi erano anche ghepardi, anche se di una specie diversa da quella attuale. Scomparve anche il grande orso dal muso corto, più grande di qualunque orso vivente. La grande estinzione della fine del Pleistocene riguardò anche, tra i roditori, la capibara gigante e un castoro gigante. Se ne andarono per sempre i tapiri del Nordamerica e, cosa ancor più sorprendente, persino i cavalli: infatti quelli degli indiani furono reintrodotti nel continente dagli spagnoli, e qui diventarono selvatici a partire da esemplari domestici. I.:ordine degli sdentati è uno dei gruppi di "vecchi" mammiferi sudamericani che evolvettero nel continente-isola in completo isolamento per molti milioni di anni. Benché avessero superato la crisi comportata dall'arrivo della fauna di mammiferi "moderni" (quando sorse l'istmo di Panama), e nonostante molti fossero passati in Nordamerica, il gruppo rimase drasticamente decimato alla fine del Pleistocene. Si estinsero gli armadilli giganti, i grandi glittodonti (che erano ricoperti di un carapace rigido di osso come quello di una tartaruga), e i megalonchidi, i milodontidi e i megateridi; le ultime tre famiglie erano costituite da bradipi terrestri, alcuni dawero enormi. Nell'America del Sud soprawisse fino all'Olocene il megaterio gigante, una specie che ha avuto una certa importanza in paleontologia per motivi storici che vale la pena raccontare. Nel settembre 1788 giungeva al Real Gabinete de Historia Natural di Madrid, inviato dal viceré del Rio de la Plata, lo scheletro quasi completo di un formidabile animale che era stato trovato sulle rive del fiume Lujan, a circa 60 km da Buenos Aires. Nel Real Gabinete, il valenciano Juan Bautista Bru de Ramon, "dissettore e pittore anatomico", lo montò, studiò e disegnò, pubblicando nel 1796 una monografia con cinque calcografie di grandi dimensioni, opera dell'illustratore scientifico Manuel Navarro; una delle lastre, molto famosa, riproduce lo scheletro montato in posizione quadrupede, e le altre ossa sciolte. Il noto paleontologo francese Georges Cuvier si interessò molto di questo esemplare, che identificò come appartenente a un grande sdentato estinto, cui attribuì il nome scientifico di Megatherium americanum. Cuvier elogiò il lavoro del naturalista spagnolo e lo indicò come esempio da imitare. Attualmente lo scheletro si può osservare, 162
nello stesso modo in cui fu montato da Bru, nel Museo nazionale di scienze naturali di Madrid. La scoperta dell'esistenza nel passato di grandi animali, come il megaterio, portò Cuvier a formulare la sua teoria catastrofista, secondo la quale nella storia della Terra si sarebbe verificata una serie di catastrofi che provocarono estinzioni di massa. In seguito, un nuovo atto creativo di Dio avrebbe dato luogo a una nuova generazione di esseri viventi. Questa teoria fu sostituita in seguito dalla teoria evoluzionista di Darwin e Wallace, che è l'unica attualmente accettata. Curiosamente lo stesso Darwin si è interessato anche dei grandi megateri estinti e in una lettera scritta nel 1832 da Rio de la Plata, mentre compiva il giro del mondo a bordo del brigantino Beagle, faceva riferimento ai resti fossili che lui stesso aveva trovato e anche all'esemplare di Madrid. Le estinzioni che, alla fine dell'Era glaciale, si registrarono in Eurasia e America possono attribuirsi al cambiamento climatico, ma vi sono studiosi che le imputano alla diffusione della nostra specie in tutti gli angoli del pianeta, che avrebbe provocato, al suo passaggio, una gigantesca ondata di distruzione che non si è ancora arrestata. Prima di questo periodo non vi è alcuna testimonianza del fatto che l'essere umano sia stato la causa della scomparsa di specie animali o vegetali. È necessario cominciare questa discussione ricordando che le prime specie a subire il tremendo impatto della nostra espansione furono altri umani (Homo erectus e i Neandertaliani) che vivevano nel Vecchio Mondo e che risultarono estinti alcune migliaia di anni prima della fine del Pleistocene. Quel che è certo è che nessuna delle specie estinte nel Nuovo Mondo aveva già visto un essere umano sul continente. Alcune specie erano realmente enormi e lente, come i bradipi giganti, e si può immaginare che cacciarli fosse un gioco da ragazzi per gli antenati degli indiani americani, che con loro avrebbero fatto pratica di mira. In altri casi non risulta altrettanto chiara una relazione diretta tra gli umani e l'estinzione delle specie, come nel caso dei cavalli, che in altri luoghi sopravvissero. È possibile che, in qualche caso, gli uomini abbiano alterato l'equilibrio ecologico sterminando alcuni elementi degli ecosistemi, le prede più facili, provocando in questo modo una serie di estinzioni a catena, che finirono per colpire anche gli ultimi anelli, i grandi predatori. Il problema principale per considerare l'arrivo degli umani nel Nuovo Mondo la causa, e l'estinzione di numerose specie l'effetto, è che il popolamento umano del Nuovo Mondo e il cambiamento climatico comportato dalla fine dell'Era glaciale sono eventi praticamente simultanei, per cui non è facile determinare il peso di ognuno dei due fattori nell'improwisa diminuzione della biodiversità verificatasi. La specie umana che popolò l'A163
merica è la nostra. Nessun'altra, come Homo erectus, i Neandertaliani, i loro antenati o gli antenati della nostra specie, giunsero così lontano. Un motivo è che probabilmente nessuna specie umana precedente alla nostra arrivò a popolare la Penisola dei Cukci, nella Siberia orientale. All'altezza del circolo polare artico il freddo è troppo intenso ed è necessario essere ben equipaggiati. Inoltre, nelle epoche calde lo stretto di Bering può essere attraversato soltanto mediante imbarcazioni e durante le ultime glaciazioni, quando il livello del mare si abbassava e si poteva giungere in Alaska via terra, questi territori erano spaventosamente inospitali. Le tracce più antiche della presenza umana in America sono archeologiche e consistono nei copiosi giacimenti che contengono strumenti litici molto belli, le punte Clovis. Queste, a volte, sono molto lunghe e hanno una base smussata (a becco di flauto) per poter essere incastrate in un'asticella di legno; l'intaglio è molto elaborato con rifiniture semplici che si estendono a tutta la superficie delle due facce. L'età massima di questi lavori si aggira attorno agli 11.500 anni, la data che tradizionalmente si presume corrisponda al momento in cui giunsero gli uomini, in piena glaciazione. Tuttavia, recentemente sono state rese note tracce di presenza umana a Monte Verde (Cile) risalenti a un millennio prima dei lavori citati. La verità è che non si sa molto bene come gli umani si diffusero nelle Americhe poiché, anche se l'Alaska fosse stata libera da una calotta di ghiaccio, il passaggio era interdetto da due grandi scudi glaciali. Il più grande, centrato sulla Baia di Hudson, si estendeva a tutto il Canada e giungeva, a sud, ben oltre i Grandi Laghi: è noto come manto di ghiaccio laurenziano. Un altro scudo di ghiaccio, più piccolo, occupava la Catena costiera. Nel momento della massima glaciazione di 20.000 anni fa i due scudi si scaldarono, formando un unico corpo impossibile da oltrepassare. È probabile che in qualche momento successivo, meno freddo, i due grandi manti glaciali si separassero nuovamente e che gli umani trovassero uno stretto passaggio tra i ghiacci, un corridoio di terra attraverso il quale passare. O forse navigarono presso la costa per evitare la gigantesca lastra di ghiaccio che impediva loro di avanzare. In ogni caso, evitarono l'ostacolo e si diffusero fino allo stretto di Magellano, forse estinguendo numerose specie al loro passaggio. Ma torniamo al caso della specie che meglio rappresenta l'Era glaciale: il mammut lanoso. La sua scomparsa risale a 12.000 anni orsono in Europa, a 11.000 in Nordamerica e a 10.000 nel nord della regione centrale della Siberia, apparentemente il suo ultimo rifugio seguendo il ritiro dei ghiacci. Queste date erano perfettamente compatibili con l'ipotesi della caccia umana come 164
causa diretta della scomparsa dei mammut, poiché 12.000 anni fa gli umani erano giunti sino all'estremo nod-est della Siberia e probabilmente erano già passati in Nordamerica. Nel 1993, tre scienziati russi (S.L. Vartanyan, V.E. Garutt e A.V. Sher) pubblicarono qualcosa di sorprendente: nell'isola di Wrangel, in pieno Oceano Artico e a 200 km dalla costa nord-orientale della Siberia (la Penisola dei CukCi) erano stati datati dei fossili di mammut lanoso risalenti tra i 7000 e i 4000 anni fa. Vale a dire che quando gli ultimi mammut lanosi si estinsero, gli egizi avevano già costruito le grandi piramidi. I mammut lanosi erano passati nell'isola di Wrangel quando questa faceva ancora parte della Beringia. Con il disgelo portato dall'Olocene, il livello del mare si alzò, gran parte di tale territorio scomparve sotto le acque trasformandosi nello stretto di Bering e i mammut rimasero isolati e in salvo dai cacciatori umani nella loro isola-rifugio. Un'altra peculiarità dei mammut lanosi dell'isola di Wrangel è che divennero di un 30 per cento almeno più piccoli dei loro antenati che avevano colonizzato l'isola partendo dal continente; un mammut lanoso normale pesava 6,5 tonnellate per un'altezza al garrese di 2,5-3 metri. Tale riduzione di taglia in un'isola non è un fenomeno così eccezionale come potrebbe sembrare. I.:evoluzione in condizioni di insularità ha prodotto altri casi di nanismo assai più marcati di quello dell'isola di Wrangel. Nel Pleistocene superiore vissero elefanti nani in molte isole del Mediterraneo: Malta, Sardegna, Sicilia, Cipro, Creta e altre isole greche. I "grandi maschi" della specie Palaeoloxodon falconeri, che viveva in Sicilia, non raggiungevano il metro di altezza. A titolo di paragone, si può aggiungere che il più grande elefante moderno è stato ucciso in Angola nel 1955, ed è esposto allo Smithsonian Institute di Washington. Pesava 10,5 tonnellate, misurava 4 mdi altezza al garrese, anche se gli elefanti africani assai raramente superano i 3,5 m e le 6 tonnellate. I.:elefante asiatico, di una specie diversa, è più piccolo, con altezze al garrese simili a quelle del mammut lanoso, anche se questi erano più corpulenti. Per sorprendente che sia, il piccolo elefante di Sicilia evolvette a partire dall'elefante con le zanne dritte del sontinente. A volte si sostiene che questi enormi animali diventarono piccoli nelle isole perché mancava il cibo, e altre volte si attribuisce la riduzione della taglia all'assenza di grandi predatori terrestri. Può sembrare una battuta, ma i cuccioli degli elefanti nani delle isole del Mediterraneo scruterebbero il cielo per difendersi dal loro unico nemico: l'aquila. In realtà entrambe le ipotesi sono in relazione tra loro, perché uno dei vantaggi di diventare molto grande è che non c'è leone né tigre che si mangi un elefante adulto, né squalo che spaventi una balena. Il prezzo da pagare per possedere tale capacità di intimi-
dazione è passare la vita mangiando, ammesso che si trovi cibo e acqua a sufficienza; un elefante adulto può arrivare a mangiare ogni giorno circa 300 kg di cibo e a bere 160 litri di acqua. Quando mancano i predatori è possibile ridurre la taglia e aumentare la possibilità di riempirsi la pancia. I citati autori russi sostengono la teoria secondo la quale la grande estinzione dei mammut alla fine del Pleistocene fu dovuta al fatto che il cambiamento climatico colpì le piante di cui si cibavano nell'ecosistema steppa/tundra e ritengono che la soprawivenza dei mammut nell'isola di Wrangel fu dovuta al fatto che in quel luogo si era conservato per un tempo più lungo l'habitat cui erano adattati. Gli elefanti attuali brucano alberi e pascolano nel contempo. I mammut lanosi, invece, si limitavano a pascolare nelle steppe artiche. Infine, anche nell'isola di Wrangel i mammut restarono senza cibo per colpa del clima, e secondo Vartayan e colleghi gli esseri umani non avrebbero avuto niente a che vedere con ciò. Questa argomentazione ci discolpa almeno dalla responsabilità dell'estinzione del più grande dei mammiferi del Pleistocene e sarebbe determinante se non esistessero prove del fatto che gli antenati degli esquimesi giunsero all'isola di Wrangel 3000 anni fa. Si presentarono forse mille anni prima della data a noi nota e sterminarono gli ultimi mammut lanosi rimasti sul pianeta? Dopo tutto siamo colpevoli? L'unica risposta che possiamo offrire al lettore, come succede spesso in campo scientifico, è che mancano ricerche ulteriori.
Parte terza
I narratori di storie
7.
Un dono awelenato
Sapere che siamo mortali significa dire che la vita è perduta a priori, malgrado i molti rischi che riusciamo a evitare. Se gli animali fossero coscienti della propria mortalità abbandonerebbero il loro limbo zoologico e camminerebbero eretti. Fernand Savater, Dizionario filosofico
La scoperta Sino alla popolazione della Sima de los Huesos, l'evoluzione era andata producendo uno spettacolare aumento del cervello. Il risultato fu un considerevole avanzamento delle capacità mentali superiori e un'espansione della coscienza. Un numero sempre maggiore di azioni era presieduto da questa facoltà. La coscienza non si limitava al presente, ma si estendeva al futuro, a ciò che sarebbe accaduto. Si prevedevano così gli eventi del mondo naturale e i comportamenti degli altri umani. Fu così che accadde. Avvenne una scoperta sensazionale, la prima delle grandi scoperte del pensiero e il preludio di tutte le altre; una scoperta che noi tutti facciamo in qualche momento della nostra vita, perché non ne siamo a conoscenza sin dalla nascita. Gli ominidi compresero di essere, tutti, destinati a morire. Tale scoperta non fu altro che il risultato di un'analisi mentale, di logica pura, cui però nessun'altra creatura era giunta: se gli altri muoiono inevitabilmente e io non sono diverso dagli altri, anch'io un giorno morirò. Per far ciò, è necessario operare una distinzione tra me e gli altri, capacità che possiamo attribuire a Homo ergaster, ma che forse era presente anche negli australopitechi. Non sappiamo quando si pervenne a conoscere l'inevitabilità della morte, quali furono i primi esseri viventi che ne presero coscienza, ma è indubbio che fosse presente già 300.000 anni fa nella mente di quelli che abitavano nella Sierra de Atapuerca. Per ironia della sorte, più di 3500 milioni di anni di evoluzione produssero un essere di intelligenza eccezionale che giunse a comprendere che i giorni di una vita sono un conto alla rovescia. Come dice l'Ecclesiaste (1, 18): "Quanta più sapienza, tanta più pena, e quanta più scienza, tanto più dolore". La capacità mentale superiore è un dono avvelenato. Molti pensatori, come Fernando Savater, ritengono che la co169
scienza di una morte cui non possiamo sfuggire, qualsiasi cosa facciamo, ci ha resi autenticamente umani. Se è così, quei burgalesi di 300.000 anni fa devono essere ammessi come membri a pieno titolo nella stessa famiglia di esseri tormentati cui apparteniamo. Ma lo stesso plus di intelligenza che ci portò a conoscere la morte, ci permise pure, anche in questo caso per la prima volta, di comprendere che siamo vivi: è così che prendiamo coscienza della vita. Fernando Savater ritiene che la reazione degli umani preistorici alla scoperta della morte fu quella di farsi belli, adornarsi, affermarsi di fronte al tragico finale, manifestare mediante simboli rimmensa gioia di essere (ancora) vivi. Vengono a proposito le parole di un personaggio di Amin Maalouf nel libro Le6n el Africano: "Se la morte non fosse inevitabile, l'uomo avrebbe speso tutta la vita nel tentativo di evitarla. Non avrebbe corso rischi, non avrebbe tentato, né iniziato, né inventato, né costruito alcunché. La vita sarebbe stata una convalescenza perpetua". Quando sarà il momento, tratterò di simboli, di miti e di arte, ma nel paragrafo seguente mi occuperò di quanto vivevano quegli umani che già sapevano cosa li aspettava alla fine del percorso.
La durata della vita nella preistoria Molte persone mi dicono frequentemente: prima, nella preistoria, la gente viveva poco; la speranza di vita era molto bassa, si moriva giovani. I pochi uomini vissuti all'epoca delle pitture di Altamira che giungevano ai trent'anni erano già molto anziani. La prima affermazione è in parte vera: l'età media di morte era molto inferiore rispetto all'attuale in Spagna, e in parte falsa: non tutti morivano prima dei trent'anni. La seconda affermazione è del tutto falsa: gli uomini e le donne di Altamira erano (biologicamente) vecchi a trent'anni come chiunque di noi alla stessa età. Sono solito commentare queste asserzioni in modo che vuole essere divertente: ho superato da tempo l'età di Cristo e mi sento ancora in grado di seguire un gruppo di persone più giovani nei suoi spostamenti alla ricerca di cibo, e persino di partecipare alla caccia e alla raccolta. Non vedo perché dovrei essere più che morto se fossi un uomo preistorico. Forse lo sarei, se fossi stato sfortunato (tutti hoi siamo stati qualche volta sul punto di morire, da bambini o da grandi), ma potrei anche essere vivo se la fortuna o l'abilità mi avessero assistito. Al di là delle battute, esaminiamo nei prossimi paragrafi questi luoghi comuni così diffusi, cominciando dai popoli moderni con economia basata sulla caccia e la raccolta. Anche di costoro si pensa che nessuno riesca a invecchiare, ma è possibile che, conoscendoli meglio, ci riservino qualche sorpresa. 170
Al momento di compiere uno studio demografico (la struttura per età) di una popolazione di questo tipo, che non usa documenti di identità né possiede certificati di nascita, sorge un problema apparentemente inaspettato, ma che costituisce un ostacolo a volte insuperabile: le persone non conoscono la propria età, neppure in maniera approssimativa. Il motivo di questa sorprendente ignoranza (ma sorprendente soltanto per la nostra mentalità occidentale) è che conoscere l'età di un adulto non è importante, di fatto è un dato del tutto irrilevante che non interessa a nessuno. Ciò che importa sono le tappe della vita: bambino, adolescente, adulto, e i rapporti di parentela: madre, padre, figlio, fratello ecc., non l'età cronologica esatta. Lunica cosa che si può fare per conoscerla è tentare di ordinare per età i membri di un gruppo, dai neonati ai più vecchi: così si perviene a elaborare una tabella delle età relative. È opportuno stabilire scrupolosamente chi è maggiore di chi, chiedendo a varie persone: a volte è difficile scoprire la sequenza di nascite persino tra fratelli! Una volta ordinati cronologicamente i membri di una comunità, è necessario determinare l'età esatta di almeno alcuni individui, in riferimento ai quali stimare le età di coloro che si trovano tra l'uno e l'altro dei soggetti di cui si conosce l'età. A volte questa operazione è possibile, come per esempio nel caso di gruppi che sono stati visitati da ricercatori in epoche differenti e dove alcuni individui possono essere seguiti dalla prima infanzia e da una volta all'altra (anche se le persone frequentemente cambiano nome nel corso della vita, complicando le cose). Nel caso degli Hadza orientali si sono verificate queste circostanze favorevoli e così disponiamo di un'anagrafe accettabile di 706 persone, elaborata nel 1985 e fondata su 48 persone di età nota e le altre ordinate in base alle loro età relative (vale a dire di alcune persone rispetto ad altre). Gli Hadza costituiscono un popolo di cacciatori e raccoglitori contemporanei che condividono una lingua comune e vivono in un territorio di circa 2500 km 2 vicino al Lago Eyasi, nel nord della Tanzania. In questi ultimi anni sono stati studiati da James O'Connell, Kristen Hawkes e Nicholas Blurton Jones; sono tra i pochissimi popoli con un'economia non produttiva - non possiedono bestiame né coltivano la terra - di cui si è riusciti ad analizzare in dettaglio la demografia. Un altro popolo africano di economia simile è stato, sino a poco tempo fa, quello dei Dobe !Kung che vivono a nord del deserto del Kalahari, in Botswana; Nancy Howell si è occupata della sua demografia. Nell'America del Sud, in Paraguay, vive un popolo, gli Ache, che ha abbandonato la vita improntata a caccia e raccolta pochissimo tempo fa; sugli Ache hanno condotto una ricerca Kim Hill e Magdalena Hurtado. Anche altri popoli, quali gli Yanomamo del Venezuela 171
Figura 20. Piramidi di popolazione teorica (o ideale) e reale degli Ache nel 1987. La larghezza dei livelli corrisponde alle percentuali di popolazione per ogni intervallo di età. Il pacifico contatto con le popolazioni vicine avvenuto negli anni settanta ha prodotto un 'enorme mortalità, soprattutto a causa di malattie contagiose; così si è alterata la piramide demografica. Molti bambini morirono, per malattia o perché i loro genitori, malati, non potevano prendersi cura di loro. Basato su dati di HillHurtado (1966).
