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Umberto Eco A passo di gambero Guerre calde e populismo mediatico
I PASSI DEL GAMBERO Questo libro raccoglie una serie di articoli e interventi scritti tra il 2000 e il 2005. Il periodo è fatidico, si apre con le ansie per il nuovo millennio, esordisce con l'undici settembre, seguito dalle due guerre in Afghanistan e in Iraq, e in Italia vede l'ascesa al potere di Silvio Berlusconi. Pertanto, lasciando cadere tanti altri contributi su svariati argomenti, ho voluto raccogliere solo gli scritti che si riferivano agli eventi politici e mediatici di questi sei anni. Il criterio di selezione mi è stato suggerito da uno degli ultimi pezzi della mia precedente raccolta di articoli (La bustina di Minerva), che s'intitolava "Il trionfo della tecnologia leggera". Sotto forma di falsa recensione di un libro attribuito a tale Crabe Backwards, osservavo che negli ultimi tempi si erano verificati degli sviluppi tecnologici che rappresentavano dei veri e propri passi all'indietro. Osservavo che la comunicazione pesante era entrata in crisi verso la fine degli anni settanta. Sino ad allora lo strumento principe della comunicazione era il televisore a colori, una scatola enorme che troneggiava in modo ingombrante, emetteva nel buio bagliori sinistri e suoni capaci di disturbare il vicinato. Un primo passo verso la comunicazione leggera era stato fatto con l'invenzione del telecomando: con esso non solo lo spettatore poteva abbassare o addirittura azzerare l'audio ma anche eliminare i colori e lavorare di zapping. Saltellando tra decine e decine di dibattiti, di fronte a uno schermo in bianco e nero senz'audio, lo spettatore era già entrato in una fase di libertà creativa, detta "fase di Blob". Inoltre la vecchia tv, trasmettendo avvenimenti in diretta, ci rendeva dipendenti dalla linearità stessa dell'evento. La liberazione dalla diretta si è avuta col videoregistratore, con cui non solo si è realizzata l'evoluzione dalla Televisione al Cinematografo, ma lo spettatore è stato in grado di mandare le cassette all'indietro, sfuggendo così del tutto al rapporto passivo e repressivo con la vicenda raccontata. A questo punto si sarebbe potuto persino eliminare completamente l'audio e commentare la successione scoordinata delle immagini con colonne musicali di pianola, sintetizzata al computer; e - visto che le stesse emittenti, col pretesto di venire in aiuto ai non udenti, avevano preso l'abitudine di inserire didascalie scritte a commento dell'azione - si sarebbe pervenuti ben presto a programmi in cui, mentre due si baciano in silenzio, si sarebbe visto un riquadro con la scritta "Ti amo". In tal modo la tecnologia leggera avrebbe inventato il film muto dei Lumière. Ma il passo successivo era stato raggiunto con l'eliminazione del movimento dalle immagini. Con Internet il fruitore poteva ricevere, con risparmio neurale, solo immagini immobili a bassa definizione, sovente monocolori, e senza alcun bisogno del suono, dato che le informazioni apparivano in caratteri alfabetici sullo schermo. Uno stadio ulteriore di questo ritorno trionfale alla Galassia Gutenberg sarebbe stato - dicevo allora l'eliminazione radicale dell'immagine. Si sarebbe inventata una sorta di scatola, pochissimo ingombrante, che emetteva solo suoni, e che non richiedeva neppure il telecomando, dato che si sarebbe potuto eseguire lo zapping direttamente ruotando una manopola. Pensavo di aver inventato la radio e invece stavo vaticinando l'avvento dell'IPod. Rilevavo infine che l'ultimo stadio era già stato raggiunto quando alle trasmissioni via etere, con tutti i disturbi fisici che ne conseguivano, con le pay-tv e con Internet si era dato inizio alla nuova era della trasmissione via filo telefonico, passando dalla telegrafia senza fili alla telefonia con i fili, superando Marconi e tornando a Meucci. Scherzose o meno che fossero, queste osservazioni non erano del tutto azzardate. D'altra parte che si stesse procedendo a ritroso era già parso chiaro dopo la caduta del muro di Berlino, quando la geografia politica dell'Europa e dell'Asia era radicalmente cambiata. Gli editori d'atlanti avevano dovuto mandare al macero tutte le loro scorte (rese obsolete dalla presenza di Unione Sovietica, Iugoslavia, Germania Est e altre mostruosità del genere) e avevano dovuto ispirarsi agli atlanti pubblicati prima del 1914, con la loro Serbia, il loro Montenegro, i loro stati baltici e così via. Ma la storia dei passi all'indietro non si arresta qui, e questo inizio del terzo millennio è stato prodigo di passi del gambero. Tanto per fare qualche esempio, dopo il cinquantennio di Guerra Fredda, abbiamo avuto con l'Afghanistan e l'Iraq il ritorno trionfale della guerra guerreggiata o guerra calda, addirittura riesumando i memorabili attacchi degli "astuti afghani" ottocenteschi al Kyber Pass, una nuova stagione delle Crociate con lo scontro tra Islam e cristianità, 1
compresi gli Assassini suicidi del Veglio della Montagna, tornando ai fasti di Lepanto (e alcuni fortunati libelli degli ultimi anni potrebbero essere riassunti col grido di "mamma li turchi!"). Sono riapparsi i fondamentalismi cristiani che sembravano appartenere alla cronaca del 19esimo secolo, con la ripresa della polemica antidarwiniana, ed è risorto (sia pure in forma demografica ed economica) il fantasma del Pericolo Giallo. Da tempo le nostre famiglie ospitano di nuovo servi di colore, come nel Sud di Via col vento, sono riprese le grandi migrazioni di popoli barbari, come nei primi secoli dopo Cristo, e (come osserva uno dei pezzi qui pubblicati) rivivono almeno nel nostro paese riti e costumi da Basso Impero. E' tornato trionfante l'antisemitismo con i suoi Protocolli, e abbiamo i fascisti (per quanto molto post, ma alcuni sono ancora gli stessi) al governo. D'altra parte, mentre correggo le bozze, un atleta allo stadio ha salutato romanamente la folla plaudente. Esattamente ciò che facevo io quasi settant'anni fa da balilla - salvo che io ero obbligato. Per non dire della Devoluzione, che ci riporta a un'Italia pre-garibaldina. Si è riaperto il contenzioso post-cavouriano tra Chiesa e Stato e, per registrare anche ritorni quasi a giro di posta, sta tornando, in varie forme, la DC. Sembra quasi che la storia, affannata per i balzi fatti nei due millenni precedenti, si riavvoltoli su se stessa, tornando ai fasti confortevoli della Tradizione. Molti altri fenomeni di passo retrogrado emergeranno dagli articoli di questo libro, abbastanza insomma per giustificarne il titolo. Ma indubbiamente qualcosa di nuovo, almeno nel nostro paese, è avvenuto - qualcosa che non era ancora avvenuto prima: l'instaurazione di una forma di governo basata sull'appello populistico via media, perpetrato da un'impresa privata intesa al proprio privato interesse - esperimento certamente nuovo, almeno sulla scena europea, e molto più avveduto e tecnologicamente agguerrito dei populismi del Terzo Mondo. A questo tema sono dedicati molti di questi scritti, nati dalla preoccupazione e dall'indignazione di questo Nuovo che Avanza e che (almeno mentre mando in stampa queste righe) non è ancora detto si possa arrestare. La seconda sezione del libro si intitola al fenomeno del regime di populismo mediatico, e non ho alcuna esitazione a parlare di "regime", almeno nel senso in cui i medievali (che non erano comunisti) parlavano de regimine principum. A questo proposito, e di proposito, apro la seconda sezione con un appello che avevo scritto prima delle elezioni del 2001 e che è stato molto vituperato. Già allora un corsivista di destra, che evidentemente mi vuole però qualche bene, si stupiva addolorato che un uomo "buono" come me potesse trattare con tanto disprezzo una metà dei cittadini italiani che non votavano come lui. E ancora recentemente, e non da destra, è stata rivolta a questo genere d'impegno l'accusa di arroganza - rovinosa attitudine che renderebbe antipatica gran parte della cultura di opposizione. Ho sofferto molte volte nel vedermi accusato di voler riuscire simpatico a tutti i costi, così che lo scoprirmi antipatico mi riempie d'orgoglio e di virtuosa soddisfazione. Ma curiosa è questa accusa, come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario. Se qualcuno si batte per una scelta politica (e nel caso in questione, civile e morale), fatto salvo il diritto-dovere di essere pronti a ricredersi un giorno, in quel momento deve ritenere di essere nel giusto e denunciare energicamente l'errore di coloro che tendono a comportarsi diversamente. Non vedo dibattito elettorale che possa svolgersi all'insegna dell'"avete ragione voi, ma votate per chi ha torto". E nel dibattito elettorale le critiche all'avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l'incerto. Inoltre molte delle critiche giudicate antipatiche sono critiche di costume. E il critico di costume (che sovente nel vizio altrui fustiga anche il proprio, o le proprie tentazioni) deve essere sferzante. Ovvero, e sempre per rifarsi ai grandi esempi, se vuoi essere critico di costume, ti devi comportare come Orazio; se ti comporti come Virgilio, allora scrivi un poema, magari bellissimo in lode del Divo regnante. Ma i tempi sono oscuri, i costumi corrotti, e anche il diritto alla critica viene, quando non soffocato con provvedimenti di censura, indicato al furor popolare. Pubblico pertanto questi scritti all'insegna di quella antipatia positiva che rivendico. Come si vedrà, per ciascun testo rinvio alla fonte, ma molti sono stati in qualche misura rimaneggiati. Non certo per aggiornarli né per inserirvi profezie poi avveratesi, ma per sfrondarli di ripetizioni (difficile in casi simili non tornare ostinatamente sugli stessi temi), per correggere lo stile o per eliminare qualche riferimento troppo legato a fatti d'immediata attualità, ormai dimenticati dal lettore, e pertanto incomprensibili. I - LA GUERRA, LA PACE E ALTRO ALCUNE RIFLESSIONI SULLA GUERRA E SULLA PACE (Conferenza tenuta a Milano per la Comunità di Sant'Egidio nel luglio 2002)
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Ho collaborato a fondare nei primi anni sessanta il comitato italiano per il disarmo atomico e ho partecipato ad alcune marce della pace. Questo premetto, dichiarandomi pacifista per vocazione (certamente ancora oggi). Tuttavia in questo caso devo non solo parlare male della guerra ma anche parlare male della pace. Cercate di seguirmi con indulgenza. Ho scritto una serie di interventi sulla guerra a partire da quella del Golfo, e mi rendo conto ora che a ogni capitolo dovevo modificare le mie idee sul concetto di guerra. Come a dire che il concetto di guerra, che era rimasto più o meno lo stesso (indipendentemente dalle armi che si usavano) dai tempi dei greci sino a ieri, negli ultimi dieci anni ha dovuto essere ripensato almeno tre volte. (Nota: Sono costretto a riprendere alcuni temi già trattati in un saggio apparso nel mio volume Cinque scritti morali (Milano, Bompiani 1997), quando riflettevo sulla prima guerra del Golfo, ma anche le cose già dette allora assumono aspetti nuovi se considerate dal punto di vista dei fatti successivi). Dalla Paleoguerra alla Guerra Fredda Qual è stato nel corso dei secoli il fine di quella guerra che chiameremo Paleoguerra? Si faceva una guerra per sconfiggere l'avversario in modo da trarre un beneficio dalla sua perdita, si cercava di realizzare le nostre intenzioni cogliendolo di sorpresa, si faceva il possibile perché l'avversario non realizzasse le sue intenzioni, si accettava un prezzo da pagare in vite umane per infliggere al nemico, in termini di vite umane, un danno maggiore del nostro. A tali fini si dovevano poter mettere in campo tutte le forze di cui si poteva disporre. Il gioco si giocava tra i due contendenti. La neutralità degli altri, il fatto che dalla guerra altrui non traessero danno ma se mai profitto, era condizione necessaria per la libertà di manovra dei belligeranti. Dimenticavo, c'era un'ultima condizione: sapere chi fosse il nemico e dove stesse. Per questo, di solito, lo scontro era frontale e coinvolgeva due o più territori riconoscibili. Nel nostro secolo la nozione di "guerra mondiale", tale che potesse coinvolgere anche società senza storia come le tribù polinesiane, ha eliminato la differenza tra belligeranti e neutrali. L'energia atomica fa sì che, chiunque siano i contendenti, dalla guerra è danneggiato l'intero pianeta. La conseguenza è stata la transizione dalla Paleoguerra alla Neoguerra attraverso la Guerra Fredda. La Guerra Fredda stabiliva una tensione di pace belligerante o belligeranza pacifica, di equilibrio del terrore, che garantiva una notevole stabilità al centro e permetteva, o rendeva indispensabili, delle forme di Paleoguerra marginali (Vietnam, Medio Oriente, stati africani, ecc.). La Guerra Fredda in fondo garantiva la pace al Primo e Secondo mondo, a prezzo di alcune guerre stazionali o endemiche nel Terzo. La Neoguerra del Golfo Con la caduta dell'impero sovietico cessano le condizioni della Guerra Fredda, ma vengono al pettine i nodi delle guerre mai cessate nel Terzo Mondo. Con l'invasione del Kuwait ci si è resi conto che si doveva in qualche modo rimettere in opera una sorta di guerra tradizionale (se vi ricordate, il richiamo era proprio alle origini della Seconda guerra mondiale, se si fosse fermato subito Hitler non appena aveva invaso la Polonia ecc. . . ) ma ci si è subito accorti che la guerra non era più (o non soltanto) tra due fronti separati. Lo scandalo dei giornalisti americani a Baghdad era in quei giorni pari allo scandalo, di dimensioni ben maggiori, di milioni e milioni di musulmani filoiracheni che vivevano nei paesi dell'alleanza antiirachena. Nelle guerre di un tempo i potenziali nemici venivano internati (o massacrati), un compatriota che dal territorio nemico parlava delle ragioni dell'avversario veniva, a fine guerra, impiccato - ricordate come fu impiccato dagli inglesi John Amery, che attaccava il suo paese dalla radio fascista, e come solo la grande notorietà e il soccorso degli intellettuali di ogni paese salvarono, a prezzo di una conclamata malattia mentale, Ezra Pound. Quali erano le nuove caratteristiche della Neoguerra? E' incerto chi sia il nemico. Tutti gli iracheni? Tutti i serbi? Chi bisogna distruggere? La guerra non è frontale. La Neoguerra non poteva più essere frontale a causa della natura stessa del capitalismo multinazionale. Che l'Iraq fosse stato armato dalle industrie occidentali non era un incidente, e parimenti non è stato un incidente che dalle industrie occidentali fossero stati armati, dieci anni dopo, i talebani. Era nella logica del capitalismo maturo, che si sottrae al controllo dei singoli stati. Voglio ricordare un particolare apparentemente minore ma significativo: a un certo punto ci si è accorti che gli aerei occidentali avevano creduto di distruggere un deposito di carri armati o aerei di Saddam e poi si è scoperto anzitutto che erano modelli civetta e che erano stati prodotti, e venduti regolarmente a Saddam, da un'industria italiana. Con le Paleoguerre si avvantaggiavano le industrie belliche di ciascuno dei paesi belligeranti, con la Neoguerra iniziavano ad avvantaggiarsi multinazionali che avevano interessi da una parte dall'altra della barricata (se una vera barricata ci fosse ancora stata). Ma non soltanto. Se la Paleoguerra ingrassava i mercanti di cannoni, e questo guadagno faceva passare in secondo piano l'arresto provvisorio di alcuni scambi commerciali, la Neoguerra, se arricchiva i mercanti di cannoni, metteva in crisi (e su tutto il globo) le industrie dei trasporti aerei, del divertimento 3
e del turismo, degli stessi media (che perdevano pubblicità commerciale), e in genere tutta l'industria del superfluo ossatura del sistema - dal mercato edilizio all'automobile. Nella Neoguerra alcuni poteri economici si trovavano in concorrenza con altri, e la logica del loro conflitto superava la logica delle potenze nazionali. Avevo annotato a quei tempi che questa era l'unica condizione che faceva sì che, almeno, fosse tipico di una Neoguerra il dovere durare poco, perché a prolungarla, alla fin fine, non poteva giovare a nessuno. Ma se la logica dei singoli stati in conflitto doveva, con la Neoguerra, sottostare alla logica industriale delle multinazionali, doveva sottostare anche alle esigenze dell'industria dell'informazione. Con la guerra del Golfo si è assistito al fatto, per la prima volta nella storia, che i media occidentali davano voce alle riserve e alle proteste non solo dei rappresentanti del pacifismo occidentale, il Papa in testa, ma persino degli ambasciatori e dei giornalisti dei paesi arabi simpatizzanti per Saddam. L'informazione dava continuamente la parola all'avversario (mentre il fine di ogni politica bellica è bloccare la propaganda avversaria) e demoralizzava i cittadini delle singole parti nei confronti del proprio governo (mentre Clausewitz ricordava che condizione della vittoria è la coesione morale di tutti i combattenti). Ogni guerra del passato si basava sul principio che i cittadini, credendola giusta, fossero ansiosi di distruggere il nemico. Ora invece l'informazione non solo faceva vacillare la fede dei cittadini, ma li rendeva vulnerabili di fronte alla morte dei nemici - non più evento lontano e impreciso, ma evidenza visiva insostenibile. Quella del Golfo è stata la prima guerra in cui i belligeranti compiangevano i nemici. (Qualcosa di simile si era profilato ai tempi del Vietnam, anche se allora parlavano, e in sedi ben specifiche, sovente marginali, i gruppi radicali americani. Ma non si vedeva l'ambasciatore di Ho Chi Min o del generale Giap concionare alla BBC. Né si vedevano giornalisti americani che trasmettevano notizie da un hotel di Hanoi come Peter Arnett trasmetteva da un hotel di Baghdad.) L'informazione pone il nemico nelle retrovie. Pertanto si stabiliva, con la guerra del Golfo, che nella Neoguerra odierna chiunque ha il nemico nelle retrovie. Quand'anche i media fossero imbavagliati, le nuove tecnologie della comunicazione permetterebbero flussi d'informazione inarrestabili - e neppure un dittatore potrebbe bloccarli, perché si avvalgono di infrastrutture tecnologiche minime a cui neppure lui può rinunciare. Questo flusso d'informazione svolge la funzione che nelle guerre tradizionali svolgevano i servizi segreti: neutralizza ogni azione di sorpresa - e non è possibile una guerra in cui non si possa sorprendere l'avversario. La Neoguerra istituzionalizzava il ruolo di Mata Hari e produceva dunque una "intelligenza col nemico" generalizzata. Mettendo in gioco troppi poteri, spesso in conflitto reciproco, la Neoguerra non era già più un fenomeno in cui il calcolo e l'intenzione dei protagonisti avessero valore determinante. Per la moltiplicazione dei poteri in gioco (eravamo davvero all'inizio della globalizzazione) essa si distribuiva secondo assetti imprevedibili. Di conseguenza era anche possibile che l'assetto finale risultasse conveniente per uno dei contendenti ma, in linea di principio, essa era perduta per entrambi. Affermare che un conflitto si è rivelato vantaggioso per qualcuno a un momento dato, implicherebbe che si identificasse il vantaggio "a un momento dato" col vantaggio finale. Ma ci sarebbe momento finale se la guerra fosse ancora, come voleva Clausewitz, la continuazione della politica con altri mezzi (per cui la guerra finirebbe quando si raggiungesse uno stato di equilibrio tale da consentire il ritorno alla politica). Invece già con le due grandi guerre mondiali del 20esimo secolo si era visto che la politica del dopoguerra sarebbe stata sempre e comunque la continuazione (con qualsiasi mezzo) delle premesse poste dalla guerra. Comunque la guerra andasse, essa, avendo provocato un riassetto generale che non poteva corrispondere pienamente alla volontà dei contendenti, si sarebbe prolungata in una drammatica instabilità politica, economica e psicologica per i decenni a venire, che altro non avrebbe potuto produrre che una politica guerreggiata. D'altra parte, è mai davvero accaduto diversamente? Decidere che le guerre classiche abbiano prodotto dei risultati ragionevoli -un equilibrio finale- deriva da un pregiudizio hegeliano, per cui la storia ha una direzione. Non c'è prova scientifica (né logica) che l'assetto del Mediterraneo dopo le guerre puniche o quello dell'Europa dopo le guerre napoleoniche debba essere identificato con un equilibrio. Potrebbe essere identificato con uno stato di squilibrio che non si sarebbe verificato se non ci fosse stata la guerra. Il fatto che l'umanità abbia per decine di migliaia di anni praticato la guerra come una soluzione degli stati di squilibrio non è più probante del fatto che nello stesso periodo l'umanità abbia deciso di risolvere squilibri psicologici ricorrendo all'alcool o ad altre droghe. La prova che queste mie riflessioni di allora non fossero campate in aria è stata data dagli eventi che hanno seguito la guerra del Golfo. Le forze occidentali hanno liberato il Kuwait, ma poi si sono arrestate perché non potevano permettersi di procedere sino all'annientamento finale dell'avversario. L'equilibrio che ne è risultato non era poi tanto diverso da quello che aveva originato il conflitto, tanto è vero che è ritornato continuamente sul tavolo il problema di come distruggere Saddam Hussein. E' che con la Neoguerra del Golfo si è profilato un problema assolutamente nuovo rispetto non solo alla logica e alla dinamica, ma anche alla stessa psicologia che governava le Paleoguerre. Il fine della Paleoguerra era distruggere quanti più nemici fosse possibile, accettando che morissero anche molti dei nostri. I grandi condottieri del passato 4
percorrevano di notte, dopo la vittoria, un campo di battaglia disseminato di migliaia e migliaia di morti, e non erano stupiti del fatto che la metà di essi fossero propri soldati. La morte dei propri soldati veniva celebrata con medaglie e cerimonie commoventi, e dava origine al culto degli eroi. La morte degli altri era pubblicizzata, magnificata e i civili, a casa, dovevano godere e rallegrarsi per ogni nemico che fosse stato eliminato. Con la guerra del Golfo si stabiliscono due principi: (1) non dovrebbe morire nessuno dei nostri e (2) si dovrebbero uccidere meno avversari possibile. Per quanto riguardava la morte degli avversari abbiamo assistito a qualche reticenza e ipocrisia, perché nel deserto gli iracheni sono morti in grande quantità, ma il fatto stesso che si cercasse di non enfatizzare questo dettaglio era già un segno interessante. In ogni caso pareva ormai tipico della Neoguerra cercare di non uccidere i civili, se non per accidente, perché a ucciderne troppi si sarebbe incorsi nella riprovazione dei media internazionali. Di qui l'uso e la celebrazione delle bombe intelligenti. A molti giovani tanta sensibilità sarà forse parsa normale, dopo cinquant'anni di pace dovuti alla benefica Guerra Fredda, ma riuscite a immaginarvi questa sensibilità ai tempi in cui le V1 distruggevano Londra e le bombe alleate radevano al suolo Dresda? Per quanto riguarda i propri soldati, il Golfo è stato il primo conflitto in cui appariva inaccettabile perdere anche un solo uomo. Il paese in guerra non avrebbe sopportato la logica paleomilitare che vuole i propri figli pronti a morire, a migliaia e migliaia, per consentire la vittoria. La perdita di un aereo occidentale era sentita come un fatto dolorosissimo e si è giunti a celebrare, dagli schermi televisivi, militari catturati dal nemico che, per salvare la vita, avevano acconsentito a farsi interpreti della propaganda dell'avversario (poverini, si diceva, sono stati costretti a suon di botte - dimenticando il sacro principio per cui il soldato catturato non parla neppure sotto tortura). Nella logica della Paleoguerra questi personaggi sarebbero stati additati al pubblico disprezzo - o almeno si sarebbe gettato un velo pietoso sul loro sfortunato incidente. Invece sono stati compresi, avvolti da sensi di calda solidarietà, premiati, se non dalle autorità militari, dalla curiosità mediatica, perché in fondo erano riusciti a sopravvivere. In poche parole, la Neoguerra è divenuta un prodotto mediatico, tanto che Baudrillard ha potuto dire, per paradosso, che non ha avuto luogo ma è stata soltanto rappresentata televisivamente. E i media vendono per definizione felicità e non dolore: i media erano obbligati a introdurre nella logica della guerra un principio di felicità massimale o almeno di sacrificio minimale. Ora, una guerra che non debba comportare sacrificio e si preoccupi di salvare il principio di felicità massimale, deve durare poco. Così è stato per la guerra del Golfo. Ma è durata talmente poco da essere stata in larga parte inutile, altrimenti i neocons non avrebbero poi dovuto mettere sia Clinton che Bush alle corde affinché non si desse tregua a Saddam. La Neoguerra era ormai in contraddizione con le stesse ragioni che l'avevano alimentata. La Neoguerra del Kossovo Tutte le caratteristiche della Neoguerra, profilatesi ai tempi del Golfo, si sono riproposte con la guerra del Kossovo, e in misura ancora più intensa. Non solo i giornalisti occidentali rimanevano a Belgrado, ma l'Italia inviava aerei in Serbia e contemporaneamente manteneva relazioni diplomatiche e commerciali con la Iugoslavia, le televisioni della Nato comunicavano ora per ora ai serbi quali aerei Nato stessero lasciando Aviano, agenti serbi sostenevano le ragioni del loro governo dagli schermi della televisione - e li abbiamo visti e sentiti. Ma non eravamo solo noi ad avere il nemico in casa. Anche loro. Tutti ricorderemo che una giornalista serba, Biljana Srbljanovic, inviava giorno per giorno corrispondenze antiMilosevic alla Repubblica. Come bombardare una città i cui abitanti inviano lettere di amicizia al nemico manifestando ostilità verso il loro governo? Certo, anche Milano nel 1944 era abitata da tanti antifascisti che attendevano l'aiuto degli Alleati, eppure questo non ha impedito agli Alleati, per ragioni militari ineccepibili, di bombardare selvaggiamente Milano, e ai resistenti di non protestare, pensando che fosse giusto. Invece nei bombardamenti di Belgrado vigeva un clima di vittimismo sia da parte di Milosevic, sia da parte dei serbi antimiloseviani, sia da parte degli occidentali che bombardavano. Di qui la pubblicità data all'uso delle bombe intelligenti, anche quando intelligenti non si dimostravano affatto. Ancora una volta, nella seconda Neoguerra non doveva morire nessuno, e in ogni caso meno che in Iraq, perché in fin dei conti i serbi erano bianchi ed europei come chi li bombardava, e alla fin fine si è dovuto persino proteggerli dagli albanesi, dopo aver iniziato il conflitto per proteggere, dai serbi, gli albanesi. Il conflitto non era certo frontale e le parti in gioco non erano separate da una linea retta ma da serpentine intrecciate. Non si era mai vista una guerra che si basasse tanto sul principio di felicità massimale e sacrificio minimo. Ragione per cui anche questa ha dovuto durare pochissimo. Afghanistan 5
Con l'undici settembre si verifica un nuovo ribaltamento della logica bellica. Si badi che con l'undici settembre non inizia la guerra afghana ma la confrontazione, ancora in atto, tra mondo occidentale e più specificamente tra Stati Uniti e terrorismo islamico. Se 1'undici settembre è stato l'inizio di un confronto bellico, in questa nuova fase della Neoguerra dovremmo dire che si è completamente dissolto il principio di frontalità. Anche coloro che pensano che il conflitto opponga il mondo occidentale a quello islamico sanno che in ogni caso il confronto non è più territoriale. I famosi stati canaglia sono caso mai punti caldi di appoggio al terrorismo, ma il terrorismo oltrepassa territori e frontiere. Soprattutto esso sta anche all'interno dei paesi occidentali. Questa volta e per davvero il nemico sta nelle retrovie. Salvo che ai tempi del Golfo e del Kossovo gli agenti nemici che agivano in casa li si conosceva (tanto è vero che andavano alla televisione) mentre col terrorismo internazionale la loro forza è che (1) essi rimangono ignoti, (2) i nostri media non possono monitorarli come Peter Arnett monitorava la vita di Baghdad sotto i bombardamenti occidentali e (3) del nemico potenziale non fanno parte soltanto dei soggetti etnicamente stranieri infiltratisi a casa nostra, ma potenzialmente anche nostri compatrioti - a tal punto che è possibile, ed è in ogni caso possibile pensare, che le buste all'antrace non fossero messe in circolazione da kamikaze musulmani ma da gruppi settari yankee, neonazisti o fanatici di altra specie. Inoltre, il ruolo giocato dai media è stato ben diverso da quello che avevano avuto nelle due Neoguerre precedenti, dove al massimo davano voce alle opinioni dell'avversario. Ogni atto terroristico viene compiuto per lanciare un messaggio che appunto diffonda terrore, o come minimo inquietudine. Il messaggio terroristico destabilizza anche se l'impatto è minimo, e a maggior ragione destabilizza se l'obiettivo è un simbolo "forte". Qual era, dunque, il proposito di Bin Laden nel colpire le due torri? Creare "il più grande spettacolo del mondo", mai immaginato neppure dai film catastrofici, dare l'impressione visiva dell'assalto ai simboli stessi del potere occidentale e mostrare che di questo potere potevano essere violati i maggiori santuari. Ora, se il fine di Bin Laden era colpire l'opinione pubblica mondiale con quella immagine, i mass-media sono stati obbligati a darne notizia, a mostrare il dramma dei soccorsi, degli scavi, della skyline mutilata di Manhattan. Sono stati obbligati a ripetere quella notizia ogni giorno, e per almeno un mese, con foto, filmati, infiniti racconti di testimoni oculari, reiterando agli occhi di chiunque l'immagine di quella ferita? E' molto difficile rispondere. I giornali con quelle foto hanno aumentato le vendite, le televisioni con la ripetizione di quei filmati hanno aumentato gli ascolti, il pubblico stesso chiedeva di rivedere quelle scene terribili, vuoi per coltivare la propria indignazione, vuoi talora per inconscio sadismo. Forse era impossibile fare diversamente, sta di fatto che in questo modo i massmedia hanno regalato a Bin Laden miliardi di dollari di pubblicità gratuita, nel senso che hanno mostrato ogni giorno le immagini che egli aveva creato, e proprio perché tutti le vedessero, gli occidentali per trarne ragione di smarrimento, i suoi seguaci fondamentalisti per trarne ragione di orgoglio. Così i mass-media, mentre lo riprovavano, sono stati i migliori alleati di Bin Laden, che in questo modo ha vinto la prima mano. D'altra parte anche i tentativi di censurare o addolcire i comunicati che Bin Laden inviava attraverso Al Jazeera si sono rivelati in pratica fallimentari. La rete globale dell'informazione era più forte del Pentagono e dunque si ristabiliva il principio fondamentale della Neoguerra per cui il nemico ti parla in casa. Anche in questo caso la Neoguerra non metteva più di fronte due Patrie ma metteva in concorrenza infiniti poteri, salvo che questi vari poteri nelle due Neoguerre precedenti potevano lavorare per abbreviare il conflitto e indurre alla pace, mentre questa volta rischiavano di prolungare la guerra. L'ex direttore della Cia ha detto mesi fa in una intervista alla Repubblica che paradossalmente il nemico da bombardare sarebbero state le banche off shore tipo quelle delle Cayman Islands e forse quelle delle grandi città europee. Pochi giorni prima, a una trasmissione di Vespa, di fronte a una insinuazione del genere (che però era indebolita dal fatto di venire non dall'ex direttore della Cia ma da un no-global), Gustavo Selva ha reagito sdegnato, dicendo che era pazzesco e criminale pensare che le grandi banche occidentali facessero il gioco dei terroristi. Ecco come un uomo politico di età ampiamente pensionabile mostrava di non essere neppure in grado di concepire la vera natura di una Neoguerra. Certamente l'aveva concepita qualcuno a Washington, e sappiamo benissimo che nella prima fase, intercorsa tra l'undici settembre e l'inizio delle operazioni in Afghanistan, gli Stati Uniti avevano pensato di poter condurre il conflitto come grande guerra di spie, paralizzando il terrorismo nei suoi centri economici. Ma occorreva risarcire subito una opinione pubblica americana profondamente umiliata e l'unico modo per farlo subito era quello di riproporre una Paleoguerra. Così il conflitto afghano è stato nuovamente basato su confronto territoriale, scontro campale, modalità tattiche tradizionali, tanto da ricordare le campagne ottocentesche degli inglesi al Kyber Pass, e ha recuperato alcuni dei principi della Paleoguerra. (1) Non era di nuovo consentito all'informazione di minare l'efficacia delle operazioni militari dall'interno, e di qui 6
si è arrivati a qualcosa di molto vicino alla censura. Che poi il sistema globale dell'informazione facesse sì che quello che non volevano dire i media americani lo dicesse una televisione araba era certo il segno che la Paleoguerra non è davvero possibile nell'era di Internet. (2) Se l'avversario aveva vinto la prima mano dal punto di vista simbolico, lo si doveva annientare fisicamente. E' rimasto il principio che si doveva rispetto formale ai civili innocenti (e dunque l'uso ancora una volta di bombe intelligenti), ma si è accettato che, quando non agivano gli occidentali bensì i locali dell'Alleanza del Nord, non si potesse evitare qualche massacro, su cui si cercava di sorvolare. (3) Si è di nuovo accettato che si potessero perdere vite dei propri soldati e si è invitato la nazione a prepararsi a un nuovo sacrificio. Bush figlio, come il Churchill della Seconda guerra mondiale, ha promesso ai suoi, sì, la vittoria finale, ma anche lacrime e sangue, mentre Bush padre non lo aveva fatto ai tempi del Golfo. La Paleoguerra afghana ha forse risolto i problemi che essa stessa ha posto (vale a dire che i talebani sono stati allontanati dal potere) ma non ha risolto i problemi della Neoguerra di terza fase da cui è stata originata. Infatti se il fine della guerra afghana era eliminare il terrorismo internazionale islamico e neutralizzarne le centrali, è evidente che esse esistono ancora da altre parti, e l'imbarazzo è solo stabilire dove fare la seconda mossa. Se il fine era eliminare Bin Laden, non è affatto evidente che vi si sia riusciti; e se pure ci si è riusciti, forse si scoprirà che Bin Laden era figura certamente carismatica ma che nella sua immagine non si risolveva il terrorismo fondamentalista islamico. Uomini acuti come Metternich sapevano benissimo che anche mandando Napoleone a morire a Sant'Elena non si eliminava il bonapartismo e Metternich è stato costretto a perfezionare Waterloo col Congresso di Vienna (che tra l'altro non è bastato, come ha dimostrato la storia del 19esimo secolo). Quindi la Neoguerra iniziata l'undici settembre non è stata vinta né risolta con la guerra afghana - e onestamente non saprei dirvi se e come Bush avrebbe potuto agire diversamente, né è questo il punto in discussione. Il punto è che pare che, di fronte alle Neoguerre, non ci siano comandi militari capaci di vincerle. A questo punto la contraddizione è massima e massima la confusione sotto il cielo. Da un lato sono cessate tutte le condizioni per cui si possa condurre una guerra, dato che il nemico si è totalmente mimetizzato, e dall'altro per poter dimostrare che in qualche modo al nemico si tiene ancora testa, si debbono costruire simulacri di Paleoguerra, che però servono solo a tenere saldo il fronte interno, e far dimenticare ai propri cittadini che il nemico non è là dove lo si sta bombardando, ma fra loro stessi. Di fronte a questo smarrimento l'opinione pubblica (di cui certi capipopolo si sono fatti interpreti) ha cercato disperatamente di ritrovare l'immagine di una Paleoguerra possibile, e la metafora è stata quella della crociata, dello scontro di civiltà, del rinnovato conflitto di Lepanto tra cristiani e infedeli. Se si è in fondo vinta militarmente la piccola guerra afghana perché non sarebbe possibile vincere la Neoguerra globale facendola diventare una Paleoguerra mondiale, noi bianchi contro i Mori? In questi termini sembra una cosa da fumetto, ma il successo dei libri di Oriana Fallaci ci dice che, se fumetto è, viene letto da molti adulti. I sostenitori della crociata non hanno pensato che, anche in questo caso, la crociata è pur sempre una forma di Paleoguerra che non può essere condotta nella situazione globale che ha creato le condizioni e le contraddizioni della Neoguerra. Scenario di una crociata possibile Immaginiamo infatti un confronto globale tra mondo cristiano e mondo musulmano - scontro frontale, dunque, come nel passato. Ma nel passato c'era un'Europa ben definita nei suoi confini, con il Mediterraneo tra cristiani e infedeli, e i Pirenei che tenevano isolata la propaggine occidentale del continente, ancora in parte araba. Dopo di che lo scontro poteva assumere due forme, o l'attacco o il contenimento. L'attacco è stato costituito dalle Crociate, ma si è visto che cosa è successo. L'unica crociata che ha portato a una effettiva conquista (con l'installazione di regni franchi in Medio Oriente) è stata la prima. Dopo meno di un secolo Gerusalemme è caduta di nuovo in mano ai musulmani e per un secolo e mezzo ci sono state altre sette crociate, che non hanno risolto nulla. L'unica operazione militare riuscita è stata più tardi la Reconquista della Spagna, ma non era una spedizione oltremare, bensì una lotta di riunificazione nazionale, che non ha eliminato il confronto tra i due mondi, bensì ne ha semplicemente spostato la linea di confine. Quanto al contenimento, si sono fermati i turchi davanti a Vienna, si è vinto a Lepanto, si sono erette torri sulle coste per avvistare i pirati saraceni, i turchi non hanno conquistato l'Europa, ma il confronto è rimasto. Poi l'Occidente, atteso che l'Oriente si fosse indebolito, lo ha colonizzato. Come operazione è stata certamente coronata da successo, e per lungo tempo, ma i risultati li vediamo oggi. Il confronto non è stato eliminato, bensì acuito. Se oggi si riproponesse lo scontro frontale, che cosa avrebbe questo scontro di diverso rispetto ai confronti del 7
passato? Ai tempi delle crociate il potenziale bellico dei musulmani non era tanto dissimile da quello dei cristiani, spade e macchine ossidionali erano a disposizione di entrambi. Oggi l'Occidente è in vantaggio quanto a tecnologia di guerra. E' vero che il Pakistan, in mano ai fondamentalisti, potrebbe usare l'atomica, ma al massimo riuscirebbe, diciamo, a radere al suolo Parigi, e subito le sue riserve nucleari verrebbero distrutte. Se cade un aereo americano ne fanno un altro, se cade un aereo siriano avrebbero difficoltà ad acquistarne uno nuovo in Occidente. L'Est rade al suolo Parigi e l'Ovest getta una bomba atomica sulla Mecca. L'Est diffonde il botulino per posta e l'Ovest gli avvelena tutto il deserto d'Arabia, come si fa coi pesticidi nei campi sterminati di Midwest, e muoiono persino i cammelli. Benissimo. Non sarebbe neppure una cosa troppo lunga, un anno al massimo, poi si continua tutti con le pietre, ma loro avrebbero forse la peggio. Salvo che c'è un'altra differenza rispetto al passato. Ai tempi delle crociate i cristiani non avevano bisogno del ferro arabo per fare le loro spade, né i musulmani del ferro cristiano. Oggi invece anche la nostra tecnologia più avanzata vive sul petrolio, e il petrolio ce l'hanno loro, almeno per la maggior parte. Loro da soli, specie se gli bombardi i pozzi, non ce la fanno più a estrarlo, ma noi rimaniamo senza. L'Occidente dovrebbe dunque ristrutturare tutta la sua tecnologia in modo da eliminare il petrolio. Visto che ancora oggi non siamo riusciti a fare un'automobile elettrica che vada a più di ottanta chilometri all'ora e non impieghi una notte per ricaricarsi, non so quanto tempo questa riconversione potrebbe prendere. Anche a usare l'energia atomica per propellere aerei e carri armati e far funzionare le nostre centrali elettriche, senza calcolare la vulnerabilità di queste tecnologie, ci vorrebbe molto tempo. Inoltre sarebbe interessante vedere se le Sette Sorelle ci stanno. Non mi stupirei se dei petrolieri occidentali, pur di continuare a fare profitti, fossero pronti ad accettare un mondo islamizzato. Ma la cosa non finisce qui. Ai bei tempi andati i saraceni stavano da una parte, oltremare, e i cristiani dall'altra. Oggi invece l'Europa è piena di islamici, che parlano le nostre lingue e studiano nelle nostre scuole. Se già oggi alcuni di loro si allineano coi fondamentalisti di casa propria, immaginiamoci se si avesse il confronto globale. Esso sarebbe la prima guerra col nemico non solo sistemato in casa ma assistito dalla mutua. Si badi bene che lo stesso problema si porrebbe al mondo islamico, che ha a casa propria industrie occidentali, e addirittura enclaves cristiane come in Etiopia. Siccome il nemico è per definizione cattivo, tutti i cristiani d'oltremare li diamo per perduti. La guerra è guerra. Sono già in partenza carne da foiba. Poi li canonizzeremo tutti in piazza San Pietro. Che cosa facciamo invece a casa nostra? Se il conflitto si radicalizza oltre misura, e crollano altri due o tre grattacieli, o addirittura San Pietro, si avrà la caccia al musulmano. Una sorta di notte di San Bartolomeo, o di Vespri Siciliani: si prende chiunque abbia i baffi e la carnagione non chiarissima e lo si sgozza. Si tratta di ammazzare milioni di persone, ma ci penserà la folla senza scomodare le forze armate. Potrebbe prevalere la ragione. Non si sgozza nessuno. Ma anche i liberalissimi americani, all'inizio della Seconda guerra mondiale, hanno messo in campo di concentramento, sia pure con molta umanità, i giapponesi e gli italiani che avevano in casa, anche se erano nati laggiù. Quindi (e sempre senza andare per il sottile) si vanno a individuare tutti coloro che potrebbero essere musulmani - e se sono, per esempio, etiopi cristiani pazienza, Dio riconoscerà i suoi - e li si mette da qualche parte. Dove? A fare dei campi di prigionia, con la quantità di extracomunitari che girano per l'Europa, si avrebbe bisogno di spazio, organizzazione, sorveglianza, cibo e cure mediche insostenibili, senza contare che quei campi sarebbero delle bombe pronte a esplodere. Oppure li si prende, tutti (e non è facile, ma guai se ne resta appena uno, e bisogna farlo subito, in un colpo solo), li si carica su una flotta di navi da trasporto e si scaricano. .. Dove? Si dice "scusi signor Gheddafi, scusi signor Mubarak, mi prende per favore questi tre milioni di turchi che cerco di sbatter fuori dalla Germania? " L'unica soluzione sarebbe quella degli scafisti: si buttano a mare. Soluzione finale di hitleriana memoria. Milioni di cadaveri a galla sul Mediterraneo. Voglio vedere il governo che decide di farlo, altro che desaparecidos, persino Hitler massacrava poco alla volta e di nascosto. Come alternativa, visto che siamo buoni, li lasciamo stare tranquilli a casa nostra, ma dietro a ciascuno mettiamo un agente della Digos che lo sorvegli. E dove trovi tanti agenti? Li arruoli tra gli extracomunitari? E se poi ti viene il sospetto - come è avvenuto negli Stati Uniti, dove le compagnie aeree, per risparmiare, facevano fare i controlli aeroportuali a immigrati del Terzo Mondo – che questi collaboratori non siano affidabili? Naturalmente tutte queste riflessioni potrebbe farle, dall'altra parte della barricata, un musulmano ragionevole. Il fronte fondamentalista non sarebbe certo del tutto vincente, una serie di guerre civili insanguinerebbe i loro paesi portando a orribili massacri, i contraccolpi economici ricadrebbero anche su di loro, avrebbero ancor meno cibo e meno medicine delle poche che hanno oggi, morirebbero come mosche. Ma se si parte dal punto di vista di uno scontro frontale, non ci si deve preoccupare dei loro problemi bensì dei nostri. Tornando dunque all'Ovest, si creerebbero all'interno del nostro schieramento gruppi filoislamici non per fede ma per opposizione alla guerra, nuove sette che rifiutano la scelta dell'Occidente, gandhiani che incrocerebbero le braccia e si rifiuterebbero di collaborare coi loro governi, fanatici come quelli di Waco che inizierebbero (senza essere fondamentalisti musulmani) a scatenare il terrore per purificare l'Occidente corrotto. Si creerebbero per le 8
strade di Europa cortei di oranti disperati e passivi in attesa dell'Apocalisse. Ma non è indispensabile pensare solo a queste "frange lunatiche". Accetterebbero tutti la diminuzione dell'energia elettrica senza neppure poter ricorrere alle lampade a petrolio, l'oscuramento fatale dei mezzi di comunicazione e quindi non più di un'ora di televisione al giorno, i viaggi in bicicletta anziché in automobile, i cinematografi e le discoteche chiuse, la coda ai McDonald's per avere la razione giornaliera di una fettina di pane di crusca con una foglia d'insalata, insomma la cessazione di una economia della prosperità e dello spreco? Figuriamoci che cosa importa a un afghano o an profugo palestinese di vivere in economia di guerra, per loro non cambierebbe nulla. Ma noi? A quale crisi di depressione e demotivazione collettiva si andrebbe incontro? Quanto si identificherebbero ancora con l'Occidente i neri di Harlem, i diseredati del Bronx, i chicanos della California? Infine, che cosa farebbero i paesi dell'America Latina, dove molti, senza essere musulmani, hanno elaborato sentimenti di rancore verso i gringos, tanto che anche laggiù, dopo la caduta delle due torri, c'è chi sussurra che i gringos se la sono cercata? Insomma, la guerra globale potrebbe certo vedere un Islam meno monolitico di quello che si pensa, ma certo vedrebbe una cristianità frammentata e nevrotica, dove pochissimi si candiderebbero a essere i nuovi Templari, ovvero i kamikaze dell'Occidente. Questo è uno scenario di fantascienza, che non vorrei mai vedere realizzato. Ma va disegnato per mostrare che, il giorno che si realizzasse, non porterebbe alla vittoria di nessuno. Quindi, anche trasformandosi in Paleoguerra globale, la Neoguerra di terza fase non condurrebbe ad alcun risultato che non fosse la sua continuazione perenne in uno scenario desolato da Conan il Barbaro. Il che significa che nell'era della globalizzazione una guerra globale è impossibile, ovvero che porterebbe alla sconfitta di tutti. La pace Quando scrivevo le mie riflessioni sulla Neoguerra del Golfo, la conclusione che la guerra fosse ormai impossibile mi portava alla idea che forse era giunto il momento di dichiarare il tabù universale della guerra. Ma mi rendo ora conto, dopo le esperienze successive, che si trattava di una pia illusione. Oggi la mia impressione è che, poiché la Neoguerra non ha né vincitori né vinti, e le Paleoguerre non risolvono nulla se non sul piano della soddisfazione psicologica del vincitore provvisorio, il risultato sarà una forma di Neoguerra permanente, con tante Paleoguerre periferiche sempre riaperte e sempre provvisoriamente richiuse. Immagino che la cosa non piaccia perché tutti noi siamo affascinati dall'ideale della Pace. L'idea che l'inutilità delle Neoguerre potesse portare a prendere sul serio la Pace era certamente molto bella, ma era appunto irrealistica. E' che la vicenda stessa della Neoguerra ci induce a riflettere sulla natura equivoca della nozione di Pace. Quando si parla di pace e si auspica la pace, si pensa sempre (nella misura consentita dal nostro orizzonte di visione) a una pace universale o globale. Non parleremmo di pace se pensassimo solo a una pace per pochi, altrimenti andremmo ad abitare in Svizzera - o entreremmo in un monastero, come si usava fare in tempi molto bui di invasione permanente. La pace o si propone come concetto globale, pare, o non vale la pena di pensarla. Un secondo modo di pensare la pace, complementare al primo, è che essa sia una situazione originaria. Dall'idea di una condizione edenica a quella di una età dell'oro, si è sempre caldeggiata la pace pensando che si trattasse di restaurare una condizione primordiale dell'umanità (che contemplava persino la pace tra mondo umano e mondo animale) che era stata a un certo punto corrotta da un atto di odio e sopraffazione. Ma non dimentichiamo che, di fronte ai miti dell'età dell'oro, Eraclito ha avuto la lucidità di affermare che, se tutto scorre, allora "la lotta è la regola del mondo e la guerra è comune generatrice e signora di tutte le cose". Seguiranno a ruota lo homo homini lupus di Hobbes e lo struggle for life di Darwin. Proviamo allora a immaginare che la curva generale dell'entropia sia dominata dal conflitto, dalla distruzione e dalla morte, e che le isole di pace siano quelle che Prigogyne chiama strutture dissipative, momenti di ordine, piccoli e graziosi bubboni della curva generale dell'entropia, eccezioni alla guerra, che costano molta energia per poter sopravvivere. Passando dalla scienza alla metafora (non esiste che io sappia una scienza della pace) direi che la pace non è uno stato che già ci era stato donato e che si tratta solo di restaurare, ma una faticosissima conquista, come quelle che avvenivano nelle guerre di trincea, pochi metri alla volta, e a costo di molte morti. Le grandi Paces che abbiamo conosciuto nella storia, quelle che riguardavano ampi territori, come la Pax Romana o ai giorni nostri la Pax Americana (ma c'è stata anche una Pax Sovietica che ha tenuto a freno per settant'anni territori ora in ebollizione e mutuo conflitto), e quella grande e benedetta Pax del primo mondo che si chiamava Guerra Fredda e che tutti rimpiangiamo (ma forse potremmo anche parlare di una Pax Ottomana, o della Pax Cinese) sono state il risultato di una conquista e di una pressione militare continua, per cui si manteneva un certo ordine e si riduceva la conflittualità al centro a prezzo di tante piccole Paleoguerre periferiche. Le grandi Paces sono state il risultato di una potenza militare. La cosa può piacere a chi sta dentro l'occhio del ciclone, ma chi ne sta ai margini subisce le Paleoguerre che 9
servono a mantenere l'equilibrio del sistema. Come a dire che, se si ha pace, la pace è sempre la nostra, mai quella degli altri. Citatemi un solo esempio di pace nel mondo, almeno negli ultimi millenni, che sia sfuggito a questa regola sciaguratamente non aurea ma certamente ferrea. Se c'è qualcosa di valido nella tematica no-global è la persuasione che i vantaggi di una globalizzazione pacifica si pagano con gli svantaggi di chi vive alla periferia del sistema. Cambierà forse questa regola della pace con l'avvento delle Neoguerre? Direi proprio di no perché, a riassumere quanto ho cercato di dire sinora, dalle Paleoguerre alla Neoguerra di terza fase si sono verificati questi cambiamenti: (1) Le Paleoguerre creavano uno stato di squilibrio transitorio e bilaterale tra due contendenti, lasciando un equilibrio generico alla periferia dei neutrali. (2) La Guerra Fredda ha creato un equilibrio forzoso, surgelato, al centro dei due primi mondi, a prezzo di molti squilibri transitori in tutte le periferie, agitate da tante piccole Paleoguerre. (3) La Neoguerra di terza fase promette uno squilibrio costante al centro - divenuto territorio di inquietudine quotidiana e di attentati terroristici permanenti - contenuto a titolo di salasso permanente da una serie di Paleoguerre periferiche, di cui l'Afghanistan è stato solo il primo esempio. Quindi, se ne conclude che stiamo certamente peggio di prima, visto che è crollata anche l'illusione, data dalla Guerra Fredda, che almeno al centro dei primi due mondi ci fosse uno stato di pace. In fondo è la perdita di questa pace quella che gli americani hanno avvertito sulla propria pelle 1'11 settembre, e di qui il loro shock. Non credo che su questo globo di uomini che sono lupi ai propri fratelli si raggiungerà la pace globale. In fondo lo ha pensato Fukuyama con la sua idea della fine della storia, ma gli eventi recenti hanno dimostrato che la storia riprende, e sempre in forma di conflitto. Paci locali Se la pace globale è il prodotto della guerra - e quanto più la guerra diventa autofaga e incapace di risolvere i problemi che l'hanno determinata, tanto più la pace diventa impossibile – che cosa rimane per chi crede che la pace sia una conquista e non una eredità da pretendere per grazia divina? Rimane la possibilità di lavorare per una pace a macchia di leopardo, creando ogni volta che si può situazioni pacifiche nella immensa periferia delle Paleoguerre che si susseguiranno ancora l'una dopo l'altra. Se la pace universale è sempre il risultato di una vittoria militare, la pace locale può nascere da una cessazione della belligeranza. Per raggiungere una pace locale non è necessario fare guerre. Una pace locale si stabilisce quando, di fronte alla stanchezza dei contendenti, una Agenzia Negoziatrice si propone come mediatore. La condizione per la mediazione è che la Paleoguerra sia marginale così che, tanto tempo dopo il suo inizio, i media non la seguano più con troppo interesse. A quel punto chi accetta la mediazione non perde la faccia di fronte all'opinione pubblica internazionale. Perifericità del conflitto e memoria corta dei media sono dunque condizione essenziale della mediazione pacifica. Nessuna negoziazione o mediazione pare capace, oggi come oggi, di sanare uno squilibrio centrale, specie se esso non dipende più dalla volontà di alcun governo. Non è quindi prevedibile un progetto di pace per la Neoguerra di terza fase, ma solo per ciascuna delle Paleoguerre che essa produce. Una serie successiva di paci locali potrebbe, agendo da salasso, diminuire nel lungo periodo le condizioni di tensione che tengono in vita la Neoguerra permanente. Il che significa (se ridurre il progetto a un esempio non rischiasse di farne perdere di vista la flessibilità e l'applicabilità a situazioni molto diverse tra loro) che una pace fatta oggi a Gerusalemme certamente contribuirebbe alla riduzione della tensione in tutto l'epicentro della Neoguerra globale. Ma anche se non si raggiungesse sempre e comunque questo risultato, una pace realizzata come piccola bolla nella curva generale del disordine entropico, anche se non fosse né meta finale né tappa verso una meta precisa, rimarrebbe pur sempre esempio e modello. La pace come esempio. Può essere, se volete, un concetto molto cristiano, ma avverto che sarebbe stato accettato anche da molti saggi pagani: facciamo la pace tra noi due, sia pure e soltanto tra Montecchi e Capuleti; questo non risolverà i problemi del mondo ma mostrerà che una negoziazione è ancora e sempre possibile. Il lavoro per la riduzione dei conflitti locali serve a dare la fiducia che un giorno si risolveranno anche i conflitti globali. E pia illusione, ma talora bisogna mentire con l'esempio. Mente male chi mente a parole, ma mente bene chi, facendo qualcosa, lascia pensare che altri possano fare altrettanto, anche se mente in quanto lascia pensare attraverso l'esempio che una proposizione particolare (alcuni p fanno q) possa necessariamente trasformarsi in proposizione universale (tutti i p fanno q). Ma queste sono le ragioni per cui l'etica e la retorica non sono logica formale. L'unica nostra speranza è lavorare sulle paci locali.
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AMARE L'AMERICA E MARCIARE PER LA PACE Nota: (la Repubblica, febbraio 2003) Il male fa male. Non dico cosa nuova se ricordo che la finalità principale di ogni azione e movimento terroristico è destabilizzare il campo di coloro che colpisce. Destabilizzare vuole dire mettere gli altri in fibrillazione, renderli incapaci di reagire con calma, farli sospettosi gli uni degli altri. Né il terrorismo di destra né quello di sinistra sono riusciti, in fin dei conti, a destabilizzare per esempio il nostro paese. Per questo sono stati sconfitti, almeno alla loro prima e più temibile offensiva. Ma si trattava in fondo di fenomeni provinciali. Il terrorismo di Bin Laden (e in ogni caso della vasta fascia fondamentalista che egli rappresenta) è evidentemente assai più abile, diffuso, efficiente. E riuscito a destabilizzare il mondo occidentale, dopo 1'11 settembre, evocando antichi fantasmi di lotta tra civiltà, guerre di religione, scontro di continenti. Ma ora sta ottenendo un risultato assai più soddisfacente: dopo avere approfondito la frattura tra mondo occidentale e Terzo Mondo sta ora incoraggiando profonde fratture all'interno dello stesso mondo occidentale. E' inutile che ci facciamo illusioni: si stanno profilando conflitti (non bellici, ma certo morali e psicologici) tra America ed Europa, e una serie di fratture all'interno dell'Europa stessa. Un certo latente antiamericanismo francese si fa sentire a voce più alta e (lo avremmo mai immaginato?) in America torna di moda l'appellativo di mangiatori di rane con cui un tempo si indicavano i francesi. Queste fratture non oppongono gli americani ai tedeschi o gli inglesi ai francesi. Assistendo alle proteste contro la guerra che stanno sorgendo su entrambe le sponde dell'Atlantico, cerchiamo di ricordare che non è vero che "tutti gli americani vogliono la guerra" e nemmeno che "tutti gli italiani vogliono la pace". La logica formale ci insegna che basta che un solo abitante del globo odi sua madre perché non si possa dire "tutti gli uomini amano la loro mamma". Si può solo dire "alcuni uomini amano la loro mamma" e "alcuni" non vuole dire necessariamente "pochi", può volere dire anche il novantanove per cento. Ma anche il novantanove per cento non si traduce come "tutti" bensì come "alcuni", che appunto vuole dire "non tutti". Pochi sono i casi in cui si può usare il cosiddetto quantificatore universale "tutti": di sicuro solo per l'affermazione "tutti gli uomini sono mortali", perché sino a oggi, anche i due di cui si pensa siano resuscitati, Gesù e Lazzaro, a un certo punto hanno cessato di vivere e dall'imbuto della morte sono passati. Quindi le fratture non sono tra i tutti di una parte e i tutti di un'altra: sono sempre tra alcuni delle due (o tre, o quattro) parti. Sembra una pignoleria, ma senza premesse del genere si cade nel razzismo. Nel vivo, sanguinoso anche se non ancora sanguinante, di queste fratture, si odono ogni giorno affermazioni che diventano fatalmente razziste, del tipo "tutti coloro che paventano la guerra sono alleati di Saddam", ma anche "tutti coloro che ritengono talora indispensabile l'uso della forza sono nazisti". Vogliamo cercare di ragionare? Qualche settimana fa un recensore inglese, parlava, tra l'altro in tono tutto sommato favorevole, del mio libretto Cinque scritti morali da poco tradotto nel suo paese. Ma arrivato alla pagina in cui scrivo che la guerra dovrebbe diventare tabù universale, commentava sarcasticamente: "Vada a dirlo ai sopravvissuti di Auschwitz". Sottintendeva, cioè, che se tutti avessero avuto in orrore la guerra non ci sarebbe stata neppure la sconfitta di Hitler e la salvezza (purtroppo solo di "alcuni") degli ebrei rinchiusi nei campi di sterminio. Ora, questo mi pare un ragionamento come minimo ingiusto. Io posso sostenere (e di fatto sostengo) che l'omicidio è un crimine inammissibile e non vorrei mai uccidere qualcuno in vita mia. Ma se un tizio armato di coltello mi entrasse in casa e volesse uccidere me o uno dei miei cari, farei il possibile per fermarlo usando tutta la violenza possibile. Del pari, la guerra è un crimine e il colpevole che ha scatenato la Seconda guerra mondiale si chiamava Hitler: se poi, una volta che l'ha scatenata, gli Alleati si sono mossi e hanno opposto violenza a violenza, hanno naturalmente fatto bene perché si trattava di salvare il mondo dalla barbarie. Ciò non toglie che la Seconda guerra mondiale sia stata una cosa atroce, che è costata cinquanta milioni di vittime, e che sarebbe stato meglio se Hitler non l'avesse scatenata. Una forma meno paradossale di obiezione è questa: "dunque tu ammetti che è stato un bene che gli Stati Uniti siano intervenuti militarmente per salvare l'Europa e impedire che il nazismo impiantasse campi di sterminio anche a Liverpool o a Marsiglia?". Certamente, rispondo, hanno fatto bene, e rimane per me ricordo indimenticabile l'emozione con cui da tredicenne sono andato incontro al primo reggimento di liberatori americani (tra l'altro, un reggimento di neri) che arrivava nella cittadina in cui ero sfollato. Mio amico è subito diventato il caporale Joseph, che mi ha dato i primi cheewing gum e i primi fumetti con Dick Tracy. Ma a questa obiezione, dopo la mia risposta, ne segue un'altra: "Dunque hanno fatto bene gli americani a stroncare sul nascere la dittatura nazifascista! ". La verità è che non solo gli americani ma anche gli inglesi e i francesi non hanno affatto stroncato le due dittature sul nascere. Hanno cercato di contenere il fascismo, di ammansirlo e persino di accettarlo come mediatore sino agli inizi del 1940 (con qualche atto dimostrativo come le sanzioni, ma poco di più) e hanno lasciato espandere il nazismo per alcuni anni. Gli Stati Uniti sono intervenuti dopo essere stati attaccati dai giapponesi a Pearl Harbor e tra l'altro rischiamo di dimenticarci che sono state Germania e Italia, dopo il Giappone, a dichiarare guerra agli Stati 11
Uniti e non viceversa (lo so che ai più giovani questa può parere una storia grottesca, ma è andata proprio così). Gli Stati Uniti hanno atteso a entrare in un conflitto terribile, malgrado la tensione morale che li spingeva a farlo, per ragioni di prudenza, perché non si sentivano abbastanza preparati, e persino perché anche da loro c'erano dei simpatizzanti (famosi) per il nazismo, e Roosevelt ha dovuto lavorare di fino per trascinare il suo popolo in quella vicenda. Hanno fatto male Francia e Inghilterra ad aspettare, sperando ancora di arrestare l'espansionismo tedesco, che Hitler invadesse la Cecoslovacchia? Forse, e molto si è ironizzato sulle disperate manovre di Chamberlain per salvare la pace. Questo ci dice che talora si può peccare per prudenza, ma che si tenta tutto il possibile pur di salvare la pace, e almeno alla fine è stato chiaro che era Hitler colui che ha iniziato la guerra e ne portava dunque tutte le responsabilità. Trovo quindi ingiusta la prima pagina di quel quotidiano americano che ha pubblicato la foto del cimitero dei bravi yankee morti per salvare la Francia (ed è vero) avvertendo che ora la Francia si stava dimenticando di quel debito. La Francia, la Germania e tutti coloro che trovano prematura una guerra preventiva fatta ora e solo in Iraq non stanno negando solidarietà agli Stati Uniti nel momento in cui sono, per così dire, circondati dal terrorismo internazionale. Stanno soltanto sostenendo, come molte persone di buon senso pensano, che un attacco all'Iraq non sconfiggerebbe il terrorismo ma probabilmente (e secondo me certamente) lo potenzierebbe, porterebbe nelle file terroriste molti che ora si trovano in condizioni di perplessità e prudenza. Pensano che il terrorismo raccoglie adepti che vivono negli Stati Uniti e nei paesi europei, e i loro soldi non sono depositati nelle banche di Baghdad, ma possono riceve armi, chimiche e no, anche da altri paesi. Cerchiamo di immaginare che, prima dello sbarco in Normandia, De Gaulle si fosse incaponito, visto che aveva le sue truppe nei territori d'oltremare, a esigere uno sbarco sulla Costa Azzurra. Gli americani e gli inglesi si sarebbero probabilmente opposti adducendo numerose ragioni: che nel Tirreno c'erano ancora truppe tedesche col controllo delle coste italiane almeno nel golfo di Genova, o che sbarcando al Nord si aveva alle spalle l'Inghilterra ed era più sicuro far transitare truppe da sbarco sulla Manica che farle navigare per tutto il Mediterraneo. Avremmo detto che gli Stati Uniti pugnalavano la Francia alle spalle? No, essi avrebbero espresso un dissenso strategico e infatti ritengo che fosse più saggio sbarcare in Normandia. Avrebbero usato tutto il loro peso per indurre De Gaulle a non compiere un'operazione sterile e pericolosa. Tutto qui. Un'altra obiezione che circola è poi questa, e mi è stata posta recentemente da un signore molto importante e benemerito per gli sforzi compiuti da anni in missioni pacifiche: "Ma Saddam è un feroce dittatore e il suo popolo soffre sotto il suo sanguinoso dominio. Non pensiamo ai poveri iracheni?". Ci pensiamo sì, ma stiamo pensando ai poveri coreani del Nord, a chi vive sotto il tallone di tanti dittatori africani o asiatici, a chi si è visto dominato da dittatorelli di destra sopportati e nutriti per impedire rivoluzioni di sinistra nell'America del Sud? Si è mai pensato di liberare con una guerra preventiva i poveri cittadini russi, ucraini, estoni o uzbechi che Stalin mandava nei gulag? No, perché se si dovesse far guerra a tutti i dittatori il prezzo, in termini di sangue e di rischio atomico, sarebbe enorme. E dunque, come sempre si fa in politica, che è realista anche quando ispirata a valori ideali, si è traccheggiato, cercando di ottenere il massimo con mezzi non cruenti. Scelta vincente, tra l'altro, visto che le democrazie occidentali alla fine sono riuscite a eliminare la dittatura sovietica senza lanciare atomiche. Ci è voluto un poco di tempo, qualcuno nel frattempo ci ha rimesso le penne, e ci dispiace, ma abbiamo risparmiato qualche centinaio di milioni di morti. Sono poche osservazioni ma sufficienti, spero, a suggerire che la situazione in cui ci troviamo non consente, e proprio a causa della sua gravità, tagli netti, divisioni di campo, condanne del tipo "se la pensi così sei nostro nemico". Anche questo sarebbe fondamentalismo. Si possono amare gli Stati Uniti, come tradizione, come popolo, come cultura, e col rispetto dovuto a chi si è guadagnato sul campo i galloni di paese più potente del mondo, si può essere stati colpiti nell'intimo dalla ferita che hanno subito nel 2001, senza per questo esimersi dall'avvertirli che il loro governo sta compiendo una scelta sbagliata e deve sentire non il nostro tradimento, ma il nostro franco dissenso. Altrimenti quello che verrebbe conculcato sarebbe il diritto al dissenso. E questo sarebbe proprio il contrario di quello che hanno insegnato a noi giovani di allora, dopo anni di dittatura, i liberatori del 1945. PROSPETTIVE PER L'EUROPA Nota: (La Repubblica, maggio 2003). Questo articolo non nasce da una mia decisione personale. Qualche settimana fa Jurgen Habermas ha contattato una serie di colleghi in vari paesi europei chiedendo loro di fare apparire, contemporaneamente in questo stesso giorno, un loro articolo su un importante quotidiano locale. Tranne qualche scambio di messaggi in cui Habermas ha comunicato i propri intenti, nel momento in cui scrivo non so esattamente che cosa diranno oggi Habermas e Jacques Derrida (in un articolo congiunto che apparirà contemporaneamente nel Frankfurter Allgemeine e in Libération), Fernando Savater (El Pais), Gianni Vattimo (La Stampa), Adolf Muschg (Neue Zurcher Zeitung), Richard Rorty 12
(come voce d'oltreoceano ma sulla Suddeutsche Zeitung). Può darsi che, dal confronto dei vari interventi, nasca una discussione. In ogni caso Habermas aveva chiesto ai suoi amici e colleghi di intervenire per far sentire l'opinione di alcuni cittadini europei sulla situazione attuale dell'Unione, e inviare una serie di sollecitazioni ai governi nazionali e a quel tanto che già c'è (ed è molto, ma non basta) di governo europeo. Sembra che questo sia il momento meno adatto per fare previsioni sul futuro dell'Europa unita: le varie posizioni assunte nei confronti del conflitto iracheno hanno piuttosto mostrato un'Europa divisa e l'ingresso nell'Unione di nazioni dell'Est mette insieme antiche democrazie, in parte disposte a porre in discussione la loro sovranità nazionale, e democrazie più giovani, intese a rafforzare la forma di governo nazionale appena realizzato, anche a costo di fare una politica di alleanze che va al di là dei confini dell'Europa. In questo panorama possiamo dire che, da un lato, esiste una coscienza e una identità europea, mentre dall'altro una serie di eventi mira a dissolvere questa stessa unità. Facciamo un esempio che so che anche Habermas farà: i principi fondamentali del cosiddetto mondo occidentale, l'eredità greca e giudaico-cristiana, le idee di libertà e uguaglianza nate dalla rivoluzione francese, l'eredità stessa della scienza moderna nata con Copernico, Galileo, Keplero, Cartesio o Francis Bacon, la forma di produzione capitalistica, la laicizzazione dello stato, il diritto romano o la Common Law, la stessa idea di giustizia che si realizza attraverso la lotta di classe (tipici prodotti dell'Occidente europeo, per non citarne altri), oggi non sono più un patrimonio della sola Europa, visto che si sono affermati, diffusi e sviluppati in America, Australia, e - anche se non ovunque - in molte parti dell'Asia e dell'Africa. A questo punto si può certamente parlare di civiltà occidentale (che tende a identificarsi col modello vincente nel processo di globalizzazione) senza che questo tipo di civiltà contraddistingua l'Europa. Nel contempo, e all'interno stesso della civiltà occidentale, noi avvertiamo sempre più una identità europea. Forse essa non si afferma quando noi europei visitiamo un altro paese europeo, perché in quel caso scatta piuttosto la percezione delle differenze – ma le stesse differenze sono percepite da un milanese che va a Palermo o da un calabrese che arriva a Torino. Essa però si afferma non appena veniamo in contatto con una cultura extra-europea, compresa quella americana: esistono dei momenti, durante un convegno, in una serata passata tra amici di diversi paesi, persino nel corso di una gita turistica, in cui improvvisamente avvertiamo un comune sentire che ci fa percepire come più familiare il punto di vista, il comportamento, i gusti di un francese, di uno spagnolo o di un tedesco che quelli degli altri. Il filosofo e ministro Luce Ferry nel dicembre 2002, aprendo a Parigi un convegno sulla pace, osservava (non era una scoperta, certo, ma lo faceva rilevare in modo assai drammatico) che è ormai inconcepibile per un francese pensare a una possibile guerra contro i tedeschi (e naturalmente a un inglese una guerra contro l'Italia, o a uno spagnolo l'invasione delle Fiandre), mentre proprio questo tipo di conflitti e inimicizie era stata la norma per duemila anni. E' una situazione storicamente nuova, impensabile ancora cinquant'anni fa, che forse non affiora sempre in modo limpido alla nostra coscienza, ma che accompagna ormai ogni nostro gesto, anche da parte dell'europeo meno colto, quando senza rendersene conto attraversa tranquillamente, per andare in vacanza, una frontiera che i suoi padri avevano varcato con un fucile in mano. Infinite sono le ragioni per cui un francese può sentirsi ancora diverso da un tedesco, ma ambedue sono oggi eredi di una serie di esperienze che hanno segnato entrambi e le rispettive nazioni: abbiamo in comune un concetto del benessere raggiunto attraverso lotte sindacali e non grazie all'omeostasi di un'etica individualistica del successo; abbiamo tutti fatto l'esperienza del fallimento del colonialismo e della perdita dei rispettivi imperi; abbiamo tutti subito delle dittature, le abbiamo conosciute, sappiamo riconoscerne i prodromi, ne siamo forse (almeno in gran parte) vaccinati. Abbiamo tutti conosciuto la guerra in casa, la situazione del pericolo continuo, e oso dire che se due aerei si fossero abbattuti su Notre-Dame o sul Big Ben la reazione sarebbe stata ovviamente di spavento, dolore, indignazione, ma non avrebbe avuto i toni della stupefazione e dell'alternarsi di sindrome depressiva e istinto di reazione immediata a tutti i costi che ha colto gli americani, colpiti per la prima volta nella storia a casa loro. Insomma, gli europei hanno molto in comune, gioie e dolori, orgoglio e vergogna, tradizioni da difendere e rimorsi da elaborare. Ciascun paese europeo, a differenza di altri, ha vissuto la propria vicinanza a un'Asia e a un'Africa con la quale ha intrattenuto rapporti volta per volta di scambio o di conflitto, ma da cui non è separato dagli oceani. Tutto questo basta per fare davvero una Europa unita? In effetti non basterebbe, e ne abbiamo le prove ogni giorno, malgrado l'euro e il fatto che tanti paesi vorrebbero entrare a far parte di questa comunità: tutti pare vogliano partecipare a una unione in seno alla quale sono disposti a rinunciare a qualcosa ma non a tutto, e pronti a disegnare nuovi conflitti, vedi le varie posizioni sulla guerra irachena. Sta però di fatto che quella unità che l'Europa non sa trovare dal di dentro ci viene ora imposta dalle evoluzione delle cose. Durante la Guerra Fredda l'Europa, uscita dal secondo conflitto mondiale (e divisa tra Est e Ovest), era costretta a vivere sotto lo scudo di un'altra potenza, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Ciascuna di queste grandi potenze giocava il proprio destino in Europa. 13
Per gli stessi Stati Uniti la Cina avrebbe potuto diventare un avversario temibile solo nel lungo periodo, che intanto però doveva lottare per la propria stabilità interna e si confrontava direttamente non con gli americani bensì con i russi; gli americani potevano sopportare uno stallo in Corea e una sconfitta in Vietnam, ma era in Europa che giocavano la loro partita, ed è in Europa che l'hanno vinta, con il crollo dell'impero sovietico. Poste al centro di questo gioco che le superava, le nazioni europee dovevano modellare la propria politica estera su quella dei due blocchi con cui si identificavano, accettando una difesa militare unificata (Nato o Patto di Varsavia). Il panorama era già cambiato dopo la caduta del muro di Berlino ma i nodi sono venuti al pettine negli ultimi anni, forse da quando si è rilevato il limitato interesse americano per la questione balcanica. Sconfitto il nemico di un cinquantennio, gli Stati Uniti si sono accorti di avere un nuovo nemico dalla definizione territoriale imprecisa ma certamente annidato nel mondo musulmano, medio ed estremo orientale, ed è contro questo che hanno diretto la propria forza militare, da Kabul a Baghdad e forse oltre. Questo nuovo impegno bellico li ha spinti persino a spostare le proprie basi militari e comunque non hanno più avvertito nella Nato un punto d'appoggio sicuro (anche perché si è scoperto che nei confronti del mondo arabo i paesi europei non potevano non avere, per ragioni di storia e di geografia, che un rapporto in parte dissonante con gli interessi americani). Nel frattempo appare chiaro che il grande confronto che gli Stati Uniti si preparano ad affrontare è quello con la Cina. Nulla dice che sarà un confronto bellico, ma lo sarà certamente in termini economici e demografici. Basta visitare una università americana per vedere quanto le borse di studio, i posti di ricerca, le posizioni di leadership studentesca siano sempre più nelle mani di studenti asiatici (considerazioni genetiche a parte, culturalmente molto più preparati dei loro coetanei di radici europee a lavorare diciotto ore al giorno per conquistare posizioni di eccellenza). Lo sviluppo scientifico americano sarà sempre più dovuto all'importazione non di cervelli europei bensì asiatici, dall'India alla Cina e al Giappone. Questo vuole dire che tutta l'attenzione americana si sposterà dall'Atlantico al Pacifico, così come già da anni i grandi centri della produzione e della ricerca si sono trasferiti o sono sorti sulla costa californiana. Nel lungo periodo New York diventerà una Firenze americana, ancora centro della moda e della cultura, e sempre meno luogo delle grandi decisioni. L'America si avvia a essere definitivamente un paese non atlantico ma pacifico, e questo, nei confronti dell'Europa, vuole dire una cosa ben precisa: se i wasp degli anni venti vivevano nel mito di Parigi, i nuovi americani che contano vivranno in stati in cui non arriva neppure il New York Times (grande giornale atlantico), o arriva il giorno dopo e solo in alcuni posti deputati. Vivranno in posti dove sempre più gli americani sapranno pochissimo dell'Europa, e quando lo apprenderanno non riusciranno a comprendere le ragioni di questo continente esotico, molto più lontano e ignoto delle Hawaii e del Giappone. Con un'America che sposta la propria attenzione al Medio Oriente e all'immenso universo del Pacifico, l'Europa potrebbe non contare più. In ogni caso, anche il più appassionato filoamericano dovrà ammettere che gli Stati Uniti non potranno passare le notti insonni per un continente che (per quanto lì stiano le loro radici - ma di quanti americani che si chiamano Perez o Chong Li?) non corre più il rischio di essere sottomesso né dai panzer nazisti né dai cosacchi ansiosi di abbeverare i loro cavalli nelle acquasantiere di San Pietro. Quindi l'Europa, lasciata da sola per forza di cose (per un decreto quasi hegeliano che vuole che le cose vadano come la realtà, che è razionale, comanda) o diventa europea o si sfalda. L'ipotesi dello sfaldamento pare irrealistica, ma vale la pena di delinearla: l'Europa si balcanizza, o si sudamericanizza. Saranno i nuovi poteri mondiali (e magari in un futuro lontano potrebbe essere la Cina in luogo degli Stati Uniti) a giocarsi i piccoli paesi europei secondo le proprie convenienze, a seconda che faccia comodo (per la loro sopravvivenza di poteri mondiali) avere delle basi in Polonia o a Gibilterra, e magari a Helsinki o a Tallin per via delle rotte polari. E quanto più l'Europa sarà divisa e l'euro diventerà meno competitivo sui mercati mondiali, tanto meglio (e non si può rimproverare a una grande potenza mondiale di fare anzitutto i propri interessi). Oppure l'Europa avrà l'energia per proporsi come terzo polo tra gli Stati Uniti e l'Oriente (vedremo se l'Oriente sarà Pechino o, chi sa mai, Tokyo o Singapore). Per proporsi come terzo polo l'Europa ha una sola possibilità. Dopo aver realizzato l'unità doganale e monetaria dovrà avere una propria politica estera unificata e un proprio sistema di difesa - anche minimo, visto che non è tra le possibilità ragionevoli che l'Europa debba invadere la Cina o combattere con gli Stati Uniti - sufficiente a permetterle una politica di difesa e di pronto intervento che la Nato non può ormai assicurare. Potranno i governi europei arrivare a siglare tali accordi? L'appello di Habermas suggerisce che sarebbe impossibile realizzare subito questo fine con una Europa allargata, che comprenda Estonia e Turchia, Polonia e, magari un giorno, Russia. Ma il progetto potrebbe interessare il nucleo dei paesi che hanno dato origine all'Unione Europea. Se da quel nucleo partisse una proposta, a poco a poco altri stati (forse) si allineerebbero. Utopia? Ma, come ragionevolezza insegna, utopia resa indispensabile dal nuovo assetto degli equilibri mondiali. O così o niente. L'Europa, se volete, è condannata, per sopravvivere, a trovare strumenti di politica estera e di difesa comuni. Altrimenti diventa, senza offesa per nessuno, il Guatemala. 14
Questo è il senso del richiamo che alcuni cittadini europei rivolgono ai governi del continente nel quale sono nati e vorrebbero continuare a vivere, fieri della loro appartenenza. IL LUPO E L'AGNELLO - RETORICA DELLA PREVARICAZIONE (Nota: Conferenza tenuta all'Università di Bologna il 20 maggio 2004 per il ciclo «Nel segno della parola" organizzato dal Centro Studi "La permanenza del classico". Una versione leggermente diversa appare in Nel segno della parola, a cura di Ivano Dionigi, Milano: BUR 2005). Non so se valga la pena di dire quello che dirò perché ho la chiara coscienza di rivolgermi a una massa di idioti con il cervello andato in acqua e sono sicuro che non capirete nulla. Vi piace questo inizio? Si tratta di un caso di captatio malevolentiae, e cioè dell'uso di una figura retorica che non esiste e non può esistere, la quale mira a inimicarsi l'uditorio e a mal disporlo verso il parlante. Tra parentesi, credevo di avere inventato io anni fa la captatio malevolentzae per definire il tipico atteggiamento di un amico, ma poi - controllando su Internet - ho visto che ormai esistono molti siti dove la captatio malevolentiae viene citata, e non so se si tratti di disseminazione della mia proposta o di poligenesi letteraria (che si ha quando la stessa idea viene a persone diverse in luoghi diversi e nello stesso tempo). Tutto sarebbe stato diverso se io avessi iniziato in questo modo: "Non so se valga la pena di dirvi quello che vi dirò perché ho la chiara coscienza di parlare a una massa di idioti con il cervello andato in acqua, ma parlo solo per rispetto verso quei due o tre di voi presenti in questa sala che non appartengono alla maggioranza degli imbecilli". Questo sarebbe un caso (sia pure estremo e pericoloso) di captatio benevolentiae, perché ciascuno di voi sarebbe automaticamente persuaso di essere uno di quei due o tre e, pensando con disprezzo a tutti gli altri, mi seguirebbe con affettuosa complicità. La captatio benevolentiae è un artificio retorico che consiste, come ormai avrete capito, nel conquistarsi subito la simpatia dell'interlocutore. Sono forme comuni di captatio l'esordio "è per me un onore parlare a un pubblico così qualificato" ed è captatio consueta (tanto da essersi ribaltata talora nel suo uso ironico) il "come lei m'insegna..." dove, nel ricordare a qualcuno qualcosa che non sa o ha dimenticato, si premette che si ha quasi vergogna a ripeterlo perché evidentemente l'interlocutore è il primo a saperlo. Perché in retorica si insegna la captatio benevolentiae. Come noto, la retorica non è quella cosa talora ritenuta disdicevole, per cui noi usiamo parole inutili o ci prodighiamo in appelli emotivi esagerati e non è neppure, come vuole una lamentevole vulgata, un'arte sofistica - o almeno, i sofisti greci che la praticavano non erano quegli scellerati che ci presenta spesso una cattiva manualistica. Peraltro il grande maestro di una buona arte retorica è stato proprio Aristotele, e Platone nei suoi dialoghi usava artifici retorici raffinatissimi, e li usava proprio per polemizzare contro i sofisti. La retorica è una tecnica della persuasione, e di nuovo la persuasione non è una cosa cattiva, anche se si può persuadere qualcuno con arti riprovevoli a fare qualcosa contro il proprio interesse. Una tecnica della persuasione è stata elaborata e studiata perché su pochissime cose si può convincere l'uditore attraverso ragionamenti apodittici. Una volta stabilito che cosa siano un angolo, un lato, un'area, un triangolo, nessuno può mettere in dubbio la dimostrazione del teorema di Pitagora. Ma, per la maggior parte delle cose della vita quotidiana, si discute intorno a cose circa le quali si possono avere diverse opinioni. La retorica antica si distingueva in giudiziaria (e in tribunale è discutibile se un dato indizio sia probante o meno), deliberativa (che è quella dei parlamenti e delle assemblee, in cui si dibatte per esempio se sia giusto costruire la variante di valico, rifare l'ascensore del condominio, votare per Tizio piuttosto che per Caio) ed epidittica, e cioè in lode o in biasimo di qualcosa, e tutti siamo d'accordo che non esistono leggi matematiche per stabilire se sia stato più affascinante Gary Cooper o Humphrey Bogart, se lavino più bianco l'Omo o il Dash, se Irene Pivetti appaia più femminile di Platinette. Siccome per la maggior parte dei dibattiti di questo mondo si argomenta intorno a questioni che sono oggetto di discussione, la tecnica retorica insegna a trovare le opinioni sulle quali concorda la maggior parte degli uditori, a elaborare dei ragionamenti che siano difficilmente contestabili, a usare il linguaggio più appropriato per convincere della bontà della propria proposta, e anche a suscitare nell'uditorio le emozioni appropriate al trionfo della nostra argomentazione, compresa la captatio benevolentiae. Naturalmente ci sono dei discorsi persuasivi che possono essere facilmente smontati in base a discorsi più persuasivi ancora, mostrando i limiti di un'argomentazione. Voi tutti (captatio) conoscete forse quella pubblicità immaginaria che dice "mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliarsi", e che viene usata talora per contestare che le maggioranze abbiano sempre ragione. L'argomento può essere confutato chiedendo se le mosche prediligano lo sterco animale per ragioni di gusto o per ragioni di necessità. Si domanderà allora se, cospargendo campi e strade di caviale e miele, le mosche non sarebbero forse maggiormente attirate da queste sostanze, e si ricorderà che la premessa "tutti quelli che mangiano qualcosa è perché lo amano" è contraddetta da infiniti casi in cui 15
