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Edizioni Simone - Vol. 19/2 Compendio di diritto sanitario
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Capitolo 1 Evoluzione legislativa del
Sommario Z 1. Evoluzione della legislazione e dell’organizzazione sanitaria in Italia,
diritto sanitario
dall’Unità d’Italia al 1945. - 2. La tutela della salute nella Costituzione. - 3. Il Ministero della Sanità ed i suoi organi periferici. - 4. La riforma ospedaliera del 1968. - 5. Il trasferimento delle competenze alle Regioni. - 6. L’istituzione del Servizio sanitario nazionale. - 7. Il riordino della sanità: il D.Lgs. 30-12-1992, n. 502. - 8. La riforma sanitaria «ter». - 9. La Carta dei servizi sanitari. - 10. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali. - 11. La tutela della salute nella Costituzione, alla luce della L. 3/2001. - 12. I LEP: livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali.
1. Evoluzione della legislazione e dell’organizzazione sanitaria in Italia, dall’Unità d’Italia al 1945 Dopo l’unificazione del Regno d’Italia, le prime norme organiche in materia sanitaria furono quelle emanate con L. 20-3-1865, n. 2248, la quale, all’allegato C, identificando la tutela della salute pubblica quale materia di ordine pubblico, ne affidava le relative competenze, in sede centrale, al Ministero dell’Interno, ed a livello periferico ai Prefetti ed ai Sindaci. Con la successiva L. 21-12-1888, n. 5849 sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica l’amministrazione sanitaria diviene più articolata: venne istituito il Consiglio superiore di sanità con funzioni tecnico-consultive; nell’ambito del Ministero dell’Interno fu costituita una apposita Direzione generale della sanità pubblica mentre in periferia vennero istituiti gli uffici sanitari provinciali (medico e veterinario provinciale) alle dipendenze dei Prefetti e analoghi uffici presso i Comuni. Dopo ben 13 anni, con R.D. 3-2-1901, n. 45 ne veniva approvato il regolamento di esecuzione, con il quale, peraltro e per la prima volta, erano disciplinate le professioni sanitarie. Il primo testo unico delle leggi sanitarie, che coordinava tutta la normativa in materia, fu approvato con R.D. 1-8-1907, n. 603. Successivamente, con il R.D. 27-7-1934, n. 1265 fu approvato il nuovo T.U. delle leggi sanitarie, oggi in buona parte ancora vigente: questo consiste in un insieme di disposizioni che hanno determinato, per oltre quarant’anni, fino all’entrata in vigore della legge di riforma sanitaria del 1978, l’ordinamento dello Stato italiano in tale settore e le specifiche funzioni dei singoli organi dell’amministrazione sanitaria.
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Le norme del testo unico concernono: — — — — — —
l’ordinamento e le attribuzioni dell’amministrazione sanitaria; l’esercizio delle professioni, delle arti sanitarie e delle attività soggette a vigilanza sanitaria; l’igiene del suolo e dell’abitato; la tutela igienica dell’alimentazione, dell’acqua potabile e degli oggetti di uso personale; i provvedimenti contro le malattie infettive e sociali; la polizia mortuaria, i regolamenti locali di igiene e sanità e di polizia veterinaria.
Nel 1945 venne poi costituito l’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica (ACIS) alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri (D.L. 12-71945, n. 417). All’Alto commissariato furono affidati compiti di tutela della salute pubblica e di coordinamento e di vigilanza tecnica sulle organizzazioni sanitarie quali la Croce Rossa e l’ONMI (Opera Nazionale per la tutela della maternità e dell’infanzia).
2. La tutela della salute nella Costituzione A) L’articolo 32 La Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, configura, per la prima volta, il «diritto alla salute» all’art. 32. Questo così recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Il diritto alla salute può essere inteso in due modi differenti, ma complementari. Nell’accezione acquisita e immediatamente operativa del precetto costituzionale, la norma conferisce ai singoli il diritto soggettivo a non subire lesioni dell’integrità psicofisica. In una prospettiva più ampia, che guarda allo stato di benessere complessivo della persona e che potremmo definire «sociale», coinvolgendo l’intero sistema dell’assistenza sanitaria, il diritto alla salute si configura come diritto a prestazioni positive nei confronti dei pubblici poteri, che si concretizza nella pretesa di un’assistenza sanitaria effettiva al singolo individuo. Tale diritto alle prestazioni sanitarie è rimasto a lungo inattuato, fino all’emanazione della legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale. La Carta costituzionale, infatti, garantisce a tutti il diritto all’assistenza sanitaria, ma solo agli indigenti il diritto di essere curati gratuitamente; il legislatore del 1978, invece, ha esteso a tutti, anche ai non indigenti, il diritto alle cure gratuite. I principi posti a base del servizio sono: il principio della globalità delle prestazioni, dell’universalità dei destinatari, dell’uguaglianza dei trattamenti; gli obiettivi da raggiungere sono: la promozione e la tutela della salute di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali; lo strumento previsto dal legislatore per assicu-
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rare le prestazioni è rappresentato da una struttura organizzativa tesa a coprire in maniera capillare il territorio nazionale attraverso la rete di Aziende sanitarie locali. Il raggiungimento di tale risultato dipende, infatti, da una serie di interventi del legislatore ordinario diretti a dotare le strutture pubbliche preposte alla cura del settore sanitario delle risorse umane e materiali necessarie.
