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DIRITTO AMMINISTRATIVO Lo Stato. Possiamo denominare comunità il gruppo sociale come l’insieme di persone accomunate dal fatto o dall’interesse costitutivo del vincolo di coesione. La comunità è indifferenziata, cioè formata da tutti coloro che si trovano ad essere vincolati nell’interesse comune: essi vi fanno parte per il loro stesso essere, non in virtù di un fatto convenzionale o negoziale che li abbia nominativamente individuati. La comunità non può esistere senza un’organizzazione, la quale provveda almeno ai bisogni elementari della vita della comunità stessa come vita associata. Denominiamo istituzione il gruppo sociale organizzato. Le comunità politiche sono istituzioni, gruppi sociali che sono divenute comunità generali, formate cioè dalle persone accomunate nel gruppo in quanto tali, per il loro stesso essere. Sono istituzioni politiche quelle comunità generali aggregate intorno ad un centro organizzativo che provvede a dare alla comunità le regole della vita associata (normazione), a risolvere i conflitti che si presentano nella vita associata applicando le regole generali stesse ai casi concreti (giurisdizione), a curare attraverso l’operare concreto dell’organizzazione gli interessi generali della comunità, la difesa, l’ordine pubblico interno, le comunicazioni, etc. (amministrazione). Fenomeno importante nella vicenda delle istituzioni politiche è la formazione dello Stato, il quale si sviluppa a partire dal secolo XVI e culmina nella grandiosa costruzione dello Stato borghese dell’800. Il consolidarsi in Stato delle istituzioni politiche comporta almeno tre fenomeni: il gruppo sociale diviene nazione, tende cioè ad identificarsi con tutti gli appartenenti ad una comunità generale accomunata da una cultura comune; la nazione è stabilmente insediata su un determinato territorio, che viene considerato di essa proprio; l’organizzazione pubblica che governa la comunità (lo Stato) diviene sovrana, cioè detiene ed esercita il potere di governo (sovranità) su tutta la comunità insediata sul territorio per sua propria forza senza derivarne da altri investitura o legittimazione. La vicenda formativa dello Stato ha una svolta (che è l’origine del sistema nel quale viviamo) con l’avvento al potere della borghesia (borghesia al potere): in momenti diversi ed attraverso fasi alterne le classi sociali detentrici della ricchezza economica, della cultura, delle professioni e del sapere, reclamarono per se stesse almeno una parte dell’autorità di governo, detenuta in principio dal monarca. Il fenomeno diede luogo ad un fatto fondamentale, l’adozione di costituzioni. Con le costituzioni borghesi si introdusse un principio fondamentale dell’organizzazione statale, quello della divisione (o separazione) dei poteri. Il principio della separazione dei poteri significa: attribuzione della funzione della produzione normativa (legislazione) al Parlamento, con la necessità però della sanzione sovrana (promulgazione); la restante parte dell’attività di governo viene subordinata, in principio, alla legge (principio di legalità, rule of law); la funzione giurisdizionale viene affidata ad organi (giurisdizionali) in posizione di indipendenza dall’esecutivo. Per Stato si intende un’organizzazione deputata al governo dell’istituzione politica: c.d. Statoorganizzazione, secondo la dizione usata da una parte della dottrina. L’altra nozione usata in dottrina, quella di Stato-comunità, si riferisce all’istituzione politica in quanto tale ed al suo ordinamento.
Con l’espressione “Stato monoclasse” si sottolinea il fatto caratterizzante dell’assoluto predominio, nella complessiva organizzazione sociale, della classe borghese censitaria sulle altre. Questo predominio viene rimosso a partire dalla fine dell’800, e lo Stato diviene pluriclasse, cioè tende a divenire un’organizzazione alla quale anche le classi sociali diverse dalla borghesia attraverso le loro organizzazioni politiche prendono parte. Con la Costituzione i caratteri fondamentali dello Stato sono questi: principio della sovranità popolare: l’organizzazione di governo della comunità nazionale trae la sua legittimazione a governare esclusivamente dall’investitura popolare, perciò i titolari degli organi di vertice del sistema politico sono direttamente rappresentativi della comunità nazionale e da questa designati attraverso procedimenti elettorali, e l’azione di governo espressa da questi organi segue indirizzi, programmi, obiettivi, che la comunità nazionale ha espressamente formulato o comunque approvato (c.d. indirizzo politico); acquistano rilievo i partiti politici, organizzazioni costituite nell’ambito della comunità nazionale, che aggregano la collettività nazionale stessa per idee, programmi, obiettivi; pluralismo di governo: l’organizzazione di governo si articola non solo in una pluralità di centri organizzativi personificati e formalmente diversificati dal soggetto Stato, ma anche in una pluralità di soggetti che accanto allo Stato si caratterizzano come organizzazioni politiche in senso pieno, o pubblici poteri. Gli enti pubblici formalmente intesi (persone giuridiche pubbliche) sono collegati allo Stato stesso (o ad altro pubblico potere) da una complessa relazione organizzativa attraverso la quale vengono inseriti nell’organizzazione statuale: a proposito di queste diverse articolazioni dell’organizzazione di governo, distinguendole dai pubblici poteri, si parla di enti ed organismi pubblici. L’amministrazione e il diritto amministrativo. Il complesso dell’organizzazione di governo della comunità nazionale, comprensiva delle organizzazioni di governo minori e settoriali nella loro articolazione differenziata sul piano soggettivo, è denominata organizzazione pubblica. E pubblici sono detti i vari soggetti organizzativi dei quali essa consta (pubblici poteri; enti pubblici). Pubblico è ciò che attiene alla comunità, al gruppo sociale nel suo complesso, all’istituzione, e non ai singoli che la compongono: si contrappone a privato, che è invece ciò che attiene al singolo. Le funzioni dei pubblici poteri restano grosso modo riconducibili a quelle fondamentali ed originarie che giustificano l’esistenza stessa dell’organizzazione di governo di una comunità. Vi sono almeno quattro categorie di funzioni: la funzione di indirizzo politico, con la quale si fissano gli obiettivi, i programmi, i tempi ed i modi di realizzazione di tutta l’azione pubblica; la funzione di predisposizione della normazione; la funzione giurisdizionale; l’amministrazione, intesa come cura concreta degli interessi della comunità. Il termine “amministrazione” può essere inteso in vari significati. La nozione di amministrazione in senso funzionale indica ogni manifestazione dell’azione pubblica concreta, come quella che si estrinseca attraverso rapporti giuridici con soggetti terzi, od attraverso l’esercizio di attività materiali. L’amministrazione attiva, o finale, indica l’estrinsecarsi dell’azione amministrativa direttamente in un fatto di cura concreta di interessi pubblici (es.: costruire un’opera pubblica, espropriare un fondo, etc.). L’amministrazione indiretta, o strumentale, indica fatti di supporto (giuridico o tecnico) dell’azione diretta alla cura concreta dell’interesse pubblico, e può essere a sua volta consultiva, di controllo, etc.
Secondo il 97.1 Cost. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Il 95.2 parla dei rapporti tra politica ed amministrazione: I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. Ma il termine “amministrazione” può essere inteso dal punto di vista soggettivo, organizzativo: Amministrazione, o Pubblica Amministrazione, indica i pubblici poteri stessi, ed il complesso dell’organizzazione pubblica, in quanto apparato organizzativo preposto all’esercizio dell’azione amministrativa. Diritto positivo vigente è l’insieme delle norme (ed il loro collegamento sistematico) vigenti in un determinato momento storico con riferimento ad una determinata istituzione politica: si denomina anche ordinamento giuridico questo insieme di norme. I pubblici poteri in quanto agiscono come soggetti dell’ordinamento sono identificabili come soggetti di diritto comune: soggetti forniti della capacità giuridica generale quale determinata dalla normazione di diritto privato. Per diritto comune intendiamo il diritto privato come normazione comune a tutti gli operatori giuridici. È diritto privato quello che concerne l’interesse individuale. Il diritto pubblico è posto invece per l’organizzazione e l’attività dei pubblici poteri come centri organizzativi della collettività, per la cura degli interessi generali di essa. Il diritto amministrativo è una parte del diritto pubblico, quella che ha ad oggetto l’amministrazione nel senso sostanziale o funzionale, nonché la relativa organizzazione. Tuttavia alla cura concreta degli interessi pubblici, cioè all’amministrazione in senso sostanziale, si provvede anche mediante strumenti di diritto comune, instaurando rapporti giuridici di diritto comune: in tale sua parte l’amministrazione non è disciplinata dal diritto amministrativo, ma dal diritto comune. Il diritto amministrativo comprende anche la disciplina delle forme e dei modi della tutela delle posizioni soggettive dei terzi, che nell’ambito dei rapporti con l’Amministrazione entrino in conflitto con quest’ultima: si parla di giustizia amministrativa. Non tutti gli ordinamenti della nostra area culturale conoscono un diritto amministrativo come disciplina di diritto pubblico cui l’organizzazione e l’azione amministrativa dei pubblici poteri è in principio sottoposta: nei paesi anglo-americani l’azione amministrativa dei pubblici poteri è sottoposta alla disciplina comune, perciò si distinguono sistemi a diritto amministrativo e sistemi a diritto comune. La scienza del diritto amministrativo è una scienza o disciplina giuridica che studia il diritto amministrativo come quello che ha ad oggetto l’amministrazione: essa è una disciplina giuridica. Il diritto amministrativo e le sue fonti. In diritto amministrativo manca una disciplina legislativa di parte generale. Il ruolo della giurisprudenza in questo sistema normativo è importante ed incisivo. Concetti chiave sono quelli di atto-fonte: atto giuridico capace di produrre norme giuridiche in un determinato ordinamento; disposizione normativa: proposizione contenuta nell’atto-fonte che esprime una norma giuridica; norma giuridica: essa viene ricavata dalla disposizione grazie all’interprete. Non sussiste una specifica problematica delle fonti del diritto amministrativo. Il principio di gerarchia viene assorbito dal principio di competenza. Le fonti vigenti sono dislocate su tre ordini gerarchici: costituzionali, primarie e secondarie. Le fonti costituzionali riguardano la Costituzione e le leggi costituzionali. Le fonti primarie sono date dalle leggi e dagli atti aventi forza di legge.
In casi eccezionali la funzione legislativa può essere esercitata dal Governo: si parla di decreti legge (atti adottati in caso di necessità ed urgenza e sottoposti alla conversione delle Camere: se essa non avviene entro 60 giorni il decreto decade ex tunc) e di decreti legislativi (adottati dal Governo sulla base di delegazione conferita con legge, che stabilisce oggetto, principi e criteri direttivi, ed il termine entro il quale la delegazione può essere esercitata). Altre fonti primarie sono i regolamenti delle Camere, della Presidenza della Repubblica, della Corte costituzionale. Il principio di legalità si può intendere in due sensi: esso significa principio della prevalenza della legge rispetto agli altri atti dei pubblici poteri; come principio proprio dell’attività amministrativa di diritto pubblico, indica che qualsiasi potere amministrativo, imputato a qualsivoglia autorità, produttivo di qualunque specie di effetti, deve essere sempre previsto dalla legge (principio di tipicità e nominatività dei poteri amministrativi): è particolare in questo ambito il caso delle c.d. ordinanze di necessità. Il principio di legalità dell’azione amministrativa non si trova formulato in Costituzione. La giurisprudenza non estende nemmeno all’intera categoria dei procedimenti autoritativi l’operare del principio di legalità: i procedimenti di autotutela sono ammessi senza necessità di una previa norma legittimante: la giurisprudenza afferma la sussistenza del principio di legalità quando il potere è destinato a sottrarre al destinatario un bene giuridico in senso proprio e pieno (un diritto, una libertà). In tema di organizzazione, il 97.1 Cost. inizia dicendo che I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge: pone dunque una riserva di legge, finalizzata al buon andamento ed all’imparzialità. Col termine delegificazione si indica che determinate materie, già disciplinate con legge, vengono attribuite alla potestà regolamentare del Governo attraverso una previsione legislativa in tal senso, che provvede all’abrogazione delle norme legislative. I regolamenti e gli altri atti di normazione secondaria sono formalmente atti amministrativi, dunque assoggettati alla disciplina propria di questi ultimi (con riguardo al procedimento, alla validità, etc.). Nell’ambito dello Stato, la l. 400/1988 distingue in termini soggettivi tre specie di regolamenti: i regolamenti del Governo (emanati con d.p.r., previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato); i regolamenti ministeriali (adottati con d.m., sentito il Consiglio di Stato) nelle materie di attribuzione del relativo ministero; i regolamenti interministeriali (adottati con decreto interministeriale, sentito il Consiglio di Stato) nelle materie di attribuzione di più ministeri. I regolamenti ministeriali ed interministeriali necessitano di un’espressa attribuzione legislativa del potere regolamentare (al Ministro o a più Ministri). Tutti i regolamenti statali sono sottoposti al controllo preventivo della Corte dei conti. I regolamenti del Governo sono di due specie: la prima esprime il potere regolamentare che al Governo spetta in via generale, senza bisogno di specifiche autorizzazioni legislative; la seconda riguarda i regolamenti delegati (necessitano di apposita autorizzazione legislativa) e possono disciplinare ex novo materie già disciplinate con legge sostituendo la disciplina regolamentare a quella legislativa preesistente che viene abrogata secondo il fenomeno della delegificazione. Vi sono anche fonti secondarie non statali: in via di principio ogni ente pubblico è dotato di una minima potestà regolamentare, subordinata alla legge ed ai regolamenti governativi, con oggetto la propria organizzazione e l’esercizio delle proprie funzioni.
Molti enti pubblici hanno anche il potere di adottare un proprio statuto con oggetto principalmente l’organizzazione dell’ente: lo statuto è fonte secondaria, il cui contenuto normativo vincola però i regolamenti interni dell’ente. La l. autonomie prevede una fonte tipica degli enti locali: gli statuti dei comuni e delle province. Gli statuti sono fonti sovraordinate ai regolamenti degli enti. Sono importanti anche le fonti comunitarie. Le fonti comunitarie che presentino completezza di contenuto dispositivo prevalgono sulle fonti primarie interne (le leggi), e sono sottratte al giudizio di costituzionalità (riservata essendo la cognizione di esse alla Corte di giustizia). La legge nazionale anteriore o successiva comunque in contrasto con la normativa comunitaria non può essere applicata dagli operatori giuridici nazionali: essi devono applicare la norma di fonte comunitaria. La normazione comunitaria che presenti completezza di contenuto dispositivo non necessita di una normativa interna di trasposizione o di applicazione od attuazione. I Trattati istitutivi delle Comunità, nella parte in cui consistono di norme direttamente dispositive, sono applicabili in ambito interno, prevalendo sul diritto interno. Il diritto di fonte comunitaria prodotto dagli organi comunitari si articola in due fonti principali: i regolamenti: essi pongono norme direttamente cogenti ed applicabili nell’ambito degli Stati membri; non necessitano di alcuna recezione; le direttive: si rivolgono agli Stati e ne vincolano l’azione per quanto riguarda il risultato. Tipologia delle attività di amministrazione. Funzioni e servizi pubblici. Le organizzazioni pubbliche sono costituite per servire gli interessi della collettività: l’amministrazione non consta mai in principio di attività autonome (esercitate nell’interesse stesso del soggetto che le esercita e perseguendo fini da questo liberamente posti). Le funzioni ed i servizi pubblici indicano le attività doverose nelle quali si realizza l’amministrazione. Funzione indica un tipo di attività giuridica, od un modo tipico dell’agire giuridico, proprio dei pubblici poteri (intesi nel loro complesso) come quelli che agiscono per la cura di interessi della collettività. La funzione è dunque attività giuridica finalizzata ad uno scopo non proprio del soggetto agente e da questi fissato nell’ambito della sua autonomia. Il termine “funzione” è usato per indicare vari significati: con esso per es. si indica il compito od il complesso dei compiti propri di un ufficio, o di un complesso di uffici tra loro coordinati, o comunque di una figura soggettiva. Con esso termine si indicano anche complessi di attività amministrativa accomunate dal fatto di essere ordinate alla cura di un interesse pubblico o di più interessi pubblici tra loro omogenei. Sono funzioni amministrative in senso proprio e tecnico le attività di cura concreta di interessi pubblici poste in essere nell’esercizio di poteri amministrativi. Non tutte le attività giuridiche dell’Amministrazione si estrinsecano nell’esercizio di poteri amministrativi: essa agisce anche, ed in certi settori solo, mediante attività giuridiche di diritto privato (comune). Queste attività di diritto privato a loro volta si distinguono in due categorie: in una l’attività di diritto privato è strumento di cura di interessi pubblici, amministrazione in senso stretto, nell’altra essa è attività meramente patrimoniale, intesa alla gestione del patrimonio privato che anche i pubblici poteri possiedono, ovvero all’esercizio di diritti o di altre situazioni soggettive imputate ai pubblici poteri nell’ambito di rapporti meramente privati: si parla di attività privata dell’Amministrazione.
Tra le attività di diritto comune presenta particolare connotazione l’attività di impresa, cioè l’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi esercitata professionalmente dallo Stato o da altro soggetto pubblico imprenditore. Le attività imprenditoriali pubbliche rispetto agli altri tipi di azione amministrativa presentano questo di proprio e caratteristico, che esse sono regolate dal diritto comune, salvo espresse eccezioni. L’amministrazione in senso sostanziale si traduce in attività giuridiche che si estrinsecano in atti produttivi di effetti, ed in attività materiali che si estrinsecano in fatti od operazioni, a loro volta ascrivibili alle prestazioni in senso tecnico se rivolte a destinatari determinati, come oggetto di obbligazioni assunte dall’Amministrazione. Ogni settore di amministrazione in senso sostanziale consiste sia di attività giuridiche (segnatamente, di funzioni in senso proprio e tecnico) che di attività materiali (operazioni e prestazioni). Ad es., nell’amministrazione dell’istruzione pubblica, l’attività del docente che insegna ai suoi allievi svolgendo la lezione concretizza attività materiale (un’operazione), l’attività del docente o del collegio dei docenti che conferisce il diploma è attività giuridica di diritto pubblico (funzione). La l. 205/2000 stabilisce che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di servizi pubblici. La nozione di servizio pubblico rappresenta poi il presupposto per l’applicazione di certe norme penali. Servizi pubblici sono attività nell’ambito delle quali prevalgono nettamente le operazioni e prestazioni materiali rispetto alle attività giuridiche: dalla sanità, alla scuola, ai trasporti, etc. Ciò che conta al fine dell’individuazione di questi settori di attività come servizi pubblici è che le prestazioni (l’insieme delle prestazioni) sono assicurate a tutti secondo i criteri e nel contenuto previsto dalla legge (o dall’autorità stabilita dalla legge): doverosità, universalità ed accessibilità del servizio. Appartiene alla famiglia concettuale dell’obbligo di servizio pubblico il servizio universale, definito come l’insieme di prestazioni di qualità determinata da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale a prezzi accessibili a tutti gli utenti. Questo modello viene definito nel diritto comunitario come servizio di interesse economico generale. Il codice penale, agli effetti della legge penale, individua i pubblici ufficiali come coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa (357.1), e gli incaricati di un pubblico servizio come coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Il pubblico servizio può essere esercitato a qualunque titolo, e quindi anche da parte di soggetti esterni all’organizzazione pubblica ed esercenti munera (attività in concreto espletata dall’agente, indipendentemente dal suo ruolo formale e da un effettivo rapporto di subordinazione con l’ente pubblico). Sul piano oggettivo, “pubblico servizio” designa un’attività caratterizzata: dal tipo di disciplina di cui è oggetto; che non si estrinseca tuttavia (a differenza della pubblica funzione) nell’esercizio di poteri amministrativi in senso tecnico. Una nozione di servizi pubblici emersa nell’esperienza più recente è quella dei servizi volti a garantire il godimento dei diritti delle persone, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione.
In questa nozione non rileva il soggetto che svolge il servizio, ma il modo di gestione del servizio. Sono principi fondamentali in materia di erogazione di pubblici servizi: eguaglianza dei diritti degli utenti (divieto di ogni ingiustificata discriminazione); obiettività, giustizia ed imparzialità nel comportamento dei soggetti erogatori del servizio nei confronti degli utenti; continuità dell’erogazione del servizio; diritto di scelta degli utenti fra i soggetti che erogano il servizio; partecipazione dei cittadini utenti alla prestazione del servizio (diritto di accesso alle informazioni, acquisizione periodica da parte dei soggetti erogatori delle valutazioni dell’utente circa la qualità del servizio reso). Organizzazioni. Uffici pubblici. Uffici privati (munera). I pubblici poteri nonché gli enti ed organismi pubblici emanazione dei primi e ad essi in vario modo collegati costituiscono nel loro complesso l’organizzazione pubblica. Il termine “organizzazione” presenta una duplicità di significati: da una parte designa un’entità soggettiva (le “organizzazioni”), dall’altra un modo di essere delle stesse (l’essere “organizzate”). Tra le organizzazioni, spiccano le organizzazioni pubbliche per alcune caratteristiche: esse sono poste direttamente e senz’altro dalla legge, inoltre sono necessarie, nel senso che devono esistere e funzionare per la cura degli interessi generali della comunità. Il criterio fondamentale per far fronte alle esigenze può individuarsi nella specializzazione del lavoro: i compiti propri di un’organizzazione vengono distribuiti tra le diverse unità organizzative delle quali l’organizzazione si compone, dotando ogni unità delle risorse materiali ed umane richieste dal compito ad essa affidato: denominiamo uffici queste unità organizzative. La posizione del singolo ufficio nell’ambito dell’organizzazione di cui è parte può esser diversificata sia sul piano del potere o dell’autorità esercitata dall’ufficio nell’ambito dell’organizzazione (e così si distinguono uffici dotati di competenze decisorie ed altri di competenze preparatorie od esecutive), sia sul piano dei rapporti dell’organizzazione stessa con le altre organizzazioni e col mondo esterno. Le organizzazioni pubbliche, poi, sono plurime: tra gli stessi pubblici poteri, accanto allo Stato si rinvengono i poteri territoriali locali; e al di là dei pubblici poteri, vi sono gli enti ed organismi pubblici. L’amministrazione in senso sostanziale, come cura concreta di interessi pubblici, non sempre e necessariamente è esercitata dalle organizzazioni pubbliche mediante loro uffici: si danno casi in cui l’esercizio di funzioni amministrative è attribuito a soggetti esterni alle organizzazioni pubbliche, ed in genere privati, a loro volta persone fisiche o persone giuridiche (uffici privati – munera). In tali casi, si dice che il soggetto esterno diviene titolare di un munus pubblico, e si chiama munus egli stesso. Il munus riceve un compenso da parte dell’organizzazione pubblica, o direttamente dai cittadini, o dagli utenti cui la funzione si riferisce. Giuridicamente il munus non è considerato organo delle persone giuridiche nelle quali si articola l’organizzazione pubblica. Si danno casi però in cui il munus agisce in nome e per conto dell’organizzazione pubblica e ad essa imputa determinati effetti. Nell’esercizio del munus, le persone fisiche ad esso deputate non sono ascrivibili alla categoria dei pubblici ufficiali, ai fini della legge penale, ma a quella degli incaricati di pubblico servizio. Si danno tre specie di munera.
Munera legali sono quelli direttamente stabiliti dalla legge (es.: le funzioni pubbliche attribuite ai notai dal 2609 e dal 2703 c.c.). In determinate circostanze, la legge impone munera a tutti coloro che vi si trovano: per es., nella flagranza di delitti di particolare gravità (235 c.p.p.) ogni persona può procedere all’arresto dell’autore ed alla custodia delle cose costituenti il corpo del reato (242 c.p.p.). Munera necessitati: sono quelle previste ex lege da parte dell’Amministrazione nell’esercizio di determinate funzioni (es.: le gestioni sostitutive coattive di imprese in difficoltà). In questi casi l’Amministrazione competente nomina delle persone fisiche quali titolari di organi straordinari che gestiscono l’impresa o l’ente nell’ambito delle direttive e sotto il controllo dell’Amministrazione stessa, perseguendo gli scopi imposti dalla legge. Questi munera sono costituiti con provvedimento amministrativo ed hanno sempre durata temporanea. Munera convenzionali: sono costituiti dall’autorità amministrativa per sua propria scelta (discrezionale), laddove consentito dalla legge: in genere attraverso provvedimenti di concessione. Il fenomeno delle c.d. privatizzazioni, che ha condotto nell’area societaria importanti enti pubblici economici, conferendo perciò ad essi natura giuridica di diritto privato, ha dato luogo alla costituzione di nuovi munera (di carattere legale, perché espressamente previsti dalla legge). Persone giuridiche e organi. Nel nostro sistema positivo le organizzazioni pubbliche sono configurate come persone giuridiche: persone giuridiche pubbliche. Con ciò si evidenzia che le organizzazioni pubbliche sono dotate della piena soggettività giuridica. La soggettività giuridica indica l’attitudine all’imputazione degli effetti giuridici e si identifica con la capacità (giuridica), definita come la posizione generale del soggetto in quanto destinatario degli effetti giuridici. Per la persona fisica la capacità è un attributo ineliminabile; per le organizzazioni, la capacità è una creazione dell’ordinamento che avviene attraverso il riconoscimento dell’organizzazione stessa come soggetto (persona giuridica). Il soggetto che presta la sua attività lavorativa nell’ambito di una struttura organizzativa dello Stato diventa dipendente dello Stato stesso. Le organizzazioni pubbliche sono plurime: il complesso sistema dell’organizzazione di governo della collettività si differenzia in più organizzazioni. Alla pluralità delle organizzazioni corrisponde una pluralità di persone giuridiche. Anche lo Stato si presenta come un’organizzazione disaggregata in una pluralità di organizzazioni. Queste organizzazioni sono raggruppate in branche di amministrazione statale (tipici, i ministeri), ognuna delle quali fa capo ad un organo di vertice, politico, che risponde nei confronti del Parlamento dell’andamento complessivo dell’Amministrazione stessa (95 Cost.). Tuttavia, sul versante patrimoniale, lo Stato risponde verso i terzi come un soggetto unitario. Lo Stato è considerato persona giuridica nel vigente ordinamento. Le organizzazioni di cui ci occupiamo sono pubbliche come organizzazioni di governo della collettività: qui “pubblico” indica che ci stiamo occupando delle organizzazioni di governo della collettività. Negli ordinamenti moderni “pubblico” indica una qualificazione di carattere formale, segnatamente di soggetti, per dire che si applica agli stessi una certa disciplina.
Per alcune organizzazioni giuridiche non si riesce facilmente a determinare se son pubbliche o private: perciò sono stati fissati dei criteri per l’individuazione, nei casi dubbi, delle persone giuridiche pubbliche. La soggettività giuridica, identificata nella capacità (giuridica) come attitudine all’imputazione degli effetti prodotti dalla (applicazione delle) norme, designa un’entità eminentemente statica: il soggetto è destinatario delle norme dell’ordinamento prescindendo dalla sua azione o capacità di reazione agli impulsi dell’ordinamento. La persona giuridica agisce mediante i suoi organi. L’attività dell’organizzazione è anch’essa attività umana compiuta dalle persone fisiche titolari degli uffici. Questa attività può essere meramente materiale, consistere di operazioni e prestazioni: laddove da codesta attività materiale derivino danni nei confronti dei soggetti terzi (2043 c.c.), si pone il problema se la responsabilità per i danni medesimi si imputa all’organizzazione in quanto tale o rimane propria dei soggetti persone fisiche che materialmente hanno agito. In secondo luogo, si pone il problema dell’attività giuridica: una volta stabilita la soggettività giuridica dell’organizzazione, si deve stabilire come essa reagisce agli impulsi dell’ordinamento, attraverso quali strumenti essa agisce giuridicamente. Sono possibili due soluzioni: la prima è che la persona giuridica non possa come tale agire giuridicamente ma la sua azione giuridica avvenga per il tramite di persone fisiche ad essa esterne cui l’ordinamento demanda questo compito: rappresentanza legale o necessaria; la seconda è che la persona giuridica possa agire giuridicamente attraverso i suoi uffici (in tal caso questi ultimi non si limitano al compimento di attività materiali, ma compiono anche attività giuridica in senso proprio, direttamente produttiva di effetti): si parla qui di rapporto organico, facendo riferimento al fatto che gli uffici della persona giuridica agiscono come organi della persona giuridica stessa. Il rapporto organico produce un risultato giuridico che il rapporto di rappresentanza non può mai determinare: l’imputazione dell’atto medesimo all’ente. Si risolve così anche il primo problema esposto: l’imputazione della responsabilità avviene in capo alla persona giuridica. Questa impostazione rende necessaria l’individuazione, nell’ambito degli uffici delle organizzazioni dotate di personalità giuridica, di quelli che hanno la qualità di organi (uffici organi). L’ufficio organo nell’ambito dell’organizzazione si individua in base alla disciplina giuridica relativa all’organizzazione stessa: è organo l’ufficio cui la legge od altra fonte competente attribuisce il compito di svolgere attività giuridica in senso proprio, consistente in fattispecie produttive di effetti. Nell’organizzazione pubblica non è possibile distinguere con nettezza gli uffici destinati a compiere attività giuridica in senso proprio e gli altri destinati a compiere attività meramente preparatoria e interna. Possiamo distinguere uffici cui la legge attribuisce l’adozione degli atti provvedimentali direttamente (e formalmente) produttivi degli effetti verso l’esterno (che denomineremo organi provvedimentali), e quelli cui la legge attribuisce l’adozione di atti a rilevanza giuridica procedimentali (che denomineremo organi procedimentali). Ogni organizzazione pubblica ha definita dalla norma la sua struttura organica: l’insieme dei suoi organi, con la disciplina che li concerne: si tratta dei c.d. organi ordinari dell’ente.
Da questi si distinguono gli organi straordinari, che si ritiene possano essere costituiti presso gli enti pubblici nei casi in cui gli organi ordinari siano incapaci di funzionare, od abbiano commesso gravi violazioni della legalità o per altre cause. Gli organi straordinari, una volta costituiti con la nomina dei rispettivi titolari, prendono il luogo di quelli ordinari (che vengono “disciolti”) nell’ambito dell’organizzazione dell’ente. Tra gli organi di ogni persona giuridica pubblica, ce ne è una che ha la “legale rappresentanza” della persona giuridica (per es.. il sindaco ha la legale rappresentanza del Comune). La rappresentanza in senso tecnico non c’entra per nulla in questi casi. Ciò che rileva, nell’individuazione dell’organo nell’ambito degli uffici di un’organizzazione pubblica, è la sua evidenziazione funzionale esterna: che l’ordinamento giuridico abbia individuato un certo ufficio come quello cui viene affidato il compito di adottare una certa attività giuridica. Denominiamo competenza il complesso delle funzioni giuridiche affidato dalla legge (da norme dell’ordinamento) ad un certo ufficio organo (competenza dell’organo). Dalla competenza si distingue l’attribuzione: essa è l’insieme delle funzioni giuridiche attribuite ad un’organizzazione pubblica (persona giuridica) nella pluralità dei suoi organi. Per quanto concerne lo Stato, organizzazione differenziata in una pluralità di branche amministrative, la nozione di attribuzione si riferisce a ciascuna di codeste branche. La struttura degli uffici. Le unità organizzative denominate uffici sono formate da uomini e da mezzi. Circa i mezzi, si possono distinguere i beni immobili nei quali l’ufficio è dislocato e vi svolge la sua attività; i beni mobili, consumabili e non, ed il macchinario, necessari per lo svolgimento dell’attività dell’ufficio); il danaro necessario per il funzionamento dell’ufficio nonché per l’attuazione, all’esterno, dei compiti affidati all’ufficio stesso. La gestione dei mezzi necessari al funzionamento degli uffici, la provvista e l’assegnazione degli stessi, sono in genere attività affidate a loro volta ad appositi uffici delle diverse organizzazioni pubbliche. Il singolo ufficio è tenuto a trasmettere le proprie richieste a questi uffici generali. Le Amministrazioni centrali e periferiche dello Stato sono tenute ad approvvigionarsi, salvo eccezioni, attraverso ordinativi inviati a fornitori selezionati e convenzionati col Ministero dell’economia e delle finanze, che all’uopo si avvale di una società specializzata (la Consip s.p.a.). Per quanto concerne il danaro, alla gestione ed alla spendita del danaro sono adibiti determinati uffici dell’organizzazione (gli uffici di spesa), che provvedono alle necessità degli altri. La gestione del danaro dell’organizzazione pubblica è governata dallo strumento del bilancio preventivo: esso stabilisce la destinazione delle somme per ogni oggetto di spesa nell’ambito di ciascun esercizio finanziario. La principale dotazione degli uffici è rappresentata dalla risorsa uomo, cioè dal personale. Denominiamo pubblici agenti l’insieme delle persone fisiche che prestano servizio nell’ambito dell’organizzazione pubblica; non tutti essi sono legati all’organizzazione da un rapporto di lavoro di tipo professionale, si distingue infatti tra personale onorario e personale professionale (o burocratico). Di conseguenza, gli uffici possono essere distinti in uffici onorari ed uffici professionali a seconda della qualità dei loro titolari, ed in ordine a questi ultimi si parla di funzionari professionali (o burocratici) e funzionari onorari (politici e non). I funzionari professionali sono legati all’organizzazione da un rapporto di lavoro subordinato in senso proprio (rapporto di servizio), e funzionari onorari sono tutti gli altri.
Nel vigente ordinamento anche i funzionari onorari possono essere in vario modo retribuiti ed in genere sono comunque titolari di pretese patrimoniali. Tra di essi assume particolare importanza il c.d. personale politico, definito come quello legato da un rapporto di rappresentanza con la stessa collettività popolare, da essa stessa designato alla titolarità degli uffici attraverso procedimenti elettorali, ovvero designato da quelle particolari organizzazioni formate nell’ambito della stessa collettività ai fini dell’organizzazione del consenso e della partecipazione politica, che sono i partiti. Il rapporto che lega i titolari degli uffici e degli organi all’organizzazione si chiama rapporto di ufficio. Tutti i titolari degli uffici sono legati all’organo dal rapporto di ufficio, ma in principio solo quelli professionali sono legati anche dal rapporto di servizio professionale (rapporto di lavoro). Gli uffici si distinguono in monopersonali (monocratici) e pluripersonali, a seconda che il loro titolare sia una persona fisica ovvero una pluralità di persone fisiche. Titolarità pluripersonale significa necessariamente collegialità: l’organo agisce per la persona giuridica attraverso persone fisiche (i suoi titolari) che possono essere singole persone fisiche o collegi. L’organo monocratico agisce attraverso una persona fisica che forma la sua volontà (o il suo giudizio) secondo il processo naturale-psichico proprio di tali persone, e la esprime nell’ambito del procedimento inteso alla formazione in concreto della fattispecie amministrativa produttiva di effetti. Invece la formazione e l’espressione della volontà collegiale necessita di una disciplina giuridica. Possiamo definire il collegio quale titolare di un organo, come una pluralità di persone fisiche individuata nel numero e nella qualificazione dei suoi membri, chiamate ad agire in maniera unitaria, in contestualità di tempo e di luogo. Una volta nominati od eletti tutti i suoi membri, il collegio è in astratto costituito. Per la costituzione in concreto i membri del collegio devono essere espressamente convocati, cioè chiamati a riunirsi in un luogo e ad un tempo prestabiliti. Nella comunicazione deve essere fissato il c.d. ordine del giorno, cioè l’elenco specifico degli argomenti sui quali il collegio è chiamato a deliberare. Il contenuto della convocazione è stabilito da un membro predeterminato del collegio, di regola il presidente, individuato per la prima convocazione secondo criteri di legge, e poi eletto dal collegio. Perché il collegio sia formalmente costituito occorre che siano fisicamente presenti un certo numero di membri (c.d. quorum strutturale) stabilito dalla legge. Se la legge nulla prevede, il quorum strutturale si ritiene formato con la presenza della metà dei componenti il collegio più uno. In alcuni casi la legge prevede che per la formale costituzione del collegio occorra la presenza di tutti i suoi membri: c.d. collegi perfetti. Circa i modi della deliberazione, una volta costituito formalmente il collegio, il membro presidente sottopone al collegio i singoli argomenti previsti nell’ordine del giorno. Su ogni punto, il presidente od altro membro del collegio presenta una proposta di deliberazione, sulla quale si apre una discussione: ogni membro del collegio può parlare ed esprimere la sua opinione. Una discussione può anche precedere la formulazione della proposta, ed alla stessa essere finalizzata. Una volta che il presidente ritenga la discussione svolta, la dichiara conclusa e pone ai voti la proposta.
Il presidente può mettere ai voti anche l’ordine delle proposte. Sulla proposta ogni membro esprime il suo voto, palese o segreto secondo quanto dice la legge: in assenza di quest’ultima, secondo quanto stabilito dal presidente, ed in caso di disaccordo secondo quanto stabilito dallo stesso collegio con apposito voto palese. La proposta si trasforma in deliberazione del collegio una volta che su di essa si siano espressi favorevolmente i membri del collegio presenti, nel numero richiesto dalla norma (c.d. quorum funzionale). In assenza di normativa sul punto, il quorum funzionale corrisponde alla metà dei membri votanti più uno: c.d. maggioranza semplice; ma spesso sono previste maggioranze qualificate (ad es. la c.d. maggioranza assoluta, data dalla metà dei membri del collegio, anche se non presenti, più uno). Il membro astenuto è di regola considerato come assente dalla seduta collegiale nel determinato momento della votazione: non viene computato tra i votanti ma rimane computato tra i membri necessari per concretizzare il quorum strutturale. Quando invece l’astenuto è considerato tra i votanti, l’astensione non influisce sul quorum funzionale. A volte l’astensione dal voto è dovuta: quando il singolo membro del collegio si trova in situazione personale di incompatibilità rispetto all’oggetto della deliberazione. Nel corso della discussione e della votazione la proposta può venir modificata sulla base di proposte parziali di modifica (c.d. emendamenti), come può venire anche interamente sostituita. Tutto il lavoro dell’organo collegiale si svolge oralmente (tranne, in genere, l’atto di convocazione). Il lavoro dell’organo collegiale può svolgersi alla presenza esclusivamente dei membri del collegio: la presenza di estranei alla discussione di regola è considerata viziante la legittimità della deliberazione, ma è ammessa la presenza alla seduta di persone svolgenti attività servente, burocratica e tecnica. Ai fini dell’esternazione e della produzione di effetti, la volontà collegiale assunta con la deliberazione deve essere tradotta per iscritto mediante un’attività affidata, in genere, ad un membro del collegio (il segretario), attività che si denomina verbalizzazione. La deliberazione è quella risultante dal verbale. Quest’ultimo, nei collegi amministrativi, è atto che produce certezza pubblica circa il suo contenuto. Il modulo della collegialità presenta il vantaggio di consentire il confronto diretto ed immediato dei diversi punti di vista. I titolari degli uffici e degli organi ne vengono investiti attraverso un atto amministrativo (atto di investitura nell’ufficio o di preposizione allo stesso). Negli organi collegiali, in genere, gli atti di investitura sono più d’uno, ciascuno per ogni membro del collegio; vi sono però casi in cui il collegio nella totalità dei suoi membri è investito dell’ufficio con unico atto (atto plurimo). L’atto di investitura assume due moduli strutturali tipici, che denominiamo nomina ed elezione. La nomina come atto di investitura nell’ufficio è esercizio di potere discrezionale in senso proprio. Il contenuto dell’atto di nomina consiste sempre nella scelta di una tra più persone fisiche possibili. In alcuni casi le persone tra le quali l’autorità competente deve operare la scelta sono predeterminate dalla legge o da altra autorità amministrativa a ciò competente (propostadesignazione).
L’elezione è un procedimento più complesso: esso costituisce la forma più diffusa per l’investitura negli organi politici. Vi sono però organi politici di altissimo rilievo, come ad es. il Presidente del Consiglio dei Ministri, ed i Ministri stessi, la cui investitura avviene mediante procedimento di nomina (92 Cost.). Il procedimento elettorale si esprime attraverso la manifestazione di volontà di una pluralità di persone, che possono a loro volta costituire un collegio in senso tecnico, o coincidere con un’intera collettività di cittadini dotati dei requisiti richiesti dalla legge (ad es., maggiore età): corpo elettorale. Se non si tratta di collegi ma di corpi elettorali, questi devono essere chiamati ad esprimere il voto in un determinato tempo e presso determinati luoghi (convocazione dei comizi elettorali). Ma ogni avente diritto all’espressione del voto lo esprime separatamente dagli altri e nel momento che crede (nell’ambito del tempo fissato). L’espressione del voto consiste nell’indicazione da parte di ogni singolo avente diritto di una o più persone fisiche come quelle da investire nell’ufficio; i nominativi da indicare sono scelti nell’ambito di una serie di persone fisiche che hanno titolo per essere eletti (c.d. diritto di elettorato passivo). In alcuni casi la scelta degli elettori può avvenire solo tra coloro che precedentemente, nei termini e con le modalità di legge, abbiano avanzato la propria candidatura, cioè si siano formalmente autodesignati all’ufficio elettivo. Le elezioni che vengono espresse da organi collegiali sono distinte dalle deliberazioni: nell’elezione manca la proposta, manca la discussione, e la votazione avviene secondo modalità sue proprie. Il voto è di regola segreto ed è sempre un’espressione di volontà isolata ed individuale. L’atto di investitura dell’ufficio, come tutti gli atti giuridici, può essere illegittimo od anche giuridicamente inesistente e dunque del tutto improduttivo di effetti. Nel caso di organi collegiali, può verificarsi l’evenienza che sia illegittimo (o giuridicamente inesistente) l’atto di nomina di alcuni dei membri del collegio: in tal caso può però considerarsi legittimamente avvenuta l’investitura del collegio in quanto tale, nell’ufficio, ove il numero dei membri di nomina legittima superi il quorum strutturale. Nel caso di atto di investitura illegittimo od inesistente, si ha il fenomeno denominato con espressione gergale (del tutto inesatta) funzionario di fatto: essa indica il titolare di ufficio la cui nomina è illegittima o giuridicamente inesistente. La giurisprudenza considera gli atti del funzionario di fatto come atti dell’ufficio di cui egli è, sia pure illegittimamente (o “di fatto”), il titolare: e quindi come atti imputati alla persona giuridica della quale l’ufficio è organo; tuttavia, gli atti stessi vengono considerati viziati in un loro elemento strutturale (concernente il soggetto da cui provengono) e perciò illegittimi. Essi sono perciò sottoposti al regime dell’illegittimità degli atti amministrativi e possono essere impugnati da ogni interessato nei modi di legge, e subire le altre conseguenze dell’illegittimità. Una volta costituito il rapporto di ufficio, esso può subire vicende giuridiche di vario tipo. Per quanto concerne i titolari di uffici burocratici, vi è la disciplina delle aspettative, dei congedi, dei comandi. Il funzionario posto in aspettativa rende l’ufficio vacante per il periodo dell’aspettativa stessa, e quindi rende necessaria la sua sostituzione temporanea nella titolarità dell’ufficio. Ciò avviene attraverso istituti positivi come la supplenza (che in genere spetta al funzionario di grado immediatamente inferiore) o la reggenza dell’ufficio (che viene temporaneamente affidata a funzionario titolare di altro ufficio, in genere di pari grado), ovvero l’incarico (col quale si può
temporaneamente chiamare alla titolarità dell’ufficio persone fisiche esterne all’amministrazione). Il rapporto di ufficio cessa per scadenza del termine; per morte o dimissioni del titolare (le dimissioni devono essere espressamente accettate dall’ente, ma in un tempo “congruo”); per rimozione dello stesso dall’ufficio determinata autoritativamente dall’ente; per trasferimento del titolare ad altro ufficio. In questi casi occorre procedere all’investitura nell’ufficio di nuovo titolare. Finché ciò non avvenga, per gli uffici a titolarità professionale operano i meccanismi di sostituzione di cui s’è appena detto. Per gli uffici a titolarità onoraria o politica, ove è possibile, opera nei limiti di legge il c.d. principio della prorogatio: secondo esso principio il titolare dell’ufficio cessato per scadenza del termine conserva l’ufficio sino a che non viene investito dello stesso il nuovo titolare. Non si tratta di “funzionario di fatto” (come sostiene per es. anche il Sandulli), perché ove il principio della prorogatio opera, finché non viene investito dell’ufficio il nuovo titolare, il precedente è il legittimo titolare dell’ufficio, ed ha non solo il diritto ma l’obbligo di permanere nell’ufficio, conservandone tutti i poteri fino al sub-ingresso del successore. La durata del periodo di proroga è ridotta a 45 giorni, decorrenti dal giorno della scadenza del termine di durata della carica. Nel periodo di proroga possono essere adottati esclusivamente gli atti urgenti ed indifferibili con indicazione specifica dei motivi di urgenza ed indifferibilità, a pena di invalidità (d.l. 381/1992). Relazioni tra uffici (interorganiche). I rapporti interni ad un unico soggetto, c.d. rapporti interorganici, trovano il loro fondamento nella posizione organizzativa reciproca degli organi e degli uffici nell’ambito dell’organizzazione. Si danno due tipi principali di tali relazioni: relazioni di equiordinazione e relazioni di sovraordinazione/subordinazione (“gerarchia”, secondo la dizione ormai consolidata). Nelle relazioni di equiordinazione gli organi tra loro sono in posizione paritaria: nessuno di essi ha poteri di supremazia nei confronti degli altri e nessuno, per contro, si trova in posizione di soggezione nei confronti degli altri; in tal caso si pone, tra i diversi uffici equiordinati, un problema di coordinamento. Nelle relazioni di sovraordinazione-subordinazione il principio fondamentale sta in ciò, che l’organo sovraordinato (il “superiore gerarchico”) è dotato nei confronti dell’organo subordinato (l’“inferiore gerarchico”) di una serie di poteri a fronte dei quali quest’ultimo si trova in una posizione di soggezione. Quanto all’organizzazione statale, il d. pubbl. imp. ha introdotto il principio della separazione qualitativa tra le competenze del vertice politico rispetto all’apparato dirigenziale: il Ministro può e deve essere ancora considerato capo dell’Amministrazione cui è preposto, però ad esso non spetta più il potere di specifica disposizione o comando riferito a singoli affari di concreta gestione dell’operato della struttura ministeriale (comunque i dirigenti e tutta l’organizzazione ministeriale rimangono a lui subordinati). Il modello originario della gerarchia (gerarchia in senso stretto) è caratterizzato da ciò, che tra gli organi non sussiste una vera e propria separazione di competenza, ma la competenza si viene a confondere con l’attribuzione (propria dell’organizzazione nel suo complesso) nell’ambito della quale tutti gli organi possono agire secondo criteri di distribuzione dei compiti fissati dal vertice dell’organizzazione e con valore fondamentalmente interno; mentre non è dato distinguere sfere di competenza proprie dei singoli organi e ad esse conferite da norme di legge che individuano determinati poteri amministrativi loro propri.
Nell’ambito della gerarchia in senso stretto l’organo sovraordinato determina il contenuto (ordine) della singola azione che l’organo subordinato deve porre in essere (atto giuridico, operazione), e quest’ultimo è tento ad ottemperare; e può sempre sostituirsi al subordinato nell’esercizio di attività proprie di quest’ultimo secondo le regole vigenti nell’organizzazione (sostituzione). All’ufficio sovraordinato spettano anche poteri di controllo sia sul funzionamento sia anche sugli atti dell’ufficio subordinato (ispezioni, annullamento d’ufficio, etc.). La gerarchia, come relazione di sovraordinazione-subordinazione, resta il modello più diffuso nell’organizzazione dello Stato, ma non si tratta di gerarchia in senso stretto: si tratta di gerarchia in senso lato, nella quale i poteri spettanti agli organi sovraordinati nei confronti dei subordinati sono diversi rispetto a quelli del modello della gerarchia in senso stretto. Al posto del potere di ordine, troviamo il potere di direzione: il superiore gerarchico stabilisce criteri ed obiettivi dell’azione amministrativa svolta dall’inferiore gerarchico e propria di quest’ultimo. L’inferiore gerarchico dunque deve motivare le ragioni di interesse pubblico che l’hanno indotto in determinate circostanze ad agire in maniera difforme rispetto a quanto indicato dal superiore gerarchico. Gli atti tipici nei quali si esprime il potere di direzione si denominano direttive (nella pratica, circolari). Il potere di sostituzione non sussiste se non laddove espressamente previsto dalla legge. I poteri di controllo sussistono nella stessa forma di cui al modello della gerarchia in senso stretto. Nelle relazioni gerarchiche tra organi ed uffici, il coordinamento delle attività svolte dagli uffici stessi è assicurato dalla gerarchia medesima: il superiore gerarchico coordina i diversi uffici a lui sottoposti. La figura del coordinamento assume invece un rilievo proprio nell’ambito delle relazioni di equiordinazione, nelle quali occorre prevedere appositamente una struttura di coordinamento. Sul punto, si rinvengono due modelli: in qualche caso è costituito un organo collegiale nel quale tutti gli uffici equiordinati sono rappresentati e che provvede ad assumere atti, nei confronti degli uffici stessi, che hanno una efficacia assimilata a quella delle direttive nelle relazioni gerarchiche; in altri casi, ad uno degli uffici equiordinati viene espressamente conferito dalla legge il compito del coordinamento: questo ufficio non ha poteri di direttiva ma semplicemente poteri di armonizzazione dell’azione di diversi uffici, mediante contatti, raccolta di informazioni e confronto di risultati. Nell’ambito delle relazioni di equiordinazione si possono porre dei conflitti di attribuzione tra i diversi organi: laddove uno o più di essi pretendano la titolarità di una funzione o di un singolo potere amministrativo, pretesa allo stesso tempo da altri organi. La risoluzione dei conflitti è disciplinata dalla legge (per es. il consiglio dei ministri è competente circa la risoluzione dei conflitti tra ministeri). Nel silenzio della legge, la risoluzione del conflitto è di attribuzione del massimo organo deliberativo dell’ente. Fondamentale nelle relazioni interorganiche è il principio di competenza: ogni organo ha dalla legge individuato l’ambito delle proprie funzioni (97 Cost.), che in quanto tale non può essere derogato (a pena di illegittimità) per volontà dell’amministrazione.
Quest’affermazione si estende sia all’ambito delle relazioni di equiordinazione, sia all’ambito delle relazioni di sovraordinazione-subordinazione, restando escluso l’ambito delle relazioni di gerarchia in senso stretto. La titolarità dei poteri attribuiti dalla legge all’inferiore gerarchico (competenza) resta in ogni caso ferma, mentre il superiore gerarchico può, attraverso l’esercizio dei poteri di direttiva, di controllo, etc., in vario modo condizionare l’esercizio da parte dell’inferiore gerarchico dei poteri di competenza di quest’ultimo. Nell’ambito delle relazioni organizzative di cui s’è appena detto si instaurano rapporti giuridici tra uffici ed organi, ascrivibili a tre principali modelli: avocazione, delegazione, sostituzione. Avocazione indica l’atto col quale un organo decide di esercitare, sulla base di motivi di interesse pubblico o comunque di giustificate ragioni, un potere attribuito alla competenza di altro organo; una tantum, cioè tutte le volte occorrenti per la cura di un determinato interesse pubblico concreto. L’atto di avocazione è esercizio di potere discrezionale e può essere contestato nelle competenti sedi da parte di chi vi abbia interesse. È escluso che l’istituto dell’avocazione possa trovare applicazione in mancanza di una esplicita disposizione di legge che lo consenta, mentre è ormai pacifico che l’istituto trovi sempre applicazione nell’ambito di relazioni organizzative ascrivibili al tipo della gerarchia in senso stretto. Recentemente è stato soppresso il potere di avocazione in capo ai ministri circa gli atti di competenza dei dirigenti. Resta invece in capo al ministro il potere sostitutivo, nei confronti dei dirigenti, in caso di “atti dovuti”. La delegazione è un rapporto giuridico caratterizzato da ciò, che una figura soggettiva (ente od organo: delegante) titolare di un determinato potere o di un complesso di poteri finalizzati alla cura di determinati interessi pubblici (funzione) attribuisce ad altra figura soggettiva (delegato) con proprio atto (atto di delegazione o più semplicemente delega) l’esercizio del potere stesso, definendone eventualmente la durata, le modalità, gli obiettivi; la delega costituisce il fatto di legittimazione circa l’esercizio del potere da parte del delegato, modificando l’ordine legale delle competenze. In via di principio la delegazione non è ammessa se non nei casi previsti dalla legge, mentre essa non consegue ex se alle relazioni organizzative di tipo gerarchico (gerarchia in senso lato). La delegazione è prevista in via generale da parte dei dirigenti degli uffici dirigenziali generali in favore dei dirigenti. È prevista la delegazione di funzioni dal presidente del consiglio ai ministri senza portafoglio, o in mancanza di questi, ad altri ministri; ed anche la delegazioni di compiti da parte dei ministri ai sottosegretari di Stato. Con l’esercizio della delega si instaura tra delegante e delegato un rapporto giuridico che ha ad oggetto l’esercizio della funzione da parte del delegato. L’atto di delegazione è a forma scritta necessaria, secondo la giurisprudenza. Le fattispecie di esercizio del potere si imputano esclusivamente al delegato, che ne risponde verso i terzi. Al delegante spetta sempre un potere di direzione ed un potere di controllo. La delega può essere revocata dal delegante nelle stesse forme previste per la sua adozione. La delega può essere revocata dal delegante anche implicitamente (cioè mediante l’esercizio del potere): sino al momento in cui l’organo delegato non abbia posto in essere l’attività per la quale la delega era stata data.
Viceversa sembra doversi escludere che, una volta conferita la delega, il delegante conservi la facoltà di esercizio del potere oggetto della delega stessa. Nell’ambito del rapporto di delegazione si possono porre però dei casi di sostituzione nell’esercizio del potere da parte del delegante, ove ne ricorrano gli estremi. Dalla delegazione interorganica nel senso proprio si distingue la c.d. delega di firma: un organo, pur mantenendo la piena titolarità circa l’esercizio di un determinato potere, delega ad altro organo od anche a funzionario contitolare di organo il compito della firma degli atti nei quali il potere stesso si esercita. La delega della firma è generalmente ammessa da parte del ministro in favore dei sottosegretari di Stato nonché dei direttori generali. L’atto firmato dal delegato resta formalmente imputato all’organo delegante, e degli atti firmati dal delegato risponde nei confronti dei terzi il delegante. Il fatto che l’attività posta in essere dal delegato alla firma resti imputata all’organo delegante costituisce la principale distinzione tra la delega di firma e la delegazione interorganica in senso proprio. Nella figura della sostituzione un organo (di regola il superiore gerarchico) adotta atti di competenza di altro organo, al cui compimento quest’ultimo è tenuto per legge, in caso di sua inadempienza. Nell’ambito delle relazioni interorganiche, è da ritenere che poteri sostitutivi, nella gerarchia in senso lato, sono ammessi in capo al superiore gerarchico soltanto laddove previsto dalla legge. Tuttavia, nell’ordinamento delle relazioni gerarchiche nell’ambito ministeriale, tra dirigenti ed organi subordinati, il potere sostitutivo è previsto in via generale. È previsto un analogo generale potere in capo ai ministri nei confronti dei dirigenti; in particolare il ministro, laddove riscontri inerzia o ritardo nell’adozione degli atti dovuti, può fissare un termine perentorio entro il quale gli atti medesimi devono essere adottati, salva la possibilità di nomina di un commissario ad acta, in caso del protrarsi dell’inerzia. Le Pubbliche Amministrazioni e il “problema dell’ente pubblico”. L’organizzazione pubblica nel suo complesso consta di una pluralità di organizzazioni in genere dotate di propria personalità giuridica. Secondo il d. pubbl. imp. nella nozione di amministrazioni pubbliche sono comprese tutte le amministrazioni dello Stato ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio industria artigianato ed agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende, e gli enti del servizio sanitario nazionale. Si tratta di un’elencazione non esaustiva. Nell’ambito dello Stato vengono genericamente menzionate “tutte le amministrazioni dello Stato”, emergendo da tale dizione della norma il pluralismo organizzativo proprio dell’organizzazione statale cui si è fatto cenno. Le amministrazioni dello Stato sono principalmente i ministeri e le agenzie. Il c.d. problema dell’ente pubblico è quello di stabilire i criteri di identificazione degli enti pubblici. Gli enti pubblici nella nostra esperienza positiva sorgono in relazione a due fenomeni tra loro diversi: da una parte, sorgono per opera di un atto di organizzazione assunto dallo Stato, in genere di fonte legislativa, per far fronte a proprie esigenze organizzative e funzionali (l’ente nasce come un ufficio dello Stato “entificato”); l’altro fenomeno può essere indicato come quello
del riconoscimento siccome pubbliche di preesistenti organizzazioni, in genere ascrivibili all’autonomia privata o sociale. Questo riconoscimento spesso avviene non attraverso atti normativi a formulazione esplicita, ma attraverso l’attribuzione per via normativa alle organizzazioni preesistenti di elementi o qualità strutturali o funzionali che ne modificano la natura senza dichiararlo esplicitamente (riconoscimento implicito). L’ente riconosciuto dallo Stato, a differenza di quelli creati dallo Stato come “propri uffici” dotati di personalità giuridica, conserva una sua connotazione organizzativa in qualche misura autonoma. In base a quali criteri si determina la natura pubblica di una persona giuridica, ove incerta? Essendo la persona giuridica una creazione dell’ordinamento, la sua individuazione avviene sulla base di elementi di disciplina giuridica sintomatici della pubblicità. Si è passati da una concezione sostanzialistica di tali elementi sintomatici ad una concezione formale. In una prima fase l’elemento sintomatico era visto in ciò, che alla persona giuridica fossero (dalla legge) attribuiti poteri amministrativi in senso tecnico (funzioni) o comunque compiti specifici di cura di interessi pubblici. Variante di tale concezione è stata la c.d. teoria del fine, secondo la quale sono determinanti gli elementi di disciplina concernenti una persona giuridica che ne conformino l’azione (o una parte) come quella finalizzata alla cura di interessi coincidenti con gli interessi dello Stato (per definizione pubblici). Nella seconda fase gli elementi sintomatici della pubblicità sono visti essenzialmente nella disciplina organizzativa concernente la persona giuridica. Si tratta sempre di un problema di interpretazione. Un problema che si pone in ordine all’individuazione degli enti pubblici concerne la distinzione tra questi degli enti economici e non. Il criterio seguito dalla giurisprudenza è di natura oggettiva, concerne il tipo di attività istituzionalmente svolta dall’ente (come attività prevalente): l’ente è qualificato come ente economico se questa attività è ascrivibile oggettivamente alle attività di impresa (2093, 2221 c.c.). La l. parastato dice che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge. Resta il problema del riconoscimento implicito della pubblicità di un ente attraverso l’attribuzione ad esso, con norma di carattere legislativo, di determinati elementi di disciplina (ritenuti sintomatici). Vige una nozione di origine comunitaria, ma accolta nell’ordinamento nazionale, di organismi di diritto pubblico, istituiti per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, e avente personalità giuridica e la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico. Secondo la Corte costituzionale il legislatore nella sua azione di conformazione dell’organizzazione pubblica complessivamente intesa può inserire, attraverso la “pubblicizzazione”, preesistenti organizzazioni create dall’iniziativa privata e sociale, ma esse devono presentare alcune caratteristiche, altrimenti l’operazione di pubblicizzazione si presenta
come illegittima perché irragionevole e contrastante coi principi costituzionali in materia di organizzazione amministrativa (3 e 97 Cost.). La Corte ha individuato alcune caratteristiche di organizzazioni ed istituzioni private, o sociali, che ne renderebbero costituzionalmente illegittima la pubblicizzazione, così riassunte. Per le istituzioni aventi struttura associativa, che la costituzione dell’ente sia avvenuta per iniziativa volontaria dei soci o promotori privati; che l’amministrazione dell’ente sia tenuta dai soci nel senso che gli stessi eleggano almeno la metà dei componenti l’organo collegiale deliberante; che l’attività dell’ente si esplichi prevalentemente sulla base di prestazioni volontarie e personali dei soci (non consistenti in mere erogazioni pecuniarie) e con mezzi derivanti da atti di liberalità o da contributi dei soci; che il patrimonio risulti prevalentemente formato da beni derivanti da atti di liberalità o da apporti dei soci. Prescindendo dal carattere associativo dell’ente, che si tratti di istituzione promossa ed amministrata da privati ed operante prevalentemente con mezzi di provenienza privata, almeno la metà dei componenti l’organo collegiale deliberante sia designata da privati e tra questi componenti sia scelto il presidente; il patrimonio sia quasi esclusivamente costituito da beni provenienti da atti di liberalità privata o dalla trasformazione dei beni stessi. Principali istituti di generale applicazione. Cenni alla disciplina del “personale”. La disciplina generale delle Amministrazioni si può definire come quella che tutte le Amministrazioni perché tali (salve espresse eccezioni legislative) applicano nella loro organizzazione e nella loro azione. Gli istituti di deminutio della capacità comportano incapacità in capo all’ente di porre in essere determinati atti, ovvero obblighi di compiere determinati atti od operazioni, in deroga al diritto comune. Tra questi istituti emerge la perdita della capacità di disporre di se stessa da parte della preesistente organizzazione. L’ente non può estinguersi se non per legge e secondo i procedimenti di legge. Altri istituti ascrivibili alla categoria possono essere considerati i seguenti: incapacità di disporre della propria liquidità monetaria se non nell’ambito della tesoreria unica, relativamente agli enti pubblici (la maggioranza) elencati nella tabella allegata ad una legge; regime vincolato delle locazioni di immobili; inalienabilità di atti e documenti e di beni culturali salva autorizzazione; obbligo di fornire dati statistici all’ISTAT; obblighi concernenti la redazione dei bilanci ed altri adempimenti finanziari relativi al c.d. settore pubblico allargato che comprende tutti gli enti pubblici non economici individuati in tabella. Gli istituti di privilegio sono istituti intesi a sottrarre l’ente dall’applicazione di determinate norme di diritto comune, in genere poste a tutela dei terzi. Ne è esempio la sottrazione al regime fallimentare, stabilita per gli enti pubblici che esercitano attività di impresa. La terza categoria dei principali istituti di generale applicazione consta della titolarità in capo all’ente di poteri amministrativi in senso tecnico. La pubblicità in quanto tale comporta che alcune delle attività dell’ente acquistano senz’altro la configurazione di attività pubblicistiche (esercizio di poteri amministrativi) con quel che ne segue in termini di disciplina sostanziale e di tutela. Segnatamente, si tratta della c.d. potestà statutaria, cioè della capacità di dettare limitatamente ad alcuni settori dell’organizzazione e dell’attività dell’ente norme giuridiche in senso tecnico, di rango regolamentare, nei limiti fissati dalle leggi; e sempre che la legge non abbia esplicitamente od implicitamente privato l’ente di detta potestà.
Si ritiene che gli atti attraverso i quali l’ente provvede alla propria organizzazione abbiano natura amministrativa, con quel che ne segue in termini di disciplina sostanziale e di tutela dei terzi controinteressati. Parlando degli istituti di ingerenza, dobbiamo dire che tutti gli enti pubblici sono soggetti ad una serie di poteri amministrativi imputati allo Stato stesso, in genere ad una branca della sua articolazione ministeriale. Tra di essi emerge il potere di annullamento degli atti amministrativi degli enti: potere che a sua volta si articola nel potere di annullamento d’ufficio imputato all’organizzazione che esercita la c.d. vigilanza sull’ente, e nel potere c.d. di annullamento straordinario, spettante al Consiglio dei ministri “a tutela dell’unità dell’ordinamento”. Alla stessa categoria è da ascrivere il potere di controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria degli enti pubblici cui l’Amministrazione statale contribuisce con apporto patrimoniale. Passiamo ora ad esporre alcuni cenni sulla disciplina del personale. La gran parte dei pubblici agenti è composta di personale professionale, che può essere definito come quello legato all’organizzazione nella quale è inserito da un rapporto di lavoro subordinato: nel quale il prestatore di lavoro si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (2094 c.c.). Detto rapporto è tradizionalmente denominato pubblico impiego, ma adesso si chiama più precisamente rapporto di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche. Il d. pubbl. imp. ha innovato alla materia, affermando sia sul versante sostanziale, sia sul versante della tutela, principi opposti rispetto a quelli prima in vigore, validi salve eccezioni per tutte le categorie di rapporti già ascrivibili al pubblico impiego. Sul versante sostanziale i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni delle sezioni seconda e terza, capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, in quanto compatibili. Restano salve le eccezioni che riguardano alcune categorie privilegiate: magistrati, avvocati dello Stato, il personale militare e delle forze di polizia, il personale diplomatico e della carriera prefettizia, etc. Sul versante della tutela, sono devolute al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, salve alcune materie rimaste soggette alla disciplina amministrativa, e salve le controversie relative alle categorie di personale appena ricordate. Il rapporto di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche è disciplinato da fonti legislative, che in parte constano di norme derogabili ed in parte di norme inderogabili, nonché da fonti convenzionali (contratti collettivi ed individuali). Restano nel diritto amministrativo le discipline del rapporto di servizio delle categorie c.d. privilegiate. Ma alcuni istituti concernenti detto rapporto di lavoro sono stati sottratti alla disciplina comune, e conservati alla disciplina pubblicistica (sia sul versante sostanziale che su quello della tutela). Si tratta dei procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro, dei ruoli e delle dotazioni organiche nonché della loro consistenza complessiva, delle incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività e dei casi di divieto di cumulo di impieghi ed incarichi pubblici (l. 421/1992).