le persone sono costrette a mangiare cose che non amano, come avviene nelle carceri, negli ospedali, nell'esercito, durante le carestie e gli assedi, e nel corso di cure dietetiche. Ma a questo punto è chiaro perché la captatio malevolentiae non può essere un artificio retorico. La retorica tende a ottenere consenso, e quindi non può apprezzare esordi che scatenino immediatamente il dissenso. Pertanto è tecnica che non può che fiorire in società libere e democratiche, compresa quella democrazia certamente imperfetta che caratterizzava l'Atene antica. Se io posso imporre qualcosa con la forza, non ho bisogno di richiedere il consenso: rapinatori, stupratori, saccheggiatori, kapò di Auschwitz non hanno mai avuto bisogno di usare tecniche retoriche. Sarebbe allora facile stabilire una linea di confine: ci sono culture e paesi in cui il potere si regge sul consenso, e in essi si usano tecniche di persuasione, e ci sono paesi dispotici dove vale solo la legge della forza e della prevaricazione, e in cui non è necessario persuadere nessuno. Ma le cose non sono così semplici, ed ecco perché qui parleremo della retorica della prevaricazione. Se, come dice il dizionario, prevaricare significa "abusare del proprio potere per trarne vantaggi contro l'interesse della vittima", e "agire contrariamente all'onestà trasgredendo i limiti del lecito", sovente chi prevarica, sapendo di prevaricare, vuole in qualche modo legittimare il proprio gesto e persino - come avviene nei regimi dittatoriali ottenere consenso da parte di chi soffre la prevaricazione, o trovare qualcuno che sia disposto a giustificarla. Pertanto si può prevaricare e usare argomenti retorici per giustificare il proprio abuso di potere. Uno degli esempi classici di pseudo-retorica della prevaricazione ci è dato dalla favola del lupo e dell'agnello di Fedro: Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, erano giunti allo stesso ruscello. Più in alto si fermò il lupo, molto più in basso si mise l'agnello. Allora quel furfante, spinto dalla sua sfrenata golosità, cercò un pretesto di litigio. - Perché - disse - intorbidi l'acqua che sto bevendo? Pieno di timore, l'agnello rispose: - Scusa, come posso fare ciò? Io bevo l'acqua che passa prima da te. Come si vede l'agnello non manca di astuzia retorica e di fronte a un'argomentazione debole del lupo, sa come confutarla, e proprio in base all'opinione compartecipata dalle persone di buon senso per cui l'acqua trascina detriti e impurità da monte a valle e non da valle a monte. Di fronte alla confutazione dell'agnello, il lupo ricorre ad altro argomento: E quello, sconfitto dall'evidenza del fatto, disse: - Sei mesi fa hai parlato male di me. E l'agnello ribatté: - Ma se ancora non ero nato! Altra bella mossa da parte dell'agnello, a cui il lupo risponde cambiando ancora giustificazione: - Per Ercole, fu tuo padre, a parlar male di me - disse il lupo. E subito gli saltò addosso e lo sbranò fino a ucciderlo ingiustamente. Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesi. La favola ci dice due cose. Che chi prevarica cerca anzitutto di legittimarsi. Se la legittimazione viene confutata, oppone alla retorica il non-argomento della forza. La favola non racconta qualcosa d'irreale. Nel seguito di questo mio intervento cercherò di individuare tecniche attraverso le quali tale situazione si ripropone nel corso della storia, sia pure in forme più raffinate. Naturalmente la favola di Fedro ci offre una caricatura del prevaricatore in quanto retore, perché il povero lupo usa solo argomenti deboli, ma al tempo stesso ci offre un'immagine forte del prevaricatore forte. La falsità degli argomenti del lupo sta sotto gli occhi di tutti, però talora gli argomenti sono più sottili perché sembrano prendere come punto di partenza un'opinione compartecipata dai più, ciò che la retorica greca chiamava endoxa, e su quelli lavora, nascondendo la tecnica della petitio principii, in base alla quale si usa come argomento probante la tesi che si doveva dimostrare, oppure si confuta un argomento usando come prova ciò che l'argomento voleva confutare. Leggiamo questo brano: Di quando in quando i giornali illustrati mettono sotto gli occhi del piccolo borghese (...) una notizia: qua o là, per la prima volta, che un Negro è diventato avvocato, professore, o pastore o alcunché di simile. Mentre la sciocca borghesia prende notizia con stupore d'un così prodigioso addestramento, piena di rispetto per questo favoloso risultato della pedagogia moderna, l'ebreo, molto scaltro, sa costruire con ciò una nuova prova della giustezza della teoria, da inocularsi ai popoli, della eguaglianza degli uomini. Il nostro decadente mondo borghese non sospetta che qui in verità si commette un peccato contro la ragione, che è una colpevole follia quella di ammaestrare una mezza scimmia in modo che si creda di averne fatto un avvocato, mentre milioni di appartenenti alla più alta razza civile debbono restare in posti incivili e indegni. Si pecca contro la volontà dell'Eterno Creatore lasciando languire nell'odierno pantano proletario centinaia e centinaia delle sue più 16
nobili creature per addestrare a professioni intellettuali ottentotti, cafri e zulù. Perché qui si tratta proprio d'un addestramento, come nel caso del cane, e non di un «perfezionamento" scientifico. La stessa diligenza e fatica, impiegata su razze intelligenti, renderebbe gli individui mille volte più capaci di simili prestazioni. (...) Sì, è insopportabile il pensiero che ogni anno centomila individui privi d'ogni talento siano ritenuti degni d'un'educazione elevata, mentre altre centinaia di migliaia, dotati di belle qualità, restano prive d'istruzione superiore. Inapprezzabile è la perdita che così soffre la nazione. Di chi è questo brano? Di Bossi? Di Borghezio? Di un ministro del nostro governo? L'ipotesi non sarebbe inverosimile, ma il brano è di Adolf Hitler, da Mein Kampf. Hitler, per preparare la sua campagna razzista, si trova a dover confutare un argomento molto forte contro l'inferiorità di alcune razze, e cioè che, se un africano viene messo in condizioni di imparare, si rivela altrettanto ricettivo e capace di un europeo, dimostrando così che non appartiene a una razza inferiore. Come confuta Hitler questo argomento? Dicendo che, siccome non è possibile che un essere inferiore impari, evidentemente è stato sottoposto ad addestramento meccanico come avviene con gli animali da circo. Pertanto l'argomento, che tendeva a dimostrare che i neri non erano animali, viene confutato ricorrendo all'opinione, che certamente i suoi lettori radicatamente condividevano, che i neri siano animali. Ma torniamo al nostro lupo. Esso, per divorare l'agnello, cerca un casus belli, cerca cioè di convincere l'agnello, o gli astanti, e forse persino se stesso, che egli mangia l'agnello perché gli ha fatto un torto. Questa è la seconda forma di una retorica della prevaricazione. La storia dei casus belli nel corso della Storia mette, infatti, in scena dei lupi un poco più avveduti. Tipico è il casus belli che ha dato origine alla Prima guerra mondiale. Nell'Europa del 1914 esistevano tutti presupposti per una guerra: anzitutto una forte concorrenza economica fra le potenze più forti: il progresso dell'impero tedesco sui grandi mercati inquietava la Gran Bretagna, la Francia vedeva con preoccupazione la penetrazione tedesca nelle colonie africane, la Germania soffriva di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali, la Russia si eleggeva a protettrice dei paesi balcanici e Si confrontava con 1 impero austro-ungarico. Di qui la corsa agli armamenti, i moti nazionalistici e interventisti nei singoli paesi. Ciascun paese aveva interesse a fare una guerra ma nessuna di queste premesse la giustificava. Siccome chiunque l'avesse dichiarata sarebbe sembrato interessato a difendere interessi nazionali e a prevalere sugli interessi delle altre nazioni, ci voleva un pretesto. Ed ecco che, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco uccide in un attentato l'arciduca ereditario d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e la consorte. E' ovvio che il gesto di un fanatico non coinvolge un intero paese, ma l'Austria coglie la palla al balzo. D'accordo con la Germania, attribuisce al governo serbo la responsabilità dell'eccidio, e indirizza a Belgrado il 23 luglio un duro ultimatum alla Serbia, ritenuta responsabile di un piano antiaustriaco. La Russia assicura subito il proprio sostegno alla Serbia, la quale risponde all'ultimatum in modo abbastanza conciliante ma bandisce al tempo stesso la mobilitazione generale. A questo punto l'Austria dichiara guerra alla Serbia, senza attendere una proposta di mediazione presentata dall'Inghilterra. In breve tempo tutti gli stati europei entrano in guerra. Per fortuna c'è stata la Seconda guerra mondiale coi suoi cinquanta milioni di morti, altrimenti la Prima avrebbe avuto il primato tra tutte le tragiche follie della Storia. L'Austria, paese civile e illuminato, aveva cercato un pretesto forte. Alla fin fine era stato ucciso il principe ereditario e di fronte a un fatto così evidente bastava inferirne che il gesto di Prinzip non era stato isolato ma era stato ispirato dal governo serbo. Argomento indimostrabile, ma dotato di una certa presa emotiva. E questo ci porta a un'altra forma di giustificazione della prevaricazione, il ricorso alla sindrome del complotto. Uno dei primi argomenti che si usano per scatenare una guerra o dare inizio a una persecuzione è l'idea che si debba reagire a un complotto ordito contro di noi, il nostro gruppo, il nostro paese, la nostra civiltà. n caso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il libello che è servito da giustificazione allo sterminio degli ebrei, è un tipico caso di sindrome del complotto. Ma la sindrome del complotto è ben più antica. Ascoltiamo Karl Popper a proposito di quella che definisce Teoria sociale della cospirazione: ... detta teoria, più primitiva di molte forme di teismo, è simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dèi in modo che tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell'Olimpo. La teoria sociale della cospirazione è in effetti una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in divinità i cui capricci o voleri reggono ogni cosa. Essa è una conseguenza del venir meno del riferimento a dio, e della conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?". Quest'ultimo è ora occupato da diversi uomini e gruppi potenti- sinistri gruppi di pressione, cui si può imputare di avere organizzato la Grande Depressione e tutti i mali di cui soffriamo. La teoria sociale della cospirazione è molto diffusa, e contiene molto poco di vero. Soltanto quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali. Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Savi Anziani di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione. 17
(Nota: "Per una teoria razionale della tradizione". In Congetture e confutazioni: lo sviluppo della conoscenza scientifica. Bologna: il Mulino 1972). In genere le dittature, per mantenere il consenso popolare intorno alle loro decisioni, denunciano l'esistenza di un paese, un gruppo, una razza, una società segreta che cospirerebbe contro l'integrità del popolo dominato dal dittatore. Ogni forma di populismo, anche contemporaneo, cerca di ottenere il consenso parlando di una minaccia che viene dall'esterno, o da gruppi interni. Ma chi ha saputo creare sui propri casus belli un efficace contorno di teoria del complotto non è stato solo Hitler, che sul complotto giudaico ha fondato non solo il massacro degli ebrei ma anche tutta la sua politica di conquista contro quelle che la stampa italiana chiamava le plutocrazie demogiudaiche. Un abile miscelatore di casus belli e teoria del complotto è stato Mussolini. Prendiamo come ottimo esempio il discorso dell'ottobre 1935 nel quale il Duce annunciava l'inizio della conquista dell'Etiopia. L'Italia, poco dopo l'unificazione, aveva cercato di emulare gli altri stati europei procurandosi delle colonie. Non giudichiamo la bontà di questa pretesa, che nel 19esimo secolo non era messa in discussione, dato che vigeva l'ideologia del fardello civilizzatore dell'uomo bianco, come aveva detto Kipling. Diciamo che, essendosi stanziata in Somalia ed Eritrea, l'Italia aveva a più riprese cercato di sottomettere l'Etiopia, ma si era scontrata con un paese di antichissima civiltà cristiana, che un tempo era stato identificato dagli europei con il favoloso impero del prete Gianni, e che, a modo proprio, cercava di aprirsi alla civiltà occidentale. Nel 1895 gli italiani avevano subito la sconfitta di Adua, e da allora l'Italia era stata costretta a riconoscere l'indipendenza dell'Abissinia esercitandovi una sorta di protettorato e conservando alcune teste di ponte nel suo territorio. Ma ai tempi del fascismo già Ras Tafari aveva cercato di fare evolvere il suo paese da una situazione ancora feudale verso forme più moderne e in seguito Hailé Selassié aveva compreso che l'unica possibilità di salvare l'ultimo stato sovrano d'Africa era la modernizzazione. Naturalmente il Negus, per contrastare la penetrazione di tecnici italiani, aveva chiamato nel paese tecnici e consiglieri da Francia, Inghilterra, Belgio e Svezia, per il riordinamento dell'esercito, per l'addestramento all'uso delle nuove armi e dell'aviazione. Per il fascismo non si trattava di civilizzare un paese che già stava faticosamente percorrendo le vie dell'occidentalizzazione parziale (e, ripeto, non vi era neppure il pretesto religioso che potesse opporre la missione civilizzatrice di un paese cristiano a una cultura di idolatri): si trattava semplicemente di difendere degli interessi economici Pertanto la decisione di invadere l'Etiopia non poteva che nascere, anche qui, da un casus belli. Esso era stato dato dal controllo della zona di Ual-Ual, fortificata dagli italiani per controllare una ventina di pozzi, risorsa essenziale per le popolazioni nomadi dell'Ogaden. Il possesso della zona non era riconosciuto dall'Etiopia e preoccupava l'Inghilterra che aveva colonie confinanti. In breve, succede un incidente: il 24 novembre 1934 una commissione mista anglo-etiopica si avvicina ai pozzi, accompagnata da centinaia di abissini armati, che pretendono l'abbandono della postazione. Intervengono altre forze italiane, compresa l'aviazione. Gli inglesi esprimono una protesta e se ne vanno, rimangono gli abissini, scoppia uno scontro. Trecento morti fra gli abissini, muoiono ventuno dubat, truppe coloniali italiane, e si contano un centinaio di feriti fra i nostri. Come tanti scontri di frontiera anche questo avrebbe potuto risolversi per vie diplomatiche (in fondo il rapporto Italia-Abissinia era stato, in termini di morti, di quattordici a uno), ma per Mussolini era il pretesto che cercava da tempo. Vediamo con quale retorica egli si legittimi di fronte al popolo italiano e al mondo nel suo discorso del 2 ottobre 1935, dal balcone di Palazzo Venezia: Camicie Nere della Rivoluzione! Uomini donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari ascoltate! Un'ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. Da molti mesi la ruota del destino, sotto l'impulso della nostra calma determinazione, si muove verso la mèta... Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po' di posto al sole. Quando nel 1915 l'ltalia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la Vittoria comune, alla quale l'ltalia aveva dato il contributo supremo di 670.000 morti, 400.000 mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della pace esosa non toccarono all'ltalia che scarse briciole del ricco bottino coloniale. Abbiamo pazientato tredici anni durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l'Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta! (...) Ma sia detto ancora una volta, nella maniera più categorica e io ne prendo in questo momento impegno sacro davanti a voi che noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo. (...) Mai come in questa epoca storica il Popolo italiano ha rivelato le qualità del suo spirito e la potenza del suo carattere. Ed è contro questo Popolo al quale l'umanità deve talune delle sue più grandi conquiste, ed è contro questo 18
Popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigratori, è contro questo Popolo che si osa parlare di sanzioni! Rileggiamo i punti salienti di questo discorso (in cui i neretti sono miei). Anzitutto una legittimazione per volontà popolare. Mussolini sta decidendo per conto proprio ma la presenza, presunta, di venti milioni di italiani adunati nelle varie piazze sposta su di essi la decisione del conflitto. In secondo luogo la decisione avviene perché così vuole la ruota del destino. Il Duce, e gli italiani con lui, fanno quello che fanno perché interpretano i decreti del Fato. In terzo luogo la volontà di impossessarsi della colonia etiopica viene presentata come la volontà di opporsi a un furto: essi vogliono toglierci un po' di posto al sole. In verità essi (e cioè i paesi europei che avevano dichiarato le sanzioni contro l'Italia) volevano che essa non prendesse qualcosa che non era suo. Lasciamo perdere la domanda circa gli interessi nazionali che gli altri paesi perseguivano nell'opporsi all'invasione italiana. Sta di fatto che non volevano toglierci una nostra proprietà, si opponevano a che rubassimo quella altrui. Ma ecco che emerge l'appello alla sindrome del complotto. L'Italia proletaria è affamata dalla cospirazione delle potenze demopluto-giudaiche, ispirate naturalmente dal capitalismo ebraico. Infatti segue un appello alla frustrazione nazionalistica, con la ripresa del tema della vittoria mutilata. Noi abbiamo vinto una guerra mondiale e non abbiamo avuto quello a cui avevamo diritto. Di fatto avevamo esplicitamente fatto la guerra per riprenderci Trento e Trieste e le avevamo avute. Ma glissons. E solo con l'appello a una frustrazione comune (la sindrome del complotto prevede sempre un complesso di persecuzione) che si rende emotivamente necessario e comprensibile il colpo di scena finale: con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni e ora basta. Ci si potrebbe chiedere se anche l'Etiopia non avesse pazientato con noi, visto che noi andavamo a casa sua mentre essa non aveva né l'idea né la possibilità di venire a casa nostra. Ma tant'è, il colpo di scena funziona, la folla esplode in boati di soddisfazione. In conclusione - e questa è una mossa retorica originale - la captatio benevolentiae non appare all'inizio ma alla fine. Questo popolo perseguitato e disprezzato la cui volontà deve legittimare l'invasione ha delle qualità di spirito e potenza di carattere, ed è per eccellenza popolo di poeti, artisti, eroi, santi e navigatori. Come se Shakespeare, i costruttori delle cattedrali gotiche, Giovanna d'Arco e Magellano fossero nati tutti tra Bergamo e Trapani. Mussolini e Hitler non sono stati gli ultimi ad avvantaggiarsi della sindrome del complotto. So che tutti in questo momento state pensando a Berlusconi, che della teoria rimane però un pallido ripetitore. Ben più preoccupante è la ripresa dei Protocolli e del complotto giudaico per giustificare il terrorismo arabo. Per non intristirvi, citerò un'ennesima variazione della teoria, che apprendo da un articolo di Massimo Introvigne, studioso di sette di ogni genere, del gennaio scorso (Il Giornale, 17 gennaio 2004), "I Pokémon? Sono un complotto giudaico-massonico". Pare dunque che il governo dell'Arabia Saudita avesse vietato i Pokémon nel 2001. Ora una lunga fatwa dello shaykh Yusuf al-Qaradawi, del dicembre 2003 ci dà le motivazioni della sentenza saudita del 2001. Esiliato da Nasser negli anni settanta, al-Qaradawi vive in Qatar dove è considerato il più autorevole dei predicatori che parlano dalla rete televisiva al-Jazeera. Non solo: nel mondo cattolico ai massimi livelli molti lo considerano un interlocutore indispensabile nel dialogo con l'Islam. Ora questa autorità religiosa afferma che i Pokémon vanno condannati perché "si evolvono", e cioè in determinate condizioni si trasformano in un personaggio con maggiori poteri. Attraverso questo espediente, assicura alQaradawi, "si instilla nelle giovani menti la teoria di Darwin", tanto più che i personaggi lottano "in battaglie dove sopravvive chi si adatta meglio all'ambiente: un altro dei dogmi di Darwin". Inoltre, il Corano vieta la rappresentazione di animali immaginari. I Pokémon sono anche protagonisti di un gioco di carte, e questi giochi sono vietati dalla legge islamica come "residuati della barbarie pre-islamica". Ma nei Pokémon si vedono anche "simboli il cui significato è ben noto a chi li diffonde, come la stella a sei punte, un emblema che ha a che fare con i sionisti e con i massoni e che è diventato il simbolo del canceroso e usurpatore Stato di Israele. Ci sono anche altri segni, come i triangoli, che fanno chiaro riferimento ai massoni, e simboli dell'ateismo e della religione giapponese". Questi simboli non possono che traviare i bambini musulmani, ed è questo il loro scopo. E' perfino possibile che certe frasi giapponesi dette velocemente nei cartoni animati significhino "Sono un ebreo" o "Diventa ebreo": ma la questione è "controversa" e al-Qaradawi non lo afferma con sicurezza. In ogni caso, per i fanatici il complotto e la cospirazione dell'Altro si annidano dappertutto. Nel caso della Prima guerra mondiale e dell'invasione dell'Etiopia, il casus belli esisteva, sia pure magnificato ad arte. Ci sono invece casi in cui viene creato ex novo. Io non voglio partecipare – per rispetto delle diverse opinioni dei miei ascoltatori - alla discussione in corso sul fatto se Saddam avesse davvero le armi di distruzione di massa che hanno giustificato l'attacco all'Iraq. Mi rifaccio piuttosto ad alcuni testi di quei gruppi di pressione americani detti neoconservatori (neocons), i quali sostengono, non senza ragioni, che gli Stati Uniti, essendo il paese democratico più potente del mondo, ha non solo il diritto ma anche il dovere di intervenire per garantire quella che comunemente viene detta la pax americana Ora, nei vari documenti elaborati dai neoconservatori si era da tempo fatta strada l'idea che gli Stati Uniti avevano dato prova di debolezza non portando a termine, ai tempi della prima guerra del Golfo, l'occupazione di tutto l'Iraq e 19
la deposizione di Saddam e specialmente dopo la tragedia dell'undici settembre, si sosteneva che l'unico modo per tenere a freno il fondamentalismo arabo fosse dare una prova di forza dimostrando che la più grande potenza del mondo era in grado di distruggere i suoi nemici. Pertanto si rendevano indispensabili l'occupazione dell'Iraq e la deposizione di Saddam, non solo per difendere gli interessi petroliferi americani in quella zona, ma per dare un esempio di forza e di temibilità. Non intendo discutere questa tesi, che ha anche delle ragioni di Realpolitik. Ma ecco la lettera inviata al presidente Clinton il 26 gennaio 1998 dai massimi esponenti del Project for the New American Century, punta di diamante dei neocons, e firmata tra gli altri da Francis Fukuyama, Robert Kagan e Donald Rumsfeld: Non possiamo più contare sui nostri alleati per continuare a far rispettare le sanzioni o per punire Saddam quando blocca o evade le ispezioni delle Nazioni Unite. Pertanto la nostra capacità di assicurare che Saddam Hussein non stia producendo armi di distruzione di massa è notevolmente diminuita. Anche se dovessimo ricominciare le ispezioni... l'esperienza ha dimostrato che è difficile se non impossibile tenere sotto controllo la produzione irachena di armi chimiche e batteriologiche. Poichè gli ispettori non sono stati in grado di accedere a molti impianti iracheni per un lungo periodo di tempo, è ancora più improbabile che riusciranno a scoprire tutti i segreti di Saddam... L'unica strategia accettabile è quella di eliminare la possibilità che l'Iraq diventi capace di usare o minacciare. Nel breve periodo questo richiede la disponibilità a intraprendere una campagna militare... Nel lungo periodo significa destituire Saddam Hussein e il suo regime. Crediamo che gli Stati Uniti siano autorizzati, all'interno delle esistenti risoluzioni dell'Onu, a compiere i passi necessari, anche in campo militare, per proteggere i nostri interessi vitali nel Golfo. Il testo mi pare inequivocabile. Esso dice in sintesi: "per proteggere i nostri interessi nel Golfo dobbiamo intervenire; per intervenire bisognerebbe poter provare che Saddam ha armi di distruzione di massa; questo non potrà mai essere provato con sicurezza; quindi interveniamo in ogni modo". La lettera non dice che le prove debbono essere inventate, perché i firmatari sono uomini d'onore. Come si vede questa lettera, ricevuta da Clinton nel 1998, non ha avuto nessuna influenza diretta sulla politica americana. Ma alcuni degli stessi firmatari scrivevano il 20 settembre 2001 al presidente Bush, e quando ormai uno dei firmatari della prima lettera era diventato ministro della difesa: E' possibile che il governo iracheno abbia fornito qualche forma di assistenza ai recenti attacchi contro gli Stati Uniti. Ma anche se non ci fossero prove che leghino direttamente l'lraq all'attacco, qualunque strategia mirata a sradicare il terrorismo e i suoi sostenitori deve includere un impegno determinato a destituire Saddam Hussein. Due anni dopo, è stato usato il duplice pretesto delle armi e dell'assistenza al fondamentalismo musulmano, con la chiara consapevolezza che, anche se le armi c'erano, la loro esistenza non era provabile, e che il regime dittatoriale di Saddam era laico e non fondamentalista. Ancora una volta, ripeto, non sono qui a giudicare la saggezza politica di questa guerra, ma ad analizzare forme di legittimazione di un atto di forza. Sinora abbiamo esaminato alcuni casi in cui la prevaricazione cerca una giustificazione puntuale, un casus belli, appunto. Ma l'ultimo passaggio del discorso mussoliniano cela un altro argomento, di antica tradizione, che potremmo così sintetizzare: "noi abbiamo il diritto di prevaricare perché siamo i migliori". Nella sua retorica da autodidatta Mussolini non poteva che ricorrere all'affermazione piuttosto kitsch che gli italiani erano popolo di poeti, santi e navigatori. Avrebbe avuto un ben più alto modello, ma non poteva farvi ricorso, perché rappresentava una lode dell'odiata democrazia. Il modello era il discorso di Pericle quando stava per iniziare la guerra del Peloponneso (riportato da Tucidide, La guerra del Peloponneso, II 60-4). Questo discorso è ed è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri cittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell'educazione, la tensione verso l'uguaglianza. Abbiamo una forma di governo che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d'esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell'amministrazione dello Stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale... E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne è impedito dall'oscurità del suo rango... Senza danneggiarci reciprocamente esercitiamo i rapporti privati e nellavita pubblica la reverenza soprattutto ci 20
impedisce di violare le leggi in obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle istituzioni poste a tutela di chi subisce ingiustizia, e in particolare a quelle che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta... E abbiamo dato al nostro spirito moltissimo sollievo dalle fatiche, istituendo abitualmente giochi e feste per tutto l'anno, e avendo belle suppellettili nelle nostre case private, dalle quali giornalmente deriva il diletto con cui scacciamo il dolore. E per la sua grandezza, alla città giunge ogni genere di prodotti da ogni terra, e avviene che noi godiamo dei beni degli altri uomini con non minor piacere che dei beni di qui. (...) Amiamo il bello, ma con compostezza, e ci dedichiamo al sapere ma senza debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la possibilità di agire, che essa offre, che per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Ma a cosa mira questo elogio della democrazia ateniese, idealizzata al massimo? A legittimare l'egemonia ateniese sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle dipinge in colori affascinanti il modo di vita di Atene per legittimare il diritto di Atene a imporre la propria egemonia. Se i nostri antenati sono degni di lode, ancora di più lo sono i nostri padri: non senza fatica aggiunsero quel dominio che ora è nostro a quello che era stato lasciato loro, e così grande lo lasciarono a noi. Ma l'ampliamento del dominio stesso è opera nostra, di tutti quanti noi che ci troviamo nell'età matura e che abbiamo ingrandito la nostra città, sì da renderla preparata da ogni punto di vista e autosufficiente per la pace e per la guerra. (...) Nelle esercitazioni della guerra noi differiamo dai nemici per i seguenti motivi. Offriamo la nostra città in comune a tutti, né avviene che qualche volta con la cacciata degli stranieri noi impediamo a qualcuno di imparare o di vedere qualcosa (mentre un nemico che potesse vedere una certa cosa, quando non fosse nascosta, ne trarrebbe un vantaggio). Ché la nostra fiducia è posta più nell'audacia che mostriamo verso l'azione (audacia che deriva da noi stessi), che nei preparativi di difesa e negli inganni. E nell'educazione, gli altri subito fin da fanciulli cercano con fatiche ed esercizi di raggiungere un carattere virile, mentre noi, pur vivendo con larghezza, non per questo ci rifiutiamo di affrontare quei pericoli in cui i nostri nemici sono alla nostra altezza. Eccone la prova: neppure i Lacedemoni invadono la nostra terra da soli, ma insieme a tutti gli alleati, e quando noi assaliamo da soli i nostri vicini, di solito non duriamo fatica a vincere in una terra straniera, combattendo con della gente che difende i propri beni. Le nostre forze unite per ora nessun nemico le ha incontrate, perché noi siamo occupati con la flotta, e contemporaneamente per terra facciamo numerosi invii di truppe nostre, in molte imprese. Se si scontrano con una piccola parte di noi e la vincono, si gloriano di averci respinti tutti, mentre se sono vinti si vantano di esserlo stati da tutti noi. Eppure, se noi siamo disposti ad affrontare pericoli più col prendere le cose facilmente che con un esercizio fondato sulla fatica, e con un coraggio generato in noi non più dalle leggi che dal nostro modo di agire, da questo fatto ci deriva il vantaggio di non affaticarci anticipando i dolori che ci attendono, e di non apparire, quando li affrontiamo, più timidi di coloro che sempre si mettono a dura prova, e per la nostra città il vantaggio di esser degna di ammirazione per questa e per altre cose. Questa è un'altra figura, e forse la più avveduta, della retorica della prevaricazione: noi abbiamo il diritto di imporre la nostra forza sugli altri perché incarniamo la forma migliore di governo che esista. Ma lo stesso Tucidide ci offre un'altra ed estrema figura della retorica della prevaricazione, la quale non consiste più nel trovare pretesti e casus belli, ma direttamente nell'affermare la necessità e l'inevitabilità della prevaricazione. Nel corso del loro conflitto con Sparta gli ateniesi fanno una spedizione contro l'isola di Melo, colonia spartana che era rimasta neutrale. La città era piccola, non aveva dichiarato guerra ad Atene, né si era alleata con i suoi avversari. Bisognava dunque giustificare quell'attacco, e prima di tutto mostrare che i meli non accettavano i principi della ragionevolezza e del realismo politico. Pertanto gli ateniesi mandano una delegazione ai meli e li avvertono che non li distruggeranno se essi si sottometteranno. I meli rifiutano, per orgoglio e senso della giustizia (oggi diremmo: del diritto internazionale) e nel 416 a. C, dopo un lungo assedio, l'isola viene conquistata. Come scrive Tucidide, "gli ateniesi uccisero tutti i maschi adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e le donne" E' Tucidide stesso (ne La guerra del Peloponneso) a ricostruirci il dialogo tra ateniesi e meli, che ha preceduto l'attacco finale. Riprendiamone i punti fondamentali. Gli ateniesi dicono che non faranno un discorso lungo, comunque poco convincente, sostenendo che è giusto per loro esercitare la loro egemonia perché hanno sconfitto i persiani, oppure dicendo che ora esercitano un diritto di rappresaglia perché i meli hanno fatto torto agli ateniesi Rifiutano il principio del casus belli, non si comportano inabilmente come il lupo di Fedro. Semplicemente invitano i meli a trattare partendo dalle vere intenzioni di ciascuno, perché i principi di giustizia sono tenuti in considerazione solo quando 21
un'eguale forza vincola le parti, altrimenti "i potenti fanno quanto è possibile e i deboli si adeguano". Si noti che in effetti, così dicendo gli ateniesi affermano, negandolo, che così fanno proprio perché le loro vittorie sugli spartani hanno loro assicurato il diritto di dominare sulla Grecia, e perché i meli sono coloni dei loro avversari. Ma di fatto, e con straordinaria lucidità - vorrei dire onestà, ma forse l'onestà è di Tucidide che ricostruisce il dialogo - spiegano che faranno quel che faranno perché il potere è legittimato solo dalla forza... I meli, visto che non riescono ad appellarsi a criteri di giustizia, rispondono seguendo la logica stessa dell'avversario, e si rifanno a criteri di utilità, cercando di persuadere gli invasori che, se poi Atene dovesse essere sconfitta nella guerra contro gli spartani, rischierebbe di sopportare la dura vendetta delle città ingiustamente attaccate come Melo. Rispondono gli ateniesi: "Lasciate a noi di correre questo rischio; piuttosto vi mostreremo che siamo qui per sostenere il nostro dominio e che ora faremo le nostre proposte per la salvezza della vostra città, perché vogliamo dominarvi senza fatiche e conservarvi sani e salvi nel vostro e nel nostro interesse" Dicono i meli: "E come potrebbe essere utile per noi essere schiavi, come è utile per voi dominare?". E gli ateniesi: "Perché voi invece di subire le estreme conseguenze diventereste sudditi, e noi ci guadagneremmo a non distruggervi...". Chiedono i meli: "E se restassimo fuori, senza essere alleati di nessuna delle due parti?". Ribattono gli ateniesi: "No, perché la vostra ostilità non ci danneggia quanto la vostra amicizia. La vostra amicizia sarebbe prova di una nostra debolezza, mentre il vostro odio lo è della nostra forza". In altri termini dicono: scusate tanto, ma ci conviene più sottomettervi che lasciarvi vivere, così saremo temuti da tutti. I meli dicono che non pensano di poter resistere alla loro potenza ma che malgrado tutto hanno fiducia di non soccombere perché, devoti degli dèi, si oppongono all'ingiustizia. "Gli dèi? (rispondono gli ateniesi) Con le nostre richieste o con le nostre azioni non facciamo assolutamente nulla che contrasti con la credenza degli uomini nella divinità... Siamo convinti che tanto l'uomo quanto la divinità, dovunque hanno potere, lo esercitano, per un insopprimibile impulso della natura. E non siamo noi che abbiamo imposto questa legge, né siamo stati i primi ad applicarla quando già esisteva. Essa esisteva quando noi l'abbiamo ereditata ed esisterà in eterno. Anche voi, come altri, agireste esattamente come noi, se aveste la nostra stessa potenza." E' lecito sospettare che Tucidide, pur rappresentando con onestà intellettuale il conflitto tra giustizia e forza, alla fine convenga che il realismo politico stia dalla parte degli ateniesi. In ogni caso ha messo in scena l'unica vera retorica della prevaricazione, che non cerca giustificazioni fuori di sé. La persuasione si identifica con la captatio malevolentiae: "nanerottolo, o mangi questa minestra o salti quella finestra". La Storia non sarà altro che una lunga, fedele e puntigliosa imitazione di questo modello, anche se non tutti i prevaricatori avranno la lucidità e l'indubbia sincerità dei buoni ateniesi. NORBERTO BOBBIO: LA MISSIONE DEL DOTTO RIVISITATA (Nota: Versione ridotta di una conferenza tenuta a Torino il settembre 2004 nell'ambito di una serie dedicata a Norberto Bobbio). L'aver scelto per il titolo un richiamo fichtiano (Bestimmung des Gelehrten) mi pone immediatamente in difficoltà. Anzitutto negli scritti di Bobbio a cui mi riferirò (tutti raccolti in Politica e cultura), (Nota: Torino: Einaudi 1955. Le citazioni che seguono sono dalla nuova edizione 2005). I protagonisti o l'oggetto del dibattito sono gli uomini di cultura, che è qualifica più generica di quella troppo impegnativa di dotto o Gelehrte. In secondo luogo le polemiche di Bobbio si svolgevano in quegli anni cinquanta in cui oggetto del contendere era piuttosto la figura dell'intellettuale, vuoi impegnato, vuoi organico, vuoi clerc traditore alla Benda, e anche qui la qualifica sembra più generica, coinvolgendo coloro che fanno professione intellettuale in genere, e scrittori o poeti che esiteremmo spesso a definire come dei dotti. Il dotto fichtiano avrebbe potuto essere il sapiente o lo scienziato, ma dobbiamo pure tenere presente che per la filosofia idealistica tedesca l'unica figura di scienziato degna di questo nome era quella del filosofo (tanto che le estreme propaggini dell'idealismo avrebbero poi considerato quelli che per noi oggi sono gli scienziati come semplici manipolatori di pseudo-concetti). Come filosofo, Fichte si rivolge nel 1794 ai suoi studenti, disegnando una figura che evoca, senza crucciarsene, l'infelice avventura politica del Platone anziano: dove il filosofo appare come l'unico che possa disegnare un modello di Stato. Ancora agitato da fremiti che potremmo definire anarchici, Fichte pensa, è vero, che potrebbe venire un momento "in cui tutte le aggregazioni statali saranno superflue", il momento in cui "in luogo della forza o dell'astuzia, la ragione pura sarà riconosciuta universalmente come giudice supremo. Dico sarà riconosciuta, perché anche allora gli uomini potranno ancora errare e danneggiare i loro simili per errore; ma saranno pronti a lasciarsi convincere dell'errore e, appena convinti, a ritrattarsi e a riparare il danno". (Nota: "Sulla missione dell'uomo nella società», in Sulla missione del lotto. Roma: Carabba 1948: p. 52). Ma Fichte sapeva che questo momento non era ancora venuto, e quando riprenderà a parlare di conduzione del corpo sociale penserà in termini di stato etico e non di congregazione libertaria. In assenza di una situazione utopica, 22
ferme restando le divisioni sociali e l'indispensabile divisione del lavoro, Fichte pensava al filosofo come a colui che avrebbe dovuto sorvegliare e favorire il progresso reale dell'umanità. In primo luogo lo scienziato avrebbe avuto l'obbligo di promuovere l'incremento della scienza e in special modo avrebbe dovuto preoccuparsi del progresso di quella branca della scienza di cui era specialista (e dunque la prima delle missioni del dotto era di fare bene e onestamente il proprio mestiere), ma al tempo stesso avrebbe dovuto guidare gli uomini alla coscienza dei loro veri bisogni e rivelare loro i modi per soddisfarli. Qui la posizione è chiara, il dotto è per sua missione il maestro dell'umanità, l'educatore del genere umano, l'uomo moralmente più perfetto del suo tempo. Egli ha il dovere di far conoscere non solo le idee eterne del Bene e del Giusto ma anche i bisogni dell'ora presente e i mezzi per raggiungere i fini propri di quel momento, perché egli non solo vede il presente, ma anche l'avvenire. In tal senso il dotto non poteva essere che il filosofo perché, nel momento stesso in cui assumeva di individuare e i bisogni e i mezzi per la loro soddisfazione, era solo in quanto filosofo che esso poneva il quadro speculativo entro il quale e bisogni e mezzi acquistavano un senso. Quasi come se, in quelle lezioni del 1794, Fichte esordisse con un orgoglioso "Signori, noi oggi creeremo il dotto». Malgrado quelli che molti hanno avvertito come fermenti vagamente socialisti almeno in questa fase del suo pensiero, Fichte di fatto preparava la figura del filosofo alla Gentile, che dello stato etico e della sua politica concreta doveva farsi maestro e fondatore, o la figura del filosofo alla Heidegger del Discorso di Rettorato del 1933. Se così è, questa visione del dotto e della sua funzione sociale ha poco a che vedere con le posizioni di Norberto Bobbio, che apriva Politica e cultura con l'affermazione "Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze", e nel 1954 scriveva: "Che gli intellettuali formino o credano di formare una classe a se stante, distinta dalle classi sociali ed economiche, e si attribuiscano quindi un compito singolare e straordinario, è segno di cattivo funzionamento dell'organismo sociale" (Politica e cultura). La prima lezione di Politica e cultura è dunque una nozione di modestia: sin dalla prima pagina il libro avverte che il vero problema del tradimento dei chierici "si riconnette alla figura romantica del filosofo", che si era proposta di "trasformare il sapere umano, che è necessariamente limitato e finito, e quindi richiede molta cautela insieme con molta modestia, in sapienza profetica" (ibid). I saggi che Bobbio scriveva nel periodo tra 1951 e 1955 apparivano in un clima in cui la figura del dotto aveva perso le prerogative platoniche che le assegnava Fichte: da destra gli si rimproverava di avere tradito la sua funzione scendendo nell'agone politico, e da sinistra gli si imponeva una militanza al servizio della classe, dove a dettare la tabella dei bisogni e la panoplia dei mezzi per soddisfarli era piuttosto il partito, interprete della classe, a cui i dotti dovevano legarsi organicamente. Per questo, abbandonata ogni idealizzazione del sapiente come maestro dell'umanità, ci si chiedeva piuttosto quale fosse il ruolo e il dovere degli intellettuali. Io credo che dobbiamo fare ora una pausa, vorrei dire di carattere semiotico, senza coinvolgere Bobbio in questa mia parentesi, per decidere che cosa vogliamo intendere per "intellettuale", onde non cadere nelle mille trappole in cui ci ha sovente attirato questo termine multiuso. Ne tenterò una definizione assai circoscritta, nella persuasione di non allontanarmi eccessivamente dal modo in cui anche Bobbio lo intendeva. Persuasione che si poggia sul fatto che credo che le mie poche idee suU'argomento nascano proprio dalla lettura che a ventitré anni ho fatto del libro di Bobbio Se, come talvolta si indulge nel discorso comune, intellettuale fosse colui che lavora con la testa e non con le mani (e vigesse ancora la distinzione tra arti liberali e arti meccaniche), allora dovremmo ammettere che intellettuale non è solo il filosofo o lo scienziato, o il professore di matematica nelle scuole medie, ma anche l'impiegato di banca, il notaio e oggi, in un'epoca di terziarizzazione avanzata, potrebbe svolgere un lavoro intellettuale persino il neo operatore ecologico (nel passato vile netturbino) che inserisca nel suo computer il programma adeguato per la pulizia automatizzata di un intero quartiere. Ma questa accezione curiosamente lascerebbe fuori i chirurghi e gli scultori, e in ogni caso ci indurrebbe ad assumere che chi fa un lavoro intellettuale, come del resto chi fa un lavoro manuale, abbia l'unica funzione di farlo bene, il bancario di controllare che i suoi rendiconti non siano alterati da un virus, il notaio di stendere dei rogiti corretti, senza che nessuno di essi debba impegolarsi in questioni politiche, se non al massimo nel momento in cui al mattino recitano la loro preghiera quotidiana leggendo le gazzette, e quella volta ogni cinque anni in cui sono chiamati come cittadini a votare. Parliamo dunque di lavoro intellettuale per definire l'attività di chi lavora più con la mente che con le mani, e proprio per distinguere il lavoro intellettuale da quella che chiameremofunzione intellettuale. La funzione intellettuale si definisce quando qualcuno (non necessariamente sempre), sia lavorando con la testa che pensando con le mani, contribuisce creativamente al sapere comune e al bene collettivo. Svolgerà dunque funzione intellettuale (magari per una volta sola in vita propria) anche il contadino che osservando il susseguirsi delle stagioni inventerà una nuova forma di rotazione delle culture, il maestro elementare che metterà in opera tecniche di 23
pedagogia alternativa, e poi certamente lo scienziato, il filosofo, lo scrittore, l'artista, ogni volta che inventano qualcosa di inedito. Qualcuno potrebbe pensare che si sta identificando la funzione intellettuale con quella attività misteriosa che chiamiamo creatività, ma anche questa nozione è oggi ampiamente inquinata. Se andate su Internet a cercare la parola "creatività", o creativity, troverete 1.560.000 siti dedicati a questo concetto, e tutti sono oltremodo deludenti. Nella maggior parte di essi si considera la creatività come una capacità industriale e commerciale di risolvere problemi, e la si identifica con l'innovazione, ovvero la disposizione a concepire idee nuove che conducano a realizzare profitti. Pochi di questi siti accennano alla creatività artistica, e se lo fanno è a titolo di esempio per chiarire meglio le capacità richieste a un businessman, oppure per inserire nell'idea di creatività una connotazione di follia. Se si passa poi ai vari florilegi di definizioni, si scopre che anche illustri personaggi possono dire delle idiozie prive di senso, come quando affermano che "la creatività non è lontana dalla libertà Essere creativo significa sapere chi siamo. La creatività è jazz senza musica. La creatività è un flusso di energia. Essere creativo vuol dire essere coraggioso". Perché troviamo insoddisfacenti queste nozioni commerciali di creatività? Perché esse si riferiscono sì alla invenzione di un'idea nuova, ma non si preoccupano che la novità sia transitoria, di breve corso, come potrebbe avvenire all'idea del creativo pubblicitario che trova una nuova formula per lanciare un detersivo, sapendo benissimo che sarà subito resa obsoleta dalla risposta della concorrenza. Vorrei invece intendere per attività creativa quella che produce dell'inedito che la comunità sarà poi disposta a riconoscere, accettare, far proprio e rielaborare, come diceva C.S. Peirce, in the long run - e che pertanto in tal modo diventa patrimonio collettivo, a disposizione di tutti, sottratto allo sfruttamento personale. Per essere tale la creatività deve sostanziarsi di attività critica. Non è creativa l'idea sorta nel corso di un brainstorming, buttata là tanto per tentarle tutte, e accettata entusiasticamente faute de mieux. Affinché sia creativa essa deve essere vagliata e, almeno per la creatività scientifica, passibile di falsificazione La funzione intellettuale si svolge dunque per innovazione ma anche attraverso la critica del sapere o delle pratiche precedenti, e soprattutto attraverso la critica del proprio discorso. Pertanto può non essere creativa la composizione del poeta a proprie spese che addirittura non sa di rimasticare stilemi desueti, e può essere creativa la ricostruzione polemica dello storico che semplicemente rilegge in modo nuovo documenti già noti. E' creativo il critico letterario (o il semplice professore di letteratura nei licei) che di suo non ha mai scritto nulla ma insegna a rileggere in modo inedito chi ha scritto prima di lui e in luogo suo, e contemporaneamente mette a nudo la propria poetica, e non sarà creativo né svolgerà funzione intellettuale il nostro collega universitario che per tutta la vita avrà stancamente ripetuto le nozioni manualistiche apprese ai tempi della laurea, pretendendo che i suoi discepoli non le mettano in discussione. La mia definizione non esclude chi ha creato idee nuove che per lungo tempo sono state considerate vere o buone ma per le quali il long run del consenso comunitario è stato a termine (e pensiamo alle concezioni astronomiche di Tolomeo o di Tycho Brahe): c'è creatività anche nelle ipotesi che più tardi saranno provate false ma che per un certo tempo ci aiutano a muoverci nel mondo. Purtroppo la mia definizione non esclude neppure i creatori di idee aberranti. Colpa delle comunità che per secoli hanno considerato i Puri Folli come portatori di saggezza, ma in fondo la creatività della funzione intellettuale si manifesta anche nello scontro tra tollerabile e intollerabile. Si potrebbe dire che Hitler svolgeva funzione intellettuale quando scriveva Mein Kampf e non si può negare che vi fosse qualcosa di sinistramente creativo nella sua idea di un nuovo ordine del mondo. Spesso è creativo anche il sonno della ragione che genera mostri. Ma, a correzione di questi incidenti inevitabili, vorrei ricordare che, nella nozione di funzione intellettuale che propongo, il momento innovativo non va mai disgiunto da quello critico e autocritico. Hitler non era creativo perché non esibiva capacità autocritica. In questo senso, anche se svolge lavoro intellettuale, non esercita la funzione intellettuale chi legittimamente e meritoriamente si arruola come propagandista della propria parte: ottimo funzionario di un partito politico come si è ottimi creativi di un'agenzia pubblicitaria, il propagandista politico non potrà mai dire, come non potrà mai dirlo il pubblicitario, che il detersivo per cui lavora lava meno bianco dell'altro. D'altra parte, per lo più, noi lo sappiamo, e ammettiamo che quello che dice il suo slogan non sarà vero ma certamente è ben trovato. Per ragioni estetiche si può trovare creativa anche una bella menzogna. Credo che questa distinzione tra lavoro intellettuale e svolgimento della funzione intellettuale corrisponda abbastanza a quella proposta da Bobbio quando parlava della differenza tra politica della cultura e politica culturale, e scriveva nel 1952: "la politica della cultura come politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura, si contrappone alla politica culturale, cioè alla pianificazione della cultura da parte dei politici" Alla luce di questa distinzione Bobbio dunque si domandava che cosa dovessero fare gli intellettuali (o uomini di cultura che dir si voglia, nel senso di coloro che svolgevano funzione e non solo lavoro intellettuale) e che la sua domanda risentisse dell'idea dell'impegno politico e sociale dell'intellettuale era inevitabile, perché questo era il 24
punto del dibattito degli anni cinquanta Nell'affermare che era segno di disfunzione sociale l'idea che gli intellettuali avessero funzione straordinaria, profetica e oracolare Bobbio teneva conto della situazione storica in cui parlava. Osservava che il nostro paese non era una società funzionale, emergeva dalla convulsione della guerra e della Resistenza, e operava in quegli anni come se una nuova convulsione fosse imminente. Nelle società non funzionali le varie parti non si ordinano a un fine (forse inconscio riferimento all'utopia fichtiana del dotto), si disarticolano e cozzano le une contro le altre. In questa situazione dilaniata Bobbio si trovava di fronte a due aut aut di cui rifiutava l'inevitabile dogmatismo. Se rileggiamo i suoi dibattiti di quel periodo vediamo che essi ruotavano sempre intorno a due contrapposizioni, quella tra Oriente e Occidente (ovvero tra mondo socialista e mondo liberal-capitalista) e quella tra engagement politico e fuga dall'impegno. Bobbio rifletteva sul Gramsci de Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura e sulla Trahison des clercs di Benda, ricordando la funzione che aveva avuto la rivolta intellettuale, anche se talora silente, nel periodo della dittatura, e riconosceva un - cito letteralmente - "processo rivoluzionario in atto" Da un lato era affascinato da questo processo rivoluzionario e non intendeva demonizzarlo (non poteva parlare di Impero del Male), dall'altro riteneva che di fronte a qualsiasi processo rivoluzionario in atto la missione degli uomini di cultura fosse quella di conciliare la giustizia con la libertà. Pertanto tutti i suoi dibattiti con Bianchi Bandinelli o con Roderigo di Castiglia alias Togliatti vertevano sul fatto che la funzione politica della cultura era la difesa della libertà. Riaffermava a più riprese, seguendo Croce, che "la teoria liberale non è una teoria politica, ma metapolitica", un ideale morale che sostanzia di sé "il partito degli uomini di cultura". Ma, mentre opponeva questo ideale ai suoi interlocutori comunisti, criticava lo stesso Croce perché a guerra finita aveva identificato questa "forza non politica" con uno dei tanti partiti sorti in quegli anni (e quindi Bobbio da liberale metapolitico si batteva contro il cedimento politico di Croce al Partito Liberale) Ma se il partito degli uomini di cultura doveva battersi per riaffermare il principio della libertà, chi militava in questo partito metapolitico non poteva sottrarsi a un impegno politico. Il problema è che allora gli interlocutori di Bobbio intendevano l'impegno politico alla luce dell'idea di intellettuale organico. E qui si scavava una nuova frontiera di discussione, visto che credo che Bobbio consentisse con lo slogan del secondo Vittorini, per cui l'intellettuale non doveva suonare il piffero alla rivoluzione. Come prendere parte senza suonare il piffero? Bobbio riteneva gli intellettuali non solo come suscitatori d'idee ma anche come guide del processo di rinnovamento in corso, e faceva proprie le parole di Giaime Pintor secondo le quali "le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché poeti e pittori sappiano quale deve essere la loro parte". (Nota: Giaime Pintor, Il sangue d'Europa. Torino: Einaudi 1950). Ma il problema era quale dovesse essere la parte dell'intellettuale, se essa non poteva venire identificata né con la cultura politicizzata ("che ubbidiscea direttive, programmi, imposizioni che provengono dai politici") né con la cultura apolitica del ritiro nella torre d'avorio. Ed è qui che Bobbio rifiutava al tempo stesso gli slogan del tipo Al di sopra della mischia, Né di qua né di là, oppure e di qua e di là, richiamandosi a una politica della cultura come compito della sintesi, capacità di critica di entrambe le posizioni, non tentativo di una terza via a tutti i costi. Bobbio non era (come diremmo oggi) un "terzista", proponeva un impegno da una parte precisa, ma accompagnato dal dovere, perseguito a ogni costo, di mediare criticando, ponendo sempre non solo gli avversari ma soprattutto gli amici di fronte alle loro proprie contraddizioni (lavoro che egli svolgeva con cordiale spietatezza, per esempio, nelle sue polemiche con Bianchi Bandinelli, sentinella del proletariato). Ho citato il saggio del 1951 per cui il compito degli uomini di cultura è quello di seminare dubbi anziché raccogliere certezze. Adesso ci pare un'affermazione quasi ovvia, ma Bobbio la pronunciava in un periodo in cui l'intellighenzia progressista chiedeva agli intellettuali di produrre certezze. E dunque bisogna ancora far fruttare questa lezione. Tanti anni dopo sono stato invitato a un convegno organizzato da Mitterand e dal suo staff, a Parigi, sul tema di come gli intellettuali potessero risolvere le crisi del mondo contemporaneo. Mitterand non era un filosofo, anche se era un uomo di buone letture, e non gli rimprovereremo l'ingenuità del suo appello, forse dovuta all'organizzatore del convegno che era Attali. In ogni caso il mio intervento fu brevissimo (e deludente per tutti - cosa di cui vado ancora molto fiero). Dissi: gli intellettuali non risolvono le crisi, ma le creano. Ma presso chi l'intellettuale deve instaurare la crisi? Veniamo ora alla seconda grande lezione di Bobbio. Viene da sorridere quando, parlando dell'Italia del dopoguerra, si ascoltano ancora vaniloqui sull'egemonia della sinistra, spostando ovviamente Bobbio tra i sostenitori dell'Impero del Male, quando egli ha speso gran parte della propria vita a polemizzare con quella sinistra che all'epoca si voleva egemone. E questo significa che, dando alla parola "parte" un senso non strettamente partitico, la lezione principale di Bobbio, o almeno quella che io ne ho tratto 25
leggendolo allora, è stata che l'intellettuale svolge la propria funzione critica e non propagandistica solo (o anzitutto) quando sa parlare contro la propria parte. L'intellettuale impegnato deve mettere anzitutto in crisi coloro a fianco dei quali s'impegna. Badate, se dovessi trovare citazioni testuali in argomento, la mia raccolta sarebbe esigua, ma questo scarno florilegio è estremamente eloquente. Questo certamente Bobbio ci diceva quando sosteneva che, per quanto si sentissero schierati, gli uomini di cultura dovevano anzitutto opporsi criticamente a procedimenti falsificatori e a ragionamenti viziati, che "si può benissimo non restare neutrali, cioè mettersi da una parte piuttosto che da un'altra, mantenendosi fedeli al metodo dell'imparzialità", perché "essere imparziali non significa non dare ragione a nessuno dei due contendenti, ma dare ragione all'uno o all'altro, o magari torto a tutti e due, a ragion veduta" che "si può essere imparziali senza essere neutrali" e che "al di là del dovere di entrare nella lotta, c'è, per l'uomo di cultura, il diritto di non accettare i termini della lotta così come sono posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione" perché "al di là del dovere della collaborazione c'è il diritto della indagine» e infine che "sarebbe già qualcosa se gli uomini di cultura difendessero l'autonomia della cultura all'interno del proprio partito o del proprio gruppo politico, nell'ambito dell'ideologia politica a cui hanno liberamente aderito e in favore della quale sono disposti a dare la loro opera di uomini di cultura". Citazioni sufficienti a costituire per me, allora giovane lettore, la quintessenza delle mie personali idee sulla nozione di engagement. Tanto che nel 1968, invitato come cane sciolto a esprimermisui problemi dell'impegno in un convegno di partito, ho affermato che il primo dovere dell'intellettuale è parlare contro la parte con cui sta, anche a costo di essere fucilato dopo la prima ondata. Avevo tratto cioè dalla lettura di Bobbio una nozione di funzione dell'intellettuale come Grillo Parlante, e tutto sommato ritengo che sia ancora l'unica giusta. E avevo usato, allora, una metafora che non era di Bobbio, bensì di Calvino: l'intellettuale deve partecipare stando sugli alberi. Il barone rampante di Calvino è del 1957, esce pertanto due anni dopo Politica e cultura, ed è stato in ogni caso pensato quando apparivano nel corso di un quinquennio gli scritti di Bobbio di cui stiamo parlando. Non ricordo se ho mai posto a Calvino la domanda, e se la mia persuasione nasca da una sua risposta positiva, ma sono sempre stato fermamente convinto che nell'ideare la figura di Cosimo Piovasco di Rondò Calvino pensasse a come Bobbio concepiva la funzione dell'intellettuale. Cosimo Piovasco non si sottrae ai doveri che il suo tempo gli impone, partecipa ai grandi eventi storici del momento, ma cercando di mantenere quella distanza critica (nei confronti dei suoi stessi compagni) che gli è permessa dallo stare sugli alberi. Perde forse i vantaggi dello stare coi piedi per terra, ma acquista in ampiezza di prospettiva. Non sta sugli alberi per sfuggire ai propri doveri, ma sente che il suo dovere, per non essere visconte dimezzato o cavaliere inesistente, è di essere agilmente rampante. Per questo Il barone rampante non è libro di fantasia fiabesca ma conte philosophique se mai ve ne furono. Ma torniamo a Bobbio. Per riuscire a sostenere questa funzione dell'intellettuale come Grillo Parlante occorre un ragionevole pessimismo, se non della volontà almeno della ragione. Vorrei tornare al finale de La missione del dotto, proprio per sottolineare in chiusura le differenze tra la visione di Bobbio e quella di Fichte. Polemizzando contro il pessimismo russoviano Fichte conclude il suo appello agli studenti con una dichiarazione di ottimismo storicodialettico: ... quanto più nobili e migliori voi sarete tanto più dolorose saranno le esperienze che vi attendono. Ma non lasciatevi sopraffare da questo dolore: vincetelo con le vostre azioni. Ricordatevi che esso è calcolato e previsto nel vasto disegno del perfezionamento del genere umano. Perdersi in lamenti sopra la corruzione degli uomini, senza muovere un dito per combatterla, è da effeminati. Castigare e schernire amaramente, senza indicare agli uomini il modo per migliorarsi, non è atto da amico. Agire, agire! Ecco il fine per cui esistiamo. Con qual ragione potremmo adirarci, perché gli altri non sono così perfetti come noi, se noi stessi di ben poco fossimo migliori di loro? E non è forse questa nostra maggiore perfezione un monito che ci dice che siamo chiamati a lavorare per il perfezionamento degli altri? Esultiamo alla vista del campo sterminato che siamo chiamati a lavorare! Esultiamo di sentirci forti e avere un compito che è infinito! (Nota: Sulla missione del dotto). E ora Bobbio: Io sono un illuminista pessimista. Sono, se si vuole, un illuminista che ha imparato la lezione di Hobbes, di de Maistre, di Machiavelli e di Marx. Mi pare, del resto, che l'atteggiamento pessimistico si addica di più che non quello ottimistico all'uomo di ragione. L'ottimismo comporta pur sempre una certa dose d'infatuazione, e l'uomo di 26
ragione non dovrebbe essere infatuato. E siano pure ottimisti coloro che credono che sì essere la storia un dramma, ma lo considerano come un dramma a lieto fine. Io so soltanto che la storia è un dramma, ma non so, perché non posso saperlo, che sia un dramma a lieto fine. Gli ottimisti sono gli altri, quelli come Gabriel Péri, che morendo gloriosamente lasciò scritto: "Preparerò tra poco dei domani che cantano". I domani sono venuti, ma i canti non li abbiamo ascoltati. E quando mi volgo attorno, non odo canti, ma ruggiti. Questa professione di pessimismo non vorrei che fosse intesa come un gesto di rinuncia. E un atto di salutare astinenza dopo tante orge di ottimismo, un ponderato rifiuto di partecipare al banchetto dei retori sempre in festa. E' un atto di sazietà più che di disgusto. E poi il pessimismo non raffrena l'operosità, anzi la rende più tesa e diritta allo scopo. Tra l'ottimista che ha per massima: 'Non muoverti, vedrai che tutto si accomoda' e il pessimista replicante: 'Fa' d'ogni modo quel che devi, anche se le cose andranno di male in peggio', preferisco il secondo. (...) Non dico che gli ottimisti siano sempre fatui, ma i fatui sono sempre ottimisti. Non mi riesce più di separare nella mia mente la cieca fiducia nella provvidenza storica o teologica dalla vanità di chi crede di essere al centro del mondo e che ogni cosa avvenga a suo cenno. Apprezzo e rispetto invece colui che agisce bene senza chiedere alcuna garanzia che il mondo migliori e senza attendere non dico premi ma neppure conferme. Solo il buon pessimista si trova in condizione di agire con la mente sgombra, con la volontà ferma, con sentimento di umiltà e piena devozione al proprio compito. Tale mi pare la missione del dotto rivisitata. ILLUMINISMO E SENSO COMUNE (Nota: La Repubblica, gennaio 2001. Intervento a un dibattito sull'illuminismo aperto da Eugenio Scalfari e poi raccolto in Attualità dell'illuminismo. Bari: Laterza 2001). Mi ha naturalmente appassionato il dibattito sull'illuminismo. Mi ha divertito l'osservazione di Maffettone (col quale concordo per tutto il resto) sul fatto che l'illuminista Scalfari abbia avuto poca influenza sulle pagine culturali della Repubblica. Suvvia, dopo un inizio (venti anni fa) un poco troppo Nord-Sud (ma all'epoca anche Scalfari era post-crociano), le pagine si sono divise equamente tra articoli su Nietzsche e rievocazioni dei salotti del Settecento, e quindi un poco di Lumi vi ha circolato. Caso mai è più ispirata alla Tradizione la pagina culturale del Corriere. Comunque, non è questo il punto. Vorrei piuttosto dire la mia su cosa significhi essere illuministi oggi, visto che dai tempi dell'Encyclopédie molta acqua è passata sotto i ponti e non credo valga ancora la pena di interessarsi al lavoro degli stipettai, come in quei giorni faceva Diderot. Naturalmente condizione indispensabile per un'etica intellettuale illuministica è che si sia disposti a sottoporre a critica non solo ogni credenza ma persino quelle che la scienza ci consegna come verità assolute. Ma, detto questo, credo si debbano individuare alcune condizioni irrinunciabili affinché si possa dire che ci si ispira non al criterio di una Ragione Forte (alla Hegel) ma di una umana ragionevolezza. Perché l'eredità fondamentale dell'illuminismo sta tutta qui: c'è un modo ragionevole di ragionare e, se si tengono i piedi per terra, tutti dovrebbero concordare su quello che diciamo, perché anche in filosofia bisogna dare retta al buon senso. Questo implica che vi sia un buon senso, o un senso comune, che non sarà così invadente come la "retta ragione" ma, insomma, qualche cosa conta. Basta non affidare responsabilità troppo metafisiche al calcolo e poi, come suggeriva Leibniz, vale sempre la pena di mettersi intorno a un tavolo e dire "calculemus". Dunque, penso che un buon illuminista sia qualcuno che crede che le cose "vadano in un certo modo". Questo realismo minimalista è stato recentemente riaffermato da Searle, che non le dice tutte giuste, ma ogni tanto ha delle idee limpide e ragionevoli. Dire che la realtà va in un certo modo non significa affermare che possiamo conoscerla o che un giorno la conosceremo. Ma anche se non la conoscessimo mai, le cose andrebbero così e non altrimenti. Persino chi coltivasse l'idea che le cose vanno oggi in un modo e domani nell'altro, e cioè che il mondo è bizzarro, caotico, mutevole, e passa da una legge all'altra in barba a metafisici e cosmologi, ammetterebbe che questa capricciosa mutevolezza del mondo è proprio il modo in cui vanno le cose. E quindi vale la pena di continuare a proporre delle descrizioni di queste maledettissime cose. Una volta dicevo a Vattimo che ci sono forse delle leggi di natura, visto che se incrociamo un cane con un cane ne nasce un cane ma se incrociamo un cane con un gatto o non nasce niente o nasce qualcosa che non desidereremmo vederci girare per casa. Vattimo mi rispondeva che oggi l'ingegneria genetica riesce persino ad alterare le leggi che governano le specie. Appunto, gli rispondevo, se per incrociare un cane con un gatto ci vuole una ingegneria (e cioè un'arte) questo significa che esiste da qualche parte una natura su cui quest'arte artificiosamente si esercita. Questo significa che io sono più illuminista di Vattimo, ma non credo gli dispiaccia saperlo. Il buon senso ci dice che ci sono casi in cui possiamo concordare tutti su come vadano le cose. Dire che il sole 27
sorge a Est e tramonta a Ovest non è questione di senso comune, perché si basa su convenzioni astronomiche. Peggio che peggio dire che non è il sole ma la terra che gira; chissà, forse l'intera cosmologia galileiana è da rimettere in discussione. Ma dire che noi vediamo il sole sorgere da una parte e tramontare dall'altra, questo è un dato di senso comune ed è ragionevole ammetterlo. Mentre scrivo ho da poco appreso della morte di Quine: se c'era un empirista era lui, tanto che arrivava a dire che lo stesso significato di una parola, stringi stringi, era legato alla nostra regolarità di risposta a uno stimolo. Però se c'era un pensatore convinto che ogni nostra verità non si presenta da sola, bensì legata a un complesso di convenzioni culturali, era sempre lui. Come fare stare insieme queste due posizioni apparentemente contraddittorie? Perché è per esperienza che sappiamo che ci cadono gocce d'acqua sulla mano ed è per convenzione culturale che affermiamo che probabilmente piove. Se, prima di discutere che cosa significhi "pioggia", meteorologicamente parlando, due persone ammettono di comune accordo che gli cadono gocce d'acqua sulla mano, ecco due buoni illuministi minimali. Rimane celebre, di Quine, la storia di Gavagai, che rielaboro liberamente. Dunque, un esploratore che non sa nulla della lingua indigena, mentre passa un coniglio tra l'erba, lo addita al nativo e quello reagisce esclamando "gavagai". Vuole forse dire che per il nativo gavagai significa coniglio? Non è detto, potrebbe significare animale, o coniglio che corre. Poco male, si rifà la prova mentre passa un cane, o quando il coniglio sta fermo. Ma se il nativo avesse inteso con gavagai che stava vedendo le erbe agitate dal movimento di un animale? O che davanti ai suoi occhi si stava verificando un evento spaziotemporale? O che gli piacciono i conigli? Morale: l'esploratore non può fare che delle ipotesi e costruirsi un proprio manuale di traduzione, che forse non è migliore di un altro (l'importante è che presenti una certa coerenza). Il buon illuminista metterà quindi in questione ogni possibile manuale di traduzione. Ma non potrà mai negare che l'indigeno ha detto "gavagai", e che non l'ha detto mentre guardava il cielo, bensì proprio mentre puntava gli occhi su quello spazio in cui all'esploratore era parso di vedere un coniglio. Badate che questo atteggiamento basta anche per i dibattiti più trascendentali. Che abbia ragione il Papa a sostenere che gli embrioni sono già esseri umani o San Tommaso quando afferma che gli embrioni non parteciperanno alla resurrezione della carne, è materia di cultura. Ma è materia di sano empirismo riconoscere di comune accordo le differenze fisiche tra un embrione, un feto e un neonato. E poi, calculemus. C'è un'etica non trascendente che ogni buon illuminista minimale dovrebbe riconoscere? Penso di sì. In genere, un essere umano vorrebbe avere tutto ciò che gli piace. Per fare questo dovrebbe sottrarlo a qualsiasi altro essere umano a cui piaccia la stessa cosa. Per evitare che poi l'altro la sottragga a lui, la soluzione più comoda è uccidere l'altro. Homo homini lupus, e vinca il migliore. Però questa legge non può essere generalizzata, perché se uccido tutti resto solo, e l'uomo è animale sociale. Adamo ha bisogno almeno di Eva, non tanto per soddisfare il desiderio sessuale (per questo sarebbe bastata una capra) ma per procreare, e dunque moltiplicarsi. Se Adamo ammazza Eva, Caino e Abele, rimane un animale solitario. Pertanto l'uomo deve negoziare benevolenza e mutuo rispetto. Deve cioè sottoscrivere un contratto sociale. Quando Gesù dice di amare il prossimo e suggerisce di non fare agli altri quello che non si vuole che sia fatto a noi, è un ottimo illuminista (lo è quasi sempre, tranne quando sostiene di essere figlio di Dio - perché quella era un'evidenza caso mai per lui, ma non per gli altri, e quindi non poteva essere basata sulla ragionevolezza bensì sulla fede). L'illuminista pensa che si possa elaborare un'etica, anche molto complessa, anche eroica (è giusto per esempio morire per salvare la vita ai propri figli), basandosi sul principio di negoziazione necessaria. Infine l'illuminista sa che l'uomo ha cinque bisogni fondamentali (sul momento non riesco a trovarne di più): il nutrimento, il sonno, l'affetto (che comprende il sesso, ma anche il bisogno di legarsi almeno a un animale domestico), il giocare (ovvero fare qualcosa per il puro piacere di farlo) e il chiedersi perché. Li ho posti in serie di irrinunciabilità decrescente, ma è certo che anche il bambino, una volta poppato, dormito, giocherellato e appreso a identificare il babbo e la mamma, appena cresce domanda il perché di tutto. I primi quattro bisogni sono comuni anche agli animali, il quinto è tipicamente umano e richiede l'esercizio del linguaggio. Il perché fondamentale è perché le cose ci sono. Il filosofo si chiede perché ci sia dell'essere piuttosto che il nulla, ma non domanda nulla di più di quanto faccia l'uomo comune quando si chiede chi abbia fatto il mondo e cosa ci fosse prima. Nel tentare di rispondere a questa domanda l'uomo costruisce gli dèi (o li scopre, non voglio affrontare questioni teologiche). Dunque l'illuminista, tra l'altro, sa che, quando l'uomo nomina gli dèi, sta facendo qualcosa che non si può prendere sottogamba. Ancora una volta, l'illuminista sa che la forma di un pantheon è fenomeno culturale, che si può criticare, ma che la domanda che porta alla costruzione del pantheon è un dato di natura, degno di massima considerazione e rispetto. Ecco, sarei disposto a riconoscere un illuminista, oggi, a queste condizioni irrinunciabili. Se va bene così, m'iscrivo. DAL GIOCO AL CARNEVALE 28
(Nota: la Repubblica, gennaio 2001). Il dibattito sull'illuminismo ha generato come proprio figlio, più o meno legittimo, il dibattito sul gioco. Confesso che ho avuto un senso di fastidio. Avevo scritto come cosa ovvia che uno dei bisogni umani fondamentali, oltre al nutrimento, al sonno, all'affetto e alla conoscenza, è il gioco, e mi sono visto rilanciare l'idea come (cito da un titolo della Repubblica dell'Epifania) una mia "provocazione". Eh, santa pace, come se nessuno si fosse mai accorto che bambini, gattini e cagnolini si esprimono anzitutto attraverso il gioco e come se, accanto alla definizione di uomo come animal rationale, non circolasse da gran tempo quella di homo ludens. Talora si ha l'impressione che i mass-media scoprano sempre l'acqua calda. Poi, però, a rifletterci bene, bisogna ammettere che "riscoprire" l'acqua calda è una delle loro funzioni fondamentali. Un giornale non può uscire così, all'improvviso, dicendo che vale la pena di leggere I promessi sposi. Deve aspettare che appaia una nuova edizione dei Promessi sposi e poi intitolare su molte colonne: "Mode culturali. Il ritorno di Manzoni". Nel fare così fa benissimo, perché tra i suoi lettori ci sono quelli che Manzoni lo avevano dimenticato e molti giovani che ne sanno assai poco. Come dire che, visto che ormai i ragazzi credono che l'acqua calda scenda da sola dal rubinetto, ogni tanto bisogna trovare un pretesto per ricordare che per ottenerla occorre o farla bollire o andarla a cercare sottoterra. E va bene, riparliamo del gioco. Rileggendo i vari interventi apparsi su questo giornale mi sono reso conto che in modi diversi alludevano tutti a una profonda mutazione antropologica che ci sovrasta. Il gioco, come momento di esercizio disinteressato, che giova al corpo o, come dicevano i teologi, toglie la tristitia dovuta al lavoro, e sicuramente affina le nostre capacità intellettive, per essere tale ha bisogno di essere parentetico. E' un momento di sosta in un panorama giornaliero di diversi impegni: non solo il duro lavoro manuale, ma persino l'intensa conversazione filosofica tra Socrate e Cebete. Uno degli aspetti positivi de la felix culpa è che, se Adamo non peccava, non avrebbe dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte, e a gingillarsi tutto il giorno nell'Eden sarebbe rimasto uno zuzzurellone. Dal che emerge la provvidenzialità del Serpente. Tutte le civiltà hanno tuttavia riservato alcuni giorni dell'anno al gioco totale. Era un periodo di licenza, che noi chiamiamo Carnevale e per altre civiltà è o è stato qualcosa d'altro. Durante il Carnevale si gioca senza interruzione, ma perché il Carnevale sia bello e non faticoso, deve durare poco. Anche qui prego la Repubblica di non aprire un altro dibattito su questa "provocazione", perché la letteratura sul Carnevale è amplissima. Ora, una delle caratteristiche della civiltà in cui viviamo è la carnevalizzazione totale della vita. Questo non significa che si lavora meno, lasciando fare alle macchine, perché l'incentivazione e l'organizzazione del tempo libero sono state una sacrosanta preoccupazione sia delle dittature che dei regimi liberal-riformisti. E' che si è carnevalizzato anche il tempo di lavoro. E' facile e ovvio parlare di carnevalizzazione della vita pensando alle ore spese dal cittadino medio di fronte a uno schermo televisivo che, al di là di tempi brevissimi dedicati all'informazione, provvede eminentemente spettacolo, e tra gli spettacoli predilige ormai quelli che rappresentano la vita come eterno carnevale, dove giullari e fanciulle bellissime non lanciano coriandoli bensì una pioggia di miliardi che chiunque può guadagnare giocando (e poi ci lamentiamo perché gli albanesi, sedotti da questa immagine del nostro paese, fanno carte false per venire in questo luna park permanente). E' facile parlare di Carnevale pensando al danaro e al tempo dedicato al turismo di massa che propone isole di sogno a prezzi charter, e ti invita a visitare Venezia lasciando al termine della tua carnevalata turistica lattine, carta appallottolata, avanzi di hot dog e senape, proprio come alla fine di un Carnevale che si rispetti. Ma non si considera abbastanza la completa carnevalizzazione del lavoro dovuta a quegli "oggetti polimorfi", robottini servizievoli che tendono (mentre essi fanno quello che una volta dovevi fare tu) a far sentire come tempo di gioco il tempo del loro impiego. Vive un Carnevale perenne l'impiegato che al computer, di nascosto dal capufficio, fa giochi di ruolo o visita il sito di Playboy. Vive il suo Carnevale chi guida una macchina che ormai gli parla, gli insegna la strada da prendere, lo espone al rischio della vita impegnandolo a schiacciare pulsanti per ricevere informazioni sulla temperatura, sulla benzina rimasta, sulla velocità media, sul tempo di percorrenza. Il telefonino (vera coperta di Linus dei giorni nostri, come suggeriva Bartezzaghi) è strumento di lavoro per coloro che fanno professione di pronto intervento, come medici o idraulici. Per gli altri dovrebbe servire solo in quelle circostanze eccezionali in cui trovandoci fuori casa, dobbiamo comunicare una urgenza improvvisa, il ritardo a un appuntamento a causa del deragliamento di un treno, di un'alluvione, di un incidente di traffico. Se così fosse tranne che per esseri sfortunatissimi, il telefonino come strumento dovrebbe essere usato una, al massimo due volte al giorno. Pertanto il novantanove per cento del tempo speso da coloro che vediamo serrare il loro "oggetto transizionale" all'orecchio, è tempo di gioco. L'imbecille che accanto a noi in treno conduce transazioni finanziarie 29
ad alta voce si sta di fatto pavoneggiando con una corona di piume e un anello multicolore al pene. E' ludico il tempo passato al supermercato o nei grill dell'autostrada, che ti offrono un empireo multicolore di oggetti in gran parte inutili, così che alla fine eri entrato per comperare un pacchetto di caffè, ti sei trattenuto un'ora, ed esci avendo acquistato anche quattro confezioni di biscotti per cani - naturalmente il cane non ce l'hai, ma se lo avessi, sarebbe un delizioso Labrador, il cane più alla moda, che non sa far la guardia, non sa andare a caccia né trovar tartufi, è pronto a leccare la mano a chi ti sta pugnalando, ma è un meraviglioso giocattolo, specie se lo metti in acqua. Ricordo negli anni settanta l'invito rivoluzionario, rivolto da Potere Operaio, al rifiuto del lavoro - perché tanto l'automazione trionfante ne avrebbe ridotto la dura necessità. Si obiettava allora che, se la classe operaia rifiutava il lavoro, chi avrebbe sviluppato l'automazione? In un certo senso aveva ragione Potop, l'automazione si è - come si suol dire - implementata da sola. Salvo che il risultato non è stato una nobilitazione della classe operaia che realizzava la condizione utopica vagheggiata da Marx, in cui ciascuno sarebbe stato al tempo stesso - e liberamente pescatore, cacciatore ecc. Al contrario, la classe operaia è stata assunta dall'industria della carnevalizzazione come suo utente medio. Non ha più da perdere soltanto le proprie catene. Oggi (se ci fosse un black-out rivoluzionario) avrebbe da perdere la puntata del Grande Fratello, e dunque vota per chi gliela dà, e continua a lavorare per offrire plusvalore a chi la fa divertire. Se poi si scopre che in molte parti del mondo ci si diverte poco, e si muore di fame, la nostra falsa coscienza viene acquietata da un grande spettacolo (giocoso) di beneficenza per raccogliere fondi per bambini neri, paraplegici e ischeletriti. Si è carnevalizzato lo sport. Come? Lo sport è gioco per eccellenza: come può carnevalizzarsi un gioco? Diventando, da parentetico che doveva essere (una partita alla settimana e le Olimpiadi solo ogni tanto), pervasivo e, da attività fine a se stessa, attività industriale. Si è carnevalizzato perché nello sport non conta più il gioco di chi gioca (trasformatosi tra l'altro in durissimo lavoro che si riesce a sopportare solo drogandosi) ma la gran carnevalata del prima durante e dopo, dove di fatto gioca per tutta la settimana chi guarda, non chi fa il gioco. Si è carnevalizzata la politica, per la quale si usa ormai comunemente la dizione di politica-spettacolo. Esautorato sempre più il parlamento, la politica si fa in video, come gioco gladiatorio, e per legittimare un presidente del consiglio lo si fa incontrare con Miss Italia. La quale tra l'altro, non appare vestita da donna normale (e piuttosto intelligente come è apparsa a molti), ma in costume da Miss Italia (si arriverà al giorno che anche il presidente per legittimarsi dovrà apparire mascherato da presidente). Si è carnevalizzata la religione. Una volta sorridevamo su quelle cerimonie che si vedevano nei film, in cui uomini di colore vestiti di paramenti variopinti, danzavano il tip tap gridando "Oh yes, oh Jesus!» (e le opere, e le opere, ci chiedevamo noi di educazione cattolica, dove sono finite le opere in questi Carnevali post-protestanti della sola fede danzante?) Oggi, absit iniuria, molte manifestazioni giubilari a suono di rock ci hanno ricordato la discoteca. Alcuni gay hanno creduto di trovar risarcimento alla loro millenaria e sofferta emarginazione nel Carnevale del Gay Pride. Alla fine sono stati accettati, perché nei giorni del Carnevale si accetta tutto, anche una cantante che si muove con l'ombelico scoperto davanti a Giovanni Paolo II (non fingete di averlo scordato, è accaduto, e solo pochi hanno provato pietà per quell'infelice e nobile vegliardo). Essendo creature ludiche per definizione, e avendo perduto il senso delle dimensioni del gioco, siamo nella carnevalizzazione totale. La specie ha tante risorse, forse si sta trasformando, e saprà accettare questa nuova condizione traendone persino vantaggi spirituali. E forse è giusto che il lavoro non sia più maledizione, e che non si debba passare il proprio tempo a fare l'esercizio della buona morte, che anche la classe operaia vada finalmente in paradiso ridendoci su. Allegria! O forse ci penserà la Storia, una bella guerra mondiale con tanto uranio impoverito, un bel buco dell'ozono più grande che pria, e il Carnevale finirà. Ma occorre riflettere sul fatto che la carnevalizzazione totale non soddisfa, bensì acuisce il desiderio, prova ne sia la sindrome della discoteca, per cui dopo tanto danzare e tanti decibel si vuole ancora correre, chiuse le porte, la gimcana notturna della morte. La carnevalizzazione totale rischia di produrre la situazione mirabilmente descritta da quella vecchia barzelletta del tizio che avvicina insinuante una tizia e chiede: "Signorina, che cosa fa dopo l'orgia?". LA PERDITA DELLA PRIVATEZZA (Nota: Dalla comunicazione presentata nel settembre 2000 a Venezia, a un convegno organizzato da Stefano Rodotà sulla privacy (che in italiano si dice "privatezza"). La prima cosa che la globalizzazione della comunicazione via Internet ha messo in crisi è la nozione di confine. Il concetto di confine è antico come la specie umana, anzi, come le specie animali tutte. L'etologia ci insegna che ogni 30
animale riconosce intorno a sé, e ai suoi consimili, una bolla di rispetto, un'area territoriale entro la quale si sente al sicuro, e riconosce come avversario chi varca quel confine. L'antropologia culturale ci ha mostrato come questa bolla protettiva vari secondo le culture, e per certi popoli una vicinanza dell'interlocutore che da altri popoli è sentita come espressione di confidenza, viene avvertita come intrusione e aggressione. A livello umano, questa zona di protezione si è estesa dall'individuo alla comunità. Il confine - della città, della regione, del regno - è sempre stato sentito come una sorta di ampliamento collettivo delle bolle di protezione individuale. Si pensi quanto la mentalità latina fosse ossessionata dal confine, tanto da incentrare su una violazione territoriale il proprio mito di fondazione: Romolo traccia un confine e uccide il fratello perché non lo rispetta. Giulio Cesare, nel passare il Rubicone, si trova di fronte alla stessa angoscia che, forse, ha colto Remo prima di violare il limite segnato dal fratello. Sa che passando quel fiume invaderà in armi il territorio romano. Che poi si attesti a Rimini, come fa all'inizio, o marci su Roma, è irrilevante: il sacrilegio viene compiuto nel varcare il confine, ed è irreversibile. Il dado è tratto. I greci conoscevano il confine della polis, e tale confine era tracciato dall'uso della stessa lingua - o dai suoi vari dialetti. I barbari iniziavano là dove non si parlava più in greco. Talora la nozione di confine (politico) è stata così ossessiva da far erigere un muro all'interno della stessa città, per stabilire chi stava di qua e chi stava di là. E, almeno per i tedeschi dell'Est, superare il confine li esponeva alla stessa pena inflitta al mitico Remo. L'esempio di Berlino Est ci dice, in forma essenziale, qualcosa che in realtà ha sempre riguardato ogni confine. Il confine non solo protegge la comunità da un attacco degli estranei, ma anche dal loro sguardo. Le mura e la barriera linguistica possono servire a un regime dispotico per tenere i propri soggetti nell'ignoranza di quello che avviene altrove, ma in genere garantiscono ai cittadini che possibili intrusi non abbiano notizie dei loro costumi, delle loro ricchezze, delle loro invenzioni, dei loro sistemi di coltivazione. La grande muraglia cinese non difendeva solo i sudditi del Celeste Impero dalle invasioni, ma garantiva anche il segreto della produzione della seta. Di converso, i sudditi hanno sempre pagato questa riservatezza sociale accettando la perdita della riservatezza individuale. Inquisizioni di vario tipo, laiche o religiose, avevano il diritto di sorvegliare i comportamenti e spesso addirittura i pensieri dei sudditi, per non dire delle leggi doganali e fiscali, per cui si è sempre ritenuto giusto che la privata ricchezza dei cittadini dovesse essere nota allo stato. Con Internet sarà la stessa definizione di stato nazionale che entrerà a poco a poco in crisi. Internet non è soltanto lo strumento che permette di stabilire delle chat lines internazionali e multilingue. E' che oggi una città della Pomerania può gemellarsi con un centro dell'Estremadura, trovando on line interessi comuni, e commerciando al di là delle autostrade, che attraversano ancora delle frontiere. Oggi, nel vivo di una inarrestabile ondata migratoria, è sempre più facile per una comunità musulmana a Roma collegarsi con una comunità musulmana a Berlino. Ma questa caduta dei confini ha provocato due opposti fenomeni. Da un lato non c'è più comunità nazionale che possa impedire ai propri cittadini di conoscere quello che accade in altri paesi, e sarà resto impossibile impedire al suddito di una dittatura qualsiasi di sapere in tempo reale quello che accade altrove. D'altro lato il monitoraggio severo che gli stati esercitavano sulle attività dei cittadini è passato ad altri centri di potere che sono tecnicamente in grado (anche se non sempre in forme legali) di sapere a chi abbiamo scritto, che cosa abbiamo comperato, quali viaggi abbiamo fatto, quali sono le nostre curiosità enciclopediche e addirittura le nostre preferenze sessuali. Persino l'infelice pedofilo che un tempo, nel chiuso del proprio villaggio, cercava di tenere segreta la sua insana passione, oggi è incoraggiato a diventare anche esibizionista, mettendo a repentaglio, on line, il proprio vergognoso segreto. Il grande problema del cittadino geloso della sua vita privata non è quello di difendersi dagli hackers, non più frequenti e pericolosi dei briganti da strada che potevano derubare un tempo un mercante in viaggio, ma dai cookies, e da tutte quelle altre mirabilia tecnologiche che permettono di raccogliere informazioni su ciascuno di noi. Una recente trasmissione televisiva sta convincendo il pubblico mondiale che la situazione del Grande Fratello si verifica quando alcuni individui decidono (per libero anche se deplorevole atto di volontà) di lasciarsi spiare dalle moltitudini, felici di spiare. Ma non è questo il Big Brother di cui parlava Orwell. Il Big Brother orwelliano è messo in opera da una ristretta nomenklatura che spia ogni atto individuale di ogni membro della moltitudine, contro i desideri di ciascuno. Il Big Brother orwelliano non è la televisione, dove milioni di voyeurs guardano un solo esibizionista. E' il panopticon di Bentham, dove molti custodi osservano, inosservati e inosservabili, un solo condannato. Ma se nel racconto orwelliano il Grande Fratello era una allegoria per il Piccolo Padre stalinista, oggi il Big Brother che ci osserva non ha volto e non è uno, è l'insieme dell'economia globale. Come il Potere di Foucault non è una entità riconoscibile, è l'insieme di una serie di centri che accettano il gioco, si sostengono a vicenda, a tal punto che, chi per un centro di potere spia gli altri che acquistano in un supermarket, sarà a sua volta spiato quando paga l'albergo con la carta di credito. Quando il Potere non ha più volto, diventa invincibile. O almeno diventa difficile controllarlo.