meridionale e del Brasile settentrionale, benché non siano strettamente cacciatori/raccoglitori perché coltivano piccoli appezzamenti della foresta in cui vivono - oltre a cacciare e a raccogliere frutti selvatici -, contribuiscono a chiarire la demografia di popolazioni attuali che non hanno accesso alla medicina moderna. Grazie ai dati raccolti dai ricercatori si possono stabilire le piramidi demografiche di questi popoli. Una piramide demografica riflette la struttura anagrafica di una popolazione; si chiama così perché rappresenta per strati il numero di persone vive in ogni intervallo di età (che può essere, per esempio, di cinque anni: 0-4, 5-9, 10-14 ecc.). Alla base della piramide si trovano i bambini piccoli, che rappresentano la categoria più numerosa. Ai piani superiori, che corrispondono ai successivi intervalli di età, vi sono sempre meno individui, perché le persone man mano muoiono. Il risultato è un grafico a forma piramidale. Nella piramide demografica degli Hadza, il piano più largo è quello inferiore - com'è naturale - che corrisponde ai bambini di 172
meno _di 5 anni; arrotondando, rappresentano un 15 per cento del totale dei 706 individui censiti. Gli individui di meno di 20 anni costituiscono quasi il 50 per cento del totale, quelli di meno di 40 anni sono circa il 75 per cento dei membri della popolazione e quelli di meno di 60 anni il 90 per cento, cosicché in pratica la decima parte degli Hadza è costituita da persone di più di 60 anni, un'età rispettabile per gente che si nutre di prodotti della natura e convive con iene e leoni. Vediamo, dunque, che tra gli Hadza vi sono numerosi bambini e adolescenti, ma nonostante tutto non mancano né gli adulti né gli anziani. La vita non è così spaventosamente dura come si potrebbe pensare per questi moderni cacciatori/raccoglitori. La popolazione, nel complesso, è un po' più vecchia tra i !Kung del Kalahari; per esempio, gli individui di meno di 20 anni rappresentano il 40 per cento del totale, e non il 50 per cento come tra gli Hadza. Ciò è dovuto al fatto che la popolazione dei !Kung è stabile, mentre quella degli Hadza sta crescendo, ed è per questo che vi è un maggior numero di individui giovani. Se i moderni cacciatori e raccoglitori non conoscono la propria età, i morti non possono dirci a che età sono morti, neppure se lo sapessero. Ma per fortuna possiamo trovare sulle lapidi testimonianze scritte di quanto durava la vita in un passato assai lontano, rendendo così possibile stabilire i profili di mortalità delle popolazioni storiche; una piramide demografica riflette la struttura per età della popolazione vivente, mentre il profilo di mortalità corrisponde alle persone che si trovano nell"'altro quartiere" del villaggio, ossia al cimitero. Qualche anno fa, Antonio Garda y Bellido si propose di analizzare le lapidi della Hispania romana e realizzò una piccola statistica della demografia di quel tempo nel suo delizioso ed esemplarmente didattico libro Veinticinco estampas de la Espana antigua. Per far ciò Antonio Garda y Bellido si è basato su circa 5000 iscrizioni funerarie di tutto il periodo imperiale romano, da Augusto sino alla caduta dell'Impero, concentrate in gran parte nei primi tre secoli della nostra era. Ha eliminato gli epitaffi dei soldati e delle persone morte di morte violenta, per tentare di ricostruire uno specchio della mortalità nella società civile. Inoltre ha analizzato soltanto le età di morte superiori ai 10 anni, non prendendo così in considerazione l'elevatissima e indiscutibile mortalità infantile. Poiché il numero delle lapidi mortuarie disponibile era assai ampio, Antonio Garda y Bellido ha analizzato soltanto due campioni di 100 casi, uno della Baja Andalucia e l'altro della costa cantabrica. Nel campione di andalusi, un terzo, più o meno, era morto tra i 10 e i 30 anni, un altro terzo tra i 30 e i 50, e l'ultimo terzo dai 50 in avanti (un sesto tra i 50 e i 60 e l'altro sesto oltre i 60 anni). La metà delle popolazioni cantabriche era morta tra i 10 e i 30 anni, e l'altra metà da questa età in 173
poi. Benché in quest'ultimo caso vi sia un'enorme mortalità giovanile, molto superiore rispetto all'Andalusa, la longevità di quelli che superavano i 30 anni era maggiore nella cornice cantabrica: dei 100 individui del campione, 18 superavano i 70 anni; in tutti i modi i campioni utilizzati sono forse troppo piccoli per stabilire confronti rigorosi. Queste semplici statistiche stanno a indicare che tra gli ispano-romani, nonostante ciò che si suole affermare, non tutti morivano molto giovani. Una cosa diversa è la speranza di vita alla nascita, che rappresenta l'età media di morte della popolazione nel suo complesso. Poiché in tale dato sono presenti tutti i nati, l'elevatissima mortalità infantile del passato faceva sì che la media si abbassasse moltissimo. Per comprendere ciò, è sufficiente riesaminare le dinastie reali, che corrispondono alle persone che in ogni tempo ricevevano le maggiori attenzioni possibili: come sosteneva Gregorio Marafi6n, i principi che giungevano al trono erano sovente i sopravvissuti di una ecatombe di fratelli scomparsi. Tra gli abitanti dell'Impero romano la speranza di vita sarebbe stata attorno ai 30 anni, con qualche scarto a seconda della regione; in molti luoghi sarebbe stata anche inferiore. Nei moderni Hadza di Tanzania la speranza di vita si valuta attorno ai 31-32 anni, il che significa che non sempre la "civiltà" ha procurato agli esseri umani una vita migliore, almeno non con una minore mortalità; semplicemente l'economia produttiva ha aumentato il numero degli esseri umani. Una volta superati gli anni difficili della prima infanzia, la speranza di vita non era eccessivamente bassa. Per il campione di ispano-romani della Baja Andalucia e del Cantabrico, Antonio Garda y Bellido ci dà il seguente dato: la speranza di vita calcolata a 10 anni o, in altre parole, gli anni che in media restavano da vivere ai bambini che arrivavano a compiere i 1O anni, era in entrambi i casi di circa 30 anni (vale a dire che questi bambini di 10 anni giungevano in media ai 40). Non era così terribile. Una volta concluso l'intero sviluppo, le aspettative di vita erano anche più lusinghiere: letà media di morte tra gli adulti (persone con più di 20 anni) in Europa sembra sia rimasta abbastanza costante attorno ai 50-55 anni. Queste cifre, relativamente elevate, non devono sorprenderci, perché tra gli Ache del Paraguay una donna che sia sopravvissuta sino ai 20 anni può sperare di vivere in media sino ai 60 anni e un uomo sino ai 54. In realtà tutti i parametri demografici sono cambiati poco dal Neolitico (e forse anche dal Paleolitico superiore) sino all'Ottocento, quando nel mondo occidentale inizia la cosiddetta rivoluzione demografica, che ha elevato enormemente la speranza di vita alla nascita. I progressi della medicina moderna, soprattutto a partire dalla fine del diciottesimo secolo quando l'inglese Edward Jenner 174
scoprì il vaccino contro il vaiolo, e le successive misure di igiene pubblica e cure mediche sempre più generalizzate hanno fatto precipitare la mortalità infantile, tanto che oggi la morte di un bambino si vive come la più grande delle tragedie, quando ancora non molti anni fa si sopportava con rassegnazione ciò che si percepiva come quotidiano e prevedibile. E la situazione era ancora peggiore se ci si trovava in presenza di una calamità che decimava la popolazione, come le terrificanti pesti medievali che periodicamente decimavano milioni di vite in Europa. La peste era un nemico invisibile contro il quale non si poteva combattere. Attualmente la speranza di vita alla nascita è superiore ai 70 anni in tutti i paesi sviluppati e anche in alcuni in via di sviluppo, anche se resta al di sotto dei SO in numerosi paesi africani, e persino inferiore ai 40 in alcune sventurate nazioni africane. :raugurio è che anche qui le cose cambino e presto, perché oggi esistono tutti i mezzi per evitarlo. Lo studio della paleodemografia di altre specie umane, come i Neandertaliani, è da sempre una delle grandi sfide della paleoantropologia. Tuttavia, è qui che si danno appuntamento due grandi problemi. Uno di questi è che non disponiamo dei resti fossili di un'unica popolazione, come succede in un cimitero, ma poche ossa di numerosi individui che appartennero a molte popolazioni, vissute in epoche e regioni differenti: nel caso dei Neandertaliani, dalla penisola iberica e dal Galles sino all'Uzbekistan e all'Iraq (e nel corso di molte migliaia di anni). Possiamo raggruppare tutti questi individui e tentare di fame un unico campione, in grado di rappresentare con una certa approssimazione la mortalità media dei Neandertaliani. Se consideriamo che nessun demografo si azzarderebbe a mettere insieme ossa di spagnoli moderni con ossa di ebrei dell'epoca di Gesù, possiamo farci un'idea di che cosa comporti riunire fossili distanti decine di migliaia di anni .e appartenenti a popolazioni vissute in ambienti e situazioni differenti. E ciò con tutto che i Neandertaliani sono la specie umana estinta su cui possediamo il maggior numero di fossili, in linea di principio la migliore per portare a termine un esperimento simile. :raltro grande problema è quello della diagnosi dell'età di morte dei fossili. Se è quasi impossibile, come si è osservato, conoscere con la necessaria esattezza l'età degli Hadza, dei !Kung e degli Ache viventi, come fare a sapere quella dei Neandertaliani morti migliaia di anni fa? Il primo problema - la dispersione dei fossili nel tempo e nello spazio - è semplicemente irresolubile in tempi brevi. Come sempre in paleontologia, bisogna lavorare con i fossili che si possiedono e procedere ad ampliare il campione per renderlo maggiormente rappresentativo. Ogni nuova scoperta è un passo in questa direzione. Il secondo problema ha due soluzioni, nessuna 175
però del tutto soddisfacente: una consiste nel migliorare le nostre tecniche di diagnosi dell'età di morte negli scheletri; l'altra consiste nel raggruppare i fossili in poche grandi categorie di età, per compensare con l'ampiezza dei limiti l'imprecisione nel calcolo dell'età di morte: invece di tentare di sapere l'anno di morte dell'individuo, dobbiamo a volte accontentarci di accertarne il decennio o un intervallo di tempo anche più ampio di età. Negli individui della nostra specie che non hanno completato lo sviluppo, vale a dire, coloro nei quali non sono spuntati tutti i denti permanenti e non tutte le ossa si sono saldate, l'età di morte si può valutare con sufficiente esattezza. Disponiamo di tabelle dettagliate di eruzione dentaria (formazione e uscita dei denti da latte e dei definitivi) e di fusione dell'epifisi (saldatura delle estremità delle ossa). Quando il soggetto è adulto (per definizione quando non spuntano più denti e le ossa cessano di crescere), dobbiamo ricorrere ad altri metodi diagnostici per stabilire l'età di morte. Se ne sono tentati vari. Uno, diventato assai popolare, è quello della fusione delle suture che articolano tra loro le ossa del cranio; negli individui che non hanno ultimato lo sviluppo queste suture sono ancora aperte, di modo che le ossa del cranio si possono separare, e con il tempo vanno chiudendosi. Questo metodo è caduto oggi in disuso perché la chiusura delle suture del cranio non si verifica a ritmo costante e universale. Si è provato anche, senza molto successo, a utilizzare i mutamenti microscopici che avvengono nella struttura profonda delle ossa (nella loro istologia, per essere più precisi). Attualmente i metodi più utilizzati si basano su certe modificazioni che avvengono nell'anca e che riguardano le superfici dell'articolazione delle sue due ossa con il sacro (denominate capsule articolari) e quelle che si verificano nella sinfisi pubica delle ossa dell'anca (dove le due ossa pubiche si avvicinano alla parte più anteriore della pelvi). Negli adulti avvengono anche cambiamenti nella struttura interna (le trabecole) della parte superiore deHemori e degli omeri, dovuti all'età, che possono essere rilevati tramite radiografie. Un sistema che si applica abitualmente quando non vi sia altra possibilità, consiste nell'osservazione dell'usura delle corone dentarie che, com'è ovvio, è· più avanzata nei vecchi che negli adulti giovani. Poiché l'usura dei denti dipende dalla dieta, ed è legata al maggiore o minor numero di particelle abrasive in essa contenute, il metodo viene calibrato ad hoc per ciascuna popolazione. Ciò si realizza calcolando il ritmo di usura dentale negli individui non adulti, man mano che spuntano i denti permanenti. I:età di morte degli adulti viene stimata grazie a questo coefficiente di usura. In generale tutti questi metodi danno migliori ri176
sultati con gli adulti-giovani che con i vecchi, e con l'età del soggetto le stime dell'età di morte diventano sempre meno affidabili. L'applicazione di criteri di diagnosi di età di morte a specie fossili differenti dalla nostra implica necessariamente l'assunzione che i modelli e i ritmi di sviluppo e invecchiamento siano gli stessi dei nostri. Nel caso dei Neandertaliani, la maggior parte dei ricercatori ritiene che le cose stessero in questo modo, data la stretta relazione esistente tra la dimensione del cervello e lo sviluppo: posto che la dimensione del cervello nei Neandertaliani non era inferiore in media a quella del nostro, si deve supporre che lo sviluppo non fosse molto più rapido nel loro caso. D'altro canto, poiché è dimostrato che il modello di sviluppo, vale a dire l'ordine secondo il quale si producono i cambiamenti, non era sostanzialmente diverso da quello dell'umano moderno, non sembra assurdo applicare i nostri criteri ai Neandertaliani. Erik Trinkaus, il più grande esperto moderno di Neandertaliani, è riuscito a stabilire le età di morte di tutti i Neandertaliani noti, e, partendo da queste, elaborare una tavola paleodemografica. In totale, ha registrato 206 Neandertaliani, una cifra in realtà assai elevata che esprime la quantità di informazioni in nostro possesso su questi umani estinti; appartenevano tutti al Pleistocene superiore (risalenti a meno di 127.000 anni fa). Non si tratta, però, di 206 scheletri completi, ma di parti, spesso assai ridotte, di questi scheletri. Trinkaus ha raggruppato gli individui in sei grandi categorie: 1) neonati: individui di meno di 1 anno; 2) infanti I: 1 anno compiuto e meno di 5 anni di età; 3) infanti Il: dai 5 anni a meno di 10 anni; 4) adolescenti: 10 anni compiuti, ma meno di 20; 5) adulti: almeno 20 anni, ma non ancora 40; 6) adulti maturi: a partire dai 40 anni. Nel campione combinato dei Neandertaliani, i neonati erano pochissimi, cosa che non ci deve sorprendere dato che si tratta di un fenomeno abituale e ben noto ai paleodemografi. I bambini piccoli sono molto frequentemente sottorappresentati nelle necropoli di tutte le epoche. In parte ciò è imputabile al fatto che le ossa di un neonato sono più fragili e delicate, e si conservano con difficoltà; in parte è dovuto anche al fatto che in molte culture i bambini molto piccoli non erano considerati "persone" e venivano sepolti in luoghi diversi da quelli degli adulti, vale a dire fuori dai cimiteri. Grazie al confronto con le popolazioni attuali che sfortunatamente non possono accedere alla medicina moderna o con quelle del passato di epoche anteriori alla rivoluzione demografica, sappiamo che la mortalità anteriore ai cinque anni rappresenterebbe nei Neandertaliani un 40 per cento del totale, a volte anche di più; in altre parole, quasi la metà della popolazione sarebbe morta prima di compiere i 5 anni. La mortalità diminuiva poi tra 177
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Figura 21. Tavole di mortalità degli Hadza, degli Yanomamo e dei Neandertalim L'asse verticale esprime la percentuale della popolazione morta nelle diverse fasi d la vita, che sono indicate sull'asse orizzontale. Dati di Trinkaus (1995).
i preadolescenti (infanti II) e gli adolescenti, per tornare a sali tra gli adulti. Questo modello a forma di U .è comune a tutte popolazioni di mammiferi. La probabilità di morire degli indh dui molto giovani e quella degli adulti e vecchi è maggiore · quella degli individui che hanno già superato la spaventosa mo talità susseguente alla nascita e alla crisi dello svezzamento, n che usufruiscono ancora delle cure dei genitori senza corren: rischi che porta con sé la vita adulta (quando parlo della prob bilità di morire mi riferisco a quella che corrisponde a un anno periodo di tempo determinato, perché statisticamente la prob bilità di venir meno è del 100 per cento, temo, in tutti noi). Tuttavia, nelle tabelle riguardanti i Neandertaliani appare t fenomeno sorprendente: vi sono assai meno adulti maturi (ma giori di quarant'anni) di quanto ci si aspetterebbe. Nelle popol zioni moderne con cui li abbiamo confrontati, quasi la metà d gli individui che riuscirono a diventare adulti raggiunse la cat goria di adulti maturi, mentre tra i Neandertaliani solo un 20 p cento o, come massimo, un 30 per cento degli adulti morire· be dopo i quarant'anni. Calcolando una mortalità infantile ( bambini con meno di 5 anni) tra il 35 per cento e il 45 per ce to, risulta che i Neandertaliani che morivano dai quarant'anni 178
avanti rappresenterebbero solo una cifra dell'ordine del 6 per cento del totale della popolazione. Tale anomalia richiede una qualche spiegazione, se ammettiamo che la longevità potenziale dei Neandertaliani era simile a quella della nostra specie: anche tra gli scimpanzé, la cui longevità potenziale è approssimativamente la metà della nostra, il 35 per cento della popolazione muore dopo i 27 anni (una categoria di età che Trinkaus considera paragonabile a quella umana di adulti maturi). Una soluzione possibile consiste nell'accettare i dati e supporre che la durata dell'esistenza era notevolmente minore nei Neandertaliani che negli umani moderni, inferiore anche rispetto a coloro che conducono uno stile di vita simile. La vita dei Neandertaliani sarebbe stata sottoposta a tali rischi che poche persone sarebbero riuscite a superare i quarant'anni. Benché possiamo ragionevolmente ammettere che nei Neandertaliani la speranza di vita alla nascita fosse molto al di sotto dei trent'anni, per spiegare l'assenza quasi totale di adulti maturi bisognerebbe immaginare la popolazione in una situazione di stress demografico impossibile da superare non appena si fosse presentata la prima circostanza sfavorevole, come per esempio un periodo di crisi ecologica (una lunga siccità, inverni lunghi e rigidi, un'epidemia riguardante le loro prede, qualche anno di cattiva produzione di frutti naturali ecc.). Con una simile mortalità e una speranza di vita alla nascita così bassa sarebbe stata necessaria una grande fertilità affinché le popolazioni neandertaliane fossero demograficamente vitali. Le donne !Kung hanno in media 4,7 figli, le Hadza 6,15 figli e le Ache attorno agli 8 figli: vi è dunque una grande variabilità tra i cacciatori e raccoglitori attuali. Ma se la mortalità dei Neandertaliani era assai superiore a quella di gruppi moderni come gli Ache - presso i quali l'età media di morte nei maschi adulti è, come abbiamo ricordato, attorno ai 54 anni e ai 60 per le donne la fertilità tenderebbe a essere anche maggiore. Un modo per aumentare la fertilità è ridurre il· lasso di tempo tra una nascita e l'altra, ma risulta difficile pensare che i Neandertaliani riuscissero in ciò a spingersi più in là delle popolazioni moderne e a svezzare i figli prima (ossia ancor "meno cresciuti"). Tra i !Kung l'intervallo tra una nascita e l'altra è in media superiore ai quattro anni, e negli Ache approssimativamente sopra i tre anni. Anche la differenza in fatto di fertilità tra le donne !Kung e le Ache è dovuta al fatto che nelle prime il periodo riproduttivo termina prima, forse a causa di malattie a trasmissione sessuale di cui soffre questa popolazione. Per aumentare la propria fertilità le donne neandertaliane avrebbero potuto avere un periodo riproduttivo più lungo, ma non perché più protratto, ma perché più precoce. Tuttavia, l'anticipo del primo concepimento e del 179
primo parto sarebbe dovuto essere di grande entità rispetto alla nostra specie per riuscire a compensare l'enorme mortalità osservata. Il menarca, vale a dire la prima mestruazione, negli ultimi secoli in Occidente non ha ritardato, come spesso si ritiene, anzi ha anticipato. Il motivo è che l'inizio del periodo riproduttivo è fortemente condizionato dalla qualità e quantità dell'alimentazione ricevuta durante lo sviluppo. È possibile costruire un modello teorico che metta in relazione il menarca e letà del primo parto con il peso corporeo delle ragazze, che a sua volta riflette l'adeguatezza o meno dell'alimentazione. Tra quei cacciatori e raccoglitori che hanno un'attività molto intensa, e quindi un grande consumo di calorie, e un'alimentazione (l'apporto di calorie) limitata, l'inizio della vita fertile è in generale posteriore a quello delle popolazioni con uno stile di vita occidentale, nelle quali la disponibilità di calorie non è limitata. Nelle ragazze Ache l'età più frequente - quella che in statistica si chiama moda o norma - per il menarca è attorno ai 13 anni, mentre tra le !Kung, che chiaramente hanno un'alimentazione peggiore, la prima mestruazione si verifica caratteristicamente a 17 anni; il modello teorico prevede che il primo parto debba avvenire tra i 18 e i 19 anni, rispettivamente, come in pratica succede nella realtà (tra i 17 e i 19). Tra le ragazze bianche ben nutrite degli Stati Uniti, invece, il modello stabilisce che la prima mestruazione si verifica attorno ai 12 anni e il primo parto attorno ai 16; il primo dato corrisponde alla realtà, e il secondo ovviamente no, ma per motivi culturali e non biologici: ovvero, per l'uso di anticoncezionali e per astinenza sessuale. In ogni caso, neppure adottando questa età così precoce per il primo parto (16 anni) tornano i conti con i Neandertaliani (anche se è assurdo immaginare le donne neandertaliane nelle stesse condizioni alimentari delle statunitensi bianche). Ma, d'altra parte, dato che i Neandertaliani hanno uno sviluppo lento, come il nostro, la morte precoce dei genitori lascerebbe numerosi orfani ancora molto bisognosi di cure. No, decisamente, i Neandertaliani che mancano devono stare da qualche parte. Un'altra possibilità è che i criteri per il calcolo dell'età di morte siano sistematicamente errati nel caso dei vecchi, attribuendo loro un'età inferiore a quella reale. Potrebbe accadere che, a partire da un certo livello di usura dentale o di modificazione della sinfisi pubica, per esempio, l'indicatore di età di morte si stabilizzi e non cambi quasi nel tempo, con il che staremmo considerando adulti giovani individui che avrebbero già superato i 40 anni. Le due possibilità contemplate sinora - grande mortalità ed errore nel diagnosticare l'età - sono ragionevoli e potrebbero 180
agire congiuntamente, ma Trinkaus avanza una terza spiegazione che trovo ancor più interessante. La maggior parte dei fossili neandertaliani del campione (con quattro eccezioni soltanto) è stata trovata in caverne. Se immaginiamo che le.caverne fossero un luogo di residenza abituale dei Neandertaliani, la loro "casa" per intenderci, dovremmo trovarvi i vecchi che mancano nelle statistiche paleodemografiche. Di fatto, in molte caverne occupate dai Neandertaliani si trova una gran quantità di focolari, assieme a grandi accumuli di utensili litici, resti di scheggiatura e ossa di animali consumati. Tuttavia, l'enorme quantità di tempo trascorso durante la formazione dei giacimenti ne fa dei veri e propri palinsesti, vale a dire, documenti nei quali si sovrappongono numerosi episodi di occupazione della grotta che potrebbero essere stati ciascuno di breve durata - minuti, ore, pochi giorni, a volte un paio di settimane separati forse per lunghi periodi di tempo: anni, decenni, secoli o millenni. La profondità del tempo trascorso all'interno di ogni livello archeologico è la proiezione di molti periodi, assai lontani tra loro, su uno stesso piano, in modo che li percepiamo come contemporanei mentre in realtà non lo furono: perdiamo la prospettiva temporale. Questa è senz'altro l'interpretazione per cui propendo, ossia, quella secondo la quale la "casa" dei Neandertaliani era all'aperto, mentre in quell'epoca le caverne rappresentavano soltanto un elemento in più del paesaggio, una risorsa utilizzata di tanto in tanto per brevi periodi e principalmente come rifugio. Tuttavia le loro speciali caratteristiche geologiche hanno fatto sì che nelle caverne si formassero i principali giacimenti fossili Neandertaliani, quasi gli unici, travisando così la nostra percezione del luogo in cui vivevano. Per contro, è molto probabile che le popola~ zioni neandertaliane fossero molto mobili; in tal caso, la probabilità che la morte di un anziano avvenisse durante uno spostamento è di gran lunga superiore rispetto ai periodi in cui risiedevano in una caverna e non avevano necessità di muoversi. Vi sono numerosi esempi di Neandertaliani che presentano malattie o traumi patiti nel corso della loro rischiosa vita. Il famoso "vecchio" di La Chapelle-aux-Saints, un neandertaliano francese classico quant'altri mai, quando morì soffriva di un'artrite generalizzata, probabilmente di origine traumatica e aveva perduto quasi tutti i denti (ed è certo che non era tanto vecchio quando morì: Trinkaus ne stima l'età attorno ai trent'anni). Anche altri Neandertaliani soffrirono di malattie degenerative delle articolazioni, oltre a fratture di numerose ossa. L'individuo 1 del giacimento iracheno di Shanidar era probabilmente guercio dell'occhio sinistro per un colpo assestatogli, aveva subito l'amputazione del braccio destro sopra il gomito e aveva ricevuto forti 181
colpi alla gamba destra all'altezza dell'anca, della caviglia e del piede. Il fatto che fosse sopravvissuto a tutte queste sofferenze indica che aveva ricevuto cure da parte del gruppo. In uno studio realizzato da Erik Trinkaus e Tomy Berger si trovano molte somiglianze nella distribuzione sul corpo delle lesioni patite dai Neandertaliani e dai professionisti del rodeo; questi coraggiosi cavallerizzi presentano la maggior parte dei traumi sulla testa, sul busto e sulle braccia, prodotti dalle violente cadute a terra provocate dal cavallo. Nei Neandertaliani la caccia implica l'avvicinarsi molto alle prede, a volte grandi epossenti, e queste sarebbero le conseguenze. Tuttavia, e nonostante il gran numero di lesioni patite nel corso della loro rischiosa vita, nessuno degli individui di cui possediamo i fossili aveva perso completamente la mobilità delle gambe. Tutti potevano spostarsi anche se non erano più in grado di cacciare. Probabilmente gli altri membri del gruppo li nutrivano, ma non li trasportavano. Se le grotte dove se ne sono trovati i resti costituivano soltanto delle soste durante gli spostamenti, bivacchi nel_corso del vagabondaggio dei gruppi di Neandertaliani per territori molto ampi, allora è possibile che la maggior parte degli anziani si fosse fermata durante il tragitto, tra una caverna e l'altra (o tra due visite alla stessa caverna), ed è per questo che nei giacimenti se ne trovano pocl1.i: semplicemente non arrivavano sino al rifugio. Una combinazione di questa ipotesi con le due precedenti spiegazioni - metodi di diagnosi dell'età della morte che "ringiovaniscono" i più vecchi, e una speranza di vita assai bassa - può essere la risposta definitiva alla scarsità, non all'assenza, di Neandertaliani vecchi nei giacimenti.
