Storia critica del marxismo
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Zitiervorschau

Costanzo Preve

Storia critica del marxismo Dalla nascita di Karl Marx alla dissoluzione

del comuniSmo storico novecentesco Introduzione di

André Tosel

LA CITTÀ DEL SOLE

Questo saggio riunisce in un discorso unitario tre dimensioni che vengono ordinariamente presentate in forma separata, e cioè un’interpretazione filosofica originale di Marx, una proposta di periodizzazione della storia del marxismo da Engels a oggi, ed infine una critica storicae filosofica del paradigma utilitarista in filosofia e nelle scienze sociali. L’interpretazione filosofica originale di Marx riprende, sistematizza ed approfondisce la formulazione gid esposta in un’opera precedente e complementare a questa (cfr. M arx inattuale, Bollati Boringhieri, Torino 2004). La filosofia di Marx presentata come una forma di idealismo naturalistico, storico e dialettico, mentre la sua critica deH’economia politica è distinta da ogni variante di economie politica di “sinistra” . La storia del marxismo eperiodizzata in tre età successive, e cioè l’età del­ la fondazione o, proto-marxismo (1875-1914), l’età della costruzione a me­ dio-marxismo (1914-1956), ed infine l’età della dissoluzione otardo-marxismo( 1956-1991). L’età presente è problematizzata in forma aperta come epoca o di dichiarato post-marxismo o come epoca di una possibile, e niente affatto garantita, nuova rifondazione del marxismo stesso, su basi però radicalmente diverse dalle tre precedenti. 11 modello utilitarista in filosofia e nelle scienze sociali, attualmente do­ minante ed addirittura soffocante, è indagato prima nel periodo della sua affer­ mazione in concorrenza con i modelli rivali del diritto naturale e del contratto sociale, poi nell’epoca della sua contestazione per opera soprattutto di Hegel e di Marx, ed infine nelle modalità della sua egemonia attuale, strettamente lega­ ta alle pretese di sovranità assoluta dell’economia su ogni altra logica filosofica, politica e sociale ad essa estranea. II saggio rappresenta una prima, necessariamente ancora imperfetta e mi­ gliorabile, formulazione coerente di una ricostruzione integrale non solo del marxismo, ma della filosofia politica moderna e contemporanea. Costanzo Preve (1943), ha studiato scienze politiche, filosofia e neoellenistica nelle universià d i Torino, Parigi e Atene. E autore d i numerosi volumi e saggi di argomento filosofico, pubblicati in Italia ed a ll’estero. Per la Bollati Boringhieri ha scritto / ’ Introduzione alla nuova edizione dei due volumi dell opera d i Günther Anders, L’uomo antiquato ed il saggio Marx inattuale, larga­ mente complementare a l presente lavoro.

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

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L a foresta e gli alberi

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Costanzo Preve

Storia critica del marxismo D alla nascita di K arl M arx alla dissoluzione del comuniSmo storico novecentesco (1818-1991 ) Prefazione di A n d r é T osel

LA C IT T À D E L SO L E

Edizioni La Città del Sole Vico Latilla, 18 - 80135 Napoli [email protected] —www.lacittadelsole.net

ISBN 978-88-8292-344-0

Le Edizioni La Città del Sole sono contro la riduzione a merce d ell’individuo e del pro­ dotto del suo ingegno. L a riproduzione, anche integrale, di questo volume e. pertanto, possibile e gratuita, ed è subordinata a d autorizzazione d ell’e ditore e d ell’a utore, soltanto a garanzia di un uso proprio e legittimo dei contenuti dell'opera.

INDICE

Prefazione

p .7

Premessa

23

Introduzione

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C apitolo primo

Prima di Marx. Una sommaria ricostruzione ragionata del contesto storico e filosofico dell’età moderna in Europa

47

C apitolo sec o n d o

Karl Marx, un pensatore che non rende possibile nessuna’Vera” interprerazione

87

C apitolo terzo

Il proto-marxismo (1875-1914). L’età della fondazione

127

C apitolo quarto

Il medio-marxismo (1914-1956). L’età della costruzione

165

C apitolo q u in to

Il tardo-marxismo (1956-1991). L’età della dissoluzione

203

5

C apitolo sesto

Epoca del post-marxismo o epoca di una nuova rifondazione del marxismo? Un dilemma per ora senza risposta

Nota bibliografica generale

6

p. 243

281

P refazione L a ricerca Filosofica di Costanzo Preve Il ComuniSmo come illusione e come tormento

Una figura singolare del marxismo italiano Con la pubblicazione della sua ultima opera, questo saggio sulla storia dei marxismi indagati nel loro rapporto con la storia politica ed economica del comuniSmo, Costanzo Preve fornisce una sintesi della ricerca di questi ultimi anni e sostiene alcune tesi filosofiche e storiografiche che meritano di essere discusse da tut­ ti coloro per i quali è stato importante il riferimento a Marx e al marxismo. Preve rappresenta una voce singolare in seno al marxismo ita­ liano che non ha avuto l’attenzione che avrebbe meritato. Dall’ini­ zio degli anni Ottanta, non ha mai smesso di interrogare Marx ed i marxisti del XX secolo, sia ortodossi che eretici, per rendere conto dei contributi e dei limiti del fondatore della ditta Marx & Co., dei suoi successori che si sono dichiarati marxisti, ed infine della loro capacità di fare luce sulle vicissitudini della storia in cui i marxismi si sono inseriti con la pretesa di spiegarla e di farla. In questo modo ha scritto numerose opere che hanno fatto di lui un conoscitore di primo piano non solo di Marx cui ha recentemen­ te consacrato un opera di sintesi (cfr. Marx Inattuale, eredità e Prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004), ma soprattutto un fine interprete delle principali elaborazioni filosofiche degli ereti­ ci marxisti del Novecento (il primo ed il secondo Lukàcs, Bloch e Althusser) nella sua prima opera pubblicata (cfr. La Filosofia im­ perfetta, Angeli, Milano 1984). Nello stesso tempo Preve ha ri­ flettuto su questa storia mettendola in relazione con il movimen­ to generale del pensiero moderno e contemporaneo, da Hegel a Heidegger, passando per Nietzsche, Husserl, Weber, Sartre, come è attestato dal suo notevole saggio di storia della filosofia I tempi

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difficili, Editrice CRT, Pistoia 1999, che esamina la progressiva affermazione del nichilismo europeo dal punto di vista di una fi­ losofia che non dissolve l’esigenza di verità nella vita, nella storia o nella pratica. Preve, nato nel 1943, ha condotto un’esistenza di filosofo e di militante impegnato nell’estrema sinistra italiana a partire dall’ini­ zio degli anni sessanta, e si è guadagnato la vita come professore di liceo a Torino, la sua città. In un certo senso ha sacrificato alla politica e alla libertà di ricerca una carriera accademica che altri, meno dotati e più capaci di cogliere le buone possibilità, ma più prudenti, hanno potuto condurre tranquillamente. Non ha mai separato filosofia e politica ed ha sempre voluto farsi capire dal maggior numero possibile di lettori, come attesta il suo modo di scrivere, chiaro e incisivo, il suo stile di esposizione sempre molto organizzato e strutturato ma anche sempre volontariamente peda­ gogico. I suoi argomenti sono sempre molto concentrati a volte persino troppo), e come usa spesso dire "telegrafici”. Attivo partecipante del marxismo dissidente italiano, ha for­ nito studi chiarificanti sulle diverse correnti di questo marxismo, dal togliattismo alle diverse forme dell’operaismo, a partire dai Quaderni Rossi di Panzieri fino alle teorie di Tronti e di Negri, confrontando queste forme ideologiche con la tendenza del post­ modernismo italiano di Vattimo e di Cacciari. La sua opera Ideo­ logia Italiana-Saggio sulla storia delle idee marxiste in Italia, Van­ gelista, Milano 1993, contiene una sintesi del suo approccio cri­ tico all’operaismo, insieme con il suo rifiuto, riaffermato anche recentemente, della teoria attivistica delle “moltitudini” contenu­ ta nell’opera di Negri Impero, opera che può essere sospettata di essere una resurrezione dell’attualismo di Giovanni Gentile dive­ nuto nel frattempo confusionario e cosmopolita. La singolarità della riflessione di Preve, questo filosofo italiano atipico che ha studiato in Francia ed in Grecia, e che conosce bene il pensiero francese contemporaneo (Bergson, Sartre, Lévy-Strauss,Foucault, e soprattutto Althusser e la sua scuola), si definisce a partire da una presa di distanza nei confronti della filosofia della prassi, la forma dominante del marxismo italiano dopo il 1945a con Labriola e Gramsci. Preve si allontana da questa corrente,prima di tutto per­ ché la considera compromessa dall’interpretazione del pensiero di

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Gramsci data da Paimiro Togliatti, il massimo dirigente del Partito Comunista Italiano. Il togliattismo è per Preve una sorta di “stali­ nismo liberale” che mantiene in nome dello storicismo la finalità comunista, ma la diluisce in una tattica democratica di compro­ messo che a sua volta si fonda su di un’organizzazione centraliz­ zata ed autoritaria. Oggi però Preve rivaluta l’apporto di Gramsci riconoscendo la profondità storica della teoria del blocco storico e dell’egemonia, sia pur mantenendo il suo antitogliattismo che a volte potrebbe essere giudicato eccessivo. I riferimenti iniziali di Preve sono Althusser, il teorico della “scientificità” di Marx, il Lukàcs della Ontologia dell’essere sociale che supera il punto di vista puramente epistemologico in direzione di una filosofia che si apre al problema delle verità, ed infine Bloch pensatore della spe­ ranza concreta e delle religioni eretiche dell’emancipazione. Nel suo percorso Preve ha modificato i suoi punti di riferi­ mento: da Althusser non accetta più la teoria della rottura epi­ stemologica fra scienza e ideologia e respinge soprattutto la ridu­ zione dello statuto della filosofia a quello della gnoseologia politi­ ca. Nello stesso tempo, continua ad apprezzare la potenza critica di Althusser. Althusser è colui che ha posto le domande giuste a proposito del materialismo storico, attuando la decostruzione di quella metafisica che è soprattutto mitologia del Soggetto del­ la Storia che porta a compimento con il suo Fine le potenzialità contenute fin dall’Origine, Resta infatti colui che ha imparato a non raccontar(si) una storia consolatrice sui fallimenti irreversibili del comuniSmo, e soprattutto colui che ha saputo diagnosticare la crisi terminale dei marxismi e porre allo stesso Marx interroga­ zioni radicali. Per quanto riguarda Bloch, Preve ne lascia da parte il lirismo escatologico e messianico del “Non-Essere-Ancora”, per mantenere soltanto la potenza creatrice dell’immaginazione, del­ le utopie concrete, l’attenzione rivolta alle religioni eretiche della libertà, le manifestazioni emancipatrici dell’arte e della filosofia, in definitiva ciò che Hegel chiamava lo Spirito Assoluto. Ma è in definitiva all’ultimo Lukàcs che Preve si ispira maggiormente, in quanto Lukàcs accredita l’idea di una ontologia sociale con la sua teoria che unisce la riflessione antropomorfizzante della vita quo­ tidiana c dell’estetica con la riflessione disantropomorfizzante dei saperi scientifici, facendo in questo modo della democrazia intesa

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come processo li fattore di una universalizzazione individualizzan­ te degli uomini. I riferimenti di Preve non includono soltanto i marxismi ere­ tici e creatori del Novecento. Essi utilizzano i pensieri più profon­ di del secolo, Nietzsche, Weber, Heidegger, Polanyi, Foucault, in­ terrogandoli soprattutto nel loro rapporto con il problema-chiave, quello del nichilismo capitalistico che minaccia di portarsi via sial il pensiero che l’azione. Mano a mano che il tempo passa, Preve rivaluta sempre più la filosofia greca, in particolare Aristotele, Epi­ curo, Lucrezio, ed anche lo stoicismo. La filosofia greca è infatti portatrice di una saggezza che ci manca sempre più tragicamente, e Preve su questo punto non si lascia spaventare dalle proibizioni moderne e postmoderne. Atene contro Gerusalemme e le sue con­ seguenze, Roma, Mosca, e persino la New York di oggi, sede auto­ proclamata della nuova Gerusalemme e del destino manifesto . II lettore potrà verificare la messa in opera di questi presuppo­ sti in questa storia che tratta sia i marxismi sia le politiche del mo­ vimento operaio, e che costituisce la sintesi delle sue tesi teoriche e politiche. Sul piano politico, Preve ha partecipato a molte esperien­ ze dell’estrema sinistra italiana: dopo essersi in un primo momento avvicinato ai Quaderni Rossi di Panzieri, che hanno costituito un importante punto di riferimento per la forza delle loro analisi sul­ la classe operaia, si è separato dall’operaismo di cui non ha potuto avallare la deriva soggettivistica. Ha lavorato con il gruppo che ha animato il Centro Studi di Materialismo Storico di Milano, che era ispirato dal Louis Althusser osservatore appassionato del Maoismo, che allora era interpretato come un tentativo di un doppio supera­ mento, sia del riformismo revisionistico socialdemocratico sia dello stalinismo. Questo gruppo riuniva filosofi come Augusto Illumina­ ti e Maria Turchetto, insieme con economisti come Gianfranco La Grassa, con cui Preve ha mantenuto nel tempo un’attività comune. Egli condivide con quest'ultimo l’idea che sia necessaria una limita­ zione radicale della Kritik marxiana, divenuta nel frattempo inade­ guata ed incompleta. Essa non può piti in effetti, né pensare la realtà del capitalismo imprenditoriale attuale che consacra la crescente se­ parazione fra il lavoro di progettazione ed il lavoro di esecuzione, né formare realmente il generai intellect che dovrebbe in teoria essere in grado di regolare il modo di produzione comunista.

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Preve ha aderito negli anni ottanta del novecento all’organiz­ zazione Democrazia Proletaria ed ha contribuito alla rivista Marx Centouno. Insoddisfatto dello stile di lavoro di questo gruppo e di alcuni suoi orientamenti politici, non lo ha seguito quando questo gruppo nel 1991 si è associato con i dissidenti di sinistra del PCI che rifiutavano l’autoliquidazione social-liberale di questo partito ed hanno costituito l’attuale partito della Rifondazione Comunista, cui sono vicini intellettuali come Giuseppe Prestipino, Domenico Losurdo, Alberto Bugio, Domenico Jervolino e molti altri. Preve non ha mai sopportato di accettare la disciplina di un partito ed i settarismi militanti sempre minacciati di essere divorati dal fideismo. Oggi è ormai un intellettuale senza alcun legame di partito, ma non ha mai cessato di lavorare e di pubblicare libri ed opuscoli dedicati ai più diversi temi politici, teorici e culturali (una ventina solo in questi ultimi anni presso l’editrice C R T di Pistoia). Preve è sicuramente un pubblicista di grande talento. Difende attualmente una linea politica di difesa delle indipendenze nazionali e nazionalitarie collaborando con la rivista Indipendenza, e critica radicalmente ogni programma mondialista di comunità politiche che trovano la loro fondazione in una governance globale o nel suo raddoppiamento estremistico, l’Impero di Negri. Per lui oggi il nemico politico principale è costi­ tuito dall’egemonismo imperialista degli Stati Uniti d’America. Queste vicissitudini sono comuni a numerosi membri della generazione che ha maturato la sua educazione politica nel 1968 e negli anni terribili dell’estremismo di sinistra italiano. Preve ha preso molto presto le distanze dal maoismo della rivoluzione cul­ turale cinese e dalla deriva terrorista dell’operaismo, ed ha scelto invece la difesa di una democrazia radicale. Si è così riappropriato, a suo modo, della tradizione del comuniSmo liberale di cui è stato titolare nel periodo dell’antifascismo il gruppo Giustizia e Liber­ tà, così come l’ha formulata dopo il 1945 Norberto Bobbio. Di Bobbio Preve è stato allievo ribelle, ma l’ha anche sempre preso sul serio come difensore di una concezione solidaristica delle libertà. Preve è in definitiva un marxista-non marxista radicalmente libe­ rale —libertario, profondamente legato alla cultura etico - politica del comuniSmo liberale tipico dell’Italia del Nord, in una tradi­ zione che passa da Cattaneo, Gobetti, i fratelli Rosselli, il giovane Cesare Luporini ed il Bobbio degli anni 1950-1970.

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Una Storia paradossale e felicemente provocatrice Si comprenderà allora meglio il carattere paradossale e pro­ vocatore delle tesi e delle analisi di questa opera dalle grandi pro­ spettive. In un certo modo questa storia è vicina a quella molto conosciuta del polacco Leszek Kolakowski con cui ha in comune il radicalismo. Vi si sostiene in effetti che la gigantesca ed incom­ piuta opera di Marx non ha mai avuto una continuazione che fosse all’altezza della sua statura teorica. I migliori fra i marxisti attivi nella storia fino alla fine del comuniSmo che è anche quella del marxismo hanno dovuto collocarsi forzatamente in rapporto a varie ortodossie marxiste, socialdemocratica o comunista. Que­ sti eretici non sono mai stati ascoltati dal Principe Comunista, che non è mai stato capace di operare la sua riforma intellettuale e morale. Hanno soprattutto cercato di rettificare la triplice deri­ va che ha sempre caratterizzato queste ortodossie nel senso dello storicismo, dell’economicismo e dell’utopismo. Già presenti nello stesso Marx, queste derive sono sempre in un certo senso contrad­ dette da tendenze rettificatrici contenute nello stesso movimento del pensiero di Marx, ma questa rettificazione esplicita non è stata effettuata da Marx in prima persona, non certo soltanto perché gli sarebbe mancato il tempo per sviluppare la sua autentica dialettica, ma perché Marx ha sempre sospettato della filosofia pura, identifi­ cata con l’ideologia, ed in questo modo non ha potuto sviluppare il tema del contenuto di verità dei suoi stessi contributi scientifici. La questione del deficit filosofico si è rivelata centrale, all’in­ saputa dei marxismi ufficiali, incapaci di riflettere sulla concezione originale della scienza di Marx (la Wissenschaft della filosofia clas­ sica tedesca), ed incapaci anche di mantenersi all’altezza di Hegel. In questo modo hanno ceduto alle sirene dell’epistemologia e della “rottura scientifica”, o ancor più ai riduzionismi dell’utilitarismo positivista. Certo, alcuni tentativi sono stati importanti per Preve, da Korsch a Bloch, dall’ultimo Lukàcs a Althusser. Ma nessuno di essi è veramente riuscito ad esplicitare il rapporto della filosofia di Marx con la verità. Certo, molti marxisti hanno saputo e potuto aggiornare e chiarire le analisi del Marx “scientifico”, o se si vuo­ le del Marx “sapiente della società capitalistica moderna”. Hilferding, Rosa Luxemburg, Lenin hanno saputo “prendere le misure”