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Torniamo alle radici stesse del concetto di privatezza. Nella mia città natale si rappresenta ogni anno Gelindo, una commedia comico-religiosa, che si svolge tra i pastori a Betlemme, ai tempi della nascita del Salvatore, ma contemporaneamente sembra aver luogo nelle mie terre, tra contadini dei paesi vicino ad Alessandria. Infatti viene parlata in dialetto, e gioca su contaminazioni di grande effetto comico, perché i personaggi dicono che per arrivare a Betlemme debbono attraversare il fiume Tanaro, che ovviamente si trova dalle mie parti, oppure attribuiscono al malvagio Erode leggi e regolamenti dei nostri governi attuali. Quanto ai caratteri, la commedia rappresenta con ottusa vivacità il carattere dei piemontesi che, per tradizione, sono molto chiusi, gelosi della loro vita privata e dei loro sentimenti. A un certo punto appaiono i Re Magi, i quali incontrano Maffeo, uno dei pastori, e gli chiedono la via per Betlemme. Il pastore vecchio e un poco rincitrullito, risponde che non la sa, e li invita a rivolgersi al suo padrone Gelindo, che dovrebbe rientrare dopo poco. Infatti Gelindo rientra, incrocia per la via i Magi, e uno di essi gli chiede se è lui Gelindo. Non c'interessa ora il dialogo tra Gelindo e i Magi, bensì quello che si svolge più avanti, quando Gelindo chiede ai suoi pastori come mai quello straniero conoscesse il suo nome, e Maffeo ammette di averglielo detto lui. Gelindo s'infuria e minaccia di bastonarlo perché, dice, non si fa circolare il nome di qualcuno come se fosse moneta da spendere. Il nome è una proprietà privata e, a renderlo pubblico, si sottrae a chi lo porta una parte della propria privatezza. Gelindo non poteva conoscere la parola privatezza, ma era proprio quel valore che stava difendendo. Se avesse posseduto un lessico più articolato, ci avrebbe detto che stava manifestando riserbo o riservatezza, o discrezione, ovvero che stava difendendo la propria intimità. Si badi che la difesa del proprio nome non è soltanto un costume arcaico. Durante le assemblee del '68 gli studenti che si alzavano si presentavano come Paolo, Marcello, Ivano, non per nome e cognome. Il costume era talora giustificato dal timore che un agente di polizia potesse essere presente, e prendesse nota degli autori dei vari interventi. Più spesso quella reticenza era un vezzo, ispirato all'uso dei partigiani, noti solo per il loro soprannome, onde evitare ritorsioni sulla famiglia lontana. Ma un oscuro desiderio di proteggere la propria identità è ancora presente in coloro che telefonano alle trasmissioni televisive e radiofoniche, talora per esprimere opinioni lecitissime, o per rispondere a un quiz una istintiva vergogna, forse (e ormai un'abitudine incoraggiata dai conduttori), li spinge a designarsi come Marcella di Pavia, Agata di Roma, Spiridione di Termoli. Talora la difesa della propria identità confina con la pavidità, con l'incapacità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, così che Si è portati a invidiare quei paesi in cui, quando qualcuno si presenta in pubblico, declina immediatamente nome e cognome. Ma se può essere bizzarra, e talora scarsamente giustificata, la difesa della propria identità onomastica, non lo è certamente quella della propria vita privata, per cui - e per antica tradizione non solo si lavano in famiglia i panni sporchi, ma anche quelli puliti, e qualcuno può desiderare di non rendere nota la propria età, le proprie malattie, o il proprio reddito - a meno che non debba renderne conto per legge. Da chi ci viene la richiesta di una difesa del riserbo? Certamente da coloro che intendono mantenere segrete delle transazioni commerciali, da chi non vorrebbe vedere violata la propria corrispondenza personale, da chi elabora dati di ricerca che non vuole ancora rendere pubblici. Tutte queste cose le sappiamo benissimo, e si elaborano leggi per proteggere coloro che invocano il diritto alla riservatezza. Ma quanti sono coloro che invocano questo diritto? A me pare che una delle grandi tragedie della società di massa, quella della stampa, della televisione e di Internet, sia la rinuncia volontaria alla riservatezza. Il massimo della rinuncia alla riservatezza (e dunque al riserbo, sino al pudore) è - al limite del patologico - l'esibizionismo. Ora, mi sembra paradossale che qualcuno debba lottare per la difesa della privatezza in una società di esibizionisti. Una delle tragedie sociali del nostro tempo è stata anzitutto la trasformazione di quella valvola di sfogo, in gran parte benefica, che era il pettegolezzo. Il pettegolezzo classico, quello che si faceva nel villaggio, in portineria o all'osteria, era un elemento di coesione sociale. Non si spettegolava mai dicendo di qualcuno che era sano, fortunato e felice; si spettegolava su un difetto, un errore, una sfortuna altrui. Così facendo, però, gli spettegolanti in qualche modo partecipavano alle sventure degli spettegolati (perché il pettegolezzo non implica sempre disprezzo, può indurre anche a compassione). Esso, tuttavia,funzionava se le vittime non erano presenti e non sapevano di essere tali (così che potevano salvare la faccia facendo finta di non saperlo). Quando la vittima veniva a conoscenza del pettegolezzo, e non poteva più fingere di non sapere, avveniva la piazzata ("brutta linguaccia, so che vai a dire in giro che..."). Avvenuta la piazzata, la voce diventava pubblica. La vittima si esponeva al ridicolo, o alla condanna sociale, e i carnefici non avevano più nulla su cui spettegolare. Per cui, affinché il valore di valvola sociale del pettegolezzo rimanesse intatto, tutti, carnefici e vittime, erano tenuti, per quanto possibile, al riserbo, a mantenere una zona di segreto. La prima apparizione di quello che chiameremo un pettegolezzo moderno è avvenuta con la stampa. Un tempo esistevano pubblicazioni specializzate, che si occupavano di pettegolezzi su persone che, a causa del loro lavoro (attori e attrici, cantanti, monarchi in esilio, playboy) si esponevano volontariamente all'osservazione dei fotografi e dei cronisti. Il gioco era talmente scoperto che anche i lettori sapevano benissimo che, se l'attore tale era stato visto al 32
ristorante insieme all'attrice talaltra, questo non significava che fosse necessariamente sorta tra i due una "affettuosa amicizia" e probabilmente tutto era stato pianificato dai loro uffici stampa. Ma i lettori di queste pubblicazioni non chiedevano verità, chiedevano appunto divertimento, e basta. Per fronteggiare da un lato la concorrenza della televisione, e dall'altro l'esigenza di nutrire un numero assai alto di pagine, onde poter vivere sulla pubblicità, anche la stampa cosiddetta seria compresa quella quotidiana, ha dovuto occuparsi sempre più di eventi sociali e di costume, di varietà, di gossip e soprattutto, se non c'erano notizie, è stata costretta a inventarle. Inventare una notizia non vuole dire informare su un evento che non è avvenuto, bensì fare diventare notizia quello che prima non lo era, la frase sfuggita a un uomo politico in vacanza, gli eventi del mondo dello spettacolo. Il pettegolezzo è divenuto così materia d'informazione generalizzata, e ha raggiunto anche penetrali che erano sempre stati esclusi dal monitoraggio curioso della cronaca rosa, toccando monarchi in trono, leader politici e religiosi, presidenti della repubblica, scienziati. In questa prima fase di trasformazione il pettegolezzo, da sussurrato che era, è divenuto urlato, noto alle vittime, ai carnefici e a coloro che in fondo non ne erano interessati. Ha perso il fascino e la forza del segreto. Però ha prodotto una nuova immagine della vittima: essa non è stata più una persona da compiangere, perché è diventata vittima proprio in quanto famosa. Essere oggetto di pettegolezzo (pubblico) è parso a poco a poco segno di status sociale. A questo punto si è passati a una seconda fase quando la televisione ha ideato trasmissioni in cui non erano più i carnefici a spettegolare sulle vittime, bensì le vittime che si presentavano gioiose a spettegolare su se stesse, fiduciose di acquistare così lo stesso status sociale dell'attore o dell'uomo politico. Nel pettegolezzo televisivo non si parla mai male di qualcuno che non c'è: è la vittima che spettegola di sé, parlando delle proprie vicende intime. Gli spettegolati sono i primi a sapere, e tutti sanno che essi lo sanno. Non sono vittime di alcuna mormorazione. Non c'è più segreto. Non si può neppure infierire sulle vittime, perché hanno avuto il coraggio di diventare carnefici di se stessi mettendo a nudo le loro debolezze, né si può commiserarli, perché dalla confessione hanno tratto un vantaggio invidiabile, la pubblica esposizione. Il pettegolezzo ha perduto così la sua natura di valvola sociale, per diventare esibizione inutile. Non dovevamo attendere trasmissioni come il Grande Fratello, che giustamente condanna al voyeurismo nazionale personaggi che, per la scelta che hanno fatto, si sono già posti nel novero di coloro che abbisognano, come è attestato pubblicamente, dell'assistenza di uno psicologo. Già da anni moltissimi, che nessuno riteneva psicologicamente instabili, sono apparsi in video a discutere con il coniuge dei reciproci tradimenti, a litigare con la suocera, a invocare disperatamente l'amato o l'amata che li ha abbandonati, a schiaffeggiarsi in pubblico, a inscenare casi di divorzio in cui venivano impietosamente analizzate le proprie personali incapacità sessuali. Se un tempo la vita privata era talmente segreta che il segreto dei segreti era per definizione quello del confessore, ora è la nozione di confessionale che è stata stravolta. Ma è avvenuto di peggio. Poiché, attraverso l'esibizione della propria vergognosa intimità, uomini e donne comuni da un lato divertivano il pubblico e dall'altro soddisfacevano il loro bisogno di essere visti, si è condannato alla pubblica esposizione anche colui che un tempo era chiamato lo Scemo del Villaggio e che oggi – con understatement di sapore biblico, e per rispetto verso la sua sventura - chiamerò l'Insipiente del Villaggio. L'Insipiente del Villaggio dei tempi andati era colui che, poco dotato da madre natura, sia in senso fisico che in senso intellettuale, frequentava l'osteria del paese, dove i crudeli compaesani gli pagavano da bere perché si ubriacasse e facesse cose disdicevoli e sconce. Si noti che, in quei villaggi, l'insipiente oscuramente capiva che lo stavano trattando da insipiente, ma accettava il gioco, perché era un modo per farsi pagare da bere, e perché un certo esibizionismo era parte della sua insipienza. L'insipiente odierno del villaggio globale televisivo non è una persona media, come il marito che appare sullo schermo ad accusare la moglie d'infedeltà. E' al di sotto della media. Viene invitato ai talk show, ai programmi di quiz, appunto perché è insipiente. L'insipiente televisivo non è necessariamente un sottosviluppato. Può essere uno spirito bizzarro (come lo scopritore dell'Arca Perduta, o l'inventore di un nuovo sistema per il moto perpetuo, che per anni ha bussato inutilmente alle porte di tutti i giornali o di tutti gli uffici brevetti, e finalmente trova qualcuno che lo prende sul serio); può anche essere uno scrittore della domenica rifiutato da tutti gli editori, il quale ha compreso che, anziché ostinarsi a scrivere un capolavoro può avere successo calandosi i calzoni in video, e dicendo parolacce nel corso di un dibattito culturale; può essere la bas-bleu di provincia che finalmente si trova ascoltata mentre pronuncia parole difficili e racconta di avere avuto esperienze extrasensoriali. Una volta, quando gli amici dell'osteria avevano passato il segno con l'insipiente del villaggio, spingendolo a esibizioni insostenibili, intervenivano il sindaco, il farmacista, un amico di famiglia che prendevano l'infelice sottobraccio riportandolo a casa. Invece nessuno riporta a casa e protegge l'insipiente del villaggio globale televisivo, la cui funzione diventa simile a quella del gladiatore, condannato a morte per il piacere della folla. La società, che difende il suicida dalla sua tragica decisione, o il drogato dal desiderio che lo porterà alla morte, non difende 33
l'insipiente televisivo, anzi lo incoraggia, come un tempo incoraggiava nani e donne barbute a esibirsi nei luna park. Si tratta evidentemente di un crimine, ma non è della salvaguardia dell'insipiente che mi sto preoccupando (anche se se ne dovrebbero occupare le autorità competenti, visto che si tratta di circonvenzione d'incapace): è del fatto che, glorificato della sua apparizione sullo schermo, l'insipiente diventa modello universale. Se si è esposto lui, chiunque potrà farlo. L'esibizione dell'insipiente convince il pubblico che nulla, neppure la più vergognosa delle sventure, ha diritto a rimanere privata, e che l'esibizione della stessa deformità premia. La dinamica dell'ascolto fa sì che, non appena l'insipiente appare in video, diventi un insipiente famoso e questa fama si misura in ingaggi pubblicitari, inviti a convegni e a feste, talora anche in offerte di prestazioni sessuali (d'altra parte Victor Hugo ci aveva insegnato che una bella dama può impazzire per l'Uomo che Ride). In definitiva si deforma il concetto stesso di deformità e tutto diventa bello, anche la malformazione, purché sia portata alla gloria del teleschermo. Ricordate la Bibbia? Dixit insipiens in corde suo Deus non est. L'insipiente televisivo afferma orgogliosamente: Ego sum. Un fenomeno analogo sta avvenendo anche su Internet. L'esplorazione di molte home page ci dice che sovente la costituzione di un sito mira soltanto a esibire la propria squallida normalità, quando non si tratti di anormalità. Tempo fa ho trovato la home page di un signore che metteva a disposizione, e forse mette tuttora, la foto del suo colon. Come si sa, da molti anni è possibile andare in una clinica per farsi esaminare il retto con una sonda che reca al culmine una piccola telecamera e lo stesso paziente può osservare su uno schermo televisivo a colori il viaggio della sonda (e della telecamera) nei propri recessi più gelosi. Di solito, qualche giorno dopo l'ispezione, il medico consegna al paziente (riservatissimamente) un referto con la foto a colori del suo colon. Il problema è che i colon di tutti gli esseri umani (tranne casi di tumori ormai terminali) si assomigliano. Pertanto, se si può essere in qualche modo interessati alla foto a colori del proprio colon, si resta indifferenti alla visione di un colon altrui. Ebbene, il signore di cui parlo, ha faticato a installare una home page per fare vedere a tutti la foto del suo colon. Evidentemente si tratta di persona a cui la vita non ha dato nulla, non eredi a cui trasmettere il proprio nome, non partner che si siano interessati al suo viso, non amici a cui mostrare le foto delle vacanze, e che pertanto si affida a quest'ultima disperata esibizione per trovare un minimo di visibilità. In questi, come in altri casi di volontaria rinuncia alla privatezza, stanno abissi di disperazione che dovrebbero indurci a una compassionevole disattenzione. Ma l'esibizionista (tale il suo dramma) non ci consente di ignorare la sua vergogna. Potrei continuare questa rassegna di casi in cui assistiamo alla rinuncia gioiosa alla propria privatezza. Le migliaia di persone che ascoltiamo per strada, al ristorante o sul treno, mentre discutono al telefono cellulare di loro privatissimi affari, o addirittura inscenano via satellite tragedie amorose, non sono spinte dall'urgenza di comunicare qualcosa d'importante, altrimenti parlerebbero a bassa voce, gelosi del loro segreto. Sono ansiosi di far sapere a tutti che prendono decisioni in una azienda di frigoriferi, che comperano e vendono in Borsa, che organizzano congressi, che sono stati abbandonati dal proprio partner. Hanno pagato per acquistare un telefonino e per sostenere una bolletta salatissima che permette loro di esibire di fronte a tutti la propria vita privata. Non è per divertimento che mi sono intrattenuto su questa rassegna di piccole e grandi teratologie psicologiche e morali. E' che ritengo che il compito delle autorità che vegliano sulla nostra privatezza sia non solo quello di difendere coloro che vogliono essere difesi, ma anche quello di proteggere coloro che non sanno più difendersi. Anzi, vorrei dire che è proprio il comportamento degli esibizionisti quello che ci dice quanto l'assalto alla privatezza possa diventare non solo crimine, ma vero e proprio cancro sociale E sono i bambini che, primi tra tutti, andrebbero educati, in modo da sottrarli all'esempio corruttore dei loro genitori. Ma il circolo che si stabilisce è vizioso. L'assalto alla privatezza abitua tutti alla sua scomparsa. Già molti di noi hanno deciso che spesso il modo per mantenere un segreto è renderlo pubblico, per cui si scrivono e-mail o si fanno telefonate in cui si dice apertamente ciò che si ha da dire, sicuri che nessun intercettatore troverà interessante una affermazione che non cerca di mascherarsi. A poco a poco si diventa esibizionisti perché s'impara che più nulla potrà essere riservato - e quando non c'è più nulla di riservato, nessun comportamento diventa più scandaloso. Ma lentamente coloro che attentano alla nostra privatezza si convincono che le stesse vittime sono consenzienti, e allora non si arresteranno più di fronte a nessuna violazione. Quello che volevo dire è che la difesa della privatezza non è solo un problema giuridico, ma morale e antropologico culturale. Dovremo imparare a elaborare, diffondere, premiare una nuova sensibilità al riserbo, educare alla riservatezza verso se stessi e verso gli altri. Per quanto riguarda il riserbo verso altri, credo che l'esempio migliore sia quello di Manzoni. Dovendo finalmente ammettere che la Monaca di Monza, accettando la corte del perverso Egidio, era precipitata in un abisso di dissolutezza e di delitti, preso dal timore di violare l'intimità di quella poveretta, e non potendo celare ai suoi lettori il suo fallo, si è limitato a scrivere: alla sventurata rispose" - là dove 34
forse un autore più corrivo avrebbe speso pagine e pagine per descriverci voyeuristicamente cosa aveva fatto la povera Gertrude. Splendido esempio di cristiana pietà, e di rispetto laico per l'intimità altrui. Quanto al rispetto verso la propria intimità, vorrei citare l'ultima frase del breve biglietto che ha lasciato Cesare Pavese prima di uccidersi: "Non fate troppi pettegolezzi". SUL POLITICALLY CORRECT (Nota: La Repubblica, ottobre 2004). Ritengo che il termine "politicamente corretto" venga ormai usato in senso politicamente scorretto. In altre parole, un movimento di riforma linguistica ha generato degli usi linguistici devianti. Se si va a leggere l'articolo che Wikipedia (una enciclopedia on line) dedica al PC (così è ormai designato, quando non nascano confusioni coi computer o col vecchio partito comunista) si trova anche la storia del termine. Pare dunque che nel 1793 la Corte Suprema degli Stati Uniti (caso detto "Chisholm vs Georgia" , argomentasse che troppo frequentemente si citava uno Stato in luogo del Popolo, per il cui bene lo Stato esiste, e che pertanto era "not politically correct", in un brindisi, parlare di Stati Uniti in luogo di "il Popolo degli Stati Uniti". Poi il movimento ha preso piede negli ambienti universitari americani agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, come (cito sempre da Wikipedia) alterazione del linguaggio intesa a ovviare a ingiuste discriminazioni (reali o pretese) e a evitare offese in modo da trovare sostitutivi eufemistici per usi linguistici che riguardano differenze di razza, genere, orientamento sessuale o disabilità, religione e opinioni politiche. Tutti sappiamo che la prima battaglia del PC si è combattuta per eliminare epiteti offensivi nei confronti della gente di colore, non solo l'infame nigger ma anche negro, parola che in inglese si pronuncia nigro e che suona come un prestito dallo spagnolo ed evoca i tempi dello schiavismo. Da cui prima l'adozione di black e poi, con successiva correzione, african-american. Questa faccenda della correzione è importante perché sottolinea un elemento importante del PC. Il problema non è di decidere "noi" (che stiamo parlando) come chiamare gli "altri", ma di lasciar decidere agli altri come vogliono essere chiamati, e se il nuovo termine continua in qualche modo a turbarli, accettare la proposta di un terzo termine. Se tu non u trovi in una certa situazione non puoi sapere quale sia il termine che turba e offende coloro che vi si trovano; quindi devi accettare la loro proposta. Il caso tipico è quello della decisione di usare in italiano non vedente invece di cieco. Si può legittimamente ritenere che non vi sia nulla di offensivo nel termine cieco e che l'usarlo non diminuisca, anzi rafforzi, il senso di rispetto e solidarietà che si deve agli appartenenti a questa categoria (c'è sempre stata una certa nobiltà nel parlare di Omero come del gran veggente cieco); ma se gli appartenenti alla categoria si ritengono più a proprio agio con non vedente siamo tenuti a rispettare il loro desiderio. Era pesante l'epiteto di spazzino per chi faceva quell'onesto lavoro? Ebbene, se la categoria lo desidera, useremo operatore ecologico. Per amore di paradosso, il giorno che gli avvocati si sentissero disturbati da questo appellativo (magari per l'eco di termini spregiativi come avvocaticchio o avvocato delle cause perse) e chiedessero di essere designati come operatori legali, sarà educato attenersi a quest'uso. Perché gli avvocati non si sognerebbero mai di cambiare denominazione (vi immaginate Gianni Agnelli che avesse chiesto di essere nominato come l'Operatore Legale Agnelli)? Perché, risposta ovvia, gli avvocati sono socialmente considerati e godono di eccellenti condizioni economiche. Un punto è pertanto che spesso la decisione PC può rappresentare un modo di eludere problemi sociali ancora irrisolti, mascherandoli attraverso un uso più educato del linguaggio. Se si decide di chiamare le persone in carrozzella non più handicappati e neppure disabili, ma diversamente abili, e poi non gli Si costruiscono le rampe d'accesso ai luoghi pubblici, evidentemente si è ipocritamente rimossa la parola, ma non il problema. Del pari si dica della bella sostituzione di disoccupato con nullafacente a tempo indefinito o di licenziato con in transizione programmata tra cambiamenti di carriera. E si veda in proposto il libro di Edoardo Crisafulli, Igiene verbale. Il politicamente corretto e la libertà linguistica edito da Vallecchi, che mette a nudo tutte le contraddizioni, i pro e i contro di questa tendenza. Questo spiega perché una categoria richiede il cambio del nome e dopo un poco, restate intatte alcune condizioni di partenza, esige una nuova denominazione, in una fuga in avanti che potrebbe non finire più se, oltre al nome, non cambia anche la cosa. Ci sono addirittura dei salti all'indietro, dove una categoria richiede il nuovo nome, ma poi nel proprio linguaggio privato mantiene quello antico, o vi ritorna, a titolo di sfida (Wikipedia osserva che in alcune gang giovanili afro-americane si usa spavaldamente il termine nigger, ma naturalmente guai se a usarlo non fosse uno dei loro - un poco come accade con le barzellette sugli ebrei, sugli scozzesi o sui cuneesi, che possono raccontare solo ebrei, scozzesi e cuneesi). Talora il PC può sfiorare addirittura un razzismo latente. Ricordo benissimo che nel dopoguerra, molti italiani ancora diffidentinei confronti degli ebrei, ma che non volevano mostrarsi razzisti, per dire di qualcuno che era ebreo dicevano, dopo una esitazione infinitesimale, che era un israelita. Non sapevano che gli ebrei erano orgogliosi di 35
essere riconosciuti come ebrei, anche se (e in parte proprio perché) il termine era stato usato come insulto dai loro persecutori. Un altro caso imbarazzante è stato quello delle lesbiche: per lungo tempo chi voleva apparire corretto aveva timore a usare questo termine, così come non usava i dispregiativi consueti per gli omosessuali, e timidamente parlava di saffiche. Poi si è scoperto che, tra gli omosessuali, se gli uomini volevano essere chiamati gay, le donne si definivano tranquillamente come lesbiche (anche a causa del pedigree letterario del termine), e pertanto era correttissimo chiamarle così. Talora il PC ha veramente mutato, e senza troppi traumi, gli usi linguistici. E' sempre più frequente, quando Si fanno esempi generali, evitare di parlare al maschile e parlare di essi. Molti professori americani non dicono più "quando viene da me uno studente..." ma o parlano di «studenti" (in inglese va bene, in italiano provocherebbe ancora degli imbarazzi) o addirittura variano negli esempi, parlando talora di un he e talora di una she; ed è ormai accettata la sostituzione di chairman (presidente) con chairperson o chair. Anche se chi scherza sul PC ha proposto di cambiare il termine per il postino, mail man, in person person, perché anche mail (posta) può suonare come male (maschio). Queste satire prendono atto del fatto che, una volta impostosi come movimento democratico e "liberal", che aveva assunto immediatamente una connotazione di sinistra (almeno nel senso della sinistra americana), il PC ha prodotto le sue degenerazioni. Si è ritenuto che mankind fosse sessista, per via del prefisso man, ed escludesse dall'umanità le donne, e si è deciso di sostituirlo con humanity, per ignoranza etimologica, dato che anch'esso deriva da homo (e non da mulier). Sia pure per provocazione, ma sempre per ignoranza etimologica, certe frange del movimento femminista avevano proposto di non parlare più di history (dove his è pronome maschile) ma di herstory. L'esportazione del PC in altri paesi ha prodotto nuovi contorcimenti, e tutti sappiamo dei dibattiti (non risolti) se sia più rispettoso chiamare una donna avvocatessa o avvocato, e trovo in un testo americano la domanda se sia veramente PC chiamare poetess una donna poeta, come se fosse solo la moglie di un poeta (e anche qui giocano gli usi sedimentati, perché da noi il termine poetessa è ormai accettato tanto quanto professoressa, mentre suonerebbe bizzarro e persino insultante banchieressa o banchiera). Un caso tipico di difficile trasposizione è proprio quello del cambio di negro in nero. In America il passaggio dal connotatissimo negro a black era radicale, mentre in italiano il passaggio da negro a nero suona un poco forzato. Tanto più che il termine negro ha una sua storia legittima e attestata da molte fonti letterarie: tutti ricordiamo che nelle traduzioni di Omero che leggevamo a scuola si arlava del "negro vino", e sono stati scrittori africani di lingua francese a parlare di négritude. In America le degenerazioni del PC hanno incoraggiato una pletora di falsi e divertentissimi dizionari PC in cui oltre un certo limite non si capisce più se una certa dizione è stata realmente proposta o è stata inventata con propositi satirici. Infatti accanto a sostituzioni ormai entrate nell'uso, si trovano socialmente separato per carcerato, funzionario del controllo bovino per cowboy, correzione geologica per terremoto, residenzialmente flessibile per barbone, erezionalmente limitato per impotente, orizzontalmente accessibile per donna di facili costumi, regressione follicolare per calvizie e addirittura carente in melanina per indicare un uomo bianco. In Internet troverete la pubblicità della S.T.U.P.I.D. (Scientific and Technical University for Politically Intelligent Development) dove si annuncia che in quel campus si sono istituiti segnali stradali non solo in cinque lingue ma anche in Braille, e che vi vengono offerti corsi sul contributo degli aborigeni australiani e degli indiani delle Aleutine alla meccanica quantistica, su come la piccola statura (l'essere vertically challenged) abbia favorito le scoperte scientifiche di Newton, Galileo e Einstein, e sulla cosmologia femminista, che sostituisce alla metafora maschilista ed eiaculatoria del Big Bang la teoria del Gentle Nurturing, secondo la quale la nascita dell'universo è avvenuta per lenta gestazione. Si possono trovare in Internet versioni PC di Cappuccetto Rosso e Biancaneve (lascio immaginare come un seguace del PC possa cavarsela coi Sette Nani) e ho trovato una lunga discussione su come possa essere tradotto "il pompiere ha appoggiato una scala all'albero, è salito e ha recuperato il gatto". A parte l'ovvio principio PC per cui un pompiere deve essere come minimo un vigile del fuoco, la traduzione proposta prende molte righe perché si tratta di mettere in chiaro che il pompiere era nel caso specifico un uomo ma avrebbe potuto benissimo essere anche una donna, ha agito contro la libertà del gatto che aveva diritto di andare in giro dove voleva, ha messo a repentaglio con la scala il benessere dell'albero, ha sottinteso che il gatto fosse proprietà dei suoi padroni, e salendo con disinvoltura ha offeso la sensibilità di persone fisicamente disabili, e così via. A parte le esagerazioni effettive e i risvolti comici che esse hanno ispirato, il PC ha prodotto sin dall'inizio una violenta reazione da parte degli ambienti conservatori, che lo vedono come un caso di bigotteria di sinistra e una imposizione che lede il diritto alla libertà di parola. Spesso il richiamo è alla Neolingua di Orwell e (talora direttamente) al linguaggio ufficiale dello stalinismo. Molte di queste reazioni sono altrettanto bigotte, e d'altra parte esiste un PC di destra, altrettanto intollerante di quello di sinistra, e basti pensare alle scomuniche lanciate contro 36
coloro che parlano di "resistenza" irachena. Inoltre, sovente si fa confusione tra suggerimento morale e obbligo legale. Un conto è dire che è eticamente scorretto chiamare culattoni gli omosessuali e affermare che, se chi lo fa è un ministro, e lo fa su carta intestata del ministero, si deve parlare soltanto di miserabile inciviltà. Un conto è dire che chi si esprime così deve essere incarcerato (a meno che Tremaglia non dia del culattone a Buttiglione, nel qual caso sarebbe comprensibile una querela con ampia richiesta di danni morali). Ma, a parte la volgarità di Tremaglia, non pare esistere nessuna legge che commini anni o mesi di carcere a chi dica spazzino invece di operatore ecologico, e tutto rimane faccenda di responsabilità personale, buon gusto e rispetto per i desideri altrui. Però sono documentabili molti casi in cui, per avere fatto un uso politicamente scorretto del linguaggio, interi programmi televisivi sono stati penalizzati dalla pubblicità, o addirittura chiusi, e non sono rari scandali universitari in cui un professore viene messo al bando per non aver prestato attenzione nell'impiegare solo termini politicamente corretti. E si capisce pertanto come il dibattito non metta in scena soltanto liberali e conservatori gli uni contro gli altri armati, ma spesso si svolga lungo linee di divisione molto problematiche. Non molto tempo fa il Los Angeles Times aveva deciso, come politica editoriale, di usare il termine anti-abortion in vece di prolife (in difesa della vita), dato che questo secondo termine implicava già un giudizio ideologico. Controllando l'articolo di un collaboratore che recensiva una rappresentazione teatrale, il redattore aveva trovato prolife, però, usato in tutt'altro senso, e lo aveva cambiato in anti-abortion, stravolgendo il significato del pezzo. Scoppiato il caso, il giornale si è scusato e ha fatto il nome del redattore responsabile dell'equivoco, ma qui è esploso un nuovo caso perché, a protezione della privacy del redattore incaricato di rivedere i pezzi altrui, il giornale non doveva renderne pubblico il nome. Lentamente però, specie in America, si è scivolati dal problema semplicemente linguistico (chiama gli altri come desiderano essere chiamati) al problema dei diritti delle minoranze. Naturale che in certe università studenti non occidentali volessero anche dei corsi sulle proprie tradizioni culturali e religiose e sulla loro letteratura. Meno ovvio che, per esempio, degli studenti africani volessero che i corsi su Shakespeare fossero sostituiti con corsi sulle letterature africane. La decisione, quando e se accettata, apparentemente rispettava l'identità dell'afro-americano, ma di fatto gli sottraeva delle conoscenze utili per poter vivere nel mondo occidentale. Si è arrivati dunque a dimenticare che la scuola non deve insegnare agli studenti solo quello che essi vogliono ma anche e certe volte proprio quello che non vorrebbero, o che non sanno di poter volere (altrimenti in tutte le elementari e medie non si insegnerebbero più matematica o latino, ma solo giochi di ruolo al computer - o il pompiere accetterebbe che il gatto scappi a scorrazzare sull'autostrada, perché tale è il suo naturale desiderio. E qui si arriva all'ultimo punto di questo discorso. Sempre più di frequente viene designato come uso PC ogni atteggiamento politico che privilegi la comprensione tra razze e religioni o addirittura il tentativo di capire le ragioni dell'avversario. Il caso più significativo è avvenuto con una trasmissione televisiva americana, dove il conduttore, Bill Maher, a proposito dell' undici settembre, aveva contestato una frase di Bush che definiva "vigliacchi" gli attentatori delle Due Torri. Maher aveva affermato che tutto si può dire di un kamikaze salvo che manchi di coraggio. Apriti cielo. Sono repentinamente calate le pubblicità per la trasmissione, che alla fine è stata eliminata. Ora il caso Maher non aveva nulla a che fare col PC, né visto da destra né visto da sinistra. Maher aveva espresso una opinione. Gli si poteva rimproverare di averlo fatto davanti a un pubblico a cui la tremenda ferita dell'undici settembre doleva ancora, si poteva dibattere come ha fatto qualcuno sulla differenza tra vigliaccheria morale e vigliaccheria fisica, si poteva dire che un kamikaze è talmente obnubilato dal proprio fanatismo che a quel punto non si può più parlare né di coraggio né di paura. .. Tuttavia Maher stava esprimendo una propria idea, provocatoria quanto si vuole, ma non usava un linguaggio politicamente scorretto. Parimenti, da noi, si ironizza talora sull'eccesso di PC da parte di chi manifesta simpatia per i palestinesi, chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq o appare troppo indulgente con le richieste delle minoranze extracomunitarie. In questi casi il PC non c'entra affatto, si tratta di posizioni ideologiche e politiche, che chiunque ha diritto di contestare, ma che non hanno nulla a che fare con il linguaggio. Salvo che il discredito gettato sul PC dagli ambienti conservatori fa dell'accusa di PC un ottimo strumento per mettere a tacere coloro dai quali si dissente. PC diventa così una brutta parola, come sta accadendo a pacifismo. Come si vede, una storia complicata. Non resta che stabilire che è politicamente corretto usare i termini, compreso quello di PC, nel loro senso proprio e, se si vuole essere PC in quel senso, farlo secondo buon senso (senza chiamare Berlusconi persona verticalmente svantaggiata intesa a ovviare a una regressione follicolare). Attenendosi soltanto al principio fondamentale che è umano e civile eliminare dal linguaggio corrente quei termini che fanno soffrire nostri simili. CHE COS'E' UNA SCUOLA PRIVATA (Nota: la Repubblica, agosto 2001).
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Una volta Pitigrilli aveva scritto che leggeva tutte le mattine l'articolo di fondo del suo direttore per sapere che cosa doveva pensare. E' un principio che (con buona pace di Ezio Mauro) non condivido, almeno non sempre. Ma è certo che talora, per sapere che cosa si deve pensare, si scrive un articolo noi stessi. E' un modo di raccogliere le idee. Ecco perché vorrei dire alcune cose sulle varie polemiche circa la scuola privata, e indipendentemente dai particolari tecnico-parlamentari del caso italiano. Chiediamo a qualcuno se in un paese democratico sia lecito a chiunque stabilire un insegnamento privato, e a ogni famiglia scegliere per i figli l'insegnamento che ritiene più adeguato. La risposta deve essere certamente sì, altrimenti in che democrazia saremmo? Chiediamo ora se qualcuno, che ha speso un capitale per comperarsi una Ferrari, ha il diritto di andare a duecento all'ora in autostrada. E' triste per chi ha fatto questo investimento, e per Luca Cordero di Montezemolo, ma la risposta è no. E se io ho impiegato tutti i miei risparmi per comprarmi una casetta proprio in riva al mare, ho diritto che nessuno venga a mettersi sulla spiaggia davanti a me per far baccano e gettare cartacce e lattine di Coca Cola? La risposta è no, devo lasciare un passaggio libero perché c'è una striscia di spiaggia che è di tutti (al massimo posso chiamare la polizia e denunciare chi la sporca). Il fatto è che in democrazia chiunque ha diritto a esercitare le proprie libertà purché questo esercizio non rechi danno alle libertà degli altri. Ritengo persino che una persona abbia il diritto di suicidarsi, ma il permesso vale sino a che la percentuale dei suicidi si mantiene su cifre trascurabili. Se ci fosse una epidemia di suicidi, lo stato dovrebbe intervenire per limitare una pratica che, alla fine, arrecherebbe danno all'intera società. Che cosa c'entra questo con la scuola privata? Prendiamo l'esempio di un paese come gli Stati Uniti dove lo Stato si preoccupa solo di garantire ai suoi cittadini ogni libertà possibile, compresa quella di portare armi (anche se qualcuno laggiù incomincia a chiedersi se questa libertà non sia lesiva della libertà altrui). Laggiù potete decidere se andare alla scuola pubblica o alla scuola privata. Una famiglia di miei amici, laici ed ebrei, ha mandato la figlia in un liceo tenuto da suore cattoliche, certamente costoso, perché davano la garanzia di insegnare persino chi fosse Giulio Cesare, mentre nelle scuole pubbliche si risaliva al massimo a George Washington. Naturalmente, facendo una buona scuola, quella ragazza è poi entrata a Harvard, mentre quelli della scuola pubblica no, perché l'insegnamento doveva essere tenuto al livello di ragazzi portoricani che parlavano a fatica l'inglese. La situazione statunitense è pertanto questa: chi ha soldi può avere per i propri figli una buona educazione, chi non li ha li condanna al semianalfabetismo. Quindi lo stato americano è incapace di provvedere ai suoi cittadini pari opportunità. Se le università, in parte pubbliche e in parte private, sono in genere eccellenti è perché la bontà di una università viene poi controllata dal mercato, e anche molte università pubbliche fanno il possibile per mantenere un buon livello. Ma per l'università la cosa vale anche in Italia, specie dopo l'autonomia concessa agli atenei. Lo stato si preoccupa solo di riconoscere la laurea fornita da alcune università private e di stabilire commissioni nazionali per il conferimento delle cattedre. Poi, se esci dalla Bocconi sei a posto, se esci da una università privata di reputazione un poco esile, o sarà il mercato a verificare, o i vari concorsi per la magistratura, il titolo di procuratore, l'abilitazione all'insegnamento e così via. Ma con la scuola materna, elementare e media non c'è controllo del mercato o di pubblici concorsi. Uno fa delle scuole depresse e non lo saprà mai (altrimenti non sarebbe culturalmente depresso), l'altro fa delle scuole eccellenti e diventa classe dirigente. E questa democrazia piena? Soluzione: lo Stato riconosce il diritto dei privati di impartire l'insegnamento elementare e medio ma dà un buono uguale a tutti i cittadini, e i cattolici manderanno i figli dagli scolopi, i laici arrabbiati alla scuola comunale. In democrazia i genitori hanno diritto di decidere sull'educazione dei figli. Ma occorre che la scuola privata, magari eccellentissima, non stabilisca tasse aggiuntive rispetto al buono, altrimenti è ovvio che, per attrarre genitori abbienti e colti, frapponga qualche forma di ostacolo in modo che non le arrivino figli di immigrati o di disoccupati che in famiglia non hanno imparato un italiano decente. E' possibile imporre a una scuola privata di accettare anche un bambino nero e culturalmente in ritardo? Se la scuola privata dovesse adattarsi al livello di questi alunni regolarmente sovvenzionati dallo stato, come farebbe a restare scuola d'élite? Ma anche se si raggiungesse questa situazione di eguaglianza democratica, sappiamo benissimo che ci sono scuole private (citerei il Leone 13esimo di Milano, o i gesuiti presso i quali ha studiato, senza subire evidentemente troppe pressioni ideologiche, Piero Fassino) che cercano a ogni costo di mantenere un livello di eccellenza, e scuole private di qualsiasi tendenza che sono specializzate nei diplomi facili. Ai miei tempi lo Stato esercitava su queste scuole un controllo molto fiscale, e mi ricordo le traversie dei privatisti a un esame di Stato. Ma allora, se questo controllo deve esserci, esami come quello di maturità debbono diventare ben più severi di oggi, almeno quanto lo erano ai miei tempi, con una commissione esterna (tranne un solo docente interno) e programma di tre anni al completo - e i sogni angosciosi che ci hanno accompagnato per tutta la vita. Altrimenti potrebbe accadere di avere generazioni di ignoranti, alcuni provenienti dalle scuole statali ormai riservate a sottoproletari, e altri provenienti da scuole private 38
truffaldine per ragazzi ricchi e svogliati. Non finisce qui. Ammettiamo che tutti questi inconvenienti possano essere risolti da una legge che salvaguardi anche i diritti dei non abbienti, e che un piccolo senegalese italianizzato possa frequentare con un buono statale anche la più esclusiva tra le scuole private. Ma allora, per l'eguaglianza di tutti i cittadini (e di tutte le opinioni, e di tutte le fedi) di fronte alla legge, ciascuno avrà diritto di organizzare una scuola privata finanziata coi buoni statali Gli scolopi, certamente, e i gesuiti, ma anche i valdesi, o una associazione di laici che costituisca i Licei Siccardi (o Cavour, o Ardigò) in cui si educhino i ragazzi a un sano razionalismo, si mettano sullo stesso piano tutte le religioni, si legga un poco di Corano, un poco di Bibbia e un poco di testi buddhisti, e si rivisiti la storia d'Italia in spirito laico. O che Rifondazione stabilisca delle scuole Feuerbach, ispirate a una critica dei pregiudizi religiosi, o che la Massoneria metta insieme dei Licei Hiram, dove si educano i ragazzi ai principi spirituali e morali di quella associazione. Tanto paga lo Stato, e ciascuna di queste imprese (magari con qualche sponsorizzazione) potrebbe essere in attivo. Ancora, perché proibire (siamo in democrazia) al reverendo Moon e a monsignor Milingo di fare il proprio liceo, così come esistono le scuole steineriane? E perché proibire una media musulmana, o ai seguaci di varie sette sudamericane di lanciare i Licei Oxalà, dove si trasmettano i principi del sincretismo afro-brasiliano? Chi potrebbe protestare? Il Vaticano, chiedendo al governo di ristabilire la sovrana autorità dello Stato? Ma allora saremmo da capo a quindici. E, anche ammesso che si potesse attuare un controllo statale di accettabilità, potremmo escludere dalle scuole accettate una che trasmetta ai propri allievi un totale scetticismo nei confronti delle religioni, e un'altra che diffonda sani principi fondamentalisti coranici, purché rispettino le ore regolamentari di italiano, storia e geografia? Dopo di che avremmo un paese di cittadini, divisi per gruppi etnici e ideologici, ciascuno con la propria formazione, incommensurabile con le altre. Ma questa non sarebbe una soluzione di sano multiculturalismo. Una società multiculturale deve educare i propri cittadini a conoscere, riconoscere e accettare le differenze, non a ignorarle. Qualcuno ha fatto l'esempio di paesi stranieri in cui la libertà dell'educazione regnerebbe sovrana. Ma si potrebbe citare come esempio opposto la Francia. Se volete diventare, in quel paese, un gran commis d'État, dovete passare per l'Ena, o per l'École Normale Superieure di rue d'Ulm, e se volete arrivare all'École Normale dovete essere passato per i grandi licei statali, che si chiamano Louis le Grand, Descartes, Henry IV. In questi licei lo Stato si preoccupa di educare i propri cittadini a quello che essi chiamano "la République», ovvero un insieme di conoscenze e valori che debbono rendere uguale, almeno in teoria, un ragazzo nato ad Algeri e uno nato in Normandia. Forse l'ideologia de "la République" è troppo rigida, ma non può essere corretta col proprio opposto, cattolici coi cattolici, protestanti coi protestanti, musulmani coi musulmani, atei con gli atei e Testimoni di Geova coi Testimoni di Geova. Ammetto che, a lasciar le cose come vuole oggi la Costituzione, non si eliminerebbe una certa dose d'ingiustizia: i ricchi continuerebbero a mandare i figli dove vogliono, magari all'estero (i più stupidi tra i ricchi li manderebbero a una high school americana) e i poveri rimarrebbero affidati alla scuola di tutti. Ma democrazia è anche accettare una dose sopportabile di ingiustizia per evitare ingiustizie maggiori. Ecco alcuni problemi che nascono dall'affermazione, in sé ovvia e indolore, che i genitori dovrebbero poter mandare i loro figli alla scuola che preferiscono. Se non si affrontano tutti questi problemi, il dibattito rischia di ridursi a una faida tra cattolici integristi e laici mangiapreti, il che sarebbe male. SCIENZA, TECNOLOGIA E MAGIA (Nota: Discorso pronunciato a Roma nel novembre 2002 alla Conferenza Scientifica Internazionale presieduta da Umberto Veronesi (dedicata alla informazione scientifica), e poi pubblicato sulla Repubblica). Noi crediamo di vivere in quella che, individuandola ai suoi primordi, Isaiah Berlin aveva definito The Age of Reason. Finite le tenebre medievali, iniziato il pensiero critico della rinascenza e lo stesso pensiero scientifico, si ritiene che viviamo oggi in una età dominata dalla scienza. A dire il vero, questa visione di un predominio ormai assoluto della mentalità scientifica, che veniva annunciata sia ingenuamente nell'Inno a Satana di Carducci che più criticamente nel Manifesto del partito comunista del 1848, è più sostenuta dai reazionari, dagli spiritualisti, dai laudatores temporis acti che non dagli scienziati. Sono quelli e non questi che disegnano affreschi di sapore quasi fantascientifico circa un mondo che, dimentico di altri valori, si basa solo sulla fiducia nelle verità della scienza e nel potere della tecnologia. Il modello di un'epoca dominata dalla scienza è ancora, nella visione dei suoi nemici, quello proposto trionfalmente da Carducci nell'Inno a Satana: Via l'aspersorio - prete, e il tuo metro! No, prete, Satana - non torna indietro! ... 39
Salute o Satana, o ribellione, - o forza vindice de la ragione! Sacri a te salgano - gl'incensi e i voti! Hai vinto il Geova - de i sacerdoti. A leggere con attenzione questo testo del 1863 si vede che vi sono nominati, come eroi satanici contro il predominio del pensiero religioso, le streghe e gli alchimisti, i grandi eretici e i riformatori, da Huss a Savonarola a Lutero, ma nessuno scienziato, neppure l'italico Galileo, che avrebbe dovuto far fremere il cuore anticlericale e repubblicano di Carducci. Venendo ai tempi moderni, l'eroe, il simbolo della vittoria della ragione sulla fede, è il treno: Un bello e orribile - mostro si sferra, corre gli oceani, - corre la terra: corrusco e fumido - come i vulcani, i monti supera, - divora i piani; sorvola i baratri: - poi si nasconde per antri incogniti, - per vie profonde; ed esce; e indomito - di lido in lido come di turbine - manda il suo grido. Cioè, anche per Carducci, amante dei classici ma pervaso di furori ancora romantici, il simbolo della vittoria della ragione è un prodotto della tecnologia, non una idea della scienza. Pertanto, proprio a questo riguardo s'impone una prima distinzione, vale a dire quella tra scienza e tecnologia. Gli uomini d'oggi non solo si attendono ma pretendono tutto dalla tecnologia e non distinguono tra tecnologia distruttiva e tecnologia produttiva. Il bambino che gioca a Star Wars col computer usa il telefonino come un'appendice naturale delle trombe d'Eustachio o lancia le sue chat via Internet, vive nella tecnologia e non concepisce che possa essere esistito un mondo diverso, un mondo senza computer e persino senza telefoni. Ma non accade la stessa cosa con la scienza. I mass-media confondono l'immagine della scienza con quella della tecnologia e trasmettono questa confusione ai loro utenti che ritengono scientifico tutto ciò che è tecnologico, in effetti ignorando quale sia la dimensione propria della scienza, di quella - dico - di cui la tecnologia è sicuramente una applicazione e una conseguenza ma non certo la sostanza primaria. La tecnologia è quella che ti dà tutto e subito, mentre la scienza procede adagio. Virgilio ci parla della nostra epoca come l'epoca dominata, vorrei dire ipnotizzata, dalla velocità. Certo, viviamo nell'epoca della velocità, lo avevano capito in anticipo i futuristi, oggi siamo usi andare in tre ore e mezzo dall'Europa a New York col Concorde, e i disturbi da jet lag e le varie panacee a base di melatonina sono una conseguenza del nostro vivere nella velocità. Non solo, siamo talmente abituati alla velocità che ci arrabbiamo se l'email non si scarica subito o se l'aereo ritarda. Però questa assuefazione alla tecnologia non ha nulla a che fare con l'abitudine alla scienza. Ha piuttosto a che fare con l'eterno ricorso alla magia. Che cosa era la magia, che cosa è stata nei secoli e che cosa è ancora oggi, sia pure sotto mentite spoglie? La presunzione che si potesse passare di colpo da una causa a un effetto per cortocircuito, senza compiere i passi intermedi. Infilo uno spillo nella statuetta del nemico e quello muore, pronuncio una formula e trasformo il ferro in oro, evoco gli angeli e invio tramite loro un messaggio. L'abate benedettino Tritemio è stato nel 15esimo secolo uno dei precursori della crittografia moderna, ed elaborava i suoi sistemi di codifica segreta per istruire i governanti e i capi degli eserciti: ma per rendere appetibile le sue scoperte e le sue formule (oggi agilmente realizzabili da un computer, ma per l'epoca abbastanza geniali), mostrava come la sua tecnica fosse in effetti una operazione magica grazie alla quale si potevano convocare angeli che in un secondo recassero lontano e in modo riservato i nostri messaggi. La magia ignora la catena lunga delle cause e degli effetti e soprattutto non si preoccupa di stabilire provando e riprovando se ci sia un rapporto replicabile tra causa ed effetto. Di qui il suo fascino, dalle civiltà primitive al nostro solare rinascimento, e oltre, sino alla pleiade di sette occultistiche onnipresenti su Internet. La fiducia, la speranza nella magia non si è affatto dissolta con l'avvento della scienza sperimentale. Il desiderio della simultaneità tra causa ed effetto si è trasferito alla tecnologia, che sembra la figlia naturale della scienza. Quanto si è dovuto penare per passare dai primi computer del Pentagono, dall'Elea di Olivetti grande quanto una stanza (e si racconta che sono occorsi mesi ai programmatori di Ivrea per disporre quel mastodonte a emettere le note de Il ponte sul fiume Kwai - e ne erano orgogliosissimi) al nostro personal computer dove accade tutto in un attimo? La tecnologia fa di tutto perché si perda di vista la catena delle cause e degli effetti. I primi utenti del computer programmavano in Basic, che non era il linguaggio macchina ma ne lasciava 40
intravedere il mistero (noi primi utenti del personal non conoscevamo il linguaggio macchina ma sapevamo che per obbligare i chips a fare un certo percorso si dovevano dare penosissime istruzioni in linguaggio binario). Windows ha occultato anche la programmazione Basic, l'utente schiaccia un bottone e ribalta una prospettiva, si collega con un corrispondente lontano, ottiene i risultati di un calcolo astronomico, ma non sa più che cosa ci sta dietro (eppure ci sta). L'utente vive la tecnologia del computer come magia. Potrebbe sembrare strano che questa mentalità magica sopravviva nella nostra era, ma se ci guardiamo intorno essa riappare trionfante dappertutto. Oggi assistiamo al revival di sette sataniche, di riti sincretistici che una volta gli antropologi culturali andavano a studiare nelle favelas brasiliane e che oggi monsignor Milingo esercita o esercitava a Roma e non a Salvador de Bahia, persino le religioni tradizionali tremano di fronte al trionfo di quei riti e debbono venirci a patti non parlando al popolo del mistero della Trinità (la discussione teologica è semmai, sia pure con altri criteri, affine al metodo della scienza, se non altro procede per sottili ragionamenti, passo per passo) e trovando più comodo esibire l'azione fulminea del miracolo. Il pensiero teologico ci parlava e ci parla del mistero della Trinità, ma argomentava e argomenta per dimostrare come sia concepibile, oppure come sia insondabile. Il pensiero del miracolo ci mostra invece il numinoso, il sacro, il divino, che appare, o che viene rivelato da una voce carismatica e a questa rivelazione (non ai laboriosi sillogismi della teologia) le masse sono invitate a sottostare. Ora, quello che della scienza traspare attraverso i mass-media è - mi dispiace dirlo - soltanto il suo aspetto magico, quando trapela, e quando trapela è perché promette una tecnologia miracolosa. Vi è talora un pactum sceleris tra scienziato e mass-media per cui lo scienziato non può resistere alla tentazione, o crede suo dovere, di comunicare una ricerca in corso, talora anche per ragioni di fund raising, ma ecco che la ricerca viene subito comunicata come scoperta - con conseguente delusione quando ci si accorge che il risultato non è ancora sul piatto. Gli episodi li conosciamo tutti, dall'annuncio indubbiamente prematuro della fusione fredda ai continui avvisi di scoperta della panacea contro il cancro. Il caso Di Bella è stato un trionfo della fiducia magica nel risultato immediato. E' difficile comunicare al pubblico che la ricerca è fatta di ipotesi, esperimenti di controllo, prove di falsificazione. Il dibattito che oppone la medicina ufficiale alle medicine alternative è di questo tipo: perché il pubblico deve credere alla promessa remota della scienza quando ha l'impressione di avere il risultato immediato della medicina alternativa? Recentemente Garattini sulla rivista del Cicap avvisava che quando si assume una medicina e si ha la guarigione entro breve tempo, questo non è ancora la prova che il farmaco sia efficace. Ci sono ancora altre due spiegazioni: che la remissione è avvenuta per cause naturali e il rimedio ha funzionato solo da placebo, oppure che addirittura la remissione sarebbe avvenuta prima e il rimedio l'abbia ritardata. Ma provate a far comprendere al grosso pubblico queste due possibilità. La reazione sarà d'incredulità perché la mentalità magica vede solo un processo, il cortocircuito sempre trionfante tra la causa presunta e l'effetto sperato. A questo punto ci si accorge anche di come possa accadere, e sta accadendo, che siano annunciati tagli consistenti alla ricerca e l'opinione pubblica rimanga indifferente. Sarebbe rimasta turbata se si fosse chiuso un ospedale o se aumentasse il costo delle medicine, ma non è sensibile alle stagioni lunghe e costose della ricerca. Al massimo pensa che i tagli alla ricerca possano indurre qualche scienziato nucleare a emigrare in America (tanto la bomba atomica ce l'hanno loro) e non ci si rende conto che proprio questi tagli possono ritardare la scoperta di un farmaco più efficace per l'influenza, o la commercializzazione di un'automobile elettrica, e non viene posto un rapporto tra il taglio alla ricerca e il bambino col morbo blu o con la poliomielite perché la catena delle cause e degli effetti è lunga e mediata, non immediata come nell'azione magica. Avrete visto quella puntata di E.R. Medici in prima linea in cui il dottor Green annuncia a una lunga coda di pazienti che non saranno dati antibiotici a coloro che sono ammalati d'influenza perché non servono. Ne era nata una insurrezione con accuse addirittura di discriminazione razziale. Il paziente vede il rapporto magico tra antibiotico e guarigione e i media gli hanno detto che l'antibiotico guarisce. Tutto si limita a quel corto circuito. La compressa di antibiotico è prodotto tecnologico, e come tale riconoscibile. Le ricerche sulle cause e i rimedi dell'influenza riguardano le università. Ho delineato uno scenario preoccupante e deludente, anche perché è facile che lo stesso uomo di governo (che talora, e sono state addirittura cronache della Casa Bianca, consulta maghi e astrologi) pensi come l'uomo della strada e non come l'uomo del laboratorio. Sono stato capace di delineare lo scenario perché è materia di fatto, ma non sono in grado di individuare i rimedi Inutile richiedere ai mass-media di abbandonare la mentalità magica: Vi sono condannati non solo per ragioni che oggi chiameremmo di audience ma perché di tipo magico è la natura del rapporto che sono obbligati a porre giornalmente tra causa ed effetto. Esistono e sono esistiti, è vero, seri divulgatori, e vorrei ricordare l'amico Giovanni 41
Maria Pace recentemente scomparso, ma anche in quei casi il titolo (fatalmente scandalistico) faceva sempre aggio sul contenuto dell articolo e la spiegazione anche cauta di come stia iniziando una ricerca per un vaccino definitivo contro tutte le influenze apparirà fatalmente come l'annuncio trionfale che l'influenza è stata finalmente debellata (dalla scienza? No, dalla tecnologia trionfante che avrà messo sul mercato una nuova pillola). Come deve comportarsi lo scienziato di fronte alla domanda impellente che i media gli rivolgono ogni giorno di promesse miracolose? Con la prudenza, è ovvio, ma non serve, lo abbiamo visto. Ne può dichiarare il black-out su ogni notizia scientifica perché la ricerca è per sua natura pubblica. Credo che dovremmo tornare sui banchi di scuola. Spetta alla scuola, e a tutte le iniziative che possono sostituire la scuola, compresi i siti Internet di sicura attendibilità, educare lentamente i giovani a una retta comprensione dei procedimenti scientifici. E il compito più duro perché anche il sapere trasmesso dalle scuole si deposita sovente nella memoria come una sequenza di episodi miracolosi: Madame Curie che rientra una sera e da una macchia su un foglio scopre la radioattività, il dottor Fleming che getta l'occhio distratto su un muschio e scopre la penicillina, Galileo che vede oscillare una lampada e pare che in un colpo scopra tutto, persino che la terra gira, così che ci dimentichiamo, di fronte al suo leggendario calvario, che neppure lui aveva scoperto secondo quale curva girasse. Come possiamo attenderci dalla scuola una corretta informazione scientifica quando ancora oggi su molti manuali e libri anche rispettabili si legge che prima di Cristoforo Colombo la gente credeva che la terra fosse piatta, mentre si tratta di un falso storico, visto che lo sapevano già i greci antichi che fosse tonda e lo sapevano persino i saggi di Salamanca che si opponevano al viaggio di Colombo, semplicemente perché avevano fatto calcoli più esatti dei suoi circa la reale dimensione del pianeta? Eppure una delle missioni del dotto, oltre alla ricerca severa, è anche la divulgazione illuminata. Sappiamo benissimo che nel nostro paese più che altrove l'uomo di scienza ritiene talora poco dignitoso dedicarsi alla divulgazione, mentre maestri di divulgazione sono stati Einstein, Heisenberg, sino ad arrivare all'amico Stephen Jay Gould che da poco ci ha lasciati. Eppure se si deve imporre una immagine non magica della scienza non dovremo attendercela dai mass-media; dovranno essere gli stessi uomini di scienza a costruirla a poco a poco nella coscienza collettiva, partendo dai più giovani. La conclusione polemica di questo mio intervento è che il presunto prestigio di cui gode oggi lo scienziato è fondato su false ragioni, ed è in ogni caso contaminato dalla influenza congiunta delle due forme di magia, quella tradizionale e quella tecnologica, che ancora affascinano la mente dei più. Se non si esce da questa spirale di false promesse e speranze deluse la stessa scienza avrà un cammino più arduo da compiere. Nei secoli dell'alto medioevo Isidoro di Siviglia, che pure è passato alla storia come insigne credulone e autore di etimologie oggi risibili come lucus da non lucendo e cadaver da caro data vertnibus, aveva tuttavia - sia pure sulla base di imprecise notizie che gli arrivano sin dai tempi di Eratostene - fornito in modo quasi esatto e certamente non fantasioso la lunghezza dell'equatore. Ma intorno a lui vagavano unicorni e mostri silvani, e anche se i dotti sapevano che la terra era tonda, gli artisti - per varie e comprensibili ragioni - la mostravano non solo al volgo ma anche ai signori come un disco piatto con Gerusalemme al centro - ovvero l'appiattivano per ragioni simboliche e per comodità proiettiva, come fa ancora oggi l'atlante De Agostini, ma tanto bastava ai più per non capire bene che forma avesse. Ecco, dopo secoli di luce, noi siamo ancora come Isidoro: i giornali parleranno dei nostri convegni scientifici ma fatalmente l'immagine che ne sortirà sarà ancora magica. Dovremmo stupircene? Ci massacriamo ancora come nei secoli bui trascinati da fondamentalismi e fanatismi incontrollabili, proclamiamo crociate, interi continenti stanno morendo di fame e diAids mentre le nostre televisioni ci rappresentano (magicamente) come una terra di cuccagna, attirando sulle nostre spiagge disperati che corrono verso le nostre periferie disastrate come i navigatori di un tempo verso le promesse dell'Eldorado, e dovreste rifiutare l'idea che i semplici non sanno ancora che cosa sia la scienza e la confondano vuoi con la magia rinascimentale vuoi col fatto che per ragioni ignote si può inviare una dichiarazione d'amore in Australia al prezzo di una telefonata urbana e alla velocità del fulmine? E' utile, per continuare a lavorare, ciascuno nel proprio campo, sapere in che mondo viviamo, trarne le conseguenze, divenire astuti come il serpente e non candidi come la colomba ma almeno generosi come il pellicano e inventare nuovi modi per dare qualcosa di voi a coloro che vi ignorano. In ogni caso sarebbe bene che gli scienziati diffidassero per lo più di coloro che li onorano come se fossero la fonte della verità. In effetti li considerano dei maghi che però, se non producono subito degli effetti verificabili, saranno considerati dei cialtroni, mentre le maghe, che producono effetti inverificabili ma di effetto, saranno onorate nei talk show. E dunque non dovrebbero andarci, o saranno identificati con quelle. Permettetemi di prendere a prestito da un dibattito giudiziario e politico un motto: resistere, resistere, resistere. E buon lavoro.
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II - CRONACHE DI UN REGIME PER CHI SUONA LA CAMPANA APPELLO 2001 A UN REFERENDUM MORALE (Nota: Apparso sul sito Internet Golem - L'indispensabile e poi sulla Repubblica, maggio 2001).
A nessuno piacerebbe svegliarsi una mattina e scoprire che tutti i giornali, Il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, Il Giornale, e via via dall'Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall'Espresso a Novella 2000 appartengono tutti allo stesso proprietario e fatalmente ne riflettono le opinioni. Ci sentiremmo meno liberi. Ma è quello che accadrebbe con una vittoria del Polo che si dice delle Libertà. Lo stesso padrone avrebbe per proprietà privata tre reti televisive e per controllo politico le altre tre - e le sei maggiori reti televisive nazionali contano più, per formare l'opinione pubblica, di tutti i giornali messi insieme. Lo stesso proprietario ha già sotto controllo quotidiani e riviste importanti, ma si sa cosa accade in questi casi: altri giornali si allineerebbero all'area governativa, vuoi per tradizione vuoi perché i loro proprietari riterrebbero utile ai propri interessi nominare direttori vicini alla nuova maggioranza. In breve si avrebbe un regime di fatto. Per regime di fatto bisogna intendere un fenomeno che si verificherebbe da solo, anche se si assume che Berlusconi sia uomo di assoluta correttezza, che la sua ricchezza sia stata costituita in modo inappuntabile, che il suo desiderio di giovare al paese anche contro i propri interessi sia sincero. Qualora un uomo si trovasse a poter controllare di fatto tutte le fonti d'informazione del proprio paese, neppure se fosse un santo potrebbe sottrarsi alla tentazione di gestirlo secondo la logica che il suo sistema imporrebbe e, quand'anche facesse del suo meglio per sottrarsi a tale tentazione, il regime di fatto sarebbe gestito dai suoi collaboratori. Non si è mai visto, nella storia di alcun paese, un giornale o una catena televisiva che iniziano spontaneamente una campagna contro il proprio padrone. Questa situazione, conosciuta ormai nel mondo come l'anomalia italiana, dovrebbe essere sufficiente per stabilire che una vittoria del Polo, nel nostro paese, non equivarrebbe - come molti politologi affermano - a una normale alternanza tra destre e sinistre, che fa parte della dialettica democratica. L'instaurazione di un regime di fatto (che, ripeto, si instaura al di là delle volontà individuali) non fa parte di alcuna dialettica democratica. Per chiarire perché la nostra anomalia non allarma la maggioranza degli italiani occorre esaminare anzitutto quale sia l'elettorato potenziale del Polo. Esso si divide in due categorie. Il primo è l'Elettorato Motivato. E' fatto da coloro che aderiscono al Polo per effettiva convinzione. E' convinzione motivata quella del leghista delirante che vorrebbe mettere extracomunitari e possibilmente meridionali in vagoni piombati; quella del leghista moderato il quale ritiene conveniente difendere gli interessi particolari della propria area geografica pensando che possa vivere e prosperare separata e blindata dal resto del mondo; quella dell'ex fascista che pur accettando (magari obtorto collo) l'ordine democratico, intende difendere i propri valori nazionalistici e intraprendere una revisione radicale della storia del Novecento; quella dell'imprenditore che ritiene (giustamente) che le eventuali defiscalizzazioni promesse dal Polo sarebbero soltanto a favore degli abbienti; quella di coloro che, avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all'indipendenza dei pubblici ministeri; quella di coloro che non vogliono che le loro tasse siano spese per le aree depresse. Per tutti costoro l'anomalia e il regime di fatto, se non benvenuti, sono in ogni caso un pedaggio di poco conto da pagare per vedere realizzati i propri fini- e pertanto nessuna argomentazione contraria potrà smuoverli da una decisione presa a ragion veduta La seconda categoria, che chiameremo Elettorato Affascinato, certamente la più numerosa, è quella di chi non ha un'opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita per decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi. Per costoro valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita, non dissimile da quella di coloro che chiameremo genericamente i Migranti Albanesi. Il Migrante Albanese non penserebbe neppure a venire in Italia se la televisione gli avesse mostrato per anni solo l'Italia di Roma città aperta, di Ossessione, di Paisà - e si terrebbe anzi lontano da questa terra infelice. Migra perché conosce un'Italia in cui una televisione ricca e colorata distribuisce facilmente ricchezza a chi sa che il nome di Garibaldi era Giuseppe, un'Italia dello spettacolo. Ora, a questo elettorato (che tra l'altro, come dicono le statistiche legge pochi quotidiani e pochissimi libri) poco 43
importa che si instauri un regime di fatto, che non diminuirebbe, anzi aumenterebbe la quantità di spettacolo cui è stato abituato. Fa quindi sorridere che ci si ostini a sensibilizzarlo parlando del conflitto d'interessi. La risposta che si ascolta sovente in giro è che a nessuno importa che Berlusconi si faccia i propri interessi se promette di difendere i loro. A questi elettori non vale dire che Berlusconi modificherebbe la Costituzione, primo perché la Costituzione non l'hanno mai letta, e secondo perché hanno persino sentito parlare di modificazioni della Costituzione da parte dell'Ulivo. E allora? Quale articolo della Costituzione possa poi essere modificato è per loro irrilevante. Non dimentichiamo che subito dopo la Costituente Candido ironizzava con vignette salaci sull'articolo secondo il quale la repubblica difende il paesaggio, come se si trattasse di un bizzarro e irrilevante invito al giardinaggio. Che quel dettato costituzionale anticipasse le attuali e tremende preoccupazioni per la salvezza dell'ambiente sfuggiva non solo al grande pubblico, ma persino a giornalisti informati. A questo elettorato non vale andare a gridare che Berlusconi metterebbe la mordacchia ai magistrati, perché l'idea della giustizia si associa a quella di minaccia e intrusione nei propri affari privati. Questo elettorato afferma candidamente che un presidente ricco almeno non ruberebbe perché concepisce la corruzione in termini di milioni o centinaia di milioni, non in termini astronomici di migliaia di miliardi. Questi elettori pensano (e con ragione) che Berlusconi non si farebbe mai corrompere da una bustarella pari al costo di un appartamento tricamere con bagno, o dal regalo di una grossa cilindrata, ma (come del resto quasi tutti noi) trovano impercettibile la differenza tra diecimila e ventimila miliardi. L'idea che un parlamento controllato dalla nuova maggioranza possa votare una legge che, per una catena di cause ed effetti non immediatamente comprensibile, possa fruttare al capo del governo mille miliardi, non corrisponde alla loro nozione quotidiana del dare e avere, comperare, vendere o barattare. Che senso ha parlare a questi elettori di offshore, quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter? Che senso ha parlare a questi elettori dell'Economist, quando ignorano anche il nome di molti giornali italiani e non sanno di che tendenza siano, e salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina? Questo elettorato è pertanto insensibile a ogni accusa, al riparo da ogni preoccupazione di regime di fatto. Esso è stato prodotto dalla nostra società, con anni e anni di attenzione ai valori del successo e della ricchezza facile, è stato prodotto anche dalla stampa e dalla televisione non di destra, è stato prodotto da parate di modelle flessuose, da madri che abbracciano finalmente il figlio emigrato in Australia, da coppie che ottengono il riconoscimento dei vicini perché hanno esibito le proprie crisi coniugali davanti a una telecamera, dal Sacro spesso trasformato in spettacolo, dall'ideologia che basta grattare per vincere, dallo scarso fascino mediatico di ogni notizia che dica quello che le statistiche provano, e cioè che la criminalità è diminuita, mentre è ben più morbosamente visibile il caso di criminalità efferata, che induce a pensare che quello che è accaduto una volta potrebbe accadere domani a tutti. Questo Elettorato Affascinato sarà quello che farà vincere il Polo. L'Italia che avremo sarà quella che esso ha voluto. Di fronte all'Elettorato Affascinato e all'Elettorato Motivato della destra, il maggior pericolo per il nostro paese è però costituito dall'Elettorato Demotivato di sinistra (e si dice sinistra nel senso più ampio del termine, dal vecchio laico repubblicano al ragazzo di Rifondazione, sino al cattolico del volontariato che non si fida più della classe politica). E' la massa di coloro che sanno tutte le cose dette sinora (e non avrebbero neppure bisogno di sentirle ripetere), ma si sentono delusi dal governo uscente, di coloro che di fronte a ciò che si attendevano considerano tiepidamente quello che hanno ricevuto, e si evirano per far dispetto alla moglie. Per punire chi non li ha soddisfatti, faranno vincere il regime di fatto. La responsabilità morale di costoro è enorme, e la Storia domani non criticherà i drogati delle telenovelas, che avranno avuto la telenovela che volevano, ma coloro che, pur leggendo libri e giornali non si sono ancora resi conto o cercano disperatamente di ignorare che quello che ci attende tra qualche giorno non sono elezioni normali, bensì un Referendum Morale. Nella misura in cui rifiuteranno questa presa di coscienza, sono destinati al girone degli ignavi. Contro l'ignavia si chiamano ora anche gli incerti e i delusi a sottoscrivere un appello molto semplice, che non li obbliga a condividere tutte le considerazioni di questo articolo, solo la parte che segue tra virgolette: "Contro l'instaurazione di un regime di fatto, contro l'ideologia dello spettacolo, per salvaguardare nel nostro paese la molteplicità dell'informazione, consideriamo le prossime elezioni come un Referendum Morale a cui nessuno ha diritto di sottrarsi". Questo sarà per molti un appello a mettersi una mano sulla coscienza e ad assumersi la propria responsabilità. Perché "nessun uomo è un'isola... Non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te".
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LA CAMPAGNA DEL 2001 E LE TECNICHE VETERO-COMUNISTE (Nota: la Repubblica, aprile 2001). Il modo in cui il Polo ha impostato la sua campagna elettorale è senza dubbio efficace, così che molti si chiedono quale sia non diciamo il suo segreto ma la sua chiave e il suo modello. La prima cosa che viene in mente è che il Polo, e segnatamente Berlusconi (unico volto della campagna), segue il modello pubblicitario. Del modello pubblicitario ha individuato la riproposta continua dello stesso simbolo e di pochi slogan memorizzabili, nonché una accorta scelta cromatica, certamente vincente perché molto affine a quella di Windows. L'elementarità degli slogan è la stessa di quella dei prodotti di grande consumo e ha in comune con le campagne commerciali il principio per cui lo slogan non deve preoccuparsi di essere giudicato vero. Nessun acquirente crede realmente che Scavolini sia la cucina di tutti gli italiani (le statistiche lo smentirebbero) o che il detersivo tale lavi più bianco degli altri (la casalinga o il casalingo sanno che, oltre un certo prezzo, i detersivi di marca lavano più o meno nello stesso modo): e tuttavia gli acquirenti quando debbono fare un acquisto sono più sensibili ai prodotti di cui hanno memorizzato lo slogan. In tal senso è del tutto inutile (o al massimo divertente) che satirici o politici ironizzino sul presidente operaio o sulle pensioni più dignitose per tutti: lo slogan non pretende di essere creduto ma solo di essere ricordato Tuttavia il modello pubblicitario funziona per i manifesti o altri tipi di annuncio pubblicitario ma non, per esempio, per le azioni di battaglia parlamentare o a mezzo media, condotte a mano a mano che si avvicina la scadenza elettorale. Anzi, qualcuno ha già notato una apparente contraddizione tra l'amichevolezza della propaganda e l'aggressività dell'azione politica, tanto da intravedervi un errore di tattica. Ed ecco che si è fatta strada l'interpretazione di Montanelli: non sapendo controllare alcune eredità genetiche delle sue componenti e alcune inclinazioni psicologiche profonde del suo leader, il Polo manifesterebbe le proprie tendenze autoritarie e una nostalgia latente (ancorché ancora simbolica) per il santo manganello. Ma anche questa lettura mi sembra parziale. Essa spiega alcune intemperanze, minacce e promesse, ma non tutti i comportamenti dell'alleanza, che mi paiono invece seguire, in modo coerentissimo, un altro modello. Questo modello non è fascista o consumistico, bensì vetero-comunista e, per certi aspetti, sessantottardo. Cerchiamo (chi ha l'età per poterlo fare) di ricordare quali erano le tattiche e le strategie propagandistiche del comunismo togliattiano. Per quanto complessa potesse essere l'elaborazione culturale interna al gruppo dirigente, il partito si mostrava all'esterno mediante slogan efficaci e comprensibili, ripetuti in ogni occasione. Anzitutto l'attacco all'imperialismo capitalista come causa della povertà nel mondo, al Patto Atlantico come suo braccio guerrafondaio, al governo come servo degli americani e alla polizia come braccio armato del governo. Se non a livello istituzionale, avveniva peraltro la delegittimazione di una magistratura che condannava gli scioperanti in agitazione ma non i loro aguzzini, o per lo meno si sottolineava una netta distinzione tra una magistratura buona, in genere pretori d'assalto, che si occupavano dei diritti delle masse e una magistratura cattiva che non condannava gli illeciti della classe dirigente ma era severa con la protesta operaia. Basta sostituire all'America il comunismo e i suoi servi sciocchi (che possono andare sino al cattolico Scalfaro o al conservatore Montanelli), e tenere presente la divisione tra toghe rosse, che investigano sugli affari di Berlusconi, e toghe "buone" (chiamate in causa ogni volta che si deve dimostrare che l'accusa era infondata) e lo schema appare identico. In secondo luogo ricordiamo l'uso di slogan di presa immediata (ben più semplicistici del progetto politico che volevano propagandare): si pensi agli interventi alla Pajetta nelle Tribune politiche dove, malgrado la sottigliezza dialettica dell'oratore, l'idea centrale era "bisogna cambiare le cose". In terzo luogo la capacità indubbia di monopolizzare valori comuni e farli diventare valori di parte: si pensi alla massiccia campagna per la pace, all'uso di termini come "democratico" (che alla fine veniva a connotare solo i regimi dell'Est europeo), alla cattura quarantottesca dell'immagine di Garibaldi. Così come oggi chi grida forza Italia in un campo sportivo, o parla di valori liberali e di libertà, diventa immediatamente propagandista del Polo, allora chi avesse voluto parlare di pace e pacifismo veniva automaticamente arruolato tra i compagni di strada del PC almeno sino a che Giovanni 23esimo con la Pacem in terris non si è ripreso l'ideale della pace come valore non comunista. Ulteriori elementi della propaganda e della politica vetero-comunista (sia in parlamento che nelle piazze) erano da un lato l'estrema aggressività, anche verbale, in modo da marchiare ogni atteggiamento avversario come antipopolare, e al tempo stesso la denuncia costante dell'aggressività altrui e della persecuzione nei confronti dei partiti popolari. Questo atteggiamento è passato poi, in modo ben più cruento, dai movimenti insurrezionali sudamericani (per esempio i Tupamaros) ai terroristi europei, che seguivano il progetto (rivelatosi utopico) di mettere in atto provocazioni insostenibili per ogni governo affinché si scatenasse come risposta una repressione di stato che poi sarebbe stata sentita come insostenibile dalle masse. Ma, senza andare a scomodare i movimenti violenti, l'aggressività nel denunciare il complotto dei media è diventata l'arma vincente dei radicali, che hanno costruito la loro vasta visibilità mediatica su azioni di protesta per il silenzio che i media avrebbero praticato nei loro 45
confronti. Tipico del berlusconismo è infatti disporre di un formidabile apparato massmediatico e di usarlo per lamentare la persecuzione da parte dei media. Altri elementi della propaganda vetero-comunista erano il richiamo al sentimento popolare (oggi "la gente"), l'uso di manifestazioni massicce con sventolio di bandiere e canti, la fedeltà al colore-richiamo di fondo (allora rosso, oggi blu), e infine (se dobbiamo dare ascolto alle analisi della destra) l'occupazione più o meno strisciante dei luoghi di produzione culturale (allora massimamente le case editrici e i settimanali). Potremmo persino citare il tentativo compiuto dalla Universale del Canguro di ascrivere i grandi del passato tra gli autori progressisti, da Diderot a Voltaire, da Giordano Bruno alle utopie di Bacone, da Erasmo a Campanella E cito questi nomi perché sono quelli che, sia pure in edizioni raffinate e non popolari, Publitalia sta riesumando. Un discorso più complesso e sottile andrebbe fatto a proposito della "doppiezza togliattiana", ma lascio al lettore la scoperta di interessanti analogie. Mentre parlavo a qualcuno di queste analogie, mi è stato fatto notare che tuttavia, pur nella sua aggressività verso il governo, il PC dei tempi classici aveva sostenuto molte delle leggi proposte dagli avversari (dall'articolo 7 della Costituzione a molte riforme), mentre pare tipico del Polo opporsi, magari mediante uno sdegnoso astensionismo, a riforme governative che pure esso potrebbe in parte sostenere. Certamente Togliatti, una volta accettata l'idea che dopo Yalta non si poteva, e forse non si doveva, pensare a una soluzione rivoluzionaria, aveva conseguentemente accettato l'idea di una lunga marcia attraverso le istituzioni (il cui capitolo finale sarebbe stato, molto dopo la sua morte, il consociativismo). In tal senso la politica del Polo non sembra vetero-comunista. Ma ecco che qui si innerva nel modello propagandistico e nelle strategie e tattiche di lotta politica del Polo, il modello dei gruppi extraparlamentari del 1968. Del modello sessantottesco si ritrovano nel Polo molti elementi. Anzitutto, l'identificazione di un nemico molto più sottile e invisibile degli Stati Uniti, come le multinazionali o la Trilaterale, denunciandone il complotto permanente. In secondo luogo il non concedere mai nulla all'avversario, demonizzarlo sempre, qualsiasi fossero le sue proposte, e quindi rifiutare il dialogo e il confronto (rifiutando ogni intervista di giornalisti costitutivamente servi del potere). Di qui la scelta di un Aventino permanente e dell'extraparlamentarismo. Questo rifiutarsi a qualsiasi compromesso era motivato dalla convinzione, reiterata a ogni momento, che la vittoria rivoluzionaria fosse imminente. E dunque si trattava di fiaccare i nervi a una borghesia complessata, annunciandole a ogni passo una vittoria indiscutibile dopo la quale non si sarebbero fatti prigionieri e si sarebbe tenuto conto delle liste di proscrizione che apparivano nei tazebao. Con la tecnica del lottatore di catch che terrorizza l'avversario con urla feroci, questi veniva intimidito con slogan quali "fascisti, borghesi, ancora pochi mesi" e "ce n'est qu'un début", o veniva delegittimato al grido di "scemo, scemo!» La marcia verso la conquista del potere veniva sostenuta attraverso l'immagine trionfale di un volto carismatico, fosse esso quello del Che o della triade Lenin, Stalin, Mao Tse-Tung. Tutte queste potrebbero sembrare soltanto analogie, dovute al fatto che i comportamenti propagandistici si assomigliano tutti un poco, ma giova ricordare quanti transfughi e del vetero-comunismo e del 1968 siano confluiti nelle file del Polo. Per cui non è irragionevole pensare che Berlusconi, più che ai pubblicitari e ai sondaggisti della prima ora, abbia prestato orecchio a questi consiglieri. Inoltre, prestare orecchio a esperti di un rapporto con le masse appare particolarmente intelligente dal momento che, nella geografia politica attuale il vero partito di massa è il Polo, che ha saputo individuare, nel disfacimento sociologico delle masse pensate dal marxismo classico, le nuove masse, che non sono più caratterizzate dal censo bensì da una generica appartenenza comune all'universo dei valori massmediatici, e quindi non più sensibili al richiamo ideologico bensì a un richiamo populista. Il Polo si rivolge, attraverso la Lega, alla piccola borghesia poujadista del Nord, attraverso AN alle masse emarginate del Sud che da cinquant'anni votano per monarchici e neofascisti, e attraverso Forza Italia alla stessa classe lavoratrice di un tempo, che in gran parte ascende al livello della piccola borghesia, e di questa ha i timori per la minaccia che per i propri privilegi costituiscono i nuovi Dimpen, e avanza le richieste a cui può rispondere un partito che fa proprie le parole d'ordine di ogni movimento populista: la lotta contro la criminalità, la diminuzione della pressione fiscale, la difesa dal prepotere statale e dalla capitale fonte di ogni male e corruzione, la severità e il disprezzo nei confronti di ogni comportamento deviante. Non si trascuri che di matrice populista sono alcuni degli argomenti con cui persone anche di umile condizione manifestano la propria attrazione per Berlusconi. Gli argomenti sono: (i) essendo egli ricco non dovrà rubare (argomento che si basa sulla identificazione qualunquistica tra politico e ladro); (ii) che cosa importa a me se fa i suoi interessi, l'importante è che si occupi anche dei miei, che sono diversi dai suoi; (iii) un uomo che ha saputo diventare enormemente ricco potrà distribuire benessere anche al popolo che governa (senza considerare che questo non è mai accaduto né con Bokassa né con Milosevic). Si noti che non solo questa è la persuasione tipica del teledipendente (chi si avvicina alla trasmissione miliardaria ha buone possibilità di diventare miliardario) ma è un atteggiamento che affonda le proprie radici in credenze primitive e forse archetipe. Si pensi al "culto del cargo", fenomeno religioso tipico di popolazioni oceaniche tra l'inizio del colonialismo sino almeno alla fine della Seconda guerra mondiale: siccome i bianchi arrivavano sulle loro coste, per nave o per aereo, scaricando cibo e altre merci 46
mirabolanti (che ovviamente servivano all'invasore), nasceva l'attesa messianica di una nave, prima, e di un cargo aereo poi, che sarebbe arrivato a portare gli stessi beni anche ai nativi. Quando si individuano nel proprio elettorato queste pulsioni profonde si è partito di massa, e di ogni classico partito di massa si adottano parole d'ordine e tecniche d'assalto. E forse uno dei peccati originali della sinistra, oggi, è nel non saper accettare in pieno l'idea che il vero elettorato di un partito che si vuole riformista non è più fatto di masse popolari bensì di ceti emergenti, e di professionisti del terziario (che non sono pochi, purché si sappia che è a essi e non alla mitica classe operaia che occorre rivolgersi). Pertanto una delle scoperte di questa campagna elettorale potrebbe essere che il politico più "comunista" di tutti è probabilmente Berlusconi. In realtà le tattiche vetero-comuniste e sessantottesche saranno le stesse, ma vengono messe al servizio di un programma che può andare bene anche a molti strati della Confindustria, come in altri tempi è andato bene il programma corporativista. In ogni caso, avanti, o popolo.
