Tempo di spettri
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Zitiervorschau

gli Adelphi

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LEO PERUTZ

Tempo di spettri

gli Adelphi

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Dalla Russia alla Turchia, alla Francia, all’I­ talia, a Vienna: una furibonda caccia all’uo­ mo in un’epoca in cui tutti avevano «paura perfino della loro ombra».

In copertina: Carel Willink, La lettera (1932). Stedelijk Mu­ seum, Amsterdam. © M R S S . W IL L IN K c/o D E T U L P P ER S, A K ER SLO O T, H O LLA N D

L. 15.000

ISBN 88-459-1384-8

9 788845 91 3846

€ 7.75

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

gli Adelphi 132

Leo Perutz (1884-1957) crebbe fra Praga e Vienna nei grandi anni della cultura mittel­ europea: fu amico di Kafka e di Schnitzler e maestro di Lernet-Holenia. Nel 1938, a se­ guito dell’Anschluss, fu costretto ad abbando­ nare l’Austria e da allora si stabilì in Israele. Matematico di professione, cominciò a pub­ blicare romanzi e racconti fantastici a partire dal 1915. Tempo di spettri apparve per la prima volta a puntate nel 1928 su un giornale ber­ linese e fu subito accolto da uno strepitoso successo. Di Perutz Adelphi ha pubblicato anche II marchese di Bolibar (1987) e II cavaliere svedese (1991).

LEO PERUTZ

Tempo di spettri

A D E L P H I E D IZ IO N I

п гош o r i g i n a l e : Wohin rollst du, Apfelrhen...

Traduzione di Rosella Carpinella Guarneri

© 1987 P A U L

ZSO LN A Y V ER LA G G E SE L L SC H A FT , W IE N -H A M B U R G

© 1992 A D E L P H I E D I Z I O N I S .P .A . M I L A N O I edizione gli Adelphi: maggio 1998 ISBN 88-459-1384-8

INDICE

Viene il giorno Tempo di spettri Allarme Il confine La Furiosa All’assalto Dove rotoli... Seljukov

11 28 84 109 146 179 197 224

Note all’edizione italiana

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TEMPO DI SPETTRI

Per le espressioni russe che ricorrono nel romanzo e per gli avvenimenti e i personaggi storici che vi sono ricor­ dati, si vedano le note raccolte alla fine del volume.

VIENE IL GIORNO

L’inatteso controllo nel grande atrio della stazio­ ne trasformato in ospedale militare era stato l’ulti­ mo episodio eccitante. Da Mosca in poi il viaggio proseguì senza intoppi. Quando Kohout tirò fuori dalla tasca il logoro mazzo di carte e propose una partita a ventuno osservando che aveva diritto alla rivincita, furono tutti d’accordo, anche Feuerstein, che alla stazione aveva avuto un collasso durante l’appello. A Tuia il dottor Emperger, che teneva la cassa comune, scese dal treno e comprò del pane, delle uova e acqua bollente per il tè, riuscendo perfino a scovare due tavolette di cioccolato. Quando tornò, disse che ormai aveva preso commiato dalla Russia, definitivamente e per sempre, e che per l’ultima volta in questa vita aveva calpestato il suolo russo. Perché adesso, in fondo, a sentir lui, si trovava già in territorio neutrale: il treno ospedale non riusci­ va a considerarlo parte della Russia. Vittorin si rabbuiò. - Ah sì, il dottor Emperger non voleva tornare più in Russia, in nessun caso? E se la scelta fosse caduta su di lui? C’era qualche 11

intenzione nascosti!, dietro le sue parole? Voleva forse mettere le mani avanti, far capire in maniera abile e subdola che non si sentiva legato al patto? Alzò gli occhi dalle carte. Ma nel viso del dottor Emperger, in quegli occhi sporgenti e totalmente inespressivi, non trovò nulla che potesse conferma­ re il suo sospetto. Impossibile! Tutti e cinque, solennemente, aveva­ no dato la loro parola. Giuro come ufficiale e uomo d’onore - questa era stata la formula. Indietro non si poteva più tornare. Forse il dottor Emperger non si rendeva ben conto della portata della sua osser­ vazione, forse aveva semplicemente parlato senza riflettere. In tal caso un richiamo, sia pure amiche­ vole nel tono, era quel che ci voleva. Vittorin depose le carte e si abbottonò la giubba. Ma mentre ancora rifletteva, il sottotenente Kohout lo prevenne. «Mio caro,» disse rivolto a Emperger «ho l’im­ pressione che tu voglia tirarti indietro. Uno di noi deve tornare, lo sai benissimo. Chi ti dice che non sarai tu quello?». «Mi hai frainteso, Kohout» spiegò il dottor Em­ perger. «Certo che uno di noi ci torna. Ma come prigioniero di guerra la santa Russia non mi vede più. Ammesso che ci torni, sarò un uomo libero, e allora è tutta un’altra cosa, non ti pare?». «Il nome di Seljukov me lo terrò a mente» disse Feuerstein. «Quel nome non me lo scorderò finché campo. Su di me potete contare». «La faccenda è sistemata da un pezzo» esclamò dal finestrino il professor Junker. « Chi è stato a ri­ cominciare daccapo? Dobbiamo proprio rovinarci questo bel viaggio, in un vagone pulito, quasi eu­ ropeo, col ricordo del signor capitano?». Vittorin chiuse gli occhi. - Neanche a pensarci di poter delegare una faccenda così seria al dottor Emperger. Un figlio di mamma, rammollito, viziato, infido sotto tutti gli aspetti. Una persona simpatica, 12

per il resto, un buon commilitone, forse anche co­ raggioso, d’accordo, visto che gli hanno dato la me­ daglietta d’argento, ma con tutte quelle storie di donne! Non ha altro in testa che avventure galanti. E la Fritzi, la Hansi, la Frieda del circolo di patti­ naggio, cento volte mi sono dovuto sorbire le sue storie di donne. Sera dopo sera, quando la partita a scacchi era finita. - Quelli sì erano tempi! - la frase d’esordio era sempre la stessa. E poi veniva la Han­ si e la bella moglie del consigliere ministeriale e la Lilly del Kaiserbar, che ogni volta gli morsicava le labbra. - Si crede irresistibile. E anche di coraggio non deve averne granché, nonostante la medaglia. Sulle prime non voleva nemmeno partire, giorno e notte ci rompeva i timpani: Vedrete, da Omsk non ne veniamo fuori, a Omsk restiamo impantanati. E adesso tutt’a un tratto fa il duro, qui sul treno si dà arie da comandante della tradotta. No, quello è uno che non va votato, ci penserò io a impedirlo. Anche il professore è fuori questione, non è mai stato un ufficiale. La scienza non può fare a meno di lui, di­ rò se qualcuno dovesse proporlo. Kohout? Con quel braccio rigido? Rimane soltanto Feuerstein. Quello sì è un osso duro. E un tipo scaltro, Feuer­ stein, un furbo di tre cotte, la spunta sempre, ottie­ ne tutto quel che vuole. Lo svenimento alla stazio­ ne, di certo l’ha soltanto simulato: non ha docu­ menti, neppure un certificato medico. Sul fatto che rinunci senz’altro a mio favore non ci metterei la mano sul fuoco. E di soldi ne ha, dicono addirittura che sia ricchissimo, un industriale. Ma i soldi e la professione giocano semmai contro di lui. In ogni caso farò notare che uno che si assume un incarico come questo non può permettersi legami di nessun genere. Feuerstein penserà sempre e soltanto alla sua fabbrica e agli affari che potrebbero sfumargli. No, questo è meglio che non lo dica, perché lui alla fin fine potrebbe anche... dopo tutto deve tirar fuo­ ri i soldi, abbiamo bisogno di lui, non posso per­ ii

mettermi di urtarlo. Non sa rii facile indurlo a tirar­ si indietro. Kohout vota di sicuro per me, su di lui posso fare affidamento... «Al diavolo, si può sapere che cosa sta succeden­ do con questo treno? Dobbiamo restare qui in eter­ no?» gridò Kohout. «E queU’Emperger, dove si è cacciato? Professore, chiuda un po’ il finestrino, c’è una corrente bestiale». Il professore passava il tempo a gridare «Do svidanija, auf Wiedersehen» alle contadine ferme davanti alla stazione. Il dottor Emperger riapparve e portò le novità. «Non è niente, un piccolo guasto alla locomoti­ va, in mezz’ora lo riparano. Sapete chi è il signore anziano dello scompartimento accanto? Un mare­ sciallo della nobiltà zarista, genero di un granduca, fuggito da Pietroburgo a rischio della vita. Non ha nient’altro che i vestiti che indossa, tutto il resto gliel’hanno portato via i bolscevichi. È stato il te­ nente a dirmelo, quello aggregato alla Croce Rossa danese. Chi vuole birra, chi vuole sigarette? Fra un’ora saremo in territorio ucraino. Ognuno di noi ha diritto a cinque settimane di licenza, dice il te­ nente, basta rivolgersi al Deposito». «Si capisce che ci devono dare la licenza» bron­ tolò Kohout. «Non c’è bisogno che me lo spieghi il tuo tenente. Andiamo avanti a giocare. Chi è di mazzo?». «Sì, ma prima dobbiamo farci tre settimane di quarantena» riprese il dottor Emperger. «In qual­ che buco della Podolia, senza scampo e senza tanti complimenti. Bella sorpresa, eh? Che ne dice, pro­ fessore?». Il professore si strinse nelle spalle. Kohout mi­ schiò, fece alzare, distribuì le carte e disse: «Vuol dire che le tue pupe dovranno pazientare ancora tre settimane. Siediti intanto». «Quando hai detto che passeremo il confine?» domandò Vittorin. 14

«Fra un’ora al massimo». «Kohout, non c’è tempo da perdere! Dobbiamo mettere in ordine il nostro bagaglio». Kohout si alzò, si stirò e prese dal portabagagli la cassetta militare che conteneva i suoi averi e quelli di Vittorin. «To’, e adesso fa’ ordine!» disse, e intanto, co­ m’era sua abitudine, si dondolava da un piede al­ l’altro e faceva ruotare le mani. «Una separazione in piena regola. Basta con la comunione dei beni». Vittorin aprì la cassetta e posò la sua roba sul se­ dile. Il nécessaire da toilette, la camicia russa, la biancheria, il giaccone di pelo col bavero di astra­ kan. Gli alti stivali di feltro, da non usare a casa, ma un bel ricordo dei tempi siberiani. La collana di crine di cavallo, artisticamente lavorata, con le quattro monete cinesi d’argento, tutte col foro al centro. Poi le lettere del padre e delle sorelle: Vally aveva scritto di rado, invece Lola, la maggiore, ave­ va mandato notizie puntualmente ogni primo e ogni quindici del mese. Un pacchetto legato con lo spago, quelle erano le lettere di Franzi Kroneis, «Mio caro ragazzo», le cominciava tutte così, lui non aveva neanche bisogno di controllare. Il foglio che stava più in alto, vergato con grafìa irregolare, era di suo fratello Oskar. Aprì la lettera e prese a leggere. «Caro fratello! E da tanto che non ti mando un mio scritto, caro fratello, e ti prego di non essere arrabbiato con me per la mia disattenzione nei tuoi confronti, caro fratello. Ora voglio parlarti un po’ delle mie occupazioni. Da qualche tempo prendo lezioni di tedesco, stenografìa, corrispondenza e francese da un professore delle commerciali, quat­ tro ore ogni settimana, per le quali pago due coro­ ne all’ora. Anche nel mio tempo libero, che per la verità è pochissimo, mi esercito in lavori scritti, co­ me pure al pianoforte. Spero che questa lunga guerra finisca presto e che tu, caro fratello, possa

tornare alla casa paterna. Abbiamo ricevuto la tua cara lettera del li). 1 dalla (piale apprendiamo che soffri della situazione di lì, per cui siamo molto preoccupati. Ti comunico inoltre che vado a teatro e che per carnevale sono stalo perfino a qualche fe­ sta dei miei colleghi. Ora in questa lettera ti ho già fatto sapere diverse cose, del che, caro fratello, sa­ rai soddisfatto, e perciò adesso chiudo questo scrit­ to con un saluto. Tuo fratello Oskar». Vittorin sorrise. Il suo fratellino, che allo scop­ pio della guerra giocava ancora con il lazo e con arco e frecce, fra poco sarebbe stato anche lui un adulto. Avanti! Il quaderno scarlatto con i vocaboli russi. Una serie di numeri del giornale ciclostilato del campo. Un blocco di carta da lettera cinese, dipinta in vari colori. Il panciotto di pelle, la grammatica inglese, il berretto tunguso. Un posacenere di legno che era stato intagliato da un dragone durante la prigionia. Una scatola di sigarette, e proprio alla fine, ben protetti, i due vasi di faenza con i manici a testa di uccello e i draghi bianchi su fondo azzur­ ro, nonché la ciotola verde di porcellana smaltata, tutti pezzi preziosi, probabilmente di epoca Ming, come aveva spiegato il dottor Emperger che di que­ ste cose se ne intendeva, acquistati per quattro sol­ di, e la ciotola di porcellana valeva da sola come minimo cinquecento rubli. Vittorin avvolse tutta la sua roba nel giaccone di pelo e con l’aiuto di una cinghia ne fece un rotolo da portare in spalla. Poi si accese una sigaretta. Il treno si mise in moto. Il professore sventolò il fazzoletto e gridò «Do svidanija». Feuerstein confes­ sò di non aver creduto all’avaria della locomotiva. Era convinto che fosse arrivato alla stazione un te­ legramma da Mosca e che all’ultimo momento lo avrebbero tirato giù dal treno. Aveva passato una mezz’ora d’inferno. Qualcuno se n’era accorto? 16

