Logica e Tempo: Che tempo è il Nostro Tempo?
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Zitiervorschau

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Emiliano Bazzanella

Logica e tempo

abiblio Forum per Utopie e Skepsis

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Prima edizione: gennaio 2009 © abiblio forum per utopie e skepsis Marchio editoriale della: Servizi Editoriali srl via G. Donizetti, 3/a - 34133 Trieste tel: 0403403342 - fax: 0406702007 e-mail: [email protected] www.asterios.it Stampato in Italia ISBN: 9788890339417

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In$i&' PREFAZIONE, 11 INTRODUZIONE 1. I nodi della questione, 15 2. Il senso del tempo, 20 3. La logica del tempo, 23 PARTE PRIMA: TEMPO E SPAZIO-TEMPO 1)1 I+ t'mpo $'+ mon$o ' i+ t'mpo $'++0anima 1.1.1 Aristotele versus Agostino, 29 1.1.2 Il tempo fenomenologico, 35 1.1.3 Fenomenologia e criticismo, 40 1.1.4 Il diallele della conoscenza indiretta e le sintesi passive, 45 1.1.5 Ontologia e temporalità, 51 1)2 2a Kehre 3'i$'gg'5iana ' +a 6&ontin7it89 $'++a :7';tion' ;pa&3o+ogia $'+ ;'n;o 2.1.1 Senso e non senso, 97 2.1.2 L’Ereignis, 100 2.1.3 Logica del senso, 102 2.1.4 Il reale, 106 2.1.5 Il ritornello e la padronanza, 109 2.1.6 La sferologia, 114

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2)2 2ogi&a $'+ t'mpo ' t'mpo $'++a +ogi&a 2.2.1 L’esclusione logica della temporalità, 119 2.2.2 Logica, etica e reale, 127 2.2.3 L’ ! ’ "#$%&'!, 132 2)3 2ogi&a no5motipi&a ' ;i;t'ma @A 2.3.1 Prima definizione del concetto ecologico di temporalità, 136 2.3.2 Ritmo, ritualizzazione, destorificazione, 140 2.3.3 Il paradosso del meta-senso, 144 2.3.4 La normotipia, 150 2.3.5 Logica normotipica, 155 2.3.6 Normotipia e reale, 159 2.3.7 Il sinecismo normotipico, 163 2.3.8 Il sistema ST, 166 2.3.9 Sistema ST e godimento, 169 2.3.10 La marca della soggezione e il carattere normotipico del tempo, 171 2.3.11 “Il reale che finge”, 175 2.3.12 Struttura normotipica del tardocapitalismo, 177 2.3.13 L’esclusione tardo capitalistica del Sistema ST, 180 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

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P5'Ca&3o+ogia $'+ ;'n;o 2.1.1 Senso e non-senso In Essere e tempo Heidegger si interroga sul senso dell’essere in generale, non prima d’aver chiarito il senso dell’essere dell’Esserci (Heidegger, 1927, p. 37). È comunque significativo notare come egli ricorra proprio all’idea di senso per delineare l’orizzonte generale in cui qualcosa come l’essere medesimo può “avere senso”: “il problema del senso dell’essere deve esser posto” (ivi, p. 20). La medesima Seinsfrage ontologica fondamentale che Heidegger problematizza nella struttura del Dasein in quanto “Esser-ci” questionante (ivi, pp. 20-21), alla fine rimanda a un livello ulteriore d’analisi che viene di fatto glissata allorché la temporalità in generale finisce per replicare, come abbiamo visto, la struttura della temporalità articolata dal Dasein. Che il senso dell’essere in generale sia in fondo il medesimo senso della Grundfrage, articolata attorno al Dasein (il soggetto come “essere-nel-mondo” e Cura), non costituisce d’altra parte una défaillance del pensiero heideggeriano. È la paradossale orizzontalità del senso che lo caratterizza — quasi similmente al “tempo” — come “qualcosa” e come-ciò-in-cui qualcosa può sussistere: “il senso è il ‘rispettoa-che’ del progetto in base a cui qualcosa diviene comprensibile in quanto qualcosa. (...) Solo l’Esserci ‘ha’ senso, e ciò perché l’apertura dell’essere-nel-mondo non è ‘riempibile’ che attraverso l’ente in essa scoperto” (ivi, pp. 192-193). Se d’altronde l’orizzontalità si è manifestata come originariamente temporale, se ne deduce che il senso sia in ultima istanza temporale, o, più radicalmente, che il senso sia il tempo