I procedimenti di accesso al rapporto di lavoro pubblico restano disciplinati dal diritto pubblico; in determinati casi è però possibile l’assunzione di personale mediante contratti di diritto comune. Resta ferma la tradizionale disciplina pubblicistica dei ruoli e delle dotazioni organiche. Il ruolo è propriamente un documento nel quale sono incasellati, con il relativo nome e cognome e gli altri dati personali, tutti i dipendenti di una determinata Amministrazione, in servizio, distinti per qualifiche funzionali (o livelli) – che indicano allo stesso tempo livelli di preparazione dell’impiegato, come laurea, diploma, etc., e corrispondente livello di responsabilità nell’ambito dell’organizzazione; ed un livello stipendiale – e per profili professionali – che indicano il tipo di professionalità esercitata: funzionario amministrativo, insegnante, geologo, etc. La dotazione organica è un dato numerico: indica il numero dei dipendenti che nei diversi ruoli sono appunto in dotazione ad una certa Amministrazione, e di cui perciò essa può disporre se si rendono vacanti. Circa la responsabilità per danni prodotti a terzi da parte del pubblico agente nell’esercizio delle sue funzioni, la disciplina rimane quella del diritto comune (2043 c.c.), ed il 28 Cost. (I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici) ha fatto giustizia di precedenti inammissibili privilegi. La disciplina amministrativa prevede correttivi alla disciplina comune, per rafforzare l’ambito della responsabilità, potendo il danneggiato chiamare a rispondere dei danni subiti sia il pubblico agente come persona fisica sia l’Amministrazione nella quale egli è incardinato, in solido. Resta però la deroga prevista dalle norme circa la necessaria sussistenza del dolo o della colpa grave perché il danno prodotto dal pubblico agente possa essere considerato ingiusto e perciò dar luogo alla responsabilità del dipendente. Per i pubblici agenti però, e solo per essi (anche se onorari), è prevista una particolare forma di responsabilità per danni prodotti all’ente di appartenenza con la propria azione dolosa o colposa, caratterizzata dalla peculiare disciplina della tutela, affidata sia in ordine all’esercizio dell’azione di responsabilità sia in ordine alla relativa giurisdizione, all’attribuzione esclusiva della Corte dei conti. Il danno può essere prodotto direttamente nei confronti dell’ente, ovvero nei confronti dei terzi ai quali l’ente ha dovuto risarcire il danno stesso. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di una particolare forma di responsabilità, denominata “amministrativa”, caratterizzata da un regime particolare. Sotto l’etichetta della responsabilità viene anche sistemata – ma erroneamente poiché si tratta di tutt’altro istituto – la c.d. responsabilità disciplinare, che indica la soggezione dell’impiegato pubblico ad un particolare potere sanzionatorio esercitato dall’Amministrazione attraverso determinati suoi organi nei modi e secondo le previsioni di legge mediante esercizio di poteri amministrativi. Nell’ambito del personale professionale, si deve distinguere tra personale dirigenziale e non. Sul piano organizzativo, dopo aver attratto anche la dirigenza generale dello Stato nel regime della contrattazione, è stato disposto il superamento (per le Amministrazioni statali e per gli altri enti pubblici) della doppia qualifica dirigenziale (dirigenti generali e dirigenti). Il d. pubbl. imp. ha previsto che la dirigenza dello Stato faccia parte di un unico ruolo, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed articolato in due distinte fasce: ogni fascia si articola a sua volta in sezioni distinte, in relazione alla specifica professionalità del dirigente.
Le altre amministrazioni non statali (regioni, enti locali ed enti pubblici non economici) devono adeguare la propria struttura organizzativa alla nuova disciplina. Dalla disciplina del ruolo dirigenziale unico sono invece esclusi gli enti di ricerca e gli istituti di istruzione e cultura dotati di autonomia organizzativa ai sensi del 33 Cost. Ogni dirigente (appartenente al ruolo unico) può assumere qualunque tipo di incarico compatibile con la propria competenza tecnica. È prevista la temporaneità degli incarichi (da due a sette anni) con facoltà di rinnovo, in relazione ai risultati conseguiti e comunque in applicazione del criterio di rotazione degli stessi incarichi. Una particolare disciplina riguarda gli incarichi amministrativi di più alto livello (segretari generali, capi dipartimento, etc.), i quali si intendono confermati laddove non siano stati revocati, modificati o rinnovati entro 90 giorni dal voto di fiducia al Governo. I dirigenti rispetto al restante personale professionale si caratterizzano per il fatto che ad essi è affidata la titolarità di uffici dirigenziali, configurati quali organi dell’Amministrazione. Ed agli uffici dirigenziali spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo; nonché la gestione di una quota parte del bilancio dell’Amministrazione. Ogni unità previsionale corrisponde ad un unico centro di responsabilità amministrativa cui è affidata la relativa gestione. I titolari degli uffici dirigenziali sono altresì soggetti ad un particolare regime delle responsabilità, essi sono infatti responsabili dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione. Sui dirigenti grava la responsabilità della traduzione in attività operativa ed in risultati produttivi delle direttive generali, degli atti di programmazione e di indirizzo assunti dagli organi di direzione politica. L’inosservanza da parte loro delle direttive generali, od il risultato negativo della gestione, possono comportare in capo ai dirigenti anche la risoluzione del contratto di lavoro. L’imputazione ai dirigenti delle funzioni spettanti ai titolari di organi ed il connesso regime delle responsabilità segue alla loro preposizione agli uffici dirigenziali, preposizione che avviene in favore dei dirigenti di prima fascia del ruolo unico con d.p.r.; e che per gli incarichi di direzione di uffici di livello dirigenziale generale ovvero di livello dirigenziale avviene in favore di dirigenti di prima o seconda fascia rispettivamente con d.p.c.m. e con provvedimento del dirigente dell’ufficio dirigenziale generale. Non si tratta cioè di qualità o di attribuzioni loro proprie in quanto collocati a livello dirigenziale. Sul versante del rapporto di servizio, possiamo distinguere tra personale dirigenziale e non; ma sul versante del rapporto di ufficio e dell’organizzazione amministrativa, dobbiamo distinguere uffici dirigenziali, ai quali debbono essere preposti dirigenti, che sono organi; ed uffici non dirigenziali. Al dirigente come tale non corrisponde necessariamente l’ufficio dirigenziale. I pubblici agenti, e segnatamente il personale dipendente dalle organizzazioni stesse, nell’azione di ufficio, è al servizio del pubblico, dei cittadini. E tutta la sua azione deve essere intesa ad assicurare il migliore andamento, l’efficienza e l’efficacia del servizio cui è adibito. Questi principi, riaffermati nei punti fondamentali dalla Costituzione (in particolare, dal 98), sono stati svolti in un Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
I principi del Codice sono stati dichiarati esemplificativi degli obblighi di diligenza, lealtà, imparzialità che qualificano il corretto adempimento della prestazione lavorativa. Circa i doveri di ufficio in senso stretto (rapporti con l’Amministrazione), il dipendente deve dedicare, nel rispetto dell’orario di lavoro, la giusta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie competenze, impegnandosi ad adempierle nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini; usare e custodire con cura i beni di cui dispone per ragioni d’ufficio, e di non usare a fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni di ufficio. Circa i rapporti coi cittadini utenti, il comportamento del dipendente deve essere tale da stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione tra i cittadini e l’Amministrazione. Deve essere favorito l’accesso dei cittadini alle informazioni a cui essi abbiano titolo; nei limiti in cui ciò non sia vietato il dipendente fornisce al cittadino tutte le notizie ed informazioni necessarie per valutare le decisioni dell’Amministrazione ed i comportamenti dei dipendenti. È fatto divieto di chiedere per sé o per altri e di accettare, pure in occasione di festività, regali od altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore, da soggetti che abbiano tratto o comunque possano trarre benefici da decisioni od attività inerenti all’ufficio. Né devono essere offerti regali od altre utilità ad altri dipendenti sovraordinati o subordinati, sempre che non si tratti di regali d’uso di modico valore. Nell’adempimento delle prestazioni d’ufficio il dipendente è tenuto ad assicurare la parità di trattamento tra i cittadini; le pressioni illegittime devono essere respinte anche se provengono da superiori. Nei diretti rapporti col pubblico il dipendente deve prestare adeguata attenzione alle domande di ciascuno, fornire le spiegazioni che gli siano richieste, non rifiutare prestazioni a cui sia tenuto. Inoltre il dipendente si deve astenere da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’Amministrazione. Verso il pubblico il dipendente non deve prendere impegni né fare promesse in ordine a decisioni od azioni dell’ufficio se ciò possa generare o confermare sfiducia nell’Amministrazione. Anche il comportamento del dipendente al di fuori del servizio è regolato da alcuni principi. In termini generali, si afferma l’impegno del dipendente nella vita sociale ad evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi od all’immagine della pubblica amministrazione. La partecipazione ad associazioni ed altre organizzazioni sociali deve essere comunicata al dirigente dell’ufficio, salvo che si tratti dell’adesione a partiti politici o sindacati. Il dipendente non può accettare da soggetti diversi dall’amministrazione retribuzioni od altre utilità per prestazioni alle quali è tenuto per lo svolgimento dei propri compiti di ufficio; così come incarichi di collaborazione conferiti da persone od enti che siano state coinvolte nel biennio precedente in interessi vertenti l’attività dell’ufficio. La posizione ricoperta nell’Amministrazione non deve essere sfruttata dal dipendente per ottenere utilità che non gli spettino. Altri principi riguardano l’esercizio delle funzioni: il dipendente assicura il rispetto della legge e persegue esclusivamente l’interesse pubblico; ispira le proprie decisioni ed i propri comportamenti alla cura dell’interesse pubblico che gli è affidato. Il d. pubbl. imp. prevede che gli organi di vertice di ogni Amministrazione procedano all’adozione di uno specifico codice di comportamento. I “mezzi” e la gestione finanziaria. Le organizzazioni pubbliche come ogni organizzazione hanno bisogno di mezzi finanziari.
Lo Stato e gli enti pubblici, come soggetti di diritto comune, sono titolari di beni e diritti in principio suscettibili di valutazione economica (quindi costitutivi di un patrimonio in senso tecnico: 1174 c.c.). Molte categorie di beni “pubblici” (nel senso dell’appartenenza allo Stato ed agli altri enti pubblici) non sono per definizione produttivi di reddito. I mezzi finanziari pubblici derivano in misura trascurabile dai proventi patrimoniali, ed in massima parte da prestazioni patrimoniali cui tutti i cittadini sono tenuti ad adempiere, in ragione della loro capacità contributiva: secondo il 53 Cost. Tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Questo prelievo di mezzi finanziari da parte dello Stato a carico dei cittadini, che avviene secondo precise disposizioni di legge (23 Cost.), si articola in una complessa attività amministrativa (imposizione tributaria) cui è preposta l’Amministrazione del Ministero dell’economia e delle finanze. Il sistema fiscale italiano è caratterizzato dall’accentramento del prelievo tributario nello Stato. Nel corso degli anni ’90 si è affermata una tendenza a rafforzare i poteri fiscali delle Regioni e degli enti locali (c.d. federalismo fiscale), mediante l’istituzione di nuovi tributi propri delle Regioni e degli enti locali, l’ampliamento del gettito di tributi di cui erano già titolari, la previsione di quote di compartecipazione a tributi dello Stato commisurate a quanto maturato o riscosso sul proprio territorio. La gestione finanziaria delle organizzazioni pubbliche è improntata ad alcune regole, la prima delle quali consiste nell’obbligo della formazione del bilancio preventivo, relativo ad un arco temporale della vita dell’organizzazione nel corso del quale tutte le operazioni finanziarie (segnatamente, le operazioni di spesa) devono avvenire secondo le indicazioni fissate nel bilancio stesso. Il bilancio preventivo è un documento contabile nel quale son rappresentate tutte le entrate che l’ente prevede di acquisire nel corso dell’esercizio e tutte le spese che prevede di effettuare nel corso dello stesso (principio di universalità); iscritte, le une e le altre nel loro importo integrale senza detrazione alcuna ed al lordo di ogni carico relativo: principio di integrità. Le entrate sono indicate nel loro importo complessivo (per tipi di entrata) senza possibilità di destinazione speciale (principio dell’unità), mentre le spese sono imputate a specifici oggetti di spesa: i capitoli: per questa parte il bilancio preventivo ha valore vincolante per l’attività dell’ente nel corso dell’esercizio. Il bilancio preventivo può essere espresso in termini di competenza e in termini di cassa. Il bilancio di competenza è quello in cui sono rappresentate le entrate che si prevede vengano accertate nel corso dell’esercizio, e le spese che si prevede vengano impegnate nel corso dell’esercizio. Nel bilancio di cassa le previsioni di entrata e di spesa sono riferite rispettivamente alla riscossione ed al pagamento (“entrate che si prevede di incassare”; “spese che si prevede di pagare”, dice la legge). Il vincolo derivante dalle previsioni di competenza riguarda l’impegno delle spese fissate nel capitolo: non possono essere impegnate per quel determinato oggetto somme maggiori di quanto fissato nel capitolo; il vincolo derivante dalle previsioni di cassa invece consiste nel fatto che nel corso dell’esercizio non possono essere pagate (anche se in ipotesi impegnate) per quel determinato oggetto somme eccedenti quanto fissato nel capitolo.
È in questo ambito che si parla dei residui: attivi (entrate accertate ma non riscosse) e passivi (spese impegnate ma non pagate): l’esercizio si estende fino al 31-1 successivo al termine dell’anno solare. Il bilancio è annuale o pluriennale, a seconda che si riferisca ad un esercizio solo o a più esercizi. Gli effetti di vincolo propri dei bilanci non si estendono ai bilanci pluriennali. Le spese dell’ente vengono effettuate nel corso dell’esercizio secondo le determinazioni del bilancio, che possono però essere variate, pur in corso di esercizio, con determinate procedure. Gli enti pubblici hanno altresì l’obbligo di redigere a fine esercizio un rendiconto (o bilancio consultivo), che viene presentato nei primi mesi dell’esercizio successivo. Dal rendiconto si ha l’accertamento definitivo dei residui formatisi nell’esercizio. Entro il 30-6 il Governo presenta alle Camere il documento di programmazione economicofinanziaria. Entro il 30-9 il Governo presenta alle Camere il d.d.l. di approvazione del bilancio annuale e del bilancio pluriennale a legislazione vigente, il disegno di legge finanziaria, la relazione previsionale e programmatica ed il bilancio pluriennale programmatico. Entro il 15-11 il Governo presenta i disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, che devono avere contenuto omogeneo e riguardare le materie indicate nel DPEF. Il bilancio di previsione e la legge finanziaria sono esaminati congiuntamente da ogni Camera in una sessione di lavori ad essi appositamente dedicata: la sessione di bilancio. Il bilancio è articolato, per l’entrata e per la spesa, in unità previsionali di base, stabilite in modo che ad ogni unità corrisponda un unico centro di responsabilità amministrativa, cui è affidata la relativa gestione. Il bilancio è composto dello stato di previsione dell’entrata, degli stati di previsione della spesa, del quadro generale riassuntivo. Il fabbisogno di bilancio è l’entità che deriva da un confronto diretto tra entrate e spese finali. Il ricorso al mercato finanziario è l’indebitamento dello Stato nei confronti del mercato. Con la legge di bilancio, come dice l’81.3 Cost., non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Il bilancio però ha contenuto decisionale proprio, che consiste, sul versante della spesa, nella determinazione dell’ammontare dei singoli capitoli di spesa ove essi non siano predeterminati da singole leggi. La legge finanziaria, diversamente dalla legge di bilancio, è legge in senso sostanziale. Essa può anche contenere: norme di carattere ordinamentale od organizzatorio, se hanno un rilevante contenuto di miglioramento dei saldi; norme che comportano aumento di spesa o riduzioni di entrata, se sono finalizzate direttamente al sostegno od al rilancio dell’economia. L’approvazione parlamentare del bilancio può non concludersi entro il 31-12: in tal caso il Parlamento con legge concede al Governo il c.d. esercizio provvisorio del bilancio. Dalla decisione di bilancio deriva la determinazione dell’ammontare delle spese che potranno essere rispettivamente impegnate o pagate nel corso dell’esercizio. È la Tesoreria dello Stato che gestisce il complesso dei flussi monetari, in entrata ed in uscita, così da far fronte al complesso delle spese erogate dai diversi centri secondo le determinazioni di bilancio. La Tesoreria dello Stato (gestione affidata mediante convenzione alla Banca d’Italia) oltre a provvedere alla gestione del bilancio gestisce una serie di attività di natura finanziaria.
È con riferimento alla gestione di tesoreria che si determina la nozione di fabbisogno di cassa (grandezza derivante dalla somma algebrica tra il fabbisogno del bilancio ed il saldo delle altre gestioni della Tesoreria). Il fabbisogno di cassa indica il complesso effettivo dei mezzi che lo Stato è tenuto a reperire sul mercato (attraverso l’indebitamento) nel corso dell’esercizio per far fronte alle sue esigenze di cassa. Entro il mese di giugno il Governo presenta al Parlamento il rendiconto generale dell’esercizio precedente. La Corte dei conti sul rendiconto compie un giudizio di parificazione, che viene trasmesso al ministro del tesoro per la successiva presentazione al Parlamento. Al giudizio è accompagnata una relazione nella quale la Corte evidenzia i motivi dei visti apposti con riserva ad atti governativi nel corso dell’esercizio, le proprie osservazioni circa il modo in cui le diverse Amministrazioni si sono conformate alle discipline di ordine amministrativo o finanziario, le variazioni o le riforme che essa ritiene opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione e sui conti del pubblico denaro. Il rendiconto è approvato, così come il bilancio, con legge. Una volta chiuso ed approvato per legge, è intangibile e non può essere modificato in nessuna parte. Le previsioni di bilancio possono variare nel corso dell’esercizio, per effetto sia di nuove disposizioni legislative con incidenza immediata sia del fatto che singole previsioni di spesa sono state iscritte in bilancio in forma necessariamente non precisa: la regola generale è che le variazioni devono essere assunte nella stessa forma propria della decisione di bilancio. Alle variazioni del bilancio dello Stato si provvede secondo un duplice schema. Anzitutto le leggi che modifichino singole previsioni di bilancio provvedono contestualmente alla relativa variazione di bilancio. Alle esigenze di carattere tecnico che comportino la variazione di singole previsioni di bilancio si fa fronte attraverso prelevamenti da appositi fondi determinati dalla legge di bilancio, o mediante le c.d. assegnazioni di bilancio. È prevista una misura di carattere generale intesa, in corso di esercizio, ad “assestare” il bilancio, tenendo conto delle necessarie variazioni: è la legge di assestamento del bilancio. L’81 Cost., dopo aver disposto che con legge di bilancio non possono essere stabiliti nuovi tributi o nuove spese, dispone che ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte: si parla di copertura finanziaria delle leggi. La copertura di nuove o maggiori spese, o di minori entrate, previste da singole leggi, può avvenire mediante l’uso degli accantonamenti iscritti nei fondi speciali; mediante la riduzione di precedenti autorizzazioni legislative di spesa. Occorre distinguere tra le leggi di spesa quelle che costituiscono vincoli (in termini quantitativi) per la decisione di bilancio, e quelle leggi che viceversa rinviano alle decisioni di bilancio la determinazione quantitativa della spesa necessaria per la loro attuazione. Relazioni tra organizzazioni (intersoggettive). Tra organizzazioni pubbliche si pongono relazioni organizzative. Relazioni intersoggettive sono quelle che si pongono tra organizzazioni, siano o meno persone giuridiche pubbliche: le reciproche posizioni soggettive delle stesse nell’ambito della complessa organizzazione di governo della comunità. Le relazioni organizzative intersoggettive indicano lo status organizzativo reciproco degli enti, nell’ambito del quale si inscrivono i singoli rapporti giuridici.
L’autonomia politica dei pubblici poteri elencati nel 114 Cost. differenzia le organizzazioni pubbliche che si identificano in queste figure da tutte le altre, sempre collegate alle prime da un rapporto di dipendenza o strumentalità. La posizione di autonomia costituzionalmente garantita è quindi propria solo degli enti elencati dal 114 Cost. (114.2: I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi […]), come enti di governo delle comunità territoriali. Si conoscono però anche altre formazioni sociali che esprimono autonomie di comunità non territoriali in tal modo riconosciute dalla legge e dotate di una capacità di governo loro propria sia pure limitatamente agli interessi settoriali della loro comunità (c.d. autonomie funzionali) (ad es. le università). Diversa è la posizione organizzativa rispetto allo Stato (od altro pubblico potere) di enti ed organismi pubblici. Si possono delineare posizioni differenziate. Dipendenza (o strumentalità in senso strutturale) indica la posizione organizzativa di un ente nei confronti di altro ente, caratterizzata da ciò, che l’ente è un centro organizzativo cui la cura di un ambito di interessi, affidata ad esso dalla legge, pertiene alla collettività di cui è esponenziale l’altro ente (il pubblico potere). Perciò, il pubblico potere ha in principio poteri di ingerenza concreta circa le modalità di cura degli interessi da parte dell’ente dipendente, che si estrinsecano nell’adozione di direttive nei confronti di questo. Sono sottoposti ad approvazione (e ad annullamento) da parte del primo ente i principali atti posti in essere dal secondo. Le relazioni organizzative in esame trovano differenziate applicazioni a seconda dei diversi tipi di enti ai quali si riferiscono: ad es. a seconda che trattisi di enti pubblici costituiti in forma amministrativa (assoggettati in toto alla disciplina di diritto pubblico) o di enti pubblici economici (che applicano in larga misura la disciplina di diritto comune). Strumentalità (o mera strumentalità, o strumentalità in senso funzionale) indica la relazione organizzativa di un ente pubblico con lo Stato (od altro pubblico potere) caratterizzata da ciò, che all’ente è imputata dalla legge una funzione o servizio pubblico assunta come propria della comunità generale: perciò la relativa attività posta in essere dall’ente nell’esercizio della funzione o del servizio è strumentale dello Stato o dell’altro pubblico potere esponenziale della comunità. L’ente viene assoggettato a poteri di vigilanza che possono essere assai penetranti. Ciò che distingue le relazioni di dipendenza da quelle di strumentalità è questo, che nelle prime lo Stato (o il pubblico potere in posizione di supremazia) ha la piena disponibilità dell’ente dipendente, che è trattato alla stregua di un ufficio dell’organizzazione statale, regionale, etc. (quindi esso può essere trasformato, fuso, soppresso, etc.); nelle relazioni di strumentalità l’ente esprime una realtà economico-sociale preesistente al riconoscimento statale ed al conferimento della funzione. Nelle relazioni di strumentalità l’ente in quanto tale non è nella disponibilità del pubblico potere, ma è comunque garantito dagli artt. 2 e 3 Cost. come espressione di autonomia individuale o sociale, mentre l’attività strumentale, imputata dalla legge all’ente, resta nella disponibilità piena del pubblico potere. L’organizzazione degli enti in posizione di mera strumentalità segue la formula dell’autogoverno, secondo la quale i titolari degli organi di vertice (consiglio di amministrazione, presidente, etc.) sono designati dagli stessi associati, o dai membri della comunità, mediante procedimenti elettorali.
La formula organizzativa dell’autogoverno non è sintomo di autonomia in capo all’ente (è vero però il reciproco: tutti gli enti dotati di autonomia seguono la formula organizzativa dell’autogoverno). Non tutti gli enti pubblici si trovano in posizione di strumentalità strutturale o funzionale: ci stiamo riferendo al fenomeno del riconoscimento della pubblicità di organizzazioni preesistenti, senza che detto riconoscimento sia collegato all’attribuzione di funzioni pubbliche o comunque rifletta una pubblicità sostanziale. Queste organizzazioni non possono essere designate nella posizione di autonomia, né sono configurabili come strumentali dello Stato o di altro pubblico potere, ma sono del tutto separate, quanto all’origine ed agli scopi perseguiti, dall’organizzazione pubblica nel suo complesso: la posizione organizzativa di tali organizzazioni nei confronti dello Stato può essere indicata con la nozione di mera rilevanza (introdotta da Ottaviano): la mera esistenza di queste organizzazioni come enti pubblici è condizionata dal titolo giuridico costituito dal riconoscimento statale; senza alcuna implicazione in senso funzionale. Le organizzazioni pubbliche, in quanto persone giuridiche, e nell’ambito della capacità generale (che ad esse spetta come ad ogni soggetto dell’ordinamento), possono instaurare tra loro ogni tipo di rapporto giuridico secondo la disciplina comune. Altri tipi di rapporti giuridici tra organizzazioni pubbliche, ascrivibili al diritto amministrativo, attengono alla capacità che in determinati casi le organizzazioni pubbliche hanno di modificare l’ordine delle rispettive attribuzioni legalmente stabilite, mediante l’esercizio di poteri tipici. Questi rapporti giuridici sono ascrivibili sostanzialmente a tre tipi. La delegazione (intersoggettiva): si ha il fenomeno per cui un ente titolare di un determinato potere amministrativo (funzione) conferisce ad altro ente la titolarità (derivata) della funzione stessa, per una singola manifestazione di esercizio, ovvero per un determinato tempo, od ancora senza limiti di tempo, fissando, se necessario, criteri e direttive circa l’esercizio del potere. L’ente delegante, oltre ai poteri di direzione e di controllo complessivo sull’attività del delegato, è sempre titolare del potere di revoca con oggetto la funzione delegata. La delegazione amministrativa intersoggettiva non è assimilabile al mandato. L’ente delegato non opera come un organo dell’ente delegante, ma è investito del potere di provvedere rispetto all’oggetto della delega in nome proprio, e non in veste di rappresentante dell’altro, pur se per conto e nell’interesse di questo; l’ente delegato è direttamente responsabile, nei confronti dei terzi, degli atti posti in essere in esecuzione della delega. Vera e propria delegazione si ha solo laddove oggetto della delegazione stessa è propriamente l’esercizio della funzione amministrativa anziché la mera effettuazione di compiti amministrativi di natura preparatoria istruttoria, esecutiva etc.: in questo secondo caso si ha la figura dell’avvalimento. La delegazione amministrativa intersoggettiva (come quella interorganica) individua un rapporto giuridico tra delegante e delegato che si instaura per effetto dell’esercizio di un potere amministrativo da parte dell’ente delegante, ad efficacia durevole, e soggetto a revoca: ad essa non sono ascrivibili i casi di delega di funzioni amministrative, rispettivamente dallo Stato alle regioni, e dalle regioni agli enti locali. Col termine gergale di avvalimento intendiamo un rapporto tra enti caratterizzato da ciò: che l’ente titolare della funzione utilizza, in genere per il compimento di operazioni tecniche, esecutive, preparatorie, etc., uffici di altro ente, conservando però anche in concreto la titolarità della funzione cui il compimento delle operazioni predette è finalizzato. In questo caso l’attività compiuta dagli uffici dell’ente di cui ci si avvale resta imputata all’ente titolare della funzione che ne risponde nei confronti dei terzi.
La sostituzione: un ente attraverso i propri organi si sostituisce ad altro ente nell’emanazione di singoli atti di competenza di quest’ultimo, che siano obbligatori per legge: nei casi in cui l’ente titolare non ottemperi all’emanazione degli atti medesimi. Anche nella sostituzione, come nella delegazione, una volta esercitato il potere sostitutivo, le fattispecie degli atti e la relativa responsabilità verso i terzi si imputano all’ente che esercita il potere, l’ente sostituto. Ma in questo caso, nessun potere di direzione e di controllo spetta all’ente sostituito. Presupposto legale per l’esercizio del potere sostitutivo è l’inerzia dell’ente competente. L’inerzia significa inadempimento, non facere, il provvedere anche reiteratamente illegittimo non è ritenuto valido presupposto per l’esercizio del potere sostitutivo. La previa diffida è ritenuta dalla giurisprudenza un adempimento indefettibile. L’atto la cui mancata adozione legittima l’esercizio del potere sostitutivo deve essere obbligatorio per legge. Il potere sostitutivo si esercita secondo due schemi tipici, entrambi accomunati sotto la dizione di controllo sostitutivo. Il primo schema prevede l’esercizio del potere stesso direttamente da parte dell’ente sostituto, mediante un proprio organo a ciò competente per legge. Il secondo schema prevede l’esercizio del potere da parte dell’ente sostituto per il tramite di un commissario nominato dall’ente stesso ma operante nell’ambito della struttura organizzativa dell’ente sostituito. Numerose e diffuse sono le previsioni normative circa l’esercizio di poteri sostitutivi mediante commissari. Con riguardo ai rapporti regioni-poteri locali, il 136 ord. enti locali stabilisce che qualora gli enti locali, sebbene invitati a provvedere entro congruo termine, ritardino od omettano di compiere atti obbligatori per legge, si provvede a mezzo di commissario ad acta nominato dal difensore civico regionale, ove costituito, ovvero dal comitato regionale di controllo. Gli atti per i quali la nomina del commissario è disposta devono essere obbligatori per legge ed è sempre necessaria la preventiva diffida (a volte si parla di “messa in mora”) dell’amministrazione inadempiente. L’esercizio dei poteri sostitutivi mediante commissario ad acta non è previsto nell’ambito dei rapporti Stato-regioni. Nell’ambito delle relazioni di strumentalità (Stato-enti pubblici), nelle quali è però sempre ammessa la gestione sostitutiva coattiva, non è di norma previsto l’esercizio dei poteri sostitutivi mediante commissari ad acta. Il commissario è legittimato esclusivamente all’esercizio della singola funzione affidatagli e per il tempo stabilito (dopo la cui scadenza è illegittimo ogni atto assunto dal commissario). La nomina del commissario produce in capo agli organi dell’ente la perdita della legittimazione ad adottare l’atto o gli atti il cui compimento è stato affidato al commissario. I commissari straordinari ad acta non sono organi straordinari dell’ente, chiamati a sostituire coattivamente la struttura organica dell’ente stesso, secondo lo schema delle gestioni sostitutive coattive, ma restano organi dell’ente sostituto. Da ciò la conseguenza che gli atti compiuti dal commissario (e la relativa responsabilità) vengono imputati all’ente sostituto. Gli organi ordinari dell’ente restano pienamente in funzione, ed in nessun modo vengono sostituiti, se non nell’esercizio puntuale della singola funzione.
Gli organi costituzionali e il Governo della Repubblica. Lo Stato si presenta come una pluralità di organizzazioni pubbliche: l’elemento unificante di esse è rappresentato da un dato formale, la personalità giuridica unitaria. Ma anche questo dato formale è spezzato dalla presenza dell’importante fenomeno degli enti pubblici, articolazioni della struttura organizzativa formalmente separati dallo Stato. Al Presidente della Repubblica sono imputati molti poteri amministrativi: si tratta di casi di procedimenti che si concludono con atto del Presidente della Repubblica (d.p.r.), ma la cui fase istruttoria fa capo ad un ministero, e la cui fase decisionale fa capo ad un ministro od al consiglio dei ministri. Dal punto di vista organizzativo, gli organi costituzionali dello Stato sono del tutto separati e differenziati rispetto all’organizzazione dello Stato strettamente intesa; ciò si evidenzia in ordine alla gestione delle risorse (personale e mezzi). Diversa questione è quella concernente l’individuazione dei poteri dello Stato ai sensi e per gli effetti di cui al 134 Cost.: quegli organismi che, in quanto competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, sono legittimati a sollevare conflitto davanti alla Corte costituzionale: poteri dello Stato a questi fini sono anche organizzazioni propriamente amministrative, e cioè il Governo nel suo complesso, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. La Costituzione al Titolo III (Il Governo) della Parte II (Ordinamento della Repubblica), precisamente al 92.1, dice che Il governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Anche i c.d. organi ausiliari dello Stato, di rilievo costituzionale (Consiglio di Stato e Corte dei conti: 100 Cost.), interessano la nostra esposizione. Recentemente si sono introdotte organizzazioni amministrative statali per definizione “indipendenti” dal potere politico (c.d. Autorità amministrative indipendenti ed Autorità di garanzia e vigilanza). Il Consiglio dei ministri è un organo collegiale a titolarità politica, i cui membri (i ministri) sono nominati dal Presidente della Repubblica su designazione delle forze politiche di maggioranza. I ministri non sono tutti titolari di ministeri: vi sono anche ministri non titolari di ministeri ma esclusivamente membri (a titolo pieno) dell’organo collegiale di governo (c.d. ministri senza portafoglio). Essi svolgono le funzioni loro delegate dal Presidente del consiglio dei ministri, sentito il Consiglio. Spesso la legge prescrive che determinati poteri amministrativi vengano esercitati con deliberazione del consiglio dei ministri, o con d.p.r. sentito il consiglio dei ministri: in questi casi il consiglio dei ministri opera come organo decidente di procedimenti amministrativi istruiti presso i singoli ministeri competenti per materia. Oltre al consiglio dei ministri, sono previsti altri organi collegiali, a composizione politica, che esercitano funzioni di natura politica e di governo, insieme a funzioni propriamente amministrative: i comitati di ministri ed i comitati interministeriali. Il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) svolge funzioni in materia di coordinamento in materia di programmazione e di politica economica nazionale, nonché di coordinamento della politica economica nazionale con le politiche comunitarie. Il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR) presiede alla politica creditizia ed esercita poteri di direttiva nei confronti del Tesoro e della Banca d’Italia in ordine alla vigilanza sulle aziende e sugli istituti di credito.
Il Presidente del consiglio dei ministri è organo politico-costituzionale particolarmente rilevante, poiché dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile; mantiene l’unità di indirizzo politico-amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Nell’esercizio di queste funzioni di direzione politica, il Presidente del consiglio può essere coadiuvato da un comitato, il Consiglio di gabinetto, che è composto dai ministri da lui designati. Dal Presidente del consiglio dipende un complesso apparato organizzativo, denominato Presidenza del consiglio dei ministri: essa è costruita come l’organizzazione amministrativa servente all’esercizio delle funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento attribuite dalla Costituzione e dalle leggi al Presidente del consiglio dei ministri. La sua organizzazione è articolata in un nucleo centrale denominato segretariato generale della presidenza, che fa capo al segretario generale, coadiuvato da uno o più vice segretari; in una serie di uffici, alcuni di maggior rilievo, denominati dipartimenti. Nella Presidenza opera sia personale di ruolo sia personale c.d. di prestito, cioè proveniente da altre Amministrazioni pubbliche, in posizione di comando, fuori ruolo, o altre corrispondenti posizioni; da personale proveniente dal settore privato ovvero consulenti ed esperti nominati dal Presidente. Presso la Presidenza del consiglio dei ministri è incardinata l’Avvocatura dello Stato, con sede centrale a Roma (avvocatura generale) e sedi periferiche in ogni sede di Corte d’appello (avvocature distrettuali): questo ufficio è composto da avvocati dello Stato, che provvedono alla consulenza legale di tutte le amministrazioni dello Stato ed alla difesa delle stesse in giudizio. Ministeri e agenzie. I ministeri sono uffici complessi, formati da una pluralità di uffici e di organi individuati con riferimento ai compiti loro attribuiti, ma tutti accomunati tra loro nell’attribuzione complessiva del ministero. Tutti i ministeri constano di un’organizzazione centrale che ha sede nella capitale della Repubblica. Secondo il 95 Cost. la legge determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. La legge determina anche le loro missioni fondamentali: la gran parte della disciplina organizzativa resta affidata a fonti regolamentari. Il ministro è chiamato a rispondere in Parlamento dell’andamento complessivo di ogni organizzazione, nonché dei singoli atti che da questa promanano (95.2 Cost.). Il ministro oggi è titolare esclusivamente di poteri di programmazione, indirizzo e controllo; a tal fine definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare ed emana le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione. Al ministro non spettano più i poteri amministrativi, che si estrinsecano in atti produttivi di effetti verso l’esterno, i quali sono stati affidati alla responsabilità degli uffici dirigenziali. Presso ogni ministero sono nominati uno o più sottosegretari, anch’essi organi a titolarità politica, che coadiuvano il ministro ed esercitano le funzioni amministrative che esso delega loro. Per l’esercizio di funzioni di tipo politico-amministrativo, il ministro si avvale di uffici di gabinetto: uffici di diretta collaborazione aventi esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione. I ministeri sono organizzati secondo due diversi modelli. Secondo il modello dipartimentale, il ministero si articola in alcune grandi strutture organizzative, i dipartimenti, a loro volta articolati al loro interno in uffici dirigenziali generali. I compiti dei dipartimenti concernono grandi aree di materie omogenee. Nell’ambito degli uffici dirigenziali generali sono dislocati gli uffici dirigenziali non generali; gli incarichi di direzione di questi uffici sono conferiti dal dirigente dell’ufficio dirigenziale generale.
Secondo il modello a direzione generale, gli uffici dirigenziali generali nei quali il ministero direttamente si articola (le direzioni generali) vengono coordinati, nella loro azione, dal segretario generale del ministero, che opera alle dirette dipendenze del ministro. Presso ogni ministero è collocato un ufficio centrale del bilancio (già ragioneria centrale), che dipende dalla ragioneria generale presso il ministero dell’economia e delle finanze. Presso ogni pubblica Amministrazione deve essere costituito, secondo il d. pubbl. imp., un servizio di controllo interno articolato in una pluralità di uffici, col compito di verificare periodicamente la rispondenza delle determinazioni organizzative ai principi generali che regolano l’andamento dell’azione amministrativa. I diversi uffici di controllo interno costituiti nelle diverse Amministrazioni corrispondono con la Corte dei conti, la quale a sua volta è chiamata a valutarne il funzionamento. In ogni ministero è istituito un consiglio di amministrazione, presieduto dal ministro o dal sottosegretario delegato; esso esercita attribuzioni sia di ordine consultivo che di ordine deliberativo in materia di gestione del personale ministeriale. I consigli superiori (che nelle ultime leggi assumono la denominazione di “consigli nazionali” sono organi consultivi del ministero, dotati di compiti anche decisionali (come l’adozione di pareri vincolanti). L’organizzazione statale accanto ai ministeri conosce come modello tipico le Agenzie: esse svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale. Operano al servizio non solo del ministero al quale sono collegate, ma di tutte le amministrazioni pubbliche, comprese anche quelle regionali e locali. Le Agenzie non sono dotate di personalità giuridica, perciò dal punto di vista formale sono inserite nell’ambito della personalità giuridica dello Stato. Viceversa, le Agenzie fiscali sono caratterizzate da un ordinamento del tutto proprio, con personalità giuridica ed una più forte autonomia. Con la legge Cavour del 1853 si disponeva che i ministri avrebbero provveduto “all’amministrazione centrale dello Stato per mezzo di Uffici posti sotto l’immediata loro direzione”, e si sopprimevano tutte le Aziende e le loro Tesorerie, nonché l’Ispezione generale dell’Erario. Le aziende dipendevano dai singoli ministeri, ma avevano larghi margini di autonomia. Figura centrale dell’organizzazione ministeriale era il Segretario generale, presente in ogni ministero e posto all’immediata dipendenza dal ministro. L’ordinamento del 1853 non contemplava né il Presidente del consiglio né il Consiglio dei ministri. Fu il r.d. 3629/1867 begin_of_the_skype_highlighting 3629/1867 end_of_the_skype_highlighting (Ricasoli) a determinare le attribuzioni della Presidenza del consiglio dei ministri. La Costituzione dice al 95 che la legge avrebbe dovuto provvedere all’ordinamento della Presidenza del Consiglio ed alla determinazione del numero, delle attribuzioni e dell’organizzazione dei ministri, ma solo di recente Parlamento e Governo son riusciti ad attuare la Costituzione con la nuova disciplina organizzativa sulla Presidenza e sui ministeri. I ministeri sono attualmente 14: Ministero degli affari esteri, Ministero dell’interno, Ministero della giustizia, Ministero della difesa, Ministero dell’economia e delle finanze, Ministero delle attività produttive, Ministero delle comunicazioni, Ministero delle politiche agricole e forestali, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero della salute, Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Ministero per i beni e le attività culturali.
Aziende ed enti pubblici. Nell’organizzazione di alcuni ministeri sono incardinate organizzazioni differenziate che vengono tradizionalmente denominate aziende autonome dello Stato. Le aziende sono in genere adibite ad attività di tipo operativo-produttivo (“servizi”). Le aziende autonome possono essere trasformate in s.p.a (ad es. l’Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni è stata trasformata in ente pubblico economico “Poste italiane”, e poi nelle “Poste italiane s.p.a.”). Anche gli enti strumentali sono organizzazioni differenziate nel senso sopra indicato, per ciò che concerne la separazione organizzativa e formale rispetto allo Stato come persona giuridica: sono altre persone giuridiche rispetto allo Stato. Tuttavia essi sono costituiti dalla legge dello Stato come organizzazioni adibite a compiti fatti propri dallo Stato stesso; ovvero ad essi è attribuito dalla legge un compito proprio dello Stato. Il regime concreto della “strumentalità” (contenuto della relazione organizzativa tra Stato ed enti) si presenta assai differenziato. Gli enti pubblici non previdenziali sono stati oggetto di un provvedimento di riordino sulla base di questi principi e criteri direttivi: fusione e soppressione di enti con finalità omologhe, trasformazione in associazioni o persone giuridiche private degli enti che non svolgono funzioni di rilevante interesse pubblico, trasformazione in ente pubblico economico o in s.p.a. degli enti ad alto indice di autonomia finanziaria, razionalizzazione dei poteri di vigilanza ministeriale, contenimento della spesa di funzionamento. I principi che informano gli statuti sono la separazione tra organi di indirizzo e di controllo ed organi di amministrazione, ridefinizione dei poteri di vigilanza in modo da garantire l’effettiva autonomia dell’ente, esclusione di rappresentanti del ministero vigilante dai consigli di amministrazione degli enti, sistema di controlli interni, istituzione di un ufficio per le relazioni con il pubblico, etc. Tra gli enti previdenziali, particolare rilievo assume l’Istituto nazionale di previdenza sociale: esso cura la gestione delle assicurazioni sociali obbligatorie per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, la disoccupazione involontaria; nonché l’erogazione della pensione sociale a cittadini ultrasessantacinquenni in disagiate condizioni economiche e gli assegni familiari a favore dei lavoratori dipendenti del settore privato. La categoria degli enti pubblici economici come categoria positiva trova fondamento normativo nel 2093 c.c., secondo il quale sono applicabili le disposizioni del “libro del lavoro” agli enti pubblici inquadrati nelle associazioni professionali; e nel 409 c.p.c., che stabilisce l’applicabilità della disciplina sulle controversie individuali di lavoro ai rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica. Per quanto concerne l’organizzazione, gli enti pubblici economici sono soggetti parzialmente alla disciplina pubblicistica. All’amministrazione dello Stato spetta in genere la nomina dei titolari degli uffici di vertice degli enti ed a volte la revoca degli stessi, i poteri di direttiva circa l’attività degli enti, il potere di approvare determinati atti rilevanti nella vita degli enti, etc. Il modello dell’ente pubblico economico, come quello inteso alla gestione di imprese pubbliche, è entrato in una fase recessiva (privatizzazione); sono stati trasformati in s.p.a. i quattro più importanti enti pubblici economici: IRI, ENI, INA ed ENEL. La trasformazione in s.p.a. degli altri enti pubblici economici è affidata alla determinazione del CIPE. Vi sono poi i c.d. enti a statuto singolare: essi cioè non si ascrivono cioè a tipi positivamente previsti.
L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), deputato alla ricerca ed all’informazione statistica nazionale, ha i caratteri di ente strumentale dello Stato ed allo stesso tempo di ente di ricerca. La Società italiana autori ed editori (SIAE), ente associativo ritenuto di natura pubblica perché inserito nell’organizzazione statale secondo lo schema della strumentalità in senso stretto (funzionale), ha molti poteri amministrativi concernenti la materia del diritto d’autore e della protezione delle opere d’ingegno. Nell’esperienza più recente sono emerse nuove figure di enti pubblici che vengono denominate Agenzie, senza che dal termine derivino conseguenze tecniche in ordine alla disciplina applicabile. Il termine designa una delle fondamentali articolazioni dell’organizzazione dello Stato. L’Agenzia per i servizi sanitari regionali, struttura dotata di personalità giuridica, svolge compiti di valutazione comparativa dei costi e dei rendimenti dei servizi resi ai cittadini, nonché compiti di segnalazione delle disfunzioni nella gestione delle risorse personali e materiali. L’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), sotto la vigilanza della Presidenza del consiglio dei ministri, è persona giuridica autonoma sotto il profilo organizzativo, gestionale e contabile; essa esercita a livello nazionale ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi ed all’assistenza delle pubbliche amministrazioni, ai fini dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi. Altri esempi di Agenzie sono l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) e l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo. L’esperienza più recente conosce enti strumentali in forma di s.p.a.: s.p.a. con capitale imputato allo Stato o ad enti strumentali, strumento di azione dello Stato in determinati settori, con posizione del tutto dipendente dal relativo ministero e con compiti affidati a queste figure soggettive dalle relative leggi. Di tali figure è dubbia la natura giuridica e resta oscuro se lo schema formale della s.p.a., calato su un’organizzazione che in toto è assimilabile agli enti strumentali dello Stato, sia abbastanza forte a sottrarla dall’applicazione del diritto pubblico e ad assoggettarla al diritto comune. Molti enti pubblici operanti nel settore culturale sono stati trasformati in persone giuridiche di diritto privato, con natura non sempre chiara di fondazione o di associazione. A volte la natura di fondazione è espressamente stabilita dalla legge. Tra questi enti così trasformati possiamo segnalare il Centro Sperimentale di cinematografia, l’Istituto nazionale per il dramma antico (INDA), la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano. Questi enti sono amministrati da organi composti quasi interamente da membri di nomina ministeriale. I mezzi finanziari derivano per la gran parte da finanziamenti statali o comunque pubblici, di conseguenza permane il controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria (ai sensi della l. 259/1958). La trasformazione in persone giuridiche private è stata estesa anche alle c.d. fondazioni bancarie: questi enti, pur definiti come pubblici dalla legge, erano invero di dubbia natura. Amministrazioni c.d. indipendenti. Nel modello originario dell’organizzazione statale tutto il complesso degli uffici adibiti a compiti di amministrazione attiva è incardinato in via diretta od indiretta in un apparato ministeriale. Al di fuori di questo complesso, sono contemplate le organizzazioni differenziate, Consiglio di Stato, Corte dei conti e CNEL (c.d. organi ausiliari) sottratte, in principio, a questa ingerenza, ma non adibite a compiti di amministrazione attiva.
Tuttavia si è sviluppato il fenomeno della c.d. amministrazione per enti pubblici: una serie di compiti propri dello Stato, o comunque assunti dalla legge come di interesse pubblico statale, sono affidati anziché ad uffici ed organi dello Stato stesso ad organizzazioni formalmente differenziate e personificate. Le c.d. autorità amministrative indipendenti, dotate o meno di personalità giuridica, sono costituite dalla legge per governare certi settori di amministrazione in senso sostanziale, secondo moduli organizzativi e funzionali del tutto svincolati da qualsiasi relazione con l’organizzazione ministeriale. La terminologia usata dalle diverse leggi per queste organizzazioni varia (“autorità di garanzia e vigilanza”, “autorità di vigilanza e controllo”). La struttura della Banca d’Italia è di tipo associativo (al capitale partecipano istituti di credito di diritto pubblico, istituti previdenziali ed assicurativi), con al vertice il Governatore. La Banca d’Italia svolge, insieme al Ministero del Tesoro ed al CICR, funzioni di vigilanza e controllo sul sistema bancario, nonché di supervisione sui mercati interbancari e dei titoli di Stato. È affidato alla Banca d’Italia lo svolgimento a livello centrale del servizio di Tesoreria dello Stato finalizzato all’esercizio dell’attività di cassa per tutti gli uffici delle Amministrazioni dello Stato. Alla Banca d’Italia sono stati sottratti alcuni compiti, in favore della Banca Centrale Europea: la conduzione della politica monetaria, di emissione di banconote e di gestione delle riserve valutarie. La Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) svolge funzioni di vigilanza, controllo e regolamentazione del mercato mobiliare. L’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (ISVAP) esercita poteri di regolazione e controllo nel settore assicurativo. La Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sull’esercizio del diritto di sciopero è un organo collegiale i cui membri sono nominati con d.p.r. su designazione dei Presidenti delle due Camere, scelti tra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è un organo collegiale i cui membri sono nominati di intesa tra i presidenti delle due camere tra persone di notoria indipendenza. Nei confronti di quest’Autorità non è prevista alcuna ingerenza dell’autorità governativa. Il legislatore prevede un sistema di regolazione del settore delle imprese di pubblica utilità, per evitare il formarsi di situazioni di oligopolio: ad es. è stata costituita l’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Queste Autorità determinano gli strumenti per migliorare l’efficienza dei servizi da erogare, garantendo anche ai consumatori un’effettiva possibilità di scelta sul mercato; esse valutano poi i reclami, le istanze e le segnalazioni presentate dagli utenti; etc. Il Garante per la tutela della privacy opera a tutela dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza ed alla identità personale. L’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici vigila sull’economicità di esecuzione dei lavori pubblici, sull’osservanza delle normative di settore e sulla regolarità delle procedure di affidamento. All’Autorità sono attribuiti poteri di indagine, ispettivi e sanzionatori; e potestà di autoorganizzazione.
L’Autorità per le telecomunicazioni svolge funzioni di regolamentazione e di garanzia nel settore dell’informazione e delle telecomunicazioni; in particolare sovrintende al rispetto degli obblighi di programmazione, all’osservanza del divieto di abuso di posizioni dominanti in materia di pubblicità. D’incerta natura è l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, con vari compiti (adozione di norme tecniche, esercizio di poteri direttivi e di coordinamento nei confronti delle amministrazioni interessate, verifica dei risultati, etc.) in materia di sistemi informativi automatizzati delle p.a. È d’incerta natura anche la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP). Le organizzazioni appena descritte presentano alcuni tratti organizzativi caratteristici e comuni: capacità di determinare la propria organizzazione con il solo vincolo del rispetto della legge, ma senza soggezione al potere regolamentare in materia di organizzazione attribuito al Governo; capacità di determinare la propria azione nell’esercizio dei poteri attribuiti dalla legge, anche mediante l’emanazione degli atti di normazione secondaria, senza soggezione al potere regolamentare e direttivo dell’autorità di governo; a garanzia del funzionamento effettivo dei due ordini di capacità di cui sopra, la legge prevede una serie di “qualità” in capo ai soggetti persone fisiche titolari degli uffici di vertice delle organizzazioni in oggetto; si fa riferimento alle caratteristiche di “stato giuridico”: procedimenti di nomina, durata in carica, regime delle incompatibilità, etc. La nomina dei titolari degli organi di vertice dell’Autorità, secondo il modello tipico, è riservata al Parlamento od al Presidente della Repubblica, e non al Governo od ai singoli ministri. Riassumendo, abbiamo indipendenza come caratteristica dell’organizzazione ed indipendenza come caratteristica dei titolari degli uffici dell’organizzazione. La Corte costituzionale ha negato alle Amministrazioni indipendenti la qualità di potere dello Stato ai fini della legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione: resta oscuro quale sia l’organo al quale spetti ciò. Organi ausiliari. La caratteristica dell’indipendenza (rispetto all’autorità di governo) è propria di alcune organizzazioni di particolare rilievo nell’ordinamento costituzionale, ascritte alla nozione di “organi ausiliari”. La normativa costituzionale vuole assicurata l’indipendenza di fronte al Governo (100) delle due organizzazioni. In analoga posizione è collocato il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL: 99 Cost.). Consiglio di Stato e Corte dei conti sono ascrivibili agli uffici comuni, perché sono adibiti a compiti comuni a tutta l’organizzazione statale. I titolari dei relativi organi sono “magistrati inamovibili”. La gestione amministrativa interna degli uffici è in larga misura esercitata autonomamente. Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico amministrativa e tutela della giustizia nell’amministrazione. Esso consta di un complesso di organi collegiali adibiti alla funzione consultiva ed a quella giurisdizionale. Il presidente del Consiglio di Stato è nominato con d.p.r. su proposta del Presidente del Consiglio. Il Consiglio di Stato è il principale organo consultivo dell’amministrazione e può essere interpellato su ogni questione giuridico-amministrativa, su richiesta dei ministeri.
Il parere del Consiglio di Stato è richiesto in via obbligatoria per alcune categorie di atti, tra i quali quelli normativi. Organo periferico del consiglio di Stato è il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana. Come organo giurisdizionale, la Corte dei conti esercita la giurisdizione in materia di responsabilità amministrativa e contabile dei pubblici agenti per danni all’erario. Alla Corte dei conti spetta il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle Amministrazioni pubbliche (statali e non; anche regionali). Le funzioni amministrative interne, perciò che concerne il rapporto di servizio e la carriera dei magistrati, sono state attribuite al consiglio di presidenza, organo composto anche di membri esterni. Il presidente della Corte dei conti è nominato con procedimento del tutto analogo a quello previsto per la nomina del presidente del Consiglio di Stato. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) è composto di esperti rappresentanti delle categorie produttive, designate in parte da autorità di governo, in parte dalle categorie rappresentate. È orano consultivo del Governo, delle Camere, delle Regioni in materia di politica economica e del lavoro; è organo di iniziativa legislativa. Organizzazioni interstatuali. Le Comunità europee. Alle organizzazioni statali, come organizzazioni di governo della comunità nazionale, si sono affiancate per determinazione degli stessi Stati organizzazioni internazionali, alle quali sono state attribuite funzioni di varia natura (legislative, amministrative, giurisdizionali) aventi ad oggetto direttamente il governo delle relative comunità. Gli Stati limitano la propria azione di governo, ritirandosi dall’esercizio della stessa nei settori e per quelle funzioni ed oggetti attribuiti all’organizzazione internazionale. La Costituzione sembra consentire queste limitazioni, dove prevede che l’Italia consenta in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni, promuovendo e favorendo le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo (11). Alcune organizzazioni di governo della comunità nazionale italiana non solo sono organizzazioni non statali, ma nemmeno sono soggette al diritto pubblico statale e da esso regolate. Tra le organizzazioni del tipo considerato, emergono quelle delle Comunità europee. Le Comunità europee sono tre: la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità europea (CE), la Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM). Ogni Comunità è un’organizzazione giuridica (persona giuridica) distinta dalle altre, a tutti gli effetti. CECA e CE sono finalizzate alla realizzazione di un mercato comune: un mercato unico esteso ai territori dei Paesi comunitari tale da presentare le stesse caratteristiche di un mercato nazionale. Il mercato comune (o mercato unico, o mercato interno) è definito dall’Atto unico europeo (AUE) come uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il Trattato di Maastricht istituisce l’Unione Europea (che non prende però il posto delle tre Comunità). Col Trattato di Bruxelles del 1965 sono stati unificati il Consiglio e la Commissione come organi istituzionali delle tre comunità (c.d. trattato di fusione). Tra gli organi delle Comunità si distinguono quelli – come il Consiglio – che costituiscono strumento di collaborazione intergovernativa ed i cui titolari sono emanazione dei governi
nazionali, da quelli che invece sono strumenti dell’integrazione comunitaria o della sopranazionalità – come la Commissione ed il Parlamento europeo – i cui titolari sono investiti dell’ufficio comunitario e devono servirlo in piena indipendenza nell’interesse generale della Comunità. Il Parlamento europeo è l’unico organo comunitario direttamente rappresentativo delle popolazioni, non è titolare della funzione legislativa ma partecipa ad essa come alle altre funzioni comunitarie. I membri del Parlamento europeo non possono essere membri dei governi nazionali né di altri organi comunitari o dipendenti da questi ultimi. Il Parlamento europeo esercita un controllo di tipo politico sulla Commissione, essendo prevista la mozione di censura che, se approvata con maggioranza qualificata, dà luogo alle dimissioni della Commissione stessa. Il Consiglio dell’Unione Europea è organo collegiale formato dai rappresentanti degli Stati membri. La Presidenza è esercitata a turno, secondo un criterio di rotazione tra gli Stati stabilito dal Trattato. Il Consiglio è l’organo legislativo delle Comunità: esso adotta i regolamenti e le direttive comunitarie. Accanto al Consiglio come organo di collaborazione intergovernativa (ministeriale) è stato istituito il Consiglio europeo (Consiglio dei Capi di Stato e di Governo), con compiti eminentemente politici. Il Trattato di fusione prevede un Comitato, i membri del quale vengono individuati nei rappresentanti permanenti degli Stati membri presso le Comunità (COREPER). Il COREPER prepara i lavori e quindi le decisioni del Consiglio: ogni proposta della Commissione al Consiglio viene prima trattata in sede COREPER. La Commissione è la vera e propria autorità di governo delle istituzioni comunitarie: essa è l’organo esponenziale dell’interesse generale delle Comunità e vigila sull’applicazione dei trattati da parte degli Stati; esercita i poteri amministrativi comunitari nei confronti degli Stati e, ove previsto, dei cittadini. I comitati sono formati da rappresentanti delle Amministrazioni degli Stati membri e presieduti da rappresentanti della Commissione. Si distinguono tre tipi di comitati a seconda del grado di vincolatezza che possiedono gli atti consultivi da questi emessi nell’ambito del procedimento decisionale: i comitati consultivi emanano dei veri e propri pareri che la Commissione tiene in massima considerazione, i comitati di gestione emanano pareri a fronte dei quali al Commissione può sempre adottare misure immediatamente applicabili, i comitati di regolamentazione emanano pareri sostanzialmente vincolanti. Nel Comitato delle regioni sono rappresentate le comunità territoriali di tutti i Paesi membri. La Corte dei conti esamina i conti di tutte le entrate e le spese della Comunità, controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese ed accerta la sana gestione finanziaria. Le politiche comunitarie sono attuate direttamente dagli organi comunitari, ma anche per il tramite degli Stati membri e di organizzazioni pubbliche sub-statali. Vi sono organizzazioni statali peculiarmente costituite per l’attuazione di politiche comunitarie: tra queste si possono segnalare le organizzazioni dipendenti dal ministero delle politiche agricole ed incardinate nell’organizzazione comune di mercato dei prodotti agricoli: l’AGEA e l’AGECONTROL.
È stata costituita anche un’organizzazione intesa alla programmazione ed al coordinamento generale di tutta l’azione italiana di attuazione delle politiche comunitarie, di tale organizzazione struttura centrale è il dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie. Il CIPE elabora le direttive e gli indirizzi in ordine ai problemi di armonizzazione della politica economica nazionale con le politiche comunitarie, per quanto concerne l’uso delle risorse finanziarie. Presso la Presidenza del consiglio è istituito anche un Comitato consultivo composto di rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate all’attuazione delle politiche comunitarie. Presso il ministero del tesoro (ragioneria generale) è costituito un Fondo di rotazione, che ha assunto la configurazione di ispettorato generale per l’amministrazione del fondo di rotazione per l’attuazione delle politiche comunitarie. La Costituzione fissa al 5 il principio dell’autonomia e del decentramento alle cui esigenze la Repubblica deve adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione. La Repubblica, che resta una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali ed allo stesso tempo attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo. La Costituzione nel Titolo V della Parte II dice poi che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato: è una norma che sancisce la pari dignità politica e costituzionale dei pubblici poteri nell’ambito dell’ordinamento. Regioni ed enti locali sono riconosciuti come “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Da queste norme risalta il principio della pluralità dei pubblici poteri: esso non va inteso in senso meramente descrittivo, ma nel senso che la complessiva organizzazione di governo della comunità si articola necessariamente in organizzazioni di governo differenziate. Queste organizzazioni sono, al pari dello Stato, pubblici poteri, nel significato stabilito da Giannini, cioè di organizzazioni dotate della capacità di esprimere, sul piano politico, gli interessi ed i bisogni della comunità di riferimento, dandosi un proprio indirizzo politico. Il principio di autonomia quale proclamato dalla Costituzione significa che le comunità territoriali quali individuate dalla stessa Costituzione, regionali e locali, esprimono organizzazioni di governo dotate della natura e dei caratteri di pubblici poteri, in senso proprio e pieno. La nozione di autonomia è distinta da quella di decentramento: decentramento designa un principio di organizzazione secondo il quale gli uffici direttamente esercenti funzioni e servizi di attribuzione dell’ente destinati alla collettività devono essere geograficamente dislocati nel luogo più prossimo all’ambito di operatività dei soggetti che delle funzioni e dei servizi stessi sono chiamati ad usufruire. Il principio di decentramento si articola nel più pregnante principio di sussidiarietà: secondo il quale l’esercizio delle funzioni e dei servizi deve essere dislocato al livello di governo più prossimo ai cittadini utenti, restando la possibilità di intervento dei livelli superiori di governo limitata ai casi di mancato esercizio da parte di quelli inferiori. La formula dell’autarchia, definita come la capacità di alcuni enti pubblici di amministrare i propri interessi svolgendo, quando occorre, un’attività avente gli stessi caratteri e la stessa efficacia giuridica dell’attività amministrativa dello Stato (Zanobini), esprimeva la capacità espressamente conferita agli enti locali in determinate materie di esercitare funzioni amministrative in senso proprio, a carattere imperativo, in luogo dello Stato e secondo lo stesso regime dell’attività statale.
Per autonomia degli enti locali territoriali si intende indicare che questi enti avevano la capacità di emanare norme giuridiche in una serie di materie concernenti interessi propri delle comunità locali. Le Regioni. Le modifiche al Titolo V della Costituzione hanno dotato le Regioni di potestà legislativa e statutaria piena ed esclusiva in tutte le materie non espressamente riservate dalla stessa Costituzione alla potestà legislativa dello Stato. Una potestà statutaria che si estende alla determinazione della forma di governo propria di ogni Regione (123) ed una potestà legislativa limitata solo, come quella dello Stato, dalla Costituzione e dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (117.1). Allo Stato resta riservata la potestà legislativa delle materie fondamentali dell’ordinamento e della vita della Nazione. Leggi e statuti regionali entrano in vigore con la loro pubblicazione, una volta soppressi i procedimenti di approvazione e di controllo cui erano sottoposti nel precedente ordinamento; resta salvo il ricorso alla Corte costituzionale che investe sia le leggi dello Stato che le leggi e gli statuti delle Regioni. Le Regioni ordinarie sono 15, elencate al 131 Cost. La Costituzione si limita a menzionare le denominazioni delle Regioni: non ne definisce il territorio. Con legge costituzionale si può disporre la fusione di più Regioni o la creazione di nuove Regioni. La Costituzione nel nuovo testo afferma il principio della collocazione, di norma, a livello locale, delle funzioni amministrative, sia attinenti a materie di legislazione statale che di legislazione regionale, salvo che le leggi, rispettivamente statali e regionali, non le collochino ad un livello di governo superiore, ma solo a fronte dell’esigenza di assicurarne l’esercizio unitario (118.1). La Costituzione al 116 elenca le Regioni c.d. speciali (o ad autonomia speciale): esse sono il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sudtirol e la Valle d'Aosta/Vallee d’Aoste. La Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano. La Regione sul piano organizzativo si differenzia nettamente dallo Stato, mentre è simile agli enti locali. Secondo il 121.1 Cost. Sono organi della Regione il Consiglio regionale, la Giunta e il suo presidente. Non solo i soli organi della Regione, poiché Il Consiglio elegge tra i suoi componenti un Presidente e un ufficio di presidenza (122.3). Statuti e leggi regionali prevedono poi altri organi: ad es., in alcuni ordinamenti regionali i membri della giunta, denominati “assessori”, hanno acquisito la configurazione di organi. Il Consiglio regionale esercita le potestà legislative attribuite alla Regione e le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi; inoltre può fare proposte di legge alle Camere (116). Le leggi vengono promulgate dal presidente della giunta regionali, ed i regolamenti emanati sempre dal presidente stesso. Il Consiglio regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del presidente della giunta mediante mozione attivata, sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti ed approvata per appello nominale. I Consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (122.4: analoga affermazione per i membri del Parlamento al 68.1).
In tutti gli statuti si dice che ogni consigliere regionale rappresenta la Regione senza vincolo di mandato (analoga affermazione per i membri del Parlamento al 67): questa affermazione, smentita dai vincoli di mandato che i consiglieri regionali contraggono verso i rispettivi partiti politici, consente al singolo consigliere di restare in carica ed esercitare le sue funzioni anche se uscito dal partito di appartenenza. I consiglieri regionali non godono della c.d. immunità penale. All’interno del Consiglio operano diversi organi: il presidente e l’ufficio di presidenza con compiti di organizzazione e direzione dei lavori consiliari, nonché commissioni permanenti con distinte competenze per materia che svolgono il lavoro preparatorio all’attività normativa del consiglio. Il presidente ha le funzioni consuete della presidenza di un organo collegiale, e le funzioni di rappresentanza esterna del consiglio. L’ufficio di presidenza ha compiti di gestione interna dell’attività dell’organo. La Giunta regionale è organo esecutivo delle Regioni, secondo la dizione del 121. La giunta è un collegio composto da un numero variabile di membri nominati dal presidente tra consiglieri o tra personalità esterne al consiglio, e dura in carica sino alla rinnovazione del consiglio. I membri della giunta sono dei “piccoli ministri”, cioè capi di Amministrazioni di settore, delle quali divengono politicamente responsabili. Ciò comporta sul piano amministrativo poteri di direzione circa il funzionamento degli uffici del settore ed il personale e circa l’esercizio delle relative attribuzioni. Da regione a regione cambia la titolarità del potere deliberativo circa le funzioni amministrative: a volte è di spettanza della Giunta, a volte appartiene al Consiglio. Resta ferma però in tutti gli ordinamenti regionali la dipendenza dalla giunta della struttura amministrativa dell’enti, degli uffici burocratici, salvi quelli di immediato supporto all’attività del Consiglio. Il Presidente della Giunta regionale, eletto a suffragio universale e diretto (122.5), rappresenta la Regione; dirige la politica della Giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica (121.4). Il Presidente firma gli atti della Regione e ne ha la rappresentanza in giudizio (l. 62/1953). Quasi tutti gli ordinamenti regionali prevedono l’istituzione del difensore civico: è un organo monocratico il cui titolare è eletto dal Consiglio regionale, esercita funzioni di sollecitazione, monitoraggio, controllo sull’attività delle amministrazioni regionali nell’interesse dei cittadini utenti. Dispone poi di poteri ispettivi, di sollecitazioni di amministrazioni inadempienti, in certi casi di poteri di nomina di commissari per l’adozione di atti dovuti. La l. 127/1997 conferisce ai difensori civici regionali, sino all’istituzione del difensore civico nazionale, anche nei confronti delle amministrazioni periferiche dello Stato, con esclusione di quelle competenti in materia di difesa, di sicurezza pubblica e di giustizia, le stesse funzioni che i singoli ordinamenti regionali attribuiscono al difensore civico nei confronti delle stesse amministrazioni regionali. L’organizzazione statale si identifica nei ministeri, organizzazioni burocratiche piramidali di uffici dislocati secondo un ordine gerarchico facente capo ad un unico organo monocratico di vertice a titolarità politica (il ministro).