«Io sì» disse Kohout. «Eri bianco come un len­ zuolo». Il dottor Emperger cominciò a fare i conti. Spese in comune non se ne prevedevano più. Era lieto di poter comunicare che la cassa, grazie a un’oculata gestione, era in grado di restituire a ognuno dei contraenti l’importo di diciassette rubli e mezzo. Non occorreva la ricevuta. Ora però era giunto il momento solenne. Vittorin tirò fuori il suo taccuino e chiese ai compagni di viaggio, che per due anni erano stati suoi com­ pagni di stanza al campo di Cernavjensk, i rispettivi indirizzi. Il dottor Emperger, questo lo sapeva, abitava na­ turalmente nel quartiere più elegante di Vienna, Prinz-Eugen-Strasse. Era anche nell’elenco telefoni­ co. Kohout non aveva per il momento un recapito fisso. Ma gli si poteva scrivere al Café Splendid, dis­ se, e fece ruotare le mani. Il Café Splendid della Praterstrasse. Il suo caffè abituale: quando era a Vienna ci capitava una o due volte al giorno. Vittorin scrisse i quattro nomi nel taccuino e ac­ canto a ciascuno annotò il grado militare, la profes­ sione da borghese, la via e il numero. E sotto scrisse in lettere maiuscole, ben chiaro: Michail Michajlovic Seljukov, capitano di stato maggiore nel reggi­ mento Seménovskij. Con questo il primo passo era fatto. Era tutto re­ gistrato nero su bianco. Di fronte a Michail Michajlovic Seljukov stava ora un’organizzazione compat­ ta, una lega di cinque persone che avevano uno scopo ben chiaro e per raggiungerlo erano pronte a qualunque sacrificio. Ora la faccenda doveva se­ guire il suo corso. Il treno entrò a Rjechovo. Il viaggio era finito. Due ufficiali bolscevichi con la stella rossa sui ber­ retti piatti andavano su e giù fra le cataste di legna. Sull’altro lato della stazione, accanto al serbatoio dell’acqua, c’era una sentinella austriaca con fucile 17

in spalla c baionetta inastata. Un grosso cane bruno si aggirava tra i carri men i, due contadini trascina­ vano oltre il binario una gabbia per polli. Dalla porta aperta del comando di tappa uscì un maggio­ re degli honved con le ledine brizzolate, e il tenen­ te del treno ospedale si diresse verso di lui e gli fe­ ce rapporto. Nella sala ristorante della stazione di Cracovia, mentre Vittorin aspettava il direttissimo per Vien­ na, un sottotenente che portava la cordellina e le mostrine di velluto nero di un reggimento di dra­ goni lo salutò dal buffet con cenni camerateschi e confidenziali. Vittorin rispose con fare incerto e un po’ rigido. Nel frattempo l’ufficiale dei dragoni si era già avvicinato al suo tavolo. «Be’, che succede?» domandò, e adesso Vittorin riconobbe il dottor Emperger. «Devo forse presen­ tarmi? Mi fissavi con tanto d’occhi e non sapevi do­ ve collocarmi. A quanto sembra, mi conosci solo quando vado in giro con la rubaska o gli stivali di pelo; se invece ho un aspetto da cristiano, ecco che non mi conosci più. No, mio caro, il mio periodo eschimese è finito, se Dio vuole. E tu? Come ti va? Già di ritorno dal Deposito?». Non attese la risposta di Vittorin e cominciò su­ bito a raccontare di sé. «Io me la sono sbrigata molto in fretta, ho siste­ mato tutto. Cinque giorni a Brest-Litovsk sotto os­ servazione, poi una divisa nuova, e via a Vienna. Adesso sto raggiungendo il battaglione di riserva, sai, la licenza. Vienna è proprio conciata bene, non crederai ai tuoi occhi se andrai a Vienna. Che tri­ stezza! Spagnola, buio pesto di sera nelle strade, niente da mangiare. Nei ristoranti, anche nei mi­ gliori, non ti danno niente, la gente fa la fila per un pezzetto di manzo. Eh sì, mio caro, quelli erano tempi, quando a Hietzing, da Weide, mi servivano pernice bianca lardellata e anitra selvatica stufata 18

nel vino rosso. Meglio non pensarci proprio. L’Ope­ ra, quella è l’unica rimasta come prima. Ti va una buona sigaretta? Cercle du Bosphore, una marca di prima qualità, l’ho avuta da un commerciante di tappeti che è tornato da Costantinopoli la settima­ na scorsa. A Vienna corre voce che tutto l’esercito bulgaro sia passato all’Intesa; begli alleati, eh? Che cosa ci sia di vero, non saprei dirtelo». Una crocerossina che stava uscendo dalla sala ri­ storante al braccio di un capitano degli ussari gli fece un cenno col capo. Il dottor Emperger batté i tacchi e s’inchinò. «Quella è Vicky Fròhlich, sai, la nipote del ma­ gnate del carbone, adesso presta servizio a Neusandec» sussurrò a Vittorin. «Vorrei sapere come fa il capitano Nadherny a tenersela stretta. Lo conosci? Ha un occhio di vetro. E seduto tutte le mattine al Café Fenstergucker». Il capostazione annunciò dalla porta l’accelerato Jordanov-Neusandec-Gorlice-Sanok. «Ti sei più visto con qualcuno dei commilitoni?» domandò Vittorin. Il dottor Emperger seguiva con lo sguardo la cro­ cerossina. «E se pascolassi un po’ nel prato di quel Nadher­ ny?» osservò. «Troppa grazia per lui, la signorina. Qualche probabilità l’avrei di sicuro». «Hai notizie degli altri?» ripetè Vittorin. «Il professore è già a Vienna» riferì il dottor Em­ perger. «L’hanno scritto tutti i giornali: Il professor Junker rimpatriato dalla prigionia in Russia. Lui naturalmente se la passa bene, internato civile, non ha da preoccuparsi di nessun Deposito. Kohout l’ho incontrato a Brest-Litovsk, al magazzino vestia­ rio. Un tipo impossibile, davvero compromettente, fraternizza con la truppa, quello un giorno o l’altro farà una brutta fine, te lo dico io». «E Feuerstein?». «C’era suo fratello ad aspettarlo a Kiev, col foglio 19

di congedo già in lasca. Anche per me tutto è siste­ mato. Appena finisce la guerra, entro come consu­ lente legale in un istituto di credito. Il posto è là che mi aspetta». Vittorin ascoltava senza troppa attenzione. Per tutto il tempo aveva aspettato che finalmente venis­ se fuori la faccenda che continuava ad assillarlo, giorno e notte. Ma il dottor Emperger parlava sol­ tanto di cose secondarie, di cose che a lui non inte­ ressavano. Era forse un piano preordinato? Un ten­ tativo di far dimenticare il patto di Cernavjensk? Bisognava assolutamente chiarire questo punto. «C’è qualcosa di nuovo nella faccenda che sap­ piamo?» domandò Vittorin senza altri preamboli. «Ne hai parlato per caso con Kohout?». «Di che?». «Di che?» ripetè Vittorin irritato. «Del capitano, naturalmente». «Del capitano? E che cosa dovrebbe esserci di nuovo? Ora come ora non c’è niente da fare. Se de­ vo essere franco, io al capitano non ho pensato af­ fatto, e neppure a Cernavjensk ho pensato, niente, come se non ci fossi mai stato. E a te succederà lo stesso, non appena sarai di nuovo a Vienna. Soltan­ to il primo giorno, sai, come mi sveglio a casa, nel mio letto - guardo l’ora: un quarto alle sette. Per­ dio, penso, un quarto alle sette, qui bisogna alzarsi in fretta, tra poco suonano la sveglia. E poi natural­ mente sono rimasto a letto, puoi immaginarti, con un senso di benessere indescrivibile; e mentre me ne sto lì mi torna alla memoria il regolamento del campo, paragrafo due: Al segnale della sveglia tutti i prigionieri si alzano, riordinano i loro letti, fanno toilette, rassettano il loro alloggiamento. E permes­ so bere il tè fino alle otto del mattino. - Be’, tutto passa, mi dico, e ora mi è permesso bere il tè quan­ do mi pare e piace». Vittorin guardò l’orologio, chiamò il cameriere e pagò. Tra cinque minuti sarebbe arrivato il direttis­ 20

simo per Vienna. Il dottor Emperger non rinunciò ad accompagnare al binario l’amico e compagno di stanza del campo di Cernavjensk. In tutta fretta gli diede ancora qualche buon consiglio per Vienna: «Se ne hai voglia, puoi circolare tranquillamente in borghese, nessuno ci fa caso. Se vuoi comprarti qualcosa da mangiare, va’ alla stazione Nord-Ovest. Da quelle parti puoi trovare di tutto, carne, burro, uova, farina bianca, ma sì, dai militari che vengono in licenza dalla Galizia. Naturalmente chiedono certi prezzi! Nei caffè, la robaccia che chiamano moka non toccarla. Se vuoi bere un caffè come si deve, va’ al Pucher e chiedi del capocameriere, fa’ pure il mio nome. Lì hanno ancora il vero caffè turco, ma soltanto per clienti speciali». « Penso che terremo la nostra prima riunione verso Natale» disse Vittorin. «Dobbiamo soltanto organizzarci con le licenze in modo da essere tutti a Vienna nello stesso periodo». «Credo che fra poco andremo in licenza tutti quanti» rispose il dottor Emperger. «C’è qualcosa nell’aria. Ti saluto, Vittorin, arrivederci, e stammi bene». Il treno era stracolmo. Vittorin era rannicchiato accanto al suo rotolo, in un angolo del corridoio male illuminato. Voleva dormire. Ma ogni volta una voce lo strappava al suo dormiveglia, una voce che lui odiava. «Zdravstvujte» diceva la voce in tono cantilenan­ te. «Salve» diceva, e Vittorin trasaliva e per un istante vedeva quel profilo dai tratti, insoliti, la fronte molto arcuata, un po’ sporgente, la bocca appena socchiusa, con quella piega altezzosa attor­ no alle labbra, la mano sottile, abbronzata, che te­ neva la sigaretta. Aveva mai visto Michail Michajlovic Seljukov senza la sigaretta? Una volta sì, certo; verissimo. Un cosacco ubriaco aveva colpito con la nagajka un capitano della guarnigione austriaca di 21

Przemysl, e il capitano Seljukov era venuto perso­ nalmente nel quinto padiglione per esprimere al­ l’ufficiale prigioniero il proprio rincrescimento. In alta uniforme, con l’Ordine di san Vladimiro e la croce di san Giorgio: «L’uomo sarà chiamato a ren­ dere conto col massimo rigore, lei sa quale punizio­ ne è prevista dalla legge russa... un cosacco, un con­ tadino... mi creda, signor camerata, sono costerna­ to...». Poi aveva teso la mano al signor camerata con un leggero inchino. Oh sì, Michail Michajlovic Seljukov conosceva le buone maniere, non era un contadino, lui, non era un cosacco, sapeva essere charmant quando voleva. Tanto peggio. Il treno si fermò. Vittorin andò al finestrino e guardò fuori. Qui, in questa regione, una volta ave­ va trascorso le vacanze, dodici, no, quattordici anni prima. A quel tempo lo zio aveva ancora il mulino, adesso va in giro per i villaggi a vendere trebbia­ trici. Come vola il tempo. Quattordici anni. E questa notte invece non finisce mai, non vuol proprio fi­ nire. Solo un quarto all’una. Domani sono a Vien­ na. Chi sa se hanno ricevuto il mio telegramma. Chi ci sarà alla stazione? Il babbo, le sorelle, forse Franzi. Dormire, se solo potessi dormire. Chiuse gli occhi. Ma invece del sonno venne un’immagine del passato, un ricordo che lo perse­ guitava senza pietà. Era di nuovo a Cernavjensk, davanti alla porta dell’ufficio del comando. Doveva presentare un’istanza. - Seljukov sa anche essere charmant. «Esponga la sua richiesta, signor sottote­ nente » dirà. « La ascolto. Ce qui est dans mon pouvoir de faire powr les prisonniers de guerre...». Le dita di Vittorin sono irrigidite dal freddo. Starsi, il sottufficiale russo che lo accompagna, si toglie la neve dal cappotto, batte i piedi, si aggiusta il berretto e bussa. Il capitano Seljukov è seduto alla sua scrivania. Non alza lo sguardo, sfoglia un libro, fuma e scrive. 22