Il 2° comma dell’art. 32 pone, invece, due limiti all’attività sanitaria dello Stato: innanzitutto solo la legge può obbligare l’individuo ad un determinato trattamento sanitario; inoltre il legislatore pone il divieto di violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. In virtù del primo limite, attraverso una riserva assoluta di legge, si pongono vincoli operativi all’amministrazione pubblica ovvero sono impediti i trattamenti sanitari che non trovino, a monte, un’espressa disposizione legislativa che li consenta dopo aver operato un adeguato bilanciamento degli interessi coinvolti. In particolare sono ammessi trattamenti sanitari obbligatori o addirittura coattivi (imposti con la forza fisica), ma solo se necessari per la tutela della salute della collettività e della incolumità delle altre persone. Non è mai consentito imporre un trattamento sanitario per tutelare la sola salute individuale del soggetto, senza alcun vantaggio per l’interesse collettivo. L’articolo si riferisce ad ogni intervento diagnostico o terapeutico, di prevenzione o cura: vanno, quindi, comprese tanto le prescrizioni di vaccinazioni obbligatorie per prevenire malattie infettive e diffusive, quanto i provvedimenti di cura e di isolamento nei confronti di soggetti affetti da malattie contagiose.
Il secondo limite comporta, invece, che un’eventuale legge ordinaria che prevedesse interventi sanitari che violino i limiti imposti dal rispetto della persona umana, sarebbe viziata da incostituzionalità.
B) L’articolo 38 L’art. 38, comma 2, Cost. dispone che «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortuni, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». L’art. 38, quindi, assume a proprio fondamento non il diritto dei cittadini alla protezione della salute, quanto piuttosto il diritto dei lavoratori ad assicurarsi contro i rischi ai quali va soggetta la loro capacità lavorativa per infortuni, malattie professionali e non, invalidità. In questo modo la Costituzione non si limita a tutelare la salute in sé, bensì anche «la non salute». Ciò costituisce una indubbia conquista democratica, se si pensa che un tempo l’aspirazione dello Stato ad avere una «popolazione sana e numerosa» era così fortemente radicata da portare alla considerazione che l’individuo malato o comunque inabile al lavoro fosse di peso alla società e di ostacolo alla produttività nazionale.
3. Il Ministero della Sanità ed i suoi organi periferici Con la L. 13-3-1958, n. 296 e successivi regolamenti attuativi nn. 249, 257, 264 dell’11 febbraio 1961, si riconobbe la necessità di dare alla materia della salute pubblica una
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connotazione specifica ed autonoma, discostandosi dalla visione, fino ad allora imperante, secondo la quale si trattava di questione di ordine pubblico. Venne, perciò, istituito il Ministero della sanità che assorbì le competenze dell’Alto commissariato e di tutte le altre amministrazioni fino ad allora operanti in materia di sanità pubblica; ad esso, in sostanza, fu attribuito il compito generale di provvedere a tutto quanto riguardasse la tutela della salute pubblica. Coadiuvavano il Ministero: il Consiglio superiore di sanità con funzioni consultive e l’Istituto superiore di sanità in qualità di organo tecnico-scientifico. Quali organi periferici del Ministero della sanità furono istituiti: — l’Ufficio del medico provinciale e l’Ufficio del veterinario provinciale, coordinati dal Prefetto; — gli Uffici sanitari dei Comuni e dei Consorzi comunali; — gli Uffici sanitari speciali (di confine, porto ed aeroporto).
4. La riforma ospedaliera del 1968 Successivamente alla istituzione del Ministero della sanità in qualità di sede istituzionale delle competenze in materia di sanità pubblica, si pervenne, sulla base del principio introdotto dalla Costituzione repubblicana della tutela sanitaria intesa come diritto del cittadino ed interesse primario dello Stato, alla riforma ospedaliera, attuata con la L. 12-2-1968, n. 132 (cd. Legge Mariotti). In attuazione della delega contenuta negli artt. 40-43 e 64 della L. 132/1968 sono stati emanati: — il D.P.R. 128/1969 sull’ordinamento interno dei servizi ospedalieri; — il D.P.R. 129/1969 sull’ordinamento interno dei servizi di assistenza delle cliniche e degli istituti di ricovero e cura; — il D.P.R. 130/1969 relativo allo stato giuridico del personale ospedaliero.
La L. 132/1968 ha il merito di aver dettato una disciplina uniforme a tutte le istituzioni che avevano prestato assistenza sanitaria fino a quel momento. Con la nascita dell’ente ospedaliero, ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico destinato all’assistenza dei cittadini, infatti, si realizza il passaggio da un’assistenza su base volontaristica, all’assistenza ospedaliera quale servizio pubblico diretto a tutti i cittadini, secondo il dettato costituzionale contenuto nell’articolo 32. La L. 132/1968 intendeva realizzare un primo momento di decentramento istituzionale del settore, delegando l’individuazione e la gestione degli enti ospedalieri alle Regioni, le quali diventavano anche titolari della funzione di vigilanza in materia, lasciando al Ministero della Sanità la tutela degli interessi generali dello Stato. La legge prevede la suddivisione degli enti nelle due grandi categorie degli ospedali generali e ospedali specializzati; dal punto di vista della tipologia, gli ospedali sono classificati in: ospedali per acuti, ospedali per lungodegenti, ospedali per convalescenti.