Ogni organizzazione ministeriale è separata dalle altre sia sul versante organizzativo (uffici, personale, bilancio) che sul versante funzionale (ambito di interessi curato): salvi uffici comuni e di raccordo. L’organizzazione regionale (come quella dei poteri locali) è impostata in maniera del tutto diversa: nell’organizzazione regionale tutti gli uffici, pur nella loro diversificata articolazione, sono inseriti in un contesto organizzativo unitario; la dipendenza degli uffici dall’autorità politica è in principio imputata alla Giunta regionale nella sua collegialità; questo carattere unitario dell’organizzazione regionale ha riscontro, sul versante del personale, nell’unicità del ruolo (salve eccezioni per i ruoli del personale dei consigli regionali). Al di là di questo disegno di fondo, l’organizzazione degli uffici burocratici regionali segue la stessa impostazione di quella statale, perciò si riscontra nell’organizzazione regionale la tendenziale ripartizione (funzionale e dimensionale) degli uffici in uffici elementari (denominati unità operative, o sezioni), intermedi (denominati settori, o servizi, o dipartimenti), generali (denominati dipartimenti, aree, segreterie, segretariati, etc.). Agli uffici generali (ed equiparati) sono preposti dirigenti del massimo livello regionale, denominati in genere coordinatori, cui è attribuita la c.d. funzione di coordinamento. Gli uffici generali (ed equiparati) dell’amministrazione regionale sono posti tra loro in una relazione organizzativa di equiparazione, mentre tutti sono posti nei confronti della Giunta in una posizione di subordinazione. Il membro della Giunta preposto al settore ne stabilisce gli indirizzi d’azione, ne controlla l’andamento, e finisce con l’essere il responsabile politico del settore stesso di amministrazione regionale. Nello Stato l’accorpamento degli uffici nelle organizzazioni ministeriali è fissata dalla legge, perciò non è modificabile se non con legge, mentre nelle Regioni questo accorpamento è determinato volta per volta dalla Giunta regionale. L’organizzazione regionale consta anche di enti pubblici “dipendenti”, come gli enti di sviluppo agricolo, i consorzi di bonifica, gli istituti autonomi delle case popolari (IACP). Le Regioni partecipano anche, nell’ambito della loro capacità di diritto comune, a società di capitali. Le Unità sanitarie locali (USL) o Aziende sanitarie locali (ASL) costituiscono l’organizzazione periferica del Servizio sanitario nazionale. La legge qualifica la USL come azienda dotata di personalità giuridica pubblica ed autonomia imprenditoriale, disciplinata, quanto ad organizzazione e funzionamento, con atto aziendale di diritto privato nel rispetto dei principi e criteri stabiliti con legge regionale. Organo principale dell’USL è il direttore generale, che adotta il citato atto aziendale di disciplina della USL ed è nominato dalla Regione. Oltre alle USL, l’organizzazione sanitaria regionale si articola nelle aziende ospedaliere, che derivano dallo scorporo delle USL dagli ospedali di rilievo nazionale od interregionale. Relazioni Stato-Regioni. Nell’esperienza positiva, nonostante la Costituzione garantisca una posizione giuridica di autonomia alle Regioni ed in misura minore ai poteri locali, si è instaurato un modello di relazioni organizzative Stato-Regioni improntato ad un’ingerenza statale intesa ad assicurare il rispetto di esigenze di carattere unitario. Con decreto motivato del Presidente della Repubblica può essere disposto lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta regionale che abbiano compiuto
atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, nonché per ragioni di sicurezza nazionale (126.1 Cost.). Sia le leggi che gli atti amministrativi delle Regioni erano sottoposti ad un sistema di controlli esercitati da organi dello Stato, e cioè dal commissario del governo e dalla commissione statale di controllo: entrambi questi organi sono stati soppressi dalla l. cost. 3/2001. L’esercizio delle funzioni amministrative regionali è sottoposto a poteri statali ascrivibili al genus dell’attività di direzione: è dubbia la permanenza di questi poteri direttivi, dopo la l. cost. 3/2001. Si tratta del potere di direzione in senso stretto con oggetto l’esercizio delle funzioni delegate dallo Stato alle Regioni, e del potere di indirizzo e coordinamento, con oggetto tendenzialmente generale. Il potere di direzione si estrinseca in direttive vincolanti impartite dal Governo tramite il commissario del governo. Questo potere direttivo, ed il connesso potere sostitutivo, trovano giustificazione nel carattere delegato delle funzioni che ne sono oggetto, però la delega di funzioni dallo Stato alle Regioni non dà luogo ad un rapporto di delegazione vero e proprio. La funzione di indirizzo e coordinamento appare ormai consolidata. Secondo la nuova normativa gli atti di indirizzo e coordinamento sono adottati dal Governo previa intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni o con la singola Regione interessata. Se l’intesa non viene raggiunta entro 45 giorni, gli atti sono adottati dal Consiglio dei Ministri previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. L’esercizio in concreto della funzione, con riferimento alle singole materie, deve trovare il suo presupposto in norme legislative che ne stabiliscono i criteri con riferimento alle materie stesse. La funzione di indirizzo e coordinamento può avere qualsiasi oggetto. Gli atti di indirizzo e coordinamento limitano non solo l’attività amministrativa regionale, ma la stessa potestà legislativa, come quella che ha ad oggetto la prima. Secondo la Corte il contenuto degli atti di indirizzo e coordinamento dovrebbe essere “funzionalmente tipizzato, consistente nella posizione di programmi, di indirizzi o di misure di coordinamento”; ma nella realtà gli atti di indirizzo e coordinamento molto spesso si esprimono proprio in misure puntuali. Parlando dei rapporti finanziari Stato-Regioni, la finanza regionale è ancora in parte una finanza derivata dallo Stato, mentre il principio dell’autonomia finanziaria enunciato dal 119 dovrà essere attuato. Inizialmente si prevedeva che le fonti principali della finanza regionale, oltre i tributi propri, fossero costituite da due fondi, rivelatisi poi insufficienti; oggi tra i principali fondi di carattere settoriale possiamo ricordare il fondo sanitario nazionale ed il fondo nazionale per i trasporti. Da un lato si è mirato a potenziare l’autonomia finanziaria delle Regioni, mediante un aumento delle entrate proprie (soprattutto di natura tributaria) ed una riduzione della dipendenza dalle risorse fissate nel bilancio dello Stato. D’altro lato, l’autonomia finanziaria dovrebbe investire le amministrazioni regionali (e locali) della responsabilità nella gestione delle risorse, in contrasto con la prassi ricorrente di un ripiano successivo dei debiti da esse contratti a carico del bilancio dello Stato. Un decreto legislativo ha istituito l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), abrogando contestualmente i contributi sanitari, l’imposta sul patrimonio netto delle imprese e diversi altri tributi locali, ed ha inoltre previsto un’addizionale regionale all’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF).
Le disposizioni in materia di federalismo fiscale contenute nella l. 133/1999 delegano il Governo a disporre l’abolizione dei trasferimenti erariali rimasti in vigore, tranne alcune eccezioni. Il complesso delle relazioni Stato-Regioni trova il suo necessario supporto organizzativo in una serie di organi statali, che a loro volta si possono distinguere in organi a competenza generale ed organi a competenza settoriale, dislocati a diversi livelli dell’organizzazione statale. Nel Parlamento è costituita la Commissione parlamentare per le questioni regionali, alla quale sono affidate funzioni di carattere politico nell’ambito delle relazioni Stato-Regioni. Sul versante governativo, l’organizzazione statale intesa al coordinamento e all’indirizzo delle politiche regionali fa capo al Presidente del Consiglio dei ministri, che promuove e coordina l’azione del Governo per quanto attiene ai rapporti con le Regioni e le Province autonome e sovrintende all’attività dei commissari del Governo. Dell’organizzazione della Presidenza fa parte il Dipartimento per gli affari regionali. Presso la Presidenza è istituita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (Conferenza Stato-Regioni), e la Conferenza StatoCittà ed autonomie locali. La Conferenza Stato-Regioni, oltre ai compiti originari di informazione, consultazione e raccordo in relazione agli indirizzi di politica generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale, esclusi gli indirizzi generali relativi alla politica estera, alla difesa ed alla sicurezza nazionale, alla giustizia, in alcuni casi esercita poteri vincolanti l’attività del Governo. La Conferenza è organo dello Stato ma è composta prevalentemente da esponenti delle Regioni. Tra i poteri a carattere puntuale e vincolanti l’azione del Governo hanno importante rilievo le intese previste per l’esercizio di alcune funzioni statali. La Conferenza unificata è convocata dal Presidente del Consiglio ed esercita funzioni consultive in tutti i casi in cui Regioni, Province, Comuni e comunità montane ovvero la Conferenza StatoRegioni e la Conferenza Stato-Città ed autonomie locali debbano esprimersi su un medesimo oggetto. L’organizzazione statale periferica di indirizzo e controllo delle Regioni è stata soppressa. Gli organi con competenze settoriali sono i seguenti: anzitutto gli organismi a composizione mista operanti sulla base di competenze tecnico-scientifico, come la commissione consultiva del farmaco; il Consiglio sanitario nazionale, con compiti di consulenza e di proposta nei confronti del Governo per la determinazione delle linee generali della politica sanitaria nazionale e per l’elaborazione e l’attuazione del piano sanitario nazionale; il Comitato per l’edilizia residenziale (C.E.R.). Poteri locali. L’ordinamento degli enti locali è un ordinamento costituito da norme che hanno il valore di principi della legislazione dello Stato, costituenti perciò sino alla vigenza del Titolo V della Parte II della Costituzione limiti alla potestà legislativa delle Regioni ordinarie. A seguito dell’entrata in vigore della l. cost. 3/2001 la potestà legislativa delle Regioni ordinarie si estende a tutti gli ambiti non espressamente riservati alla legislazione dello Stato, salvo l’ambito di autonomia normativa riservato agli stessi enti locali. L’ordinamento dei poteri locali deriva dall’ordinamento del Regno di Sardegna. Secondo l’ordinamento del 1865, il Regno si divide in province, circondari, mandamenti e comuni. Il governo locale è affidato a due specie di enti: i comuni e le province. Il Comune è definito da una legge del 1859 corpo morale avente una propria amministrazione determinata dalla legge; nella legge del 1865 non si rinviene questa definizione, ma è pacifico che il comune “corpo morale” sia persona giuridica pubblica.
La Provincia è corpo morale, ha facoltà di possedere, ed ha un’amministrazione propria che ne regge e rappresenta gli interessi. Sotto il regime fascista l’ordinamento comunale e provinciale veniva profondamente modificato, sostanzialmente sopprimendo al rappresentatività politica degli enti, ridotti ad articolazioni dello Stato (massima espansione del concetto di autarchia): l’amministrazione del Comune affidata al podestà di nomina governativa; quella della provincia affidata al preside e al rettorato di nomina governativa. Alla caduta del regime è stato ripristinato il vecchio ordinamento per la parte concernente gli organi elettivi. Sia il Comune che la Provincia sono enti pubblici (organizzazioni fornite di personalità giuridica) esponenziali della rispettiva comunità; organizzazioni di governo della stessa. Secondo l’ord. enti locali i due enti locali curano gli interessi e promuovono lo sviluppo delle proprie comunità (ciò configura Comuni e Province come enti “a fini generali”). L’individuazione in concreto degli enti passa dunque per l’individuazione delle rispettive comunità. Queste a loro volta si individuano per il loro riferimento territoriale: sono comunità territoriali. Le circoscrizioni territoriali, e dei Comuni e delle Province, sono un dato positivo, che si determina in concreto in applicazione di criteri fissati dalla normazione positiva. La disciplina organizzativa dei poteri locali è sostanzialmente unitaria, cioè la stessa per i Comuni e per le Province: segnatamente coincide la disciplina delle fonti normative secondarie, di attribuzione del governo locale (statuti e regolamenti); degli organi, nella loro struttura e nella distribuzione tra essi delle funzioni; la disciplina organizzativa dei servizi pubblici locali; la disciplina dei controlli; la disciplina degli uffici burocratici; della finanza e contabilità. Il Comune è l’organizzazione di governo più piccola, che corrisponde alla comunità di abitanti col suo territorio di pertinenza o a più comunità aggregate intorno ad una comunità principale; la Provincia invece è governo di una vasta area territoriale composta di una pluralità di centri abitati anche distanti tra loro, ma dislocati sul territorio in modo tale (distanza, modalità d’accesso, etc.) da rendere facilmente fruibili da tutti i servizi comuni dell’area collocati prevalentemente in un centro abitato principale (c.d. capoluogo). L’ambito delle funzioni effettivamente imputate ai due enti appare in larga misura casuale, e quello provinciale appare del tutto residuale. Gli enti locali erano sottoposti a penetranti poteri di vigilanza e tutela da parte dello Stato, esercitati per il tramite dell’istituzione prefettizia, che investiva la totalità delle funzioni ad essi imputate (controlli tipici), nonché a più specifici poteri di autorizzazione, approvazione e controllo con oggetto specifici atti di competenza locale (controlli atipici). Entrambi i poteri di controllo risultavano in contrasto col sistema costituzionale delle autonomie locali. Questo sistema è stato modificato con l’attribuzione ad organi regionali (i Comitati regionali di controllo: CORECO) del controllo di legittimità sugli atti degli enti locali. A seguito dell’entrata in vigore della l. cost. 3/2001 i CORECO sono stati soppressi, e tutto il sistema dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti locali è venuto a cadere. Circa i controlli sugli organi, sui quali la Costituzione tace, essi sono rimasti disciplinati secondo il precedente ordinamento sino all’entrata in vigore della l. autonomie, che mantiene ferma la competenza statale. È previsto il potere di scioglimento dei Consigli regionali e provinciali in capo all’autorità di governo: il relativo decreto è adottato dal Presidente della Repubblica su proposta del ministro dell’interno.
Lo scioglimento è disposto nel caso di compimento di atti contrari alla Costituzione nonché per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico; e quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi, con riferimento però a cause tipiche. Col decreto di scioglimento è nominato un commissario che provvede all’amministrazione ordinaria dell’ente, fino al rinnovo del Consiglio. Un’ipotesi particolare di scioglimento è quella prevista dalla legislazione antimafia: allorché emergano elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli stessi che compromettano la libera determinazione degli organi elettivi ed il buon andamento delle rispettive Amministrazioni, nonché il regolare condizionamento dei servizi. La riforma tributaria dei primi anni ’70 accentrò il prelievo fiscale nello Stato, lasciando solo pochi tributi locali. Nel corso degli anni ’90 la finanza locale è stata oggetto di numerosi e rilevanti interventi normativi. La l. autonomie stabilisce che ai Comuni ed alle Province spetta autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse proprie e di risorse trasferite. Col decreto legislativo 504/1992 è stata istituita l’imposta comunale sugli immobili (ICI), che è divenuta la principale entrata di natura tributaria spettante ai Comuni. In seguito è stata istituita l’IRAP. Il decreto legislativo 446/1997 ha attribuito alle Province ed ai Comuni una potestà regolamentare generale in materia di entrate proprie, anche tributarie: salva l’individuazione e la definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e dell’aliquota massima dei singoli tributi. Il decreto legislativo 360/1998 ha istituito un’addizionale provinciale e comunale all’IRPEF, da applicarsi in base ad un’aliquota formata da due parti: la prima è fissata dallo Stato (con corrispondente riduzione dell’aliquota erariale) ed è uguale per tutti i Comuni, la seconda è facoltativa e variabile: ogni Comune può decidere o meno di applicarla fissarne la misura, entro i limiti predeterminati dalla legge. Col patto di stabilità interno (l. 448/1998) le Regioni e gli enti locali sono chiamati a contribuire al raggiungimento degli obiettivi ed al rispetto dei vincoli che lo Stato italiano ha assunto sulla base del patto comunitario di stabilità e di crescita. La corresponsabilità di Regioni ed enti locali si estende anche alle sanzioni previste dal patto di stabilità e di crescita per disavanzi superiori al limite da esso determinato. Sia lo Stato che la Regione sono coinvolti nell’esercizio delle funzioni amministrative di pertinenza degli enti locali. Solo una parte di queste funzioni (quelle proprie in senso tecnico) sono ascrivibili ad un ambito di attribuzioni esclusivo degli enti locali come enti di governo della propria comunità territoriale: le altre sono ascrivibili all’ambito delle attribuzioni proprie dello Stato o della Regione. Il 188 Cost. attribuisce la titolarità delle funzioni amministrative ai Comuni in virtù del principio di sussidiarietà, salvo che la legge statale o regionale, secondo la competenza, non ne attribuisca la titolarità a livelli di governo superiori, a cominciare dalla Provincia, per assicurarne l’esercizio unitario. Nell’ambito delle funzioni proprie, nessuna ingerenza è ammissibile da parte dello Stato o della Regione (solo poteri di controllo intesi a garantire la legalità). Viceversa, nell’ambito delle altre funzioni, questa ingerenza è ammissibile.
L’esercizio delle funzioni rispettivamente di interesse statale o regionale da parte degli enti locali è soggetto alla disciplina rispettivamente di fonte statale o regionale. L’esercizio di funzioni delegate dalla Regione è sottoposto ad un potere direttivo da parte della Regione stessa, a carattere vincolante. La legge regionale è chiamata a disciplinare la cooperazione dei Comuni e delle Province tra loro e con la Regione, al fine di realizzare un efficiente sistema delle autonomie locali al servizio dello sviluppo economico, sociale e civile. Nel nuovo modello costituzionale del governo locale, in ogni Regione dovrà essere istituito il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione tra le Regioni e gli enti locali. Il Comune e le organizzazioni comunali. Il Comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo (3 ord. enti locali): la “comunità” cui si fa qui riferimento è quella dei cittadini residenti sul territorio comunale, quale stabilito per legge. La legislazione regionale può intervenire a modificare le circoscrizioni territoriali esistenti. Il territorio dei Comuni può essere modificato dalla Regione (133 Cost.; 15 ord. enti locali) con legge, sentite le popolazioni interessate (con referendum); e la Regione può istituire nuovi Comuni (con popolazione non inferiore a 10.000 abitanti) e modificarne la denominazione. Il Comune appare come un microcosmo sociale, composto sia da individui che da formazioni sociali, che trovano nell’ente comune il loro organo o rappresentante. Il principio della rappresentanza istituzionale in capo al Comune delle istituzioni fatte a pro della generalità degli abitanti ed anche delle istituzioni di settore che presentano rilievo sociale comporta: che il Comune assume l’amministrazione di queste istituzioni ove quella propria di esse sia mancante od incapace di funzionare; che il Comune cura comunque gli interessi di queste istituzioni, se non dotate di una qualsivoglia organizzazione autonoma, divenendone appunto organo o rappresentante. Tra queste istituzioni emerge la comunità d’abitanti vera e propria, che si identifica nella stessa collettività dei cittadini residenti nel Comune o nella frazione e legati tra loro da vincolo di incolato (abitare nel medesimo nucleo abitativo) od in collettività parziali e settoriali nell’ambito di quella. La comunità acquista una propria identità giuridica nel fatto di possedere dei beni (c.d. beni civici) e di godere di diritti (c.d. usi civici). L’identificazione stessa della comunità avviene sulla base dei diritti che ad essa si imputano. La comunità d’abitanti è una formazione a carattere privato. La comunità d’abitanti può coincidere con l’intera comunità dei residenti del Comune, o con gli abitanti di uno dei nuclei abitativi compresi nel territorio comunale, capoluogo o frazioni: sia nell’un caso che nell’altro la comunità d’abitanti si può dare un’organizzazione propria. Le funzioni del Comune hanno oggetto generale: ciò significa che l’ente si può (e si deve) occupare di tutti gli interessi della comunità che emergano dal corpo sociale nel variare delle sue vicende, mediante attività di amministrazione in senso sostanziale. Insomma il Comune è propriamente e tipicamente un ente a competenza generale. Le funzioni amministrative comunali, con riferimento al tipo di imputazione, possono essere divise in: - funzioni proprie dell’ente: sono quelle ad esso attribuite dalla legge come organizzazione di governo della rispettiva comunità: derivano dalla legge statale anche nell’ambito di materie regionali.
Nell’esercizio di queste funzioni l’ente opera in posizione di autonomia rispetto allo Stato ed ovviamente alla Regione, e perciò può essere soggetto solo a poteri di controllo di mera legalità; - funzioni di interesse statale: attribuite dalla legge all’ente in virtù del principio organizzativo del decentramento statale, esse conservano la loro pertinenza ad un interesse statale e non locale: ciò comporta la piena disponibilità della funzione da parte dello Stato che può estrinsecarsi nell’emanazione di direttive e nell’esercizio di altri poteri di ingerenza legislativamente previsti; - funzioni statali: sono quelle tradizionalmente attribuite al sindaco del Comune come ufficiale del governo. Si tratta di funzioni importanti, come l’anagrafe, i servizi di stato civile, l’ordine pubblico. Funzioni concernenti servizi di competenza statale possono essere affidate ai Comuni dalla legge, che però è tenuta a regolare i relativi rapporti finanziari, assicurando le risorse necessarie: nell’esercizio di queste funzioni il sindaco agisce come organo dello Stato ed è soggetto al potere direttivo delle Amministrazioni statali competenti per materia; - funzioni di interesse regionale: sono quelle che il Comune esercita nelle materie di attribuzione regionale che non siano di interesse esclusivamente locale. Queste funzioni, se disciplinate dalla legge regionale, possono a loro volta essere attribuite o delegate all’ente locale; resta fermo in ogni caso il potere di direzione, programmazione e controllo in capo alla Regione nei confronti dell’ente locale. L’organizzazione fondamentale del Comune come ente è tracciata dall’ord. enti locali. Gli organi fondamentali del Comune sono confermati quelli tradizionali e risalenti (Consiglio, Giunta, Sindaco), ed è confermata l’uniforme presenza di detti organi in ogni comune prescindendo dalle dimensioni. Il Consiglio (come quello regionale e quello provinciale) è l’organo eminentemente politico. I suoi membri sono eletti dalla popolazione mediante procedimenti elettorali. Il Consiglio è presieduto dal sindaco o da proprio presidente se previsto nella normativa statutaria. I lavori del Consiglio si articolano per sessioni ordinarie e straordinarie. Le sedute del Consiglio sono pubbliche, salvo deroghe previste con disciplina regolamentare. Ai singoli consiglieri è riconosciuto il diritto di ottenere dagli uffici del Comune nonché dalle aziende ed enti dipendenti tutte le notizie e le informazioni in loro possesso utili all’espletamento del mandato. Possono presentare interrogazioni e mozioni. Il Consiglio è l’organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo: esso può certamente deliberare intorno ad iniziative da assumere da parte dell’ente. Il Consiglio adotta gli atti a carattere normativo, gli atti di pianificazione e programmazione, gli atti a carattere generale concernenti il personale, gli atti concernenti l’assunzione diretta dei pubblici servizi, gli atti concernenti acquisti, alienazioni ed altre operazioni immobiliari. La Giunta comunale è nominata dal Sindaco. Come organo collegiale, funziona secondo i noti principi, salva disciplina statutaria e regolamentare. La l. autonomie ha ribaltato la disciplina precedente conferendo alla Giunta la competenza in ordine a tutti gli atti che non siano riservati dalla legge al Consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi e dallo statuto, del sindaco e del presidente della provincia o degli organi di decentramento; insomma, diventa l’organo a competenza generale e residuale.
La Giunta come organo collegiale, unitamente al sindaco e, nell’ambito della delega, agli assessori, come organi monocratici, costituiscono nel loro complesso l’esecutivo comunale. Il sindaco, eletto, come il presidente della Provincia, dai cittadini a suffragio universale e diretto, è l’organo responsabile dell’amministrazione del Comune, rappresenta l’ente, convoca e presiede la Giunta, nonché il Consiglio quando non è previsto il presidente del consiglio. Il sindaco provvede alla nomina, designazione e revoca dei rappresentanti del Comune presso enti, aziende ed istituzioni varie, nonché dei responsabili degli uffici e dei servizi dell’ente stesso. Particolare è la posizione del sindaco quale ufficiale del Governo: in tale posizione il sindaco è titolare del potere di ordinanza, che consente di adottare provvedimenti con tingibili ed urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini. La l. autonomie ha introdotto come organo istituzionale del Comune un organo di revisione e controllo contabile: il collegio dei revisori, composto da tre membri eletti dal Consiglio comunale. L’ord. enti locali prevede l’istituzione da parte di Comuni e Province del difensore civico, organo monocratico che svolge un ruolo di garante dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale o provinciale, segnalando anche di propria iniziativa gli abusi, le disfunzioni, le carenze ed i ritardi dell’amministrazione nei confronti dei cittadini. L’organizzazione degli uffici comunali è diversa a seconda delle dimensioni dell’ente. Gli uffici comunali dipendono dalla Giunta e dal sindaco. Il sindaco normalmente delega ai singoli membri della Giunta (assessori) la sovrintendenza degli uffici distinti e raggruppati per aree o settori funzionali. Al vertice dell’organizzazione burocratica comunale sono posti uffici dirigenziali laddove previsti dalla pianta organica dell’ente anche con riferimento alle sue dimensioni, ovvero uffici non dirigenziali facenti capo a funzionari responsabili. Al vertice amministrativo dell’ente è posto il segretario comunale. Ai dirigenti ed ai responsabili degli uffici e dei servizi vengono attribuiti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dell’organo di governo dell’ente, tra i quali vengono indicati la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la stipulazione dei contratti, l’adozione dei provvedimenti di amministrazione puntuale, concessioni, etc. Il segretario comunale, come quello provinciale, resta funzionario statale, tuttavia dipendente, quanto al rapporto di servizio, da un’Agenzia autonoma governata da rappresentanti del Governo, degli enti locali e degli stessi segretari. Il sindaco può però nominare il segretario scegliendolo da un albo tenuto dalla stessa Agenzia. Quanto alle funzioni, è previsto un regime differenziato a seconda che venga prevista o meno la figura del direttore generale dell’ente: laddove è prevista, le funzioni del segretario sono per regola funzioni di carattere legale e di consulenza giuridico-amministrativa: la partecipazione con funzioni di consulenza e di verbalizzazione alle sedute degli organi collegiali, la rogazione dei contratti nei quali l’ente è parte; laddove non è prevista, a queste funzioni si sommano quelle che il segretario già possiede sulla base del precedente ordinamento come organo che sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività. Nel territorio comunale possono esser presenti più nuclei abitativi: in tal caso, si distingue il nucleo abitativo principale (capoluogo), che in genere è quello che dà il nome al Comune, dagli altri (le frazioni), che vengono individuate e delimitate dal Comune stesso.
Ogni Comune può deliberare la ripartizione del territorio comunale in circoscrizioni comprendenti uno o più quartieri o frazioni contigue; amministrate da un organo collegiale (il consiglio circoscrizionale) ed un organo monocratico (il presidente), con compiti consultivi e deliberativi in determinate materie. La nozione di frazione compare nel testo della l. autonomie come nozione del tutto marginale. È la circoscrizione l’articolazione territoriale fondamentale a livello sub-comunale: essa è caratterizzata dal fatto di essere organizzazione di governo di una comunità territoriale (quella degli abitanti del territorio individuato dal Comune come proprio della circoscrizione). L’ord. enti locali definisce in via generale le circoscrizioni come organismi di partecipazione, di consultazione e di gestione dei servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal Comune. La circoscrizione non è l’unica possibile articolazione territoriale sub-comunale nel nuovo ordinamento: la precedente articolazione del territorio comunale in frazioni, borgate e quartieri resta ferma. Laddove siano previste le circoscrizioni, queste assorbono le frazioni. Accanto all’articolazione organizzativa territoriale, l’organizzazione comunale è anche articolata in una pluralità di figure soggettive dotate o meno di personalità giuridica. Tra esse risaltano le organizzazioni comunali intese alla gestione dei servizi pubblici. La nozione di servizi pubblici sta ad indicare qualsiasi attività fatta dai pubblici poteri nell’interesse collettivo, purché non occasionale o sporadica ma organizzata stabilmente. È antica tradizione dei Comuni la gestione di attività anche di carattere imprenditoriale, consistenti nell’erogazione di prestazioni di interesse sociale: e così i servizi di trasporto, di erogazione dell’energia, di approntamento e gestione delle infrastrutture essenziali (acquedotti, fognature, reti telefoniche, impianti di illuminazione, etc.), di impianto ed esercizio delle farmacie, etc.; in alcuni casi con diritto di privativa (c.d. servizi municipalizzati). In tale ordinamento la forma organizzativa tipica per la gestione di detti servizi è quella dell’azienda speciale, organizzazione dotata di autonomia amministrativa e contabile e propria capacità di compiere atti e negozi giuridici, ma non dotata di personalità giuridica. Per alcuni servizi di tenue entità era previsto l’esercizio in economia, cioè direttamente da parte dell’organizzazione comunale, senza necessità di predisporre un’organizzazione differenziata. Si parla di servizi sociali per indicare servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale. In via generale è previsto che i Comuni e le Province nell’ambito delle rispettive competenze provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. Dovranno essere gli enti ad individuare le attività stesse, specificando le ragioni di interesse pubblico. Mentre la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinate all’esercizio dei servizi pubblici resta in capo agli enti locali, la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali può essere affidata a società di capitali con partecipazione maggioritaria degli enti locali, o ad imprese terze rispetto all’ente locale da individuare mediante procedure di evidenza pubblica. Invece per la gestione dei c.d. servizi sociali, che si identificano per non essere oggetto di impresa, è stata confermata la precedente disciplina circa le modalità di organizzazione attraverso le aziende speciali, anche consortili; le istituzioni; le società di capitali costituite o partecipate dagli enti locali.
Quando sussistono ragioni tecniche economiche e di utilità sociale, anche questi servizi possono essere affidati ai terzi mediante procedure ad evidenza pubblica. L’azienda speciale è definita dalla legge ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale; essa è dotata di un proprio statuto, “approvato” (dice la legge) dal consiglio comunale (ma in realtà si tratta di adozione). L’istituzione, dice la legge, è organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali, dotato di autonomia di gestione. L’istituzione, priva di personalità giuridica, è considerata un’articolazione organizzativa dell’ente locale, e soggetta perciò al regime giuridico proprio di esso, e nei rapporti coi terzi e nei rapporti interni. La società a prevalente capitale pubblico locale è configurata come un’organizzazione strumentale del Comune con la quale si instaura un rapporto di tipo convenzionale (c.d. contratto di servizio), senza necessità di attivare il procedimento concessorio previsto per la gestione dei servizi affidata a terzi. La frammentazione comunale pone rilevanti problemi al funzionamento della nostra amministrazione locale. Il trasferimento di funzioni e compiti al governo locale è condizionato al fatto che le Regioni individuino livelli ottimali di esercizio delle funzioni amministrative a livello locale, nel cui ambito i Comuni esercitano le funzioni in forma associata. Viene perciò escluso il conferimento di funzioni ai Comuni in quanto tali. Si passa dalla politica delle fusioni alla politica dell’associazionismo comunale. Le forme associate possono essere di vario tipo, la scelta è affidata alla determinazione degli enti locali. I Comuni associati restano quelli che sono sul piano della titolarità delle funzioni di governo nei confronti della loro collettività, ma tramite l’ente associativo esercitano funzioni di dimensioni maggiori. L’Unione di Comuni è un ente locale costituito da due o più Comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza (32 ord. enti locali). Il presidente dell’Unione deve essere scelto tra i sindaci dei Comuni interessati. Gli altri organi dell’ente devono essere formati da membri delle Giunte e dei Consigli dei Comuni interessati, garantendo la rappresentanza delle minoranze. L’Unione ha la potestà regolamentare negli stessi limiti di quella spettante ai Comuni. Le Comunità montane sono specie di Unioni di Comuni, che la legge definisce come Unioni di Comuni, enti locali costituiti fra Comuni montani e parzialmente montani, anche appartenenti a Province diverse, per la valorizzazione delle zone montane per l’esercizio di funzioni proprie, di funzioni conferite e per l’esercizio associato delle funzioni comunali. Le associazioni tra comuni (o associazioni intercomunali) costituiscono il terzo tipo di ente locale a carattere associativo dotato di compiti tendenzialmente generali. La Regione individua con legge gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali e sanitari promuovendo forme di cooperazione fra gli enti locali e se necessario promuovendo forme anche obbligatorie di associazione fra gli stessi. Le leggi regionali che avevano previsto le associazioni tra comuni sono state poi abrogate, quindi questa forma associativa dovrà essere ridefinita. Forma associativa è anche la mera convenzione tra enti, attraverso la quale essi possono prevedere anche la costituzione di uffici comuni, che operano con personale distaccaro dagli enti partecipanti, ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti
all’accordo, ovvero la delega di funzioni da parte degli enti partecipanti all’accordo a favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti. I Comuni possono unirsi anche in consorzi fra di loro o con la Provincia per provvedere a certi servizi od opere di comune interesse; la costituzione del consorzio può anche essere imposta per provvedere a determinati servizi od opere di carattere obbligatorio dall’autorità governativa. Il consorzio ha propria personalità giuridica ed un proprio statuto approvato dall’autorità governativa. La disciplina generale applicabile ai consorzi è quella prevista per i Comuni e le Province. Il consorzio può gestire qualsiasi tipo di funzione comunale. Provincia e città metropolitana. La Provincia è configurata dall’ord. enti locali come ente di governo della propria comunità, pubblico potere a competenza tendenzialmente generale, titolare di funzioni proprie. Questa configurazione legislativa dell’ente va a calare su una realtà ben diversa. Anche la Provincia è ente di governo di una comunità territoriale, la cui individuazione in concreto passa attraverso la determinazione di una circoscrizione territoriale. Le circoscrizioni territoriali possono essere modificate, anche mediante l’istituzione di nuove Province, con legge statale, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione (133 Cost.). Spettano alla Provincia le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardano vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale; in certi settori: quello ambientale, quello della viabilità e di alcuni servizi ed opere pubbliche. Si tratta di aree di competenza attribuite alla Provincia, anziché di competenze specifiche. L’individuazione puntuale delle funzioni è subordinata alla preventiva individuazione, da parte delle Regioni, del carattere non unitario dell’interesse nei rispettivi territori, e della sua localizzabilità a livello provinciale. La norma conferisce alla Provincia compiti di programmazione di tipo conoscitivo, informativo, propositivo, etc., che incidono poco sulla situazione esistente; ma attribuisce altresì alla Provincia, come funzione propria, l’adozione del piano territoriale di coordinamento. La norma è stata interpretata nel senso che il piano territoriale di coordinamento attribuito alla Provincia è strumento di pianificazione subordinato al piano territoriale della Regione (ove previsto). È sempre alla Regione che spetta di individuare, nelle materie di attribuzione regionale, il carattere unitario nei rispettivi territori delle relative funzioni; e perciò l’ambito di incidenza del piano territoriale di coordinamento provinciale sarà sempre condizionato da tale preventiva individuazione da parte delle Regioni. È stata attribuita poi alla Provincia una competenza di carattere generale in ordine alla promozione ed al coordinamento di attività, nonché alla realizzazione di opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale, culturale, sportivo, da gestire secondo le forme previste per i servizi pubblici. Circa l’organizzazione dell’ente, nei suoi organi politici e nelle strutture burocratiche; circa le forme di gestione di servizi pubblici di interesse provinciale; circa le forme associative e di cooperazione con gli altri enti locali, la disciplina vigente per la Provincia è la stessa vigente per i Comuni. Una particolarità è data nell’ambito delle articolazioni territoriali sub-provinciali: l’ord. enti locali prevede la possibilità della suddivisione del territorio provinciale in circondari, sulla base dei quali organizzare gli uffici, i servizi e la partecipazione dei cittadini.
Laddove un determinato territorio presenta i caratteri propri dell’aggregazione metropolitana (una grande città ed un territorio che grava su di essa), l’ambito territoriale per l’esercizio delle funzioni e dei servizi diviene area metropolitana. La legge individua le aree metropolitane nelle zone comprendenti i Comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, e gli altri Comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione territoriale ed in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociali, nonché alle relazioni culturali ed alle caratteristiche territoriali. Nell’ambito dell’area metropolitana, i Comuni interessati possono costituirsi in città metropolitana, cioè dar luogo ad un nuovo ente locale. Le forme e le modalità di questo esercizio coordinato di funzioni nell’ambito dell’area da parte degli enti locali sono definite dalla Regione d’intesa con gli enti locali interessati. La costituzione dell’ente metropolitano (città metropolitana) è affidata all’iniziativa degli enti locali. La città metropolitana acquisisce interamente le funzioni della Provincia, ed esercita le funzioni di attribuzione comunale nei limiti e secondo le modalità stabilite nello statuto. Nel caso il territorio della città metropolitana non coincida con il territorio della Provincia, si procede alla nuova delimitazione delle circoscrizioni provinciali ovvero all’istituzione di nuove Province. Cenni alle organizzazioni esponenziali di comunità (non territoriali). Le formazioni sociali (2 Cost.) diverse dalle comunità territoriali, aggregate intorno ad interessi di carattere settoriale, in principio non sono dotate di organizzazioni di governo proprie ed autonome, persone giuridiche pubbliche ascrivibili al genus dei pubblici poteri: tali caratteristiche sarebbero riservate alle organizzazioni di governo delle comunità territoriali. Vi è però un orientamento legislativo di favore verso le “autonomie funzionali”. Queste organizzazioni laddove esistono sono in principio ascrivibili alla sfera privatistica senz’altro (associazioni di diritto privato, dotate o meno di personalità giuridica, o comitati, a volte società commerciali); in qualche caso però esse sono state pubblicizzate, e con ciò assoggettate alla disciplina generale degli enti pubblici. In genere la pubblicizzazione si è accompagnata al conferimento a queste organizzazioni di funzioni amministrative in senso proprio anche aventi ad oggetto situazioni esterne rispetto all’ambito dei soggetti aderenti alle organizzazioni stesse. “formazione sociale” può indicare qualsiasi aggregazione di persone intorno a comuni interessi, che esprima al suo interno un’organizzazione: coincide con “istituzione”. Spesso accade che gli interessi intorno ai quali si aggregano queste formazioni sociali, ed alla cui cura sono deputate, per scelta loro propria, le relative organizzazioni, coincidano con interessi pubblici, fatti propri dalla legge dello Stato anche attraverso la costituzione di appositi uffici dell’organizzazione pubblica, deputati alla loro cura. Si pensi ad esempio alle associazioni ambientalistiche a fronte del ministero dell’ambiente. In questi casi abbiamo una contestuale presenza di organizzazioni pubbliche in senso stretto e di formazioni sociali nello stesso ambito di interessi. Accade che le formazioni sociali vengano attratte nella sfera del “pubblico”, ove gli interessi della cui cura esse si fanno carico vengano riconosciuti in un determinato momento storico come pubblici. Perché possano essere ascritte al tipo delle organizzazioni di governo esponenziali di comunità dotate di autonomia (pur nel limitato aspetto dell’autonomia funzionale), le organizzazioni in oggetto devono almeno possedere i seguenti requisiti minimi:
gli organi di vertice siano composti da membri designati almeno in maggioranza dalla comunità stessa di cui l’organizzazione è esponenziale, attraverso procedimenti di tipo elettorale; all’organizzazione sia conferito un ambito di funzioni proprie, da definirsi secondo i medesimi criteri usati a proposito delle funzioni degli enti territoriali; per l’esercizio di queste funzioni, esse dispongano di riserve finanziarie proprie. Tra le formazioni sociali in oggetto e relative organizzazioni di governo, presentano grande rilevanza sociale le organizzazioni religiose. Secondo l’8.2 Cost. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, e secondo l’8.3 I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Alla Chiesa cattolica è riconosciuta una posizione di preminenza: dice il 7 che Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Tutto l’insieme delle organizzazioni religiose è stato sottratto alla sfera del pubblico, e riconosciuto dallo Stato come un ambito di organizzazione sociale del tutto separato. Gli stessi enti ecclesiastici vengono riconosciuti come persone giuridiche civili. Nella vicenda delle organizzazioni religiose si è passati da una fase di intensa pubblicizzazione ad una fase di netta separazione. Le organizzazioni sportive sono ordinate su tre livelli: le associazioni sportive (che nell’ambito del “professionismo” assumono la forma della s.p.a.), che sono del tutto riconducibili all’ambito privatistico; le Federazioni sportive nazionali, organizzazioni di secondo grado nelle quali sono raggruppate le prime secondo la disciplina sportiva professata (es.: Federazione italiana sport invernali, FISI; Federazione italiana nuoto, FIN; etc.), le quali si articolano come organi del CONI. Il Comitato centrale olimpico nazionale (CONI) è persona giuridica di diritto pubblico, sottoposta alla vigilanza del ministero per i beni e le attività culturali. Il sistema CONI-Federazioni sportive (le quali non sono più organi del CONI ma associazioni di diritto privato) svolgono nei confronti della comunità degli sportivi funzioni di normazione interna e di tutela (c.d. giustizia sportiva), così da configurare una sorta di ordinamento separato (c.d. ordinamento sportivo) sottratto all’ingerenza dello Stato. Tra gli organi del CONI l’Automobile Club d’Italia (ACI) è un’organizzazione all’origine privata, esponenziale degli interessi degli appassionati di automobilismo, trasformata poi in pubblica in conseguenza dell’attribuzione ad essa di funzioni pubbliche (vicenda del tutto analoga a quella della SIAE). Gli ordini professionali designano le comunità di coloro che per titolo o capacità acquisite possono esercitare una determinata professione: per il cui esercizio sono richiesti titoli e capacità determinate. Le relative organizzazioni (denominate “ordini”, “consigli dell’ordine”, “collegi professionali”), espressione di tutti i professionisti, hanno il potere di valutare, sulla base di norme di legge, titoli e capacità per l’esercizio delle professioni stesse, e perciò di determinare in tal modo l’ambito della loro stessa plurisoggettività. Una disciplina a carattere generale non esiste. In genere non è stabilita la personalità pubblica dei consigli o collegi, salve eccezioni; tuttavia la personalità giuridica è ritenuta pacifica.
Le organizzazioni professionali sono rette da organi (consigli, presidenti) i cui titolari sono designati dagli stessi iscritti attraverso procedimenti elettorali. La vigilanza è esercitata dal ministero della giustizia, a volte di concerto col ministero di settore. Principale compito delle organizzazioni professionali, che costituisce funzione di carattere pubblico, è quello della tenuta degli albi (registri in cui i professionisti sono iscritti), che significa il governo dello stesso esercizio professionale, coi relativi poteri circa l’ammissione, la sospensione, l’espulsione dei professionisti dall’albo. Alcuni ordini professionali (come quello degli avvocati e procuratori) attraverso una loro organizzazione centrale esercitano funzioni di natura giurisdizionale. Le Camere di commercio, industria, artigianato, agricoltura, sono enti di tipo associativo a base territoriale provinciale trasformati in enti strumentali dello Stato (ministero dell’industria) titolari di numerose attribuzioni statali (tenuta del registro delle imprese, amministrazione delle borse valori, etc.). Circa università degli studi ed enti di ricerca scientifica la Costituzione ne garantisce l’autonomia attraverso il 33, che parla del diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti di cui alle leggi dello Stato. Secondo la legge le università sono dotate di personalità giuridica, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti. È espressamente esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare. Le Università degli studi al loro interno dispongono di piena autonomia delle risorse finanziarie, che però provengono per la grandissima parte dal bilancio dello Stato. L’ordinamento degli studi dei diversi corsi impartiti dalle Università (diplomi, laurea, specializzazioni) è disciplinato dai singoli Atenei in conformità a criteri generali definiti con decreto ministeriale. Gli enti ed istituzioni pubbliche nazionali di ricerca a carattere non strumentale partecipano della stessa garanzia, solo un po’ attenuata. Tali enti sono il Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), gli Osservatori astronomici, astrofisici, ed altri enti. Il carattere non strumentale dell’attività di ricerca imputata all’ente consiste in ciò, che essa viene programmata, e nelle metodologie e negli oggetti, dagli stessi ricercatori nell’ambito della libertà di ricerca loro garantita, anziché imposta dalle Amministrazioni. Tra il privato ed il pubblico si collocano le Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS). Possono essere qualificati ONLUS le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica; sono espressamente esclusi: i partiti politici, associazioni di categoria, le associazioni di datori di lavoro, le società commerciali diverse da quelle cooperative, le organizzazioni sindacali, le c.d. fondazioni bancarie. Inoltre, sono ONLUS di diritto le organizzazioni non governative, le cooperative sociali, le organizzazioni di volontariato. Circa il requisito oggettivo, essi devono svolgere attività quali beneficenza, istruzione, tutela dei diritti civili, promozione della cultura e dell’arte, tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente, ricerca scientifica, etc. Inoltre, tali attività devono essere dirette in via esclusiva al perseguimento di finalità di solidarietà sociale. Per essere qualificati ONLUS gli enti devono prevedere:
il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, gli utili o gli avanzi di gestione; l’obbligo di impiegare gli utili nelle attività istituzionali o connesse; l’obbligo di devolvere il loro patrimonio, in caso di scioglimento, ad altre ONLUS. Per le ONLUS sono altresì previste delle agevolazioni fiscali. Il potere amministrativo e i rapporti giuridici di diritto pubblico: l’interesse legittimo. L’amministrazione in senso sostanziale, come quella intesa alla cura concreta di interessi pubblici, che si estrinseca attraverso un’attività giuridica, avviene di regola secondo moduli di diritto pubblico. Nei sistemi a diritto amministrativo, quali il nostro, il diritto pubblico è il diritto comune, ordinario per i rapporti fra individuo e Stato. Questa azione giuridica si estrinseca attraverso un modulo tipico, che è l’esercizio del potere e l’instaurazione di rapporti giuridici di diritto pubblico. Potere amministrativo indica una posizione soggettiva, ascrivibile al genus delle capacità che la legge imputa ad una determinata autorità amministrativa, come quella che ad essa consente, ed al tempo stesso impone, di porre in essere determinati atti giuridici, al fine di curare determinati interessi pubblici. Gli atti giuridici e i relativi effetti nei quali il potere si esprime sono, salve eccezioni, tipici: per questo, ogni potere amministrativo può essere configurato come una capacità speciale conferita dalla norma alla singola autorità amministrativa. Non esiste una capacità generale di diritto pubblico. Come capacità speciale, il potere ha la caratteristica di non identificarsi con alcun rapporto giuridico, o con alcuna situazione soggettiva; ma esso è il presupposto, o la fonte, di una serie infinita di rapporti giuridici, che si instaurano ad ogni episodio di suo esercizio. Come capacità, i poteri sono costituiti, modificati nel loro contenuto, ed estinti, esclusivamente dalla norma: il loro acquisto non può essere che a titolo originario. Essi non sono oggetto di disposizione da parte del loro titolare; né possono essere trasferiti, ma solo temporaneamente esercitati da altre autorità amministrative in alcuni casi tipici (delegazione, avocazione, etc.). La determinazione finale della volontà come quella che determina in concreto l’effetto, e perciò lo produce, è imputabile esclusivamente all’autorità amministrativa titolare del potere. Il potere non può essere esercitato per il soddisfacimento di interessi diversi da quello per la cui cura è stato attribuito a quella determinata autorità. In ciò consiste la c.d. imperatività del potere amministrativo: il contenuto dispositivo dei relativi atti d’esercizio non è il risultato della convergente volontà di tutti i soggetti interessati, ma il risultato della unilaterale volontà dell’autorità amministrativa titolare del potere, che è tenuta a determinarsi in funzione esclusiva del soddisfacimento dell’interesse pubblico. È tuttavia ammessa in certi casi la negoziazione di una parte almeno del contenuto dispositivo degli atti di esercizio del potere (c.d. amministrare per accordi). Due appaiono le caratteristiche fondamentali del potere amministrativo: sul piano strutturale, il contenuto dispositivo degli atti d’esercizio è determinato unilateralmente dall’autorità amministrativa, in funzione della cura dell’interesse pubblico, sia pure con l’apporto degli altri soggetti titolari di interessi qualificati in ordine al singolo episodio di esercizio del potere (in questa caratteristica s’identifica in senso proprio la c.d. imperatività); sul piano funzionale, con riferimento cioè alla cura degli interessi, il potere si caratterizza per ciò che l’interesse la cui cura viene espressamente attribuita ad una determinata autorità
amministrativa è interesse che non pertiene all’autorità medesima, ma pertiene alla collettività, al pubblico, a fronte del quale la posizione dell’autorità titolare del potere è del tutto servente. L’esercizio del potere instaura concreti rapporti giuridici con soggetti terzi. L’esercizio del potere si estrinseca per il tramite di appositi atti giuridici previsti dalla legge, nella produzione di effetti giuridici in capo a terzi, a volte di natura costitutiva, a volte di natura dichiarativa o preclusiva. Quelli costitutivi a volte consistono nella mera modificazione giuridica della sfera soggettiva di terzi, a volte nell’imposizione a loro carico di obblighi di dare o di facere, a volte nell’acquisto da parte loro di diritti, status ed altre situazioni di vantaggio. Denominiamo rapporti giuridici di diritto pubblico i rapporti giuridici che si instaurano ad ogni concreto episodio di esercizio del potere. A fronte dell’autorità amministrativa i soggetti terzi possono trovarsi in posizione di soggezione o di onere. È ascrivibile alla soggezione la situazione di colui che deve subire gli effetti dell’atto di esercizio del potere che si producono nella sua sfera giuridica prescindendo dall’apporto della sua volontà. È ascrivibile all’onere la situazione del soggetto che dell’atto di esercizio del potere ha bisogno per il soddisfacimento di un suo interesse. In qualunque situazione si trovi il terzo interessato nell’ambito di un procedimento, anche in situazione in ipotesi del tutto passiva come la soggezione, egli si trova ad essere sempre anche titolare di una situazione soggettiva attiva nei confronti dell’autorità amministrativa che nel nostro sistema positivo viene denominata interesse legittimo. Per interesse è da intendere lo stato di aspirazione o di tensione della volontà di un soggetto verso un bene come quello (ritenuto) idoneo a soddisfare uno stato di bisogno del soggetto stesso. L’esercizio del potere suscita interessi anzitutto in capo ai soggetti nella cui sfera giuridica gli effetti stessi sono destinati a prodursi. L’esercizio del potere può coinvolgere una serie di interessi anche al di là dell’ambito di coloro nella cui sfera giuridica esso è destinato a produrre direttamente gli effetti. Gli interessi che emergono nelle vicende della vita sociale possono essere oggetto di un atteggiamento di indifferenza dell’ordinamento, ovvero di un atteggiamento positivo: in questo secondo caso l’interesse diviene presupposto sostanziale di una situazione giuridica soggettiva; altrimenti resta interesse di mero fatto. L’interesse assunto dall’ordinamento come situazione soggettiva si configura come vero e proprio diritto soggettivo nei casi in cui è attribuito dalla norma al soggetto portatore il potere di realizzare senz’altro l’interesse, usando a tal fine gli strumenti posti dall’ordinamento. Ma l’interesse assunto come situazione soggettiva può ricevere dall’ordinamento un trattamento giuridico ed una tutela diversa e meno penetrante di quella predisposta per i diritti soggettivi, che non è intesa a realizzare sempre e comunque la soddisfazione dell’interesse, ma solo in determinati casi ed a certe condizioni, compatibilmente con la realizzazione di interessi a carattere superindividuale considerati in principio preminenti. Nell’ambito dell’esercizio del potere amministrativo possono poi essere coinvolti interessi che diritti soggettivi non sono. Nella prima fase di formazione del nostro sistema amministrativo, tra il 1865 ed il 1889, solo i diritti soggettivi avevano tutela nei confronti dell’Amministrazione. Solo agli interessi che avessero in quanto tali “dignità di diritti” era riconosciuta dall’ordinamento una tutela nei confronti del potere amministrativo davanti al giudice comune; si
trattava però di una tutela di tipo risarcitorio, che non poteva mai coinvolgere i modi di esercizio del potere. Con la l. 5992/1889 fu riconosciuta una tutela contenziosa (poi divenuta giurisdizionale) agli interessi di individui o di enti morali giuridici, oggetto di atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante. Per la verità il legislatore nel dettare la norma, usando la nozione di “interesse”, si riferiva all’interesse a ricorrere (nel senso processuale: 100 c.p.c.): intendeva cioè escludere che alla tutela potessero accedere tutti, secondo il modello dell’azione popolare. L’interesse diviene una situazione soggettiva sostanziale, diversa dal diritto ma anch’essa situazione soggettiva in senso proprio. La configurazione dell’interesse divenuto legittimo come situazione sostanziale si consolida con la Costituzione, che assicura a tutti la facoltà di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (24), e proclama sempre ammessa contro gli atti della pubblica amministrazione la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (113). Circa l’individuazione dei portatori di interessi, si deve porre una distinzione fondamentale tra di essi, identificati come parti necessarie e come parti eventuali del procedimento e perciò del rapporto giuridico di diritto pubblico. Le parti necessarie sono i soggetti nella cui sfera giuridica l’esercizio del potere incide direttamente producendovi effetti giuridici in senso tecnico: siano essi di tipo costitutivo, dichiarativo o preclusivo. Le parti necessarie sono formalizzate dalla l. proc. amm. nei soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, nonché in quelli che per legge debbono intervenirvi (nel procedimento). Si possono identificare come parti eventuali i soggetti che in relazione ad un singolo episodio di esercizio del potere siano portatori di interessi qualificati circa l’oggetto stesso del procedimento e perciò circa il bene che dall’esercizio del potere attraverso il procedimento può venire prodotto. A differenza delle parti necessarie, questi soggetti non subiscono nella loro sfera giuridica un effetto, sia esso costitutivo o dichiarativo o preclusivo, comunque un effetto giuridico in senso tecnico, in esito all’episodio di esercizio del potere. Ad esempio, a fronte del procedimento di espropriazione per pubblico interesse di un’area privata da destinare alla realizzazione di un’opera pubblica di un certo tipo, i proprietari dei fondi vicini possono avere interesse a che l’opera non venga realizzata, e quindi l’espropriazione dell’area non venga pronunciata, perché in ipotesi si tratta di opera (ad es., una discarica di rifiuti industriali) che danneggia la loro proprietà rendendola meno vivibile. Sulle parti eventuali, la l. proc. amm. ne riduce i soggetti a quelli cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento e diversi dai suoi diretti destinatari: la legge riduce l’ambito delle parti eventuali ai soggetti portatori di interessi oppositivi, escludenti i soggetti portatori di un interesse pretensivo a che il provvedimento stesso venga adottato (perché ne attendono un vantaggio). Si deve trattare di un interesse concreto e reale, oggettivamente ed esternamente identificabile, riferibile alla sfera propria del soggetto. Oltre al requisito dell’individualità e della personalità dell’interesse – che tuttavia non esclude che l’interesse stesso possa essere comune ad una pluralità di soggetti – secondo alcuni sarebbe altresì necessario il requisito della qualificazione normativa dell’interesse: questa prospettazione non va accolta.
L’interesse legittimo si presenta come situazione attiva, quella che conferisce ad un soggetto una serie di poteri di agire determinati dall’ordinamento per la soddisfazione di un proprio interesse sostanziale. A differenza del diritto soggettivo, al soggetto portatore di interesse legittimo non è dato il potere di realizzazione dell’interesse stesso: perché il bene cui il soggetto tende può essere realizzato esclusivamente dall’autorità amministrativa con l’esercizio del potere. I poteri strumentali nei quali si articola il contenuto dell’interesse legittimo sono di due specie, e possono schematicamente indicarsi come poteri di partecipazione al procedimento di esercizio del potere amministrativo e come poteri di reazione avverso il potere esercitato (avverso gli atti nei quali il potere si esercita ed attraverso i quali produce i suoi effetti). Il potere si esercita attraverso un procedimento nel quale si determina la volontà in concreto dell’Amministrazione con riferimento ad una determinata situazione reale. A tale procedimento i titolari di interessi legittimi partecipano mediante la rappresentazione del proprio interesse sostanziale in ordine al concreto episodio di esercizio del potere. La rappresentazione avviene in forme diversificate stabilite dalla normazione positiva, ma essa produce sempre un effetto tipico che consiste in ciò, che l’autorità amministrativa deve tener conto nella formazione della sua volontà della rappresentazione avvenuta. I poteri di reazione invece hanno ad oggetto il potere già esercitato estrinsecatosi negli atti tipici previsti per il suo esercizio, e a fronte del bene già prodotto in capo ad uno o ad alcuno dei portatori di interessi legittimi. I poteri di reazione (di tutela) si esercitano davanti alla stessa Amministrazione titolare del potere o ad altra Amministrazione prevista dalla legge (tutela amministrativa) ovvero davanti ad organi giurisdizionali (tutela amministrativa giurisdizionale). L’insieme di detti strumenti dà luogo alla c.d. giustizia amministrativa. Mediante l’esercizio dei poteri di tutela il titolare di interesse legittimo non può ottenere senz’altro la realizzazione del bene, ma può ottenere, laddove risulta illegittimo, la rimozione dell’atto nel quale il potere si è esercitato. La soddisfazione dell’interesse legittimo attraverso l’esercizio dei poteri di tutela ha questo di caratteristico (che la distingue profondamente da quella del diritto soggettivo), di consistere nella rimozione di quanto è avvenuto rimettendo in moto l’esercizio del potere. L’interesse sostanziale delle altre parti del rapporto viene soddisfatto se la sua soddisfazione coincide, o almeno non contrasta, con l’interesse pubblico che l’autorità amministrativa deve perseguire, e se essa è consentita dalla legge o almeno non comporta la violazione di specifiche norme. Attraverso il potere di partecipazione il titolare dell’interesse legittimo contribuisce all’individuazione in concreto dell’interesse pubblico rappresentando il suo interesse sostanziale. Attraverso il potere di reazione il titolare dell’interesse legittimo può ottenere l’eliminazione giuridica dell’atto che non ha rispettato la legge, che non ha perseguito l’interesse pubblico affidato alla cura specifica dell’autorità amministrativa. L’interesse sostanziale che costituisce il presupposto dell’interesse legittimo può consistere in un diritto soggettivo (o meglio, coincidere con l’interesse sostanziale presupposto di un diritto soggettivo). La posizione di interesse legittimo nell’ambito del rapporto amministrativo è assolutamente identica sia che l’interesse sostanziale del suo titolare consista di un diritto soggettivo sia che consista di un mero interesse.
I medesimi interessi sostanziali configurati come diritti soggettivi nell’ambito dei rapporti comuni si configurano come interessi legittimi nei confronti dell’Amministrazione che agisce nell’esercizio di poteri amministrativi. È infondata la spiegazione della vicenda in termini di degradazione del diritto ad interesse legittimo: l’esercizio del potere avrebbe l’effetto (manifestazione della sua “imperatività”) di degradare il diritto trasformandolo in interesse legittimo: del quale assumerebbe la protezione tipica nei confronti dell’Amministrazione. Tale spiegazione fu usata per accogliere la tesi che i diritti soggettivi lesi dall’esercizio del potere amministrativo dovessero essere tutelati come interessi legittimi (davanti al giudice amministrativo) e non come diritti (davanti al giudice ordinario). Il diritto a fronte dell’esercizio del potere amministrativo non degrada in alcunché: semplicemente non si pone come situazione soggettiva; e la ragione di ciò è di mero diritto positivo. Specie di poteri amministrativi. L’attività amministrativa si estrinseca in quanto attività giuridica secondo un modulo tipico che consiste nell’esercizio dei poteri amministrativi in senso tecnico. Il modulo tipico è assoggettato, sia sul piano sostanziale che sul piano della tutela, ad una disciplina generale. Detta disciplina generale non copre tutta l’area dell’attività giuridica delle organizzazioni pubbliche, che esse svolgono anche nei loro “rami alti” (organi a titolarità politica: Governo della Repubblica, ministri, etc.) funzioni propriamente politiche. In genere queste funzioni non si esprimono nell’esercizio di poteri produttivi di determinati effetti nell’ambito della sfera soggettiva di terzi (ma questo può accadere). Il t.u. Cons. St. esclude l’impugnabilità in sede giurisdizionale di atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. La norma è di dubbia vigenza nell’ordinamento costituzionale, nel quale contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (113). Secondo la dottrina tradizionale, atti politici sono quelli che hanno la loro causa nella suprema direzione degli interessi generali dello Stato. La giurisprudenza afferma che è atto politico, come tale sottratto al sindacato del giudice amministrativo, quello che impinge negli interessi supremi dello Stato o in situazioni contingenti che possono turbare la vita del Paese ed il funzionamento dell’ordine interno od internazionale. Di recente si è affermato che alla nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l’uno soggettivo, l’altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di atto o provvedimento emanato dal governo, e cioè dell’autorità amministrativa cui compete anche la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica, dall’altro che si tratti di atto o provvedimento emanato nell’esercizio di potere politico anziché nell’esercizio di attività meramente amministrativa. La qualificazione viene esclusa a proposito di atti nei quali una causa o motivo politico può essere riscontrato: ad es. il provvedimento di scioglimento di un movimento politico e di confisca dei suoi beni. Natura di vero e proprio atto politico è stata riscontrata nel decreto ministeriale di estradizione che abbia a presupposto giuridico un trattato, o che avvenga nell’ambito di più generali finalità di collaborazione fra Stati per la prevenzione della delinquenza comune.
Al di là della limitata aera dei poteri (e degli atti) politici, le attività amministrative, si manifestino attraverso atti puntuali o attraverso atti generali, normativi e non, sono disciplinate per regola secondo un modulo tipico, quello dell’esercizio del potere. È questione di diritto positivo stabilire l’estensione dell’area coperta da questo modulo. In genere, il potere amministrativo come capacità speciale che si esercita mediante l’adozione di determinati atti come strumento di cura concreta di interessi pubblici è costruito dalla legge imputando all’Amministrazione un ambito più o meno ampio di scelta circa determinati aspetti delle misure da prendere in concreto a fronte di un definito assetto degli interessi in gioco. In tali casi il potere amministrativo è potere discrezionale, all’Amministrazione con il potere è stato attribuito un compito di cura di interessi pubblici con spazio di determinazione propria, ed autonoma se si vuole (ma non è autonomia in senso tecnico), cioè non predeterminato dalla legge. Il modello di potere amministrativo considerato tipico è quello del potere discrezionale. Esiste un’ampia serie di poteri amministrativi, dotati anch’essi delle caratteristiche strutturali che si sono indicate (l’imperatività dei relativi atti), che discrezionali non sono (poteri non discrezionali), perché il relativo esercizio non dà luogo ad alcuna possibilità di scelta a fronte di un determinato assetto di interessi in gioco, ma dà luogo ad una mera attività attuativa della legge: attività che a volte può anche essere assai complessa, come nei casi di c.d. discrezionalità tecnica, ma che si estrinseca sempre nell’acclaramento di elementi della realtà. Ad es. la commissione d’esame deve acclarare la preparazione tecnica del candidato al fine di assumere la decisione circa la sua idoneità: si tratta di un’attività nel cui compimento alla commissione non è consentita alcuna scelta circa l’assetto degli interessi pubblici in gioco, essa è tenuta esclusivamente all’acclaramento di un fatto predeterminato dalla legge (la preparazione tecnica del candidato). I poteri amministrativi non discrezionali sono assoggettati alla medesima disciplina dettata per i poteri discrezionali nella parte applicabile: cioè nella parte non attinente all’esercizio della discrezionalità ed ai vizi che di essa sono propri (quelli accomunati nella nozione di eccesso di potere). Gli atti nei quali si esprimono e che producono i relativi effetti possono essere adottati esclusivamente dall’autorità amministrativa e non possono essere sostituiti nella produzione dei loro effetti tipici da sentenza o da altro provvedimento dell’autorità giurisdizionale secondo lo schema della tutela dei diritti: anche ad essi si estende la nozione di imperatività, come attitudine esclusiva alla produzione del bene e perciò degli effetti giuridici. Così, per stare all’esempio di cui sopra, il bene giuridico che l’attività è in grado di produrre (la qualificazione dell’idoneità del candidato) non può essere sostituito da alcun provvedimento di altra autorità e segnatamente di quella giurisdizionale. Lo stesso concetto si può anche esprimere dicendo che in questi casi non esiste in capo al soggetto terzo un diritto ad ottenere dall’Amministrazione il bene; la situazione soggettiva del terzo è costruita dalla legge non come diritto, ma come interesse. La distinzione tra poteri discrezionali e non discrezionali non rileva in ordine agli effetti prodotti dai relativi atti giuridici ed alle reciproche posizioni dei soggetti coinvolti nel rapporto (portatori di interessi legittimi). L’agire amministrativo non discrezionale – a parte l’area dei poteri certificativi – non sempre si estrinseca nell’esercizio di poteri (è un problema di interpretazione stabilire in quali casi si tratta di esercizio di potere ed in quali non): spesso si estrinseca in atti dotati di efficacia meramente dichiarativa (atti dichiarativi) e non costitutiva, perciò non dotati di quella caratteristica di essere capaci in via esclusiva alla produzione degli effetti nella sfera giuridica di soggetti terzi.