Ha un modo tra l’indolente e l’elegante di tenere la sigaretta mentre scrive. Con la punta del mignolo della mano sinistra la preme contro l’anulare. Sulla scrivania sono posati libri militari, moduli, romanzi francesi. L’attendente Grisa si affaccia sulla porta, vede il suo padrone occupato e scompare. Nella stanza c’è un odore leggero, delicato, è l’aroma della sigaret­ ta, tabacco cinese. E c’è qualcos’altro, un profumo insolito: naturalmente, riceve anche qualche signo­ ra. Se nella stanza c’è lei, la donna con quel viso scarno e gli occhi che guardano inquieti, la donna di cui nessuno al campo conosce il nome, se è nella stanza, non può che essersi nascosta dietro il para­ vento. Vittorin tende l’orecchio per sentire se gli giunge il suo respiro. Cinque minuti. Seljukov continua a non alzare gli occhi. Ogni tanto, mentre lui scrive, la lingua spunta fuori tra i denti, lambisce il labbro superio­ re e scompare; e Vittorin osserva questo gioco si­ lenzioso con uno strano senso di benessere che non riesce a spiegarsi. Otto minuti. La croce bianca smaltata col nastro giallo è la croce di san Giorgio. Seljukov ha anche l’Ordine di san Vladimiro e la sciabola di san Giorgio, ma quelli li porta solamen­ te in occasioni speciali. Adesso ha finito il suo lavoro. Il sottufficiale rus­ so tiene le mani lungo le cuciture dei pantaloni e dice qualche parola in russo. Michail Michajlovic Seljukov si regge la fronte con la mano e guarda davanti a sé con gli occhi socchiusi, senza vedere Vittorin. «Deve presentare la sua richiesta al sottufficiale di giornata» dice adagio e in tono indifferente, co­ me se parlasse al cappotto appeso laggiù alla pare­ te. «Il mio lavoro non è quello di ascoltare le rimo­ stranze dei prigionieri. Lei conosce la legge russa. Lei si sta mettendo contro il regolamento del cam­ 23

po. Viene qui per la terza volta a seccarmi con istanze e rimostranze». Vittorin avvampa e fissa il paravento. «Questo non è un comportamento da ufficiale» prosegue Seljukov. «In Francia Io chiamano bochis­ me. Lei rimarrà dieci giorni agli arresti, così si ri­ corda della legge russa. Può andare». Vittorin non va. Vuole parlare, giustificarsi, si prepara in francese quello che ha da dire, Seljukov deve sapere che ha a che fare con una persona edu­ cata e istruita che parla correntemente il francese. - Mon capitaìn, c’est cruel, c’est inhumain, vous compre­ nez, d’interrompre l’expédition des lettres pendant trois se­ maines, pareeque deux lampes étaient encore allumées à onze heures de la nuit. Mes camarades... Non riesce a spiccicare una parola, non è all’al­ tezza del momento. Il capitano scuote la cenere dal­ la sigaretta. Poi fa un cenno al sottufficiale. «Posél». Lo dice in tono molto pacato, come se non signi­ ficasse «fuori!», ma più o meno: Aspetti un istante. Oppure: Abbia pazienza. Posél! Il sottufficiale fa dietrofront, afferra per la spalla il sottotenente Vit­ torin e lo spinge fuori dalla porta. Nel campo della truppa, laggiù, il caporale tiro­ lese ha strangolato con le sue mani, sissignore, l’uf­ ficiale medico che gli aveva dato uno schiaffo, e il giorno dopo, senza batter ciglio, si è lasciato fucila­ re. E io? E io? Bene, Michail Michajlovic Seljukov. Le è piaciuto trattarmi en canaille. Posél. Bene. In Francia lo chia­ mano bochisme. Proprio come dice lei. Viene il gior­ no per tutto. Ne riparliamo, Michail Michajlovic Seljukov. Lei pensa che dimenticherò! Si sbaglia, si­ gnor capitano. Ci sono cose che non si dimentica­ no. Non è un comportamento da ufficiale, lei dice? In Francia lo chiamano bochisme? Pazienza, solo un 24

po’ di pazienza, signor capitano, l’ora della resa dei conti verrà, io non dimentico. Posèl. - Avrà sentito, la donna dietro il paraven­ to? Una francese, correva voce al campo, moglie di un proprietario terriero, sposata in giovane età, si fa quattro ore di slitta per vedere Seljukov. Posèl. Avrà capito? Oh sì, questo l’ha capito di sicuro, ma­ gari si è anche divertita, forse ha riso, forse, nasco­ sta dietro il paravento, ha impercettibilmente, si­ lenziosamente riso tra sé. Vittorin si morse le labbra. Vergogna e collera gli fecero salire il sangue alla testa. Premette la fronte contro il vetro gelido del finestrino. Ai suoi commilitoni non aveva fatto parola di quello che era accaduto nella stanza di Seljukov, ma il ricordo di quell’ora sciagurata gli bruciava dentro come un acido velenoso. Non era il solo. Anche i suoi amici avevano dei conti in sospeso con Seljukov. C’era un giuramento che li impegnava e li teneva uniti, l’impegno che avevano preso in un’ora solenne sulla fossa aperta di un compagno d’armi. Vittorin si drizzò. Un’onda di energia lo invase. Appena conclusa la pace, quando di nuovo sia­ mo tutti a Vienna, si prende in mano la faccenda, sussurrò. Il professore presiede le riunioni, è il più anziano di noi. Feuerstein ci mette i soldi, e io rice­ vo l’incarico di andare in Russia. Io, sissignori: è un diritto che nessuno può contestarmi. Eccomi qui, mi riconosce, signor capitano? Sot­ totenente Vittorin del campo di Cernavjensk, padi­ glione n. 4. Già. Verissimo, in Francia lo chiamano bochisme. Perché Vostra Eccellenza impallidisce co­ sì? Non mi aspettava? Pensava che avrei dimentica­ to? Oh no, non ho dimenticato. Come? Posèl? No, signor capitano, io rimango, ho da parlarle. Si ri­ corda del sottotenente pilota al quale ha negato il trattamento previsto per gli ufficiali perché i suoi 25

documenti non erano in regola? Ci pensi pure, le lascio tempo. Si era rifiutato di sbrigare il lavoro nella cucina della truppa, e lei lo ha sbattuto nel sotterraneo della baracca C. Era malato, febbre in­ termittente, malaria grave, ina lei lo ha lasciato sul suo tavolaccio, in quello sporco buco di cantina, finché lui... Simulazione, vero? Il medico del campo non è qui per i capricci dei prigionieri, diceva lei. Il feint, il fait le malade. Il se trouve en parfaite sauté. Il giorno che lo hanno seppellito abbiamo fatto un giuramento, noi cinque, e ora, vede, è venuto il giorno della resa dei conti. Non si ricorda? Di me però si ricorda, vero? Questo non è un comporta­ mento da ufficiale, in Francia lo chiamano... già! Questo è per il bochisme. E questo per il blocco della corrispondenza, e questo per le perquisizioni per­ sonali, e questo... Altolà! Che cosa cerca? Il revol­ ver? E inutile, signor capitano. Ah, c’è anche Grisa. Zdravstvujte, Grisa! Dica al suo attendente, signor capitano, che lo stendo secco se fa tanto di muover­ si. Sissignore, mi sono premunito. Vuole battersi con me, dice? Bene. Se ne può discutere. A lei la scelta delle armi. I miei padrini... Il capotreno che con la lanterna in mano ispezio­ nava le vetture si vide davanti alFimprovviso, in mezzo al corridoio, un sottotenente di fanteria pal­ lido come un morto, con il braccio levato e il pu­ gno chiuso. Proseguì, scosse la testa, si girò ancora una volta, e con un’alzata di spalle scomparve nel vagone attiguo. Con un’ombra di stizza e di vergo­ gna Vittorin si ritirò nel suo angolo. L’una e mezzo. Dovrei cercare di dormire. Chi sa cosa ha pensato il capotreno, quell’idiota. Sono stanco morto. Mi fissa. Che cosa ha da fissarmi? Che impudenza. Gri­ sa, l’attendente si chiama Grisa. Grigorij Osipovic Kedrin o Kadrin, abitante a Staromena, nel gover­ natorato di Char’kov. Tante volte ha dettato le sue lettere al professore. In ogni caso lo aggiungo. 26

Tirò fuori il suo taccuino e annotò sotto il nome del capitano: Grisa, ordinanza di Seljukov. Grigorij Osipovic Kedrin (Kadrin?), abitante nel villaggio di Staromena, stazione ferroviaria di Slavjansk, governatorato di Char’kov.

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TEMPO DI SPETTRI

Dal finestrino del treno riconobbe in mezzo alla folla le sue sorelle, Lola e Vally: dunque erano ve­ nute tutte e due. Vally si era fatta graziosa, dician­ nove anni, non più una bambina, slanciata, occhi grandi, movenze lievi e aggraziate. Tre anni signi­ ficano pure qualcosa. E c’era anche suo padre, im­ pettito, preciso identico nel portamento all’ufficiale di un tempo, e però un po’ invecchiato. Vittorin scese i gradini della vettura. Il giovanot­ to dai tratti spigolosi, con i baffetti e i guanti di pel­ le lucida marrone, che gli toglieva di mano il rotolo era suo fratello Oskar. Allora, tre anni prima, por­ tava ancora il completo alla marinara. Adesso il modo cameratesco ma compassato con cui porgeva la mano al fratello maggiore esprimeva enfatica­ mente la richiesta di essere trattato dal reduce co­ me un perfetto adulto. Mille domande: com’era andato il viaggio, se a Mosca in quella stagione faceva già freddo, che cosa aveva visto della rivoluzione, se era contento di essere di nuovo a Vienna. - «Lasciati guardare, Georg, che aspetto hai. Be’, passabile, un tantino 28

smagrito in faccia». - «Pranzi Kroneis veniva da noi tutti i giorni a chiedere se c’erano notizie, e ieri era appena andata via quando è arrivato il tele­ gramma». - «Ma che cosa facciamo fermi qui! Avanti, avanti! Andiamo». - Aveva fame? Era stan­ co? E la ferita alla gamba? Si faceva sentire ancora? - «Quel Lenin dev’essere un tipo fantastico, a me fa una certa impressione» disse Oskar offrendo al fratello una sigaretta che lui stesso aveva arrotolato. Pian piano si avvicinarono alla fine del marcia­ piede, e lì c’era Franzi Kroneis, raggiante, tutta ec­ citata, accaldata per la corsa. «Non sei cambiato per niente» gli disse. «Pro­ prio per niente». Poi, come se fosse la cosa più naturale del mon­ do, lo prese sottobraccio. Adesso tutto era diverso rispetto a una volta. Allora, tre anni prima, avevano custodito come un segreto la loro intesa. Durante l’interminabile viaggio attraverso la Si­ beria e la Transbajkalia, Vittorin aveva sempre as­ sociato al giorno del rimpatrio, che pareva così ir­ raggiungibilmente lontano, l’immagine di una car­ rozza aperta che lo avrebbe portato a casa in mezzo ai passanti in una bella e calda giornata di fine estate. Alla sua mente questa immagine era affiora­ ta più viva che mai alla stazione Manciuria, quando, sótto il peso del loro equipaggiamento, avvolti in nuvole di polvere, avevano dovuto fare a piedi il tragitto lungo il binario distrutto e poi superare il ponte provvisorio di legno. Ora il momento tanto atteso era giunto, ma a casa ci andarono in tram. Alla fermata Franzi si accomiatò. In ufficio aveva chiesto mezz’ora di permesso per poterlo salutare alla stazione. Ora doveva rientrare. Lo prese da parte: gli andava di venirla a prendere quella sera all’uscita dall’ufficio? Sempre Seilerstàtte 17, certo. - «Ma che cosa dico, oggi non uscirai più di sicuro, sarai stanco, no? Allora a domani, puoi anche tele­ fonarmi. E dormi bene, e non sognare troppo quel­ 29