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dell’imperialismo e delle sue minacce. Lenin ha saputo partire da una precoce analisi della società russa per diagnosticare le possi­ bilità di trasformazione liberate della guerra, ed anche manifesta­ to un senso dell’arte e della scienza politiche fuori del comune. Gramsci ha saputo diagnosticare i punti deboli ed i limiti della costruzione comunista e riformulare la teoria della causalità stori­ ca del quadro del blocco storico e nella prospettiva dell’egemonia delle classi subalterne. Bloch ha rivelato l’importanza delle forme storiche teologico - politiche ed utopiche di coscienza sociale, ba­ sate sulla non —contemporaneità di tempi non omogenei a secon­ da delle differenze di classe. Mao ha saputo guidare la rivoluzione cinese e trasformare una guerra di indipendenza nazionale nella costruzione di una nuova Cina. Tuttavia, il suo contributo teorico si condensa in una rielaborazione della teoria delle contraddizio­ ni, che sottolinea la differenza fra contraddizioni antagonistiche e non - antagonistiche, ed in particolare fra le contraddizioni in seno al popolo e quelle fra il popolo ed i suoi nemici. Ma questo contributo ha finito con l’avallare attraverso un nuovo formalismo le sbandate e le violenze della rivoluzione culturale. In ogni caso niente di tutto questo ha alla fine permesso al pensiero di Mao di diventare realmente “attuale”, mettendolo in grado di rispondere alle sfide della nuova realtà. E questa nuova realtà, come è noto, subito dopo il momentaneo successo dell’esperienza del movi­ mento operaio rivoluzionario, è stata quella della dissoluzione nel neo capitalismo. Il pensiero originale di Marx ha finito molto presto, almeno dal tempo della Seconda Internazionale, di avere qualcosa a che fare con ciò che si è chiamato “marxismo”. Questo stesso termi­ ne non può affatto rimandare ad una dottrina unificata, come lo si è creduto a lungo. Il marxismo non esiste, sono invece esisti­ ti dei “marxismi” di cui alcuni hanno ben poco a che fare con il fondatore della ditta Karl Marx. La storia di questi marxismi è una storia “triste”. Nelle sue forme dominanti, è stata soprattutto la storia della triplice deriva iniziale, storicismo, economicismo, utopismo, con le loro diverse combinazioni. Storia tragica con il marxismo - leninismo - stalinismo, storia tragicomica con l’ago­ nia dello stato sovietico, la liquidazione dell’URSS, l’assorbimento della Russia in un capitalismo mafioso ed ultranazionalista, accer­

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chiato dall imperialismo americano, incapace di conservare le pur magre acquisizioni popolari precedenti. Storia che vede il nichi­ lismo capitalistico contaminare i marxismi divaricandoli fra un apologia progressista della produzione - distruzione capitalistica ed una utopia escatologica pseudo - religiosa. Preve distingue allora tre tappe di questa storia, ognuna delle quali separata da quella che segue da una crisi teorica e politica. La prima tappa è quella del protomarxismo (1883-1917), segna­ ta dalla crisi del revisionismo e dalla catastrofe della prima guerra mondiale. E la crisi della seconda Internazionale, incapace di im­ pedire la mattanza sanguinosa dei proletariati dei paesi civili. La seconda tappa è quella del medio-marxismo (1917-1956, data del congresso del partito comunista dell’URSS che rivela i crimini di Stalin). Essa comincia con lo sviluppo della rivoluzione bolscevica diretta da Lenin, che consacra la divisione fra il marxismo socia­ lista riformista ed il marxismo comunista rivoluzionario. Questa rivoluzione si struttura prima intorno alla Terza Internazionale ed ai movimenti di liberazione nazionale, e sbocca infine nella costru­ zione socialista in un solo paese sotto la dittatura di Stalin. Essa comprende anche la vittoria sul nazismo e la massima espressione geografica del blocco comunista con le rivoluzioni asiatiche (1949, fondazione da parte dei Mao Tse Tung della repubblica popolare cinese). Questo periodo si conclude con la crisi aperta ddsisjem a staliniano e con l’apertura del dibattito sulla trasformazione de­ mocratica dei paesi comunisti. La terza tappa è quella del tardomarxismo, ed è quella in cui questa crisi, iniziata nel 1956, si con­ clude nel 1991 con la sparizione del campo comunista e u ro p e o e l autoliquidaziqne dellT.'RSS. Essa testimonia l’impossibilità di autoriforma del comuniSmo realmente esistente. La crisi generale del comuniSmo e degli omonimi partiti porta questi ultimi a tra­ sformarsi in partiti socialdemocratici (ed è il caso dell’Europa), o in partiti dittatoriali che fanno da sostegni politici ad una accu­ mulazione primitiva (ed è il caso della Cina). Sul piano teorico, essa è anche quella della vittoria epocale del neocapitalismo e della filosofia neoliberale, sotto la bandiera della democrazia rappresen­ tativa, dell’impresa multinazionale e dei diritti dell’uomo intesi come nuova religione. Questa vittoria implica automaticamente il riassorbimento terminale della tradizione marxista e socialista

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dentro le politiche di gestione social - liberale del capitalismo. Il terzo periodo è quello della fine del marxismo e dei marxismi al­ l’interno della quale gli stessi teorici che avevano lavorato per una sua ricostruzione (Althusser, ed ancor più il suo allievo Balibar) finiscono per salutare la crisi del marxismo come cosa positiya_e dichiarano chèTii un certo modo il pensiero di Marx nella sua for­ ma classica e finito. lEdilemma allora è questo: questo periodo si conclude con la fine di ogni riferimento specifico a Marx, il che lo trasformerebbe in un periodo di liquidazione definitiva, oppu­ re sarà possibile una rifondazione che eredita ancora qualcosa che vive in questo campo di macerie? Preve ci congeda con questo ul­ timo dilemma. In ogni caso Preye ha_ilgrande merito di situare tutte le teo­ rizzazioni del marxismo in questo quadro e di insistere su due ele­ menti decisivi: a) l’esistenza dei marxismi eretici degni di rispetto per il loro contributo in saperi determinati e per la loro capacità di pensare il periodo storico in cui agiscono le forze politiche che fanno riferimento al marxismo; b) Pincapacità di queste forze a ri­ formarsi, trattandosi di forze condannate alla sterile ripetizione di una “vulgata” marxista, divenuta nel frattempo ideologia di legit­ timazione e concezione del mondo pseudo —religiosa. Su questo punto rinvio all’utilissimo capitolo dedicato a Preve da Cristina Corradi nella sua scrupolosissima Storia dei marxismi in Italia, Manilestolibri, Roma 2005. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono necessarie alcune osservazioni critiche. Le pagine dedicate a Lukàcs (sia al primo che al secondo), a Bloch ed a Althusser sono particolarmente il­ luminanti. Ma gli si può rimproverare la persistenza di una certa chiusura rispetto alle intuizioni sistemiche di Rosa Luxemburg sul futuro del capitalismo mondializzato, e sull’elaborazione di Gram­ sci che si può considerare come il punto più alto del marxismo eretico del Novecento. Si può anche contestare la critica del Lenin filosofo in nome di un costruttivismo filosofico, e così pure la sot­ tovalutazione della complessità e della pertinenza della riflessione di Engels, accusato di essere il diretto responsabile delle aporie del materialismo dialettico, della funesta ed inutile opposizione fra idealismo e materialismo, e fra meccanicismo e dialettica. Ci si può anche stupire di alcune assenze (Henri-Lefebvre, Sartre fra gli

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altri, Adorno, Horkheimer). Non si trattava di essere “esaustivo”, ma “topico”, e Preve lo è al massimo livello. Si potrà infine soprat­ tutto contestare la caratterizzazione finale di Marx come pensatore idealista - prassista della libera individualità, estraneo alla proble­ matica del materialismo divenuto anch’esso obsoleto. Per quanto riguarda il secondo aspetto, e cioè il fallimento sto­ rico del comuniSmo novecentesco, sarebbe necessario discutere la valutazione che Preve fa dell’esperienza sovietica, una forma di ca­ pitalismo dittatoriale e regressivo, seguendo cosi la valutazione radi­ cale della scuola di Francoforte, ed in accordo su questo punto con le critiche liberali di Kelsen, Hayek, Aron e molti altri. Il tentativo leninista ha tuttavia condotto fino alla NEP alla combinazione di diversi modi di produzione differenti. Ha anche aperto la strada al movimento anti - sistemico della lotta dei popoli coloniali contro l’imperialismo, ed in questo modo ha aperto la prima breccia nel­ l’egemonia capitalista, e questo nelle condizioni storiche sfavorevo­ li durante tutto il corso del Secolo Breve (guerra civile all’interno, guerra all’esterno, pressione aggressiva permanente dell’Occidente “liberale”, che costringeva a spese militari insostenibili, manteni­ mento di un regime politico di eccezione, eccetera). E dopo la NEP che la sorte della rivoluzione bolscevica si decide, ma nonostante tutto il paese porterà un contributo decisivo alla vittoria sul nazismo. Le analisi di Preve mi sembrano su questo punto troppo drastiche, come mostrano ad esempio i lavori storici di Domenico Losurdo e di Eric Hobsbawn, troppo schiacciate sulla critica liberale al “totalitari­ smo”, e quindi troppo poco attente alla complessità della storia reale. Ma questi rilievi critici non infirmano il punto forte della ricostruzione storico —sistematica di Preve, la messa in evidenza di ciò che al di là dei loro contrasti ha unificato i marxismi ortodossi, dal revisionismo socialdemocratico allo stalinismo fino all’euroco­ munismo, e cioè una vulgata tribale di appartenenza che permet­ teva ai militanti che volevano continuare a “credere” di mantenere la loro fiducia in dirigenti politici incapaci di comprendere la real­ tà storica e sempre più impegnati in manovre a corto raggio, sem­ pre esitanti fra l’opportunismo ed il cinismo, e dunque invischiati nel nichilismo che caratterizza il neocapitalismo (Eltsin, il gerarca ubriaco, adulato dal libero Occidente, liquidatore dell’URSS, re­ sta in proposito un modello insuperabile).

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Questa vulgata, secondo Preve, è stata formulata dallo stesso Engels, contro la sua stessa intenzione ed anche — aggiungiamo noi —contro certe sue stesse intuizioni ed elaborazioni. Engels sot­ tolinea ancora più di Marx il ruolo delle forze produttive come fondamento di un progresso oggettivo e fa del comuniSmo una possibilità immanente reale, accentuando in questo modo sia lo storicismo (tutto è flusso che va nella buona direzione) che l’eco­ nomicismo (con la sottovalutazione dei rapporti sociali di pro­ duzione e l’esaltazione del progresso delle forze produttive). In questo modo fa del comuniSmo la trasformazione garantita della necessità in libertà e cerca di dimostrare che il comuniSmo non è soltanto incorporato nella storia ma anche nella natura, dal mo­ mento che quest’ultima in un certo senso “sostiene” la storia e fa di essa la sua più nobile fioritura secondo una progressione materialista, regolata dalle leggi unitarie della dialettica. In questo modo una Classe - Soggetto è incaricata dal movimento della storia di realizzare questo suo disegno immanente. Il sociologismo specula­ tivo si raddoppia così con l’idea utopica di un soggetto metastori­ co unificato e si dà per acquisita la tesi marxiana della formazione di un generai intellect a partire dal terreno delle contraddizioni della produzione. Le esitazioni e le problematizzazioni dello stes­ so Engels saranno ignorate. Il modello utilitarista che Marx aveva criticato in maniera incompleta fa la sua riapparizione, e non può in questo modo essere realmente superato e lasciato alle spalle. La critica di Engels alla ragione filosofica, sospettata di essere soltan­ to trasfigurazione di interessi di classe, impedisce di sviluppare la teoria della libera individualità sociale, che costituisce a sua volta il punto più elevato dello sforzo di Marx di superare futilitarismo insito nell’economia politica. E proprio questo il cuore del diritto naturale moderno il quale, come aveva mostrato Ernest Bloch nel­ la sua opera Diritto Naturale e Dignità Umana, fa parte dell’eredi­ tà da recuperare sotto la forma della libera individualità. Questa sintesi ha potuto conservarsi perché è stata la subli­ mazione filosofica dell’impotenza storica delle classi subalterne nel potersi costituire in classi inter-modali, costruttrici di una transi­ zione dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione comunista. Essa ha reso a lungo possibile il mantenimento di una speranza nel microcosmo socio - storico garantendola con il suo

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trasferimento simbolico nella vita del microcosmo, ed in questo modo ha potuto sostenere le aporie di una realizzazione sempre differita. L’ora del lutto però è arrivata, in quanto non è più con­ sentito raccontarsi delle storie sul destino meraviglioso di questo Soggetto inter —modale. L a nostra situazione: dissoluzione o rifondazione malgrado tutto? I marxismi del Novecento hanno fallito nella misura in cui non hanno potuto impedire la permanenza prima e Lo fifens iva vit­ toriosa poi del ncocapitahsrnp. Fino ad oggi non si è realizzata nes­ suna delle premesse della trasformazione com uni sta? Pieve rende impossibile ogni illusione tematizzando i punti dolorosi che han­ no fino ad oggi falsificato le analisi di Marx che avevano fatto da fondamento alle speranze politiche: 1) Le classi subalterne non sono state in grado di resistere alla radicalizzazione della sottomissione reale del lavoro al capitale che le ha integrate nei rapporti sociali di produzione capitalisticILEsse hanno così smentito empiricamente l’attribuzione metafìsica che ne avevano fatto un Soggetto inter —modale. 2) La borghesia storica non esiste più, così come non esiste più quella “coscienza infelice” che le permetteva di conservare un at­ teggiamento critico nei confronti del suo stesso dominio, e che si era manifestata nella grande letteratura (Balzac, Dickens, Tolstoi, Zola, Proust, Thomas Mann), o nel grande pensiero (Kelsen,^Hus­ serl, Cassirer, Croce, Durkheim, Mauss). La nuova élite dirigente, positivista ed economicista, è una classe nichilista che cqnqsce_soltanto la legge dell’accumulazione infinita del capitale, indifferente ai costi umani ed ecologici. 3) 11 neocapitalismo per ora vittorioso si è mostrato capace di sviluppare le forze produttive ad un ritmo prodigioso, nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura. Ha po­ tuto legittimarsi come il solo ordine possibile, facendo riferimento alle virtù di mercato, alla demoeraria_rappresentativa, .alla religione dei diritti umani eTifa seduzione di un consumismo generalizzato. 4) I marxismi ufficiali di partito sono stati sottomessi dal culto del produttivismo e deTsuo connesso nichilismo. Messi di fronte ai vicoli ciechi di questo culto, si sono dissolti all’interno dell’ac­

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cettazione della privatizzazione individualistica della vita quoti­ diana. La cultura marxista è evaporata ad una velocità fulminante trasformandosi in una cultura laica postmoderna àl 1‘intérno della quale si è fusa con la d e n u n cia tila Tecnica ispirata da Heidegger. In ogni caso è stata compromessa per un tempo indeterminato la necessità dell’organizzazione politica, identificata con il solo cent ra1is mo bu rocra ti co. Il nichilismo, nemico filosofico per eccellenza, si nutre dell’essere sociale capitalistico e di una concezione del’ md'do'TKTMarx non ha mai potuto completamente superare e che I marxismi do­ minanti hanno in realtà condiviso senza nessuna presa di distanza critica. Questa concezione si definisce attraverso tre elementi, lo storicismo, l’economicismo ed il sociologismo utopistico. La loro critica condiziona ogni possibile ripresa teorica e poIitìcaTE infatti Preve fa di questa ripresa la posta in gioco possibile di un even­ tuale quarto periodo, quello di un marxismo ancora sconosciuto, e che forse non sarà mai possibile. Lo storicismo è la credenza in valori predeterminati dal corso lineare e progressivo del tempo, l’idea che ogni momento prepara una fine differita, ma anche nel­ lo stesso tempo promessa. L’economicismo consiste nell’assegnare allo sviluppo delle forze produttive ed alla sola tecnologia la funzione di preparare questa fine della storia rendendo possibile l’emergere della Classe —Soggetto, il vero produttore del cambia­ mento. L’utopismo si definisce con l’attesa del crollo risolutivo del modo di produzione e della crisi finale che conclude il tempo della critica e si apre sul comuniSmo, a questo punto quasi predetermi­ nato nelle sue linee generali. Al termine di questa critica la dimensione veritativa della filo­ sofia consiste nello sviluppo di una ricerca antropologica incentra­ ta nel processo di sviluppo della natura umana. Questa categoria non può essere abbandonata, non fosse altro perché il modo di produzione capitalistico incontra i suoi limiti non soltanto nel­ la capacità di resistenza alle manipolazioni, ed inoltre nella loro capacità di trasformazione delle situazioni di passività in affetti positivi consapevoli, il che comporta il passaggio dall’accettazio­ ne passiva della loro condizione contradditroria all’azione. Ci si riferisce allora sia a Spinoza, sia alla tesi di origine hegeliana della ricostruzione di una stera etico - politica, lo Spirito Oggettivo.

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Preve non definisce ulteriormente questo spazio veritativo, ma è chiaro che in questo modo è Hegel a ripresentarsi, il pensatore dello Spirito Oggettivo che ha fornito un modello di una critica veritativa della totalità sociale capitalistica cui si ispira, senza però riconoscere il suo debito, l’idea marxiana di Wissenschaft. Hegel ha saputo a suo tempo evitare sia l’astrazione del sapere dell’intel­ letto sia la semplice descrizione empirica del dato. Ha saputo trat­ tare i contenuti concreti della famiglia, della società civile e dello stato, strutturandoli all’interno della rete delle categorie logiche che davano il primato all’etico ed al politico. Ha saputo mantene­ re contemporaneamente uno spazio trascendentale ed uno spazio storico. La verità si trova dunque in una teoria che è insieme una antropologia storica e politica, solo fondamento di un universali­ smo concreto. Marx ha fornito il principio di una concezione della Wissen­ schaft, e cioè di una scienza filosofica della totalità reale, che non inaugura nessun galileismo morale come pensava Galvano della Volpe, e che non presuppone neppure una concezione della scien­ za fondata sul rinnovo di una “rottura epistemologica’’ con le ideo­ logie, come ha creduto Louis Althusser. Questa concezione si fon­ da sulla fusione della teoria dell’alienazione e di una teoria del valore che culmina nella possibilità di concettualizzare il rapporto fra plusvalore assoluto e plusvalore relativo, come pure i rapporti fra sottomissione formale e sottomissione reale del lavoro, da un lato, e formazione sociale e forme dell’individualità storica, dal­ l’altro. Essa permette inoltre di collegare la prospettiva di un uni­ versalismo concreto con quello della libera individualità. Marx ha in realtà applicato il metodo dialettico di Hegel proprio quando credeva di averlo superato. E tuttavia non ha riflettuto sulla novità di questa “applicazione trasformatrice”. A questo punto è giunto il momento di interrogarsi su que­ sto progetto, che eredita da Marx il rifiuto di fare dell’economia un destino e che invece si riferisce opportunamente al primato dei rapporti sociali di produzione. Preve ha lavorato molto sui rappor­ ti fra eguaglianza e libertà e fra individualismo ed universalismo. La sua prospettiva è suggestiva, ma resta problematica nella misura in cui si apre un abisso fra la teoria purificata del modo di produ­ zione —l’emendatio intellectus caratteristica della critica dell’eco­