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5. Il trasferimento delle competenze alle Regioni A) Il D.P.R. 14-1-1972, n. 4 Il processo di «regionalizzazione» fu avviato con il D.P.R. 14-1-1972, n. 4. Il citato provvedimento legislativo ha consentito, infatti, il passaggio alle Regioni ordinarie delle funzioni statali in materia sanitaria, nelle varie fasi dell’intervento preventivo, terapeutico e riabilitativo, realizzando altresì il trasferimento di quegli uffici statali periferici già titolari delle predette competenze. Le competenze lasciate allo Stato erano di tipo residuale. Con il D.P.R. 4/1972 vennero trasferiti alle Regioni: — — — — — — —
gli Uffici dei medici provinciali; gli Uffici dei veterinari provinciali; gli Uffici sanitari dei Comuni; gli Uffici sanitari dei Consorzi comunali; i Consigli provinciali di sanità; i Consorzi provinciali antitubercolari; i Dispensari antivenerei.
Il trasferimento delle funzioni e delle competenze così operato non era privo di lacune e di discrasie: esso, infatti, non comprendeva il settore dell’assistenza mutualistica.
B) La scomparsa degli enti mutualistici Gli enti mutualistici, in crisi organizzativa e finanziaria a causa degli insostenibili debiti accumulati dagli stessi verso gli enti ospedalieri, furono soppressi con la L. 29-6-1977, n. 349. Le prestazioni di assistenza ospedaliera, prima erogate dagli enti mutualistici, venivano così affidate alle Regioni che le fornivano ai soggetti assistiti «in forma diretta e senza limiti di durata avvalendosi degli enti ospedalieri nonché, a seguito di convenzioni, di altre strutture eroganti assistenza ospedaliera». In tal modo gli ospedali diventano enti strumentali delle Regioni, finanziati dalle stesse, attraverso una ripartizione effettuata dal Ministero della Sanità, con un Fondo nazionale per l’assistenza ospedaliera costituito dai contributi versati da lavoratori e datori di lavoro ai soppressi enti mutualistici. Tale provvedimento, in particolare, stabiliva: — il passaggio delle mutue dallo stato di commissariamento a quello di liquidazione, con la costituzione di un comitato centrale per la liquidazione degli enti, composto anche di rappresentanti delle Regioni, dei Comuni etc.; — il rapporto ottimale medico-assistibili per la medicina generica e pediatrica, in base al quale stipulare poi le convenzioni uniche nazionali; — la garanzia e la regolamentazione della libera professione da estendersi nell’ambito delle strutture ospedaliere; — le norme relative all’amministrazione del personale delle mutue, che veniva assoggettato alle direttive del suddetto comitato centrale.
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C) Il definitivo trasferimento delle funzioni Con il D.P.R. 24-7-1977, n. 616, attuativo della L. 22-7-1975, n. 382, si provvide all’ulteriore trasferimento alle Regioni di funzioni amministrative esercitate ancora dagli organi centrali e periferici dallo Stato e da enti pubblici nazionali ed interregionali differenti dallo Stato. Si realizzava, in tal modo, la devoluzione integrale di tutte le competenze contenute nell’originario art. 117 Cost. alle Regioni. Meritano di essere menzionati gli articoli dal 27 al 34 del decreto poiché individuano precisamente tutte le attribuzioni che possono ricondursi al concetto di «assistenza sanitaria ed ospedaliera intesa come attività preordinata alla promozione, al mantenimento e al recupero dello stato di benessere fisico e psichico della popolazione». Di rilievo è anche la norma dettata dall’art. 25 che dopo aver disciplinato le attribuzioni trasferite ai Comuni in merito alle funzioni amministrative relative ai servizi di assistenza e beneficenza, stabilisce che: — gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sanitari e sociali debbano essere determinati con legge della Regione previo parere dei Comuni interessati; — gli ambiti territoriali debbono riguardare contestualmente la gestione dei servizi socio-sanitari; — qualora gli ambiti territoriali di cui sopra coincidano con quelli delle Comunità montane, le funzioni amministrative rientrano nella competenza di queste ultime.
6. L’istituzione del Servizio sanitario nazionale La L. 23-12-1978, n. 833 ha compiuto un primo decisivo passo nella direzione del superamento del sistema ospedaliero-mutualistico con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (SSN). Il sistema ospedaliero-mutualistico precedente si presentava frammentato in una miriade di enti eterogenei e scollegati e si caratterizzava per l’assenza di interazione tra assistenza ospedaliera e ambulatoriale, per l’insufficiente rilievo della prevenzione rispetto alla cura e per le inevitabili disparità dovute a trattamenti sanitari differenziati. La stessa gestione economica della sanità, infatti, era affetta da disfunzioni che, facendo gravare sempre più il costo del sistema sanitario sui cittadini, resero urgente un riordino della struttura e dell’organizzazione di un impianto sanitario ormai inadeguato alle necessità sociali.