Questi atti meramente dichiarativi a volte sono assunti dall’Amministrazione nell’ambito di rapporti di diritto comune; come atti di adempimento di obblighi stabiliti dalla legge, o da altra fonte, negoziale o provvedimentale: questi atti sono ascrivibili all’ambito dei rapporti di diritto comune, ed esulano dall’ambito dell’attività amministrativa di diritto pubblico. Viceversa, atti amministrativi dichiarativi possono darsi a prescindere da rapporti di diritto comune, a scopi diversi, in genere intesi a definire l’ambito oggettivo o soggettivo concernente l’esercizio di determinate funzioni. Ad es. hanno efficacia dichiarativa gli atti di delimitazione del demanio pubblico (ad es. del demanio marittimo: spiagge, arenili), che pur non essendo capaci di costituire la proprietà pubblica su dette porzioni territoriali servono a definire l’ambito spaziale nel quale la competente Amministrazione è chiamata a svolgere i suoi compiti stabiliti dalla legge in ordine al demanio marittimo. Questi atti dichiarativi e relativi procedimenti non producono alcun effetto modificativo od estintivo verso diritti di terzi, e perciò se vi sono in concreto presupposti per la tutela dei diritti stessi, questa rimane integra e segue gli schemi del diritto processuale comune. Ad es. il proprietario di terreno prospiciente l’arenile demaniale che erroneamente è stato inserito in quest’ultimo in sede di delimitazione si limiterà a chiedere la correzione, ed in mancanza di questa potrà chiedere al giudice ordinario l’accertamento della sua proprietà senza che l’atto di delimitazione sortisca nella vicenda alcun effetto. Viceversa, in ordine al procedimento non è da escludere l’applicazione della disciplina generale (dettata per l’esercizio di poteri amministrativi in senso tecnico) perché le esigenze cui detta disciplina è intesa possono anche rinvenirsi in ordine all’assunzione di atti meramente dichiarativi. L’azione amministrativa mediante esercizio di poteri – discrezionali e non – costituisce la parte più tipica dell’attività amministrativa di diritto pubblico. Vi sono manifestazioni dell’azione amministrativa disciplinate anch’esse da normazione pubblicistica e costituenti funzioni (anche sotto il profilo penalistico: 357 c.p.: Nozione del pubblico ufficiale) ma differenziate rispetto a quelle tipiche sotto il profilo della disciplina amministrativa applicabile, sia quella sostanziale che quella concernente la tutela: si tratta delle attività lato sensu certificative (poteri certificativi) qualificate dal loro effetto che è la costituzione di un fatto di certezza pubblica. Ancora, nel vigente ordinamento funzioni di governo della comunità nazionale italiana non sono attribuite solo ad autorità nazionali italiane ma anche ad autorità sovranazionali (od interstatuali), e cioè agli organi delle Comunità europee. Le funzioni di governo esercitate da questi organi constano principalmente di atti di tipo normativo o programmatico, tuttavia gli organi comunitari esercitano le loro funzioni di governo anche mediante poteri amministrativi ad essi direttamente imputati ed incidenti con effetti giuridici in capo a soggetti dell’ordinamento italiano (ivi compresi lo Stato stesso): in tali casi ci troviamo di fronte a veri e propri poteri amministrativi in senso tecnico, imputati ad autorità comunitarie, le quali sono soggette nel loro agire alla disciplina giuridica di fonte comunitaria. L’individuazione (in via preliminare) dell’area delle attività di diritto pubblico comporta un problema: quello di stabilire se tali attività necessariamente consistano (dell’esercizio) di poteri imputati ad un’autorità amministrativa, ovvero possano anche consistere di atti emanati da soggetti privati nell’ambito di rapporti giuridici disciplinati da leggi amministrative. Con la sentenza Cass. S.U. 12221/1990 è stato riconosciuto il carattere di atti amministrativi degli atti emanati dal concessionario (impresa privata) di opere pubbliche nell’aggiudicazione di appalti di lavori a soggetti terzi.
Il concessionario agisce in questi tipi di rapporti come organo indiretto della p.a., ed è tenuto ad applicare le regole di carattere procedimentali e sostanziale proprie dell’azione amministrativa: in conseguenza i suoi atti sono soggetti alla tutela giurisdizionale amministrativa. Ultimamente, la Cassazione ha definitivamente affermato l’irrilevanza ai fini di determinare la giurisdizione amministrativa sui relativi atti, della natura del soggetto emanante. Il Consiglio di Stato ha affermato il carattere di atti amministrativi emanati da soggetto privato anche non legato da rapporto concessorio con la p.a., purché agente nell’ambito di un programma di lavori di rilievo pubblico (nella specie, le opere del Giubileo) e finanziato in parte rilevante con mezzi pubblici. L’agire amministrativo secondo il modulo dell’esercizio del potere è retto dal principio di legalità, da intendere come esigenza della previsione normativa del potere stesso come quello imputato ad una determinata autorità e connotato, anche sul piano procedimentale, per il contenuto e gli effetti (tipicità dei poteri e degli atti amministrativi). Ancora, l’agire amministrativo secondo il modulo dell’esercizio del potere (discrezionale) dà luogo ad attività giuridica non libera ma vincolata nel fine o funzionalizzata, come attività posta in essere nell’interesse pubblico. Attività esercitata in posizione di discrezionalità significa che il soggetto agente, pur negli spazi lasciati aperti alla sua determinazione dalla disciplina di legge, non può riempire questi spazi liberamente, ma seguendo determinati criteri (nei quali consiste appunto la discrezionalità) atti ad assicurare il perseguimento del fine (l’interesse pubblico) imposto alla sua azione. Il carattere ulteriore ha questo “vincolo” rispetto a quello rappresentato dalla (mera) legalità dell’azione amministrativa, intesa come esigenza del rispetto (puntuale e rigido) della normativa relativa a ciascun potere amministrativo: il rispetto della normativa non assicura il perseguimento in concreto del fine di interesse pubblico. Tutta l’area dell’attività amministrativa di diritto pubblico si caratterizza per il fatto tecnico di essere assoggettata a disciplina generale comune: detta disciplina consta essenzialmente di una serie di istituti, che costituiscono nel loro insieme lo statuto giuridico dell’attività amministrativa di diritto pubblico. Essi possono così indicarsi: - l’esercizio in concreto del potere, negli spazi di scelta lasciati liberi dalla legge (laddove si tratti di potere discrezionale), avviene secondo la disciplina della discrezionalità e non dell’autonomia, secondo un modello che designa un ambito di scelta positivamente limitato (vincolato nel fine) e non libero; - l’esercizio in concreto del potere è soggetto alla rigida applicazione di tutte le norme giuridiche che lo concernono (legalità dell’azione amministrativa); - i principali atti nei quali il potere si esprime sono sottoposti ad un’istanza amministrativa di controllo, esercitata da un organo esterno rispetto all’Amministrazione agente, ed avente ad oggetto, in principio e salve eccezioni, la legittimità degli atti stessi, da intendersi in prima approssimazione come conformità dell’atto alla normativa che lo concerne; - l’efficacia degli atti stessi (produzione in concreto degli effetti) è condizionata dall’esito positivo di tali procedimenti di controllo; - una volta divenuti efficaci (esecutivi) ed entrati nella sfera di conoscibilità di soggetti terzi destinatari o comunque interessati, possono essere impugnati da parte di questi davanti agli organi della giurisdizione amministrativa chiedendone l’annullamento per vizi di legittimità, mentre non possono esser conosciuti, e se illegittimi disapplicati, ma non annullati, da parte degli organi della giurisdizione ordinaria;
- gli atti stessi, pur perfezionatisi e divenuti efficaci, possono essere oggetto di riesame da parte dell’Amministrazione, nell’ambito del quale, ove risulti accertata l’illegittimità degli atti ovvero la loro inopportunità a fronte di determinati assetti di interessi pubblici, possono essere annullati ovvero oggetto di altre misure caducatorie (principio di autotutela). La ripetuta affermazione costituzionale circa il principio di azionabilità (24.1: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi; 113.1: Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa) sancisce, senza eccezioni, la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione. Nel nostro sistema il principio di legalità vige quanto meno nel senso più lato della soggezione alla legge (normativa) dell’attività amministrativa. Resta aperta la questione se il principio di legalità inteso come quello che afferma la tipicità dei poteri e degli atti amministrativi si estenda a tutti questi ovvero solo a quelli c.d. ablatori (per i quali è costituzionalmente sancito). Dalla giurisprudenza il principio è costantemente ritenuto vigente, e su di esso è costruito un vizio tipico degli atti amministrativi (la carenza di potere). Al 97 la Costituzione dispone che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge (riserva di legge relativa), in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Il principio di buon andamento sul piano dell’attività deve intendersi come esigenza di buona amministrazione. Viene dunque affermato dal testo costituzionale che l’Amministrazione è un’organizzazione servente la collettività. L’imparzialità dell’amministrazione appare un’ulteriore ripetizione di quanto appena detto: agire imparzialmente significa agire nell’interesse collettivo, non di singoli o di gruppi privilegiati rispetto ad altri. Concrete applicazioni del principio di imparzialità attengono al versante dell’imputazione delle funzioni e si traducono nell’esigenza che determinate funzioni siano attribuite ad organi a titolarità non politica, ma professionale, e che in settori di amministrazione attiva nei quali siano predominanti funzioni di regolazione vengano istituite apposite Amministrazioni indipendenti dal potere politico, dagli organi a titolarità politica. Del tutto differenziati dai poteri amministrativi in senso tecnico sono i c.d. poteri certificativi. I poteri certificativi sono caratterizzati dal tipo di atti nei quali si esprimono: gli atti di certezza pubblica. Questi sono molto simili nel contenuto strutturale agli atti (o provvedimenti) amministrativi non discrezionali, ma da essi si distinguono: gli atti di certezza pubblica hanno una funzione servente di altri atti (o fatti o rapporti) di per se stessi produttivi di effetti, e sono intesi a conferire a questi una particolare qualità giuridica che viene denominata certezza. La certezza è una qualità giuridica che consiste in ciò, che l’atto (o il fatto o il rapporto) del quale il primo è servente viene considerato, a tutti gli effetti giuridici, come avvenuto, sino a che lo stesso atto di certezza non venga demolito attraverso un particolare procedimento previsto dalla legge. In questi limiti, gli atti di certezza possono essere ascritti agli atti di accertamento in senso tecnico. Nel codice civile si contempla la nozione di atto pubblico come quel documento redatto da pubblico ufficiale (che può essere un pubblico agente od un privato esercente munera, come il
notaio) cui la funzione è espressamente conferita dalla legge, nelle forme e con le modalità di legge, che fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. La querela di falso indica lo speciale procedimento giurisdizionale previsto per la demolizione dell’atto pubblico: al fine di accertarne la falsità (o la non verità: quanto attestato dal pubblico ufficiale nel documento non è avvenuto o è avvenuto in modo diverso). Gli atti di certezza afferenti i rapporti interprivati, nell’ambito della c.d. amministrazione pubblica del diritto privato, sono di tre specie: stipulazioni in forma pubblica di negozi privati; pubblici registri; certificazioni. Quanto alla prima specie, i contratti e gli altri negozi giuridici privati possono (in qualche caso devono) essere stipulati in forma pubblica, cioè alla presenza di pubblico ufficiale (notaio o altro ufficiale c.d. rogante) espressamente legittimato alla funzione, il quale riceve l’atto od il negozio, che avviene in sua presenza, e ne dà attestazione espressa producendo in ordine al fatto negoziale l’effetto di certezza pubblica. I pubblici registri sono libri, o raccolte di schede cartacee od informatiche, tenuti da uffici appositamente predisposti, ed aperti alla pubblica consultazione. In essi i pubblici ufficiali responsabili iscrivono gli atti previsti dalla legge come oggetto di pubblicità. L’iscrizione nel registro produce effetto di certezza pubblica (di ciò che l’ufficiale pubblico attesta essere avvenuto alla sua presenza o da lui compiuto). Del registro vengono rilasciati, a richiesta, estratti e certificati che a loro volta costituiscono atti di certezza. I più importanti tra tali pubblici registri sono: i registri dello stato civile (registri di cittadinanza, registri di nascita, registri di matrimonio, registri di morte) sui quali sono iscritti gli atti o i fatti previsti dalla legge concernenti le persone fisiche; i registri di popolazione (anagrafe); i registri delle persone giuridiche e delle imprese; i registri immobiliari, dove vengono trascritti od iscritti determinati atti costitutivi di diritti su cose immobili; i registri dei beni immobili concernenti alcune categorie di detti beni; etc. Le certificazioni sono atti a contenuto singolare mediante i quali il pubblico ufficiale competente attesta un determinato fatto od atto avvenuto ala sua presenza o risultante dalla documentazione in possesso degli uffici. Gli atti di certezza pubblica concernenti la c.d. amministrazione pubblica del diritto privato sono soggetti al regime della tutela per querela di falso, e per quanto concerne altre manifestazioni di invalidità sono soggetti alla tutela comune (al diritto processuale comune). La funzione servente degli atti di certezza fa si che essi seguono la sorte, e perciò il regime giuridico, degli atti e dei rapporti sottostanti. Vi sono ancora atti di certezza pubblica non afferenti a rapporti interprivati, ma connessi con l’esercizio di funzioni amministrativi sostanziali. Anzitutto, un aspetto certificativi può essere presente in tutti i provvedimenti amministrativi ed anche in atti procedimentali. Il regime giuridico di questi provvedimenti, od atti procedimentali, che hanno anche contenuto di atti di certezza, è duplice: in quanto provvedimenti, o comunque atti di esercizio di funzioni amministrative in senso sostanziale, essi sono soggetti al regime proprio degli attiamministrativi; e perciò ad esempio l’impugnazione della deliberazione di organo collegiale per qualsiasi profilo di invalidità segue il regime della tutela proprio dei provvedimenti amministrativi.
Mentre se si intende contestare la veridicità del verbale, occorre seguire il procedimento giurisdizionale della querela di falso, mediante il quale soltanto può essere demolito il verbale stesso come atto di certezza. La discrezionalità nell’esercizio del potere. Il potere discrezionale si caratterizza per il contenuto aperto della fattispecie legale che lo pone. Il problema che sta alla base della costruzione della teoria della discrezionalità è quello di evitare l’arbitrio nelle scelte dell’autorità, sempre possibile pur nel rispetto formale della legge (il problema della legittimità sostanziale). Il concetto fondamentale che bisogna mettere a fuoco è quello della funzionalizzazione del potere amministrativo: il potere amministrativo, pur negli spazi aperti della relativa disciplina di legge, non è libero ma vincolato nei fini (dove il fine è rappresentato dall’interesse pubblico fissato dalla legge). Dire “vincolato nel fine” (o “nei fini”) a proposito dell’esercizio del potere presuppone che si tratta di un agire non interamente vincolato, ed anche parzialmente libero. Prendiamo in considerazione due esempi legislativi: “le miniere possono essere coltivate soltanto da chi ne abbia avuto la concessione”; “la concessione di una miniera può essere fatta a chi abbia, a giudizio […] del ministro dell’industria, la idoneità tecnica ed economica a condurre l’impresa” (l. mineraria); la concessione mineraria è successivamente definita nel suo contenuto e nei suoi effetti; l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una grande struttura di vendita, sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal comune competente per territorio (d. lgs. 114/1998). Queste norme sono attributive di poteri amministrativi discrezionali a determinate autorità amministrative. Le norme individuano l’autorità competente, individuano il contenuto strutturale degli atti nei quali il potere si esprime, dettano determinati adempimenti procedurali e formali, ma lasciano uno spazio latissimo, aperto alle scelte dell’autorità competente. Ma l’esercizio del potere amministrativo non è libero ma vincolato nel fine. Il primo problema che si presenta nell’esercizio del potere è dunque quello dell’individuazione del fine, cioè dell’interesse pubblico che attraverso l’esercizio del potere deve essere specificamente perseguito. In via primaria, può (e deve) essere identificato l’interesse pubblico per la cui cura è stabilito il relativo potere (c.d. interesse primario). Non sempre esso è chiaramente individuato dalla norma attributiva del potere; anzi in genere non lo è. Ma si ricava da tutto il contesto normativo nel quale la norma è inserita. Per rifarci agli esempi sopra riportati, il fine primario del potere di concessione mineraria è nell’interesse allo sviluppo industriale del Paese. Nei poteri a contenuto molto complesso (si pensi ad es. a quelli di pianificazione territoriale) il fine primario si articola invero in fini plurimi, egualmente primari, che debbono coesistere. Ed ancora, alcuni poteri son attribuiti (dichiaratamente, dalla legge) per il perseguimento di fini diversi (un unico modulo strutturale si presta a più utilizzazioni funzionali): il potere di dichiarazione di pubblica utilità ed il conseguente potere di espropriazione può essere utilizzato per la realizzazione di un ospedale, di una strada, etc. La cura dell’interesse primario coinvolge una serie di interessi – pubblici, collettivi, privati – dei quali l’autorità nel suo agire deve tenere conto (interessi che appaiono come secondari).
Per es. in ogni scelta dell’autorità è coinvolto un interesse di carattere finanziario, dunque bisogna vedere se la scelta è compatibile con la situazione finanziaria dell’ente, sia in se stessa sia con riferimento agli altri interessi pubblici che l’ente pur deve curare. Ancora, in ogni scelta che ha ad oggetto interventi sul territorio sono sempre coinvolti interessi ambientali, ed in genere anche interessi sanitari; a volte culturali (si pensi: la realizzazione di un impianto industriale nei pressi di un insediamento medioevale). Vi sono poi interessi di natura privata che spesso vengono sacrificati dall’esercizio del potere – il privato proprietario che viene espropriato, il vicino del fondo sul quale viene autorizzata la costruzione di un edificio, etc. – e che vanno considerati come quelli che compongono la complessa situazione reale nella quale l’esercizio del potere va ad incidere. L’interesse privato, secondo il costante insegnamento giurisprudenziale, può essere legittimamente sacrificato, negli stretti limiti in cui ciò sia necessario per il soddisfacimento dell’interesse pubblico. Il carattere funzionalizzato del potere amministrativo, il suo essere vincolato nel fine (interesse pubblico), si esprime nell’esigenza dell’identificazione in concreto dell’interesse da perseguire, come quello che risulta corrispondente all’interesse primario fissato dalla norma quale rapportato al complessivo assetto degli interessi in gioco nella situazione concreta (interesse pubblico concreto). Questa enunciazione pur fondamentale non esaurisce la discrezionalità come ambito di scelta nell’esercizio del potere. Si evidenzia infatti una seconda enunciazione: l’individuazione dell’interesse pubblico concreto nel quale si esprime la scelta nell’ambito lasciato aperto dalla norma deve avvenire secondo criteri di ragionevolezza: la scelta deve essere conseguenziale sul piano logico rispetto alle premesse costituite dai dati evidenziati nella situazione concreta. Ciò rende i motivi dell’azione amministrativa concreta, a differenza che nell’azione giuridica di diritto comune, sempre rilevanti giuridicamente, come quelli che svelano i fini effettivamente perseguiti e consentono di valutarne la legittimità. L’individuazione in concreto del grado di massimizzazione dell’interesse primario a fronte degli interessi secondari emersi deve essere conseguenziale rispetto ai dati. Il criterio di ragionevolezza si articola in un’analisi in concreto delle scelte effettuate in sede di esercizio del potere. Il criterio si evidenzia ancora in due corollari: l’Amministrazione è tenuta ad acquisire nella loro completezza ed a valutare con il massimo approfondimento (in fatto e in diritto) tutti gli interessi (pubblici, collettivi, privati) presenti nella situazione concreta nella quale l’esercizio del potere va ad incidere, in quanto tali (principio della necessaria acquisizione degli interessi); l’Amministrazione è tenuta a valutare comparativamente tra loro gli interessi stessi, ed a soddisfare l’interesse primario la cui cura è ad essa attribuita, nonché a determinare i contenuti e le modalità della soddisfazione di detto interesse, se detta soddisfazione non sacrifichi, o non sacrifichi al di là di certi limiti, gli altri interessi in gioco (principio della valutazione comparativa degli interessi). L’altra esigenza sancita come principio costituzionale (97) dell’imparzialità significa trattamento omogeneo di situazioni omogenee (salve particolari e motivate ragioni che impongono un trattamento differenziato); il principio di imparzialità a volte si traduce in giustizia sostanziale, che attiene propriamente al risultato concreto dell’azione amministrativa come quello che comunque non deve produrre situazioni di palese ingiustizia in capo a singoli soggetti.
La scelta può vertere sull’an e cioè vertere sul punto se adottare o meno un determinato provvedimento; sul quid e sul quomodo laddove verte, una volta deciso di adottare il provvedimento, sul contenuto concreto e sulle modalità applicative ed esecutive dello stesso; sul quando, laddove verte intorno al momento nel quale adottare il provvedimento o nel quale (o dal quale) farne verificare gli effetti. Fin dove le norme prescrivono (e le prescrizioni possono investire l’an, il quando, etc.) non c’è possibilità di scelta; dove le norme tacciono si estrinseca la scelta, ed essa si deve estrinsecare secondo i principi enunciati. L’ambito di scelta rimasto libero viene designato con la dizione gergale di merito amministrativo. “Merito” nell’uso generale indica il grado di fondatezza intrinseca di una pretesa fatta valere in giudizio, nonché il contenuto stesso di una tale pretesa (si parla di merito della causa, della pretesa, etc.). In diritto amministrativo “merito” indica più nozioni: merito come contrapposto a discrezionalità; merito come contrapposto a legittimità; giurisdizione di merito distinta dalla giurisdizione di legittimità: i tre luoghi nei quali emerge la nozione di merito suppongono sempre una nozione di merito amministrativo, nozione che indica l’ambito della libertà di scelta insito in ogni esercizio di potere amministrativo. Pur nell’ambito del fine perseguito, pur nell’ambito dell’esigenza di ragionevolezza dell’agire, all’Amministrazione si presenteranno sempre più scelte concrete nell’ambito delle quali essa potrà muoversi con libertà: preferire l’una o l’altra diventa questione di merito. La concessione di un bene o servizio pubblico all’una o all’altra ditta richiedente, tra alcune dotate della stessa idoneità tecnica ed economica, della stessa esperienza nel settore, etc., è questione di merito. Anche questa scelta finale tra più possibili e tutte ragionevoli è una scelta che deve essere motivata, ma tale motivo attiene al merito, cioè non può essere oggetto di sindacato. L’individuazione del merito serve proprio a ciò, ad escludere tale ambito dal sindacato esterno (segnatamente del giudice) cui tutta l’attività amministrativa è sottoposta. Ché il sindacato consiste in principio (salvi i casi in cui la legge espressamente prevede un sindacato di merito) nella valutazione della conformità alla legge di una determinata manifestazione dell’azione amministrativa; del corretto esercizio in concreto della discrezionalità amministrativa (perseguimento del fine, ragionevolezza dell’agire): è sindacato di legittimità. La distinzione tra discrezionalità e merito, dunque, indica quella tra ambito conoscibile (sindacabile) ed ambito non sindacabile (e perciò in principio libero) dell’agire amministrativo. Si sono definiti sopra i poteri amministrativi non discrezionali, caratterizzati in termini positivi dagli elementi strutturali propri del potere amministrativo (esclusività dell’attribuzione, imperatività degli effetti), ed in termini negativi dal fatto che il loro esercizio in concreto non comporta discrezionalità. Nell’ambito dell’amministrazione attiva o finale l’area coperta dai poteri non discrezionali investe tutte quelle manifestazioni dell’azione amministrativa che consistono di attività meramente conoscitive, intese all’acclaramento di qualità o caratteristiche di persone, di cose, di rapporti, così come esse si evidenziano nella realtà. Il risultato di queste attività conoscitive (di acclaramento) è versato in atti giuridici produttivi di effetti che sono stabiliti dalla legge. La commissione di laurea compie in ordine al candidato un giudizio di natura tecnico valutativa circa la sua preparazione nelle discipline d’esame; compie dunque un’attività conoscitiva e di
acclaramento su una determinata situazione reale (la preparazione del candidato) ed il risultato di quest’attività versa in un atto (il verbale dell’esame di laurea). Da questo atto, la legge fa derivare la produzione degli effetti: il candidato assume la qualifica di dottore in quella certa disciplina, con la quale acquista la facoltà di accedere a determinate professioni, etc. Nell’ambito dell’amministrazione strumentale, si segnala tutta la vasta area dei poteri amministrativi di controllo, aventi ad oggetto l’acclaramento della legittimità di atti amministrativi: quindi ancora l’acclaramento di un fatto che consiste a sua volta nella qualità giuridica di un atto. Ed anche qui, dall’esito di tale acclaramento la legge fa derivare determinati effetti (in ordine ai procedimenti di controllo). L’esercizio dei poteri amministrativi non discrezionali a volte ha ad oggetto l’acclaramento di fatti complessi che richiede l’uso di discipline tecniche specialistiche: l’acclaramento della preparazione del candidato all’esame di laurea necessita in capo alla commissione il possesso delle conoscenze scientifiche nella relativa materia. Ed ancora, l’acclaramento di fatti complessi con la connessa necessità di uso di discipline tecniche specialistiche si verifica nell’ambito del procedimento per l’esercizio dei poteri discrezionali; ciò avviene in molteplici manifestazioni dell’azione amministrativa discrezionale, per la quale occorre il previo acclaramento di una realtà complessa: si pensi alle discipline ingegneristiche e di calcolo nella realizzazione delle opere pubbliche, alle discipline geognostiche, idrauliche, architettoniche, nella gran parte degli interventi territoriali, etc. Sempre più spesso l’Amministrazione, per conoscere il reale sul quale operare, non può limitarsi ad una mera percezione, semplice ed immediata dei dati, agibile da parte di qualunque operatore di media preparazione ed intelligenza; ma viceversa ha bisogno dell’apporto e dell’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche. La conoscenza del reale, ciò che rende necessario, laddove il reale è complesso, l’uso di discipline tecniche, è imposta al di là delle stesse prescrizioni di legge dai principi di ragionevolezza dell’agire; ma spesso è la stessa legge che impone l’applicazione di discipline tecniche al fine dell’esercizio di determinati poteri. Ad es. l’imposizione del vincolo di interesse artistico e storico: si tratta di attività di carattere valutativo intesa alla formulazione di un giudizio sulla particolare rilevanza artistica o storica di un bene (mobile od immobile); tale giudizio, a contenuto eminentemente tecnico (che implica l’uso di nozioni storiche, artistiche, archeologiche, etc.) costituisce il presupposto per l’adozione del decreto ministeriale di vincolo nei confronti del bene e cioè per l’adozione di un provvedimento amministrativo di tipo ablatorio. A fronte di queste manifestazioni dell’azione amministrativa, che si esprimono nell’esercizio di poteri amministrativi non discrezionali ovvero in atti inseriti a loro volta nell’ambito di procedimenti esercizio di poteri discrezionali, è stata elaborata in giurisprudenza la dottrina della discrezionalità tecnica: essa attiene al sindacato (giurisdizionale) sull’azione amministrativa. S’è detto che l’Amministrazione nel suo agire è tenuta ad applicare la legge (principio di legalità in senso stretto), e che, anche indipendentemente da specifiche prescrizioni di legge, l’Amministrazione è tenuta comunque a conoscere il reale (semplice o complesso che sia) sul quale viene ad incidere la sua azione in concreto (è l’esigenza minima imposta dal principio della ragionevolezza dell’agire amministrativo). In ordine alle attività consistenti in acclaramenti tecnicamente complessi, l’Amministrazione è sempre e comunque tenuta alla mera esecuzione delle prescrizioni di legge: essa non si muove in posizione di discrezionalità.
Se questo è vero, deve derivarne la conseguenza che, in sede di sindacato sull’esercizio del potere, le attività tecniche poste in essere dall’Amministrazione possano essere riesaminate dall’autorità che esercita il sindacato stesso con i mezzi (tecnici e procedurali) che la legge prevede, al fine di vagliarne l’attendibilità. L’autorità che esercita il sindacato valuta la correttezza tecnica dell’attività compiuta dall’Amministrazione. Su questo punto emerge la dottrina della discrezionalità tecnica. Nei casi in cui la legge prescrive all’Amministrazione attività di acclaramento del reale tecnicamente complesse che importano l’uso di discipline specialistiche, ovvero laddove codesti acclaramenti sono comunque necessari al fine dell’esercizio del potere, questa dottrina ritiene attribuito all’Amministrazione un vero e proprio potere discrezionale (a contenuto tecnico). Il che significa: nel compimento degli acclaramenti tecnici, l’Amministrazione non è semplicemente tenuta alla mera esecuzione della legge (come di fronte a tutte le prescrizioni normative) ma si muove in un ambito di discrezionalità; tale ambito è conoscibile dall’esterno ai fini del sindacato (segnatamente da parte del giudice) solo nei limiti posti dall’esigenza di ragionevolezza dell’agire: il giudice (od altra autorità chiamata al sindacato dell’azione amministrativa) non può valutare ex novo gli acclaramenti tecnici compiuti dall’Amministrazione (la veridicità degli stessi) come viceversa valuta gli acclaramenti di fatti semplici, ma si limita a valutarne la ragionevolezza, a sindacarli cioè dall’esterno nella loro formulazione (che siano ben motivati, che non vi siano contraddizioni interne, etc.). In virtù di codesta giurisprudenza, gli acclaramenti tecnicamente complessi dell’Amministrazione vengono “trattati” come se fossero valutazioni discrezionali. Un diverso orientamento ritiene che, quando la norma tecnica contiene “concetti indeterminati”, i quali inducono ad “apprezzamenti opinabili”, la loro valutazione rientra nell’accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento amministrativo, e quindi attiene ad un sindacato sulla legittimità, che resta distinto dal giudizio di opportunità, e cioè dalla diretta valutazione dell’interesse pubblico perseguito in concreto dall’Amministrazione. In questa diversa ottica, che distingue le valutazioni tecniche da quelle di merito, si ammette la sindacabilità giurisdizionale delle prime, non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto al criterio tecnico ed al procedimento applicativo. Questa evoluzione della giurisprudenza è destinata a consolidarsi per effetto del recente intervento legislativo che ha previsto la consulenza tecnica tra i mezzi di prova ammessi nel giudizio amministrativo di legittimità. In sede civile ordinaria la nozione di discrezionalità tecnica è da ritenere superata: il giudice civile conosce, con la pienezza dei suoi strumenti istruttori, dell’attività tecnica compiuta dall’Amministrazione. In sede penale il problema neppure si pone. L’esercizio del potere e il procedimento amministrativo: premesse sul procedimento. Nei paragrafi precedenti il potere amministrativo s’è visto nel suo aspetto statico: come una capacità giuridica speciale attribuita all’autorità amministrativa dalla legge. L’esercizio del potere visto nel suo aspetto statico appare come un’astrazione, perché esso di regola si svolge attraverso un’attività articolata e complessa.
Il potere amministrativo si esercita attraverso un procedimento: per procedimento si intende una serie coordinata e collegata di atti e di fatti imputati ad organi e soggetti diversi tendenti nel loro insieme alla produzione di un effetto giuridico. La serie degli atti e dei fatti tra loro collegati costituisce una fattispecie giuridica in senso tecnico in quanto produttiva di effetti giuridici. La fattispecie trova sempre la sua definizione formale in un atto od in un fatto predeterminato dalla norma, al cui compimento è collegata direttamente la produzione degli effetti (di regola, il c.d. provvedimento). L’azione amministrativa, in misura più o meno estesa ed articolata, risulta sempre azione procedimentalizzato (principio del procedimento). Un qualsiasi atto della fattispecie, se viziato, produce l’invalidità giuridica della stessa, anche se sarà sempre il provvedimento, come quello produttivo degli effetti, che dovrà essere direttamente aggredito. Il principio del procedimento ha trovato pieno accoglimento nel nostro ordinamento positivo con la legge 241/1990. Il principio del procedimento può essere inteso in più sensi: anzitutto, esso descrive una caratteristica della legislazione amministrativa più recente che disciplina l’esercizio del potere attraverso procedimenti cui partecipano una pluralità di organi e soggetti pubblici: in questo primo senso il procedimento è un istituto o concetto con il quale si ordinano una serie di sparse previsioni normative. In un secondo senso, il principio del procedimento viene inteso come principio del giusto procedimento: ciò si può esprimere ponendosi la questione se, al di là di specifiche previsioni di legge, ogni esercizio del potere amministrativo, ovvero alcune manifestazioni di esercizio del potere amministrativo, debba essere preceduto da adempimenti procedimentali che consentano ai soggetti portatori di interessi sui quali l’esito del procedimento andrà ad incidere di partecipare avanzando istanze, osservazioni e proposte a tutela dei loro interessi medesimi. La giurisprudenza amministrativa dominante ha inteso attenersi ad un criterio legalistico e perciò ha ritenuto che gli adempimenti procedimentali necessari al fine della formazione di ogni singola fattispecie di potere amministrativo fossero quelli espressamente previsti dalla normativa. In un terzo senso, il principio del procedimento, o del giusto procedimento, è inteso come quello rilevante per il legislatore, la cui violazione può dare luogo alla illegittimità delle leggi. In sostanza, nelle materie coperte da riserva di legge, la mera previsione del potere amministrativo in capo ad un’autorità senza alcuna previsione procedimentale potrebbe apparire come una sostanziale elusione della riserva di legge stessa, visto che la norma si limiterebbe in sostanza ad un mero rinvio. Ma in tal senso il principio è stato ritenuto vincolante solo per il legislatore regionale, perché non avente rango costituzionale. Dei tre profili indicati, è il secondo quello che ci interessa: l’esigenza del procedimento come canone fondamentale dell’agire amministrativo, come forma della funzione amministrativa. Questa esigenza si estrinseca a sua volta in una duplice direzione: che l’azione amministrativa si articoli in una serie di adempimenti affinché meglio ed appieno possano essere assunti e valutati i fatti e gli interessi emersi nella situazione reale (esigenza di buon andamento); che l’azione amministrativa si eserciti anche attraverso la partecipazione degli interessi portatori di loro interessi soggettivi e particolari all’esito del procedimento (esigenza di imparzialità e di giustizia).
Vi è poi una terza direzione: quella che attraverso l’articolazione procedimentale dell’azione amministrativa venga reso più agevole il successivo controllo giurisdizionale della stessa (esigenza di legalità). Le regole fondamentali nelle quali si esprime il principio del procedimento sono due. La prima si può indicare come quella dell’avvio formalizzato e necessitato dell’esercizio del potere (apertura del procedimento). L’esercizio del potere in concreto avviene con l’apertura del relativo procedimento: “aprire la pratica”, si dice in linguaggio burocratico. Ciò significa, guardando al fenomeno dal punto di vista intersoggettivo, che da quel momento si instaura il rapporto giuridico di diritto pubblico coi soggetti terzi portatori di interessi legittimi in ordine all’oggetto (bene giuridico) di che trattasi. Le situazioni soggettive di interesse legittimo sorgono in capo a questi soggetti per effetto dell’apertura del procedimento. Guardando al fenomeno dal punto di vista amministrativo interno, od organizzativo, l’apertura del procedimento comporta che un determinato ufficio (o più uffici) dell’ente o dell’organizzazione cui il potere è attribuito assume su di sé il compito di seguire il procedimento, di predisporre tutti gli adempimenti necessari al fine dell’esercizio del potere (c.d. responsabile del procedimento). L’organizzazione cui il potere è attribuito viene denominata Amministrazione procedente, della quale non necessariamente fa parte l’organo cui formalmente è imputato l’atto nel quale l’esercizio del potere si conclude (autorità decidente in senso formale). L’Amministrazione procedente si identifica con quella cui istituzionalmente sono affidati gli interessi pubblici di che trattasi. Il carattere formalizzato e necessitato dell’apertura procedimentale significa che l’avvio dell’esercizio del potere non può essere causale, ma deve corrispondere o al verificarsi di specifiche condizioni di legge od al verificarsi (nell’assetto reale degli interessi) di una situazione tale da rendere necessario l’esercizio del potere. Il concretizzarsi di tali situazioni deve essere evidenziato all’esterno, cioè espresso in un atto o documento tale da poter essere verificato. Ancora, l’affermazione circa il carattere necessitato e formalizzato dell’apertura del procedimento significa che, una volta concretizzatesi le situazioni predette, il potere deve essere esercitato: non è più una facoltà dell’amministrazione, ma diventa un obbligo (obbligo di procedere). La seconda regola si può indicare come quella della necessaria istruttoria: una volta aperto il procedimento, devono essere acquisiti e valutati dall’Amministrazione procedente tutti gli elementi (di fatto e di diritto) della situazione reale dalla quale l’esercizio del potere è richiesto e sulla quale esso va ad incidere. Anche questa seconda regola comporta un’esigenza di evidenziazione esterna: l’acquisizione e la valutazione di tutti gli elementi della situazione reale viene evidenziata in atti e documenti che acquistano rilevanza esterna. La l. 241/1990 non contiene una disciplina generale dell’attività amministrativa di diritto pubblico, ma solo una disciplina generale del procedimento (oltre che dell’accesso ai documenti), cioè del momento della formazione del potere. In essa quindi è assente la disciplina della validità, dell’efficacia, dell’autotutela, discipline che continuano ad essere rette nel nostro ordinamento sostanzialmente da principi di formazione giurisprudenziale.
L’azione amministrativa diretta degli organi comunitari è a sua volta sottoposta ad una serie di principi concernenti il procedimento, anche se manca nell’ordinamento comunitario una disciplina normativa generale. Nell’esperienza italiana dopo una serie di tentativi andati a vuoto di predisporre discipline generali sull’attività amministrativa la problematica fu ripresa da una commissione di studio presieduta dal prof. Mario Nigro, costituita presso la Presidenza del Consiglio dal Governo Craxi. Questo testo (testo Nigro) fu trasfuso in un disegno di legge (Goria) che si è trasformato in legge con lievissime modificazioni. La legge, breve e di principi, abbisogna in molte sue parti, per la concreta applicazione, di una produzione normativa di dettaglio (regolamentare) sia da parte del Governo sia da parte delle singole Amministrazioni. La l. proc. amm. contiene l’enunciazione di alcuni principi generali dell’azione amministrativa, in larga misura ricalcati su quelli costituzionali. Anzitutto, sancisce che tutta l’attività amministrativa è funzionalizzata, sempre vincolata nei fini fissati dalla normazione positiva. Poi, detta i criteri fondamentali dell’azione amministrativa concreta, evidenziati nella economicità, nella efficacia, nella pubblicità. Circa l’economicità, essa esprime l’esigenza che l’azione amministrativa raggiunga i suoi scopi, produca i risultati di cura degli interessi pubblici assegnati dalla legge, col minore dispendio od impiego di mezzi: ciò che va inteso non solo nel senso di mezzi economici (minore dispendio di pubblico danaro), ma anche nel senso di mezzi procedurali. La norma afferma che l’Amministrazione non può “aggravare” il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria. L’affermazione significa sostanzialmente questo: al di là degli adempimenti procedimentali prescritti dalla normazione di specie, l’Amministrazione procedente può (e in alcuni casi deve) porre in essere o promuovere ogni altro adempimento (pareri, acclaramenti tecnici, ispezioni) necessario per la migliore cura degli interessi pubblici, dove siffatta necessità deve essere valutata in comparazione con l’esigenza di celerità e snellezza fissata dal principio. Il principio di economicità è stato svolto dalla normativa sulla c.d. semplificazione dei procedimenti. Efficacia nel senso del testo indica l’attitudine concreta dell’azione amministrativa a produrre i risultati pratici di cura (effettiva) degli interessi pubblici ad essa affidati (che è cosa diversa dall’attitudine, formalmente intesa, di un atto o di un fatto giuridico a produrre i suoi effetti: efficacia giuridica). Ed è cosa diversa dall’efficienza, che indica una nozione assai più ampia, in quanto riferita al funzionamento complessivo degli apparati amministrativi o di alcuni di essi. Circa la pubblicità, essa esprime la conoscibilità all’esterno dell’azione amministrativa (trasparenza). Il principio va inteso in duplice senso: in termini generali, esso esprime l’esigenza di conoscibilità e trasparenza di tutta l’attività amministrativa nei confronti della società civile nel suo complesso: gli atti e i documenti delle Amministrazioni pubbliche, salve specifiche esigenze di riservatezza, devono essere resi pubblici e devono essere accessibili a tutti gli interessati; ma il principi esprime anche un’esigenza di carattere più specifico, ed attinente propriamente al procedimento: quella cioè che l’esercizio in concreto del potere amministrativo attraverso il procedimento debba essere “aperto” a tutti gli interessati (principio della partecipazione), ai quali
deve essere comunicato l’avvio del procedimento, affinché possano presentare le loro osservazioni. Con alcune leggi sono stati introdotti criteri di semplificazione procedimentale, da attuarsi con regolamenti governativi delegati. Attraverso questa semplificazione viene attuata anzitutto un’estesa delegificazione dell’azione amministrativa, dequotando la fonte dei procedimenti contemplati dalla legge a quella regolamentare, anche per le successive modificazioni. I criteri di semplificazione concernono la razionalizzazione ed uniformazione (anche mediante accorpamento) dei procedimenti vertenti sui medesimi oggetti, la semplificazione procedimentale in senso stretto, cioè la riduzione delle fasi e degli adempimenti procedimentali e l’abbreviamento dei tempi, la liberalizzazione di attività private (eliminazione di controlli non necessari, estensione del silenzio assenso, etc.). L’apertura del procedimento può avvenire in due modi, a seconda del tipo di potere di cui trattasi: a richiesta di parte, ad iniziativa di ufficio. La l. proc. amm. distingue il caso in cui il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza dal caso in cui debba essere iniziato di ufficio. L’apertura del procedimento a richiesta di parte si verifica per i poteri amministrativi il cui esercizio in concreto è richiesto da un soggetto interessato (interesse legittimo pretensivo). In questi casi la richiesta del soggetto legittimato costituisce di per se stessa il necessario presupposto per l’avvio in concreto dell’esercizio del potere, cioè per l’apertura del procedimento. Tale richiesta è allo stesso tempo elemento necessario ma anche sufficiente per l’apertura del procedimento. Meno chiara si presenta la vicenda dell’apertura del procedimento ad iniziativa d’ufficio: si fa riferimento a quei poteri amministrativi previsti per curare interessi pubblici nella loro oggettività, prescindendo da ogni necessaria sollecitazione degli interessati. In questi casi l’Amministrazione, non appena si configura in concreto l’esigenza di cura dell’interesse pubblico, deve dare avvio all’esercizio del relativo potere, cioè aprire il relativo procedimento. Questo fatto costituisce presupposto necessario ma anche sufficiente per l’apertura del procedimento: in presenza di tale presupposto il procedimento deve essere aperto. Sia nei casi di domanda di parte che in quelli di iniziativa d’ufficio, il verificarsi in concreto dei presupposti produce in capo all’Amministrazione competente l’obbligo di procedere. Il 328 c.p. punisce come delitto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo. L’omissione dell’avvio del procedimento, se dovuta a dolo o colpa grave del funzionario, può dar luogo anche a responsabilità amministrativa rilevabile con azione di responsabilità davanti alla Corte dei conti. Sul piano civilistico, l’omissione di atti o di operazioni, al cui compimento l’impiegato (ogni agente pubblico, od esercente pubbliche funzioni) sia tenuto per legge o per regolamento può dar luogo ad una fattispecie di responsabilità civile a carico dell’agente stesso nei confronti del soggetto cui il comportamento omissivo abbia arrecato un danno. In tal caso, l’interessato deve far constatate l’inadempienza con atto di diffida notificato all’Amministrazione ed all’agente. La misura può essere usata non solo con riferimento all’iniziativa procedimentale, ma ad ogni altro atto del procedimento, e quindi anche a quelli della fase istruttoria, nonché della fase
decisoria; ed anche nei confronti dello stesso provvedimento formalmente inteso, dando luogo in tal caso al c.d. silenzio amministrativo. Ancora, l’inadempienza circa l’obbligo di procedere può dare luogo all’esercizio del c.d. potere sostitutivo: ciò significa che altra autorità si sostituisce all’inadempiente nell’attività dovuta, ponendo in essere gli atti necessari. L’avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi; nonché ai soggetti che siano individuati o facilmente individuabili alla cui sfera soggettiva dal provvedimento finale possa derivare un pregiudizio. Nell’individuazione dei soggetti cui deve essere comunicato l’avvio del procedimento, la norma segue i medesimi criteri indicati circa l’individuazione delle parti nei rapporti amministrativi a loro volta coincidenti con i portatori di interessi legittimi: parti necessarie, i primi, cioè quelli nella cui sfera soggettiva il provvedimento è destinato a produrre modificazioni giuridiche in senso tecnico (effetti diretti); parti eventuali, i secondi, quelli che in concreto, e di fatto, prescindendo dagli effetti giuridici in senso tecnico, possono subire un pregiudizio nella propria sfera di interessi. La norma pone un’eccezione all’obbligo generale di comunicazione: laddove sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento. In questa eccezione rientra l’esercizio dei c.d. poteri d’urgenza, sia tipici che atipici (ordinanze), che consentono all’autorità amministrativa di intervenire prontamente per evitare il pericolo di un grave danno. Sono c.d. provvedimenti (procedimenti) necessitati (Giannini) quelli che trovano in una causa d’urgenza il loro presupposto di fatto. La causa d’urgenza consiste in ciò, che si deve far fronte ad una situazione verificatasi nella realtà, senza indugio, immediatamente (nei limiti del possibile), esercitando determinati poteri (tipici: diverso è il caso delle ordinanze di necessità e d’urgenza). La causa d’urgenza (che deve risultare dall’atto e che deve essere di gravità tale da non consentire la comunicazione senza che risulti compromesso il soddisfacimento dell’interesse pubblico) comporta determinate deroghe al procedimento ordinario (ad es. in ordine alla competenza); in ordine alla necessità o meno di determinati adempimenti procedimentali; in ordine alla forma (ad es. la notificazione ai proprietari dell’interesse artistico e storico della cosa può essere fatta “oralmente” in casi “di grave urgenza”). Con riferimento alla disciplina generale della l. proc. amm., la causa d’urgenza comporta la non applicabilità della norma sulla “comunicazione”. La sussistenza della causa d’urgenza nella situazione concreta deve essere motivata ed è oggetto di sindacato di legittimità. In ogni caso la comunicazione dell’avvio del procedimento può essere preceduta od accompagnata da “provvedimenti cautelari” intesi “a conservare lo stato di cose attuali” (Chiovenda) nelle usure del procedimento. Altro problema è quello se la normativa sulla comunicazione si applichi necessariamente a tutti i procedimenti (salvala deroga appena ricordata) ovvero vi siano dei procedimenti che per loro natura non possano essere “comunicati”: esso si pone a proposito degli istituti di partecipazione procedimentale nel loro complesso. La prima giurisprudenza formata sulla norma tende a ridurne la portata: sul versante dell’individuazione dei soggetti titolari del diritto alla comunicazione, tende a farli coincidere coi diretti destinatari.
La giurisprudenza più recente ha assunto posizioni piuttosto limitative in tema di obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento: essa ha ritenuto non sussistere tale obbligo nel caso di attività interamente vincolata dall’amministrazione, giacché la partecipazione del privato non potrebbe “influire sull’emanazione dell’atto finale attraverso contributi documentali e argomentativi”. La comunicazione è personale e scritta e deve contenere l’indicazione dell’Amministrazione competente (procedente), dell’oggetto del procedimento, dell’ufficio responsabile del procedimento e del suo titolare, dell’ufficio presso il quale si può prendere visione degli atti. Nell’impossibilità della comunicazione personale ovvero se essa risulti particolarmente gravosa (per il numero dei destinatari), l’avvio del procedimento può essere reso noto mediante altri mezzi idonei di pubblicità che vengono individuati dalla stessa Amministrazione procedente. L’inadempimento dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti individuati dalla norma costituisce vizio di violazione di legge e comporta l’illegittimità del provvedimento finale emanato. Tuttavia detto vizio può essere dedotto solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista. L’avvio del procedimento comporta un altro adempimento da parte dell’Amministrazione procedente: l’individuazione del responsabile del procedimento. A tal fine la legge prescrive che le Amministrazioni determinino per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale. Le Amministrazioni cui incombe questo obbligo sono i singoli enti ed organismi pubblici; e per quanto concerne lo Stato i singoli ministeri e le singole aziende. La determinazione avviene con atto regolamentare. L’unità organizzativa cui fa riferimento la norma è l’ufficio, che a seconda dei casi potrà essere un ufficio elementare (una sezione di ministero, un’unità operativa della Regione, etc.) ovvero intermedio o generale (una direzione generale di ministero, un dipartimento, etc.). La determinazione dell’ufficio deve avvenire ratione materiae, cioè secondo i compiti funzionali propri dell’ufficio stesso. Esso può o meno coincidere con lo stesso ufficio organo cui è imputata l’emanazione del provvedimento finale. La determinazione dei vari uffici deve essere resa pubblica nelle modalità previste dalle normative vigenti per i diversi enti. Bisogna distinguere l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria, che è propriamente un’entità organizzativa, dal responsabile vero e proprio del procedimento, che è una persona fisica individuata nell’ambito dell’ufficio predetto. Il responsabile coincide con il dirigente di ciascuna unità organizzativa, cioè con il funzionario preposto all’ufficio stesso, ovvero con altro dipendente dell’ufficio espressamente individuato dal primo. L’individuazione della persona fisica responsabile è un adempimento puntuale da farsi in occasione di ogni singolo procedimento e deve essere comunicata a tutti gli interessati. L’omessa designazione del responsabile del procedimento non comporta l’invalidità dell’atto, ma implica soltanto che il funzionario preposto all’unità organizzativa è considerato responsabile del singolo procedimento.
La funzione del responsabile del procedimento è duplice: egli è l’interlocutore dei soggetti interessati, ed è allo stesso tempo il soggetto cui è affidata la funzione organizzatrice e direttrice dell’istruttoria. I procedimenti più complessi si articolano in una serie di fasi che si svolgono nell’ambito di diversi uffici della stessa organizzazione od ente. In tali casi, il responsabile del procedimento deve essere unico, o per ciascuna articolazione organizzativa nella quale si svolge il procedimento deve essere individuato il relativo responsabile? L’esame testuale della norma fa propendere per un’interpretazione intermedia: infatti il responsabile del procedimento deve essere individuato per ciascun procedimento da parte di ogni singola Amministrazione. L’istruttoria del procedimento. L’istruttoria procedimentale consiste, sul piano strutturale, di tutti gli atti nonché dei fatti od operazioni attraverso i quali vengono acquisiti e preliminarmente valutati i fatti e gli interessi dei quali consta la situazione reale nella quale il potere in concreto esercitato va ad incidere. Non tutti questi atti, fatti ed operazioni sono posti in essere dall’Amministrazione procedente, l’istruttoria consta di atti, fatti ed operazioni posti in essere da soggetti diversi. L’Amministrazione procedente in primo luogo è tenuta a conoscere la realtà nella quale va ad incidere l’azione amministrativa. Anzitutto è tenuta ad acquisire i fatti, i singoli elementi dei quali la realtà si compone. Il responsabile del procedimento accerta d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari. I fatti semplici (come l’età, il luogo di nascita delle persone, etc.) in genere risultano dalla documentazione esistenze presso gli uffici ovvero dalla documentazione che, nei procedimenti ad iniziativa di parte, i richiedenti esibiscono a corredo della domanda. Un primo ordine di attività dell’Amministrazione procedente è quella intesa all’acquisizione di questa documentazione di pertinenza dei soggetti interessati, o di altri uffici pubblici, che si estrinseca in richieste (in genere scritte) con oggetto singoli documenti ovvero dati e informazioni concernenti determinati oggetti. Il responsabile del procedimento può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni od istanze erronee od incomplete. In alcuni casi è la legge stessa, ovvero altri atti comunque vincolanti (ad es. il bando di concorso), che pone a carico dei terzi interessati questo compito di documentazione. Sul punto, appare di grande importanza la previsione circa l’acquisizione di ufficio, a cura del responsabile del procedimento, dei documenti già in possesso della stessa Amministrazione procedente o di altra pubblica Amministrazione attestanti (per dichiarazione dell’interessato) fatti, stati e qualità che riguardano l’interessato stesso. Nello stesso tempo, il responsabile del procedimento accerta di ufficio i fatti, gli stati e le qualità che la stessa Amministrazione procedente od altra pubblica Amministrazione è tenuta a certificare. Circa l’esibizione da parte dei singoli di documenti concernenti loro qualità personali (nascita, residenza, stato di famiglia, etc.) la l. proc. amm. si limita a richiamare e a ribadire la normativa di semplificazione già introdotta da una legge, che prevedeva dichiarazioni (dell’interessato) sostitutive delle certificazioni (che lo riguardano: c.d. autocertificazione), nonché dichiarazioni sostitutive degli atti di notorietà autenticate. L’esibizione di queste dichiarazioni sostituiva ogni obbligo di presentazione di certificazioni da parte dell’interessato, ai fini di un determinato procedimento.
Ancora, la stessa legge prevedeva che determinate qualità della persona (buona condotta, assenza di precedenti penali, etc.), la cui attestazione è richiesta ai fini di un determinato procedimento, andassero accertate d’ufficio, presso gli uffici pubblici competenti, dall’Amministrazione che deve emettere il provvedimento (dall’Amministrazione procedente), e che le singole Amministrazioni non possono richiedere atti o certificati concernenti fatti, stati e qualità personali che risultino attestate da documenti già in loro possesso o che esse stesse siano tenute a certificare. Tra le certificazioni previste a carico degli interessati, bisogna ricordare il c.d. certificato antimafia, che attesta l’insussistenza di misure di prevenzione e simili per reati di tipo mafioso; anche detto certificato può essere sostituito dalla dichiarazione dell’interessato stesso, in casi determinati dalla legge. La l. proc. amm. ha fatto espresso divieto alle pubbliche Amministrazioni ed alle imprese esercenti servizi di pubblica necessità e di pubblica utilità di esigere atti di notorietà (in luogo delle dichiarazioni sostitutive) quando si tratti di provare qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato. La l. 127/1997 ha previsto tra l’altro la possibilità che l’interessato presenti la dichiarazione sostitutiva anche contestualmente all’istanza cui è finalizzata e che essa venga sottoscritta dall’interessato in presenza del dipendente addetto. Allo stesso modo, laddove si tratta di dichiarazione da presentare ad imprese di gestione di servizi pubblici, la sottoscrizione può essere autenticata dal funzionario, all’uopo incaricato, dell’impresa stessa. La l. 191/1998 ha previsto che il procedimento per il quale gli atti certificativi sono richiesi deve avere comunque corso una volta acquisita la dichiarazione dell’interessato, fatta salva la possibilità dell’amministrazione di verificare la veridicità delle dichiarazioni e delle autenticazioni prodotte. Circa i fatti complessi l’Amministrazione procedente dispone acclaramenti tecnici, dichiarazioni di scienza redatti da uffici tecnici dell’Amministrazione nei quali il fatto complesso è analizzato nelle sue componenti tecniche; se si tratta di un fenomeno avvenuto o che deve avvenire (ad es. sviluppo demografico di un Comune) esso è analizzato nelle cause ed in quelli che possono esserne gli sviluppi prevedibili. Gli acclaramenti tecnici non vengono effettuati necessariamente dall’Amministrazione procedente: essa può utilizzare uffici o servizi tecnici di altre Amministrazioni. Nei casi in cui le competenze tecniche specialistiche necessarie per un determinato acclaramento non siano presenti nell’ambito degli uffici dell’amministrazione procedente o di altri uffici pubblici, essa incarica dell’acclaramento stesso professionisti esterni mediante contratto. A volte la legge espressamente prevede che su determinati oggetti debbano essere acquisite “valutazioni tecniche” di determinati uffici (ad es. del consiglio superiore dei lavori pubblici sui grandi progetti di opere pubbliche): la richiesta e l’acquisizione di questi atti è compito del responsabile del procedimento. L’acclaramento tecnico propriamente inteso è quello che riguarda cose o fenomeni della realtà materiale o naturale; a volte però i fatti da accertare a fini istruttori riguardano persone – operazioni poste in essere da persone: la tenuta dei libri contabili prescritti, da parte di professionisti od imprese, ad esempio: in tali casi l’acclaramento del fatto da parte dell’Amministrazione viene ad investire la sfera giuridica di soggetti terzi, e si inserisce nell’ambito dell’istruttoria un procedimento con effetti esterni. Questi procedimenti intesi all’acclaramento di un fatto compreso nella sfera giuridica di soggetti terzi si denominano ispezioni.
Strutturalmente l’ispezione consiste in ciò, che determinati funzionari od agenti dell’Amministrazione (ispettori) si recano materialmente presso il luogo nel quale l’ispezione deve essere effettuata (c.d. accesso: presso la banca, presso l’ufficio professionale dove si devono ispezionare i registri, etc.); ovvero convocano presso un determinato luogo le persone che devono essere sentite. In ordine alle cose ed alle persone effettuano i necessari acclaramenti (quelli disposti dall’Amministrazione procedente): di questi redigono processo verbale. Questo atto (relazione o rapporto ispettivo, verbale d’inchiesta: le denominazioni sono diverse) è l’atto che viene acquisito all’istruttoria del procedimento. L’uso in sede istruttoria di questi strumenti conoscitivi deve essere normativamente previsto in capo all’Amministrazione procedente od a quella da essa usata. Dalle ispezioni si distinguono le inchieste, che vengono condotte da organi straordinari (di regola collegiali), i cui poteri sono delimitati dall’atto di nomina della commissione d’inchiesta, e si riferiscono ad eventi parimenti straordinari. Come avviene per le ispezioni, i risultati dell’inchiesta vengono poi acquisiti all’istruttoria del procedimento attraverso la relazione (o verbale) d’inchiesta. Altro compito fondamentale dell’Amministrazione procedente, e per essa del responsabile del procedimento, è l’acquisizione delle determinazioni delle altre Amministrazioni, laddove gli interessi la cui cura è ad esse istituzionalmente affidata siano coinvolti nel procedimento. La l. proc. amm. dispone che l’Amministrazione procedente debba acquisire le determinazioni delle diverse Amministrazioni circa i vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, prevedendo a riguardo uno strumento procedurale di applicazione generale (la conferenza di servizi), che consente un esame contestuale degli interessi stessi. Lo strumento di acquisizione degli altri interessi pubblici coinvolti nel procedimento non deve necessariamente essere questo: questo è lo strumento da usare di regola laddove l’esame contestuale dei diversi interessi in gioco sia opportuno. Gli interessi possono anche essere acquisiti in forma individuale: mediante richiesta dell’Amministrazione procedente, alla quale l’Amministrazione interpellata risponde esprimendo (di regola, per iscritto) la propria determinazione in merito. La conferenza di servizi diviene un modulo obbligatorio, nella fase decisoria del procedimento, nei casi in cui l’Amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta, o assensi comunque denominati e non li ottenga dopo averli formalmente richiesti. La legge consente l’uso della conferenza di servizi anche per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi reciprocamente connessi, riguardanti medesimi attività o risultati. In tal caso la conferenza viene indetta da una delle amministrazioni coinvolte, in sostanza quella che prende l’iniziativa; ma il compito di indire la conferenza spetta in primo luogo all’Amministrazione cui è imputata la cura dell’interesse prevalente; ovvero previa informale intesa, nel caso di più Amministrazioni coinvolte nella cura di interessi primari. La conferenza è indetta di norma dall’Amministrazione procedente (dal responsabile del procedimento). Alla conferenza partecipano le persone fisiche esponenti delle diverse amministrazioni coinvolte e legittimate ad esprimerne in modo vincolante la volontà, per discutere sulla base di un determinato ordine del giorno, sulle questioni poste dall’Amministrazione procedente. L’Amministrazione dissenziente non può limitarsi ad una generica contrarietà sui risultati della conferenza, ma deve manifestare un giudizio congruamente motivato, relativo a questioni
strettamente attinenti all’oggetto della conferenza stessa, nel quale siano anche specificamente indicate le modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso. Di fronte a posizioni di qualificato dissenso, l’Amministrazione procedente assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza di servizi. Tale decisione deve essere presa entro il termine perentorio che la stessa conferenza di servizi avrà stabilito, a maggioranza delle Amministrazioni partecipanti, nella prima riunione. La l. 340/2000 dà la possibilità ai privati, nel caso di iniziative di particolare complessità, di ottenere, previa motivata e documentata richiesta nonché a proprie spese, la convocazione di una conferenza di servizi anteriormente alla presentazione del progetto definitivo, allo scopo di verificare in anticipo i requisiti e le condizioni necessari affinché tale progetto possa ottenere, una volta presentato, i necessari atti di consenso. La conferenza di servizi esplorativa sui progetti preliminari è invece obbligatoria nei casi di realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico. Vengono acquisiti all’istruttoria i fatti e gli interessi nei quali il procedimento va ad impingere, ed i fatti e gli interessi acquisiti devono essere valutati. Nei procedimenti più semplici, a tale valutazione provvede la stessa autorità decidente, restando così tale momento ascritto alla fase decisoria del procedimento. Viceversa, nei procedimenti più complessi, l’istruttoria si arricchisce di una fase autonomamente connotata, intesa ad una valutazione preliminare (o preparatoria in ordine al decidere) dei fatti e degli interessi in gioco: la fase consultiva. Presso le principali organizzazioni pubbliche esistono appositi uffici con compiti consultivi: la cui funzione è cioè quella di esprimere agli organi della stessa Amministrazione il loro avviso, che può avere natura tecnica ma anche natura politico-amministrativa circa l’esercizio dei poteri di loro competenza: mediante l’emanazione di atti aventi contenuto di dichiarazioni di giudizio (pareri). Nell’ambito dell’istruttoria procedimentale si inserisce così, nei casi in cui la legge lo prevede, un procedimento consultivo. Esso si articola nella richiesta di parere che promana dall’ufficio procedente (dal responsabile del procedimento) con la formulazione dei quesiti; nell’esercizio dell’attività consultiva da parte dell’organo consultivo; nella redazione per iscritto del parere e sua comunicazione all’autorità richiedente. Una volta ricevuto il parere dall’Amministrazione procedente, questo è assunto al procedimento come atto istruttorio. La richiesta di parere a volte è prescritta dalla legge: in tali casi, si parla di pareri obbligatori: la loro richiesta è necessaria a pena di illegittimità del procedimento. Tuttavia in alcuni casi la legge consente di decidere prescindendo dal parere ove questo non venga emanato entro un certo termine. Quando entrano in gioco certi interessi, essi possono in una situazione concreta risultare assolutamente necessari al fine di un determinato procedimento, e perciò la loro acquisizione risultare in concreto indispensabile: questa valutazione è rimessa all’autorità procedente e decidente, della quale è in facoltà procedere prescindendo dalla relativa acquisizione. In sede regolamentare è in molti casi previsto che la decisione circa il non esercizio di detta facoltà (non fare a meno del parere) debba essere comunicata agli interessati. Per le valutazioni tecniche, la disciplina è diversa sul punto (il responsabile […] deve chiedere): di esse infatti non si prescinde in caso di ritardo dell’ufficio competente ma esse vengono sostituite con atti analoghi espressi da altro soggetto.