SUL POPULISMO MEDIATICO SERL JIRSI DEL POPOLO (Nota: L'espresso, luglio 2003). Durante questa settimana abbiamo letto di molti giornali stranieri che paventano la conduzione del semestre europeo da parte del primo ministro italiano. Le ragioni sono molte e sono quelle che tutti sappiamo, salvo che paiono impressionare i cittadini di molti paesi (che temono che anche da loro accada un giorno qualcosa del genere) ma non una percentuale ancora consistente di Italiani. Tuttavia i rischi rappresentati dal "regime" Berlusconi sono anche altri, e su uno mi voglio soffermare. Anzitutto de-demonizziamo l'espressione "regime", perché quando qualcuno accenna al regime tutti pensano al regime fascista - e allora anche i più severi critici del governo ammettono che Berlusconi non sta organizzando la Camera dei fasci e delle corporazioni, non sta mettendo in camicia nera i ragazzini e non sta chiudendo le testate dei giornali. Ma regime è un termine neutro che significa forma di governo (si parla di paesi a regime democratico, del regime democristiano, o di regime repubblicano e monarchico). Ora, che Berlusconi stia attuando una forma di governo tutta sua è fuori di dubbio. Tra le caratteristiche di questa forma di governo indicherei una pericolosa tendenza populistica. Non uso il termine "populismo" nel senso storico (il populismo russo) ma in quello corrente, per cui si parlava di populismo per Peron e altri governanti sudamericani o africani. Cerchiamo di ricordarci una affermazione fatta da Berlusconi quando (non ancora al riparo della giustizia) cercava di legittimare i magistrati. Diceva che lui, eletto dal popolo, non si sarebbe fatto giudicare da qualcuno che era in quel posto solo per concorso. Se prendessimo questa affermazione sul serio io non dovrei farmi operare d'appendicite o di cancro dal chirurgo, non dovrei mandare i figli a scuola e dovrei resistere a un arresto da parte dei carabinieri perché tutte queste persone sono abilitate a svolgere la loro funzione per concorso e non per elezione popolare. Ma Berlusconi stava esattamente opponendo la sua qualità di eletto dal popolo al ruolo di chi (legittimato per concorso) doveva giudicarlo per reati comuni, sia che poi risultasse innocente o colpevole. In realtà il "popolo" come espressione di una sola volontà e uguali sentimenti, forza quasi naturale che incarna la morale e la storia, non esiste. Esistono dei cittadini, che hanno idee diverse, e il regime democratico (che non è il migliore ma, come si dice, gli altri sono tutti peggio) consiste nello stabilire che governa chi ottiene consensi dalla maggioranza dei cittadini. Non dal popolo, da una maggioranza, che talora può essere dovuta non al computo delle cifre ma alle distribuzioni dei voti in un sistema uninominale. Gli eletti rappresentano i cittadini, proporzionalmente, in parlamento. Ma il paese non è fatto solo dal parlamento. Ci sono una infinità di "corpi intermedi", che vanno dai poteri industriali all'esercito, dagli ordini professionali alla stampa e via dicendo, e nella maggioranza dei casi si tratta di persone che agiscono in base a concorso, e nessuno ha mai detto che la loro autorità è minata dal fatto che sono assurti a quella funzione per esame da parte di esperti, anzi il concorso (se è non è truccato, ma allora possono essere truccate anche le elezioni) rappresenta il modo in cui il paese si garantisce che i rappresentanti dei corpi intermedi sappiano fare il loro mestiere. E' in base a un concorso che i maestri elementari e i professori di storia hanno l'autorità e il diritto di affermare che quando Berlusconi dice "Romolo e Remolo" sbaglia, ed è in base a una autorità conseguita per concorso che la comunità dei medici può allarmare la popolazione dicendo che una certa medicina è nociva. Oltretutto è per quella forma di concorso che si chiama cooptazione che vengono legittimati gli stessi ministri (il governo) che non debbono essere necessariamente parlamentari eletti, ma talora vengono scelti in base alle loro competenze. Appellarsi invece al popolo significa costruire un figmento: siccome il popolo in quanto tale non esiste, il populista 47
è colui che si crea una immagine virtuale della volontà popolare. Mussolini lo faceva radunando cento o duecentomila persone in piazza Venezia che lo acclamavano e che, come attori, svolgevano la parte del popolo. Altri possono creare l'immagine del consenso popolare giocando sui sondaggi, o semplicemente evocando il fantasma di un apopolo". Così facendo il populista identifica i propri progetti con la volontà del popolo e poi, se ci riesce (e sovente ci riesce) trasforma in quel popolo che lui ha inventato una buona porzione di cittadini, affascinati da una immagine virtuale in cui finiscono per identificarsi. Questi sono i rischi del populismo, che abbiamo riconosciuto e paventato quando si manifestava in altri paesi, ma che curiosamente non avvertiamo appieno quando inizia a imporsi a casa nostra. Forse di certi rischi se ne accorgono prima gli stranieri che non le popolazioni (ovvero i cittadini, non il Popolo) interessate. DEMONIZZARE BERLUSCONI? (Nota: MicroMega, settembre 2003). Se vado in edicola e compero tutti i giornali esistenti, mi accorgo che il fronte critico si esercita solo su alcuni giornali schierati all'opposizione, e in parte anche su una stampa che, per quanto si voglia indipendente», non può tacere su alcuni eventi scandalosi; però ci sono lettori che comperano gli altri giornali, e che rimangono del tutto impermeabili a queste critiche. Pertanto il rischio è che l antiberlusconismo sia diventato materia da club, praticato da coloro che sono già d'accordo, così che le denunce (che ci sono) lasciano intoccati proprio quei nostri connazionali ai quali chiederemmo un esame di coscienza sul voto che hanno dato qualche anno fa. E allora si comprende, anche se non si giustifica, la reazione di coloro che, pur stando all'opposizione, invitano a smetterla col gioco al massacro nei confronti del primo ministro, che rischia di diventare materia di civile e divertita conversazione per membri dello stesso circolo ricreativo i quali, trovandosi tutti d'accordo nelle loro deprecazioni virtuose, si convincono di avere salvato almeno l'anima. Da cui una prima riflessione, su cui ritornerò alla fine: il fronte critico nei confronti del nuovo regime raggiunge soltanto l'uditorio che di queste critiche non ha bisogno. Veniamo ora ai casi del nostro sfortunato paese. Ogni giorno si sentono reazioni energiche (e per fortuna anche da parte dell'opinione pubblica di altri paesi europei, forse più che da noi) al colpo di stato strisciante che Berlusconi sta cercando di realizzare. Ci siamo accorti tutti che la discussione se Berlusconi stesse instaurando un regime era male impostata, sino a che la parola "regime" ci evocava automaticamente il regime fascista, e allora era se non altro onesto ammettere che Berlusconi non ha abolito la libertà di stampa o il diritto di voto, e non ha mandato i dissidenti a Ventotene. Ma forse non era ancora chiaro che, regime essendo in genere una forma di governo, Berlusconi stava instaurando giorno per giorno una forma di governo fondato sull'identificazione del partito, del paese e dello stato con una serie di interessi aziendali. Lo ha fatto senza procedere con operazioni di polizia o arresto di deputati, ma mettendo in opera una occupazione graduale dei media più importanti (o cercando di mettere mano - con cordate o altre operazioni finanziarie, per fortuna non sempre coronate da successo) sulle testate ancora indipendenti, e creando con mezzi adeguati forme di consenso fondate sull'appello populistico. Di fronte a questa operazione si è affermato, nell'ordine, che: (1) Berlusconi è entrato in politica al solo fine di bloccare o deviare i processi che potevano condurlo in carcere; (2) come ha detto un giornalista francese, Berlusconi sta instaurando un «pedegisme" (pdg essendo in Francia il président directeur général, il boss, il manager, il capo assoluto di una azienda); (3) Berlusconi realizza il progetto avvalendosi di una affermazione elettorale indiscutibile, e quindi sottraendo agli oppositori l'arma del tirannicidio, in quanto debbono opporsi rispettando il volere della maggioranza, e quello che possono fare è solo convincere parte di questa maggioranza a riconoscere e accettare le considerazioni del cui elenco la presente è parte; (4) Berlusconi, sulla base di questa affermazione elettorale, procede facendo approvare leggi concepite nel suo personale interesse e non secondo quello del paese (e questo è il pedegisme); (5) Berlusconi, per le ragioni sopra esposte, non si muove come uno statista e neppure come un politico tradizionale, ma secondo altre tecniche - e proprio per questo è più pericoloso di un caudillo dei tempi andati, perché queste tecniche si presentano come apparentemente adeguate ai principi di un regime democratico; (6) come sintesi di queste ovvie e documentate osservazioni, Berlusconi ha superato la fase del conflitto d'interessi per realizzare ogni giorno di più l'assoluta convergenza d'interessi, e cioè facendo accettare al paese l'idea che i suoi personali interessi coincidano con quelli della comunità nazionale. Questo è certamente un regime, una forma e una concezione di governo, e si sta realizzando in modo così efficace che le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà e amore per l'Italia ma semplicemente al timore che l'Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero estendersi all'Europa 48
intera. Il problema è, però, che l'opposizione a Berlusconi, anche all'estero, procede alla luce di una settima persuasione, che secondo me e sbagliata. Si ritiene infatti che, non essendo uno statista, ma un boss aziendale solamente inteso a mantenere gli equilibri precari del proprio schieramento, Berlusconi non si accorga che il lunedì dice una cosa e il martedì il suo contrario, che non avendo esperienza politica e diplomatica sia incline alla gaffe, parli quando non deve parlare, si lasci sfuggire affermazioni che è costretto a rimangiarsi il giorno dopo, confonda a tal punto il proprio utile particolare con quello pubblico da permettersi con ministri stranieri battute di pessimo gusto sulla propria consorte - e via dicendo. In questo senso la figura di Berlusconi si presta alla satira, i suoi avversari si consolano talora pensando che abbia perduto il senso delle proporzioni, e confidano pertanto che senza rendersene conto corra verso la propria rovina. Credo che invece occorra partire dal principio che, in quanto uomo politico di nuovissima natura, diciamo pure post-moderno, Berlusconi stia mettendo in atto, proprio coi suoi gesti più incomprensibili, una strategia complessa, avveduta e sottile, che testimonia del pieno controllo dei suoi nervi e della sua alta intelligenza operativa (e, se non di una sua intelligenza teorica, di un suo prodigioso istinto di venditore). Colpisce infatti in Berlusconi (e purtroppo diverte) l'eccesso di tecnica del venditore. Non è necessario evocare il fantasma di Vanna Marchi - che di queste tecniche costituiva la caricatura, sia pure efficace per un pubblico sottosviluppato. Vediamo la tecnica di un venditore di automobili. Egli inizierà dicendovi che la macchina che propone è praticamente un bolide, che basta toccare l'acceleratore per andare subito sui duecento orari, che è concepita per una guida sportiva. Ma non appena si renderà conto che avete cinque bambini e una suocera invalida, senza transizione di sorta, passerà a dimostrarvi come quella macchina sia l'ideale per una guida sicura, capace di tenere con calma la velocità di crociera, fatta per la famiglia. Quindi di colpo vi dirà che se la prendete vi dà i tappetini gratis. Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l'insieme del suo discorso come coerente; gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sola sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi sarete fissati su quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere. Deve fare in modo di parlare molto, con insistenza, per impedire che facciate obiezioni. Molti ricorderanno quel tal Mendella che appariva in televisione (non per pochi minuti, come fanno gli spot delle grandi aziende, ma per ore e ore, su un canale dedicato) per convincere pensionati e famiglie di medio e basso reddito ad affidargli i loro capitali, assicurando rendimenti del cento per cento. Che, dopo aver rovinato alcune migliaia di persone, Mendella sia stato preso mentre fuggiva con la cassa, è un altro discorso: aveva tirato troppo la corda e troppo in fretta. Ma tipico di Mendella, se ricordate, era presentarsi alle dieci di sera dicendo che lui non aveva interessi personali in quella raccolta di risparmi altrui, perché era semplicemente il portavoce di una azienda ben più ampia e robusta; ma alle undici affermava energicamente che in quelle operazioni, di cui si diceva l'unico garante, aveva investito tutto il suo capitale, e quindi il suo interesse coincideva con quello dei suoi clienti. Chi gli ha affidato i soldi non si è mai accorto della contraddizione, perché ha scelto evidentemente di focalizzare l'elemento che gli infondeva maggior fiducia. La forza di Mendella non stava negli argomenti che usava, ma nell'usarne molti a mitraglia. La tecnica di vendita di Berlusconi è evidentemente di tal genere ("vi aumento le pensioni e vi diminuisco le tasse") ma infinitamente più complessa. Egli deve vendere consenso, ma non parla a tu per tu coi propri clienti, come Mendella. Deve fare i conti con l'opposizione, con l'opinione pubblica anche straniera e con i media (che non sono ancora tutti suoi), e ha scoperto il modo di volgere le critiche di questi soggetti a proprio favore. Pertanto deve fare promesse che, buone cattive o neutre che appaiano ai suoi sostenitori, si presentino agli occhi dei critici come una provocazione. E deve produrre una provocazione al giorno, tanto meglio se inconcepibile e inaccettabile. Questo gli consente di occupare le prime pagine e le notizie di apertura dei media e di essere sempre al centro dell'attenzione. In secondo luogo la provocazione deve essere tale che l'opposizione non possa non raccoglierla, e sia obbligata a reagire con energia. Riuscire a produrre ogni giorno una reazione sdegnata delle opposizioni (e persino di media che non appartengono all'opposizione ma non possono lasciar passare sotto silenzio proposte che configurano stravolgimenti costituzionali) permette a Berlusconi di mostrare al proprio elettorato che egli è vittima di una persecuzione ("vedete, qualsiasi cosa dica, mi attaccano"). Il vittimismo, che sembra contrastare col trionfalismo che caratterizza le promesse berlusconiane, è tecnica fondamentale. Ci sono stati esempi anche simpatici di vittimismo sistematico, come quello di Pannella che è riuscito per decenni a occupare le prime posizioni nei media proclamando che tacevano sistematicamente sulle sue iniziative. Ma il vittimismo è anche tipico di ogni populismo. Mussolini ha provocato con l'attacco all'Etiopia le sanzioni, e poi ha giocato propagandisticamente sul complotto internazionale contro il nostro paese. Affermava la superiorità della razza italiana e cercava di suscitare un nuovo orgoglio nazionale, ma lo faceva lamentando che gli altri paesi disprezzavano l'Italia. Hitler è partito alla conquista dell'Europa sostenendo che erano gli altri a sottrarre lo spazio 49
vitale al popolo tedesco. Che è poi la tattica del lupo nei confronti dell'agnello. Ogni prevaricazione deve essere giustificata dalla denuncia una ingiustizia nei tuoi confronti. In definitiva il vittimismo è una delle tante forme con cui un regime sostiene la coesione del proprio fronte interno sullo sciovinismo: per esaltarci occorre mostrare che ci sono altri che ci odiano e vogliono tarparci le ali. Ogni esaltazione nazionalistica e populistica presuppone la coltivazione di uno stato di continua frustrazione. Non solo, il poter lamentare quotidianamente il complotto altrui permette di apparire sui media ogni giorno a denunciare l'avversario. Anche questa è tecnica antichissima, nota anche ai bambini: tu dai uno spintone al tuo compagno del banco davanti, lui ti tira una pallina di carta e tu ti lamenti col maestro. Un altro elemento di questa strategia è che, per creare provocazioni a catena, non devi parlare solo tu, bensì lasciare mano libera ai più dissennati tra i tuoi collaboratori. Non serve passargli ordini, se li hai scelti bene partiranno per conto proprio, se non altro per emulare il capo, e più dissennate saranno le provocazioni meglio sarà. Non importa se la provocazione va al di là del credibile. Se tu affermi, poniamo, che vuoi abolire l'articolo della Costituzione che difende il paesaggio (d'altra parte che altro sono le proposte di elevare la velocità ai centocinquanta orari, o i progetti tecnologici e faraonici in spregio alle esigenze ecologiche?), l'avversario non può non reagire, altrimenti perderebbe persino la propria identità e la propria funzione di oppositore come garante. La tecnica consiste nel lanciare la provocazione, smentirla il giorno dopo ("mi avete frainteso") e lanciarne immediatamente un'altra, in modo che su quella si appunti e la nuova reazione dell'opposizione e il rinnovato interesse dell'opinione pubblica, e tutti dimentichino che la provocazione precedente era stata semplicemente flatus vocis. L'inaccettabilità della provocazione consente inoltre di raggiungere altri due fini essenziali. Il primo è che, in fin dei conti, per forte che la provocazione sia stata, costituisce pur sempre un ballon d'essai. Se l'opinione pubblica non ha reagito con sufficiente energia, questo significa che persino la più oltraggiosa delle strade potrebbe essere, con la calma dovuta, percorribile. Questo è il motivo per cui l'opposizione è costretta a reagire, anche se sa che si tratta di pura e semplice provocazione, perché se tacesse aprirebbe la strada ad altri tentativi. L'opposizione fa dunque quello che non può non fare per contrastare il colpo di stato strisciante, ma così facendo lo corrobora, perché ne segue la logica. Il secondo fine che si realizza è quello che definirei l'effetto bomba. Ho sempre sostenuto che se fossi uomo di potere impegolato in molti e oscuri traffici, e venissi a sapere che entro due giorni scoppierà sui giornali una rivelazione che porterebbe alla luce le mie malefatte, io avrei una sola soluzione: metterei o farei mettere una bomba alla stazione, in una banca, o in piazza all'uscita dalla messa. Con ciò sarei sicuro che per almeno quindici giorni le prime pagine dei giornali e l'apertura dei telegiornali sarebbero occupate dall'attentato, e la notizia che mi preoccupa, seppure apparisse, verrebbe confinata nelle pagine interne e passerebbe inosservata - o comunque toccherebbe solo di striscio un'opinione pubblica preoccupata da ben altri problemi. Un caso tipico di effetto bomba è stata la sparata sul kapò seguita dalla sparata di rinforzo del leghista Stefani contro i turisti tedeschi beoni e schiamazzatori. Gaffe incomprensibile, dato che suscitava un incidente internazionale e proprio all'inizio del semestre italiano? Niente affatto. Non solo (ma questo è stato un effetto collaterale) perché sollecitava lo sciovinismo latente di gran parte dell'opinione pubblica, ma perché in quegli stessi giorni si discuteva in parlamento la legge Gasparri, con la quale Mediaset affossava definitivamente la Rai e moltiplicava i dividendi. Ma io (e chissà quanti altri come me) me ne sono reso conto solo ascoltando, mentre guidavo in autostrada, Radio Radicale in diretta dal parlamento. I giornali dedicavano pagine e pagine a Berlusconi gaffeur, al dubbio se i turisti tedeschi sarebbero scesi ugualmente in Italia, al problema lancinante se Berlusconi con Schroder si fosse davvero scusato oppure no. L'effetto bomba ha funzionato alla perfezione. Potremmo rileggerci tutte le prime pagine dei quotidiani degli ultimi due anni per poter calcolare quanti effetti bomba sono stati prodotti. Di fronte ad affermazioni sesquipedali, come quella che i magistrati sono soggetti da cura psichiatrica, la domanda da porsi è quale altra iniziativa questa bomba stia facendo passare in secondo piano. In questo senso Berlusconi pedegista controlla e dirige le reazioni dei suoi oppositori, le confonde, può usarle per mostrare che quelli vogliono la sua rovina, che ogni appello all'opinione pubblica è una canagliata ad hominem. Per finire, la strategia delle mosse eccessive produce sconcerto negli stessi media che dovrebbero criticarle. Si consideri la faccenda Telekom-Serbia. A uno storico del futuro sarà chiaro che, in questa ridda di insinuazioni e accuse, sono in gioco sei diversi problemi. Vale a dire: (1) se l'affare Telekom-Serbia è stato un cattivo affare; (2) se era politicamente e moralmente lecito fare transazioni con Milosevic, in un'epoca pre-Kossovo, quando il dittatore serbo non era ancora stato messo al bando dalle nazioni democratiche; (3) se in questo affare sono stati impiegati denari pubblici; (4) se il governo era tenuto a sapere che cosa stesse accadendo; (5) se il governo l'ha saputo e ha dato il suo consenso. Tutti questi punti sono di carattere squisitamente politico ed economico e potrebbero essere discussi sulla base dei fatti (quando, come, quanto). Il sesto punto è invece se qualcuno abbia preso tangenti per consentire un affare illecito e dannoso per l'Italia. Questo punto sarebbe di rilievo penale ma potrà essere discusso solo sulla base di prove ancora a venire. Ebbene, scegliete un italiano a caso e chiedetegli se ha chiare queste distinzioni e se sa di che cosa si stia parlando quando si protesta contro i veleni o si sollecita un'inchiesta. Solo pochi 50
articoli di fondo hanno messo in chiaro l'esistenza non di uno ma di sei problemi, per il resto i media sono stati trascinati in una ridda convulsa di esternazioni quotidiane, le une che riguardavano i punti (1)-(5) e le altre che riguardavano il punto (6), ma senza che il lettore o il telespettatore abbiano avuto il tempo di capire sia che le questioni erano sei sia di quale si stesse parlando. Per stare dietro alla ridda di esternazioni, che confondono abilmente i sei punti, anche i media sono costretti a confonderli - il che è poi quello a cui l'operazione mira. Se questa è la strategia, sino a ora si è dimostrata vincente. Se l'analisi della strategia è giusta, Berlusconi ha ancora un grande vantaggio sui suoi avversari. Come ci si oppone a questa strategia? n modo ci sarebbe, ma assomiglia al suggerimento di McLuhan, che per bloccare i terroristi (che vivevano sull'eco propagandistica delle proprie iniziative e sul malessere che diffondevano), proponeva il black-out della stampa. La conseguenza era che forse non si sarebbe diventati megafono dei terroristi, ma si entrava in un regime di censura - che è poi quello che i terroristi speravano di provocare. E' facile dire: concentri le tue reazioni solo sui casi veramente importanti (leggi sulle rogatorie o sul falso in bilancio, Cirami, Gasparri e via dicendo) ma se Berlusconi lascia capire che vuole diventare presidente della repubblica metti la notizia in un trafiletto di sesta pagina, per obbligo d'informazione, senza stare al suo gioco. Ma chi accetterebbe questo patto? Non la stampa specificamente di opposizione, che si troverebbe immediatamente a destra della stampa "indipendente". Non la stampa indipendente, per la semplice ragione che il patto presupporrebbe un suo schieramento esplicito. Inoltre questa decisione sarebbe inaccettabile per qualsiasi tipo di medium, il quale verrebbe meno al suo dovere/interesse, quello di approfittare del minimo incidente per produrre e vendere notizie, e notizie piccanti e appetibili. Se Berlusconi insulta un parlamentare europeo non puoi relegare la notizia tra i fatti di cronaca o gli stelloncini di costume, perché perderesti le migliaia di copie che ti fa guadagnare il battage sul gustoso avvenimento, con pagine e pagine di opinioni divergenti, interpretazioni, pettegolezzi, ipotesi, reazioni salaci. Se è vero che, sino a che è Berlusconi ad avere il gioco in mano, l'opposizione deve seguirne le regole, l'opposizione dovrebbe prendere l'iniziativa adottando - ma in positivo - le stesse regole berlusconiane. Questo non comporta che l'opposizione dovrebbe smetterla di "demonizzare" Berlusconi. Si è visto che se l'opposizione non reagisce alle sue provocazioni in un certo senso le avalla, e in ogni caso manca al proprio dovere istituzionale. Ma questa funzione di reazione critica alle provocazioni dovrebbe essere assegnata a un'ala dello schieramento, impegnata a tempo pieno. E dovrebbe manifestarsi su canali alternativi. Se è vero, come è vero, che i media ancora liberi dal controllo berlusconiano raggiungono solo i già convinti, e la maggior parte dell opinione pubblica è esposta a media asserviti, non rimane che scavalcare i media. A modo proprio i girotondi sono stati un elemento di questa nuova strategia, ma se uno o due girotondi fanno rumore, mille ingenerano assuefazione. Se debbo dire che il telegiornale ha celato una notizia non posso dirlo attraverso il telegiornale. Debbo tornare a tattiche di volantinaggio, distribuzione di videocassette, teatro di strada, tam tam su Internet, comunicazione su schermi mobili posti in diversi angoli della città, e a quante altre invenzioni la nuova fantasia virtuale può suggerire. Visto che non si può parlare all'elettorato disinformato attraverso i media tradizionali, se ne inventano degli altri. Contemporaneamente, a livello dell'azione più tradizionale dei partiti, delle interviste, della partecipazione a programmi televisivi (ma sorprendendo l avversario con l'esternazione inattesa) l'opposizione deve far partire le proprie provocazioni. Cosa intendo per provocazioni di opposizione? La capacità di concepire dei piani di governo, su problemi a cui l'opinione pubblica sia sensibile, e di lanciare idee su futuri assetti del paese tali da obbligare i media a occuparsene almeno con lo stesso rilievo che danno alle provocazioni di Berlusconi. In spirito di puro machiavellismo (stiamo parlando di politica) ritengo che, salva la dignità, il progetto provocatorio potrebbe andare al di là delle proprie effettive possibilità di realizzazione. Tanto per fare un esempio da laboratorio, la pubblicizzazione di un piano che prevedesse, poniamo, una legge che la sinistra al governo vorrebbe fare subito approvare, una legge che proibisse a un solo soggetto di avere più di una stazione televisiva (o un giornale e una stazione), scoppierebbe come una bomba. Berlusconi sarebbe obbligato a reagire, questa volta in difesa e non in attacco, e facendolo darebbe voce ai suoi avversari. Sarebbe lui a dichiarare l'esistenza di un conflitto (o di una convergenza) d'interessi, e non potrebbe attribuirne il mito alla volontà perversa dei suoi avversari. Né potrebbe accusare di comunismo una legge antimonopolio che mira ad allargare gli accessi alla proprietà privata dei media. Ma non è necessario spingersi a ipotesi fantascientifiche. Un piano per il controllo del rincaro dei prezzi dovuto all'euro toccherebbe da vicino anche coloro che non si sentono coinvolti dal conflitto d'interessi. Insomma, si tratterebbe di lanciare di continuo, e in positivo, proposte che lascino intravedere all'opinione pubblica un altro modo di governare, e che siano in grado di mettere la maggioranza alle corde, nel senso di obbligarla a dire se ci sta o non ci sta – e in tal senso essa sarebbe costretta a discutere e difendere i propri progetti e a giustificare le 51
proprie inadempienze - non potendo arroccarsi sull'accusa generica a una opposizione rissosa. Se tu dici alla gente che il governo ha sbagliato a fare questo o quello, la gente potrebbe non sapere se hai ragione o torto. Se invece dici alla gente che tu vorresti fare questo o quello, l'idea potrebbe colpire l'immaginazione e gli interessi di molti, suscitando la domanda sul perché la maggioranza non lo fa. Solo che, per elaborare strategie del genere, l'opposizione dovrebbe essere unita, perché non si elaborano progetti accettabili e dotati di fascino se ci si impegna dodici ore al giorno in lotte intestine. E qui si entra in un altro universo, e l'ostacolo insormontabile pare essere la tradizione ormai più che secolare per cui le sinistre di tutto il mondo si sono sempre esercitate nella lotta alle proprie eresie interne, anteponendo le esigenze di questa lotta tra fratelli alla battaglia frontale contro l'avversario. Eppure, solo superando questo scoglio si può pensare a un soggetto politico capace di occupare l'attenzione dei media con progetti provocatori, e di battere Berlusconi usando, almeno in parte, le sue stesse armi. Se non si entra in questa logica, che può anche non piacere, ma è la logica dell'universo mediatico in cui viviamo, non rimane che fare dimostrazioni contro la tassa sul macinato. GLI OCCHI DEL DUCE (Nota: la Repubblica, gennaio 2004). Una settimana fa ricorreva il mio compleanno e, con gli intimi venuti a festeggiarmi, ho rievocato il giorno della mia nascita. Benché dotato di eccellente memoria, quel momento non lo ricordo, ma ho potuto ricostruirlo attraverso i racconti che me ne facevano i miei genitori. Pare dunque che, quando il ginecologo mi ha estratto dal ventre di mia madre, fatte tutte le cose che si debbono fare in tali casi, e presentatole il mirabile risultato delle sue doglie, abbia esclamato: "Guardi che occhi, sembra il Duce!" La mia famiglia non era né fascista né antifascista- come tante della piccola borghesia italiana prendeva la dittatura come un fatto meteorologico - ma certamente per un padre e per una madre sentirsi dire che il neonato aveva gli occhi del Duce era certamente una bella emozione. Ora, fatto scettico dagli anni, inclino a credere che quel buon ginecologo dicesse la stessa cosa a ogni madre e a ogni padre – e guardandomi nello specchio mi scopro piuttosto simile a un grizzly che non al Duce, ma non importa. I miei erano stati felici di apprendere che assomigliassi al Duce. Mi chiedo che cosa potrebbe dire un ginecologo adulatore oggi a una puerpera. Che il prodotto della sua gestazione assomiglia a Berlusconi? La piomberebbe in uno stato depressivo preoccupante. Per par condicio, assumo che nessun ginecologo sensibile direbbe alla puerpera che suo figlio appare paffuto come Fassino, simpatico come Schifani, bello come La Russa, intelligente come Bossi. Il ginecologo avveduto direbbe piuttosto che il neonato ha gli occhi penetranti di Bruno Vespa, l'aria arguta di Bonolis, il sorriso di Christian De Sica (e non dirà che è bello come Boldi, spavaldo come Fantozzi, o - trattandosi di femmina - sexy come Sconsolata). Ogni epoca ha i suoi miti. L'epoca in cui sono nato aveva come mito l'Uomo di Stato, quella in cui si nasce oggi ha come mito l'Uomo di Televisione. Con la consueta cecità della cultura di sinistra si è intesa l'affermazione di Berlusconi (che i giornali non li legge nessuno mentre tutti vedono la televisione) come l'ultima delle sue gaffe insultanti. Non lo era: era un atto di arroganza, ma non una sciocchezza. Mettendo insieme tutte le tirature dei giornali italiani si raggiunge una cifra abbastanza irrisoria rispetto a quella di coloro che guardano solo la televisione. Calcolando inoltre che solo una parte della stampa italiana conduce ancora una critica del governo in carica, e che l'intera televisione, Rai più Mediaset, è diventata la voce del potere, Berlusconi aveva sacrosantamente ragione. Il problema è controllare la televisione, e i giornali dicano quel che vogliono. Questo è un dato di fatto, e i dati di fatto sono tali proprio perché sono indipendenti dalle nostre preferenze. Sono partito da queste premesse per suggerire che nel nostro tempo, se dittatura ha da esserci, deve essere dittatura mediatica e non politica. E' da quasi cinquant'anni che si scriveva che nel mondo contemporaneo, salvo alcuni remoti paesi del Terzo Mondo, per far cadere un governo non era più necessario allineare carri armati ma bastava occupare le stazioni radiotelevisive (l'ultimo a non essersene accorto è Bush, leader terzomondista arrivato persbaglio a governare un paese ad alto tasso di sviluppo). Ora il teorema è dimostrato. Per cui è sbagliato dire che non si può parlare di "regime" berlusconiano perché la parola "regime" evoca il regime fascista, e il regime in cui viviamo non ha le caratteristiche di quello del ventennio. Un regime è una forma di governo, non necessariamente fascista. Il fascismo aboliva la libertà di stampa mentre il regime mediatico berlusconiano non è così rozzo e antiquato. Sa che si gestisce il consenso controllando i mezzi d'informazione più pervasivi. Per il resto non costa niente permettere a molti giornali di dissentire (sino a che non li si possano acquistare - dico la proprietà, non una copia). A che cosa serve mandare Biagi al confino, per farne magari un eroe? 52
Basta non lasciarlo più parlare in televisione, sperando che venga dimenticato. La differenza tra un regime "alla fascista" e un regime mediatico è che in un regime alla fascista la gente sapeva che i giornali e la radio comunicavano solo veline governative, e che non si poteva ascoltare Radio Londra, pena la galera. Proprio per questo sotto il fascismo la gente diffidava dei giornali e della radio, ascoltava Radio Londra a basso volume, e dava fiducia solo alle notizie che pervenivano per mormorio, bocca a bocca, maldicenza. In un regime mediatico dove, diciamo, il dieci per cento della popolazione ha accesso alla stampa di opposizione, e per il resto riceve notizie da una televisione controllata, da un lato vige la persuasione che il dissenso sia accettato ("ci sono giornali che parlano contro il governo, prova ne sia che Berlusconi se ne lamenta sempre, quindi c'è libertà), dall'altro l'effetto di realtà che la notizia televisiva produce (se ho notizia di un aereo caduto è vera, tanto è vero che vedo i sandali dei morti galleggiare, e non importa se per caso sono i sandali di un disastro precedente, usati come materiale di repertorio), fa sì che si sappia e si creda solo quello che dice la televisione. Una televisione controllata dal potere non deve necessariamente censurare le notizie. Certamente, da parte degli schiavi del potere, appaiono anche tentativi di censura, come il più recente (per fortuna ex post, come dicono quelli che dicono attimino e "pool" position), per cui si giudica inammissibile che in una trasmissione televisiva si possa parlare male del capo del governo (dimenticando che in un regime democratico si può e si deve parlare male del capo del governo, altrimenti si è in regime dittatoriale). Ma questi sono solo i casi più visibili (e, se non fossero tragici, risibili). Il problema e che si può instaurare un regime mediatico in positivo, avendo l aria di dire tutto. Basta sapere come dirlo. Se nessuna televisione dicesse quel che pensa Fassino sulla legge tale, tra gli spettatori nascerebbe il sospetto che la televisione taccia qualcosa, perché si sa che da qualche parte esiste un'opposizione. La televisione di un regime mediatico usa invece quell'artificio retorico che si chiama "concessione". Facciamo un esempio. Sulla convenienza di tenere un cane ci sono all'incirca cinquanta ragioni pro e cinquanta ragioni contro. Le ragioni pro sono che il cane è il miglior amico dell'uomo, che può abbaiare se vengono i ladri, che sarebbe adorato dai bambini, ecc. Le ragioni contro sono che bisogna portarlo ogni giorno a fare i suoi bisogni, che costa in cibo e veterinario, che è difficile portarlo con sé in viaggio... Ammesso che si voglia parlare in favore dei cani, l'artificio della concessione è: «è vero che i cani costano, che rappresentano una schiavitù, che non si possono portare in viaggio" (e gli avversari dei cani vengono conquistati dalla nostra onestà), «ma occorre ricordare che sono una bellissima compagnia, adorati dai bambini, vigili contro i ladri, ecc." Questa sarebbe un'argomentazione persuasiva in favore dei cani. Contro i cani si potrebbe concedere che è vero che i cani sono una compagnia deliziosa, che sono adorati dei bambini, che ci difendono dai ladri, ma dovrebbe seguire l'argomentazione opposta, che i cani però rappresentano una schiavitù, una spesa, un impaccio per i viaggi. E questa sarebbe un'argomentazione persuasiva contro i cani. La televisione procede in questo modo. Se si discute della legge tale, la si enuncia e poi si dà subito la parola all'opposizione, con tutte le sue argomentazioni. Quindi seguono i sostenitori del governo che obiettano alle obiezioni. Il risultato persuasivo è scontato: ha ragione chi parla per ultimo. Seguite con attenzione tutti i telegiornali, e vedrete che la strategia è questa: mai che dopo l'enunciazione del progetto seguano prima i sostegni governativi e dopo le obiezioni dell'opposizione. Sempre il contrario. Un regime mediatico non ha bisogno di mandare in galera gli oppositori. Non li riduce al silenzio censurandoli, bensì facendo sentire le loro ragioni per prime. Come si reagisce a un regime mediatico, visto che per reagirvi bisognerebbe avere quell'accesso ai media che il regime mediatico appunto controlla? Sino a che l'opposizione, in Italia, non saprà trovare una soluzione a questo problema e continuerà a dilettarsi di contrasti interni, Berlusconi sarà il vincitore.
AMMAZZA L'UCCELLINO (Nota: L'espresso, marzo 2004). A proposito delle discussioni sulle caratterstiche da attribuire al "regime" che il governo Berlusconi sta instaurando in modo lento e progressivo, vale la pena di chiarire meglio alcuni concetti quali conservatore, reazionario, fascista, qualunquista e populista e via dicendo. Il reazionario è colui che ritiene che vi sia una sapienza antica, un modello tradizionale di ordine sociale e morale, al quale bisogna tornare a ogni costo, opponendosi a tutte le cosiddette conquiste del progresso, dalle idee liberal-democratiche alla tecnologia e alla scienza moderna. ~l reazionario non è pertanto un conservatore, è se mai un rivoluzionario "all'indietro". Ci sono stati nel corso della storia grandi reazionari che certo non presentavano alcun tratto delle ideologie fasciste, proprie del ventesimo secolo. Anzi, rispetto al reazionarismo classico, il fascismo era "rivoluzionario modernista", esaltava la velocità e la tecnica 53
moderna (vedi i futuristi) anche se poi, col sincretismo zuzzurellone che gli era proprio, arruolava anche reazionari nel senso storico del termine, come Evola. Il conservatore non è un reazionario e tanto meno un fascista. Vedi per esempio Churchill, di vedute liberali e antitotalitarie. Un populismo invece è una forma di regime che, cercando di scavalcare le mediazioni parlamentari, tende a stabilire un rapporto plebiscitario immediato tra il leader carismatico e le folle. Ci sono stati sia casi di populismo rivoluzionario, dove mediante l'appello al popolo si proponevano riforme sociali, sia forme di populismo reazionario. Il populismo è semplicemente un metodo che prevede il richiamo viscerale a quelle che si ritengono le opinioni o i pregiudizi più radicati nelle masse (sentimenti che si chiamano poujadistici o qualunquisti). Bossi, per esempio, usa metodi populisti appellandosi a sentimenti qualunquisti, come la xenofobia o la diffidenza verso lo stato. In tal senso è certamente di carattere qualunquista l'appello di Berlusconi a sentimenti profondi e "selvaggi" come l'idea che sia giusto evadere il fisco, che i politici sono tutti ladri, che dobbiamo diffidare della giustizia perché è quella che ci mette in prigione. Un conservatore serio e responsabile non incoraggerebbe mai i cittadini a non pagare le tasse, perché andrebbe in crisi il sistema che si propone di conservare. Rispetto a questi vari atteggiamenti, molti temi di dibattito politico sono trasversali. Si veda la pena di morte. Essa può essere sia sostenuta che avversata dai conservatori, di solito trova favorevole un reazionario, ancorato ai miti del sacrificio, del risarcimento, del sangue come elemento purificatore (vedi de Maistre), può essere buon argomento per un populista che fa appello alle inquietudini della gente comune rispetto a delitti efferati e non è stata mai messa in questione neppure dai regimi comunisti. Diverso è l'atteggiamento verso i valori ambientali: il tema di una preservazione della Madre Terra, anche a prezzo di eliminare la specie umana, è tema squisitamente reazionario, ma può battersi per la difesa dell'ambiente tanto un conservatore responsabile (non Bush che deve rispondere a potenze industriali interessate a uno sviluppo incontrollato), quanto un rivoluzionario di estrema sinistra. Un populista potrebbe essere in favore del rispetto dell'ambiente, ma di solito deve fare i conti coi sentimenti profondi del "popolo" a cui si rivolge. Il mondo contadino è stato nei secoli rispettoso dell'ambiente solo per quanto riguardava le tecniche di coltivazione dell'area ristretta di propria competenza, ma ha sempre disboscato ogni volta che gli faceva comodo, senza preoccuparsi delle conseguenze geologiche su una scala più vasta. Se ci pare che i contadini di un tempo rispettassero l'ambiente più di quelli moderni è solo perché di boschi e foreste, allora, ce n'erano in tale quantità che la loro distruzione non costituiva ancora problema. «Ciascuno ha diritto di costruire la propria casetta dove vuole, senza essere legato a vincoli ambientali" può essere pertanto un appello populistico di successo. Si parla in questi giorni di una legge che vorrebbe estendere oltre misura le guarentigie per i cacciatori. La caccia è pratica e passione popolare - e si basa su sentimenti atavici. Visto che il consorzio umano ammette l'allevamento di polli, bovini e maiali per poi ucciderli e mangiarli, si può ammettere che in riserve dedicate, lontane dall'abitato, in stagioni precise, si possa accettare che qualcuno vada a uccidere per sport animali commestibili la cui riproduzione sia salvaguardata e controllata. Ma entro certi limiti. Invece la legge in discussione tenta di riportare questi limiti a dimensioni pre-ecologiche. Perché? Perché con questa proposta si fa appello a pulsioni ancestrali, a quel "popolo profondo", diffidente verso ogni critica e riforma delle tradizioni, che è brodo di cultura di tutte le derive poujadistiche. Così questa proposta di legge sottolinea ancora una volta la natura populistico-qualunquista di un regime strisciante, che si alimenta di appelli agli istinti incontrollati dell'elettorato meno criticamente educato. DISERTARE IL PARLAMENTO (Nota: L'espresso, marzo 2005). Nei giorni in cui Berlusconi annunciava a Porta a porta il presunto disimpegno italiano nell'Iraq e poi nei giorni seguenti, mi trovavo a Parigi, dove si stava aprendo il Salone del Libro, e così ho avuto occasione di parlare delle cose italiane con i francesi, i quali sono specializzati nel non capire mai esattamente che cosa succede a casa nostra e spesso non senza una qualche ragione. Prima domanda: perché il vostro presidente del consiglio ha annunciato una decisione così grave in una trasmissione televisiva e non in parlamento - dove forse avrebbe anche dovuto chiedere un parere o un consenso? Ho spiegato che questa è la forma del regime di populismo mediatico che Berlusconi sta instaurando, dove tra il Capo e il Popolo si pone un rapporto diretto, attraverso i mezzi di massa, esautorando così il parlamento (dove il capo non ha bisogno di andare a cercare consenso perché il consenso ce l'ha assicurato - e quindi il parlamento tende a diventare il notaio che registra gli accordi presi tra Berlusconi e Bruno Vespa). 54
Le domande si sono infittite i giorni seguenti quando, dopo le severe reprimende di Bush e Blair, Berlusconi ha affermato di non avere mai detto che avrebbe ritirato le truppe dall'Iraq. Ma come è possibile che si contraddica così, mi chiedevano i miei interlocutori. Ho spiegato che questa è la bellezza del populismo mediatico. Se tu una cosa la vai a dire in parlamento, va agli atti, e dopo non puoi dire di non averla detta. Invece dicendola in televisione, Berlusconi ha ottenuto subito il risultato che si proponeva (guadagnare una certa popolarità a fini elettorali); e dopo, quando ha affermato di non averlo detto, da un lato ha tranquillizzato Bush e dall'altro non ha perduto quel tanto di consenso che aveva guadagnato, perché è virtù dei mass-media che chi li segue (e non legge i giornali) dimentica ~l giorno dopo che cosa era stato esattamente detto il giorno prima, e al massimo conserva l'impressione che Berlusconi avesse detto una cosa simpatica. Ma, hanno osservato i miei interlocutori, gli italiani non si accorgono che così facendo Berlusconi (e con lui l'Italia) perdono di credibilità non solo presso Chirac o Schroder ma anche presso Blair e Bush? No, ho risposto, di questo possono accorgersi gli italiani che leggono i giornali, ma costoro sono una minoranza rispetto a quelli che ricevono notizie solo dalla televisione, e la televisione dà solo le notizie che piacciono a Berlusconi. Questo è appunto il regime di Populismo Mediatico. POPULISMO SI', MA LA PIAZZA NO (Nota: L'espresso, agosto 2002). Al Meeting di Comunione e Liberazione, a Rimini, il presidente del Senato Marcello Pera ha ammonito che la politica non si fa "in piazza", bensì nelle sedi deputate, vale a dire nelle due camere, e nel dirlo riprendeva molte irritazioni espresse nell'ambito della maggioranza contro alcune manifestazioni di opposizione, tipo girotondi et similia. Ancorché rispettabile, questa opinione contraddice però lo spirito delle democrazie occidentali dove è vero che esistono tre poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - e che la sede per condurre dibattiti politici è il parlamento, ma dove si riconosce che anche i cittadini (che sono poi coloro che eleggono il parlamento) hanno il diritto di controllare i vari poteri dello stato, giudicarne l'azione e stimolarla, manifestare eventuali insoddisfazioni circa la conduzione della cosa pubblica. In tal senso la voce dell'elettorato, che non può manifestarsi solo il giorno del voto, è utile anche al parlamento e al governo stesso, al secondo perché gli trasmette un segnale, una sollecitazione, al primo perché dall'insoddisfazione popolare si possono trarre utili indicazioni sulle elezioni successive (che è poi quello che si tenta di appurare anche mediante sondaggi, che altrimenti sarebbero una forma di pressione illecita). Sia chiaro che questa voce dell'elettorato non ha nulla a che fare con quella "volontà popolare" a cui si appella il populismo. Il populismo rappresenta l'appello diretto al popolo (o la presunta interpretazione della volontà popolare) fatto dal vertice, mentre le manifestazioni di piazza rappresentano non una generica "Voce del Popolo" bensì l'espressione libera di gruppi, partiti, associazioni di cittadini. Come si manifesta l'opinione dell'elettorato? Attraverso l'azione di vari leader di opinione, giornali, associazioni, partiti, ma anche a opera della piazza. Intendiamoci, se per manifestazione di piazza si intende una insurrezione di sanculotti che sfasciano tutto, allora si chiama rivoluzione, o esplosione di disordini, e sono un'altra cosa. Ma le democrazie conoscono infinite altre, e pacifiche, dimostrazioni di piazza, che non sono necessariamente totalitarie e oceaniche, perché può essere manifestazione di piazza anche quella di una ristretta minoranza, persino di due o tre persone, che riunendosi vogliono comunicare in pubblico quello che pensano o vogliono. In tal senso basta andare davanti al parlamento inglese, o in ogni città americana, per vedere schiere di cittadini che inalberano cartelli e scandiscono slogan, cercando di coinvolgere i passanti. Basta andare al celebre angolo di Hyde Park per vedere signori che su un podio improvvisato arringano gli astanti - ma non è necessario andare a Londra, anche nelle città italiane si trovano luoghi deputati in cui la gente si riunisce spontaneamente a discutere dei fatti politici del giorno. Talora queste manifestazioni di piazza possono essere imponenti, come il Moratorium di Washington del 1969, contro la guerra in Vietnam, che ha scosso il paese. Possono essere di destra o di sinistra, e si ricorderà la marcia dei quarantamila a Torino, che esprimeva nel pieno della lotta sindacale la posizione dei quadri aziendali, i cosiddetti colletti bianchi, o le manifestazioni di piazza delle "maggioranze silenziose", le sfilate dei sostenitori del Polo e le celebrazioni celtiche della Lega. Non si capisce perché soltanto le manifestazioni sindacali, per un fatto giuridicamente trascurabile che raccolgono milioni e non centinaia di persone, o i girotondi, per il fatto che sono più pittoreschi, debbano essere sentiti come più antidemocratici di Pannella che s'incatena o beve l'orina in pubblico. Certo, nelle manifestazioni di piazza fa aggio la quantità. Ma "quantità" non è una brutta parola, poiché è sulla quantità (in mancanza di criteri più sicuri) che si regge la democrazia, dove vincono coloro che "sono più tanti". La piazza, quando si comporta in modo non violento, è espressione di civile libertà, e consideriamo dittatoriali quei paesi dove le manifestazioni di piazza non sono consentite, oppure se ne costruiscono dei simulacri organizzati 55
dall'alto, come le adunate oceaniche a Piazza Venezia. Ma esse erano discutibili non perché fossero oceaniche, bensì perché non presupponevano contro-adunate di segno opposto. Chiediamoci ora che cosa sia il Meeting di Rimini. Non è una seduta parlamentare, e non è un seminario per addetti ai lavori. Come le feste dell'Unità, e ancor più, perché si svolge anche nei centro stesso della città, è una manifestazione della "piazza", legittima come le altre, e di sicuro impatto politico. E dove ha pronunciato il presidente del senato la sua arringa contro la piazza? In piazza, in una manifestazione che si svolgeva al di fuori delle aule parlamentari e intendeva esprimere le opinioni di una parte dei cittadini. Per cui la condanna della piazza avvenuta in piazza sembra quasi l'azione di un severo moralista che, volendo condannare le pratiche di esibizionismo, si presenti sul sagrato del duomo, apra di colpo l'impermeabile esibendo il proprio membro e gridi "Non fate mai così, intesi?". L'ITALIA DEI COMICI. UNA SITUAZIONE TRAGICA (Nota: L'espresso, marzo 2002). Ci sono momenti in cui un paese sta in sospeso attendendo un evento che potrebbe cambiare il corso della sua storia. Immagino che così si sentissero i romani dopo l'uccisione di Cesare e prima del discorso di Antonio, o più modestamente gli italiani dopo che la radio nel 1943 aveva sobriamente annunciato che il cavalier Benito Mussolini era stato sollevato dal suo incarico e il governo era stato assegnato al maresciallo Badoglio. In base all'esperienza personale, e alle numerose pagine che domenica scorsa ciascun grande quotidiano ha dedicato all'evento, così è accaduto per l'attesa apparizione di Benigni a San Remo. Ferrara non è uno sciocco e se ha promesso quello che poi non ha fatto (lancio di uova e ortaggi al "comico di regime" nemico del nuovo regime) doveva avere qualche piano in testa. Certo, solo un indotto di comunicazioni di massa (quale Ferrara certo non è) o un infiltrato del partito comunista nelle file del Polo (quale Ferrara non può essere, visto che il partito comunista esiste ormai solo nella fervida mente del presidente del consiglio) poteva ordire una trama che, comunque fosse andata, avrebbe danneggiato il partito di governo. Per calcolare gli effetti dirompenti della faccenda bisognava considerare che Benigni è un personaggio di culto internazionale. A qualcuno può non piacere, ma sta di fatto che quello che fa interessa la stampa di tutti i paesi. In effetti, una volta lanciata la minaccia, le possibilità erano tre: Prima possibilità: Benigni appare a San Remo, gli ex comunisti passati a destra interrompono il suo spettacolo e lanciano uova. Inutile dire che la stampa internazionale avrebbe gridato al nuovo fascismo e alla conculcazione della libertà di espressione. Seconda possibilità: Benigni va in scena, parla di «topa" e altri ammennicoli perineali che hanno caratterizzato questo festival, e non parla di politica. Peggio che peggio. La stampa internazionale sarebbe insorta contro questo chiaro esempio di terrorismo psicologico, che è una forma di censura. In Italia nessuno è più libero di esprimere le proprie opinioni perché ci sono le squadracce. Terza possibilità: Benigni appare, parla del bello e del cattivo tempo, e poi prega Baudo di non provocarlo, perché certe cose non si possono dire, non è mica più come un tempo, siamo tornati ai giorni che si ascoltava di nascosto Radio Londra: per piacere non fatemi parlare che ho famiglia, ecc. Clamorosa denuncia dell'esistenza di un regime, raccolta da tutta la stampa internazionale. Benigni è stato più saggio. Io credo che abbia fatto quello che avrebbe fatto anche se non ci fosse stata la provocazione di Ferrara. Sapeva che non appariva come privato cittadino in una trasmissione di Biagi ma come attore a una trasmissione che coinvolge milioni di italiani, di tutte le opinioni, non ha evitato le sue polemiche consuete (ma senza cambiare troppo un copione ormai noto), ha fatto un appello all'amore, ha bloccato la platea con una recitazione dantesca (Benigni è un prodigioso lettore di Dante – e, come molti forse non si accorgono, è persona di raffinatissima cultura) e voglio ben vedere a questo punto chi si mette a fischiare la vergine madre figlia del tuo figlio. Il colpo dantesco (a San Remo!) non se lo aspettava nessuno. Bisognava essere un genio per pensarci. Standing ovation, delirio, Benigni vince, come da copione. Non ti devi mai mettere contro chi è più bravo di te. Credo si consideri vincitore anche Ferrara. Se non agitavo le acque con la mia provocazione, probabilmente pensa, Benigni avrebbe fatto peggio. Ma cosa di peggio, visto che è bastato alludesse a conflitti di interesse e falsi in bilancio perché la platea si scompisciasse dalle risa? Quello che ha detto Benigni lo sanno tutti, e lo avrebbero considerato (bontà loro) argomento comico (o più tragicamente, grottesco) anche se lui non ne avesse parlato. Ma, finita la storia, rimangono alcune malinconiche riflessioni. Da un po' di tempo tutto quello che accade in Italia, e che crea subbuglio e inquietudine, è dovuto ai comici. Alle molte vignette, d'accordo, ma soprattutto agli "scoop" di Striscia la notizia e delle Iene. Vi ricordate il tempo in cui i mali d'Italia erano denunciati dell'Espresso (capitale 56
corrotta, nazione infetta), dall'opposizione, dalla magistratura? Finito. Che cosa accada in parlamento non interessa più nessuno (Berlusconi dice che non vale la pena di andarci per ripetere cose che sanno tutti), i partiti vanno a rimorchio dei girotondi, il massimo shock dell'anno non è stato dato da un politico ma da un artista (Moretti). E' sano un paese dove solo i comici danno il via alle polemiche, al dibattito, senza ovviamente poter suggerire le soluzioni? Ma, a ripensarci bene, questo non è dovuto al fatto che i comici stanno andando al parlamento, bensì al fatto che il governo è caduto in mano ai comici, o che molti che in altri tempi sarebbero stati figure da avanspettacolo sono andati al governo. COME FARE UN CONTRATTO COI ROMANI (Nota: L'espresso, luglio 2004). Nel 64 a.C. Marco Tullio Cicerone, già celebre oratore ma tuttavia "uomo nuovo", estraneo alla nobiltà, decide di candidarsi alla carica consolare. Il fratello Quinto Tullio scrive per suo uso e consumo un manualetto, in cui gli dà consigli per bene riuscire nella sua impresa. A volgerlo in edizione italiana, con testo a fronte (Manuale del candidato - Istruzioni per vincere le elezioni, editore Manni), è Luca Canali, corredandolo di un commento, in cui si chiariscono le circostanze storiche e personali di quella campagna. Furio Colombo scrive l'introduzione, con una sua polemica riflessione sulla "prima Repubblica". Infatti molto simile alla nostra seconda è questa repubblica romana, nelle sue virtù (pochissime) e nei suoi difetti. L'esempio di Roma, nel corso di più di due millenni, ha sempre continuato ad avere molta influenza sulle successive visioni dello stato. Come ricorda Colombo, al modello della più antica repubblica romana si erano ispirati gli autori dei Federalist Papers, che avevano delineato le linee fondamentali di quella che sarebbe poi stata la Costituzione americana, e che vedevano in Roma, più che in Atene, l'esempio ancora attuale di una democrazia popolare. Con maggiore realismo i neocons intorno a Bush si ispirano all'immagine di Roma imperiale e, d'altra parte, molta della discussione politica attuale fa ricorso sia all'idea d'Impero che a quella di pax americana, con esplicito riferimento alla ideologia della pax romana. Salvo che l'immagine di competizione elettorale che emerge dalle venti paginette di Quinto è assai meno virtuosa di quella che aveva ispirato i federalisti del Settecento. Quinto non pensa affatto a un uomo politico che si rivolga al proprio elettorato con un progetto coraggioso, affrontando anche il dissenso, nella speranza di conquistare i propri elettori con la forza trascinatrice di un'utopia. Come nota anche Canali, è totalmente assente da queste pagine ogni dibattito di idee; anzi è sempre presente la raccomandazione a non compromettersi sui problemi politici, in modo da non crearsi nemici. Il candidato vagheggiato da Quinto deve soltanto "apparire" affascinante, facendo favori, altri promettendone, non dicendo mai di no a nessuno, perché è sufficiente lasciar pensare che qualche cosa si farà; la memoria degli elettori è corta e più tardi si saranno dimenticati delle antiche promesse. La lettura di Colombo tende a mettere in luce "incredibili affinità, somiglianze, assonanze che sembrano attraversare i secoli". Quelli che nel testo sono i salutatores, che vanno a rendere omaggio a più candidati, sono visti come dei "terzisti", mentre i deductores la cui presenza continua deve attestare l'autorevolezza del candidato, hanno la funzione di renderlo visibile e (mutatis mutandis) svolgono la funzione che svolge oggi la televisione. La campagna elettorale appare come uno spettacolo di pura forma, in cui non conta che cosa il candidato sia, ma come appaia agli altri. Come dice Quinto, il problema è, per quanto le doti naturali abbiano un peso, far sì che la simulazione possa vincere la natura. D'altra parte "la lusinga è detestabile quando rende qualcuno peggiore ma... è indispensabile a un candidato il cui atteggiamento, il cui volto, il cui modo di esprimersi, devono di volta in volta mutare per adattarsi ai pensieri e ai desideri di chiunque egli incontri". Naturalmente bisogna fare in modo "che l'intera tua campagna elettorale sia solenne, brillante, splendida, e insieme popolare... Appena ti è possibile, fa' pure in modo che contro i tuoi avversari sorga qualche sospetto... di scelleratezza, di dissolutezza o di sperperi". Insomma, tutte belle raccomandazioni che sembrano essere state scritte oggi, e viene subito in mente per chi - ovvero il lettore legge Quinto ma pensa a Silvio. Alla fine della lettura ci si chiede: ma la democrazia è davvero e soltanto questo: una forma di conquista del favore pubblico, che deve basarsi solo su una regìa dell'apparenza e una strategia dell'inganno? E' certamente anche questo, né potrebbe essere diversamente se questo sistema impone che si arrivi al potere solo attraverso il consenso, e non grazie alla forza e alla violenza. Ma non dimentichiamoci che questi consigli per una campagna elettorale tutta "virtuale" sono dati nel momento in cui la democrazia romana è già in piena crisi. Di lì a poco Cesare prenderà definitivamente il potere con l'appoggio delle sue legioni, istituirà di fatto il principato, e Marco Tullio pagherà con la vita il passaggio da un regime fondato sul consenso a un regime fondato sul colpo di stato. Così non si può evitare di pensare che la democrazia romana iniziò a morire quando i suoi politici capirono che non occorreva prendere sul serio i programmi ma occorreva ingegnarsi soltanto di riuscire simpatici ai loro (come dire?) telespettatori. 57
NOI E GLI STRANIERI Spazzatura e banane (Nota: L'espresso, maggio 2001). Come i lettori ormai sapranno, alcuni giornali stranieri hanno pubblicato articoli in cui si esprimevano dubbi circa l'idoneità del candidato premier del Polo a governare il proprio paese. Che il candidato premier abbia definito come spazzatura quei giornali, è giustificabile moto d'irritazione. D'altra parte è costume nazionale, se una donna rifiuta le nostre attenzioni, definirla come signora di facili costumi. Ma si sono udite altre voci che consideravano come impropria l'ingerenza della stampa straniera nei nostri affari nazionali. Che questo lo abbia detto il senatore Cossiga è irrilevante perché, come diceva la pubblicità (mi pare) del dottor Ciccarelli, con quella bocca può dire ciò che vuole. Che lo abbia detto il senatore Andreotti è faccenda più complessa: conoscendo l'uomo, se lo ha detto, intendeva qualcosa d'altro. Ma mi ha colpito l'affermazione del senatore Agnelli il quale (se i principali quotidiani non mentono) avrebbe detto che i giornali stranieri si sono rivolti al nostro elettorato come se fossimo una repubblica delle banane. Il senatore Agnelli non solo è attento lettore di giornali, ma coi giornali ha anche relazioni più profonde. E quindi dovrebbe essergli accaduto di leggere sui giornali italiani (La Stampa compresa),nel corso degli anni, articoli severi sui comportamenti di Clinton, sulle gaffe diplomatiche di Bush, sugli scandali intorno al governo Mitterand, sul caso Tapies, sullo strapotere di Bill Gates, sui comportamenti non sempre irreprensibili di membri della famiglia reale britannica, sulla politica di Sharon, sino ad arrivare a giudizi severissimi su Milosevic o Haider. In nessuno di questi casi (tranne forse gli ultimi due) mi risulta che gli stranieri abbiano fatto rimostranze formali giudicando "indebite" queste interferenze nei loro affari nazionali, e se lo avessero fatto dovremmo davvero considerarci una repubblica delle banane. Allora perché i giornali italiani possono (giustamente) esprimere giudizi sulla politica degli altri paesi, e i giornali degli altri paesi non possono fare la stessa cosa nei nostri confronti? A ragionare così si arriverebbe a pensare che, se un magistrato ci accusa, è agente di un complotto, e se invece ci assolve (o giudica il reato caduto in prescrizione), è virtuoso e integerrimo. Come se qualcuno dicesse (e potremmo giungere sino a questo punto) che l'Economist è spazzatura perché parla male del candidato del Polo e invece il Times è un modello di giornalismo perché ne parla con maggiore indulgenza. Dove andremmo a finire se cadessimo in tanta barbarie? La letteratura è cosa diversa dalla politica, ma non ho mai udito di uno scrittore (per stizzoso che fosse) che, stroncato dal supplemento letterario del New York Times, avesse dichiarato spazzatura quella autorevole pubblicazione, o avesse affermato di essere vittima di un complotto (in quel caso) demo-pluto-giudaico. E se lo avesse fatto, lo avremmo considerato un soggetto dall'ego affetto da elefantiasi. Certo, ci sono dei paesi dove, se i giornali esteri parlano male del loro governo, se ne blocca la vendita, e i giornali locali censurano ogni riferimento a quelle accuse. Ma si chiamano paesi sotto dittatura, e alcuni di essi sono repubbliche delle banane. Per inciso, perché essere così sprezzanti con le repubbliche delle banane? Hanno governi con cui deve essere molto facile trattare visto che molte persone rispettate fanno con essi lucrosi affari commerciali e trasportano su quelle spiagge (offshore) i loro capitali. REMARE CONTRO (Nota: L'espresso, maggio 2002). Sin da prima delle elezioni alcuni giornali esteri hanno paventato una vittoria di Berlusconi, e qualcuno si è lamentato di queste ingerenze straniere, come se l'Italia fosse trattata da repubblica delle banane, dimenticando che i giornali italiani sovente criticano (legittimamente) un candidato alle elezioni in Francia o Stati Uniti, e si soffermano magari causticamente su scandali che accadono in paesi amici. Finite le elezioni, giornali in varie lingue hanno stigmatizzato varie iniziative del nostro presidente del consiglio, dalle imprudenti affermazioni sulla superiorità occidentale alle diverse leggi che inducevano questi barbari (che parlano lingue strane e ignote) a sospettare che il nuovo governo perseguisse interessi privati in atti di ufficio. Anche in questi casi le reazioni sono state estremamente irritate, e la linea seguita da Berlusconi e da alcuni suoi portavoce è stata più o meno la seguente: questi giornali sono di sinistra, influenzati da uomini della sinistra italiana che li inducono a scrivere articoli diffamatori contro il nostro paese. 58
Si è così profilata l'immagine, pervicacemente divulgata, di D'Alema o Fassino o Rutelli che alzano il telefono, chiamano i direttori di giornali magari conservatori in Spagna, Francia e Gran Bretagna, e li invitano a scrivere articoli contro l'onorevole Berlusconi. Quelli scattano sull'attenti, dicono signorsì, intingono la penna nel veleno, e via, addosso al demonizzando (e demonizzato). Questo "racconto" rivela una nozione abbastanza mafiosa della stampa internazionale, e solo oggi ci accorgiamo quanto rispondesse all'idea che Berlusconi ha dei rapporti con i media - dico oggi, quando abbiamo visto che il capo del governo ha chiaramente ordinato al consiglio di amministrazione e al direttore generale della Rai di licenziare giornalisti, diciamo, renitenti ad adularlo. Tuttavia, cerchiamo di essere indulgenti. Forse il complotto denunciato da Berlusconi esisteva ed esiste ancora, ogni corrispondente straniero in Italia è in qualche modo succube della sinistra. Ma allora, se Rutelli, Fassino e D'Alema hanno questo potere sui quotidiani di tutto il mondo, indipendentemente dalla loro posizione politica, per sostenere il prestigio internazionale dell'Italia bisognerebbe ridare loro, immediatamente, il governo. Però è successo di peggio. Qualunque sia la forma in cui certi giudizi sono stati formulati, è emerso chiaramente che Jospin e Chirac, nel corso della loro campagna elettorale, hanno scelto Berlusconi e la situazione italiana come termine negativo di confronto. Vale a dire che, per cercare voti, hanno promesso che non intendono fare quello che fa Berlusconi. Come a dire: "Badate, sono una persona per bene, non farò nel mio paese quello che Berlusconi sta facendo in Italia". Il procedimento non è inedito. Molti politici hanno condotto le campagne elettorali dicendo che non avrebbero fatto come l'Unione Sovietica, o come Haider, che loro non erano nazisti, o stalinisti, che non avevano ambizioni autoritarie, che non volevano che il loro paese si riducesse al rango di quelli governati da Idi Amin Dada, Francois Duvalier, Saddam Hussein e via dicendo. Ora che Jospin, socialista, ex trozskista e per giunta protestante scelga Berlusconi come esempio negativo è ovvio: Jospin fa parte (dal punto di vista del Polo) di una internazionale comunista. Ma questa volta a unirsi a questo gioco è stato anche Chirac, forse il rappresentante più tipico (dopo la Thatcher) della destra europea. Chirac dice ai suoi votate a destra perché noi non faremo come Berlusconi". A questo punto l'idea che D'Alema, Rutelli e Fassino abbiano alzato la cornetta e suggerito a Chirac di fare il loro gioco non è più sostenibile. Un idea del genere non verrebbe né a Luttazzi, né al Gabibbo né a quelli del Bagaglino. Come si usa dire oggi, non esiste. Da cui un dubbio, che spero colga anche molti sostenitori del Polo. Non sarà che il nostro presidente fa proprio e sempre tutte le cose che un presidente del consiglio, di qualsiasi colore, non dovrebbe fare? Ciascuno di noi, nel proprio ambito, industriale, commerciante o scrittore che sia, fa sempre del proprio meglio perché l Italia faccia bella figura all'estero. Perché proprio il presidente del consiglio rema contro? TRA IL DIRE E IL FARE (Nota: L'espresso, febbraio 2003). Mentre scrivo è appena iniziata la discussione sul fatto che gli americani hanno annunciato tranquillamente che l'Italia parteciperà alla guerra in Iraq con loro, e qui in Italia si è caduti dalle nuvole, compreso il presidente del consiglio che ha tentato qualche distinguo (ovviamente, perché decisioni del genere debbono essere prese dal parlamento). Colpo di mano di Bush per forzare la mano all'Italia? Niente affatto. Questione di antropologia culturale. E' molto difficile dire chi siano gli americani, perché ci sono i discendenti dei vecchi pionieri anglosassoni e protestanti, gli ebrei, gli italiani, gli irlandesi, i polacchi, i portoricani e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia quello che fa degli Stati Uniti una nazione è il fatto che tutti hanno introiettato un principio fondamentale, che poi al momento opportuno crea anche le identificazioni patriottiche. Il principio è molto semplice: questo è un paese che mi dà da vivere e mi permette, se ce la faccio, di diventare persino ricco, e io debbo accettarne alcune regole di convivenza. Non ho detto "rispettare le leggi" perché anche negli Stati Uniti ci sono i fuorilegge, i gangster, i finanzieri ladri, e ci sono i dropouts, gli emarginati, i barboni, quelli che vivono nei sotterranei. Ma anche costoro, se pure cercano di farla franca violando la legge, si sforzano di osservare le regole di convivenza. Per esempio, alla stazione come al supermarket, rispettano la fila. E' inconcepibile che qualcuno non lo faccia. Si rispetta la fila al punto tale che se la persona davanti a noi sta piantando delle grane e tiene occupato l'addetto o il commesso per un'ora, gli altri magari bofonchiano ma non protestano. Quella persona è arrivata prima e ha tutti i diritti. Mi ricordo che una volta, arrivato in ritardo dal Midwest all'aeroporto La Guardia, avevo appena appena il tempo per saltare su un taxi e raggiungere l'aeroporto Kennedy, per tornare in Italia. C'era una fila mostruosa ai taxi, e ho capito che non ce l'avrei fatta. Allora, disperato, sono andato in capo alla fila, e ho detto a chi attendeva: "Signori, ho il tempo contato per raggiungere il Kennedy e volare in Europa per cose urgentissime. Sareste così gentili di lasciarmi passare per primo?". Non ho mai visto tante facce sbigottite in vita mia: era la prima volta che gli succedeva una cosa del genere. Erano rimasti così frastornati che il gruppo dei primi dieci in fila ha fatto un gesto di 59
permesso, probabilmente ritenendo che se facevo così era perché mi stava bruciando la casa coi bambini dentro. Ho preso il primo taxi, ringraziando, e mi sono reso conto che l'avevo fatta talmente grossa che i miei interlocutori non avevano avuto neppure il coraggio di protestare. La fila è sacra. Un'altra regola fondamentale è che si dice la verità e che in prima istanza si suppone sempre che tu dica la verità. Se ti invitano per qualsiasi impegno, e tu rispondi che sei occupato ("Sorry, I am busy" ) si scusano e non ti chiedono più nulla. Ma se dici di sì e poi non ci vai, la cosa è inconcepibile. Si dice la verità all'agente delle tasse, e ricorderete che Al Capone è andato in galera non per la strage di San Valentino ma perché aveva mentito al fisco, e che Nixon ha perso il posto perché aveva detto una bugia. La fiducia (per noi ingenua) degli americani ha aspetti grotteschi. Una volta, in America, avevo smarrito la carta di credito e, siccome non sapevo a chi telefonare, un amico, residente esperto, ha fatto tutto lui, mettendosi in contatto con l'ufficio apposito. Salvo che alla fine la telefonista gli ha chiesto se era Mister Eco, e saputo che non lo era ha detto che avrebbe potuto dar corso alla pratica di sostituzione solo se le parlava Mister Eco in persona. L'amico mi ha passato il telefono, io ho assicurato di essere Mister Eco in persona. La telefonista mi ha creduto e ho riavuto la carta in un giorno. Naturalmente al telefono avrebbe potuto esserci qualcun altro, ma era inconcepibile che ciò accadesse, e alla telefonista non è passato neppure per la testa che io mentissi. In ogni caso lei era a posto. E allora ecco chiarito quello che è accaduto con Bush. Il nostro presidente del consiglio, come al solito prodigo di promesse, deve avergli detto "non ti preoccupare, sce pensi mi, avete tutto il nostro appoggio". E lui ci ha creduto. Non è che Bush non sappia dire bugie quando parla ai suoi concittadini: ma quella è comunicazione di massa, sagomata sui principi della pubblicità, e in pubblicità è consentito mentire. Negli impegni reciproci, o di fronte all'autorità, invece no. Bush non sa che da noi si dice per cortesia "telefonami, che ci vediamo", oppure "quando passi di qui vieni a cena a casa mia" mentre non abbiamo nessuna intenzione di rivedere l'interlocutore. Berlusconi gli ha promesso qualcosa e lui ha creduto che facesse sul serio, mentre il nostro presidente faceva per dire, partendo dal principio che verba volant. Per questo ho detto all'inizio che si tratta di un problema di antropologia culturale. Anche in politica si dovrebbe sapere che fuori casa esistono regole diverse che da noi. E' IL TEXAS, BELLO MIO! (Nota: L'espresso, luglio 2005). I giornali hanno già dato notizia del test, fatto in America, sulle cento migliori (o più ricordate) battute nella storia del cinema – e ovviamente l'inchiesta riguarda solo il cinema americano. Ha vinto "Francamente, mia cara, me ne infischio" (Frankly, my dear, I don't give a damn) che Clark Gable dice a Vivian Leigh alla fine di Via col vento. Non eccepisco, così come trovo giusto che ci siano in lista alcune battute da Casablanca e una da Ribalta di gloria (Yankee Doodle Dandy) dove il più grande James Cagney di tutti i tempi conclude lo spettacolo presentando la sua simpatica famiglia: "My mother thanks you. My father thanks you. My sister thanks you. And I thank you". Sembra poco ma, a chi lo ricorda, questo film di culto fa scorrere un fuoco leggero sotto la pelle. Due assenze mi colpiscono. Una è da un film che in italiano era intitolato L'ultima minaccia e in inglese Deadline USA. Era una storia sulla libertà di stampa. Alla fine, rispondendo al telefono a chi lo stava minacciando perché una certa notizia non uscisse, Bogart faceva sentire il rumore delle rotative e concludeva (cito a memoria). "E' la stampa, bello mio, e tu non puoi farci nulla! ". In realtà l'originale recita: "That's the power of the press, baby, the power of the press. And there's nothing you can do about it". Troppo ridondante, e forse è per questo che gli americani non ricordano bene la battuta. Per noi (il film ci arrivava all'inizio degli anni Cinquanta) era stata una bella lezione di democrazia e ogni giorno io prego che la si possa ancora pronunciare a lungo anche nel nostro paese. Ma, visto che ho un debole sia per Bogart che per Casablanca, ardo di sdegno per l'assenza di un'altra citazione, e giustifico la dimenticanza con il fatto che non si trattasse di una rapida battuta bensì di un dialogo. Al Rick's Café Americain Bogart sta rispondendo alle lamentele di Yvonne, ragazza di non difficili costumi, con la quale evidentemente si era concesso una disattenta parentesi erotica: "«Dov'eri la notte scorsa?»". "«E' stato tanto tempo fa, non ricordo»". "«Ti vedo stasera?»". "«Non faccio mai progetti così in anticipo»". Per amore di filologia riporto l'originale: "«Where were you last night?»". "«That's so long ago, I don't remember». "«Will I see you tonight?»". "«I newer make plans that far ahead»". 60
Ritengo questo dialogo sublime e non ho bisogno di spiegare perché, dato che chi non lo capisce è impossibile rieducarlo (quanto precede è un anacoluto). Ma sono «storiche" solo le battute dei film? Immediatamente dopo il fallimento del referendum su embrioni e fecondazione eterologa stavo viaggiando attraverso gli Stati Uniti e sono stato raggiunto dalla notizia che Buttiglione, per manifestare la sua soddisfazione, avrebbe pronunciato la frase seguente (l'ha detta davvero? lo attesta il New York Times, è la stampa bello mio e tu non puoi farci nulla): «L'Italia ha dimostrato di essere più simile al Texas che al Massachusetts". Gli amici americani (anche se erano del Texas) spalancavano gli occhi e dicevano che era uno scherzo, che quell'ignoto signore aveva voluto pronunciare parole di sdegno verso il suo paese. No, rispondevo io, lo ha detto sul serio, per dire che l'Italia migliora. E mi è venuta in mente un'altra battuta memorabile Milano anni cinquanta, Università Statale, dove si stava svolgendo un convegno filosofico che metteva a confronto filosofi analitici e idealisti gentiliani, laici e cattolici. Stava parlando uno degli ultimi alfieri dell'idealismo al tramonto, e pronunciava un elogio alquanto retorico dell'Io ("quell'Io che mediandosi si fa e facendosi produce Storia, ecc. ecc."). A un certo punto si era alzato tra il pubblico un idealista di complemento e aveva gridato "viva l'Io" - il che all'epoca faceva ancora ricordare certi personaggi di Giovanni Mosca, che in stiffelius, cilindro e barba bipartita conversavano con l'Abate di Staffarda. L'oratore era impallidito e, mentre gli tremavano e la voce e il labbro, aveva detto: «Signore, se Ella intende prendersi gabbo di cose a cui ho dedicato l'intera mia vita...". E l'altro con voce rotta: "No, no, io dicevo sul serio!". Al che l'oratore (e siamo tra Giovanni Mosca ed Edmondo De Amicis) apriva le braccia ed esclamava: "Se è così, qui tra le mie braccia!". I due si incontravano e abbracciavano sul podio mentre la maggioranza della sala si abbandonava a inverecondi cachinni. Ecco, la storia di Buttiglione mi è parsa della stessa pasta. Immagino che esista qualcuno - che magari ha comprato L'espresso per sbaglio alla stazione - il quale potrebbe chiedermi perché sia così brutto essere più simili al Texas che al Massachusetts. Ancora una volta non ritengo opportuno rispondere perché chi non lo capisce è impossibile rieducarlo. REVISIONARE ALCUNI RICORDI DELLA MIA INFANZIA FASCISTA (Nota: L'espresso, giugno 2000). Siamo nel pieno di un dibattito sulle compromissioni col regime di molti e insigni intellettuali antifascisti. C'è chi ne trae pretesto per dire "dunque non c'erano eroi", e chi argomenta pacatamente, distinguendo tra chi ha saputo affrontare l'esilio e chi si sarebbe macchiato di qualche cedimento. Mi pare però che tutte queste discussioni si sviluppino quasi sempre su un piano di incontaminati valori etici, senza tenere conto di alcuni particolari sociologici. Io, essendo nato nel 1932, sono cresciuto sotto il fascismo sino ai tredici anni. Non abbastanza per essere un protagonista, ma abbastanza per capire tante cose - visto che allora si perveniva da soli, verso i dieci anni, contro le leggende famigliari, a comprendere che i bambini nascono nella pancia della mamma. Si respirava nell'aria un diffuso pigro consenso intorno al regime, sentivo raccontare di personaggi di antica tradizione liberale che il giorno dopo la marcia su Roma avevano allargato le braccia dicendo «forse alla fin fine quest'uomo saprà rimettere un poco d'ordine in questo paese". Mi parlavano a scuola della "rivoluzione fascista", ma dopo mi è diventato evidente che il fascismo non era arrivato di colpo e nottetempo, come i carri armati a Budapest o a Praga, ma si era installato in modo lento e strisciante. Persino il caso Matteotti (col sistema d'informazione che c'era allora) è stato conosciuto e valutato nelle sue giuste proporzioni da una minoranza. Quando un cugino di mio padre, ardente socialista, capitava da noi in certe sere d'estate, mia madre correva a chiudere le finestre per timore che qualcuno sentisse le cose enormi che diceva. Ma se da un lato gli altri famigliari commentavano che quell'Uomo forse aveva buone intenzioni, tranne che era "mal contornato", dall'altro ritengo che quel cugino, se avesse dovuto ottenere lo sveltimento di una pratica per la pensione, avrebbe tranquillamente scritto una lettera ossequiosa alle autorità competenti, perché era così che anche un dissenziente faceva. C'è stato chi ha scelto l'esilio, e alcuni sono andati all'estero a fare i muratori. Ma se non erano molti non dipende dal fatto che poche fossero le coscienze intemerate. In tempi recenti abbiamo visto dei ventenni che, prevedendo un arresto, sono partiti magari da Roma verso la Val d'Aosta, hanno dato un milione a uno spallone e hanno passato il confine. Chiediamoci allora come mai quei molti antifascisti che si sono sorbiti anni di confino, visto che potevano prevedere la loro sorte, non abbiano fatto lo stesso. Non l'hanno fatto perché l'Italia di allora era un paese provinciale, perché anche andare da Roma ad Aosta non era una cosa facile, il milione (o l'equivalente) non c'era, pochi sapevano le lingue, non avevano avuto viaggi precedenti che li avessero messi in relazione con amici d'oltralpe, e non è che, con pochi gettoni da una cabina all'angolo della strada, si potesse telefonare a qualcuno a 61
Zurigo dicendogli di venire ad aspettarci al confine. Si andava al confino non perché non si volesse scappare, ma perché una fuga era una impresa aclopica. Anche i dissenzienti sentivano la dittatura come un destino, un ambiente in cui era fatale venire a patti con le istituzioni, considerando un minimo di doppiezza il tributo necessario (e lecito) da pagare per sopravvivere. E' come se oggi scoprissero che una persona, che poi ha fatto dieci anni in un gulag staliniano, prima dell'arresto presentava domande al Soviet locale per avere una borsa di studio. Ma certo che lo avrà fatto, nella Russia di Stalin non passava neppure per la testa che si potesse fare altrimenti. Anche i comportamenti etici vanno valutati in riferimento all'ambiente. LE OCCULTAZIONI PALESI (Nota: L'espresso, maggio 2001). La discussione dura da gran tempo, ma è evidente che con la destra al potere sta riprendendo con maggiore energia perché, come giustamente si è sempre detto, la Storia viene riscritta dai vincitori. Dunque, non passa giorno che qualcuno ci inviti a riscoprire episodi della storia degli ultimi sessant'anni che sarebbero stati tenuti accuratamente nascosti dalla cultura dominante. Uno storico ha sempre il dovere di riconsiderare persino la battaglia di Poitiers, magari per rivelare che è stato un episodio meno decisivo di quanto ci hanno tramandato gli storici del passato ma, se così facendo lasciasse capire che la cultura dominante ci aveva tenuti all'oscuro su quella battaglia, diremmo che esagera. Nel 1945, a fine guerra, avevo tredici anni e mezzo. Abbastanza per aver conosciuto la dittatura, per essermi buttato in un fosso onde evitare una sparatoria incrociata tra fascisti e partigiani, per sapere che c'erano stati i marò della Decima Mas, che la gente considerava bravi ragazzi un poco idealisti, e quelli delle Brigate Nere, che la gente cercava di evitare, che c'erano partigiani badogliani col fazzoletto azzurro, e partigiani garibaldini col fazzoletto rosso. Le altre cose le ho apprese dopo, che era stata lanciata una bomba atomica su Hiroshima, che erano stati scoperti i campi di sterminio nazisti, che quelli di Salò erano stati segregati a Coltano (da cui erano usciti abbastanza presto), che era stato ammazzato Gentile, che erano stati fucilati i fratelli Cervi, che Pound era stato arrestato per collaborazionismo, che alla fine delle ostilità alcuni ex partigiani erano diventati rapinatori. Poiché ero un ragazzino sveglio che leggeva anche quotidiani e settimanali, ho appreso subito dei fatti gloriosi di Cefalonia, delle foibe istriane, delle repressioni staliniane e, leggendo più tardi le lettere dei condannati a morte della Resistenza, vedevo che c'erano stati tra loro marxisti convinti, monarchici che morivano per il re, cattolici e così via. Che poi la storiografia marxista accentuasse vigorosamente il ruolo dei comunisti nella lotta di Liberazione pareva a tutti un fatto ovvio. Ma la "mitizzazione" della Resistenza è stato un processo molto lento, attuato (e non solo dai marxisti) come legittimazione dello stato democratico, dato che tutti sapevano istintivamente quello che poi De Felice ha razionalizzato, e cioè che il Paese, tutto sommato, aveva accettato il regime. Dopo la Liberazione c'erano state le epurazioni, ma entro pochi mesi migliaia e migliaia di persone, che erano state fasciste ma non avevano mai ammazzato nessuno, erano state reintegrate nelle loro funzioni, e dunque l'ossatura burocratica del paese era ancora fatta di persone passabilmente nostalgiche, e molti, sia pure per scherzo, mormoravano che si stava meglio quando si stava peggio. Nel 1946, un anno dopo la caduta del fascismo, ho visto sui muri i primi manifesti del Movimento Sociale Italiano. Negli anni immediatamente successivi moltissima gente non leggeva l'Unità ma Il Borghese e Candido. Alla Rai si è cominciato a parlare con qualche intensità di resistenza solo quando il presidente Saragat (e siamo già negli anni sessanta) aveva preso a terminare i suoi discorsi con "viva l'Italia, viva la repubblica!" - e la cosa era parsa provocatoria. Dunque se tante cose "occultate" io le ho apprese da ragazzo è perché se ne parlava ampiamente. Possibile che, a quell'età, fossi l'unico italiano in possesso di informazioni riservate? L'EGEMONIA DELLA SINISTRA (Nota: la Repubblica, novembre 2000). All'inizio degli anni settanta Marisa Bonazzi aveva organizzato a Reggio Emilia una mostra critica dedicata ai libri di testo in uso nelle elementari dell'epoca. La mostra esponeva, dovutamente ingrandite, le pagine dei libri, e poi le commentava. Nel 1972, per le edizioni Guaraldi, Marisa Bonazzi e io avevamo pubblicato un libro, intitolato I pàmpini bugiardi, in cui il commento ai testi incriminati era quasi del tutto ridotto a titoletti ironici, e a brevi introduzioni ai vari settori (i poveri, il lavoro, la patria, le razze, l'educazione civica, la storia, la scienza, il danaro 62
ecc.). Il resto parlava da se. Ne veniva fuori l'immagine di una editoria scolastica che non si limitava a ripetere i cliché dei libri di lettura e dei sussidiari fascisti, ma era ancora più indietro, legata a stereotipi arcaici, datati almeno quanto il Vittoriano e il dannunzianesimo degli stenterelli. Cito solo due esempi, e le sottolineature sono mie. Uno era un ritratto di Nazario Sauro, in cui è evidente lo schema dei busti mussoliniani: In un corpo robusto pieno di sangue vivido e pronto, in quella testa è possente e grossa, in quegli occhi risolutissimi si è trasfuso un poco dello spirito immortale che aleggia sui campi, sui monti, sui mari d'Italia, e la fa bella e forte diversamente dalle altre patrie". Il secondo era un capitolo sul 2 giugno, dedicato a spiegare come la festa della Repubblica si risolvesse in una parata militare: "E' un fiume di ferro, di uniformi, di armi e soldati allineati in ordine perfetto... Passano i giganteschi carri armati, i mezzi cingolati per il trasporto delle truppe anche attraverso la nube di una esplosione atomica, i grandi cannoni, gli agili e scattanti reparti d'assalto..." Evidentemente dei testi che spiegavano a bambini innocenti che i nostri cingolati scorrazzano felici attraverso le liete nubi di un'esplosione atomica erano dei testi mendaci. Quel nostro libretto ha avuto una certa fortuna e, per la sua piccola parte, insieme con altri interventi critici (citavo in prefazione un numero della rivista Rendiconti), ha contribuito a uno svecchiamento dei testi scolastici. Nessuna autorità è intervenuta, nessuna commissione di censura è stata costituita. Come avviene nelle cose della cultura, una libera critica ha stimolato ripensamenti e nuove iniziative. Io credo che così si debba fare in un paese civile. Non intendo pronunciarmi sui libri che hanno scatenato la critica di Storace, anche perché non li conosco. Sono pronto ad ammettere che contengano passi contestabili, e in un paese libero le opinioni contestabili, appunto, si contestano, ferma rimanendo la distinzione fondamentale tra contestazione e censura. Se c'è scandalo, scoppia da solo. Naturalmente chi critica deve avere l'autorità morale e culturale per rendere la sua critica efficace: ma sono decorazioni che si acquisiscono sul campo. Non dico nulla che non sia stato già detto se ricordo che un testo scolastico, per difettoso che sia, interagisce con l'autorità dell'insegnante, e con notizie che i ragazzi ricevono (specialmente oggi) da tanti altri canali. Al liceo si aveva come testo di filosofia il serio ma illeggibile Lamanna, di ispirazione idealista. Giacomo Marino, il mio professore di filosofia, era cattolico (e fu un grande maestro, che ci spiegava persino chi fosse Freud, invitandoci a leggere, per capirlo, L'anima che opera guarigioni di Stefan Zweig). Non amava il Lamanna, e ci dava la sua versione della storia della filosofia. Anche se poi ho fatto il filosofo di professione, molte delle cose filosofiche che so sono ancora quelle che mi ha insegnato lui. A questo professore ho chiesto un giorno quale buona rivista culturale avrei potuto leggere, oltre alla Fiera letteraria (che tra l'altro era allora in mani cattoliche, ma parlava di tutto). Mi ha consigliato un'altra seria rivista cattolica, Humanitas. E questo mi riconduce al problema dell'egemonia culturale della sinistra. Oggi un ragazzo che, come per lo più avviene, sa poco dell'Italia che lo ha preceduto, a leggere i giornali e ad ascoltare i discorsi politici (se lo fa) si convince che dal 1946 a Tangentopoli l'Italia è stata governata dalle sinistre, le quali, avendo le leve del comando, hanno instaurato una loro egemonia culturale, i cui effetti nefasti si avvertono ancora adesso. Debbo rivelare a quei giovani che in quel periodo il nostro paese è stato governato dalla Democrazia Cristiana, che controllava saldamente il ministero della pubblica istruzione, che esistevano fiorenti case editrici cattoliche (come la Morcelliana, SEI, Studium, l'Ave, e persino una casa editrice della Democrazia Cristiana, Cinque Lune), che la Rizzoli era allora d'ispirazione conservatrice, che non erano di sinistra Mondadori, Bompiani, Garzanti e via dicendo, che l'editoria scolastica di Le Monnier, Principato, Vallardi non era governata da membri del partito comunista, che non erano marxisti i grandi settimanali come La Domenica del Corriere, Epoca, Oggi, Tempo, non lo erano certamente i grandi quotidiani salvo l'Unità (comperata solo da chi votava comunista) e che, alla fin fine (non considerando le edizioni del Partito Comunista, come l'Universale del Canguro, che circolavano solo alle feste dell'Unità), l'unica casa di sinistra era l'Einaudi - la quale peraltro nel 1948 ha pubblicato il primo libro sul materialismo dialettico sovietico, ma scritto da un gesuita. Feltrinelli viene dopo, e si afferma pubblicando Il Gattopardo e il Dottor Zivago, che non sembrano esempi sfavillanti di egemonia marxista. Quella che oggi viene sbrigativamente chiamata cultura di sinistra era in verità cultura laica, liberale, azionista, persino crociana L'università era governata da due grandi gruppi che si spartivano i concorsi, i cattolici e i laici, e tra i laici ci stavano tutti, anche i pochi studiosi marxisti di allora. Come si è stabilita una egemonia della cultura laica, perché gradatamente egemonia c'è stata? Perché la Democrazia Cristiana al potere non l'ha contrastata e non è riuscita a opporre il fascino di Diego Fabbri a quello di Bertolt Brecht? Non basta affermare, come qualcuno ha fatto in questi giorni, che il partito di governo ha esercitato un'ampia e serena tolleranza. E' vero in parte, ma negli anni cinquanta ricordo che alla Rai lavorava gente a cui si rifiutava il contratto definitivo con la spiegazione esplicita che era comunista, e si potrebbero riaprire le cronache dell'epoca per ritrovare polemiche, manifestazioni d'intolleranza, chiusure oggi inaccettabili. Però sarebbe lecito dire che il partito 63