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nomia politica —e la riclaborazione delle categorie logico —an­ tropologiche. A mio parere questa elaborazione può farsi soltanto prendendo in considerazione fino in fondo il neocapitalismo nella sua forma mondializzata o globalizzata. Pieve, in compagnia di al­ tri marxisti contemporanei come Bourdieu, Hirsch e Thompson, tende a ridurre la nozione di globalizzazione ad una semplice ideo­ logia di legittimazione del capitalismo attuale rivolta a fuorviare la riflessione, a minimizzare la realtà delfimperialismo, a deviare le lotte politiche dal loro quadro concreto territoriale (nazione, stato, regione a vocazione nazionalitaria), per annegarle in questo modo nel magma delle “moltitudini” cui si attribuisce la capacità di rovesciare l’Impero in ComuniSmo. La critica delle tesi di Negri è una cosa, ma il rifiuto delle novità imposte da un nuovo spazio - tempo globale socio —storico chiamato “mondializzazione” - è un’altra. Preve suppone evidentemente che la critica al cosmopoli­ tismo kantiano fatta da Hegel, pensatore dalla politica dello stato —nazione, sia ancora sufficiente. I lavori di studiosi marxisti e non marxisti come Beck, Giddens, Jameson, Harvey, Bauman, Arri­ ghi, Wallerstein, Callinicos, Samir Amin, Balibar, Bidet, Robelin, Boltansky, Held, eccetera, mostrano sia pure in modo diverso e contraddittorio che questo problema deve essere posto in modo radicalmente nuovo, senza feticizzare o liquidare lo stato - nazio­ ne che Preve privilegia. Uno Hegel redivivo oggi modificherebbe a mio avviso la sua concettualizzazione dello Spirito Oggettivo. Solo ad Lina condizione il quarto periodo potrebbe essere un periodo di rifondazione della critica dell’economia politica e dell’essere so­ ciale capitalistico: prendere in considerazione e portare al livello del concetto in modo critico e dialettico i fenomeni riuniti sotto la nozione di mondializzazione e del suo mondo che esclude mi­ lioni di uomini. Rimane sempre da elaborare una teoria adeguata a spiegare quello che resta del vecchio capitalismo e di ciò che invece è nuo­ vo. E questa la domanda che poniamo alla ricerca di Preve, pur riconoscendo la ricchezza e la pertinenza di molte analisi. La ri­ sposta a queste domande condiziona il problema, non impossibile ma neppure garantito, dell’idea comunista e delle pratiche politi­ che conformi ad essa. 11 grande interesse del Libro —Ossimoro di Preve sta nell’essere senza illusioni sui marxismi novecenteschi e

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contemporaneamente nel lasciarsi tormentare ancora e sempre dal problema del comuniSmo. Ma come avrebbe chiesto il suo lonta­ no maestro Norberto Bobbio, quale comuniSmo? Non c’è dubbio che qui sta la domanda che con pochi altri Preve può onorarsi di avere posto. André Torci (Nice —Paris)

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P R E M E SSA

Questo saggio si lascia leggere da solo, e non ha bisogno di “istruzioni per l’uso”. Tuttavia, alcune indicazioni metodologiche possono facilitarne la lettura. In primo luogo, questo saggio è la prosecuzione ideale di M arx inattuale, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Alcune ripeti­ zioni sono inevitabili, ed in alcuni casi sono state anche intenzio­ nali, perché i due saggi non sono due tomi di uno stesso volume, e non si può presumere che il lettore di questo abbia letto anche il primo. Nello stesso tempo, proprio perché mi ero già sofferma­ to su alcuni temi nel precedente volume (dallo statuto hlosofico del pensiero di Marx alla concezione multilineare della storia), ho potuto essere più conciso, e purtroppo anche più “frettoloso”, in questo secondo saggio. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che questo saggio è stato scritto da uno specialista di filosofia. Se l’avesse scritto uno specialista di storia, di economia, di sociologia o di scienza politica sarebbe stato indubbiamente molto diverso. Tuttavia, c’è spazio e gloria per tutti. Altri specialisti metteranno in luce temi qui tra­ scurati o trattati troppo sommariamente. In terzo luogo, questo saggio non è un compendio di storia del marxismo o di esposizione riassuntiva dei problemi. Questo è un saggio critico, in cui è scontato che qualcuno venga “dimenti­ cato” e qualcuno invece fin troppo insistentemente citato. Le pre­ ferenze e le idiosincrasie dell’autore, del resto, si mostrano a nudo in questo chiaroscuro di presenze e di assenze. In quarto luogo, infine, l’autore ha volutamente rinunciato alla uniformazione stilistica dell’esposizione. Vi sono argomenti che richiedono uno stile elevato, come la critica filosofica ed eco­ nomica di alcuni autori, ed altri argomenti che richiedono invece

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uno stile grottesco, come le liturgie staliniane e post-staliniane. Nel suo complesso il comuniSmo storico novecentesco unisce tutti e tre i generi elei teatro greco, la tragedia, la commedia ed infine il dramma satiresco. Mi è sembrato giusto che il lettore potesse per­ cepire questa compresenza di generi anche attraverso le mie scelte stilistiche.

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IN T R O D U Z IO N E

Ogni possibile storia del marxismo, o più esattamente dei marxismi che si sono di volta in volta disputati l’egemonia teorica nella congiuntura storica data, è sempre e soltanto una interpreta­ zione soggettiva della storia del marxismo stesso. Su questo terre­ no delicato ogni pretesa di “oggettività scientifica” ha necessaria­ mente vita breve. Persino storie che si presentano come compila­ tone e “dossografiche” non riescono a nascondere la loro inevitabi­ le parzialità, in quanto il materiale da classificare è talmente vasto che una selezione comunque si impone, e la selezione scelta rivela l’impostazione implicita dell’interpretazione di fondo che la regge. Caduto (per fortuna) ogni criterio di tipo teologico in nome di una “ortodossia”, restano pur sempre altri criteri possibili, e vorrei subito esplicitare al lettore le mie opinioni in proposito. In primo luogo, un primo criterio può essere definito in base al para­ metro di ledeltà o meno a Karl Marx, il padre fondatore, per cui i vari “marxismi” successivi (perché è indiscutibile che ve ne sono stati molti) vengonqjfindicari sulla base di un avvicinamento o di un allontanamento dallo stesso Marx. Dico subito che considero questo criterio errato, e comunque inapplicabile. Ed è inapplica­ bile perché Marx, morendo a sessantacinque anni di età (18181883), non ha lasciato ai posteri ed ai suoi stessi amici, compagni e collaboratori una teoria compiuta e coerentizzata, ma ha lasciato un cantiere in costruzione, in cui vi sono elementi ambivalenti che non possono di fatto essere cuciti insieme. Quando Lenin parlò delle tre fonti e parti integranti del marxismo, e cioè la filosofia classica tedesca, l’economia politica inglese ed il socialismo politi­ co francese mise purtroppo sulla cattiva strada i suoi numerosi ri­ petitori, perché le strutture concettuali rispettive di Hegel, Smith e Saint-Simon non sono per nulla cumulabili, sommabili e neppu­

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Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

re armonicamente componibili. È dunque consigliabile rinunciare al criterio della commisurazione dei “marxismi” ad una dottrina originaria sgorgata dal genio di Marx, e questo non perché Marx non fosse geniale, ma perché si ha qui un vero e proprio mito teo­ logico dell’Origine. In secondo luogo, vi sarebbe un possibile secondo criterio, e cioè il grado d’influenza, quantitativamente rilevabile con stati­ stiche sui libri stampati e venduti (che non significa ovviamente anche letti, ma sarebbe comunque un inizio), che le varie inter­ pretazioni del marxismo avrebbero effettivamente avuto sui mili­ tanti, i dirigenti, gli studiosi, eccetera. Personalmente, non credo neppure a questo criterio. Sulla base di parametri quantitativi si può fare certamente una. storia dell?, ideologie (più esattamente delle “formazioni ideologiche”, per usare la corretta espressione di Charles Bettelheim), una storia dei gruppi intellettuali, una storia dei gruppi dirigenti, eccetera, ma questo lascerebbe allo scoperto il vero problema, e cioè lo statuto teorico e veritativo (usiamo pure questa parola senza paura!) di una certa interpretazione de], marxi­ smo. Per fare solo qualche esempio, Giuseppe Stalin è stato indub­ biamente più importante sul piano storico di Karl Korsch, e que­ sto uno storico non potrà mai dimenticarlo, ma da un punto di vista strettamente teorico Korsch è molto superiore a Stalin. Se si passa allo scenario italiano, è chiaro che il PCI di Togliatti e poi di Berlinguer ha avuto un ruolo storico immensamente più impor­ tante di quello che hanno avuto piccoli gruppi minoritari di oppo­ sizione, ma da un punto di vista teorico deve essere permesso met­ tere sullo stesso piano comparativo Amadeo Bordiga ed Antonio Gramsci, anche se Gramsci diventò dopo la sua morte il teorico di riferimento privilegiato di un partito che organizzava milioni di persone, mentre Bordiga restò un pensatore isolato noto solo a po­ chi gruppi di iniziati e di gnostici “marxisti”. Per lo storico del mo­ vimento operaio e per lo storico in generale Stalin è più importan­ te di Korsch e Gramsci è più importante di Bordiga, ma per l’au­ tore di questo saggio questo criterio “quantitativo” non funziona. Potrei elencare ancora altri criteri metodologici, ma non in­ tendo distrarre troppo il lettore dal punto di vista che mi interessa: se ogni storia del marxismo è sempre un’interpretazione, è bene esplicitare il tessuto implicito di questa interpretazione, per evitare

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equivoci di ogni tipo. Del resto il grande studioso di scienze sociali Gunnar Myrdal scrisse a suo tempo che nelle scienze sociali stes­ se (ma questo vale anche e soprattutto per la filosofia e la storio­ grafia) la cosiddetta “oggettività” consiste innanzitutto nella piena esplicitazione delle proprie premesse non solo metodologiche ma anche assiologiche. Iniziamo da una domanda generica ma anche legittima: qua­ le sarà il destino futuro del marxismo? Il destino futuro è certo scritto nelle stelle, ma è sempre possibile avanzare caute supposi­ zioni. Personalmente ritengo che in questo XXI secolo il marxi­ smo avrà un futuro, ma bisogna intendersi bene sulla parola. Il fatto che il capitalismo non sia in grado di risolvere in alcun modo i grandi problemi della povertà e della disuguaglianza fra individui, classi, popoli e nazioni non significa affatto, automa­ ticamente, che il marxismo abbia un futuro garantito sulla base esclusiva dei fallimenti del, suo avversario. Anzi, ciò che fino ad oggi è stato generalmente inteso come “marxismo”, e cioè un im­ pasto di economicismo, storicismo e politicismo, che si collocava in una visione parateologica di previsione “scientifica” della fine della storia, è a mio avviso un episodio storico finito, terminato e per così dire “conchiuso”. Se il marxismo avrà un futuro, co­ in’d possibile, anzi probabile, ma niente affatto assicurato, lo avrà solo se romperà in modo radicale, e con una rottura epistemo­ logica ancora più grande di quella che avvenne a suo tempo Ira astronomia geocentrica e astronomia eliocentrica o tra fissismo delle specie ed evoluzionismo, con le forme storiche di marxismo che in questo saggio ho periodizzato in proto-marxismo, medio­ marxismo e tardo-marxismo. La discontinuità radicale, tuttavia, non ha nulla a che fare con il “nuovismo” arbitrario. E estremamente facile annunciare esodi, promettere orizzonti nuovi, proclamare nuovi inizi, eccetera, e poi andare a parare in forme appena riverniciate di neo-utilitarismo, neo-contrattualismo, generiche riprese dell’etica e della religione, eccetera. Bisogna rendersi conto che qualsiasi liceale intelligente e sveglio può effettuare una critica profonda e sensata dell’econo­ micismo o dello storicismo. In fondo il riduzionismo economi­ co caricaturale o l’attribuzione alla storia assolutizzata di capacità messianiche e salvifiche sono rappresentazioni talmente unilaterali

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e poco credibili che non c’è neppure bisogno di stroncarle con un apparato teorico troppo sofisticato. Ho dunque cercato di evitare l’ennesima “stroncatura” del marxismo. Ve ne sono migliaia in circolazione in tutte le lingue del mondo, e l’aggiungerne una in più avrebbe lasciato le cose come stanno. Non ho neppure la pretesa di offrire finalmente un “paradigma scientifico” nuovo al marxismo stesso, nel significato a suo tempo proposto dall’epistemologo Kuhn. Se mi sentissi capa­ ce di farlo probabilmente tenterei di elaborarlo, ma sono troppo consapevole dei miei limiti per azzardarmi a provarci. Ho invece ripiegato su di un livello più modesto, che resta tuttavia molto ambizioso: una nuova interpretazione del marxismo (e cioè del conflitto fra vari marxismi in lotta), insieme con una semplice periodizzazione della storia del marxismo stesso. La stella polare di questo lavoro sta nel fatto che la storia del marxismo non è rico­ struita in modo semplicemente “esogeno”, limitata cioè ai cosid­ detti marxisti D O C , o perché considerati tali dagli altri o perché autonominatisi tali, ma è indagata anche e soprattutto alla luce dei “non marxisti” dichiarati, da Karl Polanyi a Martin Heidegger. E questo, lo ripeto, non perché costoro siano stati semplici critici dell’economicismo e dello storicismo del paradigma marxista do­ minante, ma perché hanno suggerito interpretazioni e soluzioni diverse ed alternative a quelle proposte dai marxisti D O C . Questo saggio, è articolato in sei capitoli. Si è trattato di una scelta espositiva che è contemporaneamente di interpretazione e di periodizzazione. Il primo, il secondo e il sesto sono prevalente­ mente capitoli interpretativi, mentre il terzo, il quarto e il quinto sono prevalentemente capitoli periodizzativi. Ogni scelta espositi­ va è sempre una scelta di limitazione e soprattutto di auto-limita­ zione, ed anziché correre dietro ad un impossibile enciclopedismo o ad una maniacale elencazione di tutti i marxisti esistiti, grandi, medi e piccoli, ho preferito attuare “tagli” radicali. Se qualche let­ tore non troverà il suo marxista “preferito ”, questo è dovuto o a una mia ignoranza che non cercherò in alcun modo di nascon­ dere o piuttosto ad una mia meditata convinzione, per cui nomi da molti considerati fondamentali sono per me secondari, mentre nomi poco conosciuti sono da me considerati molto significati­ vi. Le storie analitico—compilative del marxismo sono già troppo

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numerose (ed in alcuni casi ottime) perché sentissi il bisogno di scriverne un’altra, necessariamente peggiore di un’opera collettiva scritta da specialisti di autori o di periodi storici. Il mio scopo era quello di far ricordare la problematica marxista alla gente della mia generazione (cinquantenni, sessantenni, settantenni) e quello di suscitare curiosità per ulteriori studi ai più giovani (soprattutto ventenni e trentenni). La generazione piti giovane è intatti stata la vittima principale di un “silenziamento” artificiale su Marx ed il marxismo che non ha smesso di crescere dopo il triennio 1989-91, e cioè il triennio della dissoluzione politica e statuale del comuni­ Smo storico novecentesco, e nella provincia italiana dopo lo scio­ glimento del vecchio PCI e la sua riconversione prima in PDS e poi in DS. I gruppi accademici ed editoriali hanno generalmente, salvo poche eccezioni nominative, accompagnato questo gigan­ tesco processo di trasformismo degli intellettuali. Si è trattato di un gigantesco processo di “avvelenamento dei pozzi” dopo averci bevuto, in modo che nessun altro piu potesse berci. Questo mio lavoro si concepisce come una piccola borraccia. L’acqua che con­ tiene è poca, ma almeno è potabile. Il primo capitolo è dedicato ad alcuni problemi storici e teori­ ci che precedono Marx ed il marxismo. Si tratta dunque di consi­ derazioni che generalmente prendono il nome di “prima di Marx”. In generale questi capitoli introduttivi dedicati a “prima di Marx” ricordano che Marx non si è “ inventato” il comuniSmo, ma si è innestato su di una lunghissima tradizione egualitaria di tipo ge­ neralmente utopistico, religioso e filosofico (comuniSmo platoni­ co, eresie pauperistiche medievali cristiane e musulmane, modelli egualitaristici settecenteschi Lprinrq-ottoctmteschi, Fourier, Cabet, eccetera). La conoscenza di questi “precursori” di Marx è cer­ to utilissima, ma a mio avviso spesso finisce per oscurare l’assoluta originalità dello stesso Marx, in cui per la prima volta nella sto­ ria del pensiero occidentale il cosiddetto “comuniSmo” (peraltro mai definito esattamente e sempre consapevolmente rimandato ai meccanismi autopoietici del lutino) è ricavato da una logica immanente fii.rovesciamento del capitalismo, più esattamente del modo di produzione capitalistico. Q uesta novità teorica assoluta, generalmente ben nota ai marxologi .specializzati, non lo è abba­ stanza presso il grande pubblico dei lettori, che istituiscono spon­

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taneamente serie (inesistenti) di grandi filosofi (Spinoza — Hegel - Feuerbach - Marx, eccetera), di grandi economisti (Smith - Ri­ cardo - Marx, eccetera) o di grandi sociologi (Comte - Marx, ec­ cetera). Non nego che questo metodo possa avere meriti didattici ed espositivi, ma affermo anche che in questo modo si finisce con il mettere in ombra che Marx non è stato un classico della filoso­ fia, dell’economia e della sociologia, ed il miglior modo per “neu­ tralizzarlo”, o meglio per neutralizzare il carattere “critico” del suo approccio generale, è proprio quello di inserirlo in queste serie classificatrici. Ho allora costruito il primo capitolo di questo saggio in un modo radicalmente diverso. In estrema sintesi, nella modernità storica borghese —capitalistica (con l’avvertenza che i due termini di “borghesia” e di “capitalismo” non ricoprono affatto la stessa problematica economica, politica e culturale) si sono affrontati tre modelli filosofici distinti per la comprensione della realtà sociale, e cioè il modello tradizionalista, il modello contrattualista ed infi­ ne il modello utilitarista. Nel Settecento tutti e tre questi modelli coesistevano in modo conflittuale, ma infine il modello utilitarista ha vinto, perché, com’è facile comprendere, sulla base di un mo­ dello tradizionalista o di un modello contrattualista l’economia politica moderna non avrebbe mai potuto nascere come scienza autonoma. Un Adam Smith tradizionalista o contrattualista è una semplice impossibilità teorica. Ho preferito la messa a fuoco di questo problema alla elenca­ zione interminabile dei cosiddetti “precursori” di Marx. Il model­ lo utilitarista, con trasformazioni più di facciata che di profondi­ tà, continua ad essere ancora oggi egemone non solo nelle scienze sociali ma soprattutto nella mentalità prevalente. E questo non avviene certo a caso, ma perché il modello utilitarista corrisponde abbastanza bene alla “ricaduta” psicologica individuale e sociale della riproduzione dei rapporti capitalistici di produzione, e cioè dell’oggetto specifico della teoria di Marx. Il secondo capitolo è dedicato a Marx, ed costruito sulla base dell'ipotesi per cui Karl. Marx njQuxi-ha^-lasciato una.Hottrinaxoerente e sistematizzata, ma solo una sorte di cantiere in costruzione, in cui alcune impostazioni teoriche sono potenzialmente contrad­ dittorie ed auto-contraddittorie, il che non è per nulla sintomo di

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debolezza o di mancanza, di scientificità' ma è tipico di qualun­ que impresa scientifica normale. In altra sede (cfr. M arx inattuale, Bollati Boringhieri, Torino 2004) mi sono occupato in modo più ampio del solo Marx, e mi è sembrato inutile ripetere e parafrasare cose esposte in modo più analitico. E normale tuttavia che questo saggio dedicato al fenomeno marxista nel suo complesso ripren­ da ed approfondisca l’approccio scelto nel libro precedente, di cui questo vuole essere un allargamento, un completamento ed un’in­ tegrazione. Marx, lo ripetiamo, è soprattutto colui che ha pensato il comuniSmo secondo la modalità che i pensatori religiosi han­ no chiamato “teologia negativa”,_in cui la divinità non è descritta con categorie ontologiche ricavate da un’estrapolazione dell’ente umano generico, e cioè dell’uomo in generale, ma è ricavata per differenza contrastiva assoluta da questo fondamento stesso. Nello stesso modo Marx ricava il concetto di comuniSmo (che di con­ seguenza non definisce mai se non in modo volutamente generi­ co) da una teologia negativa del modo di produzione capitalistico. Questa è la sua forza, ma anche ovviamente la s1ia""dèBotezza. La teoria del valore, ricavata da un’interpretazione originale di Smith e di Ricardo, non era ovviamente una teoria filosoficamente “neu­ tra”, ma era una teoria il cui fondamento filosofico è futilitarismo, più esattamente il modo specifico con cui l’utilitarismo si era im­ posto sui modelli rivali di tipo tradizionalista e contrattualista. Il comuniSmo di Marx.-è dunque un “rovesciamento dialettico” del­ l’utilitarismo in ciò che dovrebbe essere il suo contrario, ma che in realtà finisce spesso per essere il suo sdoppiamento replicato e la sua generalizzazione “collettivistica”. Ogni teologia negativa Ha Bisogno di una dialettica, ed ogni dialettica, comunque la si voglia mettere, è sempre idealistica. Sul fatto che ogni dialettica sia per sua natura idealistica e non “mate­ rialistica” concordo con le tesi di fondo di Lucio Colletti (ma già prima l’aveva detto Giovanni Gentile). Tuttavia, a differenza di Colletti (che in questo mio lavoro in un certo senso “rovescio”), per me questa natura filosofica idealistica è una cosa buona e non una cosa cattiva. La mia interpretazione di M arx, dunque, volen­ dola esprimere con una formula necessariamente imprecisa e ge­ nerica, è quella di un filosofo (inconsapevolmente) idealista e di una scienziato sociale (consapevolmente) materialista. Lai “mate-