Laddove la richiesta di parere non è prescritta dalla legge, ciò non di meno l’autorità procedente può attivare gli organi consultivi competenti per materia e chiedere loro un parere in merito ad una determinata questione. In tal caso, si tratta di pareri facoltativi, in quanto non prescritti dalla legge, ma tuttavia dovuti da parte dell’organo consultivo cui vengono richiesti. Il parere facoltativo, una volta emesso su richiesta dell’Amministrazione procedente ed acquisito al procedimento, deve essere preso in considerazione in sede decisoria. Il contenuto valutativo del parere circa una determinata situazione di fatto od un determinato assetto di interessi potrà sempre essere disatteso dall’autorità decidente sulla base di valide ragioni (il rapporto insomma tra parere ed atto decisorio resta sempre retto dai principi di ragionevolezza). In via di principio dunque i pareri non sono vincolanti nei confronti dell’autorità decidente. Si danno casi però in cui la legge dispone che certi pareri siano vincolanti (pareri vincolanti): il loro contenuto valutativo non può essere successivamente disatteso dall’autorità decidente. Anche se vincolanti, i pareri restano atti consultivi attinenti alla fase istruttoria del procedimento, laddove la legge lascia una determinato spazio decisionale all’autorità decidente. Laddove viceversa la legge non lascia questo spazio all’autorità decidente, il c.d. parere vincolante deve essere considerato atto di decisione con riferimento al quale l’autorità formalmente decidente svolge un compito di mera esternazione. I soggetti (terzi rispetto all’amministrazione titolare del potere) portatori di interessi in ordine all’oggetto (bene giuridico) del potere quale in concreto esercitato, e quindi del procedimento, sono parti di un rapporto giuridico di diritto pubblico nel quale si articola il singolo episodio di esercizio del potere. Questa qualità di parte del rapporto conferisce al soggetto un potere (o facoltà) di partecipazione al procedimento, che grosso modo si esprime nella rappresentazione del proprio interesse articolata secondo l’oggetto del procedimento, della quale l’Amministrazione è obbligata a tenere conto. Costituisce ormai un fatto positivamente indiscutibile che i soggetti titolari di interessi legittimi in ordine all’oggetto del procedimento hanno il potere di parteciparvi. La prima individuazione delle parti del rapporto avviene ad iniziativa della stessa Amministrazione procedente. Tuttavia la partecipazione al procedimento non è limitata all’ambito dei soggetti individuati in tal modo, la legge dà facoltà di intervenire nel procedimento a qualunque soggetto portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento. Questi soggetti si possono distinguere in due categorie. Da un lato, sono i portatori degli interessi legittimi; dall’altro lato, sono i soggetti pubblici, le organizzazioni pubbliche come si sono descritte nella loro varia articolazione, cui è imputata la cura degli interessi coinvolti dal procedimento di che si tratta. Interesse pubblico è quello che pertiene, in linea di principio, alla comunità nazionale od alle comunità minori, territoriali e non, nelle quali si articola la plurisoggettività dell’ordinamento. Interessi pubblici sono quelli che il legislatore considera tali. L’individuazione di un determinato interesse come pubblico da parte dell’ordinamento si estrinseca di regola attraverso due momenti essenziali: sul piano organizzativo, attraverso l’individuazione di un centro organizzativo pubblico (già esistente ovvero appositamente creato, ufficio od organo di un’Amministrazione, ovvero centro dotato di personalità autonoma) che viene preposto alla cura dell’interesse;
attraverso l’attribuzione al contro organizzativo così determinato di poteri amministrativi intesi alla cura dell’interesse stesso. Diversi sono gli interessi collettivi, che invece emergono dalla concretezza della vita sociale come propri di un gruppo o categoria sociale, di una comunità indifferenziata e diffusa di soggetti (persone fisiche) che si auto-organizzano un centro di riferimento e di cura dell’interesse comune al gruppo stesso. Deve trattarsi in questi casi di interessi propri di un gruppo, non di un singolo soggetto, né di una pluralità indifferenziata di soggetti. L’individuazione della categoria o del gruppo, come anche i modi di emersione concreta dell’interesse, possono essere i più vari secondo la varietà della vita sociale. Ciò che rileva è che il gruppo si sia aggregato intorno al comune interesse, si sia cioè costituito come istituzione, dandosi perciò un centro di riferimento organizzativo, come quello deputato alla cura dell’interesse. Ciò che rileva è che il centro organizzativo ci sia ed abbia una forma. In mancanza di centro organizzativo, gli interessi comuni ad una pluralità indifferenziata di soggetti sono interessi diffusi, i quali pertengono a ciascuno dei soggetti stessi nella sua individualità: essi in quanto tali sono i portatori degli interessi diffusi. Questi ultimi ai nostri fini vengono ad accomunarsi agli interessi privati. Interessi privati sono quelli che pertengono a ciascun soggetto dell’ordinamento, sia esso persona fisica od altra figura soggettiva, a fronte dell’esercizio di un potere. Gli interessi privati non possono che essere individuati in concreto a fronte dell’esercizio di un potere. Abbiamo dunque tre categorie di portatori di interessi nell’ambito del procedimento: enti ed organismi pubblici, centri organizzativi esponenziali di interessi collettivi, soggetti “privati”; e così, interessi pubblici, interessi collettivi, interessi privati. I portatori di interessi privati e collettivi sono da qualificare, in principio, a tutti i fini come portatori di interessi legittimi; ed il loro diritto alla partecipazione ha la sua fonte nell’interesse legittimo. Diversa è la posizione dei portatori di interessi pubblici: essi non hanno alcuna facoltà dispositiva ma solo un potere-dovere, una potestà, di provvedere (alla cura degli interessi stessi). La partecipazione al procedimento dei portatori degli interessi pubblici coinvolti dallo stessi è perciò doverosa; ed essi sono parti necessarie del rapporto. In certi casi, anche i portatori di interessi pubblici nell’ambito di un determinato procedimento possono configurarsi come portatori di interessi legittimi. Ciò dipende dalla loro posizione organizzatoria rispetto all’Amministrazione procedente: deve trattarsi di organizzazioni pertinenti a soggetto pubblico diverso rispetto a quello nel quale è incardinata l’Amministrazione procedente: un Comune a fronte di un procedimento ministeriale, un organo ministeriale a fronte di un procedimento regionale, etc.; mentre eventuali conflitti tra organizzazioni ministeriali son risolte in sede di Governo senza dar luogo nemmeno in ipotesi a situazioni litigiose a tutela di interessi legittimi. La partecipazione all’esercizio del potere sostanzialmente consiste nella rappresentazione di fatti e di interessi propri del soggetto, dei quali l’Amministrazione deve tenere conto ai fini della decisione da assumere, nell’esercizio in concreto del potere. Del modo in cui l’Amministrazione tiene conto delle rappresentazioni di parte si potrà conoscere in sede di sindacato sulla legittimità del provvedimento finale. I soggetti portatori degli interessi hanno diritto: di prendere visione degli atti del procedimento, salvi i limiti generali al diritto di accesso;
di presentare memorie scritte e documenti, che l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento. Circa il primo punto, la partecipazione procedimentale si esprime nell’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi. Sembra pacifico che il soggetto interessato possa richiedere sia atti specificamente individuati, sia tutti gli atti dell’istruttoria (il fascicolo); ed altresì che gli vengano fatti pervenire (salvo rimborso spese) gli atti che saranno acquisiti all’istruttoria stessa. Accedere ai documenti serve a conoscere la situazione che è all’esame dell’Amministrazione al fine di rendersi conto dei modi, termini e dell’intensità in cui l’esercizio del potere nel concreto viene ad incidere sugli interessi del soggetto. Il quale li rappresenta all’Amministrazione procedente, prospettando soluzioni del procedimento tali da venire incontro alle esigenze proprie. Questa rappresentazione degli interessi del soggetto avviene per il tramite di atti scritti (“memorie scritte”) che egli (o suo rappresentante legittimato nelle forme di legge) sottoscrive e presenta all’Amministrazione procedente; ovvero mediante “documenti”, anch’essi atti scritti, non imputati al soggetto ma in suo possesso e tali da supportare la rappresentazione dei suoi interessi. La l. proc. amm. non accoglie il modulo dell’istruttoria pubblica, che era invece prevista nel testo Nigro per alcuni tipi di procedimenti: che si sarebbe svolta attraverso riunioni indette dall’Amministrazione procedente ed aperte ai promotori dell’iniziativa, alle pubbliche Amministrazioni, ed alle organizzazioni sociali e di categorie interessate, nonché a tutti coloro che vi abbiano interesse. L’Amministrazione deve valutare le memorie e i documenti presentati dagli interessati ove siano pertinenti all’oggetto: la pertinenza all’oggetto è a sua volta oggetto di valutazione discrezionale, che potrà essere sindacata in sede di controllo. La normativa della l. proc. amm. concernente la partecipazione degli interessati nonché gli accordi e la particolare norma concernente criteri e modalità per la concessione di vantaggi economici a terzi non si applicano all’attività amministrativa diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché ai procedimenti tributari. Peraltro questa tipologia di procedimenti è sottratta anche all’applicazione della disciplina generale in tema di accesso ai documenti amministrativi. Ciò non significa che detti procedimenti non debbano essere disciplinati secondo i principi di partecipazione e di consensualità. L’affermazione del legislatore significa solo che esso ha ritenuto che per tali procedimenti i menzionati principi vengono attuati con apposita disciplina, date le particolarità tecniche che essi presentano. A proposito di tutti gli istituti di partecipazione si pone il problema se essi siano di applicazione generale, a parte le eccezioni espressamente stabilite dalla stessa legge, ovvero se vi siano procedimenti che per loro propria natura non possano essere oggetto dell’applicazione degli istituti medesimi. Visto dalla parte dell’Amministrazione procedente, il problema è quello di stabilire se essa è sempre tenuta all’obbligo di comunicazione ed al di là di ciò se essa è sempre tenuta a ricevere gli atti di intervento in sede istruttoria con gli effetti procedimentali che ne seguono. L’applicazione della norma è espressamente esclusa nei casi in cui sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento.
L’espressione sicuramente comprende tutti i c.d. procedimenti necessitati (o d’urgenza), tipici od atipici che siano; sono poi esclusi dall’applicazione della norma i procedimenti c.d. cautelari laddove previsti. Ma ancora, al di là delle deroghe espressamente previste, vi sono alcune categorie di procedimenti ai quali la normativa sulla partecipazione non sembra applicabile. Anzitutto i procedimenti segreti, quelli cioè che hanno ad oggetto la segretazione di atti o documenti perché coperti dal segreto di Stato. Si deve ritenere che, al di là dei procedimenti segreti, sussistano procedimenti riservati. In tali casi l’esigenza della riservatezza del procedimenti è giustificata da una causa preminente rispetto a quella che sorregge il principio di partecipazione; e cioè, la cura dell’interesse pubblico per la quale il potere amministrativo e il relativo procedimento è previsto. Tra questi procedimenti si possono segnalare i seguenti. Anzitutto, alcuni procedimenti conoscitivi (intesi all’acclaramento di un fatto, cosa o fenomeno), e segnatamente le ispezioni, laddove l’oggetto dell’acclaramento dell’autorità amministrativa è nel possesso di un soggetto, persona fisica od impresa, che in genere è portatore di un interesse legittimo oppositivo rispetto all’ispezione stessa (è un controinteressato); e perciò l’oggetto dell’acclaramento può essere rimosso o compromesso dal soggetto stesso (al quale il procedimento andrebbe in ipotesi comunicato). Alcuni procedimenti repressivi di competenza dell’autorità di p.a. o dell’autorità sanitaria, sia concernenti cose che persone, la cui comunicazione agli interessati ne vanificherebbe in sostanza l’effetto, potendo produrre la distruzione o la sparizione delle cose ovvero la sparizione delle persone (si pensi per es. alle perquisizioni, ai sequestri disposti dall’autorità di p.s.; si pensi ai sequestri di sostanze alimentari tossiche disposte dai NAS, etc.). Sembra necessario che si provveda con legge statale all’individuazione di tali casi. La normazione statale dovrà provvedere anche all’individuazione di eventuali procedimenti di attribuzione regionale nei quali si rinvengano dette caratteristiche, autorizzando per essi le Regioni stesse a derogare alla normativa sulla partecipazione. Restano poi esclusi dalle regole sulla partecipazione quei procedimenti di competenza dell’Amministrazione militare, che rispondono alle esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività delle Forze armate. “Diritto di accesso” ai documenti amministrativi. La l. proc. amm. disciplina in termini generali il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Secondo la l. citata l’accesso ai documenti amministrativi costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorirne la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza. Per “documento amministrativo" si intende ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale. Il diritto di accesso è il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi. Per interessati qui si intendono tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
Per “controinteressati” invece si intendono tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza. Il diritto di accesso si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi. Il diritto di accesso si può esercitare in modo informale o formale; in entrambi i casi la richiesta deve essere rivolta all’ufficio dell’Amministrazione centrale o periferica competente a formare l’atto conclusivo di procedimento o a detenerlo stabilmente. In alternativa, la richiesta può essere rivolta all’ufficio che detiene stabilmente l’atto (quello richiesto, non quello conclusivo di procedimento). Nei casi di esercizio infra-procedimentale del diritto di accesso la richiesta sarà correttamente rivolta al responsabile del procedimento (ove designato) ed in alternativa all’ufficio competente a formare l’atto conclusivo. In ogni caso, la presentazione della richiesta ad ufficio diverso della stessa Amministrazione non dà luogo ad alcuna conseguenza (lo smistamento della richiesta nell’ambito della sessa Amministrazione rimane un fatto interno). Nell’ambito dell’accesso informale, l’interessato fa richiesta, anche verbale, a detto ufficio, indicando gli estremi del documento oggetto della richiesta, ovvero gli elementi che ne consentano l’individuazione, ma specificando anche il fondamento del proprio interesse connesso all’oggetto della richiesta. Questa, esaminata immediatamente e senza formalità, è accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le notizie, ovvero mediante esibizione del documento, estrazione di copie, ovvero altra modalità idonea. L’accesso formale dà luogo all’instaurazione di un vero e proprio procedimento amministrativo. La richiesta presentata ad Amministrazione diversa da quella nei cui confronti va esercitato il diritto di accesso è trasmessa immediatamente a quella competente dandone comunicazione all’interessato. L’accesso formale può essere sempre prescelto dall’interessato, al posto di quello informale. Viene però imposto dall’Amministrazione a fronte di una richiesta informale nei casi in cui non sia possibile l’accoglimento immediato della richiesta in via informale, ovvero sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla sussistenza dell’interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni fornite o sull’accessibilità del documento. L’accoglimento della richiesta di accesso formale avviene mediante un atto dell’Amministrazione competente (che è provvedimento amministrativo in senso tecnico) che deve contenere l’indicazione dell’ufficio, completa della sede, presso cui rivolgersi, nonché di un congruo periodo di tempo per prendere visione dei documenti o per ottenerne copia. Le modalità di accesso al documento, una volta accolta la richiesta, sono stabilite dal regolamento, sia per quanto concerne l’esame diretto sia l’estrazione di copia. Ove l’accesso non può essere consentito, a causa delle limitazioni stabilite dalla legge, ovvero con riferimento alle circostanze di fatto per cui la richiesta non può essere accolta così come proposta, l’Amministrazione risponde con rifiuto, limitazione (rispetto ai documenti richiesti) o differimento dell’accesso richiesto. Ove ai fini della salvaguardia degli interessi tutelati è sufficiente disporre il differimento dell’accesso non può essere disposto il rifiuto dello stesso.
L’esercizio del diritto di accesso è sottoposto ad una serie di limitazioni, che derivano da esigenze di segreto o di riservatezza concernenti determinati documenti amministrativi, poste sia nell’interesse pubblico sia nell’interesse di persone o di imprese, comunque di terzi. Anzitutto restano confermate le previsioni di segreto o di divieto di divulgazione già esistenti nell’ordinamento per determinati settori. Tra queste si può ricordare la disciplina del segreto di Stato; la disciplina in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione ed il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia; la disciplina del segreto statistico; la disciplina concernente le limitazioni all’acceso ai dati ed alle informazioni conservate negli archivi automatizzati del dipartimento di p.s. Viene poi escluso l’accesso agli atti preparatori (procedimentali) dei provvedimenti ai quali non si applica la disciplina sulla partecipazione. Le limitazioni più importanti al diritto di accesso riguardano gli interessi pubblici contrapposti e preminenti rispetto alle richieste di accesso (quali la sicurezza del Paese, le relazioni internazionali, etc.), ovvero gli interessi di terzi. L’individuazione delle categorie di documenti che per la loro connessione con gli interessi preminenti sono sottratti all’accesso è fatta dalle singole Amministrazioni con regolamenti. Il contenzioso sul diritto di accesso (che può seguire al rifiuto o al differimento della richiesta) è attribuito ai TAR, che decidono con procedimento speciale ed abbreviato. Il Consiglio di Stato ha stabilito che la giurisdizione in materia di accesso non costituisce un’ipotesi di giurisdizione esclusiva e che pertanto la mancata notificazione del ricorso giurisdizionale (finalizzato ad ottenere l’accesso) agli eventuali controinteressati, titolari del diritto alla riservatezza, determina l’inammissibilità del medesimo ricorso. Viene costituita presso la Presidenza del consiglio una commissione che vigila affinché venga attuato il principio di piena conoscibilità dell’attività della pubblica Amministrazione nei limiti fissati dalla legge; propone al Governo ogni modificazione legislativa e regolamentare necessaria per rendere concreto il diritto. La commissione è dotata di un’incisiva potestà conoscitiva nei confronti di tutte le Amministrazioni. L’obbligo di concludere il procedimento e la questione del “silenzio”. L’istruttoria procedimentale trova il suo necessario sbocco nell’assunzione della decisione. Il tempo nel quale il procedimento deve concludersi è un elemento fondamentale per valutare l’efficienza dell’azione amministrativa in concreto. Il c.d. silenzio della pubblica amministrazione è un istituto costruito dalla giurisprudenza per dar tutela agli interessati a fronte dell’inerzia mantenuta dall’amministrazione nei casi in cui essa deve provvedere e non provvede (silenzio inadempimento). Istituto diverso, che attiene propriamente alla fase decisoria, è quello del silenzio c.d. significativo (silenzio assenso). Ogni procedimento deve essere concluso mediante l’adozione di provvedimento espresso, cioè con un atto, anche se a contenuto negativo. Le ipotesi di decisione tacita sono esclusivamente quelle previste dalla legge con norme di stretta interpretazione ed insuscettibili di applicazione analogica. Il termine entro il quale il procedimento deve concludersi, a partire dall’inizio formalizzato del procedimento d’ufficio, ovvero dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte, ove non sia già previsto dalle normazioni di settore, viene determinato dalle singole Amministrazioni per ciascun tipo di procedimento di loro pertinenza. Nei casi in cui non si provvede, il termine è di 90 giorni.
L’inadempimento dell’obbligo di pronunciarsi nel termine di legge può dar luogo a conseguenze di ordine penale: il 328 c.p. punisce l’agente che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo. Tuttavia l’atto del suo ufficio è da intendere l’atto di avvio del procedimento. Per attivare l’operatività della norma penale a fronte dell’omissione di provvedere (diversamente che a fronte degli atti di avvio del procedimento) occorre specifica e circostanziata richiesta (scritta) dell’interessato, dalla cui ricezione decorre il termine posto dalla norma stessa. Sono previste per i casi di mancato rispetto dei termini, di mancata o ritardata adozione del provvedimento nonché per i casi di ritardato od incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della p.a. forme di indennizzo automatico e forfetario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento. Così come l’omissione dell’avvio del provvedimento, anche la mancata conclusione, se dovuta a dolo o colpa grave del funzionario responsabile, può dar luogo a responsabilità amministrativa rilevabile con apposita azione giurisdizionale davanti alla Corte dei conti. L’inadempimento può dar luogo, in determinate circostanze, a conseguenze sul versante della tutela amministrativa: diventa cioè situazione legittimante per l’accesso del soggetto interessato a detta tutela. Si tratta del c.d. silenzio della pubblica amministrazione, espressione che contempla i casi in cui l’Amministrazione, a fronte di istanze di soggetti terzi, non provveda. L’inerzia nei procedimenti ad iniziativa d’ufficio dà luogo a mero “non atto”. Secondo la l. 1199/1971 il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti una volta decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione dello stesso senza che l’organo adito abbia comunicato la decisione, e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso all’autorità giurisdizionale. Questa norma non è applicabile anche ai procedimenti di amministrazione attiva ad iniziativa di parte. A fronte dell’inerzia serbata dall’Amministrazione in questi procedimenti la giurisprudenza ha ritenuto applicabile in via analogica una norma secondo la quale, trascorso il termine di 60 giorni dall’avvio del procedimento (ovvero dall’atto od operazione precedente se necessariamente presupposta), l’interessato può notificare all’Amministrazione una diffida a provvedere; trascorsi 30 giorni da quest’ultima può ricorrere in sede giurisdizionale affinché venga dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di provvedere. Il “silenzio”, come insegnato dalla giurisprudenza, non è un atto, cioè una dichiarazione di volontà dell’Amministrazione: il silenzio è un comportamento al quale la legge attribuisce certi effetti, sostanziali e processuali, indipendentemente dal contenuto di volontà dello stesso. Da ciò, sotto il profilo sostanziale, alcune conseguenze: anzitutto, dal fatto dello scadere del termine non deriva alcuna definizione della situazione soggettiva dell’interessato, il quale quindi non ha l’onere (ma la facoltà) di impugnare il silenzio nei termini decadenziali fissati per l’impugnazione degli atti amministrativi. In secondo luogo, dal fatto dello scadere di detto termine non consegue l’esaurirsi del potere dell’Amministrazione nel caso concreto (il potere infatti non è stato esercitato): ciò che comporterebbe l’incapacità di pronunciarsi successivamente con provvedimento se non nelle forme dell’autotutela: che l’interessato abbia o meno adito il giudice amministrativo, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di provvedere espressamente, anche dopo lo scadere del termine (ed è proprio l’inadempimento di detto obbligo che si chiede al giudice di accertare). Questa disciplina del silenzio inadempimento non è innovata dalla normativa introdotta dalla l. proc. amm., che si limita a stabilire l’esigenza che ad ogni manifestazione di amministrazione sostanziale sia posto un termine nel quale essa deve concludersi.
Circa la questione se occorra la preventiva diffida della p.a., dalla lettera della norma si potrebbe sostenere che essa non sia necessaria, visto che la diffida serve per la fissazione di un termine tale da concretizzare l’inadempimento, mentre in questo caso il termine è fissato dalla legge. Tuttavia, la giurisprudenza sembra orientata a ritenere necessaria la diffida anche nei casi in cui leggi di settore fissano un termine per provvedere. Per termine del procedimento s’intende il termine entro il quale il procedimento deve concludersi. Nei procedimenti ad iniziativa d’ufficio, il termine iniziale decorre dalla data in cui l’Amministrazione procedente abbia notizia del fatto da cui sorge l’obbligo di provvedere; se il fatto è costituito da atto propulsivo di altra Amministrazione il termine stesso decorre dalla data di ricevimento, da parte dell’Amministrazione procedente, di detto atto. Nei procedimenti ad iniziativa di parte, il termine iniziale decorre dalla data di ricevimento della domanda (di cui è rilasciata ricevuta, salvo avviso di ricevimento in caso di lettera raccomandata). Ma ciò si verifica nel caso in cui la domanda sia redatta nelle forme e nei modi stabiliti dall’Amministrazione e corredata dalla prevista documentazione, dalla quale risulti la sussistenza dei requisiti e delle condizioni richieste da legge o da regolamento per l’adozione del provvedimento. In caso diverso, ed in ogni caso di irregolarità della domanda, il responsabile del procedimento ne dà comunicazione all’istante entro un certo termine, indicandone le cause; ed in conseguenza, il termine iniziale del procedimento decorre dal ricevimento della domanda regolarizzata e completata. Il termine finale è quello della data di adozione del provvedimento e per i provvedimenti recettizi quello della data di ricevimento della comunicazione da parte del destinatario. Se il provvedimento è soggetto a controllo preventivo il tempo necessario per il procedimento di controllo non è computato ai fini del termine del procedimento principale. La tematica si complica nei casi in cui ad un medesimo procedimento prendano parte più Amministrazioni. Nel caso di pareri obbligatori, se l’Amministrazione procedente decide di avvalersi della facoltà di fare a meno del parere una volta scaduto il termine previsto, nulla quaestio: il termine del procedimento resterà sospeso per tale periodo. Ma se l’Amministrazione procedente non si avvale di detta facoltà, ne deve dare comunicazione all’interessato ed in conseguenza il termine del procedimento resta sospeso per un ulteriore periodo di tempo che non può comunque essere superiore ad altri 180 giorni. Nel caso di valutazioni tecniche (art. 17 l. proc. amm.), ove l’organismo competente non provveda ad adottare la valutazione tecnica richiesta e non rappresenti esigenze istruttorie, il responsabile del procedimento chiede la valutazione stessa ad uno degli organismi previsti dalla norma e partecipa agli interessati l’avvenuta richiesta. In questo caso la disciplina regolamentare prevede che nella prima fase della sua applicazione il tempo occorrente per l’acquisizione delle valutazioni tecniche non viene computato ai fini del termine finale del procedimento. Nei casi non compresi negli artt. 16 e 17 l. proc. amm. (pareri obbligatori dei quali non si può fare a meno, fasi procedimentali imputate ad Amministrazioni diverse, etc.), il termine finale del procedimento principale è comprensivo anche dei tempi necessari per l’espletamento delle attività imputate alle altre Amministrazioni. La richiesta di pareri facoltativi non incide sul termine finale del procedimento.
La tematica dei tempi procedimentali si manifesta ulteriormente nelle ipotesi di silenzio significativo: laddove cioè la legge dispone che il fatto del trascorrere del tempo oltre un certo termine a partire da un atto di iniziativa procedimentale significhi qualcosa che la legge stessa stabilisce in termini di produzione di effetti giuridici: abbia cioè un significato decisorio. Ciò accade propriamente nei casi di c.d. silenzio assenso. Ciò non accade viceversa nei casi di c.d. silenzio rifiuto: laddove la legge dispone che il silenzio significhi rifiuto (è ad es. il caso delle licenze edilizie), esso non assume alcun significato decisorio (così come non ha carattere decisorio il c.d. provvedimento negativo). A fronte di esso, l’interessato non può che ricorrere in sede giurisdizionale per ottenere tutela. In questi casi ciò che viene accertato dal giudice amministrativo accogliendo il ricorso avverso il silenzio rifiuto è l’obbligo dell’Amministrazione a provvedere a fronte della domanda di parte. Insomma, i casi di silenzio rifiuto sono sostanzialmente equiparabili a quelli di silenzio inadempimento. Nella fase decisoria il procedimento si conclude: la fattispecie si definisce come quella capace di produrre effetti. La fase decisoria solo a volte consta di un solo atto nel quale il procedimento si conclude: spesso è a sua volta articolata in una pluralità di atti (è pluristrutturata). Di regola la fase decisoria è provvedimentale: essa consta di un provvedimento ovvero (laddove consta di una pluralità di atti) si definisce in un provvedimento. Vi sono casi tuttavia in cui il procedimento non si conclude con un atto unilaterale (il provvedimento) ma con un accordo, cioè con un atto in tutto od in parte negoziato che tuttavia è pur sempre un atto conclusivo di procedimento, di esercizio di potere amministrativo in senso tecnico. In tali casi, la fase decisoria del procedimento è negoziata. Vi sono casi in cui il procedimento non si conclude con un atto, ma con un fatto cui la legge dà un determinato significato. Questo fatto è dato dal decorso di un certo tempo a partire da un momento stabilito dalla legge, senza che l’Amministrazione abbia provveduto, cioè si sia pronunciata con un atto (silenzio significativo). Possiamo parlare della definizione tacita del procedimento come di un tipo di fase decisoria. La fase decisoria tacita. Casi di silenzio assenso. Nei casi di silenzio assenso, la legge stabilisce che a fronte di istanza del soggetto interessato presentata nelle forme e con le modalità prescritte ed accompagnata dalla documentazione richiesta il trascorrere di un certo tempo prefissato dal momento (formalizzato) di presentazione dell’istanza al competente ufficio, senza che l’Amministrazione abbia provveduto od abbia adottato atti interruttivi ammessi, produce sul piano giuridico l’accoglimento dell’istanza stessa. Si tratta di un meccanismo che non può essere adottato se non in procedimenti ad istanza di parte ed a contenuto discrezionale assai limitato. Tra i casi più significativi si possono ricordare quelli in materia edilizia. Si può anche ricordare il caso del nulla-osta alla proiezione di film (art. 7 l. 161/1962). I procedimenti di silenzio assenso sono diffusi anche al di fuori dell’Amministrazione attiva, ad es. nell’ambito dell’attività di controllo, dove il trascorso del tempo produce l’effetto di conferire piena efficacia all’atto sottoposto a controllo (“diviene esecutivo”). Il silenzio assenso si configura come fatto e non come atto, fatto nel quale il procedimento trova una definizione legale, che nei suoi contenuti è determinata dalla richiesta di provvedimento, cioè dall’atto, di parte, di iniziativa procedimentale (Travi), fatto che è assunto dalla legge come atto e sottoposto alla relativa disciplina.
Da ciò alcune conseguenze in ordine all’illegittimità dei provvedimenti tardivi espliciti. L’istituto del silenzio assenso riceve organica disciplina dalla l. proc. amm., con normativa da attuarsi con regolamenti. Mediante tali regolamenti il Governo determina i casi in cui la domanda di rilascio di una autorizzazione, licenza, abilitazione, nulla osta, permesso od altro atto di consenso comunque denominato, cui sia subordinato lo svolgimento di un’attività privata si considera accolta qualora non venga comunicato all’interessato il provvedimento di diniego entro il termine fissato per categorie di atti, in relazione alla complessità del rispettivo procedimento, dai regolamenti stessi. La norma prevede che in tutti i casi previsti dal regolamento l’Amministrazione possa esercitare il potere di annullamento di ufficio verso l’atto di assenso illegittimamente formato; ma prevede anche che l’interessato possa provvedere a sanare i vizi entro il termine prefissatogli dall’Amministrazione. Ciò comporta l’esigenza che l’Amministrazione, in caso di vizi sanabili dell’atto tacitamente formatosi, li comunichi all’interessato dandogli un termine per provvedere a sanarli. Sembra così capovolto il principio precedentemente ritenuto che il silenzio assenso fosse istituto di carattere eccezionale. È vero che, in via di principio, il silenzio assenso è di per se stesso concepibile solo laddove il contenuto del provvedimento può essere riempito dal contenuto dell’istanza. La domanda del richiedente deve identificare le sue generalità nonché le caratteristiche specifiche dell’attività da svolgere. Alla domanda deve essere allegata una dichiarazione che indichi la sussistenza dei presupposti, ivi compreso il versamento di eventuali tasse e contributi, e dei requisiti prescritti dalla legge per lo svolgimento di quella attività; come la specificazione dei dati necessari per verificare il possesso e conseguimento dei particolari requisiti soggettivi, laddove richiesti. Dal ricevimento della domanda decorre il termine per la formazione del silenzio. Della domanda, se avviene mediante presentazione diretta, viene rilasciata ricevuta; se avviene a mezzo posta (“plico raccomandato con avviso di ricevimento”), la ricevuta è costituita dall’avviso stesso debitamente firmato. Se la domanda non è regolare o completa, l’Amministrazione ne dà comunicazione al richiedente indicando le cause di irregolarità o di incompletezza. Se non vi è detta comunicazione, il termine per la formazione del silenzio decorre comunque dal ricevimento della domanda. Se è prescritto (a fronte dell’atto alla cui formazione può darsi luogo col silenzio assenso) il pagamento di tasse, contributi, e simili, ad esso deve provvedere il richiedente (con propria determinazione, salvo conguaglio stabilito dall’Amministrazione) alla scadenza del termine per la formazione del silenzio assenso. Può anche provvedervi all’atto della presentazione della domanda e darne conto tra i presupposti della stessa. Sembra che il pagamento anche se in misura inesatta (ed in tal caso, salvo conguaglio) costituisca condizione (sospensiva) per l’efficacia del silenzio assenso. Il termine per la formazione del silenzio può essere interrotto una sola volta dall’Amministrazione, esclusivamente per la tempestiva richiesta all’interessato di elementi integrativi o di giudizio che non siano già nella disponibilità dell’Amministrazione e che essa non possa acquisire autonomamente. In tal caso il termine ricomincia a decorrere nuovamente dalla richiesta (ma non da successive eventuali richieste).
L’art. 19 l. proc. amm. (denuncia di inizio attività) prevede un’ipotesi in parte assimilabile a quella del silenzio assenso: ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, con la sola esclusione degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'amministrazione della giustizia, alla amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, alla tutela della salute e della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesaggistico e dell'ambiente, nonché degli atti imposti dalla normativa comunitaria, è sostituito da una dichiarazione dell'interessato corredata, anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste. Si tratta di procedimenti autorizzatori caratterizzati dalla totale assenza di discrezionalità amministrativa e di discrezionalità c.d. tecnica. L’acclaramento spettante all’Amministrazione ha ad oggetto esclusivamente la sussistenza in capo al richiedente dei requisiti e presupposti di legge. Né deve essere previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio dell’atto autorizzatorio, ciò che renderebbe necessario in caso di pluralità di domande una comparazione, e perciò una scelta tra di esse, che necessariamente dovrebbe avvenire discrezionalmente, cioè valutando gli interessi in gioco. L’istruttoria richiesta d’altro canto deve essere un’istruttoria di tipo esclusivamente cartaceo, consistente cioè dell’esame di un fascicolo (nel senso burocratico) costituito dalla domanda e dalle dichiarazioni di parte, coi documenti allegati; senza necessità di acclaramenti in fatto, quali ispezioni, analisi di laboratorio, valutazioni tecniche complesse. Il procedimento di denuncia è così disciplinato. Il privato interessato all’esercizio dell’attività prevista ne fa dichiarazione (“denuncia”) all’Amministrazione competente. La dichiarazione deve essere completa di tutti i dati identificativi richiesti e della documentazione necessaria. In base alla sola dichiarazione l’interessato acquista legittimazione all’esercizio dell’attività. A seguito della dichiarazione, l’Amministrazione è tenuta ad aprire un procedimento con oggetto la verifica della sussistenza in capo al richiedente dei presupposti e dei requisiti di legge, attraverso un esame del relativo fascicolo. Il procedimento di acclaramento può avere due esiti: uno positivo (sussistono i presupposti ed i requisiti) ovvero uno negativo (non sussistono i presupposti ed i requisiti). Nel primo caso si conclude con una archiviazione (“non atto”, secondo il Consiglio di Stato), che come tale non si traduce in un provvedimento da comunicare all’interessato. Nel secondo caso l’acclaramento negativo dà luogo all’apertura di altro procedimento, con oggetto l’attività di cui alla denuncia del dichiarante che può anche essere iniziata. Se ricorrono specifiche ragioni di interesse pubblico l’Amministrazione ordina all’interessato il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti. L’Amministrazione può anche prefiggere un termine al privato per la conformazione dell’attività iniziata alla normativa vigente, in ogni caso non inferiore a 30 giorni. Il trascorso del termine consoliderebbe in capo al privato la legittimazione all’esercizio dell’attività a prescindere dall’effettiva sussistenza dei presupposti e requisiti.
È previsto che un regolamento governativo determini i casi in cui il regime del procedimento di denuncia non possa applicarsi (e perciò resti fermo l’originario regime autorizzatorio) in quanto il rilascio dell’autorizzazione, licenza, etc. dipenda dall’esperimento di prove che comportino valutazioni tecniche discrezionali. Gli atti di parte (istanze o denunce) laddove constano dell’espressa dichiarazione dell’interessato circa la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti sono penalmente sanzionati (il 483 c.p., titolato “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, dice che Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni. Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre mesi). In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato. In questi casi necessariamente l’Amministrazione dovrà disporre il divieto di prosecuzione dell’attività ovvero l’annullamento dell’atto di assenso tacito. La fase decisoria provvedimentale. I tipi strutturali. I fatti e gli interessi acquisiti al procedimento, attraverso la fase istruttoria, le relative valutazioni laddove effettuate, mediante l’acquisizione di dichiarazioni di scienza e di giudizio, sono gli elementi sui quali deve fondarsi la decisione, laddove essa avviene mediante atti. La decisione indica il contenuto di un atto o di più atti nei quali il procedimento si conclude (la fattispecie si definisce e diviene efficace), come quello nel quale l’Amministrazione competente assume le proprie determinazioni in ordine all’oggetto del procedimento stesso. Decisione è termine usato in dottrina ad indicare una categoria di provvedimenti amministrativi (quelli intesi a decidere un procedimento contenzioso: ad es., ricorso gerarchico): ma si tratta di nozione meramente descrittiva che non è necessario seguire. La fase decisoria provvedimentale non sempre è semplice (monostrutturata): spesso si articola in una pluralità di manifestazioni di volontà tra loro in vario modo collegate ed espresse in una pluralità di atti (fase decisoria pluristrutturata). Fase decisoria semplice (monostrutturata) si ha laddove la decisione del procedimento si risolve nella manifestazione di volontà di un organo monocratico (ministro, dirigente generale, prefetto, etc.). Nei procedimenti più complessi, vertenti in materie dove sono presenti pluralità di interessi pubblici imputati ad autorità diverse, spesso tra loro in contrapposizione dialettica, la fase decisoria si presenta pluristrutturata, cioè articolata a sua volta in una pluralità di atti e procedimenti e quindi in una pluralità di momenti decisionali. La fase decisoria pluristrutturata si presenta nell’ordinamento positivo secondo diversi moduli. Il primo modulo è quello della decisione imputata ad un organo collegiale (decisione collegiale). Qui strutturalmente la vicenda rimane unitaria, ché si articola in un unico atto di decisione da parte dell’organo collegiale (atto complesso) nel quale la pluralità degli interessi è presente attraverso i membri del collegio. La decisione collegiale si determina, come sappiamo, attraverso un procedimento a sua volta complesso, articolato in più fasi: la convocazione del collegio nelle forme prescritte dalla legge e sulla base di un ordine del giorno, la riunione del collegio secondo il suo quorum strutturale, la formulazione di una o più proposte di decisione, la discussione sulle stesse, la votazione che dà luogo all’approvazione della proposta una volta raggiunto il quorum funzionale, la verbalizzazione relativa.
Gli stessi procedimenti collegiali a volte si presentano con una ulteriore articolazione: una volta assunta la deliberazione collegiale e perfezionata con la relativa verbalizzazione, essa viene trasmessa ad un organo monocratico (esterno al collegio) il quale la fa propria e con ulteriore atto la esterna: soltanto una volta emanato questo atto, la fase decisoria del procedimento si perfeziona e gli effetti si producono (modello della deliberazione preliminare). Il modello si trova diffuso ad es. in materia universitaria, alcuni poteri (come la chiamata per trasferimento di un professore di ruolo da parte di una facoltà) vengono esercitati mediante deliberazioni del consiglio di facoltà o del senato accademico o di altro organo collegiale dell’Ateneo, ma esternati con decreto del ministro (o del rettore). Modello similare è quello che possiamo denominare dell’approvazione: in esso la fase decisoria si snoda per due momenti entrambi consistenti di atti monocratici, un primo atto propriamente decisorio ed il secondo atto di approvazione del primo. Questo secondo atto non è un atto di controllo, ma l’atto che perfeziona il momento decisorio. Gli altri moduli esprimono la presenza nella fase decisoria di una pluralità di atti come quelli nei quali a loro volta si esprime una pluralità di interessi. Tra questi il primo modulo da evidenziare è quello in cui un determinato atto di decisione (da parte di organo monocratico o collegiale) viene assunto su proposta di altro organo (decisione su proposta). Si tratta di proposta necessaria e formalizzata nella sua imputazione ad un organo fissato dalla legge, anche se membro di collegio (da non confondersi con la proposta di deliberazione collegiale da parte di un membro qualunque del collegio). La decisione si scinde qui in due atti, quello di proposta e quello di decisione vero e proprio. Il modulo si presenta secondo due schemi diversi: la proposta di deliberazione collegiale da parte di organo monocratico il cui titolare è membro del collegio; la proposta di organo ad altro organo che assume la decisione. La rigidità che rispettivamente presentano la proposta e la decisione nel modello in esame comporta un’esigenza di accordo (sostanziale, politico) tra le due autorità ai fini del decidere: la proposta può essere in concreto formulata con un contenuto precedentemente “trattato” con l’autorità decidente. L’accordo tra più autorità, esplicitato e formalizzato e non surrettizio, costituisce l’esigenza che sta alla base del modello dell’atto decisorio imputato a più organi dello stesso ente (esempio tipico è il decreto interministeriale), nonché del modello del concerto e dell’intesa. L’atto imputato a più organi dello stesso ente, come il decreto interministeriale, esprime la volontà convergente dei titolari degli organi stessi: viene assunto contestualmente da tutti essi, senza differenza alcuna di posizione e di ruolo. Il concerto è il modulo strutturale proprio delle relazioni interorganiche, mediante il quale più organi dello stesso ente, portatori di interessi diversi, tutti coinvolti nell’esercizio di un determinato potere amministrativo, partecipano (non collegialmente ma attraverso distinte manifestazioni di volontà) alla relativa decisione. Un organo (c.d. concertante) deve prendere l’iniziativa della fase decisoria, formulando una proposta di decisione e su di essa interpellando gli altri organi (c.d. concertati) previsti dalla legge. Questo adempimento può anche mancare od essere del tutto informale. Se tutte le autorità del concerto non sono tra loro d’accordo circa ogni elemento della decisione, questa non può essere assunta. Il concerto postula l’intervento nel procedimento di tutti gli organi concertati in posizione di parità alla fase costitutiva, per cui l’atto va giuridicamente imputato a tutte le autorità che sono
intervenute in tale fase, e deve essere sottoscritto da tutte le predette autorità (Cons. St., VI, 1073/1978). Il concerto in caso di mancato accordo tra le autorità può dar luogo ad un conflitto tra le stesse che viene risolto secondo i rimedi previsti dall’ordinamento con riferimento alle diverse categorie di relazioni di cui trattasi (se si tratta di relazioni tra ministeri, l’eventuale conflitto è risolto dal consiglio dei ministri; se si tratta di relazioni di tipo gerarchico, dall’autorità sovraordinata; in qualche caso, come quello delle nomine di magistrati, potrebbe anche configurarsi in proposito un conflitto tra poteri dello Stato). L’intesa è istituto proprio delle relazioni intersoggettive; anche nell’intesa possiamo determinare un’autorità cui formalmente il potere è imputato – quella esponenziale dell’Amministrazione procedente – che deve interpellare (chiedere l’intesa) l’organo dell’altro ente, che deve dare l’intesa. Senza l’intesa tra i due enti, il potere non può essere esercitato: per cui occorre raggiungere tra esse l’accordo sul merito della decisione. Che succede in caso di mancato accordo? Il problema coinvolge il settore delle relazioni tra autonomie costituzionalmente garantite. A volte è lo stesso diritto positivo che si pone espressamente il problema e prevede procedimenti finalizzati a superare lo stallo. In mancanza di ciò, le vie possibili sono due, entrambe contenziose: l’impugnazione davanti al TAR, nelle forme del ricorso giurisdizionale amministrativo contro il rifiuto dell’intesa da parte dell’altro ente; ovvero, se si tratta di relazioni Stato-Regioni, l’elevazione davanti alla Corte costituzionale di un conflitto ai sensi del 134 Cost. L’altro ed ultimo modello di fase decisoria pluristrutturata è il modello dei procedimenti presupposti (o del procedimento di procedimenti). Nei casi che abbiamo illustrato l’articolazione modulare si risolve nella fase decisoria; in altri casi un medesimo esercizio di potere (una funzione) si articola su procedimenti diversi facenti capo a diverse Amministrazioni, tenute ad acquisire e valutare differenti interessi pubblici; e ciascun procedimento si conclude con un atto decisionale imputato ad una determinata autorità amministrativa. Esso costituisce il presupposto per l’apertura del successivo procedimento davanti ad altra Amministrazione, che a sua volta si conclude con un atto decisionale. Si può citare come esempio tipico di questo modello l’attività concernente l’emanazione dei piani regolatori urbanistici, che consta di un primo procedimento imputato al Comune, che si conclude con una deliberazione consiliare di adozione del piano; e di un successivo procedimento, imputato alla Regione, che si conclude a sua volta con una deliberazione del Consiglio o della Giunta regionale di approvazione del piano, che è l’atto finale in quanto direttamente produttivo degli effetti. In questi casi di procedimenti presupposti, avviene in genere che ciascuno di essi produce effetti, almeno parziali od interinali; e perciò ciascuno di essi si conclude con un atto decisionale che ha a sua volta natura di provvedimento (nel senso della sua immediata impugnabilità). Il rapporto di presupposizione tra i due procedimenti è dato da ciò, che il secondo procedimento non può iniziare se l’altro non si è concluso; e d’altro canto l’atto conclusivo del primo costituisce il fatto intorno al quale ruota il secondo procedimento. La pluralità strutturale può essere per così dire ridotta ad unità, in certi limiti ed a certe condizioni, usando istituti introdotti dalla legislazione più recente intesi a favorire decisioni contestuali e concordate tra le diverse Amministrazioni coinvolte nella fase decisoria del procedimento.
Si fa riferimento alla conferenza di servizi nonché all’accordo di programma. La conferenza di servizi può essere sempre indetta dalle Amministrazioni procedenti al fine di ovviare alla pluralità degli atti decisori prevista dalle leggi di settore. Essa può sempre intervenire laddove più Amministrazioni cooperano con diverso ruolo formale alla definizione di un procedimento: laddove questa avviene con atto individuale. Non è viceversa superabile la deliberazione collegiale laddove richiesta: l’atto collegiale infatti è a sua volta frutto di un procedimento formalizzato e complesso ed in nessun caso può essere sostituito dalla partecipazione alla conferenza di servizi dei rappresentanti delle diverse Amministrazioni. Circa il c.d. accordo di programma, esso appare attratto nell’ambito della fase decisoria negoziata. Individuazione del provvedimento. Tutti i menzionati atti della fase decisoria hanno contenuto provvedimentale, sono cioè dichiarazioni di volontà ovvero di scienza o di giudizio, assunte nell’esercizio di un potere amministrativo (discrezionale e non) da parte di un’autorità amministrativa ed intese a produrre determinati effetti. In ciò si differenziano dagli atti della fase istruttoria, dichiarazioni di scienza o di giudizio, non intese a produrre effetti in senso tecnico in capo a soggetti terzi. Nei casi in cui la fase decisoria è pluristrutturata, mentre tutti gli atti dei quali essa consta hanno indubbiamente contenuto decisorio, uno solo tra essi è quello nel quale la fattispecie dell’esercizio del potere si perfeziona e perciò diviene produttiva di effetti, mentre più possono essere gli atti produttivi di effetti parziali od interinali. Sul punto si pone dunque un problema di carattere formale, che è quello di identificare tra i diversi atti della fase decisoria il provvedimento in senso formale, quello cioè nel quale la fattispecie si perfeziona e dal quale vengono senz’altro e definitivamente prodotti gli effetti propri e tipici cui dà luogo l’esercizio di quel determinato potere. Il provvedimento in senso formale è l’atto che secondo una determinata disciplina perfeziona una determinata fattispecie di esercizio del potere. Viceversa l’autorità emanante il provvedimento in senso formale non può essere isoalta come autorità decidente in ordine al concreto esercizio di potere: autorità decidenti sono tutte quelle che hanno partecipato con propri atti alla fase decisoria del procedimento. Il problema dell’individuazione del provvedimento in senso formale si risolve in concreto attraverso l’interpretazione della relativa normativa: l’atto è quello cui la legge imputa direttamente la produzione degli effetti (ad es., il d.m. e non la deliberazione della facoltà di chiamata dei professori di ruolo). A volte (nell’ambito del modello dei procedimenti presupposti) l’esercizio del potere si articola a sua volta in più procedimenti ciascuno dei quali si conclude con un atto di tipo provvedimentale anch’esso produttivo di effetti sia pure parziali od interinali. Si tratta dei c.d. atti presupposti, che secondo la giurisprudenza vanno considerati, per quanto concerne gli effetti loro propri, provvedimenti amministrativi autonomi ai fini dell’impugnazione (in sede giurisdizionale od amministrativa). La giurisprudenza tende a far coincidere detta nozione con quella che indica tutti gli atti dotati dei caratteri menzionati, e perciò produttivi di qualche effetto nei confronti di situazioni soggettive di terzi. Il provvedimento, formalmente inteso come quello direttamente produttivo degli effetti, deve essere comunicato agli interessati, unitamente alla sua motivazione. I soggetti cui il provvedimento deve essere comunicato sono da ritenere coincidenti coi soggetti di cui al 7 l. proc. amm., come quelli cui va comunicato l’avvio del procedimento.
Il provvedimento amministrativo deve considerarsi comunicato allorché una copia sia pervenuta alla conoscenza del destinatario ovvero costui era in grado di conoscerla. L’atto amministrativo per poter essere considerato esistente come fattispecie giuridica produttiva di effetti deve essere identificabile come tale; e cioè consistere di una dichiarazione (espressione di volontà, o di scienza o di giudizio, a seconda dei casi, di un certo contenuto) imputabile ad un determinato soggetto cui almeno in astratto è dalla legge attribuito il relativo potere: e l’oggetto della dichiarazione deve essere esistente ed identificabile. E perciò è inesistente l’atto privo di firme, privo di contenuto, l’atto che ha ad oggetto una cosa che non esiste, etc. Diverso problema è quello del regime giuridico degli atti emanati in carenza di potere, che secondo una certa dizione ricorrente in giurisprudenza sono considerati “inesistenti” (ma si tratta solo di una forma di invalidità particolarmente grave). Al di là di questa esigenza di identificazione, comune a tutti gli atti giuridici, si pone il problema della forma degli atti e dei provvedimenti amministrativi. Mentre in genere si afferma che per gli atti amministrativi vige il principio della libertà di forme, a volte la giurisprudenza ritiene viceversa determinate forme come richieste ad substantiam e la relativa mancanza come causa di radicale ed insanabile nullità. Sul punto, in attesa di un chiarimento legislativo, è difficile enunciare soluzioni soddisfacenti. Una determinata forma può essere prevista ad substantiam da espresse norme legislative ovvero dalla natura propria dell’atto. In assenza di ciò i vizi di forma degli atti amministrativi si configurano sempre come vizi di illegittimità, e non come inficianti l’esistenza stessa dell’atto come fattispecie giuridica, o come causa di nullità dello stesso. La forma scritta è da ritenere richiesta ad substantiam soltanto laddove espressamente previsto dalla legge, ovvero nei casi in cui è imposta dalla natura stessa degli atti di cui trattasi. Laddove manca l’atto stesso come fattispecie giuridica, perché non è identificabile nei suoi elementi essenziali, esso non può certamente essere surrogato da comportamenti di fatto che sarebbero stati la dovuta conseguenza dell’atto ma che, in mancanza di esso, sono posti in essere senza alcun titolo. Il decreto legislativo 39/1993 prevede che di norma gli atti amministrativi vengano predisposti tramite i sistemi informativi automatizzati. Per alcune categorie di atti si prevede anche l’emanazione attraverso i medesimi sistemi. In tali casi la firma dell’autorità decidente è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile. La l. 59/1997 ha poi disposto che gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione con strumenti informatici e telematici nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge: si tratta dell’atto amministrativo informatico (Masucci). Il t.u. doc. amm. (d.p.r. 445/2000) ha affermato la validità e la rilevanza giuridica di tutti i documenti informatici (tra cui appunto gli atti amministrativi) formati, registrati su supporto informatico e trasmessi con strumenti telematici, in conformità alle disposizioni normative in esso contenute, i quali vengono in questo modo a soddisfare il requisito legale della forma scritta; esso prevede poi l’equiparazione alla sottoscrizione autografa sul documento cartaceo della c.d. firma digitale sul documento informatico. La firma digitale consiste in una complessa procedura informatica che consente al sottoscrittore del documento, tramite una chiave privata (conosciuta solo dal titolare), di esternare il
documento stesso e al destinatario, attraverso una chiave pubblica, di verificarne la provenienza e l’integrità. La chiave pubblica è depositata presso un soggetto pubblico o privato che certifica (ovvero sospende o revoca la certificazione) a favore dei terzi che ne facciano richiesta (per l’utilizzazione dell’atto), l’effettiva attribuzione della chiave pubblica al soggetto titolare. Un importante esempio di atto amministrativo informatico è rappresentato dal c.d. mandato informatico, attraverso il quale le amministrazioni (mediante gli uffici di tesoreria) dispongono il pagamento di somme nei confronti dei terzi. A proposito del complessivo fenomeno dell’elaborazione e della trasmissione di atti e documenti amministrativi in forma elettronica o telematica si parla da taluno di teleamministrazione (Duni). Circa gli altri elementi del provvedimento amministrativo come atto giuridico, essi sono tradizionalmente indicati nel soggetto, nell’oggetto, nel contenuto dispositivo, nella causa (profilo funzionale). Il provvedimento amministrativo è un atto giuridico, non un mero fatto, e cioè un fatto imputabile ad una volontà umana (è una dichiarazione). Ancora, nel caso di provvedimenti discrezionali, esso è l’espressione di una volontà diretta alla produzione degli effetti (Santoro Passarelli): in tal caso, non dunque un mero atto ma un atto ascrivibile alla categoria di quelli negoziali. Però la disciplina di diritto comune relativa agli atti negoziali (e segnatamente la disciplina della volontà e dei suoi vizi) si applica solo marginalmente ai provvedimenti amministrativi che sono retti da una disciplina loro propria circa l’invalidità. Le regole fondamentali che presiedono all’interpretazione degli atti giuridici sono fissate dal codice civile agli artt. 1362 ss. (per la legge e gli atti normativi valgono le regole di cui al 12 preleggi): si tratta di regole applicabili anche agli atti amministrativi, secondo una giurisprudenza ormai consolidata. Soltanto alcune delle regole sull’interpretazione fissate dal codice sono ritenute inapplicabili agli atti amministrativi (ad es. quella di cui al 1370, interpretazione delle clausole generali nel senso sfavorevole alla parte da cui provengono). Tra le regole codicistiche applicabili all’interpretazione degli atti amministrativi si segnalano queste: anzitutto preminente importanza deve essere data all’interpretazione letterale delle espressioni usate nel testo dell’atto. Ma il testo dell’atto va interpretato esaminandolo nella sua interezza (premesse, motivazione, dispositivo) e con riferimento agli atti procedimentali; e guardando al contenuto dell’atto stesso. Ove il testo risulti oscuro o contraddittorio occorre valutare il comportamento dell’Amministrazione posto in essere prima e dopo l’emanazione dell’atto, anche in applicazione del 1362.2 (Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto). Nell’interpretazione degli atti amministrativi è applicabile il 1364: per quanto generali siano le espressioni usate nell’atto, il contenuto dispositivo dello stesso non comprende che gli oggetti suoi propri. In caso di più interpretazioni possibili deve privilegiarsi quella che dà all’atto un qualche effetto anziché nessuno (principio generale di conservazione degli atti giuridici: 1367); e quella che dà luogo ad un significato conforme alla norma. Si ritiene che sia esclusa la possibilità per l’Amministrazione emanante un determinato atto di dare allo stesso con successivo atto un’interpretazione autentica.
L’Amministrazione può dare chiarimenti successivi circa il modo di intendere un determinato suo atto, ma questi non vincolano l’interprete, il quale è semplicemente tenuto ad applicare l’atto secondo il significato stabilito usando le regole sull’interpretazione. L’Amministrazione può intervenire su un determinato assetto di interessi quale fissato con un atto giuridico solo attraverso un nuovo atto giuridico che innovi, laddove consentito, all’assetto medesimo (l’Amministrazione può intervenire sull’assetto di interessi stabilito mediante atto c.d. di autotutela). Il contenuto dispositivo del provvedimento assume caratteristiche del tutto peculiari quando il provvedimento è negativo (provvedimento negativo). La categoria degli atti negativi è sconosciuta nel settore negoziale (non esistono negozi negativi); e nel campo dei provvedimenti amministrativi emerge solo nei casi di esercizio del potere su istanza di parte. Ma dopo la l. proc. amm., è da ritenere che anche i procedimenti ad iniziativa d’ufficio comunicati agli interessati ai sensi dell’art. 7 debbano concludersi con espresso provvedimento negativo e non con semplice “non atto”. Il provvedimento negativo, esprimendo da parte dell’Amministrazione la volontà di non produrre (nella determinata situazione che si presenta) la modificazione giuridica richiesta, non esaurisce l’esercizio del potere nel caso concreto: l’Amministrazione può successivamente modificare, a fronte di una nuova richiesta anche dello stesso tenore, la propria posizione, e provvedere positivamente. Ma il soggetto portatore di interesse legittimo, se non ha impugnato l’originario provvedimento negativo, non potrà impugnare la seconda manifestazione di volontà negativa espressa sulla sua richiesta, ove questa sia meramente confermativa della prima; mentre potrà impugnarla ove essa, pur identica alla prima nel contenuto dispositivo, sia fondata su una situazione di diritto e di fatto diversa. Il profilo funzionale del provvedimento (corrispondente alla causa degli atti negoziali) sta nello scopo di interesse pubblico concretamente perseguito. Esso non può mancare perché tutti i poteri amministrativi sono finalizzati ed il fine perseguito rileva sempre in ogni manifestazione dell’azione amministrativa. In diritto amministrativo non si pone un problema di causa, perché essendo tutti i poteri (e quindi i provvedimenti) tipici e nominati, non sussistono le ragioni che in materia negoziale rendono necessaria l’individuazione della causa. Il negozio atipico in tanto è lecito in quanto, esaminato sotto il profilo causale, esprime interessi meritevoli di tutela; il provvedimento atipico non esiste (salve le c.d. ordinanze), ed esso è legittimo in quanto conforme alla legge. Viceversa il profilo funzionale del provvedimento si esprime proprio nel motivo (nei motivi) che, a differenza di quanto accade in materia negoziale, è sempre rilevante. Il motivo esprime la ragione (lo scopo), l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’Amministrazione con quel determinato provvedimento. Esso, in via di principio, deve essere espresso, cioè esternato chiaramente attraverso espressioni idonee (come la motivazione scritta) a renderlo percepibile all’esterno. Per i provvedimenti adottati in forma scritta si pone il problema se essi devono contenere nello stesso contesto della dichiarazione una espressa motivazione. La l. proc. amm. enuncia (all’art. 3) in via generale l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi salvi quelli a contenuto normativo o comunque generale. Ogni provvedimento formalmente inteso come atto direttamente produttivo degli effetti (prescindendo dal suo contenuto effettivamente decisionale) deve contenere nel suo testo
l’esplicitazione dei motivi essenziali della decisione assunta in concreto: e cioè deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. La l. proc. amm. fissa, unitamente alla regola generale circa l’obbligo della motivazione, quella dell’obbligo della comunicazione della stessa, insieme con il provvedimento. Sul punto la l. proc. amm. introduce due importanti regole: anzitutto, ove la motivazione risulta da altro atto della fase decisoria (ad es., deliberazione preliminare) o della fase istruttoria (ad es., parere), questo atto deve essere espressamente richiamato nel testo del provvedimento, e non genericamente ma come quello nel quale sono contenute le ragioni della decisione. Esso deve essere espressamente indicato nel testo dell’atto col quale il provvedimento è comunicato agli interessati; e reso disponibile agli interessati medesimi. Ciò significa che nella comunicazione deve essere indicato il luogo (reperibile) in cui l’atto è pubblicato o l’ufficio dove esso, in copia, è a disposizione degli interessati: ciò ove risulti difficoltosa o non opportuna (per esigenze di riservatezza) la comunicazione senz’altro dell’atto stesso, unitamente al provvedimento. Da ultimo, la norma prescrive che nella comunicazione del provvedimento siano altresì indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere. Le eccezioni al principio vengono circoscritte a casi di atti non discrezionali il cui contenuto acclarativo abbia uno svolgimento meramente meccanico (e così ad es. l’esercizio del diritto di prelazione del bene storico ed artistico, la diffida a demolire costruzioni abusive, etc.). La definizione del procedimento mediante accordi (fase decisoria negoziata). L’11 l. proc. amm. consente all’Amministrazione procedente, in accoglimento di osservazioni e proposte (presentate dai soggetti interessati nell’ambito dell’istruttoria) di concludere accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, ferma restando l’esigenza del perseguimento del pubblico interesse (“in ogni caso”, sottolinea la norma), e senza pregiudizio dei terzi. Prevede altresì (soppresso: “nei casi previsti dalla legge”) che, sempre in esito al procedimento pendente, possano essere conclusi accordi in sostituzione del provvedimento. È da ritenere che la norma introduce nel nostro ordinamento la figura del contratto (o accordo) di diritto pubblico. Si tratta di ciò, che nell’esercizio di poteri amministrativi discrezionali il contenuto dispositivo degli atti nei quali il potere si estrinseca può essere oggetto di negozio con le parti interessate, negozio che può configurarsi come quello che definisce la fattispecie procedimentale e produce gli effetti (sostitutivo) ovvero come quello il cui contenuto dispositivo viene versato nel provvedimento (integrativo). In tale secondo caso la fattispecie procedimentale è definita dal provvedimento ed è questo a produrre gli effetti, ma parte (o tutto) del contenuto dispositivo di questo atto deriva da un negozio ed è coperto dalla disciplina negoziale. Gli accordi in oggetto diventano un modulo procedimentale di esercizio del potere amministrativo alternativo al provvedimento. Circa gli accordi sostitutivi la disciplina generale rinvia ai casi previsti dalla legge. Anche per gli accordi sostitutivi la norma introduce la disciplina generale. L’accordo sostitutivo è atto conclusivo di un procedimento e si situa dunque senz’altro in una fattispecie procedimentale, in un rapporto di diritto pubblico; resta perciò del tutto distinto dai casi in cui l’Amministrazione (laddove consentito) usa un modulo di diritto comune in alternativa all’esercizio del potere ed al procedimento.
Tradizionalmente vengono ritenuti accordi sostitutivi del provvedimento quelli in materia di espropriazione per p.u. Nel caso dell’espropriazione, a partire dal momento in cui è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di concludere col soggetto beneficiario dell’espropriazione un accordo di cessione del bene o della sua quota di proprietà. L’accordo, per avere carattere pubblicistico, deve avvenire nell’ambito del procedimento ed una volta avutasi la dichiarazione di p.u. dei beni; altrimenti resta una compravendita di diritto comune. L’accordo ha natura negoziale, però ad esso si applica solo in parte la disciplina negoziale, e per altra parte si applica la disciplina propria del provvedimento che esso sostituisce. Nella disciplina dell’espropriazione è ad es. ritenuto pacifico che agli accordi sostitutivi non si applica la disciplina della rescissione per lesione (1448 c.c.) e della risoluzione per inadempimento (1453 c.c.). Le controversie concernenti gli accordi in oggetto sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Più perplessa la disciplina sostanziale. Circa la forma, è richiesto a pena di nullità l’atto scritto. La forma scritta è qui dunque richiesta ad substantiam, non costituisce mero requisito di validità. Circa il procedimento, è espressamente previsto che gli accordi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i provvedimenti che sostituiscono: ciò comporta che l’accordo pur perfezionato come fattispecie alla stipulazione dell’atto scritto non acquista efficacia se non una volta superata la fase del controllo. Per il resto, agli accordi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Il più rilevante innesto della disciplina amministrativa nei rapporti in oggetto è quello previsto dall’11.4, che si potrebbe chiamare dell’autotutela legata: la norma prevede il recesso unilaterale per sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Il recesso previsto dalla norma non corrisponde al recesso unilaterale di cui al 1373. Questo recesso è in realtà una revoca del tutto corrispondente alla revoca del provvedimento amministrativo sostitutivo dell’accordo: esso corrisponde alla forma più tipica di revoca, che consente appunto l’eliminazione giuridica ex nunc dell’atto i cui effetti vengono a risultare in contrasto con interessi pubblici nel frattempo emersi. Se l’atto è costitutivo di un rapporto, l’esercizio del potere di revoca produce la risoluzione del rapporto stesso. Il recesso può essere prodotto non per originari vizi di merito dell’accordo (inopportunità ab origine) ma per un successivo contrasto venutosi a delineare tra il contenuto di questo (i suoi effetti) ed un nuovo assetto degli interessi pubblici in gioco successivamente emerso. Il potere di autotutela decisoria è dunque in primo luogo legato nella sua causa: può esercitarsi solo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, e non per altri motivi. Ed è perciò legato ancora nella sua struttura e forma e nei suoi effetti: si estrinseca nel c.d. recesso unilaterale, ascrivibile al modello della revoca-abrogazione (per inopportunità sopravvenuta dell’atto, con effetti ex nunc) e non in altri tipi. Sembrano da escludere altre forme di autotutela. Ma ancora, il potere di autotutela è legato per ciò che concerne uno dei suoi effetti espressamente previsto dalla norma: e cioè l’obbligo di indennizzare gli eventuali pregiudizi verificatisi in
danno del privato (“pregiudizi in danno” è espressione curiosa: significa semplicemente “danno”). Gli interessi del privato sono tutelati nell’assetto cristallizzato con l’accordo anche a fronte di sopravvenuti interessi pubblici in contrasto; ma in tal caso è l’equivalente pecuniario ad essere garantito al privato. Le controversie in ordine all’esercizio del potere di recesso unilaterale sono attribuite alla giurisdizione amministrativa. Gli accordi ai quali si riferisce la disciplina brevemente esposta sono anche quelli conclusi “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento”. Strutturalmente l’accordo integrativo è identico all’altro, anche quanto a disciplina applicabile. È stipulato per iscritto, dalle parti, disciplinato secondo i principi del codice, sottoposto ad autotutela legata, e le relative controversie sono conosciute dal giudice amministrativo nell’ambito della sua giurisdizione esclusiva. L’accordo integrativo tuttavia non è in grado di produrre gli effetti con esso “negoziati”: il suo contenuto deve essere versato nel provvedimento dell’Amministrazione. Quest’ultimo resta l’atto che definisce la fattispecie procedimentale e produce gli effetti. L’accordo produce però effetti interinali (sino all’adozione del provvedimento) tra le parti, che restano legate, almeno in certi limiti, a quanto pattuito. Il privato lo è senz’altro e completamente, sempre che il provvedimento sia adottato nei tempi pattuiti. Ma in certi limiti lo è anche l’amministrazione, la quale è tenuta ad adottare il provvedimento nei tempi e con le modalità pattuite. Il provvedimento, una volta adottato e divenuto efficace, si presenta come fattispecie, sottoposto ad un doppio regime. Infatti, per una parte del suo contenuto, quella negoziata, esso è soggetto alla disciplina dell’accordo, per l’altra parte esso è soggetto alla disciplina del provvedimento. E così, circa la validità, la parte della fattispecie coperta dal contenuto dell’accordo segue il regime di quello, e quindi la disciplina del codice in tema di invalidità negoziale. Mentre per il resto la fattispecie è valida od invalida secondo la disciplina degli atti amministrativi. Circa l’efficacia (e l’eventuale esecutorietà) essa è quella propria del provvedimento. Ma circa la c.d. autotutela decisoria, si torna alla predetta distinzione. I limiti di cui all’11.4 l. proc. amm. valgono per l’accordo, e si versano sul provvedimento per la parte di esso che è coperta dall’accordo; mentre per le altre parti (che possono presentare propri vizi: si pensi all’incompetenza), il provvedimento è soggetto ai principi propri degli atti amministrativi in materia di autotutela. Circa la tutela dei terzi (a fronte e degli accordi sostitutivi e di quelli integrativi), appare pacifico che i terzi possano impugnare gli accordi (nonché i provvedimenti integrativi degli accordi) davanti al giudice amministrativo, come portatori di interessi legittimi. I terzi, nel caso di accordi sostitutivi, possono impugnare direttamente l’accordo davanti al giudice amministrativo; nel caso di accordi integrativi, che sono da ritenere non direttamente impugnabili perché non direttamente lesivi, impugnano il provvedimento e con esso, per la parte corrispondente, l’accordo relativo. Quanto ai diritti dei terzi, che non possono essere pregiudicati dall’accordo, essi possono trovare tutela davanti al giudice ordinario, che potrà disapplicare l’accordo per la parte lesiva del diritto del terzo.