di potere ha preso una decisione: lasciate a noi il controllo dell'economia, degli enti pubblici, del sottogoverno, e noi non ficcheremo il naso più di tanto nell'attività culturale. Ma anche questo spiega poco. Perché, visto che la scuola non l'imponeva e anzi l'ignorava, un giovane doveva andare a leggere Gramsci piuttosto che Maritain (o almeno, perché i giovani cattolici dell'epoca leggevano Maritain, ma anche Gramsci e Gobetti)? Perché quando la rivista dei giovani democristiani di fronda, Terza generazione, ha tentato la saldatura Gramsci-Gioberti, la proposta non ha avuto successo e il povero Gioberti è rimasto negli scaffali delle biblioteche (e dire che sciocco non era)? Perché i giovani cattolici di allora, cresciuti sul personalismo di Mounier e sugli scritti di Chenu o Congar, leggevano affascinati anche Il Mondo di Pannunzio? E' che lo spirito soffia dove vuole. La filosofia cattolica degli anni cinquanta e sessanta si divideva, tranne pochissime eccezioni come gli esistenzialisti cristiani, tra neotomisti e spiritualisti di origine gentiliana, e di lì non si muoveva, mentre la filosofia laica metteva in circolazione non tanto Marx (come se tutti all'epoca si buttassero sui Grundrisse, andiamo!), ma il neopositivismo logico, l'esistenzialismo, Heidegger, Sartre o Jaspers, la fenomenologia, Wittgenstein, Dewey, e questi testi li leggevano anche i cattolici. So di fare delle generalizzazioni molto rozze perché chi fossero molti campioni del pensiero laico l'ho appreso da maestri cattolici come Pareyson e Guzzo, e non solo da Abbagnano (che era laico, ma certamente non marxista, e neppure di sinistra), e testi fondamentali del pensiero laico sono stati pubblicati anche in collane dirette da studiosi di ispirazione cattolica (si pensi alle edizioni Armando). Ma voglio dire che questa cultura laica (che si espandeva ormai anche in opposizione all'idealismo crociano, e dunque non si trattava di una lotta tra cristiani e marxisti, molti dei quali ancora crocianissimi) ha certamente stabilito una egemonia e ha sedotto insegnanti e studenti. E quando egemonie del genere si stabiliscono, non si distruggono a suon di decreti. Quello che si può rimproverare alla Democrazia Cristiana è di avere avuto scarsa fiducia nella circolazione delle idee, di avere pensato che contava di più controllare il telegiornale che non le rivistine d'avanguardia - così che, dopo più di venticinque anni di egemonia politica e di controllo della televisione, si è ritrovata tra le mani la generazione del '68. Ma si potrebbe dire che ha adottato una tecnica della pazienza: "siediti sulla riva del fiume e aspetta che passi il cadavere del tuo nemico, nel giro di due decenni la metà di questi rivoluzionari finirà o a Comunione e Liberazione o da Berlusconi". E così è stato. Si potrà dire che la cultura di sinistra è diventata egemonica grazie a una politica di martellanti ricatti ideologici (se non la pensi come noi sei un sorpassato, che vergogna occuparsi d'arte senza pensare al rapporto tra base economica e sovrastruttura!). E' vero. Il Partito Comunista, a differenza della Democrazia Cristiana, ha investito moltissimo nella battaglia culturale. Ma che al ricatto martellante si potesse benissimo resistere lo dicono le belle e liberali polemiche di Norberto Bobbio, e quando si leggeva Rinascita o Il Contemporaneo, con le loro diatribe sul realismo socialista, e le loro condanne persino del Metello di Pratolini e di Senso di Visconti, se ne rimaneva certo appassionati ma nessuno, tranne i comunisti iscritti (e forse neppure loro), prendeva sul serio quei diktat – e tutte le persone colte ritenevano che Zdanov fosse una testa di legno. Oltre tutto, se la mia ricostruzione è giusta, la famosa egemonia delle sinistre si è lentamente instaurata proprio nel periodo storico in cui, dall'Ungheria alla Cecoslovacchia, lo stalinismo, il realismo socialista, il Diamat entravano in crisi, anche nella coscienza dei militanti socialcomunisti. E quindi non si trattava di egemonia marxista, o non soltanto, ma in gran parte di egemonia di un pensiero critico. E per quale complotto chi è stato influenzato da questo pensiero critico (laico o cattolico che fosse) si è inserito a poco a poco nelle case editrici, alla Rai, nei giornali? Basta a giustificare questa egemonia la politica del consociativismo, con cui la Democrazia Cristiana ha cercato, e con successo, di compromettere l'opposizione con responsabilità di sottogoverno? O l'opportunismo di alcuni intellettuali che si sono buttati a sinistra quando pareva che nel sottogoverno consociativo si creassero occasioni favorevoli, così come ora si buttano a destra per le stesse ragioni? Non credo. E' che nella seconda metà del secolo quella cultura critica è stata più sensibile allo spirito del tempo e ha giocato alcune carte vincenti e ha costituito (dal basso e non dal vertice, e per movimento spontaneo, non per alleanze tra partiti che andavano dai comunisti ai repubblicani, dai liberali ai socialisti e ai cattolici progressisti) dei quadri preparati. Capisco che Storace sia irritato da autori di libri di storia che non la pensano come lui. Mi chiedo solo perché non ritenga di avere in mano strumenti di controllo culturale (e quadri autorevoli) che gli permettano di stabilire l'egemonia del "suo" pensiero. E dire che ormai, se non ve ne siete ancora accorti, l'egemonia culturale sta dalla sua parte. I classici della destra godono del sostegno delle pagine culturali, la storia contemporanea viene rivista a ogni passo, a guardare i cataloghi delle case editrici si vedono per ogni dove non dico i massimi autori del pensiero conservatore, ma persino caterve di libri ispirati a quell'occultismo reazionario a cui i padri spirituali di Storace si sono ispirati. Se l'egemonia culturale si valutasse a peso, avrei l'impressione che la cultura dominante sia oggi mistica, 64
tradizionalista, neospiritualista, new age, revisionista. Mi pare che la televisione di stato dedichi molto più spazio al Papa che a Giordano Bruno, a Fatima che a Marzabotto, a Padre Pio che a Rosa Luxemburg. Nei mass-media circolano ormai più templari che partigiani. Come accade che, con case editrici, quotidiani, pagine culturali, settimanali di destra, Storace si trovi ancora tra i piedi tanti nemici? Possibile che, liquidata dalla Storia l'ortodossia marxista, gli ultimi marxisti si siano arroccati nelle scuole medie? Li ha assunti tutti Berlinguer, nei mesi in cui ha avuto tra le mani quella pubblica istruzione che è stata saldamente tenuta dai democristiani per cinquant'anni? Perché Berlusconi (che ha fatto sue le preoccupazioni di Storace), col potere mediatico che ha, soggiace al fascino dell'egemonia della sinistra e pubblica ogni anno, in pregiate edizioni a suo nome, il Manifesto del Partito Comunista e testi proto-comunisti come la Città del Sole di Campanella e La nuova Altantide di Bacone? Per fare bella figura nei confronti di una cultura laica che, nonostante tutto, stima? Perché non pubblica i suoi "pàmpini bugiardi" ? Li leggeremmo tutti, cercando di trarne stimoli critici. Perché è attraverso i libri che si stabilisce una egemonia culturale.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO? (Nota: L'espresso, novembre 2003). Non vorrei rubare il mestiere della satira preventiva a Michele Serra, ma mi sono venute in mente alcune situazioni che lui potrebbe ottimamente sviluppare. Per esempio, Giuseppe Brambilla fa una scenata al figlio dodicenne perché è tornato a casa dopo mezzanotte, e il ragazzo, evidentemente disturbato, si impicca in solaio. Il padre viene condannato per istigazione al suicidio. Adeodato Trapizzoni, cannoniere della Fulgor, concludendo una partita ai rigori, spara il pallone in porta e coglie di sorpresa il portiere della Senectus, distruggendo la sua fama di difensore inattaccabile. Il portiere ne muore di crepacuore, e la Federazione Calcio promulga una legge per cui d'ora in poi chi tira in porta deve farlo solo con grazia, avvertendo in anticipo il portiere circa l'angolo di tiro che ha in mente (un poco come il duellante di Petrolini che protestava con l'avversario perché si muoveva sempre e non si lasciava colpire). Il dottor Ippocrati dice al signor Dolenzi che ha un cancro alla prostata e Dolenzi, impazzito, va a casa, uccide la moglie e i sette figli, poi si butta dalla finestra. Una legge dello stato stabilisce che da quel momento i medici dovranno astenersi dal comunicare diagnosi che offendano i sentimenti dei pazienti. Sarebbero tutte vicende paradossali in cui non si terrebbe conto che ci sono molte situazioni conflittuali per definizione, rette da alcune regole di gioco, in base alle quali non si può trattare la controparte con i guanti, ed è legittimo polemizzare, criticare, alzare la voce (o il piede), dire come stanno le cose anche se può fare male Tipico il dibattito politico, che è "polemico" nel senso etimologico del termine, tanto che lo si definisce con metafore bellicosportive (scendere in campo, lotta politica, attacco dell'opposizione al governo o viceversa), e guai se non fosse così. Ovvero, i casi in cui non avviene così sono casi di dittatura o di democrazia imperfetta, in cui la critica è proibita e i giornali che non trattano il governo con i guanti vengono chiusi. Una democrazia imperfetta non prevede che le sedi dei giornali di opposizione vengano incendiate e i direttori spediti al confino. Basta diffondere la sensazione che ogni critica meno che garbata possa armare la mano di un fanatico. Una dittatura normale chiude i giornali di opposizione dopo che il fanatico ha attentato al capo del governo, identificando opposizione e incitazione a delinquere. Una dittatura perfetta organizza direttamente l'attentato, per poter poi annientare l'opposizione. La tentazione di fare questo gioco può talora nascere dall'elaborazione del lutto. I parenti di un tizio morto di dolore perché è stato licenziato saranno tentati di dire che il responsabile di quella morte è il capoufficio. E così, quando qualcuno ha ucciso Biagi, qualcun altro ha ricordato che Cofferati aveva pronunciato parole severe nei confronti del suo progetto. Vedi, si è detto, Cofferati ha contribuito a diffondere un'atmosfera di odio nei confronti di Biagi. Non era vero, Cofferati aveva parlato quando Biagi era vivo e aveva tutto il diritto di esprimere il suo dissenso. Ma capisco ancora le reazioni emotive dopo il fatto. Quello che preoccupa è che invece qualcuno possa dirmi "non criticarmi, perché poi se qualcuno mi farà del male sarà stata colpa tua!". Questo è ricatto bello e buono (e oltretutto, secondo me, mena gramo). Guai se non si potesse attaccare un avversario politico solo perché si teme che poi un folle, elaborando paranoicamente i motivi del dissenso, abbia reazioni violente. Per queste e altre ragioni appare singolarmente preoccupante l'atmosfera che si è creata nel dibattito che oppone l'Unità a Giuliano Ferrara. L'Unità attacca Ferrara per una cena con Berlusconi (tra l'altro non era neppure una notizia travolgente) e Ferrara afferma che così facendo si arma la mano di possibili terroristi contro di lui. Il messaggio viene raccolto, e c'è stato chi ha affermato che l'Unità dovrebbe essere chiusa. Credo che chi sceglie queste forme di polemica si assuma una grave responsabilità politica, di cui spero non si debba parlare nei libri di 65
storia di domani, nel senso che ancora confido che simili atteggiamenti non producano risultati nefasti. Mi limito solo a ricordare che l'Unità tra gli anni quaranta e sessanta non era certo un bollettino parrocchiale; era rappresentata da Guareschi come l'organo di sanguinari trinariciuti, sparava in modo violentissimo contro il potere democristiano, ma nessuno degli uomini di governo di allora, tanto deprecati, ha mai auspicato che per questo dovesse essere chiusa. Che si stesse meglio quando si stava peggio? LA RIVOLTA CONTRO LA LEGGE ORA TIRIAMO LE MONETINE AI GIUDICI (Nota: L'espresso, febbraio 2002). Siamo al decennale di Mani Pulite e cerco di ricordarmi come fosse l'atmosfera generale di allora. Mi tornano alla mente ricordi di grande esaltazione popolare. La gente, e senza troppe distinzioni tra destra e sinistra, la gente in genere (salvo proprio quelli che stavano andando sotto processo) era soddisfatta che si scoprissero finalmente gli altarini, che si dicesse a chiare lettere che qualcuno aveva rubato, che si trascinassero sul banco degli imputati coloro che per definizione erano considerati intoccabili. Non accadeva proprio come il 25 luglio del 1943 (dove migliaia e migliaia di italiani, che avevano inneggiato al Duce sino al giorno prima, salivano sui suoi monumenti per decapitarli, o li facevano crollare tirando lunghi canapi) ma - e questo ve lo ricorderete tutti – la folla attendeva i Potenti che uscivano dai loro quartieri generali di un tempo e li tempestavano di monetine, godendo con popolare saggezza del fatto che chi troppo in alto sale, cade sovente precipitevolissimevolmente. Né tutto questo avrebbe dovuto stupirci, perché assistevamo a un misto di sana indignazione popolare e di gusto canagliesco per l'umiliazione del potente che ha perduto. Tutto rientrava, per così dire, nella norma storica. Oggi, a dieci anni di distanza, assistiamo a un curioso fenomeno. Ciò che è curioso non è che alcuni, che dalle inchieste dei magistrati si sentono minacciati, siano riusciti ad andare al governo per potere tenerli sotto controllo e abbiano usato in modo martellante l'arma della delegittimazione. Che questo potesse o dovesse avvenire era nell'ordine delle cose: in fin dei conti il sogno di ogni accusato è non solo di poter provare la propria innocenza, ma anche di dimostrare che chi lo accusa lo fa per partito preso. Quello che colpisce è piuttosto l'opinione diffusa, che spesso si manifesta anche solo sotto forma di reticenza, che questa magistratura (che dieci anni fa veniva osannata a tal punto che si era creato un improvviso aumento di iscrizioni di matricole a giurisprudenza, e di Di Pietro mancava solo che si distribuissero santini sul sagrato) in fondo un poco ha esagerato davvero e sarebbe giusto che la smettesse di rompere le scatole. Che se poi la gente non lo dice apertamente, in fin dei conti vota per chi lo dice. Questo sentimento è difficilmente spiegabile se si pensa che chi lo prova in fondo sarebbe ancora pronto a condannare il direttore di ospedale che è stato preso con le mani nella bustarella. Che cosa è successo, allora? Che cosa è successo già lo denunciavo in quegli anni, ma sono stato energicamente bacchettato da tanti virtuosi colleghi, che si chiedevano come mai fossi così indulgente coi "mariuoli". E' che i colpevoli dell'epoca (e persino i presunti colpevoli che poi sono risultati innocenti) non hanno solo subito processi, come era giusto, non sono soltanto stati penalizzati da carcerazioni preventive spesso troppo lunghe, ma sono stati sottoposti a pubblica gogna televisiva, di fronte alla nazione tutta, smanazzati da pubblici ministeri sarcastici, immobilizzati sulla loro sedia da testimone imputando, o imputato ormai acclarato, talora con la bavetta agli angoli della bocca, talaltra coi movimenti nervosi delle mani di chi volentieri si sarebbe coperto la faccia. La pratica era già iniziata con processi trasmessi dalle varie preture del nostro paese, dove dei poveracci che avevano firmato una cambiale a vuoto venivano svergognati di fronte a milioni e milioni di spettatori - e non bastava dire che gli era stato chiesto il permesso, e che avevano accettato di farsi riprendere, perché bisogna ifendere anche gli allocchi dalla loro vanità, così come bisogna difendere i suicidi (che pure, per definizione, vogliono morire) dal loro desiderio. E dalle preture lo spettacolo si era spostato ai tribunali, al cialtroncello o allo sfigato di provincia si era sostituito l'uomo di potere e, prima ancora di sapere se sarebbe stato poi riconosciuto colpevole, la massa televisionaria già si beava della sua umiliazione e disgrazia, come se assistesse alla Corrida di Corrado.Era stato male, male per chi poi colpevole non era risultato, e male anche per chi era colpevole, perché pagava più di quanto i codici avessero prescritto. Io credo che sia stato, col passare degli anni, il terrore (e la vergogna) di questa umiliazione ad allontanare la gente comune dai sentieri battuti dalla giustizia. La quale aveva forse fatto bene, si pensava, ma aveva messo in opera un meccanismo nel quale, chissà, un giorno potremmo essere presi anche noi, io, tu, colui... Questo potere di comminare la gogna ha reso passo per passo i giudici sospetti. Non saremo noi a delegittimarli, pensa forse ora la gente, ma se qualcuno lo fa, lasciamolo fare. Come a dire: non diamo macchine troppo veloci ai carabinieri, domani potrebbero correre dietro a noi. 66
ALCUNI PROGETTI DI RIFORMA RIVOLUZIONARIA (Nota: L'espresso, marzo 2002). Benché, per non spaventare la mamma di Berlusconi, la nuova maggioranza si dichiari riformista, di fatto essa è rivoluzionaria. E' vero che la rivoluzione viene definita dallo Zingarelli come un "profondo rivolgimento dell'ordine politico sociale costituito, tendente a mutare radicalmente governi, istituzioni, rapporti economico-sociali", che però è "violento". Ma occorre intendersi sui termini. Per essere violento non occorre scannare qualcuno mangiandogli il cuore; lo è anche chi, poniamo, arriva primo al mio ombrellone in spiaggia, vi si siede sotto e poi non vuole più andarsene via dicendo che se gli rompo ancora le scatole sono uno sporco comunista. Se allora si deve fare una rivoluzione che la si faccia per bene. Basta capire che cosa il paese attende, e il paese certamente attende di pagare meno tasse, non necessariamente per decreto ma incoraggiando l'iniziativa personale e la flessibilità nella dichiarazione dei redditi, che non si sia perseguiti per falso in bilancio, che si possa andare ai centottanta all'ora in autostrada, che i vigili non rompano le scatole quando si parcheggia in seconda fila, e via dicendo. Propongo pertanto una serie di provvedimenti legislativi, nell'interesse di tutti i cittadini e non di una sola parte. LEGITTIMA SUSPICIONE. Perché debbo farmi giudicare da qualcuno che mi è antipatico? La legge dovrebbe prevedere che un cittadino musulmano possa ricusare un giudice cristiano, un ateo un giudice credente e viceversa, un gay un giudice eterosessuale e viceversa. Ovvio che si possa ricusare un giudice che legge un quotidiano diverso dal tuo o un giudice strabico (non si sa mai chi guarda, e questo imbarazza l'imputato). L'imputato deve sentirsi sereno e non sottoposto a giudizio, come se fosse davanti a Minosse. Anzi, si dovrebbe garantire a ogni cittadino il proprio giudice di fiducia, così come si ha diritto al medico di fiducia o al proprio avvocato. Il provvedimento inoltre ridonderebbe a vantaggio della categoria dei magistrati, che potrebbero essere in maggior numero, almeno quanto i medici, e ottenere compensi differenziati a seconda del censo dell'assistito. I poveri potrebbero avere un giudice Asl. INTRODUZIONE DI DROGA NEI MINISTERI. E' ovvio che se io entro in una stazione dei carabinieri con un pacco di cocaina verosimilmente vado a consegnarla al maresciallo di servizio a scopi d'indagine. Ora, essendo un ministero, una pubblica istituzione (persino i carabinieri dipendono da un ministero) dovrebbe valere anche in quel caso una legittima non-suspicione. Sino al momento in cui non si sorprendano il portatore, il ministro e tutti i sottosegretari nudi nella sala riunioni, completamente inebetiti, mentre si accoppiano con procaci cortigiane proferendo orribili bestemmie, si deve presupporre che l'introduzione sia stata attuata (o posta in essere) per ragioni di pubblica utilità. Ogni partita di droga consegnata in un ufficio ministeriale, per non uscirne più, sottrae alla libera circolazione una sostanza nociva. INSULTI A DEFUNTI. Mi pare che una recente sentenza abbia stabilito che non è reato dare dello stronzo o rivolgere epiteti analoghi a un signore che ci ha sorpassato in modo scorretto o che si è infilato nel parcheggio prima di noi, perché ormai lo fanno anche bambini e sacerdoti - e molti sacerdoti americani quando si irritano per le inspiegabili resistenze di alcuni bambini. Pertanto non si vede perché non si possa dire di un defunto, comunque sia defunto, che è un rompicoglioni. L'eccesso di moralismo che ha percorso il paese in occasione di una recente e cosiddetta gaffe del ministro Scajola mentre parlava di una vittima del terrorismo (il professor Biagi), è stato certamente eccessivo. Siccome quello che conta sono le norme rituali, e la loro osservanza, si consiglia di elaborare un regolamento liturgico per cui, nel rivolgersi al defunto, l'officiante inizi con "caro il nostro rompicoglioni", e la cosa rientrerebbe nella normalità. IL SACRIFICIO RITUALE DEL PRESIDENTE. In molte società primitive era uso condurre il monarca, quando raggiungeva una certa età, nel cuore di un bosco e sacrificarlo agli dèi. Uno lo sapeva, e abbozzava. Nei piani di riforma costituzionale si dovrebbe prevedere che il presidente del consiglio in carica, nell'avvicinarsi della scadenza del mandato del presidente della repubblica, e possibilmente con notevole anticipo, annunci non solo il suo successore ma anche la profonda modificazione delle funzioni presidenziali. Si comprende l'utilità della legge, che terrebbe ogni presidente della repubblica per così dire "in campana", attento a farsi benvolere dal governo, in modo che la sua passeggiata nel bosco non venga anticipata - e garantendo una feconda identità d'intenti tra Colle e Palazzo Chigi. CONTRO CUSTODES (Nota: L'espresso, agosto 2002). Una volta, quando un vigile fermava qualcuno per contestargli una multa, quello che chiameremo l'Imputato poteva elaborare nei confronti del Custode della Legge tre strategie. Uno: confessava il suo torto e pagava. Due: 67
tentava di giustificarsi, cercando di provare al Custode che non aveva torto. Tre: se era un imbecille, alzava la voce e diceva "Lei non sa chi sono io! " (e il Custode aveva solo due strategie: rispondere che non gli importava un fico secco chi fosse e dare la multa, oppure spaventarsi e dire "scusi prego passi dottore, commendatore, onorevole" e via dicendo). Oggi pare si sia diffusa da parte dell'Imputato una quarta opzione, dire "Lei non sa chi è lei! ", chiarendo al Custode terrorizzato che lui/lei è uno sporco comunista, al soldo dell'oro di Mosca - e non di quella di adesso, che sono tutti bravi ragazzi a partire da Putin (ex Kgb, di Berlusconi amicissimo), ma di quella di prima, che agisce ancora come centro di potere segreto in una caverna dell'Afghanistan, insieme a Bin Laden e forse persino all'internazionale ebraica perché, si sa, sono tutti della stessa razza, anche se è meglio non dirlo ad alta voce. Insomma, oggi la prima risorsa dell'Imputato non è provare la propria innocenza e chiedere rispettosamente su quali prove si basa l'accusa, ma mettere immediatamente sotto accusa il Custode, si tratti di un vigile urbano o del presidente della Corte di Cassazione. Alla luce dei suggerimenti che ho appena dato per alcune leggi rivoluzionarie, prima tra tutte quella che consenta sempre a ogni imputato di avere un giudice di fiducia, penso che tutte le modificazioni legislative che suggerivo possano essere condensate in un unico principio: il cittadino deve avere il diritto, come prima mossa, di delegittimare non solo chi lo accusa ma anche chi investiga su di esso. I pubblici ministeri bolognesi hanno inviato avvisi di garanzia ad alcuni funzionari statali, compreso un prefetto, perché potrebbero essere imputati di collaborazione in omicidio colposo in quanto non hanno assegnato la dovuta scorta a Marco Biagi. Non è detto che gli avvisati siano formalmente accusati di qualcosa, semplicemente s'investiga, e può darsi che i magistrati abbiano ecceduto in zelo: nessuno è perfetto. Ma la prima mossa di alcuni esponenti o fiancheggiatori della maggioranza (Cossiga, Giovanardi, Pecorella ecc.) è stata di attaccare i magistrati - e con l'aria che tira è chiaro che si tenta di delegittimarli come persone foraggiate dall'opposizione che agiscono contro il bene dello stato. Ma questa è una sceneggiatura già vista. Il bello viene ora. E' noto e appurato che un signore introduceva cocaina nei locali di un ministero, tanto che ho appena suggerito che si depenalizzi questo presunto reato, che deve anzi essere visto come un meritevole contributo alla sottrazione di droghe alla circolazione esterna. Ma i carabinieri hanno consegnato alla Procura una relazione in cui secondo loro, la cocaina è stata effettivamente consegnata all'onorevole Miccichè. Anche i carabinieri possono sbagliarsi, e la mossa prevedibile, da parte di un vice-ministro che si sente ingiustamente accusato, dovrebbe essere quella di gridare "fuori le prove!" o di esibire un alibi di ferro (per esempio dimostrando che lui non ha mai messo piede al ministero). Invece quale è stata la reazione dell'onorevole Miccichè? Ha detto che "all'interno di qualche organo di polizia c'è qualche persona deviata che sta puntando a ottenere risultati diversi da quelli che il contratto d'onore con l'Arma gli aveva fatto prendere". Splendido esempio di delegittimazione dei Custodi i quali, primo non sono uomini d'onore (e si sa che cosa questa espressione significhi se è detta da un siciliano), secondo sono evidentemente foraggiati dall'oro di Mosca. Anche i carabinieri? Anche. Ma non erano solo i magistrati? Dipende, se ti accusano i magistrati delegittimi loro, ma se ti accusano i carabinieri delegittimi i carabinieri. Ma i carabinieri non dovevano essere difesi a Genova? Certo, mica a Genova erano contro di te. Lo sono a Roma, e dunque li delegittimi a Roma perché non sono più carabinieri di fiducia. Onde si vede come i miei suggerimenti non siano campati in aria. Ogni cittadino abbia diritto al fumus persecutionis, si sostituisca lo habeas corpus con il custos est porcus. Non si affermi più soltanto in dubio pro reo bensì semper contra Custodes. Naturalmente si dovranno anche chiedere al Vaticano alcuni adattamenti, per salvaguardare la dignità e l'insospettabilità degli Angeli Custodi, chiamandoli d'ora in poi Angeli Avvocaticchi. DALLA CELERE A RICKY MEMPHIS (Nota: L'espresso, giugno 2005). Era il 1952, credo. Studente a Torino, attraversavo piazza San Carlo per andare all'università, e mi ero imbattuto in un comizio. Non una rivoluzione, erano operai con cartelli e bandiere, ma evidentemente la manifestazione non era stata autorizzata. Di primo acchito non me n'ero accorto, perché io stavo passando lungo i portici, ma di colpo ho visto la folla sbandarsi e le camionette verdi della Celere d'allora (quella di Scelba) iniziare in piazza il loro carosello. Avevo vent'anni, facevo parte della Gioventù Cattolica, ero già allora sensibile ai problemi sociali, ma nella piazza c'erano troppe bandiere rosse perché mi sentissi coinvolto nella faccenda, e ho cercato di accelerare il mio percorso lungo i portici per poter svoltare appena possibile. Ma le camionette si erano inserite lungo i portici, e diventava un problema di salvezza personale. Mi ero messo a correre, ma mi ero accorto che avevo proprio alle spalle una camionetta, da cui si sporgevano celerini manganellando a più non posso. Mi ero acquattato lungo la parte esterna di uno dei pilastri dei portici, una camionetta era passata rasente al pilastro e un celerino mi aveva mollato un tremendo colpo di sfollagente, beccando 68
per fortuna lo spigolo del pilastro, a cinque centimetri dalla mia testa. Se mi fossi sporto un poco di più, sarei finito all'ospedale. Poi sono uscito da quella buriana, ma ricorderò sempre quel celerino. Piccolo, malvestito (all'epoca non erano eleganti come oggi, avevano uniformi di un brutto panno verdastro), con una faccia da bracciante meridionale, abbronzata e testimone di tante carestie, l'aria incattivita, non gli importava a chi menava, lui menava e basta. Lo pagavano per questo e tanto gli bastava. Anni dopo avrei riconosciuto il mio celerino di allora nella descrizione che ne dava Pasolini nella sua memorabile invettiva contro gli studenti (poliziotti proletari contro pariolini di sinistra). Tale era la polizia di allora. A pensarci bene, come i soldati americani d'oggi che combattono in Iraq. Povera gente che, per sfuggire alla miseria, si era arruolata e faceva quello che doveva fare perché non sapeva fare nient'altro. Allora non avevo riflettuto troppo sul dramma sociale che stava alle origini dell'arruolamento nella polizia di Scelba, e l'immagine di quell'uomo inferocito ha forse influito sulle mie scelte politiche successive. Ora io ogni sera posso avere un telefilm sugli agenti dell'ordine (e se proprio non è italiano sarà un gendarme francese come il comandante Laurent, che fa lo stesso) e seguo con immenso piacere tutti gli sceneggiati di carabinieri, squadre di polizia, marescialli, commissari, ispettori, tutto quel che passa il convento - e devo dire che nel complesso le sceneggiature sono buone, le storie ripetitive come si deve per ogni serie gialla che si rispetti, gli interpreti simpatici, ed è giusto far passare così il tempo dalle nove alle undici(e poi a letto si legge Omero). Insomma, adorerei essere arrestato da Alessia Marcuzzi. Poliziotti, carabinieri e finanzieri sono ora simpatici, amabili, umani, ossessionati da patetici problemi famigliari, talora persino gay, insomma sono per l'immaginario italiano personaggi positivi(a tal punto che quando nella realtà menano troppo e senza ragione come a Genova, il paese protesta, senza ricordare che al tempo dei miei celerini scelbiani questa era la norma e non l'eccezione). Che cosa significano questi sceneggiati sulle forze dell'ordine? Nascono da un perverso progetto dei servizi deviati che, tramite il governo di destra, vogliono pubblicizzare le virtù dei nemici del popolo? Niente affatto. Nascono anzitutto perché col tempo nelle forze dell'ordine non si arruolano più soltanto i disperati del profondo Sud, perché l'addestramento è diventato più rigoroso, le divise più eleganti, e in definitiva poliziotti e carabinieri sono più istruiti, leggono i giornali, hanno opinioni politiche differenziate. Ed è cambiata anzitutto la funzione sociale delle forze di polizia: agli allievi non viene più insegnato che debbono manganellare i comunisti ma come proteggere i cittadini (e vorrei ben vedere, dal momento che tanti operai votano per il centro destra, rimane poco da manganellare). Ma soprattutto il clima è cambiato perché, nel corso degli anni di piombo, i partiti di sinistra si sono esplicitamente schierati per lo stato, e quindi non hanno più criminalizzato le forze dell'ordine. Anzi, per mirabile ironia della Storia, è ora il centro destra che criminalizza i giudici e quegli stessi procuratori che nei filmati dei vari marescialli Rocca, ancorché un poco supponenti e burberi, sono alla fine amabili e umanissimi. Per cui la televisione, compresa Mediaset, lavora contro l'attacco berlusconiano alla magistratura. Così a poco a poco il pubblico della televisione avverte carabinieri e polizia come forze di sinistra - che curiosamente vanno in onda sotto l'egida di un governo di destra. Vi rendete conto di quanto le cose siano cambiate in meno di cinquant'anni? LA PASTA CUNEGONDA (Nota: la Repubblica, aprile 2002). In linea di principio non è anticostituzionale che lo schieramento che ha ottenuto la maggioranza in parlamento proceda all'occupazione di enti e agenzie varie, Rai compresa. E' quello che si chiama spoil system, usato anche in altri paesi. E' vero che i vincitori potrebbero dare prova difair play tenendo conto di una minoranza che rappresenta quasi la metà degli elettori, ma una cosa è la buona educazione e la sensibilità democratica e un'altra l'esercizio spregiudicato di una forza elettorale ottenuta legalmente. D'altra parte abbiamo avuto per anni una radiotelevisione interamente controllata dalla Democrazia Cristiana, dove si misuravano addirittura i centimetri di pelle femminile esposti, e il paese se l'è cavata benissimo, anzi, una televisione cosiddetta di regime ha prodotto la generazione più contestataria del secolo. L'unico inconveniente è che il capo del governo possiede le altre televisioni private, e lo spoils system conduce a un monopolio quasi totale dell'informazione. Questo è il fatto nuovo, nuovo rispetto agli usi degli altri paesi democratici e alle costituzioni scritte quando fenomeni del genere erano imprevedibili. Questo fatto nuovo, e certamente scandaloso, richiede una risposta nuova da parte dell'elettorato non consenziente. Si è visto che i girotondi e le manifestazioni di piazza per questo servono poco: ovvero, servono a rinsaldare il senso d'identità di una opposizione smarrita, ma dopo (se questa identità è reale) si deve andare oltre – anche perché, detto in termini tecnici, il governo 69
dei girotondi se ne sbatte, ed essi non convincono l'elettorato governativo a cambiare idea. Quale mezzo di protesta efficace rimane dunque a quella metà degli italiani che non si sentono rappresentati dal nuovo sistema televisivo? Essi sono tanti, alcuni milioni hanno già manifestato il loro dissenso, ma altri ancora sarebbero pronti a manifestarlo, se vedessero un modo veramente efficace. Rifiutarsi di guardare la televisione e di ascoltare la radio? Sacrificio troppo forte, anche perché (1) è legittimo che voglia guardarmi alla sera un bel film, e di solito non mi chiedo quali siano le idee del padrone di una sala cinematografica; (2) è utile conoscere le opinioni e il modo di dare le notizie del partito al governo, e se pure ci fosse una trasmissione sulla Resistenza gestita solo da Feltri, Er Pecora e Gasparri, ho diritto di sapere cosa pensano e dicono queste persone; (3)infine, se anche la metà degli italiani all'opposizione smettesse di guardare la televisione, ancora una volta questo non farebbe cambiare atteggiamento al governo e opinione al suo elettorato. Di quale forza effettiva può disporre l'Italia che non accetta il monopolio televisivo? Di una potente forza economica. Basterebbe che tutti coloro che non accettano il monopolio decidessero di penalizzare Mediaset rifiutandosi di comperare tutte le merci pubblicizzate su quelle reti. E' difficile? No, basta tenere un foglietto vicino al telecomando e annotarsi le merci pubblicizzate. Si raccomandano i filetti di pesce Aldebaran? Ebbene, al supermercato si compreranno solo i filetti di pesce Andromeda. Si pubblicizza la medicina Bub all'acido acetilsalicilico? Dal farmacista si compera un preparato generico che contiene egualmente acido acetilsalicilico e che costa meno. Le merci a disposizione sono tante e non costerebbe nessun sacrificio, solo un poco di attenzione, per acquistare il detersivo Meraviglioso e la pasta Radegonda (non pubblicizzati su Mediaset) invece del detersivo Stupefacente e della pasta Cunegonda. Credo che se la decisione fosse mantenuta anche solo da alcuni milioni di italiani, nel giro di pochi mesi le ditte produttrici si accorgerebbero di un calo nelle vendite, e si comporterebbero di conseguenza. Non si può avere niente per niente, un poco di sforzo è necessario, se non siete d'accordo col monopolio dell'informazione dimostratelo attivamente. Allestite banchetti per le strade per raccogliere le firme di chi s'impegna, non a scendere in piazza una volta sola ma a non mangiare più pasta Cunegonda. E chissà che sforzo! Si può fare benissimo, basta avere voglia di dimostrare in modo assolutamente legale il proprio dissenso, e penalizzare chi altrimenti non ci darebbe ascolto. A un governo-azienda non si risponde con le bandiere e con le idee, ma puntando sul suo punto debole, i soldi. Che se poi il governo-azienda si mostrasse sensibile a questa protesta, anche i suoi elettori si accorgerebbero che è appunto un governo-azienda, che sopravvive solo se il suo capo continua a far soldi. A nuova situazione economica nuove forme di risposta politica. Questa sì che sarebbe opposizione.
POSTILLA SCATOLOGICA (Nota: L'espresso, giugno 2002). Dopo il mio articolo sulla Pasta Cunegonda è nato anche un movimento detto Pasta Cunegonda (http://web.cheapnet.it/cunegonda), di cui alcuni giornali hanno dato notizia. Ora ricevo un plico e sulla busta, indirizzatami presso la Repubblica, vedo che arriva da Caramagna, ridente località del saluzzese. Apro, e trovo anzitutto la fotocopia di un giornale locale dove si dà notizia della mia iniziativa, e una nota a mano che recita a margine: "Chi la fa... l'aspetti" (si noti la dotta arguzia dei puntini di sospensione). Segue firmascarabocchio illeggibile: insomma, messaggio anonimo. Chi la fa l'aspetti? Mi attendo preoccupato che al fondo della busta ci sia una dose consistente di antrace. Nossignore, c'è una copia di un mio vecchio libro, La definizione dell'arte, già Mursia 1968 e in questa copia Garzanti 1978. Sulla copertina sta scritto "merda" in pennarello rosso, con doppia sottolineatura. Apro e vedo che dalla prima pagina al retro della copertina, per complessive 308 pagine, riappare la scritta "merda", sempre in rosso e sottolineata - ma solo sulle pagine dispari, e pertanto le merde non sono 308 bensì 154, anzi 156, perché ve ne sono due aggiunte sulla copertina posteriore, recto e verso. Dunque questo signore (che per pura galanteria assumo non sia una signora) ha fatto il seguente ragionamento: "Tu hai fatto una cosa che non approvo? E dunque io ti lancerò uno di quei tratti che stendono l'avversario" (cito indirettamente dalle parole del visconte di Valvert quando sfida Cyrano alludendo al suo naso, e credendo di essere il primo ad avere quella trovata di sublime sarcasmo). Ma dal naso all'organo della deiezione fecale c'è una certa distanza, ed evidentemente il mio corrispondente voleva essere più arguto del visconte di Valvert (il quale peraltro si esponeva in prima persona, era pronto al duello, e infatti viene toccato alla fine della ballata recitata da Cyrano). Inoltre, per esibire coraggio dicendo "merda", Cambronne insegni, basta dirlo una volta sola, mostrando la faccia Centocinquantasei volte, dal chiuso di un gabinetto a Caramagna; non è coraggio, è incomprensibile propensione al lavoro servile. Cerco di comprendere la psicologia e l'estrazione sociale del mio corrispondente. Per la psicologia non c'è bisogno 70
di una seduta psicanalitica, e lascio le illazioni ai lettori. Per l'estrazione sociale, mi chiedo se il corrispondente avesse già il libro in casa, se l'abbia comperato appositamente o se l'abbia rubato. Se il libro lo aveva già in casa, fosse pure dei figli, si tratta dunque di persona di un certo status, il che rende ancora più intrigante la faccenda. Se l'ha rubato, assumiamo che anche questa sia una forma di lotta politica, ma una volta quelli che rubavano i libri erano di estrema sinistra, e non direi che questo sia il caso. Rimane che l'abbia comprato, e allora ha speso un tot, oltre alle spese postali, per concedersi questa bella soddisfazione. Avrà calcolato che non contribuiva al mio benessere personale, vista la misera percentuale che compete all'autore per un tascabile, ma non ha considerato il pingue compenso che mi deriverà da questa Bustina. Si potrebbe pensare che il messaggio provenga da un collega, il quale voleva esprimere disapprovazione per il mio pensiero. Ma no, perché in tal caso avrebbe firmato, altrimenti la sua fatica di amanuense non avrebbe avuto valore a fini concorsuali. Che dire? Non è tanto il problema di un declino dei mezzi di dissenso, perché ne vediamo di peggio, ma la rabbia, impotente e infantile che il messaggio esprime. E le conclusioni che viene la voglia di trarre circa il livello di certo elettorato. Mi piace pensare che il mio corrispondente avrebbe voluto inviare un messaggio analogo a Trapattoni o all'arbitro che ci ha fatto perdere contro la Corea del Sud, e immagino il suo digrignar di denti per non avere trovato, che so, una raccolta di poesie, un trattato di metafisica, un volume di fisica nucleare scritto da questi suoi altri nemici. Sul piano letterario ascriverei questo sfogo epistolare a un nuovo genere, che non è la trash-art e neppure la merdart, perché scatolette di feci riempiva anche il compianto Piero Manzoni, ma le indirizzava alla posterità, e sigillate. Il signore di cui parliamo voleva invece che, sia pure virtualmente, fossi proprio io ad avvertire il profumo del suo gesto. Si tratta dunque, suppongo, di un gesto dannunziano: "Io ho quel che ho donato". CRONACHE DEL BASSO IMPERO (Nota: L'espresso, ottobre 2002). Quando uscirà questa Bustina si sarà probabilmente assopita la discussione sulla dichiarazione fatta dal presidente del consiglio, in sede ufficiale e internazionale, circa suoi presunti problemi di famiglia, e debbo dire che la stampa, di ogni colore, si è comportata in proposito con esemplare discrezione, registrando e commentando l'evento il primo giorno, ma evitando di affondare il coltello nella piaga. E quindi non è per mancanza di buon gusto che vi ritorno ora, a distanza di tempo, ma perché l'episodio dovrà essere discusso negli anni a venire nei corsi di scienze della comunicazione, e i diritti della riflessione scientifica sono sovrani. Dunque, e spero che a distanza di quasi due settimane tutti se ne siano dimenticati, accogliendo il premier di un governo straniero, il nostro primo ministro ha fatto alcune affermazioni che riguardavano una presunta (nel senso di sussurrata, materia di pettegolezzo) relazione tra la propria signora e un altro signore, dicendo della propria signora "povera donna". Sin dal giorno seguente, leggendo i giornali, si evinceva che dell'episodio erano possibili due interpretazioni. La prima, che essendo il nostro premier esacerbato, avesse dato sfogo a un'invettiva privatissima in sede pubblica. La seconda era che quel Gran Comunicatore che è il nostro presidente del consiglio, avendo avvertito che circolava un pettegolezzo per lui imbarazzante, per tagliare la testa al toro, lo avesse reso materia di pubblica facezia, in tal modo togliendogli ogni sapore proibito. E' chiaro come nel primo caso il "povera donna" sarebbe risultato offensivo per la moglie, mentre nel secondo caso risultava offensivo per il presunto terzo incomodo (poveretta lei, si sottintendeva, se fosse vero - ma ovviamente non è vero, visto che ci scherzo sopra). Se la prima interpretazione, che tenderei a escludere, fosse esatta, il caso sarebbe più di competenza dello psichiatra che del politologo. Prendiamo per buona dunque la seconda. Ma è proprio questa che deve diventare materia di riflessione non solo per seminari di scienze della comunicazione ma anche per seminari di storia. Infatti il Grande Comunicatore pare avere ignorato l'ovvio principio che una smentita è una notizia data due volte. Ma fosse solo due. Io per esempio (forse perché negli ultimi mesi ho viaggiato moltissimo, e in paesi non ossessionati dai fatti di casa nostra) non avevo mai sentito parlare di quel pettegolezzo - che probabilmente circolava tra alcuni politici, alcuni intellettuali, e alcuni ospiti di crociere in barca sulla Costa Smeralda. Anche a essere generosi, diciamo mille, duemila persone. Dopo l'intervento pubblico del presidente del consiglio, e considerando l'esistenza dell'Unione Europea, l'insinuazione è stata comunicata a qualche centinaio di milioni di persone. Come colpo da Gran Comunicatore non mi sembra da manuale. E va bene, consiglieremo ai nostri studenti di non comportarsi così, perché la pubblicità di un dentifricio che iniziasse con «a scorno di coloro che sostengono che il dentifricio fa venire il cancro", farebbe sorgere nella mente degli acquirenti una serie di dubbi e provocherebbe il crollo delle vendite di questo utilissimo parafernale. 71
Spiegheremo che ogni tanto, come Omero, anche Berlusconi dormicchia. E' l'età. Ma è storiograficamente importante la seconda riflessione. Di solito un politico fa il possibile per tenere separati i propri problemi domestici dai problemi di stato. Clinton viene sorpreso con le mutande in mano, ma fa del suo meglio per sorvolare, e mobilita persino la moglie per dire in televisione che si tratta di cose di nessun conto. Mussolini sarà stato quello che è stato, ma i suoi problemi con donna Rachele se li risolveva tra le quattro mura domestiche, non andava a discuterli in Piazza Venezia, e se ha mandato a morire tanta gente in Russia è stato per inseguire un suo sogno di gloria, non per compiacere Claretta Petacci. Dov'è che si realizza, nella Storia, una fusione così completa tra potere politico e affari personali? Nell'impero romano, dove l'imperatore è padrone assoluto dello stato, non è più controllato dal senato, gli basta l'appoggio dei pretoriani, e allora prende a calci la madre, fa senatore il proprio cavallo, costringe i cortigiani che non apprezzano i suoi versi a tagliarsi le vene... Questo succede cioè quando si crea non un conflitto di interessi bensì una assoluta identità di interessi tra la propria vita (e interessi privati) e lo stato. Tale assoluta identità di interessi prefigura un regime, almeno nella fantasia di chi lo vagheggia, che non ha nulla a che vedere coi regimi di altri tempi, bensì coi rituali del Basso Impero. D'altra parte ricordate come (secondo Dumas), all'inizio dell'Età dell'Assolutismo, per prevenire il colpo di Milady sui gioielli della regina (sua amante), Lord Buckingham avesse fatto chiudere i porti e dichiarare guerra alla Francia? Ecco, quando c'è assoluta identità d'interessi, accadono storie così.
III - RITORNO AL GRANDE GIOCO TRA WATSON E LAWRENCE D'ARABIA QUESTA STORIA L'HO GIA' SENTITA (Nota: L'espresso, dicembre 2001). Ovvio che le autorità militari britanniche e americane non lascino trapelare molte notizie su quello che avviene in Afghanistan, ma basta leggere con attenzione. Per esempio, del caso di cui parlo, si era occupata La Stampa il 20 settembre scorso, assai prima che il teatro delle operazioni si spostasse intorno a Kandahar. Dunque, la persona di cui dico si arruola come ufficiale medico nella spedizione inglese in Afghanistan, in quel corpo sceltissimo che è il Fifth Northumberland Fusiliers, ma viene poi trasferito al Royal Berkshire e tra quelle file si trova a scontrarsi con i feroci afghani a Nord-Ovest di Kandahar, più o meno vicino a Mundabad. Lì si ha un incidente di intelligence. Gli inglesi vengono informati che gli afghani sono meno e peggio armati di quanto si supponesse. Si va all'attacco, e gli inglesi vengono massacrati, come minimo il quaranta per cento, al passo montano del Khushk-i-Nakhud (i passi montani, in quel paese, sono terribili e, come viene detto dai cronisti, gli afghani non sono abituati a fare prigionieri). Il nostro amico viene colpito alla spalla da una pallottola dei micidiali, anche se antiquati, fucili Jezail, che gli spacca l'osso e gli recide l'arteria succlavia, e viene salvato in extremis dal suo valoroso attendente. Ritorna convalescente a Londra e, quanto il ricordo di quella tragedia fosse ancora presente a tutti, lo dice un piccolo episodio. Quando incontra la persona con cui andrà a dividere un appartamento, quella gli dice "A quanto vedo siete stato in Afghanistan". Richiesta più tardi di spiegare come lo avesse capito, la persona gli dirà che aveva pensato: "Quest'uomo ha qualcosa del medico e qualcosa del militare. E reduce dai tropici, perché ha il viso molto scuro, ma quello non è il suo colorito naturale dato che ha i polsi chiari. Ha subìto privazioni e malattie, come dimostra il suo viso emaciato. Inoltre è stato ferito al braccio sinistro. Lo tiene in una posizione rigida e poco naturale. In quale paese dei tropici un medico dell'esercito britannico può essere stato costretto a sopportare dure fatiche e privazioni? In Afghanistan, naturalmente . La conversazione avviene in Baker Street e il medico è il dottor Watson, mentre il suo interlocutore è Sherlock Holmes. Watson è stato ferito nella battaglia di Maiwand, il 27 luglio 1880. A Londra, il giornale The Graphic ne dà notizia il 7 agosto (le notizie allora arrivavano in ritardo). Noi lo sappiamo dai primi capitoli di A Study in Scarlet. Da questa esperienza Watson rimane segnato. Nel racconto The Boscombe Valley Mistery afferma che l'esperienza afghana lo aveva abituato a essere un viaggiatore pronto e instancabile. Ma quando nel The Sign of Four, Holmes gli offre della cocaina (soluzione ai sette per cento) Watson afferma che dopo la campagna afghana il suo corpo non sopporta nuove esperienze, e poco dopo ricorda che amava stare seduto curandosi il braccio ferito, che soffriva a ogni cambio di temperatura. In The Musgrave Ritual Watson fa alcune riflessioni su come la campagna afghana 72
abbia lasciato su di lui tracce profonde. In effetti Watson vorrebbe sempre parlare di quella campagna, ma di solito la gente non lo sta a sentire. A fatica (in The Reigate Puzzle) convince Holmes a visitare un commilitone, il colonnello Hayter. In The Naval Treaty cerca invano di interessare alle sue avventure afghane un certo Phelps, personaggio querulo e nervoso; nel The Sign of Four si affanna a raccontare di quella guerra a Miss Morstan, e riesce a incuriosirla una volta sola. I reduci, specie se feriti, sono noiosi. Ma il ricordo dell'Afghanistan è sempre presente. In The Adventure of the Empty House, parlando di Moriarty, l'arcinemico di Holmes, si cade sulla scheda di un colonnello Moran, "il secondo uomo più pericoloso di Londra", che ha servito a Kabul, ed echi della guerra afghana tornano in The Crooked Man. Finalmente, sia in The Adventure of the Cardboard Box che in The Resident Patient, Holmes compie un capolavoro di quella che lui chiama erroneamente deduzione (ed è abduzione, come spiega Peirce). (Nota: Vedi Il segno dei tre, a cura di U. Eco e T.A. Sebeok. Milano: Bompiani 1983). Mentre siedono tranquilli nel loro appartamento, Holmes dice di colpo: "Avete ragione, Watson, mi sembra il modo più ridicolo di risolvere una disputa". Watson assente, ma poi si chiede comeHolmes abbia indovinato quello che egli stava pensando. E' che, seguendo un semplice movimento degli occhi di Watson su vari punti della stanza, Holmes era riuscito a ricostruire esattamente il suo corso di pensieri, sino a che, comprendendo che l'amico stava riflettendo su vari e terribili episodi bellici, e vedendo che si era toccato l'antica ferita, ne aveva inferito che egli stava riflettendo malinconicamente sul fatto che la guerra fosse il modo più assurdo per risolvere le questioni internazionali. Elementare, caro Watson. Come Blair non abbia informato Bush di questi particolari, rimane un mistero. DOCUMENTARSI, PRIMA (Nota: L'espresso, aprile 2003). Uno dei libri più affascinanti sul Giappone è Il crisantemo e laspada di Ruth Benedict. Il libro era apparso nel 1946, e dunque a guerra finita, ma rielaborava una ricerca che alla Benedict era stata commissionata nel 1944, ancora in pieno conflitto, e dal servizio informazioni militari del governo americano. La ragione è evidente: come dice l'autrice stessa nell'introduzione alla versione a stampa, si trattava di portare a termine una guerra, e poi (se tutto fosse andato bene) di gestire una lunga occupazione avendo di fronte una civiltà di cui gli americani sapevano pochissimo. Essi avvertivano solo di avere di fronte una nazione militarmente preparata e tecnologicamente ben equipaggiata, ma che non apparteneva alla tradizione culturale occidentale. Chi erano i giapponesi e come bisognava comportarsi con loro, facendo attenzione a comprendere "come si sarebbero comportati i giapponesi e non come ci saremmo comportati noi al loro posto" ? Senza poter andare in Giappone, leggendo opere antropologiche precedenti, avvicinando la letteratura e il cinema giapponese, e soprattutto avvalendosi della collaborazione dei giapponesi-americani, Ruth Benedict è riuscita a comporre un affresco affascinante. Può darsi che non le abbia indovinate tutte, non so, ma certo ha contribuito a far comprendere sine ira et studio come pensavano e si comportavano i giapponesi di allora. Una leggenda dice che quando si stava decidendo dove lanciare la prima bomba atomica i comandi militari avessero pensato a Kyoto - segno in tal caso che non avevano letto Ruth Benedict perché sarebbe stato come lanciare una bomba atomica sul Vaticano per occupare Roma. Però, a dire il vero, la bomba non è stata lanciata su Kyoto, e pertanto alcuni degli alti comandi questo libro lo avevano letto. Non dico che lanciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki sia stato un modo brillante per piacere ai giapponesi, macertamente i rapporti post-bellici sono stati impostati in modo intelligente, come la Storia ha provato. Capisco che l'America tra Roosevelt e Truman fosse diversa da quella di Bush, ma mi domando se la pressione sull'Iraq sia stata preceduta da studi di antropologia culturale altrettanto accurati e comprensivi. So benissimo che basta andare in una biblioteca di Harvard o leggere certi saggi eccellenti che stanno uscendo oggi su varie riviste americane per sapere che non mancano negli Stati Uniti profondi conoscitori del mondo islamico, ma il problema è quanto Bush e i suoi abbiano letto i loro scritti. Per esempio, di fronte alle reazioni irritate e scandalizzate da parte della Casa Bianca ogni volta che Saddam cambia gioco (prima dice che non ha i missili, poi che li ha distrutti, poi che li distruggerà, poi che ne aveva solo due o tre, ecc.), mi chiedo se gli alti comandi abbiano mai letto Le mille e una notte, che con Baghdad e i suoi califfi hanno molto a che vedere. Mi pare abbastanza evidente che la tecnica di Saddam è quella di Sheherazade, che conta ogni notte una storia diversa al suo signore e così tira avanti per due anni e nove mesi senza farsi tagliare la testa. Di fronte a una tecnica dilatoria che ha così profonde radici culturali le vie d uscita sono due. La prima è di non stare al gioco, impedire a Sheherazade di raccontare le sue storie, e tagliarle subito la testa. Mentre scrivo non so ancora se questa è davvero la tecnica finalmente scelta da Bush. Ma anche in questo caso c'è da domandarsi se 73
interrompere di colpo il racconto non dia luogo ad altre forme di dilazione, trascinando la storia in altro modo e per altre mille notti. La seconda soluzione sarebbe opporre alla tecnica dilatoria di Sheherazade una tecnica simmetricamente opposta. E potrebbe darsi (metti che Condoleeza Rice abbia letto le storie del tempo dei califfi) che proprio così si sia deciso di procedere, opponendo a ogni storia di Saddam-Sheherazade un'altra storia, fatta di una escalation di minacce, per vedere a chi crollano i nervi per primo. Temo che una carenza di studi antropologici sia anche alla base dell'insofferenza con cui Bush reagisce alla prudenza di molti paesi europei, senza tener conto che essi, con il mondo islamico, hanno avuto forme di convivenza pacifica e scontro armato nel corso di circa millecinquecento anni, e quindi ne hanno una conoscenza approfondita. Francia, Germania, Russia potrebbero essere le Ruth Benedict del momento, che sanno del mondo arabo più cose di chi, colpito dolorosamente dal terrorismo fondamentalista, ne vede solo un aspetto. Non mi si dica che quando si è in guerra non si possono stare a sentire gli antropologi culturali. Roma si è confrontata coi germani, ma ha avuto bisogno di un Tacito che l'aiutasse a capirli. Che gli scontri di civiltà si affrontino non solo fabbricando cannoni ma anche finanziando la ricerca scientifica, il paese che è arrivato ad assicurarsi i migliori cervelli della fisica, mentre Hitler cercava di mandarli nei campi di sterminio, dovrebbe saperlo benissimo. PER FARE LA GUERRA OCCORRE CULTURA (Nota:· L'espresso, aprile 2003). Osservavo che a Bush è mancata una Ruth Benedict che lo aiutasse a capire la mentalità di un popolo che si doveva prima vincere e poi aiutare a transitare verso un regime democratico. Più continua il conflitto iracheno più questa osservazione viene confermata. Uno dei motivi di stupefazione degli alti comandi britannici e americani (i quali ora ammettono che quella che voleva essere una guerra lampo sta trasformandosi in una impresa più lunga e costosa) è che essi erano convinti che, appena sferrato l'attacco, intere divisioni si sarebbero arrese, i loro generali avrebbero fatto causa comune con le truppe alleate, gli iracheni nelle città si sarebbero ribellati contro il tiranno. Non è avvenuto, e non vale dire che né soldati né popolo osano rivoltarsi perché temono la feroce repressione del loro governo: ragionando così gli italiani non avrebbero dovuto fare la Resistenza perché i tedeschi impiccavano i partigiani - e invece è stata proprio la repressione che ha spinto molti ad andare in montagna. Sfuggiva evidentemente un principio che la Storia (talora davvero maestra della vita) avrebbe dovuto insegnarci: le dittature producono consenso e su quel consenso si reggono. A casa nostra si è tentato invano di resistere all'affermazione di De Felice, che il fascismo non era fatto da un pugno di fanatici i quali tenevano sotto un tallone di ferro quaranta milioni di dissidenti, ma si è rettoper vent'anni proprio perché in qualche modo un consenso diffuso esisteva. Sarà stato un consenso nutrito più di indolenza che di entusiasmo, ma c'era. Il secondo insegnamento della Storia è che in una dittatura, anche quando esistono forme di dissenso, se si verifica uno scontro frontale con un nemico straniero, scattano forme di identificazione col proprio paese. Hitler era un dittatore ferocissimo, non tutti i tedeschi erano nazisti, ma i soldati tedeschi si sono battuti sino alla fine. Stalin era un dittatore esecrando, non tutti i cittadini sovietici si sentivano comunisti, ma alle truppe tedesche e italiane hanno resistito sino allo spasimo, e alla fine hanno anche vinto. E persino gli italiani, che dopo il 1943 andavano a festeggiare gli sbarchi degli Alleati o si battevano sulle colline, a El Alamein si erano comportati con valore. Era così difficile capire che l'attacco di un esercito straniero almeno per un poco avrebbe prodotto una coesione nel fronte interno? Eppure, lo ripeto, non era nemmeno necessario scomodare i cattedratici della Harvard o della Columbia University. Bastava sorteggiare la più remota università del West per trovare due o tre giovani assistenti di storia e antropologia culturale pronti a spiegare verità così elementari. Non credo che la guerra produca cultura, anche se certe voltele astuzie della ragione (come avrebbe detto Hegel) sono bizzarre, ed ecco i romani che muovono guerra alla Grecia, pensando forse di latinizzarla, e invece la Grecia sconfitta conquista culturalmente il fiero vincitore. Più sovente la guerra produce barbarie di ritorno. Ma se non produce cultura, deve almeno partire da riflessioni culturali precedenti. C'era certamente una riflessione culturale dietro le imprese di Giulio Cesare e, almeno sino all'Impero, Napoleone si muoveva in Europa sapendo che esistevano attese diffuse nei vari paesi in cui portava gli eserciti della rivoluzione. Immagino che Garibaldi avesse qualche idea sulla debolezza delle truppe borboniche e sul possibile appoggio che poteva trovare in alcuni strati della società siciliana benché, in fin dei conti, né lui né Cavour prevedessero che il Meridione invaso avrebbe in seguito prodotto una robusta resistenza sanfedista e quella forma di ripulsa popolare che si è manifestata col brigantaggio. 74
Invece un calcolo errato aveva fatto il povero Pisacane, massacrato da coloro da cui si attendeva un'entusiastica accoglienza. E probabilmente, visto che si sta parlando di nuovo di Settimo Cavalleria, una certa mancanza d'informazione sulla psicologia indiana è stata alla base della tragedia del generale Custer. Sarebbe interessante (di certo lo si è fatto e semplicemente non sono un esperto in materia) vedere quali guerre sono state condotte non disprezzando o ignorando i contributi della cultura, e quali sono state invece quelle minate sin dalle origini da un atto di ignoranza. Certamente quello iracheno sembra un conflitto che gli eserciti hanno iniziato senza consultare le università, per una ancestrale diffidenza delle destre americane verso le "teste d'uovo" o, come diceva Spiro Agnew, gli "effete snobs". E' veramente un peccato che il paese più potente del mondo abbia speso tanti soldi per far studiare le sue menti migliori, e poi non le stia ad ascoltare. SI PUO' VINCERE AVENDO TORTO (Nota: L'espresso, aprile 2003). In guerra si diventa manichei, la guerra fa perdere il ben dell'intelletto, storie vecchie. Ma è certo che in occasione della guerra in Iraq abbiamo assistito a delle manifestazioni che - se non fossero probabilmente dovute all'incattivirsi collettivo che una guerra produce - dovremmo ascrivere a malafede. Si è cominciato col dire che chi era contro la guerra era dunque per Saddam, come se chi discute sull'opportunità o meno di somministrare al malato una certa medicina stia dalla parte della malattia. Nessuno ha mai negato che Saddam fosse uno spietato dittatore e caso mai tutta la questione era se, a cacciarlo in quel modo violento, non si buttava via anche il bambino con l'acqua sporca. Poi si è detto che chi era contro la politica di Bush era antiamericano viscerale, come a dire che chi è contro la politica di Berlusconi odia l Italia. Caso mai il contrario Infine, anche se non tutti hanno avuto questa faccia tosta, si è insinuato che chi marciava per la pace appoggiasse le dittature, il terrorismo e magan anche la tratta delle bianche. E pazienza. Ma le sindromi più interessanti sono emerse dopo che la guerra in Iraq è stata, almeno formalmente, vinta. "Vedete," hanno incominciato a dire trionfanti su tutti gli schermi, «che chi parlava di pace aveva torto." Bell'argomento. Chi ha detto che chi vince una guerra abbia buone ragioni per farla? Annibale ha vinto i romani a Canne, perché aveva gli elefanti, che erano i missili intelligenti dell'epoca, ma aveva avuto ragione a passare le Alpi per invadere la penisola? Poi i romani lo sconfiggono a Zama, e non è provato che avessero ragione a eliminare del tutto il polo-Cartagine, e non a cercare invece un equilibrio di forze nel Mediterraneo. E avevano ragione a dargli la caccia tra Siria e Bitinia per poi costringerlo ad avvelenarsi? Non è detto. E poi perché insistere con quel "vedete che hanno vinto"? Come se chi criticava questa guerra dubitasse che gli angloamericani avrebbero vinto. C'era forse qualcuno che credeva che gli iracheni li avrebbero ributtati a mare? Non ci credeva neppure Saddam che parlava tanto per rincuorare i suoi. Il problema caso mai era se gli occidentali avrebbero vinto in due giorni o in due mesi. Visto che per ogni giorno di guerra in più muore un sacco di gente, meglio venti che sessanta giorni. Quello che gli irrisori da teleschermo dovrebbero dire è: "Avete visto, voi dicevate che la guerra non avrebbe eliminato il pericolo terrorista, e invece ce l'ha fatta". E questa è l'unica cosa che non possono dire, perché non c'è ancora la prova che sia vera. Coloro che criticavano la guerra, a parte ogni considerazione morale e civile sul concetto di guerra preventiva, sostenevano che un conflitto in Iraq avrebbe probabilmente aumentato e non diminuito la tensione terroristica nel mondo, perché avrebbe indotto moltissimi musulmani, che sino ad allora si erano mantenuti su posizioni moderate, a odiare l'Occidente, e quindi avrebbe suscitato nuove adesioni alla guerra santa. Ebbene, sino a ora l'unico risultato tangibile della guerra sono state le brigate volontarie di possibili kamikaze che si sono mosse dall'Egitto, dalla Siria, dall'Arabia Saudita verso le trincee di Baghdad. Un'avvisaglia preoccupante. Anche ammesso che chi riteneva controproducente questo conflitto avesse torto, quello che è successo e che sta succedendo non lo ha ancora provato, anzi pare che laggiù si stiano scatenando odi etnici e religiosi abbastanza difficili da gestire, e assai pericolosi per l'equilibrio medio-orientale. Infine, nella scorsa Bustina, scritta e inviata all'Espresso prima che gli angloamericani entrassero in Baghdad e l'esercito iracheno si dissolvesse, avevo ricordato che non si era ancora sfaldato perché malauguratamente le dittature producono anche consenso, e questo consenso si rafforza, almeno all'inizio, di fronte a un esercito straniero sentito come invasore. Poi l'esercito si è sfaldato e le folle (ma quanti in verità?) sono andate a festeggiare gli occidentali. Ed ecco che qualcuno mi ha scritto dicendo: "Vedi?". Vedi cosa? Ricordavo che prima dell'otto settembre il fascismo aveva potuto contare anche sul consenso implicito dei poveretti che si erano battuti a El Alamein o in Russia. Poi, di fronte 75
alla disfatta, ecco le folle che tiravano giù le statue del Duce dai piedistalli, e in Italia tutti erano diventati antifascisti. Ma tre mesi dopo ecco una parte degli italiani stringersi di nuovo intorno ai gagliardetti littori, pronti a fucilare i partigiani. In Italia, perché il nodo si sciogliesse, ci sono voluti quasi due anni. E in Iraq? Con quello che sta succedendo ora tra varie fazioni che vogliono dirigere il paese senza gli occidentali di mezzo, mi pare che si sia dissolto il consenso nei confronti di Saddam ma - differenza dell'Italia di allora - non il sentimento di diffidenza e insofferenza verso lo straniero. Che è poi quel che volevasi dimostrare, e il contrario non è ancora stato dimostrato. CRONACHE DEL GRANDE GIOCO (Nota: L'espresso, settembre 2004). Una delle letture più appassionanti che ho fatto quest'estate è stata Il Grande Gioco di Peter Hopkirk (Adelphi). Non bisogna lasciarsi spaventare dal fatto che siano 624 pagine. Non dirò che lo si legge di un fiato, ma lo si centellina per sere e sere come se fosse un grande romanzo d'avventure, popolato di straordinari personaggi storicamente esistiti e di cui non sapevamo nulla. La ricostruzione riguarda l'intrico di giochi spionistici, assedi, guerre e guerriglie che si sono svolti tra agenti ed eserciti russi e inglesi su quel crinale che separa l'India dall'Afghanistan, inclusi potentati uzbechi e circassi, andando dalle zone caucasiche al Tibet e al Turkestan cinese. Se avete l'impressione di riconoscere le cartine che appaiono sulle prime pagine dei giornali degli ultimi anni, non vi sbagliate. Inoltre ci si accorge che il Kipling di Kim non aveva inventato nulla, al massimo aveva mirabilmente sintetizzato una storia che era iniziata in epoca napoleonica per finire (finire?) agli inizi del Novecento, una storia fatta di ambiziosi ufficiali e avventurieri con un pelo così sullo stomaco, che si travestivano da mercanti armeni o da pellegrini, percorrendo deserti e montagne mai visitati da un europeo, i russi per studiare il modo di espandersi verso l'India, gli inglesi per salvaguardare il loro impero coloniale e creare alle frontiere una serie di stati cuscinetto con emiri, khan, reucci fantoccio. Una storia fatta di agguati, decapitazioni, assassini nei palazzi reali. Quello che colpisce è anzitutto che in pieno Ottocento, quando ormai si pensava di aver mappato tutta la terra, gli europei sapessero poco o niente della geografia di quelle zone, dei passi, della navigabilità dei fiumi, e dovessero affidarsi al lavoro di spie e geografi itineranti, che poi descrivevano a voce o appuntavano alla buona il poco che erano riusciti a vedere. In secondo luogo si scopre che monarchi e sultanetti di regni favolosi (qui si parla di Buchara, di Samarcanda, di Chiva e di Chitral) erano impegnati in un gioco talora mortale con Inghilterra e Russia ma di questi paesi avevano nozioni vaghissime, talora credendole tribù confinanti, tanto che uno di questi reucci domanda orgogliosamente un giorno all'inviato inglese se la regina Vittoria possiede venti cannoni come lui. Dopodiché si leggono storie di massacri spaventosi, come quello di sedicimila inglesi tra militari e civili, donne e bambini, tra le montagne dell'Afghanistan (che credevano di aver pacificato), sempre perché un generale inetto o ambizioso non aveva valutato bene le difficoltà dei valichi, le divisioni tribali, la sottile arte orientale dell'inganno. Tutti questi emiri appaiono infidi e traditori (e lo erano) come se gli inviati russi o inglesi non fossero della stessa pasta e non cercassero di farseli amici per poi buggerarli. La sensazione immediata che si prova è che Bush e Putin dovrebbero leggere questo libro per capire che ci sono zone al mondo dove anche l'esercito più potente e organizzato non può farenulla contro tribù che conoscono tutti i sentieri, e che bastava leggere Fenoglio per capire che alla fine i partigiani conoscevano le colline meglio dei tedeschi venuti da fuori. Qualcuno potrebbe obiettare che le cose sono molto cambiate da quei giorni, i Grandi Giochi non si fanno più al coperto, e per diradare le nebbie dell'ignoranza di territori impervi oggi basta andare alla guerra con l'atlante De Agostini sottobraccio. Falso. Leggendo questo libro si ha l'impressione che nel mondo che crediamo globalizzato (in quello, per intenderci, della Fine della Storia) le sacche d'ignoranza reciproca siano ancora immense. Le bande irachene che catturano oggi i giornalisti sanno che l'Inghilterra ha più di venti cannoni, ma il tipo di richieste che fanno dimostra che hanno idee molto vaghe di cosa sia l'Europa: possono catturare un giornalista di sinistra per ricattare un governo di destra, non si rendono conto che a minacciare la Francia si può attirare in Iraq un paese che ne era restato fuori, hanno mostrato in televisione ostaggi italiani chiedendo che in Italia si facessero manifestazioni per la pace senza sapere che erano già state fatte, catturano due pacifiste mettendo in crisi tutti coloro che premono perché gli occidentali se ne vadano, insomma cercano di determinare le politiche occidentali senza mostrare di avere idee chiare sulle linee di frattura dell'Occidente. E noi? Provate ad andare a chiedere non dico al vostro portinaio ma a un professore d'università (che non sia ovviamente un arabista) quale sia la differenza tra sciiti e sunniti, e vedrete che ne sa meno di quanto sapesse cento anni fa l'emiro di Buchara sulle dimensioni dell'impero britannico. E non chiedetegli dove sia l'imam scomparso, 76
perché rischiate di sentirvi dire che è meglio contattare Chi l'ha visto?. In piena globalizzazione esistono ancora saperi così confusi da far accapponare la pelle. E per capire quanto noi sappiamo poco è veramente agghiacciante andare a scoprire con Hopkirk quanto poco Asia ed Europa sapessero l'una dell'altra ai tempi del Grande Gioco. LE PAROLE SONO PIETRE GUERRA DI PAROLE (Nota: L'espresso, ottobre 2001). Che la tragedia delle Due Torri abbia avuto un peso nell'ordine del simbolico, lo hanno detto tutti. Se gli aerei dirottati si fossero schiantati, producendo le stesse vittime e magari anche di più, su due grattacieli nell'Oklahoma, il mondo non avrebbe subito lo stesso shock. Quindi i simboli pesano, e tra essi le parole con cui cerchiamo di definire (o di provocare) gli eventi. Anzitutto non è chiaro che cosa significhi "guerra" In ogni caso riprende significati ottocenteschi. Pensiamo che quanto avviene sia stato anticipato dai disaster movies e invece ci è stato raccontato da vecchie pellicole con ufficiali inglesi dal casco coloniale e gli imprendibili afghani che li bersagliavano dall'alto delle rocce. Ma all'inizio era operazione di guerra o atto terroristico. Qualcuno ha detto che le Twin Towers erano assicurate per miliardi e miliardi di dollari, anche contro atti terroristici, ma non contro atti di guerra. Dunque, a seconda dei termini usati da Bush, o se ne avvantaggiano le grandi compagnie di assicurazione o le compagnie danneggiate. Forse è per questo che Bush parla talora di guerra e talora di terrorismo, e forse non sa bene chi avvantaggiare. Ma se questa è guerra, deve essere intesa come una "crociata"? Bush se l'è lasciato sfuggire ed è successo il pandemonio. Bush era tra i pochi a non sapere che le crociate erano una "guerra santa» dei cristiani (che avevano preso - loro - l'iniziativa) contro il mondo islamico (il quale tra l'altro alla fine è riuscito a ributtare a mare gli invasori). Bush si è rimangiato la gaffe, poi ha parlato di Giustizia Infinita ed è stato peggio ancora. Se le parole pesano, non è che bisognerebbe fare governare il mondo dai filosofi (i risultati ottenuti in merito da Platone sono stati disastrosi) ma almeno bisognerebbe mandare al governo signori più preparati in storia e geografia. Anche la parola "arabo" richiederebbe qualche riflessione. Ci sono molti islamici che non sono arabi (e alcuni arabi che non sono islamici bensì cristiani), per non dire degli islamici che non sono fondamentalisti, né tanto meno terroristi. E ci sono tanti extra comunitari che non sono né arabi né islamici, mentre tra loro delinquono alcuni di pelle bianca e religione cattolica. Ma i simboli contano, e sugli aerei i passeggeri fremono se sale un signore con i baffi e la faccia abbronzata, e in America hanno ammazzato qualcuno col turbante (ritenuto segno sicuro di islamismo), mentre era un fedele di Brahma, Shiva e Visnù, o un sikh (né arabo né musulmano). Santa pace, almeno rileggiamo Salgari. La lista delle parole ambigue non si arresta qui, e conosciamo bene le parole pericolose usate da Bin Laden. Tutte insieme, potrebbero procurare altre vittime innocenti. QUELLI CHE “ CAPISCONO” BIN LADEN (Nota: L'espresso, novembre 2001). Veramente viviamo in tempi oscuri. E non solo per le cose tragiche che stanno accadendo, ma anche perché, per capire che cosa accade, occorrerebbe essere molto sottili, e invece questi non paiono tempi di sottigliezze. Intorno a noi si procede a sciabolate. Bin Laden nel suo ultimo messaggio rinuncia persino alla distinzione da cui era partito (un Occidente cattivo fatto di americani e israeliani, e gli altri, che per il momento non nominava) ed è passato a parlare di scontro con i "cristiani" in genere (che ai suoi occhi comprendono evidentemente anche gli ebrei, i laici, gli ex materialisti sovietici e forse persino i cinesi). Ma, almeno a parole, non va meglio a casa nostra. Se ti accade di dire che Bin Laden è un briccone, ti rispondono che allora vuoi ammazzare i bambini di Kabul, e se auspichi che a Kabul non muoiano bambini ti definiscono un sostenitore di Bin Laden. Eppure l'unico modo di non fare il suo gioco è rifiutarsi alle crociate in bianco e nero e coltivare quella profonda saggezza che la nostra cultura ci ha trasmesso, la capacità di fare distinzioni. Alcune settimane fa è apparso un sondaggio secondo il quale pareva che una grande maggioranza della sinistra "comprendesse" le ragioni di Bin Laden. Apriti cielo. Dunque chi aveva risposto così approvava la distruzione delle due torri? Non credo Penso piuttosto che, comunque fosse stata posta la domanda, in momenti come questi la gente non riesce a distinguere bene, per esempio, tra spiegare, capire, giustificare e condividere. 77
La ragazza Erika è accusata di aver accoltellato la madre e il fratellino. Si può spiegare questo evento? Certo, e dovrebbero farlo gli psicologi e gli psichiatri. Si può capire Erika? Se mi spiegano che era in preda a un raptus di follia, la posso capire, perché con la follia non si ragiona. Si può giustificare? Certo no, tanto è vero che occorre che un tribunale in qualsiasi modo condanni il suo gesto e la metta nelle condizioni di non nuocere. Si può condividere quello che ha fatto, nel senso che lo faremmo anche noi? Spero proprio di no, se non siamo di quei dissennati che le mandano messaggi di solidarietà. E' fresca una polemica sulla comprensione di coloro che hanno aderito alla repubblica di Salò. Si può spiegare storicamente perché alcuni hanno fatto quella scelta? Certo, ed è stato fatto Si può capire perché molti l'hanno fatta? Si può capire benissimo e capire non solo chi l'ha fatta in buona fede ma anche chi l'ha fatta per disperazione, o per qualche interesse. Si può giustificare, storicamente, quella scelta? No, almeno dal punto di vista dei valori del mondo democratico. Si capisce la persona, ma non si giustifica la scelta. Si può condividere? Io nel 1943 avevo solo undici anni e mi chiedo sovente che cosa avrei fatto se ne avessi avuto venti, ma almeno col senno di poi spero che non l'avrei condivisa. Si può spiegare la strage della notte di San Bartolomeo, col massacro perpetrato dai cattolici nei confronti dei protestanti? Certamente, ci sono libri e libri che spiegano perché quel fatto è accaduto. Si possono capire le ragioni di chi lo ha compiuto, magari ritenendo di guadagnarsi il paradiso? Studiando la psicologia di quella gente di cinque secoli fa, il clima sanguinoso delle guerre di religione, e tante altre cose, si può. Si può giustificare quel massacro? Dal nostro punto di vista di uomini moderni ovviamente no, e tanto meno lo si può condividere, nel senso che ogni persona di senno oggi riterrebbe delittuoso fare altrettanto. Sembra tutto così semplice. Si può spiegare i'azione di Bin Laden, in parte come l'ha spiegata lui nel suo primo messaggio, in termini di frustrazione del mondo musulmano dopo la caduta dell'impero ottomano, e in parte tenendo conto dei suoi interessi politici ed economici (si spiega l'azione di Bin Laden col fatto che vuole mettere le mani sul petrolio saudita). Si possono capire i suoi seguaci? Certo, tenendo conto dell'educazione che hanno ricevuto, della frustrazione di cui si diceva, e di tante altre ragioni. Si possono giustificare? Evidentemente no, infatti li si condanna e si auspica che Bin Laden venga messo nelle condizioni di non nuocere. Si noti che, se non si riesce a spiegare il gesto di Bin Laden e a capire perché centinaia o migliaia di volontari partono dal Pakistan per andare a unirsi a lui, ci si trova in difficoltà quando si voglia contrastarlo, e cioè comprendere che cosa si debba effettivamente fare per neutralizzare il pericolo che rappresenta. Insomma, proprio perché non si giustifica e non si condivide il fondamentalismo musulmano, bisogna spiegarlo e capirne i moventi, le ragioni, le pulsioni che lo determinano. Che cosa intende dire qualcuno quando afferma di "comprendere" il gesto di Bin Laden? Che lo spiega, che lo capisce, che lo giustifica o che lo condivide? Sino a che non saremo tornati in uno stato d'animo che consenta e incoraggi le distinzioni, saremo come Bin Laden, e come lui ci vuole. FONDAMENTALISMO, INTEGRISMO, RAZZISMO (Nota: L'espresso, ottobre 2001). In queste settimane si parla molto del fondamentalismo musulmano. Tanto da dimenticare che esiste anche un fondamentalismo cristiano, specie in America. Ma, si dirà, i fondamentalisti cristiani fanno spettacolo nelle televisioni domenicali mentre i fondamentalisti musulmani fanno crollare le Due Torri, e quindi è di loro che ci preoccupiamo. Tuttavia, fanno quello che fanno in quanto fondamentalisti? O perché sono integristi? O perché sono terroristi? E, così come ci sono musulmani non arabi e arabi non musulmani, ci sono fondamentalisti che non sono terroristi? O che non sono integristi? Di solito si considerano i concetti di fondamentalismo e integrismo come strettamente legati, e come due forme d'intolleranza. Ciò che ci spinge a pensare che tutti i fondamentalismi siano integristi e dunque intolleranti, e dunque terroristi. Ma anche se ciò fosse vero non ne deriverebbe che tutti gli intolleranti siano fondamentalisti e integristi, né che tutti i terroristi siano fondamentalisti (non lo erano le Brigate Rosse e non lo sono i terroristi baschi) In termini storici il fondamentalismo è legato all'interpretazione di un Libro Sacro. Il fondamentalismo protestante degli Stati Uniti del XIX secolo (che sopravvive ancora oggi) è caratterizzato dalla decisione d interpretare letteralmente le Scritture, specie per quanto riguarda quelle nozioni di cosmologia, da cui il rifiuto di ogni forma di educazione che tenti di minare la fiducia nel testo biblico, come accade con il darwinismo. Del pari legato alla lettera del libro sacro è il fondamentalismo musulmano. 78
Il fondamentalismo è necessariamente intollerante? Si può immaginare una setta fondamentalista che assume che i propri eletti abbiano il privilegio della retta interpretazione del libro sacro, senza peraltro sostenere alcuna forma di proselitismo e voler pertanto obbligare gli altri a condividere quelle credenze, o battersi per realizzare una società politica che si basi su di esse. Si intende invece con integrismo una posizione religiosa e politica per la quale i propri principi religiosi debbono diventare al tempo stesso modello di vita politica e fonte delle leggi dello stato. Se il fondamentalismo è in linea di principio conservatore, ci sono degli integrismi che si vogliono progressisti e rivoluzionari. Ci sono movimenti cattolici integristi che non sono fondamentalisti, che si battono per una società totalmente ispirata ai principi religiosi senza peraltro imporre una interpretazione letterale delle Scritture, e magari pronti ad accettare una teologia alla Teilhard de Chardin. Ci sono però forme estreme di integrismo che diventano regime teocratico, e magari si innestano sul fondamentalismo. Tale sembra essere il regime dei talebani con le sue scuole coraniche. In ogni forma di integrismo vi è una certa dose di intolleranza per chi non condivide le proprie idee, ma questa dose raggiunge punte massime nei fondamentalismi e integrismi teocratici. Un regime teocratico è fatalmente totalitario, ma non tutti i regimi totalitari sono teocratici (se non nel senso che sostituiscono a una religione una filosofia dominante, come il nazismo o il comunismo sovietico). E il razzismo? Parrà curioso, ma gran parte dell'integralismo islamico, benché antioccidentale e antisemita, non si può dire razzista nel senso del nazismo, perché odia una sola razza (gli ebrei) o uno stato che non rappresenta una razza (gli Usa), ma non si riconosce in una razza eletta, bensì accetta come eletti gli adepti della propria religione, anche se di razza diversa. Il razzismo nazista era certamente totalitario, ma non c'era nulla di fondamentalistico nella dottrina della razza (esso sostituiva al libro sacro la pseudo-scienza ariana). E l'intolleranza? Si riduce a queste differenze e parentele tra fondamentalismo, integrismo, razzismo, teocrazia e totalitarismo? Ci sono state forme d'intolleranza non razziste (come la persecuzione degli eretici o l'intolleranza delle dittature contro i loro oppositori), ci sono forme di razzismo non intollerante ("non ho nulla contro i neri, se lavorano e stanno al loro posto possono stare da noi, però non vorrei che mia figlia sposasse uno di loro"), e ci sono forme di intolleranza e razzismo diffuso anche tra persone che si giudicherebbero non teocratiche, non fondamentaliste, non integriste - e ne abbiamo la prova in questi giorni. Fondamentalismo, integrismo, razzismo pseudo scientifico sono posizioni teoriche che presuppongono una Dottrina. L'intolleranza e il razzismo popolare si pongono prima di ogni dottrina. Hanno radici biologiche, si manifestano tra gli animali come territorialità, si fondano su reazioni emotive (non sopportiamo coloro che sono diversi da noi). Si potrà dire che con queste poche note non ho contribuito a chiarire le idee, bensì a confonderle. Ma non sono io che confondo le idee, è che ci accade di discutere su idee confuse, ed è bene capire che sono così, per ragionarci meglio sopra. GUERRA CIVILE, RESISTENZA E TERRORISMO (Nota: L'espresso, ottobre 2004). Sull'ultimo Espresso Eugenio Scalfari chiudeva la sua rubrica scrivendo: "Di resistenza irachena è vietato parlare senza passare per faziosi o imbecilli". Uno dice: il solito esagerato. E invece nella stessa giornata sul Corriere della Sera Angelo Panebianco scriveva: "... i "resistenti", come li chiamano certi spensierati occidentali..." Un osservatore marziano direbbe che in Italia, mentre tutto intorno si tagliano teste e si fanno saltare in aria treni e alberghi, stiamo giocando con le parole. Il marziano direbbe che le parole contano poco, dato che ha letto in Shakespeare che una rosa sarebbe sempre una rosa con qualsiasi altro nome. Eppure, spesso, usare una parola in luogo di un'altra conta molto. E' chiaro che alcuni di coloro che parlano di resistenza irachena intendono sostenere quella che ritengono una guerra di popolo; altri, dalla parte opposta, sembrano sottintendere che dare il nome di resistenti a degli sgozzatori significhi infangare la nostra Resistenza (con la maiuscola). La cosa curiosa è che gran parte di coloro che reputano scandaloso usare il termine resistenza sono proprio quelli che da tempo tentano di delegittimare la nostra Resistenza, dipingendo i partigiani come una banda di sgozzatori. Pazienza. Ma il fatto è che si dimentica che resistenza è un termine tecnico e non implica giudizi morali. Anzitutto esiste la guerra civile, che si ha quando cittadini che parlano la stessa lingua si sparano tra loro. Era guerra civile la rivolta vandeana, lo era la guerra di Spagna, lo è stata la nostra Resistenza, perché c'erano italiani da ambo le parti. Salvo che la nostra è stata anche movimento di resistenza, dato che si indica con questo termine 79
l'insorgere di parte dei cittadini di un paese contro una potenza occupante. Se per avventura, dopo gli sbarchi alleati in Sicilia o ad Anzio, si fossero formate bande di italiani che attaccavano gli angloamericani, si sarebbe parlato di resistenza, anche per chi riteneva che gli Alleati fossero i "buoni". Persino il banditismo meridionale è stata una forma di resistenza filoborbonica, salvo che i piemontesi ("buoni") hanno fatto fuori tutti i "cattivi", che ormai ricordiamo solo come briganti. D'altra parte i tedeschi chiamavano i partigiani "banditi". Raramente una guerra civile raggiunge dimensioni campali (ma è accaduto in Spagna) e di solito si tratta di guerra per bande. E guerra per bande è anche un moto di resistenza, fatto di colpi alla "mordi e fuggi". Talora in una guerra per bande si inseriscono anche Signori della Guerra" con le loro bande private, e persino bande senza ideologia, che approfittano del disordine. Ora, la guerra in Iraq sembra avere aspetti di guerra civile (ci sono iracheni che ammazzano altri iracheni) e di moto resistenziale, con l'aggiunta di ogni tipo di bande. Queste bande agiscono contro degli stranieri, e non importa se questi stranieri paiano nel giusto o nel torto, e neppure se siano stati chiamati e bene accolti da una parte dei cittadini. Se i locali combattono contro truppe occupanti straniere si ha resistenza, e non c'è santi che tengano. Infine c'è il terrorismo, che ha altra natura, altri fini e altra strategia. C'è stato e in parte c'è ancora del terrorismo in Italia senza che ci siano né resistenza né guerra civile, e c'è terrorismo in Iraq, che passa trasversalmente tra bande di resistenti e schieramenti di guerra civile. Nelle guerre civili e nei moti di resistenza si sa chi sia e dove stia (più o meno) il nemico, col terrorismo no: il terrorista può essere anche il signore che ci siede accanto in treno. Il che fa sì che guerre civili e resistenze si combattono con scontri diretti o rastrellamenti, mentre il terrorismo si combatte con servizi segreti. Guerre civili e resistenze si combattono in loco, il terrorismo va magari combattuto altrove, dove i terroristi hanno i loro santuari e i loro rifugi. La tragedia dell'Iraq è che laggiù c'è di tutto, e può accadere che un gruppo di resistenti usi tecniche terroristiche - o che i terroristi, a cui certo non basta cacciare gli stranieri, si presentino come resistenti. Questo complica le cose, ma rifiutarsi di usare i termini tecnici le complica ancora di più. Supponiamo che, ritenendo Rapina a mano armata un bellissimo film, dove erano simpatici anche i cattivi, qualcuno si rifiuti di chiamare rapina a mano armata l'assalto a una banca e preferisca parlare di furto con destrezza. Ma il furto con destrezza si combatte con qualche agente in borghese che pattuglia stazioni e luoghi turistici, di solito conoscendo già i piccoli professionisti locali, mentre per difendersi dalle rapine alle banche occorrono costosi apparati elettronici e pattuglie di pronto intervento, contro nemici ancora ignoti. E quindi scegliere il nome sbagliato induce a scegliere i rimedi sbagliati. Credere che si possa battere un nemico terrorista coi rastrellamenti con cui di solito si battono i movimenti di resistenza è una pia illusione, ma a credere di battere chi morde e fugge coi metodi che si dovrebbero usare coi terroristi, del pari si sbaglia. Pertanto bisognerebbe usare i termini tecnici quando occorre, senza soggiacere a passioni o a ricatti.