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ria”, ovviamente, non era quella delle scienze naturali ricavata per astrazione dalla fisica, chimica o biologia, eccetera, ma era sempli­ cemente il modo (positivistico) in cui era definito il primato strut­ turale dei rapporti sociali di produzione sulle elaborazioni “ideo­ logiche” corrispondenti, con il pericolo necessariamente connesso di identificare cultura ed ideologia. La compresenza di un filosofo dialettico idealista e di uno scienziato sociale materialista pone ovviamente molti problemi, che spingono ad un ventaglio differenziato di soluzioni. Una pri­ ma soluzione consiste nell’accorgersi di questa contraddizione, e farne il pretesto per un abbandono in foto della teoria di Marx e del marxismo( e Lucio Colletti non è stato che uno dei tanti, anzi dei tantissimi). Una seconda soluzione consiste nel negare e ri­ muovere questa compresenza strutturale, affermando che un uni­ co minimo comun denominatore “materialista” unisce la dimen­ sione filosofica e la dimensione scientifica di Marx (e qui da Engels a Lenin, da Althusser a Lukàcs, eccetera, non c’è che l’imbarazzo della scelta). Il mio secondo capitolo è caratterizzato dal rifiuto consapevole delle due prime soluzioni. Ritengo infatti che non si caverà mai un ragno dal buco e si resterà sempre a camminare in tondo nello stesso posto se queste contraddizioni intime struttu­ rali nel pensiero di Marx non verranno apertamente riconosciute. Ed il semplice riconoscimento verbale non è sufficiente, se non è accompagnato da una rivoluzione teorica nell’approccio globale metodologico ed epistemologico a Marx. In proposito segnalo ancora qui un punto essenziale che ripe­ terò continuamente in tutto il saggio. E cioè che non esiste un vero Marx, un Mar x'äüientico a cui si possa tornare. Non si può infatti torndréza un’ambivalenza ed ad un’ambiguità strutturale. Tornare ad un’ambivalenza vuol dire interpretarla, ed un ìQXejpretazione per sua natura non è mai un ritorno. Gli esegeti biblici e cora­ nici possono ovviamente mettersi in questa prospettiva, perché essi sono teologi consapevoli di esserlo. Ma gli studiosi di Marx non possono seguire questa strada. Le varie patologie dei marxi­ smi successivi (economicismo, storicismo, politicismo, sociologi­ smo, eccetera, e cioè tutte le forme di riduzionismo monofattoria­ le) sono tutte possibilità latenti e potenziali del pensiero di Marx, e non solo tradimenti dovuti ad ignoranza, incompetenza, malafe­

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de, cieca sudditanza ai voleri burocratici, concessioni opportuni­ stiche alla divisione universitaria del lavoro disciplinare, necessità di dotare i militanti devoti ma creduloni di una identità teorica semplice, eccetera. Marx è il luogo di una scoperta storica (l’appa­ rato categoriale di interpretazione della società e della storia) e di un’illusione storica (il rovesciamento interno dell’utilitarismo nel suo contrario). La segnalazione di questa contraddizione non to­ glie nulla alla sua oggettiva grandezza, ma a mio avviso la rafforza, così come avviene peraltro con la segnalazione delle innumerevo­ li contraddizioni di Platone, Aristotele, Kant, Hegel, eccetera. I classici sono contraddittori, perché la contraddizione non è uno sbaglio dello studioso frettoloso e poco dotato, ma è una caratteri­ stica logica èd ontologica dei processi storici e dei corrispondenti ragionamenti umani. T capitoli terzo, quarto e quinto sono quelli dedicati espressamente ad una ricostruzione storica e ad una periodizzazione della storia del marxismo. Non mi stanco ovviamente di ripetere che il cosiddetto marxismo non esiste, e con questo nome si indica sol­ tanto un campo di forze teoriche e ideologiche conflittuali che partono tutte dal riferimento quasi sempre mitico al Padre Fon­ datore. 1 marxisti in genere non hanno mai saputo applicare a se stessi il marxismo, ed hanno creduto che il loro marxismo servisse solo a spiegare i borghesi, i capitalisti, gli eretici, eccetera. Si tratta di una debolezza strutturale, e di un fenomeno di falsa coscienza che è a sua volta il sintomo superfiqiale di una subalternità incu­ rabile al sistema delle idee dominanti, costruito sulla assoluzione preventiva delle oligarchie al potere. Sono uno studioso non solo di marxismo, ma soprattutto di storia della filosofia occidentale dai greci ad oggi, e non mi sono quasi mai imbattuto in sistemi di pensiero meno critici, e cioè più incapaci di introspezione. Al con­ fronto le teologie prodotte dai francescani, dai domenicani e dagli stessi gesuiti appaiono modelli di capacità introspettiva. La mia periodizzazione è tripartita, e si basa sulle categorie di proto-marxismo (1878-1917 circa), di medio-marxismo (19171956 circa) ed infine di tardo-marxismo (1956-1991 circa). Il pe­ riodo posteriore al 1991 non viene inserito nella periodizzazione, gli si consacra un capitolo a parte (l’ultimo del saggio), e ci si limi­ ta a sollevare il problema aperto se ci si trovi già in una situazione

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apertamente post-marxista oppure se abbia senso, ed entro quali limiti e condizioni, parlare di rinnovamento e di ricostruzione di un marxismo nuovo. Vi sono argomenti seri sia per l una che per l’altra tesi, e li segnaleremo nel sesto capitolo. Il terzo capitolo è dedicato a quello che propongo di defini­ re proto-marxismo, quello in cui si costituisce nei suoi tratti es­ senziali (e mai più in seguito veramente modificati) il paradigma marxista dominante. I termini storici sono gli anni 1876-78, in cui viene scritto il primo manuale marxista sistematico {\'AntiDiihring di Engels), oppure il 1882, quando viene pubblicata la prima rivista marxista (la Neue Zeitung di Kautsky), fino al 1914, quando scoppia la prima guerra mondiale, o al 1917, quando si ha la rivoluzione di ottobre in Russia e la presa del potere dei bolsevichi, il primo partito politico dichiaratamente marxista che si impadronisce del potere politico. A mio avviso, quexta._pxima fase proto-marxista è caratterizzata da un importarne elexactlto unba­ rio, che si tratta di segnalare adeguatamente. Si tratta.4gl cosiddetto economicismo. Ovviamente, bisogna intendersi bene sui termini e sul loro uso. Nella mja periodizzazione storica tripartita,^connoterò la pri­ ma fase proto-marxista con la dominanza della categoria di econo­ micismo, la seconda fase medioTrnàrxista con la dominanza della categoria di politicismo^ed infine la terza fase tardo-marxlsta con la dominanza della categoria di culturalismo. Sono perfettamente consapevole dei rischi di semplificazione e di banalizzazione che si hanno quando si adoperano questi grandi tagli metodologici, ma ritengo che si tratti di un prezzo inevitabile da pagare. In un se­ condo momento è normale che si abbia una complessificazione del modello, ma l’uso sistematico della retorica della cosiddetta com­ plessità e solo un alibi opportunistico per non prendere posizione e per non assumersi la responsabilità dei propri tagli. Ho sempre ammirato quei pensatori, da Auguste Comte a Pitirim Sorokin, che non hanno avuto paura di iniziare con grandi periodizzazioni. In questo modo si mettono le carte in tavola, e chi non vuol gio­ care può alzarsi ed andare altrove. Il periodo proto-marxista fondadvo si costituisce sulla base di un modello sociale economicista e di un modello filosofico po­ sitivista. I nomi di Engels, Kautsky e Plechanov sono certo im­

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portanti, e fra questi tre pensatori vi sono rilevanti differenze, ma in tutti e tre è comune l’ispirazione fondamentale, e questo non è un caso, perché si trattava della potente committenza indiretta dell’epoca, la stessa committenza indiretta che si era manifestata otto secoli prima quando i teologi si inventarono il Purgatorio per salvare le anime dei primi usurai e dei primi mercanti capitalisti. L’economicismo si basa su di una concezione deterministica, progressistica, necessitaristica e teleologica della storia ( che si può sommariamente ma correttamente definire come storicismo), sulla tesi del carattere cruciale del cosiddetto sviluppo delleforze produt­ tive viste come il fattore decisivo del passaggio dal capitalismo al socialismo, sulla riduzione dello spazio della filosofia ad epistemo­ logia, oppure a concezionFdetMoridiTcVi f ip d i3 cologico, ed infine su altri fattori secondari che cercherò di segnalare. Ovviamente ci furono già allora dei critici dell’economicismo e del progressismo, e fra essi spicca il francese Georges Sorel. Una critica al determinismo storico si trova già in Eduard Bernstein e nei cosiddetti socialisti neokantiani, mentre una critica al positi­ vismo filosofico si trova già in Antonio Labriola. I nomi sarebbe­ ro molti, ma anziché perdersi fra gli innumerevoli alberi bisogna considerare la foresta nel suo insieme, e cioè chiedersi perché nel periodo proto-marxista (che storicamente corrisponde quasi com­ pletamente al periodo della seconda rivoluzione industriale, della Seconda Internazionale fondata nel 1889 e nella egemonia cultu­ rale del modello del partito socialdemocratico tedesco fondato nel 1875) prevalse il modello economicista. La risposta mi sembra relativamente semplice. Questo mo­ dello prevalse non perché i successori di Marx interpretarono cor­ rettamente Marx, ma perché il principale committente sociale po­ liticamente organizzato della teoria marxista, e cioè la classe ope­ raia prima tedesca e poi europea, voleva 1economicismo ed infine impose l’economicismo. Politicamente organizzabile non era cer­ to allora il fantomatico lavoratore collettivo cooperativo associato previsto da Marx, e neppure il “sensibilmente soprasensibile’’ gene­ rai intellect, ma era solo la classe operaia di fabbrica e le figure so­ ciali ausiliarie che le stavano intorno. Il fatto che Sorel avesse pre­ cocemente segnalato le illusioni del progresso e Michels i processi di burocratizzazione e di integrazione sociale contò di fitto meno

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di zero. Bisogna infatti distinguere accuratamente le proposte teo­ riche e le formazioni ideologiche. Le formazioni ideologiche (ed il marxismo economicista è una formazione ideologica per eccellen­ za) funzionano come macchine d’integrazione identitaria e di co­ struzione di appartenenza militante, ed i due fattori dell’identità e dell’appartenenza non devono essere giudicati in base alla qualità teorica del contenuto culturale, ma esclusivamente in base al dato pragmatico del loro funzionamento pratico. Se aggrega meglio l’ipotesi dello scontro fra venticinque diavoli e venticinque angeli per spiegare i fatti sociali piuttosto che una sintesi di Karl Marx, Max Weber e Karl Polanyi, non c’è dubbio che i dirigenti politici sceglieranno la demonologia e l’angelologia. Ho volutamente scelto un esempio hard, ma non c’è dubbio che su questo punto bisogna andare controcorrente. La storia del marxismo è sempre stata dominata da una sorta di deformazione culturale universitaria, tipica di chi passa il suo tempo correggen­ do con la matita rossa e blu le tesi di dottorato dei propri allievi. Nello stesso modo si correggono Engels e Kautsky, Labriola e Cro­ ce, Bernstein e Sorel, eccetera, con il famoso criterio prima segna­ lato del fraintendimento o dell’allontanamento da Marx. Ma l’eco­ nomicismo marxista si sottrae a questo criterio scolastico. L’econo­ micismo è semplicemente l’espressione ideologica di una classe so­ ciale capace certamente di organizzazione sindacale e politica e di resistenza alla estorsione del plusvalore, ma storicamente incapace (per motivi che verranno ampiamente segnalati nel mio lavoro) di un superamento strutturale del modo di produzione capitalistico. Il quarto capitolo è dedicato a quello che propongo di defini­ re medio-marxismo, che faccio iniziare dal 1914, cioè dallo scop­ pio della prima guerra mondiale o dal 1917, l’anno della rivolu­ zione russa (fra le due date la seconda è probabilmente migliore), e faccio terminare nel 1956, l’anno del X X congresso del PCUS e della detronizzazione simbolica di Giuseppe Stalin, morto nel 1953. Ho preferito la data del 1956 ad altre date possibili (il 1945, fine della seconda guerra mondiale, il 1949, anno della vittoria della rivoluzione cinese, eccetera) per una ragione molto precisa: il fenomeno storico del comuniSmo politico novecentesco fu fon­ damentalmente uno stalinismo, e con lo stalinismo si identifica quasi completamente. D ’altra parte, parlo di medio-marxismo per

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segnalare il fatto banale che il marxismo politico raggiunse verso la metà del Novecento il culmine del suo successo storico, a metà fra i suoi inizi (il proto-marxismo) e la sua inarrestabile decadenza (il tardo-marxismo). Ovviamente, i problemi del medio-marxismo sono moltissimi, ed in questa introduzione ne segnalo solo due, rimandando il lettore alla lettura diretta del quarto capitolo. Il primo problema riguarda l’apprezzamento storico della fi­ gura di Lenin, figura ineludibile, di cui è impossibile evitare un tentativo di bilancio. Chi scrive rifiuta un bilancio indifferenzia­ to o in blocco (del tipo “tutto buono” o “tutto cattivo”). Lenin fu l’Einstein del materialismo storico di cui Marx fu il Newton. 11 suo libro Che fare?, in cui espone la sua nota teoria del partito politico, è per me non tanto un manuale politico di agitazione quanto un libro di epistemologia, il cui nucleo è la consapevolez­ za della incapacità assoluta della classe operaia in quanto tale di poter attuare una rivoluzione anticapitalistica strutturale e della necessità pertanto di doverla sostituire con un’altra entità soggetti­ va, il partito politico di tipo leninista. Oggi sappiamo come sono andate le cose (in breve, la classe operaia non è certo capace di su­ perare il capitalismo, ma neppure il partito leninista lo è, e lo si è abbondantemente constatato), ma sarebbe ingiusto, ingeneroso e metodologicamente errato retrodatare ad un secolo fa questa con­ sapevolezza. Marx aveva diritto di sbagliare sulla classe operaia nel 1867, e Lenin aveva il diritto di sbagliare sul partito comunista nel 1903. Gli sciocchi non sono stati Marx e Lenin, ma chi in questi primi anni del XXI secolo si ostina ancora a non imparare nulla dalle lezioni della storia. Sulla filosofia di Lenin, e cioè sul suo materialismo, aveva ragione nell’essenziale Anton Pannekoek. Sul problema del rap­ porto fra marxismo e classe operaia aveva parimenti ragione Karl Korsch. Ma si tratta pur sempre di questioni secondarie. Il punto principale, infatti, sta nel fatto che, se la caratteristica principale del proto-marxismo era feconomicismo, la caratteristica principa­ le del medio-marxismo è invece il politicismo. Spieghiamoci meglio. Gli elementi di continuità fra proto­ marxismo e medio-marxismo sono soverchianti, e se ne accorsero sia il giovane Lukàcs sia Antonio Gramsci quando recensirono e commentarono il manuale di materialismo storico di Bucharin,

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prima opera teorica del bolscevismo al potere in URSS. La centra­ lità dello sviluppo delle forze produttive è la stessa in Kautsky e in Stalin, segnale di una profonda continuità teorica fra Seconda e Terza Internazionale. E tuttavia non si può negare che con il me­ dio-marxismo staliniano si afferma un primato della politica sul­ l’economia, al punto che la nuova classe dominante della società sovietica stalinizzata è una classe che si costituisce per via politica e non economica, attraverso i piani quinquennali, l’ideologia staca­ novista e soprattutto gli stermini e le incarcerazioni di massa degli anni 1936-38. Se questo è vero, non è corretto limitarsi a consta­ tare gli elementi economicisti dello stalinismo. Essi ci furono, ma furono anche sottomessi ad un indiscutibile primato della politi­ ca, e cioè appunto quello che definisco politicismo. Il problema espositivo principale del quarto capitolo sta forse nel classificare in modo convincente le varie forme di marxismo che furono presenti nella fase definita medio-marxista. Fra le varie soluzioni possibili ho optato per una classificazione tripartita, che permette parzialmente di evitare equivoci e semplificazioni. Una classificazione bipartita (staliniani ed antistaliniani) mi sembra, infatti, riduttiva. Segnalo quindi tre posizioni. La prima posizione, quella assolutamente dominante e prin­ cipale, è lo stalinismo stesso. A parte il politicismo già segnalato, lo stalinismo fu caratterizzato da una riduzione pressoché integra­ le del marxismo ad ideologia, più esattamente ad una ideologia di legittimazione della costruzione di un’inedita formazione sociale classista non prevista da Marx, anche se forse prevedibile sulla base delle sue categorie di fondo. Con l’espressione “inedita formazione sociale classista” intendo segnalare al lettore che non accetto le pur rispettabili interpretazioni alla Amadeo Bordiga dell’URSS come giovane capitalismo o come capitalismo di stato. L’URSS di Stalin fu certamente una società classista (più esattamente interclassista, come lo sono del resto le società capitalistiche normali), ma (e qui seguo liberamente proposte interpretative alla Moshe Lewin o alla Paul Sweezy) fu un’inedita società classista storicamente nuova ed originale, e non una variante asiatica di un capitalismo di stato, eccetera. Nella società sovietica l’economia era incorporata nella politica (embedded) secondo un approccio che Karl Polanyi seppe illuminare molto bene, ed allora diciamo che si trattò di una for­

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mazione sociale inedita caratterizzata da una particolare incorpora­ zione dell’economia e della cultura nella politica. L’aspetto più importante di questaj^rima posizione staliniana non fu teorico ma antropologico, con la produzione di massa su scala industriale di un tipo umano inedito, il comunista staliniano di partito, caratterizzato da una mescolanza specifica di utopismo ottimistico e di pessimismo realistico, che propongo di interpreta­ re in termini di “pensiero magico”. Senza impadronirsi delle due nozioni di “formazione classista inedita” e di “pensiero magico”, ogni tentativo di interpretare lo stalinismo finisce con l’essere riduzionistico, e di rovesciare semplicemente il politicismo stalinia­ no. La categoria di “totalitarismo”, ad esempio, non fa che rove­ sciare l’immagine positiva che io stalinismo ha voluto dare di sé, trasformandola semplicemente in immagine negativa, sulla base di uno stereotipo liberal democratico assoltitizzato e destoricizzato. La seconda posizione, che è intermedia tra ^stalin ism o e la sua negazione, è quella di chi fu certamente conscio_deh caratte­ re inaccettabile, barbarico e sostanzialmente non marxista-delio stalinismo stesso, ma ritenne che si trattasse solo di un periodo iniziale di crimini e di eccessi che si sarebbe prima o riassor­ bito da solo. Tipici di questo atteggiamento furono uomini come Gyòrgy Lukacs ed in una certa misura anche Antonio Gramsci, con l’avvertenza che Gramsci stava in prigione, non poteva essere adeguatamente informato sull’URSS e comunque morì nel 1937, prima che fosse possibile comprendere bene che tipo di società fosse stata costruita in URSS. Figure come questa non possono es­ sere in alcun modo definite staliniane anche se non scelsero la via dell’opposizione alla Bordiga, Trotzky, Pannekoek, Mattick, Korsch, eccetera. Essi mantennero una sorta di “interiorità all’ombra del potere” ed una specie di nicodemismo comunista del X X se­ colo. Possiamo giudicare negativamente in termini morali il loro atteggiamento, ma non possiamo dimenticare che rifiutarono la mutazione antropologica di tipo magico che lo stalinismo inevita­ bilmente comportava. La terza posizione, ovviamente, fu qtiella dei marxisti che si opposero radicalmente allo stalinismo con il rischio dell’emargi­ nazione e dell’isolamento, dell’imprigionamento, dell’esilio e del­ la morte. Trotzky ne è l’esempio più noto, ma non è che uno dei