Il processo di riforma delineato dalla L. 833/1978 prevede, infatti, in sostituzione del precedente sistema frammentario, l’istituzione di una struttura istituzionale centrale, suddivisa in Unità Sanitarie Locali (il cui ambito territoriale coincide con quello del Comune), deputata alla produzione ed erogazione di interventi socio-assistenziali omogenei cui ogni individuo può accedere in base al diritto soggettivo ad usufruire del servizio sanitario sul territorio nazionale. Il disegno organizzativo perseguito dal legislatore si ispira ai principi di universalità della tutela sanitaria garantita omnibus, di unicità del soggetto istituzionale referente e garante delle prestazioni sanitarie, di uguaglianza dei destinatari delle prestazioni in capo ai quali si configura un diritto pubblico soggettivo alla tutela della salute, di globalità delle prestazioni secondo un sistema sinergico di assistenza, di socialità per cui le prestazioni non sono solo di cura ma anche di prevenzione e di controllo.
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Trovano quindi una prima realizzazione le indicazioni offerte dal Costituente nell’art. 32 cui la legge di riforma si salda direttamente specificando all’art. 1, commi 1 e 2, che la tutela della salute fisica e psichica del cittadino, intesa come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, viene garantita dalla Repubblica attraverso il Servizio sanitario nazionale nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. In sintesi, gli obiettivi del SSN erano i seguenti: — — — —
superamento delle ineguaglianze territoriali; sicurezza sul lavoro; promozione della salute in età evolutiva; tutela della salute degli anziani e rimozione delle condizioni della loro emarginazione.
La riforma contenuta nella L. 833/1978, eccessivamente ambiziosa nel suo impianto normativo, realizzò di fatto un sistema inefficiente, troppo oneroso e privo di controllo.
7. Il riordino della sanità: il D.Lgs. 30-12-1992, n. 502 Il reale riordino della disciplina in materia sanitaria, con il conseguente riassetto organizzativo e istituzionale del Servizio sanitario nazionale, si è avuto con il D.Lgs. 30-12-1992, n. 502 (attuativo della legge delega del 23-10-1992, n. 421) e con il D.Lgs. 7-12-1993, n. 517. Già con la L. 421/1992, con la quale si delegava il Governo ad emanare norme per la razionalizzazione di settori importanti dell’ordinamento, si posero le basi per una reale riforma del settore. Essa aveva due obiettivi: — ridare efficienza al sistema sanitario ottimizzando le risorse di cui già si disponeva; — controllare la spesa per contenere il disavanzo. Con il D.Lgs. 502/1992 e il D.Lgs. 517/1993 si diede una notevole spinta nella direzione dell’interpretazione in chiave aziendale dell’organizzazione sanitaria, attraverso l’attribuzione alle U.S.L., delle quali si ridefinisce anche la modalità economico-finanziaria (budget di esercizio, indicatori di qualità, verifica dei risultati), della natura di azienda pubblica e con una maggiore responsabilizzazione della dirigenza sanitaria sui risultati conseguiti. Punti cardine della riforma sono: — la definizione di livelli di assistenza uniformi sul territorio nazionale, ovvero dello standard minimo di prestazioni erogabili a tutti i cittadini nel rispetto degli obiettivi della programmazione socio-sanitaria e in rapporto all’entità del finanziamento garantito al SSN; — l’attribuzione di maggiori responsabilità gestionali — programmatorie, organizzative e finanziarie — alle Regioni dando l’abbrivio al processo di regionalizzazione della sanità; — l’aziendalizzazione delle strutture di produzione ed erogazione dei servizi sanitari (ASL) intesa nel duplice senso di riconoscimento di autonomia patrimoniale, contabile, gestionale, tecnica ed organizzativa e di recepimento delle strategie di gestione di marca privatistica; — un nuovo modello di finanziamento sia a livello di spesa complessiva per cui gli obiettivi programmatici sono determinati in funzione delle risorse disponibili e non secondo il meccanismo inverso, sia a livello delle singole strutture finanziate secondo la logica di mercato della remunerazione a tariffa ovvero in base alle prestazioni effettivamente erogate;
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— la competitività, secondo le più classiche regole di mercato, tra pubblico e privato finalizzata a garantire il costante miglioramento qualitativo delle prestazioni offerte e la più ampia libertà di scelta da parte del privato circa le strutture eroganti; — la partecipazione del cittadino, uti singuli o in forma associativa (sindacati, organizzazioni di volontariato etc.), alla fase gestionale ed organizzativa del SSN con la segnalazione di proposte o la raccolta di informazioni circa l’organizzazione dei servizi, e alla fase consuntiva di verifica degli obiettivi raggiunti.
8. La riforma sanitaria «ter» La seconda riforma sanitaria presentava comunque delle lacune che resero necessario un ulteriore intervento del legislatore al fine di completare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti nelle intenzioni delle riforme precedenti. Il primo momento del nuovo riassetto in ambito sanitario è rappresentato dalla legge delega 30-10-1998, n. 419, alla quale ha fatto seguito il decreto 229/1999 di attuazione dei principi e criteri ivi contenuti. L’esigenza che ispirò il legislatore nella direzione di un correttivo alla riforma attuata con il D.Lgs. 502/1992 fu quella di superare il ritardo che aveva caratterizzato sia il processo di regionalizzazione del sistema sanitario paralizzandone l’operatività, sia di conseguenza l’aziendalizzazione della tutela della salute.
La nuova disciplina conferma il SSN come l’insieme delle funzioni dei servizi sanitari regionali da un lato, e degli enti e istituzioni di rilievo nazionale dall’altro, e tende a conferire alle Regioni la generalità dei compiti in materia sanitaria, lasciando in tal modo allo Stato il ruolo di garante del rispetto dei principi costituzionali nell’attuazione del diritto alla tutela della salute.