Il 15 l. proc. amm. contempla gli accordi fra le pubbliche amministrazioni, cioè gli accordi che le Amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. In proposito, dice la norma, si osservano in quanto applicabili le disposizioni dell’11.2, 11.3 ed 11.5. Questi accordi sussistono, avverte la norma, anche al di fuori delle ipotesi previste dal 14 (conferenza di servizi). La principale figura legislativamente prevista di questi accori tra Amministrazioni è il c.d. accordo di programma. L’ord. enti locali prevede uno strumento procedimentale ad applicazione generale per la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione integrata e coordinata di Comuni, di Province e Regioni, di Amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti. Per concordare l’accordo viene convocata una conferenza tra i rappresentanti di tutte le Amministrazioni interessate, le quali esprimono il loro consenso unanime alla proposta di accordo. Una volta concordato nella conferenza (della quale fa fede il relativo verbale) l’accordo è versato in un atto formale ed è pubblicato nel b.u. della Regione (la norma veramente dice che l’accordo è “approvato” con tale atto, ma si tratta di atto di mera esternazione). È previsto un collegio che vigila sull’osservanza dell’accordo cui sono imputati gli eventuali interventi sostitutivi delle inadempienze dei singoli soggetti partecipanti all’accordo, se espressamente previsti. Gli accordi di programma hanno natura negoziale: ciò è da intendere nel senso che ad essi si applicano le norme della l. proc. amm. per gli accordi sostitutivi di provvedimenti. La stessa conferenza di servizi può dar luogo ad accordi con le stesse conseguenze in ordine alla disciplina applicabile, sempre che vi sia il consenso (espresso) di tutte le Amministrazioni interessate. Cenni ad una tipologia dei procedimenti amministrativi. Non sussistono, salve poche eccezioni, per l’attività amministrativa di diritto pubblico, discipline di settore, applicabili cioè a determinate manifestazioni di codesta attività e non ad altre. Le classificazioni tradizionali dell’attività amministrativa di diritto pubblico sono classificazioni di atti giuridici, o di provvedimenti, ma quest’impostazione non può essere condivisa: l’amministrazione in senso sostanziale, cioè l’attività intesa alla cura concreta di interessi pubblici, avviene mediante esercizio di poteri ciascuno dei quali finalizzato alla cura di determinati interessi o classi di interessi; e l’esercizio dei poteri si articola sempre in procedimenti, cioè in serie di atti e di fatti tra loro collegati in vista del raggiungimento di determinati risultati. In termini descrittivi, poteri e procedimenti amministrativi si possono classificare: secondo il soggetto, secondo l’oggetto, secondo la forma, secondo la causa (ambito di interessi curato: profilo funzionale), secondo la struttura della decisione da assumere, secondo il contenuto dispositivo, cioè la tipologia degli effetti. Sotto il profilo soggettivo, possiamo distinguere poteri statali, poteri regionali, comunali, etc., e nell’ambito dello Stato, poteri del tale e del tal altro ministero, del Consiglio dei ministri, del Presidente della Repubblica; e così nell’ambito della Regione, i poteri del Consiglio, quelli della Giunta, etc.
Sul punto bisogna fare attenzione a distinguere l’Amministrazione procedente nell’ambito della quale si incentra l’istruttoria procedimentale ed in genere anche il momento decisionale (nella sua sostanza), dall’autorità decidente (individuata come quella cui è imputata l’emanazione del provvedimento). Sotto il profilo oggettivo, possiamo distinguere poteri che si esercitano con riguardo a cose (dichiarazioni di beni culturali, espropriazioni per pubblica utilità, etc.) o con riguardo a persone (conferimento di status, di cittadinanza, etc.) ovvero con riguardo a rapporti (che possono essere costituiti, modificati od estinti per effetto dell’esercizio del potere). Ancora sotto il profilo dell’oggetto, si deve evidenziare la distinzione tra procedimenti di primo e di secondo grado: i primi direttamente concernenti una situazione reale, i secondi aventi ad oggetto altri procedimenti, già conclusi, al fine di vagliarne la legittimità, l’opportunità, etc. Sotto il profilo della forma, possiamo distinguere poteri che si estrinsecano in atti scritti e poteri che si estrinsecano in altra forma, orale o comportamentale. Sotto il profilo funzionale, si possono elaborare svariate classificazioni, ed avremo poteri di pianificazione territoriale e di programmazione economica, poteri di governo economico o di settore, e così via. La classificazione funzionale è quella da prendere alla base per l’individuazione delle parti speciali del diritto amministrativo. Secondo il contenuto dispositivo, emergono alcune distinzioni tra tipi di poteri, e relativi provvedimenti: a seconda che il contenuto stesso sia generale ovvero puntuale (o singolare); a seconda che gli effetti prodotti siano di tipo costitutivo ovvero dichiarativo ovvero preclusivo; e tra quelli costitutivi, a seconda che gli effetti siano di tipo ablativo ovvero accrescitivo (o concessorio in senso lato). Il contenuto dispositivo generale di un atto indica propriamente ciò, che esso produce i suoi effetti nei confronti di una pluralità indifferenziata di oggetti. Il carattere della generalità in senso proprio (c.d. generalità-astrattezza) si rinviene negli atti normativi. La principale e più sicura categoria di atti amministrativi a contenuto generale è data dagli atti normativi secondari, dai regolamenti. La distinzione fra atti amministrativi generali e regolamenti rileva sul piano pratico, perché i regolamenti, come fonti del diritto, producono effetti di carattere normativo, che usufruiscono di un regime diverso rispetto a quello degli atti generali non normativi. Si deve seguire in materia un criterio sostanziale, e cioè laddove il contenuto dell’atto amministrativo è generale-astratto, sostanzialmente normativo, esso deve essere adottato come regolamento. Vi è tuttavia uno spazio per atti amministrativi a contenuto generale e non normativo che possono essere indicati come quelli che applicano ed eseguono norme vigenti, anche se nei confronti di una pluralità di soggetti indeterminati, e magari indeterminabili, ma esaurendosi una tantum (Crisafulli): ad es. gli ordini di leva militare, i bandi di concorso, etc. A differenza dei casi di esercizio del potere mediante atti puntuali, qui viene presa in considerazione dall’Amministrazione una situazione globale (come insieme o serie di cose, soggetti, fenomeni) e curata nella sua globalità; non distinguendo, come separato e distinto oggetto di cura, i singoli elementi che la compongono. La nozione di atti di programmazione comprende gli atti attraverso i quali l’Amministrazione, a fronte di una situazione complessa (sul piano spaziale o temporale) valutata e presa in esame nella sua globalità, determina l’ordine ed i contenuti dell’azione dei soggetti (pubblici e privati, ivi compresa la stessa Amministrazione titolare del potere) in essa coinvolti.
Si tratta del c.d. metodo della programmazione: questo metodo comporta che ogni singolo procedimento amministrativo concreto concernente un determinato settore sia preceduto da un atto che programma la distribuzione delle “risorse” del settore da destinare ai diversi tipi di interventi. Si danno atti di programmazione dal contenuto onnicomprensivo, come i piani regionali di sviluppo, ma si danno atti di programmazione dal contenuto propriamente settoriale, come ad es. il piano regolatore degli acquedotti. A fronte dell’attività di pianificazione e programmazione, che ha contenuto generale, si pone sempre una successiva attività, che consta viceversa di procedimenti a contenuto puntuale. A questo genere di atti, non direttamente produttivi di effetti, ma destinati a riflettersi sulla successiva attività amministrativa puntuale, si ascrivono i c.d. atti di autolimitazione e le direttive (“circolari”), gli atti mediante i quali l’amministrazione detta criteri e modalità per l’esercizio dei poteri discrezionali. Gli atti di autolimitazione vincolano la successiva attività di esercizio dei poteri discrezionali ai criteri ed alle modalità in essi fissate, a pena di illegittimità per eccesso di potere. Nella categoria dei procedimenti ablatori l’effetto (modificazione giuridica in senso tecnico) si produce nella sfera altrui (soggetto terzo rispetto all’Amministrazione, nel cui ambito avviene la modificazione) senza alcun apporto della volontà giuridica dello stesso. Ad es. per effetto del provvedimento di espropriazione il diritto di proprietà si estingue in capo al soggetto espropriato senza che la volontà di questi abbia acquistato il minimo rilievo nella produzione dell’effetto. In questi tipi di procedimenti si presenta al massimo grado la c.d. imperatività propria dell’attività amministrativa di diritto pubblico, e si evidenzia la massima deroga (se così può dirsi) al principio fondamentale di diritto comune secondo il quale nessuna modificazione giuridica (neanche vantaggiosa, vedi ad es. il 769 c.c.) si può produrre nella sfera giuridica di un soggetto senza l’apporto della sua volontà. A fronte dei provvedimenti di tipo ablatorio l’interesse legittimo (dei soggetti nei cui confronti si produce l’effetto) si pone come interesse oppositivo; a fronte del quale l’azione amministrativa concreta è sottoposta a regole di particolare cautela sia in ordine alla partecipazione degli interessati al procedimento, sia in ordine all’obbligo di motivazione. Nella categoria dei procedimenti ablatori si collocano i procedimenti di espropriazione per pubblico interesse, attraverso i quali viene costituito il diritto di proprietà od altro diritto reale in capo ad un soggetto (espropriante) ed in ordine ad un bene per la realizzazione di un’opera od altra destinazione di pubblico interesse sul bene stesso; in ordine al quale il diritto di proprietà viene contestualmente estinto in capo al precedente titolare salvo indennizzo (42.3 Cost; t.u. espr. p.u.; etc.); i procedimenti di occupazione temporanea con oggetto le aree non soggette ad esproprio ma funzionali all’esecuzione dei lavori previsti; i procedimenti di requisizione dei beni mobili per esigenze militari. Questi sono i principali tipi dei c.d. procedimenti ablatori reali, accomunati dall’effetto consistente nell’estinzione di un diritto circa una cosa in capo ad un soggetto e la corrispondente costituzione del diritto stesso o di altro equiparato in capo ad altro soggetto cui viene imputato il perseguimento di un determinato fine di interesse pubblico. Tra i c.d. procedimenti ablatori personali emergono gli ordini, caratterizzati dal loro effetto tipico, l’imposizione coattiva di un obbligo (di dare o di facere) in capo ad un soggetto terzo, cui egli è tenuto ad adempiere, a pena (in genere) di esecuzione d’ufficio della prestazione oggetto dell’obbligo.
Altre categorie di procedimenti ablatori sono i procedimenti sanzionatori intesi ad imporre ad un soggetto una prestazione di dare o di facere quale sanzione a fronte di una violazione commessa (che non ha carattere penale); i procedimenti esecutivi (o di esecuzione forzata amministrativa). Dai procedimenti di tipo ablatorio si distinguono sotto il profilo del loro contenuto dispositivo i procedimenti accrescitivi (o concessori in senso lato): in questi casi il procedimento si innesta sulla richiesta di un soggetto che aspira ad un bene (interesse pretensivo), e l’effetto consiste nella concessione del bene al soggetto (acquisto di un diritto, di una facoltà, etc.). Vengono denominate concessioni (in senso stretto) gli atti che attribuiscono al soggetto richiedente un diritto che trova nell’atto amministrativo la sua unica fonte (sia esso un diritto già appartenente all’Amministrazione; c.d. concessioni traslative; ovvero un diritto non appartenente all’Amministrazione ma acquistabile da parte di soggetto dotati di certi requisiti di legge esclusivamente attraverso l’atto amministrativo: c.d. concessioni costitutive). Vengono denominate autorizzazioni quegli atti che attribuiscono al soggetto richiedente un diritto (od una facoltà) al cui esercizio solo il soggetto richiedente è tuttavia legittimato in virtù di posizioni o di situazioni soggettive che gli pertengono. Vengono denominate ammissioni gli atti che attribuiscono al soggetto il diritto di far parte di una certa organizzazione (ad es. l’università) o di una certa categoria professionale (ad es. l’ordine degli avvocati) cui l’atto lo ammette. Vengono denominate dispense gli atti (del genus delle autorizzazioni) che consentono al soggetto di non adempiere ad un obbligo cui per legge sarebbe tenuto (ad es. circa il pagamento delle tasse universitarie). Solo in qualche caso il legislatore individua determinate categorie di atti o procedimenti amministrativi, sotto il profilo del loro contenuto dispositivo, per assoggettarle a determinata disciplina: rivestono tale carattere le concessioni di beni e servizi pubblici, le cui controversie sono attribuite alla giurisdizione esclusiva dei TAR. Gli atti sono caratterizzati quanto al loro contenuto dispositivo da ciò, che essi costituiscono un rapporto tra Amministrazione e soggetto terzo avente ad oggetto determinate attività (di godimento di un bene, di svolgimento di un servizio). Altra categoria di procedimenti positivamente connotata quanto al contenuto dispositivo è quella di cui al 12 l. proc. amm., che comprende altri atti di tipo concessorio, e cioè quelli caratterizzati dalla specie del bene (erogazione finanziaria) che viene concesso al soggetto richiedente: “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, nonché “l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati”. Si tratta di procedimenti amministrativi caratterizzati da ciò, che al terzo, in presenza di particolari requisiti stabiliti dalla legge, vengono attribuiti vantaggi economici, in genere di ordine finanziario, diretto (pagamento di una somma di danaro) od indiretto (sgravio da un certo onere finanziario). Qui il singolo viene favorito “senza corrispettivo”. I singoli procedimenti debbono necessariamente essere preceduti da una normativa secondaria adottata da ogni Amministrazione procedente nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, con la quale siano predeterminati criteri e modalità cui le Amministrazioni stesse devono attenersi. Questa normativa secondaria, in assenza della quale i procedimenti in oggetto restano sospesi, deve essere pubblicata nelle forme previste dai diversi ordinamenti: a fini evidentemente di massima trasparenza delle scelte. Ancora, la legge prescrive che i singoli provvedimenti debbano contenere una espressa e specifica motivazione circa “l’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità” predeterminate.
I procedimenti si differenziano in due specie e più sottospecie, a seconda della struttura del relativo momento decisionale. In un modello la decisione avviene mediante scelta tra più aspiranti ad un bene; si apre un procedimento di concessione di un bene pubblico (una miniera), più soggetti (più imprese operanti nel settore) aspirano alla concessine, e fanno domanda alla competente autorità; questa deve scegliere uno tra essi come concessionario, il più idoneo con riferimento a determinati parametri posti dalla norma. In un altro modello, la decisione avviene mediante valutazione circa l’aspirazione di un soggetto ad un bene. Tizio intende aprire una grande struttura di vendita: ciò che non può fare senza autorizzazione della competente autorità cui rivolge domanda. Qui il momento decisorio del procedimento non si esprime in una scelta tra posizioni di più soggetti, ma in una valutazione della posizione di un soggetto a fronte di un interesse pubblico preminente. L’uno e l’altro modello si estrinsecano a loro volta in alcune specie, a seconda del modo in cui avviene rispettivamente la scelta e la valutazione. Nel primo modello (scelta tra più aspiranti ad un bene), in un primo modo (procedimento concessorio) la scelta tra più aspiranti ad un bene avviene mediante esercizio di potere discrezionale; ciò significa che la comparazione tra i diversi aspiranti, e quindi la scelta tra essi, deve essere fatta con riferimento all’interesse pubblico concreto che l’Amministrazione è chiamata a curare. In un secondo modo (procedimento di concorso), la scelta tra più aspiranti ad un bene avviene mediante esercizio di potere non discrezionale, attraverso una valutazione (delle diverse posizioni degli aspiranti) puramente tecnica che si estrinseca nell’acclaramento di situazioni di fatto imputabili ai diversi aspiranti, in base alle quali avviene la comparazione e quindi la scelta (e non con riferimento ad un interesse pubblico da valutare discrezionalmente). Tipica manifestazione di questo modello si ha nei procedimenti di concorso a posti di pubblico impiego, nei quali al scelta tra i più aspiranti al posto dei vincitori deve avvenire esclusivamente in base all’acclaramento della rispettiva preparazione tecnica. In un terzo modo (procedimento di gara) la scelta tra più aspiranti ad un bene avviene attraverso criteri “automatici” la cui applicazione non richiede da parte dell’autorità amministrativa alcuna valutazione (discrezionale e neppure tecnica). Una manifestazione tipica del modello si ha nelle gare per l’aggiudicazione dei contratti pubblici (“pubblici incanti”) che possono essere tenuti nella forma dell’asta pubblica (alla quale possono partecipare tutti i soggetti aventi i requisiti di cui alle leggi ed all’avviso d’asta o bando di gara) ovvero nella forma della licitazione privata (alla quale possono partecipare solo i soggetti ritenuti idonei ed invitati dall’Amministrazione). Nel secondo modello (valutazione dell’aspirazione di un soggetto ad un bene), in un primo modo (procedimento autorizzatorio) la valutazione dell’aspirazione al bene avviene mediante esercizio di potere discrezionale, che si esprime nel confronto tra la soddisfazione dell’interesse del soggetto circa il bene (l’interesse di Tizio ad aprire l’esercizio commerciale: ciò di cui chiede autorizzazione) e l’interesse pubblico (preminente) la cui cura è affidata all’Amministrazione (l’interesse al corretto sviluppo edilizio del territorio quale fissato nel piano regolatore). Il modello si estrinseca segnatamente nei procedimenti autorizzatori in senso stretto, nei quali l’esercizio in concreto da parte del soggetto di un diritto o di una facoltà è subordinato alla previa valutazione da parte dell’Amministrazione mediante esercizio di potere discrezionale, che l’interesse stesso no contrasta (od è conforme) rispetto all’interesse pubblico preminente.
In un secondo modo (procedimento di esame) la valutazione dell’aspirazione al bene avviene mediante esercizio di potere non discrezionale, attraverso l’acclaramento di situazioni di fatto concernenti persone (la preparazione tecnica del candidato all’esame) ovvero cose (le caratteristiche chimiche della sostanza al fine della sua ascrizione a quelle stupefacenti). Qui si ha tipicamente manifestazione della c.d. discrezionalità tecnica. In questi casi possiamo parlare di procedimenti di esame. Esiste una categoria di poteri amministrativi non dotati di tipicità: i poteri di ordinanza. Il t.u.p.s. dice che il prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, il ministro dell’interno, in caso di dichiarazione di pericolo pubblico esteso all’intero territorio nazionale, può emanare ordinanze, anche in deroga alle leggi vigenti, sulle materie che abbiano comunque attinenza all’ordine pubblico od alla sicurezza pubblica; etc. La legge nulla dispone circa contenuto, oggetto, effetti dei provvedimenti da adottare nell’esercizio dei poteri di ordinanza, nonché ovviamente circa il procedimento, mentre lo stesso profilo funzionale è indicato in modo del tutto generico: siamo al di fuori del principio di tipicità (inteso nel modo più lato). I poteri di ordinanza sono necessari perché attraverso di essi l’autorità amministrativa può far fronte alle situazioni di necessità che si producono nella realtà concreta, in conseguenza di fatti naturali (terremoti, alluvioni, epidemie) ovvero umani e sociali (diffuse astensioni dal lavoro in servizi essenziali, interruzioni sediziose di vie di comunicazione, etc.) che per la loro imprevedibilità non consentono la previa determinazione legislativa di poteri ed atti tipici produttivi di determinati effetti. Il carattere improvviso e nello stesso tempo transeunte (contingibilità) delle situazioni stesse, collegate all’urgenza di adottare le misure per farvi fronte, non possono essere sempre gestite nel rispetto dell’ordine delle competenze e dei procedimenti. La giurisprudenza sul punto è chiarissima e costante: occorre che si sia verificata una situazione eccezionale, di pericolo e di urgenza, che minacci l’ordine pubblico o comunque gli interessi pubblici tutelati dalle rispettive norme (sanità, edilità, ambiente, etc.); deve trattarsi di una situazione transeunte, perciò i provvedimenti adottati devono a loro volta manifestarsi in effetti di carattere temporaneo, senza dar luogo a modificazioni stabili della realtà. La situazione eccezionale è tale da non poter essere affrontata coi mezzi ordinari, altrimenti il ricorso al potere di ordinanza sarebbe privo di giustificazione. In ogni caso l’esercizio del potere di ordinanza comporta una deroga alla disciplina normativa dei poteri e delle competenze ed una vistosa rottura del principio di legalità e di tipicità che regge l’azione amministrativa. È stato chiarito dalla giurisprudenza costituzionale che il carattere derogatorio dei poteri di ordinanza rispetto ai principi di legalità dell’azione amministrativa non può consentire la derogabilità di tutta la normazione positiva ed addirittura dei principi costituzionali; perciò l’esercizio del potere di ordinanza non può dar luogo ad effetti che si pongano in contrasto con norme o principi costituzionali, né con norme di legge in materie coperte da riserva di legge assoluta; mentre il contrasto con norme di legge in materie coperte da riserva di legge relativa è ammesso solo laddove le norme concernenti i singoli poteri di ordinanza prevedano criteri direttivi per l’esercizio del potere stesso. Le ordinanze possono dunque derogare a norme di fonte regolamentare nonché a norme di fonte legislativa in materie non coperte da riserva di legge; in materie coperte da riserva di legge relativa nell’ambito di detti limiti.
L’applicazione di questi limiti comporta ad es. che il potere di ordinanza non possa mai essere usato per adottare provvedimenti lesivi della libertà personale (materia coperta da riserva di legge assoluta: 13 Cost.); mentre le prestazioni patrimoniali disposte con ordinanza (ad es. requisizione di cose mobili o di cose immobili) devono essere indennizzate secondo i principi della legislazione vigente. I poteri d’ordinanza ed i relativi atti denominati ordinanze di necessità e d’urgenza non si devono confondere coi provvedimenti necessitati, caratterizzati dalla causa dell’urgenza prevista dalla norma come presupposto per la loro adozione. Efficacia ed esecuzione del provvedimento. Efficacia dell’atto giuridico indica la sua idoneità a produrre effetti (conseguenze giuridiche), nonché allo stesso tempo il complesso medesimo di tali conseguenze. L’efficacia dell’atto si verifica per regola al momento in cui esso si perfeziona, ovvero si verifichino le circostanze previste perché quel determinato tipo di atto produca i suoi effetti. Ciò non significa che si siano concretizzati tutti gli elementi strutturali previsti dalla fattispecie normativa dell’atto stesso tali da consentirne la qualificazione siccome atto conforme alla norma: il perfezionamento dell’atto ai fini della sua efficacia si verifica sol che esso abbia acquisito quegli elementi minimi che ne consentono l’identificazione come atto ascrivibile al tipo normativo cui vengono imputati quei determinati effetti. Che esso sia riconoscibile come atto del tipo. Il profilo dell’efficacia è del tutto separato da quello della validità. In diritto amministrativo la fattispecie tipica di esercizio del potere consta, di regola, di una serie articolata di atti (il procedimento) che culmina in un atto terminale, che viene considerato dalla norma come quello che definisce la fattispecie stessa e ne produce gli effetti (atto ed efficacia esterna). La conformità alla norma della fattispecie concreta di esercizio del potere (la sua validità) postula l’intero compimento in tutti i suoi passaggi della vicenda procedimentale, laddove l’efficacia è collegata ad un solo momento di questa, il provvedimento appunto. Efficacia indica un rapporto di condizionalità tra un fatto ed un effetto. L’effetto giuridico non è a sua volta un fatto, ma è un valore, un dover essere, che può tradursi in fatto; ma ciò non avviene necessariamente ed è comunque vicenda ulteriore rispetto alla produzione dell’effetto e non rilevante ai fini della produzione stessa (distinzione tra efficacia ed esecuzione dell’atto). Si distinguono tre tipi di efficacia giuridica in teoria generale. Efficacia costitutiva è quella che si estrinseca in trasformazioni giuridiche in senso tecnico, distinte nelle figure rispettivamente della costituzione, della modificazione, dell’estinzione di situazioni giuridiche. Spesso gli effetti costitutivi si producono plurimi e differenziati da un unico atto giuridico, in capo a più soggetti. Se efficacia costitutiva viene intesa come quella che indica ogni fenomeno innovativo (che costituisce qualcosa in termini giuridici e perciò innova ala realtà giuridica) essa coincide con ogni forma di efficacia giuridica (laddove non c’è innovazione della realtà giuridica non c’è effetto). Ma esistono altri tipi di efficacia non costitutiva, ma comunque innovativa (Falzea). Efficacia dichiarativa è quella che dà luogo a svolgimenti interni di situazioni giuridiche (lasciandone intatto il contenuto strutturale e sostanziale) (Falzea).
In teoria generale si evidenziano tre figure di efficacia dichiarativa (che corrispondono, mutatis mutandis, alle tre figure di efficacia costitutiva sopra menzionate); quelle rispettivamente del rafforzamento, della specificazione e dell’affievolimento di situazioni giuridiche esistenti. Il rafforzamento (che trova nei negozi ricognitivi del diritto civile il suo modello) si ha nei casi in cui l’atto, pur non producendo alcun effetto in ordine all’esistenza della situazione, produce un mutamento della stessa di tipo rafforzativo. Ad es. in diritto civile il riconoscimento del debitore vale a impedire che l’obbligazione si estingua per prescrizione. La specificazione si ha laddove l’effetto consiste nella semplice specificazione o determinazione del contenuto della situazione giuridica. Ciò è necessario nei casi di impossibilità di prevedere in anticipo gli atteggiamenti che l’interesse giuridico verrà ad assumere nel corso della sua esistenza prima di giungere alla completa realizzazione (Falzea). In diritto privato vengono ricordati i casi del rapporto di lavoro e del rapporto di mandato, nei quali rispettivamente gli ordini del datore di lavoro e le istruzioni del mandante assolvono alla funzione di specificare nelle singole circostanze l’obbligo della prestazione. L’affievolimento, opposto del rafforzamento, è indicato come la riduzione dell’originaria efficienza della situazione giuridica (ad es. la cancellazione dei beni demaniali dagli elenchi). Efficacia preclusiva si ha laddove l’atto anziché costituire ex novo qualche effetto lo rende incontestabile nell’ordinamento (se non attraverso rimedi del tutto propri). Atti ad effetto preclusivo sono gli atti di accertamento, diretti a rendere giuridicamente certa una situazione obiettivamente incerta, precludendone quindi ulteriori contestazioni (se non, appunto, attraverso rimedi del tutto propri). L’efficacia preclusiva strettamente intesa è propria degli atti giurisdizionali. L’atto di accertamento produce l’acquisto del valore giuridico della certezza in ordine alla situazione oggetto dell’accertamento. Oggetto dell’accertamento è la situazione nella sua realtà e verità, ma una volta essa accertata, tradotta nell’atto di accertamento, ciò che acquista certezza giuridica è la situazione quale tradotta nell’atto, per rimuovere il quale occorre un procedimento particolarmente complesso (che per gli atti amministrativi di certezza è il procedimento della querela di falso: 221 ss. c.p.c.). L’effetto è prodotto da un fatto (da un atto). Ma esso non è a sua volta un fatto, ma è un valore. È d’uopo distinguere gli effetti che danno luogo a situazioni giuridiche finali (ad es. diritto di proprietà) ed effetti che danno luogo a situazioni giuridiche strumentali (ad es. diritto di credito). La differenza è data da ciò, che le situazioni giuridiche finali sono immediatamente satisfattive degli interessi di colui nella cui sfera si producono (anche se spesso abbisognano anch’esse per la piena soddisfazione dell’interesse di un’attività esecutiva); mentre le situazioni giuridiche strumentali sono satisfattive solo nei limiti in cui sono seguite dall’effettivo adempimento dell’obbligato (anche se esse a loro volta si traducono in un fatto almeno parzialmente satisfattivo in se medesimo). Si può parlare dunque rispettivamente di efficacia finale e di efficacia strumentale. Dall’effetto giuridico deriva quindi la necessità (riconosciuta dall’ordinamento come valore) che si producano, sul piano materiale, quei fatti previsti dall’atto come contenuto della situazione giuridica da esso prodotta. Gli atti amministrativi sono, come sappiamo, atti di esercizio di potere. Ed il potere, come capacità giuridica speciale, è attribuito dalla legge all’autorità amministrativa, perché curi (realizzi in concreto) determinati interessi pubblici.
In molteplici casi, ed attraverso strumenti diversificati, è prevista in capo all’autorità amministrativa (a determinate autorità amministrative) la capacità di portare a realizzazione (trasformare l’effetto in fatto), anche coattivamente (cioè a fronte dell’inadempimento o della renitenza dell’obbligato) ed anche nell’ambito della sfera giuridica di esso propria, il contenuto dispositivo degli atti amministrativi. L’efficacia si produce nel tempo e nello spazio secondo modalità differenziate. La considerazione dell’efficacia nel tempo si evidenzia anzitutto nella fissazione del momento in cui gli effetti si producono, ovvero in cui iniziano a prodursi (se si tratta di atti ad efficacia durevole). Vi sono atti ad efficacia istantanea, i cui effetti si producono ad un determinato momento, nel quale l’efficacia stessa dell’atto si esaurisce. Vi sono atti ad efficacia permanente, o durevole, i cui effetti, che iniziano a prodursi da un certo momento, si prolungano nel tempo sino ad altro momento ovvero in ipotesi permanentemente. L’efficacia durevole può essere indicata come quella che si estrinseca in diritti od obblighi di dare o di facere, costituiti dal provvedimento e protratti nel tempo, in modo continuativo ovvero mediante una dislocazione per successive scadenze. Insomma, nel provvedimento ad efficacia durevole trova la sua origine una attività che inizia a decorrere e si protrae nel tempo. Il momento in cui gli effetti si producono, od iniziano a prodursi, coincide di regola con il momento del perfezionamento dell’atto giuridico. Stabilire quando ciò avvenga è un problema di interpretazione, da risolvere caso per caso sulla base della disciplina vigente. Il momento del perfezionamento della fattispecie anche nei casi in cui non coincide con quello dell’efficacia della stessa mantiene una sua autonomia rispetto a quest’ultimo, perché: la normativa applicabile alla fattispecie è di regola quella in vigore a tale momento, anche se antecedente al momento dell’efficacia; la fattispecie perfezionata, ancorché non ancora efficace, ha sempre una sua rilevanza giuridica, e produce sia pur limitate conseguenze giuridiche. La non coincidenza del momento del perfezionamento della fattispecie con quello della sua efficacia si verifica in tre differenti ordini di casi. Atti recettizi: essi diventano efficaci al momento in cui pervengono alla conoscenza del destinatario, secondo i principi di cui al 1335 c.c.; ed a volte è richiesta una vera e propria manifestazione di volontà (accettazione) da parte del destinatario. Il momento in cui l’atto entra nella sfera conoscitiva del destinatario, sia chiesta o meno una specifica manifestazione di volontà da parte di questi, e non il momento del perfezionamento dell’atto come fattispecie giuridica, è quello nel quale si producono gli effetti o quello dal quale gli effetti iniziano a prodursi nel caso di atti ad efficacia durevole. Stabilire in quali casi si tratta di atto recettizio è problema di interpretazione che va risolto caso per caso. Per regola, tali sono gli atti che impongono al destinatario obblighi di dare o di facere. Atti la cui efficacia è sottoposta a termine iniziale o a condizione sospensiva: il termine iniziale indica un momento temporale predeterminato (dallo stesso atto o dalla legge) dal quale gli effetti si producono: fatto certo dunque, ma posposto nel tempo rispetto al momento del perfezionamento dell’atto. La condizione sospensiva invece indica un fatto, naturale od umano, futuro e incerto (ma possibile: la condizione impossibile in certi casi rende nullo l’atto) comunque diverso da un mero
fatto temporale, determinato dallo stesso atto o dalla legge, al verificarsi del quale gli effetti si producono. La condizione, diversamente dal termine, opera retroattivamente (1360 c.c.), salve eccezioni. Atti amministrativi sottoposti a procedimenti di controllo (c.d. preventivo). Si tratta di una specie di condizione sospensiva, propria del diritto amministrativo. Nei casi previsti dalla legge, determinate categorie di atti amministrativi una volta perfezionatisi divengono oggetto di un successivo procedimento (di secondo grado) nel quale un’autorità a ciò espressamente deputata acclara se l’atto è legittimo, cioè conforme alla normativa che lo riguarda. Ove questo procedimento abbia esito positivo (la condizione sospensiva si avvera), allora l’atto acquista efficacia ex tunc; in caso contrario, l’atto non diviene efficace ed in certi casi viene eliminato come fattispecie giuridica (annullato). La regola sopra enunciata, di carattere generalissimo (11 preleggi), che la produzione degli effetti decorre per regola dal momento del perfezionamento dell’atto, solleva il problema della retroattività. Atto retroattivo è quello che per legge o per sua propria natura (come fattispecie giuridica dotata di certe caratteristiche) ovvero per sua stessa determinazione produce effetti retrotratti nel tempo. La possibilità che vengano fissati dai singoli provvedimenti, per determinazione discrezionale dell’Amministrazione, termini retroattivi di efficacia, incontra molti limiti; e non è ammessa ad es. in tutti i casi di provvedimenti in senso lato ablatori, che incidono sfavorevolmente sui diritti del destinatario. Tutt’altro problema è quello dei limiti sussistenti in fatto per l’operatività in concreto dell’efficacia retroattiva di determinati atti, laddove essa si va a scontrare con effetti già prodotti, con situazioni già consolidate. Si pensi ad es. che venga annullato (con efficacia quindi retroattiva) un procedimento di pubblico concorso, mediante il quale sono stati assunti come pubblici impiegati alcuni soggetti presso una organizzazione pubblica. Sul punto operano due principi di carattere generale, l’uno che viene espresso nell’affermazione factum infectum fieri nequit (l’irresistibile forza del fatto compiuto avverso la sua rimozione); e l’altro che viene espresso come principio di buona fede, o di affidamento (inteso a tutelare gli interessi di soggetti terzi che, in buona fede appunto, hanno dato esecuzione all’atto, successivamente travolto). Quanto al primo, si danno dei fatti in diritto amministrativo il cui stesso esistere risponde ad un interesse pubblico preminente tale da non consentirne la rimozione una volta prodottisi anche iniure. Così ad es. l’opera pubblica, poniamo una strada, una volta realizzata ed aperta al pubblico, diviene vincolata alla sua stessa destinazione e non rimuovibile per fatti di diritto comune (828 c.c.). In casi come questi, la retroattività dell’atto di annullamento trova un limite di operatività insuperabile, e necessariamente deve essere sostituita con strumenti alternativi quali il risarcimento del danno. Quanto al secondo, in diritto amministrativo si presume la sussistenza della buona fede in ogni soggetto che ha dato esecuzione ad atti della pubblica autorità (ha agito presumendo la legittimità degli atti stessi). Laddove in concreto opera codesto principio, al soggetto di buona fede non può essere opposto l’annullamento al fine di rimuovere gli effetti prodottisi in capo a lui e favorevoli.
Ancora, il problema dell’operatività dell’efficacia retroattiva degli atti amministrativi (e segnatamente degli atti di annullamento) si pone in ordine agli atti amministrativi conseguenziali rispetto a quello successivamente travolto. Viene annullato il concorso; ma nel frattempo, sulla base del concorso stesso, sono stati emanati gli atti di nomina dei vincitori, che sono a loro volta atti amministrativi perfetti ed efficaci. Questi cadono automaticamente una volta annullato il concorso, ovvero restano in vita fintanto che non vengano alla loro volta annullati, in una delle forme previste? Si tratta di questione ancora molto perplessa che non ha trovato una stabile soluzione; si può affermare con certezza solo che l’atto conseguenziale per effetto dell’annullamento del presupposto diviene illegittimo ab origine: illegittimità derivata. In conseguenza, esso può essere annullato nelle diverse forme previste, ove ne ricorrano le rispettive condizioni. L’operatività in concreto dei limiti alla retroattività c.d. reale (che impediscono, in fatto e in diritto, che gli effetti di un atto siano retrotratti al momento anteriore) dà luogo a quella che viene denominata retroattività obbligatoria, ossia, normalmente, un obbligo di risarcimento a carico del soggetto beneficiato dalla situazione costituitasi medio tempore e che il fatto od atto ulteriore mira, senza riuscirvi integralmente, a cancellare (Corso). Una manifestazione di retroattività c.d. obbligatoria, tipica nel diritto amministrativo, si ha in tutti i casi in cui la realizzazione in concreto di effetti retroattivi richiede adempimenti procedimentali complessi. L’efficacia del provvedimento amministrativo può essere esaminata sotto il profilo spaziale (efficacia nello spazio: in quale ambito territoriale si producono gli effetti dell’atto). Qui il problema si pone segnatamente per gli atti a contenuto generale, normativi e non, che coinvolgono una serie indeterminata di posizioni soggettive la cui individuazione va fatta tenendo conto proprio dell’ambito territoriale nel quale l’atto è tenuto a produrre effetti. Per gli enti territoriali il territorio relativo costituisce limite invalicabile all’efficacia dei loro atti: così da rendere “inesistenti” (nulli) gli atti stessi per la parte del loro contenuto dispositivo che prevede effetti in ordine a persone o beni dislocati al di fuori del territorio di competenza. Vi sono però eccezioni legislative a detto principio: atti emanati da organi di enti territoriali che esplicano efficacia nazionale o comunque ultraterritoriale. Stesso principio vale per gli atti degli organi dello Stato a competenza territoriale limitata, e così le prefetture, le questure, i provveditorati agli studi, etc. La limitazione territoriale della competenza comporta limitazioni all’efficacia territoriale degli atti di pertinenza di detti organi. Qui tuttavia è da ritenere che la violazione del principio non comporti nullità degli atti ma semplice illegittimità (annullabilità) per vizio di incompetenza. Tuttavia, si deve notare che gli atti concernenti status o capacità delle persone, documenti di riconoscimento e simili, vengono rilasciati dagli enti o dagli organi territorialmente competenti nel luogo in cui la persona ha la propria residenza (ad es. la patente di guida dei veicoli viene rilasciata dall’ufficio provinciale della motorizzazione civile per tutti i soggetti residenti nel territorio provinciale): gli atti rilasciati in questi casi esplicano indubbiamente un’efficacia ultraterritoriale, nazionale ed ultranazionale, mentre l’organo competente a rilasciarli è un organo a competenza territoriale limitata. Esecuzione indica il complesso delle attività, a loro volta rispettivamente giuridiche (atti e procedimenti) o materiali (operazioni), intese a realizzare sul piano materiale gli effetti giuridici dell’atto di cui si tratta: a tradurre in fatto l’effetto, soddisfacendo il relativo interesse.
La c.d. esecutorietà indica, nel lessico giuridico generalmente seguito, l’attitudine del provvedimento ad essere attuato coattivamente (Carpi). Ciò significa che in determinati casi all’esecuzione del provvedimento provvede la stessa Amministrazione (quella che ha emanato il provvedimento od altra prevista dalla legge), anche se ciò necessita invasione della sfera giuridica reale altrui (Corso); ed in casi del tutto eccezionali anche attraverso coazione fisica in personam. Questo fenomeno dell’esecutorietà si verifica in due ordini di casi. Anzitutto il fenomeno si verifica laddove lo stesso contenuto dispositivo del provvedimento comporta la sua diretta ed immediata esecuzione, anche nell’ambito della sfera di soggetti terzi, a prescindere dall’apporto dell’attività di questi (provvedimenti ablatori reali). In secondo luogo, il fenomeno si verifica laddove, a fronte di obblighi di dare o di facere imposti a terzi per effetto di determinati provvedimenti (della specie degli ordini) è previsto che in caso di inadempimento di questi l’Amministrazione competente (quale stabilita dalla legge) possa attivare un procedimento esecutivo (cioè inteso all’esecuzione dell’obbligo imposto dal primo provvedimento e non adempiuto). Circa il primo ordine di casi, la gran parte dei provvedimenti ablatori reali (espropriazione, requisizione, occupazione d’urgenza, etc.) ha un contenuto dispositivo doppiamente imperativo: perché, oltre a produrre l’effetto estintivo o modificativo della situazione giuridica altrui (ad es. estinzione della proprietà), prevede anche l’immissione nel possesso della res oggetto del provvedimento (ad es. la cosa espropriata) da parte del soggetto a cui favore il provvedimento è pronunziato. L’espropriato per effetto del provvedimento di espropriazione non solo perde la proprietà della cosa, ma ne perde anche immediatamente il possesso. Il provvedimento una volta perfezionato viene comunicato al soggetto nella cui sfera s’è prodotto l’effetto ablativo. Se si tratta di occupazione d’urgenza (le espropriazioni non precedute da occupazioni d’urgenza costituiscono un’evenienza assolutamente marginale) il provvedimento deve contenere l’indicazione di un momento temporale (giorno ed ora) nel quale in loco deve avvenire la compilazione dello stato di consistenza del fondo da occupare, unico ma indispensabile adempimento previo rispetto all’immissione in possesso. La compilazione dello stato di consistenza avviene in contraddittorio con gli interessati, di cui viene redatto apposito verbale. In assenza del proprietario, od altri aventi titolo, lo stato di consistenza viene redatto dall’Amministrazione facendo constatare l’assenza di quelli. Altri provvedimenti, tra quelli ablatori, che comportano senz’altro l’esecuzione, come componente essenziale del loro stesso contenuto dispositivo, sono quelli ascrivibili alla specie delle ispezioni. Circa il secondo ordine di casi, si tratta dei provvedimenti ascrivibili alla specie degli ordini, che sono quelli che impongono ad un soggetto un obbligo di dare o di facere. L’inadempimento di codesto obbligo, una volta acclarato dall’Amministrazione stessa, rende attivabile da parte degli organi competenti il potere di eseguire direttamente, con mezzi propri, ma a spese del terzo inadempiente, l’attività che questi avrebbe dovuto eseguire. Questo procedimento è denominato esecuzione d’ufficio. Si tratta di prestazioni fungibili consistenti in obblighi di facere. Il provvedimento di ordine (in genere denominato “diffida”) impone al terzo l’obbligo di eseguire l’attività entro un certo termine, trascorso il quale e acclarato l’inadempimento,
l’Amministrazione esegue, d’ufficio appunto, l’attività stessa; anche se trattasi di attività da eseguire nell’ambito della “sfera giuridica reale” del terzo, a spese di questo. In altri casi, obblighi di facere imposti da ordini amministrativi constano di prestazioni infungibili, che necessitano un’azione della persona dell’obbligato. Vi sono casi legislativamente previsti in cui può essere esercitata dall’Amministrazione una certa forma di coazione fisica sulla persona, al fine di ottenere in fatto l’adempimento di determinati obblighi. I procedimenti di controllo. In determinati casi, l’efficacia del provvedimento è condizionata dal perfezionamento di un ulteriore procedimento amministrativo, che a sua volta ha ad oggetto il provvedimento stesso (procedimento, appunto, di secondo grado). Tale procedimento è imputato ad un’autorità “terza” rispetto a quella che ha emanato il provvedimento, comunque separata dall’Amministrazione procedente; ed è inteso alla valutazione della legittimità ed in alcuni casi anche dell’opportunità (il merito) del provvedimento emanato. In proposito si suole parlare si fase integrativa dell’efficacia del provvedimento. In realtà, il fatto che determinati provvedimenti amministrativi, una volta perfezionatisi, siano sottoposti dalla legge a procedimento di controllo, ridonda sull’efficacia dei provvedimenti stessi, e non sulla loro rilevanza come atti giuridici. Una volta intervenuto il controllo, l’atto acquista piena efficacia dalla data di adozione. In alcuni casi, e per regola nell’ambito del controllo sugli atti regionali e locali, la legge consente che l’atto sottoposto al controllo possa essere dichiarato dall’organo che lo ha emanato “immediatamente eseguibile, per specifiche ragioni di urgenza che ne rendano indilazionabile l’esecuzione”. Nel caso di “immediata esecuzione”, l’efficacia dell’atto si verifica al momento stesso del suo perfezionamento. I procedimenti in esame sono denominati di controllo preventivo, dove l’aggettivo temporale è riferito al momento di acquisizione dell’efficacia da parte del provvedimento. L’aggettivo serve per distinguere questa specie di controllo da quello successivo, che non incide sull’efficacia. Il provvedimento una volta perfezionatosi viene trasmesso nei termini di legge all’organo cui è imputato il potere di controllo (iniziativa del procedimento di controllo). Esso, attraverso i suoi uffici, compie un’istruttoria sul provvedimento da controllare, acquisisce tutti gli elementi necessari per l’esercizio del potere di controllo, relativi alle vicende procedimentali, ai fatti ed agli interessi che ne sono oggetto, a seconda del tipo di controllo da esercitare. L’istruttoria può anche avvenire in contraddittorio. Terminata l’istruttoria, l’organo collegiale o monocratico titolare del potere di controllo decide circa la legittimità od anche, laddove previsto, circa l’opportunità del provvedimento, esternando la sua decisione in un atto scritto che viene comunicato all’organo controllato. A volte la legge prevede la formazione del silenzio assenso in sede di controllo: il decorso di un certo tempo senza che l’autorità controllante si sia pronunciata produce il medesimo effetto dell’esercizio positivo del potere di controllo. Ove l’atto sia di segno positivo, suo effetto è quello di dare piena efficacia al provvedimento controllato, efficacia che retroagisce al momento in cui il provvedimento stesso s’è perfezionato (l’efficacia in tali casi resta sospesa). Ove l’atto di controllo sia di segno negativo, il provvedimento controllato non acquista efficacia. In alcuni casi esso viene annullato in senso tecnico con lo stesso atto negativo di controllo.
In ordine agli effetti eventualmente già prodottisi del provvedimento sottoposto a controllo con esito negativo si riproduce la consueta problematica della retroattività e dei suoi limiti. Il controllo di merito, che era tipico di alcune categorie di atti degli enti locali, è ormai da ritenere definitivamente soppresso, a seguito della l. Cost. 3/2001 che ha abrogato il 125 ed il 130 Cost. Non tutti i provvedimenti amministrativi sono sottoposti a procedimenti di controllo. Dal procedimento di controllo vero e proprio si distinguono i controlli di ragioneria, intesi alla verifica previa della regolarità contabile dei singoli atti di spesa (o comunque produttivi di spesa) da parte di ogni Amministrazione. Per gli atti dello Stato, questo controllo di ragioneria affidato agli Uffici centrali del bilancio (ex ragionerie centrali) assume particolare formalizzazione. L’atto, una volta perfezionato, viene trasmesso all’Ufficio centrale del bilancio. Se si tratta di atto comportante impegno di spesa, l’Ufficio centrale registra l’impegno di spesa: trascorsi 10 giorni dalla registrazione dell’impegno, i provvedimenti acquistano efficacia. Vi sono atti che conservano il duplice controllo, della Ragioneria e della Corte dei conti: in questi casi è prevista la comunicazione contestuale dell’atto ad entrambi essi, e la trasmissione dei rilievi della Ragioneria anche alla Corte dei conti oltre che all’Amministrazione. La l. Corte conti (20/1994) sottopone a controllo preventivo di legittimità alcuni atti dello Stato (3.1): ad es. i provvedimenti emanati a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri; gli atti normativi a rilevanza esterna, atti di programmazione comportanti spese ed atti generali attuativi di norme comunitarie; i provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio immobiliare; etc. Sono esclusi gli atti emanati nelle materie monetaria, creditizia, mobiliare e valutaria (3.13). Il procedimento si svolge in una fase necessaria ed in due successive fasi eventuali. Nella prima fase un consigliere della Corte esamina l’atto, e se lo riscontra legittimo vi appone un visto e ne dispone la registrazione: il procedimento si chiude con esito positivo. Se ritiene invece che l’atto o decreto non debba essere ammesso al visto ed alla registrazione, viene promossa una pronuncia motivata della Sezione di controllo. La Sezione può ammettere l’atto al visto ed alla registrazione: si chiude la seconda fase del procedimento con esito positivo. La Sezione però può anche rifiutare il visto e la registrazione, ed in tal caso la relativa deliberazione viene trasmessa al ministro competente: questi può limitarsi a prendere atto del rifiuto di visto da parte della Corte, ed in tal caso l’atto rimane privo di effetti, oppure può sottoporre la questione al consiglio dei ministri (si apre così la tersa fase, eventuale, del procedimento). Il Consiglio dei ministri può decidere che l’atto o decreto debba avere corso: in questo caso la Corte è chiamata a deliberare a sezioni riunite, e qualora non riconosca cessata la causa del rifiuto ordina la registrazione (dell’atto) e vi appone il visto con riserva. La riserva non impedisce all’atto di acquistare pienezza di effetti, ma può produrre conseguenze di ordine politico per il Governo: la Corte comunica periodicamente alle Camere l’elenco degli atti registrati con riserva. Alcune categorie di atti, come gli atti di spesa eccedenti gli stanziamenti di bilancio, non possono essere registrati con riserva. Viene stabilito un termine di 30 giorni dal ricevimento dell’atto da parte della Corte, allo spirare del quale i provvedimenti sottoposti al controllo acquistano efficacia se l’ufficio di controllo non ne ha rimesso l’esame alla sezione del controllo.
La l. 340/2000 dice che gli atti trasmessi alla Corte dei conti per il controllo preventivo di legittimità divengono in ogni caso esecutivi trascorsi 60 giorni dalla loro ricezione, senza che sia intervenuta una pronuncia della Sezione del controllo. Il procedimento di controllo, se si conclude con esito positivo, si formalizza in un duplice atto: un visto che viene apposto sullo stesso testo dell’atto controllato, e la registrazione di questo, cioè la sua annotazione in documenti conservati dalla Corte dei conti (i registri appunto). Se il provvedimento si conclude con esito negativo, ciò non viene formalizzato in alcun atto (si ha qui un caso di “non atto”): semplicemente si verifica la conseguenza che l’atto sottoposto a controllo non acquista efficacia. Esso non viene annullato. Il procedimento di controllo davanti alla Corte dei conti (a differenza degli altri procedimenti di controllo principali) non si formalizza in un provvedimento autonomo rispetto all’atto sottoposto al controllo, quindi non può essere a sua volta oggetto di impugnazione o di sindacato. L’unico provvedimento impugnabile resta quello sottoposto a controllo, una volta che sia divenuto efficace con l’apposizione del visto e la registrazione. L’esito negativo del procedimento di controllo davanti alla Corte dei conti dà luogo al mero fatto della non registrazione: ciò lascia in vita l’atto e ne consente la successiva entrata in vigore laddove modificazioni legislative rendano non più necessario il controllo preventivo. Gli atti delle Regioni speciali sono sottoposti ad un sistema di controlli del tutto analogo a quello previsto per gli atti dello Stato ed esercitato dalla Corte dei conti. Per gli atti delle Regioni speciali non è ammessa la registrazione con riserva. Dai controlli c.d. preventivi si distinguono i controlli successivi. Il controllo successivo sugli atti è un controllo di legittimità del tutto assimilato nella sua struttura a quello preventivo. La distinzione tra i due tipi di controllo attiene alla differente incidenza dello stesso sull’efficacia degli atti che vi sono sottoposti. Infatti l’atto sottoposto a controllo successivo acquista efficacia col suo perfezionarsi (non è perciò sottoposto alla condizione sospensiva rappresentata dall’esito del controllo). Ma resta in uno stato di pendenza, perché può essere oggetto di rilievo della Corte dei conti in punto di legittimità. La determinazione della Corte in sede di controllo successivo circa la legittimità dell’atto, a parte ulteriori conseguenze in ordine alla responsabilità degli organi emananti, può dar luogo all’annullamento dell’atto da parte della stessa Amministrazione. Vi è una posizione che emerge nella giurisprudenza della Corte dei conti che ritiene che il rilievo di legittimità della Corte stessa in via successiva comporti l’annullamento dell’atto, ed altra posizione che ritiene sussista in tal caso in capo all’Amministrazione attiva un vero e proprio obbligo di annullare l’atto (c.d. annullamento doveroso) (Sandulli). Vicende dell’efficacia durevole e procedimenti di revisione. L’efficacia durevole di un atto è destinata a terminare. Come il termine iniziale indica il momento temporale d’inizio dell’efficacia durevole di un atto, così il termine finale indica il momento temporale in cui questa viene a cessare. Come la condizione sospensiva indica il fatto, futuro ed incerto, dal cui avverarsi si producono gli effetti di un atto o ne comincia a decorrere l’efficacia, così la condizione risolutiva indica il fatto futuro ed incerto, al cui avverarsi l’efficacia (durevole) di un atto viene a cessare. In genere i provvedimenti ad efficacia durevole costituiscono un vero e proprio rapporto giuridico fra il soggetto tenuto alla prestazione dell’attività sulla base del provvedimento e l’Amministrazione, contrappuntato di reciproci poteri, facoltà ed obblighi.
In tali casi sono previsti in capo all’Amministrazione poteri che si estrinsecano in procedimenti di secondo grado che incidono sull’efficacia in essere del provvedimento. I poteri di che trattasi sono di tre specie, distinte tra loro a seconda del tipo di incidenza (effetto) che producono sull’efficacia in essere di un precedente provvedimento. Si distinguono poteri di sospensione, intesi a sospendere per un certo periodo di tempo l’efficacia durevole di un provvedimento; poteri di proroga, intesi a protrarre ad un momento temporale successivo l’efficacia di un provvedimento che avrebbe dovuto cessare (termine finale) ad un certo momento; poteri di revoca, intesi ad impedire un ulteriore protrarsi dell’efficacia di un provvedimento, che da quel momento cessa, eliminando la stessa fattispecie con efficacia ex nunc. In materia non esiste una disciplina legislativa di carattere generale e sistematico, ma una miriade di disposizioni normative delle leggi di settore che spesso usano stessa terminologia per istituti diversi (ad es. revoca per annullamento, e viceversa). Avverte il Consiglio di Stato che il termine “revoca” è frequentemente usato come sinonimo di “ritiro”, e cioè di eliminazione dell’atto, quali ne siano le ragioni, da parte della stessa autorità emanante. L’assenza di discipline di specie circa i poteri in oggetto non significa assenza di regolamentazione: ché l’esercizio in concreto di essi è comunque retto dalla disciplina generale. Ancora, i poteri in esame sono tutti poteri discrezionali, in senso proprio; e perciò mediante l’esercizio di ciascuno di essi si provvede alla cura concreta dell’interesse pubblico affidata all’Amministrazione di cui si tratta; la quale agisce secondo la disciplina generale di cui s’è detto, in ordine all’assunzione e valutazione degli interessi in gioco. L’esercizio in concreto dei poteri in oggetto, a qualunque specie ascrivibile, presuppone sempre la sussistenza di un interesse pubblico specifico (da valutarsi in concreto). La sospensione incide sull’esecuzione del provvedimento, non direttamente sull’efficacia (determinando “la quiescenza dell’esecutività e non l’inefficacia del provvedimento: Cass. 1259/1979). Essa priva i titolari delle situazioni soggettive generate dal provvedimento ed aventi ad oggetto un determinato facere della legittimazione a porre in essere le relative operazioni (che divengono illecite) nel periodo di tempo in cui l’efficacia del provvedimento (rectius: l’esecuzione) resta sospesa. Anche le attività imputate alla stessa Amministrazione, da porre in essere in esecuzione del provvedimento, possono essere oggetto di sospensione. La sospensione presuppone quindi un provvedimento già perfezionato ed efficace, che deve essere eseguito ovvero la cui esecuzione è in corso. La sospensione per sua propria natura non può che operare per un periodo limitato e determinato o determinabile (una sospensione sine die sarebbe assimilabile alla revoca). La sospensione può essere disposta con riferimento a specifiche ragioni di interesse pubblico, che debbono essere esplicitate. Esse sono in principio sempre ascrivibili ad esigenze di tipo cautelare. Sospensione in funzione cautelare può anche essere assunta in pendenza di giudizio (ordinario od amministrativo) avente ad oggetto il provvedimento di cui si tratta; ma ciò non costituisce un obbligo dell’Amministrazione. Effetti di ordine puramente temporale produce l’esercizio del potere di proroga, inteso a protrarre nel tempo, posticipandolo ad un momento successivo, il termine finale di un provvedimento ad efficacia durevole. L’efficacia durevole può essere sottoposta a termine finale.
In genere, salve eccezioni, questo termine può essere prorogato con provvedimento discrezionale dell’autorità amministrativa competente, assunto anteriormente alla sua scadenza (a pena, secondo alcune affermazioni giurisprudenziali, di “inesistenza” dello stesso). In ogni caso, una volta scaduto il termine, l’efficacia del provvedimento non può essere prorogata; e per l’eventuale continuazione del rapporto occorre procedere all’adozione di nuovo provvedimento, secondo la tecnica della rinnovazione degli atti giuridici. In ordine a questo secondo provvedimento il precedente titolare del rapporto si trova tuttavia ad avere una posizione di preferenza, o addirittura di insistenza (cioè, se ricorrono determinate condizioni, il provvedimento deve essere rinnovato in favore del precedente titolare). La prorogabilità dei provvedimenti ad efficacia durevole è considerata dalla giurisprudenza un’ipotesi del tutto normale; anche a prescindere da espresse previsioni normative, e salve previsioni in contrario. Revoca è il provvedimento che produce la cessazione definitiva ed irreversibile dell’efficacia (durevole) di altro provvedimento, fermi restando gli effetti da questo già prodotti: essa opera ex nunc. Nel comune linguaggio si parla di revoca di precedente provvedimento, ma il significato dell’espressione è quello che s’è detto: non è il provvedimento in sé ad essere oggetto della revoca, ma la sua efficacia. Le ragioni di interesse pubblico che giustificano (o necessitano) l’adozione della revoca di precedente provvedimento attengono sempre a ciò, che l’ulteriore protrarsi dell’efficacia dello stesso non risulta compatibile con determinati interessi nel frattempo emersi e valutati siccome preminenti dall’Amministrazione. Appare errata la prospettiva che distingue la revoca per originaria inopportunità del provvedimento dalla revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Infatti, la comparazione tra l’assetto degli interessi quale delineato dal provvedimento ed esigenze attuali (cioè al momento della revoca) di cura dei medesimi interessi non può mai mancare, è il tipico carattere della revoca. L’originaria inopportunità del provvedimento, presa in se stessa, non è sufficiente a giustificare la revoca. Mentre l’annullamento (con efficacia ex tunc) ha come presupposto essenziale ed indefettibile la circostanza che l’Amministrazione ha posto in essere un atto geneticamente illegittimo. La decisione di revocare il provvedimento può derivare da due diversi ordini di valutazioni, rispettivamente con riferimento ad un mutamento verificatosi nella situazione di fatto, così da rendere incompatibile con essa l’assetto di interessi quale definito col provvedimento; ovvero, pur immutata la situazione dei fatti, con riferimento ad un’intervenuta diversa valutazione degli interessi in gioco così da far apparire non più conforme all’interesse pubblico l’assetto stesso quale definito dal provvedimento. Entrambe le evenienze possono giustificare l’esercizio del potere di revoca, ma mentre la prima legittima ex se l’esercizio del potere e, almeno in via di principio, non comporta alcuna esigenza di indennizzo della posizione patrimoniale dei soggetti già beneficiari dell’atto revocato, la seconda richiede articolata e specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico tali da indurre l’Amministrazione a cambiare idea e comporta, almeno in principio, l’esigenza di indennizzare le situazioni soggettive sacrificate. Il giudice amministrativo ritiene che della revoca possa farsi uso non solo in presenza di una mutata situazione di fatto ma anche quando si debba eliminare o modificare una in origine incompleta o comunque non soddisfacente valutazione del pubblico interesse salve le conseguenze di ordine patrimoniale per effetto della revoca.
L’11.4 l. proc. amm. condiziona la revocabilità degli accordi a “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, espressione nella quale sono da ritenere comprese entrambe le evenienze sopra ricordate. Ed impone il risarcimento del danno, ove verificatosi in capo all’altro soggetto del rapporto. Altri casi di revoca si danno laddove gli effetti del provvedimento hanno esaurito la loro stessa ragione d’essere, e perciò non possono continuare a prodursi. Qui la revoca del provvedimento ha un contenuto di doverosità che è assente negli altri casi. A proposito del potere di revoca si pone il problema della sua effettiva sussistenza nell’ordinamento positivo come potere di carattere generale, che possa essere esercitato anche in assenza di norme espresse che lo prevedano: questa sussistenza appare pacifica, nonostante alcune posizioni dottrinali che lo negano (Sorace, Marzuoli). Il potere di revoca opera esclusivamente nell’ambito dei provvedimenti ad efficacia durevole, e segnatamente di quelli costitutivi di rapporti. La revocabilità, che è ritenuta dalla giurisprudenza connaturale all’essenza stessa del potere discrezionale, copre esclusivamente l’area dei provvedimenti di esercizio di poteri discrezionali; mentre è da escludere la revocabilità di atti non discrezionali, o comunque degli atti il cui contenuto si esaurisce in accertamenti e valutazioni tecniche. Nei casi di provvedimenti amministrativi produttivi di veri e propri rapporti giuridici occorre distinguere dalla revoca del provvedimento (costitutivo del rapporto) altre misure in genere previste dalla legge ed a volte dagli atti convenzionali accessivi ai provvedimenti concessori, che possono produrre effetti analoghi alla revoca. In proposito, la terminologia è varia (si parla di recesso, di decadenza, a volte anche di “revoca”), ma si tratta di poteri o facoltà spettanti all’Amministrazione che sempre trovano la loro causa nella disciplina propria del rapporto. Profili generali dell’invalidità amministrativa. In termini generalissimi, invalidità di un atto giuridico indica che l’atto è in contrasto con una norma imperativa (Galgano). Tale affermazione presenta un rilievo molto diverso in diritto privato e in diritto amministrativo. La normazione di diritto privato è di carattere dispositivo salve eccezioni; mentre la normazione di diritto amministrativo è sempre di carattere cogente, salve (rarissime) eccezioni. L’invalidità amministrativa può essere rilevata a proposito di ogni atto produttivo di effetti (come il provvedimento) non solo perché esso in quanto tale si appalesa in contrasto con la normazione che lo concerne, ma anche perché tale contrasto può essere appalesato in uno degli atti della fattispecie procedimentale intesa alla produzione di quello. Ma ancora, invalidità degli atti amministrativi non indica solo il contrasto con una norma imperativa, ma anche il contrasto della manifestazione di esercizio del potere, realizzatasi negli atti stessi, con i principi e criteri assunti a regola della discrezionalità amministrativa. L’invalidità può essere totale o parziale. Per regola, l’invalidità di singoli elementi (o singole clausole) dell’atto produce l’invalidità dello stesso nella sua interezza solo se esse hanno carattere essenziale (senza quegli elementi l’atto non esisterebbe come tale ovvero no sarebbe stato adottato). Il problema deve essere risolto caso per caso sulla base del diritto positivo e delle fattispecie concrete. Sul punto va tenuta presente la distinzione tra provvedimenti scindibili ed inscindibili: i primi sono in realtà atti solo formalmente unici (Conso), nella sostanza plurimi, cioè divisibili in una pluralità di atti. La scindibilità dipende anche dalla specie concreta di invalidità di che si tratta, dall’elemento della fattispecie che ne è affetto.