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moltissimi. All’interno di questa posizione si distinsero i partitisti (Trotzky, Bordiga, eccetera) e i consiliaristi (Pannokoek, Korsch, Mattick, eccetera). Di entrambi si darà conto sommariamente nel quarto capitolo. Uno degli elementi principali del medio-marxismo fu il suo processo di mondializzazione, dovuto anche alla fondazione dei partiti comunisti promossi dalla Terza Internazionale (19191943). Qui è praticamente impossibile evitare la dispersione dalla Cina all’India, dall’America latina al mondo arabo, eccetera. Da un punto di vista teorico, l’aspetto principale è dato naturalmen­ te dallo spostamento del soggetto rivoluzionario principale dalla classe operaia e proletaria alle grandi masse contadine povere. Il riferimento immediato è al cinese Mao Tse Tung, ma non solo. Rimando il lettore al quarto capitolo, ma gli anticipo subito la mia scandalosa opinione personale, e cioè che il relativo maggior successo del comuniSmo in questi paesi poveri e colonizzati non sta nel fatto che essi fossero più poveri, e dunque che il comuniSmo della distribuzione egualitaria in condizioni di penuria grave fosse pur sempre una soluzione più accettabile di quanto non fosse nei paesi detti “metropolitani”, ma sta nel fatto che la classe contadina è in genere molto più rivoluzionaria della classe operaia. Su que­ sto punto la mia divergenza di vedute con Engels e con lo stesso Marx è palese. Il quinto capitolo è dedicato a quello che propongo di defini­ re tardo-marxismo, e che periodizzo in modo un po’ schematico fra il 1956, anno della destalinizzazione, ed il 1991, anno dello scioglimento dall’alto deU’URSS dopo il cosiddetto fallimento del­ la perestrojka di Gorbaciov. Anticipo subito al lettore, peraltro, che nel quinto capitolo non interpreterò la perestrojka in termini di fallimento (anche se non nego che essa ha potuto essere vissuta in questo modo da molti dei suoi protagonisti), ma come un processo pienamente riuscito, in cui appunto riuscì perfettamente il sostan­ ziale riciclaggio della classe sociale burocratica ed industriale di sta­ to creata durante la costruzione staliniana dell’inedita formazione sociale classista di cui si è detto in nuova classe dominante media­ trice fra le oligarchie occidentali capitalistiche normali e le gigan­ tesche masse atomizzate del nuovo esercito industriale capitalistico di riserva che oggi viene “messo al lavoro” in tutto il mondo pre­

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sunto “globalizzato”. La chiave interpretativa del quinto capitolo è dunque quella della piena riuscita della perestrojka. Quindi, nessun fallimento. Questo ovviamente non significa che fosse tutto mec­ canicamente prefissato fin dal 1956. E anzi possibile che se un An­ dropov non fosse morto nel 1984 ma fosse vissuto ancora ventan­ ni le cose sarebbero andate diversamente. Nonostante l’opinione di Plechanov sull’inessenziale ruolo delle personalità nella storia, opinione tipica dell’economicismo del proto-marxismo, un fasci­ smo senza Mussolini ed un nazionalsocialismo senza Hitler sareb­ bero stati molto diversi, e magari non ci sarebbero neanche stati. Vi sono due ordini di questioni storiche e teoriche nel quin­ to capitolo che probabilmente interesseranno le persone della mia generazione: il giudizio sul Sessantotto e sulla sua natura storica, sociale e soprattutto culturale e quello sulla natura del marxismo (o meglio, dei marxismi) delle formazioni politiche “estremistiche” che fiorirono in Europa fra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta, comprese quelle che praticarono la lotta armata e furono definite terroristiche. In proposito darò due giudizi molto differenziati. Riguardo al Sessantotto, ritengo che si tratti nell’essenziale di un’unificazione simbolica di eventi diversi, in cui appunto la Contestazione deve sostituire la Rivoluzione, e si tratta nell’essenziale di un rito di costituzione di una nuo­ va classe intellettuale antiborghese e ultracapitalistica (le due cose non sono in contraddizione, ma in un rapporto di complementa­ rietà). Si tratta di un fenomeno che si può e si deve studiare alla luce del marxismo, ma che col marxismo non ha nulla a che fare. Un discorso diverso deve essere fatto per [’effimera fiamma­ ta di politicizzazione giovanile e operaia fra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta. Qui il marxismo, o più esattamente il tardo-marxismo, c’entra veramente. Si trattò, per dirlo con una formula, di un fenomeno troppo “estremista” e troppo poco “radicale”, nel senso marxiano di “prendere le cose alla radice” . Furono riprese in blocco tutte le eresie storiche nate negli anni Venti, insieme con un’interpretazione occidentale del maoismo cinese e del guevarismo latino-americano, e non man­ cò neppure una curiosa riproposizione dello stalinismo in chiave “rivoluzionaria” e della corrente classista della resistenza italiana del 1943-45. Questo hard discount della rivoluzione mondiale, a

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distanza di un quarto di secolo, può ormai essere interpretato con la distanza storica necessaria, ed appare non certo come la prima aurora di una nuova fase storica, ma come l’estremo tramonto di quella precedente. Come dicono che avvenga per i moribondi, ai quali tutta la vita precedente si ripresenta in forma sintetica ed ac­ celerata, nello stesso modo ci fu una sorta di “ripetizione generale” di tutta la storia del marxismo in un decennio. Con il nostro sen­ no del poi, dal momento che, come scrisse genialmente Hegel, la nottola di Minerva si alza al crepuscolo, appare oggi evidente che tutto quel pittoresco “estremismo” era solo l’altra faccia dell’inte­ grazione ipocrita del movimento operaio “ufficiale” nel sistema politico e culturale capitalistico, ma non poteva in alcun modo realizzare una vera riforma radicale del marxismo stesso. I giova­ ni si vestirono da vecchi, e così compromisero sia la loro presente giovinezza che la loro futura vecchiaia. Oggi questo destino tragi­ comico è sotto gli occhi di tutti, anche se è rimosso con il travesti­ mento della nuova commedia dell’arte post —moderna. A differenza delle due fasi precedenti, l’ultima fase tardomarxista fu caratterizzata da quello che ho chiamato culturalismo, e cioè dal tentativo di rivitalizzare il paradigma marxiano con una nuova anima filosofica. Fra le molte rivitalizzazioni proposte, ri­ corderò quelle di Jean-Paul Sartre, di Louis Althusser e di György Lukàcs. Oggi tutto questo sembra preistoria, laddove sono passati appena due o tre decenni. Ma come ho già segnalato poccTsopra, si tratta di un tentativo deliberato di avvelenare i pozzi, e di privare i più giovani di qualunque memoria teorica. La memoria teorica, infatti, fa parte integrante della memoria storica. Il sesto ed ultimo capitolo è dedicato alla situazione attuale, e cioè al periodo posteriore al 1991. La natura di questo periodo storico non è ancora chiara, ed infatti per ora solo la classe dei giornalisti è abilitata alla sua definizione. Era dell’informatica, era della fine del bipolarismo, era della minaccia terroristica^era della globalizzazione, era del nuovo impero americano, eccetera. Non mi azzarderò a dare la mia connotazione di questa nuova fase, perché so bene che chi ci vive dentro è la persona meno indicata per battezzare un nuovo periodo storico. Personalmente tendo a pensare che la connotazione provvisoria principale possa essere quella di nuova ed inedita età imperiale americana. L’im-

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pero americano è uno specifico impero ideocratico a vocazione universalistica (purtroppo!), a causa delle sue radici messianiche protestanti e puritane di origine addirittura seicentesca. Ho de­ ciso di dichiarare questo mio convincimento e di non ometterlo per onestà verso il lettore, ma dico subito che esso non ha molto a che fare con il problema che ci interessa, e cioè con il possibi­ le destino storico del marxismo e dei “marxismi”, che è l’oggetto dell’ultimo capitolo. Il sesto capitolo è per forza di cose quello che può suscitare maggior interesse presso i “navigatori della quotidianità”, ma è anche quello che ha le pretese teoriche più modeste. Per dirla con il vecchio Hegel, siamo certamente in una “epoca di gestazione e di trapasso”, ma nessuno sa bene che tipo di società verrà messa al mondo e verso dove stiamo andando. Come è giusto, ognuno ha diritto di dire la sua. I più giovani, che possono darsi appunta­ mento fra mezzo secolo, verificheranno fino a che punto le previ­ sioni futurologiche erano sensate. Andiamo verso il futuro cam­ minando a ritroso e guardando all’indietro, e questo vale anche e soprattutto per una modesta ricostruzione del marxismo. Siamo in pieno post-marxismo oppure è possibile un rin­ novamento radicale del marxismo? Posta in questo modo, la do­ manda è senza risposta, e non può che dar luogo ad interminabili chiacchiere identitarie. In superficie possiamo notare fenomeni a volta chiassosi, ma anche poco interessanti. Il personale politico professionale del vecchio comuniSmo storico novecentesco, dal­ l’Italia alla Polonia, si è velocemente riciclato portandosi dietro il nichilismo che già prima lo caratterizzava, e cercando una nuova identità teorica spendibile sul mercato elettorale in interpretazioni neoliberali della vecchia “vulgata” socialdemocratica. La variopin­ ta tribù del marxismo accademico ha effettuato uno sganciamento da Marx, che non è più di moda, ma non sembra che abbia trovato qualcosa di meglio. Resiste una piccola comunità di marxisti uni­ versitari onesti, in particolare nell’area imperiale anglosassone, ma essa è prigioniera della divisione accademica del lavoro (storici, fi­ losofi, economisti, sociologi, politologi, antropologi, eccetera), ed è allora inevitabile che si perda il terreno marxiano, che era quello della totalità della riproduzione sociale capitalistica. Resistono an­ che le vecchie sette marxiste identitarie, ed in alcuni casi sembra

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addirittura che stiano vivendo una seconda giovinezza, come il neo-trotzkismo che ha fallito il vecchio “entrismo” nei partiti co­ munisti stalinizzati, ma sembra essere riuscito ad attuare il nuovo “entrismo” nei movimenti giovanili detti “No Global”. Quanto sia rimasto di Trotzky, ovviamente, solo il cielo lo sa. Tutti questi fenomeni politici e sociali, ed altri ancora, sono certo interessanti e degni di studio e di considerazione, ma ho de­ ciso di non costruirvi sopra il senso ultimo del capitolo, perché il lettore in generale li conosce già. Come è giusto ho ritenuto op­ portuno esplicitare la mia opinione critica in proposito, in parti­ colare sul cosiddetto movimento dei movimenti detto “No Glo­ bal’’, ma non è questo il terreno teorico veramente interessante e fecondo di riflessioni. Per trovare questo terreno teorico bisogna a mio avviso tor­ nare ai primi due capitoli di questo saggio, e mettere provvisoria­ mente tra parentesi gli altri tre capitoli intermedi. Ricordo che Marx rifiutò a suo tempo di criticare il modello utilitarista vincen­ te dell’economia politica inglese con un ritorno ai modelli tradi­ zionalista e contrattualista, ed effettuò una “critica” dell’economia politica sulla base di una prognosi di rovesciamento dialettico del sistema. Ricordo anche che il marxismo si sviluppò sulla base di una fedeltà formale a questo programma, ma che la critica ori­ ginaria dell’economia politica diventò prima economicismo, poi politicismo ed infine culturalismo. Ciò avvenne, ovviamente, per ragioni profonde, e non certo per arbitrio, ignoranza, errore o tra­ dimento. In ogni caso, avvenne, e chi non è in grado di farne un bilancio non solo storico (inevitabilmente giustificazionistico) ma anche teorico è condannato alla sterilità ed alla infinita ripetizione del sempre uguale riduzionismo. Ci troviamo oggi in un situazione analoga a quella in cui si trovò Marx, nel senso che il modello utilitarista è ancora vincente, ed è anzi notevolmente irrobustito rispetto ad allora, perché ha nel frattempo incorporato e metabolizzato molte intelligenti critiche che gli furono fatte in due secoli. Ci si può chiedere allora se que­ sta critica al modello utilitarista, in particolare nelle forme nuove che ha assunto, possa essere fatta sulla base esclusiva del modello marxiano (di cui abbiamo peraltro detto che non fu mai sistema­ tizzato e coerentizzato), oppure abbia bisogno di nuovi contributi

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che furono a suo tempo elaborati fuori del "recinto sacro” delle ortodossie e delle eresie marxiste. Chi scrive pensa la seconda cosa, e la pensa con una tranquil­ la fermezza. Nello stesso tempo deve essere chiaro che di per sé la semplice proclamazione della necessità di far tesoro di contributi esterni al “recinto sacro” della tradizione marxista non cava ancora un ragno dal buco, perché può portare ad un semplice eclettismo. Io non sono un nemico pregiudiziale dell’eclettismo, che ha reso grandi servizi nella storia della filosofia e delle scienze sociali, ma non credo neppure nelle ingenue apologie delle cosiddette “scato­ le degli attrezzi”. Allievo di Hegel e di Marx, personalmente credo nelle teorie unitarie e coerenti, quelle che hanno in qualche modo un fondamento epistemologicamente solido (anche se sempre storicamente rivedibile) e che poi sviluppano un paradigma (nel senso di Kuhn) sulla base di questo fondamento. Dalla fisica di Newton e di Einstein al materialismo storico di Marx, dalla teoria dell’evoluzione della specie di Darwin alla psicanalisi di Freud, ec­ cetera, credo che i dibattiti più fecondi, compreso quelli che por­ tano a sviluppi diversi e incompatibili, non nascano su di generico “pensiero debole”, semplice registrazione della debolezza morale e teorica di una generazione intellettuale in una congiuntura storica difficile, ma nascano solo sulla base di un’ipotesi teorica unitaria. Questa ipotesi teorica unitaria oggi non c’è. Il lettore deve sa­ perlo e non essere illuso. Seguendo Althusser, credo che il principio fondamentale di questa epoca storica sia quello di nepas (se) raconter des histoires, e cioè di non raccontar(si) delle storie. Oggi que­ sto detto althusseriano corrisponde al vecchio principio metodologico del dubbio iperbolico e del dubbio metodico di Descartes. L’equivalente del dubbioHperbolico consiste nel credere che in fondo il modello utilitarista abbia ragione, o quanto meno sia inevitabile, o perché radicato nella natura umana (prima ipotesi iperbolica) o perché sia radicato nella cosiddetta “tecnica” (secon­ da ipotesi). Pur non disponendo della (pseudo)sicurezza del cogito di Descartes, io farò l’ipotesi che non sia così, e metterò allora in discussione il dubbio iperbolico. Il modello utilitarista si è evoluto in due secoli in una sorta di “pensiero unico” , fondato sull’onnipo­ tenza dell’economia, che ha spodestato la religione come ideologia di legittimazione sociale complessiva, e l’ha relegata ad assistenzia­

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lismo pauperistico. Qualcosa di simile avvenne anche ai tempi di Costantino e della legalizzazione del cristianesimo antico. I giochi, però, non sono ancora fatti. Chi scrive non possiede un nuovo paradigma anti-utilitarista credibile, ma crede nella sua possibilità. E questo è in breve il messaggio non solo del sesto ca­ pitolo, ma dell’intero saggio.

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C a p it o l o pr im o

PR IM A D I M A R X Una som maria ricostruzione ragionata del contesto storico e filosofico dell’e tà’ moderna in Europa

1. Sia il pensiero di Marx sia la successiva storia del marxismo prima in Europa e poi nel mondo intero non sono comprensibili (e non essendo comprensibili non possono neppure essere oggetto di valutazione etica e politica) senza una ricostruzione ragionata del contesto storico e filosofico dell’età moderna in Europa. Ho scritto “Europa” e non “mondo” perché non ho dubbi sul fatto che il pensiero di Marx è un prodotto puro del pensiero europeo e del­ la tradizione occidentale (e solo di quelli), mentre con la “mondia­ lizzazione rivoluzionaria” del marxismo posteriore alla rivoluzione russa del 1917 lo scenario storico e geografico cambia radicalmen­ te, ed allora il “marxismo eurocentrico” non scompare certamente, ma diventa solo uno dei tanti canoni marxisti possibili, e neppure il più importante ed interessante. La tentazione di risalire a Talete di Mileto e prima ancora al cosiddetto processo di “ominazione” AeWhomo sapiens è forte, ma prometto al lettore che non gli imporrò una ricostruzione del cammino umano dalla scoperta del fuoco in poi. Ritengo che tutti abbiano diritto ad una loro filosofia personale della storia, come tutti hanno diritto a qualche momento di felicità e ad alcuni mo­ menti di celebrità. Ma per quanto riguarda Marx ed il marxismo è possibile partire sobriamente da ciò che spesso si definisce in modo un po’ vago (e spesso volutamente vago) la “modernità”, che è poi l’insieme di processi storici, scientifici, politici ed eco­ nomici che hanno favorito la nascita e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico. La “modernità” non può certo essere ri­ dotta e fatta coincidere con il capitalismo, e questa mossa teorica, del tutto impropria e fuorviante, è tipica appunto del cosiddetto “economicismo”, il noto minimo comune denominatore concet­ tuale sia del marxismo storico ( in tutte e tre le periodizzazioni

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che proporrò più avanti) sia del normale utilitarismo borghese­ capitalistico ( e per la verità più capitalistico che borghese, perché nella “borghesia” ci sono anche Beethoven e Tolstoj). Ma senza un concetto di capitalismo, o più esattamente di modo di produzione capitalistico, parlare di modernità è spesso solo occasione di esibi­ zione di un confuso carnevale pseudo-culturale. Con questi rilievi non intendo dire che occupandoci di Marx possiamo per così dire “saltare“ i greci, cominciare da Hegel e Smith e fare come se Aristotele no fosse mai esistito. Sarebbe una sciocchezza imperdonabile. Nel secondo capitolo chiarirò come i tre concetti fondamentali per capire Marx sono l’alienazione {alie­ nation, Entfremdung, Entäusserung), il valore {value, Wert), ed in­ fine la possibilità in senso aristotelico {dynamei on). 11 terzo con­ cetto è addirittura quasi più importante dei primi due, ed in ogni caso è quello che illumina e rende espressivi i primi due. Bisogna dunque ritornare ai greci, che sono ancora più im­ portanti dei cosiddetti “moderni”. Non vi è però lo spazio né l’op­ portunità di farlo seriamente in questo saggio dedicato alla rico­ struzione storica, alla periodizzazione storiografica ed infine alla valutazione filosofica del marxismo, e allora sarà per un’altra volta. Per ora il lettore deve accontentarsi di una collocazione storica e filosofica del pensiero di Marx nel contesto della cosiddetta “mo­ dernità”. E cerchiamo allora di chiarire il significato che in questo saggio diamo a questo termine. 2. Con il termine “modernità” intendo un processo storico, e cioè la costituzione del modo di produzione capitalistico prima in alcune limitate zone geografiche dell’Europa e poi del mondo inte­ ro, integrato da una triplice costituzione progressiva di un pensie­ ro scientifico, di un pensiero politico e di un pensiero economico. Questa è la definizione sommaria che propongo. Come si vede, questa definizione non porta con sé alcuna valutazione fi­ losofica specifica, che fa parte di un indispensabile momento suc­ cessivo, e cioè di una “ermeneutica della modernità”. Ad esempio Jürgen Habermas legge la modernità non solo come congedo sto­ rico dalla cosiddetta “metafisica” , ma anche come un posiùvo distacco filosofico dalla metafisica stessa, in direzione di un pensiero integralmente “post-metafisico”. La mia valutazione in proposito