A) Il decentramento amministrativo nel D.Lgs. 31-3-1998, n. 112 Il processo di trasferimento dei compiti e delle funzioni dall’Amministrazione statale alle Regioni e agli enti locali viene completato in coerenza con quanto stabilito dal D.Lgs. 31-3-1998, n. 112. Tale decreto dispone, infatti, un generale conferimento di competenze in favore degli enti territoriali, individuando specificamente i compiti residuali riservati allo Stato. Il conferimento riguarda prevalentemente le Regioni, mentre gli enti locali sono coinvolti per lo più a livello di programmazione concertata con la Conferenza unificata e a livello di amministrazione attiva. Il processo di decentramento si fonda sul principio di sussidiarietà, in base al quale i compiti di gestione amministrativa della cosa pubblica devono essere affidati alla struttura più vicina al cittadino, ovvero, all’ente territoriale.
B) La L. 30-11-1998, n. 419 La L. 30-11-1998, n. 419, con la quale il Parlamento delegava al Governo la razionalizzazione e riorganizzazione del Servizio sanitario nazionale, contiene quattro deleghe
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volte ad attribuire al modello organizzativo della sanità pubblica un assetto differente da quello attuale. In particolare, le deleghe riguardano: — — — —
la riforma del D.Lgs. 502/1992 attuata con il D.Lgs. 19-6-1999, n. 229; il riordino della medicina penitenziaria soddisfatto con D.Lgs. 22-6-1999, n. 230; l’organizzazione dei rapporti tra SSN e Università definita con D.Lgs. 21-12-1999, n. 517; l’adozione di un testo unico di organizzazione e funzionamento del SSN che costituisce l’unica delega inevasa.
C) Il D.Lgs. 19-6-1999, n. 229 In attuazione dei principi e criteri direttivi indicati nella L. 419/1998, il Governo ha emanato il D.Lgs. 19-6-1999, n. 229 che, in linea con il progressivo iter di decentramento amministrativo, ha rafforzato il ruolo e l’autonomia delle Regioni in ambito sanitario. Analizzeremo di seguito gli aspetti salienti della cd. riforma sanitaria ter. 1) Valorizzazione delle Regioni.
Le Regioni elaborano proposte per la predisposizione del Piano sanitario nazionale, adottano il Piano sanitario regionale per soddisfare le esigenze specifiche della popolazione locale, definiscono l’articolazione del territorio regionale in Aziende sanitarie locali, stabiliscono i criteri per la suddivisione delle Aziende sanitarie locali in distretti, disciplinano il finanziamento delle ASL, le modalità di vigilanza e di controllo e la valutazione dei risultati delle loro attività, provvedono all’accreditamento delle strutture pubbliche o private autorizzate a fornire prestazioni per conto del SSN, propongono forme di sperimentazione gestionale tra strutture del SSN e soggetti privati.
2) Rafforzamento del ruolo dei Comuni nella fase di programmazione.
La concertazione con gli enti locali si sviluppa a vari livelli: il Piano sanitario nazionale è adottato d’intesa con la Conferenza unificata, il Piano sanitario regionale è sottoposto alla Conferenza permanente per la programmazione sociosanitaria regionale (della quale fa parte il Sindaco o il Presidente della Conferenza dei Sindaci) ed è approvato previo esame delle osservazioni da essa formulate, i Piani attuativi locali sono predisposti con la partecipazione degli enti locali interessati e lo stesso può dirsi per il Programma delle attività territoriali proposto dal direttore di distretto previo parere del Comitato dei Sindaci di distretto. I Comuni svolgono anche un ruolo nell’ambito dell’attività di controllo, esprimendo pareri sulla conferma o revoca del Direttore generale dell’ASL e dell’azienda ospedaliera in relazione ai risultati raggiunti, sullo stato di attuazione del Piano attuativo locale da parte delle aziende ospedaliere e del Programma delle attività territoriali. Inoltre esercitano un’importante funzione nell’ambito dell’attività diretta alla realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie, provvedendo al rilascio delle necessarie autorizzazioni.
3) Previsione di programmi e poteri sostitutivi.
Il decreto stabilisce che il Governo interviene in luogo delle Regioni inadempienti in alcuni casi specifici, come quello della mancata adozione del Piano sanitario regionale, in relazione al quale il Consiglio dei Ministri può provvedere a dare attuazione al Piano sanitario nazionale anche mediante la nomina di commissari ad acta.
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4) Partecipazione dei cittadini.
Gli utenti partecipano all’attività di programmazione, come nel caso dell’adozione del Piano sanitario regionale cui prendono parte le formazioni sociali private non aventi scopo di lucro impegnate nell’assistenza sociale e sanitaria. I cittadini inoltre svolgono anche attività di controllo, di valutazione dei servizi e delle prestazioni e di accessibilità degli stessi; essi svolgono, inoltre, attività di promozione del ricorso alla Carta dei servizi per la comunicazione con i cittadini.
5) Integrazione sociosanitaria.