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tout court in quanto il ciò-rispetto-a-cui della Cura. L’Esserci ha senso nella misura in cui ha-da-essere il proprio Ci, ossia la propria apertura, secondo il grafo più volte introdotto: S=S/~S e S0~S. Senso, apertura, orizzonte, Ci, temporalità, e così via sembrano divenire per Heidegger sinonimi o, quantomeno, palesano una struttura isomorfa. Ciò che contraddistingue essenzialmente tale struttura è il gioco di andirivieni e di occultamento-rischiaramento dell’ !"# ’ $ %&'!, la quale ci porta a rileggere in maniera inedita il Denkweg heideggeriano, riconsiderando tutta la serie di filosofemi via via articolati come il tentativo di delineare quel “senso” emerso sin dalle prime pagine di Essere e tempo: “la domanda del ‘senso’, cioè — secondo la delucidazione fornita in Essere e tempo — la domanda della fondazione dell’ambito del progetto, in breve: la domanda della verità dell’Essere, è e rimane la mia domanda” (Heidegger, 1989, p. 40). L’orizzontalità costituisce allora la prima cifra del senso: essa si pone come la “fondazione dell’ambito del progetto”, ovvero come l’in-vistadi e rispetto-a della comprensione, dell’emotività e dell’utilizzabilità. Non si tratta di una “cosa” o di un ente semplicemente-presente, ma semmai è assimilabile ad una condizione di possibilità trascendentale, una sorta di apriori o “sfera” sloterdijkiana in cui si muove il soggetto. L’orizzonte, d’altronde, si struttura in modo ambivalente, poiché riesce a coniugare l’elemento dell’apertura con quello della chiusura, dell’oltrepassamento e della finitudine dell’(,(s: il movimento dell’Esserci e il suo pro-gettarsi, la sua “sensatezza” sono possibili soltanto grazie alla finitezza che lo caratterizza ontologicamente, grazie insomma alla possibilità dell’impossibilità della morte. In Essere e tempo, infatti, è l’angoscia che dà senso all’essere, nella sua struttura cinetica e orizzontale: il senso della scienza, così come quello dei grandi costrutti della civiltà umana dipendono paradossalmente dall’Angst derivante dallo zum-Todt-sein o, per esprimersi in termini lacaniani, da un certo rapporto con il reale: “la tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo possibile un dirigersi verso...” (Heidegger, 1927, p. 175). La motilità, il fattore cinetico, l’oscillazione sono l’altra marca del senso: nulla di statico, non un Bedeutung fissato una volta per tutte, non un oggetto. Il senso è flusso, sfuggimento, movimento paradossale in quanto sempre compensato da un contromovimento. La verità si esplica come un dis-velamento che si ritrae e si occulta; la vicinanza si caratterizza originariamente come un allontanamento; il “proprio” è soprattutto un traspropriare espropriante; lo “squadrare” del Geviert è circolare, una danza inanellantesi e sempre ritornante su di sé. Noi