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è esattamente opposta a quella di Habermas. Non abbiamo biso­ gno di un “pensiero post-metafisico”, che infatti c’è già, e non è altro che l’affermazione incontrastata dell’utilitarismo economico non solo nelle scienze sociali ma nell’intera vita quotidiana del ca­ pitalismo contemporaneo, ma abbiamo invece bisogno proprio di una “metafisica”, che tenga ovviamente conto delle obiezioni se­ rie ed intelligenti alla metafisica stessa, sia di quelle “logiche” alla Immanuel Kant sia di quelle “ontologiche” alla Martin Heidegger. Ma di questo, ovviamente, parlerò più avanti nel corso dell’intero saggio, sia pure in modo inevitabilmente sommario. Forniamo dunque alla definizione che ho dato di “moder­ nità”, il cui scopo è quello di inserire sia Marx che il marxismo nella modernità stessa, come suoi prodotti al 100% “legittimi ”. C ’è stato infatti chi F^a cercato di espellere dalla modernità sia Marx che il marxismo, affermando che si è trattato di una pro­ posta romantica e messianica contro la modernità stessa, e ap­ punto di una sorta di secolarizzazione della escatologia giudaico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica. E questa, fra le altre, la tesi di Karl Lowith, pensatore notevole e degno di attenzione e studio. Io respingo tuttavia la sua tesi della “secola­ rizzazione escatologica”, come respingo la tesi di Habermas sulla necessità di giungere tutti insieme ad un “pensiero post-meta­ fisico” . Questo rende necessaria la scelta di una “strategia espo­ sitiva” efficace di questo capitolo, che per comodità del lettore esporrò in sintesi nel prossimo paragrafo. 3. È necessario partire ricordando brevemente la costituzione storica del modo di produzione capitalistico in Europa prima e nel mondo poi. In un secondo momento bisognerà prestare atten­ zione alla genesi del cosiddetto “pensiero scientifico”, se non altro per il semplice fatto che Marx riteneva di muoversi all’interno di quest’ultimo, e di essere a tutti gli effetti uno “scienziato sociale” munito di un nuovo oggetto (la critica dell’economia politica) e di un nuovo metodo (il metodo dialettico, frutto di un rovesciamen­ to, e cioè di un superamento- conservazione di quello hegeliano, e dunque di una Umwälzung seguita da una Aufloebung). In un terzo momento esaminerò il cosiddetto “pensiero po­ litico”, che nella modernità prende quasi sempre l’aspetto di

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una fusione specifica fra diritto naturale e contratto sociale, e cioè fra giusnaturalismo e contrattualismo. E noto che Marx nell’essenziale rifiuterà entrambi, il che non significa che essi non abbiano continuato a lavorare sotterraneamente nel suo pensiero (come peraltro io credo fermamente). Il doppio rifiuto di Marx sia del giusnaturalismo che del contrattualismo non è comunque “originario”, ma passa attraverso la sua peculiare in­ terpretazione di Hegel. In un quarto momento esaminerò la genesi e lo sviluppo del “pensiero economico”, che a sua volta non è che l’applica­ zione alla società intesa come un tutto del principio filosofico dell’utilitarismo. L’utilitarismo esprime in forma concentrata la pretesa della sovranità assoluta dell’economia su qualunque al­ tra istanza sociale, laddove il principio contrattualista di fatto lo riserva alla politica (sia pure in varianti molto diverse, pen­ siamo a Hobbes, Locke e Rousseau). Si è dunqiRT trattato di una battaglia che si è svolta formalmente con i metodi cortesi e misurati di gentiluomini inglesi e scozzesi, ma anche di una battaglia che non poteva concludersi con un armistizio o con un compromesso, perché l’economia assolutizzata e divinizzata è un principio “forte” di tipo monoteistico, e non può consentire divinità di rango eguale al suo, ma solo comprimari di volta in volta invitati nel suo Olimpo produttivo e finanziario. In un quinto momento, infine, parlerò della filosofia classi­ ca tedesca ed in particolare di Hegel come della “prima grande resistenza organizzata”, dal punto di vista filosofico si intende, al principio utilitaristico. Mentre è abbastanza noto che Hegel fu un critico del giusnaturalismo e del contrattualismo (pur avendo metabolizzato nel suo pensiero molte istanze contenute in queste due forme precedenti di pensiero), è meno noto che egli fu anche un forte critico di tutte e tre le dimensioni teoriche della_modernità, e cioè dell’assolutizzazione del pensiero scientifico (con la sua distinzione fra intelletto scientifico e ragione filosofica), dèll’assolutizzazione del pensiero politico (con la sua critica all’astrattezza del contratto sociale, in particolare della forma datale da Rousseau e dai giacobini francesi), ed infine dell’assolutizzazione del pen­ siero economico (con la sua teoria dello stato etico,!a cui eticità appunto deve essere interpretata non come moralismo repressivo

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e uniformante, ma come rifiuto di delegare il legame sociale all’automovimento dell’economia divinizzata). Ritengo che con questi cinque passi successivi ci si possa se­ riamente avvicinare a Marx. 4. La discussione storica sulla genesi del capitalismo in Eu­ ropa è sempre stata molto ampia, ed ovviamente non è affatto conclusa. La vulgata marxista, che però in questo caso non fa che riprodurre alcune espressioni letterali di Marx, sostiene che ad un certo punto i rapporti di produzione feudali e signori­ li diventarono un freno per lo sviluppo delle forze produttive, in particolare industriali, e allora si mise in moto l’inarrestabile transizione dal modo di produzione feudale al modo di produ­ zione capitalistico. Questo schema non è certamente privo di plausibilità, e nello stesso tempo non disegna altro che un quadro generale, che deve essere poi riempito con rilievi che a volte si limitano ad “aggiungere” elementi trascurati, ma a volte invece modifica­ no qualitativamente il quadro. Quasi un secolo fa Max Weber aprì le ostilità contro gli schemi economicistici del marxismo della Seconda Internazionale sottolineando il ruolo fondamen­ tale del cambio delle mentalità, in questo caso l’ascesi calvinista che riuniva in un solo modello di comportamento generaliz­ zato la vocazione religiosa e la professione secolare {Beruf). La discussione sulle tesi di Max Weber è stata ricca e proficua, e dura tuttora, ma non ha senso interpretarla secondo il dilem­ ma infantile se sia nato prima l’uovo o la gallina, c cioè se ci sia stato prima un cambio di mentalità o prima uno sconvolgi­ mento economico oggettivo, “sistemico” ed impersonale. Sono convinto che lo stesso Marx, se avesse potuto leggere le tesi di Max Weber, le avrebbe valorizzate come meritavano. Sull’accumulazione capitalistica primitiva, che non è una semplice accumulazione di capitale inteso come un mucchio di denaro a disposizione per gli investimenti, ma è in realtà un processo di costituzione storica progressiva di rapporti sociali capitalistici, vi è l’importante capitolo del primo libro del Ca­ pitale del 1867 con cui Marx decise di chiudere la sua opera. La collocazione di questo capitolo storico alla fine dell’opera

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non è casuale, perché Marx non intendeva scrivere un’ennesima opera storica sulla formazione del capitalismo, ma disegnare un modello teorico di tipo “sistemico”, basato sulla centralità della forma di merce e solo dopo sulle vicende di quella particolare forma di merce capitalistica che si chiama forza-lavoro (Arbeits-krafi). Se un moderno editor avesse potuto consigliarlo sulla base della probabile capacità di lettura di una persona di media cultura, abituata alla narrazione storica ma non alle sottigliezze filosofiche, avrebbe forse proposto a Marx di invertire l’ordine di esposizione del libro, cominciando con un capitolo storico accattivante e relativamente semplice anziché con un cifrario hegeliano che parla di “sensibilmente soprasensibile”. Ma così non è stato, e so per esperienza che la grande maggioranza degli acquirenti volenterosi del primo libro del Capitale di Marx non hanno potuto superare le prime pagine (Fidel Castro ha confes­ sato di non essere andato oltre la pagina venti). 11 dibattito recente più noto fra marxisti sui fattori fondamentali della transizione dal feudalesimo al capitalismo fu quello che si svolse alcuni decenni fa fra Maurice Dobb e Paul Sweezy, cui parteciparono successivamente anche altri studiosi. Dobb so­ stenne che il fattore decisivo per la transizione capitalistica non fu esterno (commercio internazionale, eccetera), ma fu interno, ed ebbe a che fare con il passaggio da un’agricoltura e da un artigia­ nato precapitalistici ad un’agricoltura e ad un artigianato capita­ listici (passaggio dagli open fields alle recinzioni, formazione del­ la classe dei fittavoli capitalisti, passaggio dal lavoro artigianale a domicilio prima alla manifattura e poi alla fabbrica vera propria, eccetera). Sweezy (in modo non molto dissimile dal successivo ap­ proccio di un Wallerstein, che è una sorta di Braudel “marxista” invece sostenne che il commercio internazionale, ed in particolare il commercio triangolare Inghilterra-Africa-America-Inghilterra), fu l’elemento determinante per l’accumulazione di capitale mone­ tario necessario per il successivo decollo industriale. La grande maggioranza dei partecipanti al dibattito di allora diede ragione a Dobb e torto a Sweezy. Nell’essenziale, questa è anche la mia opinione. Tuttavia, le due tesi possono anche essere lette come largamente complementari, e nello stesso tempo hanno bisogno entrambe di un’importante precisazione aggiuntiva.

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5. La questione teoricamente decisiva, infatti, non sta tanto nel distribuire con il bilancino le quantità di elementi cosiddetti “economici” e di elementi cosiddetti “spirituali”, e neppure nel misurare l’importanza degli elementi esterni (Sweezy) ed interni (Dobb) per avere un quadro completo della dinamica dell’accu­ mulazione capitalistica. La questione decisiva sta nel capire che essa non fu per nulla fatale ed inevitabile, ma fu largamente alea­ toria e casuale. Se infatti noi pensiamo che, buono o cattivo che fosse, il capitalismo era comunque inevitabile ad un certo grado dello sviluppo delle forze produttive, e perciò nacque in Olanda ed in Inghilterra solo per caso, perché avrebbe dovuto comunque prodursi inevitabilmente prima o poi, allora la partita intellettua­ le è chiusa, e possiamo anche chiudere baracca e burattini. Come ha chiarito Robert Brenner in un illuminante saggio del 1986 la nascita del capitalismo fu fortemente casuale ed aleatoria, e fu per­ messa dal fatto che si creò una “finestra” spazio-temporale molto specifica, una situazione di prelevamento individuale di una classe di dominanti su di una proprietà individuale di dominati, laddove l’esistenza di tre configurazioni diverse (proprietà collettiva/prelevamento collettivo del surplus, proprietà collettiva/prelevamento individuale, proprietà individuale/prelevamento collettivo) non avrebbe favorito per nulla uno sviluppo propriamente capitalistico. Uno sviluppo classistico, certamente, ma non uno sviluppo capitalistico. Il modello inglese (più propriamente olandese-ingle­ se-americano) fu certamente vincitore sul piano storico. Ma esso non era per nulla “predeterminato” dalla logica della storia, e non c era nessun homo oeconomicus che lo aspettava con impazienza dall’inizio della storia stessa. Può credere questo, ovviamente, chi crede insieme con Adam Smith (e su questo tornerò più avanti in questo stesso capitolo) che 1’’’istinto del barattare” faccia parte della natura umana in quanto tale. Ora, non voglio sostenere qui a priori che l’antropologia del “dono” sia di per sé giusta rispetto all’antropologia del “baratto”. Tuttavia, chi mantiene un atteggiamento critico e non dogmatico nelle scienze antropologiche e sociali dovrà almeno ammettere che il dubbio fra le due antropologie è legittimo, ed il solo modo non dico di scioglierlo ma anche solo di impostarlo è intraprendere un profondo e spregiudicato esame storico comparativo sui pro e sui

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contro delle due ipotesi. E invece no. La scienza utilitaristica dell’economia politica nasce in nome della lotta alla metafisica aprio­ ristica, e poi presuppone in modo ultrametafisico che j^tT agenti individuali e sociali della produzione precapitalistica fossero do­ tati di u n ’istinto del baratto” che Smith sicuramente estrapolava i dalla frequentazione dei suoi amici mercanti inglesi e francesi del Settecento. È questa una “scienza”? Ma che scienza è questa? Già, è pro­ prio il caso di dirlo: ma che scienza è questa?

6. Ci spostiamo oggi in treno o in aereo e ci curiamo con fa maci testati e verificati con procedure universalmente ammesse dalle comunità scientifiche mondiali (il che non avviene, com’è a tutti noto, con le teorie filosofiche e delle scienze sociali) dimenti­ cando quasi sempre che si tratta di applicazioni tecnologiche po­ steriori che non sarebbero state possibili senza un complesso fe­ nomeno generalmente indicato come la Rivoluzione Scientifica europea del Seicento. Non è certo possibile in questa sede rico­ struire adeguatamente questo fenomeno, su cui esiste una biblio­ grafia non solo sterminata ma anche soddisfacente (il che non av­ viene, come non mi stancherò mai di segnalarlo, per la storia del marxismo), e che ha avuto anche la sua istituzionalizzazione uni­ versitaria sotto il nome di “storia e filosofia delle scienze” . Ma, dal momento che questo è un saggio dedicato ad una interpretazione di Marx e ad una periodizzazione della storia del marxismo, mi sembra opportuno ricordare che in un’ottica appunto “marxista” il pensiero scientifico è inserito nel fenomeno primario della ripro­ duzione o della modificazione dei rapporti sociali di produzione, in cui è “incorporato” (embedded), più o meno come secondo Polanyi avviene nei modi di produzione precapitalistici. Questo non significa, ovviamente, che lo specifico “cogniti­ vo” delle scienze possa essere dedotto e ridotto alla loro genesi storica e tanto meno alla loro committenza sociale e pofitica ori­ ginaria. Il valore cognitivo della fisica di Newton era buono, in­ dipendentemente dal fatto che vi fosse dietro una “committenza” della protoborghesia manifatturiera. Il valore cognitivo della bio­ logia di Lysenko in epoca staliniana era cattivo, indipendentemen­ te dal fatto che vi fosse dietro una “committenza” di nuovi stra­

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ti popolari kolkhosiani. Molto spesso gli storici “esternisti” della scienza dimenticano di mettere in risalto questo aspetto propria­ mente “cognitivo” dell’impresa scientifica, anche se poi essi sanno perfettamente che la penicillina ed i cortisonici sono più affidabili delle invocazioni rituali dello sciamano siberiano (dietro le quali peraltro esiste un millenario processo di acquisizione orale di co­ noscenze sulle erbe ed in genere sulla somministrazione di prodot­ ti naturali). C ’è qui un vecchio vizio delle vulgate marxiste, quello di confondere il momento della genesi ( Genesis) con quello della validità {Geltung), che rimanda in ultima istanza ad una forma di nichilismo filosofico implicito, e cioè ad una “sociologizzazione classista” dell’intera esperienza umana. I difensori razionalisti (più esattamente, ultra-razionalisti) deH’assqlutezza della conoscenza scientifica come unica conoscen­ za degna di questo nome, che sono in genere ignari nel loro di­ sprezzo verso la filosofia del fatto che la tesi dell’assolutezza della conoscenza scientifica e solo di essa è essa stessa una tesi filosofi­ ca particolare (più esattamente positivistico-ottocentesca), vivono nelfallarme permanente che la loro attività scientifica venga assi­ milata al voodoo ed alla lettura dei tarocchi e dei fondi di caffè, e a regolare scadenza di tempo sottoscrivono allarmati manifesti con­ tro gli oroscopi e l’irrazionalismo crescente delle masse. Se fossero veramente “scientifici” come dicono di essere intraprenderebbero una ricerca veramente scientifica sulle ragioni di questo sospetto generalizzato verso l’assolutezza della conoscenza scientifica, an­ ziché ricorrere alla spiegazione tautologica della inestirpabile stu­ pidità umana, e scoprirebbero cose molto interessanti, la prima delle quali sarebbe probabilmente che l’uso classista (oggi capita­ listico) della scienza e della tecnica certe volte peggiora la condi­ zione umana quotidiana anziché migliorarla. Questa scoperta, ov­ viamente, non tocca e non colpisce per nulla la validità cognitiva delle scienze stesse, ma incrementerebbe sicuramente la loro con­ sapevolezza scientifica “globale”. E infatti curioso il fatto che spesso i migliori propugnatori dell’assolutezza e del primato del metodo scientifico in lotta pe­ renne contro guaritori filippini e veggenti di Busto Arsizio siano poi ostili o indifferenti all’insegnamento storico (o anche storico) della scienza stessa. E infatti una curiosa “scienza” quella che espel­

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le da se stessa la scienza della storia, ed in particolare la scienza del­ la sua storia. Per questa ragione mi sembra opportuno, prima di affrontare temi esplicitamente politici ed economici, ricordare che anche la scienza ed il metodo scientifico hanno un’origine storica, e più esattamente un’origine storica legata al sorgere ed all’affermarsi dei rapporti sociali capitalistici di produzione. 7. Se il metodo di Marx servisse soltanto a darci della scienza moderna e del suo sviluppo un’immagine meno mitica ed in defi­ nitiva “magica”, e tutto il resto dovesse essere abbandonato come economicismo e/o utopismo (cosa che ovviamente non penso af­ fatto, se no non avrei scritto questo saggio), potremmo già dare un bilancio positivo del marxismo stesso. Dal momento che oggi il nesso fra Scienza ed Economia, ovviamente entrambe destori­ cizzate ed assolutizzate, è diventato la nuova intollerante divinità monoteistica del periodo storico in cui ci troviamo, la “mossa di apertura” di ogni pensiero filosofico degno di questo nome consi­ ste nel mostrare le radici storiche e sociali sia della Scienza sia del­ l’Economia moderne. In questo, il metodo di Marx, che è insieme genetico e dialettico, resta insuperabile, al di là degli errori e delle previsioni affrettate di dettaglio. Secondo Louis Althusser, la filosofia “spontanea” degli scien­ ziati, al di là di quella sommariamente imparata (o piuttosto non imparata) al liceo e poi frettolosamente dimenticata, è il materia­ lismo, inteso come realismo gnoseologico, e cioè come primato ontologico e metodologico dell’esistenza del mondo esterno come oggetto di ricerca. Mi permetto di dubitarne. Nel periodo del­ la crisi delle scienze fisiche contemporanee (1895-1925 circa), la filosofia spontanea degli scienziati del tempo fu piuttosto il con­ venzionalismo e l’empiriocriticismo, tanto è vero che Lenin, che non era uno scienziato di professione, dovette intervenire in modo violentissimo per ribadire il materialismo, che era poi una forma di realismo gnoseologico radicale in senso engelsiano. Non vi è qui lo spazio (e non c’è da parte mia la competenza specifica) per di­ scutere dell’interpretazione della meccanica quantistica della scuo­ la di Copenaghen e delle obiezioni che le furono mosse da fisici sostenitori del realismo gnoseologico (vi su questo un’ampia let­ teratura, che a suo tempo Ludovico Geymonat seppe vagliare con