le... come si chiamano le ragazze in Russia? Sonja, no? Natasa? Maria?». «Anjuta, Sof ja, Elcna» disse Vittorin. «Sono tante? Domani alle sette, allora. Ma alme­ no, hai pensato a me qualche volta?». In tram non parlarono molto. Nell’intento di far piacere al fratello, Lola disse che Franzi era una creatura deliziosa e così affezionata. Oskar insistet­ te per pagare il biglietto con i suoi soldi. Il padre tirò fuori dalla tasca una corta pipa di schiuma e disse che la guerra sarebbe finita presto, più di tan­ to non poteva durare. Con ogni probabilità si sa­ rebbe decisa sul fronte occidentale, nella Champa­ gne. Il morale era buono, anche sugli altri fronti. Glielo aveva confermato un tenente di ritorno dal Piave, che il morale era buono. Riempì la pipa con tabacco a cui aveva aggiunto dell’asperula e foglie di zucca conciate per farlo durare più a lungo. «Non è niente male» spiegò. «Anche un lumina-' re della medicina, il nome non lo ricordo, ha scrit­ to sul giornale che questa miscela ha un effetto molto stimolante sull’attività polmonare. Certo, nel nostro ufficio il signor caposezione continua a fu­ mare i suoi trabucos. Dove diavolo li prende i soldi, quello? - Mah! Preferisco star zitto». Dopo cena il padre propose una partita a scac­ chi, ma le sorelle protestarono che no, quella sera non si poteva giocare, meglio un’altra volta, adesso Georg doveva raccontare. «Allora, finalmente, raccontaci tutto con ordi­ ne,» disse la minore «dal giorno che ti hanno fatto prigioniero sul Dunajec, questo lo so perché ce lo hai scritto. Ma vogliamo i particolari: di’ un po’, che cosa hai provato quando i cosacchi ti hanno messo sulla carretta dei feriti? E quand’è che ti han­ no fatto la prima fasciatura? Il fratello di Ella è feri­ to anche lui, una pallottola nel polmone, ma è an­ cora all’ospedale. A proposito, due settimane fa, 30

per puro caso, ho incontrato per strada il procura­ tore del tuo ufficio. Quello con le lentiggini. Se ne andava a braccetto con una signora molto alta, ca­ pelli biondo rame, la moglie non era. Se fosse stato solo, avrebbe senz’altro chiesto tue notizie». «Devi fare un salto da lui, devi proprio» osservò il padre. «Se non vai a trovarlo potrebbe aversela a male. Verrà a sapere di sicuro che sei di nuovo a Vienna. In questi casi la voce corre in fretta». «Se la prossima settimana hai voglia di andare a teatro,» disse Oskar «posso procurarti dei biglietti gratis. Adesso frequento molto l’ambiente degli at­ tori». Georg Vittorin sentiva un malessere doloroso, come se fosse sull’orlo di una grave malattia. Il suo segreto lo opprimeva. Ogni parola del padre e del­ le sorelle rivelava quanto fossero felici del suo im­ minente ritorno alla vita uniforme e regolata di un tempo. Era proprio il caso di distruggere questa lo­ ro illusione già oggi, il primo giorno? Con chi pote­ va confidarsi? Col padre? Forse sì, in gioventù suo padre era stato ufficiale, tenente in servizio effetti­ vo; alla parete, sotto il ritratto della madre defunta, era appesa la sua sciabola, e lì accanto la foto di gruppo ormai ingiallita che lo ritraeva in mezzo ai compagni di reggimento. Doveva alzarsi e chiamar­ lo da parte? «Posso parlarti un momento, papà? Avrei qualcosa da dirti». - No. Da diciassette anni suo padre era impiegato alla sezione ragioneria del ministero delle Finanze. Tutte le mattine alle nove in ufficio, alle tre e mezzo in punto il pranzo, poi il giornale, poi la passeggiata quotidiana, la domeni­ ca quella «grande» verso Dornbach, durante la set­ timana quella «piccola» in centro, la sera il tavolo fisso al solito caffè oppure un bicchiere di birra lungo la strada: questo era il mondo di suo padre, così viveva da diciassette anni. No. Suo padre non doveva saperlo. Suonarono alla porta. Fola alzò gli occhi dal cu­ 31

cito e stette in ascolto. Vally corse fuori dalla stan­ za, tornò, lìcci) la testa nella fessura della porta e fece una smorfia. «Allegra, Lola!» sussurrò. «C’è il signor Ebenseder ». «Oh, il signor ispettore!» esclamò il padre. «Ci fa l’onore ancora una volta. Si accomodi, si accomodi, signor ispettore!». Oskar si alzò, si abbottonò la giacca e si rivolse a Georg dicendo che gli dispiaceva proprio, sarebbe rimasto volentieri ancora un po’, ma purtroppo doveva andare, aveva un appuntamento con certi amici. «Un collega d’ufficio» disse il padre. «L’unico che la pensa veramente come me. Gli altri, chi più chi meno, sono tutti arrivisti e intriganti. Una per­ sona molto intelligente, ti intenderai bene con lui, tra l’altro è un collezionista appassionato, compra tutto quello che per qualche verso ha a che fare col teatro, i soldi non gli mancano, è proprietario di quattro case. Colleziona ritratti di attori, copioni, foto di scena, vecchie locandine, cartoline del Ringtheater e del Kàrntnertortheater, perfino gli scon­ trini del guardaroba. - Riverisco, signor ispettore. Mi permetta di fare le presentazioni: mio figlio Georg, dopo tanti mesi di attesa, appena tornato dalla Siberia - il signor ispettore Ebenseder». «Felice di conoscere un membro di questa cara famiglia. So già molte cose di lei. Dunque è arrivato oggi! Felice, felice davvero» disse il signor Ebense­ der, un signore piccolo, tarchiato e rotondetto, con i favoriti, una vasta pelata e le mani foderate di grasso. Si avvicinò a Lola e le baciò la mano solenne­ mente, con trasporto. «I miei rispetti, signorina Lola, suo devotissimo. Di nuovo al lavoro, a quanto vedo. Che abili queste manine, sempre in movimento, è un piacere guar­ darla». 32

Il padre portò una bottiglia di vino e offrì all’o­ spite un bicchiere di Gumpoldskirchner. Il signor Ebenseder fece un po’ di complimenti, come esige­ va la buona creanza. «Ma perché tutto questo disturbo per me, signor collega? Non è davvero il caso, con quello che costa la roba. A una tazzina di tè non dico di no, lo zuc­ chero ciascuno se lo porta da casa. Ma un Gum­ poldskirchner autentico! E va bene, se proprio de­ v’essere. - Alla sua salute, caro collega. E del ’17, vero? L’ho sentito subito, che annata! Una delizia». Fece schioccare la lingua. Lola sussultò nervosa­ mente. Il signor Ebenseder prese dalla tasca una papalina di alpaca nera e se la calcò sulla pelata, vi­ sto che purtroppo non si era mai al riparo dai colpi d’aria. Poi si accostò a Lola. Con un’occhiata Vally fece capire a Georg che ora sarebbe partita all’attacco. Si rivolse al signor Ebenseder con aria innocente. «E proprio vero, signor Ebenseder,» domandò «che lei è ancora di quelli che hanno conosciuto personalmente il grande Nestroy?». «Ma che sciocchina!» esclamò il signor Ebense­ der con una risata larga e compiaciuta. «Che cosa ti salta in mente, un’altra volta! Nestroy! Ma come posso aver conosciuto Nestroy se è morto già da sessant’anni! Però Matras ho fatto in tempo a ve­ derlo al Carltheater, da ragazzo, e Knaack e Katha­ rina Herzog, che ha recitato nella prima del Dissipa­ tore di Raimund». «Da quando in qua ci diamo del tu, signor Eben­ seder? Questa è una novità! Non riesco a ricordar­ mi che siamo mai passati al tu, noi due». «Be’, quello che non è oggi può essere domani» osservò il signor Ebenseder in tono malizioso. «Oh, la-la! Ma per questo bisogna essere in due» esclamò Vally. «Domani potrà darmi del tu dalle dodici a mezzogiorno». Il padre lanciò a Vally un’occhiata severa e cercò 33

di sviare il discorso. In quei giorni, raccontò, aveva visto nella vetrina della libreria Feldmayer un ac­ quarello raffigurante la Wolter in costume da zinga­ ra a colloquio con un signore piuttosto anziano che la fissava attraverso il suo monocolo. Aveva pensato che un cimelio simile era degno della collezione del signor ispettore. L’interesse del signor Ebenseder si risvegliò di colpo. «Il signore col monocolo è senza dubbio Laube, il direttore del Burgtheater» spiegò. «Certo che m’interessa il quadro, e molto anche. La libreria Feldmayer, lei dice. Ci faccio un salto domani stes­ so. Charlotte Wolter vestita da zingara. Che parte sarà stata?». Contò sulle dita i ruoli nei quali aveva ammirato la grande attrice tragica del Burgtheater. L’aveva vi­ sta nella parte di Fedra, Maria Stuarda, Lady Milford, Saffo, Medea, Ifigenia, poi in un dramma mo­ derno di cui non ricordava il titolo, e l’ultima volta, un anno prima della morte, nella parte di Adelaide, nel Gòtz von Berlichingen. «Già, la Wolter!» disse rivolto a Lola. «Chi non l’ha vista... La gente che va a teatro oggi, io la com­ piango. Una come lei non nasce più. Se n’è perso lo stampo. - Scusi se mi permetto». E con un sospiro si versò del vino nel bicchiere. Georg Vittorin sedeva con gli occhi socchiusi. I discorsi monotoni di Ebenseder gli arrivavano co­ me da un’estrema lontananza. Si sentiva pervaso da un senso di benessere, di sicurezza, contro il quale cercava di reagire. Gli oggetti della stanza lo affer­ ravano e lo tenevano stretto come se avessero dei diritti su di lui. Il tic tac dell’orologio a muro, il lie­ ve tintinnio dei bicchieri, le nuvole di fumo azzur­ rognolo che salivano dalla pipa di suo padre, i mo­ vimenti silenziosi delle sorelle, tutto sembrava fatto apposta per cullarlo e stregarlo, per distoglierlo dal suo grande compito. Gli sembrò che la battaglia 34

che lo aspettava fosse decisiva per tutto il suo avve­ nire e che dovesse essere combattuta adesso, seduta stante, senza alcun indugio. Doveva restare solo con se stesso. Gli occorse un piccolo sforzo per alzarsi. Era stanco, disse, voleva andare a letto. E nel momento in cui fu in piedi, anche la battaglia era ormai decisa. Gli oggetti in­ torno a lui avevano perso ogni potere, lo lasciavano libero. Il ticchettio dell’orologio si era fatto quasi triste, gli anelli di fumo della pipa di suo padre sa­ livano muti e malinconici verso il soffitto. Uscì dalla stanza. Lola lo seguì. Lo trovò nell’angusta cameretta con la finestra a inferriata che guardava sul cortile a lucernario. Era inginocchiato sul pavimento e al­ lentava la cinghia che teneva insieme il rotolo. «Non piace neanche a Oskar» disse Lola dopo un po’. «Viene solo per me. Sono contenta che tu sia di nuovo tra noi, Georg. Credo che lui abbia già parlato con papà». «Lui chi? Il signor Ebenseder?». «Sì. Ma io piuttosto mi faccio suora. E stato spo­ sato già due volte. La prima moglie è morta giova­ nissima, non ha resistito a un seccatore di quella forza, e la seconda gli è scappata. Le aveva prese tutte e due dal varietà. E allora cosa vuole da me, quell’antipatico? Io non so volteggiare su un cavallo e neanche saltare attraverso il cerchio». Georg aveva aperto il rotolo. «Questa è carta da lettera cinese, e queste sono le buste. Guarda com’è dipinta bene». «Molto carina. Davvero molto chic. A proposito. Volevo dirtelo già prima. Però non ti devi arrabbia­ re: per qualche giorno dovrai dormire qui insieme a Oskar. La tua camera... te l’ho scritto, no?, l’abbia­ mo subaffittata. Non te l’ho scritto?». «Non so. No. Non mi pare». «Certo che te l’ho scritto. A una persona molto simpatica, molto perbene. Sotto questo aspetto sia­ 35