Che cosa è successo alla Sima de los Huesos? La Sima de los Huesos è una meravigliosa eccezione alla regola dell'esiguità di individui rappresentati in ognuno dei giacimenti di Neandertaliani e dei loro antenati. Grazie al ritrovamento, in questo luogo, nel 1976, di un pugno di resti umani, è stato avviato il Proyecto de Atapuerca. Alcuni anni dopo, il giacimento della Sima de los Huesos aveva già fornito più di duemila fossili umani, con tutto che si è scavata soltanto una superficie assai limitata e si è scesi a poca profondità. Mai si è conosciuto un giacimento con una tale ricchezza di fossili del genere Homo di età anteriore a quella delle sepolture umane moderne del Paleolitico superiore avanzato. Oltre all'enorme numero di fossili umani contenuti nella Sima de los Huesos, vi sono stati trovati resti di tutte le parti dello scheletro - compresi i più piccoli di tutti, quelli dell'orecchio medio: martello, incudine e staffa -, 182
mentre negli altri fortunati giacimenti che hanno dato fossili umani sono rappresentati soltanto il cranio e la mandibola, e spesso in frammenti. Il motivo per cui nella Sima de los Huesos si trovano alcuni elementi dello scheletro dei quali non si aveva precedentemente alcuna notizia (o assai scarse), dagli australopitechi e parantropi sino ài Neandertaliani, è che nella caverna burgalese i corpi furono accumulati. Per questa ragione vi si trovano scheletri ancora completi, in uno stato di conservazione sorprendentemente buono nonostante gli anni trascorsi (circa 300.000). È solo questione di tempo e di pazienza e poi compariranno tutte le ossa di questi scheletri. Sinora nella Sima de los Huesos si è intervenuti soltanto in pochi punti, perforando il deposito di ossa umane sino a una certa profondità per vedere cosa contiene il giacimento, valutarlo e pianificarne meglio lo scavo. Poiché i cadaveri si sono accumulati gli uni sugli altri, in questi sondaggi si sono andati trovando ossa di individui diversi e non scheletri interi; a poco a poco, nel corso di molti anni e a seconda di come si scaverà il deposito, si avrà un'idea sempre più esatta del modo in cui erano sistemati i corpi. Per il momento il sistema più sicuro di identificazione degli individui ammonticchiati nella Sima de los Huesos è l'analisi della dentatura, perché è più facile associare denti per formare dentature che mettere in relazione ossa per comporre scheletri (inoltre ogni persona adulta ha un buon numero di denti, 32, che si conservano perfettamente nel giacimento). Dello studio dei denti si occupa José Maria Bermudez de Castro, del Museo nazionale di scienze naturali di Madrid (José Maria Bermudez de Castro è uno dei tre direttori del Proyecto Atapuerca, assieme a Eudald Carbonell, della Universitat Rovira y Virigili a Tarragona, e il sottoscritto). Sinora José Maria Bermudez de Castro ha identificato 32 individui (o meglio 32 dentature, alcune delle quali ancora piuttosto incomplete). Si tratta di un numero minimo, perché vi sono molti denti isolati che potrebbero appartenere o meno a qualcuno dei 32 individui di cui si possiedono alcuni elementi di dentatura. È probabile che il vero numero di individui scavati sia superiore, e ancor di più quello di tutto il giacimento. I denti, inoltre, ci consentono di conoscere letà di morte dei loro antichi proprietari, con molta esattezza nel caso di quelli che non avevano ancora completato lo sviluppo; come abbiamo detto in precedenza, per stabilire letà degli individui che erano già adulti bisogna ricorrere allo studio dell'usura della corona, un metodo meno sicuro, soprattutto con i soggetti in età avanzata. Dallo studio degli individui della Sima de los Huesos rappresentati dalle dentature risulta che vi erano pochi adulti maturi: soltanto tre individui supererebbero i trent'anni, cosa che non ci 183
è nuova in base a quanto osservato nei Neandertaliani e in altri fossili dell'epoca della Sima; gli individui con una profonda usura dentale scarseggiano sempre: la maggior parte di questi non aveva mangiato molto prima di morire. È certo che uno dei tre adulti maturi della Sima è Cranio 5, il più completo della collezione e dell'intera documentazione fossile dell'umanità. I:"età dentale" può tuttavia trovare conferma a partire da altri indicatori di età di morte. Nel campione della Sima de los Huesos vi sono due ossa pubiche che appartennero a maschi di più di quarant'anni. Uno di loro corrisponde a un soggetto di età realmente molto avanzata, sicuramente più di cinquant'anni; inoltre nella collezione della Sima si trova un osso pubico femminile che si aggirerebbe attorno ai trent'anni. Queste tre ossa pubiche, e le corrispondenti pelvi, potrebbero derivare dagli stessi individui delle tre dentature di adulti maturi. I resti pubici indicano che la longevità potenziale di questa popolazione era simile alla nostra, e che la scarsità di "maturi" di più di trent'anni deve essere spiegata con altre cause, forse le stesse che abbiamo suggerito per i Neandertaliani: come questi, gli umani di Atapuerca si sarebbero spostati molto nei territori circostanti e solo di tanto in tanto sarebbero approdati nelle caverne della Sierra: i più anziani, incapaci di muoversi, non ce l'avrebbero fatta a raggiungere le caverne e si sarebbero arresi lungo il tragitto. Quando la morte di qualche membro del gruppo sopraggiungeva in una delle caverne della Sierra de Atapuerca o nei dintorni, gli umani lo avrebbero portato sino a quell'angolo nascosto che era la Sima per depositarvelo. Sarebbe, questa, una consuetudine che un certo gruppo umano avrebbe mantenuto forse per molte generazioni, sino a che infine l'abitudine si perse o forse il gruppo che la praticava scomparve. In tal modo si sarebbe formato l'accumulo di cadaveri umani della Sima de los Huesos. Tuttavia, esiste anche la possibilità, molto suggestiva, che tutti gli umani accumulati nella Sima de los Huesos siano morti contemporaneamente o in un breve lasso di tempo. Come stabilire se gli almeno trentadue cadaveri si sono accumulati in pochi anni o in molti? Dal punto di vista geologico, cento o persino mille anni sono soltanto una brevissima frazione di tempo. Non si può sperare, quindi, di trovare la risposta alla nostra domanda nel giacimento: tutti i fossili umani si trovano nello stesso strato di sedimento, fanno cioè parte di uno stesso deposito e non di livelli in successione. Ciò che possiamo fare è dimenticarci dei soggetti di 25 o più anni, che scarseggiano sempre nei campioni fossili, e di quelli di 5 anni che, come ci si aspettava, mancano anch'essi nella Sima (si è identificato soltanto un bambino che potrebbe rientrare in questa categoria: la povera crea184
tura è morta tra i 4 e i 6 anni). Il mio buon amico Jean-Pierre Bocquet-Appel, del Musée de l'Homme di Parigi, uno dei più brillanti paleodemografi dei nostri tempi, mi ha proposto di fare la seguente prova con gli individui compresi tra i 5 e i 24 anni. Nelle popolazioni a noi note che non hanno accesso alla medicina occidentale o precedenti alla rivoluzione demografica, gli individui viventi dai 5 ai 14 anni ammontano a un numero simile a quello degli individui compresi tra i 15 e i 24 anni: la proporzione (5-14/15-24) x 100 è del 115 per cento. Tuttavia nei cimiteri di queste stesse comunità i primi superano ampiamente i secondi dal punto di vista numerico: (5-i 4/15-24) x 100 = 225 per cento. La causa di tale differenza nelle proporzioni risiede nel fatto che la piramide demografica di una comunità (che riflette la struttura per età degli individui vivi) non è uguale alla tavola di mortalità (la distribuzione per età dei morti). La proposta di Jean-Pierre Bocquet-Appel consisteva nel vedere quale fosse la proporzione corrispondente alla Sima de los Huesos: risultò essere del 53 per cento, vale a dire, molto più prossima a quella delle piramidi demografiche che a quella delle tavole di mortalità. Come interpretare questo risultato? La struttura di età della Sima de los Huesos sembra suggerire una causa catastrofica che ha colpito in uno spazio di tempo ridotto molti membri di uno stesso gruppo, piuttosto che il lento processo di logoramento di cui soffre una popolazione nel corso delle generazioni. Di fatto la proporzione del 53 per cento ottenuta per la Sima de los Huesos è troppo bassa anche per adattarsi a una piramide demografica: vi sono assai pochi bambini o adolescenti giovani. Nel campione predominano, precisamente, i membri più attivi, più mobili, più forti della popolazione: gli adolescenti più grandi e gli adulti giovani. Che cosa è successo allora nella Sima de los Huesos? Quale è stata la natura della catastrofe? Una possibilità che viene subito in mente è quella di un'epidemia. Tuttavia, le grandi epidemie nella preistoria sono sempre state considerate poco probabili, in ragione della scarsità della popolazione umana. Perché un'epidemia si diffonda è necessario che vi sia una grande densità di popolazione, poiché la maggior parte degli agenti patogeni ha vita breve e la malattia non si trasmette se le comunità sono piccole e hanno contatti sporadici tra loro. La densità di popolazione tra gli Hadza è di 0,3 persone/km.2 , un dato che si ritiene abbastanza alto, dovuto al fatto che nel loro ambiente vi è una grande biomassa animale e vegetale. In altri termini, si potrebbe affermare che un gruppo di 30 persone si sposterebbe per un territorio di 100 km. 2 , ossia l'equivalente di un quadrato di 10 km di lato. Una densità simile o anche mag185
giore è stata attribuita alle popolazioni della fine del Paleolitico superiore nei boschi mediterranei della regione litoranea del Vicino Oriente, nei periodi meno freddi. Ecosistemi non tanto ricchi avrebbero potuto sostentare meno persone con un'economia di tipo non produttivo. Tra i Dobe !Kung e i San che vivono nella regione desertica del Kalahari, la densità di popolazione può giungere a essere 10 volte inferiore che tra gli Hadza (0,03 perso~ ne/km 2 ), vale a dire che bisognerebbe immaginare lo stesso gruppo di 30 persone che percorre un territorio equivalente a un rettangolo di 50 km x 20 km. Moltiplicando questi due dati di densità per i circa 600.000 km 2 di superficie della penisola iberica ci si può fare un'idea approssimativa della popolazione che la occupava nella preistoria: tra i 180.000 e i 18.000 esseri umani. Poiché sin quasi alla fine del Pleistocene non si raggiunse neppure lontanamente una tecnologia paragonabile a quella dei moderni cacciatori e raccoglitori, il primo dato sarebbe sicuramente più vicino a quello reale, soprattutto nelle epoche fredde, nelle quali le condizioni ambientali si fecero aspre; è probabile che la cifra più alta o una ancora superiore si raggiungesse nel Mesolitico, il periodo dell'Olocene immediatamente precedente all'introduzione dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame, che avrebbe ulteriormente incrementato la popolazione. All' epoca della scoperta dell'America gli abitanti della penisola si aggiravano attorno ai 7 milioni. Le stime date riguardo alla densità di popolazione umana nel Paleolitico si potrebbero paragonare con quelle di altre specie di mammiferi peninsulari attuali, se non fosse che il degrado del1'ambiente ha notevolmente ridotto i grandi spazi nei quali vivevano erbivori e carnivori in uno stato più o meno naturale ed equilibrato. Uno di questi pochi rifugi è la Sierra de la Culebra, in Zamora, una riserva di caccia di 67.000 ettari. Qui, forse, vi è la più alta densità di lupi dell'intera Europa. Nelle zone popolate dai cervi, questi raggiungono una densità di 0,4 cervi/km2 , vale a dire 40 cervi in ognuno di quei quadrati immaginari di 1O km di lato di cui si parlava sopra (il numero di esemplari che si cacciano ogni anno è valutato accuratamente e non va a intaccare la consistenza della popolazione); il peso medio dei cervi supera i 180 kg. Orbene, secondo gli studi di José Luis Vicente, Mariano Rodriguez e Jesus Palacios, i lupi - che in questa riserva non sono molestati - hanno densità comprese tra gli 0,05 lupi/ km2 e gli 0,1 lupi/km2 , ossia da 5 a 10 individui per ogni quadrato di 100 km 2 • La densità di questi cacciatori sociali sta tra quella degli Hadza e quella dei !Kung, dando credito alle nostre elucubrazioni sul numero degli iberici preistorici. Se la popolazione umana era così scarsa nel Pleistocene dobbiamo chiederci come poterono morire almeno 32 individui in186
sieme. Tenendo conto del fatto che alcuni membri del gruppo dovettero sopravvivere per accumulare i cadaveri dei morti nella Sima, e dato che mancano i bambini e i vecchi, se accettiamo l'ipotesi della catastrofe, la comunità non finiva con l'essere troppo grande? Numerosi esperti immaginano che in quest'epoca i gruppi umani fossero formati da pochissimi individui e che non fossero in contatto tra loro. Jean-Pierre Bocquet-Appel ha analizzato la dimensione dei gruppi umani nella preistoria da un curioso punto di vista. Il sesso di una persona è una variabile di quelle che in statistica si denominano binomiali, vale a dire con due alternative soltanto: in questo caso maschio e femmina. La probabilità di venire al mondo con un sesso o un altro è circa la medesima (anche se nascono 105 bambini ogni 100 bambine), il che naturalmente non significa che tutte le coppie con quattro figli hanno due bambini e due bambine; questo succede in media, ma è un fatto di osservazione comune che vi siano molte famiglie con quattro figli maschi o quattro figlie femmine. Se invece di una famiglia, consideriamo per esempio una comunità di venti coppie, la probabilità che in una generazione vi siano solo maschi o solo femmine è minima, ma si è assolutamente certi che, prima o poi, arriverà una generazione con pochissime femmine o con pochissimi maschi. Quanto più piccola è la popolazione, tanto maggiore è la variazione che avviene da una generazione all'altra nella proporzione tra i sessi. È relativamente facile elaborare modelli teorici per studiare questo problema e Jean-Pierre Bocquet-Appel è giunto alla conclusione che, a lungo termine, le piccole popolazioni non potrebbero sopravvivere senza scambiare maschi o femmine con altre popolazioni al fine di equilibrare le proporzioni tra i sessi. In concreto, se i gruppi avessero 20 individui tra i 15 e i 40 anni, il flusso migratorio sarebbe, in media, dell'l 1 per cento (più o meno due persone del sesso maggioritario dovrebbero abbandonare il gruppo e altrettante del sesso contrario dovrebbero venire da fuori); se i gruppi fossero di 50 individui il flusso sarebbe del .7 per cento (si scambierebbero 3 o 4 persone) e se fossero di 350400 il flusso sarebbe del 3 per cento (10-12 persone migrerebbero). In questo modo, i gruppi sarebbero in rapporto tra loro tramite la pratica dell'esogamia, e farebbero parte di unità assai più ampie dal punto di vista della riproduzione. Secondo Jean-Pierre Bocquet-Appel le industrie acheuleane e musteriane occuparono aree così estese proprio per questa ragione: la popolazione umana non pervenne mai a raggiungere una densità così elevata da consentire l'esistenza di gruppi locali demograficamente autosufficienti e culturalmente isolati, ma esisteva una vastissima rete di gruppi di piccole dimensioni in187
terconnessi tra loro geneticamente e culturalmente sui lunghi periodi; a volte vi sarebbe stata la tendenza a riunirsi in unità più grandi, e in altre occasioni si disperderebbero in piccoli "accampamenti". Un altro modo di calcolare la dimensione dei gruppi umani è quello offerto dagli studi di Robin Dunbar sul rapporto tra la dimensione della corteccia e quella del gruppo sociale (e la sua complessità) nei primati. A una corteccia della grandezza· della nostra corrisponde un gruppo di 150 persone, che sarebbe il numero ideale di simili con i quali il nostro cervello ci consente di rapportarci in maniera diretta e stabilire legami personali, anche se non siamo necessariamente sempre assieme. Questo numero limitato di parenti e amici, che si potrebbe denominare clan, non esclude che alcune persone che non trovano il proprio partner lo cerchino in clan prossimi alla stessa tribù, proprio come prevede il modello demografico di Jean-Pierre Bocquet-Appel. Se le cose stanno così, i 32 individui della Sima de los Huesos non sono in un numero così elevato da invalidare l'ipotesi della catastrofe: potrebbero appartenere tutti al medesimo clan o a un paio di clan. Mentre un'epidemia su vasta scala, come le pesti medievali, è da scartare nell'epoca della Sima de los Huesos, una malattia contagiosa che colpisca uno o più di questi piccoli gruppi è concepibile. Nonostante ciò, la composizione per età dei 32 cadaveri della Sima de los Huesos costringe a scartare immediatamente tale ipotesi. In due esempi moderni, e quindi ben noti, di epidemie di colera e vaiolo, la maggior parte dei morti era costituita da individui molto giovani, di meno di 10 anni: il 45 per cento per quanto riguarda la prima malattia e il 90 per cento per la seconda. In generale, nelle malattie epidemiche i bambini muoiono in numero maggiore rispetto agli adolescenti o gli adulti giovani, mentre sono queste ultime fasce d'età a prevalere nel caso della Sima. La catastrofe cui io e Jean-Pierre Bocquet-Appel stiamo pensando è di altro genere: una crisi ecologica. La vita in natura non è priva di sussulti. Di fatto, la stabilità è il contrario della vita. Le popolazioni animali e vegetali sono sottoposte ai mutamenti che avvengono ciclicamente nell'ambiente fisico. In generale si tratta di fluttuazioni lievi, ma a volte si verificano lunghi periodi di siccità e di caldo, oppure vari anni di inverni particolarmente lunghi e freddi. In circostanze eccezionali tali crisi possono essere più estese o più marcate. Poco tempo fa, in Spagna si è avuto un ciclo di numerosi anni secchi che ha destato serie preoccupazioni. Le popolazioni animali sono molto sensibili a tali oscillazioni ambientali, e le loro dimensioni si riducono nelle epoche di penuria per aumentare in quelle di abbondanza. Questi bruschi 188
cambiamenti nella presenza numerica dei predatori e delle loro prede è qualcosa che ci è noto dagli inizi dell'ecologia come disciplina scientifica. Quando la crisi è molto grave, nella regione colpita tutto muore: piante, erbivori, carnivori e anche gli umani. Sappiamo, tramite gli studi etnografici realizzati su popoli di moderni cacciatori e raccoglitori, quali sofferenze siano indotte da tali calamità: l'economia non produttiva è alla mercé delle disponibilità dell'ambiente e deve adattarsi a ciò di cui dispone. Ma i gruppi umani non aspettano passivamente che la crisi passi. Si spostano alla ricerca di aree più favorevoli. Lungo il percorso restano i membri più deboli e meno mobili: bambini, anziani, malati, invalidi. Avviene così una selezione per età: gli adolescenti e i giovani adulti resistono in maggior numero. Qualcosa di simile accadde 300.000 anni fa nella Meseta, e forse anche nella depressione dell'Ebro e in altre regioni vicine all'interno della penisola. I gruppi umani si misero in marcia cercando terre più favorevoli. Grazie alle sue peculiari caratteristiche ecologiche e geografiche - che ho riferito in un altro punto del libro - la Sierra de Atapuerca costituiva uno di questi rifugi. I giacimenti scavati in numerose caverne testimoniano della continuità della presenza umana sulla Sierra nel corso dell'ultimo milione di anni, almeno. Alcuni individui, i più forti, riuscirono ad arrivare sino alla montagna rifugio dopo aver lasciato lungo il percorso molti loro compagni. Una volta giunti sulla Sierra la penuria e la mortalità continuarono o semplicemente molti individui vi giunsero così deboli che non resistettero per molto tempo. I fortunati superstiti cercarono un luogo nascosto dove accumulare i cadaveri dei compagni, per metterli al riparo dai necrofagi. Lo trovarono in una caverna cui si accedeva attraverso una piccola apertura. La caverna era grande, ma non era mai stata occupata dagli umani data l'angustia dell'accesso e la scarsa luce all'interno, anche se gli orsi la utilizzavano anno dopo anno per andare in letargo. In un angolo della caverna, non lontano dal1'entrata, c'era una misteriosa cavità, di cui, dall'imboccatura, non si riusciva a vedere il fondo. Qui lasciarono cadere i corpi dei loro congiunti, in quella che costituisce la prima testimonianza di una pratica funeraria. Passata la crisi, le popolazioni umane e animali si riebbero. Tutto continuò come era sempre stato nei territori interni della penisola. Ma in una caverna di una certa Sima burgalese restarono i cadaveri di almeno trentadue esseri umani di 300.000 anni orsono. Qualche tempo dopo, l'ingresso della caverna si chiuse per cause naturali. Gli orsi non entrarono più a svernare. Nessuno visitò nuovamente la Sima prima che alcuni umani del ventesimo secolo vi facessero il loro ingresso.
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8.
I figli del fuoco Il filantropo o il saggio devono forse abbandonare i loro sforzi per condurre una vita nobile, dato che il più semplice studio della natura dell'uomo rivela, nelle sue fondamenta, tutte le passioni egoiste e tutti i fieri istinti di un semplice quadrupede? L'amore di una madre è forse infame poiché lo dimostra una gallina, o la fedeltà è forse un sentimento basso visto che è tipico di un cane? T.H. Huxley, Il posto dell'uomo nella natura
La mente del criceto I miei figli possiedono un criceto che, come i suoi genitori, è nato in gabbia. È un animale domestico da molte generazioni e non sarebbe in grado di sopravvivere in natura. Non conserva neppure il colore originale della specie: è bianco (o meglio, albino), un colore molto vistoso che attirerebbe immediatamente i suoi predatori naturali. Quando i miei figli lo nutrono con un pugno di semi, se li mette rapidamente in bocca, ma non li inghiotte, stipandoli in certe borse naturali chiamate tasche boccali, che sono pieghe cutanee presenti nella parte anteriore delle guance. (Il primo giorno in cui hanno dato da mangiare al criceto, che avevamo portato a casa già adulto, i bambini mi hanno chiamato allarmati perché credevano fosse molto malato, tanto era gonfio ai lati del collo a causa dei semi che aveva immagazzinato nelle tasche boccali.) Poi, il criceto si dirige verso l'altra estremità della piccola gabbia, dove si è fatto un groviglio di paglia, che costituisce la sua tana. Qui espelle i semi e, se ha fame, comincia a mangiarseli. Con il suo strano comportamento, il mio criceto domestico (ma non addomesticato) riproduce quello dei suoi antenati del.le steppe dell'Europa centrale e orientale. Nei paesaggi aperti un criceto che si nutre nella notte di sementi di graminacee corre il rischio di finire nella pancia di un gufo. Per ridurre al minimo il tempo di esposizione al pericolo, il criceto selvatico riempie il più in fretta possibile la sua "borsa della spesa", le tasche boccali, e corre a rifugiarsi nella sua tana sotterranea, al riparo dai predatori; nella sua dispensa sotto terra accumula anche cibo di riserva. Nella gabbia in cui vive, il nostro criceto non può certo scavare la base metallica, ma può simulare una caverna con quello che ha a disposizione. Benché in cattività non dovrebbe 190
temere i predatori e dovrebbe aver imparato che il cibo non gli mancherà mai, non mangerà i semi direttamente, ma li trasporterà in un altro luogo, che fungerà da rifugio immaginario, impossibilitato com'è a costruirselo materialmente. Dalle osservazioni fatte, è chiaro che i mammiferi hanno modelli di comportamento programmati geneticamente, come i modelli alimentari dei criceti, cui devono obbedire senza possibilità alcuna di alterarli. Quando lo stimolo si presenta, inevitabilmente scatta la risposta. Per quanto riguarda questi comportamenti, così rigidamente programmati, gli animali sono schiavi dei geni. Ma, guardando da un'altra prospettiva, potremmo affermare che gli animali, come il nostro criceto allevato in casa, nascono sapendo. È chiaro che la condotta del criceto che osserviamo nella gabbia non ha senso nel suo stato attuale di animale domestico, ma è piena di "logica" in natura, dove l'animale fa esattamente quello che bisogna fare per sopravvivere e riprodursi. Proprio per questo la selezione naturale ha favorito tale comportamento, tra i molti altri possibili, esattamente come ha fatto con gli organi del corpo, mentre il colore bianco del nostro criceto non è adattativo, non serve, non è utile in natura (di fatto è pregiudizievole) ed è stato selezionato dall'uomo (certo, a partire da una mutazione naturale e spontanea: l'albinismo). Ma l'importante ora è segnalare che gli animali hanno una conoscenza innata (anche se, certamente, inconsapevole), e che non vengono al mondo assolutamente ignoranti di ciò che vi troveranno; i loro geni, in un certo senso, sono "saggi": in caso contrario, chi avrebbe insegnato a un piccolo criceto a conservare il cibo nelle tasche boccali e a trasportarlo nella tana? In un altro punto ho fatto riferimento a stimoli scatenanti che operano anche su noi umani quando, a proposito di ciò che l'aspetto fisico dei Cro-Magnon poteva suggerire ai Neandertaliani, ho sottolineato come la testa rotonda e sproporzionatamente grande rispetto al corpo, una fronte alta e bombata su di una f9-ccia piccola e piatta, o delle guanciotte piene producono in noi sentimenti di protezione, vediamo questi tratti in un bambino sia che li osserviamo, molto esasperati, in Bambi. Poiché gli umani sono primati, e pertanto animali essenzialmente visivi, è più facile trovare esempi di stimoli scatenanti in campo visivo, anche se ne esistono pure per gli altri sensi. In numerosi animali, com'è rioto, gli stimoli olfattivi sono molto importanti. Quando in aula spiego che vi sono stimoli che producono in noi reazioni innate, disegno sulla lavagna due cerchi: all'interno di ognuno traccio due punti e, al di sotto, un arco aperto verso l'alto in un cerchio, e un altro arco aperto verso il basso nell'altro cerchio. In tratti così semplici, tutti gli studenti identificano una faccia sorridente e una triste (la disciplina che insegno è paleon191
tologia umana, ma come si può vedere a noi paleoantropologi non interessano soltanto i fossili...). È chiaro che il comportamento degli animali non solo corrisponde all'eredità genetica ricevuta, ma è dovuto anche al fatto che, nel corso della loro vita, accumulano informazioni, imparano, soprattutto quelli che possiedono un sistema nervoso centrale più sviluppato: i mammiferi. Pertanto vi sono due tipi di conoscenza: quella filogenetica, accumulata nel corso dell'evoluzione (e inscritta nei geni), e quella ontogenetica, che l'animale acquisisce durante la vita(~ che noi trasmettiamo, grazie al linguaggio, mediante la cultura). Le buone e le cattive esperienze della vita si associano sempre a determinati luoghi, oggetti (animati o inerti) e circostanze, e restano incise per sempre. Chi non ricorda i profumi dell'infanzia? Precisamente su questo si basano i famosi esperimenti condotti all'inizio del ventesimo secolo dal ricercatore russo Ivan Pavlov. Gli esperimenti di Pavlov consistevano nell'associare all'offerta di cibo un suono: i cani sottoposti a questo trattamento finivano con il produrre al semplice suono di una campanella un'abbondante salivazione: si era stabilito un riflesso condizionato, basato sull'associazione e su di un'esperienza positiva. Analogamente, tramite un condizionamento negativo, un cane può giungere a temere la frusta soltanto vedendola. A tutti è capitato di vedere un cane domestico che indovina, quasi miracolosamente, quando lo porteranno fuori grazie a determinati gesti che il suo padrone ha compiuto in precedenza (e sempre): il più ovvio, indubbiamente, è quello di prendere il guinzaglio. Che sveglio è questo animale! pensiamo allora. Si osservi che, nel caso dei cani di Pavlov, l'associazione si stabilisce tra il cibo e un segnale (il suono della campana), neutro e totalmente arbitrario, che non ha alcuna relazione diretta con il cibo, salvo la sua simultanea comparsa (l'associazione pertanto si produce nel tempo). Il riflesso condizionato avrebbe potuto instaurarsi egualmente con un grande cartello su cui fosse stata scritta la parola cibo, senza che ciò significhi che il cane sa leggere; tornerò più avanti su questo tema. Ma c'è qualcosa di più. Sia la conoscenza innata sia il riflesso condizionato trasformano gli animali in puri automi, che reagiscono di fronte a uno stimolo che si presenta nel loro ambiente, sia che la risposta sia innata sia che sia stata appresa per associazione (condizionata positivamente o negativamente). Si suole affermare che l'uomo è l'unico animale che uccide per piacere, mentre persino i più feroci carnivori lo fanno soltanto per nutrirsi e, pertanto, sono più rispettosi della vita. In realtà, questo non è propriamente vero. Anche i carnivori éacciano, pur se non hanno fame, come può dimostrare chiunque abbia un gatto do192
mestico. È palese che i micini non possono evitare di tendere agguati a qualsiasi cosa si muova, cui si avvicinano con circospezione per poi saltarle addosso; se non trovano nessun essere vivente con il quale "giocare alla caccia" lo faranno con un gomitolo. Si potrebbe sostenere che i gatti uccidono per fame, ma cacciano per "piacere" (il piacere è un sentimento umano e per questo lo metto tra virgolette). Il fatto è che, per vivere felici, i gatti devono sviluppare il comportamento da cacciatori un determinato numero di volte al giorno, anche se sono sazi. In base a queste semplici osservazioni, sembra che il comportamento degli animali non solo sia reattivo di fronte a stimoli esterni, ma risponda anche a meccanismi interni, endogeni, chiamati dagli etologi pulsioni o impulsi. Così, il comportamento animale non sempre è riflesso, può anche essere spontaneo, vale a dire stimolato "dall'interno". Tali pulsioni di origine interna producono negli animali stati fisiologici che potremmo chiamare (un po' indebitamente) "stati d'animo", che creano in loro tensioni e li spingono a cercare (attivamente) gli stimoli che scatenano un determinato comportamento e permettono che la tensione si allenti. Quanto più tempo è trascorso dall'ultima volta che si è realizzato il comportamento in questione, tanto maggiore sarà la tensione, e più debole lo stimolo scatenante necessario, fino al punto che il comportamento può arrivare a scatenarsi senza che vi sia alcuno stimolo reale, vale a dire, a vuoto. Alcune volte la base fisiologica degli impulsi è chiara, lo è per esempio nel caso di determinati ormoni per le pulsioni sessuali. Altre volte non lo è. · A questo si riferiva Konrad Lorenz quando scrisse il libro Il cosiddetto male, che sollevò reazioni negative in vasti settori del mondo della psicologia, della sociologia e della pedagogia (fondamentalmente da parte di persone che non si presero il disturbo di leggere il libro). In realtà la reazione fu sproporzionata. J;esistenza di impulsi, compresi quelli aggressivi, è la norma negli animali, ma è normale anche l'esistenza di stimoli inibitori dell'aggressività e, d'altro canto, quest'ultima può essere orientata. Confesso la mia ammirazione per Konrad Lorenz: in questi tempi moderni di strumenti di laboratorio sofisticati e costosissimi, non è proprio una cosa da niente vincere il premio Nobel osservando oche e gracchi nel giardino di casa! Tornando al nostro argomento, il comportamento animale si può spiegare mediante un gioco di pulsioni e comportamenti riflessi (innati o acquisiti). Non sembra che qui vi sia molto spazio per la coscienza e, a mio parere, negli animali non esiste niente di simile alla coscienza umana. Per la verità, e poiché non c'è modo di comunicare con gli animali e interrogarli su che cosa accade all'interno della loro testa, è impossibile sapere in modo diretto se possiedano un qualche grado di coscienza. Per questo 193
lapproccio con cui affronto il problema è basato sulla possibilità di spiegare il comportamento animale senza ricorrere necessariamente alla coscienza. Se ciò darà esito positivo, come credo, sarà meglio non attribuire loro niente che non sia necessario mettere in campo. Un altro modo di affrontare la questione è di compiere un'indagine basata sull'introspezione e attribuire agli animali qualcuno dei differenti stadi che osserviamo nella nostra mente. Per esempio, Stephen Toulmin distingue tra sensibilità, attenzione e articolazione, e ognuno di questi stadi può essere cosciente o incosciente. Sensibilità incosciente è quella di un soggetto che dorme, mentre sensibilità cosciente è tipica dello stato di veglia, durante il quale, tramite i sensi, si ricevono stimoli esterni. I.:attenzione cosciente equivale all'atto di guidare un'automobile, rendendosi ·conto di ciò che accade sulla strada, mentre l'attenzione incosciente corrisponde all'atto di guidare pensando ad altro o parlando, ossia con inserito il "pilota automatico"; potremmo utilizzare questa espressione anche per riferirci al modo in cui, secondo Steven Mithen, gli umani arcaici (vale a dire non della nostra specie) costruivano arnesi. Nello schema di Toulmin, articolazione cosciente è quella del comportamento che obbedisce a piani stabiliti (che si possono narrare), mentre quella incosciente sarebbe relativa a un'attività che non possiede una motivazione chiara. È difficile ammettere che gli animali, umani compresi quando si tratta di bambini molto piccoli - prima di cominciare a parlare-, vadano molto oltre la sensibilità cosciente o, al massimo, l'attenzione incosciente. Gli animali non sono in grado di fare piani a lungo termine, né di osservare se stessi, giacché in questo, tra le altre cose, consiste la coscienza umana. Sono certo che gli animali abbiano - oltre alla sensibilità - desideri e conoscenza, quindi sappiano e desiderino, ma non sembrano capaci di analizzare i propri desideri e le proprie conoscenze: non sanno ciò che sanno né sanno ciò che vogliono, perché manca loro il "terzo occhio", quello che guarda verso l'interno. La coscienza umana si volge anche su se stessa, ed è così che siamo coscienti di avere una coscienza e ci mettiamo a filosofarci sopra. Come siamo soli al mondo in questi frangenti di riflessione filosofica! Il mio unico dubbio, ed è un interrogativo non da poco, riguarda gli scimpanzé, che dimostrano di essere molto prossimi all'aver raggiunto un'ombra, certo assai limitata, di còscienza di se stessi, probabilmente la stessa posseduta dall'antenato comune a loro e a noi, 5 o al massimo 6 milioni di anni fa. Una serie di esperimenti iniziati da Gordon Gallup sembrava aver dimostrato che gli scimpanzé riconoscono la prqpria immagine in uno specchio, cosa che non accade agli altri animali, a eccezione degli orangutan e di qualche gorilla (ma, a quanto pare, non a tutti). 194
Gli esperimenti consistono nel praticare un segno di vernice sulla testa (fronte, orecchie) di uno scimpanzé anestetizzato e poi metterlo davanti a uno specchio; l'animale si porta una mano al segno (che può vedere soltanto riflesso e non direttamente) per toccarlo, il che forse sta a indicare che sa perfettamente chi è l'animale riflesso nello specchio: lui stesso. Benché sembri soltanto una curiosità senza grande valore scientifico, quasi un gioco, questi semplici esperimenti potrebbero rivelare l'esistenza tra gli scimpanzé, e presumibilmente anche nei primi ominidi, di autocoscienza. In loro esisterebbe già l'Io. Di fatto vi è chi ritiene che la coscienza di sé potrebbe essersi evoluta come un meccanismo di grande utilità sul terreno del comportamento sociale, poiché per immaginare che cosa farà l'altro, e per prepararvisi, la cosa migliore è mettersi nei suoi panni, ossia chiedersi: che cosa farei io al suo posto? Se questo è vero, gli scimpanzé sarebbero in grado di rappresentare la mente di altri individui nella propria mente, qualcosa di semplicemente prodigioso. Ciò nonostante, bisogna ammettere che l'esperimento dello specchio ammette altre interpretazioni più sofisticate, come osserva Euan Macphail, per esempio quella secondo la quale lo scimpanzé usa lo specchio soltanto per guidare la propria mano sulla macchia di vernice situata sul corpo di uno scimpanzé che vede nello specchio, e che forse non sa che è proprio lui. Il fatto che vi siano interminabili discussioni sulla possibilità che gli scimpanzé presentino questa o quella manifestazione della coscienza, a mio parere, costituisce la prova definitiva del fatto che si collocano al confine tra l'elemento animale (istintivo) e l'elemento umano (la coscienza piena). Numerose persone mi chiedono perché gli scimpanzé non hanno proceduto oltre (non "si sono evoluti di più", mi chiedono di solito) e non abbiano varcato decisamente la soglia della coscienza, invece di restare allo "stadio di scimmia". La risposta è, da un lato, che i nostri antenati impiegarono vari milioni di anni, sino alla comparsa di Homo ergaster, per compiere questo grande passo; dall'altro che l'encefalizzazione è solo uno dei percorsi che può imboccare l'evoluzione, e gli scimpanzé hanno seguito un altro istinto; hanno continuato a evolversi, ma non in direzione di una maggiore encefalizzazione.