RITORNO AGLI ANNI SETTANTA (Nota: la Repubblica, marzo 2002). Si prova un certo imbarazzo a riflettere (e ancor più a scrivere) sul ritorno del terrorismo. Si ha l'impressione di ricopiare parola per parola articoli che si sono scritti negli anni settanta. Questo ci dice che, se non è vero che nulla si è mosso nel paese da quel decennio in avanti, certamente nulla si è mosso nella logica del terrorismo. Caso mai è la nuova situazione in cui riappare che induce a rileggerlo in chiave leggermente diversa. Si dice che l'atto terroristico miri alla destabilizzazione, ma l'espressione è vaga, perché diverso è il tipo di destabilizzazione cui può mirare un terrorismo "nero", un terrorismo di "servizi deviati" e un terrorismo "rosso». Assumo, sino a prova contraria, che l'assassinio di Marco Biagi sia opera, se non delle vere e proprie Brigate Rosse, di organizzazione dai principi e metodi analoghi, e in questo senso userò d'ora in poi il termine "terrorismo". Che cosa si propone di solito un atto terroristico? Siccome l'organizzazione terroristica segue una utopia insurrezionale, essa mira anzitutto a impedire che si stabiliscano tra opposizione e governo accordi di qualsiasi tipo sia ottenuti, come a tempi di Moro, per paziente tessitura parlamentare che per confronto diretto, sciopero o altre manifestazioni che vogliano indurre il governo a rivedere alcune sue decisioni. In secondo luogo, mira a spingere il governo in carica a una repressione isterica, sentita dai cittadini come antidemocratica, insostenibilmente dittatoriale, e quindi a fare scattare l'insurrezione di una vasta area preesistente di "proletari o sottoproletari disperati", che non attendevano che un'ultima provocazione per iniziare un'azione rivoluzionaria. Talora un progetto terroristico ha successo, e il caso più recente è quello dell'attentato alle Due Torri. Bin Laden sapeva che esistevano nel mondo milioni di fondamentalisti musulmani che attendevano solo la prova che il nemico 80
occidentale poteva "essere colpito al cuore" per insorgere. E infatti così è stato, in Pakistan, in Palestina e anche altrove. E la risposta americana in Afghanistan non ha ridotto ma rafforzato quell'area. Ma perché il progetto abbia un esito occorre che quest'area "disperata" e potenzialmente violenta esista, voglio dire esista come realtà sociale. Il fallimento non solo delle Brigate Rosse in Italia ma di molti movimenti in America Latina è stato dovuto al fatto di costruire tutti i loro progetti sulla presupposizione che l'area disperata e violenta ci fosse, e fosse calcolabile non in decine o centinaia di persone, ma in milioni. La maggior parte dei movimenti in America Latina è riuscita a portare alcuni governi alla repressione feroce, ma non a fare insorgere un'area che evidentemente era molto più ridotta di quanto i terroristi prevedessero nei loro calcoli. In Italia tutto il mondo dei lavoratori e le forze politiche hanno reagito con equilibrio e, per quanto qualcuno voglia criticare alcuni dispositivi di prevenzione e repressione, non ha prodotto la dittatura che le Brigate Rosse attendevano. Per questo esse hanno perso il primo round (e noi tutti ci siamo convinti che avessero abbandonato il progetto). La sconfitta delle Brigate Rosse ha convinto tutti che esse non erano riuscite, alla fin fine, a destabilizzare alcunché. Ma non si è riflettuto abbastanza sul fatto che sono servite moltissimo, invece, a "stabilizzare", perché un paese in cui tutte le forze politiche si sono impegnate a difendere lo stato contro il terrorismo, ha indotto l'opposizione a essere meno aggressiva, a tentare piuttosto le vie del cosiddetto consociativismo. Pertanto le Brigate Rosse hanno agito da movimento stabilizzatore o, se volete, conservatore. Che l'abbiano fatto per madornale errore politico o perché dovutamente manovrate da chi aveva interesse a raggiungere quei risultati, poco conta. Quando il terrorismo perde, non solo non fa la rivoluzione ma agisce come elemento di conservazione, ovvero di rallentamento dei processi di cambiamento. Quello che colpisce nell'ultima impresa terroristica, almeno a prima vista, è che di solito i terroristi uccidevano per impedire un accordo (il caso Moro insegna) mentre questa volta sembra abbiano agito per impedire un disaccordo nel senso che molti ritengono che dopo l'assassinio di Biagi l'opposizione dovrebbe attenuare, ingentilire e addomesticare le sue manifestazioni di dissenso e i sindacati dovrebbero soprassedere allo sciopero generale. Se si dovesse seguire questa logica ingenua dei cui prodest, si dovrebbe pensare che un sicario governativo si è messo il casco, è salito in motorino ed è andato sparare a Marco Biagi. Il che non solo pare eccessivo anche ai più esasperati "demonizzatori" del governo, ma ci indurrebbe a pensare che dunque le nuove Brigate Rosse non ci sono e non costituiscono problema. Il fatto è che il nuovo terrorismo come sempre confida nell'appoggio di milioni di sostenitori in una potenziale area rivoluzionaria violenta (che non c'è) ma soprattutto vede lo smarrimento e il disfacimento della sinistra come un eccellente elemento di scontento tra i componenti di quell'area fantasma. Ora, i girotondi (fatti come è noto da distinti cinquantenni pacifici e democratici per vocazione), la risposta che hanno cercato di dare i partiti d'opposizione e il ricompattamento delle forze sindacali stavano ricostituendo nel paese un eccellente equilibrio tra governo e opposizione. Uno sciopero generale non è una rivoluzione armata, è soltanto una iniziativa molto energica per arrivare a modificare una piattaforma d'accordo. E dunque anche questa volta, anche se apparentemente pare impedire la manifestazione di un disaccordo, l'attentato di Bologna mira a impedire un accordo (sia pure più conflittuale e combattuto). Soprattutto mira a impedire, nel caso che l'opposizione sindacale modifichi la linea del governo, che si rafforzi il vero nemico del terrorismo, e cioè l'opposizione democratica e riformista. Anche questa volta, dunque, se il terrorismo riuscisse nel suo primo intento (attenuare la protesta sindacale) otterrebbe quello che ha sempre ottenuto (volente o no): la stabilizzazione, la conservazione dello status quo. Se così è, la prima cosa che opposizione e sindacati debbono fare è non cedere al ricatto terroristico. Il confronto democratico deve procedere, nelle forme più aggressive che le leggi consentono, come appunto lo sciopero e la manifestazione di piazza, perché chi cede fa esattamente quello che i terroristi volevano. Ma del pari (se posso permettermi di dare consigli al governo) il governo deve sottrarsi alla tentazione a cui l'attentato terroristico lo espone: spostarsi su forme di repressione inaccettabili. La repressione antidemocratica può avere reincarnazioni sottili, e al giorno d'oggi non prevede necessariamente l'occupazione delle piazze principali coi carri armati. Quando si sente in televisione l'uomo di governo che in modi diversi (alcuni con misura, e con qualche vaga allusione, altri con evidenza indiscutibile) suggerisce che ad armare (moralmente, moralmente, si precisa) la mano dei terroristi sono stati coloro che in forme diverse hanno messo sotto accusa il governo, chi ha firmato appelli in favore della risposta sindacale, chi rimprovera a Berlusconi il conflitto d'interessi o la promulgazione di leggi altamente discutibili, e discusse anche fuori dei nostri confini - chi fa questo sta enunciando un pericoloso principio politico. Il principio si traduce così: visto che esistono i terroristi, chiunque attacca il governo ne incoraggia l'azione. Il principio ha un corollario: dunque è potenzialmente criminale attaccare il governo. Il corollario del corollario è la negazione di ogni principio democratico, il ricatto rivolto alla libera critica sulla stampa, a ogni azione di opposizione, a ogni manifestazione di dissenso. Che non è certo l'abolizione del parlamento o della libertà di stampa (io non sono di coloro che parlano di nuovo fascismo) ma è qualcosa di peggio. E' la possibilità di ricattare 81
moralmente e indicare alla riprovazione dei cittadini chi manifesta disaccordo (non violento) con il governo, ed equiparare eventuali violenze verbali - comuni a molte forme di polemica accesa ma legittima - con la violenza armata. Se a questo compiutamente si arrivasse, la democrazia rischierebbe di essere svuotata di ogni senso. Si avrebbe una nuova forma di censura, il silenzio o la reticenza per timore di un linciaggio mediatico. E quindi a questa diabolica tentazione gli uomini del governo debbono "resistere, resistere, resistere". L'opposizione deve invece "continuare, continuare, continuare", in tutte le forme che la Costituzione consente. Se no, davvero (e per la prima volta!), i terroristi avrebbero vinto su entrambi i fronti. KAMIKAZE E ASSASSINI (Nota: L'espresso, agosto 2005). Tempo fa, certamente prima dell'undici settembre fatale, tra i vari giochi di Internet circolava la domanda perché i kamikaze (quelli giapponesi) portassero il casco - cioè, perché mai delle persone che stavano per andare a schiantarsi su una portaerei si proteggessero la testa. Portavano davvero il casco? Non si mettevano una benda rituale intorno alla fronte? In ogni caso le risposte suggerite dal buon senso sono che il casco serviva anche per volare senza essere assordati dal motore, per difendersi da eventuali attacchi prima di poter dare inizio alla picchiata mortale e soprattutto (credo) perché i kamikaze erano tipi che osservavano rituali e regolamenti, e se i manuali dicevano che in aereo si saliva col casco loro obbedivano. A parte lo scherzo, la domanda tradiva l'imbarazzo che ciascuno di noi prova di fronte a chi freddamente rinuncia alla propria vita per poter uccidere altre persone. Dopo l'undici settembre noi pensiamo (giustamente) ai nuovi kamikaze come a un prodotto del mondo musulmano. Questo induce molti all'equazione fondamentalismo Islam, e consente al ministro Calderoli (che vedo sempre volentieri sugli schermi perché sembra un collega d'ufficio di Fantozzi) di dire che questo non è uno scontro di civiltà perché "quegli altri" non sono una civiltà. Oltretutto gli storici ci dicono che, nel Medioevo, una variante eretica dell'islamismo praticava l'omicidio politico col sicario inviato a colpire sapendo che non sarebbe tornato vivo, e la leggenda vuole che il kamikaze dell'epoca fosse dovutamente trattato, per renderlo succube dei suoi mandanti, con l'hashish (da cui la Setta degli Assassini). E pur vero che gli informatori occidentali, da Marco Polo in avanti, hanno un poco esagerato sulla faccenda, ma sul fenomeno degli Assassini di Alamut ci sono anche studi seri che forse andrebbero riletti. Però in questo periodo trovo in Internet una vasta discussione intorno al libro di Robert Pape, Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism, che, sulla base di una ricca documentazione statistica, presenta due tesi fondamentali. La prima è che il terrorismo suicida nasce solo in territori occupati e come reazione all'occupazione (tesi forse discutibile, ma Pape mostra come il terrorismo suicida si sarebbe arrestato, per esempio in Libano, appena terminata l'occupazione). La seconda è che il terrorismo suicida non è fenomeno solo musulmano, e Pape cita le Tigri Tamil dello Sri Lanka, e ventisette terroristi suicidi in Libano, tutti non islamici, laici e comunisti o socialisti. Non ci sono stati soltanto kamikaze giapponesi o musulmani. Gli anarchici italo-americani che avevano pagato il viaggio a Bresci perché andasse a sparare a Umberto I, gli avevano comperato un biglietto di sola andata. Bresci sapeva bene che dalla sua impresa non sarebbe tornato vivo. Nei primi secoli del cristianesimo c'erano i circoncellioni, che assalivano i viandanti per avere il privilegio del martirio, e più tardi i catari praticavano quel suicidio rituale che si chiamava endura. Per arrivare infine alle varie sette dei giorni nostri (tutte del mondo occidentale), sulle quali ogni tanto si legge di intere comunità che scelgono il suicidio di massa (e chiederei agli antropologi di raccontarci di ulteriori forme di suicidio «offensivo" praticato in altri gruppi etnici nel corso dei secoli). Insomma, la Storia e il mondo sono stati e sono pieni di persone che per religione, ideologia, o qualche altro motivo (e certamente aiutate da una struttura psicologica adatta, o sottoposte a forme di plagio molto elaborate) sono state e sono pronte a morire per ammazzare. C'è quindi da domandarsi se il vero problema che dovrebbe suscitare l'attenzione e lo studio di chi è preposto alla nostra sicurezza non riguardi soltanto il fenomeno dell'islamismo fondamentalista, ma l'aspetto psicologico del suicidio offensivo in generale. Non è facile convincere una persona a sacrificare la propria vita, e l'istinto di conservazione ce l'hanno tutti, islamici, buddhisti, cristiani, comunisti e idolatri. Per superare questo istinto non basta l'odio per il nemico. Bisognerebbe capire meglio quale è la personalità del kamikaze potenziale. Voglio dire che non basta frequentare una moschea dove un imam assatanato predica la guerra santa per diventare kamikaze, e forse non basta chiudere quella moschea per assopire la pulsione di morte che probabilmente preesiste in certi soggetti - che continuerebbero a circolare. Come individuare questi soggetti, con quale tipo di indagine e sorveglianza, che non diventi un incubo per 82
qualsiasi cittadino, è difficile dire. Ma forse bisogna lavorare anche in questa direzione e chiederci se questa pulsione non inizi a essere una malattia del mondo contemporaneo (come l'Aids o l'obesità) che potrebbe manifestarsi anche presso altri gruppi umani non necessariamente musulmani.
IV - IL RITORNO ALLE CROCIATE GUERRE SANTE, PASSIONE E RAGIONE (Nota: la Repubblica, ottobre 2001). Che il nostro presidente del consiglio abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. E' secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del consiglio e ha studiato in migliori università. Quello che non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino materia di dscussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia più. Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è dimostrata feconda (non solo dall'illuminismo a oggi ma anche prima, quando il francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa da apprendere anche dagli infedeli), è anche perché si è sforzata di "sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché appartengono alla storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri, condannava l'arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze inferiori, o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano. Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l identificazione con le proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione inun paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o sulle dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte. Quindi se con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi) il presidente del consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di Baghdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo anche se mi dicessero che a Baghdad hanno aperto l'ospedale più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa. Le radici possono essere anche più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, piuttosto che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa propria. Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con enorme rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana medievale cercavano di farsi tradurre i testi di filosofi, medici e astrologi arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di ricuperare perdute saggezze orientali, dai caldei agli egizi, Montesquieu ha cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che andavano sì presso i bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire quale fosse il 83
loro modo di pensare e di vivere - forse memori del fatto che i missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio. Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del 19esimo secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotti in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture Altre erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse. Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il proprio pluriennale lavoro oltremare, se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe pensare che l'antropologia culturale sostenesse una posizione relativistica, e affermasse che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria, bisognava rispettare il loro modo di vivere. La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per affermare se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi. L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha almeno preso un diploma alla École des Hautes Études di Parigi, e quindi quel bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato cose abbastanza slegate tra loro, che poi lui aveva riunito in un sistema affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i malintesi possibili di una cultura Altra si può avere una descrizione abbastanza "neutra". I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e San Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentali, sono certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche. Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei, automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo di non poter rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra cultura, per noi, è migliore. In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva quanti Premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il Premio Nobel per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo 84
in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia. Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l'Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad Arcore? I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del 14esimo secolo che fu Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia, matematica e medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro. Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci. Le cose cambiano.Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi cristiani di quanto i cristiani non fossero stati con i saraceni quando avevano conquistato Gerusalemme. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che non tollerano i cristiani e Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari. Non andiamo a scomodare la Storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne facevano di cotte e di crude, ma i corsari di Sua Maestà britannica, con tanto di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei Caraibi. Bin Laden e Saddam Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin (Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se aveva studiato in seminario e letto Marx). No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni differenti. Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni. Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi? Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata. E' giusto e civile proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddhisti o di andare a vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali. Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono infibulare le loro bambine, se (come accade per certe sette occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica? Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col chador non vedo perché fare tragediese a loro piace così. Sulla 85
infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da suggerire di farla gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul passaporto col burka? Abbiamo delle leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la mettiamo con la foto velata? Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono all'impronta del police e chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andatialle scuole coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che non siamo pronti a tollerare tutto e che certe cose sono per noi intollerabili. L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l'indipendenza dell'India si sono battuti intellettuali che avevano studiato in Inghilterra). Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma ne sappiamo abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l'Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono nudi - be', dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni interessanti. In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno spiegare a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c'entrano i cattolici, si tratta di protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio descrivendo la pensée sauvage. Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente siamo tutti d'accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare l'accettazione della differenza? L'Académie Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per glieducatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare agli scolari come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli l'ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza. Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi allievi italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c'è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di 86
più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi. Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri. Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che la difesa dei valori dell'Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è come al solito filo-islamica. Ora, a parte il fatto che c'è una destra e c'è un cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manijuesto del 1848 si apre con un elogio spassionato dell'espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico; dice solo che di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i proletari. Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della Rivoluzione Francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddhista oppure proprio all'Islam, come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e che dobbiamo andare a cercare la verità tra i mistici sufi e tra i dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti. In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.
NEGOZIARE IN UNA SOCIETA' MULTIETNICA (Nota: la Repubblica, luglio 2004). Il principio fondamentale che regola - o dovrebbe regolare - gli affari umani, se si vogliono evitare conflitti e incomprensioni, o inutili utopie, è quello della negoziazione. Il modello della negoziazione è quello del bazar orientale: il venditore chiede dieci, tu vorresti dare al massimo tre e tre proponi, e quello rilancia a nove, tu sali a quattro, quello scende a otto, tu ti spingi a offrire cinque e quello ribassa a sette. Finalmente ci si mette d'accordo su sei, tu hai l'impressione di avere vinto perché hai aumentato solo di tre e quello è sceso di quattro, ma il venditore è egualmente soddisfatto perché sapeva che la merce valeva cinque. Alla fine però, se tu eri interessato a quella merce e lui era interessato a venderla, siete abbastanza soddisfatti entrambi. Il principio della negoziazione non governa solo l'economia di mercato, i conflitti sindacali e (quando le cose vanno bene) gli affari internazionali, ma è alla base stessa della vita culturale. Si ha negoziazione per una buona traduzione (traducendo perdi inevitabilmente qualcosa del testo originale, ma puoi elaborare soluzioni di recupero) e persino per il commercio che noi facciamo delle parole, nel senso che tu e io possiamo assegnare a un certotermine significati difformi, ma se si deve arrivare a una comunicazione soddisfacente ci si mette d'accordo su un nucleo di significato comune sulla base del quale si può procedere a intendersi. Per alcuni piove solo quando l'acqua scende a catinelle, per altri già quando si avvertono alcune goccioline sulla mano ma, quando il problema è se scendere alla spiaggia o meno, ci si può accordare su quel tanto di "piovere" che fa la differenza tra andare o non andare al mare. Un principio di negoziazione vale anche per l'interpretazione di un testo (sia esso una poesia o un antico documento) perché, per tanto che ne se ne possa dire, davanti a noi abbiamo quel testo e non un altro, e anche un testo è un fatto. Così come non si può cambiare il fatto che oggi piova, non si può cambiare il fatto che I promessi sposi inizi col 87
~quel ramo del lago di Como", e a scrivere (o intendere) Garda invece di Como si cambia romanzo. Se, come dicono alcuni, al mondo non ci fossero fatti ma solo interpretazioni, non si potrebbe negoziare, perché non ci sarebbe alcun criterio per decidere se la mia interpretazione è migliore della tua. Si possono confrontare e discutere interpretazioni proprio perché le si mettono di fronte ai fatti che esse vogliono interpretare. Raccontano le gazzette che un ecclesiastico disinformato mi avrebbe recentemente annoverato tra i Cattivi Maestri perché io sosterrei che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Non fa problema il Cattivo Maestro (luciferinamente vorrei esserlo ma, crescendo in età e sapienza, mi scopro vieppiù un Pessimo Alunno), ma è che in molti miei scritti ho sostenuto esattamente il contrario, e cioè che le nostre interpretazioni sbattono continuamente la testa contro lo zoccolo duro dei fatti, e i fatti (anche se spesso sono difficili da interpretare) sono lì, solidi e invasivi, a sfidare le interpretazioni insostenibili. Mi rendo conto di avere fatto un giro troppo lungo per tornare al mio concetto di negoziazione, ma mi sembra che fosse necessario farlo. Si negozia perché, se ciascuno si attenesse alla propria interpretazione dei fatti, si potrebbe discutere all'infinito. Si negozia per portare le nostre interpretazioni divergenti a un punto taledi convergenza, sia pure parziale, da potere insieme fare fronte a un Fatto, e cioè a qualcosa che è là e di cui è difficile sbarazzarsi. Tutto questo discorso (che poi porta al principio che bisogna venire ragionevolmente a patti con l'inevitabile) nasce a proposito della decisione presa da un liceo milanese di istituire, su richiesta dei genitori immigrati, una classe di soli alunni musulmani. Il caso appare bizzarro perché ci vorrebbe poco, a essere ragionevoli, a mettere metà alunni musulmani in una classe e metà nell'altra, favorendo la loro integrazione con i compagni di un'altra cultura, e permettere a quei loro compagni di comprendere e accettare ragazzi di una cultura diversa. Questo tutti vorremmo, se vivessimo nel migliore dei mondi possibili. E' tuttavia un Fatto che il mondo in cui noi viviamo non è il migliore di quelli che potremmo desiderare, anche se per alcuni teologi e filosofi Dio stesso non poteva concepirne uno migliore, e quindi dovremmo accontentarci di questo. Mi accade sempre di essere al cento per cento d'accordo su quanto scrive il mio amico Claudio Magris (via, per non compromettermi e non mettere lui nell'imbarazzo, diciamo al novantanove virgola novantanove) ma vorrei avanzare alcune obiezioni al suo articolo apparso lunedì scorso sul Corriere della Sera. Il suo ragionamento, in termini di Dover Essere, è impeccabile. Ricordando che la decisione è stata determinata dal fatto che i genitori dei ragazzi hanno posto in sostanza un aut aut, o si fa così o non li mandiamo a scuola, Magris commenta che "questa richiesta di chiudersi in un ghetto, che avrebbe potuto essere avanzata da un razzista invasato da odio antimusulmano, è un'offesa a tutti, anche e in primo luogo all'Islam, che rischia così, ancora una volta, di essere identificato con le sue più basse degenerazioni... Perché deve essere terribile, scandaloso, ripugnante per essi avere un compagno - o compagna - di banco cattolico, valdese, ebreo o né battezzato né circonciso?... Il pluralismo - sale della vita, della democrazia e della cultura - non consiste in una serie di mondi chiusi in se stessi e ignari l'uno dell'altro, bensì nell'incontro, nel dialogo e nel confronto... ". Sono naturalmente disposto a sottoscrivere queste osservazioni, tanto che da alcuni anni insieme ad altri amici e collaboratori mi sforzo di alimentare un sito Internet dove si danno consigli agli insegnanti di ogni razza e paese per portare i loro ragazzi alla mutua comprensione e accettazione della diversità (si può trovare il sito su Kataweb oppure presso l'Académie Universelle des Cultures) - e naturalmente per comprendersi e accettarsi a vicenda bisogna vivere insieme. Questo certamente dovrebbe essere fatto capire anche ai genitori che hanno preteso per i loro bambini l'autosegregazione ma, non conoscendo la situazione specifica, non so sino a che punto queste persone siano permeabili alle argomentazioni di Magris, che faccio mie. L'unico punto dell'articolo di Magris su cui obietto è l'affermazione che questa richiesta fosse "irricevibile» e che "non avrebbe dovuto essere nemmeno presa in considerazione bensì lasciata cadere nel cestino». Si può dare ascolto a una richiesta che in linea di principio offende le nostre convinzioni? Queste nostre convinzioni riguardano il Dover Essere (un essere che, siccome non è ancora sta sempre al di là, e per questo suscita dibattito infinito e infinite interpretazioni). Ma il dibattito sul Dover Essere, nel caso in discussione, si scontra con un Fatto, che, come tutti i Fatti, non deve essere discusso. Di fronte a un fatto come un'eruzione vulcanica o una valanga non si pronunciano giudizi di merito, si cercano rimedi. Il Fatto a cui siamo di fronte è che una comunità di genitori (a quanto pare egiziani) ha detto alla scuola "o così, oppure i ragazzi non vengono". Non so se l'alternativa sia mandarli a studiare in Egitto, non farli studiare affatto o fornire loro un'educazione esclusivamente musulmana in qualche forma privata. Escludendo la prima possibilità (che eventualmente potrebbe piacere alla Lega: ci sbarazziamo di questi mocciosi e li rimandiamo a casa - versione addolcita del "meglio ucciderli sino a che sono piccoli»), la seconda sarebbe deprecabile perché sottrarrebbe a questi giovani immigrati il diritto a una educazione completa (sia pure per colpa dei genitori e non dello stato). Rimane come ovvia la terza soluzione, che ha il triplice svantaggio di essere del tutto ghettizzante, di impedire a questi ragazzi di conoscere la cultura che li ospita, e probabilmente di incrementare un isolamento fondamentalista. Inoltre non si sta parlando di educazione elementare, per fornire la quale potrebbero anche mettersi insieme dei genitori volonterosi, ma di educazione liceale, e dunque di cosa un poco più complessa. A meno che non si 88
istituiscano scuole coraniche equiparate alla scuola pubblica, cosa possibile visto che esistono scuole private cattoliche ma, almeno per me, non troppo auspicabile, se non altro perché rappresenterebbe un'altra forma di ghettizzazione. Se i fatti sono questi e queste le alternative, allora si può comprendere la decisione della scuola milanese, risultato di una ragionevole negoziazione. Visto che a rispondere di no i ragazzi andrebbero altrove, o da nessuna parte, si accetta la richiesta, anche se in linea di principio non la si condivide, e si sceglie il minor male, sperando che si tratti di soluzione transitoria. I ragazzi rimarranno in classe soli tra loro (il che è una perdita anche per loro) ma in compenso riceveranno la stessa istruzione che riceve un ragazzo italiano, potranno familiarizzare meglio con la nostra lingua e persino con la nostra storia. Siccome non sono degli infanti ma dei liceali, potrebbero ragionare con la loro testa e fare i dovuti confronti, e persino cercare autonomamente contatto coi loro coetanei italiani (o cinesi, o filippini). Nessuno ci ha ancora dettoche la pensino esattamente come i loro genitori. Inoltre, visto che si tratta di un liceo dove si studiano tante materie e tante dottrine, se gli insegnanti saranno bravi e delicati, gli studenti potranno apprendere che nel nostro paese ci sono certe credenze, certi costumi, certe opinioni condivise dai più, ma non sarebbe male anche consigliar loro di leggere alcune pagine del Corano, per esempio quelle in cui si dice "Crediamo in Dio, e in ciò che ci ha rivelato, e in ciò che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle Tribù, e a quel che è stato detto a Mosè e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti del Signore: non facciamo nessuna differenza tra di loro... Quelli che praticano l'ebraismo, i cristiani, i sabei, chiunque ha creduto in Dio e nel giorno ultimo e compie opera buona, avranno la loro ricompensa presso il Signore... Gareggiate dunque nelle buone opere. Tutti ritornerete a Dio, che allora v'informerà su ciò su cui divergete... E non disputate con le genti del Libro se non nel modo più cortese, eccetto con quelli di loro che agiscono ingiustamente, e dite: Crediamo in ciò che è stato fatto scendere a noi e in ciò che è stato fatto scendere a voi: il vostro Dio e il nostro Dio sono uno". Come e cosa potranno pensare questi ragazzi dopo alcuni anni di vita, separata sì, ma pur sempre nel quadro della cultura ospite, non lo sappiamo, per l'ovvia ragione che l'avvenire è nel grembo di Allah. Ma probabilmente il risultato sarà più interessante che se fossero vissuti in una scuola privata e doppiamente ghettizzata. Tutti aspiriamo al meglio ma abbiamo tutti imparato che talora il meglio è nemico del bene, e dunque negoziando si deve scegliere il meno peggio. E chissà quante di queste negoziazioni si dovranno fare in futuro per evitare il sangue in una società multietnica. Accettare il meno peggio, sperando che non diventi costume, non esclude che ci si debba battere per realizzare il meglio anche se, come è ovvio, il meglio non essendo un fatto, bensì un fine, rimane oggetto di molte interpretazioni. LA PRESA DI GERUSALEMME. CRONACA IN DIRETTA (Nota: la Repubblica, luglio 1999, in occasione del millenario della presa di Gerusalemme). 14 luglio, mattina. Pronto studio, mi sentite? Ecco, vi sento benissimo, OK. Qui Gerusalemme, in diretta dal Monte Sion, proprio fuori le mura. Alle prime luci dell'alba è scattato l'attacco alla città. Dal punto in cui sono domino l'approssimativo quadrato della cinta muraria, verso Est l'antica spianata del Tempio, dove ora sta la Cupola della Roccia, a Nord-Ovest la Porta di Erode, a Nord-Est, fuori le mura, il monte degli Olivi, a Sud-Ovest la torre di Davide. Le mura non solo sono formidabili, ma a oriente danno a picco sulla valle del Cedron, e a occidente su un'altra valle. Dunque le truppe dell'alleanza cristiana possono attaccare solo a Sud-Ovest e a settentrione. Ora che è sorto il sole scorgo benissimo le grandi torri di legno, i mangani e le catapulte che cercano di superare il fossato che le separa dalle mura. Ricorderete tutti quanto è stato cruciale il problema delle macchine d'assedio. La città era già circondata fin dal 7 giugno, e il 12, dando ascolto alle parole di un eremita esaltato che profetava la vittoria imminente, si era tentato un primo attacco. Era stato un disastro, e ci si era accorti che l'armata cristiana non possedeva mezzi sufficienti per scalare le mura. I comandanti lo sapevano bene, ma in questa guerra giocano pressioni diverse. Nobili e cavalieri sanno che una guerra si fa anche attraverso tregue e intese col nemico, e soprattutto con la calma. Ma al seguito dell'armata viene una folla immensa di pellegrini, diseredati spinti da pulsioni mistiche e fame di saccheggio. Sono gli stessi che, passando lungo il Reno e il Danubio, hanno messo a ferro e fuoco i ghetti dei giudei. E' gente pericolosa, difficile da controllare. Credo che questa sia stata la ragione principale dello scacco del 12 giugno. E per questo è passato un mese di inedia. Inedia vera, perché Iftikhar ad-Dawla, che governa Gerusalemme, aveva fatto avvelenare i pozzi esterni (la città invece ha un sistema di cisterne eccellente), i cristiani - specie quelli oppressi da armature pesanti - non sopportavano il caldo infernale della stagione e riuscivano a fatica a procurarsi acqua fetida. L'unica acqua buona si trovava solo a Sud, troppo vicina alle mura nemiche. E in tutto questo periodo bisognava reperire del legno, e strumenti adeguati per costruire macchine ossidionali. Ma qui intorno le colline sono brulle, e per il legno bisognava 89
andare lontano. Quanto agli strumenti, solo a metà giugno sono arrivati nel porto di Giaffa due galere genovesi e quattro vascelli inglesi con funi, chiodi e bulloni e tutto il necessario per una carpenteria di guerra. Così solo ora siamo in grado di attaccare con un insieme di armamenti di alto livello tecnico. Ecco, in questo momento vedo che muovono verso le mura tre enormi torri, a tre piani. Brulicano di armati, e ciascuna può far cadere sulle mura un ponte levatoio. Il problema sarà di arrivarvi, alle mura, e quindi di colmare il fossato. Allo scoperto, sotto il tiro nemico. Brutto lavoro, che costerà molte perdite. E' la guerra. Quanti sono i nostri? Vi parrà impossibile, ma non sono riuscito a stabilirlo. L'alleanza cristiana è fatta di eserciti diversi, con condottieri diversi che spesso lottano per una posizione di prestigio, e possono falsare i dati. E poi c'è la folla dei pellegrini, e qualcuno ha parlato persino nel complesso di cinquantamila persone. Ma credo si tratti di una valutazione per eccesso. La stima più generosa parla di dodicimila armati e di milletrecento cavalieri, la più avara di mille cavalieri e cinquemila uomini d'arme. I mori, quanto a truppe scelte, sono poche migliaia di arabi e sudanesi, ma poi ci sono gli abitanti, tutti pronti a combattere. In più Iftikhar ha avuto una idea geniale, ha mandato fuori dalla città tutti i cristiani, che ora debbono essere nutriti dai nostri, e non solo si è liberato di bocche da sfamare ma anche di potenziali sabotatori. Ha lasciato rimanere gli ebrei, forse in cambio di un buon riscatto, perché se li mandava fuori i nostri pellegrini li avrebbero fatti a pezzi. Molti dei nostri ascoltatori avranno ormai accettato l'idea che questa spedizione si fa per restituire i Luoghi Santi al culto, e si stupiranno che potessero tranquillamente vivere dei cristiani a Gerusalemme, e con le loro chiese, e d'altra parte ricorderete che l'alleanza cristiana ha recentemente occupato Betlemme su richiesta della comunità cristiana di laggiù, segno che una comunità esisteva. In effetti stiamo scoprendo passo per passo che in terra saracena i cristiani e il loro culto venivano bene o male tollerati, come gli ebrei d'altra parte. Così assediamo una città d'infedeli per permettere ai cristiani di visitarla, e otteniamo come primo risultato che i cristiani che vi abitano ne vengano cacciati fuori. Non è l'unico aspetto paradossale di questa guerra, che per alcuni si basa su un principio (i Luoghi Santi ai cristiani), per altri è occasione di conquista e per altri ancora chissà che cos'è, una sorta di grande festa crudele... I miei informatori mi dicono che l'attacco è più interessante a Nord-Ovest, alla Porta di Erode. Salgo su un muletto e cerco di portarmi dal lato opposto delle mura. Passo e chiudo. 14 luglio, sera. Pronto studio, mi sentite? Bene, vado. Ho impiegato alcune ore ad arrivare nei pressi della Porta di Erode: dovevo tenermi abbastanza lontano dalle mura, perché stanno piovendo sassi a non finire. Passavo attraverso fumi di incendi. Fiamme nella notte. Affascinante, e tremendo. I mori conoscono la tecnica bizantina del fuoco greco, e fanno piovere incessantemente palle infuocate sulle torri. Ecco, ora debbo allontanarmi, c'è una sortita dei mori che cercano d'incendiare le nostre macchine... Una torre ha preso fuoco, i nostri cercano di salvarsi saltando a terra, ma sono flagellati dalle frecce nemiche. La parte superiore della torre è rovinata a terra spargendo nugoli di scintille, ma fortunatamente ha flagellato i mori che stavano rientrando nelle mura, e ha appiccato fuoco ai battenti della porta. Ma perché i nostri non muovono tutti gli arieti in quella direzione? Qualcuno mi dice che anche le altre macchine sono state colpite dal fuoco greco, per oggi la partita è persa, bisognerà impiegare la notte a riparare le macchine. Passo e chiudo. 15 luglio, mattina. Non vi sento bene... no, ecco, vi sento, OK. Pare che siamo riusciti a riparare la maggior parte delle nostre macchine, l'attacco è ripreso, una grandine di sassi si riversa sulle mura, i nostri arieti hanno ormai valicato il fossato. L'antico sistema della copertura a testuggine è buono ma non infallibile, molti nostri valorosi cadono sotto i colpi che piovono dall'alto ma vengono subito rimpiazzati, le nostre macchine stanno facendo tremare Gerusalemme fino alle fondamenta... Dalla mia nuova postazione vedo benissimo Goffredo di Buglione dall'alto di una torre che comanda l'assalto definitivo. Ecco, i primi cristiani stanno balzando sulle mura, qui mi dicono che sono Litoldo e Gilberto di Tournai, Goffredo e gli altri li seguono, i mori cadono sotto i loro colpi, alcuni saltano dalle mura e si sfracellano al suolo. La Porta di Erode è crollata - no, forse è stata aperta dal di dentro dagli uomini montati sugli spalti, ora gli uomini dell'alleanza cristiana irrompono nella città, a piedi e a cavallo! Mi dicono che verso la Porta di Sion la battaglia infuria ancora... un momento, ecco le ultime notizie, pare che anche i provenzali di Raymond de Saint-Gilles abbiano potuto sfondare alla Porta di Sion. Raymond ha espugnato la torre di Davide e ha catturato Iftikhar con la sua guarnigione, concedendogli vita salva in cambio di un riscatto. L'ha fatto subito accompagnare ad Ascalona, che è ancora in mano saracena. Il nemico è in rotta, vittoria! E' un momento storico, sono mirabilmente le tre del pomeriggio, l'ora della Passione di Nostro Signore! ! ! Magica coincidenza! Cerco ora di inserirmi nella massa dei nostri che stanno precipitandosi in città e vi assicuro che non è facile, rischio di essere travolto dai cavalli... Mi sentite? Io non vi sento, ma continuo. Sono anch'io dentro le mura di Gerusalemme. Mi trovo a scavalcare montagne di cadaveri dalla pelle scura, eppure 90
non dovrebbe esservi stata più resistenza dopo lo sfondamento. Intervisto un sergente che sembra tornare verso il campo cristiano, coperto di sangue, e con le mani ingombre di stoffe preziose. "Resistenza? Per niente; appena siamo entrati quei maledetti se la sono data a gambe e si sono asserragliati nella moschea della Roccia. Ma il grande Tancredi di Altavilla li ha sorpresi prima che potessero organizzare la difesa, e si sono arresi. Tancredi ha issato il suo stendardo sulla moschea, per metterli sotto la sua protezione " Gli chiedo allora che cosa significhino tutti quei cadaveri: "Signore mio, da dove vieni tu? Qui si sta conquistando una città, e di infedeli per giunta. E quindi li si ammazza tutti, giovani e vecchi, uomini, donne e bambini. E' la regola, no?". E quelli protetti da Tancredi? gli chiedo. Fa un gesto, e non so che cosa significhi: "Sa, i signori hanno le loro fisime". Ancora non riesco a procedere, ora sono sopraffatto da una folla di mori di tutte le età che fuggono in ogni direzione, inseguiti dai nostri... Scusate, la voce mi trema nel riferire quello che sto vedendo, ma gli uomini dell'alleanza cristiana stanno sgozzando tutti senza pietà, oh Dio, alcuni sbattono i bambini contro i muri per fracassargli la testa... E non sono solo gli armati, che potrebbero sfogare la tensione del combattimento, vedo anche bande di pellegrini che si accaniscono sui feriti... Un momento... Mi pervengono notizie dalla sinagoga, dove gli ebrei rimasti in città si erano asserragliati. E' stata data alle fiamme e tutta la comunità ebraica di Gerusalemme è perita nell'incendio. Vedo un vecchio frate che piange: "E' vero, erano infami giudei, ma perché darli ora alle fiamme, visto che li attendevano le fiamme dell'inferno? Oh, i nostri cristiani sono diventati bestie impazzite, non obbediscono più neppure ai loro capitani". Pronto? Non mi sentite? Per forza, tutti gli edifici crepitano in preda al fuoco e crollano dappertutto, e ci sono le grida della gente passata a fil di spada. Cristo Signore, non ce la faccio più, ci sentiamo domani, passo e chiudo. 16 luglio. Pronto studio? Mi resta poco da dire. Certe volte si prova vergogna a fare il cronista... Tancredi aveva assicurato la vita salva ai mori della moschea, ma un altro gruppo di forsennati (si dice dei Fiamminghi, ma non so) oggi ha disatteso i suoi ordini, e anche lì è avvenuta una strage. Qualcuno tra i cavalieri sta persino accusando di tradimento Raymond de Saint-Gilles perché ha salvato la vita a If tikhar. Qui sembrano tutti impazziti, il sangue dà alla testa. Sto parlando con Raymond de Aguilers: "Intorno alla moschea il sangue arriva sino alle ginocchia. Tancredi è furioso, si sente disonorato per avere mancato di parola, ma non è colpa sua. Non credo esista ancora un moro o un ebreo vivo in Gerusalemme". Gli chiedo una stima, quante vittime in tutto? Accenna a settantamila morti, ma credo esageri - è sconvolto. Per quanto sono riuscito a sapere, dopo l'espulsione dei cristiani erano rimasti in città alcune migliaia di uomini di guarnigione, e cinquantamila abitanti. Corre voce che qualcuno sia riuscito a fuggire da qualche breccia nelle mura. Nel complesso direi che sono stati uccisi in questi due giorni quarantamila persone. Forse un giorno si dirà che erano di meno, che in due giorni non si può fare una carneficina di queste dimensioni. Ma intorno a me è una distesa di cadaveri, e il fetore, sotto il sole, è ormai orribile. Un monaco con cui ho parlato stamattina mi ha fatto notare che questo massacro equivale a una sconfitta. Se si dovrà costituire in queste terre un regno cristiano, si dovrebbe poter contare sull'accettazione degli abitanti musulmani, e sulla tolleranza dei regni vicini. Con questo massacro si è scavato un solco di odio tra mori e cristiani che durerà per anni, forse per secoli. La conquista di Gerusalemme non è la fine, è l'inizio di una lunghissima guerra. Alt. Apprendo appena ora che ieri, nel pieno del massacro, Tancredi d'Altavilla, Roberto di Fiandra, Gastone di Béarn, Raimondo di Tolosa, Roberto di Normandia e tutti gli altri capitani si sono recati in gran corteo a sospendere devotamente le armi al Santo Sepolcro e ad adorarlo, sciogliendo il voto - per usare le parole attribuite a Goffredo di Buglione. Pare sia stata una cerimonia molto commovente, in cui tutti si sentivano più buoni. Mi scuso per aver mancato lo scoop. Ma in mezzo a quel carnaio non ritrovavo più la retta via. Qui Gerusalemme liberata, a voi studio. MISS, FONDAMENTALISTI E LEBBROSI (Nota: L'espresso, dicembre 2002). Quando questo numero dell'Espresso apparirà in edicola è possibile che la maggior parte dei lettori si sia dimenticata della vicenda nigeriana, coi duecento e passa morti ammazzati per via del concorso di Miss Mondo. E sarebbe una buona ragione per non lasciare cadere il discorso. Oppure la situazione sarà peggiorata, anche dopo che il concorso di Miss Mondo è stato spostato a Londra, perché è apparso chiaro a tutti che l'arrivo delle Miss in Nigeria è stato solo un pretesto per scatenare tensioni o incoraggiare progetti eversivi di ben altra portata: e infatti non si capisce perché per protestare contro un concorso di bellezza si dovevano ammazzare i cristiani e bruciare le chiese, visto che non è ai vescovi che si poteva imputare l'iniziativa. Ma, se le cose fossero andate avanti, a maggior ragione varrebbe la pena di riflettere su quel pretesto che ha portato all'orrida reazione fondamentalista. Wole Soyinka, il premio Nobel che in Nigeria ha dovuto subire anche la prigione per aver tentato di difendere le 91
libertà fondamentali nel suo sfortunato paese, ha scritto un articolo (pubblicato sulla Repubblica) in cui, insieme ad alcune illuminanti riflessioni sui conflitti nigeriani, diceva (in sintesi) che lui non prova nessuna simpatia per i concorsi delle varie Miss nazionali o globali ma che, di fronte alla rabbia dei fondamentalisti musulmani, si sentiva di dover difendere i diritti del corpo e della bellezza. Credo che se fossi nigeriano la penserei come lui, ma si dà il caso che non lo sia, e vorrei guardare la faccenda dal punto di vista di casa nostra. Certamente è ingiustificabile che per reagire in spirito di bigotteria a un concorso che mostra fanciulle in costume da bagno si ammazzino duecento e più persone che tra l'altro non c'entrano nulla. E' ovvio che, se la mettiamo così, siamo tutti dalla parte delle fanciulle. Però ritengo che gli organizzatori di Miss Mondo, decidendo di far svolgere l'esibizione in Nigeria, abbiano commesso una vera e propria mascalzonata. Non tanto perché potessero o dovessero prevedere quelle reazioni, ma perché fare una fiera della vanità (che tra l'altro costa una cifra che basterebbe a sfamare alcune tribù per un mese) in un paese depresso come la Nigeria, mentre i bambini muoiono di fame e le adultere vengono condannate alla lapidazione, è come pubblicizzare cassette pornografiche e film comici in un ospizio per non vedenti o andare a regalare prodotti di bellezza in un lebbrosario, pubblicizzandoli con foto di Naomi Campbell. E non si venga a dire che anche un concorso di bellezza è un modo per far cambiare usi e costumi ancestrali, perché queste sollecitazioni funzionano caso mai a dosi omeopatiche e non con provocazioni così plateali. L'episodio, a parte la riflessione che si tratta di una gagliofferia fatta evidentemente a scopi pubblicitari e con assoluto cinismo, ci interessa da vicino, e proprio di questi tempi, perché ha a che fare con quel grumo di problemi chiamato globalizzazione. Sono di coloro che pensano che su dieci fenomeni di globalizzazione almeno cinque possano avere esiti positivi ma, se c'è un aspetto negativo della globalizzazione, è proprio quello di imporre violentemente modelli occidentali a paesi sottosviluppati per indurre a consumi e a speranze che quei paesi non possono concedersi. Insomma, se ti presento le Miss in costume da bagno è per incentivare l'acquisto di costumi da bagno occidentali, magari cuciti da bambini affamati a Hong Kong, affinché siano comperati anche in Nigeria da coloro che non muoiono di fame, ma che se hanno dei soldi da spendere li stanno facendo sulle spalle di coloro che di fame muoiono, e collaborano con gli occidentali a sfruttarli e a tenerli in condizione pre-coloniale. Per cui non mi sarebbe spiaciuto che i più combattivi dei noglobal si fossero dati convegno in Nigeria durante il concorso, dividendosi tra tute bianche e black block violenti. Le tute bianche avrebbero dovuto pacificamente (ma con qualche energia) prendere a calci gli organizzatori del concorso, metterli in mutande (come le loro Miss), spalmarli di miele, cospargerli di piume di struzzo o altro volatile a disposizione in loco, e farli sfilare per le strade, sbertucciandoli a dovere. E le tute nere avrebbero dovuto affrontare i fondamentalisti locali, complici del colonialismo occidentale a cui va benissimo che laggiù rimangano sottosviluppati, e usare tutta la capacità combattiva di cui sono dotati per impedirgli di compiere i loro massacri - e tutti avremmo forse applaudito (una volta tanto, e solo per una volta tanto) a questi guerrieri della pace, anche perché se sei violento devi avere il coraggio di misurarti con avversari degni di te. E le aspiranti Miss? Forse, convinte dall'ala più mite dei no-global, avrebbero potuto (per una volta tanto) essere riciclate a dimenare il loro bel culetto andando (vestite) per i villaggi a distribuire scatolette di carne e pezzi di sapone, più qualche antibiotico e confezioni di latte. Le avremmo davvero giudicate bellissime. CHE FACCIAMO DEI PRE-ADAMITI? (Nota: L'espresso, aprile 2003). Avevo detto sin dall'inizio di questa rubrica, ormai diciotto anni fa, che non vi avrei trattato necessariamente argomenti d'attualità - ovvero che se una sera mi fosse accaduto di rileggere un canto dell'Iliade avrei considerato di attualità le riflessioni che mi aveva suscitato. Ed ecco che, mentre venti di guerra sconvolgono il mondo, ho trovato su un catalogo d'antiquariato librario un volumetto che cercavo da tempo e giudicavo introvabile. Introvabile perché, come vedremo, quell'opera era stata condannata al rogo, anzi il rogo l'aveva rischiato l'autore, e immagino che sia lui che l'editore si siano affrettati a far sparire le copie in loro possesso. L'ho trovato per una cifra quasi irrisoria, non perché l'antiquario non ne conoscesse la rarità, ma perché si tratta di un libretto di piccole dimensioni, di nessuna piacevolezza grafica e tipografica, e che nessuno (salvo qualche studioso) muore dalla voglia di ospitare nei propri scaffali. Si tratta della raccolta di due trattatelli, Prae Adamitae e Systhema theologicum ex praeadamitarum hypothesi, pubblicata nel 1655 da un protestante, Isaac de la Peyrère. Cosa diceva di straordinario il suo autore, tanto da essere poi costretto, per salvare la pelle, a farsi cattolico e sottomettersi al papa? Si era in un'epoca in cui fiorivano studi su una lingua madre all'origine di ogni civiltà, di solito identificata con l'ebraico di Adamo. Ma al tempo stesso, a ormai un secolo e mezzo dalla scoperta dell'America, arrivavano notizie sempre più ricche su quelle popolazioni lontane, per non parlare dei risultati di nuove esplorazioni e viaggi, sempre 92
più frequenti, in altri paesi esotici, compresa la Cina. E negli ambienti "libertini" stava prendendo piede un'ipotesi attribuita a Epicuro (lettera a Erodoto) e poi ripresa da Lucrezio, in cui si diceva che i nomi non erano stati imposti una volta per tutte e in una lingua privilegiata all'inizio del mondo, ma dipendevano dalla varietà con cui le diverse stirpi umane avevano reagito alle proprie singolarissime esperienze. Così stirpi differenti avevano dato origine in modi e tempi diversi a diverse famiglie di lingue (e di cultura). Ed ecco apparire la proposta di Isaac de La Peyrère, calvinista, che nel suo libro, interpretando in modo certamente discutibile alcuni testi biblici (perché doveva pur trovare pezze d'appoggio ortodosse alla sua tesi alquanto eterodossa), avanza l'idea di una poligenesi dei popoli e delle razze. La Peyrère si rende conto che le cronologie bibliche, con i loro seimila anni o giù di lì dall'inizio del mondo, erano troppo ristrette rispetto alle cronologie dei caldei, degli aztechi, degli incas e dei cinesi, specialmente per quanto riguardava i loro racconti sulle origini del mondo. Sarebbe dunque esistita un'umanità pre-adamitica. Ma se così era, questa civiltà (che egli identificava con quella dei Gentili, ma poteva essere identificata con altre razze) non poteva essere stata toccata dal peccato originale, e sia il peccato che il diluvio riguardavano soltanto Adamo e i suoi discendenti in terra ebraica. D'altra parte l'ipotesi era già apparsa in ambiente musulmano ed elaborando dal Corano, nel X secolo, Al Maqdisi aveva accennato all'esistenza di altri esseri sulla terra prima di Adamo. Si capisce quanto potesse apparire eretica la proposta. Essa metteva in questione il diluvio universale perché, se sull'Arca si erano salvati solo i familiari di Noè, esso avrebbe dovuto distruggere tutte le altre stirpi, mentre le nuove evidenze etnologiche dicevano che queste avevano continuato a prosperare; ma metteva anche in dubbio la centralità, per la storia umana, della passione di Cristo. Solo una piccola parte dell'umanità aveva commesso il peccato originale c aveva dunque bisogno, per salvarsi, di essere redenta. Insomma, seimila anni di storia sacra ridotti a un piccolo incidente mediterraneo. Altro che rogo. Si noti che della tesi di La Peyrère qualcuno potrebbe dare un'interpretazione razzista, pensando che i suoi preadamiti fossero delle popolazioni superiori rispetto alla stirpe giudaica. In effetti egli era su posizioni opposte, di grande interesse e apertura ecumenica rispetto alla tradizione ebraica. Semplicemente egli stava compiendo una singolare operazione antietnocentrica, cercando di mostrare che l'universo mondo, e la civiltà, non siamo soltanto "noi", ma anche gli "altri", i quali anzi avevano più storia della civiltà giudaico-cristiana. Ed ecco che la casualità della mia piccola riscoperta si rivela, se non meno casuale, almeno più provvidenziale di quanto credessi all'inizio, oggi che di nuovo ci lasciamo accecare dall'idea di una crociata contro chi di noi (pensiamo) ha meno storia e meno titoli di nobiltà. Quanto alle sue dimostrazioni, La Peyrère aveva sbagliato quasi tutto ma, quanto allo spirito di apertura a civiltà diverse, il povero perseguitato e il suo maltrattatissimo libretto, ci possono ancora far meditare. V - LA SUMMA E IL RESTO LE RADICI DELL'EUROPA (Nota: L'espresso, settembre 2003). Le cronache estive sono state animate dalla discussione sull'opportunità di citare, in una Costituzione europea, le origini cristiane del continente. Chi esige la citazione si appoggia al fatto, certamente ovvio, che l'Europa è nata su di una cultura cristiana, anche prima della caduta dell'impero romano, almeno dai tempi dell'editto di Costantino. Così come non si può concepire il mondo orientale senza il buddhismo, non si può concepire l'Europa senza tener conto del ruolo della chiesa, dei vari re cristianissimi, della teologia scolastica o dell'azione e dell'esempio dei suoi grandi santi. Chi si oppone alla citazione tiene conto dei principi laici su cui si reggono le democrazie moderne. Chi vuole la citazione ricorda che il laicismo è conquista europea recentissima, eredità della Rivoluzione Francese: nulla a che fare con le radici che affondano nel monachesimo o nel francescanesimo. Chi vi si oppone pensa soprattutto all'Europa di domani, che si avvia fatalmente a diventare continente multietnico, e dove una citazione esplicita delle radici cristiane potrebbe bloccare sia il processo di assimilazione dei nuovi venuti, sia ridurre altre tradizioni e altre credenze (che pure potrebbero diventare di cospicua entità) a culture e culti minoritari soltanto tollerati. Quindi, come si vede, questa non è soltanto una guerra di religione, perché coinvolge un progetto politico, una visione antropologica, e la decisione se disegnare la fisionomia dei popoli europei in base al loro passato o in base al loro futuro. Occupiamoci del passato. L'Europa si è sviluppata soltanto sulla base della cultura cristiana? Non sto pensando agli arricchimenti di cui la cultura europea si è avvantaggiata nel corso dei secoli, a cominciare dalla matematica indiana, la medicina araba o addirittura i contatti con l'Oriente più remoto, non solo dai tempi di Marco Polo ma da quelli di 93
Alessandro Magno. Ogni cultura assimila elementi di culture vicine o lontane, ma poi si caratterizza per il modo in cui li fa propri. Non basta dire che dobbiamo lo zero agli indiani o agli arabi, se poi è stato in Europa che si è affermato per la prima volta che la natura è scritta in caratteri matematici. E' che ci stiamo dimenticando della cultura greco-romana. L'Europa ha assimilato la cultura greco-romana sia sul piano del diritto che su quello del pensiero filosofico, e persino sul piano delle credenze popolari. Il cristianesimo ha inglobato, spesso con molta disinvoltura, riti e miti pagani e forme di politeismo che sopravvivono nella religiosità popolare. Non è solo il mondo rinascimentale che si è popolato di Veneri e Apolli, ed è andato a riscoprire il mondo classico, le sue rovine e i suoi manoscritti Il Medioevo cristiano ha costruito la sua teologia sul pensiero di Aristotele, riscoperto attraverso gli arabi, e se ignorava in massima parte Platone non ignorava il neoplatonismo, che ha grandemente influenzato i Padri della chiesa. Né si potrebbe concepire Agostino, massimo tra i pensatori cristiani, senza l'assorbimento del filone platonico. La nozione stessa di impero, su cui si è svolto lo scontro millenario tra gli stati europei, e tra gli stati e la chiesa, è di origine romana. L'Europa cristiana ha eletto il latino di Roma a lingua dei riti sacri, del pensiero religioso, del diritto, delle dispute universitarie. D'altra parte non è concepibile una tradizione cristiana senza il monoteismo giudaico. Il testo su cui la cultura europea si è fondata, il primo testo che il primo stampatore ha pensato di stampare, il testo traducendo il quale Lutero ha praticamente fondato la lingua tedesca, il testo principe del mondo protestante, è la Bibbia. L'Europa cristiana è nata e cresciuta cantando i salmi, recitando iprofeti, meditando su Giobbe o su Abramo. Il monoteismo ebraico è stato anzi il solo collante che ha permesso un dialogo tra monoteismo cristiano e monoteismo musulmano. Ma non finisce qui. Infatti la cultura greca, almeno dai tempi di Pitagora, non sarebbe pensabile senza tener conto della cultura egizia, e al magistero degli egizi o dei caldei si è ispirato il più tipico tra i fenomeni culturali europei, vale a dire il Rinascimento, mentre l'immaginario europeo, dalle prime decifrazioni degli obelischi a Champollion, dallo stile impero alle fantasticherie new age. modernissime e molto occidentali. Si è nutrito di Nefertiti, misteri delle piramidi, maledizioni del faraone e scarabei d'oro. Io non vedrei inopportuno, in una Costituzione, un riferimento alle radici greco-romane e giudaico-cristiane del nostro continente, unito all'affermazione che, proprio in virtù di queste radici, così come Roma ha aperto il proprio pantheon a dèi d'ogni razza e ha posto sul trono imperiale uomini dalla pelle nera (né si dimentichi che Sant'Agostino era africano), il continente è aperto all'integrazione di ogni altro apporto culturale ed etnico, considerando questa disposizione all'apertura proprio una delle sue caratteristiche culturali più profonde. IL CROCIFISSO, GLI USI E I COSTUMI (Nota: la Repubblica, ottobre 2003). Alcuni anni fa, e in parte su questo giornale, parlando dell'ondata migratoria che sta trasformando il nostro continente (migrazione di massa, non semplice immigrazione episodica) scrivevo che nel giro di trent'anni l'Europa sarebbe divenuta un continente colorato, con tutte le mutazioni, adattamenti, conciliazioni e scontri che ne sarebbero seguiti, e avvertivo che la transizione non sarebbe stata indolore. La polemica che si è aperta sul crocifisso nelle scuole è un episodio di questa transizione conflittuale, come lo è del resto la polemica francese sul chador. La dolorosità della transizione è che nel suo corso non sorgeranno solo problemi politici, legali e persino religiosi: è che entreranno in gioco pulsioni passionali, sulle quali né si legifera né si discute. Il caso del crocifisso nelle scuole è uno di questi, tanto è vero che accomuna nelle reazioni (di segno opposto) persone che la pensano diversamente, credenti e non credenti. Sulle questioni passionali non si ragiona: sarebbe come cercare di spiegare a un amante sull'orlo del suicidio perché è stato abbandonato o abbandonata, che la vita è bella, che al mondo ci sono tante altre persone amabili, che la partner infedele in fondo non aveva tutte le virtù che l'amante gli attribuiva. Fiato sprecato, quello o quella soffrono, e non c'è niente da dire. Sono irrilevanti le questioni giuridiche. Qualsiasi regio decreto imponesse il crocifisso nelle scuole, imponeva anche il ritratto del re. E quindi se ci attenessimo ai regi decreti dovremmo rimettere nelle aule scolastiche il ritratto di Vittorio Emanuele terzo (Umberto non è stato formalmente incoronato). Qualsiasi nuovo decreto della repubblica che eliminasse il crocifisso per ragioni di laicità dello stato si scontrerebbe con gran parte del sentimento comune. La repubblica francese proibisce l'esibizione di simboli religiosi nelle scuole dello stato, né crocifissi né chador, se il chador è un simbolo religioso. E' una posizione razionalmente accettabile, giuridicamente ineccepibile. Ma la Francia moderna è nata da una rivoluzione laica, Andorra no, ed è curiosamente co-governata dal presidente francese e dal vescovo di Urgel. In Italia Togliatti ha fatto votare i suoi per l'articolo 7 della Costituzione. La scuola francese è rigorosamente laica, e tuttavia alcune delle grandi correnti del cattolicesimo moderno sono fiorite proprio 94
nella Francia repubblicana, a destra come a sinistra, da Charles Péguy e Léon Bloy, a Maritain e Mounier, per arrivare sino ai preti operai, e se Fatima è in Portogallo, Lourdes è in Francia. Quindi si vede che, anche eliminando i simboli religiosi dalle scuole, questo non incide sulla vitalità dei sentimenti religiosi. Nelle università nostre non c'è il crocifisso nelle aule, ma schiere di studenti aderiscono a Comunione e Liberazione. Di converso, almeno due generazioni di italiani hanno passato l'infanzia in aule in cui c'era il crocifisso in mezzo al ritratto del re e a quello del duce, e sui trenta alunni di ciascuna dasse parte sono diventati atei, altri hanno fatto la resistenza, altri ancora, credo la maggioranza, hanno votato per la repubblica. Sono tutti aneddoti, se volete, ma di portata storica, e ci dicono che l'esibizione di simboli sacri nelle scuole non determina l'evoluzione spirituale degli alunni. Quindi qualcuno potrebbe dire che la questione è irrilevante anche da un punto di vista religioso. Evidentemente la questione non è irrilevante in linea di principio, perché il crocifisso in aula ricorda che siamo un paese di tradizione cristiana e cattolica, e quindi è comprensibile la reazione degli ambienti ecclesiastici. Eppure anche le considerazioni di principio si scontrano con osservazioni di ordine che direi sociologico. Avviene infatti che, emblema classico della civiltà europea, il crocifisso si è sciaguratamente laicizzato, e non da ora. Crocifissi oltraggiosamente tempestati di pietre preziose si sono adagiati sulla scollatura di peccatrici e cortigiane, e tutti ricordano il cardinal Lambertini che, vedendo una croce sul seno fiorente di una bella dama, faceva salaci osservazioni sulla dolcezza di quel calvario. Portano catenelle con croci ragazze che vanno in giro con l'ombelico scoperto e la gonna all'inguine. Lo scempio che la nostra società ha fatto del crocifisso è veramente oltraggioso, ma nessuno se ne è mai scandalizzato più di tanto. Le nostre città fungheggiano di croci, e non solo sui campanili, e le accettiamo come parte del paesaggio urbano. Né credo che sia per questioni di laicità che sulle strade statali si stanno sostituendo i crocicchi, o incroci che siano, con le rotatorie. Infine ricordo che, così come la mezzaluna (simbolo musulmano) appare nelle bandiere dell'Algeria, della Libia, delle Maldive della Malaysia, della Mauritania, del Pakistan, di Singapore, della Turchia e della Tunisia (eppure si parla dell'entrata in Europa di una Turchia formalmente laica che porta un simbolo religioso sulla bandiera), croci e strutture cruciformi si trovano sulle bandiere di paesi laicissimi come la Svezia, la Norvegia, la Svizzera, la Nuova Zelanda, Malta, l'Islanda, la Grecia, la Norvegia, la Finlandia, la Danimarca, l'Australia, la Gran Bretagna e via dicendo. Molte città italiane, magari con amministrazioni di sinistra, hanno una croce nel loro stemma, e nessuno ha mai protestato. Sarebbero tutte buone ragioni per rendere accettabile il crocifisso nelle scuole, ma come si vede non toccano affatto il sentimento religioso. Atroce dirlo a un credente, ma la croce è diventata un simbolo secolare e universale. Naturalmente si potrebbe suggerire di mettere nelle scuole una croce nuda e cruda, come accade di trovare anche nello studio di un arcivescovo, per evitare il richiamo troppo evidente a una religione specifica, ma capisco che oggi come oggi la cosa sarebbe intesa come un cedimento. Il problema sta altrove, e torno alla considerazione degli effetti passionali. Esistono a questo mondo degli usi e costumi, più radicati delle fedi o delle rivolte contro ogni fede, e gli usi e costumi vanno rispettati. Per questo una visitatrice atea è tenuta, se visita una chiesa cristiana, a non esibire abiti provocanti, altrimenti si limiti a visitare i musei. Io sono l'essere meno superstizioso del mondo e adoro passare sotto le scale, ma conosco amici laicissimi e persino anticlericali che sono superstiziosi, e vanno in tilt se si rovescia il sale a tavola. E' per me una faccenda che riguarda il loro psicologo (o il loro esorcista personale), ma se devo invitare gente a cena e mi accorgo che siamo in tredici, faccio in modo di portare il numero a quattordici o ne metto undici a tavola e due su un tavolinetto laterale. La mia preoccupazione mi fa sorridere, ma rispetto la sensibilità, gli usi e costumi degli altri. Le reazioni addolorate e sdegnate che si sono ascoltate in questi giorni, anche da parte di persone agnostiche, ci dicono che la croce è un fatto di antro Polonia culturale, il suo profilo è radicato nella sensibilità comune. E di questo dovrebbe essersi accorto Adel Smith: se un musulmano vuole vivere in Italia, oltre ogni principio religioso, e purché la sua religiosità sia rispettata, deve accettare gli usi e costumi del paese ospite. Se visito un paese musulmano bevo alcool solo nei luoghi deputati (come gli hotel per europei) e non vado a provocare i locali tracannando whisky da una fiaschetta davanti a una moschea. E se un monsignore viene invitato a tenere una conferenza in un ambiente musulmano, accetta di parlare in una sala decorata con versetti del Corano. L'integrazione di un'Europa sempre più affollata di extracomunitari deve avvenire sulla base di una reciproca tolleranza. E colgo l'occasione per fare un'obiezione alla mia amica Elisabetta Rasy, che recentemente sul Sette del Corriere della Sera osservava che "tolleranza" le pare un'espressione razzista. Ricordo che Locke aveva scritto un'epistola sulla tolleranza e un trattatello sulla tolleranza aveva scritto Voltaire. Può darsi che oggi "tollerare" sia usato anche in senso spregiativo (io ti tollero anche se ti ritengo inferiore a me, e proprio perché io sono superiore), ma il concetto di tolleranza ha una sua storia e dignità filosofica e rinvia alla mutua comprensione tra diversi. L'educazione dei ragazzi nelle scuole del futuro non deve basarsi sull'occultamento delle diversità, ma su tecniche pedagogiche che inducano a capire e ad accettare le diversità. E da tempo si ripete che sarebbe bello che nelle scuole, accanto all'ora di religione (non in alternativa per coloro che cattolici non sono), fosse istituita almeno un'ora 95
settimanale di storia delle religioni, così che anche un ragazzo cattolico possa capire che cosa dice il Corano o cosa pensano i buddhisti, e gli ebrei, i musulmani o i buddhisti (ma persino i cattolici) capiscano come nasce e cosa dice la Bibbia. Un invito ad Adel Smith, dunque, e agli intolleranti fondamentalisti: capite e accettate usi e costumi del paese ospite. E invito agli ospitanti: fate sì che i vostri usi e costumi non diventino imposizione delle vostre fedi. Ma bisogna rispettare anche le zone d'ombra, per moltissimi confortanti e accoglienti, che sfuggono ai riflettori della ragione.