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grande spirito critico). Il grande successo che in genere la filosofia di Kant riscuote presso gli scienziati che ne vengono a conoscen­ za ci dice una cosa ben diversa da quella sostenuta da Althusser, e cioè che l’atteggiamento “spontaneo” del ricercatore va piuttosto in una direzione “costruzionistica”, basata su di una serie di rifor­ mulazioni contemporanee della distinzione kantiana fra fenome­ no e noumeno, ed è impossibile non consigliare in proposito le opere illuminanti di Ernst Cassirer. Il modo “sp()ntanep”j briitak' ed immediato, in cui viene ma­ nifestata a livello conviviale e di corridoio la concezione del mon­ do dello scienziato e del ricercatore medio è nel novanta per cento dei casi una forma semplificata di positivismo, del tutto indipen­ dentemente daU'eventuale conoscenza di un matematico vissuto a Parigi nell’Ottocento e battezzato come Auguste Comte. Ci fu prima la Superstizione (e cioè la religione, dagli sciamani siberia­ ni al papa tedesco), poi venne la Chiacchiera (e cioè la filosofia, dai presocratici a chi scrive), ed infine giunse la Conoscenza (da Galileo fino ai costruttori di armi di distruzione di massa). Dal momento che però l’uomo, oltre ad essere un animale intelligen­ te, sociale e politico, è anche qualche volta un animale cortese, questa concezione è espressa in forma sofisticata e pensosa, ma il succo resta questo. Una parte minoritaria di questi scienziati mostra spesso un timido interesse per la filosofia, ma nel novanta per cento dei casi ci si accorge subito che costoro identificano la filosofia con l’epistemologia, cosa equivalente a identificare l’Italia con l’intera Europa. L’epistemologia, branca del sapere che non intendo affatto irridere e per la quale anzi provo interesse, è spin­ ta da una sua interna irresistibile pulsione ad identificare la verità filosofica con la certezza fisica e con l’esattezza matematica, e na­ scono allora spiacevoli equivoci, che fanno talvolta rimpiangere le rozze ma vitalistiche formulazioni della Civiltà Umana intesa come passaggio progressivo dalla Superstizione alla Chiacchiera alla vera Conoscenza. Esiste un antidoto a questa (poco divertente) commedia del­ l’arte? Si, esiste, ed è il metodo proposto da Marx. 8. Il metodo di Marx ci dice cheda scienza moderna j^certamente una forma di conoscenza il cui contenuto cognitivo spe-

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cifico si presta in modo incomparabilmente superiore ad altri ad un’applicazione tecnica di trasformazione integrale della cosiddet­ ta “base naturale”. Questa forma di conoscenza ha una genesi sto­ rica ed una Funzione sociale. Dal punto di vista della sua genesi storica, la scienza moderna non può essere sèpiarata oltre un certo punto dalla nascita e dallo sviluppo della produzione capitalistica, anche se bisogna evitare le spiegazioni semplicistiche sulla sempli­ ce “committenza esterna”. Dal punto di vista della sua funzione \ sociale, la scienza moderna non può essere separata oltre un certo V punto dalla sua produzione non solo di conoscenze e di applicafzioni tecniche, ma anche e soprattutto dalla sua produzione di dif­ ferenziali di sapere e di potere (piti esattamente, di sapere e quindi f necessariamente anche di potere) che costituiscono le classi sociali antagoniste moderne, laddove le classi sociali antagoniste prece­ denti si caratterizzavano per altri differenziali di tipo indubbia­ mente meno “scientifico” (forza militare, eccetera). Oggi possiamo cautamente avanzare l’ipotesi che la riprodu­ zione di differenziali di sapere (c quindi di potere) è forse più de­ cisiva della semplice riproduzione giuridica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Se così fosse (ed io ritengo che sia in effetti così) allora lo stesso statuto teorico del marxismo tradizionale do­ vrebbe essere modificato. Ho scelto intenzionalmente di segnalare questo “dubbio” al lettore prima ancora di iniziare l’esposizione storica su Marx ed il marxismo successivo, perché la mia personale concezione dell’etica della comunicazione mi impone di “scoprire le carte” immediatamente. Chi capisce che la scienza moderna (e la tecnica cui essa è legata, fino al punto che molti parlano di Tecno­ scienza come di un complesso unitario) ha avuto una genesi stori­ ca ed ha continui effetti sociali sulla produzione e riproduzione di differenziali di sapere e di potere entra nella disposizione d’animo giusta per leggere con calma una interpretazione di Marx ed una periodizzazione ragionata della storia del marxismo successivo. 9. Anche se può sembrare curioso il ribadirlo, la scienza e la religione hanno la stessa genesi antropologica e psicologica, che consiste nelFalleggefimento dell’ansia di fronte ad un mondo che si presenta caòtico è incomprensibijéTTn cnu ambi i casi la "credenza” è una risposta obbligata dell’ente naturale generico umano ( Gattun-

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gswesen, Gemeinsivesen) agli imperativi della propria sopravvivenza individuale e sociale. Sbagliano allora quegli anrropologi riduzioni­ sti che limitano i processi di riproduzione e sopravvivenza alle pro­ gressive acquisizioni di tecniche di caccia, pesca e raccolta. Come ci ha insegnato a suo tempo Cassirer, l'uomo è un animale simbolico (tesi che ritengo complementare a quella di Marx per cui l’uomo è un ente naturale generico) e dunque deve bensì imparare a cacciare, pescare, raccogliere, allevare e coltivare, eccetera, ma le cinque atti­ vità prima ricordate devono essere “ inserite” in un processo unitario di stabilizzazione psicologica preventiva (e successiva). In questo senso, che è poi il solo senso “materiale” possibile, l’attività religiosa e l’attività scientifica rispondono alla stessa esigenza psicologica di dare una spiegazione “rassicurante” del mondo come di qualcosa che ha un ordine nascosto dietro l’apparente disordine. Ernest Hutten, allievo di Einstein, professore di fisica teori­ ca a Londra e membro di un forum interdisciplinare di studiosi di psicanalisi, ha scritto un libro stupendo e poco noto in cui il­ lumina dettagliatamente, con una ricognizione storica che par­ te addirittura dall’atomismo antico e giunge fino alla meccanica quantistica, il fatto per cui la scienza ha una doppia genesi storica e psicologica, e cioè la committenza sociale esterna e la risposta a determinate preoccupazioni ed angosce. Lo sviluppo della scienza, dunque, non è solo il succedersi di spiegazioni sempre più ampie, “giustificate” in senso epistemologico, e tecnicamente efficaci del mondo dei fenomeni, ma è anche l’elaborazione di schemi imma­ ginativi e concettuali capaci di garantirci l’equilibrio emotivo nel nostro confronto quotidiano con la realtà. La natura infatti non è solo un ammasso ordinato o disordinato di latti in attesa di essere rappresentati o riprodotti nella descrizione scientifica, ma è secon­ do Hutten una sorta di Alterità la cui trasformazione è mossa an­ che dalle nostre ansie e dai nostri conflitti interiori. Con questo, ovviamente, non si dice ancora nulla sullo spe­ cifico contenuto cognitivo del metodo scientifico moderno e su ciò che lo fa indubbiamente diverso dall’astrologia. Ma la presa di coscienza di questa unità psicologica originaria in tutte le costru­ zioni genealogiche delle concezioni del mondo è comunque utile per capire che questa unità risiede nel carattere “generico” di ogni ente naturale umano.

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10. Il libro di Hutten, che conta più di trecento pagine nella traduzione italiana, non cita mai Marx, neppure di sfuggita. Vor­ rei sottolineare questo sintomo rivelatore, anche se apparentemen­ te minimo, perché il Novecento è stato pieno di “marxisti incon­ sapevoli”, che senza volerlo hanno sviluppato il metodo genetico, storico e sociale di Marx, mentre la tribù dei “marxisti ufficiali” si è quasi sempre abbandonata aH’economicismo ed al riduzioni­ smo più spinti (e vergognosi). Questo paradosso, che poi ad un esame ravvicinato è spiegabilissimo, è una delle caratteristiche più importanti della storia del marxismo, che è stata nell’essenziale la storia di una grande-narrazione a base storicistica, economicistica ed utopistica. Per approfondire il paradosso, mi sento di affermare che si potrebbe tranquillamente scrivere una storia della prosecu­ zione virtuale ed implicita del metodo di Marx ricordando una serie di autori che non conoscevano Marx o che non lo hanno mai considerato veramente interessante per i loro studi. Nel 1931 si tenne a Londra un congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia cui parteciparono anche al­ cuni delegati sovietici, fra cui Bucharin, che fece una relazione in linea di principio ispirata al suo tradizionale riduzionismo econo­ micistico, ma indubbiamente anche molto interessante. Ogni ri­ fiuto della teoria del rispecchiamento è definita da Bucharin “epi­ stemologia sonnambulistica” (sic!), con il riferimento al titolo del­ l’opera di Calderòn de la Barca La vita è sogno, citata da Bucharin in spagnolo. Bucharin afferma anche che nell’URSS teoria e prassi, scienza e applicazione, eccetera, sono finalmente legate insieme, e questo grazie al principio economico della pianificazione, assente presso gli antichi greci e nel capitalismo, ma presente presso gli an­ tichi Egizi, che infatti Bucharin sostiene essere stati coloro che in tutti i tempi (prima dell’URSS, ovviamente) hanno maggiormen­ te legato la teoria e la prassi. Si tratta di un paragone stupefacente ed anche molto rivelatore, anche se Bucharin dimentica di citare un secondo tipo di analogia tra l’antico Egitto e l’URSS stalinia­ na, e cioè la mummificazione del faraone come simbolo dell’eter­ nità della classe sacerdotale-burocratica. Su questa questione della mummificazione del faraone tornerò nel quarto capitolo, perché a mio avviso si tratta di una questione sistematicamente trascurata dalle “normali” storie del marxismo.

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L’intervento più interessante di questo congresso fu fatto però dal fisico sovietico Hessen, che fece un lungo, impegnato e detta­ gliato intervento sulle radici sociali ed economiche dei Principia di Newton. Questo intervento si lascia ancora leggere oggi con diletto e profitto ( si tratta di circa sessanta pagine molto dense), perché in esso è illustrata nel modo più completo la concezione “esternistica” della storia della scienza, per cui questa storia è com­ prensibile soltanto sulla base della “committenza” sociale che la richiede. In questo caso, ovviamente, si tratta della borghesia ma­ nifatturiera del Seicento, interessata ai trasporti sul piano interno ed alle artiglierie sul piano delle guerre mercantilistiche esterne (Olanda, Spagna, eccetera). La stessa definizione fisica di “lavo­ ro” (forza per spostamento) non potrebbe essere spiegata secondo Hessen senza le richieste della nuova industria dei trasporti. Hessen illustra questa concezione rigorosamente esternistica della committenza in modo a volte ingenuo, certamente influen­ zato dal messianesimo ateo legato al primo piano quinquennale sovietico. Ma non sarebbe saggio contrapporgli semplicemente le spiegazioni genetiche che insistono invece soprattutto sugli aspet­ ti culturali e filosofici della genesi della scienza seicentesca, come quelle ad esempio di Alexandre Koyré. Ciò deve essere fatto, na­ turalmente, nella sede specifica della storia delle teorie fisiche. Ma qui mi interessava invece segnalare che Hessen, nel suo esternismo unilaterale, esprime pur sempre un aspetto permanente dell’ap­ proccio marxista alla storia della scienza e della società. 11. Nel soffocante clima di restaurazione culturale in cui vi­ viamo, in cui scienza e tecnica sono fortemente incorporate non solo nel sistema produttivo ma anche e soprattutto nell’apparato ideologico e mediatico di legittimazione sociale, gli approcci alla Hutten ed alla Hessen sono ovviamente ignorati. E sono ignora­ ti anche approcci più “estremistici” , come quelli di Alfred SohnRethel, su cui pure venticinque anni fa si aprì una discussione troppo presto troncata. Sohn-Rethel critica Marx per aver dato troppa centralità alla produzione anziché allo scambio delle mer­ ci, critica a prima vista ingenerosa ed inesatta se pensiamo all’im­ portanza data da Marx alla forma di merce (Warenform), con cui inizia addirittura l’analisi del primo libro del Capitale (e che gli

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fu addirittura rimproverata per motivi opposti a quelli addotti da Sohn-Rethel dalla scuola althusseriana). Ma ad un esame più rav­ vicinato le critiche di Sohn-Rethel (su questo punto non lontano da Adorno, che ne approvò esplicitamente l’approccio teorico) ap­ paiono pertinenti, perché Marx indagò la forma di merce, ma la­ sciò sullo sfondo le forme di coscienza che la generalizzazione della forma di merce porta inevitabilmente con sé. Ho connotato come “estremistico” l’approccio di SohnRethel perché questo acuto filosofo tedesco non fa dipendere dalla forma di merce solo l’ideologia (e questo appare a pri­ ma vista evidente), oppure solo la filosofia (e questo appare a prima vista meno evidente, ma ad una seconda considerazione degno di essere preso in esame), ma anche la scienza stessa e le sue categorie concettuali. Sohn-Rethel ricostruì in quarantanni di lavoro l’intero percorso storico del rapporto fra scienza, la­ voro intellettuale e lavoro manuale, giungendo alla conclusione dell’esistenza di un nesso strettissimo. Lo stesso pensiero astrat­ to per Sohn-Rethel è indissolubile dalla produzione astratta di valori di scambio, ed infatti le due grandi “ondate” di pensie­ ro astratto, quella dei pensatori greci detti presocratici e quel­ la della modernità capitalistica prima manifatturiera e poi in­ dustriale, sono correlate da Sohn-Rethel con lo sviluppo della produzione di merci. Persino il concetto più astratto della storia della filosofia occidentale, il concetto parmenideo di Essere, non sarebbe mai sorto secondo Sohn-Rethel senza la generalizzazio­ ne dell’astrazione della Merce prodotta dall’attività mercantile del tempo. In proposito la mia personale opinione è opposta a quella di Sohn-Rethel, perché l’Essere parmenideo non mi sem­ bra che possa essere letto come il riflesso filosofico astrattizzato della produzione astratta di valori di scambio (laddove la pro­ duzione di valori d’uso, essendo concreta per definizione, non si presta ad astrattizzazioni di alcun tipo, e per questo la filosofia “astratta” sarebbe nata solo con i greci, e non nelle società anti­ co-orientali pianificatrici di valori d’uso diretti). Parmenide, che fu sostanzialmente un pitagorico un po’ anomalo, astrattizza nel concetto di Essere permanente, immutabile ed eterno proprio il contrario della produzione e circolazione di merci, e cioè l’immodificabilità di una riproduzione sociale perfetta e sottratta

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Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

alle opinioni nichiliste veicolate proprio da classi mercantili ed arricchite dal denaro e dallo scambio. Ho sommariamente espresso la mia opinione sull’ipotesi di Sohn-Rethel, ma il problema non sta certo nel sapere quale sia l’opinione più giusta, tema che possiamo qui delegare agli antichi­ sti di professione. E invece interessante ricordare che Sohn-Rethel esprime una posizione estrema di “esternismo radicale’’ nella storia della scienza, che non è forse sostenibile nella sua radicalità lettera­ le, ma che sarebbe anche sbagliato ignorare semplicemente perché questo tipo di approccio non è più (provvisoriamente) di moda. 12. Un approccio meno radicale di quello di Sohn-Rethel sul rapporto fra la genesi delle categorie scientifiche ed i rapporti so­ ciali di produzione corrispondenti è quello di George Freudenthal, autore di un interessantissimo studio monografico sui Principia di Newton. Mentre Hessen nel 1931, in piena età medio-marxista di entusiasmo nei confronti della pianificazione statale staliniana, ci fornisce un’insuperabile formulazione integralmente “esternistica” della committenza tecnico-scientifica, Freudenthal pubblica nel 1986 un’interpretazione della genesi della scienza moderna in chiave di “omologia” fra l’esistenza di individui, e cioè di atomi in­ dividuali, nella società, e di atomi e particelle isolate nella natura. Nel terzo capitolo, in cui studierò la struttura del primo canone teorico proto-marxista ad opera di Engels, farò notare che questo approccio in chiave omologica è sempre dipendente dalla struttu­ ra del pensiero detto (impropriamente) “primitivo”, basato sulla indistinzione fra macrocosmo e microcosmo. Ma a dire il vero Freudenthal rovescia questo approccio primitivo (senza però mo­ dificarne la struttura), perché in lui è il microcosmo che determina il macrocosmo, e non viceversa. Il microcosmo sociale dei tempi di Newton, descritto da Hobbes in termini politico-filosofici ri­ gorosi, è appunto un microcosmo di individui che possiedono in­ tegralmente tutte le caratteristiche ontologiche possibili, e questo c|a luogo appunto a ciò che Mac Pherson definì “individualismo possessivo” (possessive individualism), presupposto di quel “robinsonismo” che Marx attribuì poi alla falsa coscienza borghese-capi­ talistica, che fa nascere il primo capitale dal lavoro del primo Ro­ binson Crusoè. Secondo Freudenthal questo microcosmo di indi-

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vidui ontologicamente autonomi viene “spostato” da Newton nel macrocosmo di particelle elementari, ciascuna delle quali possiede le stesse proprietà essenziali, proprietà che ogni particella conti­ nuerebbe ad avere anche se si trovasse da sola in uno spazio vuoto. Fra individualismo possessivo (microcosmo) e fisica newtoniana (macrocosmo) ci sarebbe dunque qualcosa di più una vaga analo­ gia. Ci sarebbe infatti una stretta ed organica omologia. 13. Mi sono soffermato abbastanza a lungo sulla questione della genesi storica della moderna scienza della natura, perché ri­ tengo impossibile occuparsi di Marx e del marxismo senza una preventiva ricerca genealogica della scienza moderna, della politi­ ca moderna e dell’economia moderna. Prima di passare alla filo­ sofia politica moderna nel suo rapporto genealogico con Marx ed il marxismo, vorrei terminare con l’esplicitazione di due mie con­ vinzioni personali in proposito. In primo luogo, tutti i riferimenti agli autori sopra menzio­ nati (Hutten, Hessen, Sohn-Rethel, Freudenthal, e se ne potevano citare tranquillamente almeno altri trenta), non avevano lo scopo di arrivare alla conclusione per cui della scienza è importante solo ricostruirne la genesi e svelarne l’uso politico di classe, mentre sul piano specificamente cognitivo non c’è in ultima istanza differen­ za fra la scienza moderna, l’astrologia ed il voodoo. Se questa è la posizione attribuita a Paul Feyerabend {everything goes, tutto va bene), ma alla luce di una lettura di Feyerabend non lo credo, al­ lora io non la condivido, perché mi sembra di poter dire che esiste pur sempre un “progresso” nelle scienze, anche se andrei molto più cauto ad usare questo concetto nella storia delle scienze uma­ ne. Non è però questa la sede per discutere sui vari significati che il termine “progresso” nelle scienze ha mano a mano inteso espri­ mere. Si tratta di un importantissimo tema epistemologico che riguarda solo indirettamente la storia del marxismo che stiamo cercando di ricostruire. In secondo luogo, ritengo che il carattere specificatamente co­ gnitivo delle ipotesi e delle teorie scientifiche, nella misura in cui produce anche protocolli di sperimentazione, formalizzazione, assiomatizzazione, verificazione, falsificazione, eccetera (e non entro qui nel merito delle varie proposte fatte per privilegiare o meno