mo stali proprio fortunati, durante il giorno è co­ me se non ri fosse. Adesso paga ccntottanta corone. E in casa ci fanno molto comodo, puoi credermi. Hai idea di (inaino costa adesso qualsiasi cosa? Ci si è arrivati a poco a poco, a questi prezzi così alti. Naturalmente, ora che sei di nuovo a Vienna... a quel signore gli ho già detto che dovrà andarsene». «Non sarà necessario» osservò Georg. «Può te­ nersi la stanza, lo non rimango a Vienna». «Papà dice che la guerra finirà molto presto». Georg si drizzò lentamente. «Quando la guerra finisce, io torno in Russia». «Torni in Russia? Dici sul serio?». «Non urlare così, gli altri non devono ancora sa­ perlo. L’ho detto a te, ma rimanga tra noi. Sì, devo tornare in Russia». Lola lo guardò fisso in faccia. «Per quanto?». «Non lo so». «Le hai promesso di ritornare? Perché non l’hai portata con te? Non è stato possibile?». Georg non rispose. «Le sigarette sono per Oskar» disse. «Fammi il piacere, distribuisci tu le cose. Il panciotto di pelle è per papà. La porcellana cinese...». «Georg... E Franzi? Che cosa dirà Pranzi? Mi fa pena. Poveretta! Hai una foto di lei... delle altre?». «La ciotola di porcellana è per te, dicono che sia un pezzo raro, molto antico. Per la vetrinetta. I due vasi sono per Franzi. Guarda che ti sbagli. Non è per una donna». Due settimane più tardi, nei giorni del crollo, Vittorin ebbe notizie di Cernavjensk da un reduce dalla Siberia che aveva fatto l’ultima tappa del viag­ gio stando in piedi sul predellino di un vagone stracolmo. Gli uomini della Legione ceca avevano occupato la località, il capitano Seljukov non era più il comandante del campo. Subito dopo l’arrivo 36

dei cechi il capitano era partito, diceva il reduce, probabilmente per Mosca, per mettersi a disposi­ zione dell’Armata Rossa, che aveva bisogno di uffi­ ciali esperti. Lui, il reduce, lo aveva visto un’ultima volta, di sfuggita, in una stazioncina siberiana di confine, non lontano da Krasnojarsk. La fuga di Seljukov era senza dubbio un avveni­ mento importante. Vittorin decise di avvertire solo il dottor Emperger del cambiamento intervenuto nella situazione. Un colloquio a quattr’occhi, una consultazione ristretta, preparatoria: gli altri sareb­ bero stati messi al corrente in un secondo tempo. Bando alle decisioni avventate. Era meglio aspetta­ re, cercare di avere una conferma a quella notizia. Una stazione non lontana da Krasnojarsk. Secondo tutte le apparenze, era Mosca la meta del capitano. - Feuerstein farà tanto d’occhi. Vuoi dire, Vittorin, che sei ancora in contatto con Cernavjensk? - Na­ turalmente! Cosa credevi? Si capisce che sono rima­ sto in contatto col campo. Ho fatto i miei passi, vengo a sapere tutto quello che succede laggiù! Ad ogni modo certi preparativi bisogna farli già adesso. Sarà bene che Feuerstein procuri subito del contante. E poi il passaporto, il visto d’ingresso per la Russia. La rivoluzione lo preoccupava. Esistono ancora degli uffici pubblici in questo caos? Quale autorità rilascia il permesso di espatrio? Non posso mica viaggiare senza passaporto... E poi, funzionerà an­ cora il collegamento ferroviario con la Russia? Per la città correvano voci incontrollate. L’eserci­ to ceco, si diceva, voleva occupare Vienna e tutta la Bassa Austria. L’Imperatore era stato catturato da truppe rivoluzionarie mentre tentava di passare il confine ungherese, Wollersdorf e Wiener Neustadt erano in fiamme. Un autiere dell’esercito scorrazza­ va come un forsennato per le strade, con la sua au­ tomobile, lanciando l’allarme tra i passanti. I serbi e i russi del campo di prigionia di Siegmundsher37

berg, gridava, si ava no marciando su Vienna, forti di quattordicimila uomini: bisognava sprangare i portoni di tutte le case, e chi aveva armi doveva presentarsi al comando di polizia. Le notizie sicure non erano meno inquietanti. Un’assemblea di ufficiali e soldati, riunita nelle sale Dreher, aveva insediato un consiglio militare, com­ posto di nove membri, per «porre fine al burocrati­ smo mummificato, al regolamento di servizio, alla codardia e alla protervia delle classi dominanti». Un capitano del reggimento fucilieri di Stockerau, che aveva proposto la fondazione di una Guardia Rossa, era stato subissato di urla; un caporale che con parole più veementi aveva avanzato la stessa ri­ chiesta era stato portato in trionfo. Allo scalo merci della Ferrovia Nord bande di operai e disertori avevano saccheggiato i magazzini e i vagoni. A sera tutto un convoglio di approvvigionamenti per l’e­ sercito era caduto nelle loro mani. Dal penitenzia­ rio di Wollersdorf erano fuggiti duecento grandi criminali che avevano approfittato del disordine generale. In un batter d’occhio i preziosi esposti nelle gioiellerie erano stati messi al sicuro dietro pannelli di legno. Un battaglione ceco, invece di la­ sciarsi disarmare alla stazione di smistamento di Brigittenau, aveva opposto resistenza e aveva pun­ tato in ordine sparso, con tanto di bombe a mano e mitragliatrici, contro il corpo di guardia della sta­ zione. Tabacco, coperte d’ordinanza, zaini, cuoio per le suole, stoppacci e gavette calarono di prezzo. Erano tutte cose che si potevano comprare dai reduci in quantità illimitate. Invece il prezzo di una pagnot­ tella salì a quindici corone. L’ufficio annonario rese noto che non poteva mantenere la razione settima­ nale di centoventicinque grammi di carne a testa perché la Cecoslovacchia aveva chiuso le frontiere all’esportazione di viveri. Per le strade e nei locali 38

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pubblici la gente canticchiava riprendendo una vec­ chia melodia: «Chi sarà mai in Austria a governare? Presto i viennesi se ne accorgeranno. Perché il cecoslovacco mette tutto nel sacco, e i viennesi possono crepare». Finte pattuglie militari fermavano i soldati e li depredavano degli effetti personali e dei viveri. Quando poi incappavano in qualche reparto del presidio cittadino, gli scontri a fuoco erano inevita­ bili. Qua e là c’erano ancora segni di una immutata voglia di vivere, di una superstite fiducia nel futu­ ro: accanto ai manifesti che invitavano a vedere il film La principessa di Beranìa, un canto d’amore e di do­ lore, era affisso un comunicato ufficiale da cui si ap­ prendeva che «i fatti intervenuti» non influivano in alcun modo sul programma di estrazione dell’undi­ cesima lotteria nazionale. E gli strilloni continuava­ no a offrire le edizioni straordinarie con i bollettini sulle operazioni del gruppo di armate Deutscher Kronprinz e Gallwitz sul fronte occidentale: «Viva­ ce attività di artiglieria sulle due rive della Mosa. Ingenti forze americane bloccate dalle nostre trup­ pe nella foresta a nord di Boval ». Quando Vittorin entrò dal dottor Emperger, lo trovò occupato a passare in rassegna il suo guarda­ roba borghese. Sul divano e sulle sedie erano spar­ pagliati in pittoresco disordine smoking, tight, pan­ taloni a righe, cravatte, camicie colorate, una giacca invernale, un pellicciotto sportivo e un gilè di broc­ cato. Un odore penetrante di canfora e naftalina impregnava la stanza. Sullo scrittoio erano allinea­ ti, in ordine militaresco, scarpe da passeggio, stivali da cavallerizzo, stivaletti da sera, stivali con lacci, galosce. Il dottor Emperger salutò il compagno dei tempi 39

della prigionia lenendo in mano un berretto da uf­ ficiale completamente sformato. «Ecco! Guarda un po’!» disse. «Questa è la ri­ compensa. 'fi fai due anni di trincea, due anni di Siberia, e per tutto ringraziamento ieri mi hanno tagliato via il distintivo dal berretto. E chi erano? Sbarbatelli, apprendisti, studenti delle commercia­ li. Be’, ormai è fatta, non ci spendo di certo una la­ crima. - Siediti, Vittorin, ammesso che tu riesca a trovare un posto da qualche parte. Vedi come sono ridotto. Che me ne faccio, adesso, del cappotto e dell’uniforme? Forse potrebbe comprarmeli un ne­ gozio che affitta costumi, non credi? Gli do anche la medaglietta d’argento. Magari un giorno sarà di moda andare ai balli mascherati in divisa da uffi­ ciale austriaco del ’18. Già, mio caro, un momento storico. Signora Wessely! Non potrebbe mettere un po’ di ordine una buona volta? Non si può lasciare tutto all’aria così, porco mondo! Signora Wessely! Mai che ti dia retta, la vecchia sgualdrina. Siediti, Vittorin. Qual buon vento ti porta?». «Ho notizie importanti» disse Vittorin. «Volevo discutere la faccenda in privato, con te, sentire la tua opinione, prima di parlarne ufficialmente con gli altri... Allora, ascolta: Seljukov non è più a Cernavjensk. Tutte le informazioni che ho raccolto ne­ gli ultimi giorni concordano sul fatto che lui... Che cosa succede? Dove corri?». Il dottor Emperger era già schizzato fuori dalla stanza. «Insomma, signora Wessely!» Vittorin lo udì strillare. «Perché non viene quando la chiamano? Vuole fare ordine una buona volta? Lì dentro sem­ bra un covo di briganti. Sono già le cinque e mezzo. Mi faccia vedere che cosa ha portato. Tutto qui? Sardine, avevo detto, pasticcio di fegato. Un pezzet­ tino di salame sarà pur possibile trovarlo da qual­ che parte. Non posso mica offrire ai miei ospiti marmellata di barbabietole, sant’iddio. Due botti­

no

glie di curaçao, una bottiglia di anisetta, le avevo detto, zucchero in zollette, salame, sardine, ma sì, vada per quelle portoghesi, quello che vuole, pur­ ché siano mangiabili. I soldi? Di nuovo? Ma se glieli ho appena dati stamane - inaudito! Si può sapere che cosa ne fa di tutti questi soldi, li butta dalla fi­ nestra, per caso?». Ritornò nella stanza senza fiato. «Scusami, Vittorin. Non so dove ho la testa. Biso­ gna anche dare aria, questa sera ho degli ospiti. De­ vo pensare io a tutto quanto. - Allora, sentiamo cos’è questa storia di Seljukov». Vittorin era di pessimo umore. Gli era passata la voglia di confidarsi col dottor Emperger, al quale il curaçao, lo zucchero in zollette e le sardine sembra­ vano interessare più che le notizie su Seljukov. «Sono arrivate delle informazioni» disse secca­ mente. «Dobbiamo tenere una riunione, domani, al massimo dopodomani, la faccenda è urgente. Mi fa­ rai il piacere di predisporre il necessario». «Domani, dopodomani - impossibile!» esclamò il dottor Emperger. «Domani sera sono invitato dal mio capo, per dopodomani ho già i biglietti per an­ dare all’Opera, e durante il giorno - dove lo trovo il tempo, proprio adesso che devo cominciare a far pratica in banca? Forse per questa volta si può fare senza di me, oppure... aspetta un po’, ma certo, è la cosa più semplice. Questa sera Feuerstein e il pro­ fessore vengono da me. Ecco la soluzione: vieni an­ che tu, conoscerai un paio di persone simpatiche. Allora siamo intesi. Diciamo verso le otto e mezzo, le nove meno un quarto. Mi farà molto piacere. Noi, più tardi, restiamo assieme ancora un po’ e parliamo della faccenda. Scusami se non mi è venu­ to in mente subito di invitarti». «Bene» disse Vittorin. «Verrò. E penso io ad av­ vertire anche Kohout». Il dottor Emperger non parve molto entusiasta di questa idea. 41

«Kohout? Vuoi portare anche Kohout?» doman­ dò. «Be’, sì, se credi... Fa’ come vuoi, non ho nulla in contrario». Alle nove meno un quarto Vittorin suonò alla porta del dottor Em porger. Lo accolse un domesti­ co che durante il giorno faceva il commesso all’isti­ tuto di credito. Il dottor Emperger salutò l’amico in anticamera. «E allora, eccoti qui» disse. «Ti ho già annuncia­ to ai miei ospiti. Vedrai, una compagnia piccola ma ben assortita. Anche Kohout è già arrivato, quel bel tipo. Si è portato appresso un collega che non fa che imprecare contro la borghesia, una cosa peno­ sa. Non so da che parte prenderlo, mi trovo in una situazione molto imbarazzante. Dà del tu a Feuerstein, non so se per una particolare simpatia o per esprimergli il suo disprezzo. Togliti il cappotto, su, un po’ in fretta, chi sa che cosa succede di là, maga­ ri si sono già accapigliati». Vittorin aveva il vago presentimento che con la sua giacchetta d’anteguerra non avrebbe fatto una gran figura. Si affacciò nella stanza. Grazie al cielo c’erano almeno un paio di facce che conosceva. Il professore gli strinse la mano. Feuerstein sudava in un tight troppo stretto e tentò invano di alzarsi. Kohout, che fra il tè, i sandwich e le varie bottiglie di liquori pareva sentirsi perfettamente a suo agio, si produsse in una specie di saluto militare. Il dot­ tor Emperger fece le presentazioni. «Il sottotenente Vittorin, un altro compagno di Cernavjensk. La signorina Edith Hoffmann, che si è assunta i compiti della padrona di casa - ma li tra­ scura, come devo constatare, e flirta col professore. Su, Ditti, occupati un tantino dei miei ospiti, il con­ sigliere di commercio ha il bicchiere vuoto, il mio amico Vittorin desidera una tazza di tè...». «Io sono in licenza, te l’ho già detto, mi sostitui­ sce Irene» disse la ragazza con espressione offesa. 42