Descartes versus Wittgenstein Sin qui abbiamo tentato di vedere com'è la mente degli animali, ammesso che l'abbiano, anche se in realtà l'unica cosa che sappiamo è come non è: una mente umana. I:assenza di linguag195
gio negli animali fa sì che non possiamo leggere nella loro mente, che risulta completamente opaca ai nostri occhi. In cambio, leggiamo continuamente la mente degli altri umani, che ci appare trasparente. In tal modo, sappiamo a cosa attenerci rispetto al prossimo, ci rapportiamo gli uni agli altri e facciamo i nostri interessi che non sempre hanno buon esito, perché l'unica mente che conosciamo davvero è la nostra. René Descartes fece di tale conoscenza, vale a dire dell'esistenza della propria mente, la base della sua filosofia. Possiamo dubitare di tutto il resto, ma il suo cogito ergo sum - penso dunque sono - ci dà una certezza cui aggrapparci, a partire dalla quale è possibile dedurre altre verità: secondo Descartes, e in questo ordine, Dio e il mondo. Però, diceva, vi sono due tipi di mondo, uno esterno e l'altro interno. L'essenza del mondo int.erno è il pensiero o conoscenza. Secondo Descartes, il corpo umano è una macchina animata (vale a dire come quella degli animali), nella quale si installa l'anima immortale per costituire una coppia come quella del capitano e della sua imbarcazione. Descartes non credeva che gli animali avessero l'anima; si è sostenuto che con questa tesi tentava di giustificare la sperimentazione con animali vivi, che egli praticava a fini scientifici. L'importanza attuale della dottrina di Descartes è che tramite il dualismo anima/corpo giungeva a un'interpretazione della coscienza che in sostanza è quella dell'homunculus, l'omino pensante che assiste a una specie di rappresentazione teatrale all'interno del cranio: gli oggetti e gli eventi del mondo esterno sono rappresentati sulla scena (nella versione moderna di questa "teoria rappresentazionale" della mente, l'homunculus guarda la televisione). Certo, a dar retta a Sigmund Freud, ci sarebbe anche un altro homunculus, il subconscio, chiuso in un armadio. Tuttavia non vi è un animalunculus all'interno degli animali; non è che non sono coscienti di assistere a una rappresentazione teatrale, è che non vi è spettatore alcuno e neppure teatro: di conseguenza, gli animali mancherebbero sia di autocoscienza sia di coscienza percettiva, sarebbero macchine biologiche. Pur dispiacendoci molto per i proprietari di gatti e cani, non sembra che questi animali possiedano autocoscienza, vale a dire coscienza di sé, né che possiedano coscienza percettiva, cioè la capacità di rappresentarsi interiormente il mondo. Ciò npnostante, tutti o la maggior parte dei primati detti "superiori" (o meglio scimmie o antropoidi), che sono gli animali con il cervello più simile al nostro, potrebbero almeno possedere la coscienza visiva. Vi è un dato che fa propendere in questo senso: più del SO per cento dei neuroni e dello spazio del loro cervello è utilizzato per elaborare informazione visiva, un compito a quanto pare per nulla semplice. I computer più grandi, che sembrano tan196
to intelligenti quando fanno calcoli, si dimostrano assai poco capaci al momento di riconoscere e distinguere immagini. Una scimmia, invece, non può permettersi il lusso di confondere un frutto acerbo con uno maturo. E abbiamo già detto che forse i nostri fratelli scimpanzé possiedono autocoscienza. Naturalmente, nulla di quanto detto giustifica la tortura di animali, neppure a fini di sperimentazione, salvo che questa rivesta importanza estrema per salvare vite umane, senza dubbio un bene superiore. Si è discusso molto partendo da Descartes se gli animali possiedano o meno "coscienza sensibile" o, in altre parole, se sentano il dolore. Quando un cane toglie la zampa dal fuoco che la ustiona e al tempo stesso urla, sente dawero il dolore o semplicemente è preprogrammato per allontanare il proprio corpo da ciò che ustiona e anche per awertire gli altri (soprattutto i suoi simili) del pericolo? È evidente che questi comportamenti migliorano l'efficàcia biologica dell'individuo e dei suoi geni, per cui il quesito non è così assurdo come potrebbe sembrare. Non vi è alcuna forma diretta per sapere ciò che sentono dentro gli animali, neppure se sentono qualcosa. Nella concezione meccanicistica di Descartes la risposta è negativa, ma credo che possiamo trovare una risposta affermativa nella logica dell' evoluzione, poiché sembra più adattativo sentire il dolore che non sentirlo. Il dolore è un'esperienza soggettiva intensa che ci costringe a concentrarci su qualcosa di più urgente, e lasciare da parte tutto il resto. Ciò. che caratterizza il dolore è la sua perentorietà. Come ha detto qualcuno, quando soffriamo per una carie dolorosa, tutta l'anima entra nel buco del molare. Una sensazione del genere sembra un buon meccanismo per reagire di fronte al pericolo e anche per imparare dall'esperienza, perché lascia per sempre un ricordo penetrante associato alla circostanza che lo ha provocato. Quindi si può presumere che molti animali, specialmente mammiferi, abbiano una "coscienza sensibile" (o sensibilità cosciente, secondo la menzionata classificazione di Toulmin). Un altro problema ancor più evitato riguarda la qualità del vissuto del dolore nei mammiferi, vale a dire se oltre alla sensibilità hanno sentimenti duraturi di angoscia, paura, frustrazione, depressione; ossia se sperimentano la sofferenza e, perché no, anche la speranza e la felicità. Alcuni animali vanno oltre il dolore e il piacere del momento? I mammiferi, soprattutto i primati, mostrano chiaramente espressioni che in noi traducono tali sentimenti di sofferenza e felicità, ma di nuovo ci tormenta il dubbio: quando il nostro cane si avvicina a noi scodinzolando, prova dawero gioia, o semplicemente questo comportamento tanto amichevole è stato selezionato nei suoi antenati lupi perché tale atteggiamento nei confronti del capo è utile e porta benefici? Scelgo la 197
prima alternativa, ma non posso evitare di convenire di nuovo con Descartes, al quale sembravano molto incoerenti le persone convinte che il loro amato e familiare cane avesse un'"anima" e subito dopo divoravano tranquillamente un agnello. Descartes era un filosofo francese vissuto tra il 1596 e il 1650, ma si può rinvenire un parziale antecedente della sua concezione della mente umana nel filosofo ateniese Platone (427-347 a.C.). Secondo Platone, l'anima, prima di incarnarsi nel corpo, aveva abitato con gli dèi nel paradiso delle idee pure. In questo mondo materiale dove in seguito era andata a fermarsi non vi sono tali idee pure e fisse, ma soltanto cose mutevoli. Il motivo per cui siamo capaci di usare concetti è che gli oggetti che vediamo e tocchiamo ci ricordano le idee pure che un tempo, nell'altra vita, abbiamo conosciuto e delle quali non sono altro che ombre. Solo così, secondo Platone, possiamo intendere il fatto che possediamo la capacità di stabilire categorie che, in quanto tali, non stanno in nessuna parte del mondo che definiamo reale. Nessuno ha mai visto l'Albero, come idea, bensì numerose piante grandi che raggruppiamo sotto questo nome. Né tantomeno è stato dato a qualcuno di contemplare con i propri occhi mortali gli "ideali": la Giustizia, la Bellezza, la Sapienza, l'Amore. Secondo Descartes le idee sono prodotte dall'anima, mentre secondo Platone l'anima si limita a ricordarle. Il risultato, da entrambi i punti di vista, è che, pensando, la mente (l'anima) maneggia idee, che ricorda o che produce, ma che in ogni caso esprime mediante parole quando intende rivolgersi a un'altra mente. Soltanto il linguaggio è lo strumento che rende possibile la migrazione delle idee da una mente all'altra: è il loro veicolo. Allora si può fare una distinzione tra il significato e il significante (il portatore di significato). Le parole sono i significanti e il significato è il concetto che si intende esprimere. Una persona (forse sarebbe meglio dire un homunculus) che parla più di una lingua può scegliere diverse parole per rivestire con esse l'idea che intende trasmettere. Vi sono molti argomenti che rendono affascinante tale dualismo mente/corpo. Il primo è che lo percepiamo così: nessuno crede che perdere una gamba, e persino l'uso della parola abbia come effetto la benché minima diminuzione della personalità di un individuo (anche se soffre di una mutilazione della sua persona). In secondo luogo, alcuni linguisti prestigiosi, come il più famoso di tutti, lo statunitense Noam Chomsky, ritengono che nasciamo con un dispositivo specificamente destinato all'acquisizione del linguaggio, come se si trattasse di uno strumento periferico al servizio dell'espressione della mente. In terzo luogo, risulta che vi siano due aree nell'emisfero sinistro del cervello, chiamate area di Broca e area di Wemicke, che, se lesionate, 198
producono grandi difficoltà a parlare nel primo caso, e a comprendere il linguaggio, anche in assenza di problemi di udito, nel secondo: le parole sono udite perfettamente, ma risultano prive di significato. Tale localizzazione del linguaggio in regioni concrete del cervello sembra avallare l'idea che si tratti di una facoltà accessoria, che potrebbe persino corrispondere a determinate strutture nervose (una specie di "organo del linguaggio"), mentre la mente non ha sede in alcuna regione concreta del cervello, anzi, interessa il funzionamento generale delle sue diverse parti. Jerry Fodor, un influente psicologo contemporaneo, propone una suddivisione della mente in percezione e cognizione. La percezione si ottiene tramite una serie di moduli, indipendenti tra loro e innati: si nasce con questi già più o meno preparati. Fodor, seguendo Chomsk:y, include in queste categoria il linguaggio. La cognizione, invece, avviene in un sistema centrale che realizza le operazioni mentali che comunemente chiamiamo pensiero. Tale sistema centrale è inaccessibile all'indagine e permane misterioso. :Lanalogia con i computer fornisce una versione decisamente moderna, e non religiosa, della concezione cartesiana della mente. La capacità di esprimersi tramite il linguaggib può essere intesa risiedere in un modulo fisicamente reale, situato in un qualche luogo della "pancia" del computer e che è preprogrammato quando nasciamo. Si riempie così di contenuto l'apprendimento del lessico (dizionario) di una lingua, ma le regole di base del suo funzionamento, la sintassi, fanno parte del "cablaggio" del dispositivo (i circuiti integrati del computer). Se questo è vero, un giorno si riuscirà a conoscere la grammatica universale comune a tutte le lingue, anche se, per la verità, per ora non si sono compiuti progressi convincenti in questo campo. Posto che la sua funzione sia quella di metterci in contatto con gli altri umani, potremmo assimilare il dispositivo dell'acquisizione del linguaggio (!'"organo del linguaggio") agli altri moduli relazionali periferici: gli organi dei sensi. La mente, invece, non corrisponde esattamente ad alcuna strutttira materiale, perché è la programmazione del computer, il complesso di istruzioni che fa sì che funzioni ed elabori dati. Il livello inferiore della programmazione di un computer digitale è il codice-macchina, un sistema binario che funziona soltanto con due alternative, rappresentate convenzionalmente come O e 1 (oppure on e off). Oltre al codice binario, che è l'unica "lingua" che la macchina comprende, vi è il sistema operativo, che a sua volta supporta le applicazioni di elaborazione testi, trattamento di immagini, programmi di calcolo e persino il software per na199
vigare in Internet. Mediante queste applicazioni, comunichiamo con la macchina. Continuando con l'analogia del computer digitale, tutti sanno parlare, e a un'età molto precoce, mentre le persone non imparano naturalmente la fisica o la matematica. Anzi, queste sono conoscenze che si raggiungono con molta fatica e che richiedono una certa maturità. Di nuovo, è come se le regole elementari della grammatica fossero già contenute nel computer e fossero preprogrammate, vale a dire inscritte fisicamente in determinati circuiti della macchina, mentre il software di scienze o di lettere può essere installato o meno, ma in ogni caso si tratta di informazione (e non di circuiti) che si immagazzina in un altro luogo del computer. Il carattere invisibile, etereo, della programmazione, la sua qualità di informazione allo stato quasi puro, le conferisce un nonsoché di spirituale che rende irresistibile, per alcuni, il paragone con l'informatica. Non è una cosa da niente: scienza e magia al tempo stesso, la nuova religione del ventunesimo secolo. C'è chi aspira a viaggiare nello spazio sotto forma di byte; personalmente mi sento troppo terreno per farmi mettere in un dischetto. In ogni modo la cosa non sarebbe così semplice, perché, anche se il programma più elementare mi sconfigge agli scacchi, a furia di elaborare dati, non per questo .rilevo nel computer il più piccolo segno di riflessione. Neppure Deep Blue, la macchina che dicono abbia sbaragliato Kasparov, il campione degli umani, mi fa impressione. Sinceramente attribuisco maggiore talento a una formica. Si arriverà un giorno a creare una macchina cosciente? E, in tal caso, avrà anche sentimenti umani? Si tratta di un vecchio sogno, o incubo, dell'umanità. Alcuni sostengono che presto diventerà realtà, ma io non ci credo. Vi è una forma radicalmente diversa di affrontare il dualismo mente/corpo, che affonda le proprie radici nella visione del mondo del filosofo viennese Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e dei suoi seguaci, in special modo Gilbert Ryle. Consiste semplicemente nel negare l'esistenza della mente individuale, considerata un mito non necessario, risultato della reificazione (trasformazione in una cosa) di ciò che altro non è se non concetto. Posto che agiamo coscientemente, avremmo commesso l'errore di credere che sin dalla nascita stessa esista un'entità reale, che sarebbe la fonte di tale comportamento, che chiamiamo coscienza. Ma, se non esiste la mente, chi o che cosa realizza le operazioni mentali? Se non c'è un homunculus dentro la nostra testa, chi o che cosa percepisce, conosce, riconosce, ricorda, parla? La risposta è nessuno, o meglio, in un certo modo, tutti i membri di una comunità. La mente, secondo tale impostazione, non è 200
un'entità privata, propria dell'intimo di ciascuno, bensì qualcosa di condiviso socialmente. Siamo noi adulti a infondere la mente nei bambini piccoli e a farla crescere, in definitiva a costruirla. Per far ciò ci serviamo del linguaggio e di una tecnica molto abile: quella di orientare l'attenzione dei bambini su ciò che ci interessa, per manipolare, in tal modo, quello che devono imparare. In poche parole, insegniamo ai bambini a essere umani. Benché i piccoli dei mammiferi, soprattutto quelli dei mammiferi sociali, apprendano dai genitori tramite l'osservazione e l'imitazione e benché, inoltre, vengano corretti quando il loro comportamento non è adeguato, la verità è che negli animali non c'è niente di simile ai metodi di insegnamento che mettiamo in pratica noi umani con i nostri bambini. La conoscenza, in definitiva, si acquisisce tramite l'interazione sociale: l'unica cosa innata è la capacità di acquisirla. Secondo questa scuola, la spiegazione del motivo per cui crediamo nell'esistenza di una mente individuale innata è che assumiamo come processi o operazioni (decidere, capire, percepire, per esempio) ciò che in realtà sono risultati. Il termine "mente" corrisponde a un tipo di comportamento più che a un'entità reale. Se si produce un'operazione è necessario che esista un agente che la porta a termine, ma l'agente è superfluo quando tale processo non esiste. Affermando che un albero è stato visto da qualcuno, stiamo raccontando un risultato, non descrivendo un processo. D'altro canto, un oggetto è percepito come albero quando gli applichiamo un'etichetta, la parola "albero", che la collettività condivide per definire un certo tipo di vegetali. A volte può capitare che non sia chiaro se una pianta è un albero o un arbusto, perché i limiti tra vegetali grandi e medi non sono netti, come lo sarebbero se i nomi non fossero convenzioni sociali, ma corrispondessero alle idee pure di Platone. Un bambino può sbagliarsi e chiamare albero quello che in realtà è una felce: allora viene corretto. In altre parole, una cosa è stata compresa bene, e il significato di qualcosa è stato percepito correttamente, se la società lo sancisce. A questo modo di pensare, nella tradizione del pensiero di Wittgenstein, si conformano le ricerche di William Noble e Iain Davidson sull'origine del linguaggio e della mente nell'evoluzione umana. A loro parere, posto che non vi è mente o coscienza senza linguaggio, bisogna credere che entrambe le cose sorsero contemporaneamente, in un momento che fanno coincidere con la comparsa della nostra specie. Tutti gli altri ominidi, compresi i Neandertaliani e i nostri antenati premodemi, non possederebbero coscienza. Al contrario, dalla prospettiva classica della mente, è dubbio se le possibilità che esista la coscienza prima della comparsa del linguaggio nell'evoluzione umana (sarebbe 201
una coscienza non verbale o "muta"), posto che coscienza e linguaggio siano cose diverse e sino a un certo punto indipendenti. Noble e Davidson giungono ad affermare che la mente individuale e innata è un prodotto della filosofia occidentale e che tale convinzione è sorta in noi solo perché a Descartes è saltato in mente di prospettarla. Io, invece, ritengo che l'idea della mente sia universale e si trovi in tutti gli umani, per cui deve avere una forte componente innata, vale a dire dipendente (in qualche forma sconosciuta) dalla natura e dall'organizzazione della nostra corteccia cerebrale. La relazione tra coscienza e linguaggio è un problema ancor più ostico, però almeno in questo sono d'accordo con Noble e Davidson: posto che la coscienza è così sfuggente e difficile da circoscrivere, perché non ci soffermiamo per un istante sul linguaggio, che è molto meno difficile da delimitare? La loro definizione di linguaggio è semplicissima: qualsiasi sistema di comunicazione mediante simboli. Per precisare che cos'è un simbolo, ci avvarremo della classificazione dei tipi di segni di Charles Peirce. Secondo questo autore classico, un segno è semplicemente una cosa che rappresenta un'altra cosa. I segni si dividono in tre categorie: icone, indizi e simboli. Le icone si collegano al loro referente tramite la somiglianza. I.:esempio più ovvio è un disegno che, benché possa essere più o meno dettagliato, possiede sempre qualche caratteristica in comune con ciò che si intende rappresentare. Anche una mappa potrebbe essere considerata un'icona, e nel campo di un altro senso, l'udito, sono icone le parole onomatopeiche, che imitano il suono delle cose dette per loro tramite. Gli indizi non assomigliano ai loro referenti, ma sono in una relazione causale: sono prodotti da ciò che rappresentano e sono delimitati dalle loro caratteristiche, come il fumo rispetto al fuoco. Equivalgono ai sintomi o indizi ricercati da Sherlock Holmes per risolvere i suoi casi. Infine i simboli sono totalmente arbitrari e non hanno alcuna somiglianza né possono essere messi in alcun modo in relazione con il loro referente. Le parole del linguaggio orale e del linguaggio scritto sono simboli, come i gesti del linguaggio in codice dei sordomuti, anch'essi convenzionali e arbitrari. Il sistema morse del telegrafo è la quintessenza del simbolico: tramite punti e trattini (impulsi brevi e lunghi) vengono trasmesse lettere e parole; per comprendere il messaggio bisogna conoscere due linguaggi: morse e inglese oppure morse e la propria lingua. A volte usiamo anche icone per comunicare tra noi, in alcuni segnali riguardanti il traffico per esempio (altri sono del tutto arbitrari, vale a dire, simboli puri). Inoltre le icone possono funzionare come simboli. Un cuore dipinto, in linea di principio, rappresenta un organo del corpo, ma può anche significare amore. A volte un simbolo si costruisce basandosi sulla rappresenta202
zione di vari oggetti diversi messi assieme: in Occidente, una donna con gli occhi bendati e una bilancia simbolizza la giustizia. Mentre le icone e gli indizi sono compresi universalmente, i simboli, in ragione del loro carattere arbitrario, hanno senso soltanto all'interno di una comunità che parla una lingua determinata, e che possiede la convenzione (il tacito accordo) di esprimere l'idea di giustizia tramite una donna con gli occhi bendati e una bilancia; un altro esempio potrebbe essere l'uso di manifestare il lutto con il colore nero. Gli animali domestici possono giungere, tramite l'addestramento, a reagire in maniera costante e prevedibile in presenza di segni prodotti dagli umani, come il cane di Pavlov, ma ciò non significa che li comprendano. Di fatto, è indifferente che si tratti di icone, indizi o simboli. Semplicemente hanno stabilito un'associazione, tramite l'esperienza e il condizionamento (positivo o negativo). Anche se un cane si siede quando glielo ordina il suo padrone, è assurdo credere che comprenda il linguaggio umano. In ogni caso, quel che è certo è che gli animali non comunicano tra loro mediante simboli. Né sono capaci di capire il significato degli indizi più semplici, neppure per usarlo nella comunicazione interindividuale. Mi piacerebbe a questo punto portare un esempio particolarmente rilevante in relazione all;:i. vita dei nostri antenati. Secondo il dizionario della Real Academia, un indizio è "un fenomeno che consente di conoscere o inferire l'esistenza di qualcos'altro non percepito". Dunque tutti i predatori localizzano le loro prede, e queste i loro cacciatori, tramite i sensi: la vista, l'olfatto e l'udito. In tal modo gli animali si identificano reciprocamente mediante la forma, l'odore, il suono. Il rumore, per così dire, è un indizio della presenza dell'animale che lo produce; l'odore e la forma sono attributi che si possono benissimo percepire. Poiché l'odore permane dopo che il corpo è passato, i predatori possono seguire la traccia tramite l'olfatto. Tuttavia nessuno è in grado di riconoscere, distinguere e seguire gli animali dalle orme. Nel mondo ferino non vi è alcun Sherlock Holmes. Ancora una volta il dubbio sorge riguardo agli scimpanzé. Alcuni esemplari sono stati "istruiti" nell'uso del linguaggio. Dato che non sono capaci di comunicare oralmente (per la fisiologia dell'apparato fonatoriq che vedremo immediatamente), è stato mostrato loro come farlo nel linguaggio dei simboli gestuali dei sordomuti, o con una speciale tastiera di computer. Gli scimpanzé imparano a utilizzare correttamente parole singole o raggruppate a coppie, più raramente unite a tre a tre, ma sino a che punto le comprendono? Sono stati istruiti o semplicemente ammaestrati? Alcuni scimpanzé sono riusciti a padroneggiare un ami;>io vocabolario di più di 150 parole o segni. Per "padroneg203
giare" intendo che li utilizzano in contesti adeguati e rispondono a ciò che si chiede loro tramite tali vocaboli. Benché si possa discutere sul fatto che ne captino o meno il significato (la semantica), sembrano molto impacciati al momento di maneggiare l'ordine delle parole nelle frasi (la grammatica), cosa altrettanto importante per comunicare: gli scimpanzé fanno molta fatica a capire che non è la stessa cosa chiedere loro "metti la tazza sul piatto" che "metti il piatto sulla tazza". Un bambino piccolo, invece, assimila rapidamente le regole elementari del linguaggio quale, nella nostra lingua, la struttura soggetto/verbo/predicato. Ero piuttosto scettico rispetto alle capacità simboliche e linguistiche (seppure elementari) degli scimpanzé sino a che, poco tempo fa, ho avuto l'opportunità di vedere un documentario che narrava la vita della scimpanzé Washoe. Anni orsono, questo animale, oso appena chiamare in tal modo una creatura così famosa, ha meravigliato il mondo intero con gli incredibili risultati degli studi pionieristici sulla psicologia degli scimpanzé condotti dai coniugi Allen e Beatrice Gardner. In un periodo successivo della sua lunga e assai spesso deprimente vita, Washoe ebbe un cucciolo, che si ammalò; coloro che si occupavano di lei, glielo presero per curarlo, ma il cucciolo morì e non le fu più restituito. In seguito, ogni volta che lo psicologo che lavorava con lei si avvicinava alla sua gabbia, Washoe ripeteva insistentemente due segni: portare piccolo, portare piccolo.