Ma anche con riguardo ad atti sicuramente unici nella forma e nella sostanza si pone il problema se l’invalidità di singole clausole investano l’intero atto o comportino solo l’annullabilità (o la nullità) della singola parte affetta. Si tratta in tali casi di stabilire se il contenuto della singola disposizione nulla (invalida) sia un momento essenziale della dichiarazione di volontà, un presupposto di essa, e se non lo è, la nullità (invalidità) si limita alla singola disposizione senza inficiare l’intero atto. Tale impostazione è del resto conforme alla normativa di diritto comune (159 c.p.c.; 1419 c.c.). L’invalidità di un atto per regola si determina con riferimento alla disciplina giuridica in vigore al momento in cui l’atto stesso si perfeziona. La legittimità di un provvedimento amministrativo va verificata non secondo la normativa del momento in cui esso deve essere portato ad effetto, ma secondo quella vigente al momento in cui il provvedimento medesimo viene adottato. Se viene dedotta l’invalidità di un atto del procedimento, egualmente dovrà farsi riferimento al momento in cui l’atto stesso viene in essere, e non a quello successivo in cui si perfeziona il procedimento con l’adozione del provvedimento finale. Si rinvengono tuttavia in giurisprudenza eccezioni al principio. L’una è in tema di atti sottoposti a controllo preventivo, nel qual caso l’Amministrazione sarebbe tenuta ad applicare le norme sopravvenute sino all’adozione dell’atto positivo di controllo. L’eccezione opererebbe soltanto laddove l’atto sottoposto a controllo non ha avuto alcuna esternazione, e perciò certamente non opera nei casi di “immediata esecuzione”. Altre eccezioni al principio possono derivare da esigenze di esecuzione del giudicato amministrativo. E così, in caso di accoglimento del ricorso avverso rifiuto di concessione edilizia, la normativa che l’Amministrazione deve successivamente applicare, in sede di rilascio della concessione stessa, non è quella vigente a tale momento, ma quella anteriore vigente al momento della decisione del giudice amministrativo. Per regola modificazioni successive della disciplina giuridica non incidono sulla validità dell’atto già perfezionato. Vi possono essere però casi (ascritti al fenomeno della c.d. invalidità sopravvenuta) in cui modificazioni successive di disciplina incidono su atti precedentemente emanati e perfezionati, per la ragione che si tratta di norme retroattive, la cui entrata in vigore produce ex post l’invalidità degli atti che risultano in contrasto con la nuova disciplina. Lo stesso fenomeno avviene per effetto di sentenze della Corte costituzionale che dichiarino l’illegittimità costituzionale di norme legislative nei confronti di atti emanati sulla base di dette norme, che siano stati ritualmente impugnati. Fenomeno analogo si può avere nel caso di annullamento (in sede giurisdizionale od amministrativa) di atto amministrativo presupposto rispetto a quello conseguenziale: ad es. se viene annullato l’atto conclusivo di un procedimento di concorso a posti di pubblico impiego (approvazione della graduatoria), si pone il problema della sorte dei successivi atti di nomina dei vincitori. Anche qui, si forma ex post una situazione di invalidità derivata dell’atto, prodotta dall’avvenuto annullamento dell’atto presupposto. A seguito dell’annullamento dell’atto presupposto, l’atto conseguenziale diventa invalido (annullabilità) e perciò può, ove ne ricorrano le necessarie circostanze, essere annullato. La violazione di norme o comunque di regole di corretta redazione degli atti, prescriventi adempimenti di carattere meramente formale, o comunque del tutto marginali rispetto alla sostanza della fattispecie, dà luogo non ad invalidità dell’atto, ma a semplice irregolarità.
L’irregolarità non comporta alcuna conseguenza circa il regime giuridico dell’atto, che resta valido, ma può comportare conseguenze di ordine sanzionatorio in capo agli autori materiali dell’atto stesso. L’irregolarità deve essere sanata: la giurisprudenza connette quest’onere al principio di buon andamento e di correttezza dell’azione amministrativa. Possono essere considerate regole la cui violazione dà luogo ad irregolarità quelle ad es. che prescrivono certe forme rituali per l’intestazione dell’atto; l’indicazione, nel testo dell’atto, di determinati riferimenti, come ad es. quella del termine e dell’organo cui deve essere presentato l’eventuale ricorso. Si tratta di un problema di interpretazione stabilire in quali casi si tratti di mera irregolarità ed in quali casi si tratti di vera e propria invalidità. Dell’invalidità l’ordinamento positivo conosce diverse specie. La situazione di contrasto che dà luogo ad invalidità si può presentare in concreto secondo modalità differenziate, può essere obiettivamente più grave o meno grave, a seconda del tipo di norme violate, dell’entità della violazione (del contrasto). Secondo le acquisite elaborazioni di teoria generale (formalizzate dal codice civile a proposito del contratto agli artt. 1418 ss.), si distinguono due ipotesi tipiche di invalidità; nella prima delle quali, denominata nullità, sono ricomprese le affezioni più gravi dell’atto; nell’altra, denominata annullabilità, sono comprese le affezioni di gravità minore. Si possono considerare le due specie tipiche di invalidità a loro volta sotto due profili, l’uno relativo agli effetti (il modo di profilarsi dei rapporti tra l’atto imperfetto (invalido) e gli effetti del corrispondente atto perfetto) e l’altro relativo al modo di rilevazione dell’invalidità stessa. Circa il primo profilo, la specie denominata nullità, a fronte dell’altra (annullabilità) si caratterizza in principio: per essere una imperfezione insanabile, mentre l’altra è in principio sanabile; per essere incapace di dar luogo agli effetti dell’atto perfetto neppure in forma precaria, mentre l’annullabilità dà luogo a quegli effetti in forma precaria. Circa il secondo profilo, la nullità è rilevabile d’ufficio (dal giudice, nell’ambito di controversie in corso) ovvero da qualsiasi interessato; è rilevabile senza limite temporale (l’azione non è soggetta a prescrizione: 1422 c.c.) e con ogni mezzo procedurale disponibile, mentre l’annullabilità è rilevabile soltanto da soggetti portatori di interessi qualificati (l’annullamento può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge: 1441 c.c.), entro termini prestabiliti (di prescrizione o decadenza) e mediante mezzi procedurali tipici. L’invalidità degli atti amministrativi si presenta a sua volta dislocata nelle due specie fondamentali: si danno cioè atti nulli ed atti annullabili. Circa il regime giuridico della nullità, la totale assenza di una disciplina di specie (propria degli atti amministrativi) induceva a ritenere l’applicabilità senz’altro della disciplina codicistica. Ciò comporta, sotto il profilo degli effetti, che l’atto nullo è improduttivo di effetti, salva l’ipotesi della conversione (1424 c.c.) che consente all’atto nullo di produrre gli effetti di un atto diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma. In ordine all’assunzione nulla al pubblico impiego, ciò significa che le prestazioni lavorative susseguenti all’assunzione debbano essere valutate come semplici prestazioni di fatto per la parte economica, beneficiando però della disciplina di cui al 2126 c.c. (Prestazione di fatto con violazione di legge). L’atto nullo non può essere convalidato (sanato) e perciò produrre gli effetti di quello valido, nemmeno ex nunc (1423 c.c.).
Sotto il profilo della rilevabilità, la nullità dell’atto può essere fatta valere in qualunque tempo (la relativa azione non è soggetta a decadenza né a prescrizione; 1422 c.c.) ed anche d’ufficio dal giudice, sia in sede civile che amministrativa. La nullità può essere dichiarata, oltre che dal giudice (civile od amministrativo, a seconda della competenza), dalla stessa Amministrazione con procedimento di secondo grado assimilabile all’annullamento d’ufficio; anche qui senza alcun limite di tempo. Circa le specie, anzitutto la nozione di inesistenza, usata a proposito di atti amministrativi nulli (affetti da determinate cause di nullità, come la carenza di potere), deve essere espunta. L’invalidità si predica di atti tecnicamente esistenti. Della nullità si danno tre specie. La prima è la specie di nullità conosciuta in teoria generale e recepita dal codice civile al 1418.2: Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346. L’ipotesi del 1418.1 (Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente) dà luogo ad annullabilità, non a nullità. L’illegibilità della firma viene ritenuta causa di nullità quando la qualità di organo della persona giuridica pubblica dell’autore del segno grafico non risulti dall’atto stesso, e tale dimostrazione non venga data dalla Pubblica Amministrazione fornendo gli elementi di identificazione, anche in base a criteri estranei all’atto, della persona del firmatario. La seconda specie, anch’essa prevista dal codice, è quella delle nullità espressamente comminate da parte di singole norme (il codice prevede al 1418.3 che Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge): atti incorsi in violazioni normative particolarmente gravi. Un’ipotesi recente di nullità è quella prevista dalla nuova normativa in tema di prorogatio degli organi amministrativi, a proposito degli atti emanati dal titolare di organo una volta scaduto, e trascorsi 45 giorni dalla scadenza, ovvero, prima di detto termine, degli atti emanati dal titolare scaduto eccedenti l’ordinaria amministrazione. Un’impostazione giurisprudenziale ci porta ad affermare che, allo stato, l’ordinamento positivo conosce ipotesi di nullità in senso tecnico di atti amministrativi tassativamente stabilite dalla legge (che non coincidono necessariamente con tutte quelle denominate “nullità” dalla legge): si tratta di casi in cui la violazione commessa appare così rilevante nei confronti di interessi pubblici primari da giustificare la comminazione della sanzione più grave della nullità, il cui regime consente di non condizionare l’eliminazione dell’atto all’attivazione di un interesse di parte (rilevabilità d’ufficio della nullità). La terza specie di nullità concerne gli atti viziati per carenza di potere. L’ipotesi della carenza di potere di verifica, secondo la giurisprudenza, nei casi in cui il potere esercitato risulta in concreto non sussistente perché non previsto da norme dell’ordinamento, o non sussistente in capo all’Amministrazione che lo ha esercitato. Questa seconda ipotesi dà luogo alla c.d. incompetenza assoluta (o vizio dell’attribuzione) e rappresenta quei casi in cui il potere concretamente esercitato attraverso l’atto di cui si tratta risulta attribuito dalla legge ad (organo di) altra Amministrazione; perciò l’atto viene a violare la normativa circa l’attribuzione. Amministrazione a questi fini viene intesa come ente pubblico (organizzazione pubblica dotata di propria personalità giuridica), ovvero nell’ambito dello Stato come branca organizzativa differenziata dello Stato stesso (ministeri, Amministrazioni indipendenti). La giurisprudenza tende ad articolare la carenza di potere, e perciò il vizio dell’attribuzione, al di là delle branche organizzative, per settori di amministrazione sostanziale, che possono
coinvolgere (nelle c.d. Amministrazioni nazionali) più organizzazioni anche del tutto differenziate tra loro. Quindi, il vizio dell’attribuzione si riscontra in concreto in caso di violazione della normativa di attribuzione in quanto tale (esercizio del potere da parte di organo, di ente od Amministrazione diversa da quella attributaria del potere stesso); sempre che non si tratti di settore di amministrazione sostanziale nei cui procedimenti sono presenti organi di enti od Amministrazioni diverse (si pensi ad es. alla presenza dell’Amministrazione comunale e dell’Amministrazione regionale nei procedimenti di pianificazione urbanistica ovvero di edilizia scolastica). Altra ipotesi di carenza di potere che emerge costantemente nella giurisprudenza ordinaria si ha nei casi in cui, pur sussistendo il potere in capo all’Amministrazione che lo ha esercitato, in astratto non risultano sussistenti in concreto i presupposti per il suo esercizio. Tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa sono attribuite alla giurisdizione ordinaria (art. 2 l. proc. amm.). Gli atti amministrativi, se riscontrati illegittimi (non conformi alle leggi), dovranno essere semplicemente disapplicati nel giudizio civile; mentre l’Amministrazione, se ne sussistano in concreto i presupposti, potrà essere condannata al risarcimento dei danni. Questo sistema di tutela, riservato ai diritti lesi da provvedimenti amministrativi illegittimi, con lo sviluppo successivo del sistema si è rivelato fuori asse. Basti pensare che a fronte dell’esercizio di poteri amministrativi e nell’ambito di rapporti di diritto pubblico, la situazione soggettiva di tutti i portatori degli interessi qualificati è sempre l’interesse legittimo. Il problema del riparto delle giurisdizioni è stato affrontato via via dalla giurisprudenza, che ha trovato una soluzione nella c.d. teoria della carenza di potere. Secondo detta teoria alla cognizione del giudice ordinario restano devolute (sempre che si tratti di questioni di diritti) oltre alle ipotesi di nullità di carattere generale tradizionalmente conosciute (mancanza di un elemento essenziale dell’atto) le ipotesi di carenza di potere: il potere si esercita, concretizzandosi in un atto dotato dei suoi elementi essenziali, e perciò tecnicamente esistente; ma si tratta di potere non previsto dalla legge, ovvero attribuito ad altra Amministrazione. Se la violazione dedotta concerne l’esistenza del potere, ne conosce il giudice ordinario (sempre che si tratti di “questione di diritti”); se la violazione dedotta concerne l’esercizio illegittimo del potere stesso, ne conosce il giudice amministrativo. A queste ipotesi si deve aggiungere l’ipotesi delle nullità legali sopra ricordate (le quali non erano presenti al momento in cui la dottrina della carenza di potere veniva elaborata). In giurisprudenza si usa la nozione di degradazione (del diritto ad interesse legittimo) per spiegare che il giudice amministrativo conosce in principio di tutte le controversie concernenti esercizio di poteri amministrativi, a prescindere dal fatto che l’interesse del singolo sia anche tutelato come diritto. Salvi appunto i casi di nullità degli atti lesivi, e segnatamente i casi di carenza di potere. In realtà, però, l’effetto costitutivo (o estintivo) prodotto da un atto giuridico su una determinata situazione soggettiva non sposta affatto l’ordine della tutela propria di quest’ultima (la tutela serve anche a questo, dare a chi ha perduto iniure una situazione soggettiva lo strumento per recuperarla). Oggi abbiamo una norma, il 21 septies l. proc. amm., il quale recita sotto la rubrica Nullità del provvedimento che È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali,
che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’illegittimità degli atti amministrativi. Illegittimità degli atti amministrativi significa annullabilità, nel lessico giuridico corrente. La violazione di norme imperative in diritto privato dà luogo a nullità del negozio (1418 c.c.), mentre in diritto amministrativo (le cui norme sono tutte imperative salve eccezioni) la violazione stessa dà luogo ad annullabilità, salvi i casi di nullità appena ricordati. Il 21 octies l. proc. amm. (Annullabilità del provvedimento) così dichiara: È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. I vizi tipici, enunciati al comma I, sono dunque l’incompetenza, la violazione di legge e l’eccesso di potere. Il t.u. Const. St. attribuisce al Consiglio di Stato di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici. La l. TAR del 1971 devolve alla competenza dei TAR stessi i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti emessi dagli organi centrali dello Stato e degli enti pubblici a carattere ultraregionale. L’invalidità si risolve nella predicabilità degli stati viziati dalla normativa, od almeno uno di essi. La tripartizione legislativa dei vizi ha ormai un rilievo meramente descrittivo, visto che il 113.2 Cost. dispone la tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione non poter essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione. La distinzione dei vizi presenta forse ancora un rilievo positivo nella normativa relativa alla formulazione del ricorso (al giudice amministrativo) dove è prescritta l’indicazione dei motivi del ricorso stesso: il motivo non dedotto nel termine non può esser dedotto successivamente e preso in considerazione dal giudice, anche se palesemente fondato. Ed il motivo di ricorso consta, tra l’altro, dell’indicazione analitica del tipo di vizio fatto valere. Violazione di legge ed incompetenza indicano casi di difformità dell’atto rispetto alla relativa disciplina normativa: la violazione di una norma dell’ordinamento positivo da parte dello stesso. Incompetenza è la violazione della norma circa la competenza dell’organo (da distinguersi dal difetto di attribuzione, che ridonda in carenza di potere): l’atto è emanato da organo diverso da quello cui la legge conferisce il relativo potere. Violazione di legge indica ogni altra violazione di norme giuridiche (e segnatamente delle norme relative al procedimento). Il vizio di incompetenza è quello che propriamente attiene al profilo soggettivo della fattispecie; e quindi viene a comprendere non solo la violazione delle norme sulla competenza in senso tecnico, ma anche delle altre relative alla formazione del soggetto (ad es. per gli organi collegiali la presenza dei quorum necessari).
L’incompetenza può aversi per materia (l’organo non è titolare della relativa funzione che spetta ad altro organo: il Consiglio comunale e non la Giunta è competente circa l’adozione del piano regolatore); per territorio (gli organi a competenza territoriale non possono adottare provvedimenti relativi ad oggetti compresi nel territorio rientrante nella competenza di altro organo: nell’ambito di relazioni interorganiche, ché se si travalica l’ambito territoriale di attribuzione dell’ente si cade nel vizio di carenza di potere); per valore o per grado. Il legislatore del 1889 con eccesso di potere intendeva qualcosa di profondamente diverso da quello che intendiamo oggi: il legislatore intendeva con eccesso di potere un caso di incompetenza particolarmente grave, uno “straripamento”, cioè l’esercizio di un potere spettante ad autorità totalmente diversa da quella che l’esercita; una nozione grosso modo coincidente con quella di carenza di potere come attualmente intesa. La figura va analizzata come quella attraverso la quale la giurisprudenza ha costruito la discrezionalità amministrativa. L’eccesso di potere si può definire come il vizio concernente l’esercizio del potere discrezionale: diventa la figura nell’ambito della quale ricadono tutti i casi in cui l’autorità amministrativa non abbia bene esercitato il potere discrezionale (nei limiti in cui ciò possa essere ascritto all’ambito della legittimità). Il vizio di eccesso di potere non è configurabile a proposito di atti amministrativi non discrezionali ma vincolati. Tuttavia la nozione tecnica (qui seguita) di atto discrezionale non coincide con quella usata a questi fini dalla giurisprudenza, che comprende anche gli atti ascrivibili alla c.d. discrezionalità tecnica. L’indagine sull’eccesso di potere nei casi concreti presuppone che l’Amministrazione abbia agito in conformità alla legge; se è stata violata la legge l’atto è illegittimo per questa ragione. La prima forma nella quale si manifesta il vizio di eccesso di potere è quella dello sviamento: il potere risulta in concreto esercitato per un fine diverso da quello imposto dalla legge (violazione della regola del vincolo nel fine). Lo scopo che effettivamente viene perseguito può anche essere conforme ad altri interessi pubblici, ed in se stesso lecito, ma se esso è diverso da quello tipico vizia allo stesso modo l’atto che ne è espressione. In molti casi l’interesse primario affidato dalla legge alla cura di un determinato organo amministrativo, come oggetto di un determinato potere, può (e legittimamente) non essere perseguito in un caso di specie, ma sacrificato a fronte di interessi secondari preminenti. Perciò la valutazione circa la sussistenza in concreto del vizio di sviamento va fatta valutando la singolarità dei diversi casi e l’assetto degli interessi in gioco. A volte lo scopo effettivamente perseguito è in se stesso illecito e può dar luogo anche ad una fattispecie delittuosa (es: il 314 c.p.: peculato). Il fatto che lo scopo sia illecito non modifica la fattispecie quanto alla sua legittimità, ma vi aggiunge un ulteriore profilo di rilevanza, in quanto può dar luogo ad un’imputazione di reato in capo alla persona fisica titolare dell’organo. Lo sviamento si concretizza per il fatto obiettivo, quale risulta dalla documentazione procedimentale, del perseguimento dello scopo diverso a prescindere dalla volontà e dalla consapevolezza dell’Amministrazione. E per capire che in un determinato caso, lo scopo perseguito dall’Amministrazione sia uno scopo diverso da quello che doveva essere perseguito, occorre una ricostruzione analitica dell’intera vicenda procedimentale attraverso tutti gli atti e documenti in esito ai quali si è pervenuti alla scelta finale.
Al di là della figura dello sviamento vi è una serie di figure di eccesso di potere (c.d. figure sintomatiche), che sono riconducibili alla violazione del principio di ragionevolezza dell’agire amministrativo. L’irragionevolezza dell’agire che appare dal sintomo è a sua volta manifestazione di esercizio non corretto del potere (prescindendo dai risultati dello stesso: ciò che è ascrivibile a valutazione di merito). Trattandosi di sintomo, esso può essere in concreto contraddetto da elementi desunti da altri atti o fatti della complessa fattispecie procedimentale, che dimostrino che al di là delle apparenze l’Amministrazione abbia agito in maniera corretta. Le figure di eccesso di potere raggruppabili sotto la nozione di irragionevolezza possono derivare dagli elementi più diversi di una fattispecie. Possono estrinsecarsi nell’assenza di motivi, o di motivazione, nel contrasto palese tra due atti del procedimento (contraddittorietà intraprocedimentale), nel contrasto palese con altre manifestazioni di attività amministrativa da parte della stessa autorità con lo stesso oggetto (contraddittorietà tra provvedimenti), in una vera e propria illogicità formale del provvedimento (illogicità manifesta). Ancora, irragionevolezza può estrinsecarsi nella contraddizione tra la decisione assunta dall’Amministrazione con un determinato provvedimento concreto ed atti di carattere generale emanati nell’ambito dell’organizzazione nella quale essa è inserita, che abbiano ad oggetto la risoluzione di casi cui quello concreto risulta ascrivibile (norme interne, direttive, atti di autolimitazione). In questi casi, laddove l’Amministrazione non espliciti la ragione della scelta assunta in concreto in difformità dalle prescrizioni di carattere generale (“inosservanza immotivata di una circolare ministeriale”), la giurisprudenza ritiene viziata l’azione amministrativa nell’ambito della figura sintomatica di eccesso di potere denominata “violazione di circolare”. In altri casi, il vizio di eccesso di potere si manifesta per il contrasto di un’azione amministrativa concreta coi principi di natura sostanziale cui l’azione amministrativa deve ispirarsi, e che possiamo ancora evidenziare nel principio di completezza e veridicità dell’istruttoria (l’Amministrazione deve conoscere e prendere in considerazione nella loro realtà e verità tutti i fatti e gli interessi che costituiscono la situazione concreta nella quale il potere va ad incidere); nel principio di imparzialità dell’agire (l’Amministrazione salva espressa disposizione di legge deve trattare in maniera uniforme le situazioni omogenee); nel principio di giustizia sostanziale (l’Amministrazione pur tenuta ad applicare la legge ed a rispettare i predetti principi, deve agire in modo tale da non produrre, con riferimento a situazioni concrete e personali viste nella loro singolarità, fatti di evidente ed intollerabile ingiustizia). In relazione alla violazione di questi principi, conosciamo altre figure di eccesso di potere, che sono l’erroneità od il travisamento dei fatti, il vizio di incompleta istruttoria; e poi, la disparità di trattamento e l’ingiustizia manifesta. In questi casi, diversamente dai precedenti, il vizio emerge non da un mero sintomo di irragionevolezza dell’agire, ma da un risultato sostanziale dell’azione concreta. Con la manifesta ingiustizia ci si avvicina in misura consistente ai vizi di merito. Eccesso di potere è dunque un’espressione ellittica per designare una serie di stati viziati del provvedimento amministrativo, tutti rapportabili all’esercizio del potere discrezionale ma assai diversi gli uni dagli altri. La prima serie di casi si evidenzia nello sviamento e concretizza la violazione della regola del vincolo nel fine.
La seconda serie di casi (c.d. figure sintomatiche) si evidenzia nel vizio di irragionevolezza e concretizza la violazione della regola della ragionevolezza dell’agire amministrativo. La terza serie di casi si evidenzia a sua volta in diversi vizi (abbiamo considerato: erroneità o travisamento dei fatti e vizio di incompleta istruttoria; disparità di trattamento; ingiustizia manifesta) a seconda della regola o principio violato (regole e principi a contenuto sostanziale). L’illegittimità degli atti amministrativi rileva anche in sede penale, perché concretizza, insieme ad altri elementi, sia di carattere soggettivo che oggettivo, alcune fattispecie criminose imputate al pubblico ufficiale od all’incaricato di pubblico servizio. Per es. il pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, […] comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è imputabile di Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (479 c.p.). L’accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo nella sede giurisdizionale penale non dà luogo ad annullamento dell’atto stesso, ma a mera disapplicazione; produce tuttavia in capo all’Amministrazione l’obbligo di annullare l’atto (è uno dei casi di annullamento d’ufficio doveroso). L’illegittimità degli atti comunitari è fissata nella formula “incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del […] Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione, […] sviamento di potere”. Incompetenza significa violazione della normativa sulla competenza delle istituzioni comunitarie nelle loro reciproche relazioni. Violazione delle forme sostanziali significa mancanza dei requisiti di forma previsti per gli atti comunitari con prescrizioni particolarmente rigorose. Violazione del Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione corrisponde grosso modo alla nostra violazione di legge; contempla infatti ogni violazione del diritto comunitario in quanto tale, e viene estesa alla non conformità ai principi di diritto desumibili dal Trattato, ovvero dal diritto costituzionale degli Stati membri o dal diritto internazionale. Sviamento di potere è il détournement della giurisprudenza francese e il nostro sviamento: non corrisponde quindi all’eccesso di potere. Il regime giuridico dell’illegittimità è quello proprio dell’annullabilità, ma è molto diverso rispetto al regime dell’annullabilità nel diritto comune (a differenza di quanto abbiamo constatato a proposito della nullità). Circa il profilo degli effetti, l’atto annullabile produce i medesimi effetti dell’atto valido. È sempre tuttavia in convalescenza, perché può essere annullato, e perciò rimosso con tutti gli effetti già prodotti. Per evitare questa eventualità, può essere convalidato (1444 c.c.) ove ne ricorrano le condizioni: in tal caso, data la retroattività della convalida, gli effetti dell’atto annullabile si hanno per prodotti iure sin dall’origine. Circa il profilo della rilevabilità, l’illegittimità degli atti amministrativi può essere rilevata da parte dei soggetti portatori di interessi (legittimi) che risultano lesi (sacrificati) per effetto degli atti stessi, mediante l’uso di strumenti procedurali tipici, che nel loro insieme costituiscono il sistema di tutela degli interessi legittimi; ovvero da parte della stessa Amministrazione attraverso procedimenti di riesame. Principio fondamentale in materia è quello dell’impugnabilità di ogni provvedimento amministrativo, o fatto produttivo dei medesimi effetti (silenzio assenso). Alcuni aspetti problematici, sotto il profilo dell’impugnabilità, si pongono per la categoria degli atti dichiarativi.
Per regola, tali atti si ritengono non soggetti al regime della tutela amministrativa (Gotti); vi sono però casi in cui l’atto ad efficacia dichiarativa, in quanto produce un effetto lesivo in ordine a situazioni soggettive di terzi, può essere oggetto di autonoma impugnazione, ferma restando (laddove ne ricorrano i presupposti) l’utilizzabilità dei mezzi di tutela ordinaria. Il provvedimento (ritenuto) illegittimo può essere impugnato da parte di qualsiasi soggetto leso nel suo interesse legittimo nonché portatore di uno specifico interesse a ricorrere: egli deve trovarsi cioè in una posizione di fatto e di diritto tale da consentirgli un risultato favorevole in concreto dall’eventuale accoglimento del ricorso stesso, cioè dall’annullamento dell’atto impugnato. Per regola generale possono essere impugnati tutti i provvedimenti (di autorità amministrative nazionali) lesivi di interessi legittimi davanti agli organi di giustizia amministrativa, Tribunali Amministrativi Regionali (TAR) in primo grado, e Consiglio di Stato in secondo grado; instaurando col ricorso un processo giurisdizionale che ha come parti, oltre al ricorrente, l’Amministrazione (o le Amministrazioni) che ha emanato l’atto (c.d. Amministrazione resistente) e gli altri soggetti portatori di interessi legittimi (in posizione rispettivamente omogenea – c.d. cointeressati – o contrapposta – c.d. controinteressati – a quella del ricorrente). Alcuni atti, pur ascrivibili al tipo, sono sottratti alla giurisdizione amministrativa, in virtù di specifiche norme, e sottoposti a sistemi di tutela propri e differenziati. Ciò si verifica a proposito degli atti amministrativi delle Camere e della Corte costituzionale; mentre nell’ambito della Presidenza della Repubblica è previsto semplicemente un sindacato di carattere giustiziale in materia di rapporti di impiego. Il ricorso è esperibile per motivi di legittimità (salvi casi, del tutto marginali, di giurisdizione c.d. di merito), cioè deducendo la sussistenza in concreto di uno dei vizi di cui s’è detto. Il ricorso, entro il termine (decadenza) di 60 giorni dalla data in cui l’atto – divenuto efficace (per gli atti sottoposti a controllo preventivo, l’opinione prevalente è che il termine decorra dall’atto positivo di controllo, salvo il caso dell’immediata esecuzione) – sia stato formalmente comunicato all’interessato o comunque dalla data in cui risulti che l’interessato ne ha avuto piena cognizione, deve essere notificato all’Amministrazione che ha emanato l’atto e almeno ad uno dei soggetti controinteressati, se vi sono; entro i successivi 30 giorni (decadenza) il ricorso deve essere depositato con la prova delle avvenute notifiche presso la segreteria dell’organo giurisdizionale adito. Trascorso il termine di decadenza, il ricorso non può essere più esperito avverso quel determinato atto da parte dei soggetti portatori degli interessi che ne abbiano avuto conoscenza: esso diventa inoppugnabile nei loro confronti (può però restare impugnabile nei riguardi di altri interessati che non ne abbiano ancora conoscenza). Nel ricorso devono essere espressamente indicate tutte le cause di invalidità che vengono dedotte, cioè ritenute sussistenti dal ricorrente (i motivi del ricorso); ulteriori motivi non possono essere dedotti, una volta scaduto il termine di decadenza, se non a fronte di fatti od atti idonei a rilevare l’esistenza di ulteriori vizi originari del provvedimento impugnato (Picozza), dei quali il ricorrente è venuto a conoscenza successivamente (c.d. motivi aggiunti). In alternativa al ricorso giurisdizionale può essere esperito ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il quale nel termine di 120 giorni (decadenza) dalla data della notificazione o della comunicazione dell’atto impugnato o da quando l’interessato ne abbia avuto piena conoscenza deve essere notificato ad almeno uno dei controinteressati e presentato (con la prova dell’avvenuta notifica) all’Amministrazione competente. La presentazione del ricorso straordinario esclude la facoltà dell’esperimento da parte dello stesso interessato del ricorso giurisdizionale; così come, all’inverso, l’esperimento del ricorso
giurisdizionale esclude la possibilità di quello straordinario; sempre che vi sia identità del provvedimento impugnato. I controinteressati, nonché l’Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato (se Amministrazione non statale), entro il termine di 60 giorni dalla notifica del ricorso straordinario possono richiedere con atto notificato al ricorrente ed all’Amministrazione stessa che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale. In conseguenza, se il ricorrente vuole insistere nel ricorso, deve depositare nei successivi 60 giorni (decadenza), presso la segreteria dell’organo giurisdizionale competente, l’atto di costituzione in giudizio, dandone avviso agli altri controinteressati ed all’Amministrazione. In alcuni casi, preliminarmente all’esperimento del ricorso giurisdizionale (o di quello straordinario) è previsto il facoltativo esperimento di un ricorso amministrativo (c.d. giustiziale). Tale rimedio è previsto a fronte di atti emanati da organi subordinati nella scala gerarchica (laddove esiste una relazione gerarchica) davanti all’organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l’atto (ricorso gerarchico); ovvero a fronte di altri atti, laddove espressamente previsto dalla legge, davanti al medesimo organo che ha emanato l’atto (ricorso in opposizione). Il ricorso amministrativo deve essere presentato nel termine di 30 giorni dalla data della notificazione e della comunicazione in via amministrativa dell’atto impugnato o da quando l’interessato ne abbia avuta piena conoscenza. L’esperimento del ricorso amministrativo non è alternativo al ricorso giurisdizionale. Una volta ottenuta la decisione dell’autorità amministrativa sul ricorso, essa può essere impugnata in sede giurisdizionale nei successivi 60 giorni (decorrenti dalla data della notificazione o comunicazione della decisione); (o con ricorso straordinario). Se si forma il c.d. silenzio sul ricorso, una volta decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione del ricorso stesso senza che l’organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso in sede giurisdizionale può essere esperito (nei successivi 60 giorni) contro lo stesso provvedimento impugnato in sede amministrativa. Tuttavia, i motivi di illegittimità dedotti avverso l’atto impugnato col ricorso amministrativo vincolano poi la successiva azione del ricorrente in sede giurisdizionale, nella quale non possono essere dedotti motivi nuovi (almeno secondo l’opinione prevalente). I ricorsi amministrativi (a differenza del ricorso giurisdizionale e di quello straordinario) possono essere presentati anche per motivi di merito: ciò consente all’organo adito una completa e piena revisione delle questioni amministrative oggetto dell’atto impugnato (nei limiti di quanto dedotto dal ricorrente). Con il ricorso (sia esso giurisdizionale od amministrativo) il soggetto interessato (portatore di interesse legittimo in senso tecnico) deduce l’invalidità di un provvedimento amministrativo (od altro atto impugnabile) specificandone espressamente i vizi nei quali essa si appalesa (motivi di ricorso). Ove questi motivi (od almeno alcuni di essi) risultano sussistenti, a seguito dell’istruttoria posta in essere dall’autorità decidente (giurisdizionale od amministrativa), il ricorso viene accolto; e l’atto impugnato, per regola, viene annullato (totalmente o parzialmente). Può essere richiesta al giudice la tutela risarcitoria per la lesione di interessi legittimi oltre che di diritti soggettivi. Nel caso di giurisdizione di merito, o di ricorso amministrativo per motivi di merito, l’accoglimento del ricorso può dar luogo anche alla riforma dell’atto impugnato od alla sua sostituzione con altro atto adottato mediante la decisione del ricorso stesso.
In caso contrario il ricorso è dichiarato inammissibile ovvero respinto nel merito, cioè dichiarato infondato. In tal caso, l’atto impugnato resta in vita. Col ricorso (sia esso giurisdizionale o straordinario od amministrativo), ovvero con separato atto una volta presentato il ricorso, può essere chiesta anche la sospensione (dell’esecuzione) del provvedimento impugnato; che può essere concessa dall’organo adito per gravi motivi: laddove danni gravi ed irreparabili possano derivare nella sfera soggettiva del ricorrente dall’esecuzione del provvedimento impugnato. Per la concessione della sospensione è però richiesto un fumus boni iuris, cioè una parvenza di fondatezza del ricorso. Regimi differenziati operano circa la tutela avverso atti amministrativi di organi costituzionali, ai quali è stata riconosciuta la c.d. autodichia, cioè la capacità di esercitare la giurisdizione attraverso organi propri sottraendola agli organi giurisdizionali comuni. Questi sistemi differenziati sono oggi in vigore per le Camere e per la Corte costituzionale; di recente si è giunti ad estendere i regime di tutela differenziata dei dipendenti delle Camere ai portaborse dei parlamentari. Nell’ambito della Corte costituzionale è la stessa Corte competente a giudicare dei ricorsi amministrativi, mentre nell’ambito delle Camere sono costituiti appositi organi all’uopo. Gli atti amministrativi delle autorità comunitarie, limitatamente a quelli di esecuzione c.d. diretta, possono essere a loro volta impugnati dai soggetti interessati (“qualsiasi persona fisica o giuridica”) davanti agli organi giurisdizionali delle Comunità europee: Tribunale di prima istanza e Corte di giustizia. Cosa diversa è il ricorso da parte degli Stati membri avverso ogni tipo di atto comunitario (esclusi i pareri e le raccomandazioni, cioè atti privi di efficacia giuridica diretta) e quindi anche di quelli normativi, ed a prescindere da ogni prospettazione di interesse concreto. Il ricorso dei soggetti interessati presuppone nel ricorrente uno specifico interesse; e deve essere proposto nel termine perentorio di due mesi dalla pubblicazione o notificazione dell’atto, ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza. Il ricorso è previsto per motivi di illegittimità dell’atto (“incompetenza, violazione delle forme sostanziali”, etc.). Il Tribunale comunitario (e la Corte di giustizia in seconda istanza), in caso di fondatezza del ricorso, dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato. Detto annullamento esplica un’efficacia assoluta, e non limitata alle parti in causa; cioè elimina l’atto dal mondo del diritto con effetti erga omnes (Tizzano). Nel sistema della tutela amministrativa non è previsto un processo esecutivo come nel sistema della tutela civile. In principio l’esecuzione delle decisioni del giudice amministrativo è affidata alla stessa Amministrazione: l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, tranne che per la parte relativa alle spese. Esiste un particolare strumento procedurale, denominato giudizio di ottemperanza, compreso nei casi di giurisdizione di merito del giudice amministrativo, cui il ricorrente che ha ottenuto una sentenza favorevole nei confronti dell’Amministrazione (sia in sede ordinaria che da parte del giudice amministrativo stesso) può ricorrere per ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato. Nell’ambito del giudizio di ottemperanza si possono ottenere dal giudice amministrativo, che in quanto giudice anche di merito gode di una più ampia gamma di poteri, provvedimenti di annullamento e di riforma; e nel caso in cui gli adempimenti da porre in essere da parte
dell’amministrazione constano di atti amministrativi di tipo vincolato, non discrezionale, o comunque a contenuto discrezionale minimo, si può anche ottenere un provvedimento sostitutivo di quello dell’Amministrazione inadempiente. In questi casi viene usato lo strumento della nomina di un commissario ad acta, che quale organo straordinario dell’Amministrazione stessa, od organo ausiliario del giudice secondo la tesi prevalente, adotti il provvedimento sulla base delle indicazioni del giudice. Lo strumento del giudizio di ottemperanza serve alla soddisfazione tanto degli interessi oppositivi quanto di quelli pretensivi. Laddove la sentenza del giudice amministrativo abbia accertato la sussistenza nel caso di specie dei presupposti richiesti per l’emanazione dell’atto, la successiva inazione dell’amministrazione (o la sua persistenza nel rifiuto) può dar luogo a giudizio di ottemperanza, attraverso il quale si può giungere all’emanazione dell’atto in luogo dell’Amministrazione inadempiente, in genere attraverso lo strumento del commissario ad acta. Invalidità amministrativa e procedimenti di riesame. L’Amministrazione possiede strumenti – poteri amministrativi in senso tecnico, che si estrinsecano in procedimenti detti di autotutela – intesi al riesame dei propri atti sotto il profilo della validità. La dizione autotutela sta ad indicare questa particolarità del regime giuridico degli atti amministrativi (differenziato rispetto a quello degli atti di diritto comune), che lo scrutinio della loro validità, successivamente al loro perfezionamento ed alla produzione degli effetti, può essere compiuto dalla stessa Amministrazione, anche di propria iniziativa, mediante l’esercizio di poteri in senso tecnico, capaci di produrre unilateralmente conseguenze giuridiche (anche svantaggiose) in capo a soggetti terzi. Il procedimento può dar luogo a conferma, a convalida, o ad annullamento del precedente provvedimento. Non è dal mero acclaramento della situazione rispettivamente di legittimità od illegittimità del provvedimento di primo grado che può derivare l’adozione delle misure (di autotutela, secondo la dizione usata); ma occorre qualcosa in più, la presenza di un interesse pubblico specifico in tal senso. I poteri in oggetto sono poteri discrezionali a tutti gli effetti, e perciò il loro esercizio in concreto deve sempre trovare un suo specifico riferimento in un determinato assetto di interessi in gioco. Oggetto del procedimento di riesame è un provvedimento (produttivo di effetti), ovvero il fatto (silenzio assenso) a sua volta produttivo dei medesimi effetti. Gli accordi viceversa sono esclusi (solo la loro efficacia può esser oggetto di un procedimento di revisione). I provvedimenti di riesame hanno efficacia ex tunc. Il procedimento di riesame può dar luogo anzitutto a conferma del precedente provvedimento (che ne è oggetto): laddove a seguito del riesame l’atto risulta conforme alla legge e non viziato sotto alcun profilo. La conferma è procedimento di secondo grado (ed esercizio di potere discrezionale). E l’atto che conclude detto procedimento (il provvedimento di conferma) è provvedimento amministrativo in senso proprio, autonomamente impugnabile. Da tale provvedimento si distingue quello che viene chiamato in giurisprudenza atto meramente confermativo: l’atto col quale l’Amministrazione, a fronte di una istanza di terzi interessati (si badi bene: non un ricorso amministrativo) che chiedono di modificare, di annullare o comunque di riesaminare un determinato provvedimento, si limita a rispondere confermando senz’altro il provvedimento stesso senza alcun riesame della relativa fattispecie.
Secondo la giurisprudenza, è confermativo il provvedimento emanato, con riferimento ad un’istanza di riesame proposta dall’interessato, senza una nuova istruttoria e senza nuove motivazioni. È da escludere che la natura confermativa o meno di un provvedimento rispetto ad altro pregresso possa essere dedotta dal contenuto di istanze o di atti posti in essere dal destinatario del provvedimento stesso. In secondo luogo, il procedimento di riesame può estrinsecarsi in una misura diretta alla rimozione del vizio di cui il provvedimento di primo grado (che ne è oggetto) risulta affetto. Questo è il caso della convalida, prevista anche in diritto comune a proposito del contratto annullabile, con atto del contraente al quale spetta l’azione di annullamento (1444 c.c.); mentre è esclusa per gli atti nulli, salve eccezioni (1423 c.c.). Il vizio la cui presenza può dar luogo a convalida del relativo atto deve essere per sua natura rimuovibile; e perciò attinente alla competenza, od alla procedura, etc.; ferma perciò restando la sostanza del provvedimento. Con la convalida la stessa autorità che ha emanato un atto viziato provvede espressamente all’eliminazione del vizio dell’atto stesso. Ove trattasi di atto viziato di incompetenza, alla convalida procede l’autorità competente (la Giunta regionale convalida il provvedimento di dichiarazione di p.u. illegittimamente adottato dal Presidente). Il provvedimento di convalida deve implicare riconsiderazione degli interessi su cui il provvedimento da convalidare aveva disposto e puntuale e analitico consenso con la ponderazione che tale provvedimento aveva effettuato. La convalida produce, come le altre misure di riesame, effetti retroattivi. Alla convalida di un provvedimento illegittimo non può procedersi in pendenza di ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento stesso, salvo che si tratti di sanare il vizio di incompetenza; né può procedersi a convalida una volta che l’atto sia stato annullato in sede giurisdizionale. Un tipo di convalida è la c.d. ratifica: laddove i poteri propri di un organo possono essere esercitati da altro organo dello stesso ente, in particolari circostanze (segnatamente in caso di urgenza). L’atto viene adottato coi poteri dell’organo competente. Quest’ultimo tuttavia deve ratificare l’atto (che significa farlo proprio, riadattarlo con efficacia ex tunc). In mancanza di ciò l’atto, come dice la giurisprudenza, cade nel nulla con effetto ex tunc. Il provvedimento di convalida ha ad oggetto atti illegittimi in senso tecnico. Nel caso di mera irregolarità, l’atto può essere oggetto di rettifica (una forma di regolarizzazione: a volte si parla di correzione) da parte dell’organo che lo ha emanato. La rettifica o correzione non viene ad incidere sulla legittimità dell’atto che ne è oggetto, anzi la presuppone. La convalida in concreto si può anche confondere con la pura e semplice rinnovazione del precedente atto, che a differenza della convalida produce i suoi effetti ex nunc. Occorre interpretare il nuovo atto per stabilire se con esso l’Amministrazione abbia voluto sanare i vizi del precedente, ovvero abbia voluto provvedere ex novo. Veniamo all’annullamento (c.d. annullamento d’ufficio, per distinguerlo dall’analoga misura adottata in sede di tutela). La l. proc. amm. al 21 nonies (Annullamento d’ufficio) dichiara che Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. La competenza dell’organo circa l’annullamento d’ufficio segue la competenza sostanziale: per cui, se quest’ultima viene trasferita ad altro organo, sarà questo competente circa l’annullamento degli atti adottati dall’organo precedentemente titolare della competenza, ove ne sussistano i presupposti. Sicuramente spetta al Governo nella sua collegialità (Consiglio dei Ministri) a fronte degli atti di ogni autorità amministrativa, escluse quelle regionali. In casi specificamente previsti da norme positive, il potere di annullare certi atti amministrativi è attribuito ad autorità amministrative del tutto differenziate rispetto a quelle titolari della competenza circa gli atti da annullare. Il potere di annullamento governativo, secondo la l. presid. cons. (400/1988), è di carattere straordinario: può essere esercitato, previo parere del Consiglio di Stato, a tutela dell’unità dell’ordinamento. L’esercizio in concreto del potere di annullamento presuppone anzitutto acclarato con esito positivo lo stato di invalidità del provvedimento; e che d’altra parte si tratti di invalidità grave e non sanabile. Ma presuppone altresì un interesse pubblico concreto e specifico all’annullamento dell’atto. Ma la presenza di questo interesse pubblico non è richiesta ove tra l’adozione dell’atto e la sua rimozione sia trascorso un breve lasso di tempo, non potendosi consolidare in tale periodo interessi privati contrapposti (Cons. St., V, 1325/1991). L’interesse pubblico è considerato in re ipsa quando si tratta di atti che importano erogazioni di somme di denaro pubblico destinate a protrarsi nel tempo. Il potere di annullamento può essere esercitato entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. In certi casi l’esercizio del potere d’annullamento d’ufficio è considerato doveroso: laddove l’invalidità dell’atto sia stata dichiarata con sentenza del giudice ordinario (l. cont. amm.: all. e) l. 2248/1865) ovvero a seguito di annullamento in sede giurisdizionale ovvero in sede amministrativa di atti presupposti rispetto a quello di cui si tratta od ancora laddove l’invalidità dell’atto sia stata rilevata in sede di procedimento di controllo successivo, o comunque oggetto di rilievi da parte della Corte dei conti. Tuttavia la presenza in questi casi di un dovere in capo all’autorità amministrativa di procedere all’annullamento d’ufficio (secondo quanto è generalmente ritenuto: Sandulli) non fa venir meno il carattere discrezionale del potere di annullamento. Ma in tali casi l’interesse pubblico da valutare in concreto al fine dell’esercizio del potere di annullamento non è di segno positivo (sussistenza di una ragione di interesse pubblico specifica all’annullamento dell’atto), ma di segno negativo (sussistenza di una ragione di interesse pubblico che impedisca nel caso concreto di procedere all’annullamento dell’atto). Come caso di annullamento dovuto è stato considerato in giurisprudenza quello della concessione edilizia una volta annullato il nulla-osta ambientale relativo alla medesima (Cons. St., VI, 547/1981). L’annullamento del provvedimento amministrativo può essere contestuale alla conversione dello stesso in altro provvedimento (dotato di diverso contenuto dispositivo, produttivo di diversi effetti), ovvero può essere seguito dalla conversione. Anche la conversione come l’annullamento opera ex tunc.
Alla conversione dell’atto invalido, pur se già annullato, può procedersi laddove esso, invalido con riferimento ad una determinata fattispecie normativa, presenta caratteristiche proprie di altra fattispecie, nella quale appunto viene convertito. Possono essere oggetto di conversione anche atti nulli (1424 c.c.). L’annullamento del provvedimento può essere anche parziale (annullamento parziale): nei casi in cui si tratta, appunto, di invalidità parziale dello stesso. In tal caso solo una parte del contenuto del provvedimento, quella oggetto di annullamento, subirà gli effetti prodotti dall’annullamento; mentre l’altra parte resterà pienamente in vigore con tutta la sua efficacia. In caso di annullamento parziale, può accadere che la parte annullata del provvedimento sia oggetto di riforma, cioè venga sostituita da altro contenuto dispositivo. Premesse sull’attività di diritto comune. Lo Stato e gli enti pubblici (le Amministrazioni) godono della capacità giuridica generale (capacità di diritto comune). Gli enti pubblici sono anzitutto persone giuridiche e perciò senz’altro soggetti di diritto, dotati per definizione della capacità giuridica generale (Falzea). Del resto secondo l’11 c.c. le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche [dizione questa che sta per organizzazioni pubbliche tout court] godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico. Ciò significa che essi sono soggetti allo statuto normativo singolare loro proprio, ed applicano il diritto comune salva la compatibilità di singole norme ed istituti con lo statuto speciale stesso. La capacità di diritto privato è comune alle persone giuridiche pubbliche ed a quelle private (Galgano). La capacità generale (di diritto comune) comporta in principio la disponibilità da parte delle organizzazioni pubbliche degli strumenti giuridici del diritto comune (segnatamente del contratto) per lo svolgimento della propria azione, per il perseguimento dei propri fini. Tuttavia, in un ordinamento c.d. a diritto amministrativo vige anche il principio che l’Amministrazione in senso sostanziale, come attività di cura concreta degli interessi pubblici, si svolge per regola secondo il modulo dell’esercizio del potere, cioè mediante atti e procedimenti amministrativi, retti dalla disciplina di diritto pubblico. L’amministrazione in senso sostanziale cioè avviene per regola attraverso l’esercizio di capacità giuridiche speciali, quali sono i poteri amministrativi. Il regime giuridico dell’esercizio del potere è caratterizzato non solo dalla c.d. imperatività degli effetti, che riguarda una limitata serie di casi, ma piuttosto dalla funzionalizzazione dell’attività (rilievo determinante dei motivi) e dalla rilevanza giuridica degli interessi dei soggetti terzi, tutelati come situazioni giuridiche soggettive attraverso la partecipazione al procedimento ed attraverso l’impugnabilità degli atti lesivi. L’attività amministrativa di diritto comune non è attività disciplinata senz’altro ed esclusivamente dalla normazione privatistica, ma in essa l’applicazione della normazione privatistica è limitata e condizionata dalla presenza di molteplici istituti di diritto pubblico. Lo Stato e gli enti pubblici si trovano ad esser titolari di situazioni patrimoniali (proprietà, altri diritti reali, diritti di credito) che si sono formate in capo ad essi in virtù di fatti giuridici di diritto comune, ovvero di atti o fatti acquisitivi di diritto pubblico i cui effetti consistono però nella mera costituzione di situazioni patrimoniali. La gestione di questi rapporti di ordine patrimoniale avviene senz’altro mediante strumenti di diritto comune, salva la disciplina (di diritto pubblico) propria dei beni pubblici.
In secondo luogo, vi sono manifestazioni di amministrazione in senso sostanziale (cura concreta di interessi pubblici) per le quali gli strumenti del diritto comune – segnatamente il contratto – restano quelli propri e tipici dell’azione stessa. Si tratta segnatamente di tutti quei casi in cui l’azione amministrativa è intesa a procacciarsi prestazioni fungibili da parte di soggetti terzi (come ad es. prestazioni periodiche o continuative di cose: 1559 c.c.). Vi è quindi una vastissima area del contratto che copre tutte queste esigenze di amministrazione in senso sostanziale. In terzo luogo, vi è l’area dell’illecito. Le pubbliche Amministrazioni, come ogni soggetto giuridico, nel loro agire mediante atti giuridici e mediante operazioni possono commettere illecito (si ricordi, fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, 2043 c.c.). Stabilire quando ciò avvenga dipende dall’applicazione dei principi in tema di responsabilità civile, cui l’Amministrazione è soggetta salve eccezioni e deroghe. Vi è poi la vasta area delle obbligazioni, e segnatamente di quelle pecuniarie, che fanno carico all’Amministrazione, sulla base di una qualsiasi delle fonti tipiche: il contratto, il fatto illecito, gli altri fatti produttivi di obbligazioni ex lege, e sicuramente il provvedimento (e l’accordo di diritto pubblico). Le obbligazioni dell’Amministrazione restano disciplinate dal diritto comune delle obbligazioni, sia sul versante sostanziale che sul versante della tutela; salve eccezioni e deroghe espressamente previste dalla legge. Vi sono due problematiche di carattere generale. La prima riguarda l’ambito della capacità di diritto comune delle Amministrazioni pubbliche: esse godono della capacità giuridica generale (di diritto comune), ma esse sono organizzazioni formali, cioè costituite deliberatamente per uno scopo preciso ed esplicito di raggiungere fini determinati. È ben vero che alcune di esse, come ad es. gli enti di governo territoriali, e segnatamente il Comune, sono organizzazioni “a fini generali”, cioè in principio capaci di curare e servire qualsiasi interesse emerga dalla collettività amministrata; tuttavia anche queste organizzazioni a fini generali sono organizzazioni deputate alla cura di specifici interessi della collettività quali volta a volta emergono. Il problema consiste dunque nello stabilire se le organizzazioni pubbliche, come soggetti giuridici la cui azione è sempre per definizione finalizzata a determinati scopi (interessi pubblici), siano dotate di una capacità negoziale generale, cioè possano porre in essere negozi di diritto comune qualsivogliano. Sul punto la giurisprudenza sembra orientata nel senso del riconoscimento pieno della capacità generale alle persone giuridiche pubbliche, allineando la posizione di queste a quella delle persone giuridiche private. Il nostro ordinamento, a differenza di altri (ad es. quello inglese), non accoglie il principio del nec ultra vires, la cui applicazione comporta la nullità di negozi giuridici posti in essere dalle persone giuridiche al di fuori dei propri scopi. In mancanza di una norma che anche indirettamente la vieti, deve ritenersi ammessa la capacità degli enti pubblici di fare donazioni (Cass. 2338/1954; 470/1955; 1218/1958; 11311/1996). L’applicazione del principio della capacità generale delle persone giuridiche comporta, sul piano civilistico, la validità dei negozi giuridici posti in essere dalle organizzazioni pubbliche.
Altro problema è quello dell’esistenza di norme esplicite di divieto circa determinati atti od operazioni: in tal caso i negozi giuridici posti in essere in violazione della norma di divieto sarebbero certamente nulli secondo la norma fondamentale di cui al 1418 c.c. La seconda problematica di ordine generale si pone circa l’alternatività tra strumenti di diritto comune e strumenti di diritto pubblico. La giurisprudenza afferma che il carattere pubblico dei beni dell’ente comporta che rapporti con soggetti terzi aventi ad oggetto utilitates qualsivogliano del bene devono trovare la loro fonte in provvedimenti concessori e non in negozi di diritto comune. Dal canto suo, la giurisprudenza amministrativa giunge ad applicare gli ambigui istituti dell’autotutela decisoria; e a consentire l’annullamento o la revoca d’ufficio di contratti, ad es. di locazione, aventi d oggetto determinate utilitates di beni pubblici, considerandoli, nonostante la forma contrattuale, rapporti di natura amministrativa. Il problema deve essere risolto caso per caso, attraverso l’interpretazione della normativa vigente nei diversi settori di amministrazione. I principi da applicare nella delicata problematica dovrebbero articolarsi come segue. Anzitutto il problema della sostituzione dello strumento privatistico a quello pubblicistico si pone solo laddove il primo consente di raggiungere gli stessi risultati pratici del secondo. Grosso modo si può dire che la problematica si pone nella materia delle concessioni amministrative, nella materia dei provvedimenti ablatori, segnatamente quelli concernenti l’acquisizione di beni di proprietà privata. Ancora, può ritenersi operante il principio che la sostituzione dello strumento pubblicistico con quello privatistico può avvenire solo laddove quest’ultimo non comporta oneri ulteriori per l’Amministrazione rispetto a quelli che comporterebbe l’uso dello strumento pubblicistico. In materia di opere e di servizi pubblici, lo strumento della concessione amministrativa e quello del contratto di appalto sono del tutto sostituibili l’uno con l’altro. In materia di beni, la legislazione vigente prevede, in alcuni casi per singole utilitates dei beni stessi, in altri casi genericamente per ogni tipo d’uso cui possono essere adibiti, che i rapporti con soggetti terzi siano costituiti attraverso procedimenti di concessione amministrativa (e così ad es. per i beni del demanio marittimo, artt. 36 ss. cod. nav.). Più delicata è la questione dell’utilizzabilità di strumenti di diritto comune aventi ad oggetto determinate utilitates prestate da beni pubblici nei casi in cui, all’uopo, non siano previsti espressamente procedimenti concessori. Ciò si verifica in genere per quelle utilitates che non afferiscono alla destinazione pubblica del bene, ma sono ulteriori rispetto ad essa. Questo tipo di rapporti è da ritenere possano senz’altro essere costituiti mediante negozi di diritto comune, nel silenzio della legislazione positiva e perciò nell’ambito della capacità generale. La proprietà ed altri diritti sui beni. Lo Stato e gli enti pubblici sono proprietari di beni e titolari di diritti su beni. Beni giuridici sono le cose che possono formare oggetto di diritti (810 c.c.). Ma il patrimonio pubblico (i beni e i diritti patrimoniali appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici come soggetti di diritto comune) non esaurisce l’insieme dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici. I beni dello Stato e degli enti pubblici possono essere strumenti diretti di amministrazione, ed in quanto tali essi vengono gestiti e tutelati secondo speciale disciplina, ascrivibile al diritto pubblico (diritto dei beni pubblici). Il diritto dei beni pubblici quale noi lo intendiamo nasce nel periodo francese rivoluzionario al momento in cui fu introdotta nell’ambito degli antichi beni già appartenenti al sovrano (domaine
de la couronne), tutti in quanto tali sottratti al diritto comune, una volta divenuti beni della nazione, la distinzione tra quelli necessari per le esigenze della collettività (e così le strade, i fiumi, i porti, etc.) e quelli non necessari. I primi venivano sottratti all’applicazione del diritto comune ed ascritti al concetto di demanio pubblico; gli altri riportati, come beni patrimoniali, alla disciplina del diritto comune. Tale impostazione fu poi mantenuta nel codice di Napoleone e nei successivi codici civili da quello derivati. La disciplina codicistica distingue, nell’ambito dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici, quelli ascritti al demanio pubblico (822 ss. c.c.), a loro volta distinti in quelli appartenenti allo Stato (822 c.c.) e quelli appartenenti alle Province ed ai Comuni (824 c.c.; per il demanio regionale, l. 281/1970); e quelli ascritti al patrimonio rispettivamente dello Stato, delle Province e dei Comuni (826 c.c.), e degli enti pubblici non territoriali (830 c.c.). Nell’ambito del patrimonio, distingue ancora il patrimonio indisponibile, formato dai beni destinati ad una funzione o servizio pubblico e perciò sottratti alla disciplina del diritto comune, dal patrimonio disponibile, formato dai beni non destinati, e perciò soggetti alla disciplina del diritto comune. Emerge una differenziazione netta tra beni pubblici (demaniali o patrimoniali indisponibili che siano secondo il codice) e beni patrimoniali come quelli soggetti al diritto comune. Vi sono alcune categorie di beni, identificate per loro caratteristiche naturali, che la legge riserva all’appartenenza pubblica (beni riservati). Le più importanti categorie di detti beni sono quelle elencate dal codice all’822.1 (c.d. demanio naturale), che consistono nel lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia (c.d. demanio idrico); nonché all’826.2, che consistono nelle foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, ne le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, ne le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo. In questi casi i beni appartenenti a queste categorie individuati per loro caratteristiche naturali stabilite dalle leggi di settore ed in qualche caso oggetto di specifico accertamento da parte dell’autorità amministrativa, per il fatto stesso di esistere, sono riservati alla proprietà pubblica, cioè appartengono necessariamente allo Stato o ad altro ente indicato dalla legge. Essi vengono considerati, per il loro steso esistere, strumenti diretti di amministrazione. E gli atti di accertamento dell’autorità amministrativa, laddove previsti, hanno valore dichiarativo. In secondo luogo, i beni di appartenenza pubblica possono essere destinati ad una funzione o servizio pubblico per decisione dell’autorità competente (beni a destinazione pubblica). Una volta che la destinazione è in concreto realizzata, il bene acquista la qualità di bene pubblico. Gli artt. 828.2 ed 830.2 c.c. consentono a tutti gli enti pubblici di destinare beni di loro appartenenza a funzioni o servizi loro propri, nonché a sede degli uffici dell’ente, sottraendoli in conseguenza all’applicazione del diritto comune. Questo significa che il bene non può essere sottratto alla destinazione pubblica se non nei modi stabiliti dalle leggi che lo riguardano. La destinazione può avere diversi oggetti, attinenti ad ogni funzione o servizio di pertinenza dell’ente. Quindi sono beni a destinazione pubblica gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi (826.3); sono beni a destinazione pubblica quelli costituenti la dotazione della Presidenza
della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra (826.2); ma sono anche beni a destinazione pubblica le opere destinate alla difesa militare (822.1), nonché le strade, le autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti (822.2) e sono beni a destinazione pubblica tutti quelli che in virtù del potere di destinazione con oggetto generale proprio di tutti gli enti pubblici risultano destinati ad un pubblico servizio (826.3; 830.2). La destinazione risulta in genere come effetto di un procedimento decisionale dell’autorità amministrativa. Però la destinazione, perché possa dar luogo agli effetti civilistici menzionati (e cioè sottrarre il bene all’applicazione del diritto comune) nei confronti di terzi, deve risultare in fatto; cioè tradursi nell’effettiva utilizzazione del bene allo scopo fissato con l’atto di destinazione. La destinazione opera come fatto produttivo di effetti ed in quanto tale può essere accertata dall’autorità giudiziaria ordinaria in caso di contestazione. Lo stesso si può affermare in ordine alla cessazione della destinazione, la quale deve avvenire in fatto, non essendo sufficiente la mera manifestazione della volontà da parte dell’ente. Essendo questi beni strumenti diretti di amministrazione nel senso che la loro stessa presenza fisica, ovvero la loro utilizzazione in un certo modo, serve alla cura di interessi della collettività, essi devono essere tutelati sia nell’integrità fisica, sia nell’appartenenza giuridica. Ciò comporta l’inapplicabilità ad essi delle norme comuni sulla circolazione giuridica, e l’applicazione di norme speciali sulla tutela amministrativa (823). La prima regola è quella dell’incommerciabilità: i beni sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (823.1). Questa regola opera senz’altro nei confronti dei beni riservati, i quali sono in commerciabili come tali a prescindere dalla loro concreta destinazione; opera nei confronti dei beni a destinazione pubblica in costanza di destinazione. La regola dell’incommerciabilità si estrinseca in tre principali applicazioni. Anzitutto, essa comporta l’inalienabilità del bene o di singole sue porzioni. In secondo luogo, l’incommerciabilità comporta la sottrazione del bene alla garanzia patrimoniale dei creditori dell’ente di appartenenza. Anche qui la regola opera differentemente a proposito dei beni riservati che sono sottratti sempre e comunque alle procedure di espropriazione forzata a prescindere dalla loro concreta destinazione, ed a proposito dei beni a destinazione pubblica, che sono sottratti solo in costanza di destinazione. In terzo luogo, l’incommerciabilità dà luogo all’imprescrittibilità del bene, che significa che lo stesso (o singole sue porzioni) non può essere oggetto di fatti acquisitivi posti in essere da soggetti terzi. Questa regola però è propria dei beni riservati, per i beni a destinazione pubblica essa è inapplicabile: il possesso del bene detenuto da un terzo non è infatti compatibile con la destinazione pubblica. La seconda regola è quella dell’autotutela: Spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso (823.2 c.c.). Questi di cui s’è detto sono i beni appartenenti a titolo individuale allo Stato od agli enti pubblici, e di questi si occupa il codice agli artt. 822 ss. Ma altri beni appartengono ad alcuni enti pubblici a carattere comunitario, e tra essi particolarmente ai Comuni, come enti esponenziali della rispettiva comunità di abitanti, non a titolo individuale ma a titolo collettivo.
In questi casi, l’ente risulta come l’intestatario formale dei beni, in quanto ente rappresentativo di una determinata collettività, o comunità di abitanti, alla quale i beni appartengono (beni collettivi). L’appartenenza collettiva si estrinseca nella titolarità in capo ai singoli membri della collettività (i cives) di diritti propri di godimento diretto del bene e di poteri di tutela dello stesso: i cives possono direttamente esercitare le azioni a tutela della proprietà e del possesso dei beni collettivi. I beni collettivi sono sottoposti ad un regime di incommerciabilità relativa, cioè derogabile con apposita autorizzazione. L’insieme dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici e non dotati delle caratteristiche che si sono indicate (non identificati in una delle categorie riservate, non destinati a una funzione o ad un servizio pubblico, non appartenenti a titolo originario ad una comunità di abitanti) e perciò ricondotti alla disciplina del diritto comune costituiscono i beni patrimoniali c.d. disponibili o patrimoniali tout court. I beni sono commerciabili, quindi alienabili attraverso le procedure di contrattazione pubblica, usucapibili da terzi, soggetti ad esecuzione forzata per deviti; la tutela di detti beni deve seguire le vie ordinarie. In via di principio si ritiene che danaro e crediti siano da ascrivere ai beni disponibili, in quanto di regola non destinati. L’iscrizione in bilancio di determinate somme non produce di per sé il vincolo di destinazione (all’oggetto della spesa indicato nel capitolo di bilancio) delle somme stesse. In taluni casi però per il danaro può verificarsi anche un fatto di destinazione che produce l’indisponibilità delle relative somme. In altri casi è la stessa legge che può espressamente vincolare determinate entrate dell’ente (e quindi le corrispondenti some in danaro) a particolari destinazioni, vincolando in tal senso le somme di danaro stesse. In principio i beni patrimoniali sono destinati ad essere alienati attraverso procedimenti di asta pubblica; in alcuni casi è ammessa la trattativa privata. Per i beni immobili disponibili di pertinenza del patrimonio dello Stato situati all’estero è prevista apposita disciplina, che ne consente la vendita in tutti i casi in cui la loro conservazione risulti non conveniente ed i beni stessi non più idonei agli scopi (l. 34/1979). Speciale disciplina è prevista per consentire la concessione o la locazione di immobili statali non suscettibili anche temporaneamente di utilizzazione per usi governativi ad enti pubblici, ad istituzioni culturali, ad associazioni o fondazioni che perseguono scopi di rilevante interesse pubblico (l. 390/1986). È consentita la permuta senza limiti di valore di immobili demaniali (statali) adibiti a sede di pubblici uffici con altri immobili che consentano di mantenere la stessa od analoga destinazione, e che essendo di minor valore consentono allo Stato di acquisire un conguaglio in danaro. Col d.l. 386/1991 è stata introdotta la politica delle privatizzazioni immobiliari nel nostro paese: il Ministro delle finanze veniva autorizzato ad affidare a consorzi di banche ed altri operatori economici o società specializzate il compito di individuare i beni patrimoniali dello Stato suscettibili di gestione economica, anche in relazione alla destinazione urbanistica, o di diretta alienazione anche del solo diritto di superficie, nonché di compiere le necessarie operazioni di documentazione, classificazione e valutazione dei beni. I beni così individuati potevano essere conferiti a società a capitale misto per provvedere alle conseguenti alienazioni ovvero alla gestione dei beni. In tempi più recenti la politica di privatizzazione del patrimonio pubblico ha avuto una svolta che ha condotto all’uso a questi fini dei fondi comuni di investimento.