«La signorina Irene Hamburger - neanche lei si affatica troppo» continuò il dottor Emperger. «È una vera croce col personale femminile. La signori­ na Franzi Roth, un bijou, una bella linea, roba da intenditori. Non guardarmi con quegli occhi, Fran­ zi. Lo so, non mi ami, il tuo cuore appartiene a un altro. Non negarlo, posso anche immaginarmi chi è il fortunato: venne, vide e vinse, non c’è niente da fare. Dio mio, quanto fumo! Non sarebbe il caso di aprire un momento la finestra? Allora, questa è fat­ ta, i signori pensano da sé a presentarsi, vero?». Due giovanotti si alzarono e dissero i loro nomi: ingegner Glaser; Simitsch, pittore accademico. Il si­ gnore ben rasato, piuttosto anziano, che si era im­ padronito della mano di Franzi Roth col pretesto di interpretare le linee della vita, veniva chiamato consigliere di commercio. L’amico di Kohout in­ dossava un maglione verde sotto la giubba dell’uni­ forme, pantaloni da cavallerizzo, mollettiere e scar­ pe militari. «Il compagno Blaschek. Da ieri fa parte del con­ siglio dei soldati» disse Kohout in tono pieno di ri­ spetto. «Eletto con centoventiquattro voti. E l’ani­ ma del movimento». «Siediti qui con noi, Vittorin!» esclamò Feuerstein. «Sono proprio contento di rivederti. Sa,» spiegò rivolgendosi al pittore «noi due siamo stati compagni di cella, per così dire, durante la prigio­ nia in Siberia». «Quanto tempo sei rimasto incatorbiato?» do­ mandò il compagno Blaschek al di sopra del tavolo. « Prego? ». «Ho chiesto per quanto tempo ti han tenuto in chiusa». «Il compagno Blaschek vuol sapere quanto tem­ po sei rimasto in prigionia» tradusse Kohout. «Due anni, se proprio le interessa tanto» rispose Feuerstein piccato. «Salute! Due anni. Ti han fatto un bel lavoretto, 43

quei russi. K li sia bene, visto die ti sei fatto pren­ dere». «Un tipo amabile» disse la signorina Hamburger. «Una persona eoi more in mano». Kohout rise. Feuerslein, elle era bonario per na­ tura c voleva vivere in paee con tutti, trovò parole molto misurate per protestare eontro quell’accusa di vigliaccheria. «Primo, illustre compagno, non mi sono fatto prendere, tanto per cominciare. Secondo, non so a che devo l’onore...». «Ah, non lo sai?» gridò il neoeletto rappresen­ tante dei soldati. «Sicché non ti sei fatto prendere. Ma guarda un po’. I russi, per caso, ti hanno vinto alla lotteria?». «Centrato» osservò il professore approvando. «Feuerstein, lei è battuto. Si arrenda». «E molto interessante quel che vedo qui» disse il consigliere di commercio che non si decideva a la­ sciare libera la mano della sua vicina di tavolo. «Questa linea con tutte le sue diramazioni rivela spiccate attitudini musicali. La piccola curva a de­ stra indica un temperamento forte, molto deciso, che lei cerca ancora di soffocare. Ma non serve, la natura salta fuori, lei ha davanti a sé una carriera nell’operetta, questo glielo posso dire fin d’ora. C’è un amico che la aiuterà a farsi strada». «E tutto questo lei lo legge nella mia mano?» do­ mandò la signorina Roth. «In parte anche nella mia» mormorò allusivo il consigliere di commercio. Con un cenno Vittorin chiamò il dottor Emperger accanto a sé. «Una parola, Emperger» gli bisbigliò. «Tu sai che sono venuto soltanto per una comunicazione importante. Fa’ in modo che possiamo parlarci un momento senza essere disturbati». «Già, ma come, come?» sussurrò nervoso il pa­ drone di casa. «Sarei più che felice di poterli sepa­ 44

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

rare. Vedrai, verrà fuori una cagnara. Alla fin fine Feuerstein non sarà mica disposto a mandar giù proprio tutto». «Ma perché hai invitato gli altri? Questo signor consigliere di commercio, per esempio?». «11 consigliere. Già, me lo chiedo anch’io» disse pensieroso il dottor Emperger. «Hai visto come si dà da fare? Ha preso di mira la piccola, la Pranzi. E un vecchio somaro pieno di sé, ma fa’ attenzione: lui la spunta e lei ci casca». «Anche lei, professore, era sotto le armi?» do­ mandò l’ingegnere dall’altro capo del tavolo. «Oh no, con me le cose sono andate diversamen­ te. Io non ero al fronte. 1 russi mi tirarono giù dal letto e mi ficcarono in prigione. Tutto qui. Ho avu­ to infatti la scalogna nera di essere sorpreso dalla guerra durante un viaggio di studio nel Turkestan meridionale». «Nel Turkestan!?» esclamò entusiasta la signori­ na Hamburger. «Di che cosa si occupa esattamente? Storia dell’arte orientale?». «Non proprio, mia cara: tengo corsi di fitobiologia all’Istituto superiore di agraria. Non è roba per signorine». «La nostra azienda... questo forse le interesserà, professore» disse l’ingegnere. «Proprio alla vigilia della guerra la nostra azienda ha messo in commer­ cio una seminatrice-spandiconcime, una macchina di tipo nuovo che rende possibile la seminagione in quantità perfettamente dosabili e per qualsiasi pianta». Si fece dare una matita e un foglio di carta e aiu­ tandosi con uno schizzo mostrò come la macchina, togliendo il disco distributore, potesse essere usata anche per concimare. Il professore prese lo schizzo, lo osservò, aggrot­ tò le sopracciglia e annuì ripetutamente. Il consi­ gliere di commercio si lagnò delle esorbitanti pre­ tese degli operai. Dio solo sapeva dove si sarebbe 45

andati a finire. Feuerstein invece guardava al futu­ ro col più grande ottimismo: tutto quello che aveva a che fare col mercato, spiegò, avrebbe assicurato un prohtto. Lui era deciso a convertirsi totalmente all’import-export, non pensava affatto a produrre. Con grande eloquenza espose le proprie idee al consigliere di commercio, e quando pronunciava la parola «mercato», questa assumeva sulle sue labbra un tono di fervore quasi religioso. Il professore continuava a tenere in mano lo schizzo della mac­ china spandiconcime. Le signore, che non riusciva­ no ad appassionarsi alla discussione, volevano sa­ pere quando finalmente sarebbe stato possibile tro­ vare di nuovo il cioccolato svizzero, buoni tagli di seta, riviste di moda francesi e saponi da bagno in­ glesi. Vittorin fissava furibondo la sua tazza vuota. Quella conversazione che non voleva finire lo esa­ sperava. Pareva che quei due avessero congiurato contro di lui, Feuerstein e quel rompiscatole del consigliere di commercio. Parlavano senza sosta di agevolazioni all’import, di offerte estere, di sbocchi e quotazioni di mercato, quasi che si fossero espres­ samente proposti di impedire ogni accenno alla faccenda Seljukov. E per giunta ci si mettevano le donne, col loro stupido chiacchiericcio. E quel riso sciocco, insensato. Insopportabile. Che cosa era ve­ nuto a fare? Lanciava segnali furtivi al dottor Emperger, ma questi fingeva di non notarli. Nel frattempo l’amico di Kohout, che sedeva a un’estremità del tavolo, tracciava a grandi linee e con notevole dispendio di voce un programma per l’attività futura dei consigli degli operai e dei solda­ ti, non senza agitare in modo preoccupante la tazza del tè. «Compagni e compagne!» gridava. «Adesso viene il bello, adesso tocca a noi. Per troppo tempo - Ko­ hout, fammi parlare, che sennò ti rifilo un gancio da lasciarti rimbambito - per troppo tempo, com­ 46

pagni, ce ne siamo stati lì col groppone piegato co­ me tanti coglioni. Adesso parliamo noi. Prima di tutto, ’sti sfruttatori del popolo e le loro pupe li ri­ puliamo delle pellicce, tanto per spassarcela un po’. Poi, via le auto, gliele sequestriamo, solo a piedi de­ vono correre, adesso che c’è la repubblica». «Chiedo scusa,» interloquì Feuerstein «ma non siamo ancora arrivati a questo. Per quel che ne so io, non è stata presa nessuna decisione sulla futura forma dello Stato. Per il momento viviamo in una monarchia». Su questo punto Blaschek non intendeva ragioni. «Chiamala come ti pare, se ci tieni tanto» disse. «Con le macchine andiamo dappertutto e control­ liamo le case. Il carbone, la farina, i grassi, la roba che hanno accaparrato appartiene tutta quanta alla popolazione e alle classi lavoratrici». «E gli altri, quelli ai quali l’hanno portata via, possono anche morire di fame, vero?» obiettò il consigliere di commercio. «Perché, loro ce l’hanno chiesto, a noi, se aveva­ mo qualcosa da mettere sotto i denti?» urlò Bla­ schek. «Ma signori, signori miei, che senso ha tutta que­ sta eccitazione? Non vi capisco» esclamò il dottor Emperger, spaventato. «Vi prego, calmatevi un po’. Compagno Blaschek, lei ha perfettamente ragione, chiunque abbia un po’ di buon senso deve ammet­ terlo. Ma le signore, questa sera, non vogliono sen­ tir parlare di politica, le signore vogliono ballare. Balla anche lei, vero, compagno?». «Logico» disse il rappresentante degli operai e dei soldati. «Così va bene. Inviti una di queste dame. Signo­ ri, che cosa devo suonare, un valzer o un ballo mo­ derno? Un one-step? Un fox-trot?». «Fox-trot! Fox-trot! “Hai fatto impazzire anche me”» esclamò la signorina Hamburger, ma il suo 47

non era un rimprovero, erano le parole di una can­ zonetta. L’ingegnere era per il valzer, la signorina Hoffmann reclamava mi boston, Pranzi Roth dichiarò che se non era un tango lei preferiva rinunciare. Alla fine la scelta cadde su un valzer. Si ballò nella stanza accanto. Il consigliere di commercio e il pittore formarono «l’isola», cioè la­ sciarono che le coppie volteggiassero davanti a lo­ ro, e intanto si scambiavano a mezza voce i loro pa­ reri sui pregi estetici delle dame. Il rappresentante degli operai si rivolgeva alla signorina Hamburger chiamandola «compagna», e si rivelò peraltro un ballerino sinistrorso di notevoli qualità. Vittorin era rimasto al tavolo del tè con Feuer­ stein e il professore. Capì che era arrivata final­ mente la sua ora. Si alzò e chiuse la porta. «Ecco. Speriamo di restare soli, adesso» disse. «Ho dovuto aspettare anche troppo». Il professore alzò lo sguardo su di lui. «Si annoia, Vittorin?» domandò. «Come mai? Mi sembra molto simpatico qui. Solo l’ingegnere mi dà sui nervi. Mi annoia, quel tipo, con la sua macchina spandiconcime. Non provo il benché minimo inte­ resse per i dischi smontabili. Non sono mica venuto qui per...». «E non le interessa neanche sapere perché sono venuto io?» lo interruppe Vittorin in tono irritato. «O crede davvero che non abbia di meglio da fare che starmene tutta una sera con gente che non mi interessa, a...». Cercava una parola che esprimesse tutto il suo disprezzo per riunioni mondane di quel tipo, ma non la trovò. «Lei è un tantino esigente, Vittorin» osservò il professore. «Che genere di svaghi si aspettava, in fin dei conti? Esercizi da fachiro indiano o gor­ gheggi lirici? O forse gradiva una danzatrice del ventre? Io mi sono divertito un mondo. Feuerstein, 48