SULL'ANIMA DEGLI EMBRIONI (Nota: L'espresso settemhre 2000 e marzo 2005). Nel corso delle discussioni che si agitano in questi giorni sulla dignità dell embrione si confrontano opinioni diverse. Ma non viene mai citato un secolare dibattito, che ha visto impegnate alcune tra le massime figure della teologia cristiana. Il dibattito è antichissimo, nasce con Ongene, che riteneva che Dio avesse creato sin dal principio le anime umane. L'opinione era stata subito confutata anche alla luce dell'espressione del Genesi (2,7) per cui "il Signore formò l'uomo con la polvere del suolo e gl'ispirò nelle nari un alito di vita, e l'uomo diventò anima vivente". Dunque nella Bibbia prima Dio crea il corpo, e poi gli insuffla l'anima. Ma questa posizione poneva problemi a proposito della trasmissione del peccato originale. Così Tertulliano aveva sostenuto che l'anima del genitore si "traducesse" di padre in figlio attraverso il seme. Posizione che fu subito giudicata eretica, perché presumeva una origine materiale dell'anima. Chi si era trovato imbarazzato era stato Sant'Agostino, che doveva vedersela coi pelagiani, i quali negavano la trasmissione del peccato originale. Egli pertanto da un lato sostiene la dottrina creazionista (contro il traducianesimo corporale) e dall'altro ammette una sorta di traducianesimo spirituale. Ma tutti i commentatori giudicano la sua posizione abbastanza contorta. San Tommaso d'Aquino sarà decisamente creazionista, e risolverà la questione della colpa originale in modo molto elegante. Il peccato originale si traduce col seme come una infezione naturale (Summa Teologica, I-II, 81,1), ma questo non ha nulla a che vedere con la traduzione dell'anima razionale. L'anima viene creata perché non può dipendere dalla materia corporale. Ricordiamo che per Tommaso i vegetali hanno anima vegetativa, che negli animali viene assorbita dall'anima sensitiva, mentre negli esseri umani queste due funzioni vengono assorbite dall'anima razionale, che è quella che rende l'uomo dotato di intelligenza - e, aggiungo, ne fa una persona, in quanto la persona era, per antica tradizione, "sostanza individua di una natura razionale". Tommaso ha una visione molto biologica della formazione del feto: Dio introduce l'anima solo quando il feto acquista, gradatamente, prima anima vegetativa e poi anima sensitiva. Solo a quel punto, in un corpo già formato, viene creata l'anima razionale (Summa, I, 90). L'embrione ha solo l'anima sensitiva (Summa, I, 76, 2 e I, 118, 2). Nella Summa contra gentiles (II, 89) si ripete che vi è un ordine, una gradazione nella generazione, "a causa delle forme intermedie di cui viene dotato il feto dall'inizio sino alla sua forma finale". A che punto della formazione del feto viene infusa quell'anima intellettiva che ne fa una persona umana a tutti gli effetti? La dottrina tradizionale era molto cauta su questo punto. Nel commento di Pietro Caramello all'edizione leonina delle opere di Tommaso, mentre si riconosce che la dottrina tomista sostiene che l'anima viene immessa nell'ovulo fecondato quando esso "sia ormai disposto da una sufficiente organizzazione", si annota che "secondo autori recenti" ci sia già "in atto un principio di vita organica nell'ovulo fecondato". Ma si tratta di nota molto prudente, perché un principio di vita organica si può riferire anche alle anime vegetativa e sensitiva. Infine, nel Supplemento alla Summa Theologica (80, 4) si dice che gli embrioni non parteciperanno alla risurrezione della carne, prima che in essi sia stata infusa un'anima razionale. Cioè, dopo il Giudizio Universale, quando i corpi dei morti risorgeranno affinché anche la nostra carne partecipi della gloria celeste (quando già secondo Agostino rivivranno nel pieno di una bellezza e completezza adulta non solo i nati morti ma, in forma umanamente perfetta, anche gli scherzi di natura, i mutilati, i concepiti senza braccia o senza occhi), a quella "risurrezione della carne" non parteciperanno gli embrioni. In loro non era stata ancora infusa l'anima razionale, e pertanto non sono esseri umani. Si potrebbe certamente dire che la Chiesa, spesso in modo lento e sotterraneo, ha cambiato tante posizioni nel corso della sua storia che potrebbe avere cambiato anche questa. Ma è singolare che qui ci si trovi di fronte alla tacita sconfessione non di una autorità qualsiasi, ma dell'Autorità per eccellenza, della colonna portante della teologia cattolica. Le riflessioni che nascono a questo proposito portano a conclusioni curiose. Noi sappiamo che a lungo la stessa 96
chiesa cattolica ha resistito alla teoria dell'evoluzione, non tanto perché sembrava contrastare col racconto biblico dei sette giorni della creazione ma perché cancellava il salto radicale, la differenza miracolosa tra forme di vita preumane e l'apparizione dell'Uomo, annullava la differenza tra una scimmia, che è animale bruto, e un uomo che ha ricevuto un'anima razionale. Ora, la battaglia certamente neofondamentalista sulla pretesa difesa della vita, per cui l embrione è già essere umano in quanto in futuro potrebbe diventarlo, sembra portare i credenti più rigorosi sulla stessa frontiera dei vecchi materialisti evoluzionisti di un tempo: non c'è frattura (quella definita da San Tommaso) nel corso dell evoluzione dai vegetali agli animali e agli uomini, la vita ha tutta lo stesso valore. E, come scriveva recentemente Giovanni Sartori sul Corriere della Sera, c'è da chiedersi se non si faccia una certa confusione tra la difesa della vita e la difesa della vita umana, perché il difendere a ogni costo la vita ovunque si manifesti, in qualsiasi forma si manifesti, porterebbe a definire come omicidio non solo spargere il proprio seme a fini non fecondativi, ma anche mangiare polli e ammazzare zanzare, per non dire del rispetto dovuto ai vegetali. Conclusione: le attuali posizioni neofondamentalistiche cattoliche non solo sono di origine protestante (che sarebbe il meno) ma portano a un appiattimento del cristianesimo su posizioni insieme materialistiche e panteistiche, e su quelle forme di panpsichismo orientale per cui certi guru viaggiano con la garza sulla bocca per non uccidere microorganismi respirando. Non sto pronunciando giudizi di merito su una questione certamente molto delicata. Sto rilevando una curiosità storico-culturale, un curioso ribaltamento di posizioni. Dev'essere l'influenza della new age. IL CASO E IL DISEGNO INTELLIGENTE (Nota: L'espresso, novembre 2005). Sembrava una storia vecchia e sepolta (o limitata alla Bible Belt americana, l'area degli stati più retrivi e isolati dal mondo, abbarbicati al loro fondamentalismo selvaggio, che solo Bush riesce a prendere sul serio, probabilmente per calcolo elettorale), ma ecco che tornano le polemiche sul darwinismo - e addirittura hanno sfiorato i progetti di riforma della nostra scuola, dico della scuola italiana e cattolica. Insisto sul "cattolica" perché il fondamentalismo cristiano nasce negli ambienti protestanti ed è caratterizzato dalla decisione d'interpretare letteralmente le Scritture. Ma affinché ci sia interpretazione letterale delle Scritture, occorre che le Scritture possano essere liberamente interpretate dal credente, e questo è tipico del protestantesimo. Non ci può essere fondamentalismo cattolico - e su questo si è combattuta la battaglia tra Riforma e Controriforma - perché per i cattolici l'interpretazione delle Scritture è mediata dalla Chiesa. Ora, già presso i Padri della Chiesa, e prima ancora con Filone di Alessandria, si era sviluppata un'ermeneutica più soffice, come quella di Sant'Agostino, il quale era pronto ad ammettere che la Bibbia parlava spesso per metafore e allegorie, e quindi può essere benissimo che i sette giorni della creazione siano stati anche sette millenni. E la Chiesa ha fondamentalmente accettato questa posizione ermeneutica. Si noti che, una volta che si ammette che i sette giorni della creazione sono racconto poetico che può essere interpretato al di là della lettera, il Genesi sembra dar ragione a Darwin: prima avviene una sorta di Big Bang con l'esplosione della Luce, poi i pianeti prendono forma e sulla Terra avvengono grandi sconvolgimenti geologici (le terre si separano dai mari), quindi appaiono i vegetali, i frutti e le semenze, infine le acque incominciano a brulicare d'esseri viventi (la vita inizia a sorgere dall'acqua), si levano a volo gli uccelli, e solo in seguito appaiono i mammiferi (imprecisa è la posizione genealogica dei rettili, ma non si può pretendere troppo dal Genesi). Solamente alla fine e al culmine di questo processo (anche dopo le grandi scimmie antropomorfe, immagino) appare l'uomo. L'uomo che - non dimentichiamolo - non è creato dal nulla, ma dal fango, e cioè da materia precedente. Più evoluzionisti di così (sia pure in tono altamente epico) non si potrebbe essere. Cos'è che la teologia cattolica ha sempre preteso per non identificarsi con un evoluzionismo materialista? Non solo che tutto questo sia opera di Dio, s'intende, ma che nella scala evolutiva si sia verificato un salto qualitativo, quando Dio ha immesso in un organismo vivente un'anima razionale immortale. E solo su questo punto si fonda la battaglia tra materialismo e spiritualismo. Un aspetto interessante del dibattito che si svolge negli Stati Uniti per reintrodurre la dottrina creazionista nelle scuole, accanto alla "ipotesi" darwiniana (non dimentichiamo che nel corso del suo processo Galileo se la sarebbe cavata ammettendo che la sua era un'ipotesi e non una scoperta) è che - per non aver l'aria di opporre una credenza religiosa a una teoria scientifica - non si parla tanto di creazione divina quanto di "Disegno Intelligente". Cioè, si sottintende, noi non vogliamo imporvi la presenza imbarazzante di uno Iahve barbuto e antropomorfo, vogliamo solo che accettiate che, se sviluppo evolutivo c'è stato, esso non è avvenuto a caso ma seguendo un piano, un progetto, e questo progetto non può che dipendere da una qualche forma di Mente (vale a dire che l'idea del 97
Disegno Intelligente potrebbe persino ammettere un Dio panteista in luogo di un Dio trascendente). Quello che mi pare curioso è che non si considera che un Disegno Intelligente non esclude un processo casuale come quello darwiniano, che avviene per così dire per tentativi ed errori, così che sopravvivono solo gli individui che meglio si adattano all'ambiente nel corso della lotta per la vita. Pensiamo all'idea più nobile che abbiamo di disegno intelligente, e cioè alla creazione artistica. E' Michelangelo a dirci in un suo celebre sonetto che l'artista. Quando si trova di fronte al blocco di marmo, non ha dall'inizio in mente la statua che ne uscirà, ma va appunto per tentativi, interrogando le resistenze della materia, cercando di buttare via il "soverchio" per fare uscire a poco a poco la statua dalla ganga materiale che la imprigionava. Ma che la statua ci fosse, e fosse proprio il Mosè o un Prigione, l'artista lo scopre solo alla fine di quel processo fatto di tentativi continui. Un Disegno Intelligente può manifestarsi dunque anche attraverso una serie di accettazioni e ripulse di quello che il caso offre. Naturalmente bisogna decidere se prima sta il Disegno, che sceglie e rifiuta, o è il Caso che, accettando e rifiutando, si manifesta come l'unica forma d'Intelligenza - che sarebbe come dire che è il Caso che si fa Dio. Non è questione da poco, e non possiamo risolverla qui. Semplicemente, è filosoficamente e teologicamente un poco più complessa di come la mettono i fondamentalisti. GIU' LE MANI DA MIO FIGLIO! (Nota: L'espresso, aprile 2004). Ebbene sì, paventando una serie di domande, e per risolvere la faccenda una volta per tutte, sono andato a vedere La passione di Mel Gibson. Addirittura in anticipo, in un paese straniero (dove almeno lo avevano interdetto ai minori), tanto parlano in aramaico e si capiscono al massimo i Romani che urlano "I!" per dire "smamma! ". Debbo subito dire che questo film, tecnicamente molto ben fatto, non è (come si è discusso sovente a vanvera in queste settimane) né espressione di antisemitismo né di fondamentalismo cristiano, ossessionato da una mistica del sacrificio cruento. E' soltanto uno splatter, un film che intende guadagnare molto denaro offrendo agli spettatori tanto sangue e tanta violenza da far apparire Pulp Fiction un cartone animato per bambini della scuola materna. Caso mai dei cartoni animati alla Tom e Jerry mette a frutto la lezione di una vicenda in cui i personaggi vengono spiaccicati da rulli compressori e si riducono a un cd, cadono da un grattacielo e Si frammentano in mille pezzettini, vengono schiacciati dietro una porta. Con tanto sangue in più, ettolitri di sangue, evidentemente trasportati sul set da molte autobotti, e raccolti mettendo al lavoro i vampiri di tutta la Transilvania. Non è un film religioso. Di Gesù sottintende con disinvoltura quello che si è imparato per la prima comunione, dando per scontato che fosse buono. I suoi rapporti col Padre sono isterici e assolutamente laici, potrebbero essere i rapporti di Charlie Manson con Satana, ma persino Satana appare qua e là sghimbescio travestito da piccolo frocetto, e di fronte a tanto spargimento di globuli rossi alla fine ci rimane male anche lui. D'altra parte l'immagine meno convincente è quella finale della resurrezione, anche quella più da tavola anatomica che da Summa Theologica. Della sublime reticenza dei Vangeli questo film non ha nulla, mette in scena tutto quello che essi tacciono per lasciare i fedeli alla meditazione silenziosa del più grande sacrificio della Storia, e là dove i Vangeli si limitano a dire che Gesù è stato flagellato (tre parole in Matteo, Marco e Giovanni, nessuna in Luca), Gibson lo fa prima battere con le canne, poi con delle cinghie dagli spunzoni di ferro, infine con dei mazzapicchi, sino a che non lo ha ridotto come il suo pubblico immagina debba essere della carne maciullata sino allo spasimo, e cioè come un hamburger mal cotto. L'odio di Gibson per il Nazareno deve essere indicibile, chissà quali antiche repressioni sfoga sul suo corpo sempre più sanguinolento, e cara grazia che la filologia non glielo permetteva, altrimenti gli avrebbe fatto applicare anche degli elettrodi ai testicoli, con un clistere di petrolio per sovrammercato. Così secondo alcuni si dovrebbe provare un sano brivido di fronte al mistero della Salvezza. Sarà. Film antisemita? Certamente se si voleva fare uno splatter sul modello del western dovevano essere chiare le parti: il buono contro i cattivi, e i cattivi dovevano essere così cattivi che più cattivi non si può. Ma se cattivissimi sono i sacerdoti del Tempio ancor più cattivi sono i romani, tipo Pietro Gambadilegno quando inchioda sghignazzando Topolino sulla sedia della tortura. Certo Gibson avrebbe dovuto pensare che a rappresentare come cattivi i romani (d'altra parte ce lo aveva già detto Asterix) non si rischia un incendio del Campidoglio, mentre con gli ebrei, di questi tempi, occorrerebbe procedere con maggior cautela. Ma non si può chiedere a chi fa uno splatter di andare troppo per il sottile. Meno male che ha avuto qualche resipiscenza e ha mostrato tre ebrei e tre romani quasi buoni, colti a tratti da un dubbio (guardano il pubblico come per dire "ma staremo mica esagerando?"), e tuttavia persino la loro perplessità serve ad accentuare l'impressione che tutto in questo film sia insostenibile, se non avete già vomitato vedendo quel che sprizza dal costato. Gibson coglie al balzo l'idea che Gesù debba aver sofferto, e così come Poe pensava che la cosa romanticamente 98
più commovente fosse la morte di una bella donna, intuisce che lo splatter più redditizio sia quello in cui si mette il Figlio di Dio in un tritacarne. Ci riesce benissimo e debbo dire che, quando Gesù finalmente è morto e ha finito di farci soffrire (o godere) e si scatena l'uragano, la terra trema e si squarcia il velo del Tempio, si prova una certa emozione perché in quel momento, sia pure in forma meteorologica, si intravede un soffio di quella trascendenza che al film fa sciaguratamente difetto. Sì, a quel punto il Padre fa sentire la sua voce. Ma lo spettatore di buon senso (e, spero, il credente) avverte che a quel punto il Padre si è incazzato con Mel Gibson. Codicillo Questa mia Bustina di Minerva ha suscitato nel sito Internet dell'Espresso un vastissimo dibattito. Come era pensabile, c'era chi era pro e chi era contro. Ma tra i moltissimi contro (e trascurando quelli che addirittura mi accusavano di essere stato la longa manus della lobby ebraica) la massima parte riteneva che io avessi ironizzato sulla Passione di Cristo (quello storico) non sulla Passione di Gibson. Vale a dire che per costoro era impossibile distinguere tra il Cristo del film e quello dei Vangeli. Non ritenevano di aver visto un attore che impersonava Gesù, bensì Gesù in carne e ossa. Vedere una rappresentazione come la Cosa Stessa è una delle forme moderne dell'idolatria. In ogni caso sono riconoscente a quel lettore che ha scritto: "Caro Umberto, non ti perdonerò mai di avermi raccontato il finale del film" CHI NON CREDE PIU' IN DIO CREDE A TUTTO (Nota: La citazione è attribuita a Chesterton ma The Arnerican Chesterton Society (vedi Internet), che ne riporta varie versioni, la ritiene la sintesi di varie citazioni analoghe, più dettagliate). CREDERE NELL'ANNO ZERO (Nota: L'espresso, gennaio 2000). La fine dell'anno 2000 d.C. si approssima, e sui giornali e persino nel corso delle conversazioni comuni, si accetta ormai come ovvia l'idea che il terzo millennio incominci solo un secondo dopo la mezzanotte del 31 dicembre 2000. Nulla è più labile della memoria massmediatica e forse molti lettori non ricorderanno le furibonde diatribe dell'anno scorso. Una immensa organizzazione commerciale, che andava dalle agenzie di viaggi ai ristoranti e ai produttori di champagne, aveva deciso che con il 31 dicembre 1999 finiva il secondo millennio e l'anno 2000 era il primo del terzo. A nulla erano valse le argomentazioni di matematici che ricordavano come, se si incomincia a contare dall'uno, le cifre con lo zero finale chiudono (e non aprono) le decine, le centinaia e così via. Armando Tomo sul Corriere ha recentemente rifatto tutta la vera storia, ma ha riconosciuto che il fascino del doppio zero è sempre stato tale da convincere per esempio moltissimi a festeggiare l'inizio del ventesimo secolo allo scoccare del primo secondo del 1900 - contro il buon senso e l'aritmetica. E va bene, la forza del doppio zero vince il buon senso, è naturale che la società dei consumi vi abbia speculato, che tutti siano stati felici di festeggiare l'inizio del terzo millennio alla fine del 1999, e che ora attendano il capodanno prossimo venturo con la moderata eccitazione di ogni altro capodanno. La gente è fatta così. Eppure io ricordo che l'anno scorso, per avere ricordato sull'Espresso che non si stava ancora entrando nel terzo millennio, sono stato sepolto da lettere con calcoli complicatissimi per dimostrare che il millennio iniziava un anno fa, scomodando Dionigi il Piccolo e presupponendo (senza rendersene conto) uno strano calendario universale in cui sarebbe esistito un anno Zero (per cui, conseguenza logicamente inevitabile, a dodici mesi dalla nascita Gesù avrebbe compiuto zero anni). E tra coloro che mi hanno scritto non c'erano solo dei creduloni, gli adepti futuri del Grande Fratello, i consumatori di panettoni, i lemming delle isole del Pacifico, ma fior di studiosi, filosofi, linguisti, ermeneuti, aforisti, filologi romanzi, entomologi e archeologi. Come è accaduto che persone così sagge, contro ogni evidenza, volessero con tutto il cuore che il millennio iniziasse con l'anno 2000, anche se non partivano per i Mari del Sud o per le Aleutine onde celebrare nel giro di ventiquattro ore un duplice capodanno? Cerco di capirlo ricordando quando da piccolo, fantasticando sulle pagine di Salgari o d'altri delle meraviglie del 2000, mi domandavo: "Ce la farò a vedere il 2000?". Facevo i miei conti, scoprivo che avrei dovuto raggiungere l'età di sessantotto anni, e mi dicevo: "Non ce la farò, nessuno diventa così vecchio". Ma poi ricordavo di aver conosciuto persone di settant'anni 99
(e avevo sentito dire che il mezzo del cammin di nostra vita è trentacinque anni), per cui ne concludevo che forse, se tutto andava bene, avrei persino potuto farcela. E confesso che l'anno scorso, verso l'autunno, temevo che un subitaneo accidente automobilistico, un infarto, un omicidio colposo, preterintenzionale o volontario, arrestasse, per uno scarto di poche settimane, la mia marcia trionfale verso il terzo millennio. Ho intrattenuto qualche cauto timore sino alle ventitré e quarantacinque del 31 dicembre scorso, poi mi sono seduto con le spalle al muro, evitando persino di affacciarmi alla finestra da cui si vedeva un Big Bang minaccioso di fuochi d'artificio, ho atteso pazientemente il tocco fatale, e solo dopo mi sono dato a dissennate libagioni perché ormai, anche se morivo subito dopo, ce l'avevo fatta. Ecco la spiegazione. Per ragioni numerologiche, almeno per quelli delle generazioni più vetuste, il sopravvivere al 2000 era vincere una corsa contro la morte. E dunque era ovvio che si facesse di tutto per anticipare il traguardo. Gesto furbastro (ancorché incosciente), ma per vincere la morte si fa questo e altro e nel Settimo sigillo si tentava persino una disperata partita a scacchi. CREDERE ALL'ALCHIMIA (Nota: L'espresso, marzo 2001). Che cosa irrita nello spirito new age? Non tanto che qualcuno creda alla influenza degli astri, perché ci hanno creduto in molti. Né che si ritenga Stonehenge un prodigio di magia astrale. E' vero che, ai tempi in cui alcuni avevano già inventato la meridiana, non era poi così incredibile che altri orientassero le pietre secondo il sorgere e il tramontare del sole, ma fa sempre effetto scoprire che guardavano il sole meglio di noi. No, quello che irrita nello spirito new age è il sincretismo. E il sincretismo (al suo stato brado) non consiste nel credere in una cosa, ma nel credere in tutte, anche se sono in contraddizione tra loro. Il rischio del sincretismo è sempre in agguato, ed ecco che me lo ritrovo sul Corriere della Sera del 23 febbraio, in due articoli di Cesare Medail affiancati sulla stessa pagina. Si noti che, presi individualmente, i due articoli sono corretti. Uno parte da un libro di Michael White, Newton, pubblicato da Rizzoli. Il libro concede molto al sensazionalismo, presenta come notizie inedite cose già note agli studiosi, sbaglia nel citare i titoli di libri celebri, fa credere che Cornelio Agrippa e Johannes Valentin Andreae scrivessero in inglese, prende per buona la leggenda che San Tommaso si occupasse di alchimia, ma racconta in modo avvincente che il padre della scienza moderna, Newton, non solo aveva forti interessi che oggi diremmo esoterici, ma che era arrivato alle sue grandi scoperte fisico-matematiche proprio perché credeva che il mondo fosse governato da forze occulte. Esatto. In un colonnino a lato Medail parla del rinato interesse per gli antichi libri di alchimia, e cita come esempio del ritorno di questi temi alcuni volumi delle Edizioni Mediterranee, che da anni pubblicano libri che soddisfano le attese di chi all'alchimia ci crede ancora oggi (prova ne sia che ci ripropongono quel vecchio matto di Fulcanelli). Pubblicano anche libri di studiosi seri, talvolta, ma il sincretismo funziona così: che, messi nel mucchio, anche i libri seri sembrano confermare quello che dicono quelli meno seri. Qual è l'impressione di sincretismo che nasce dall'accostamento dei due articoli? Che siccome gli occultisti hanno ispirato la ricerca scientifica di Newton, dunque dicevano qualcosa che può interessare seriamente anche noi, oggi. E questo è un cortocircuito che può sedurre il lettore ingenuo. La scoperta dell'America è stata ispirata dalla convinzione che a navigare verso ponente si arrivasse alle Indie. Una scoperta buona fatta per ragioni sbagliate è un caso di serendipità. Ma che Colombo sia arrivato in America non è la prova che si potesse facilmente "buscare" il levante per la via di ponente. Al contrario, la scoperta di Colombo insegna che, per arrivare alle Indie, si fa prima a passare dell'altra parte. L'esplorazione portoghese dell'Africa è stata mossa dall'idea che in Etiopia esistesse il favoloso regno del potentissimo Prete Gianni. Si è creduto di identificarlo con l'Abissinia, ma così facendo abbiamo appurato che il Prete Gianni non c'era (e che quello che si era trovato in Etiopia era così poco potente da farsi poi conquistare dal maresciallo Badoglio). E così dicasi per il mito della Terra Australe. Ha indotto a scoprire l'Australia, ma al tempo stesso a convincere che non esisteva una terra che avrebbe dovuto coprire tutta la calotta Sud del pianeta. Non sempre due cose possono essere vere allo stesso tempo. Grazie agli alchimisti, Newton ci ha proprio dimostrato che gli alchimisti non avevano ragione. Il che non esclude che continuino ad affascinare tanto me quanto Medail, e tanti altri. Ma mi affascinano anche Fantomas, Topolino e Mandrake, eppure so benissimo che non esistono. CREDERE A PADRE AMORTH (Nota: L'espresso, dicembre 2001). Su Harry Potter avevo scritto una Bustina quasi due anni fa, quando erano già apparse le prime tre storie e il 100
mondo anglosassone era stato agitato dalla discussione se fosse diseducativo raccontare ai ragazzi queste storie di magia che avrebbero potuto indurli a prendere sul serio molti vaneggiamenti occultistici. Ora che, con il film, il fenomeno Harry Potter sta diventando veramente qualcosa di globale, mi è accaduto di vedere un Porta a porta dove da un lato appariva il mago Otelma, felicissimo per questa propaganda in favore dei signori come lui (tra l'altro, si presentava vestito in modo così "magoso" che neppure Ed Wood avrebbe osato farlo apparire in un suo film dell'orrore) e un insigne esorcista come padre Amorth (nomen omen) per il quale le storie di Potter veicolano idee diaboliche. Per capirci, mentre la maggioranza delle altre assennate persone presenti in trasmissione ritenevano che magia bianca e magia nera fossero panzane (se pure sono da prendere sul serio coloro che vi credono), il padre esorcista prendeva sul serio ogni forma di magia (bianca, nera e forse persino a pallini) come opera del Maligno. 1. Se questo è il clima, credo di dover tornare a spezzare una lancia in favore di Harry Potter. Queste storie sono sì storie di maghi e stregoni, ed è ovvio che abbiano successo perché ai bambini sono sempre piaciuti fate, nani, draghi e negromanti, eppure nessuno ha mai pensato che Biancaneve fosse effetto di un complotto di Satana; ma esse hanno ottenuto il successo che ancora ottengono perché la loro autrice (non so se per coltissimo calcolo, o per istinto prodigioso) ha saputo rimettere in scena alcune situazioni narrative veramente archetipe. Harry Potter è figlio di due maghi buonissimi uccisi dalle forze del male, ma all'inizio non lo sapeva, e viveva da orfanello mal sopportato presso zii tirannici e meschini. Poi gli sono state rivelate la sua natura e la sua vocazione ed è andato a studiare in un collegio per giovani maghi di ambo i sessi dove gli accadono mirabolanti avventure. Ed ecco il primo schema classico: prendete una giovane e tenera creatura, fategliene patire di cotte e di crude, rivelategli infine che era un rampollo di razza, destinato a destini luminosi, e immediatamente avete non solo il Brutto Anatroccolo e Cenerentola, ma Oliver Twist e il Rémy di Senza famiglia. Inoltre il collegio di Hogwarts, in cui Harry va a studiare come fare pozioni magiche, assomiglia a tanti altri college inglesi, dove si gioca uno di quegli sport anglosassoni che affascinano i lettori oltre Manica perché ne intuiscono le regole, e quelli continentali perché non le capiranno mai. Un'altra situazione archetipa è quella dei ragazzi della Via Pál, ma c'è anche qualcosa del Giornalino di Gian Burrasca, coi piccoli studenti che si riuniscono in conventicola contro professori eccentrici (e alcuni perversi). Si aggiunga che i ragazzi giocano cavalcando scope volanti, ed ecco che abbiamo anche Mary Poppins e Peter Pan. Infine, Howgarts sembra uno di quei castelli misteriosi di cui leggevamo nella Biblioteca dei miei Ragazzi di Salani (lo stesso editore italiano di Harry Potter), dove un gruppo affiatato di fanciulli coi calzoni corti e fanciulle coi lunghi capelli d'oro, smascherando le manovre di un intendente disonesto, di uno zio corrotto, di una banda di furfanti, scopriva alla fine un tesoro, un documento perduto, una cripta dei segreti. Se in Harry Potter appaiono incantesimi da brivido e animali spaventevoli (la storia si rivolge pur sempre a bambini cresciuti sui mostri di Rambaldi e sui cartoni animati giapponesi), quei ragazzi lottano però per buone cause come i Tre boy scout, e ascoltano educatori virtuosi, così da sfiorare (fatte tutte le tare storiche) il buonismo di Cuore. Pensiamo davvero che, leggendo storie di magia, i bambini, una volta adulti, crederanno alle streghe (e così pensano, come un sol uomo, se pure con opposti sentimenti, il mago Otelma e padre Amorth)? Tutti abbiamo provato un salutare spavento di fronte a orchi e lupi mannari, ma da grandi abbiamo imparato a non temere le mele avvelenate bensì il buco nell'ozono. Da piccini tutti abbiamo creduto che i bambini nascessero sotto i cavoli, ma questo non ci ha poi impedito, da adulti, di adottare un sistema più acconcio (e più gradevole) per produrli. Il vero problema non è rappresentato dai bambini, che nascono credendo al Gatto e alla Volpe ma poi imparano a preoccuparsi di ben altri e meno fantastici arruffoni; il problema preoccupante è quello dei grandi, forse di quelli che da bambini non leggevano storie di magia, che sovente le trasmissioni televisive inducono a consultare i lettori dei fondi di caffè, i taroccatori di tarocchi, i celebranti di messe nere, gli indovini, i guaritori, i manipolatori di tavolini, i prestidigitatori dell'ectoplasma, i rivelatori del mistero di Tutankamen. Poi finisce che a forza di credere ai maghi tornano a dar fiducia anche ai Gatti e alle Volpi. CREDERE AI SENSITIVI (Nota: L'espresso, gennaio 2002). Se la vostra situazione economica non vi soddisfa e volete cambiare mestiere, quella del veggente è un'attività tra le più redditizie e (contrariamente a quello che potreste pensare) tra le più facili. Basta avere una certa carica di simpatia, una minima capacità di capire gli altri e un poco di pelo sullo stomaco. Ma anche senza queste doti, c'è sempre la statistica che lavora per voi. Provate a fare questo esperimento: avvicinate una persona qualsiasi, anche scelta a caso (ma certamente aiuta se la persona è ben disposta a verificare le vostre qualità paranormali). Guardatela negli occhi e ditele: "Sento che 101
qualcuno sta pensando intensamente a lei, è qualcuno che non vede da tanti anni, ma che un tempo ha amato moltissimo, soffrendo perché non si sentiva corrisposto... Ora questa persona si sta rendendo conto di quanto l'ha fatta soffrire, e si pente, anche se capisce che è troppo tardi..." Può esistere una persona al mondo, se proprio non è un bambino, che nel passato non abbia avuto un amore infelice, o comunque non sufficientemente ricambiato? Ed ecco che il vostro soggetto sarà il primo a correre in vostro aiuto e a collaborare con voi, dicendovi di aver individuato la persona di cui voi captate così nitidamente il pensiero. Potete anche dire a qualcuno "c'è una persona che la sottovaluta, e parla male di lei in giro, ma lo fa per invidia". Difficilissimo che il vostro soggetto vi risponda che è ammiratissimo da tutti e non ha proprio idea di chi sia questa persona. Sarà piuttosto pronto a individuarla immediatamente e ad ammirare le vostre capacità di percezione extrasensoriale. Oppure, dichiarate di poter vedere accanto ai vostri soggetti i fantasmi dei loro cari scomparsi. Avvicinate una persona di una certa età e ditele che le vedete accanto l'ombra di una persona anziana, che è morta per qualcosa al cuore. Qualsiasi individuo vivente ha avuto due genitori e quattro nonni e se siete fortunati anche qualche zio o padrino o madrina carissimi. Se il soggetto ha già una certa età è facilissimo che questi suoi cari siano già morti, e su un minimo di sei defunti uno che sia morto per insufficienza cardiaca ci dovrebbe essere. Se poi siete proprio sfortunati, siccome avrete avuto l'accortezza di abbordare il soggetto tra altri egualmente interessati alle vostre virtù paranormali, dite che forse vi siete sbagliati, che quello che vedete non è forse un parente del vostro interlocutore, ma di qualcun altro che gli sta vicino. E' quasi certo che uno tra i presenti incomincerà a dire che si tratta di suo padre o di sua madre, e a questo punto siete a posto, potete parlare del calore che quell'ombra sta emanando, dell'amore che prova per colui o colei che è ormai diventato pronto o pronta a tutte le vostre seduzioni... I lettori accorti avranno individuato le tecniche di alcuni personaggi assai carismatici che appaiono anche in trasmissioni televisive. Nulla è più facile che convincere un genitore che ha appena perduto il figlio, o chi piange ancora la morte della madre, o del marito, che quell'anima buona non si è dissolta nel nulla e che invia ancora messaggi dall'aldilà. Ripeto, fare il sensitivo è facile, il dolore e la credulità degli altri lavorano per voi. A meno, naturalmente, che non ci sia nei paraggi qualcuno del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, di cui potete avere notizie al sito www.cicap org, o leggendo la rivista Scienza ~ Paranormale. I ricercatori del Cicap vanno infatti a caccia di fenomeni che si pretendono paranormali (dai poltergeist alla levitazione, dai fenomeni medianici ai cerchi nei campi di grano, dagli ufo alla rabdomanzia, senza trascurare fantasmi, premonizioni, piegamento di forchette per mezzo della mente, lettura dei tarocchi, madonne piangenti, santi con le stimmate ecc.) e ne smontano il meccanismo, ne mostrano il trucco, spiegano scientificamente quello che appare miracoloso, spesso rifanno l'esperimento per dimostrare che, conoscendo i trucchi, tutti possono diventare maghi. Due segugi del Cicap sono Massimo Polidoro e Luigi Garlaschelli, che ora pubblicano congiuntamente (ma antologizzando anche testi di altri collaboratori del Cicap) Investigatori dell'occulto. Dieci anni di indagine sul paranormale (Roma, Awerbi) dove (se non siete di coloro che piangono quando gli rivelano che Babbo Natale non esiste) leggerete molte storie divertenti. Ma esito a parlare di divertimento. Il fatto che il Cicap debba darsi tanto da fare significa che la credulità è più diffusa di quanto non si pensi, e alla fin fine di questo libro circoleranno alcune migliaia di copie, mentre quando Rosemary Altea appare in televisione giocando sul dolore altrui, la cosa viene seguita da milioni e milioni di persone. Chi si può rimproverare dicendo che così si diseduca la gente? L'udienza è udienza. CREDERE AI TEMPLARI (Nota: L'espresso, dicembre 2004). Fate nascere un ordine monastico-cavalleresco, fatelo diventare straordinariamente potente sia militarmente che economicamente. Trovate un re che voglia sbarazzarsi di quello che è ormai diventato uno stato nello Stato. Individuate gli inquisitori adatti, che sappiano raccogliere voci sparse e comporle in un mosaico terribile: un complotto, crimini immondi, innominabili eresie, corruzione e una buona dose di omosessualità. Arrestate e torturate i sospetti. Chi ammette e si pente avrà salva la vita, chi si dichiara innocente finirà sul patibolo. I primi a legittimare la costruzione inquisitoriale saranno le vittime, specie se innocenti. Infine, incamerate gli immensi beni dell'Ordine. Questo fondamentalmente ci insegna il processo intentato ai Cavalieri Templari da Filippo il Bello. Segue la storia del mito templare. Immaginate che molti siano rimasti scossi da questo processo e, oltre ad avvertirne l'ingiustizia, come accadde persino a Dante, siano rimasti affascinati dalle dottrine segrete attribuite ai Templari e colpiti dal fatto che la maggior parte dei Cavalieri non fosse perita sul rogo e allo scioglimento dell'ordine si fosse come dissolta. All'interpretazione scettica (con la paura che si erano presi hanno cercato di rifarsi 102
una vita altrove, in silenzio) si può opporre l'interpretazione occultistica e romanzesca: sono entrati in clandestinità, ci sono attivamente restati per sette secoli, Essi sono ancora tra noi. Niente è più facile che trovare un libro sui Templari. L'unico inconveniente è che nel novanta per cento dei casi (mi correggo, novantanove) si tratta di bufale, perché nessun argomento ha mai maggiormente ispirato le mezze calzette di tutti i tempi e di tutti i paesi quanto la vicenda templare. E via con la continua rinascita dei Templari, con la loro costante presenza dietro le quinte della Storia, tra sette gnostiche, confraternite sataniche, spiritisti, ordini pitagorici, rosacrociani, illuminati massoni e Priorato di Sion. Talora la bufala è così smaccata, come nel caso de Il Santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln, che l'evidente e spregiudicata malafede degli autori consente almeno al lettore dotato di buon senso di leggere l'opera come divertente esempio di fantastoria. Come sta avvenendo ora con il Codice da Vinci, che scopiazza e rielabora tutta la letteratura precedente. Ma stiamo attenti, perché poi migliaia di lettori creduli vanno a visitare il teatro di un'altra bufala storica, il paesino di Rennes-le-Chateau. L'unico modo per riconoscere se un libro sui Templari è serio è controllare se finisce col 1314, data in cui il loro Gran Maestro viene bruciato sul rogo. Tra i libri che si arrestano a quella data era uscito da Einaudi nel 1991 I templari di Peter Partner. Ora il Mulino pubblica I Templari di Barbara Frale, una studiosa che ha dedicato anni di lavoro e altre opere a questo argomento. Sono meno di duecento pagine, e si leggono con gusto. Ricchissima la bibliografia (seria) Barbara Frale non si scandalizza troppo per certi aspetti successivi del mito templare, anzi ne vede con qualche simpatia certi svolgimenti romanzeschi (ai quali dedica però solo due paginette conclusive), ma tanto perché possono suscitare nuove serie ricerche su tanti aspetti ancora oscuri della "vera" storia dei Templari. Per esempio, c'era davvero un rapporto tra i Templari e il culto del Graal? Non si può escludere, visto che persino un loro contemporaneo, Wolfram von Eschenbach, ne favoleggiava. Ma osserverei che i poeti, teste Orazio, sono autorizzati a fantasticare, e uno studioso del prossimo millennio che trovasse un film d'oggi che attribuisce a tale Indiana Jones la scoperta dell'Arca dell'Alleanza non avrebbe ragioni per trarre da questa divertente invenzione alcuna conclusione storiograficamente corretta. Quanto al fatto che però l'antica vicenda non sia ancora del tutto chiara, Barbara Frale accenna ad alcune sue recenti scoperte in archivi vaticani che indurrebbero a vedere in modo nuovo il ruolo della Chiesa nel processo. Ma, per lo sconforto di chi ancora oggi esibisce talora un biglietto da visita che lo qualifica come Templare, ricorda che Clemente V, al momento della sospensione dell'ordine, aveva messo fuorilegge qualsiasi tentativo di ripristinarlo senza il consenso pontificio, lanciando addirittura la scomunica contro chiunque utilizzasse il nome e i segni distintivi del Tempio. D'altra parte, nel 1780, argomenti del genere usava Joseph de Maistre per liquidare i neotemplaristi dei tempi suoi. L'Ordine Templare esisteva in quanto riconosciuto dalla Chiesa e dai vari stati europei, e come tale era stato formalmente disciolto all'inizio del 14esimo secolo. Punto. Da quel momento, visto che nessuno ne possiede più il copyright, ciascuno ha il diritto di rifondarlo, nello stesso senso in cui chiunque può dichiararsi sommo sacerdote di Iside e Osiride, e al governo egiziano la cosa non fa né caldo né freddo. CREDERE A DAN BROWN (Nota: L'espresso, agosto 2005). Ogni giorno mi capita tra le mani un nuovo commento al Codice da Vinci di Dan Brown. Parlo solo dei libri in italiano, perché non sarei in grado di fornire una bibliografia di tutto quello che appare nel mondo. Solo in Italia potrei citare José Antonio Ullate Fabo, Contro il Codice da Vinci (Sperling), Bart Ehmman, La verità sul Codice da Vinci (Mondadori), Darrell L. Bock, Il Codice da Vinci. Verità e menzogne (Armenia), Andrea Tornielli, "Inchiesta sulla Resurrezione» (Il Giornale), I segreti del Codice (Sperling), ma certamente trascuro qualcosa. D'altra parte, se volete un'informazione aggiornata su tutti gli articoli in materia, andate al sito dell'Opus Dei. Vi potete fidare, anche se siete atei. Caso mai, come vedremo, la questione è perché il mondo cattolico si dia tanto da fare per smantellare il libro di Dan Brown, ma quando da parte cattolica vi si spiega che tutte le notizie che contiene sono false, fidatevi. Intendiamoci. Il Codice da Vinci è un romanzo, e come tale avrebbe il diritto di inventare quello che vuole. Oltretutto è scritto con abilità e lo si legge d'un fiato. Né è grave che l'autore all'inizio ci dica che quello che racconta è verità storica. Figuriamoci, il lettore professionista è abituato a questi appelli narrativi alla verità, fanno parte del gioco finzionale. Il guaio comincia quando ci si accorge che moltissimi lettori occasionali hanno creduto davvero a questa affermazione, così come nel teatro dei pupi gli spettatori insultavano Gano di Maganza. Per smontare la presunta storicità del Codice basterebbe un articolo abbastanza breve (e ne sono stati scritti di ottimi) che dica due cose. La prima è che tutta la vicenda di Gesù che sposa la Maddalena, del suo viaggio in Francia, della fondazione della dinastia merovingia e del Priorato di Sion è paccottiglia che circolava da decenni in una pletora di libri e libretti per i devoti di scienze occulte, da quelli di Gilbert de Sède su Rennes-le-Chateau a Il Santo Graal di Baigent, Leigh 103
e Lincoln. Ora, che tutto questo materiale contenesse sequele di panzane è stato detto e dimostrato da tempo. Inoltre pare che Baigent, Leigh e Lincoln abbiano minacciato (o realmente iniziato) un'azione legale contro Brown per plagio. Ma come? Se io scrivo una biografia di Napoleone (raccontando eventi reali), poi non posso denunciare per plagio qualcuno che di Napoleone scrive un'altra biografia, sia pure romanzata, raccontando gli stessi eventi storici. Se lo faccio, allora lamento il furto di una mia originalissima invenzione (ovvero fantasia, o frottola che dir si voglia). La seconda cosa è che Brown dissemina il suo libro di numerosi errori storici, come quello di andare a cercare informazioni su Gesù (che la Chiesa avrebbe censurato) nei manoscritti del Mar Morto - i quali non parlano affatto di Gesù bensì di faccende ebraiche come gli esseni. Brown confonde i manoscritti del Mar Morto con quelli di Nag Hammadi. Ora, accade che la maggior parte dei libri che appaiono sul caso Brown, anche e specialmente quelli ben fatti (e cito l'ultimo, molto documentato, appena apparso presso Mondadori, Inchiesta sul Codice da Vinci, di Etchegoin e Lenoir), per poter durare il numero sufficiente di pagine a fare un libro, raccontano tutto quello che Brown ha saccheggiato, per filo e per segno. In tal modo questi libri, in qualche misura perversa, benché siano scritti per denunciare delle falsità, contribuiscono a far circolare e ricircolare tutto quel materiale occulto. Così (assumendo l'interessante ipotesi – che qualcuno ha veramente avanzato - che Il Codice sia un complotto satanico), ogni sua confutazione ne riproduce le insinuazioni, a cui fa da megafono. Come complotto è ben riuscito, non c'è che dire. Perché, anche a confutarlo, Il Codice si autoriproduce? Perché la gente è assetata di misteri (e di complotti) e basta che le offri la possibilità di pensarne uno in più (e persino nel momento in cui le dici che era l invenzione di alcuni furbacchioni) ed ecco che tutti incominciano a crederci. Credo sia questo che preoccupa la Chiesa. La credenza nel Codice (e in un Gesù diverso) è un sintomo di scristianizzazione. Quando la gente non crede più in Dio, diceva Chesterton, non è che non creda più a nulla, crede a tutto. Persino ai mass-media. So di esprimere soltanto una sensazione, ma sono stato colpito dalla figura di un giovane imbecille che in Piazza San Pietro, mentre una folla immensa attendeva la notizia della morte del Papa, col telefonino all'orecchio e il volto sorridente faceva ciao ciao alla telecamera. Perché era lì (perché tanti altri come lui, mentre forse milioni di veri credenti stavano a casa propria a pregare)? Nella sua attesa di un soprannaturale mediatico, non era forse pronto, lui, a credere che Gesù avesse sposato la Maddalena e fosse unito a Jean Cocteau dal legame mistico e dinastico del Priorato di Sion? CREDERE ALLA TRADIZIONE (nota: L'espresso, luglio 2004). Che cosa siano esattamente i buchi neri molti lettori non lo sanno, e francamente anch'io riesco a immaginarmeli solo come quel luccio di Yellow Submarine che divorava tutto ciò che gli stava intorno e alla fine ingoiava se stesso. Ma per capire il senso della notizia da cui prendo le mosse, non è necessario saperne di più, salvo comprendere che si tratta di uno dei problemi più controversi e appassionanti dell'astrofisica contemporanea. Ora, si apprende dai giornali che il celebre scienziato Stephen Hawking (forse più noto al grande pubblico non tanto per le sue scoperte quanto per la forza e determinazione con cui ha lavorato tutta la vita malgrado una terribile infermità che avrebbe ridotto un altro a un vegetale) ha fatto un annuncio a dir poco sensazionale. Ritiene di aver commesso un errore nell'enunciare negli anni settanta la sua teoria dei buchi neri e si prepara ad apparire di fronte a un consesso scientifico per proporne le dovute correzioni. A chi pratica le scienze questo comportamento non pare per niente eccezionale, se non per la fama di cui gode Hawking, ma ritengo che l'episodio dovrebbe essere portato all'attenzione dei giovani di ogni scuola non fondamentalista e non confessionale per riflettere su quali siano i principi della scienza moderna. I mezzi di massa mettono sovente sotto processo la scienza, ritenuta responsabile dell'orgoglio luciferino con cui l'umanità procede verso la sua possibile distruzione, e nel fare ciò confondono evidentemente la scienza con la tecnologia. Non è la scienza che è responsabile degli armamenti atomici, del buco dell'ozono, della liquefazione dei ghiacci e via dicendo: la scienza caso mai è ancora quella capace di avvertirci dei rischi che corriamo quando, usando magari i suoi principi, ci affidiamo a tecnologie irresponsabili. Ma nelle condanne che si odono o leggono sovente circa le ideologie del progresso (o il cosiddetto spirito dell'illuminismo) si identifica spesso lo spirito della scienza con quello di certe filosofie idealistiche del diciannovesimo secolo, per cui la Storia procede sempre verso il meglio e verso la realizzazione trionfante di se stessa, dello Spirito o di qualche altro motore propulsivo che marcia sempre verso Fini Ottimali. E in fondo quanti (almeno della mia generazione) rimanevano sempre dubbiosi leggendo manuali idealistici di filosofia, dai quali emergeva che ogni pensatore che veniva dopo aveva capito meglio (ovvero "inverato") il poco scoperto da quelli che 104
venivano prima (come a dire che Aristotele era più intelligente di Platone)? E' verso questa concezione della Storia che si scagliava Leopardi quando ironizzava sulle "magnifiche sorti e progressive". Di converso, e specie di questi tempi, per sostituire tante ideologie in crisi, si civetta sempre più con quello che si chiama il pensiero della Tradizione, secondo cui non è che noi, nel corso della Storia, ci si avvicini sempre più alla Verità, bensì avviene il contrario: tutto quello che c'era da capire lo avevano capito le antiche civiltà, ormai scomparse, ed è solo tornando umilmente a quel tesoro tradizionale e immutabile che potremo riconciliarci con noi stessi e col nostro destino. Nelle versioni più smaccatamente occultistiche del pensiero tradizionale, la Verità era quella coltivata da civiltà di cui abbiamo perso notizia, quella della Atlantide inghiottita dal mare, della razza iperborea di ariani purissimi che vivevano su una calotta polare eternamente temperata, dei saggi di un'India perduta, e altre piacevolezze che, essendo indimostrabili, permettono a filosofastri e a romanzieri d'appendice di ricuocere sempre la stessa spazzatura ermetica per il sollazzo delle folle estive e dei sofi da strapazzo. Ma la scienza moderna non è quella che crede che il Nuovo abbia sempre ragione. Al contrario, si fonda sul principio del "fallibilismo" (già enunciato da Peirce, ripreso da Popper e da tanti altri teorici) per cui la scienza procede correggendo continuamente se stessa, falsificando le sue ipotesi, per tentativo ed errore, ammettendo i propri sbagli e considerando che un esperimento andato male non è un fallimento, ma vale tanto quanto un esperimento andato bene, perché prova che una certa via che si stava battendo era errata e bisognava o correggere o addirittura ricominciare da capo. Che è poi quello che sosteneva secoli fa l'Accademia del Cimento, il cui motto era "provando e riprovando" - e "riprovare" non significava provare di nuovo, che sarebbe il meno, ma respingere (nel senso della riprovazione) quello che non poteva essere sostenuto alla luce della ragionevolezza e dell'esperienza. Questo modo di pensare si oppone, come dicevo, a ogni fondamentalismo, a ogni interpretazione letterale dei testi sacri - anch'essi continuamente rileggibili -, a ogni sicurezza dogmatica delle proprie idee. Questa è la buona "filosofia", nel senso quotidiano e socratico del termine, che la scuola dovrebbe insegnare. CREDERE NEL TRISMEGISTO (Nota: L'espresso, maggio 2005). Sino a oggi chi voleva studiarsi il Corpus Hermeticum (su un'edizione critica, con testo a fronte, non attraverso le innumerevoli confezioni da strapazzo che circolano nelle librerie di scienze occulte) aveva a disposizione la classica edizione delle Belles Lettres, a cura di Nock e Festugière, apparsa tra 1945 e 1954 (un'edizione precedente era quella di Scott, Oxford, 1924, in traduzione inglese). E' bella impresa editoriale che oggi il Corpus appaia da Bompiani, nella collana diretta da Giovanni Reale, riprendendo sì l'edizione critica delle Belles Lettres ma aggiungendovi cose che Nock e Festugière non potevano conoscere e cioè alcuni testi ermetici dai codici di Nag Hammadi - di cui la curatrice Ilaria Ramelli ci offre a fronte, per chi volesse proprio controllare, il testo copto. Anche se queste 1500 pagine vengono offerte a soli 35 euro, sarebbe snobistico consigliarle come un libro che tutti possono divorarsi prima di prender sonno. E' un insostituibile e prezioso strumento di studio, ma coloro che degli scritti ermetici volessero soltanto assaporare il profumo potrebbero accontentarsi all'edizione di uno solo di questi, il Poimandres, cento paginette edite da Marsilio nel 1987. La storia del Corpus Hermeticum è in ogni caso appassionante. Si tratta di una serie di scritti attribuiti al mitico Ermete Trismegisto - il dio egizio Toth, Hermes per i greci e Mercurio per i romani, inventore della scrittura e del linguaggio, della magia, dell'astronomia, dell'astrologia, dell'alchimia, e in seguito addirittura identificato con Mosè. Naturalmente questi trattati erano opera di autori diversi, vissuti in un ambiente di cultura greca nutrita di qualche spiritualità egizia, con riferimenti platonici, tra secondo e terzo secolo d.C. Che gli autori siano diversi è ampiamente dimostrato dalle numerose contraddizioni che si trovano tra i vari libelli, e che fossero filosofi ellenizzanti e non preti egizi è suggerito dal fatto che nei trattatelli non appaiono riferimenti consistenti né alla teurgia né ad alcuna forma di culto di tipo egizio. Che questi testi potessero avere un fascino su molte menti assetate di nuova spiritualità è dovuto al fatto che, come annota Nock nella sua prefazione, rappresentavano "un mosaico di idee antiche, spesso formulate per mezzo di allusioni brevi... e prive di logica nel pensiero quanto erano prive della purezza classica nella lingua". Come vedete (accade anche per molti filosofi moderni) il borborigmo è fatto apposta per scatenare la deriva infinita delle interpretazioni. Questi trattatelli (salvo uno, l'Asclepius, che da secoli circolava in latino) erano rimasti a lungo dimenticati sino a che un loro manoscritto non era pervenuto a Firenze nel 1460, in periodo umanistico, proprio quando ci si volgeva a una saggezza antica e precristiana. Affascinato, Cosimo de' Medici ne aveva affidato la traduzione a Marsilio 105
Ficino, che aveva intitolato l'opera Pimander, dal nome del primo trattatello, e l'aveva presentata come opera autentica del Trismegisto, fonte della più antica delle sapienze a cui non solo lo stesso Platone, ma la stessa rivelazione cristiana avevano attinto. Ed ecco che inizia la straordinaria fortuna e influenza culturale di questi scritti. Come diceva Frances Yates nel suo libro su Giordano Bruno, "questo enorme errore storico era destinato a produrre risultati sorprendenti". Però nel 1614 il filologo ginevrino Isaac Casaubon aveva dimostrato con argomenti inoppugnabili che il Corpus altro non era che una raccolta di scritti tardo ellenistici - come ormai oggi nessuno studioso serio mette in dubbio. Ma la storia veramente straordinaria è che la denuncia di Casaubon è rimasta confinata agli ambienti degli studiosi, senza però scalfire di un millimetro l'autorità del Corpus. Basta vedere lo sviluppo di tutta la letteratura occultistica, cabalistica, mistica e - appunto - "ermetica" dei secoli successivi (sino a insospettabili autori del nostro tempo): si è continuato a considerare il Corpus come prodotto, se non proprio del divino Trismegisto, almeno di sapienza arcaica su cui giurare come sul Vangelo. La storia del Corpus mi tornava in mente un mese fa, quando era apparso The Plot di Will Eisner (New York, Norton): Eisner, uno dei geni del fumetto contemporaneo (scomparso proprio mentre il libro era in bozze) racconta per testo e immagini la storia dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ma la parte più interessante del suo racconto non è tanto quella della fabbricazione di questo falso antisemita, ma proprio quello che è accaduto dopo, quando nel 1921 è stato dimostrato e scritto dappertutto che si trattava di un falso. E' esattamente da allora che i Protocolli hanno intensificato la loro circolazione in tutti i paesi e sono stati presi ancora più sul serio. Segno che, si tratti di Ermete o dei Savi di Sion, la differenza tra vero e falso non interessa chi parte già dal pregiudizio, dalla voglia, dall'ansia che gli venga rivelato un mistero, qualche sconvolgente preludio in cielo o all'inferno. CREDERE NEL TERZO SEGRETO (Nota: L'espresso, luglio 2000). Leggendo nei giorni scorsi il documento di suor Lucia sul terzo segreto di Fatima avvertivo un'aria di famiglia. Poi ho capito: quel testo, che la buona suora scrive non da piccina analfabeta, ma nel 1944, ormai monaca aclulta, è intessuto di citazioni riconoscibilissime dall'Apocalisse di San Giovanni. Dunque Lucia vede un angelo con una spada di fuoco che sembra voler incendiare il mondo. L'Apocalisse di angeli che spargono fuoco nel mondo parla per esempio in 9,8, a proposito dell'angelo della seconda tromba. E vero che questo angelo non ha una spada fiammeggiante, ma vedremo dopo da dove viene forse la spada (a parte il fatto che di arcangeli con la spada infuocata l'iconografia tradizionale è abbastanza ricca). Poi Lucia vede la luce divina come in uno specchio: qui il suggerimento non viene dall'Apocalisse, ma dalla prima epistola di San Paolo ai Corinzi (le cose celesti le vediamo ora per speculum e solo dopo le vedremo faccia a faccia). Dopo di che ecco un vescovo vestito di bianco: è uno solo, mentre nell'Apocalisse di servi del signore biancovestiti, votati al martirio, ne appaiono a varie riprese (in 6,11, in 7,9, e in 7,14), ma pazienza. Quindi si vedono vescovi e sacerdoti salire una montagna ripida, e siamo ad Apocalisse 6,12, dove sono i potenti della Terra che si nascondono tra le spelonche e i massi di un monte. Quindi il santo padre arriva in una città "mezzo in rovina", e incontra sul suo cammino le anime dei cadaveri: la città è menzionata in Apocalisse 11,8, cadaveri compresi, mentre crolla e cade in rovina in 11,13 e ancora, sotto forma di Babilonia, in 18,19. Andiamo avanti: il vescovo e molti altri fedeli vengono uccisi da soldati con frecce e armi da fuoco e, se per le armi da fuoco suor Lucia innova, massacri con armi puntute sono compiuti da cavallette con corazza di guerriero in 9,7, al suonare della quinta tromba. Si arriva finalmente ai due angeli che versano sangue con un innaffiatoio (in portoghese un regador) di cristallo. Ora di angeli che spargono sangue l'Apocalisse abbonda, ma in 8,5 lo fanno con un turibolo, in 14,20 il sangue trabocca da un tino, in 16,3 viene versato da un calice. Perché un innaffiatoio? Ho pensato che Fatima non è molto lontana da quelle Asturie dove nel Medioevo sono nate le splendide miniature mozarabiche dell'Apocalisse, più volte riprodotte. E quivi appaiono angeli che lasciano cadere sangue a zampilli da coppe di fattura imprecisa, proprio come se innaffiassero il mondo. Che abbia giocato nella memoria di Lucia anche la tradizione iconografica è suggerito da quell'angelo con la spada di fuoco dell'inizio, perché in quelle miniature talora le trombe che gli angeli impugnano appaiono come lame scarlatte. La cosa interessante è che (se non ci si limitava ai riassunti dei giornali e si leggeva tutto il commento teologico del cardinal Ratzinger) Si poteva vedere che questo onest'uomo, mentre si adopera a ricordare che una visione privata non è materia di fede, e che un'allegoria non è un vaticinio da prendere alla lettera, ricorda esplicitamente le analogie con l'Apocalisse. Non solo, precisa che in una visione il soggetto vede le cose "con le modalità a lui accessibili di rappresentazione e 106
conoscenza", per cui "l'immagine può arrivare solo secondo le sue misure e possibilità . Il che, detto un poco più laicamente (ma Ratzinger intitola il paragrafo alla "struttura antropologica" della rivelazione), significa che, se non esistono archetipi junghiani, ciascun veggente vede ciò che la sua cultura gli ha insegnato. I PACS E IL CARDINAL RUINI (Nota: L'espresso, settembre 2005). Tutti ricorderanno lo splendido capitolo ottavo dei Promessi sposi, quando Tonio e Gervaso, entrati in canonica con la scusa di una ricevuta, si fanno di lato e rivelano, agli occhi terrorizzati di don Abbondio, Renzo e Lucia. Il curato non dà tempo a Renzo di dire "signor curato, in presenza di questi testimoni, questa è mia moglie", che afferra la lucerna, tira a sé il tappeto del tavolino, lo butta sulla testa di Lucia che stava per aprir bocca, e la imbacucca "che quasi la soffocava". E intanto "gridava quanto n'aveva in canna: 'Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!"'. Con questa reazione forsennata (ma in effetti molto calcolata) Abbondio impediva a Renzo e Lucia di sposarsi. Ma perché i due giovani avevano alla fine accettato di montare tutto questo inghippo? Bisogna tornare al capitolo sesto, quando la bella idea viene ad Agnese: "Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie". Manzoni annota subito dopo che Agnese diceva il vero, e che quella soluzione era stata adottata da molte coppie a cui, per una ragione o per l'altra, veniva rifiutato un matrimonio regolare. Non aggiunge, perché pensava che tutti ricordassero a memoria il catechismo, che tutto questo era possibile perché, mentre il ministro della cresima o è vescovo o niente, mentre il ministro dell'estrema unzione deve essere un sacerdote, mentre il ministro del battesimo può essere chiunque non sia il battezzando, i ministri del matrimonio sono gli sposi stessi. Nel momento in cui, con sincera intenzione, si dichiarano uniti per sempre, essi sono sposati. Il parroco, il capitano della nave, il sindaco sono solo i notai della faccenda. E' interessante riflettere su questo punto dottrinale perché getta una luce diversa sulla faccenda dei Pacs. So benissimo che quando si parla di Pacs si pensa sia alle unioni eterosessuali che a quelle omosessuali. Sulla seconda faccenda la Chiesa ha le idee che ha, e non ammetterebbe un matrimonio tra omosessuali neppure se fosse fatto in chiesa. Ma per l'unione di due eterosessuali, se essi si registrano in qualche modo dichiarando la loro intenzione di convivere sino a che morte (o divorzio) non li separi, dal punto di vista del catechismo essi sono marito e moglie. Si dirà: il matrimonio riconosciuto dalla Chiesa è quello fatto in chiesa, mentre la regolamentazione di una unione di fatto sarebbe come un matrimonio civile. Ma non siamo più ai tempi del vescovo di Prato, e nessun sacerdote caccerebbe di chiesa due sposati col rito civile gridando che sono concubini. Solo che con la formula dei Pacs i due problemi (etero e omo) sono presentati insieme, e la preoccupazione omofobica fa aggio sulla lucidità catechistica. A proposito, visto che è ormai passato del tempo e il can-can si è calmato, vorrei riassumere i termini dell'affare Ruini (quando il cardinale è stato fatto oggetto di contestazione a Siena) Primo. Chiunque ha diritto di criticare le opinioni di un uomo di Chiesa. Secondo. Un uomo di Chiesa ha il pieno diritto di esprimere le sue opinioni in campo teologico e morale, anche se per caso sono in contrasto con le leggi dello Stato. Terzo. Sino a che gli appelli dell'uomo di Chiesa non contrastano con le leggi dello Stato o con processi politici in corso (approvazione di una legge, referendum, elezioni) ma riguardano, che so, la proibizione del sesso prematrimoniale, o l'obbligo della messa domenicale, coloro che non condividono questi appelli farebbero bene a starsene zitti perché la faccenda non li riguarda. Quarto. Quando l'appello dell'uomo di Chiesa critica una legge dello Stato o interferisce con un processo politico in corso, allora, sia che voglia sia che non voglia, l'uomo di Chiesa diventa anche un soggetto politico e dovrebbe accettare il rischio di incorrere in contestazioni di ordine politico. Quinto. Non siamo più nel '68, e rimane in ogni caso ineducato e incivile impedire lo svolgersi di una libera manifestazione in luogo privato. Molto meglio fare come si fa nei paesi anglosassoni, dove ci si mette davanti all'ingresso del luogo ove parlerà il contestato, con striscioni e cartelli, esprimendo il proprio dissenso – ma lasciando poi entrare chi vuole. Oltretutto, contestando da dentro, dove ci sono di solito quelli che la pensano come il contestato, non si ottiene granché, mentre manifestando pacificamente fuori si coinvolgono passanti e astanti, e si ottiene un miglior risultato. RELATIVISMO? 107
(Nota: L'espresso, luglio 2005). Sarà non tanto colpa della rozzezza dei media ma del fatto che la gente parla ormai pensando solo a come i media ne riferiranno, ma certo si ha l'impressione che al giorno d'oggi certi dibattiti (persino tra persone presumibilmente non digiune di filosofia) avvengano a colpi di clava, senza finezza, usando termini delicati come se fossero sassi. Un esempio tipico è il dibattito che oppone, in Italia, da un lato i cosiddetti teocons, che accusano il pensiero laico di "relativismo", e dall'altro alcuni rappresentanti del pensiero laico che parlano, a proposito dei loro avversari, di «fondamentalismo". Che cosa vuole dire "relativismo" in filosofia? Che le nostre rappresentazioni del mondo non ne esauriscono la complessità, ma ne sono sempre visioni prospettiche, ciascuna delle quali contiene un germe di verità? Ci sono stati e ci sono filosofi cristiani che hanno sostenuto questa tesi. Che queste rappresentazioni non vanno giudicate in termini di verità ma in termini di rispondenza a esigenze storico culturali? Lo sostiene, nella sua versione del "pragmatismo", un filosofo come Rorty. Che ciò che conosciamo è relativo al modo in cui il soggetto lo conosce? Siamo al vecchio e caro kantismo. Che ogni proposizione è vera solo all'interno di un dato paradigma? Si chiama "olismo". Che i valori etici sono relativi alle culture? Si era iniziato a scoprirlo nel Seicento. Che non ci sono fatti ma solo interpretazioni? Lo diceva Nietzsche. Si pensa all'idea che se non c'è Dio tutto è permesso? E' il nichilismo dostoevskiano. Si pensa alla teoria della relatività? Per favore, non scherziamo. Ma dovrebbe essere chiaro che se qualcuno è relativista nel senso kantiano non lo è in quello dostoevskiano (il buon Kant a Dio e al dovere ci credeva); il relativismo nietzscheano ha poco a che vedere col relativismo dell'antropologia culturale, perché il primo non crede ai fatti e il secondo non li mette in dubbio; l'olismo alla Quine è fermamente ancorato a un sano empirismo che presta molta fiducia agli stimoli che riceviamo dall'ambiente; e così via. Insomma sembra che il termine "relativismo" possa essere riferito a forme di pensiero moderno sovente in reciproco contrasto; talora si considerano relativisti pensatori ancorati a un profondo realismo, e si dice "relativismo" con la foga polemica con cui i gesuiti ottocenteschi parlavano di "veleno kantiano". Ma se tutto questo è relativismo, allora solo due filosofie sfuggono completamente a questa accusa, e sono un neotomismo radicale e la teoria della conoscenza nel Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo Strana alleanza.
VI - LA DIFESA DELLA RAZZA GLI ITALIANI SONO ANTISEMITI? (Nota: L'espresso, luglio 2002). In occasione della profanazione delle tombe ebraiche a Roma è stata polemicamente ricordata la frase dell'onorevole Casini, secondo il quale in Italia l'antisemitismo è meno radicato che in altri paesi. Credo che occorra tracciare una distinzione tra antisemitismo intellettuale e antisemitismo popolare. L'antisemitismo popolare è antico quanto la Diaspora. Nasce da una istintiva reazione delle plebi verso gente diversa, che parlava una lingua ignota che evocava riti magici; gente abituata a una cultura del Libro, così che gli ebrei imparavano a leggere e scrivere, coltivavano la medicina, la mercatura, il prestito, da cui il risentimento nei confronti di questi "intellettuali". L'antisemitismo contadino, in Russia, aveva queste radici. Certamente pesava la condanna cristiana del popolo "deicida», ma infine anche lungo il Medioevo tra intellettuali cristiani e intellettuali ebraici c'era un rapporto (privato) di mutuo interesse e rispetto. Per non dire del Rinascimento. Le masse disperate che seguivano le crociate e mettevano a ferro e fuoco i ghetti non si appoggiavano su fondamenti dottrinali, ma seguivano impulsi di saccheggio. L'antisemitismo intellettuale quale lo conosciamo oggi nasce invece nel mondo moderno. Nel 1797 l'abate Barruel scrive i Mémoires pour servir à l'histoire du jacobinisme per mostrare come la Rivoluzione Francese fosse un complotto templare e massonico, e più tardi un certo capitan Simonini (italiano) gli fa notare che dietro le quinte agivano soprattutto i perfidi giudei. Solo dopo quel punto inizia la polemica sull'internazionale ebraica e i gesuiti se ne impadroniscono come argomento contro le sette carbonare. Lungo il 19esimo secolo questa polemica fiorisce in tutta Europa, ma trova il terreno più fertile nell'ambiente francese, dove si tratta di additare nella finanza ebraica un nemico da battere. La polemica è certo nutrita dal legittimismo cattolico, ma è in ambiente laico (e in un gioco di servizi segreti) che prendono lentamente forma, partendo da un falso di origine, i famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion, poi diffusi nell'ambiente zarista russo e infine fatti propri da Hitler. I Protocolli sono stati elaborati riciclando materiale da romanzo d'appendice, e rivelano da soli la loro 108
inattendibilità, perché è poco credibile che dei "cattivi" esprimano in modo così svergognato i loro malvagi progetti. I Savi dichiarano persino che intendono incoraggiare lo sport e la comunicazione visiva per rimbecillire la classe lavoratrice (e quest'ultimo tratto sembra più berlusconiano che ebraico). Eppure, per rozzo che fosse, si trattava di antisemitismo intellettuale. Si può concordare con l'onorevole Casini e dire che l'antisemitismo popolare italiano è stato meno forte che in altri paesi euro pei (per varie ragioni socio-storiche, e persino demografiche) e che infine la gente comune si è opposta alle persecuzioni razziali aiutando gli ebrei. Ma in Italia è fiorito l'antisemitismo dottrinale gesuitico (si pensi solo ai romanzi di padre Bresciani) insieme a quello borghese, che alla fine ha prodotto quegli studiosi e scrittori notissimi che hanno collaborato all'infame rivista La difesa della razza, e all'edizione dei Protocolli introdotta nel 1937 da Julius Evola. Scriveva Evola che i Protocolli hanno "il valore di uno stimolante spirituale" e "soprattutto in queste ore decisive della storia occidentale non possono essere trascurati o rimandati senza pregiudicare gravemente il fronte di coloro che lottano in nome dello spirito, della tradizione, della civiltà vera". L'internazionale ebraica era per Evola all'origine dei principali focolai di perversione della civiltà occidentale: "liberalismo, individualismo, egualitarismo, libero pensiero, illuminismo antireligioso, con le varie appendici che conducono sino alla rivolta delle masse e allo stesso comunismo... E' il dovere, per l'ebreo... distruggere ogni sopravvivente resto di vero ordine e di differenziata civiltà... E' ebreo Freud, la cui teoria s'intende a ridurre la vita interiore a istinti e forze inconsce, lo è Einstein, col quale è venuto di moda il "relativismo"... Schonberg e Mahler, principali esponenti di una musica della decadenza. Ebreo è Tzara, creatore del dadaismo, limite estremo della degradazione delle cosiddetta arte d'avanguardia... E' la razza, è un istinto che qui agisce... Questa è ormai l'ora, in cui le forze sorgono dappertutto alla riscossa, perché ormai il volto del destino a cui l'Europa stava per soggiacere si è reso chiaro... Che l'ora del "conflitto"... le trovi raccolte in un unico blocco ferrato, infrangibile, irresistibile". L'Italia ha dato il suo eccellente contributo all'antisemitismo intellettuale. E' però solo oggi che una serie di fenomeni fanno pensare a un nuovo antisemitismo popolare, come se antichi focolai antisemiti trovassero un terreno di coltura in altre forme di razzismo di rozzo stampo neoceltico. Prova ne è che le fonti dottrinali sono sempre le stesse: basta visitare alcuni siti razzisti in Internet, o seguire la propaganda antisionista nei paesi arabi, e si vede che non si trova mai di meglio che riciclare ancora i soliti Protocolli. IL COMPLOTTO (Nota: Scritto come introduzione a Will Eisner, The Plot. The Secret Story of the Protocols of the Elders of Zion. New York: Norton 2005 (traduzione italiana: Il complotto. Torino: Einaudi 2005). L'aspetto più straordinario dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion non è tanto la storia della loro produzione quanto quella della loro ricezione. Come questo falso sia stato prodotto da una serie di servizi segreti e polizie di almeno tre paesi, attraverso un collage di testi diversi, è una vicenda ormai nota - e Will Eisner la racconta per esteso, tenendo anche conto delle ricerche più recenti. Caso mai in un mio scritto (Nota: "Protocolli fittizi", in Sei passeggiate nei boschi narrativi. Milano: Bompiani 1994), avevo indicato anche altre fonti, di cui gli studiosi non avevano tenuto conto: il piano ebraico per la conquista del mondo ricalca, talora con espressioni quasi letterali, il progetto del piano gesuitico raccontato da Eugène Sue prima ne Le Juif errant e poi ne Les Mystères du peuple, tanto che si è tentati di pensare che a questi romanzi si fosse ispirato lo stesso Maurice Joly (di cui Eisner racconta tutta la storia). Ma c'è di più. Gli studiosi dei Protocolli (Nota: Vedi per esempio Norman Cohn, Warrant for Genocile. London: Eyre and Spottiswoode 1967, cap. 1 (traduzione italiana: Licenza per un genocidio. Torino: Einaudi 1969), hanno già ricostruito la storia di Hermann Goedsche che nel suo romanzo, Biarritz, scritto nel 1868 sotto lo pseudonimo di Sir John Retcliffe, racconta come nel cimitero di Praga i rappresentanti delle dodici tribù di Israele si riuniscano per preparare la conquista del mondo. Cinque anni dopo la stessa storia viene riferita come veramente accaduta in un libello russo (Gli ebrei, signori del mondo), nel 1881 Le Contemporain la ripubblica asserendo che Droveniva da una fonte sicura, il diplomatico inglese Sir John Readcliff, nel 1896 Francois Bournand usa di nuovo il discorso del Gran Rabbino (che questa volta si chiama John Readclif) nel suo libro Les Juifs, nos contemporains. Ma quello di cui non ci si è accorti è che Goedsche non faceva altro che copiare una scena da Joseph Balsamo di Dumas (del 1849) in cui si descrive l'incontro tra Cagliostro e altri congiurati massonici, per progettare l'affare della Collana della Regina e preparare attraverso questo scandalo il clima adatto per la Rivoluzione Francese. Questo patchwork di testi in gran parte romanzeschi fa dei Protocolli un testo incoerente che rivela facilmente la sua origine romanzesca. E' poco credibile, se non in un roman feuilleton, o in un'opera lirica, che i "cattivi" dichiarino di avere "un'ambizione sconfinata, una ingordigia divoratrice, un desiderio spietato di vendetta e un odio intenso". Che i Protocolli siano stati presi sul serio all'inizio, può essere spiegabile perché essi venivano presentati come una 109
scandalosa scoperta, e da fonti ritenute attendibili. Ma quello che appare incredibile è che questo falso sia rinato dalle proprie ceneri ogni volta che qualcuno ha dimostrato che si trattava di un falso, al di là di ogni dubbio. Qui il "romanzo dei Protocolli" inizia davvero a diventare inverosimilmente romanzesco. Dopo le rivelazioni del Times del 1921, ogni volta che qualche fonte autorevole ha ribadito la natura spuria dei Protocolli c'è stato qualcuno che li ha ripubblicati come autentici. E la storia continua ancora oggi su Internet. Come se, dopo Copernico, Galileo e Keplero, si continuassero a pubblicare manuali scolastici in cui si ripete che il sole gira intorno alla terra. Come si può spiegare questa resistenza di fronte all'evidenza, e il fascino perverso che questo libro continua a esercitare? La risposta la si trova nell'opera di Nesta Webster, un'autrice antisemita che ha speso la propria vita a sostenere la versione del complotto ebraico. Nel suo Secret Societies and Subversive Movements appare bene informata, conosce tutta la vera storia che qui Eisner racconta, ma ecco come conclude: L'unica opinione su cui possa impegnarmi è che, siano essi autentici o meno, i Protocolli rappresentano il programma di una rivoluzione mondiale e, data la loro natura profetica e la loro somiglianza straordinaria coi programmi di altre società segrete del passato, essi sono o l'opera di qualche società segreta o di qualcuno che conosceva benissimo le tradizioni delle società segrete, e che era capace di riprodurre le loro idee e il loro stile. (Nota: Nesta H. Webster, Secret Societies and Subversive Movements. London: Boswell 1924). Il ragionamento è impeccabile: "siccome i Protocolli dicono quello che ho detto nella mia storia, essi la confermano"; oppure: "i Protocolli confermano la storia che ho tratto da essi, e quindi sono autentici". O ancora: "i Protocolli potrebbero essere falsi ma raccontano esattamente quello che gli ebrei pensano, e quindi debbono essere considerati autentici". In altre parole, non sono i Protocolli a produrre antisemitismo, è il profondo bisogno di individuare un Nemico che spinge a credere ai Protocolli. Per cui credo che, malgrado questo coraggioso non comic ma tragic book di Will Eisner, la storia non sia ancora finita. Però vale la pena di continuare a raccontarla, per opporsi alla Grande Menzogna e all'odio che essa continua a incoraggiare. ALCUNI DEI MIEI MIGLIORI AMICI (Nota: L'espresso, agosto 2003). Nel corso della recente polemica circa i suoi attacchi ai tedeschi, il già sottosegretario Stefani aveva addotto, a prova delle sue buone intenzioni, il fatto che la sua prima moglie era tedesca. Povero argomento, invero: se lo fosse stata l'attuale, ancora ancora, ma se lo era stata la prima (che aveva evidentemente lasciato, o da cui era stato lasciato) questo è proprio segno che lui coi tedeschi non è mai riuscito a quagliare. L'argomento della moglie è debolissimo: se ben ricordo, Céline aveva una moglie ebrea, e un'amante ebrea ha a lungo avuto Mussolini, ma questo non ha impedito a entrambi, sia pure in modi diversi, di avere indubbi sentimenti antisemiti. C'è una espressione che, specie in America, è divenuta proverbiale: "Some of my best friends" (Alcuni dei miei migliori amici).. Chi inizia così, affermando che alcuni dei suoi migliori amici sono ebrei (il che può accadere a chiunque) di solito continua con un "ma" o un "tuttavia", e fa seguire una filippica antisemita. Negli anni settanta si rappresentava a New York una commedia sull'antisemitismo che si intitolava appunto Some of my best friends. Chi inizia così è bollato subito per antisemita - tanto che una volta, paradossalmente, avevo deciso che per iniziare un discorso antirazzista occorreva esordire con "Alcuni dei miei migliori amici sono antisemiti... " Some of my best friends rappresenta un esempio di quella che nella retorica classica si chiamava concessio o concessione: si inizia dicendo bene dell'avversario e mostrando di condividere una delle sue tesi, e poi si passa alla parte distruttiva. Se iniziassi un'argomentazione con "alcuni dei miei migliori amici sono siciliani", è chiaro che mi starei per candidare al Premio Bossi. Di passaggio, notiamo che, anche se più raro, funziona ugualmente l'artificio opposto: non riesco a ricordare di avere amici carissimi a Termoli Imerese, a Camberra e a Dar-es-Salam (e deve essere pura casualità), ma se iniziassi un discorso con "non ho amici a Camberra", è probabile che quel che segue sarebbe un elogio incondizionato della capitale australiana. Diverso sarebbe l'argomento politico per cui, poniamo, si esordisce provando con dati statistici inoppugnabili che la grande maggioranza degli americani è contraria a Bush, e la grande maggioranza degli israeliani a Sharon, proseguendo poi con una critica di queste due amministrazioni. Ma l'esempio singolo non basta, e non basta citare Amos Oz per Israele o Susan Sontag per gli Stati Uniti. In retorica questo si chiamerebbe un exemplum, che ha valore psicologico ma non argomentativo. Vale a dire che il richiamo al particolare, sia esso rappresentato dalla Sontag o da alcuni degli altri miei migliori amici, non ha valore per sostenere conclusioni generali. Il fatto che mi sia stato rubato un giorno il portafoglio ad Amsterdam non mi autorizza a concluderne che gli olandesi siano tutti ladri (così infatti argomenta solo il razzista), anche se peccato più grande è argomentare partendo direttamente dal generale (tutti gli scozzesi sono avari, tutti i coreani puzzano d'aglio), concedendo al massimo che per un caso 110
curioso tutti gli scozzesi che ho conosciuto mi abbiano sempre e generosamente pagato da bere, e alcuni dei miei amici coreani olezzino solo di costosi e raffinati dopobarba. Gli esercizi ginnici sul generale sono sempre pericolosi, e prova ne sia il paradosso di Epimenide Cretese, che sosteneva che tutti i cretesi sono bugiardi. Ovviamente se così diceva un cretese, bugiardo per definizione, era falso che i cretesi fossero bugiardi; ma se per conseguenza i cretesi erano sinceri, allora Epimenide diceva la verità affermando che i cretesi sono tutti bugiardi. E via all'infinito. Nella trappola era caduto addirittura San Paolo, che aveva argomentato che veramente i cretesi erano bugiardi, visto che lo ammetteva persino uno dei loro. Questi sono divertimenti da seminario di logica o retorica, ma quello che ne viene fuori è che bisogna sempre sospettare quando si ode qualcuno iniziare con una concessione. Dopo di che sarà interessante, specie di questi tempi, analizzare le varie forme di concessione che si odono pronunciare nell'agone politico, tipo le professioni di rispetto (in generale) per la magistratura, il riconoscimento della buona volontà lavorativa di molti extracomunitari, l'ammirazione per la grande cultura araba, le profferte di stima altissima al presidente della repubblica, e via dicendo. Se qualcuno parte con una concessione, attenti a quel che segue. Nella coda ci sarà il veleno. ALCUNI DEI SUOI MIGLIORI AMICI (Nota: L'espresso, gennaio 2003). All'inizio degli anni sessanta quando io e altri venivamo invitati in Spagna per qualche dibattito culturale, all'inizio rifiutavamo, democratici e anime belle come ci sentivamo, dicendo che non saremmo mai andati in un paese governato da una dittatura. Poi alcuni amici spagnoli ci hanno fatto ricredere spiegandoci che, se andavamo, intorno a noi si creava un dibattito, abbastanza libero poiché si trattava di visitatori stranieri, e la nostra presenza avrebbe aumentato le possibilità di dissenso degli spagnoli che non accettavano la dittatura franchista. Da allora siamo andati in Spagna ogni volta che ci invitavano, e ricordo che l'Istituto Italiano di Cultura sotto la direzione di Ferdinando Caruso era diventato un'isola di libera discussione. Da allora ho imparato che occorre distinguere tra la politica di un governo (o addirittura tra la Costituzione di uno Stato) e i fermenti culturali che agitano un certo paese. Per questo ho viaggiato in seguito per incontri culturali in paesi di cui non condividevo la politica. Recentemente sono stato invitato in Iran da alcuni giovani e apertissimi studiosi che si battono laggiù per lo sviluppo di una cultura moderna, e ho dato il mio consenso, chiedendo solo che l'iniziativa venisse rinviata sino a che non si fosse saputo che cosa sarebbe accaduto nell'area medio-orientale, perché mi parrebbe insano volare tra missili che passano da una parte e dall'altra. Se fossi americano non voterei certo per Bush, ma questo non mi impedisce di avere continui e cordiali rapporti con varie università degli Stati Uniti. Ora ho appena ricevuto copia di The Translator, una rivista inglese che si occupa di problemi di traduzione e alla quale io stesso avevo collaborato. La rivista ha un eccellente comitato di consulenti internazionali ed è diretta da Mona Baker, stimata curatrice di una Encyclopedia of Translation Studies edita da Routledge nel 1998. Nell'ultimo numero della rivista Mona Baker apre con un comunicato editoriale in cui si dice che molte istituzioni accademiche (per protestare contro la politica di Sharon) hanno firmato petizioni per il boicottaggio delle istituzioni universitarie israeliane (in accordo con alcuni siti Internet) come "Call for European boycott of research of Israel scientific institutions" e "Call for European boycott of research and cultural links vith Israel", e pertanto Mona Baker ha chiesto a Miriam Schlesinger e a Gideon Toury (entrambi noti studiosi di università israeliane) di dimissionare dalla direzione dei Translation Studies Abstracts. Mona Baker avverte (per fortuna) di avere preso questa decisione senza interpellare consulenti e collaboratori della sua rivista, e ammette che gli stessi studiosi che essa ha escluso hanno espresso in varie occasioni forte dissenso nei confronti della politica di Sharon. Specifica che il boicottaggio non è ad personam bensì contro le istituzioni. n che peggiora le cose, perché significa che, indipendentemente dalle posizioni di ciascuno, l'appartenenza (oserei dire) razziale fa aggio. E' chiaro a cosa possa condurre un principio del genere: chi ritiene guerrafondaia la posizione di Bush dovrebbe adoperarsi per bloccare ogni contatto tra centri di ricerca italiani e centri americani; gli stranieri che (per avventura! ) considerassero Berlusconi qualcuno che sta cercando di instaurare un potere personale, dovrebbero interrompere ogni rapporto con l'Accademia dei Lincei; chi fosse contro il terrorismo arabo dovrebbe far espellere gli studiosi arabi da tutte le istituzioni culturali europee, indipendentemente dal fatto che siano consenzienti o no con i gruppi fondamentalisti. Nel corso dei secoli, attraverso terribili episodi di intolleranza e ferocia di stato, è sopravvissuta una comunità dei dotti, che ha cercato di instaurare sentimenti di comprensione tra persone di tutti i paesi. Se si spezza questo vincolo universale, sarà una tragedia. Che Mona Baker non abbia capito questo punto mi dispiace, specie considerando che uno studioso della traduzione è per definizione interessato al dialogo continuo tra culture diverse. Non si può mettere sotto accusa un paese, per quanto si dissenta dal suo governo, senza tener conto delle divisioni e contraddizioni e 111
delle lacerazioni che esistono in quel luogo. Mentre scrivo apprendo che una commissione di controllo, in Israele, ha oscurato una conferenza stampa televisiva di Sharon perché la riteneva illecita propaganda elettorale. E allora si vede come laggiù esista una interessante dialettica tra istanze diverse, e non capisco come questo possa essere ignorato da chi, probabilmente, giudica ingiusto l'embargo verso l'Iraq, fatto anche a scapito anche di chi soffre sotto la dittatura di Saddam. In nessun luogo della terra tutte le vacche sono nere, e ritenerle tutte dello stesso colore si chiama razzismo.
VII - CERCHIAMO ALMENO DI DIVERTIRCI SU UN CONGRESSO TEOLOGICO BERLUSCONIANO (Nota: Golem-L'indispensabile, marzo 2001). Il congresso teologico svoltosi in questi mesi a Smullendorf ha riconsiderato alcuni dei problemi religiosi fondamentali alla luce delle nuove tendenze della politica e della cultura. Ha iniziato il professor Stumpf dell'università di Tubinga sul tema "Berlusconi, l'etica protestante e lo spirito del capitalismo". Il tema propagandistico di Berlusconi è tipicamente protestante, ha detto: la benevolenza di Dio si verifica attraverso il successo economico, e pertanto chi ha avuto maggior successo economico è l'Unto del Signore. La variazione eretica è che il pensiero religioso di Berlusconi non distingue sufficientemente tra mondo terreno e mondo celeste, dato che egli non ha mai precisato se le sue promesse (autostrade, flessibilità nelle assunzioni, un milione di posti di lavoro, riduzione delle tasse) saranno realizzate immediatamente o in un mondo ultramondano. Il professor Pennypeepy dell'Università di Notre Dame ha parlato del trionfo del principio di analogia nella metafisica berlusconiana, ovvero del sillogismo svirgolato. Il principio analogico fondamentale del Berlusconi sarebbe il seguente: siccome è evidente che mi sono arricchito quando non potevo fare proprio tutto quel che volevo, a maggior ragione quando sarò al potere arricchirò tutti voi. Il professor Pennypeepy osservava che la premessa avrebbe dovuto logicamente portare alla conclusione "quindi quando potrò fare quello che voglio mi arricchirò ancora di più", ma ammetteva che la conclusione usata da Berlusconi aveva certamente più appeal per quelli che ricchi non sono. Osservava però che il sillogismo svirgolato di Berlusconi evocava un ragionamento del tipo "se seguirete sempre Taricone al Grande Fratello diventerete come lui, pettorali compresi", ciò che non corrisponde alle regole della logica. Osservava pure che sullo stesso principio di analogia si poteva costruire anche il seguente ragionamento (certamente errato): "Io ho avuto successo pur essendo molto piccolo, se votate per me diventerete piccoli come me". Più scandaloso è stato l'intervento di padre Rogofredo da Montecuccolo O.S.P.R., da tempo in odore di eresia, sul tema "Berlusconi e il problema del Male". Il dottissimo teologo si chiedeva come potesse essere conciliabile l'esistenza di Berlusconi con l'esistenza di Dio. Poiché Berlusconi ha fondato il suo impero finanziario su operazioni non sempre ineccepibili, seduce il popolo raccontando bugie, o almeno facendo promesse contraddittorie che si autoeliminano (diminuire le tasse e aumentare le pensioni), e nel contempo viene premiato con la ricchezza e col successo delle sue idee politiche, ciò dimostra che il Male viene premiato. Perché Dio permette Berlusconi? Se lo permettesse perché non può evitarlo, allora Dio sarebbe meno potente di Berlusconi (soluzione che Berlusconi non ha mai escluso); se lo permette per mostrare che alla fine il Male verrà sconfitto, allora Dio dovrebbe votare per Rutelli (il che è escluso dal cardinal Ruini); se Dio acconsente a Berlusconi per mettere alla prova la libertà di scelta degli elettori e premiare in un'altra vita chi non avesse votato per lui, allora Dio, per premiare in paradiso Pecoraro Scanio, Boselli e Ombretta Carulli Fumagalli condannerebbe la maggior parte degli italiani all'infelicità su questa terra. Essendo ciò inconciliabile con la bontà divina, allora o non esiste Berlusconi o non esiste Dio. Ma Berlusconi esiste. Ergo Deus non est. Si deve aggiungere che, accusato di ateismo, padre Rogofredo, malgrado si affannasse a dimostrare che aveva fatto un ragionamento per assurdo a fini di satira, proprio per questa ragione veniva immediatamente giudicato dal Sant'Uffizio, consegnato al braccio secolare e condannato a passare le proprie sere in discoteca con Ignazio La Russa, intrattenendo con lui rapporti sessuali. Più moderata la posizione di padre Cock S.J. il quale si chiedeva come l'idea dell'armonia del cosmo potesse essere conciliata con l'esistenza dell'onorevole Previti. L'argomento di padre Cock era che anche i mostri hanno un ruolo nell'armonia del cosmo perché con la loro mostruosità, fanno maggiormente risaltare gli aspetti positivi della creazione. A padre Cock si opponeva il dr. Weltanschauung M.D., Ph.D., A.M.O.R.C., il quale persuasivamente sosteneva che in un cosmo in cui esiste l'onorevole Previti nessuna cosa buona e bella potrebbe risaltare, in virtù del 112
principio "non faremo prigionieri, nunquam captivi". Non giungendo alla conclusione che l'esistenza dell'onorevole Previti dimostrasse l'inesistenza di Dio, il dr. Weltanschauung ammetteva tuttavia che essa contraddicesse l'esistenza di un Cosmo ordinato. L'esistenza dell'onorevole Previti era pertanto la dimostrazione del principio gnostico per il quale il cosmo non è stato costruito da Dio bensì da un Demiurgo maldestro. Nella seconda sessione si era discusso se si potesse riparare al peccato originale senza la Redenzione. Tipico era stato il caso dell'onorevole Fini che aveva cercato di riparare il peccato originale del proprio partito senza passare per il Golgota, bensì per Fiuggi. L'obiezione più cogente era stata che attraverso la Redenzione il fedele diventa capace di assumere il sangue di Cristo mentre con l'acqua Fiuggi può al massimo espellere i calcoli renali. Pertanto alcuni teologi consigliavano all'onorevole Fini di divorare almeno la carne di Buttiglione, ma e emerso che si trattava di teologi legati a filo doppio all'onorevole Casini che li aveva istigati affinché fosse eliminato il suo fratellonemico. Molto seguita la relazione di Dom Perignon O.S.B., sulla quaestio quod libetalis discussa da San Tommaso d'Aquino "utrum possit homo Arcoreus agasonem mafiosum assumere," se cioè Berlusconi potesse assumere un cavallaro legato alla mafia. La risposta dell'Aquinate era stata che si poteva, purché il cavallaro non si occupasse veramente di cavalli. In tal caso nomen equi supergreditur modum litteralem, e cioè il termine "cavallo" significa qualcosa di diverso. Stabilito sulla base del trattato di Robert Fludd, Dell'Utriusque cosmi istoria, che nella fattispecie per cavallo si intendeva qualcosa d'altro, se ne concludeva che non era da considerarsi immorale neppure il caso in cui Berlusconi assumesse come cavallaro Totò Riina. Qualcuno aveva sollevato la domanda se fosse più lecito baciare Riina, juliano more, o possedere cavalli, ma la questione era stata liquidata da don Baget Bozzo come persecutoria e ispirata al complotto delle toghe rosse, anche perché nessun inquisitore aveva potuto dimostrare che Berlusconi, se pur avesse posseduto un cavallo, lo avesse baciato. In un seminario marginale è stata discussa anche la liceità di un manifesto elettorale col volto di Berlusconi sullo sfondo della bandiera di Forza Italia, un occhiello che recitava "Per una Italia più cristiana" e un testo centrale: "Un presidente divorziato" Della questione è stata investita la Conferenza Episcopale Italiana che per non inquinare il dibattito elettorale, si è riservata di rispondere a elezioni avvenute. IL DONO DELLA POSTMONIZIONE (Nota: L'espresso, giugno 2000). Sia i sostenitori dei fenomeni paranormali che gli inveterati scettici del Cicap che li tallonano per mostrare che questi fenomeni sono effetto d'illusioni di vario tipo, si sono sempre occupati della premonizione. Nessuno si è mai occupato della postmonizione, che pure è fenomeno straordinario. Ebbene, io ne posseggo il dono, ma sino a ora lo avevo tenuto gelosamente segreto, temendo di espormi a ironie e derisioni. Solo adesso, incoraggiato dalla rivelazione del terzo segreto di Fatima, sono pronto a rivelare quanto tenevo gelosamente nel profondo del cuore. Mi accade talora, preso da una sorta di trance, di vedere con chiarezza quasi eidetica episodi che si svolgono in un tempo che non è quello in cui vivo. Ma non li vedo oscuramente, così da doverli esprimere per allusioni ambigue, come faceva Nostradamus, i cui presunti vaticini possono applicarsi ad avvenimenti diversi. No, vedo quanto vedo in modo limpido, così da non dar adito a equivoci. Ecco alcuni esempi. Vedo una grande e florida città sulle rive dell'Asia Minore, stretta d'assedio da una grande armata guidata da un eroe dalla lunga chioma bionda, e vedo un cavallo di legno in quella città, da cui escono i nemici sterminandone gli abitanti, così che solo due ne sfuggono, uno che andrà vagabondando per mare e l'altro che fonderà una nuova civiltà nelle terre ausonie. Vedo un'orda di uomini barbuti dalle chiome unte di grasso, che invadono la città più potente del mondo conosciuto, e il loro capo che getta una spada su una bilancia gridando guai ai vinti. Vedo un genovese con la chioma più corta dei precedenti che naviga con tre caravelle sino a che il suo gabbiere urla terra terra, e perviene in quelle che egli credeva le Indie e che invece sono un nuovo e inesplorato continente. Vedo un uomo coi capelli non lunghi che fissa la luna con un tubo mai visto e che dichiara che la terra gira intorno al sole, subisce un doloroso processo e ne esce sconfitto mormorando eppur si muove. Vedo un uomo coi capelli corti e un ciuffo sulla fronte, nato in una piccola isola, che con le sue armate percorre vittorioso l'Europa dall'Alpi alle piramidi e dal Manzanarre al Reno, sino a che viene sconfitto in una pianura del Belgio e muore abbandonato da tutti su un'isola più piccola di quella in cui era nato. Vedo un uomo con capelli ancora più corti, ma con ciuffo e monobaffo, che scatena una guerra mondiale, commette un orrendo genocidio e si toglie la vita in un bunker. Vedo un uomo assolutamente pelato che conquista il potere marciando sulla capitale, trebbia il grano, bacia i bambini e finisce in una piazza con il nome di un pappagallo. Che debbo pensare di queste mie visioni? Giuro che si sono tutte avverate. Tanto che ho deciso di tentare anche 113
alcune premonizioni, gioco certamente più rischioso, ma in cui basta muoversi con avvedutezza. Pertanto: vedo che entro un secolo un presidente degli Stati Uniti subirà un attentato, che un ciclone si scatenerà sui Caraibi, che precipiterà l'aereo di una grande compagnia, che un uomo di umili natali farà una grande vincita al lotto, che un uomo politico italiano cambierà di schieramento, che un altro vorrà salvare il paese dal comunismo, che un presentatore televisivo chiederà a Samantha di Piacenza quale era il nome di battesimo di Garibaldi (non so perché, ma sento che le due ultime premonizioni sono strettamente collegate). IL CODICE ENIGMA (Nota: L'espresso, agosto 2004). Finalmente la nostra cultura giornalistica (se l'ossimoro ha un senso) ha messo la testa a posto. Nel corso dell'estate già languente, anziché perdersi nella ormai insostenibile demonizzazione di Berlusconi o nelle forme più viete di antiamericanismo (come la critica di Al Capone e della banda Manson), la nostra stampa ha avuto il coraggio di affrontare i temi essenziali di un sano e illuminato revisionismo storico. Come è noto, tutto è partito da documenti ancora inediti in base ai quali la chiave per capire l'assassinio di Gentile si trova nel carteggio tra Italo Calvino ed Elsa De Giorgi. E non solo, ma nel carteggio inedito (ed eroticamente molto acceso) tra Gentile e Ranuccio Bianchi Bandinelli si troverebbe il bandolo per spiegare perché Calvino abbia intitolato la sua opera giovanile Il sentiero dei nidi di ragno e non Vieni, c'è una strada nel bosco. Solo l'egemonia culturale della sinistra aveva impedito per cinquant'anni che fosse rivelata l'indispensabilità dei carteggi amorosi per capire sia l'opera di uno scrittore sia la funesta azione dei Gap. Oggi fortunatamente è nata un'organizzazione per la messa in pubblico dei carteggi amorosi, a cui si può accedere pagando una tassa minima, anche disponendo del solo diploma di perito agrario, nel sito www.parlamidamoremariù cepu, dove sono conservate anche le lettere del conte Contini Bonaccossi a Gianfranco Contini, con brani memorabili sull'utilità della "critica degli scartafacci . La storia è ormai nota. Una mattina del 1944 Elsa De Giorgi e Paolo di Stefano si appostavano davanti alla casa di Giovanni Gentile in Campo de' Fiori e bruciavano sul rogo il filosofo, mentre Concetto Marchesi soffiava sul fuoco (vedi Raffaele La Porta, Essi sono tra noi: Giordano Bruno discepolo di Evola). Ma quello di cui gli storici non si erano ancora resi conto era che tutto nasceva da una lettera di Togliatti a Norberto Bobbio (che finalmente, rompendo l'egemonia culturale della sinistra, si è scoperto essere stato il vero ed effettivo capo segreto dell'Ovra). Togliatti, con la sua tipica doppiezza, dichiarava la sua fedeltà al fascismo e chiedeva venticinque lire per acquisto francobolli (destinati al suo carteggio amoroso con Teresa Noce - che in effetti era un travestito che agiva sotto il nome di Colonnello Valerio) e in cambio assicurava di dare in mano alla polizia fascista Antonio Gramsci - facendolo sorprendere in una casa di piacere della Versilia mentre si dava ad accoppiamenti contro natura con la solita Virginia Woolf, mentre Teresa Guiccioli e Tamara de Lempicka suonavano la marimba. Con una mossa tipica dell'egemonia culturale della sinistra, Roberto D'Agostino (vedi www.dagospizza.com, dove ovviamente "com" sta per "comunista") rivelava come Togliatti a quell'epoca stesse in effetti scrivendo Il visconte dimezzato. Il manoscritto gli venne poi sottratto da Calvino con l'aiuto di Alberto Asor Rosa - e la trama può essere messa facilmente in luce anagrammando l'intero testo di Scrittori e Popolo, che in effetti costituisce un unico e labirintico palindromo, da leggersi scegliendo una lettera sì e 1, 618 no, quindi moltiplicando il tutto per 3, 14. D'altra parte è ormai noto come gli stilemi calviniani ricalchino quelli di Roderigo di Castiglia. Ma questo è diventato evidente solo dopo che gli eredi Contini Bonaccossi sono riusciti a scovare il carteggio amoroso tra Ferruccio Parri e la cugina di Elsa De Giorgi, da cui si evince anche che la sigla Gap significava "Guardando Attraverso la Poesia". Come è noto i Gap erano nati da una società segreta costituitasi per celare i rapporti omosessuali tra Ford Madox Ford e T.S. Eliot quando insieme a Drieu de la Rochelle cospiravano per far cadere in mare l'aereo di Saint-Exupéry, il quale aveva denunciato, giocando sul doppio senso del titolo Vol de nuit, un furto notturno del carteggio amoroso tra Cesare Pavese e Claretta Petacci, trafugato nottetempo da Ernesto Galli della Loggia nel fondo libri antichi di Eugenio Scalfari, per impedire che Ezio Mauro rimanesse l'unico garante dell'egemonia della sinitra. Il vero problema, però, come si potrebbe dedurre da una serrata analisi stilematica e struttural-narratologica di tutti i carteggi amorosi di Calvino (circa diecimila pagine ancora inedite), vendute surrettiziamente dai Chalabi (padre e figlio) a Primo Camera (da cui emerge l'indubbia omosessualità dell'atleta, uso esibirsi in pubblico a torso nudo facendo sfoggio di una muscolatura di chiaro stampo omoerotico) è se Thomas Mann si dedicasse al coito bestiale. Senza risolvere questo punto non si capirà mai il messaggio segreto de La montagna incantata (né chi fosse realmente l'Eletto, in realtà la capra di Marcovaldo). Ma quali sono stati i veri rapporti tra Elsa de Giorgi e Bruneri e Canella? 114
Sino a che Arbasino terrà secretato il loro carteggio (a tre!) il nostro paese sarà ancora assillato da troppi misteri irrisolti e Berlusconi non potrà lavorare in pace.