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diciamo così che il senso è flusso e rimando, Spiel o, più esattamente, Spiegel-Spiel, “gioco dello specchio-rimando”; in altre parole, in questo continuo scarto, diciamo anche che il senso non “è” senza qualche rapporto con il non-senso. Quando allora sosteniamo in una sorta di cortocircuito che “il senso ha senso”, dobbiamo affrontare immediatamente un paradosso, in cui il senso si misura con un se stesso oggettivato o, meglio, ridotto a “cosa”, ef-ferendo, rimandando necessariamente al di là di sé. Tutto lo sforzo teoretico heideggeriano sembra volto ad esplicare questo paradosso, a schiarire quello spazio ambiguo che nella sicurezza incerta della Contrada, lascia sempre trapelare uno sfondo oscuro, una "#$%# che non può essere costitutivamente lumeggiata. I Quattro che “rappresentano” il reale, sono sempre-già-qui eppure sono comprensibili o costituiscono l’orizzonte della nostra esistenza soltanto grazie alla loro abissale insensatezza, all’impossibilità di un redde rationem esaustivo. L’orizzontalità, la Contrada, la Lichtung e lo Spiegel-Spiel del Geviert si condensano in qualche maniera nel Ci dell’Esserci: “l’esserci è così il frammezzo tra l’uomo (in quanto fonda la storia) e gli dèi (nella loro storia). Il frammezzo che non risulta soltanto dal riferimento degli dèi agli uomini, bensì quel frammezzo che solo fonda lo spaziotempo per il riferimento, in quanto scaturisce anch’esso nell’essenziale permanenza dell’Essere come evento che, in quanto centro aprentesi, rende decidibili gli uni per gli altri gli uomini e gli dèi” (Heidegger, 1989, p. 310). Partendo così dall’interrogazione sul Chi della domanda ontologica fondamentale di Essere e tempo, Heidegger si ritrova negli anni seguenti di fronte ad un soggetto che non è più l’Esser-ci in quanto condizione modificata dell’essere-sé dell’uomo, bensì a un “esser-ci” per così dire impersonale, che è “frammezzo” eroso dal non-senso, articolato in un continuo movimento di chiusura (nel da), ma ciò nonostante trabalzato sempre altrove, in un rimando all’infinito. In un altro grafo, abbiamo espresso questa condizione formalizzandola in questo modo: S S S @ S S S !, dove un “senso” rimanda ad un altro senso e ad un altro ancora e il Soggetto, la @ in grassetto, indica una sorta di impotente e parziale sospensione del movimento, un rallentamento. L’abitare heideggeriano indica un soggiornare in questa condizione, un maneggiamento sempre in bilico che deve intrecciare continuamente senso e non-senso. Non dobbiamo tuttavia pensare, come sembra talora fare Sloterdijk, ad una semplicistica contrapposizione tra dentro e fuori (Sloterdijk, 2001b, p. 33): il non-senso non costituisce quell’esterno che il soggetto non smette di allontanare e glissare; egli non erige barriere che lo proteggano dalle forze ignote

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del male. Paradossalmente il Fuori è anche immanente al Ci, lo sorregge in ogni istante essendone l’elemento essenziale e imprescindibile. L’uomo comprenderà meglio se stesso quando riconoscerà il nonsenso che lo abita originariamente, quel pezzo di reale che egli stesso è, al di là della capacità irretente e difensiva delle varie simbolizzazioni culturali e delle sovrastrutture delle scienze. In questo modo, il Qui rassicurante, la vicinanza stessa non sono una vicinanza da intendere secondo una topologia metrica e ordinaria, bensì secondo la complessa dimensione del proprio: il senso è, per Heidegger, l’articolazione complessa dell’eigen, l’idea in apparenza paradossale che non c’è appropriazione, recinzione delimitante e difensiva, senza una co-occorrente espropriazione, senza una perdita o un furto della propria sicurezza e tranquillità. Il senso, dunque, non-è, o con Deleuze, costituisce un extra-essere, un aliquid indefinibile: si pone in altri termini in un milieu echologico, dove la categorizzazione ontologica non riesce più ad essere esplicativa. Se tutta la ricerca heideggeriana è volta alla delineazione del “senso dell’essere”, questo senso non può essere in alcun modo “ontologico”: l’altro-essere, l’essere a-metafisico o non-semplicemente-presente deve venir articolato diversamente. Il mondo “mondeggia”; la Cosa “coseggia”; l’Evento “avviene”: e il mondeggiare coseggiante-eveniente si presenta come movimento della traspropriazione, andirivieni ambivalente nel quale la “domesticazione” dell’essere non è mai compiuta del tutto.