non le dico la sua faccia mentre il compagno di Hernals si sfogava su di lei... da morir dal ridere». «Io non ho trovato la cosa tanto comica» disse Feuerstein offeso. «Che impudenza! Ma che cosa gli è venuto in mente, a quell’individuo? Roba da non credere. Chi glielo ha detto, a quel bullo di perife­ ria, di darmi del tu?». «La sua faccia da gaudente, così rosea e levigata, ha di sicuro qualcosa di provocatorio per un ple­ beo» affermò il professore. «Brutti tempi, caro Feuerstein, per la gente bene in carne». «Nel caso che lor signori non abbiano ancora finito la loro conversazione,» disse Vittorin tratte­ nendosi a fatica «vadano pure avanti. Per carità, prego. Ossia, io avrei da comunicare loro una noti­ zia, e per questo sono venuto qui. Ma, come dicevo, posso benissimo aspettare». Il professore lo guardò stupito. «Lei mi diventa addirittura sarcastico, Vittorin. Si può sapere che cos’è successo?». «Che cos’è successo?» disse Vittorin con studiata indifferenza. «Niente, solo che ho notizie dalla Rus­ sia. Seljukov è a Mosca». Si accese una sigaretta per nascondere la propria eccitazione. Poi aspettò l’effetto di quelle quattro pa­ role che aveva lanciato lì come una bomba a mano. «Davvero? Interessante» osservò il professore. «Dunque, Seljukov è a Mosca. Molto interessante. Dica un po’, Vittorin, vecchio mio: non le è ancora uscito dalla testa, il capitano?». Vittorin fumava nervosamente. «Che discorso è questo? Che cosa intende dire, professore? Io non la capisco». «Lei non mi capisce. Benone. Torni un po’ in­ dietro col pensiero. Cernavjensk, il campo, nostal­ gia, depressione psichica, lo squallore quotidiano, il blocco della corrispondenza, nessuna notizia da casa, la consapevolezza di essere in balìa di ogni ca­ priccio del comandante. Eravamo tutti fuori di noi 49

quando quel povero diavolo, il sottotenente pilota, morì di malaria. Ci sfinivamo prostrati, Vittorin, eravamo psichicamente malati. Così ci rifugiammo nel sogno tipico di tutti i prigionieri: tornare lì un giorno e fare i conti! Certo, quel pensiero ci fece un gran bene, allora, ci aiutò a superare momenti terribili. Ma era comunque il sintomo di una malat­ tia. Possibile che questo non le sia chiaro, oggi?». Vittorin aveva buttato via la sigaretta. Era balzato in piedi e fissava senza parole il professore. Dalla stanza accanto, dove si ballava, si affacciò il compagno Blaschek. Si terse il sudore dalla fronte e si liberò del maglione. «Bestia che caldo, là dentro» disse. «Scusino, si­ gnori. Me ne vado via subito». L’uscio rimase aperto, il valzer s’interruppe, i ballerini fecero una pausa. Accompagnato dall’ar­ monica a bocca di Blaschek, Kohout cantò con voce da avvinazzato vecchie canzoni soldatesche: «Chi mai ci verrà al mio funerale, chi mai ci verrà al mio funerale? Bicchieri, stoviglie, vino e birra a bottiglie, l’ostessa a far gozzoviglie». «Era una psicosi, una forma grave» riprese il professore. «Uno stato anormale, questo è chiaro. Ma insomma, prima o poi bisogna pur venirne fuo­ ri! Lei è di nuovo a casa, è tutto passato. Adesso si tratta di lavorare, ricominciare daccapo, dimentica­ re la guerra. Al diavolo Kohout con le sue strofette, uno non riesce a sentire neppure le proprie parole. Dimenticare la guerra, dicevo, cancellare dalla me­ moria tutto quello che abbiamo patito. La Siberia è stata soltanto un brutto sogno, Cernavjensk un in­ cubo. Che diavolo gliene importa, oggi, del capita­ no? Lo lasci in pace, a Mosca o dovunque si trovi». «Ha finito?» domandò Vittorin. Dalla stanza accanto giungeva un tintinnio di 50

bicchieri, risate, il lamento dell’armonica a bocca e la voce di Kohout: «Che scriveranno mai sulla mia tomba, che scriveranno mai sulla mia tomba? Un pane e un salame, qui giace un soldato che tutto ha sbafato». «Se ha finito, professore,» sbottò Vittorin, palli­ do per l’eccitazione «voglio dirle io due parole. E una cosa indegna, sissignore, glielo dico in faccia, una cosa meschina e indegna: lei prima ci sta, dà la sua parola d’onore e Dio sa cos’altro, e poi si tira indietro con la scusa che tutto... con la scusa della psicosi o come cavolo la chiama. Che schifo. Posso solo dire che mi vergogno io per lei. Lei è un vi­ gliacco, lei ha paura, altro che storie. Dietro tutti i suoi bei discorsi di psicosi e sintomi di malattia e via elencando non si nasconde altro che una gran fifa. E triste che esistano persone come lei. Adesso la conosco, adesso perlomeno so...». «Attenzione, compagni!» gridava il rappresen­ tante dei soldati. «Adesso ne sentirete una nuova nuova. Kohout, dacci sotto con quella dei nobili si­ gnori! ». «Arriva» disse Kohout. E accompagnato dall’ar­ monica cominciò a cantare: «Le strade adesso chi le spazzerà, le strade adesso chi le spazzerà? I nobili signori con medaglia al valore, a spazzare le strade saran loro». «Bravo!» esclamò con vero entusiasmo il consi­ gliere di commercio che durante la guerra era stato destinato per due mesi ai servizi sedentari. «Bravo! Così si fa. Devono lavorare anche loro come tutti noi, guadagnarsi il pane». «Adesso perlomeno so con chi ho a che fare e in 51

che conto va tenuta la sua parola d’onore» disse Vittorio, in ( ili la rabbia aveva lasciato il posto a un profondo avvilimento. Il professore cerco di buttare tutto sullo scherzo. «Capisco perfettamente, Vittorio,» osservò «di aver perso ogni diritto alla sua stima. Che cosa pos­ so farci? Dovrò rassegnai ini, in un modo o nell’al­ tro. Mi conforta solo la certezza che tra due mesi lei la penserà esattamente come me. E poi, crede dav­ vero che sia così semplice tornare in Russia, adesso, di questi tempi?». Incontrò uno sguardo astioso e carico di di­ sprezzo. « Se sia semplice o no, me la vedo io, lei di questo non ha più da preoccuparsi» disse Vittorin. «Quan­ do uno vuole, tutto è possibile. Basta volere, volere sul serio, ma questo la gente del suo stampo non lo capisce. Farò i conti con Seljukov, stia pur certo, e anche se mi piantate in asso tutti quanti, anche se dovessi trascinarmi a piedi fino a Mosca chiedendo l’elemosina...». «Basta così, Vittorin» lo interruppe il professore. «Lei mi svela la vera natura del suo odio. Mi sem­ bra di sentire una ballata di altri tempi. Davvero una strana specie di odio, la sua. Vittorin, conosce la vecchia canzone? - “Niente fuoco, niente car­ bone...”». «Senti un po’, Kohout!» gridava intanto il com­ pagno Blaschek. «Insomma, non si ungono le ghi­ gliottine oggi?». «Arriva. Solo un po’ di pazienza, compagno, una dopo l’altra, e arriva anche quella» disse Kohout. Si mise al pianoforte e suonò con la mano sini­ stra l’aria della canzone del boia. Con voce tonante Blaschek attaccò: «Ungete le ghigliottine, ungete le ghigliottine, ungete le ghigliottine con grasso principesco! Strappate le...». 52

«Per l’amor del cielo, compagno, che roba è que­ sta? La smetta! » gridò disperato il dottor Emperger. «No, così non va. Sopra di me abita un consigliere di corte, finirà col reclamare, ha già bussato due volte». «Lasci che venga, quel cane reazionario!» urlò Blaschek. «Che si azzardi! Gli mollo un pugno in testa da farlo annaspare mezz’ora per terra come un gatto cieco. - Strappate le concubine, strappate le concubine...! Cantate anche voi, compagni!». Le tre ragazze tornarono nella stanza tenendosi sotto braccio. La signorina Hamburger si chiuse la porta alle spalle. «Ne succedono di là...!» disse. «Che pandemonio. 11 povero Rudi dovrà inventarsi qualcosa domani. Be’, tante grazie». Vittorin si rivolse a Feuerstein. «E tu?» domandò. «Hai intenzione di tirarti in­ dietro anche tu, per caso?». Feuerstein, il quale in un passato non troppo re­ moto aveva garantito che su di lui si poteva conta­ re, Feuerstein si strinse nelle spalle e rimase zitto. «Bene,» disse Vittorin «allora con voi due ho chiuso. A voi due non ho più niente da dire». La signorina Hoffmann si avvicinò curiosa. «I signori hanno litigato?» domandò. «Si direbbe di sì. Si può sapere che cos’è successo?». Il professore si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona. Sorrise e soffiò lontano il fumo della sigaretta. «Ah, niente di particolare» disse. «Il mio amico vuole a tutti i costi andare a Mosca per far fuori un ufficiale russo». Tradito e deriso, esposto al dileggio sciocco e pe­ tulante delle tre ragazze, Vittorin lasciò la stanza con la faccia stravolta per lo sgomento, la rabbia e la vergogna. In quella casa non avrebbe più messo piede. 53

Fuori, in amicamela, menile il domestico lo aiu­ tava a infilare il cappono aiuola umido di pioggia, ebbe una breve discussione con Kohout. «Avrei potuto dirtelo fin dal principio, mio caro, che sarebbe finita così» dichiari) Kohout dondolan­ dosi da un piede all’altro. «La borghesia non ha nessun senso dell’onore, non ha carattere. Non hai visto che si sono allontanati tutti e due, Feuerstein e il professore, appena ci siamo messi a cantare le arie della rivoluzione? K gentaglia!». Lola socchiuse la porta della cameretta. Attraver­ so lo spiraglio vide che Georg non dormiva più. Sdraiato sul suo letto, vestito a metà, sfogliava un quaderno rosso. «Sei sveglio?» domandò. «Se avessi immaginato che non dormivi, sarei venuta molto prima. Sai che ore sono? Le undici meno un quarto. Sei tornato a casa che era già Luna, papà ti ha sentito. Com’è an­ data? Ti sei divertito? Ah, tra parentesi, buongior­ no. Vuoi che ti porti la colazione?». Georg Vittorin richiuse il quaderno. «No, grazie. Vengo subito. Sono sveglio da un pezzo, ho solo ripassato un po’ di russo, vocaboli e frasi di uso comune, quello che serve per farsi capi­ re dalla gente. Se mi sono divertito? Be’, dipende. È stata una serata istruttiva, comunque... Che altro c’è, Lola?». Doveva parlare al fratello di una faccenda che le stava a cuore. Il dottor Bamberger, l’inquilino per il quale nutriva una stima sconfinata, s’interessava a Georg, aveva espresso il desiderio di conoscerlo. Poteva essere una grande occasione per suo fratel­ lo. Tuttavia preferì parlare prima di cose cui attri­ buiva minore importanza. «Franzi è stata qui stamattina, prestissimo» disse. «Vuol sapere se ti va di aspettarla nell’intervallo di mezzogiorno al Domcafé. Ha l’orario continuato e 54

solo verso l’una farà un salto al caffè, mezz’oretta per mangiare un boccone. Devi farle compagnia. Si è molto lamentata, dice che in tutta la settimana non l’hai degnata della minima attenzione». «Eppure sa benissimo che ho da fare» esclamò Georg Vittorin con impazienza. «Tutto il santo giorno, da mattina a sera: riunioni, conferenze, ora qui, ora là. Ieri pomeriggio, per esempio, avevo da fare al quarto distretto, un colloquio importante mezz’ora più tardi dovevo essere al Café Splendid, nella Praterstrasse, poi venire a casa, cambiarmi e poi tornare nella Prinz-Eugen-Strasse per una con­ ferenza - una corsa continua! E poi il lavoro alle varie stazioni, in piedi per ore ad aspettare i treni dei reduci. Mi servono certe informazioni, bisogna fare delle ricerche, ed è un lavoro che non posso affidare a nessun altro. Ma tutto questo Franzi lo sa, e allora che cosa vuole, perché non mi lascia in pace?». Lola non seppe ribattere nulla. «Tra l’altro, da oggi sarà diverso» continuò Vit­ torin. «Non devo più andare alle stazioni, tutto quello che m’interessava l’ho saputo. Anche le riu­ nioni preliminari sono finite. Adesso si tratta di la­ vorare e guadagnare un po’ di soldi. Davvero sono già le undici meno un quarto? E ora che mi prepari per uscire. Sono rimasto a casa fin troppo. Non de­ ve più succedermi di buttare via tutta la mattinata in questo modo». «Puoi riposarti ancora qualche giorno» osservò la sorella. «Papà dice che devi riprendere con l’uf­ ficio solo a partire dal 15». «In quell’ufficio, a picchiare sulla macchina da scrivere?» esclamò Georg Vittorin. «Non ci penso neppure. Centottanta corone al mese, forse due­ cento da Capodanno, se tutto va bene - lo chiami guadagnare, questo? Se mi metto a suonare il violi­ no in un cinema, prendo di più. Ma hai un’idea, Lola, di quanto si guadagna adesso?». 55