Darwin versus Wallace \
Manca ancora un modello che serva a spiegare come comparvero nell'evoluzione umana queste due cose: la coscienza e il linguaggio (separati o insieme). Quando mi chiedo il come, mi riferisco a quale tipo di meccanismo ha reso possibile la nostra conversione in creature così radicalmente diverse da tutte le altre. Charles Darwin e Alfred Russell Wallace, i due scopritori della teoria dell'evoluzione tramite la selezione naturale, dissentivano profondamente su questo punto. Secondo Darwin, l'evoluzione della mente umana non differiva sostanzialmente dall' evoluzione del corpo. Per questo motivo era un processo lento e continuo, un avanzare per piccoli passi e molto tempo al fine di percorrere il lungo cammino evolutivo che separa la scimmia dall'uomo. Lo affermò chiaramente nell'unico riferimento all'origine dell'uomo che si trova alla fine della sua celebre opera L'origine delle specie: "Nel remoto futuro vedo campi aperti a ricerche di gran lunga più importanti. La psicologia poggerà su nuove fondazioni, ossia sulla necessaria acquisizione di ciascuna capa204
cità e facoltà mentale per gradi successivi. Si farà luce sull'origine dell'uomo e sulla sua storia". Wallace, invece, semplicemente non riusciva ad ammettere che le facoltà intellettuali e morali dell'uomo, così elevate, fossero un prodotto dell'evoluzione graduale né che siamo diventati umani a poco a poco: egli vedeva un unico, grande salto qualitativo, che non poteva essere spiegato con una lenta accumulazione di molteplici piccoli cambiamenti. Wallace pensava a una causa soprannaturale. Ian Tattersall, un importante paleoantropologo e mio buon amico, ritiene che sia Darwin sia Wallace avessero parzialmente ragione. Secondo Tattersall, quello che è stato sovente chiamato l'emergere delle capacità cognitive umane è, precisamente, un buon esempio di ciò che nella teoria dei sistemi è noto come proprietà emergente. Il funzionamento di un sistema, le sue proprietà, risultano dagli elementi che lo compongono e dal modo in cui si rapportano tra loro. Una riorganizzazione mai sperimentata prima degli elementi del sistema può dar luogo a una proprietà assolutamente rivoluzionaria e radicalmente diversa dello stesso: una proprietà emergente. È scienza e non magia, ma assomiglia molto a un miracolo. In un sistema biologico, come un organismo vivente, gli elementi possono essere identificati come le differenti caratteristiche riconoscibili. Tradizior;talmente, ogni caratteristica cui si può assegnare una funzione si denomina adattamento. A volte si è riusciti a dimostrare che una caratteristica che era in relazione con una determinata funzione al momento della sua comparsa, è passata a svolgere un'altra funzione diversa nel corso dell'evoluzione di un gruppo determinato: allora si parla di preadattamento. Un esempio potrebbe essere quello delle penne, che a quanto pare spuntarono in un gruppo di dinosauri cui fornivano un rivestimento isolante per il corpo (le penne, com'è noto, trattengono molto bene il calore); in seguito le penne furono utilizzate per volare dagli uccelli, un sottogruppo all'interno dei dinosauri pennuti. Poiché il termine preadattamento ha un certo sentore di predestinazione, attualmente si distingue tra attamento, qualunque caratteristica legata a una funzione, adattamento, che si riferisce soltanto a quella caratteristica che non ha cambiato funzione sin dalla sua origine, ed ex-attamento, la caratteristica che ha cambiato funzione (concettualmente equivalente al vecchio termine di preadattamento). Secondo Tattersall, il nostro grande cervello e il nostro apparato fonatorio in grado di emettere un linguaggio articolato sono ex-attamenti. Sorsero in contesti diversi dagli attuali, che sono, rispettivamente, la cognizione e il linguaggio. Una volta acquisiti, continuarono a produrre l'uno o l'altro, fin205
ché nuove connessioni nervose li misero in rapporto. In altre parole, gli elementi del sistema si organizzarono in modo diverso e, come un coniglio dal cilindro, apparve una proprietà emergente rivoluzionaria: la mente umana e il suo inseparabile compagno, il linguaggio. Benché la teoria di Tattersall sia molto suggestiva, non è facile capire perché il cervello dei nostri antenati e quello dei Neandertaliani diventò così grande, essendo un organo molto dispendioso dal punto di vista energetico, se, come ritiene Tattersall, in questi umani arcaici c'era soltanto istinto e non cognizione o perché comparve l'organo della fonazione prima dell'esistenza di un linguaggio articolato. Recentemente Steven Mithen ha pubblicato una téoria che, anche se formulata da un punto di vista molto diverso, ha in comune con la teoria di Tattersall l'idea che la mente umana emerse in modo improvviso e anche grazie alla riorganizzazione di elementi già esistenti in precedenza. Se ci fosse stato qualcuno a guardare, si sarebbe sorpreso molto della nuova trovata dell'evoluzione. Oltre alla teoria classica che concepisce la mente come un'entità indipendente dal corpo e proprietà privata di ogni individuo sin dalla nascita, e oltre alla teoria opposta che nega l'esistenza della mente individuale a beneficio di quella collettiva, vi è una terza possibilità: quella delle intelligenze multiple. Steven Mithen si è basato sui lavori di Jerry Fodor, di cui abbiamo già parlato, su quelli dell'altrettanto famoso Howard Gardner e su quelli degli psicologi evolutivi. Il modello evolutivo di Mithen comprende molte fasi. Nella prima, quella degli australopitechi (simile a quella degli scimpanzé attuali), vi sarebbe un'intelligenza generale, incaricata di risolvere i problemi normali e quotidiani, poi un'intelligenza sociale, per rapportarsi con altri membri del gruppo e quindi un modulo di scienze naturali, specializzato nella relazione dell'individuo con il suo ambiente ecologico. La coscienza di ciascuno si sarebbe sviluppata, come si è già detto, in seno all'intelligenza sociale, e non andrebbe oltre. In una tappa successiva dell'evoluzione umana, con la comparsa dei primi rappresentanti del genere Homo, sarebbe sorta un'intelligenza orientata alla tecnologia, che avrebbe permesso di fabbricare strumenti di pietra. Lo avrebbero fatto senza rendersene conto, il che non significa affermare che l'operazione non comportasse una certa difficoltà (è sorprendente la quantità · di operazioni molto complesse che chiunque di noi compie ogni giorno in modo automatico, ed è certo che non siamo coscienti di tutto ciò che passa nella nostra testa). Contemporaneamente si sarebbe prodotto il primo rudimento di linguaggio, anche se solo nell'ambito della coscienza sociale. Umani successivi, come i Neandertaliani e i nostri antenati 206
premoderni, avrebbero sviluppato in maniera consistente queste intelligenze, quella generale, sociale, ecologica e tecnica, ma sarebbero state indipendenti tra loro; per altro verso, il linguaggio avrebbe trasmesso soltanto informazione sociale. Infine, con la comparsa della nostra specie, crollarono i muri che tenevano separate tra loro le diverse intelligenze, e la coscienza e il linguaggio si sarebbero estesi a tutti gli ambiti. Benché mi piaccia l'idea di una coscienza che si espande nel corso del tempo, vedo tre problemi nella teoria di Mithen. Per cominciare, è difficile ammettere che si possa giungere a una grande abilità tecnica, o a una profonda conoscenza ecologica, in modo automatico e incosciente (ossia istintivo). In secondo luogo, un linguaggio limitato alle relazioni sociali è qualcosa di quasi impossibile da accettare, perché l'essenza stessa del linguaggio è la comunicazione per mezzo di simboli; posso capire che si abbia poca o molta capacità di manipolare simboli, ma non che i simboli siano soltanto di una classe determinata, ammesso che si possa parlare di classi di simboli. Gli scimpanzé emettono inconsapevolmente vocalizzazioni che generalmente esprimono i loro stati d'animo, che possono essere d'ira davanti a un estraneo o a un rivale, di gioia di fronte a un albero carico di frutta o di paura in presenza di un pericoloso predatore. Al tempo stesso gesticolano: gli scimpanzé possiedono una grande "espressività corporea" e, come abbiamo visto, una grande capacità di elaborare tutto il visivo. Questa informazione, collera, fichi o leopardo, è estremamente utile per gli altri membri del gruppo. In ogni caso interessa lo stato d'animo del soggetto, ma anche la causa che lo provoca. Tuttavia, nello stesso istante in cui un nostro antenato fu sufficientemente intelligente da comprendere l'effetto prodotto dalle proprie vocalizzazioni e dai propri gesti sugli altri, ne comprese il significato, e nacque il linguaggio. Le vocalizzazioni e i gesti si trasformarono automaticamente in simboli che potevano essere modificati e manipolati, per trasmettere informazione, vera o falsa, a volontà. È chiaro che per far ciò era necessario che gli ominidi che "scoprirono" il linguaggio sapessero leggere nella mente degli altri (avessero una "teoria della mente") e, naturalmente, che avessero coscienza di sé. Ma, una volta inventato il linguaggio, qualsiasi tipo di informazione era esprimibile simbolicamente, né era importante sapere se il linguaggio visivo, basato sui gesti, precedette quello orale, basato sui suoni, o se entrambi si svilupparono di pari passo. Infine, ed esattamente come accade nel modello di Tattersall, il processo di ominazione proposto da Mithen potrebbe essere stato graduale e non necessariamente improvviso e in coincidenza con la comparsa della nostra specie. 207
Vedremo in seguito se questi due modelli (quello di Tattersall e quello di Mithen), che conciliano i punti di vista di Darwin e di Wallace, sono compatibili con i dati di cui disponiamo sull'evoluzione umana o se, come temo, ci vedremo costretti a scegliere tra Darwin e Wallace.
In principio erat verbum Dopo questa lunga digressione sulla mente e il linguaggio, è giunta l'ora di tentare di conoscerne le testimonianze archeologiche e paleontologiche, le tracce e gli indizi. Ma prima di proseguire, è opportuno soffermarci su ciò che abbiamo imparato dai fossili sulla nostra storia evolutiva e su quella dei Neandertaliani. Nel paragonare la mente delle due specie, l'evoluzione umana può essere divisa in due grandi fasi. La prima rappresenta una storia condivisa e va dal primo ominide sino al giorno in cui l'Europa iniziò a essere popolata dagli umani. In principio le popolazioni europee, rappresentate dai fossili del giacimento della Gran Dolina (Homo antecessor), non differivano dalle popolazioni africane e asiatiche più prossime, mentre in Estremo Oriente viveva una specie umana diversa, Homo erectus. Fu l'isolamento prolungato a far sì che andassero differenziandosi le popolazioni europee che all'epoca della Sima de los Huesos, 300.000 a:r:mi orsono, e anche prima, presentavano già tratti neandertaliani. Nonostante ciò, le popolazioni europee e africane avevano ancora molti tratti in comune, caratteri primitivi ereditati dal loro ultimo antenato comune. Qualche tempo dopo, mettiamo 100.000 anni fa, in Europa esistevano già i Neandertaliani in quanto tali, e in Africa (e anche in Palestina) vivevano i nostri antenati un poco arcaici, ma chiaramente moderni. Nell'espansione del cervello umano possiamo segnalare due momenti di accelerazione. Uno corrisponde al tempo dei primi umani (Homo habilis e soprattutto Homo ergaster), in Africa, quando il volume del cervello raddoppiò. Il secondo cambiamento di ritmo avviene indipendentemente in Europa e in Africa, attorno ai 300.000 anni fa, e darà luogo ai grandi cervelli dei Neandertaliani e degli umani moderni. I fossili della Sima de los Huesos si collocano proprio nel momento in cui ha inizio il decollo cerebrale in Europa. Sappiamo ancora poco dell'ultimo antenato comune a noi e ai Neandertaliani (rappresentato nella Gran Dolina): ma possiamo supporre che lo stadio evolutivo del suo cervello fosse situato tra questi due momenti. Di conseguenza, le capacità mentali che condividiamo con i Neandertaliani devono essere eredità comune di questo remoto antenato oppure un' evoluzione indipendente e parallela. Nei paragrafi seguenti riesami208
neremo le possibili manifestazioni di tali capacità, discuteremo sulle loro modalità di acquisizione e sul loro significato. Comincerò con quanto è propriamente cerebrale. Ho già affermato che i Neandertaliani raggiunsero probabilmente un grado di intelligenza assai prossimo al nostro. Anche considerando il volume cerebrale in rapporto al peso corporeo, lo studio della tendenza nelle due linee che ci interessano ci parla chiaramente di una encefalizzazione in parallelo, né, da questo punto di vista, si può rilevare alcuna chiara superiorità nei Cro-Magnon. Ma oltre al volume totale del cervello, bisogna considerare le proporzioni delle sue parti costituenti. Il cervello di ognmio di noi non è un cervello di scimpanzé su scala maggiore. Con l'aumento delle dimensioni, certe aree della corteccia cerebrale, come l'area associativa visiva, che si trova nella zona posteriore del cervello - all'interno del lobo occipitale - si ridussero proporzionalmente, mentre altre si ampliarono. Tra queste ultime spicca l'area associativa frontale, situata nella parte anteriore del cervello (nel lobo frontale). Ora, all'area associativa frontale si attribuiscono funzioni superiori specificamente umane. Grazie all'attività di questa regione, è possibile recuperare l'informazione immagazzinata nella memoria e tenerla a mente per tutto il tempo necessario. È questo il modo in cui si ricordano le lunghe sequenze di movimenti necessari per realizzare un lavoro complesso come, per esempio, scheggiare uno strumento di pietra che richiede una lunga catena di gesti, o suonare il pianoforte. Inoltre, l'area frontale è connessa con certe strutture situate nelle regioni profonde del cervello (il lobo limbico) che svolgono un ruolo chiave nella vita emotiva. Una lesione nel lobo frontale, o la sua rimozione chirurgica (lobotomia) fa sì che i soggetti che l'hanno subita cambino drasticamente personalità, poiché sembra che qui abbiano sede la coscienza di sé e l'attenzione, la capacità di fare piani per il futuro e la motivazione per portarli a termine. Inoltre, e soprattutto, è la regione della fantasia e della creatività. Oltre a quella frontale, vi sono altre aree associative, nei lobi parietale, temporale e occipitale, che hanno maggiore importanza nel cervello moderno che in quello dei nostri antenati. Che io sappia, nessuno ha dimostrato che i Neandertaliani differissero sostanzialmente da noi in nessuno di tali aspetti. Un tratto interessante del nostro cervello è la sua asimmetria. Le due parti del cervello si chiamano emisferi: nei destrimani I'emisfero sinistro è maggiormente proiettato verso la parte posteriore (occipitalmente) del destro, mentre quest'ultimo è più proiettato verso la parte anteriore (frontalmente) del sinistro. Un'asimmetria così marcata non si trova negli altri primati. Negli animali non vi è neppure una preferenza così accentuata nell'uso di una mano; gli scimpanzé, per esempio, sono sostanziai209
mente ambidestri. Questa curiosità può avere la sua importanza, giacché vi sono funzioni cerebrali che sembrano essere situate più in una parte del cervello che nell'altra. Tra queste si potrebbe trovare il controllo cerebrale del linguaggio. Come abbiamo già detto, sia l'area di Broca sia quella di Wernicke si trovano nell'emisfero cerebrale sinistro. L'area di Broca classica, situata nel lobo frontale, sembra intervenga soprattutto nella coordinazione delle sequenze motorie necessarie alla produzione della parola (e anche nel controllo di altre attività che non hanno un grande rapporto con il linguaggio). L'area di Wernicke si trova alla confluenza tra i lobi temporale, parietale e occipitale: il suo apporto è molto importante nella comprensione del linguaggio e dei simboli in generale. Benché le moderne tecniche di cartografia cerebrale e PET (tomografia a emissione di positroni) abbiano dimostrato che nella produzione e comprensione del linguaggio intervengono numerose altre aree cerebrali, siccome queste si trovano principalmente nel lato sinistro, è molto forte la tentazione di pensare che quando si ha asimmetria del cervello e lateralizzazione del corpo vi sia linguaggio. Con la paleoantropologa Ana Gracia ho osservato l'esistenza di asimmetrie cerebrali dello stesso tipo dei destrimani moderni nei crani fossili della Sima de los Huesos; e José Maria Bermudez de Castro, assieme ad altri colleghi, ha scoperto che quegli umani usavano di preferenza la mano destra; per giungere a ciò non si è basato sullo studio delle ossa, ma, sorprendentemente, su quello dei denti. Nel tagliare un pezzo di carne sorretta a un'estremità con la bocca, il filo del coltello di pietra a volte sfuggiva e lasciava segni sulla faccia anteriore degli incisivi superiori e inferiori, che ci indicano quale fosse la mano usata: se i graffi vanno dall'alto a sinistra verso il basso a destra, la mano era la destra; se la direzione fosse stata dall'alto a destra verso il basso a sinistra, la mano usata per tagliare sarebbe stata la sinistra. Tra i Neandertaliani, alcuni soggetti, una minoranza come ora, erano mancini. , Un altro dato a favore dell'esistenza del linguaggio già tra i primi rappresentanti del genere Homo è che sia Philip Tobias sia Dean Falk hanno creduto di trovare in fossili di 1,8 milioni dianni fa un'area di Broca ben sviluppata, che ha lasciato un'impronta nella parete interna del cranio (cosa che non si riscontra mai negli altri primati). Un altro ricercatore, Rich Kay, ha osservato che il diametro dei due canali ipoglossi nei Neandertaliani era grande come il nostro, sempre in relazione alle dimensione della cavità orale (la bocca). I canali ipoglossi si trovano alla base del cranio, sotto i due condili occipitali che articolano la testa con la prima delle vertebre cervicali, l'atlante. Attraverso tali canali passano i due nervi ipoglossi, che intervengono nel controllo 210
Figura 22. Vie di passaggio dell'aria e del cibo nella nostra specie.
preciso dei movimenti della lingua. Il fatto che il diametro dei canali ipoglossi sia grande rispetto a quello della cavità orale (e in definitiva a quello della lingua, che come tale non fossilizza) potrebbe significare che i nervi ipoglossi erano grossi e contenevano molte fibre nervose, per rendere possibile, in tal modo, la produzione di una gamma di suoni molto ampia e armonica. E se questo è quello che ci dicono il cervello e i nervi rispetto al linguaggio, vediamo che cosa resta nei fossili dell'apparato fonatorio, l'apparato che produce fisicamente l'eloquio. Originariamente, la fonazione si produce nelle corde vocali della laringe, pieghe che aprono e chiudono il passaggio all'aria espulsa dai polmoni. Sin qui non c'è nessuna novità nel caso umano: tutti i primati emettono vocalizzazioni. La differenza con gli altri animali sta più a monte, nelle vie aeree che si trovano sopra la laringe, dette vie aeree sopralaringee o tratto vocale sopralaringeo. La cavità orale è separata dalla cavità nasale dal palato. Vi è un palato osseo, il palato duro, che continua nella parte posteriore nel palato molle, senza supporto osseo, che termina nell'ugola o campanella. Soltanto nei mammiferi esiste questa separazione tra le cavità orale e nasale, un adattamento che consente di respirare attraverso il naso anche se la bocca è completamente ostruita dal cibo e l'aria non riesce a passare. In zoologia il cielo 211
della bocca si chiama palato secondario, perché vi è una specie di falso tetto situato al di sotto del palato originale o primario (curiosamente i coccodrilli hanno sviluppato un palato secondario come i mammiferi e per ragioni simili). Dietro alla cavità nasale e alla cavità orale, nello spazio situato tra la fine del palato e la colonna vertebrale, sta la faringe, che continua verso il basso, verticalmente, sino alla laringe e all'esofago (la prima sta davanti al secondo). Così le vie aeree sopralaringee hanno due componenti: uno orizzontale e l'altro verticale. In tutti i mammiferi, salvo che negli umani adulti, la cavità orale e la cavità nasale sono allungate dal davanti verso il dietro (in linguaggio tecnico si dice sagittalmente), come la faringe. In al- . tre parole, il palato è grande e isolato dalla colonna vertebrale, e ciò comporta che il componente.orizzontale del tratto vocale sopralaringeo sia lungo. La laringe, inoltre, è molto·alta e vicina alla bocca, per cui il componente verticale del tratto vocale è molto piccolo. Negli umani adulti le cavità orale e nasale, come la faringe, sono tagliate sagittalmente perché il palato si riduce e al tempo stesso si awicina alla colonna vertebrale. Al contrario, poiché la laringe è situata in una posizione più bassa, la faringe è più allungata verticalmente. Poiché le vie respiratoria e digestiva si incontrano al livello della faringe, il cibo può penetrare attraverso la laringe e passare nella trachea (bloccandola), invece di dirigersi verso l'esofago; si tratta di un rischio serio, che può provocare la morte per soffocamento. Nei lattanti umani e in tutti gli altri mammiferi, invece, la laringe sale come un periscopio e si unisce alla cavità nasale durante la deglutizione e in tal modo il cibo passa ai due lati della laringe senza riuscire a scendere; così possono bere (o poppare) e respirare nel contempo. A questa età la faringe è dietro alla laringe. Attorno ai sei o sette anni si giunge alla morfologia adulta: la laringe è discesa e il palato si è awicinato alla colonna vertebrale (in termini relativi). Tutti i fossili di tipo moderno hanno questa morfologia. , Per compensare il rischio di morire soffocati, gli umani adulti dispongono di un lungo tubo verticale, la faringe, nel quale, quando stanno inghiottendo, si può modificare il suono prodotto dalle corde vocali, come se si trattasse di uno strumento musicale a vento (questo sì molto flessibile). Si produce così l'enorme varietà di suoni che caratterizza il linguaggio articolato degli umani. A tal fine si usano la lingua e le labbra. Mentre negli altri mammiferi la lingua è sottile ed è completamente contenuta nella bocca, nella nostra specie è molto grossa e costituisce anche la parete anteriore delfa faringe. Benché non sia per nulla facile, è possibile ricostruire le vie aeree sopralaringee nei fossili. Gli australopitechi e i parantropi 212
avevano un segmento orizzontale (questo è certo) e (probabilmente) uno verticale corto, come gli scimpanzé, da cui deduciamo che non parlavano. Per essere più esatti, basta semplicemente affermare che la macchina fisiologica prodotta dall'eloquio umano, così come la conosciamo, non esisteva ancora, anche se non è noto se disponessero già di un certo controllo dell' espressione acustica o corporea delle loro emozioni. All'origine degli umani moderni si produsse un accorciamento del segmento orizzontale delle vie aeree sopralaringee, il segmento che va dai denti anteriori alla colonna vertebrale. In tale risultato intervennero due processi. Da un lato si ridusse l'apparato masticatorio, e di conseguenza il palato divenne più piccolo, avvicinandosi inoltre alla colonna vertebrale. I due pezzi del tratto vocale, quello orizzontale e quello verticale, nella nostra specie hanno lunghezze simili. Un notissimo esperto sul tema dell'origine del linguaggio, Jeffrey Laitman, ha affermato che la retrocessione del palato negli umani moderni ha comportato una certa angolazione (flessione) della base del cranio; tale elemento può essere utilizzato per determinare le capacità fonatorie fossili. Ignacio Martinez e io non siamo tanto certi che esistano rapporti chiari tra I'angolazione della base del cranio e la posizione della laringe. La riduzione dell'apparato masticatorio si verifica in una certa misura anche nei Neandertaliani, ma anche così la parte terminale del palato era considerevolmente più discosta dalla colonna vertebrale rispetto ai Cro-Magnon. I Neandertaliani, in questo, erano come grandi bambini. Ciò significa che non potevano parlare come noi? Con Ignacio Martinez, specialista in materia, penso che la risposta sia sì e no. Da una parte è probabile che la laringe fosse già discesa, poco o tanto, creando un canale verticale per modulare i suoni. Nel giacimento israeliano di Kebara è stata trovata parte di uno scheletro neandertaliano di 60.000 anni fa, il cui osso ioide, l'osso che sorregge la laringe, mostra caratteristiche moderne. Benché uno ioide morfologicamente moderno non implichi una laringe bassa, comunque fa pensare. Se davvero le cose stavano così, i Neandertaliani avrebbero prodotto suoni molto variati, ma non esattamente come i nostri, perché il segmento orizzontale del tratto vocale era ancora quello primitivo. In altre parole, noi abbiamo un apparato fonatorio nel quale i due segmenti hanno una lunghezza simile, mentre i Neandertaliani, a nostro parere, probabilmente avevano un segmento verticale simile o soltanto leggermente inferiore al nostro e uno orizzontale assai più lungo. Differenti strumenti, pertanto, che suonerebbero in maniera diversa, anche se il testo della canzone fosse il medesimo; o forse no. Philip Lieberman, insieme ad altri colleghi, anni fa ha rico213
struito l'apparato fonatorio dei Neandertaliani; nel loro modello questi autori hanno previsto una laringe che non era posta tanto in alto come nei nostri poppanti, vale a dire in prossimità della bocca, né tanto in basso come negli adulti: hanno immaginato una collocazione intermedia che non esiste attualmente in alcuna specie a nessuna età. Per mezzo di un computer, Philip Lieberman "ha fatto parlare" un umano lattante, un umano adulto e un Neandertaliano. I suoni simulati informaticamente nei primi due casi corrispondevano a quelli reali, il che induce a prendere sul serio il risultato cui è giunto con il Neandertaliano. Quest'ultimo poteva produrre un'amplissima gamma di suoni, però era carente nella produzione di tre vocali: i, u e a, e due consonanti k e g. Apparentemente non è una grande differenza. Si potrebbe comprendere perfettamente questo testo se lo riscrivessimo senza le lettere citate (provate a sostituirle con la e e vedrete che è possibile); nella realtà vi sono lingue quali l'arabo e l'ebraico che si scrivono senza vocali e, tuttavia, si leggono senza grandi difficoltà. La differenza però è molto grande nel linguaggio parlato, dove non vi sono lettere, ma suoni. Le vocali i, u e a sono chiamate vocali universali, perché esistono in tutte le lingue. Nell'arabo sono le uniche tre vocali esistenti, mentre nello spagnolo e nella lingua basca ve ne sono due di pfo e altre lingue, come l'inglese (per nostra disperazione), ne possiedono ancor di più. Le vocali universali, soprattutto la i e la u, hanno la virtù di essere quelle che l'udito umano distingue meglio, come hanno dimostrato molteplici esperimenti. Senza di loro, qualsiasi lingua è molto più confusa e difficile da capire per chi non la parla, soprattutto in situazioni in cui vi sono altri suoni ambientali (rumori o altre conversazioni), come accade solitamente. Grazie alle vocali universali non abbiamo bisogno di un'attenzione assoluta e di un silenzio totale per farci capire. A quanto detto è necessario aggiungere che se il palato dei Neandertaliani era più avanzato, il suono sarebbe stato sufficientemente più nasale che nel nostro caso, perché non ci sareqbe stato modo di impedire all'aria espulsa di passare in parte attraverso la cavità nasale. Il problema è che quanto più si parla con accento nasale, tanto meno si distinguono i suoni. In verità, il tratto vocale dei Neandertaliani impedirebbe loro di emettere suoni altrettanto chiari dei nostri, anche se avessero la medesima capacità linguistica, vale a dire, le basi mentali per comunicare mediante parole (simboli). Ce ne dispiace, ma per ora non possiamo spingerci oltre in questa discussione sulla natura dell'apparato fonatorio dei Neandertaliani.