Rientrano in tale ambito le prestazioni sanitarie che devono essere erogate parallelamente alle attività di assistenza sociale tese a supportare le persone in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione che condizionano lo stato di salute. Il decreto si preoccupa di garantire assistenza a quei soggetti deboli come i bambini, gli anziani, i tossicodipendenti, i malati di AIDS, i portatori di handicap che necessitano di interventi incrociati non solo in campo medico, ma anche sociale.
6) Aziendalizzazione del sistema sanitario.
Le aziende sanitarie locali sono dotate di personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale, la loro organizzazione e il loro funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato. Sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio e agiscono con atti di diritto privato.
7) Articolazione in distretti dell’ASL.
Il distretto assicura i servizi di assistenza primaria relativi alle attività sanitarie e sociosanitarie tenendo conto della realtà territoriale e tutelando le comunità con non più di 60.000 abitanti, salvo che le Regioni dispongano diversamente. Il distretto garantisce la continuità assistenziale coordinando medici di medicina generale, pediatri e servizi di guardia medica, in ambulatorio e a domicilio, e opera il necessario coordinamento di tali soggetti con le strutture operative e con i servizi specialistici. L’attività del distretto si interseca con quella del Dipartimento di prevenzione, anch’esso struttura operativa dell’ASL, sotto il profilo della prevenzione delle malattie e di tutela della salute collettiva.
8) Accreditamento istituzionale.
La riforma prevede che possono erogare servizi e prestazioni assistenziali per conto del SSN le strutture pubbliche o private che abbiano ottenuto una sorta di attestazione di qualità da parte delle Regioni definita accreditamento. A questo scopo i soggetti pubblici e quelli privati, sia non aventi scopo di lucro sia commerciali, sono totalmente equiparati.
9) Individuazione delle tariffe per le prestazioni erogate dalle strutture accreditate.
I nuovi criteri di remunerazione previsti dal decreto sono due: un finanziamento calcolato in base al costo standard di produzione del programma di assistenza, attribuito per l’erogazione di alcuni precisi servizi non quantificabili in relazione alla singola prestazione (programmi per patologie croniche di lunga durata o recidivanti, di prevenzione, di assistenza a malattie rare, sperimentali di assistenza, di trapianto di organo etc.) e la remunerazione in base a tariffe predefinite a livello centrale dal Ministero e a livello locale dalle Regioni per quanto riguarda i ricoveri per acuti e le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale.
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10) Sperimentazioni gestionali.
Le Regioni interessate propongono programmi di sperimentazione di nuovi modelli di gestione che prevedono forme di collaborazione tra strutture del SSN e soggetti privati, anche mediante la costituzione di società miste a capitale pubblico e privato, al fine di un miglioramento della qualità dell’assistenza. La partecipazione societaria dei privati non può superare la soglia del 49% e sono esclusi subappalti a terzi estranei alla sperimentazione per la fornitura di servizi connessi all’assistenza alla persona.
11) Istituzione dei fondi integrativi.
Tali fondi sono destinati a potenziare l’erogazione di prestazioni aggiuntive, superiori ai livelli di assistenza garantiti dal SSN, purché fornite da strutture e da professionisti accreditati con il SSN. Essi servono a rimborsare le spese sostenute dai pazienti per i ticket di esami e visite specialistiche, per le prestazioni erogate in regime di libera professione intramuraria, per cure odontoiatriche e termali, per l’assistenza domiciliare, per le prestazioni di medicina non convenzionale, nonché per quelle sociosanitarie erogate in strutture residenziali e semiresidenziali.
12) Riforma della dirigenza sanitaria.
La dirigenza sanitaria non è più suddivisa in I e II livello, ma collocata in un unico ruolo, distinto per profili professionali, ed in unico livello articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali. Il ruolo di primario è sottoposto a verifica ogni 5 anni, per valutarne le capacità e la professionalità. Il rapporto di lavoro è caratterizzato dall’esclusività fra medici e SSN.
13) Formazione continua.
Comprende l’aggiornamento professionale diretto ad accrescere le conoscenze professionali e la formazione permanente tesa a migliorare le competenze e abilità cliniche, tecniche e manageriali. La formazione continua consiste in attività di qualificazione specifica per i diversi profili professionali, attraverso la partecipazione a corsi, convegni, seminari, soggiorni di studio, partecipazione a studi clinici ed attività di ricerca, di sperimentazione e di sviluppo. La partecipazione alle attività di formazione continua costituisce requisito indispensabile per svolgere attività professionale, in qualità di dipendente o libero professionista, per conto delle aziende ospedaliere, delle università, dell’ASL e delle strutture sanitarie private.
9. La Carta dei servizi sanitari La Carta dei servizi sanitari rappresenta uno strumento di tutela di cui si avvalgono i cittadini. Essa è stata introdotta con D.P.C.M. 19-5-1995 al fine di migliorare i rapporti tra il cittadino e il Servizio sanitario nazionale e di garantire la tutela dei diritti degli assistiti. Essa simboleggia un patto tra l’Azienda sanitaria e ospedaliera e i rispettivi assistiti, lo strumento ufficiale di tutela dei cittadini, caratterizzato dall’adozione di criteri qualitativi e quantitativi dei servizi erogati dalle strutture sanitarie.
L’istituzione contestuale del Comitato per l’attuazione risponde all’esigenza di valutare gli standard di qualità adottati dalle strutture sanitarie e di attuare iniziative di monitoraggio.