2.1.2 L’Ereignis Gran parte delle aporie costitutive del senso affiorano dunque nelle nozioni heideggeriane di Ereignis e Ding: Lacan ne aveva notato la complessità cercando di articolarle nel suo settimo seminario, L’etica della psicanalisi. La Cosa ha a che fare con il reale, in una misura però che si condensa parimenti nel Ci dell’Esserci. Essa deriva da un processo di “sublimazione” che, per continuare la nostra terminologia, “crea” una serra o uno spazio difensivo di senso all’interno del nonsenso (reale). Questo spazio però implica una sorta di extimità, ossia un’intimità che ha uno stretto legame con il Fuori: all’interno della Cosa, troviamo un “buco” e, quindi, un’assenza, un pezzo di reale. “Das Ding è originariamente ciò che chiameremo il fuori significato. È in funzione di questo fuori significato, e di un rapporto patetico con esso, che il soggetto conserva la sua distanza e si costituisce in una modalità di rapporto e di affetto primario, antecedente a qualunque rimozione” (Lacan, VII, p. 67) Il soggetto può solo fare-il-giro, può bordare o con-

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tornare il non-senso con una linea o “marca” di senso. Il non-senso, insomma — ed è ciò che lo rende davvero unheimlich — ce lo ritroviamo tanto all’esterno infinito dello spazio cosmico “sempre ritornante allo stesso posto”, quanto al nostro interno, nell’apertura che noi stessi siamo e che abbiamo-da-essere in quanto “frammezzo”. Nel Seminario XI, argomentando sul reale, Lacan evidenzia due tropi fondamentali sia del senso in generale, sia — lo vedremo più avanti — della temporalità: .6$2# e autómaton, l’evento o fato in-sensato, e l’automatismo della ripetizione, l’eterno ritorno nietzschiano nella sua prorompente forza decostruttiva. Da un lato ritroviamo la “semelfattività” del kairós (Jankélévitch, 1980, pp. 78-79), dall’altro la ripetitività del sapere e del senso che tende sempre a costruire degli spazi circolari e, pertanto, chiusi. 86$2# significa anche “incontro”, “mi trovo per caso”, dal greco .6)2!$*9: nell’incontro appropriante-espropriante sono in gioco il “reale” e il tentativo addomesticante del soggetto. In tal modo “il reale è ciò che giace sempre dietro l’autómaton. Ed è evidente, in tutta la ricerca di Freud, che è proprio lì il suo cruccio” (Lacan, XVII, pp. 52-53). Il giro del Geviert che articola continuamente le strutture dilemmatiche della nostra esistenza nella speranza di “controllarle”, alla fine si ritrova sempre alle spalle il non-senso irriducibile del reale. “Il Reale è così SIMULTANEAMENTE la Cosa alla quale non è possibile un accesso diretto E l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto; la Cosa che elude la nostra presa E lo schermo distorcente che ci fa perdere la Cosa” (Z izek, 2003, p. 99). Das Ding nella creazione sublimante dà senso, conferisce senso, e ciò proprio nella misura in cui s’intrude nell’insensatezza del reale; ma nello stesso tempo incorpora la medesima insensatezza in se stessa: ecco, per Heidegger, il senso è questo gioco paradossale tra senso e non-senso, ovvero Ereignis. Deleuze, nella raccolta del 1967 intitolata significativamente Logica del senso, per apparentemente differenti digressioni, sembra pervenire alle medesime conclusioni heideggeriane, senza tuttavia l’implicazione tutta ancora da sviscerare inerente al tempo. “Inscindibilmente il senso è l’esprimibile o l’espresso della proposizione e l’attributo dello stato di cose. Tende una faccia verso le cose, l’altra verso le proposizioni. Ma non si confonde con la proposizione che lo esprime più che con lo stato di cose o la qualità che la proposizione designa: è esattamente la frontiera delle proposizioni e delle cose. È quell’aliquid, a un tempo extra-essere e insistenza, quel minimo di essere che conviene alle insistenze. Ed è in questo senso che è ‘evento’: a condizione di non confondere l’evento con la sua effettuazione spazio-temporale in uno stato di cose. Non si chiederà dunque quale sia il senso di un evento:

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l’evento è il senso stesso” (Deleuze, 1969, p. 27). La bifaccialità anfibolica del senso coniuga assieme il suo carattere tychico e il suo carattere d’effetto automatico, cioè “in breve, il senso è sempre un effetto. Non soltanto un effetto nel senso causale; ma un effetto nel senso di ‘effetto ottico’, ‘effetto sonoro’, o meglio effetto di superficie, effetto di posizione, effetto di linguaggio” (ivi, p. 68). Deleuze evidenzia allora come accanto alle due istanze antitetiche, ci sia pure in gioco l’elemento affettivo-emozionale o, kantianamente, l’!'4%#4's: il paradosso del senso insiste proprio in quest’ambiguità originaria ed abissale, peraltro già evidenziata da Hegel nelle Lezioni di estetica. La parola Sinn in tedesco significa “senso” in quanto sensibilità o sensazione, e “senso” in quanto “senso logico”, per dirla à la Frege. La fondazione heideggeriana della Zeitlichkeit sulla base della “situazione emotiva” e sull’angoscia, evidenzia questa contaminazione o chiasmo; ma anche il “tratto” che nel saggio sul L’origine dell’opera d’arte separa il cielo dal mondo e, con questo, delinea l’opera d’arte, manifestando la sua bifaccialità essenziale e costitutiva. Il senso è se stesso e il proprio altro, non è né nell’uno né nell’altro assieme, ed entrambi contemporaneamente. Giocando con le parole Lacan esprime significativamente quest’impasse dicendo che il senso è, contro tutte le nostre aspettative, indé-sens (Lacan, XX, p. 79), un non-senso o, all’inglese, un non-sense, che d’altronde si palesa come qualcosa di indecente ed osceno, cioè che appartiene a un tutt’altro registro (quello libidico-pulsionale o, più genericamente, quello affettivo-emotivo).

2.1.3 Logica del senso Abbiamo già introdotto una sorta di formalizzazione logica per cercare di esemplificare alcuni meccanismi del pensiero heideggeriano. Questi meccanismi abbiamo evidenziato esser soprattutto dei meccanismi temporali, datoché — almeno in Essere e tempo — ciò che viene questionata è la temporalità in quanto senso dell’essere. L’Esserci è quell’ente che ha-da-essere il proprio Ci; ma questo Ci è anche il sistema aperturale-orizzontale grazie al quale sono possibili la comprensione dell’essere e l’estaticità (o l’“essere-fuori-di-sé”) dell’Esserci stesso. Il superamento della semplice-presenza comporta in effetti uno slabbramento dei confini che separavano metafisicamente il soggetto e l’oggetto: il Fuori, per Heidegger, si condensa nel Ci, ma nel Ci si apre quel mondo o frammezzo che contiene l’Esserci stesso: “l’Esserci è la sua apertura” (Heidegger, 1927, p. 170). In altre parole, secondo una logica che ricorda quella cusaniana dell’implicatio e dell’explicatio, il

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PARTE SECONDA: SENSO E SPAZIO-TEMPO

mondo diviene nel medesimo tempo “contenente” e “contenuto”, “parte” e “totalità” di questa medesima parte. Se interpretiamo dunque questo paradosso in termini di senso e diciamo, con un certo azzardo, che il senso in toto include necessariamente una parte di non-senso, ecco che dovremmo formalizzare questa condizione con la seguente formula: S=S/~S. Il senso consiste nell’”unione logica” di se stesso con il proprio opposto, il non-senso. Nel Da-sein è il Da che implica il non-senso, ma esso di fatto fa parte del soggetto, pur essendo debordante: il mondo nella sua abissale complessità e infinita aperturalità è-nell’Esserci, rientra nella sfera dell’umano. Heidegger, tuttavia — e in particolare il “secondo” Heidegger (utilizzando questo schematismo per un unico scopo esemplificativo e descrittivo) — anche mantenendo inalterata questa Gefüge, ne tenta un capovolgimento, sovvertendo completamente l’assunto di Essere e tempo. Sebbene sorregga la struttura esistenziale dell’Esser-ci e rappresenti il Ci una sua parte esistenzialmente originaria, il senso in qualche maniera è incluso nel non-senso, cioè, tecnicamente, è un sottoinsieme del non senso: S0~S. L’Esserci nella sua completezza è parte del proprio Ci, cioè è implicato o coinvolto in un proprio elemento costitutivo. Da un lato dunque il senso deriva dall’unione logica di se stesso con il suo insieme complementare, :(x): (x;S)