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Comportamento fossile Ci resta ora il compito di trovare resti di coscienza degli umani fossili, anche se soltanto un pizzico, nelle prove materiali che hanno lasciato del loro passaggio nella vita. Il comportamento in quanto tale non fossilizza, ma a volte lo fanno le sue conseguenze. Tra gli indicatori più significativi delle capacità umane superiori si trovano, naturalmente, gli strumenti che fabbricavano. In fin dei conti, nessun animale è in grado neppure di fendere una pietra per creare un filo; e ancor meno di produrre strumenti tanto concettualizzati come possono essere i bifacciali o una punta levalloisiana. Anche il possesso del fuoco è segno di una mente superiore. Neppure in sogno potremmo rappresentarci uno scimpanzé che lo produce (sfregando due bastoncini o facendo scoccare la scintilla che incendia l'esca). Dove c'è fuoco controllato vi sono umani. Gli umani, potrebbe dire un animale che li osservasse in natura, sono anche le uniche creature che piangono i propri morti e trattano con rispetto i corpi senza vita. Tutte queste attività si possono compiere senza linguaggio, e anche impararle senza quest'ultimo, solo per imitazione, marivelano un alto grado di coscienza (a parte il fatto che, in fin dei conti, anche il linguaggio si impara per imitazione). E per coloro che postulano l'impossibilità di avere coscienza (mente) senza linguaggio, come Noble e Davidson, l'esistenza della coscienza di un umano "arcaico" (vale a dire di tipo moderno) implicherebbe quella del linguaggio. Per questo gli autori citati si affannano a dimostrare che il fuoco e la sepoltura si trovano esclusivamente nei giacimenti di umani moderni, e i tagliatori di bifacciali non si proponevano di fabbricare quegli strumenti, né è mai esistita la tecnica levalloisiana. Ma andiamo per gradi. Nei giacimenti preistorici si trovano frequentemente ceneri, che indicano con certezza combustione del legno. Nei livelli di più di un milione di anni fa della caverna di Swartkrans (Sudafrica) vi sono ceneri interpretate come risultato dell'attività umana (probabilmente della specie Homo ergaster). Ora, in casi come questi, il fuoco può essersi prodotto all'esterno e in modo naturale, ed essere poi le ceneri entrate nel giacimento mescolate a creta; ma potrebbero anche essersi incendiate le erbacce che frequentemente invadono l'apertura delle caverne. Negli ecosistemi dei paesi secchi gli incendi spontanei non sono straordinari, anzi, sono un elemento che si deve prendere in considerazione. Vi sono piante, come una varietà di cisto che cresce nelle nostre regioni, che sono pirofile, ossia amanti del fuoco; ardere le avvantaggia perché i loro semi germinano meglio e nel contempo si liberano di specie competitrici che non sopportano gli incendi periodici. La scomparsa dell'intera vegetazione nell'incendio con215
sente ai cisti di trovare il loro posto al sole. Per questo si dice che i cespugli di cisto sono figli del fuoco. Non è affatto straordinario che sia il fulmine, e non l'uomo, a incendiare il bosco. Quindi la semplice presenza di carbone in un giacimento non è una prova definitiva del fatto che gli umani dell'epoca padroneggiassero la tecnologia del fuoco. Per esempio nel livello 1O (che risale approssimativamente a mezzo milione di anni fa) del famoso giacimento di Zhoukoudian, si trovano ossa bruciate, ceneri e altre testimonianze di fuoco negli scavi anteriori alla seconda guerra mondiale. Allora furono interpretate come prove del fatto che Homo erectus si serviva del fuoco per colonizzare le terre della Cina settentrionale; che aveva un clima certamente più freddo di quello di cui avevano goduto gli antenati africani o di quello dei contemporanei che vivevano nelle terre tropicali di Giava. Tuttavia, analisi recenti fanno sorgere dubbi sull'intenzionalità di questi fuochi. Forse, dopo tutto, Homo erectus non conobbe mai il fuoco? Non sarebbe così straordinario, a ben vedere, giacché, a quanto pare, gli abitanti dell'isola di Tasmania in cui si imbatterono gli occidentali al giungere in quei territori non sapevano produrre il fuoco, con tutto che l'isola non è calda, bensì temperato-umida. Quelli che lo usavano in maniera sistematica e pianificata, si può dire quel che si vuole, erano i Neandertaliani. Un giacimento in cui si sono studiati i resti di fuochi che costituivano gruppi isolati, indicativi di veri e propri focolari umani, è la caverna israeliana di Kebara, dove, come si è affermato, si è scoperta anche gran parte di uno scheletro neandertaliano di 60.000 anni orsono. Ma non ho bisogno di spingermi così lontano per dimostrarlo, perché il mio amico Eudald Carbonell ha scavato molti focolari presso i quali si riscaldarono i Neandertaliani che occuparono il giacimento dell'Abric Romani (Barcellona). È possibile che al calore delle braci questi Neandertaliani catalani abbiano anche prolungato le ore del giorno? Si può concepire la scena di un gruppo di esseri umani, anche se Neandertaliani, attorno al focolare e nel più assoluto mutismo? È inevitabile attribuire un certo ruolo al fuoco nella formazione della mente umana. Saremmo forse anche noi, come i cisti, figli del fuoco? In paleontologia vi è una disciplina chiamata paleoicnologia, il cui oggetto di studio è costituito dalle testimonianze di attività di organismi del passato. Non i resti fossilizzati degli organismi medesimi, una volta morti, bensì le tracce di ciò che facevano quando erano in vita (mangiare, muoversi, costruirsi un rifugio ecc.). Il caso più tipico sono le orme dei dinosauri, ma io sono solito affermare che tutta l'archeologia è, semplicemente, una specialità all'interno della paleoicnologia, visto che studia gli indizi di attività di organismi del passato che risultano essere i no216
stri antenati e parenti fossili. Scherzi a parte, nell'archeologia preistorica ciò che abbonda sono le pietre tagliate ed è qui che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione per tentare di conoscere le caratteristiche mentali di coloro che le fabbricavano. Ho già sostenuto a suo tempo che le prime industrie, quelle olduvaiane, non sembrano rappresentare la ricerca di una morfologia determinata, bensì soltanto di una funzionalità: tagliare, schiacciare qualunque cosa. Ma con la comparsa dei bifacciali un milione e mezzo di anni fa, con la loro perfetta simmetria su due e a volte su tre piani, assistiamo a quella che molti di noi ritengono una ricerca deliberata, pianificata, cosciente di una forma. Negarlo significherebbe dover cercare un'altra spiegazione per questi oggetti. Quella di Noble e Davidson è che quei bifacciali sono semplicemente ciò che resta quando un nucleo è stato reiteratamente percosso per ottenere schegge. Gli strumenti sarebbero in prima istanza le schegge, mentre il nucleo si utilizzerebbe come materia prima e a tale fine verrebbe anche trasportato da un luogo all'altro. In seconda istanza, sarebbe possibile che gli umani avessero utilizzato il bifacciale medesimo come fosse una scheggia quando non era più possibile sfruttarlo, ma in nessun caso il bifacciale sarebbe il risultato finale e ricercato di una catena operativa. Secondo questa teoria, si sarebbe giunti al bifacciale inconsapevolmente. A me pare che questa proposta peregrina non sia compatibile con i fatti, e pertanto non la sottoscrivo. Non occorre che aggiunga che vedo una coscienza ancora maggiore nella tecnica levalloisiana usata dai Neandertaliani (e, non dimentichiamolo, anche i nostri antenati proto-Cro-Magnon di 100.000 anni fa). Ho lasciato per la fine di questo paragrafo il più misterioso dei comportamenti fossili: la pratica della sepoltura. Sono stati trovati scheletri sepolti di Neandertaliani (sempre in caverne), e di umani moderni (in caverne e all'aperto). Prima dei Neandertaliani e degli umani moderni vi è solo un caso che ci faccia pensare seriamente a una pratica funeraria, vale a dire al trattamento dei morti. Mi riferisco alla Sima de los Huesos, dove però non vi sono sepolture di cadaveri (con scavo della fossa e collocazione del morto), ma accumulazione di cadaveri, uno sopra l'altro, in un luogo speciale. Poiché non si può negare che la sepoltura di un cadavere implichi pianificazione e coscienza -vale a dire proposito -l'unica alternativa per coloro che non riconoscono tale capacità ad altre specie umane che non sia la nostra è negare i fatti (per essere conseguenti, queste altre specie, secondo tali impostazioni, non sarebbero umane). Gli scheletri neandertaliani, numerosi e a volte molto completi, che sono stati rinvenuti nelle caverne, non proverrebbero da sepolture, ma sarebbero il risultato dell'attività 217
di altri agenti (non umani, bensì biologici o geologici). E così tutto può essere utile: dalle inondazioni che trascinano i cadaveri nei giacimenti ai leoni e alle iene che li trasportano nelle loro tane, sino a spiegazioni ancor più fantasiose. In un caso, quello dei Neandertaliani della caverna di Shanidar in Iraq, si è arrivati a dire che a uno di loro è crollato addosso il soffitto della caverna mentre dormiva! (Sto parlando sul serio e mi riferisco a una pubblicazione dell'anno 98 ... del ventesimo secolo.) Portando questo ragionamento alle sue conseguenze finali, i Neandertaliani comparirebbero nelle caverne perché è lì che si verificano tutte quelle circostanze rare che danno luogo a false sepolture, o meglio, a sepolture naturali, perché ogni fossile è necessariamente il risultato di una sepoltura; per questo, si argomenta, non si sono mai trovate sepolture neandertaliane all'aria aperta. Ve ne sono, tuttavia, alcune di umani moderni, vecchie di 30.000 anni in Europa e Australia. Per non entrare nell'analisi particolareggiata di tutti i casi e rendere questo libro interminabile, mi limito a dire che interpreto come risultato di sepolture intenzionali, vale a dire prodotte deliberatamente da mano umana, molti dei fossili neandertaliani. Tra questi se ne trovano alcuni derivanti da scavi molto moderni, che non si possono screditare semplicemente con il sollecito ricorso alla mancanza di rigore e all'eccesso di immaginazione di chi ci ha preceduto, cioè coloro che hanno operato gli scavi delle generazioni precedenti. E non è necessario discutere il caso delle sepolture neandertaliane perché, tra l'altro, da molti anni vado sostenendo che i loro antenati di 300.000 anni prima della Sierra de Atapuerca avevano comportamenti funerari, come rivela il giacimento della Sima de los Huesos. Per rendere i Neandertaliani meno simili a noi, si è preteso anche togliere valore simbolico alle loro sepolture, adducendo che non corrispondono a sentimenti religiosi, bensì a sentimenti di pietà e affetto per i defunti. Sinceramente se il dolore fosse la causa della sepoltura delle persone care dei Neandertaliani, condivido il loro sentimento. Niente potrebbe renderli più umani ai miei occhi che vederli piangere durante i loro "funerali laici". Certo, nessuno potrebbe dubitare dell'esistenza di un comportamento simbolico associato a una sepoltura se si potesse di. mostrare l'esistenza di un rituale funerario. Manca la definizione di ciò che si intende per rituale, ma qualsiasi oggetto che si seppellisce assieme al morto potrebbe essere interpretato come manifestazione di una credenza nell'altra vita. Tra i proto-Cro-Magnon palestinesi, a volte sono state considerate offerte il cranio e le corna di cervo apparse assieme a un bambino nella caverna di Qafzeh, o la mandibola di cinghiale che stava tra le mani di uno scheletro adulto della grotta di Skhul. Tuttavia sono state catalo218
gate come offerte anche le corna di stambecco che cingevano il. bambino neandertaliano di Teshil (Uzbekistan), le ossa di orso disposte ordinatamente in una fossa coperta da una grande lastra assieme allo scheletro di Régourdou (Francia), la pietra intagliata posta sul cuore del bambino di Dederiyeh (Siria), i fiori deposti sugli scheletri di Shanidar (Iraq) o la polvere di ematite sparsa sullo scheletro di Le Moustier (Francia). In tutti i casi, tuttavia, si possono cercare spiegazioni alternative. Sinora nessuno si è presentato con la prova definitiva di un comportamento rituale, o simbolico in generale, anteriore ai Cro-Magnon del Paleolitico superiore. Si tratta di un'ambita preda scientifica che non è ancora stata conquistata.
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E il mondo si fece trasparente Già nelle società mitiche, segnalava Mircea Eliade, l'uomo ascolta il mondo perché non è muto, ma dice cose, è significativo, intelligibile e, per decifrarne il linguaggio - strutture, oggetti, vita, ritmi -, ricorre ai simboli. Mediante questa comunicazione nella stessa chiave simbolica, la natura rivela i misteri-realtà: "Se il mondo gli parla tramite i suoi astri, le sue piante e i suoi animali, i suoi fiumi e le sue rocce, le sue stagioni e le sue notti, l'uomo gli risponde mediante i suoi sogni e la sua vita immaginaria ... Se il Mondo è trasparente per l'uomo arcaico, questi sente di essere a sua volta 'osse:r\ galio) 16. SiegaVerde(Sala~anca).
1t·DomifigQ Garda {Segovia) 18. Là Caldcis (As!Uri.é) . · 19, Abauhtz (Navarra) , · :< · _2o:.~~or'J\fizéà~o):·· ... , ·.
Figura 24. Alcuni dei giacimenti o stazioni di arte paleolitica citati nel testo. Si vede anche una piastra di avorio magdaleniana incisa su entrambi i lati (da Corch6n 1997).
fatte da Neandertaliani, si trovano in Italia (dove è stato attributo loro il nome di Uluzziano), in Europa centrale (Szeletiano), in Bulgaria (Bachokiriano) e in altri regioni d'Europa. Attualmente vi è un grande interesse per conoscere in dettaglio le date di tutte queste prime manifestazioni del Paleolitico superiore che, nel complesso, vanno dai 40.000 ai 30.000 anni fa. Parecchi autori ritengono che i giacimenti castelperroniani siano tutti posteriori ai primi giacimenti aurignaziani, e che i Neandertaliani impararono a fabbricare strumenti, e ad adornarsi, dagli uomini di Cro-Magnon. In tre giacimenti, i rifugi di Le Piage e Roc-de-Combe (Francia sud-occidentale) e la grotta del Pendo, si è creduto di vedere che il livello castelperroniano era situa• to tra un livello aurignaziano, in posizione inferiore, e un altro livello aurignaziano superiore, come se dopo il primo arrivo dei Cro-Magnon, questi fossero stati sostituiti per un certo periodo dai Neandertaliani, per poi tornare e restare per sempre nella regione. Tuttavia, queste tre presunte stratificazioni del Castelperroniano tra livelli aurignaziani sono state messe in dubbio con argomenti degni di essere presi in considerazione. Di fatto, qualcuno ritiene che la nascita del Castelperroniano fosse anteriore a quella dell'Aurignaziano e che fossero stati i Neandertaliani a inventare il Modo 4 (Paleolitico superiore), mentre gli ultimi venuti, i Cro-Magnon, sarebbero stati meri imitatori. Per questo, si argomenta, al di fuori dell'Europa non vi è un Modo 4 di epoca anteriore che indichi che i Cro-Magnon sopraggiunsero con questo tipo di industria già sviluppata. I.:ultima possibilità da prendere in considerazione è che Cro-Magnon e Neandertaliani si siano evoluti tecnicamente in maniera parallela o influenzandosi reciprocamente. Sarebbe quindi necessario trovare fuori dell'Europa complessi più antichi del Paleolitico superiore affinché si possa dimostrare che furono importati dagli uomini di Cro-Magnon. Il sito migliore per compiere tali osservazioni è l'Africa, da dove si ritiene provengano gli umani moderni, ma sappiamo ancora troppo poco su questo continente. Ciò nonostante, alcuni indizi, benché non definitivi, sono comparsi: alcune perline realizzate 40.000 anni fa con il guscio di uovo di struzzo nel rifugio di Enkapune Ya Muto in Kenya, industria in osso di 80.000-95.000 anni orsono nella Cueva Blombos (Sudafrica), e anche arpioni dentati in osso della stessa età in Katanda (Repubblica Democratica del Congo). Di dubbio in dubbio, potremmo anche dubitare che gli autori della prima industria aurignaziana della Spagna settentrionale siano stati i Cro-Magnon. Non potrebbero essere stati i Neandertaliani? Federico Bernaldez de Quie6s e Victoria Cabrera, che lavorano nel giacimento classico di El Castillo (scavato da Ober230
maier tra il 1910 e il 1915), non riscontrano alcuna differenza tra l'economia, ossia il modo di vita, degli occupanti musteriani della caverna (i Neandertaliani) e quella degli occupanti dei livelli aurignaziani immediatamente superiori, risalenti a 40.000 anni fa. Rilevano anche una notevole continuità nell'attrezzatura litica. Si tratterebbe della stessa gente? Nell'Arbreda, invece, mentre l'industria musteriana è quasi tutta in quarzite, la aurignaziana è tratta da selce importata. In realtà non disponiamo ancora di resti scheletrici di questa prima epoca aurignaziana atti a risolvere completamente I'enigma. I resti umani aurignaziani più antichi sono quelli di Mladec, in Moravia (Repubblica Ceca), e si tratta di umani moderni; la loro età è probabilmente attorno ai 32.000 anni, vale a dire, più o meno quella delle prime manifestazioni certamente datate di arte figurativa, quando ancora vi erano dei Neandertaliani a sud dell'Ebro, e forse anche in altri punti del Mediterraneo europeo. I fossili umani moderni di Brno, anch'essa in Moravia, hanno forse una cronologia analoga, anche se non appaiono associati a industria. Un osso frontale moderno proveniente da Hahnofersand (Germania), benché sia stato ritrovato senza contesto, è stato fatto risalire direttamente ad alcune migliaia di anni in più. I fossili di Cro-Magnon potrebbero essere contemporanei di quelli di Mladec o forse di poco posteriori (Aurignaziani tardivi), attorno ai 30.000 anni. Dopo questa data, invece, vi sono numerosi resti umani in Europa, tutti di tipo moderno e associati ai tecnocomplessi postaurignaziani, detti Gravetiano, Solutreano e Magdaleniano. Un aspetto da evidenziare per la nostra storia è la differenza ecologica tra i Neandertaliani castelperroniani francesi e gli umani moderni aurignaziani di Moravia, da un lato e, dal!'altro, i Neandertaliani contemporanei del Mediterraneo: quelli convivevano con renne, mammut e rinoceronti lanosi, una fauna fredda, che questi non conoscevano. In ogni modo, nel periodo situato tra i 40.000 e i 3000 anni fa .non sembra che i mammiferi tipici della fauna artica fossero ancora comuni in tutto il settentrione della penisola a nord dell'Ebro; si individuano soltanto a Guipuzcoa, che per la sua posizione geografica, è stata nei periodi glaciali quasi un'appendice dell'Aquitania. L'arrivo in Europa dei Cro-Magnon, e la loro lunga coesistenza, di almeno 10.000 anni, con i Neandertaliani awenne alla fine di un interstadio (l'OIS 3 della scala isotopica marina); vale a dire in una fase relativamente più calda e umida tra le due oscillazioni o stadi più freddi e secchi dell'ulthpa gl:;tciazione. Il picco glaciale precedente all'arrivo dei Cro-Magnon (OIS 4) lo subirono soltanto i Neandertaliani e all'inizio del posteriore (OIS 2), che fu ancora più rigido, scomparvero gli ultimi Neandertaliani mediterranei. In ogni caso non bisogna dimenticare 231
che un interstadio è sempre un tempo più freddo di un interglaciale, o periodo caldo tra una glaciazione e l'altra. I.:attuale (OIS 1) è, per ora, l'ultimo interglaciale. Questo è lo stato attuale delle conoscenze, che preferisco interpretare nei termini seguenti, condivisi dalla maggior parte degli studiosi: gli umani moderni furono sin dall'inizio gli autori dell'industria aurignaziana. I Neandertaliani di certe aree avrebbero imparato dai Cro-Magnon, e avrebbero riprodotto a modo loro le stesse tecniche di intaglio della pietra, l'uso di materiali di origine animale e il gusto per l'ornamento personale. La cultura di altri Neandertaliani, a sud dell'Ebro, non avrebbe subito cambiamenti sino alla fine della loro esistenza, che coincise con la recrudescenza del freddo e il grande cambiamento ecologico che comportò. Come si può vedere, è necessario precisare tutti questi dati, conoscere meglio i piccoli dettagli, su scala regionale, per comprendere a fondo e in modo probatorio che cosa provocò la fine dei Neandertaliani.
Il colore dell'erica Accanto ai supporti abituali per le rappresentazioni cosiddette artistiche, consistenti in pareti di roccia o in lastre di pietra, e anche osso, corno e avorio (sicuramente pure legno, anche se non si è conservato), i Cro-Magnon utilizzavano un altro supporto molto speciale: il proprio corpo. Si dipingevano, è certo, anche se questa testimonianza non ci è rimasta, ovviamente. Vi sono sepolture nelle quali sembra sia stata sparsa una gran quantità di ocra rossa, o ematite, il colore del sangue. I.:ocra, però, possiede eccellenti proprietà battericide e potrebbe essere servita anche per lavorare il cuoio e le pelli che gli uomini preistorici indossavano; non è quindi chiaro se dipingessero il vestito o il corpo e, nel primo caso, con quale finalità lo facessero. È possibile, ma non è certo, che anche i Neandertaliani usassero l'ocra rossa nelle loro sepolture (come nel caso di Le Moustier) o per dipingersi quando erano in vita, giacché in molti casi si sono trovati nei loro giacimenti blocchi di ematite. Soltanto nel periodo che corrisponde al livello 1O della Cueva del Reno, che contiene la maggior quantità di oggetti ornamentali (24 in totale), i Neandertaliani introdussero nel luogo più di 18 kg di ocra rossa. I.:elemento tipico e nuovo dei Cro-Magnon è senza dubbio l'abbondante presenza di oggetti ornamentali personali, da appendere al collo, da infilare come collane, cinture, braccialetti e bracciali e da cucire alla pelle del vestito o al berretto. Questi oggetti decorativi sono molto diversi e non sempre è facile stabilire una differenza precisa con i pezzi della cosiddetta arte mobile, 232
perché anch'essi venivano trasportati e a volte appesi. Potremmo stabilire questa differenza teorica, e cioè che gli ornamenti appartenevano agli individui e l'arte mobile alla collettività, ma parecchie delle famose Veneri paleolitiche, le statuine di donne piuttosto formose caratteristiche del periodo gravetiano, probabilmente erano appese al collo dei Cro-Magnon. Tra i 28.000 e i 20.000 anni fa in un vastissimo territorio che andava dai Pirenei alla Siberia si potevano vedere esseri umani con queste Veneri (che, stranamente, mancano in Spagna). Sulle stesse Veneri si vedono scolpiti ornamenti quali collane, braccialetti, cappelli ecc. La gente del periodo magdaleniano decorava profusamente anche gli oggetti di uso comune, come i propulsori o i cosiddetti · "bastoni di comando", dotati di un foro che serviva a raddrizzare le punte delle zagaglie. Tali punte si fabbricavano con pezzi tolti da palchi di cervidi o da ossa naturalmente curve che bisognava correggere, come si è visto fare tra le popolazioni moderne. Kaj Birket-Smith, lo studioso degli Inuit (esquimesi), ci raccontò a questo proposito: "Per gli studiosi della preistoria è di notevole interesse sapere che le punte di osso venivano lavorate prima ammorbidendo questo materiale in acqua bollente e poi raddrizzandolo e conferendogli la forma opportuna per mezzo di un utensile fatto con un pezzo di corno di renna provvisto di uno o più fori". È certo che i propulsori e i "bastoni di comando" più ornamentali furono soprattutto oggetti di prestigio, con significato simbolico per tutto il gruppo o forse proprietà esclusiva di alcuni individui di posizione sociale elevata. In quest'ultimo caso farebbero anche parte dell"'immagine" di una persona in particolare. Spesso gli oggetti ornamentali erano resti di animali, quali canini di volpe o di cervo, incisivi di bovino o di cervide, o conchiglie di molluschi, che a volte si trovano in giacimenti molto lontani dal mare. Le sepolture della Liguria sono caratterizzate dall'abbondanza di conchiglie e nel livello aurignaziano antico del giacimento dell'Arbreda se ne sono trovate otto, una delle quali aveva due fori per essere appesa. A proposito, contrariamente a quanto si è soliti vedere nei film, quelli di cui si adornavano maggiormente i Cro-Magnon europei non erano i grandi canini degli orsi selvatici, dei leoni o leopardi, e neppure quelli dei lupi; al nord dei Pirenei, i canini più popolari erano quelli delle modestissime volpi polari (ancor più piccole delle volpi comuni), perforati alla radice per essere infilati come collana. Anche i Neandertaliani castelperroniani della Gruta del Reno e di Quinçay li portavano. Sembra che vedessero in questa specie, il cui pelo cambia colore (è bianco d'inverno e marrone-grigio d' estate), qualcosa di speciale che le conferiva un grande valore 233
simbolico che ci sfugge, perché la volpe polare non ha valore commestibile né un aspetto terribile, anche se a volte ne vengono utilizzate le pelli. A volte, però, avveniva che gli ornamenti personali fossero molto più ricercati, come nel caso delle perline che potevano essere di osso, avorio, palco di cervo o pietra morbida. Le perline sono piccole e numerose e presuppongono un grande investimento di tempo. Con gli stessi materiali si fabbricavano diversi tipi di pendenti, in certi casi intagliati e decorati molto artisticamente. Una tripla sepoltura di Sungir, Russia, di 28.000 anni orsono, è la più ricca in tal senso. I morti sono un adulto di circa sessant'anni e due adolescenti, un ragazzo e una ragazza. Il numero di oggetti ornamentali che indossavano è incredibile, e presuppone moltissime ore di lavoro, valutabili in migliaia. Gli ornamenti di questi abitanti della steppa erano molto più laboriosi di quelli dei Liguri, che disponevano di tutte le conchiglie di cui avevano bisogno e dovevano soltanto infilarle. I.:adulto di Sungir aveva 3000 perline di avorio di mammut cucite sul vestito e sul berretto di pelle, il ragazzo 5000 e la ragazza qualcuna in più. Inoltre il ragazzo portava una cintura con 250 canini di volpe polare; c'erano anche molti altri oggetti, come braccialetti, pendenti, zagaglie, bastoni di comando ecc. che, associati a quelli dei tre corpi, renderebbero l'elenco interminabile. La funzione degli elementi ornamentali non era puramente estetica o decorativa, serviva piuttosto a trasmettere un'informazione molto importante, mediante la vista, su coloro che li portavano: esattamente come oggi, ciò che copre il corpo esprimeva allora filiazione, vale a dire, appartenenza a un gruppo, status, posizione sociale e condizione: celibe/nubile, sposato/a, vedovo/a. Il cervello umano ha una capacità limitata di identificare e ricordare persone. Anche se si sostiene che Napoleone conoscesse uno a uno i veterani del proprio esercito, non per questo i soldati smettevano di portare l'uniforme (tutti vestiti uguali) e le insegne della loro unità e il grado, più le medaglie e altri distintivi individuali. Lidentità sociale, la condizione e la posizione gerarchica all'interno del gruppo diventano palesi e ovvie tramite chiavi simboliche visive, ossia, mediante l'apparenza. Benché siamo l'unica specie a possedere il linguaggio orale come strumento di comunicazione, siamo anche, sorprendentemente, la specie che trasmette la maggiore quantità di informazione per via visiva, grazie al modo di presentarsi personale. Paradossalmente, noi, membri della specie parlante, non abbiamo bisogno di aprire la bocca per sapere davanti a chi ci troviamo. Il paradosso, in ogni modo, è solo apparente perché le chiavi simboliche si stabiliscono e si trasmettono mediante la parola: in realtà sono codici da decifrare, un'altra forma di linguaggio. 234
E non si tratta tanto di associare nomi e facce, ma di stabilire relazioni sociali, vincoli interpersonali di cameratismo, costituire un gruppo coeso con obiettivi comuni. Qui sì che siamo realmente limitati dalla biologia, probabilmente a collettività di 150 persone al massimo, una più, una meno, come abbiamo già visto. Benché le religioni predichino l'amore universale, non possiamo davvero amare con la stessa intensità l'amico (il prossimo) e lo sconosciuto. Laspetto personale, quella che si chiama l'immagine, riveste la funzione di aumentare all'infinito la dimensione dei nostri gruppi sociali, che vanno a includere persone che non conosciamo personalmente, ma che ri-conosciamo a partire dal modo di presentarsi. Lindividuo trasferisce la propria identità agli oggetti ornamentali, che a loro volta sono in-corporati (integrati nel nostro corpo), mentre l'espressione corporea si potenzia per loro tramite. Come sostiene Yvette Taborin, l'ornamento prolunga il corpo. Così, ogni gruppo caratterizza nel corso del tempo i propri segni di identità per mezzo di oggetti di valore simbolico. Oggi vi sono forme diverse di vestire a seconda dell'ideologia politica di ciascuno, o del gruppo, la "tribù", con il quale ci piace identificarci e desideriamo che gli altri ci identifichino. Ma la chiave simbolica può essere decifrata soltanto dai membri della propria società, perché si tratta, come accade con le parole, di segni arbitrari, convenzioni, taciti accordi condivisi dalla comunità. Sino a pochissimi anni fa, era socialmente obbligatorio che le vedove e i vedovi indicassero la propria condizione vestendosi di nero, ma non sempre è stato così. Fu Isabella la Cattolica a disporre, per decreto, che fossero utilizzati indumenti neri come segno di lutto, semplicemente allo scopo di evitare lo spreco economico presupposto dalle costose tele bianche, che si usavano in precedenza. I vari clan scozzesi si distinguevano tra loro per il colore della pianta che portavano sul cappello (e non, come si suole pensare, per i colori del tessuto o "tartan"); per esempio l'erica rossa o l'erica bianca potevano corrispondere a clan differenti. E non è necessario, ovviamente, insistere sulla maniera in cui si esprimono i sentimenti nazionali o di adesione a squadre sportive, o entrambe le cose assieme, per mezzo di colori.