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Le Carte dei servizi sanitari, diversificate a livello di ogni singola struttura erogatrice di servizi, sono vincolate nei contenuti che si articolano in quattro sezioni: — principi fondamentali cui deve essere uniformata l’erogazione dei servizi (eguaglianza, imparzialità, continuità, diritto di scelta, partecipazione, efficienza ed efficacia); — piena informazione dei cittadini ed accessibilità dei dati e dei documenti; — assunzione di impegni da parte dell’ente erogatore a mantenere la qualità del servizio con l’adozione di standard di qualità generali, impegni e programmi; — metodologie di verifica e controllo degli impegni assunti e degli obiettivi raggiunti; — meccanismi di tutela dei diritti dei cittadini/utenti.
10. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali L’art. 3septies D.Lgs. 502/1992, introdotto dal D.Lgs. 229/1999, definisce l’integrazione socio-sanitaria come il momento grazie al quale bisogni di salute della persona, che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale, possono essere soddisfatti mediante percorsi assistenziali integrati tra dimensione sociale e dimensione sanitaria. L’integrazione sociosanitaria può dare luogo a prestazioni nelle quali sia prevalente la rilevanza sanitaria rispetto a quella sociale, cioè attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite; ovvero a prestazioni nelle quali sia qualificante l’aspetto sociale rispetto a quello sanitario, cioè attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. Le prestazioni sociosanitarie si possono classificare nel modo seguente: — prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, quando l’efficacia dell’intervento sanitario dipende dall’apporto dei servizi sociali; — prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, quando l’intervento si ha in presenza di problemi collegati allo stato di salute che possono trovare soluzione efficace con processi di inserimento e integrazione sociale. Rispetto alle prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, la L. 8-11-2000, n. 328 interviene con l’intento di porre fine ad una polverizzazione normativa che dava luogo ad una miriade di trattamenti assistenziali. L’art. 22 della citata legge, ferme restando le competenze del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e riabilitazione, definisce gli interventi che costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi: — misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento, con particolare riferimento alle persone senza fissa dimora; — misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana;
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— interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare e per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; — misure per il sostegno delle responsabilità familiari per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare; — misure di sostegno alle donne in difficoltà; — interventi per la piena integrazione delle persone disabili; — realizzazione, per i soggetti affetti da disabilità grave di centri socio-riabilitativi e di comunitàalloggio e di servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché erogazione delle prestazioni di sostituzione temporanea delle famiglie; — interventi per le persone anziane e disabili per favorire la permanenza a domicilio, per l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, nonché per l’accoglienza e la socializzazione presso strutture residenziali e semiresidenziali per coloro che, in ragione della elevata fragilità personale o di limitazione dell’autonomia, non siano assistibili a domicilio; — prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, favorendo interventi di natura preventiva, di recupero e reinserimento sociale; — informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto.
Il sistema integrato è ispirato al principio dell’universalità, nel senso che delle prestazioni che ad esso fanno capo possono usufruire i cittadini italiani, quelli appartenenti agli Stati dell’Unione Europea e gli stranieri titolari della carta e del permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. Gli interventi sono realizzati attraverso il metodo della programmazione, operatività dei progetti, verifica sistematica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni, nonché della valutazione di impatto.
La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali compete, secondo il principio di sussidiarietà, agli enti locali, alle Regioni e allo Stato. In particolare, allo Stato compete l’elaborazione ogni tre anni del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali — varato con D.P.R. 3-5-2001 — che rappresenta il momento di determinazione dei principi e degli obiettivi della politica sociale, nonché della definizione delle caratteristiche e dei requisiti delle prestazioni sociali essenziali, delle priorità di intervento e delle modalità di attuazione del sistema integrato. Alle Regioni spetta l’adozione del Piano regionale degli interventi e dei servizi sociali cui è riservato, in coerenza con gli obiettivi del Piano sanitario regionale il coordinamento delle diverse politiche settoriali a valenza sociale ovvero quella che si può definire politica di integrazione socio-sanitaria. I Comuni — associati in ambiti territoriali per lo più coincidenti con i distretti sanitari e d’intesa con le ASL — provvedono a definire il Piano di zona per gli interventi sociali e socio-sanitari con il quale sono individuati gli obiettivi strategici e le priorità, le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali, le forme di concertazione con le ASL.