LA CERTOSA DI PARMALAT (Nota: L'espresso, febbraio 2004). La massima vendita di libri e videocassette è realizzata ormai da romanzi e film offerti dai quotidiani, ma la concorrenza si sta facendo spietata. Dato fondo ai classici da Esiodo a Gino e Michele, ai capolavori del cinema dai fratelli Lumière a Panariello, non si sa più cosa proporre. Ecco alcuni possibili remakes: LA CERTOSA DI PARMALAT - Ascesa e caduta di un giovane rampante pronto a ogni azzardo, Fabrizio del Bingo. Illustrazioni dalla Totentanzi di Holbein. TAROCCO E I SUOI FRATELLI - Avvincente storia di inganni televisivi. Commento musicale di Ezio Taricone, autore di Stelle e Striscia. SU LA TESTA - Storia natalizia d avventure al plastico, con la consulenza, per l'ampliamento del sorriso, di Christian de Sirchia. Blefaroregia di Sergio Lenone. Un avventuriero, detto anche Funny Face o Plastic Man (il suo nemico è Scalface), si rifà il volto per continuare indisturbato i suoi attentati dinamitardi alle banche che raccolgono euro. Alla fine del trattamento il protagonista si ritrova la faccia di Massimo Bondi. OMBRE RUSSE - Storia di una schizofrenia. Un presidente vede comunisti dappertutto ma va in vacanza col capo del Kgb. EL PURTAVA I SCARP DEL TENNO - Satira di Jannacci e Grillo sulla globalizzazione: l'invasione della manifattura giapponese. GASPARR DE LA NUIT - Personaggio tenebroso cerca di oscurare le reti televisive statali, ma incorre in divertenti disavventure. ABBASSA LA TUA RADIO PER FAVORE - Cd cantato da Little Tony Blair. NON SI TRATTANO COSI' ANCHE I CAVILLI - Maratona giudiziaria di Cesare Previti: come non pagare il tasso sull'Ariosto. IL TUMULTO DEI CIAMPI - Appassionante storia di fantapolitica che vede alcuni personaggi agitarsi in vista di una prossima candidatura alla presidenza della repubblica. ANCHE I FORMIGONI NEL LORO PICCOLO S'INCAZZANO - Storia di conflitti regionali lombardi. DIECI PICCOLI IDONEI - In un ateneo remoto vengono invitati dieci ricercatori idonei per concorso, ma con contratto co.co.co. A uno a uno, scaduto il contratto, i ricercatori vengono eliminati. CHE, DES BRUMES? - Un ministro dei trasporti si ostina a combattere la nebbia sulle autostrade imponendo alle macchine di tenere i fari accesi anche quando sono in garage. LA CORTE SI RITIRI - Superba interpretazione del ministro Castelli. IL CORSERA NERO - Antologia dal Libro dei Sogni di Silvio Berlusconi. I MISTERI DI PARISI - Lunghissimo romanzo a puntate appena conclusosi, sulla candidatura di Prodi. IL PRETE BULLO - Romanzo di Gianni Baget Bozzo. UNO, NESSUNO, CINQUECENTOMILA - In occasione di una manifestazione sindacale Clemente Mimum riceve tre dati, uno dalla questura, uno dal governo e uno dagli organizzatori, e opta per il secondo. NESSUNO TORNA INDIETRO - Romanzo di Albania de Cespedes sui tentativi di rimpatrio degli immigrati clandestini. IL BARBONE RAMPANTE - Bildungsroma, sulla carriera del ministro Maroni. IL CAVALIERE INSISTENTE - Cartone animato su un personaggio che a furia di plastiche facciali tenta di raggiungere l'immortalità e il governo perpetuo. LIMELIFT - Personaggio di statura chapliniana tenta l'ultimo trucco per restare sotto le luci della ribalta. I PROMESSI SPASIMI - Storia italiana del 21esimo secolo riscritta per pensionati. Appassionante il brano "Addio tre monti sorgenti dal buco". ASPETTANDO GODO - La lenta scalata al potere, tra verifiche e ribaltoni, di un presidente della camera dei deputati. I CORSARI DEL BERMUDA - Avventure del direttivo di Forza Italia alle Cayman Islands. L'AZZURRO E IL NERO - Film con Berlusconi che dice al telefono "E' la tv, bellezza, e non puoi farci nulla! " GUERRA E PECE - Come fare una guerra e vedersi saltare in aria i pozzi di petrolio. UNO STADIO IN ROSSO - Per i forsennati investimenti del proprietario una squadra di calcio va in bancarotta. QUORE - Un gruppo di ragazzi, non potendo frequentare le scuole private, impara l'ortografia in una scuola 115
pubblica. FRATTAGLIE D'ITAGLIA - Documentario leghista, con accluso rotolo di carta igienica tricolore. IL BURINO DEL Po - Grande romanzo di Umberto Bossi. IL RITORNO DEI MORTI VIVENTI - Musical di nani e ballerine. LA ROMENA - Da un inedito di Alberto Moravia, sulla triste vicenda di un'extracomunitaria che cade preda della mafia della prostituzione. TRE UOMINI IN BURKA - Pruriginosa vicenda tra i transessuali di Kabul. LA MIA, VIA! - Storia di un attricetta decisa a raggiungere il successo, che si offre per un film con Tinto Brass. PROFEZIE PER IL NUOVO MILLENNIO Rassegna stampa del 2010 (Nota: L'espresso, aprile 2002). Cari ascoltatori della rassegna stampa di Mediaset/Rai 1, come di consueto diamo una rapida scorsa ai giornali e alle riviste di questa mattina. Iniziamo col Corriere della Sera Padana dove appare un articolo di fondo del presidente della Corte Costituzionale Previti, dal titolo "Dieci anni di dieta". Il Previti riprende, a ormai dieci anni di distanza, il dibattito infaustamente agitato dalla sinistra terrocomunista a inizio millennio, che farneticava sulla nascita di un nuovo regime. Il Previti ricorda come secondo i più accreditati dizionari la parola «regime" significhi "governo, amministrazione, ordinamento politico, forma o sistema statuale", ed estensivamente "modo di comportarsi e regolarsi nella vita economica e sociale" e governi, amministrazioni e modi di comportarsi esistono in tutti i paesi democratici. Solo in seconda istanza il termine indicava un tempo "stato o governo autoritario, e in particolare quello fascista". Il Previti commenta che, se per regime si alludeva a un paese dove i cittadini sono obbligati a leggere un solo giornale (come la Pravda) allora non si può parlare di regime visto che nel nostro paese esistono ben sei reti Mediaset, ciascuna indipendente dall'altra, e la Costituzione del 1946 è stata corretta solo per unificare le funzioni di presidente della Repubblica, presidente del consiglio e presidente di Fininvest. Comunque, per evitare tutte le connotazioni sfavorevoli del termine "regime", era stato il governo stesso che, sempre attenendosi al dizionario, il quale definisce come regime anche «modo di comportarsi nell'alimentazione, abitudine o norma igienica", e dunque dieta, aveva proposto sin dalla nuova vittoria elettorale del 2006 di parlare di "dieta Berlusconi". Il Previti conclude il suo articolo enumerando i vantaggi che la dieta Berlusconi ha portato al paese, diminuendo i rischi di ulcere gastriche da iperconsumo di grassi nella popolazione dei pensionati e dei cassintegrati, e fornendo al paese una classe dirigente palestrata ed efficiente, educata nei jogging parties diretti dal presidente stesso nelle migliori repubbliche offshore. La seconda notizia, a cui dà molto rilievo l'autorevole Il Foglio di Torino, è il generoso rifiuto del presidente Berlusconi di applicare il codicillo SS70A alla nuova definizione penale del reato di furto di bestiame. Come tutti sanno il codicillo SS70A significa che una legge si applica a tutti i cittadini "salvo coloro che si chiamano Silvio e abitano ad Arcore". Il codicillo era stato giustamente applicato negli anni scorsi alle ridefinizioni dei reati di falso in bilancio, corruzione di pubblici ufficiali, riciclo di capitali, edificazione abusiva e altri reati minori, ma non ai reati di pedofilia e detenzione di opere che incitano al terrorismo, come gli scritti di Norberto Bobbio, i discorsi di Carlo Azeglio Ciampi, e l'esposizione di opere di arte povera e transavanguardia - salvo naturalmente che per modiche quantità. La rinuncia del presidente ad applicare il codicillo al furto di bestiame mostra quanto egli si senta sicuro rispetto alle continue aggressioni e insinuazioni dell'Azienda Privatizzata della Magistratura, alla quale la dieta Berlusconi consente ancora e sempre diritto di riunione e libera espressione, come del resto la consente (per esempio) agli Archivi Sindacali, alla rinata Loggia P2 o al Movimento Gay non Comunisti. L'intera sezione culturale di Panorama Espresso è dedicata allo sviluppo del processo Galbusera, dal nome del giovane che ha assassinato la propria zia a Voghera. Come ricorderete il Galbusera era stato assolto in prima istanza nel processo di Porta a porta, da una giuria di criminologi e attrici protagoniste dei più accreditati calendari. Si era dimostrato che il Galbusera sosteneva che l'Italia nella seconda metà degli anni cinquanta era stata governata dalla Democrazia Cristiana e non dal Partito Comunista, e pertanto gli era stata riconosciuta la totale infermità mentale. Tuttavia nel corso del processo di appello presso il Gasparri Show la giuria, composta da spogliarelliste discendenti dai reduci di Salò, e presieduta da Miss Bellezza Celtica 2007, aveva giudicato il Galbusera colpevole in quanto la zia, ai tempi dell'infausta magistratura comunista, era stata condannata per evasione fiscale e quindi il Galbusera appariva come persecutore oggettivamente alleato del terrorismo giustizialista. Si attendono ora le decisioni del prestigioso talk show Hip Hip Trash, condotto da Emilio Fede e Pamela Prati, a cui è stato affidato il verdetto finale. Dopo i consueti venti minuti di pubblicità parleremo delle reazioni al crollo del nuovissimo ponte sullo stretto di Messina, dell'affondamento di duemila invasori curdi nel canale di Otranto e delle canzoni scelte per il prossimo 116
Festival di San Silvio. COME ELEGGERE IL PRESIDENTE (Nota: L'espresso, novembre 2000). First good news. Come aveva già detto L'espresso scorso, se andate su Internet a www.poste.it potete registrarvi a un servizio grazie al quale spedite via computer sia una lettera sia un telegramma, le Poste stampano e consegnano all'indirizzo giusto (costo di una lettera, lire 1700), saltando tutta la trafila del viaggio in treno e della giacenza nelle stazioni. Complimenti (incredibile a dirsi) alle Poste italiane Now bad news. E' la storia delle elezioni americane, è ovvio, dove la macchina dello spoglio si è rivelata meno efficiente delle Poste italiane. Eppure la soluzione c'era, e l'aveva data il grande Isaac Asimov in un racconto degli anni sessanta (è apparso sull'edizione italiana di Galaxy del dicembre 1962 e s'intitolava "Diritto di voto"). Riducendo la storia all'osso, si racconta che nell'allora remoto 2008 gli Stati Uniti si erano accorti che la scelta avveniva ormai tra due candidati, e così simili che le preferenze degli elettori si distribuivano quasi fifty-fifty. Inoltre i sondaggi, ormai fatti da computer potentissimi, potevano valutare infinite variabili e avvicinarsi quasi matematicamente al risultato effettivo. Per prendere una decisione scientificamente esatta, l'immenso calcolatore Multivac (allora lungo mezzo miglio e alto come un edificio a tre piani – ed ecco un caso in cui la fantascienza non era riuscita a prevedere il progresso) doveva solo tenere ancora conto di "alcuni imponderabili atteggiamenti della mente umana". Ma siccome è implicito nella novella che in un paese sviluppato e civile le menti umane si equivalgono, Multivac non aveva che da fare qualche test su un solo elettore. Così, a ogni elezione annuale il calcolatore individuava uno stato, e un cittadino di quel solo stato, che diventava così l'Elettore, e in base alle sue idee e umori si sceglieva il presidente degli Stati Uniti. Tanto che ogni elezione prendeva il nome dell'unico elettore, voto Mac Comber, voto Muller e così via. Asimov racconta in modo gustoso la tensione che si crea nella famiglia del prescelto (il quale ha però l'occasione di diventare famoso, aver buoni contratti pubblicitari e fare carriera, come un superstite del Grande Fratello), ed è divertente lo stupore della figlioletta, alla quale il nonno racconta che un tempo votavano tutti, e lei non si rende conto di come potesse funzionare una democrazia con milioni e milioni di Elettori, molto più fallibili di Multivac. E' che già Rousseau escludeva che si potesse avere una democrazia assembleare se non in uno stato molto piccolo, in cui tutti si conoscano e si possano riunire facilmente. Ma anche una democrazia rappresentativa, che chiama il popolo a scegliere i propri rappresentanti ogni quattro o cinque anni, è oggi in crisi. In una civiltà di massa dominata dalla comunicazione elettronica, le opinioni tendono a livellarsi talmente che le proposte tra i vari candidati diventano molto simili l'una all'altra. I candidati sono scelti non dal popolo, ma da una Nomenklatura partitica, e il popolo deve scegliere (al limite) tra due persone (scelte da altri) che si assomigliano come due gocce d'acqua. Situazione che ricorda abbastanza quella sovietica, salvo che là la Nomenklatura sceglieva un solo candidato e gli elettori votavano per lui. Se i Soviet avessero proposto agli elettori non uno bensì due candidati, l'Unione Sovietica sarebbe stata simile alla democrazia americana. Sì, lo so, in una democrazia, anche dopo il rito futile delle elezioni, i governanti sono controllati dalla stampa, dai gruppi di pressione, dall'opinione pubblica. Ma si potrebbe fare così anche col sistema proposto da Asimov. ECCO UN BEL GIOCO (Nota: L'espresso, gennaio 2001). Se un nuovo Humbert Humbert, il celebre personaggio di Lolita, si allontanasse di casa con una ragazzina, oggi potremmo sapere tutto di lui. Il navigatore satellitare della sua macchina ci direbbe dove si trova e dove va; le carte di credito rivelerebbero in che motel è sceso e se ha prenotato una o due camere: il circuito chiuso dei supermarket lo ritrarrebbe mentre acquista una rivista porno piuttosto che un quotidiano, e d'altra parte dal quotidiano che acquista potremmo conoscere le sue idee politiche; se nel supermarket comperasse una Barbie potremmo dedurne che la ragazzina è minorenne; se infine si fosse collegato a un sito pedofilo di Internet, saremmo in grado di trarre le nostre conclusioni. Se pure Humbert Humbert non avesse ancora commesso alcun reato, decideremmo che ha pericolose inclinazioni e sarebbe opportuno arrestarlo. Se poi la ragazzina fosse sua nipote, e se le private fantasie del personaggio non preludessero affatto a pratiche criminali, pazienza, meglio un innocente di più in galera che una mina vagante pericolosa per la società. Tutto questo si potrebbe già fare. Furio Colombo nel suo Privacy, uscito presso Rizzoli, aggiunge solo un tocco di fantascienza, e cioè immagina un apparato che permetta di monitorare non solo il comportamento ma anche il pensiero. Vi costruisce intorno una ideologia della prevenzione come bene supremo, e il gioco è fatto: il 1984 di 117
Orwell diventa, a paragone, una storia a lieto fine. Vi leggerete il libro, chiedendovi se non siamo già vicini al futuro che esso annuncia. Io vorrei invece qui prendere a pretesto questo libro per immaginare un gioco che sta a metà strada tra la realtà quale è oggi e il futuro annunciato da Colombo. Il gioco si chiama Fratelli d'Italia (ma il format è esportabile in altri paesi) ed è un perfezionamento del Grande Fratello. Invece di mettere la gente davanti a un televisore a seguire le vicende di poche persone poste in situazione artificiale, estendendo i sistemi di monitoraggio dei supermarket a tutto il tessuto cittadino, a ogni strada e locale pubblico (forse anche agli appartamenti privati), gli spettatori potrebbero seguire ora per ora, minuto per minuto, le vicende quotidiane di ciascun altro cittadino, mentre va per strada, mentre fa i suoi acquisti, mentre fa all'amore, mentre lavora, mentre si azzuffa con qualcuno per un piccolo tamponamento. Uno spasso, la realtà apparirebbe più appassionante della finzione, il senso di voyeurismo e pettegolezzo presente in ciascuno di noi verrebbe magnificato al massimo. Non mi nascondo che sorgerebbero alcuni problemi. Chi guarda e chi agisce? All'inizio guarderebbe chi ha tempo da perdere, mentre chi ha da fare agirebbe e darebbe spettacolo. In seguito si potrebbe supporre che qualcuno rimanga in casa a guardare gli altri. Ma siccome sarebbero monitorati anche gli appartamenti, al limite sessanta milioni di spettatori potrebbero vedere, ciascuno in tempo reale, cinquantanove milioni e novecentonovantanovemila altri spettatori, spiando le espressioni dei loro volti. Più probabilmente, siccome essere visti diventerà sempre più un valore, tutti agirebbero en plein air per non dare spettacolo di sé squallidamente stravaccati in poltrona. Ma allora chi li guarderebbe? Ciascuno avrebbe bisogno di un piccolo visore tascabile in cui, mentre agisce, vedrebbe gli altri che agiscono. Ma lo spettacolo potrebbe ridursi a sessanta milioni di persone che agiscono in modo spastico guardando gli altri che agiscono spasticamente mentre camminano inciampando per poter guardare il loro schermo portatile. Insomma, ne vedremmo delle belle. QUEL RAMO DEL LAGODI.COM. (Nota: L'espresso, aprile 2000). Ogni tanto emerge il timore che le nuove forme di comunicazione, da Internet agli sms, cambino i nostri modi di pensare e di esprimerci. Come scriveranno i ragazzi educati all'invio e alla ricezione di esili messaggini telefonici e di sincopate conversazioni in chat? La preoccupazione non dovrebbe sussistere, perché l'invenzione del telegrafo, coi messaggi essenziali che comportava ("arrivo giovedì ultimo treno stop") non ha impedito a Proust di scrivere la Recherche, e perché in definitiva l'uso della posta elettronica sovente ristabilisce una certa civiltà epistolare che col telefono era andata perduta. Tuttavia, a conforto degli apocalittici, propongo alcuni esempi di temi svolti da una generazione ormai assuefatta al computer e alle sue pompe. TEMA: Raccontate la gita scolastica ai luoghi manzoniani. SVOLGIMENTO: Il 3/31/00 il Provider agli Studi ha organizzato, per ragioni di educazione, un transfer per un path che ci ha ruotato verso il lagodi.com. Eravamo proprio un bel newsgroup, una banda larga. L'altavista di cui abbiamo goduto era unix! n nostro Virgilio era una .prof amazon, Arianna. Ci ha fatto fare un surf online su quei tipic.it battelli che erano alla modem ai tempi di L.uk/ia e vedere i (link) monti sorgenti dall'acque (che se vuoi li tiscali in un webshot). E' stato proprio un url. WWW! Sembrava di udire un'arpanet. Ci siamo browsati ogni sito, che sarei capace di listare con WordPerfect, come se avessimo visto tutto da una window. C'erano quelli che facevano le solite FAQ, e a querty la .prof rispondeva fax/you a ogni query. «Non fate troppo cut and paste, Cdceva, bisogna imparare un poco di netiquette» :( Al return qualcuno leggeva Linux, nessuno il Courier, FatOne mangiava un Mac e dei cookies e.biscom da non poter più passare per il portale della sua home, ed era tutto un chat. "Winniepooh84: come ti chiami? Spirou: è rimasto a Como. ditto2: Francesca e tu? markpin: un bacetto a tutte. mirka99: siamo mica a chiave pubblica. winniepooh84: bel nome io Pablo. markpin: ma mi piacerebbe. syndrome: vorrei una ragazza che si occupasse di me. ditto2: però che palle manzoni. apollo2000: ma a chi parli? markpin: ci sono io. spirou: dai markpin! jdbear: è più umido che a Milano. ledaboh: per me è peggio Foscolo. syndrome: anche brutta. winniepooh84: chi è bello a questo mondo? almodovar: 118
è più umido nel letto quando ti fai pipì addosso. syndrome: vorrei una ragazza che si occupasse di me. jdbear: se lo sai si vede che lo fai spesso. spirou: chi ha spento la luce? winniepooh84: ma va? (Nota: Serie di messaggi realmente tratti da Internet). Io guardavo come un lynx la mia compagna Eudora, una molto =:-) che sta sempre sulla privacy (le hanno dato il nickname Java), e sognavo di essere il suo server, e poi tirarle via lo zip e lo slip/ppp, sino all'org.asmo :) Tin! Avevo come un virus in testa, ma non sapevo che password usare per avere la connection, insert object, ed essere un RealPlayer acrobat col mio mouse nel suo forum. Comunque, register now e attach. «Che cosa hai letto di recente?» Replay: http://dgprod2. vill.edu/ augustin/cityO16.html, http://patriot.net/ lillard/cp/august html, http://sussidiario.it/storia/antica/roma/mappe/, http://talk.to/harrypotter, http://ted.examiner.ie/books/books. htm, http://www.cesnur.org/recens/potter_mi_it.htm, http:// www.ciaoweb.it/letture/ragazzi.asp, http://www. drjohnholleman.com/fall/rowling.html, http://www. geocities.com/Athens/Forum/6946/literature.html, http://www.hisurf.com/ troy/harrypotter/, http://www.storel.net/books/harry_potter.htm http:// www. paranormalatoz. com/rowling-jk.html, http://www.repubblica.it/online/ sessi_stili/magia/.html, httn://www.zero.it /bimbi/ rubriche/lb_nov99.htm wysiwyg:-//body.thepage.7 Yahoo! Che style! E' Bell quando qualcomm legge tanti .txt. Molto downlodevole, ma anche molto hard drive. Calma, release e send again. Le ho fatto ;-) e poi ho accennato :-* «Aol!?», mi ha detto, «che scanni?» «Iol? Un bit. Show il toolbar! Lasciami cliccare lì, thesaurus». Redirect: «Ma kata vuoi, micro_soft? Ma va forward, braggadocio del Mega!» (:-( Cascade! Che tipo di carattere! Detect, exe, compact mailboxes, cancel *.*, netscape e disconnect. Ho capito che era una dell'Op.us Djay, o forse una explorer dell'ASCII. Capace che vota Forza.it. E poi dicono che uno si butta al PC... OK, mi leggo Playboy.com, trova e sostituisci. ERRORE FATALE IN KRNL666XQPR@YZ!. HAI PERSO TUTTO. CTRL ALT CANC. RIAVVIA IL SISTEMA. WINWORD. TORNARE AL DOCUMENTO RICUPERATO? OK. Go to the end, velocità massima 115200, rientro normale, libero. E' stata una bella giornat@. VIII - IL CREPUSCOLO D'INIZIO MILLENNIO UN SOGNO (Nota: L'espresso, dicembre 2003). Quando qualcuno dice «io sogno che..." oppure «ho fatto un sogno", s'intende di solito che in quel sogno si siano materializzati, o svelati, i suoi desideri. Ma un sogno può anche essere un incubo, in cui si annuncia ciò che non si desidera affatto, oppure un sogno divinatore, che richiede l'intervento dell'interprete autorizzato, il quale ci dica che cosa esso annunciava, prometteva o minacciava. Di questa terza natura è il mio sogno, e lo racconto così come lo sogno, senza chiedermi in anticipo se corrisponda ai miei desiderio alle mie paure. Sogno dunque che dopo un black-out globale, che immobilizza l'intero mondo civile, nella ricerca folle delle responsabilità, e nel tentativo di reagire a una minaccia, si scateni una bella guerra planetaria. Ma di quelle coi 119
fiocchi, non un incidente marginale come la Seconda guerra mondiale, che ha fatto solo cinquantacinque milioni di morti. Una guerra vera, di quelle che la tecnica ci consente oggi di fare, con intere aree del pianeta desertificate dalle radiazioni, con almeno la metà della popolazione mondiale che scompare, per fuoco amico, fame, pestilenze, insomma una cosa per bene, fatta da generali competenti e responsabili, all'altezza dei tempi. Naturalmente (si è egoisti anche nei sogni) sogno che io, i miei cari, i miei amici, viviamo in una zona del pianeta (possibilmente la nostra) in cui le cose non siano andate del tutto in modo disperato. Non avremo più comunicazioni televisive, per non parlare di Internet, visto che anche le linee telefoniche saranno ormai andate in tilt. Sopravviverà qualche comunicazione radio, usando vecchi apparecchi a galena. Non ci saranno più le linee elettriche, ma rabberciando alla buona alcuni pannelli solari, specie nelle case di campagna, si potrà avere qualche ora di luce, e per il resto si andrà a borsa nera per alimentare dei lumi a petrolio, tanto nessuno perderà tempo a raffinare benzina per macchine che, se ancora esistono, non hanno più strade dove correre. Al massimo resterebbero carretti e calessi trainati da cavalli. A questa luce scarsa, e possibilmente accanto a un caminetto alimentato con parsimonia disboscando di qua e di là, di sera, ai miei nipoti, ormai privi della televisione, potrò leggere vecchi libri di fiabe ritrovati in solaio, o raccontare di come fosse il mondo prima della guerra. A una cert'ora ci accucceremo davanti alla radio e capteremo alcune trasmissioni lontane, che ci informano su come stanno andando le cose, e ci avvertono se si addensano pericoli nella nostra area. Ma per comunicare si saranno anche riaddestrati colombi viaggiatori, e sarà bello staccare dalla loro zampetta l'ultimo messaggio in arrivo, che ci dice che la zia ha la sciatica ma tutto sommato continua a campare, o trovare il quotidiano di ieri in ciclostile. Può darsi che, se ci siamo rifugiati in campagna, nel paesino abbiano tenuto in piedi una scuola, e in tal caso darei il mio contributo, insegnando grammatica o storia - non geografia, perché i territori saranno nel frattempo così mutati che parlare di geografia sarebbe lo stesso che parlare di storia antica. Se poi la scuola non ci fosse, radunerei i nipoti e i loro amici e farei scuola in casa, prima le aste, per addestrargli il polso, e non solo alla scrittura, ma ai molti lavori manuali che dovranno fare, e poi via via, se ci fossero ragazzi più grandi potrei fare anche delle buone lezioni di filosofia. Può darsi che per i ragazzi rimanga il cortile della parrocchia, dove sarà sopravvissuto un campetto di calcio (e si potrà giocare anche con una palla di stracci), forse sarà stato ricuperato dalla antina un vecchio calciobalilla e il parroco avrà fatto costruire dal falegname un ping pong, che i giovani scopriranno più appassionante e creativo dei videogiochi di un tempo. Si mangerà molta verdura, se la zona non sarà ancora radioattivizzata, e saranno buone le ortiche cotte, che sembrano spinaci. Siccome si moltiplicano per vocazione, non mancheranno dei conigli, e forse ci sarà un pollo di domenica, alla più piccola il petto, al più grande la coscia, I'ala al papà, I'anca alla mamma, e per la nonna che è di bocca buona il collo, la testa e il portacoda, che nei polli ruspanti è il più saporito. Si riscoprirà il piacere delle passeggiate a piedi, il tepore dei vecchi giacconi fuori moda, e dei guanti di lana, con cui si può anche giocare a palle di neve. Non dovrebbe mancare il vecchio medico condotto, capace di mettere insieme qualche riserva di aspirina e di chinino. Si sa, senza più le camere iperbariche, le tac e le ecografie, la vita umana tornerà su una media di sessant'anni, ma non sarà male, calcolando la lunghezza della vita media in altre zone del globo. Rifioriranno sulle colline i mulini a vento. Davanti alle loro grandi braccia i vecchi racconteranno la storia di Don Chisciotte, e i piccoli scopriranno che è bellissima. Si farà musica, e tutti impareranno a suonare qualche vecchio strumento ritrovato, per male che vada con un coltellino e una canna si possono fare intere orchestrine di flauti, alla domenica si danzerà sull'aia, e forse qualche fisarmonicista sopravissuto suonerà la Migliavacca. Nei bar e nelle osterie si giocherà a briscola, bevendo spuma evino giovane. Circolerà di nuovo lo scemo del paese, costretto ad abbandonare la vita politica. I giovani demotivati si consoleranno aspirando vapori di camomilla con un asciugamano sulla testa, e diranno che è uno sballo. Riprenderanno fiato, a mezza montagna, molti animali, tassi, faine, volpi, e lepri a non finire, e anche gli animalisti accetteranno di andare talora a caccia per procurarsi cibo proteinico, con vecchie doppiette se ci sono, con archi e frecce in ogni caso, e vibratili cerbottane. Nella notte, a valle, si udranno abbaiare i cani, ben nutriti e tenuti in gran conto, perché si sarà scoperto che sostituiscono a poco prezzo sofisticati sistemi elettronici d'allarme. Nessuno li abbandonerà più sull'autostrada, sia perché avranno acquistato un valore commerciale, sia perché non ci sono più le autostrade, sia perché se anche ci fossero nessuno le prenderebbe più, perché arriverebbe troppo in fretta in zone che sarà meglio evitare, ubi sunt leones. Rifiorirà la lettura, perché i libri, tranne casi di incendio, sopravvivono a molti disastri, saranno ritrovati in stanzoni abbandonati, sottratti alle grandi biblioteche cittadine andate in rovina, circoleranno per prestito, verranno regalati a Natale, ci terranno compagnia nei lunghi inverni e persino d'estate, quando faremo i nostri bisogni sotto un albero. 120
Pur udendo dalla radio a galena voci inquietanti, sperando di farla franca, ringraziando il cielo ogni mattina perché siamo ancora vivi e il sole risplende, i più poetici tra di noi inizieranno a dire che, tutto sommato, sta rinascendo un'Età dell'Oro. Calcolando che questi rinnovati piaceri dovrebbero essere pagati con almeno tre miliardi di morti, la scomparsa delle piramidi e di San Pietro, del Louvre e del Big Ben (New York nemmeno a parlarne, sarà tutto Bronx), e che dovrò fumare paglia, se non sarò riuscito almeno a perdere il vizio, mi sveglio dal mio sogno con molta inquietudine e - dico la verità - spero che non si avveri. Ma sono andato da uno che pratica la mantica e sa persino leggere le viscere degli animali e il volo degli uccelli, e costui mi ha detto che il mio sogno non annuncia soltanto qualcosa di orrendo: suggerisce anche come quell'orrore potrebbe essere evitato se riuscissimo a contenere i nostri consumi, ad astenerci dalla violenza, non eccitandoci neppure troppo a quella altrui, e riassaporando ogni tanto gli antichi riti e i desueti costumi - perché dopotutto anche oggi si può spegnere il computer e il televisore e, invece di partire in volo charter per le Maldive, raccontare qualcosa accanto al fuoco, basta averne la voglia. Ma, ha aggiunto il mio oniromante, proprio questo è un sogno, che si abbia il coraggio di fermarci un momento per evitare che di sogni si avveri l'altro. E quindi, ha aggiunto l'oniromante (che è saggio ma stizzoso come tutti i profeti a cui nessuno dà retta), andate un poco al diavolo tutti quanti, perché è anche colpa vostra. SULLE SPALLE DEI GIGANTI (Nota: Conversazione tenuta a "La Milanesiana-Letteratura Musica Cinema", luglio 2001). Ho intitolato questo mio intervento ai nani sulle spalle dei giganti, certamente in omaggio al tema dell'anno scorso, ma anche perché la storia dei nani e dei giganti mi ha sempre affascinato. Tuttavia la polemica storica dei nani e dei giganti è solo un capitolo di quella millenaria lotta tra padri e figli che, come vedremo alla fine, ci riguarda ancora da vicino. Non c'è bisogno di scomodare gli psicanalisti per ammettere che i figli tendono a uccidere i loro padri - ed è solo per attenermi alla letteratura in merito che uso il termine maschile, non ignorando che è stata buona e millenaria abitudine, dai cattivi rapporti tra Nerone e Agrippina ai fatti di Novi Ligure, uccidere anche le madri. Il problema è piuttosto che, simmetrico all'assalto dei figli ai padri, c'è sempre stato l'assalto dei padri ai figli. Edipo, e sia pure senza colpa, uccide Laio, ma Saturno divora i suoi figli e a Medea non potrebbe certo essere intitolata una scuola materna. Lasciamo perdere il povero Tieste, che si fa un Big Mac con la carne dei propri figli, senza saperlo, ma per tanti eredi al trono di Bisanzio che accecano i loro padri ci sono tanti sultani che a Costantinopoli si salvaguardano da una successione troppo accelerata uccidendo i figli di primo letto. Il conflitto padri e figli può assumere anche forme non violente, ma non per questo meno drammatiche. Ci si oppone al padre anche irridendolo, e si veda Cam che non perdona a Noè un poco di vino dopo tanta acqua; al che come è noto Noè reagisce con un'esclusione di stampo razzista, esiliando il figlio irrispettoso nei paesi in via di sviluppo. E alcune migliaia di anni di fame endemica e schiavismo e per una sbertucciata al papà che aveva alzato il gomito, ammettiamolo, sono troppi. Anche se si considera l'accettazione di Abramo, disposto a sacrificare Isacco, come sublime esempio di resa al volere divino, direi che nel far questo Abramo considerava il figlio come cosa sua di cui disporre (il figlio moriva sgozzato e lui si guadagnava la benevolenza di Iahvè, ditemi se l'uomo si comportava secondo i nostri canoni morali). Fortuna che Iahvè stava scherzando, ma Abramo non lo sapeva. Che poi Isacco fosse sfortunato lo si vede da quanto gli accade quando padre diventa lui: Giacobbe non lo uccide, certo, ma gli scippa il diritto di successione con un trucco indegno, approfittando della sua cecità, stratagemma forse ancor più oltraggioso di un bel parricidio. Ogni querelle des anciens et des modernes è sempre all'insegna di una lotta simmetrica. Per venire a quella secentesca da cui mutuiamo la formula, è vero che Perrault o Fontenelle asserivano che le opere dei contemporanei, in quanto più mature di quelle dei loro antenati, erano dunque migliori (e dunque i pòètes galants e gli esprits curieux privilegiavano le nuove forme dell'opera del racconto e del romanzo), ma la querelle era sorta e si era alimentata perché contro i nuovi si ergevano, autorevolissimi, Boileau e tutti coloro che erano a favore di un'imitazione degli antichi. Se vi è querelle, agli innovatori si oppongono sempre i laudatores temporis acti, e molte volte l'elogio della novità e della rottura col passato nasce proprio come reazione al conservatorismo dilagante. Se ai nostri tempi ci sono stati i poeti Novissimi, tutti abbiamo studiato a scuola che duemila anni prima c'erano stati i poetae novi. Ai tempi di Catullo la parola modernus non esisteva ancora,ma novi si dicevano i poeti che si richiamavano alla lirica greca per opporsi alla tradizione latina. Ovidio nell'Ars Amandi (III, 120 ssg) diceva prisca iuvent alios (lascio il passato agli altri), ego me nunc denique natus gratulor; haec aetas moribus acta meis ecc. ("io sono fiero di essere nato oggi 121
perché questo tempo mi si confà, perché è più raffinato e non così rustico come le epoche passate"). Ma che i nuovi dessero fastidio ai laudatori del tempo andato ce lo ricorda Orazio (Epistole, II, 1, 75 ssg), che aveva usato invece di "moderno" l'avverbio nuper, per dire che era un peccato che un libro fosse condannato non per mancanza di eleganza sed quia nuper, perché era apparso solo il giorno prima. Che è poi l'atteggiamento di chi oggi, recensendo un giovane scrittore, lamenta che ormai non si scrivano più i romanzi di una volta. Il termine modernus entra in scena proprio quando finisce quella che è per noi l'antichità, e cioè verso il V secolo d.C., quando l'Europa intera piomba nella parentesi di quei secoli veramente oscuri che precedono la rinascenza carolingia - quelli che a noi paiono i tempi meno moderni di tutti. Proprio in quei secoli "bui", in cui si affievolisce il ricordo delle grandezze passate, e ne sopravvivono vestigia combuste e fatiscenti, l'innovazione s'instaura, anche senza che gli innovatori se ne rendano conto. Infatti è allora che incominciano ad affermarsi le nuove lingue europee, forse l'evento culturalmente più innovativo e più travolgente degli ultimi duemila anni. Simmetricamente, il latino classico diventa latino medievale. In questo periodo emergono i segni di un orgoglio dell'innovazione. Primo atto d'orgoglio, il riconoscimento che si sta inventando un latino che non è più quello degli antichi. Dopo la caduta dell'impero romano il vecchio continente assiste alla crisi delle culture agricole, alla distruzione delle grandi città, delle strade, degli acquedotti romani, in un territorio coperto di foreste monaci, poeti e miniatori, vedono il mondo come una selva oscura, abitata da mostri. Gregorio di Tours sin dal 580 denunciava la fine delle lettere, e non ricordo quale papa si chiedeva se fossero ancora validi i battesimi, impartiti nelle Gallie, dove si battezzava ormai in nomine Patris et Filiae (della Figlia) et Spiritus Sancti, perché anche il clero non conosceva più il latino. Ma tra il settimo e il decimo secolo si sviluppa quella che è stata chiamata "l'estetica hisperica", uno stile che si afferma dalla Spagna alle Isole Britanniche, toccando la Gallia. La tradizione classica latina aveva descritto (e condannato) questo stile caratterizzandolo come "asiano" (e poi "africano"), in opposizione all'equilibrio dello stile "attico". Nello stile asiano si condannava quello che la retorica classica chiamava il Kakozelòn ovvero la mala affectatio. E per avere un esempio di come i Padri della Chiesa verso il quinto secolo si scandalizzassero di fronte ad esempi di mala affectatio, si veda questa invettiva di San Gerolamo (Adversus Jovinianum I): Vi sono ormai tanti scrittori barbari e tanti discorsi resi confusi da vizi di stile che non si comprende più né chi parli né di che cosa parli. Tutto si gonfia e si affloscia come un serpente malato che si spezzi mentre tenta le sue volute. Tutto si avvolge in nodi verbali inestricabili, e si dovrebbe ripetere con Plauto "qui nessuno può comprendere, tranne la Sibilla". Ma a che servono queste stregonerie verbali? Ma quelli che per la tradizione classica erano "vizi", per la poetica isperica diventano virtù. La pagina isperica non ubbidisce più alle leggi della sintassi e della retorica tradizionale, le regole del ritmo e del metro sono violate per produrre elenchi di sapore barocco. Lunghe catene di allitterazioni che il mondo classico avrebbe giudicato cacofoniche ora producono una nuova musica, e Adhelm di Malmesbury (Lettera a Eahfrid, PL 89,159) si esalta a costruire frasi dove ogni parola inizia con la stessa lettera: "Primitus pantorum procerum praetorumque pio potissimum paternoque praesertim privilegio panegyricum poemataque passim prosatori sub polo promulgantes, ecc." Il lessico si arricchisce di ibridi incredibili, prendendo a prestito termini ebraici ed ellenismi, il discorso si infittisce di crittogrammi. Se l'estetica classica aveva come ideale la chiarezza, l'estetica isperica avrà come ideale l'oscurità. Se l'estetica classica aveva come ideale la proporzione, l'estetica isperica privilegerà la complessità, l'abbondanza di epiteti e di perifrasi, il gigantesco, il mostruoso, l'incontenibile, lo smisurato, il prodigioso. Per definire le onde marine appaiono aggettivi come astriferus o glaucicomus, e si apprezzeranno neologismi come pectoreus, placoreus, sonoreus, al boreus, propriferus,flammiger, gaudifluus .. Sono le stesse invenzioni lessicali lodate nel VII secolo da Virgilio Grammatico nelle sue Epitomi e nelle sue Epistole. Questo grammatico folle di Bigorre, vicino a Tolosa, citava brani di Cicerone o Virgilio (l'altro, quello vero) che questi autori non potevano certo aver scritto, ma poi si scopre, o si intuisce, che apparteneva a una conventicola di retori ciascuno dei quali aveva assunto il nome di un autore classico e sotto questo falso nome scrivevano un latino che certamente classico non era, e se ne gloriavano. Virgilio di Bigorre crea un universo linguistico che sembra uscito dalla fantasia di Edoardo Sanguineti, anche se è probabilmente accaduto viceversa. Dice Virgilio che ci sono dodici specie di lingua latina, e in ciascuna il fuoco può avere nomi diversi, come ignis, quoquinhabin, ardon, calax, spiridon, rusin, fragon, fumaton, ustrax, vitius, siluleus, aeneon (Epitomae, I, 4). La battaglia si chiama praelium, perché avviene sul mare (detto praelum perché per la sua immensità ha il primato o praelatum del meraviglioso, Epitomae, IV, 10). D'altra parte le regole stesse della lingua latina vengono messe in questione e si racconta che i retori Galbungus e Terentius per quattordici giorni e quattordici notti siano stati a disputare sul vocativo di ego - e il problema era della massima importanza, perché si trattava di stabilire come si potesse rivolgersi enfaticamente a se stesso ("Oh io, ho fatto bene?" O egone, recte feci?). 122
Ma passiamo ai volgari. Verso la fine del V secolo il popolo già non parla più latino, ma gallo-romano, italoromano, ispano romano o romano balcanico. Erano lingue parlate ma non scritte, eppure ancor prima del Serment de Strasbourg e della Carta Capuana, appare una celebrazione della novità linguistica. E' negli stessi secoli che, di fronte alla moltiplicazione delle lingue, si rivisita la storia della Torre di Babele e di solito si vede in questa storia il segno di una maledizione e di una sventura. Ma c'è già chi osa vedere nella nascita dei nuovi volgari, un segno di modernità, e di perfezionamento. Nel settimo secolo alcuni grammatici irlandesi cercano di definire i vantaggi del volgare gaelico rispetto alla grammatica latina. In un'opera intitolata I precetti dei poeti, si rifanno proprio alle strutture della Torre di Babele: come per la costruzione della Torre si erano usati nove materiali, cioè argilla e acqua, lana e sangue, legna e calce, pece, lino e bitume, così per formare il gaelico si erano usati nome, pronome, verbo, avverbio, participio, congiunzione, preposizione, interiezione. Il parallelo è rivelativo: occorrerà attendere Hegel per ritrovare nel mito della Torre un modello positivo. I grammatici irlandesi ritengono che il gaelico costituisca il primo e unico esempio di superamento della confusione delle lingue. I suoi creatori, attraverso un'operazione che oggi diremmo di taglia e incolla, hanno scelto ciò che c'era di meglio in ogni lingua e per ogni cosa di cui altre lingue non avevano trovato il nome, lo hanno prodotto - e in modo da manifestare un'identità di forma parola e cosa. Con ben diversa consapevolezza della propria impresa e della propria dignità, alcuni secoli dopo, Dante si considererà un innovatore in quanto inventore di un nuovo volgare. Di fronte alla pletora dei dialetti italiani, che egli analizza con precisione di linguista ma sufficienza e talora disprezzo di poeta - che non aveva mai dubitato di essere sommo tra tutti - Dante conclude che occorre mirare a un volgare illustre (diffusivo di luce), cardinale (che funzioni da cardine e regola), regale (degno di prender posto nella reggia di un regno nazionale, se mai gli italiani l'avessero avuto) e curiale (linguaggio del governo, del giure, della saggezza). Il De Vulgari Eloquentia tratteggia le regole di composizione dell'unico e vero volgare illustre, la lingua poetica di cui Dante si considera superbamente il fondatore, e che egli oppone alle lingue della confusione come una lingua che ritrova la primigenia affinità alle cose che fu propria della lingua adamica. Questo volgare illustre, di cui Dante va in caccia come di una "pantera profumata" rappresenta una restaurazione della lingua edenica, così da sanare la ferita post-babelica. Dipende da questa ardita concezione del proprio ruolo di restauratore della lingua perfetta il fatto che Dante, anziché biasimare la molteplicità delle lingue, ne metta in rilievo la forza quasi biologica, la loro capacità di rinnovarsi, di mutare nel tempo. E proprio in base a questa asserita creatività linguistica che egli può proporsi di inventare una lingua perfetta moderna e naturale, senza andare a caccia di modelli perduti, come per esempio l'ebraico primigenio. Dante si candida a essere un nuovo (e più perfetto) Adamo. Rispetto all'orgoglio dantesco, l'affermazione un poco più tarda di Rimbaud, il faut etre absolument moderne apparirà datata. Nella lotta tra padri e figli, Nel mezzo del cammin di nostra vita è ben più parricida della Saison en enfer. Forse il primo episodio di lotta tra generazioni in cui appare esplicitamente il termine modernus non si ha nell'ambito letterario bensì nell'ambito filosofico. Se il primo medioevo si era rivolto, come alle sue fonti filosofiche primarie, a testi del tardo neoplatonismo, ad Agostino, e a quegli scritti aristotelici chiamati Logica Vetus, verso il 12esimo secolo entrano gradualmente nel circuito della cultura scolastica altri testi aristotelici (come i Primi e Secondi Analitici, i Topici e gli Elenchi Sofistici) che saranno detti Logica Nova. Ma su questa sollecitazione si passa da un discorso meramente metafisico e teologico alla esplorazione di tutte quelle sottigliezze del ragionamento che oggi la logica contemporanea studia come il lascito più vivace del pensiero medievale, e sorge quella che si definisce (evidentemente con l'orgoglio di ogni movimento innovatore) Logica Modernorum. Quale fosse la novità della Logica Modernorum rispetto al pensiero teologico del passato ce lo dice il fatto che la Chiesa ha elevato alla gloria degli altari Anselmo d'Aosta, Tommaso d'Aquino e Bonaventura, ma nessuno dei propugnatori della logica moderna Non che fossero eretici. Semplicemente, rispetto al dibattito teologico dei secoli passati, si preoccupavano d'altro, oggi diremmo che si occupavano del funzionamento della nostra mente. Costoro stavano più o meno coscientemente uccidendo i loro padri, proprio come poi la filosofia dell'umanesimo avrebbe tentato di uccidere loro, moderni ormai sorpassati - ma riuscendo soltanto a ibernarli nelle aule delle università, dove le università contemporanee (dico di Oggi) li avrebbero riscoperti. Nei casi che ho citato appare tuttavia che ogni atto d'innovazione, e di contestazione dei padri, avviene sempre attraverso il ricorso a un antenato, riconosciuto migliore del padre che si tenta di uccidere, e a cui ci si rifà. I poetae novi contestavano la tradizione latina rifacendosi ai lirici greci, i poeti isperici e Virgilio Grammatico creavano i loro ibridi linguistici prendendo a prestito etimi celtici, visigotici, ellenistici ed ebraici, i grammatici irlandesi celebravano un linguaggio che si opponeva al latino perché era collage di lingue ben più antiche, Dante aveva bisogno di un antenato molto forte come Virgilio (il Marone), la Logica Modernorum era moderna grazie alla 123
scoperta dell'Aristotele perduto. Un topos assai frequente nel medioevo era quello per cui gli antichi erano più belli e di statura più alta. Rilievo che oggi sarebbe del tutto insostenibile, e basta andare a guardare la lunghezza dei letti in cui dormiva Napoleone, ma che forse a quei tempi non era del tutto insensato: e non solo perché l'immagine che si aveva dell'antichità era data da statue celebrative, che allungavano il celebrando di molti centimetri, ma anche perché con la caduta dell'impero romano si erano avuti secoli di spopolamento e carestie, per cui quei crociati e quei cavalieri del Graal che troneggiano nella cinematografia contemporanea erano con molta probabilità meno alti di molti vittoriosi cavalieri dei nostri tempi. Alessandro Magno era notoriamente un tappo, ma è probabile che Vercingetorige fosse più alto di re Artù. In nome della contrapposizione simmetrica, un altro topos frequente, dalla Bibbia attraverso la tarda antichità e oltre, era quello del puer senilis, un giovane che aveva, coi pregi della giovinezza, tutte le virtù della senectus. Ora, apparentemente l'elogio della statura degli antichi può sembrare un vezzo conservatore, e innovativo il modello di quella senilis in iuvene prudentia celebrato da Apuleio. Ma non è così. L'elogio degli antichissimi è il gesto attraverso cui gli innovatori vanno a ricercare le ragioni della propria innovazione in una tradizione che i padri hanno dimenticato. A parte i pochi casi citati, massime l'orgoglio di Dante, nel Medioevo si presumeva di dire cose vere nella misura in cui esse erano state sostenute da un'auctoritas precedente, a tal punto che, se si sospettava che l'auctoritas non sostenesse la nuova idea, si provvedeva a manipolarne la testimonianza perché l'auctoritas, come diceva Alano di Lilla nel XII secolo, ha un naso di cera. Dobbiamo cercare di capire bene questo punto perché, da Cartesio in avanti, il filosofo è colui che fa tabula rasa del sapere precedente e - come diceva Maritain - si presenta come un débutant dans l'absolu. Qualsiasi pensatore dei giorni nostri (per non dire di un poeta o romanziere o pittore) per essere preso sul serio deve mostrare in qualche modo di dire qualcosa di diverso dai propri immediati predecessori, e anche quando non lo fa deve fare finta di farlo. Ebbene, gli scolastici facevano esattamente il contrario. Compivano i parricidi più drammatici, per così dire, affermando e cercando di mostrare che stavano esattamente ripetendo quello che avevano detto i loro padri. San Tommaso ha, per i suoi tempi, rivoluzionato la filosofia cristiana, ma sarebbe stato pronto a rispondere, a chi glielo avesse rimproverato (e c'è stato chi ci ha provato), che lui non faceva altro che ripetere quello che aveva detto otto secoli e mezzo prima Sant'Agostino. Non era menzogna né ipocrisia. Semplicemente il pensatore medievale credeva che fosse giusto correggere qua e là le opinioni dei suoi predecessori quando gli pareva di avere, proprio grazie a loro, idee più chiare. E di qui nasce l'aforisma a cui ho intitolato il mio contributo, quello dei nani e dei giganti. Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi narios giganlium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quota in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantes. (Bernardo di Chartres diceva che noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere più lontano di loro non a causa della nostra statura o dell'acutezza della nostra vista, ma perché - stando sulle loro spalle - stiamo più in alto di loro.) Per una rassegna delle origini dell'aforisma, per il periodo medievale si può ricorrere al libretto di Edouard Jeauneau, Nani sul le spalle di giganti (Napoli: Guida 1969), ma più gaiamente dissennato, vagabondo ed eccitante è quel On the Shoulders of Giants scritto nel 1965 da uno dei più grandi sociologi contemporanei, Robert Merton. Merton era stato affascinato un giorno dalla formulazione che dell'aforisma aveva dato Newton, in una lettera a Hooke del 1675: "If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants". Così è risalito all'indietro per trovarne le origini, e ha proseguito in avanti per documentarne la fortuna, attraverso una serie di divagazioni erudite che di edizione in edizione ha arricchito di noterelle e aggiunte sino a che, dopo averlo fatto tradurre in italiano (Sulle spalle dei giganti, Bologna, Mulino 1991- e avendo avuto la bontà di chiedere una mia prefazione) lo ha riproposto in inglese nel 1993 come "the post-italianate edition". L'aforisma dei nani e dei giganti è attribuito a Bernardo di Chartres da Giovanni di Salisbury nel Metalogicon (III, 4). Siamo nel 12esimo secolo. Forse Bernardo non ne è il primo inventore, perché il concetto (se non la metafora dei nani) appare sei secoli prima in Prisciano, e un tramite tra Prisciano e Bernardo sarebbe Guglielmo di Conches, che parla di nani e giganti nelle sue Glosse a Prisciano, trentasei anni prima di Giovanni di Salisbury. Ma quello che ci interessa è che dopo Giovanni di Salisbury l'aforisma è ripreso un poco da tutti: nel 1160 in un testo della scuola di Laon, nel 1185 circa dallo storico danese Sven Aggesen, in Gerardo di Cambrai, Raoul de Longchamp, Egidio di Corbeil, Gerardo d'Alvernia, e nel 14esimo secolo da Alexandre Ricat, medico dei re d'Aragona, due secoli dopo nelle opere di Ambroise Paré e poi in uno scienziato secentesco come Richard Sennert e poi a Newton. Tullio Gregory segnala una apparizione dell'aforisma in Gassendi (Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961), ma si potrebbe arrivare come minimo a Ortega y Gasset, che nel suo saggio "Entorno a Galileo" 124
(Obras completas, V, Madrid 1947), parlando del susseguirsi delle generazioni, dice che gli uomini stanno "gli uni sulle spalle degli altri, e colui il quale sta in alto gode dell'impressione di dominare gli altri, ma dovrebbe avvertire nello stesso tempo che è prigioniero di essi". D'altra parte nel recente Entropia di Jeremy Rifkin trovo una citazione da Max Gluckman che dice: "scienza è qualsiasi disciplina in cui anche uno stupido di questa generazione può oltrepassare il punto raggiunto da un genio della generazione precedente". Tra questa citazione e quella attribuita a Bernardo passano otto secoli, ed è successo qualcosa: un detto che si riferiva al rapporto coi padri nel pensiero filosofico e teologico diventa un detto che contrassegna il carattere progressivo della scienza. Alle sue origini medievali l'aforisma divenne popolare perché permetteva di risolvere in modo apparentemente non rivoluzionario il conflitto tra generazioni. Gli antichi sono certamente giganti rispetto a noi; ma noi, pur essendo nani, sedendo sulle loro spalle,e cioè approfittando della loro saggezza, possiamo vedere meglio di loro. Questo aforisma era originalmente umile o superbo? Voleva dire che noi conosciamo, sia pure meglio, quello che gli antichi ci hanno insegnato, o che conosciamo, sia pure grazie al debito con gli antichi, ben più di loro? Siccome uno dei temi ricorrenti della cultura medievale è la progressiva senescenza del mondo, si potrebbe interpretare l'aforisma di Bernardo nel senso che, visto che mundus senescit, noi più giovani invecchiamo rispetto agli antichi, ma almeno comprendiamo o facciamo grazie a loro qualcosa che loro non erano arrivati a fare o comprendere. Bernardo di Chartres proponeva l'aforisma nell'ambito di un dibattito sulla grammatica, dove era in gioco il concetto di conoscenza e imitazione dello stile degli antichi ma, teste sempre Giovanni di Salisbury, Bernardo rimproverava gli allievi che copiavano servilmente gli antichi e diceva che il problema non era di scrivere come loro ma di imparare da loro a scrivere bene, in modo che in seguito qualcuno si ispirasse a loro stessi come loro stessi si erano ispirati agli antichi. Quindi, seppure non nei termini in cui lo leggiamo oggi, un appello all'autonomia e al coraggio innovativo nel suo aforisma c'era. Diceva l'aforisma che "noi vediamo più lontano degli antichi". Evidentemente la metafora è spaziale e sottintende una marcia verso un orizzonte. Non possiamo dimenticare che la storia, come movimento progressivo verso il futuro, dalla creazione alla redenzione, e da questa al ritorno del Cristo trionfante, è una invenzione dei padri della Chiesa - per cui, piaccia o non piaccia, senza cristianesimo (sia pure con il messianismo ebraico alle spalle) né Hegel né Marx avrebbero potuto parlare di quelle che Leopardi vedeva scetticamente come "le magnifiche sorti e progressive" L'aforisma appare all'inizio del 12esimo secolo. Da meno di un secolo si è sopito un dibattito che aveva attraversato il mondo cristiano dalle prime letture dell'Apocalisse sino ai terrori dell'Anno Mille - certamente leggendari quanto a movimento di massa, ma presenti in tutta la letteratura millenaristica e in molte correnti eretiche più o meno sotterranee. Il millenarismo, ovvero l'attesa nevrotica di una fine dei tempi, nel momento in cui nasce l'aforisma, rimane patrimonio attivo di tanti movimenti ereticali ma scompare dalla discussione ortodossa. Si procede verso la Parusia finale, ma essa diventa il punto terminale ideale di una storia che viene vista in positivo. I nani diventano il simbolo di questa marcia verso l'avvenire. Dall'apparizione medievale dei nani inizia la storia della modernità come innovazione che può essere tale perché ritrova modelli dimenticati dai padri. Prendiamo per esempio la curiosa situazione dei primi umanisti, e di filosofi come Pico o Ficino. Sono i protagonisti, ci raccontano a scuola, di una battaglia contro il mondo medievale, ed è più o meno in questo periodo che appare la parola «gotico", con connotazioni non del tutto favorevoli. Eppure il platonismo rinascimentale che fa? Oppone Platone ad Aristotele, scopre il Corpus Hermeticum o gli Oracoli Caldaici, costruisce il nuovo sapere su una sapienza prisca, anteriore allo stesso Gesù Cristo. Umanesimo e Rinascimento sono moti culturali comunemente intesi come rivoluzionari, che tuttavia impostano la loro strategia innovatrice su un colpo di mano tra i più reazionari che siano mai esistiti, se per reazionarismo filosofico si intende un ritorno alla Tradizione intemporale. E dunque siamo di fronte a un parricidio che elimina i padri ricorrendo ai nonni, ed è sulle loro spalle che si cercherà di ricostruire la visione rinascimentale dell'uomo come centro del cosmo. E' probabilmente con la scienza secentesca che la cultura occidentale si rende conto di aver messo il mondo a gambe all'aria, e dunque di avere rivoluzionato davvero il sapere. Ma il punto di partenza, l'ipotesi copernicana, si rifaceva a reminiscenze platoniche e pitagoriche. I gesuiti del periodo barocco cercano di costruire una modernità alternativa a quella copernicana riscoprendo antiche scritture e civiltà del lontano Oriente. Isaac de la Peyrère, eretico patentato, aveva cercato di mostrare (uccidendo le cronologie bibliche) che il mondo era iniziato molto prima di Adamo, nei mari della Cina, e che pertanto l'Incarnazione era stata solo un episodio secondario nella storia di questo nostro globo. Vico vede l'intera storia umana come un processo che ci porta dai giganti di un tempo a riflettere finalmente con mente pura. L'Illuminismo si sente radicalmente moderno, e come effetto marginale il proprio padre lo uccide davvero, usando come capro espiatorio Luigi Capeto. Ma anche qui, basta leggere l'Encyclopédie, ai giganti del passato si rivolge sovente. L'Encyclopédie presenta tavole incise piene di macchine, celebrando la nuova industria manifatturiera, ma non disdegna articoli "revisionisti" (nel senso che rilegge, da nano attivissimo, la storia) in cui si rivisitano antiche dottrine. 125
Le grandi rivoluzioni copernicane del 19esimo secolo si richiamano sempre a giganti precedenti. Kant aveva bisogno che Hume lo risvegliasse dal suo sonno dogmatico, i romantici si dispongono alla Tempesta e all'Assalto riscoprendo le brume e i castelli medievali, Hegel sancisce definitivamente il primato del nuovo verso l'antico (vedendo la Storia come movimento perfettivo senza scorie e nostalgie) rileggendo l'intera storia del pensiero umano, Marx elabora il proprio materialismo partendo, con la sua tesi di laurea, dagli atomisti greci, Darwin uccide i suoi padri biblici eleggendo a giganti le grandi scimmie antropomorfe, sulle cui spalle gli uomini discendono dagli alberi e si ritrovano, ancora pieni di stupore e ferocia, a dover amministrare quella meraviglia dell'evoluzione che è il pollice contrapposto. Con la seconda metà del 19esimo secolo si fa strada un movimento di innovazione artistica che si risolve quasi interamente in una riappropriazione del passato, dai preraffaelliti ai decadenti. La riscoperta di alcuni padri remoti serve come rivolta contro i padri diretti, corrotti dai telai meccanici. E Carducci si farà araldo della modernità con un Inno a Satana, ma cercherà di continuo ragioni e ideali nel mito dell'Italia comunale. Le avanguardie storiche di inizio Novecento rappresentano il punto estremo del parricidio modernista, che dice di volersi ormai libero da ogni ossequio verso il passato. E la vittoria della macchina da corsa contro la Vittoria di Samotracia, l'uccisione del chiaro di luna, il culto della guerra come sola igiene del mondo, la scomposizione cubista delle forme, la marcia dall'astrazione alla tela bianca, la sostituzione della musica col rumore, o col silenzio, o almeno della scala tonale con la serie, della curtain wall che non domina bensì assorbe l'ambiente, dell'edificio come stele, puro parallelepipedo, della minimal art; e in letteratura della distruzione del flusso discorsivo e dei tempi narrativi in favore del collage e della pagina bianca. Ma anche qui riemerge, sotto il rifiuto di nuovi giganti che vogliono azzerare l'eredità dei giganti antichi, l'ossequio del nano. Non dico tanto Marinetti che, per farsi perdonare l'uccisione del chiaro di luna, entrerà nell'Accademia d'Italia, che il chiaro di luna vedeva con molta simpatia. Ma Picasso arriva a sfigurare il volto umano partendo da una meditazione sui modelli classici e rinascimentali, e ritorna infine a una rivisitazione di antichi minotauri, Duchamp fa il baffo alla Gioconda, ma ha bisogno della Gioconda per fare il suo baffo, Magritte per negare che quella che dipinge sia una pipa deve dipingere, con puntiglioso realismo, una pipa. E infine, il grande parricidio compiuto sul corpo storico del romanzo, quello di Joyce, si instaura assumendo il modello della narrazione omerica. Anche il nuovissimo Ulisse naviga sulle spalle, o sull'albero maestro, dell'antico. Con il che arriviamo al cosiddetto post-moderno. Post-moderno è certamente un termine tuttofare, che si può applicare a molte cose e forse a troppe. Ma c'è certamente un punto in comune con le varie operazioni dette postmoderne, e nasce come reazione, magari inconscia, alla Seconda Inattuale di Nietzsche, dove si denunzia l'eccesso della nostra consapevolezza storica. Se questa consapevolezza non può essere neppure eliminata dal gesto rivoluzionario delle avanguardie, tanto vale accettare l'angoscia dell'influenza, rivisitare il passato in forma di omaggio apparente, in effetti riconsiderandolo a quella distanza che è consentita dall'ironia. Veniamo infine all'ultimo episodio di rivolta generazionale, chiaro esempio di contestazione dei giovani "nuovi" contro la società adulta, dei giovani che avvertono di non fidarsi di chi ha più di trent'anni, il '68. A parte i figli dei fiori americani che traggono ispirazione dal messaggio del vecchio Marcuse, gli slogan gridati nei cortei italiani ("Viva Marx", "Viva Lenin", "Viva Mao Tze Tung! ") ci dicono quanto la rivolta avesse bisogno di giganti da ricuperare contro il tradimento dei padri della sinistra parlamentare, e torna persino in scena il puer senilis, l'icona di un Che Guevara morto giovane ma trasfigurato dalla morte come portatore di ogni prisca virtù. Ma dal 1968 a oggi è accaduto qualcosa, e ce ne rendiamo conto se andiamo a esaminare un fenomeno che alcuni, superficialmente, vedono come un nuovo 1968, dico il movimento antiglobalizzazione. Spesso la stampa dà maggiore evidenza a certe sue componenti giovanili, ma esse non esauriscono il movimento, a cui pare aderiscano anche prelati ultrasessantenni. Il 1968 era veramente invenzione generazionale, a cui al massimo si adattavano adulti disadattati, che abbandonavano misticamente la cravatta per il maglione, e il dopobarba per una traspirazione liberata e liberatoria. Ma uno degli slogan iniziali del movimento era la raccomandazione a non fidarsi di chi avesse più di trent'anni. Il movimento antiglobalizzazione, invece, per gran parte non è fenomeno giovanile, e i suoi leader sono adulti maturi come Bové o reduci di altre rivoluzioni. Non rappresenta un conflitto tra generazioni, e neppure tra tradizione e innovazione, altrimenti si dovrebbe dire (altrettanto superficialmente) che gli innovatori sono i tecnocrati della globalizzazione, e i manifestanti soltanto laudatores temporis acti con nostalgie luddiste. Quello che sta avvenendo, dai fatti di Seattle a quelli di Genova, rappresenta certamente una novissima forma del confronto politico, ma questo confronto è assolutamente trasversale sia rispetto alle generazioni che alle ideologie. In esso si oppongono due istanze, due visioni del destino del mondo, vorrei dire due poteri, uno basato sul possesso dei mezzi di produzione e l'altro sull'invenzione di nuovi mezzi di comunicazione. Però, nella battaglia che oppone i globalizzatori alle tute bianche, giovani e vecchi stanno egualmente distribuiti da ambo le parti, e i quarantenni rampanti della new economy si oppongono ai quarantenni dei centri sociali, ciascuno con i propri anziani a fianco. E' che nei trenta e più anni che separano il 1968 dalla battaglia del G8 si è compiuto un processo avviato molto 126
prima. Cerchiamo di capirne la meccanica interna. In ogni tempo, perché s'instaurasse una dialettica tra figli e padri, occorreva un modello paterno molto forte, rispetto al quale la provocazione del figlio fosse tale che il padre non potesse accettarla, e in essa non potesse accettare neppure la riscoperta dei giganti dimenticati. Non potevano essere accettati i nuovi poeti quia nuper, come diceva Orazio; era inaccettabile il volgare ai paludati latinisti delle università; Tommaso e Bonaventura innovavano sperando che nessuno se ne accorgesse, ma i nemici degli ordini mendicanti, all'università di Parigi, se ne erano accorti benissimo e avevano cercato di mettere al bando il loro insegnamento. E così via, sino all'automobile di Marinetti, che poteva essere opposta alla Vittoria di Samotracia perché e solo perché i benpensanti la vedevano ancora come un orrido ammasso di ferraglia digrignante. I modelli dovevano dunque essere generazionali. Occorreva che i padri avessero venerato le Veneri anoressiche di Cranach perché sentissero come un insulto alla bellezza le Veneri cellulitiche di Rubens; occorreva che i padri avessero amato Alma Tadema affinché potessero chiedere ai figli che cosa mai significava quello scarabocchio di Miró, o la riscoperta dell'arte africana; occorreva che i padri avessero delirato per Greta Garbo affinché domandassero scandalizzati ai figli che cosa ci trovassero in quella scimmietta di Brigitte Bardot. Ma oggi i massmedia, e la stessa mediatizzazione dei musei, visitati anche dagli indotti di un tempo, hanno generato la compresenza e l'accettazione sincretistica di tutti i modelli, per non dire di tutti i valori. Quando Megan Gale volteggia tra le cupole e le volute del museo Guggenheim di Bilbao, sia il modello sessuale sia il modello artistico sono appetibili da ogni generazione: il museo è sessualmente desiderabile quanto Megan e Megan oggetto culturale tanto quanto il museo, dato che entrambi vivono nell'amalgama di un'invenzione cinematografica che unisce la gastronomicità dell'appello pubblicitario all'arditezza estetica di quello che una volta era solo film da cineteca. Tra nuove proposte ed esercizi di nostalgia la televisione rende transgenerazionali modelli come Che Guevara e Madre Teresa di Calcutta, Lady Diana e Padre Pio, Rita Hayworth, Brigitte Bardot e Julia Roberts, il virilissimo John Wayne degli anni quaranta e il mansueto Dustin Hoffman degli anni sessanta. L'esile Fred Astaire degli anni trenta danza negli anni cinquanta con il tarchiato Gene Kelly, lo schermo ci fa sognare su toelette femmineamente sontuose come quelle che vediamo sfilare in Roberta, e sui modelli androgini di Coco Chanel. Per chi non ha la bellezza maschia e raffinata di Richard Gere, c'è il fascino esile di Al Pacino e la simpatia proletaria di Robert De Niro. Per chi non può arrivare a possedere la maestà di una Maserati, c'è l'elegante utilità della Mini Morris. I mass-media non presentano più alcun modello unificato. Possono ricuperare, anche in una pubblicità destinata a durare una sola settimana, tutte le esperienze dell'avanguardia, e al tempo stesso riscoprire un'iconografia ottocentesca: offrono il realismo fiabesco dei giochi di ruolo e le prospettive stralunate di Escher, l'opulenza di Marilyn Monroe e la grazia tisicuzza delle nuove top girls, la bellezza extracomunitaria di Naomi Campbell e quella nordica di Claudia Schiffer, la grazia del tip tap tradizionale di A Chorus Line e le architetture futuristiche e agghiaccianti di Blade Runner, l'androginia di Jodie Foster e l'acqua e sapone di Cameron Diaz, Rambo e Platinette, George Clooney (che tutti i padri vorrebbero come figlio neolaureato in medicina) e i neocyborg che metallizzano il volto e trasformano i capelli in una foresta di cuspidi colorate. Di fronte a quest'orgia della tolleranza, a questo assoluto e inarrestabile politeismo, qual è ancora la linea di displuvio che separa i padri dai figli, e costringe gli ultimi al parricidio (che è ribellione e omaggio) e i primi al complesso di Saturno? Siamo appena all'alba di questo nuovo corso, ma pensiamo per un solo istante all'apparizione prima del personal computer e poi di Internet. Il computer entra nelle case portato dai padri, se non altro per ragioni economiche; i figli non lo rifiutano e se ne impadroniscono, possono superare i padri in abilità, ma nessuno dei due vi vede il simbolo della ribellione o della resistenza dell'altro. Il computer non divide le generazioni, se mai le unisce. Nessuno maledice il figlio perché naviga su Internet, nessuno per la stessa ragione si oppone al padre. Non è che sia assente l'innovazione, ma è quasi sempre innovazione tecnologica che, imposta da un centro di produzione interne di nuovi mezzi di comunicazione. Però, nella battaglia che oppone i globalizzatori alle tute bianche, giovani e vecchi stanno egualmente distribuiti da ambo le parti, e i quarantenni rampanti della new economy si oppongono ai quarantenni dei centri sociali, ciascuno con i propri anziani a fianco. E' che nei trenta e più anni che separano il 1968 dalla battaglia del G8 si è compiuto un processo avviato molto prima. Cerchiamo di capirne la meccanica interna. In ogni tempo, perché s'instaurasse una dialettica tra figli e padri, occorreva un modello paterno molto forte, rispetto al quale la provocazione del figlio fosse tale che il padre non potesse accettarla, e in essa non potesse accettare neppure la riscoperta dei giganti dimenticati. Non potevano essere accettati i nuovi poeti quota nuper, come diceva Orazio; era inaccettabile il volgare ai paludati latinisti delle università; Tommaso e Bonaventura innovavano sperando che nessuno se ne accorgesse, ma i nemici degli ordini mendicanti, all'università di Parigi, se ne erano accorti benissimo e avevano cercato di mettere al bando il loro insegnamento. E così via, sino all'automobile di Marinetti, che poteva essere opposta alla Vittoria di Samotracia perché e solo perché i benpensanti la vedevano ancora come un orrido ammasso di ferraglia digrignante. I modelli dovevano dunque essere generazionali. Occorreva che i padri avessero venerato le Veneri anoressiche di 127
Cranach perché sentissero come un insulto alla bellezza le Veneri cellulitiche di Rubens; occorreva che i padri avessero amato Alma Tadema affinché potessero chiedere ai figli che cosa mai significava quello scarabocchio di Miró, o la riscoperta dell'arte africana; occorreva che i padri avessero delirato per Greta Garbo affinché domandassero scandalizzati ai figli che cosa ci trovassero in quella scimmietta di Brigitte Bardot. Ma oggi i mass-media, e la stessa mediatizzazione dei musei, visitati anche dagli indotti di un tempo, hanno generato la compresenza e l'accettazione sincretistica di tutti i modelli, per non dire di tutti i valori. Quando Megan Gale volteggia tra le cupole e le volute del museo Guggenheim di Bilbao, sia il modello sessuale sia il modello artistico sono appetibili da ogni generazione: il museo è sessualmente desiderabile quanto Megan e Megan oggetto culturale tanto quanto il museo, dato che entrambi vivono nell'amalgama di un'invenzione cinematografica che unisce la gastronomicità dell'appello pubblicitario all'arditezza estetica di quello che una volta era solo film da cineteca. Tra nuove proposte ed esercizi di nostalgia la televisione rende transgenerazionali modelli come Che Guevara e Madre Teresa di Calcutta, Lady Diana e Padre Pio, Rita Hayworth, Brigitte Bardot e Julia Roberts, il virilissimo John Wayne degli anni quaranta e il mansueto Dustin Hoffman degli anni sessanta. L'esile Fred Astaire degli anni trenta danza negli anni cinquanta con il tarchiato Gene Kelly, lo schermo ci fa sognare su toelette femmineamente sontuose come quelle che vediamo sfilare in Roberta, e sui modelliandrogini di Coco Chanel. Per chi non ha la bellezza maschia e raffinata di Richard Gere, c'è il fascino esile di Al Pacino e la simpatia proletaria di Robert De Niro. Per chi non può arrivare a possedere la maestà di una Maserati, c'è l'elegante utilità della Mini Morris. I mass-media non presentano più alcun modello unificato. Possono ricuperare, anche in una pubblicità destinata a durare una sola settimana, tutte le esperienze dell'avanguardia, e al tempo stesso riscoprire un'iconografia ottocentesca: offrono il realismo fiabesco dei giochi di ruolo e le prospettive stralunate di Escher, l'opulenza di Marilyn Monroe e la grazia tisicuzza delle nuove top girls, la bellezza extracomunitaria di Naomi Campbell e quella nordica di Claudia Schiffer, la grazia del tip tap tradizionale di A Chorus Line e le architetture futuristiche e agghiaccianti di Blade Runner, l'androginia di Jodie Foster e l'acqua e sapone di Cameron Diaz, Rambo e Platinette, George Clooney (che tutti i padri vorrebbero come figlio neolaureato in medicina) e i neocyborg che metallizzano il volto e trasformano i capelli in una foresta di cuspidi colorate. Di fronte a quest'orgia della tolleranza, a questo assoluto e inarrestabile politeismo, qual è ancora la linea di displuvio che separa i padri dai figli, e costringe gli ultimi al parricidio (che è ribellione e omaggio) e i primi al complesso di Saturno? Siamo appena all'alba di questo nuovo corso, ma pensiamo per un solo istante all'apparizione prima del personal computer e poi di Internet. Il computer entra nelle case portato dai padri, se non altro per ragioni economiche; i figli non lo rifiutano e se ne impadroniscono, possono superare i padri in abilità, ma nessuno dei due vi vede il simbolo della ribellione o della resistenza dell'altro. Il computer non divide le generazioni, se mai le unisce. Nessuno maledice il figlio perché naviga su Internet, nessuno per la stessa ragione si oppone al padre. Non è che sia assente l'innovazione, ma è quasi sempre innovazione tecnologica che, imposta da un centro di produzione internazionale normalmente diretto da anziani, poi crea voghe accettate dalle generazioni più giovani. Si parla oggi del nuovo linguaggio giovanile del telefonino e della email, ma posso esibirvi saggi scritti dieci anni fa in cui gli stessi che avevano creato i nuovi strumenti, o gli anziani sociologi e semiologi che li studiavano, vaticinavano che avrebbero esattamente generato il linguaggio e le formule che di fatto ha diffuso. E se Bill Gates era un giovane agli inizi (ora è un signore maturo che impone appunto ai giovani il linguaggio che dovranno parlare) anche da giovane non ha inventato una rivolta, bensì un'offerta accorta, studiata per interessare sia i padri che i figli. Si pensa che i giovani autoemarginati si oppongano alla famiglia attraverso la fuga nella droga, ma la fuga nella droga è modello proposto dai padri, e sin dai tempi dei paradisi artificiali di ottocentesca memoria. Le nuove generazioni ricevono l'input dall'internazionale adulta dei narcotrafficanti. Certo, si potrebbe dire che non è che non vi sia opposizione di modelli, ma soltanto sostituzione accelerata. Però la cosa non cambia. Per uno spazio brevissimo di tempo un certo modello giovanile (dalla scarpa Nike all'orecchino) può apparire oltraggioso ai padri, ma la velocità della sua diffusione mediatica fa sì che entro breve esso venga riassorbito anche dagli anziani, al massimo col rischio che, entro un tempo altrettanto breve, risulti ormai ridicolo per i figli. Ma nessuno avrà il tempo di accorgersi di questo gioco a staffetta, e il risultato globale sarà sempre l'assoluto politeismo, la compresenza sincretistica di tutti i valori. E' stata un'invenzione generazionale la new age? Per i suoi contenuti, è un collage di esoterismi millenari. Può darsi che a essi, come una nuova schiera di giganti ritrovati, si siano rivolti all'inizio dei gruppi giovanili, ma immediatamente la diffusione di immagini, suoni, credenze tipica della new age, con tutti i suoi parafernali discografici, editoriali, cinematografici e religiosi, è stata gestita da vecchi marpioni dei mass-media, e se qualche giovane fugge in Oriente è per gettarsi nelle braccia di un guru anzianissimo con molte amanti e numerose Cadillac. Quelle che paiono le ultime frontiere della differenza, lo spillo nella lingua e i capelli blu, nella misura in cui non 128
sono più invenzione di pochi singoli ma modello universale, sono stati proposti ai giovani dai centri gerontocratici della moda internazionale. E presto l'influenza dei mass-media li imporrà anche ai genitori, a meno che a un certo punto giovani e vecchi li abbandonino semplicemente perché si renderanno conto che con uno spillo nella lingua si mangia male il gelato. Perché allora i padri dovrebbero ancora divorare i loro figli, perché i figli dovrebbero ancora uccidere i padri? Il rischio, per chiunque, e senza colpa di nessuno, è che in un'innovazione ininterrotta e ininterrottamente accettata da tutti, schiere di nani siedano sulle spalle di altri nani. D'altra parte, siamo realisti. In un'epoca normale, io non dovrei aver chiuso la Milanesiana, ma al massimo avervi assistito come pensionato. Le Milanesiane io le chiudevo a trent'anni. Il guaio è che se questa Milanesiana fosse stata organizzata dai ventenni, vi avrebbero portato egualmente Salman Rushdie e Terrence Malick. Benissimo, si dirà. Stiamo entrando in una nuova era in cui, col tramonto delle ideologie, l'offuscamento delle divisioni tradizionali tra destra e sinistra, progressisti e conservatori, si attenua definitivamente anche ogni conflitto generazionale. Ma è biologicamente raccomandabile che la rivolta dei figli sia solo un adeguamento superficiale ai modelli di rivolta provvisti dai padri, e che i padri divorino i figli semplicemente regalando loro gli spazi di una emarginazione variopinta? Quando il principio stesso del parricidio è in crisi, mala tempora currunt. Ma i peggiori diagnostici di ogni epoca sono proprio i contemporanei. I miei giganti mi hanno insegnato che ci sono spazi di transizione, in cui vengono a mancare le coordinate, e non si intravede bene il futuro, non si comprendono ancora le astuzie della Ragione, i complotti impercettibili dello Zeitgeist. Forse il sano ideale del parricidio sta già risorgendo in forme diverse e, con le future generazioni, figli clonati si opporranno in modo ancora imprevedibile e al padre legale e al donatore di seme. Forse nell'ombra già si aggirano giganti, che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi nani. SUGLI INCONVENIENTI E I VANTAGGI DELLA MORTE (Nota: Apparso come conclusione in La mort et l'immortalité, a cura di Frédéric Lenoir e Jean-Philippe de Tonnac. Paris: Bayard 2004). E' probabile che il pensiero filosofico sia nato come riflessione sull'inizio, ovvero sull'arché - come ci insegnano i presocratici, ma è altrettanto certo che questa riflessione è stata ispirata dalla constatazione che le cose, oltre che un inizio, hanno anche una fine. D'altra parte l'esempio classico del sillogismo per eccellenza, e dunque di un ragionamento incontrovertibile, è "tutti gli uomini sono mortali, Socrate è uomo, dunque Socrate è mortale". Che anche Socrate sia mortale è risultato di un'inferenza, ma che tutti gli uomini lo siano è una premessa indiscutibile. Tante altre verità indiscutibili, nel corso della storia (che il sole giri intorno alla terra, che ci sia generazione spontanea, che esista la pietra filosofale) sono state revocate in dubbio, ma che tutti gli uomini siano mortali, no. Al massimo, chi crede assume che Uno sia risorto: ma per potere risorgere ha dovuto morire. Per questo chi pratica la filosofia accetta la morte come il nostro orizzonte normale, e non è stato necessario attendere Heidegger per affermare che (almeno chi pensa) vive per la morte. Ho detto "chi pensa» e cioè chi pensa filosoficamente, perché conosco molte persone, anche colte, che quando qualcuno nomina la morte (e neppure la loro) fanno gesti di scongiuro. Il filosofo no, sa che deve morire e vive la propria vita, operosamente, in questa attesa. Attende la morte con serenità chi crede in una vita soprannaturale ma con serenità l'attende anche chi ritiene che a un certo punto, come insegnava Epicuro, quando la morte arriva, non dovremo preoccuparci perché noi non saremo più lì. Certamente ciascuno (anche il filosofo) desidera arrivare a quel punto senza soffrire, perché il dolore ripugna alla natura animale. Alcuni vorrebbero arrivare a quel momento senza saperlo, altri preferirebbero una lunga e cosciente approssimazione all'ora suprema, altri ancora scelgono di deciderne la data. Ma questi sono dettagli psicologici, il problema centrale è l'ineluttabilità della morte e l'atteggiamento filosofico è quello di prepararsi a essa. Le modalità di preparazione sono multiple e io ne prediligo una per cui mi permetto di autocitarmi e di riportare alcuni passi di un testo che avevo scritto alcuni anni fa, testo apparentemente scherzoso, ma che invece giudico serissimo: (Nota: "Come prepararsi serenamente alla morte", ora in La bustina di Minerva Milano: Bompiani 2000). Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: "Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?" Ho risposto che l'unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Allo stupore di Critone ho chiarito. «Vedi," gli ho detto, «come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni 129
sono intesi a dare soltanto notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l'ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile. Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per tutti i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?" Critone mi ha allora domandato: «Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?" Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche a trent'anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere a poco a poco, avere i primi deboli dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione. Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un'arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l'anellino all'orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere solo al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno pergiorno i mass-media, le affermazioni degli artisti sicuri di sé, gli apoftegmi dei politici a ruota libera, i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all'incontro con la morte. Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione, ti ostinerai a pensare che qualcuno dica cose sensate, che quel libro sia migliore di altri, che quel capopopolo voglia davvero il bene comune. E' naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena (anzi, è splendido) morire. Critone mi ha allora detto: "Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione". "Vedi," gli ho detto, "sei già sulla buona strada." Questo mio testo voleva esprimere una verità profonda, e cioè che la preparazione alla morte consiste essenzialmente nel convincersi gradatamente che Vanitas vanitatum, dixit Ecclesiastes. Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Eppure (e qui passo ad affrontare la prima parte del mio argomento), malgrado tutto questo, anche il filosofo riconosce un inconveniente doloroso della morte. La bellezza del crescere, e maturare, consiste nell'accorgersi che la vita è una meravigliosa accumulazione di sapere. Se non sei uno stolto, o uno smemorato cronico, a mano a mano che cresci, impari. E' quello che si chiama l'esperienza, per cui in tempi passati gli anziani erano giudicati i più saggi della tribù, e il loro compito era trasmettere le proprie conoscenze ai figli e ai nipoti. E' una sensazione meravigliosa accorgerti che ogni giorno apprendi qualche cosa di più, che gli stessi tuoi errori di un tempo ti hanno reso più saggio, che la tua mente (mentre magari il tuo corpo s'indebolisce) è una biblioteca che si arricchisce ogni giorno di un nuovo volume. Io sono tra coloro che non rimpiangono la giovinezza (sono lieto di averla vissuta, ma non vorrei ricominciare da capo) perché oggi mi sento più ricco di quanto non fossi un tempo. Ora, il pensiero che nel momento in cui muoio, tutta questa esperienza andrà perduta, è motivo di sofferenza e timore. Anche pensare che i miei posteri un giorno sapranno quanto me, e anche di più, non mi consola. Che spreco, decine di anni spesi per costruire un'esperienza, e poi buttare tutto. E' come bruciare la biblioteca di Alessandria, distruggere il Louvre, fare sprofondare nel mare la bellissima, ricchissima e sapientissima Atlantide. A questa tristezza poniamo rimedio operando. Per esempio scrivendo, dipingendo, costruendo città. Tu muori, ma gran parte di quello che hai accumulato non si perderà, lasci un manoscritto nella bottiglia, Raffaello è morto ma il modo in cui sapeva dipingere è ancora a nostra disposizione, e proprio perché lui è vissuto è stato possibile che Manet o Picasso dipingessero alla loro maniera. Non vorrei che questa consolazione assumesse connotazioni aristocratiche o razzistiche, come se l'unico modo per vincere la morte fosse soltanto a disposizione degli scrittori, dei pensatori, degli artisti... Anche la creatura più umile può fare del suo meglio per lasciare la propria esperienza in eredità ai figli, magari solo attraverso una trasmissione orale, o la forza del proprio esempio. Noi tutti parliamo, ci 130
raccontiamo, talora disturbiamo gli altri imponendo loro il ricordo delle nostre esperienze, proprio affinché non vadano perdute. Eppure, per tanto che possa trasmettere raccontandomi e raccontando (anche scrivendo queste poche pagine), anche se fossi Platone, Montaigne, o Einstein, per tanto che scriva o dica, non trasmetterò mai la totalità della mia esperienza vissuta - per esempio la sensazione che ho provato davanti a un volto amato, o la rivelazione che ho avuto di fronte a un tramonto, e neppure Kant ci ha pienamente trasmesso quello che ha compreso contemplando il cielo stellato sopra di sé. Questo è il vero inconveniente della morte, e anche il filosofone prova tristezza. Tanto che ciascuno di noi cerca di dedicare la propria vita a ricostruire l'esperienza che altri hanno dissipato morendo. Credo che questo abbia a che fare con la curva generale dell'entropia. Pazienza, è così che vanno le cose, e non possiamo farci nulla. Anche il filosofo deve ammettere che c'è nella morte qualcosa di indisponente. Come ovviare a questo inconveniente? Attraverso la conquista dell'immortalità, si dice. Non spetta a me discutere se l'immortalità sia una utopia o una possibilità, sia pure remota, se sia possibile raggiungerla, o se sia possibile arrivare oltre i centocinquant'anni di vita, se la vecchiaia sia solo una malattia che può essere prevenuta e curata. Sono faccende che riguardano gli scienziati. Mi limito a dare per possibile una vita lunghissima o infinita, perché solo in tal modo posso riflettere sui vantaggi della morte. Se dovessi, se potessi scegliere, e fossi sicuro che non passerei i miei ultimi anni colpito da intorbidamenti senili della carne o dello spirito, direi che preferirei vivere cento e forse anche centoventi anni piuttosto che settantacinque (in questo i filosofi sono come tutti gli altri). Ma è proprio pensandomi centenario che inizio a coprire gli inconvenienti dell'immortalità. Il primo quesito è certamente se a tardissima età arriverei da solo (unico privilegiato), o se questa possibilità fosse offerta a tutti. Se fosse concessa a me solo mi vedrei scomparire d'intorno, a poco a poco, le persone care, i miei stessi figli e i miei stessi nipoti. Se questi nipoti mi trasmettessero dei loro figli e dei loro nipoti, potrei attaccarmi a loro, e consolarmi con loro della scomparsa dei loro padri. Ma lo strascico di dolore e nostalgia che mi accompagnerebbe per questa lunga vecchiaia sarebbe insostenibile, per non dire del rimorso di essere sopravvissuto. E poi, se la saggezza consistesse, come avevo scritto, nella persuasione crescente di vivere in un mondo di stolti, come potrei sopportare la mia sopravvivenza di uomo saggio in un universo di dementi? E se mi accorgessi di essere l'unico a conservare memorie in un mondo di smemorati regrediti a fasi preistoriche, come reggerei alla mia solitudine intellettuale e morale? Peggio ancora accadrebbe se, come è probabile, la crescita della mia esperienza personale fosse più lenta dello sviluppo delle esperienze collettive, e vivessi con una modesta saggezza demodée in una comunità di giovani che mi supera in flessibilità intellettuale. Ma pessimo sarebbe se l'immortalità e la lunghissima vita fossero concesse a tutti. Anzitutto vivrei in un mondo sovrappopolato di ultracentenari (o di millenari) che sottraggono spazio vitale alle nuove generazioni, e mi troverei piombato in un atroce struggle for lífe, dove i miei discendenti mi vorrebbero finalmente morto. Sì, ci sarebbe la possibilità della colonizzazione dei pianeti, ma a quel punto o dovrei emigrare io, coi miei coetanei, pioniere nella Galassia, oppresso da una insanabile nostalgia della Terra, o emigrerebbero i più giovani, lasciando la Terra a noi immortali, e mi ritroverei prigioniero su un pianeta invecchiato, a biascicare ricordi con altri vegliardi ormai divenuti insopportabili nella loro ripetizione costante e inarrestabile del già detto. Chi mi dice che non mi verrebbero a noia tutte quelle cose che nei miei primi cento anni erano state motivo di stupore, meraviglia, gioia della scoperta? Proverei ancora piacere a rileggere per la millesima volta l'Iliade o ad ascoltare senza sosta il Clavicembalo ben temperato? Riuscirei ancora a sopportare un'alba, una rosa, un prato fiorito, il sapore del miele? Perdrix, perdrix, toujours perdrix... Comincio a sospettare che la tristezza che mi coglie al pensieroche, morendo, perderei tutto il mio tesoro di esperienza sia affine a quella che mi prende al pensiero che, sopravvivendo, di questa esperienza oppressiva, fanée e forse ammuffita, inizierei a provare fastidio. Forse è meglio continuare, per gli anni che ancora mi saranno dati, a lasciare messaggi in una bottiglia per quelli che verranno, e attendere quella che Francesco chiamava Sorella Morte. FINE
INDICE
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I PASSI DEL GAMBERO I. LA GUERRA, LA PACE E ALTRO Alcune riflessioni sulla guerra e sulla pace. Amare l'America e marciare per la pace. Prospettive per l'Europa. Il lupo e l'agnello. Retorica della prevaricazione. Norberto Bobbio: la missione del dotto rivisitata. Illuminismo e senso comune. Dal gioco al Carnevale. La perdita della privatezza. Sul politically correct. Che cos'è una scuola privata. Scienza, tecnologia e magia. II. CRONACHE DI UN REGIME Per chi suona la campana. Appello 2001 a un referendum morale. La campagna del 2001 e le tecniche vetero-comuniste. Sul populismo mediatico. Serl Jirsi del popolo. Demonizzare Berlusconi? Gli occhi del Duce. Ammazza l'uccellino. Disertare il parlamento. Populismo sì, ma la piazza no. L'Italia dei comici. Una situazione tragica. Come fare un contratto coi romani. Noi e gli stranieri. Spazzatura e banane. Remare contro. Tra il dire e il fare. E' il Texas, bello mio! Revisionare. Alcuni ricordi della mia infanzia fascista. Le occultazioni palesi. L'egemonia della sinistra. Si stava meglio quando si stava peggio? La rivolta contro la legge. Ora tiriamo le monetine ai giudici. Alcuni progetti di riforma rivoluzionaria. Contra Custodes. Dalla Celere a Ricky Memphis. La pasta Cunegonda. Postilla scatologica. Cronache del Basso Impero. III. RITORNO AL GRANDE GIOCO Tra Watson e Lawrence d'Arabia. Questa storia l'ho già sentita. Documentarsi, prima. Per fare la guerra occorre cultura. Si può vincere avendo torto. Cronache del Grande Gioco. Le parole sono pietre. Guerra di parole. Quelli che "capiscono" Bin Laden. 132
Fondamentalismo, integrismo, razzismo. Guerra civile, resistenza e terrorismo. Ritorno agli anni settanta. Kamikaze e assassini. IV. IL RITORNO ALLE CROCIATE Guerre sante, passione e ragione. Negoziare in una società multietnica. La presa di Gerusalemme. Cronaca in diretta. Miss, fondamentalisti e lebbrosi. Che facciamo dei pre-adamiti? V. LA SUMMA E IL RESTO Le radici dell'Europa. Il crocifisso, gli usi e i costumi. Sull'anima degli embrioni. Il Caso e il Disegno Intelligente. Giù le mani da mio Figlio! Chi non crede più in Dio crede a tutto. Credere all'Anno Zero. Credere all'alchimia. Credere a padre Amorth. Credere ai sensitivi. Credere ai Templari. Credere a Dan Brown. Credere alla Tradizione. Credere nel Trismegisto. Credere nel Terzo Segreto. I Pacs e il cardinal Ruini. Relativismo? VI. LA DIFESA DELLA RAZZA Gli italiani sono antisemiti? Il Complotto. Alcuni dei miei migliori amici. Alcuni dei suoi migliori amici. VII. CERCHIAMO ALMENO DI DIVERTIRCI Su un congresso teologico berlusconiano. Il dono della postmonizione. Il codice Enigma. La certosa di Parmalat. Profezie per il nuovo millennio. Rassegna stampa del 2010. Come eleggere il presidente. Ecco un bel gioco. Quel ramo del lagodi.com. VIII. IL CREPUSCOLO D'INIZIO MILLENNIO Un sogno. Sulle spalle dei giganti. Sugli inconvenienti e i vantaggi della morte.
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BOMPIANI OVERLOOK 2006 RCS Libri S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano ISBN 88-452-5620-0 Prima edizione Bompiani febbraio 2006 Terza edizione Bompiani febbraio 2006
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