L'etnicità Tipica della nostra specie non è soltanto l'esplosione di simboli di tutti i tipi immaginabili, che letteralmente ci circondano da tutte le parti, ma anche la loro funzione socializzante e integrante. Tutti i simboli sono, per definizione, patrimonio esclusivo della comunità che li ha creati e che li comprende. Poiché, at235
traverso il linguaggio, il gruppo inculca la coscienza negli individui, si può parlare, senza esagerare, di una coscienza sovraindividuale. Nei casi in cui la selezione naturale opera a livello di individui, questi competono tra loro in funzione delle loro caratteristiche individuali. I fortunati vivono e si riproducono di più, trasmettendo queste caratteristiche ai loro discendenti. Poiché levoluzione umana è una storia di competizione e selezione tra gruppi, vince (ossia si perpetua) il gruppo più efficace; è il gruppo, e non l'individuo, quello che conta, alla fine. Tanto i Cro-Magnon erano solidali con i membri del loro gruppo, tanto spietati erano con tutti gli altri. I Neandertaliani usavano pochissimi ornamenti personali, che si sono trovati soltanto in due giacimenti castelperroniani, quello della Cueva del Reno e quello di Quinçay. Inoltre si sono identificate conchiglie perforate in un paio di giacimenti con industria uluzziana, una specie di equivalente italiano del Castelperroniano, anch'esse prodotti neandertaliani, si presume. I livelli musteriani, invece, non hanno fornito alcun ornamento, né quelli precedenti all'arrivo degli Aurignaziani, né quelli posteriori. I Neandertaliani che vivevano a sud dell'Ebro, per esempio, non li fecero mai propri, e si estinsero senza averli mai usati. Quanto è stato affermato in precedenza sull'industria castelperroniana vale anche per gli ornamenti associati. Benché Francesco d'Errico, Joao Zilhao e altri archeologi ritengano che gli ornamenti della Cueva del Reno siano antichi come i primi trovati nei livelli aurignaziani, se non di più, Randall White e Yvette Taborin, noti specialisti in materia, come molti altri autori, ritengono che gli oggetti ornamentali personali di Kostenki 17 (Russia) e Bacho Kiro (Bulgaria) siano precedenti di varie migliaia di anni. L'ipotesi che oggi gode del maggior prestigio è quella secondo la quale i Cro-Magnon inventarono gli ornamenti e i Neandertaliani li imitarono in questo o quel luogo, allo stesso modo in cui copiarono le tecniche di intaglio. Da quest'ultima impostazione, che considero la più confacente, si possono dedurre due conseguenze diametralmente opposte. Una è quella che i Neandertaliani non erano in grado di cogliere il simbolismo nascosto dietro agli oggetti ornamentali, e quindi di decifrarne il messaggio, per la semplice ragione che si trattava di una forma di linguaggio visivo ed essi (come oggi gli scimpanzé) non avevano la funzione del linguaggio, né di tipo orale né di tipo visivo. Il loro cervello si era sviluppato molto per favorire l'intelligenza "naturale", una specie di "intuito istintivo", ma non giungeva sino al livello di astrazione e di produzione di simboli. Copiarono gli ornamenti dei Cro-Magnon, ma senza comprenderli. Secondo l'opzione contraria, i Neandertaliani possedevano capacità pienamente moderne dal punto del vista 236
del linguaggio e dell'uso di oggetti di tipo simbolico, ma non pervennero a svilupparle come noi perché si estinsero prima. A mio avviso, e non sono spinto da alcun intento conciliatore, l'ipotesi più confacente sta a metà strada (o, in altre parole, le due ipotesi precedenti sono in parte sbagliate). I Neandertaliani avevano la capacità tecnica di fabbricare attrezzi di pietra e osso al modo dei Cro-Magnon, e la prova è che lo fecero. Credo che possedessero anche il linguaggio e compissero riti funerari. Vale a dire, erano umani, non nel senso puramente tassonomico di appartenere al nostro stesso gruppo evolutivo e condividere numerosi geni con noi, ma in quello più spirituale delle credenze e dei sentimenti, vale a dire, in quello della mente. La condizione umana, la nostra, non sorse dal nulla, senza alcun precedente, ma fu possibile perché prima erano stati compiuti numerosi passi nella medesima direzione. Tuttavia, i Neandertaliani non svilupparono la nostra specializzazione estrema nella produzione e gestione dei simboli, non raggiunsero la nostra straripante creatività: la loro fantasia non volò mai così lontano. Erano più realisti, se si vuole, il che non li rende inferiori. Un grande quesito su cui si interrogano coloro che ritengono che la condizione propriamente umana (con il linguaggio e altre forme associate di simbolismo, come l'arte) sia nata con la nostra specie, vale a dire, 200.000-150.000 anni fa, è il motivo per cui gli umani moderni impiegarono tanto tempo a uscire dall'Africa e a eliminare le altre forme umane (o meglio, non propriamente umane). E ancora: perché, dopo essersi affacciati in Palestina 100.000 anni fa, tornarono sui loro passi, lasciando il Medio Oriente nelle mani dei Neandertaliani? Una risposta che a volte si dà è che, benché anatomicamente, o per lo meno nell'architettura scheletrica, i proto-Cro-Magnon fossero moderni, mancavano ancora di alcune connessioni neuronali, prima di potersi trasformare in Cro-Magnon. Secondo me, non è così. Come ho già detto in precedenza, ritengo che la diminuita robustezza del corpo abbia molto a che vedere con la comparsa della capacità di produrre il nostro caratteristico linguaggio articolato, e che gli umani moderni lo fossero in tutto sin dall'inizio. La mia risposta alla domanda sul perché non eliminarono i Neandertaliani nel giro di breve tempo è che anche questi erano umani, e molto intelligenti, di sicuro. Di fatto, è possibile che gli umani moderni siano giunti in Australia 60.000 anni fa, molto prima di mettere piede in Europa. Nel percorso forse si scontrarono con gli ultimi Homo erectus, come gli uomini di Ngandong a Giava, ma probabilmente non li impegnarono tanto quanto i Neandertaliani. Il fatto è che la nostra ipertrofia nel gestire simboli e nel linguaggio articolato è utile per raccontare storie, ma non doveva necessariamente con237
ferirci un vantaggio decisivo sugli altri umani, i Neandertaliani, che erano molto forti ed erano maggiormente adattati agli ambienti e ai climi europei. Di qui i rapporti prudenti tra Neandertaliani e Cro-Magnon che durarono mille anni, ed è possibile che solo due fattori concessero ai nostri antenati il vantaggio definitivo. In primo luogo, inventarono un nuovo modo per fabbricare attrezzi (l'Aurignaziano), che svilupparono e perfezionarono sempre più. Il loro ingresso in Europa avvenne con questa nuova tecnologia, che conferì loro una certa superiorità, di cui non disponevano in precedenza. I Neandertaliani furono in grado di adottarla dove la loro densità di popolazione era alta e dove, benché circondati da CroMagnon, furono in grado di resistere per qualche tempo, ma il vantaggio iniziale che permise di giungere nel nord della Spagna in modo rapidissimo fu l'Aurignaziano a darlo ai Cro-Magnon. Il secondo fattore fu, paradossalmente, il clima. Benché 40.000 anni fa non si fosse ancora arrivati al picco glaciale, il clima nell'Europa centrale e settentrionale era freddo, e renne e mammut vagavano per una steppa interminabile in grandi branchi. I Cro-Magnon non erano molto adattati biologicamente al freddo, anzi, proprio il contrario, ma i loro sistemi simbolici consentirono loro di adattarsi al territorio come una pelle e costituire alleanze tra gruppi divisi da grandi distanze. Ciò che li univa tra loro, ai loro antenati e alla natura, erano i vecchi miti, che altro non sono che raccolte di storie. E raccontare storie era la loro specialità. Quanto più avverse erano le condizioni ambientali, e minore e più dispersa la popolazione umana, maggiore era il loro vantaggio. Infine, anche lo stabile mondo mediterraneo fu colpito dal deterioramento climatico. Il bosco scomparve per dar luogo alla steppa. E attraverso la steppa giunsero i grandi branchi di cavalli, e dietro a loro, i cacciatori di cavalli: i nostri antenati narratori di storie. Una forma semplice per comprendere come il clima freddo sia stato sconfitto dai differenti tipi di umani consiste nell'affacciarsi per un attimo all'immensa pianura dell'Europa orientale che si estende, interminabile, dai Carpazi a ovest, sino agli Urali a est, e dall'Oceano Glaciale Artico a nord, sino al Mar Nero e al Mar Caspio e alla muraglia del Caucaso che va da uno all'altro, chiudendo a sud il bassopiano dell'Europa orientale. In tutta la pianura non vi sono grandi elevazioni, e il clima diventa via via più estremo man mano che aumenta la latitudine. Nel centro della Grande Pianura, a 50° di latitudine nord, la media del mese di gennaio è, nell'attuale periodo caldo in cui ci troviamo, di 10 °C sotto zero. Un luogo senza dubbio inospitale per passare la notte all'aperto. I primi esseri umani che osarono addentrarsi nella Grande 238
Pianura orientale furono i Neandertaliani, e lo fecero poco più o poco meno di 120.000 anni fa, nel periodo interglaciale che precedette l'ultima glaciazione. Allora i Neandertaliani giunsero più a nord del 50° parallelo, a quanto dimostrano i giacimenti di Rikhta, Zhitomir e Khotylevo I (a 52° di latitudine nord!): indubbiamente, erano in grado di adattarsi a situazioni assai estreme; è difficile negare loro attitudini straordinarie di organizzazione e pianificazione. In simili circostanze, si può concepire un'esistenza umana senza la loro presenza? Tuttavia, i Neandertaliani si videro costretti a ritirarsi al limite sud del bassopiano est-europeo quando giunse l'ultima glaciazione, rifugiandosi nella penisola di Crimea e sui pendii settentrionali del Caucaso, da dove probabilmente scomparvero gli ultimi Neandertaliani nello stesso periodo dei loro congeneri iberici, tra i 30.000 e i 25.000 anni fa. Coloro che allora guadagnarono la Grande Pianura orientale furono i Cro-Magnon, che giunsero 35.000-40.000 anni fa a Kostenki 17 (a 50° di latitudine nord). Il motivo per cui risultarono vincenti là ·dove i Neandertaliani fallirono, a causa del freddo, si fonda in parte sulla loro tecnologia superiore. Trentamila anni orsono nel giacimento 14 di Kostenk:i vi è un gran numero di bulini e aghi di osso, con i quali gli umani miglioravano le prestazioni delle pelli con le quali si vestivano. E vi erano anche veri e propri sarti, i cui abiti forse non avevano nulla da invidiare a quelli dei moderni Inuit. E più tardi, quando l'ultimo e feroce picco glaciale si stava avvicinando, gli umani di tipo moderno della Grande Pianura orientale impararono a fabbricare capanne rivestite di pelli, con ossa di mammut come armatura, a mantenere i focolari sempre accesi al loro interno e, in mancanza di altro combustibile, impossibile da procurare nell'inospitale pianura, a utilizzare le medesime ossa di mammut per riscaldarsi. Quando infine, a partire da 25.000 anni fa, il freddo glaciale raggiunse il suo punto culminante, gli umani erano preparati a sopravvivere in condizioni così aspre. La media del mese di gennaio di 20.000 anni fa doveva essere incredibilmente bassa, e la desolazione del paesaggio terrificante. Ma, oltre alla tecnologia, che ci è giunta sotto forma di utensili, strutture a capanna e focolari, molto dovettero influire sulla sopravvivenza umana nella Grande Pianura orientale altri oggetti non meno importanti, anche se di apparenza umile, che, come abbiamo visto, sono stati trovati in Kostenk:i 17: gli ornamenti personali. Questi ci dicono che gli orgogliosi uomini che li indossavano erano entrati in una nuova dimensione sociale che avrebbe segnato per sempre il destino umano: l'appartenenza a un gruppo, che va ben oltre il fatto puramente biologico e che si 239
organizza attorno a simboli condivisi. Ciò che caratterizza questa nuova era, la nostra, è letnicità. Homo sapiens, dopo essersi liberato di altre specie, crebbe e si moltiplicò con la comparsa di nuove tecnologie sempre più efficaci, e anche più mortali. Mentre le industrie della pietra del Paleolitico inferiore (olduvaiana, acheuleana), comprese quelle del Paleolitico medio (musteriana ecc.), mostrano una grande monotonia per tutta la loro immensa aerea di distribuzione geografica, quelle del Paleolitico superiore non solo sono più varie in quanto a tipi di strumenti, ma anche per diversità regionale. Jean-Pierre Bocquet-Appel ha individuato in un fattore geografico la spiegazione di questo fatto. Poiché i Neandertaliani e le popolazioni di altre specie umane "arcaiche" avevano densità' di popolazione molto basse, i loro gruppi avevano bisogno di scambiare individui per non estinguersi, formando così una maglia demografica assai allentata, ma estesissima. Tuttavia, a partire dall'esplosione demografica del Paleolitico superiore, gli umani moderni riuscirono a formare gruppi sempre più consistenti che, in quanto agglomerati di popolazione, divennero produttivamente vitali e autosufficienti, e, al tempo stesso, biologicamente e culturalmente chiusi. Gli ellenici della seconda guerra meda consideravano se stessi membri di una stessa comunità perché appartenevano a una stessa stirpe e a una stessa lingua, condividevano i santuari e i riti e avevano abitudini di vita simili. Simboli e ancora simboli. Le storie e i miti condivisi che furono tanto utili agli uomini di CroMagnon, quando le bande erano piccole e disperse, si trasformarono in barriere invalicabili quando le popolazioni divennero più grandi e i gruppi si voltarono reciprocamente le spalle. Come risultato finale della nostra storia evolutiva convivono in ognuno di noi due identità, quella individuale e quella collettiva. Negare lesistenza di una qualunque delle due nature umane significa chiudere gli occhi davanti alla realtà. Mentre l'identità individuale ci spinge all'egoismo e all'assenza di solidarietà, la collettiva ci può portare all'abisso, perché ci rende facilmente manipolabili. Solo nel Novecento, il secolo più cruento della storia umana, sono morte decine di milioni di persone in conflitti tra gruppi raccolti attorno a simboli contrapposti, e al tempo stesso qualsiasi deviazione dalla compattezza del gruppo, qualsiasi allontanamento dalla necessaria omogeneità sociale, sono stati accanitamente perseguiti come una intollerabile minaccia alla collettività. Sarà possibile un giorno che lessere umano possa superare la sua permanente contraddizione tra l'individuo e il gruppo? L'evoluzione ci ha forse condotto su una strada senza uscita? La risposta, amico lettore, sta nel vento.
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Epilogo
L'uomo domesticato E passarono i giorni. E gli anni. E venne la Morte e passò la sua spugna per tutta lestensione del roveto e scomparvero quegli esseri e le storie di quegli esseri. Ma, dietro, tutto rinasceva e riviveva, e si elevavano altri alberi e si incurvavano altri uomini, e nelle caverne nascevano nuove nidiate e la trama dell'arazzo non si allentò mai. Fernandez Fl6rez, El bosque animado
In principio, tra i 5 e i 6 milioni di anni fa, era la scimmia. O meglio, era il nostro antenato comune con gli scimpanzé, abitante della foresta pluviale africana. Questo animale era al limite della coscienza, soprattutto per quanto riguarda la sua vita sociale. Dopo comparvero gli ominidi e gli antenati degli scimpanzé in regioni diverse dell'Africa tropicale. In coincidenza con cambiamenti climatici ed ecologici, gli ominidi si adattarono ad ambienti progressivamente più secchi (benché ancora boschivi); gli antenati degli scimpanzé, invece, continuarono a restare nella selva umida. Alcuni ominidi di 4 milioni di anni orsono erano bipedi, benché la loro vita fosse strettamente legata al bosco. La loro alimentazione era quasi completamente vegetale (e il "quasi" è dovuto al fatto che anche gli scimpanzé consumano insetti e, quando possono, cacciano piccoli mammiferi). Due milioni e mezzo di anni fa, levoluzione produsse un tipo di ominide, Homo habilis, che aveva un cervello più grande e picchiava una pietra contro l'altra per produrre un filo. La cosa più importante era la funzione di questo filo, che altro non era che quella di tagliare la carne. Si verificò allora un importante cambiamento nella dieta, che è come dire nella nicchia ecologica. In breve tempo, in termini ecologici, apparve un ominide davvero nuovo, Homo ergaster. Il suo cervello era molto più grande di quello di qualsiasi scimpanzé e la sua crescita più lenta. Erano fisicamente grandi, le loro proporzioni fisiche assomigliavano alle nostre, ed erano molto, molto forti. Fabbricavano strumenti standardizzati e comunicavano per mezzo di simboli. O almeno potevano controllare lespressione delle loro emozioni, sia I'espressione corporea sia quella sonora, che non erano meri sintomi, indizi del loro stato d'animo, bensì segni che trasmettevano l'informazione che desideravano, a chi desideravano e quando 241
sembrava loro opportuno. Possedevano una forma elementare di linguaggio e seguivano un lungo periodo di apprendistato che consentiva loro di spingere lo sviluppo delle loro capacità cognitive ben oltre gli scimpanzé. Se potessimo sottoporli ai test con cui esaminiamo l'intelligenza di queste scimmie, ne uscirebbero con punteggi migliori. Gli ominidi, o meglio umani, della specie Homo ergaster iniziavano a creare attorno a sé un ambiente sociale e culturale che conferiva loro un'indipendenza sempre maggiore dall'ambiente fisico, e così le loro popolazioni aumentarono. Grazie a ciò, riuscirono a diffondersi per l'Eurasia probabilmente più di un milione e mezzo di anni fa e a superare con successo la dura prov;;i climatica ed ecologica posta dalle alte altitudini, lontane dall'Equatore, cosa che non fecero gli altri ominidi della loro specie, i parantropi, che non uscirono mai dall'Africa. Questi umani si adattarono così bene fuori dell'Africa che popolarono quasi tutta lAsia e l'Europa, raggiungendo le terre fredde della Germania e dell'Inghilterra mezzo milione di anni fa. Altri giunsero molto prima sino alla penisola iberica, nell'Estremo Occidente, e nell'Estremo Oriente, in Cina e a Giava. In questa isola si sono i trovati i resti più antichi, chiamati Homo erectus, anche se in realtà non erano molto diversi da quelli di Homo ergaster africano. In Europa gli umani evolvettero in condizioni di isolamento per produrre una specie autoctona: i Neandertaliani. Questi continuavano a mantenere una grande forza fisica ed erano ben adattati fisiologicamente al clima europeo. I Neandertaliani avevano un cervello grande, che utilizzavano per comunicare tra loro, per usare il fuoco e per fabbricare utensili molto complessi, con numeròse procedure. Lo usavano anche per risolvere i problemi tipici degli ecosistemi europei, marcatamente stagionali e per questo poco adatti all'esistenza dei primati. Mentre i Neandertaliani evolvevano in Europa, noi lo facevamo in Africa, ma ancora 300.000 anni fa, lepoca della Sima de los Huesos, i nostri antenati e quelli dei Neandertaliani non erano molto diversi, né fisicamente né a livello comportamentale. Il motivo è che non era da molto che stavano evolvendo separati. Tuttavia, in quel momento si verificò la seconda grande espansione cerebrale, e poiché ebbe luogo separatamente in Europa e in Africa, i risultati furono diversi. I frutti che conosciamo meglio sono quelli della nostra stirpe, che sono evidenti. Uno di questi è il nostro favoloso linguaggio articolato, al servizio di una capacità unica di maneggiare simboli, o, in altre parole, di raccontare storie e creare mondi fittizi. Questa è la nostra superspecializzazione, la creatività, e si verificò nel ramo africano dell'evoluzione umana, e non in quello eu242
ropeo. I Neandertaliani, semplicemente, giunsero più lontano dei loro antenati della Sima de los Huesos nel campo delle loro stesse capacità cognitive e di comunicazione, già di per sé molto avanzate, ma non svilupparono, come abbiamo fatto noi, un sistema rivoluzionario per trasmettere l'informazione. Per far capire meglio lestrema specializzazione presupposta dal nostro linguaggio, propongo al lettore, seguendo Philip Liebermann, un esperimento: provi a leggere un testo a voce alta per dieci secondi. Vedrà che può facilmente leggere 200 lettere, 20 al secondo, che pure non rappresentano esattamente 200 suoni o fonemi, ma ci danno un'idea delle nostre capacità fonetiche. È incredibile la nostra capacità di produrre e ascoltare suoni a tale velocità. Anche la mente dell'uomo moderno era diversa da quella dei suoi contemporanei Neandertaliani, ma non per una maggiore intelligenza, diciamo, tecnica. Anzi, la caratteristica cui ci stiamo riferendo consiste in una completa anomalia nel nostro modo di percepire il mondo, un errore colossale, su cui, sagace come sempre, ha riflettuto Konrad Lorenz. Tutti gli animali dispongono di un filtro in relazione agli stimoli che ricevono. L'informazione che captiamo mediante i sensi è così corposa che abbiamo bisogno di un meccanismo che selezioni in modo automatico e inconsapevole (vale a dire rapido) i dati più significativi. Se non fosse per questo meccanismo selettivo, non potremmo fare nulla, perché passeremmo la vita ad analizzare l'informazione proveniente dall'esterno. Soltanto gli stimoli che superano tale filtro scatenano comportamenti, reazioni. Noi umani moderni siamo primati, e possiamo anche dire umani straordinariamente sociali, molto attenti, in modo permanente, ai segni provenienti dagli altri umani, che ci aiutano a leggere la loro mente e a prevederne le azioni. Per essere più efficaci, reagiamo con prontezza di fronte a stimoli molto semplici e isolati. Osserviamo con tanta intensità il volto dei nostri congeneri da rilevarvi anche il più piccolo segno di cambiamento. La vita sociale è una grande partita a scacchi. E qui sta la chiave del motivo per cui la natura si è riempita di spirito (o di spiriti). La nostra capacità di analisi, vale a dire di scomporre la realtà in parti sempre più piccole, è tanto grande che infine commettiamo errori clamorosi di interpretazione, nonostante le nostre portentose facoltà cognitive, sbagli nei quali nessun altro animale incorrerebbe. Così, gli oggetti più sorprendenti ricevono valori emozionali, perché si attribuiscono loro, erroneamente, qualità umane; come indicava Lorenz: "Le scoscese pareti rocciose o l'accumularsi di cupe nubi di tormenta hanno lo stesso valore espressivo di una persona eretta in atteggiamento minaccioso o china in avanti, in atteggiamento teso a 243
dimostrare le proprie intenzioni". Gli archi sopraccigliari dell'aquila sembrano rughe della fronte e, assieme alla commessura della bocca tirata all'indietro, conferiscono all'animale un'apparenza di ostinata determinazione. Poiché il cammello o il lama hanno la testa alta, con il naso sopra l'occhio, e la commessura della bocca bassa, sembra che ci guardino sdegnosi: sono animali che risultano "antipatici". Agli animali attribuiamo anche proprietà estetiche: l'ippopotamo è goffo, il fenicottero gaio ed elegante; e ciò che è ancor più significativo è che attribuia1I10 qualità etiche agli animali: il lupo è il cattivo delle favole e i capretti sono i buoni, la formica è operosa e la cicala fannullona ecc. Per riassumerlo con un'esperienza che abbiamo fatto tutti, a Lorenz, quando era piccolo, sembrava che un vagone della metropolitana con le persiane dei finestrini mezzo abbassate lo guardasse seriamente. È così importante il ruolo svolto dagli occhi come elemento di riferimento del volto che qualsiasi oggetto con degli orifizi, come una casa con le sue finestre, tende a ricordarci una faccia, cui attribuiamo anche un'espressione simpatica o sgradevole in rapporto alla disposizione delle strutture che circondano le dette finestre, che costringiamo rapidamente a trasformarsi in naso, bocca, sopracciglia, capelli. Questo strano modo di percepire come umani gli esseri, animati o inanimati, che non lo sono, assieme alla capacità di raccontare storie in cui compaiono tali esseri, è ciò che ha fatto sì che la natura si animasse. Il grande vantaggio derivato da questo peculiare difetto consiste nel fatto che ha aiutato l'uomo a comprendere i fenomeni naturali. Se la coscienza individuale era sorta perché è utile guardare le cose dal punto di vista dell'altro, cui pure si attribuisce una coscienza, il mettersi al posto degli altri esseri della natura, vale a dire, riconoscere loro una coscienza, è una forma non scientifica, ma efficace, di fare biologia e geologia. E anche geografia, perché il miglior modo di incidersi nella memoria una mappa, e di condividerla con gli altri membri della comunità, è di associare gli elementi del paesaggio a personaggi e storie. Dalla Granja de San Ildefonso (Segovia) dove ho passato numerose estati della mia vita, si ammira .un'enorme montagna che, per la sua forma, si chiama La Mujer Morta [La donna morta] e anche un'altra montagna nota come El Mont6n de Trigo [Il mucchio di grano]. Contemporaneamente alla comparsa di questa meravigliosa facoltà, avveniva un altro cambiamento assai considerevole, anche se a prima vista non ha rapporto con questa: l'assottigliamento dello scheletro. Le anche si fecero più strette, cosa che faceva risparmiare energia a ogni passo. I Neandertaliani e gli umani moderni erano diversi quanto a tipo fisico, ma anche 244
quanto a cranio e a capacità di articolare i suoni. Non credo che
il cervello grande e il linguaggio articolato fossero, come sostiene Tattersall, ex-attamenti, tratti sorti senza alcuna relazione tra loro né con la capacità di maneggiare simboli. Penso, invece, che siano veri e propri adattamenti, o meglio ancora, adattamenti che si sostengono reciprocamente, perché hanno bisogno l'uno dell'altro. Noi umani, a partire da Homo habilis, ci siamo specializzati nell'intelligenza, esattamente come gli uccelli lo fecero nel volo. Quando l'Europa fu colonizzata per la prima volta, avevamo già percorso un lungo cammino; anche se in seguito la nostra popolazione rimase isolata, la necessità di sopravvivere e la competizione tra gruppi fecero sì che l'intelligenza andasse aumentando, pur senza rinunciare alla potenza fisica. Vale a dire che i Neandertaliani avevano un cervello più grande su di un corpo che continuava a essere possente quanto quello dei loro avi. Anche i nostri antenati africani erano forti e forse sempre più intelligenti. Sino a che in un momento dato, in qualche popolazione umana apparve una variante meno forte fisicamente, ma più comunicativa. Per quanto possa sembrare sorprendente, le due caratteristiche sono in rapporto tra loro. Ciò che ha fatto sì che riuscissimo ad articolare meglio i suoni è stata la riduzione della faccia, che a sua volta fu resa possibile dalle minori necessità respiratorie. I Neandertaliani erano autentici colossi, con una grande capacità toracica e polmonare. Tutta quell'aria che ossigenava i loro muscoli doveva essere umidificata e scaldata nelle cavità nasali e orali prima di entrare nei polmoni, e per questo il segmento orizzontale del tratto vocale continuava a essere lungo. Il clima freddo dell'Europa contribuiva ulteriormente a questa necessità. I primi umani moderni in Africa erano circondati da popolazioni robuste quanto i Neandertaliani, che però presero un altro indirizzo evolutivo, un modo diverso di dare soluzione agli stessi problemi ecologici: un cervello specializzato nel trattamento dei simboli, una faccia più corta, forse un rischio maggiore di soffocamento, ma in cambio un'incredibile macchina per comunicare e un corpo meno in grado di compiere grandi sforzi esplosivi, ma più efficace in termini di dispendio energetico a lungo termine, nei grandi spostamenti. Queste trasformazioni si verificarono 200.000-150.000 anni fa e riguardarono, sostengono i biologi molecolari, soltanto una piccola parte della popolazione africana. Si è giunti a tale conclusione dopo aver osservato la ridotta variazione genetica delle popolazioni umane attuali. Malgrado la differenza di colore, tipo di capelli, forma degli occhi, e altri pochi elementi, siamo tutti uguali. Le tesi razziste non solo sono eticamente abominevoli, ma sono anche scientificamente false. Ciò nonostante, quella piccola popolazione africana riuscì ad 245
avere 10.000 o 15.000 membri, che dopo tutto equivalevano alla popolazione della penisola iberica di quel tempo. Neandertaliani e umani moderni sono due modelli umani diversi, che rappresentano entrambi efficacissime risposte evolutive a identiche sfide della vita. Le due specie, loro e noi, sperimentarono un aumento demografico e un'espansione geografica. I Neandertaliani uscirono dall'Europa, la loro patria d'origine; anche gli umani moderni lasciarono l'Africa, loro culla. Era solo questione di tempo perché si incontrassero. Negli scavi della caverna del Parpall6 (Valencia), Lluis Pericot ha trovato - tra il 1929 e il 1931 - piccole lastre di pietra dipinte o incise dall'uomo paleolitico nel corso di mille anni; recentemente sono state studiate a fondo da Valentin Villaverde. Nelle innumerevoli lastre della caverna sacra del Parpall6 predominano le figure di capre, cavalli, cervi e uri (in questo ordine). Vi sono anche quattro camosci e altrettanti cinghiali, tre lupi, tre volpi, una lince, un mustelide (forse una nutria), una pernice e un'anatra. Non vi sono raffigurazioni della fauna fredda (mammut, rinoceronti lanosi, renne) né bisonti, che forse non giunsero mai a popolare l'oriente della penisola. Nella stessa regione esistono manifestazioni artistiche note come Arte levantina perché il suo centro è nella regione di Valencia, anche se si estende molto al di là, nelle comunità di Andalusia, Aragona, Castiglia-La Mancha e Catalogna. Si trovano alla luce del giorno in rifugi o pareti poco coperte, invece che nell'oscurità delle caverne, e mostrano animali e persone (uomini e donne), spesso a comporre scene di caccia, raccolta o danza, forse rituale. La cronologia dell'Arte levantina, dal momento della scoperta, è stata oggetto di controversia· - cui parteciparono naturalmente su posizioni opposte Obermaier e Hernandez-Pacheco -, ma oggi sembra chiaro che non sono pleistocenici, come credette il primo, ma postglaciali. Molti dipinti narrano storie cinegetiche, con cacciatori armati di archi e frecce, e le prede rappresentate da cervi, tori, capre e cinghiali. Dal tempo delle piccole lastre di pietra del Parpall6 sino a quello delle scene di caccia dell'Arte levantina, apparentemente nulla è cambiato nello stile di vita umano, nonostante i numerosi millenni trascorsi. Tuttavia tutto fa pensare che l'Arte levantina fosse realizzata da gruppi di cacciatori e raccoglitori, già entrati in contatto con società a economia produttiva, che basavano la propria esistenza su piante e animali domesticati. Forse anche gli autori appartennero a queste prime genti neolitiche, che giunsero forse 7000 anni orsono. In ogni caso, corrispondono al momento nel quale si verifica in quell'angolo di Oriente la fine di un mondo e l'arrivo di un altro molto diverso: il nostro, 246
quello dell'uomo domesticato, che si muove al ritmo lento dei suoi animali o che curva la schiena sulla terra che zappa, guardando il cielo soltanto per implorare la pioggia o per chiedere che cessi. Con il cambiamento dell'economia awenne anche un mutamento nelle mentalità: gli dèi dei cacciatori non erano gli stessi dèi degli agricoltori e degli allevatori. Qualcuno ha scritto che quando una lingua muore quelli che l'avevano parlata in passato muoiono per la seconda volta. Accade la stessa cosa quando si estinguono i vecchi miti e sono sostituiti da altri nuovi. Non comprenderemo mai il significato delle pitture rupestri, semplicemente perché a noi non dicono alcunché, ormai non ci parlano. Ed è accaduto qualcosa di ancor più terribile: anche la natura ha smesso di parlare all'uomo. (Così come il vecchio arco di pietra della mia infanzia smise di essere un ponte degli antichi giganti e l'unico suono che si può ascoltare ora nel bosco è quello delle cave che perforano le viscere della montagna, il suono delle fabbriche che trasformano la calce in cemento, quello delle motoseghe che tagliano gli alberi e quello delle automobili che sfrecciano lungo l'autostrada.) Questo fu il tramonto delle bande di cacciatori liberi e selvaggi, non ancora "civilizzati". Giunsero i contadini e con loro la fine di questo libro e il mio saluto al lettore, un saluto che spero sia solo temporaneo.