Sono state introdotte norme che innestano le alienazioni dei beni immobili di proprietà pubblica nei fondi comuni di investimento immobiliari chiusi. Dei beni appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici, a qualunque categoria appartengano, l’amministrazione e la gestione è affidata ad appositi uffici delle diverse Amministrazioni. I beni dello Stato se immobili sono amministrati dal Ministero delle finanze (Direzione generale del demanio), salve eccezioni stabilite dalla legge. Quando sono assegnati in uso ad altra Amministrazione, sono amministrati da questa sinchè perdura l’uso stesso. I beni destinati alla difesa militare sono amministrati dal Ministero della difesa. I beni mobili sono amministrati a cura delle Amministrazioni che li hanno in uso. Di tutti i beni sono formati inventari, secondo modalità diverse e a seconda che trattasi di beni demaniali o patrimoniali, disponibili e non. Per i beni demaniali, l’inventario ha carattere meramente descrittivo. Per i beni patrimoniali l’inventario è più analitico, e reca anche elementi valutativi e reddituali. L’attività contrattuale. L’amministrazione in senso sostanziale, come attività giuridica intesa a curare gli interessi pubblici, si esprime dunque anche mediante contratti di diritto comune (“contratti” nel senso del codice, che non devono essere confusi coi c.d. contratti o accordi di diritto pubblico). Si configurano come strumenti di amministrazione sostanziale i contratti attraverso i quali l’Amministrazione si assicura da parte di soggetti terzi determinate prestazioni a fronte del pagamento di somme di danaro (c.d. contratti passivi); ma i medesimi principi si applicano ai c.d. contratti attivi, attraverso i quali l’Amministrazione si procaccia somme di danaro a fronte dell’alienazione di beni o della prestazione di altre attività. I contratti delle pubbliche Amministrazioni, pur essendo ascrivibili al diritto comune, presentano una regolamentazione in larga misura differenziata rispetto a quella degli analoghi contratti di diritti comune stipulati tra privati. Anzitutto, bisogna tener presente la posizione istituzionale dell’Amministrazione, come soggetto deputato alla cura di interessi della collettività, e mai di interessi propri (non ha per definizione interessi propri). La dizione evidenza pubblica vuol significare che pur in materia negoziale la formazione della volontà dell’Amministrazione deve constare almeno di un atto di natura amministrativa che evidenzi i motivi dell’operazione negoziale che si va ad intraprendere e ne possa consentire il sindacato esterno. Il contratto pubblico si forma dall’incontro di due volontà che non sono tra loro omogenee quanto al tipo di attività giuridica posta in essere. La seconda notazione riguarda la fase dell’esecuzione dei contratti. Si pone l’esigenza che la parte pubblica del rapporto, e perciò l’amministrazione parte del rapporto contrattuale, disponga di poteri capaci di intervenire autoritativamente sul rapporto stesso, imponendo alla controparte determinati obblighi, riconoscendole o meno determinate facoltà, modificando modalità e termini del rapporto stesso sino in qualche caso a risolverlo: strumenti questi che si giustificano in funzione della cura dell’interesse pubblico cui l’attività oggetto del rapporto contrattuale è intesa. Anche nell’ambito dei contratti pubblici opera il principio fondamentale di buona fede che domina tutta la materia negoziale. Secondo il 1337 c.c. (Trattative e responsabilità precontrattuale) Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.
Alle turbative arrecate alla formazione del contratto dalla “violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede” (Cataudella) consegue l’obbligo di risarcire il danno nei limiti dell’interesse negativo che l’altra parte può aver risentito per la mancata conclusione del contratto, ovvero, se il contratto è stato concluso, per la sussistenza in esso di una causa di invalidità non comunicata alla parte stessa e da essa non potuta conoscere: secondo il 1338 c.c. (Conoscenza delle cause d'invalidità) La parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto. I danni risarcibili, secondo i principi civilistici, possono essere costituiti sia delle spese inutilmente effettuate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto, sia dalla perdita di ulteriori occasioni, per la mancata conclusione, nei riguardi di altri possibili stipulanti, di un contratto dello stesso oggetto, altrettanto o più vantaggioso di quello non concluso. Nei contratti conclusi a trattativa privata la responsabilità precontrattuale opera nella sua pienezza; mentre laddove il contratto si forma in esito ad un procedimento amministrativo di gara la giurisprudenza ritiene sussistano limitazioni all’operatività dell’istituto. Allo stato, la posizione del privato partecipante alla gara nell’ambito di questo procedimento viene configurata come posizione di interesse legittimo, la quale perciò non sarebbe coperta dal principio della responsabilità precontrattuale (Cass. 6545/1987). Nell’esperienza più recente (a seguito della sentenza Cass. 500/1999 e della l. 205/2000, che hanno individuato l’interesse legittimo come situazione giuridica risarcibile) la responsabilità contrattuale della P.A. viene ormai generalmente ammessa anche nell’ambito di procedimenti di gara diversi dalla trattativa privata. La responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione si evidenza anche nel momento della vicenda contrattuale, che segue alla stipulazione ed è inteso ad integrare l’efficacia del contratto: in tale fase l’Amministrazione deve tenere correttamente informato il terzo contraente circa l’andamento dei procedimenti integrativi dell’efficacia, e non deve pretendere l’inizio della prestazione se non nei casi di stretta necessità previsti dalla legge. Il mancato invio del contratto stipulato all’autorità competente per l’approvazione o per il controllo configura altresì un caso di responsabilità precontrattuale ai sensi del 1337. Il 1338 contempla il caso di una delle parti contraenti che, essendo a conoscenza (o dovendo conoscere) l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne abbia dato notizia all’altra parte: ciò dà luogo a responsabilità nei confronti dell’altra parte per il danno che questa abbia subito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto. La giurisprudenza tende però a restringere assai l’applicazione della norma nei confronti dell’Amministrazione, dilatando l’area della colpa del contraente a tutti i casi in cui questi avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, venire a conoscenza della reale situazione e quindi della causa di invalidità del contratto (Cass. 1987/1985, relativa alla vendita di una porzione del demanio marittimo). Il contratto, anche se concluso a trattativa privata, trova sempre la sua fonte (sul versante dell’Amministrazione) in un atto amministrativo col quale viene fissato il progetto di contratto, con la spesa prevista, nonché il metodo da seguire per la scelta del terzo contraente (c.d. deliberazione di contrattare). Si tratta di un atto di tipo programmatico, che costituisce il presupposto del procedimento contrattuale vero e proprio. Se riguarda un progetto di contratto di importo superiore ad una certa somma (che è diversa a seconda della modalità di scelta del contraente che si intende seguire), è sottoposto al parere di
legittimità e di merito del Consiglio di Stato: il relativo impegno della spesa deve essere registrato dalla competente Ragioneria. Nei rapporti coi terzi, la deliberazione di contrattare è considerato atto di natura interna, revocabile ad nutum secondo la giurisprudenza. I contratti pubblici sono per regola stipulati secondo condizioni generali di contratto (1341) predisposte dalle stesse Amministrazioni, che tradizionalmente vengono denominate capitolati (o capitoli) d’oneri. La curiosa terminologia contabilistica intende semplicemente significare un testo ordinato percapitoli (sta per articolato). I capitolati si distinguono in capitolati c.d. generali, che contengono le condizioni che possono applicarsi indistintamente ad un determinato genere di lavoro, appalto o contratto, e le forme da seguirsi per le gare, e capitolati speciali, che contengono le condizioni che si riferiscono più particolarmente all’oggetto proprio del contratto. Ai capitolati speciali si applica la normativa civilistica sia in ordine all’efficacia del capitolato stesso nei confronti dell’altro contraente, che opera solo se al momento della conclusione del contratto questi ha conosciuto il contenuto del capitolato o avrebbe dovuto conoscerlo usando l’ordinaria diligenza (1341.1); sia in ordine alla subordinazione dell’efficacia stessa delle condizioni generali che abbiano carattere c.d. vessatorio (che stabiliscano limitazioni di responsabilità dell’amministrazione; la facoltà di recedere dal contratto, etc.), alla specifica approvazione per iscritto da parte del terzo contraente (1341.2). La natura normativa dei capitolati generali dello Stato, e segnatamente di quello in materia di lavori pubblici, comporta che il suo contenuto si imponga a tutti i rapporti contrattuali che ne sono oggetto, a prescindere dai criteri e dai limiti posti dalla menzionata normativa civilistica. La natura normativa di detto capitolato si esplica nei rapporti contrattali posti in essere dalle Amministrazioni dello Stato ovvero dagli altri enti che all’applicazione dello stesso sono tenuti per legge. Viceversa nei casi in cui al capitolato viene fatto rinvio nell’ambito di rapporti contrattuali posti in essere da Amministrazioni diverse da queste, le norme del capitolato valgono come condizioni generali del contratto, con quel che ne segue in ordine all’applicazione della normativa civilistica. La natura di condizioni generali di contratto (natura contrattuale) o normativa dei capitolati influisce anche sulle regole dell’interpretazione da applicare: che sono quelle relative agli atti normativi nell’un caso, quelle relative agli atti negoziali nell’altro (12 preleggi; 1362 ss.). La scelta del contraente avviene per regola mediante procedimento di gara pubblica: i contratti dai quali derivi un’entrata (c.d. attivi) devono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che, per circostanze e ragioni particolari che dovranno essere chiaramente evidenziate, non sia opportuno far ricorso alla licitazione, e nei cassi di necessità alla trattativa privata (l. 2440/1923). I contratti dai quali derivi una spesa (c.d. passivi) devono essere preceduti da gara mediante pubblico incanto o mediante licitazione privata, a giudizio discrezionale dell’Amministrazione. Restano fuori dalla regola i contratti di piccolo importo che possono essere fatti in economia da un funzionario all’uopo delegato che ha la disponibilità di un apposito fondo (del quale è tenuto a render conto), sulla base della regolamentazione vigente nelle singole Amministrazioni. Il procedimento di gara presuppone un progetto di contratto definito in tutti i suoi elementi. Vediamo la differenza tra asta e licitazione (tra procedura aperta e procedura ristretta, secondo la terminologia comunitaria): l’asta è una gara alla quale possono partecipare tutti coloro che vi abbiano interesse, in possesso di determinati requisiti (stabiliti dall’Amministrazione con il bando), e perciò procedura aperta; la licitazione è una gara alla quale possono partecipare solo
coloro che, possedendo certi requisiti, siano stati espressamente invitati dall’Amministrazione, a seguito di una scelta preliminare e discrezionale: perciò procedura ristretta, o licitazione privata. Il procedimento di gara, che ha il suo presupposto nella deliberazione di contrattare, inizia con il bando di gara (avviso d’asta), assimilabile ad un invito ad offrire (e non ad un’offerta al pubblico ai sensi del 1336: e perciò non ha efficacia vincolante ne confronti dei terzi, e può essere revocato). Con esso l’Amministrazione si vincola ad osservare determinate modalità procedurali e delimita l’oggetto e le condizioni essenziali del futuro contratto (Sepe). Il bando deve indicare le principali caratteristiche del contratto (il soggetto, l’oggetto, il tipo di prestazione), il tipo di procedura che si segue per l’aggiudicazione, i requisiti per essere ammessi alla gara e gli adempimenti necessari per l’ammissione; i termini per la presentazione delle offerte. Il bando è soggetto a forme di pubblicità diffusa (fogli legali, stampa, etc.). Nella procedura ristretta (licitazione) in luogo del bando l’atto di inizio del procedimento è costituito dall’invito, che ha il medesimo contenuto del bando. Nel sistema normativo comunitario l’individuazione dei partecipanti alla procedura ristretta si articola a sua volta in due fasi. Nella prima, attraverso un bando soggetto a pubblicità diffusa, si dà pubblico avviso del contratto, avvertendo gli interessati dotati di certi requisiti di manifestare entro un certo termine il loro interesse a partecipare alla agra. Tra questi (seconda fase) l’Amministrazione sceglie i soggetti da invitare alla gara (e ad essi invia la lettera di invito e la necessaria documentazione), il tutto entro termini prefissati. Al giorno ed all’ora stabiliti, l’ufficiale c.d. rogante, od il funzionario o la commissione all’uopo designata dall’Amministrazione, procede alla recezione delle offerte se queste debbono essere espresse oralmente ovvero all’apertura delle buste (se il criterio seguito è quello delle offerte segrete). Il segreto dell’offerta è posto a tutela della par condicio dei concorrenti, allo scopo di evitare che le ultime proposte siano formulate tenendo conto di quelle presentate per prime. Le operazioni di gara intese alla cognizione e comparazione delle offerte terminano con l’aggiudicazione del contratto alla persona o ditta che ha presentato la migliore offerta. L’aggiudicazione è il provvedimento conclusivo del procedimento di gara ed è ascrivibile ai provvedimenti non discrezionali, a contenuto segnatamente acclarativo. L’aggiudicazione è altresì in genere l’atto che perfeziona il contratto, e dal quale perciò discende il vincolo negoziale. In altri casi, la conclusione del contratto è rinviata alla successiva stipulazione. Perché l’aggiudicazione possa costituire essa stessa la conclusione del contratto, occorre che l’Amministrazione lo abbia disposto espressamente nel verbale (di aggiudicazione), ovvero nel bando di gara, o nell’invito alla licitazione. Il procedimento di gara presuppone che il progetto di contratto sia definito in ogni sua parte. Ma si dà anche la diversa evenienza che l’Amministrazione necessiti dell’apporto di soggetti terzi per la definizione dello stesso progetto di contratto, di alcuni elementi sostanziali di esso; in tali casi si procede mediante appalto concorso. Si tratta di un procedimento di tipo concessorio, nel quale le diverse proposte progettuali e contrattuali dei partecipanti sono valutate, ed una di esse prescelta, con riferimento all’interesse pubblico curato nella specie. La partecipazione all’appalto concorso può essere, a sua volta, aperta (il bando si riferisce a tutti coloro che abbiano certi requisiti) ovvero ristretta, cioè sulla base di inviti.
Il procedimento di appalto concorso, a differenza di quello di gara propriamente inteso, è un procedimento a contenuto discrezionale. La valutazione comparativa deve essere fatta sia sotto il profilo tecnico, sia sotto il profilo patrimoniale, con riguardo alla capacità e serietà degli offerenti. Nell’appalto concorso, il momento della stipulazione del contratto resta del tutto autonomo e separato rispetto al procedimento inteso all’individuazione della migliore offerta. La formazione del contratto può avvenire, anziché attraverso un procedimento amministrativo inteso alla scelta del contraente, mediante trattativa privata, cioè secondo il diritto comune: dopo aver interpellato, se ciò sia ritenuto più conveniente, più persone o ditte, si tratta con una di esse. La formazione del contratto a trattativa privata è consentita solo in determinati casi. Secondo la normazione di contabilità, si danno sostanzialmente quattro ordini di casi: che la gara sia andata deserta; che l’oggetto del contratto presenti tali peculiarità dal punto di vista tecnico o produttivo da non consentire l’interpello di più ditte (una sola può fornirlo); che vi siano ragioni di urgenza tali da non consentire l’indugio degli incanti o della licitazione; ed in genere in ogni altro caso in cui ricorrono speciali ed eccezionali circostanze per le quali non possano essere utilmente seguite le forme proprie della gara. La normativa comunitaria distingue due forme di trattativa privata, a seconda che sia prevista o meno la preliminare pubblicazione di un bando di gara, contenente l’indicazione dei criteri per la selezione dei candidati. La trattativa privata preceduta dalla pubblicazione del bando è ammessa in una serie di casi, grosso modo rispondenti a quelli della legislazione nazionale. La giurisprudenza amministrativa riconosce la sussistenza di posizioni di interesse legittimo (tutelabili perciò davanti al giudice amministrativo) in capo ai soggetti partecipanti alla c.d. gara informale che di regola precede la trattativa privata. Perché possa configurarsi interesse legittimo nell’ambito della trattativa privata occorre un determinato atto di autolimitazione assunto dall’Amministrazione. L’Amministrazione, una volta che s’è autolimitata dandosi precisi criteri per lo svolgimento della gara informale, è vincolata da questi e perciò non può accordare liberamente la preferenza all’una od all’altra tra le offerte presentate; ma d’altra parte non per questo vengono modificate le linee fondamentali ed i caratteri tipici della trattativa privata, per cui l’Amministrazione resta libera di procedere ad un’ulteriore trattativa privata con la ditta risultata più idonea a seguito della gara informale, al fine di conseguire condizioni più favorevoli. I contratti pubblici richiedono, a pena di nullità, la forma scritta. Laddove l’aggiudicazione sta in luogo della stipulazione, sarà il verbale di aggiudicazione l’atto formale costitutivo del vincolo contrattuale; negli altri casi, e sempre in caso di conclusione del contratto a trattativa privata, il contratto assumerà le forme concrete del contratto di diritto comune di cui si tratta. Lo scritto ha la forma della rogazione da parte dell’ufficiale designato quale ufficiale rogante (c.d. forma pubblica amministrativa). Se stipulato in forma pubblica, la stipulazione avviene secondo le previsioni della legge notarile. I contratti a trattativa privata possono anche stipularsi per mezzo di scrittura privata, ovvero con atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta. Per alcuni contratti (quelli dello Stato) è prevista successivamente alla stipulazione (o all’aggiudicazione che tiene il luogo di questa) una fase procedimentale intesa a perfezionare il consenso dell’Amministrazione al contratto stipulato: c.d. approvazione del contratto. Si tratta di un istituto la cui sopravvivenza non è più giustificata, costituendo un’inutile duplicazione del procedimento di controllo.
Infatti in sede di approvazione l’organo competente (che è il dirigente individuato secondo la disciplina del d. pubbl. imp.) si limita ad un sindacato di legittimità sul procedimento contrattuale concluso e sulla stipulazione avvenuta. L’efficacia del contratto, anche se soggetto ad approvazione, decorre dal momento della stipulazione o dell’aggiudicazione che sta in luogo di essa (l’approvazione opera come condicio iuris). Il contratto, una volta approvato (se ne è prevista l’approvazione) o comunque concluso, è soggetto a procedimento di controllo. Il vincolo contrattuale non sorge in capo all’Amministrazione contraente se non a seguito dell’esito positivo dei procedimenti di controllo. Il terzo contraente è vincolato dal contratto stipulato: sulla sua volontà infatti non influisce la successiva vicenda amministrativa. Una volta perfezionato il contratto, e divenuto efficace, le sue disposizioni vengono eseguite dalle parti. Nella fase dell’esecuzione domina il diritto civile, e la giurisdizione ordinaria in caso di controversie. Tuttavia, laddove il rapporto contrattuale (contratti c.d. passivi) dia luogo ad una prestazione continuata o periodica da parte del terzo contraente (lavori pubblici, forniture, servizi), nella cui corretta esecuzione si realizza l’interesse pubblico nel concreto, sono previsti in capo all’Amministrazione poteri capaci di produrre unilateralmente effetti sul rapporto contrattuale. Alcuni dei principi espressi nella normativa generale sull’appalto dei lavori pubblici non sono altro che un adattamento di principi del codice. È invece ascritto senz’altro alla sfera pubblicistica il potere dell’Amministrazione di rescindere unilateralmente il contratto quando l’appaltatore si renda colpevole di frode o di grave negligenza, e contravvenga agli obblighi ed alle condizioni stipulate. In tal caso l’appaltatore avrà diritto solo al pagamento dei lavori eseguiti regolarmente, mentre potrà essergli imputato il danno che provenisse all’Amministrazione dalla stipulazione di un nuovo contratto, o dall’esecuzione d’ufficio. L’atto col quale l’Amministrazione committente dispone questa rescissione è provvedimento amministrativo, impugnabile davanti al giudice amministrativo (ma disapplicabile dal giudice ordinario) che può essere adottato per ragioni di interesse pubblico. E potere di tipo pubblicistico può essere considerato quello di ordinare l’esecuzione d’ufficio (a spese dell’appaltatore) delle opere, nei casi in cui per negligenza dell’appaltatore il progresso del lavoro non fosse tale da assicurarne il compimento nel tempo prefisso dal contratto. Nei contratti pubblici la fase della formazione consta (in tutto od in parte) di procedimenti amministrativi, secondo lo schema della c.d. evidenza pubblica, che danno luogo ad atti amministrativi produttivi di effetti (deliberazione di contrattare, bando di gara, aggiudicazione, etc.). Questi atti sono sottoposti, in punto di tutela, alla disciplina tipica degli atti amministrativi. E perciò sono annullabili d’ufficio. Gli atti stessi, in quanto produttivi di effetti, sono ovviamente impugnabili davanti al giudice amministrativo da parte degli interessati ed il giudice amministrativo ha il potere di sospenderli ed annullarli per illegittimità. Sono inoltre sottoposti a procedimenti di controllo, che possono dare esito negativo (e perciò possono essere annullati dall’organo di controllo, ovvero secondo lo schema del controllo della Corte dei conti possono non essere registrati e perciò restare privi di efficacia).
La posizione consolidata della giurisprudenza è nel senso che la caducazione, in sede giurisdizionale od amministrativa, di atti della fase della formazione dà luogo alla conseguenza di privare l’Amministrazione stessa, con efficacia ex tunc, della legittimazione a negoziare. Diversamente è trattato il caso della mancata approvazione del contratto; secondo un orientamento giurisprudenziale anche il privato in tal caso può invocare l’inefficacia del negozio. La mancata approvazione rende il contratto non più eseguibile, così da liberare il privato contraente, come ovviamente l’Amministrazione, da ogni obbligo; e lo stesso avviene nel caso di mancanza o di vizio degli atti di controllo veri e propri, così che non possa perfezionarsi la volontà contrattuale dell’Amministrazione. Secondo la giurisprudenza dominante l’annullamento di un atto della fase di formazione fa cadere il contratto in una situazione di annullabilità ai sensi del 1425 (una delle parti era legalmente incapace di contrattare). L’annullabilità ai sensi del 1425 può essere dedotta davanti al giudice ordinario solo dalla parte interessata (1441), che è secondo la giurisprudenza dominante l’Amministrazione contraente. Viene riconosciuta la nullità del contratto in caso di incompetenza assoluta dell’organo stipulante. Secondo la Cassazione (VI, 4269/1996) la caducazione degli atti amministrativi della fase della formazione non produce la caducazione del contratto né viene a condizionarne l’efficacia. Il contratto può essere annullato o dichiarato nullo solo dal giudice ordinario, in applicazione dei principi del diritto comune. Secondo il codice civile l’annullamento della deliberazione (formativa della volontà contrattuale dell’ente) non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima (artt. 23 e 25); né il fatto che il rappresentante abbia agito senza poteri può essere opposto ai terzi, salvo che si provi che essi ne erano a conoscenza (19). I fatti illeciti e la responsabilità civile dell’Amministrazione. Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un fanno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno (2043): è il principio generale della responsabilità civile. Tale forma di responsabilità ha carattere e contenuto generale, e del tutto atipico. Si denomina correntemente responsabilità extracontrattuale (od aquiliana) per distinguerla da quella contrattuale, che presuppone un determinato regolamento negoziale di interessi che viene leso dall’inadempimento di una delle parti. La c.d. responsabilità precontrattuale (1337) è ascritta secondo l’opinione corrente alla responsabilità extracontrattuale (ancora non sussiste tra le parti alcun rapporto obbligatorio). La distinzione tra i due tipi di responsabilità rileva sotto due profili. Anzitutto, in caso di responsabilità aquiliana, il danneggiato ha l’onere di provare la sussistenza, in capo al danneggiante, degli elementi soggettivi (colpa o dolo) che determinano l’imputabilità del fatto; mentre in materia negoziale l’inadempimento in sé è causa di responsabilità (salvo che il debitore dimostri che l’inadempimento dipende da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, ai sensi del 1218). In secondo luogo, diverso è il termine di prescrizione della relativa azione di responsabilità. Per regola, il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato (2947.1); mentre l’azione di responsabilità per inadempimento contrattuale segue il termine di prescrizione ordinaria (2946). In principio, il fatto illecito deve essere volontario (atto piuttosto che fatto) per la cui sussistenza occorre che l’autore abbia la capacità di intendere e di volere al momento del fatto (a meno che lo stato di incapacità derivi da sua colpa: 2046); ed imputabile a dolo (l’evento dannoso è
dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione) od a colpa (l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline: 43 c.p.) di una persona fisica. Esclude la responsabilità dell’agente l’aver agito per legittima difesa (2044) od in stato di necessità (in tal caso al danneggiato è dovuta un’equa indennità: 2045). Si danno casi di responsabilità per fatto altrui, nei quali l’obbligazione risarcitoria nasce in conseguenza di un fatto non imputabile a colpa o dolo del soggetto cui l’obbligazione stessa viene imputata; casi in cui si prescinde dal requisito soggettivo perché si configuri la fattispecie dell’illecito; ovvero in cui il requisito soggettivo è imputato ad altri, rispetto al soggetto cui è imputata l’obbligazione risarcitoria (c.d. colpa presunta). E così, del danno cagionato da persone incapaci di intendere e di volere, rispondono i soggetti tenuti alla sorveglianza (salva l’impossibilità di impedire il fatto, 2047); del danno cagionato dal fatto illecito dei minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela che abitano con essi, rispondono i genitori od il tutore (2048); del danno cagionato dal fatto illecito dei domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti rispondono i padroni e i committenti (2049). Fatto illecito, sul versante oggettivo, è quello che procura ad altri un danno ingiusto (contra ius). Non basta un danno qualsivoglia, questo danno deve essere ingiusto: ciò significa che il danno prodottosi nella sfera soggettiva altrui deve concretizzarsi nella lesione di un diritto soggettivo di questi. In principio, deve trattarsi della lesione di un diritto soggettivo assoluto (diritti reali, diritti della persona); ma in certi casi può trattarsi anche di un diritto soggettivo relativo (di credito) leso dall’azione colposa o dolosa (il caso storico in giurisprudenza è quello del calciatore Meroni ucciso colposamente in un incidente d’auto, il cui autore fu ritenuto responsabile nei confronti della Società calcistica Torino). Viene costantemente ritenuto responsabile nei confronti dei soggetti titolari di crediti alimentari verso la persona uccisa l’autore della morte di esso (lesione del credito alimentare). Il far coincidere l’ingiustizia del danno con la violazione di un diritto soggettivo porta ad escludere nella giurisprudenza tradizionale l’ingiustizia del danno nel caso di violazioni di interessi legittimi. Tra il fatto illecito e la produzione del danno occorre sussista un nesso di causalità. La sussistenza in concreto del nesso deve essere valutata caso per caso (dal giudice di merito) tenendo conto dell’ordine naturale delle cose. Il fatto illecito è proprio della persona fisica (come il reato), tuttavia laddove la persona fisica agisce come organo od agente della persona giuridica (dell’Amministrazione pubblica) la responsabilità per il fatto dannoso compiuto da essa e ad essa imputabile si estende alla persona giuridica. In materia di illecito e di responsabilità civile, l’Amministrazione (lo Stato e le altre organizzazioni pubbliche), salve eccezioni e deroghe, è soggetta ai principi ed alle regole del diritto comune. Nell’ordinamento costituzionale opera il principio fondamentale di cui al 28 Cost., che fa responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative i pubblici agenti degli atti compiuti in violazione di diritti. I fatti illeciti sono propri della persona fisica, cui risultano imputabili per avere con la sua azione (sia consistente di atti giuridici che di operazioni), od omissione, per colpa o per dolo, prodotto un danno (ingiusto) a terzi.
Per quanto riguarda l’imputabilità, il fatto o l’atto dell’agente è imputabile all’Amministrazione, sempre che si tratti di fatto od atto imputabile ad agente dell’Amministrazione stessa; non di altra Amministrazione, pur se agente come organo della prima o nell’ambito di una relazione di delegazione od avvalimento; né di organizzazione esterna operante come munus, ad es. nell’ambito di un rapporto di concessione di pubblico servizio. Vengon o esclusi – secondo una giurisprudenza che suscita perplessità – dall’imputabilità dell’Amministrazione i fatti (e gli atti) dell’agente che abbia agito con dolo, ovvero perseguendo un fine personale ed egoistico, sì che la sua attività debba ritenersi estranea alla persona giuridica. Così come viene esclusa l’imputabilità nel caso in cui l’azione del dipendente o del titolare di organo abbia concretizzato una fattispecie delittuosa (che presuppone, ovviamente, il dolo). Parlando della responsabilità diretta, l’Amministrazione risponde del fatto illecito del proprio agente direttamente nei confronti del terzo danneggiato. Ciò significa che questi può rivolgersi direttamente all’Amministrazione per chiedere il risarcimento (chiedere che il giudice condanni l’Amministrazione al risarcimento). E che l’Amministrazione non può esimersi dalla responsabilità dimostrando l’assenza di colpa nella scelta del funzionario (in eligendo) o nella vigilanza sul suo operato (in vigilando). Tale responsabilità dell’Amministrazione si affianca all’analoga responsabilità dell’agente, diretta anch0essa, come espressamente e chiaramente affermato dal 28 Cost. È stato escluso, nella costante interpretazione giurisprudenziale, che la responsabilità diretta dell’agente implicasse una responsabilità solo sussidiaria dell’Amministrazione: ciò avrebbe comportato, per il terzo danneggiato, l’onere della previa escussione dell’agente autore del fatto illecito. Tuttavia, la responsabilità diretta dei pubblici agenti, che il 28 Cost. fa derivare senza eccezioni dagli atti compiuti in violazione di diritti, è limitata dal t.u. imp. civ. ai casi di dolo o colpa grave. Tale limitazione di responsabilità non si estende però, secondo pacifica giurisprudenza, all’Amministrazione, che risponde per l’illecito del proprio dipendente, anche se imputabile a colpa non grave di questi. Circa i fatti illeciti di organi collegiali, il t.u. imp. civ. stabilisce la responsabilità solidale del presidente e dei membri del collegio “che hanno partecipato all’atto od all’operazione” concretizzante l’illecito. È esclusa la responsabilità di coloro che pur partecipando alla seduta abbiano fatto constatare nel verbale il proprio dissenso. Il risarcimento da parte dell’Amministrazione del danno prodotto dall’illecito dell’agente in virtù dei principi appena riferiti dà luogo successivamente ad azione di rivalsa nei confronti dell’agente colpevole, azione affidata all’iniziativa della Procura generale della Corte dei conti ed alla cognizione giurisdizionale della medesima Corte (t.u. imp. civ.). A partire dalla sentenza Cass. 500/1999, la giurisprudenza ritiene che l’imputazione della responsabilità non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza od imperizia), ma della Pubblica Amministrazione intesa come apparato che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole dell’imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice può valutare, i quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.
Se una violazione, afferma il Consiglio di Stato, è l’effetto di un errore scusabile dell’autorità, non si potrà configurare il requisito della colpa. La giurisprudenza parla in proposito di colpa dell’apparato. Il secondo problema che si pone riguarda l’individuazione del danno ingiusto, laddove il fatto dannoso è costituito da un provvedimento amministrativo nei confronti di un soggetto terzo portatore di interessi legittimi. A fronte dell’esercizio del potere amministrativo, nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico, i soggetti terzi, parti necessarie od eventuali del rapporto, sono sempre titolari di interessi legittimi, anche se la loro situazione originaria sia quella di diritto soggettivo. Caso tipico è quello del proprietario di un bene nell’ambito del procedimento di espropriazione. Il danno ingiusto di cui al 2043 non necessariamente significa danno prodotto nell’ambito di una situazione soggettiva ascrivibile al genus dei diritti, ma è sufficiente che esso incida su un interesse giuridicamente rilevante. La lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex 2043 c.c., poiché occorre anche che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della Pubblica Amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo. È ammesso il risarcimento anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, che nei confronti della Pubblica Amministrazione si può tradurre nell’ordine del giudice all’Amministrazione soccombente di costituire, laddove possibile, in capo al ricorrente la situazione di vantaggio cui aspirava e che gli era stata negata illegittimamente ovvero di ripristinare la situazione illegittimamente lesa. La terza questione riguarda le modalità di esercizio dell’azione risarcitoria nei confronti della Pubblica Amministrazione, agente nell’esercizio di poteri amministrativi. La giurisdizione, nel nostro ordinamento risalente alla legge fondamentale del 1865, era attribuita al giudice ordinario per ogni tipo di azione risarcitoria, anche se la fattispecie dannosa fosse prodotta da provvedimenti amministrativi (comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'Autorità amministrativa). La l. 205/2000 ha modificato quest’impostazione, riconoscendo la competenza generale del giudice amministrativo anche per le azioni risarcitorie in ogni caso in cui abbia la competenza a conoscere del provvedimento lesivo. In secondo luogo, la legislazione recente ha superato la tradizionale impostazione della nostra giurisprudenza che riteneva improponibile l’azione risarcitoria nel caso in cui il danno lamentato fosse stato prodotto da un atto amministrativo od in conseguenza di esso, se non fosse stata preventivamente annullato il procedimento dal giudice competente. L’azione risarcitoria per danni derivanti da attività amministrativa provvedimentali deve essere proposta al giudice amministrativo. Circa il rapporto tra l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo e l’esercizio dell’azione risarcitoria – se il primo costituisce presupposto ineliminabile per l’esercizio dell’azione davanti allo stesso giudice – la questione resta aperta in giurisprudenza. La presunzione di colpa di cui al 2050 per danni derivanti dall’esercizio di attività pericolosa opera anche nei confronti della Pubblica Amministrazione. Ad es. viene considerato svolgimento di attività pericolose ai fini del 2050 la gestione di linee elettriche ad alta tensione da parte dell’ENEL. Numerose le fattispecie in materia di responsabilità per danni cagionati da cose in custodia.
Ad es. il Comune viene ritenuto responsabile dei danni subiti dal passante caduto in un pozzetto fognante privo di copertura (Cass. 2319/1985). Un’importante applicazione dei principi in tema di responsabilità civile dell’Amministrazione è nell’istituto della c.d. occupazione acquisitiva: essendosi realizzata un’opera pubblica su un fondo privato non espropriato ma occupato abusivamente, oppure occupato all’origine iure essendo poi scaduto il termine dell’occupazione, l’opera pubblica realizzata non consente la restituzione del fondo al legittimo proprietario. La perdita del bene in capo al proprietario e le connesse conseguenze dannose devono essere risarcite dall’Amministrazione sulla base dei principi in materia di responsabilità civile. Non è del tutto chiara in giurisprudenza la natura dell’azione; il problema pratico è dato dal termine di prescrizione, se quinquennale (come nelle azioni risarcitorie) o decennale. L’orientamento prevalente è nel senso che si tratti di un’obbligazione risarcitoria costituita dal fatto illecito dell’avvenuta occupazione da parte dell’Amministrazione del bene privato. Altri fatti costitutivi e problematica generale delle obbligazioni “pubbliche”. Il codice enumera quali fonti delle obbligazioni il contratto, il fatto illecito, ed ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico (1173). Tra questi sicuramente deve essere annoverato il provvedimento amministrativo, nonché l’accordo (o contratto di diritto pubblico), cioè l’atto conclusivo del procedimento amministrativo nel quale si concretizza l’esercizio del potere. Tra le fonti delle obbligazioni, s’è detto del provvedimento e degli altri atti conclusivi di procedimento; dei contratti sottoposti alla normazione generale di contabilità; dei fatti illeciti. Resta da dire di altre fattispecie produttive di obbligazioni in capo all’Amministrazione. Vi sono molte figure contrattuali svincolate dalla normazione di contabilità e viceversa regolate dalla disciplina di diritto comune, ovvero (ed in deroga alla prima) da normative singolari. Si segnalano qui brevemente alcune categorie di contratti pubblici speciali. I contratti di prestito pubblico sono variegati in molte forme, ma unificate sul versante della tutela nella norma sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. I prestiti son rappresentati da titoli nominativi od al portatore che vengono emessi dall’Amministrazione del Tesoro sulla base di autorizzazioni di legge. Alcuni tipi di prestiti sono iscritti in un registro (il Gran Libro del Debito Pubblico) tenuto dalla Direzione generale del Debito Pubblico presso il Ministero del Tesoro; ma i prestiti oggi più in uso, rappresentati da BOT (buoni ordinari del Tesoro) e CCT (certificati di credito del Tesoro) emessi a cura della Direzione generale del Tesoro, non sono iscritti in questo registro. Le controversie tra lo Stato ed i suoi creditori concernenti l’interpretazione dei contratti di prestito pubblico (che sono ascrivibili ai contratti per adesione: artt. 1332; 1341; 1342) e delle leggi relative sono affidate alla giurisdizione amministrativa esclusiva. I contratti di scommessa, stipulati nell’ambito del c.d. giuoco del lotto, sono produttivi di effetti obbligatori (in deroga al principio di cui al 1933 c.c.) secondo la disciplina speciale del gioco stesso. I contratti di servizio pubblico sono contratti conclusi tra un’Amministrazione pubblica ed un’impresa privata allo scopo di fornire agli utenti determinati servizi pubblici e costituiscono la fonte degli obblighi di servizio pubblico. Resta incerta la disciplina applicabile a questi contratti, sul versante civilistico. I contratti di utenza pubblica, così denominati da autorevole dottrina civilistica (Alpa) generalmente seguita, sono quelli stipulati dalle Amministrazioni pubbliche con i singoli utenti aventi ad oggetto l’erogazione di cose o la prestazione di servizi che sono da intendersi essenziali per la vita umana.
Si pensi ai servizi di trasporto, al servizio telefonico, a quello di erogazione dell’energia elettrica, etc. Per questi tipi di contratti già il codice prevede alcune norme di specie, tendenti ad assicurare la parità di trattamento degli utenti ed il loro diritto di accedere alle prestazioni. E così il 2597 stabilisce l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa da parte dell’imprenditore monopolista. La norma si applica anche agli enti pubblici. Ed in materia di servizi di trasporto, il 1679 stabilisce l’obbligo per i concessionari di servizi di linea di accettare le richieste di trasporto che siano compatibili con i mezzi ordinari dell’impresa, secondo le condizioni generali stabilite o autorizzate nell’atto di concessione e rese note al pubblico. In caso di pluralità incompatibile di richieste simultanee, viene preferita quella di percorso maggiore. La giurisdizione sui rapporti di utenza pubblica, nel loro complesso, può adesso essere attratta in quella esclusiva del giudice amministrativo. Una norma di carattere generale fa divieto alle aziende erogatrici di servizi pubblici di somministrare le relative forniture in favore di edifici abusivi. Tra gli altri atti o fatti fonti delle obbligazioni, interessano i rapporti con l’Amministrazione le tradizionali figure della gestione d’affari (2028 ss.), del pagamento dell’indebito (2033 ss.), dell’arricchimento senza causa (2041 ss.); già denominate nella dottrina più antica “quasi contratti”. La gestione d’affari indica il fatto della gestione di affari altrui iniziata scientemente (e cioè nella convinzione che si tratti di affari non propri) ed utilmente (con riferimento alla sfera patrimoniale dell’interessato) da qualcuno senza esservi obbligato. Detto fatto produce in capo all’interessato stesso l’obbligo di adempiere le obbligazioni assunte dal gestore nel suo interesse e rimborsargli le spese necessarie od utili alla gestione oltre ad accessori ed interessi (2028; 2031). Questo avviene nell’ambito delle situazioni facenti capo all’Amministrazione come soggetto di diritto comune (quelle d’ordine patrimoniale) e non con riferimento alle attività d’esercizio di poteri, in ordine alle quali opera in materia la figura del c.d. funzionario di fatto. La giurisprudenza ammette questa figura con la significativa limitazione che l’Amministrazione abbia approvato (esplicitamente con apposito atto di riconoscimento o mediante il fatto dell’utilizzazione) l’operato del gestore. Non viene ritenuta necessaria l’approvazione nel caso in cui la prestazione sia consistita nel pagamento di una spesa obbligatoria per l’Amministrazione. Il 2041 contempla l’azione generale di arricchimento: chi si è arricchito senza causa a danno di un’altra persona (indebito arricchimento) è tenuto ad indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale ovvero a restituire la cosa oggetto dell’arricchimento, se ancora sussistente. L’obbligazione è limitata nel quantum all’entità dell’arricchimento effettivamente prodottosi in capo al beneficiato. È pacifico che essa possa essere esercitata nei confronti dell’Amministrazione. La giurisprudenza ritiene però necessario, perché l’azione possa essere esperita, così come a fronte della gestione d’affari, che l’Amministrazione riconosca, con esplicito atto ovvero implicitamente attraverso la concreta utilizzazione dell’opera, della fornitura, etc., prestata dal terzo, l’utilità della stessa. La quantificazione monetaria può essere effettuata dal giudice.
In materia di prestazioni professionali “di fatto”, la giurisprudenza afferma che, una volta riconosciutane l’utilità, la prestazione deve essere remunerata secondo la relativa tariffa professionale, e cioè in modo pieno senza le limitazioni poste dal 2041 a proposito dell’arricchimento senza causa. A proposito della ripetizione dell’indebito, secondo il principio del 2033 (indebito c.d. oggettivo) chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato, con l’aggiunta dei frutti e degli interessi (dal giorno del pagamento o dal giorno della domanda, a seconda che l’accipiens sia in malafede od in buona fede). Nel diritto tributario l’istituto è chiamato ad operare con frequenza (imposte e tasse indebitamente percette). Si riconosce il diritto alla ripetizione da parte dei contribuenti di tasse ed imposte indebitamente percette dall’erario, tuttavia mediante assegnazione ai creditori, di titoli di Stato. Perché l’impegno possa essere assunto e l’obbligazione di pagamento dell’amministrazione avere il suo corso occorre un atto di riconoscimento del debito come quello capace di perfezionare l’obbligazione stessa. Sul versante statale, la giurisprudenza ritiene che l’atto debba essere imputato alla competenza del ministro e non dei dirigenti; e ritiene necessaria l’acquisizione del parere del Consiglio di Stato come per i contratti di corrispondente importo. Sul versante degli enti locali, la legislazione più recente limita la capacità degli enti ad adottare atti di riconoscimento di debiti e imputa alla responsabilità dei singoli amministratori i debiti formatisi al di là di tale capacità di riconoscimento. È da respingere l’idea di una categoria positiva di obbligazioni pubbliche, differenziate dalle obbligazioni di diritto comune e sottoposte a disciplina loro propria. Questa nozione indica solo il fatto, del tutto descrittivo, dell’imputazione dell’obbligazione ad un soggetto pubblico. Gli istituti derogatori che si applicano alle obbligazioni facenti capo all’Amministrazione prescindono dal tipo di fonte produttiva dell’obbligazione stessa (e perciò si applicano tanto alle obbligazioni nascenti da contratto quanto a quelle nascenti da provvedimento). Spesso la dizione “obbligazioni pubbliche” viene usata per indicare il rapporto con l’Amministrazione nell’esercizio di potere concessorio, con oggetto l’erogazione di sovvenzioni, contributi, benefici, etc. In esito a detti procedimenti, una volta conclusi e perfezionati, può sorgere un’obbligazione in capo all’Amministrazione stessa, ma essa si forma nell’ambito di un rapporto di diritto pubblico, articolato in un procedimento amministrativo. Le c.d. obbligazioni pubbliche (ove per esse si intendano le pretese di soggetti ad ottenere contributi o sovvenzioni della Pubblica Amministrazione) non hanno la natura di obbligazioni: l’Amministrazione, fino a quando non emana il provvedimento che la costituisce debitrice, non è titolare di un debito, correlativo ad un credito azionabile in sede giudiziaria, ma è titolare di un potere, in quanto tale incidente su un interesse legittimo (Cons. St., IV, 727/1993). I principi generali della disciplina delle obbligazioni posta dal codice, a cominciare da quello fondamentale di cui al 1175, che impone al debitore ed al creditore di comportarsi secondo le regole della correttezza, sono tutti applicabili nell’ambito dei rapporti obbligatori con l’Amministrazione, salve alcune deroghe poste dalla normazione positiva ovvero introdotte nell’interpretazione giurisprudenziale. Il principio fondamentale che garantisce la soddisfazione dell’interesse del creditore è quello della responsabilità patrimoniale: il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti o futuri, salve limitazioni di legge (2740).
Se i creditori sono più, hanno eguale diritto di soddisfarsi sui beni del debitore (principio della par condicio), salve le c.d. cause legittime di prelazione, e cioè i privilegi, il pegno e le ipoteche (2741). Sono previsti strumenti intesi a garantire preventivamente il creditore che il patrimonio del debitore resti integro. Si tratta dell’azione surrogatoria (2900: esercizio da parte del creditore per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni di diritti ed azioni spettanti al debitore verso terzi da lui trascurate, con determinate limitazioni); dell’azione revocatoria (2901: il creditore può ottenere, in determinate condizioni, che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti atti di disposizione del patrimonio del debitore pregiudizievoli delle sue ragioni); del sequestro conservativo (2905 ss.) dei beni del debitore secondo le regole del codice di procedura civile (671 ss.). Strumenti di garanzia patrimoniale, particolari e privilegiati, sono previsti dal codice per alcuni tipi di crediti (c.d. privilegi: 2745 ss.) nonché con riferimento a determinati beni del debitore, che a certe condizioni possono divenire oggetto di un particolare diritto (a carattere reale: c.d. diritti reali di garanzia) spettante al creditore destinandoli al soddisfacimento privilegiato (rispetto agli altri creditori) delle loro ragioni (pegno: 2782 ss.; ipoteche: 2808 ss.). Tutti gli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale previsti dalla normazione civilistica sono utilizzabili nei confronti dell’Amministrazione. Ma in materia opera una limitazione assai rilevante: che la gran parte dei beni pubblici sono incommerciabili, e perciò non possono essere oggetto di ipoteca, né di pegno, né di sequestro conservativo. L’ordinamento positivo conosce alcuni strumenti procedurali, accomunati nell’istituto dell’esecuzione forzata, la cui attivazione presuppone che il credito sia certo, liquido ed esigibile, e la cui entità ed il cui ammontare risulti da un atto ascrivibile per legge ai “titoli esecutivi” (474 c.p.c.: le sentenze, i provvedimenti amministrativi, i titoli di credito, etc.). Se il credito non risulta da un titolo esecutivo, occorre la previa costituzione del titolo per poter attivare gli strumenti procedurali dell’esecuzione forzata. Strumento di carattere generale è quello dell’espropriazione forzata dei beni del debitore, che vengono destinati alla vendita a terzi il cui ricavato viene distribuito ai creditori secondi principi tali da assicurare la par condicio tra di essi (2741). Lo strumento dell’espropriazione – che si articola in una serie complessa di adempimenti procedurali: precetto, pignoramento, vendita, assegnazione – traduce il bene agognato dal creditore ed oggetto dell’obbligazione in una somma di danaro (quella che viene ricevuta dalla vendita dei beni del debitore). E perciò è pienamente satisfattivo solo delle obbligazioni pecuniarie, quelle che hanno ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; mentre delle altre è satisfattivo “per equivalente”, cioè traducendo in una misura monetaria l’oggetto ed il valore della prestazione non adempita dal debitore. L’esecuzione in forma specifica è prevista a fronte dell’inadempimento dell’obbligo (di dare) di consegnare una cosa determinata mobile od immobile, c.d. esecuzione per consegna o rilascio (2930 c.c.; 605 ss. c.p.c.);a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di fare sempre che sia fungibile (2931 c.c.; 612 ss. c.p.c.); ovvero dell’obbligo di non fare, ottenendo la distruzione delle cose realizzate in violazione dell’obbligo (2933 c.c.; 612 ss. c.p.c.). Un particolare obbligo di fare per il quale è previsto espressamente uno strumento di esecuzione in forma specifica (2932) è quello di concludere un contratto (1351); che avviene con sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso.
È prevista anche, laddove è possibile (in tutto od in parte), la reintegrazione in forma specifica del danno aquiliano (2058),con la limitazione che laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, ancorché possibile, il giudice possa disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente. L’Amministrazione non risponde con tutti i suoi beni, come il codice vorrebbe, perché gran parte dei beni (soggettivamente) pubblici, appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici, sono, in virtù di norme di legge che riservano certe categorie di beni ad appartenenza pubblica, ovvero in virtù di atti o fatti di destinazione (del singolo bene ad una funzione o servizio pubblico), pubblici anche oggettivamente e quindi sottoposti ad una disciplina (c.d. in commerciabilità) fortemente derogatoria rispetto al diritto comune. Di detta disciplina costituisce espressione importantissima la c.d. impignorabilità dei beni stessi, cioè la loro sottrazione alle procedure di esecuzione forzata. Le stesse somme di danaro giacenti nelle casse dell’ente, nonché i crediti monetari dello stesso, sono pignorabili solo se non siano stati oggetto di particolare destinazione da parte dell’ente, non essendo peraltro sufficiente la mera iscrizione in bilancio delle spese relative. Limitazioni alla responsabilità patrimoniale di regioni ed enti locali sono previste da normazioni di settore che escludono dall’esecuzione forzata le somme destinate al pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi, e di altre spese indispensabili a condizione che il relativo organo di giunta quantifichi preventivamente gli importi di dette somme. Diversa si presenta la problematica dell’esecuzione c.d. in forma specifica nei confronti dell’Amministrazione, a fronte dell’inadempimento di obblighi di dare, di fare o di non fare. In questa materia ha dominato a lungo una posizione giurisprudenziale assolutamente negatrice. Questa posizione giurisprudenziale è in via di superamento. Un obbligo di cui è prevista l’esecuzione con norma singolare è quello di concludere un contratto (2932). Laddove l’obbligazione dell’Amministrazione deriva da sentenza di condanna (passata in giudicato), gli strumenti procedurali del processo esecutivo ordinario possono essere sostituiti da uno strumento procedurale previsto nell’ambito del processo amministrativo: il c.d. giudizio di ottemperanza. Nell’ambito del giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo è dotato dei penetranti poteri di giudice di merito, e perciò può disporre direttamente od attraverso commissario ad acta tutti gli atti necessari perché il debito dell’Amministrazione possa essere in concreto adempiuto; anche e segnatamente gli atti del procedimento di spesa previsti dalla normazione c.d. di contabilità pubblica mediante i quali il pagamento può essere effettuato e che l’Amministrazione non abbia posto in essere. Questo strumento procedurale viene ammesso senza riserve dalla giurisprudenza amministrativa come alternativo al processo esecutivo ordinario, anche a fronte di sentenze di mera condanna dell’Amministrazione al pagamento di some di denaro ed anche a fronte di decreti ingiuntivi. Le obbligazioni pecuniarie. Le obbligazioni pecuniarie sono quelle che hanno ad oggetto una somma di danaro (1277 ss.). La materia delle obbligazioni pecuniarie dello Stato e degli enti pubblici è retta da una disciplina di specie, parzialmente derogatoria rispetto al diritto comune delle obbligazioni. L’obbligazione sorge in capo all’Amministrazione contestualmente al sorgere in capo al terzo creditore del diritto con oggetto di pagamento nei modi e con i tempi stabiliti dal titolo della somma di danaro.
Il pagamento di somme di denaro da parte delle Amministrazioni pubbliche è attività amministrativa soggetta ad una disciplina propria di diritto pubblico (ascritta al c.d. diritto della contabilità pubblica). Questa disciplina trova la sua ratio nel fondamentale principio del bilancio preventivo, operante nell’ambito di tutte le Amministrazioni pubbliche. Secondo questo principio tutte le spese delle Amministrazioni stesse, a qualsiasi fonte siano ascrivibili, devono trovare copertura in una previsione di bilancio. Quest’ultimo è diviso in unità previsionali di base (u.p.b.) a loro volta distinte in capitoli, ciascuno con un certo oggetto; e ciascuna spesa, nell’ambito dell’esercizio finanziario, vertente su quell’oggetto, deve trovare “capienza”. Qualsiasi atto o fatto produttivo in capo all’Amministrazione di un obbligo di pagare somme di danaro, una volta divenuto efficace, dà luogo ad un procedimento che denominiamo procedimento di spesa; è il presupposto dell’apertura (necessitata) di detto procedimento, inteso all’adempimento dell’obbligo, secondo la disciplina di “contabilità pubblica”. Il procedimento di spesa è ad iniziativa d’ufficio obbligatoria: una volta perfezionatosi l’atto di spesa fonte dell’obbligazione, l’Amministrazione è tenuta ad aprire il procedimento contabile. Tutti gli atti dai quali derivi l’obbligo di pagare somme a carico del bilancio dello Stato devono essere comunicati, contestualmente alla loro adozione, dagli uffici amministrativi al rispettivo Ufficio centrale del bilancio per la registrazione dell’impegno. L’atto che costituisce la fonte dell’obbligo od il titolo giuridico della spesa deve essersi perfezionato in quanto atto giuridico, secondo la disciplina sua propria. Ad es. il contratto una volta stipulato deve essere approvato dall’autorità competente, laddove previsto. Questo significa obbligazioni giuridicamente perfezionate. Ma è nella fase integrativa dell’efficacia (controlli di ragioneria) che attraverso la registrazione si produce l’impegno della relativa spesa. L’atto di spesa, a qualunque specie appartenga, deve essere comunicato alla Ragioneria centrale per la registrazione dell’impegno. Per regola la registrazione dell’impegno avviene contestualmente all’apposizione sull’atto del visto di ragioneria, che esprime l’esito positivo del controllo. È prevista nel nuovo ordinamento una forma di registrazione semplificata ed accelerata, per gli atti dai quali deriva impegno e non anche ordinazione del pagamento. L’impegno di spesa è anzitutto un effetto dell’atto produttivo della spesa, che si concretizza una volta registrato l’atto dalla Ragioneria. Tale effetto consiste in ciò, che la relativa somma di danaro, nell’ambito del capitolo di bilancio cui si riferisce, è definitivamente vincolata a quella specifica destinazione. Ciò comporta che da quel momento quella determinata somma di danaro nell’ambito del capitolo non può venire usata per altre destinazioni (è appunto impegnata), e la disponibilità del capitolo di bilancio è corrispondentemente ridotta. L’impegno si distingue dalla semplice previsione di spesa ed ha come caratteristica la determinatezza, identificandosi nell’individuazione dell’ammontare di spesa in relazione ad una precisa quantità di beni o servizi che si intendano acquisire. Impropriamente si parla in dottrina ed in giurisprudenza di atti di impegno, come se fossero un’entità diversa dagli atti amministrativi sostanziali che dispongono la spesa. In realtà il c.d. atto di impegno si identifica in genere con gli atti del tipo più vario dai quali deriva la spesa. In genere il c.d. impegno identifica un effetto e non un atto.
Tuttavia occorre distinguere, perché si rinvengono atti a contenuto esclusivamente “contabile”: atti di impegno in senso proprio, laddove l’obbligo di pagare determinate somme a carico del bilancio dell’ente (e segnatamente, dello Stato) è posto direttamente dalla legge e diviene operativo al momento in cui si verifichino certe condizioni. Se nel capitolo di riferimento non v’è capienza, l’impegno non può essere assunto, perciò la spesa non può essere effettuata, salve variazioni compensative tra capitoli nell’ambito della stessa u.p.b., disposte con decreto del ministero competente su proposta del dirigente generale responsabile. Se l’impegno è stato assunto iniure (illegittimità dell’impegno “per insufficienza di fondi”: insufficiente capienza del capitolo di bilancio) ciò si riverbera sull’atto che ha disposto la spesa rendendolo illegittimo e perciò rimuovibile nei modi consueti. In mancanza di tale rimozione, nota la giurisprudenza, l’Amministrazione è comunque tenuta ad adempiere. All’impegno succedono due fasi. La prima è intesa all’acclaramento che il diritto del creditore relativamente ad una certa somma si è maturato: c.d. liquidazione. La seconda fase è intesa all’ordinazione del pagamento dovuto (già liquidato), disponendo l’emissione dei titoli di pagamento attraverso gli uffici di tesoreria. Le due tradizionali distinte fasi della liquidazione e dell’ordinazione della spesa vengono ora per regola compattate nella sola fase dell’ordinazione del pagamento. Il c.d. fermo amministrativo dei pagamenti dello Stato consente ad ogni Amministrazione statale (non anche ad altre organizzazioni pubbliche: Cons. St., VI, 163/1976) che abbia ragioni di credito verso soggetti i quali si trovino ad essere a loro volta creditori di altra Amministrazione (statale) di chiedere che quest’ultima sospenda il pagamento dovuto in favore del terzo. L’Amministrazione alla quale viene chiesto il fermo è tenuta ad eseguirlo (cioè a non pagare). Tutto il procedimento di spesa (impegno, liquidazione, pagamento) dà luogo in principio ad attività dovuta, di adempimento dell’obbligo quale già perfezionatosi col provvedimento o col contratto, ovvero quale imposto dalla legge. Nella conduzione di tale attività, secondo i principi generali del codice, l’Amministrazione è tenuta ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, comportandosi cioè secondo la massima correttezza e buona fede. L’Amministrazione è allo stesso tempo tenuta, nell’adempimento delle sue obbligazioni pecuniarie, al rispetto dei principi del codice (che sono intesi alla soddisfazione dell’interesse del creditore) ed al rispetto delle regole della contabilità pubblica (che sono intese alla salvaguardia della pubblica finanza). L’esigenza del contemperamento tra questi due ordini di regole comporta che l’Amministrazione nell’adempimento delle sue obbligazioni pecuniarie debba usare la migliore diligenza nella conduzione del procedimento contabile. Sul punto, la problematica appare distinta, a seconda si tratti di obbligazioni nascenti da provvedimento o da contratto, insomma da atto volontario dell’Amministrazione, ovvero dalla legge; ovvero di obbligazioni nascenti da fatti illeciti o da atti giuridici (come la sentenza di condanna) che dall’esterno producono l’obbligazione a carico dell’Amministrazione. Nel primo caso infatti è l’atto stesso che dispone la spesa quello da cui deriva l’impegno della relativa somma sul bilancio; e se l’impegno non può essere assunto perché non v’è capienza nel relativo capitolo, nulla quaestio, l’atto non viene registrato e perciò non diviene efficace, l’obbligazione non si perfeziona.
Mentre una volta assunto l’impegno l’obbligazione si perfeziona e l’adempimento diventa attività dovuta. Diversi sono gli altri casi, che in essi si può sempre verificare che a fronte dell’obbligazione che all’Amministrazione viene imposta non corrisponda un’adeguata previsione di bilancio; e perciò all’attività di adempimento non possa darsi corso (sarebbe illecita) se non previa variazione del bilancio (sempre che ciò sia possibile in punto di fatto, vi siano cioè le risorse) tale da costituire capienza per l’adempimento di quell’obbligazione. Laddove la fonte dell’obbligazione (o l’atto dal quale derivi l’obbligo di pagare somme a carico del bilancio) sia lo stesso atto amministrativo (o contratto) assunto dall’Amministrazione, divenuto efficace con la registrazione dell’impegno, la successiva attività di adempimento è attività dovuta a tutti gli effetti, con ciò che ne segue in termini civilistici. Se viceversa l’obbligazione sorge indipendentemente dall’impegno della relativa spesa e si perfeziona a prescindere dalla registrazione dello stesso, l’attività di adempimento nella sua prima fase (quella intesa all’assunzione dell’impegno) presenta caratteri peculiari. Infatti detta attività può essere ascritta alla specie delle attività dovute solo nel caso in cui all’obbligazione insorta corrisponda un capitolo di bilancio capiente. Sul piano civilistico il credito sino a che non è stato registrato l’impegno della relativa somma non può essere considerato esigibile (ai sensi del 1282) e perciò per il ritardo nel pagamento non sono dovuti interessi corrispettivi. Una disciplina particolarmente rigorosa è prevista in ordine all’assunzione di impegni ed all’ordinazione dei pagamenti di spese per servizi non espressamente previsti per legge da parte di enti locali che presentino disavanzi di amministrazione od altre situazioni finanziarie anomale. La stessa normativa colpisce a sua volta in maniera molto rigorosa l’effettuazione di spese non “coperte” da precedente deliberazione autorizzativa: in tali casi il rapporto obbligatorio instaurato in mancanza della deliberazione autorizzativa intercorre direttamente ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l’amministratore od il funzionario che abbiano consentito la fornitura. L’operatività della regola, le rispetto dei principi di buona fede, rende necessario che il terzo contraente venga previamente reso edotto dell’operatività della stessa, e perciò dell’esigenza di premunirsi della deliberazione autorizzativa della spesa che l’amministrazione va ad impegnare nel rapporto obbligatorio (anche con riferimento al 1338). In conclusione, a fronte dell’obbligo divenuto efficace contestualmente alla registrazione dell’impegno, l’Amministrazione è semplicemente tenuta ad adempiere, secondo le regole civilistiche, una volta che il credito diviene via via liquido ed esigibile. A fronte dell’obbligo che si perfeziona a prescindere dall’impegno, l’Amministrazione è anzitutto tenuta ad assumere l’impegno stesso ed in quest’attività dovrà agire con la massima diligenza; e solo una volta assunto l’impegno essa sarà tenuta ad adempiere secondo le regole civilistiche (attività dovuta). Quanto al principio generale della diligenza nell’adempimento e del comportamento secondo le regole della correttezza (1175; 1176), è pacifico che esso si applichi anche all’Amministrazione nell’adempimento delle sue obbligazioni. Quanto al principio dell’esattezza dell’adempimento (la prestazione non può essere diversa da quella dovuta anche se di valore maggiore), ed al principio secondo il quale l’adempimento non può esser parziale (il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile, salve norme contrarie: 1181), è convinzione consolidata che i pagamenti dell’Amministrazione non possano essere rifiutati dal creditore anche se non integrali.
Quanto al luogo dell’adempimento (il domicilio del creditore al tempo della scadenza dell’obbligazione avente ad oggetto una somma di danaro: 1182.3), secondo parte della giurisprudenza e della dottrina sarebbe sempre quello della sede dell’Amministrazione debitrice, o per meglio dire dei suoi uffici di tesoreria, mentre secondo altra parte e della giurisprudenza e della dottrina, non sussisterebbe un principio per cui i pagamenti degli enti pubblici si debbano eseguire presso gli organi degli stessi appositamente preposti ai pagamenti. Quanto al tempo dell’adempimento, la disciplina di cui al 1183 è in principio applicabile all’Amministrazione. Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente. Se è necessario un termine, in caso di mancato accordo tra le parti, il creditore ha facoltà di rivolgersi al giudice per la fissazione del termine per l’adempimento. Il tempo dell’adempimento (che coincide col pagamento nelle obbligazioni pecuniarie) è per regola quello stabilito dalle fonti primarie e secondarie che concernono i singoli rapporti obbligatori. Perché l’adempimento possa e debba essere effettuato il credito deve essere liquido ed esigibile (1282). Qualsiasi ritardo nell’adempimento, a partire da questo momento, dà luogo secondo i principi civilistici al diritto in capo al creditore di ottenere interessi nella misura legale. Diverso problema è quello della mora, cioè del ritardo colpevole dell’Amministrazione nell’adempimento delle proprie obbligazioni pecuniarie, che produce in capo al debitore (all’Amministrazione) l’obbligo non solo di corrispondere interessi (c.d. moratori) nella misura legale, salve diverse misure ove stabilite (1224), ma anche il risarcimento del maggior danno eventualmente subito dal creditore (1224.2). Di tale eventuale maggior danno è importante manifestazione il danno derivante da svalutazione monetaria, che la più recente giurisprudenza tende a generalizzare ritenendo sufficiente da parte del creditore la semplice dimostrazione che un pagamento tempestivo lo avrebbe posto al riparo dagli effetti depauperatori dell’inflazione. La mora non è una conseguenza automatica del fatto che il credito sia divenuto liquido ed esigibile, ma presuppone che il creditore abbia posto in essere il procedimento tipico della costituzione in mora (1219). In certi casi previsti dalla stessa norma da questo procedimento si prescinde: si tratta segnatamente, per quanto interessa in questa sede, dell’obbligazione risarcitoria derivante da fatto illecito (1219.2 n.1). In caso di costituzione in mora è il debitore (e quindi nel nostro caso l’Amministrazione) che deve dimostrare l’impossibilità della prestazione e perciò la non imputabilità del ritardo al fine di esimersi dall’obbligazione circa il pagamento degli interessi. Liquidità ed esigibilità del credito prescindono del tutto dall’esaurimento delle procedure contabili. Sul punto deve essere sottolineato quanto sopra affermato circa la distinzione tra obbligazioni insorte contestualmente all’impegno della relativa spesa ed obbligazioni insorte a prescindere dall’impegno stesso: nel secondo ordine di casi finché non è stato assunto l’impegno il credito non può configurarsi siccome esigibile in termini civilistici e perciò dar luogo ad interessi corrispettivi. Una parte della giurisprudenza distingue sul punto tra interessi corrispettivi ed interessi moratori, ritenendo che l’esaurimento delle procedure contabili condizioni comunque la decorrenza degli interessi corrispettivi; mentre resterebbe fermo l’obbligo circa la corresponsione degli interessi
moratori (da attivare comunque con la costituzione in mora) laddove nella conduzione del procedimento contabile (di spesa)l’Amministrazione avesse dato luogo a ritardi colpevoli. Ma questo indirizzo non può essere condiviso: il credito una volta venuto a scadenza, secondo la disciplina sua propria, deve essere onorato (col pagamento); sempre che sussista il relativo impegno della spesa. E l’espletamento delle procedure contabili deve avvenire immediatamente, nei tempi strettamente necessari; il fatto che il credito sia liquido rende infatti gli acclaramenti dei quali constano le procedure contabili del tutto meccanici e perciò di immediata eseguibilità. Non vi è alcuna norma che autorizzi una deroga al principio predetto. Il ritardo nel pagamento di obbligazioni pecuniarie venute a scadenza comporta il pagamento degli interessi. Regole particolari sui ritardati pagamenti dell’Amministrazione son stabilite per determinate categorie di rapporti contrattuali.