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11. La tutela della salute nella Costituzione, alla luce della L. 3/2001 La riforma federale dello Stato, varata con la L. cost. 18-10-2001, n. 3 «canonizza il tendenziale passaggio verso un Welfare devoluto, caratterizzato dalla dismissione dell’esclusivo ruolo pubblico nella sanità e dal maggiore coinvolgimento degli enti locali» (JORIO). In altre parole, la riforma costituzionale offre un referente normativo primario alla tendenza alla regionalizzazione che l’evoluzione del SSN — negli ultimi anni — ha assunto progressivamente. Muovendosi in conformità alla lettera del previgente art. 117 Cost., che affidava alle Regioni l’assistenza sanitaria ed ospedaliera, il legislatore ordinario ha spostato l’asse di riferimento del SSN dal livello statale al livello regionale traformandolo in un insieme di servizi sanitari regionali. La nuova formulazione dell’art. 117 Cost. offre una copertura costituzionale a tale processo, dal momento che negli ambiti di legislazione concorrente regionale rientra la tutela della salute. Tutela della salute è certamente una dizione più ampia della formula di cui all’originario art. 117 Cost., relativa all’assistenza sanitaria ed ospedaliera. In riferimento a quest’ultimo ambito i poteri regionali si sostanziavano in un mero aspetto gestionale ed operativo nel rispetto di un quadro programmatico definito ampiamente dallo Stato. Con la tutela della salute la novella costituzionale attribuisce alle Regioni un più considerevole compito: quello di definire le linee di politica sanitaria, sia pure nel rispetto dei principi enucleati dalle leggi cornice trattandosi di materia riservata alla legislazione regionale di tipo concorrente. Alla competenza esclusiva dello Stato resta affidata la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, tra i quali una consolidata giurisprudenza (cfr.: Corte cost. sent. 13 marzo 2003, n. 88) fa rientrare anche i diritti alla salute. La Corte ha precisato che tale competenza esclusiva statale non può essere lesiva della riconosciuta autonomia costituzionale delle Regioni in materia sanitaria, in quanto è chiaramente finalizzata a garantire uniformità del trattamento dei diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale, in considerazione della diversità delle condizioni di «ricchezza» nei diversi ambiti territoriali regionali, sì da favorire la massima efficienza possibile per i sistemi organizzativi regionali. Si tratta, in altre parole, di bilanciare il rapporto tra autonomie e uguaglianza, quale fondamentale principio costituzionale. In tal modo il principio di uguaglianza assume una connotazione più congrua rispetto allo spirito della riforma federale in quanto si traduce nel principio di adeguatezza ed essenzialità.
La L. 5-6-2003, n. 131 (cd. legge La Loggia) ha previsto che in sede di prima applicazione del nuovo regime del riparto legislativo fra Stato e Regioni descritto dal novellato art. 117 Cost, per orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni, il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie affidate alla legislazione concorrente delle Regioni attenendosi ai principi della esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità.
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12. I LEP: livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali Già con la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, L.833/1978, veniva affidato allo Stato il compito di fissare «i livelli delle prestazioni sanitarie che devono essere, comunque, garantite a tutti i cittadini». In proposito una deliberazione del CIPE del 20 dicembre 1984, stabiliva che: «al fine di garantire uniformità di livelli assistenziali ed eliminare progressivamente le differenze strutturali e di prestazioni tra le Regioni occorre prevedere standard di organizzazioni e di attività cui debbono riferirsi le Regioni e le Unità Sanitarie locali nell’impiego del fondo sanitario nazionale». Con il D.Lgs. 502/1992 di riordino della sanità, è stato sancito il «diritto alle prestazioni» e, contestualmente, si è delegato il Governo all’emanazione di un decreto avente valore di legge finalizzato a garantire l’uniforme erogazione in tutto il territorio nazionale delle prestazioni previste dal Servizio sanitario nazionale. Con la L. 438/1992, recante «Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego», nel prevedere il compito per il Governo di stabilire i livelli uniformi di assistenza da garantire a tutti i cittadini, si dispone che «questo debba procedere d’intesa con la Conferenza Stato Regioni e che, solo ove l’intesa non interviene autonomamente, il Governo provvede direttamente entro il 15 dicembre 1992». Con D.P.C.M. 29-11-2001 sono stati definiti i Livelli Essenziali di Assistenza — che altro non sono che i LEP riferiti all’ambito sanitario — previo accordo dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, sancito l’8 agosto 2001. In seguito, la L. 27 dicembre 2002, n. 289 «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003» ha confermato per il futuro l’utilizzabilità dei livelli essenziali di assistenza ed ha previsto esplicitamente che eventuali modificazioni agli allegati del citato D.P.C.M. devono essere definite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. A questo quadro normativo si interseca, come già anticipato, la L.cost. 18 ottobre 2001, n. 3, di riforma del Titolo V - Parte II della Costituzione, a mente della quale la determinazione dei livelli essenziali di assistenza è stata assorbita nella competenza statale di cui all’art. 117, comma 2, lettera m), Cost., con la conseguente costituzionalizzazione degli stessi. La Corte costituzionale è più volte intervenuta in materia (sentenza n. 282 del 2002, sentenze nn. 285 e 383 del 2005 e, infine, n. 162 del 2007), dapprima fornendo una interpretazione dei livelli essenziali intesi come espressione di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale dei diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle, e successivamente precisando che nel determinare i LEP lo Stato si limiti esclusivamente a definire
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prestazioni concrete, senza invadere indebitamente interi settori materiali. Nella sostanza si è assistito, tuttavia, ad un tendenziale ampliamento del potere statale di determinazione dei LEP inserendo in esso aspetti complementari o connessi all’erogazione delle prestazioni essenziali e, per contro, interpretando in senso restrittivo il margine della discrezionalità delle Regioni. In effetti, dalla lettura congiunta delle citate sentenze della Consulta si evince che l’esigenza di eguaglianza nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, assolutamente prevalente rispetto ad un’eventuale pretesa di differenziazione territorialmente condizionata degli stessi, anche nell’ottica di garantire una continuità normativa rispetto al passato, consente un’«invasione» da parte del legislatore statale degli ambiti regionali, attraverso la sua potestà alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, purché si ricorra ad uno strumento di leale collaborazione effettivamente paritario, quale l’intesa.