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Per finire
Mi racconta Mauro Hernandez, studioso di arte levantina, che nei dirupi e nei precipizi dove si trovano le grotte con i dipinti degli ultimi cacciatori e raccoglitori presenti nella penisola è tornata a crescere la vegetazione e nuove nidiate danno segni di vita. La natura ha recuperato le terre che coltivazioni e bestiame hanno spianato e sui terreni rimasti spogli tutto germoglia nuovamente e rivive. Forse qualche generazione più saggia della presente tornerà ad ascoltare la voce della natura nel vento.
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Inmemoriam
Negli ultimi anni sono sorti movimenti di protesta tra i popoli indigeni di diverse parti del mondo, che rivendicano la restituzione delle ossa dei loro antenati custodite nelle collezioni dei musei. Gli aborigeni australiani hanno reclamato e ottenuto fossili umani di migliaia di anni orsono per riportarli ai luoghi dove riposavano prima che gli scienziati ne turbassero il sonno. Io penso che il modo migliore per onorare i nostri antenati sia di conoscerli meglio, anche se comprendo i sentimenti degli aborigeni. Non è facile convincerli che i loro avi stanno meglio in una stanza blindata che in piena natura, anche se confido che libri come questo contribuiscano a far capire meglio il valore universale della scienza, per tutta l'umanità. Numerosi fossili umani sono stati dissotterrati da ricercatori come me, e altri lo saranno in futuro, ma molti di più riposano per sempre in seno alla Madre Terra. A ognuno di loro dedico, come un sentito omaggio, la frase con la quale i romani chiudevano gli epitaffi delle persone più care. Sit tibi terra levis: ti sia lieve la terra.
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Bibliografia
Senza l'assurda pretesa di fornire un elenco esauriente di tutto ciò che è stato pubblicato in un campo così ampio come quello dell'evoluzione umana, presento qui di seguito una lista di libri a carattere generale, la maggior parte pubblicati negli ultimi anni - quando sono tradotti si è optato per l'edizione italiana-, oltre a una serie di articoli o libri che ampliano l'informazione dei vari capitoli dell'opera.
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Storie di fossili italiani di Giorgio Manzi
Alla memoria di Antonio Ascenzi
L'insieme delle cose si rinnova senza sosta e così vivono i mortali. Ci sono popoli che si accrescono, altri che si estinguono; in breve tempo si succedono le generazioni: come corridori si passano di mano in mano la fiaccola della vita. Lucrezio, De rerum natura (II, 75-79)
Teorie effimere Non saprei dire, così su due piedi, cos'altro sia successo di importante nel 1994, ma certamente fu un anno straordinario per la paleontologia umana. In primavera, la rivista scientifica "Nature" annunciava il rinvenimento del più antico fossile umano mai scoperto in Europa. La foto di copertina riportava una porzione di tibia proveniente dal sito di Boxgrove in Inghilterra e, all'interno, l'articolo enfatizzava l'importanza del reperto per le nostre conoscenze sul primo popolamento dell'Europa. Tuttavia, per quanto la tibia di Boxgrove apparisse in quel momento come il più antico fossile umano europeo (quantomeno tra i più antichi), era l'ennesimo reperto che non superava (quantomeno non di molto) il traguardo del mezzo milione di anni da oggi. Nella percezione di molti addetti ai lavori, la scoperta di Boxgrove suonò perciò come la conferma di una teoria che era stata proposta, proprio in quegli anni, da due specialisti olandesi. Wil Roebroeks e Thijs van Kolfschoten avevano infatti ritenuto di poter emettere una sentenza definitiva sul primo popolamento dell'Europa. Una sentenza, attesa da molti e paventata da molti altri, che possiamo riassumere così: il nostro continente non vide esseri umani, né (tantomeno) ominidi, prima di 500-600 mila anni dal presente. La tesi veniva basata su alcune efficaci considerazioni. In primo luogo, non esistono fossili umani più antichi di quella data; la scoperta di Boxgrove, ennesimo rinvenimento non più antico di 500 mila anni, sanciva in pratica proprio questo punto. Visto che l'Europa è stata a lungo al centro dell'interesse dei ricercatori, tanto da riempire di fossili gli armadi dei laboratori di paleontologia umana, è mai possibile - argomentavano Roebroeks e van Kolfschoten - che le evidenze più antiche siano così fragili, per non dire inconsistenti? Se si parte dalla 261
scoperta dello scheletro della valle di Neander, in Germania, nel 1856, in quasi 150 anni di ricerche sono stati scoperti centinaia di fossili neandertaliani, decine di fossili anteneandertaliani (escludendo la Sima de los Huesos, che conta da sola oltre 2000 fossili), ma neanche un frammento d'osso o un dente che siano più antichi di mezzo milione di anni? Inverosimile. È un dato di fatto che l'evidenza di presenze umane in Europa più antiche di Boxgrove poggiava in quegli anni solo su rinvenimenti di tipo archeologico: manufatti, non reperti fossili. In questi casi ci si trova a ragionare su documenti "indiretti" della presenza dell'uomo; la cosa importante è che questi vengano riconosciuti come arcaici e che siano rinvenuti in strati geologici databili. E il punto-chiave è proprio questo, incalzavano Roebroeks e van Kolfschoten, passando alla seconda parte della loro requisitoria. Se si mettono in fila uno dopo l'altro i siti archeologici (purtroppo pochi) di questo tipo e di questa presunta antichità, si deve constatare che alcuni siti sono mal datati, altri non lo sono proprio, altri ancora non sono neanche "siti", ma rinvenimenti occasionali di superficie. Insomma, soltanto una manciata di essi sostiene il confronto con una prima ricognizione critica e nessuno riesce a superare indenne il vaglio di una critica più severa. Un caso per tutti è quello del giacimento di Isernia la Pineta, in Italia, dove un insieme paleontologico di straordinario interesse, con spettacolari superfici archeologiche, era stato datato a oltre 730 mila anni dal presente, mentre oggi viene riferito - siamo alle solite - a epoche più vicine al mezzo milione di anni (circa 600 mila). I:ultimo argomento di Roebroeks e van Kolfschoten era più raffinato e si basava sulla seguente considerazione: chi ci dice che "arcaico" significhi anche "più antico", sempre e comunque? Molti dei siti e, soprattutto, la quasi totalità dei rinvenimenti di superficie attribuiti a epoche anteriori al mezzo milione di anni lo sono, o sono considerati tali, in quanto riferibili al Modo tecnico 1, caratterizzato per lo più da manufatti su ciottolo non accompagnati da strumenti bifacciali elaborati. Il Modo 2 (con bifacciali) appare successivamente in Europa: guarda caso proprio intorno a 500-600 mila anni fa. Ma il cambio di guardia non è totale: manufatti Modo 1 persistono mentre il Modo 2 si afferma, si sviluppa e addirittura scompare. Un manufatto Modo 1 rinvenuto passeggiando in campagna non ci fornisce necessariamente informazioni di tipo cronologico: può essere più antico di mezzo milione di anni. Può ... ma può anche essere parecchio più giovane. Tanto meno ci dà certezze su chi possa essere stato il suo artefice. In effetti, che nella mia cucina coesistano un coltello con manico di legno e uno elettrico non vuol dire che la mia 262
cucina sia un "palinsesto stratigrafico", cioè rappresenti l'accumulo di evidenze appartenenti a fasi cronologiche differenti. Più semplicemente è che nella mia cucina conservo e uso uno strumento semplice (il coltello con manico di legno), per fare cose semplici come tagliare il pane, e uno strumento simile ma più tecnologico (il coltello elettrico) per fare cose più difficili, come intende chiunque abbia tentato di fare a fette sottili un arrosto ancora fumante. Un archeologo del futuro che si trovi a scoprire soltanto il cassetto con dentro il coltello con manico di legno non è autorizzato a concludere che io sia vissuto nell'Età del ferro o giù di lì. Dunque, la teoria di Roebroeks e van Kolfschoten poggiava su pilastri concreti e su un ragionamento convincente. E il ragionamento era già sul punto di persuadere molti esperti di preistoria. Alla teoria fu dato subito anche un nome, short chronology, che alludeva precisamente al fatto che il primo popolamento dell'Europa non fosse anteriore al mezzo milione di anni fa. Non mi è nota in paleontologia umana una teoria che abbia avuto vita più breve di quella che era stata chiamata "cronologia breve"! Nel giro di pochi mesi dalla formulazione della short chronology, due straordinarie scoperte di fossili umani, rispettivamente in Spagna e in Italia, cambiavano inaspettatamente le carte sul tavolo della dialettica scientifica e preparavano la mossa decisiva. Infatti, proprio quello stesso anno - per questo il 1994 fu memorabile - l'équipe di Atapuerca raggiungeva con un sondaggio il livello TD6 della stratigrafia del sito chiamato Gran Dolina, e portava alla luce un'ottantina di resti fossili umani frammentari che, nel giro di tre anni, comparivano due volte sulla rivista scientifica "Science" per descrivere una nuova specie estinta:
Homo antecessor. Ma. non finisce qui. Pochi mesi prima, in quello stesso 1994' (dav\lero fu uri anno formidabile), erano stati scoperti i resti frainmènta:ri di un cranio umano estremamente arcaico nei pressi della cittadina di Ceprano, in provincia di Frosinone, Lazio, Italia. :tanno successivo, le lampanti caratteristiche morfologiche di questo cranio umano - così arcaiche e progressive al tempo stesso (ne parleremo tra breve) - destavano l'interesse quasi incredulo di alcune fra le maggiori autorità mondiali in paleontologia umana convenute ad Orce, nel sud della Spagna (Granada), per un convegno sul più antico popolamento dell'Europa. Ricordo bene il sudafricano Phillip Tobias, gli americani Clark Howell, IanTattersall e Milford Wolpoff, il tedesco Gunter Briiuer, l'italiano Brunetto Chiarelli e altri a fare rumorosamente capannello per guardare e commentare, quasi increduli, le foto del cranio di Ceprano. Ma veniamo al punto: i reperti spagnoli di Atapuerca e quello 263
italiano di Ceprano sono entrambi ma indipendentemente riferibili a circa 800-900 mila anni fa. Siamo prima cioè di oltre 300 mila anni rispetto a quel mezzo-milione-di-anni-fa posto come limite invalicabile dai sostenitori della short chronology e confermato, proprio in quel travagliato 1994, dalla scoperta di Boxgrove. Trecentomila anni... qualche cosa tipo 115 volte il tempo che passa tra me e i discendenti di Enea, uomini della prima Età del ferro.
Ceprano & friends Sergio Sergi in fondo l'aveva previsto, quando aveva detto ad Aldo ed Eugenia Segre: "Voi un giorno troverete i resti fossili di un uomo davvero antico, molto più antico di questa mandibola neandertaliana". La scena si svolgeva a Roma alla fine del 1970, nella sede prestigiosa e austera dell'Istituto italiano di Paleontologia umana (Is.l.P.U.). Sergi - uno tra i più conosciuti paleoantropologi della prima metà del ventesimo secolo - prendeva in esame un nuovo resto fossile umano appena rinvenuto dai ricercatori dell'Is.1.P.U., questa volta in Calabria ad Archi: una mandibola appartenuta a un bambino neandertaliano di appena 3 anni, con un buon numero di denti da latte ordinatamente al loro posto. Ancora un altro piccolo tassello, utile a ricostruire il puzzle della preistoria e dell'evoluzione umana in Italia. La storia dell'appassionante ricomposizione del puzzle era iniziata nei lontani anni Trenta, quando erano venuti alla luce tre fossili umani molto importanti: due da Roma e l'altro dal Monte Circeo, il promontorio un centinaio di chilometri più a sud lungo la costa tirrenica. Da allora, sono dovuti passare oltre cinquant'anni prima che un nuovo reperto di tale rilievo venisse alla luce. Per quanti scavi preistorici siano stati condotti un po' su tutto il territorio italiano, solo e soltanto resti frammentari hanno costituito il magro bottino fossile di tante ricerche: una porzione di mandibola e un frammento di femore qua, una porzione di osso parietale e due corone dentarie là, e via di questo passo. Finalmente, verso la fine del 1993, si assiste alla spettacolare scoperta di uno schele_tro praticamente completo ad Altamura, nelle viscere della Murgia barese (ne riparleremo), e quindi - pochi mesi dopo - il cranio di Ceprano. Soffermiamoci ora un poco su quest'ultimo storico rinvenimento. Qui bisogna introdurre un nuovo personaggio: Italo Biddittu. È il direttore del nuovo delizioso Museo preistorico di Pofi (Frosinone), ma per la nostra storia è soprattutto un ricercatore dell'Is.I.P.U., archeologo preistorico, specialista internazionalmente riconosciuto di Paleolitico inferiore. Una domenica matti264
na del marzo 1994, Biddittu perlustrava il tracciato di una strada ancora in costruzione poco fuori Ceprano, quasi al confine tra Lazio e Campania. Seguiva attentamente i lavori di scavatrici che avevano ormai irrimediabilmente inciso le stratificazioni geologiche di una zona che lui conosceva molto bene. Da quelle parti, infatti, proprio Biddittu aveva messo in luce documenti di frequentazioni preistoriche antichissime, raccogliendo una quantità di manufatti riferibili al Modo 1. Questi e altri rinvenimenti erano il frutto di oltre 30 anni di ricognizioni sul territorio da parte dell'Is.1.P.U.: a Colle Marino, ad Aree e Fontana Liri, a Castro dei Volsci, a Pofi e Ceprano ... proprio alcuni tra quei "non-siti" (in quanto rinvenimenti occasionali di superficie) del Paleolitico arcaico messi in discussione dai teorici della short chronology come evidenza troppo fragile per ammettere che l'uomo fosse in Europa prima di 500 mila anni fa. Italo mi ha raccontato tante volte come andò. Mentre camminava, la sua attenzione fu attratta da un frammento di osso piatto appoggiato sul terreno, messo in evidenza dalle recenti piogge. Meccanicamente raccolse il frammento, lo osservò, lo mise in una piccola busta e continuò a camminare per pochi passi. Fu lì che si arrestò di scatto e tornò indietro. Aveva capito che poteva esserci qualcosa di importante, qualcosa che aveva cercato per una vita, ma che non sperava più di trovare. Guardando bene nel terreno smosso dalle ruspe, apparve allora la massiccia arcata orbitaria di un cranio umano fossile. Poi altri frammenti e altri ancora, a decine, tutti appartenenti allo stesso cranio. Aveva finalmente trovato ciò a cui tutte le sue scoperte "alludevano" da decenni: non si era mai visto un essere umano così arcaico dalle nostre parti, come peraltro in tutto il resto del continente. Iniziò così - con questa scoperta solo in parte casuale, ma certamente fortunata - un lavoro paziente di setacciatura del terreno e di analisi stratigrafica, che occupò per settimane una piccola équipe dell'Is.I.P.U. coordinata dal geologo Aldo Segre e dalla paleontologa Eugenia Segre Naldini, sua moglie (li abbiamo già incontrati prima, a colloquio con Sergio Sergi). La scoperta fu notificata alla competente Soprintendenza archeologica del Lazio, che in seguito confermerà all'Is.l.P. U. - parte in causa nel rinvenimento di questo come di molti altri fossili umani in Italia - l'autorizzazione allo studio dello straordinario reperto, ormai noto internazionalmente come "Ceprano", e a effettuare scavi e ricerche geologiche, paleontologiche e archeologiche in tutta l'area. Prima che il fossile umano potesse essere studiato in modo approfondito, è stato necessario ricostruirlo a partire dalla cinquantina di frammenti che erano stati pazientemente rinvenuti. Un lavoro che - tra operazioni tecniche, confronti e revisioni critiche - ha richiesto anni. Ne è risultato un cranio di proporzioni 265
massicce, appartenuto a un poderoso maschio adulto di una specie arcaica del genere Homo. Purtroppo, nonostante le analisi minuziose effettuate a suo tempo sul terreno, il cranio è rimasto privo della faccia, forse portata via dalle scavatrici nei lavori di costruzione della strada che precedettero il provvidenziale intervento di Biddittu e degli altri. Malgrado manchi della faccia (l'assenza di denti, in particolare, rappresenta una grande lacuna ai fini dell'interpretazione del reperto), Ceprano - come si dice "parla da solo". La sua morfologia è sorprendente. È proprio vero che non si era mai visto un ominide così arcaico in Europa, con forti reminiscenze africane e asiatiche. Ma bisogna anche dire che Ceprano mostra chiari segni di progressione verso l'umanità del periodo successivo, quella del Pleistocene medio. Parecchi perciò sono i tipi umani a cui fare riferimento per comprenderne appieno le caratteristiche e intuire il significato e l'importanza di questo fossile per levoluzione umana. Ma perché è importante quel mezzo cranio fossile senza volto? Intanto perché se ne trovano pochi di reperti come Ceprano e ciascuno di essi-per quanto frammentario - assume un significato scientifico notevole. Ma non solo per questo. Ceprano è ancora più importante perché rappresenta, in qualche modo, il "nonno" di tutti noi. Metaforicamente lo è di tutti gli europei, essendo il più antico rappresentante adulto e sufficientemente completo dei primi uomini che popolarono il continente. Sappiamo che la storia del genere Homo inizia in Africa - da un cespuglio di ominidi ancora non propriamente umani - e segue poi un percorso di diffusione in Eurasia che mostra il raggiungimento di una capacità tipicamente nostra, quella di adattarsi plasticamente agli ambienti più disparati: ai tropici come nella tundra periglaciale, sulle coste come in alta montagna, occupando la nicchia del consumatore come quella del predatore, Con armi limitate ma evidentemente potenti - uno strumento di pietra silicea stretto nel pugno, una pelle di animale sulle spalle, un fuoco acceso all'imboccatura di una caverna - i primi rappresentanti di questa umanità arcaica si diffondono fuori dell'Africa, forse già a partire da circa 2 milioni di anni fa. Ce lo testimoniano in modo inequivocabile le recenti scoperte avvenute nel Caucaso meridionale, in Georgia (il sito si chiama Dmanisi), datate a circa 1,7 milioni di anni dal presente. In questa fase, popolazioni umane davvero arcaiche hanno ormai varcato le porte dell'Africa e si sono dunque affacciate a quelle dell'Europa, ma è assai probabile che il primo flusso importante sia stato in direzione dell'Estremo Oriente. In effetti, ancora non si sa quando arrivarono in Europa, né è nota con precisione la traiettoria di questa nuova diffusione verso occidente, verso nord, verso le terre dei ghiacci. È assai pro266
babile che venissero proprio dalla regione a sud del Caucaso, avendone percorso le pianure fluviali, costeggiato il Mar Nero e attraversato il Bosforo (che in molte fasi della preistoria deve aver rappresentato un ponte di terra transitabile). Molti pensano che ciò possa essere accaduto parecchio prima di 1 milione di anni fa, ma al momento i fossili umani più antichi rinvenuti in Europa - rispettivamente in Spagna (Atapuerca TD6) e in Italia (Ceprano) - non superano gli 800-900 mila anni dal presente. Lo studio e le analisi sono tuttora in corso sul cranio di Ceprano e iniziano a darci delle risposte sul significato da dare a Ceprano e ai suoi contemporanei sul territorio europeo, al momento rappresentati solo nella Sierra de Atapuerca. Si tratta di umanità differenti tra loro, al momento documentate rispettivamente in Italia e Spagna? Specie diverse in competizione adattativa in uno scenario ambientale difficile, come accadrà centinaia di migliaia di anni dopo tra Neandertal e Cro-Magnon? Oppure Ceprano rappresenta la forma adulta del tipo umano documentato dal campione spagnolo, il cosiddetto Homo antecessor? Ciò che sappiamo già è che in Europa, nelle centinaia di migliaia di anni successive, quelle del Pleistocene medio, si assiste a un processo evolutivo con un duplice significato. Da un lato, si afferma un fenomeno che osserviamo anche altrove (in Africa, ad esempio): la graduale ma inesorabile espansione del cervello, o "encefalizzazione". Dall'altro, vengono acquisiti caratteri dello scheletro che possiamo definire "europei"; caratteri che sono ancora assenti in Ceprano, ma che troveremo verso la fine del Pleistocene medio nello scheletro di Altamura e nei fossili di Saccopastore, pienamente espressi infine nel cranio tipicamente neandertaliano del Monte Circeo (tanto per citare in sequenza i più importanti reperti italiani, di cui parleremo ancora tra poco). Si tratta appunto dei caratteri che definiscono l'uomo di Neandertal, la cui evoluzione è precisamente levoluzione dell'uomo in Europa. Questo percorso inizia con l'umanità rappresentata dal cranio di Ceprano e termina - centinaia di migliaia di anni dopo, ovvero poche decine di millenni fa- con gli ultimi Neandertaliani, quelli che videro (loro malgrado) il prevalere della specie a cui noi stessi apparteniamo, Homo sapiens: i primi "pensatori" celebrati da Juan Luis Arsuaga.
Pensare acheuleano Al Museo Pigorini, in zona EUR a Roma, nell'ormai lontana primavera del 1984 fu allestita un'esposizione temporanea. Aveva per titolo I primi abitanti d'Europa. Era la versione italiana, considerevolmente ampliata e adattata, di un precedente allesti267
mento realizzato presso il Musée de l'Homme di Parigi, sotto la direzione di Henry de Lumley. Di quella esperienza ci rimane un catalogo - prezioso anche se non più aggiornato - dove vengono passati in rassegna 59 siti europei (da Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Jugoslavia, Portogallo, Spagna e Ungheria) e ben 39 italiani. La rassegna riguarda depositi preistorici compresi tra i più antichi e incerti documenti della presenza dell'uomo nel nostro paese (riferiti a circa un milione di anni fa) e le prime evidenze neandertaliane dell'inizio del Pleistocene superiore (100 mila anni fa circa). Mi capita spesso di ricercare quel catalogo in biblioteca, per consultarlo. Finisco inevitabilmente per passarci più tempo del previsto, perdendomi nella quantità di schede tecniche dei siti, di schemi delle successioni faunistiche, di stratigrafie geologiche, di illustrazioni dei manufatti litici rinvenuti... Ma, sempre, ciò che più mi colpisce sfogliando la sezione dedicata ai siti italiani, e guardando in rapida sequenza i disegni dei manufatti paleolitici, è il "cambio di marcia" a cui si assiste verso pagina 132, in corrispondenza del sito di Fontana Ranuccio, Anagni (Lazio), datato a 458 mila anni fa. Da lì partono i bifacciali. Cosa sia esattamente un bifacciale credo che non sappia dirlo nemmeno il più temerario degli archeologi preistorici; soprattutto non saprebbe dire con certezza a cosa potesse servire. Innanzi tutto, diciamo che per "bifacciale" stiamo intendendo un oggetto preistorico piuttosto elaborato. Veniva ottenuto scheggiando ripetutamente il nucleo di materia prima su due facce, in modo da ottenere un solido piuttosto appiattito in una delle tre direzioni dello spazio, due lati taglienti sul margine perimetrale, poi una punta e un bordo più arrotondato dalla parte opposta. Insomma, grande o piccolo, il bifacciale assomiglia moltissimo alla forma di una mandorla, tant'è che viene spesso chiamato "amigdala". Qualcuno usa anche l'espressione "ascia-a-mano", ma questo nome suggerisce un'interpretazione sul possibile uso del bifacciale che alcuni specialisti ritengono fuorviante. C'è in effetti chi pensa che i bifacciali fossero un po' come dei coltelli multiuso della preistoria: un unico oggetto per molte funzioni: colpire, abbattere, affilare, macellare, raschiare, scuoiare ecc. Ma c'è chi si lhnita a mettere in dubbio questa apparente ovvietà, magari sottolineando la ripetitività della fattura, che sembrerebbe indicare un modello prefigurato nelle menti degli artefici, o la ricerca della simmetria, che (insieme al precedente argomento) potrebbe far pensare a un gusto estetico e, quindi, anche a un significato nonutilitaristico del bifacciale. Con più precisione, a cosa servisse un bifacciale iniziano a dircelo le ricerche basate sullo studio microscopico delle cosiddette 268
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