Lola si sedette sull’orlo del letto. «Ascolta, Georg» disse. «Avrei voluto dirtelo già ieri, ma ti ho appena visto, ieri. Tra parentesi, la storia del cinema - non dirai sul serio, non è un mestiere per gente come noi. Anch’io, allora, con la mia voce, potrei - per cantare in un varietà di peri­ feria può bastare, e magari lo faccio anche, sempre meglio che dire sì a Ebenseder... Georg, oggi c’è sta­ to di nuovo un litigio, papà si è terribilmente in­ quietato, è così irritabile da un po’ di tempo. Ha delle grosse preoccupazioni, credo che lo vogliano mandare in pensione, ma ha solo diciassette anni di servizio, è un’ingiustizia! Ma tu non far capire che ti ho detto qualcosa, lui non vuole che se ne parli ». La guerra perduta, il crollo del vecchio esercito, la caduta della monarchia, la disgregazione dell’lmpero avevano tolto il terreno sotto i piedi al signor Vittorin. Non riusciva a rassegnarsi alla piega che le cose andavano prendendo. Diventò prepotente e litigioso, si credeva insidiato e perseguitato dal mondo intero. Privo di una preparazione giuridica, incapace di comprendere la natura di situazioni complesse, aveva ripetutamente commesso degli er­ rori nel calcolo delle tasse, che rientrava nelle sue mansioni, applicando tariffe sbagliate. Chiamato a render conto, si era sentito vittima di manovre po­ litiche e si era difeso in modo tale da peggiorare la sua posizione. In un ricorso presentato alla compe­ tente autorità amministrativa aveva coperto di in­ giurie il suo diretto superiore. Lo definiva un intri­ gante, un ignorante incapace, uno che approfittava del pubblico denaro, accusandolo inoltre di venali­ tà, di bassezza d’animo e di una condotta privata indegna di un servitore dello Stato. Una indagine immediatamente disposta aveva provato la totale infondatezza delle accuse. Gli avevano suggerito di presentare lui stesso la domanda di collocamento a 56

riposo, ma lui «non ne vedeva il motivo, intendeva battersi fino in fondo, quel che è giusto è giusto». Così l’avevano davvero sospeso dal servizio, e l’ultima parola spettava a una commissione disci­ plinare. A casa cercava di far credere che nella sua vita nulla era cambiato. Ogni giorno usciva come sempre alle nove del mattino con la sua borsa di documenti e rientrava puntualmente alle tre e mez­ zo. Passava tutto il tempo in certi piccoli caffè fuo­ ri mano dove leggeva i giornali tracciando punti esclamativi e interrogativi, con la matita blu, sui passi che suscitavano la sua riprovazione. Termina­ ta la lettura, si perdeva in soliloqui a mezza voce oppure abbozzava su fogli di carta da lettera inter­ minabili memorie difensive che intendeva leggere davanti alla commissione disciplinare... «Mandare in pensione papà? Ridicolo. Ma già, tu vedi sempre nero, Lola» disse Vittorin. «Quanti an­ ni ha, del resto? Ne ha fatti cinquantaquattro in estate. - Si può sapere che cos’è accaduto stamat­ tina?». «Ah, è stato di nuovo per via di Ebenseder» lo informò Lola. «Papà ha urlato con me - non hai sentito? “E un vero scandalo il modo in cui lo tratti, ma che cosa credi, è già un miracolo che metta an­ cora piede in casa nostra, non vuoi capire che si tratta di una persona seria, perbene - del resto sei sempre stata così, sciocca e impertinente, presun­ tuosa e sventata, e non si può andare avanti così...”. E io sono corsa fuori dalla stanza e mi sono messa a piangere. Non si vede che ho gli occhi gonfi? E d’altra parte papà mi fa tanta pena. Sai, Georg, ho pensato che adesso, dopo il tuo ritorno, potevo al­ meno contare sul tuo appoggio...». «Abbi pazienza, Lola» disse Vittorin con una piega di afflizione attorno alle labbra. «Cerio che puoi contare sul mio appoggio, e poi il signor Ebenseder non piace nemmeno a me. Ma In sai che 57

devo partire. Quando (ornerò, e forse tra quattro o cinque settimane sari) di nuovo qui, avrò la testa li­ bera, allora andrò da papà e gli farò un discorso se­ rio: o questo signor Kbenscder sparisce, visto che Lola non vuol saperne, o ce ne andiamo di casa tut­ ti e due, Lola e io. K se lui non cede...». La sorella sorrise. «Sei un bravo ragazzo, Georg, questo lo so» dis­ se. «Ma le cose non sono così semplici come te le figuri. Papà non possiamo piantarlo in asso in un momento simile. Ma non era di questo che volevo parlarti. Come diavolo ci sono arrivata? La cosa che volevo dirti è un’altra. Due sere fa ero in sala da pranzo, tutta sola, e stavo per andare a dormire an­ ch’io quando sento bussare - era il dottor Bamberger, il nostro inquilino. Avevo un minuto di tempo per lui? Ma certamente, prego. Insomma, per farla breve, si trattava di te. Ha sentito che parli alla per­ fezione il francese e l’italiano, che ti intendi di pra­ tiche doganali e in generale di spedizioni, e pensa che tu sia proprio quello che ci vuole per lui». «Da chi ha saputo che parlo il francese e l’italia­ no? Trovo strano che sia informato così esattamen­ te su tutte queste cose. Io non mi sono mai occupa­ to di lui. Lo conosci bene?». «Ogni tanto mi capita di vederlo, naturalmente, visto che gli riordino la camera. E una persona tranquilla, fine, riservata. Sembra che Vally gli piac­ cia molto, con lei parla qualche volta. Forse è stata Vally a raccontargli di te». «Bene. Avanti. Che cosa vuole da me?». «Ha rapporti d’affari con stranieri, italiani e bal­ canici. Dal primo del mese prossimo avrà anche un ufficio tutto suo, finora ha dovuto sbrigare ogni co­ sa al caffè. Gli piacerebbe parlare con te di perso­ na. Dice che di gente potrebbe trovarne quanta ne vuole, naturalmente, ma nel tuo caso sa almeno chi sei. Certo, all’inizio non può offrirti molto, dice, vi­ sto che anche lui comincia con pochissimi mezzi, 58

ma più tardi... È sicurissimo di riuscire e vuole as­ sociarti negli affari ». «Qui casca l’asino. Dovrei lavorare per lui, vero? Dovrei sfacchinare, ma lui non vuole tirar fuori niente. Sono tutti uguali. Promesse, si sa. Che inge­ nua sei, Lola». «Eppure dovresti parlargli, Georg, almeno una volta. Naturalmente non voglio cercare di persua­ derti, di queste cose io non capisco niente. Ma se davvero vuoi lasciare il tuo posto... Fa una buona impressione, credimi, ha l’aria di uno che sa perfet­ tamente quello che vuole». «E va bene. Vediamolo pure, per una volta. Dio buono! Sono le undici. Non che da questa cono­ scenza mi aspetti molto. Di promesse non voglio sa­ perne. Gli uomini sono tutti furfanti, nessuno escluso, canaglie prive di ogni senso dell’onore. Ho imparato a conoscerli. Eh sì, cara Lola, io ne so qualcosa». Sedevano di fronte nel vano di una finestra del Domcafé, Franzi aveva terminato il pranzo e chiese una sigaretta. Lui le porse l’astuccio aperto. «Ne ho ancora qualcuna russa, prego, serviti. Questa qui, prendi questa col bocchino di cartone. Tabacco della Crimea. Laggiù in Siberia abbiamo fumato anche tabacco cinese. Ce n’era una qualità molto fine, piuttosto cara, con un aroma particola­ re, ma era impossibile trovarla. Ho conosciuto una persona, una sola, che fumava quella qualità». Tacque e cercò di tenere la sigaretta in un modo speciale, tra l’anulare e la punta del mignolo della mano sinistra. Ma non gli riuscì bene, e vi rinunciò. «All’una devo tornare in ufficio» disse Franzi. «Ma prima ho ancora un mucchio di cose da rac­ contarti. Senti l’ultima: si è rifatto vivo quel signore di Zagabria». Capiva che Georg le stava sfuggendo, avvertiva ogni giorno con maggiore chiarezza che i suoi pen­ 59

sieri non le a ]>]>nri ci ic v:i no più e temeva di perder­ lo del tutto. Intuiva ose inamente la forza lontana e misteriosa da etti era attrailo, ed era decisa a non lasciarlo andare senza aver combattuto. Per tenerlo legato a sé, per riaccendet e l’amore che in lui anda­ va spegnendosi, gli aveva raccontato di avventure galanti che non c’crano mai state, e si era inventata uomini che la corteggiavano con appassionata insi­ stenza. Il personaggio dello studente croato che si sforzava di parlare in dialetto viennese le era riu­ scito particolarmente bene. Sembrava quasi vero. Ricorreva a lui più che a chiunque altro, lo faceva capitare a Vienna tutte le volte che le serviva. Poi c’era quel tipo grande e grosso, tutto sentimento, che cantava splendidamente accompagnandosi con il liuto ed era un corriere della legazione svedese. Veniva infine un giovane barone, uno spudorato che voleva arredare un appartamento per Franzi e portarla con sé nei suoi viaggi. «Il signore di Zagabria? Quello che studia medi­ cina? Ma è di nuovo a Vienna?» domandò Vittorin. «Sì, pensa. L’altro ieri mi ha telefonato in ufficio. Sai, gliel’avevo proibito già due volte, non mi va di essere chiamata così spesso dal primo che capita. Che cosa deve pensare di me il capufficio? - Aspet­ ta, mi sono detta, oggi mi senti, caro il mio croato. - Ma poi, al telefono, è stato di nuovo così simpati­ co e divertente. - Salve, cocchina, come sono con­ tento di poterti rivedere... intanto, come stai, che fa di bello il tuo capo, il vecchio imbroglione? - per­ ché sai, al telefono mi dà del tu, lì si fida, dato che non posso prenderlo per i capelli». Fece una breve pausa e guardò Vittorin. Ma nella sua faccia non trovò quel che cercava. Lui la ascol­ tava taciturno e con un’espressione di totale indif­ ferenza. «Sai,» riprese «allora mi sono detta: Adesso sì che ci divertiamo. Così gli chiedo con l’aria più in­ nocente del mondo: Si ferma più a lungo questa 60

volta, signor Milos? Per caso è ancora a Vienna il primo dicembre? - Già, questo non te l’ho ancora raccontato. A fine mese i miei vogliono passare la domenica in campagna, sai, vanno a trovare quello zio che ha un’azienda agricola vicino a Gloggnitz, non vedono l’ora. Dunque partono fra tre settima­ ne e tornano solo lunedì, la mattina presto, sicché io resto sola soletta. Alla vecchia Maria, la nostra donna di servizio, do un giorno di vacanza e la spe­ disco dai suoi. Ma di questo naturalmente non ho fatto parola al signore di Zagabria, figuriamoci, e mi dico ancora: Se lo sapesse! E adesso senti un po’ - cosa credi che abbia detto quel tipo?». «Be’? ». «Ride e dice: Si capisce che sono ancora a Vien­ na il primo dicembre. Perché me lo chiedi, cocchi­ na? Vuoi dire che sarai a casa sola? Sarebbe fanta­ stico, perché io potrei venire a trovarti. Insomma, ero sbalordita. Come ha fatto a capirlo subito! E à quel punto mi è venuto in mente... che tu, che sa­ rebbe proprio simpatico se tu, Georg, potessi veni­ re da me quel giorno; a casa dici semplicemente che fai una gita, e quando poi il signore di Zagabria suona il campanello, vai ad aprire tu e gli dici: Che cosa desidera, signore? E lui deve battere in ritira­ ta... non sarebbe divertente?». Vittorin alzò gli occhi. Nello sguardo di Franzi lesse una trepidante preghiera e una muta pro­ messa. «Staremmo insieme un giorno intero, tu e io, da soli» disse lei sottovoce. «In fondo, una fortuna co­ sì non l’abbiamo mai avuta, Georg». Lui le cinse la spalla col braccio e la attirò a sé. Franzi non oppose resistenza. Per un istante rima­ sero abbracciati. «Si capisce che vengo. Eccome se vengo» sussur­ rò. «Puoi immaginarti con che impazienza aspetto quel giorno». «Sst, Georg, il cameriere guarda da questa par­ di

te... Allora d’accordo, vero? Per