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Tuna o l’altra di queste procedure), non possa essere sottoposto al “letto di Procuste” di una spiegazione puramente sociale o politi­ ca. La “committenza scientifica”, in altre parole, non può avere la stessa natura della committenza ideologica. Quest’ultima si pre­ sta a tutte le mistificazioni ed a tutte le mascalzonate dei gruppi “committenti” (schiavistici, feudali, capitalistici o burocratici che siano, in una progressione che generalmente esprime non un mi­ glioramento ma un peggioramento). La committenza scientifica, invece, dipende dalla “resistenza della natura” a farsi manipolare oltre un certo punto. Senza questa resistenza, avremmo già certa­ mente pillole d’immortalità per le classi dominanti e programmi genetici di obsolescenza per le classi dominate, di cui si program­ merebbe la morte lo stesso giorno della fine del periodo lavorativo, in modo da risparmiare sulle pensioni e sulle costose cure mediche per gli anziani e da poter investire il risparmiato in vorticosi flus­ si finanziari. Chi crede veramente che le classi dominanti rinuncerebbero a questo per ragioni “morali” è veramente al di qua di qualsiasi conoscenza storica e filosofica della società. Ma ciò che non vale per i concetti scientifici vale invece, a mio avviso, per i concetti filosofici. Questi sono quasi compietamente determinati dal contesto strutturale circostante. In propo­ sito, la studiosa greca Maria Antonopoulou ha fatto l’ipotesi (che personalmente assumo come pertinente ed adotto in questo mio saggio) che la stessa nozione filosofica di Materia, lungi dall’essere una eredità dell’atomismo greco antico, ha una genesi storica set­ tecentesca legata alla formazione di uno spazio “materiale” omoge­ neo in cui può avvenire lo scorrimento “astratto” delle merci capi­ talistiche. Nella precedente situazione filosofica “dualistica” (Dio e il Mondo, la divinità trascendente e la dimensione immanente), non solo l’economia non poteva essere sovrana perché dipendente sempre in ultima istanza dalle leggi morali divine, ma si creava di fatto una situazione “metafisica” per cui il tempo e lo spazio era­ no “raddoppiati”, un tempo ed uno spazio per la divinità ed un tempo ed uno spazio per l’uomo. Questo raddoppiamento alla lunga efa intollerabile per l’autorappresentazione filosofica di una società borghese-capitalistica, che doveva potersi pensare come au­ tonoma nella triplice dimensione del Tempo,dello Spazio e dalla Morale. Il tempo viene allora unificato sotto la nozione di Storia,

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che secondo l’acura analisi genealogica di Reinhardt Kosellek non esiste prima del 1750, lo spazio viene unificato sorto la nozione di Materia (che secondo la Antonopoulou non esiste aneli essa prima del Settecento) ed infine la morale deve aneli essa essere comple­ tamente staccata da ogni produzione religiosa e divina, e questo avviene nel Settecento con la grande discussione sulla natura della morale, che dà luogo in questo caso non ad una soluzione unica come nei due casi precedenti, ma ad una doppia soluzione, utilita­ ristica e kantiana. Questa doppia soluzione, tuttavia, è solo appa­ rente, perché si tratta in realtà dello sdoppiamento che Stevenson ha rappresentato nella sua storia del dottor Jekill e di mister Hyde, in cui la morale kantiana impersonerà il buon dottor Jekill, e la morale utilitaristica impersonerà invece il suo doppio notturno, l’inquietante mister Hyde. 14. E passiamo ora al tema della filosofia politica. Il fatto che essa nasca, per così dire, in ‘‘contemporanea’ con il ìnetoìfcjTS'cientifico moderno, non è ovviamente casuale, ma è la chiave interpre­ tativa di tutto il problema di cui ci stiamo occupando. N orberto Bobbio riassume con grande chiarezza i tre elementi essenziali del diritto naturale, e permette così d’impostame lo studio. In primo luogo si ha l’estensione del metodo razionalistico delle scienze na­ turali alle scienze morali e giuridiche. In secondo luogo, si ha la separazione del diritto naturale, come scienza mondana, dalla teo­ logia, come scienza divina. In terzo luogo, infine, si ha fondazione della legge naturale sulla natura dell’uomo in quanto tale, osserva­ ta al di fuori di ogni preoccupazione d’ordine teologico e religioso. Bobbio ritiene che il punto massimo di sistematizzaziqne del diritto naturale moderno si abbia nel tedesco Pufendorf, e questa è un’opinione condivisa anche da Ernst Bloch nella sua opera sul diritto naturale e la dignità umana, che è forse il punto più alto delle letture “marxiste” del diritto naturale, che in Bloch diventa una sorta di fonte originaria del marxismo di natura addirittura superiore all’economia politica inglese. Per Bloch, il filosofo del “principio speranza” e della valorizzazione sistematica dèi progetti utopici, le fonti del marxismo sono ridotte a tre, e sono il messianesimo ebraico-cristiano, il diritto naturale rivoluzionario ed infi­ ne la dialettica di Hegel. Nello stesso tempo, una considerazione

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critica del diritto naturale deve partire dall’olandese Grazio, che ne fu il Newton, il Lavoisier ed il Darwin"nello stésso tempo. Grazio individua nella natura umana un appetitus societatis, cioè un desiderio originario di vivere in società, che riprende senza modificazioni sostanziali la concezione antropologica di Aristotele dell’uomo etini'c~potìfikòn góófDTi~ctu traduzione esatta non può essere solo “animale politico” , ma è l’unione inscindibile di ani­ male sociale, politico e comunitario (secondo la corretta interpre­ tazione di Alisdair Mac Intyre). Naturale è dunque tutto ciò che favorisce Xappetitus societatis, innaturale tutto ciò che Io scoraggia e lo distrugge. Vorrei qui sottolineare che Marx parte dalla stessa concezione antropologica, e che senza capire questo ogni riflessio­ ne ulteriore su Marx risulta anche senza radici e senza fondamen­ to. A fianco di questo appetitus societatis Grazio ritiene naturaleanche il diritto alla proprietà privata, definita come una disposi­ zione delle_ cose della natura inferiore, conferita universalmente da Dio al genere umano dalla fondazione del mondo. Su questo punto Grazio è esplicito ed afferma che “ il diritto naturale è im­ mutabile al punto tale da non poter essere mutato neppure da Dio ”. In questo modo la validità del diritto naturale era affermata nella forma che oggi viene definita (a mio avviso impropriamente, e dirò poi perché) “laica”, etsi Deus non daretur, anche nell’ipotesi che Dio non esistesse. Tutto questo merita una breve riflessione critica, analoga a quella condotta in precedenza sulla genesi e la funzione delle scienze naturali moderne. 15. La prima osservazione deve richiamare l’attenzione sulla genesi storica e sulla committenza sociale del diritto naturale, nella sua prima insuperabile formulazione dell’olandese Grazio, fi chia­ ro che il concetto di “natura” è una metafora filosofica per indicare una contrapposizione alla “società” del tempo, in cui dominava­ no ancora forze assolutistiche, dispotiche, tardo-feudali, signorili, eccetera, quasi sempre coalizzate per limitare il più possibile la sovranità economica e politica della proto-borghesia commerciale e manifatturiera. Ogni classe esclusa dal potere deve, in uri certo senso, “naturalizzare” e “desocializzare” la propria coscienza socia­ le, ed infatti anche l’ultimo Althusser, in una conferenza a Tel­ iti dell’aprile 198Cf(che richiamerò nel quinto capitolo), sostenne

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che la strategia comunista non poteva che basarsi su di una “desocializzazione”, dal momento che è il capitalismo a “socializzare” (ovviamente a modo suo). Non disponendo di una nozione di na­ tura umana, tuttavia, Althusser restava molto al di sotto di G ra­ zio, che invece impostava in modo filosoficamente impeccabile la sua strategia teorica di “sganciamento” dalla società precedente, tendale e signorile in alto, comunitaria in basso. La committenza storica e sociale della teoria del diritto na­ turale proveniva ovviamente dalla proto-borghesia commerciale e manifatturiera olandese del tempo, anche se, come avviene peral­ tro in migliaia di casi, dal processo moderno senza tortura all’uso della penicillina, la genesi storica particolare non impedisce, ma anzi favorisce, una successiva validità universale erga omnes. 16. Vi è un secondo punto da rilevare ancora più importante del precedente. Vi è oggi la tendenza, dominante in opere fretto­ lose di esorcizzazione del Novecento storico e politico, di far ini­ ziare tout court la filosofia politica moderna dal pessimista Hobbes, per il quale vigeva nello stato di natura una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), in conseguenza del fatto che l’uomo si comporta spontaneamente come un lupo affamato nei confronti del suo prossimo {homo homini lupus). Questa impostazione frettolosa ed inesatta non può essere ac­ cettata. Se proprio si vuole porre una data d’inizio alla filosofia politica moderna (operazione sulla quale conservo i miei dubbi, in base al mio radicato sospetto verso ogni teoria metafisica dell’Ori­ gine), allora essa nasce con l’appetitus societatis di Grazio, cioè con una visione moderatamente ottimistica della società. E questo non deve stupire, perché quando più di un secolo dopo ci sarà la “tran­ sizione” borghese dalla teoria del diritto naturale e del contratto sociale alla nuova teoria dell’utilità e della “legge del baratto” smithiana, bisognerà riaffermare la bontà naturale dell’uomo, perché se non si è buoni e non si ha simpatia per il prossimo non sixiesce neppure ad anticipare i suoi desideri e vendergli ciò che gli occorre. E questo un punto di fondamentale importanza. Nella ricerca populistica del profilo polemico elementare con cui nutrire i propri seguaci, la vulgata filosofica marxista ha per circa cento anni diffuso l i rifondata leggenda per cui i borghesi, essendo egoisti ed accapar­

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ratori, sostengono l’eterna cattiveria e malvagità dell’uomo (homo homini lupus, appunto), e questo per continuare a farsi installare rubinetti d’oro, mangiare caviale del Volga e sedurre giovani popo­ lane bellocce. Una breve ricognizione della storia delle idgepropriamente borghesi ci dice però il contrario, e cioè che Grazio sostene­ va 1'appetitus societatìs, e Hume e Smith la teoria della “simpatia”. È naturalmente vero che l’antropologia di Hobbes è oppo­ sta a quella di Grazio. Grazio riprende di fatto l’antropologia ari­ stotelica dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario, mentre Hobbes polemizza apertamente contro Aristotele e contro l’Empusa Metafisica ( cioè il mostro metafisico). Ma se ci si acco­ sta con un po’ più di attenzione ai particolari, vediamo che Hob­ bes non ce l’ha tanto con i lupi, che sono bensì cattivi ma anche intelligenti, e per questa ragione possono essere indotti ad accet­ tare un contratto sociale severo ma sicuro, quanto con i centauri, cioè uomini-bestie inquieti ed attaccabrighe che a differenza dei lupi non riescono neppure a ragionare, e dunque ad accettare un contratto sociale come si deve. Chi sono i centauri hobbesiani? I centauri hobbesiani sono i predicatori messianici ed eversivi dei gruppi presbiteriani, indipendenti, livellatori (levellers) e zappatori {diggers), cui Hobbes attribuisce la colpa integrale di aver scatena­ to la guerra civile inglese (1640-1649). Hobbes è dunque un’anomalia nella storia della filosofia poli­ tica borghese, e non il fondatore della sua “normalità”. Nella storia può sempre essere tirato fuori da un Rousseau, da uno Stalin (che lu un comunista hobbesiano al cento per cento) e da un gruppo di vigilantes del Far West, ma egli resta il caposcuola di una ten­ denza secondaria, di una sorta di affluente nel grande fiume di un pensiero che evolve fondamentalmente dal giusnaturalismo pro­ prietario al contrattualismo liberale ed infine all’utilitarismo bor­ ghese-capitalistico. Per opporsi ai capitalisti ed al loro mondo non c’è nessun bisogno di pensare anche che i borghesi siano “cattivi’ E vero che molto spesso lo sono, ma in questo non si distinguono fondamentalmente dai proletari. 17. Un terzo punto d’importanza ancora maggiore sta nella comprensione corretta del processo di indebolimento ontologico della divinità che la teoria del diritto naturale porta con sé. Par-

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10 ovviamente della teoria del diritto naturale “borghese” fonda­ ta da Grazio, e non del diritto naturale degli antichi stoici greci o di Tommaso D ’Aquino e dei domenicani medievali. Anche su questo punto, la vulgata marxista propinata ai militanti fedeli per più di un secolo non ha colto il centro della questione, e si è limitata a ripetere un mantra di questo tipo: “Naturalmente Dio non esiste, ma le classi dominanti se lo sono inventato per potere dire a voi, contadini antico-egizi, schiavi greci e romani, servi della gleba carolingi, lavoratori salariati del capitalismo, eccetera: siate buoni, pazientate, Dio vuole così, ma se non vi ribellate, nell’aldilà sarete uguali a Ford e ad Agnelli, e canterete tutti insieme nel coro angelico!”. Nel quarto capitolo, dedicato al medio-marxismo (19141956), cercherò di indicare i motivi strutturali che hanno por­ tato all’imposizione statale della dottrina dell’”ateismo scienti­ fico”, che dalle sofisticate analisi storiche sull’origine delle re­ ligioni giungeva nel suo ultimo terminale “militante” a questo mantra. Qui, parlando della genesi della filosofia politica bor­ ghese, è bene ribadire che questa filosofia ha delle buone ragio­ ni per perseguire l’indebolimento ontologico della divinità sen­ za per questo giungere alla proclamazione “materialistica” della sua inesistenza. L’indebolimento della sovranità divina comincia, ovviamente, con l’affermazione secondo cui questa divinità non potrebbe modificare le verità matematiche neppure se lo volesse. A suo tempo, il francescano Guglielmo di Occam sostenne il contrario, e questo non è un caso, perché 1 intelligente inglese trecentesco certo intuì che se si cominciava a togliere a Dio la sovranità sulla matematica si sarebbe inevitabilmente finito con 11 togliergli anche la sovranità sulla politica e sull’economia. In proposito, ricordo che Occam sosteneva una politica imperiale e non papale ed un’economia egualitaria, caritativa ed assisten­ ziale, che nel nostro lessico distorto potremmo tranquillamente definire di “estrema sinistra”. Dio non può quindi modificare le verità “naturali”, sia quelle matematiche sia quelle di tipo politico. Al tempo di Grazio non esistevano ancora le premesse per sottrarre a Dio anche il giudi­ zio sulla struttura economica della società, ma si trattava solo di tempo, il tempo necessario per costituire un mercato capitalistico

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vero e proprio. In proposito, un intermezzo di riflessione su Karl Polanyi e sul suo rapporto con Marx può essere utile per la prose­ cuzione dell’analisi. jc 18. Nell’analisi di Karl Polanyi, le società precapitalistiche si distinguono qualitativamente dalla società capitalistica perché in esse la cosiddetta “economia”, cioè la produzione e la circolazio­ ne di merci per il mercato, non poteva conseguire una comple­ ta autonomizzazione (anche se vi erano già state società di tipo “mercantile” heU’antico Oriente, eccetera), ma finiva sempre in un modo o nell’altro per essere “incorporata” {embedded) nella strut­ tura complessiva della società. La tesi di Polanyi è stata di fatto accettata ed applicata da tutti i migliori studiosi marxisti delle so­ cietàprecapitalistiche, al punto che potremmo parlare di un vero e proprio polanyismo-marxismo o marxismo-polanyismo. Uso que­ sta curiosa espressione non certo per inventarmi un inutile “ismo”, di cui certo nessuno sente il bisogno, ma per indicare un fatto rea­ le, e cioè che per lo studio delle società precapitalistiche Polanyi ha giocato un ruolo superiore anche a quello di Engels (prescindendo qui dal merito delle rispettive soluzioni). La storia delle tre genesi_rispettive del pensiero scientifico, politico ed economico moderno ci mostra indubbiamente che la tendenza principale sta proprio nello “scorporamelito’’ dell econo­ mia dalle strutture “ incorporate” precedenti. Alla fine di questo processo Ued utilitarismo, che e la forma massima e teoricamente perfetta di questo scorporamento, perché feconomia risulta non solo “scorporata”, ma addirittura sovrana, al punto da costituire una nuova religione monoteistica più intollerante delle preceden­ ti, il monoteismo del mercato. E bene però rilevare, a questo punto della mia ricostruzione (ma ci tornerò alla fine di questo stesso capitolo), che questo pro­ cesso di scorporamento è tendenziale, ma non può essere strut­ turalmente portato a termine. Solo un modello di “capitalismo utopico”, del tutto irrealizzabile, potrebbe infatti realizzare uno scorporamento integrale, che coinciderebbe con la probabile fine a breve termine del capitalismo stesso. Quanto dico, io credo, è compatibile con quello che dicono sia Polanyi che Marx, mentre è incompatibile con quello che sostengono molti polanyiani e molti

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marxisti frettolosi, che credono che il capitalismo abbia veramente realizzato un integrale scorporamento dell’economia dalla strut­ tura sociale complessiva. Questa errata concezione sta alla base di quella patologica mescolanza di economicismo e di utopismo che rappresenta l’unica vera e propria malattia incurabile del marxi­ smo stesso. Ci ritornerò sopra. Ma è bene che questo problema venga segnalato già a questo punto della ricostruzione storica e fi­ losofica del pensiero della modernità borghese e capitalistica. _ 19. Un’osservazione incidentale sul cosiddetto “laicismo”, o pensiero laico. In un certo senso Grazio ne è il primo fondatore filosofico, perché il pensiero laico si basa proprio sul presupposto dell’autonomia integrale della costituzione politica della società come se Dio per ipotesi non esistesse neppure (etsi Deus non daretur). Ma, appunto, il diavolo, in questo caso il diavolo termino­ logico ed etimologico, si nasconde nel dettaglio. Comunque la si voglia girare, “laico” significa popolare (laos = popolo). Ma quello che viene chiamato “laicismo” dovrebbe invece essere chiamato “borghesismo”, perché la classe sociale interessata all’autofondazione razionalistica della società ed all’indebolimento ontologico della sovranità divina è la borghesia, e solo la borghesia, che sottrae alla divinità prima le verità matematiche, poi le verità politiche ed infine le (cosiddette) verità economiche. Il popolo propriamente detto, e cioè l’insieme degli strati su­ bordinati nella divisione sociale del lavoro e nell’accesso differen­ ziato al sapere e quindi al potere, non è in via di principio inte­ ressato all’indebolimento della divinità, ma al suo riorientamento. Se facciamo l’ipotesi che la divinità, prima di essere il prodotto dell’ignoranza e della superstizione, è il prodotto di un’astrazione unificante del legame sociale complessivo trasferito in uno spazio­ tempo sottratto alla corruzione, ne consegue che l’indebolimento della sovranità simbolica di questa astrazione unificante non può “riorientare” la società nel suo complesso, ma solo favorire una sua parte sulle altre. Il lettore non mi fraintenda. Non è mia intenzione proporre una nuova “prova” dell’esistenza di Dio (Dio come garante metafi­ sico della totalità sociale comunitaria) a fianco di quelle ontologi­ che e cosmologiche. Intendo soltanto ricordare a coloro che se fos­

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sero per caso dimenticati (e cioè la stragrande maggioranza degli intellettuali “laici” contemporanei) che il cosiddetto “laicismo” è una forma di “borghesismo” a tutti gli effetti e che pertanto il pen­ siero di Marx, buono o cattivo che sia, in ogni caso “laico” non è. — 20. La teoria del contratto sociale, che presuppone la teoria del diritto naturale come suo fondamento ontologico, coincide quasi integralmente con la storia della filosofia politica moderna. Marx fa anche lui parte della storia del suo superamento e del suo abbandono, storia troppo spesso confusa con l’(inesistente) ab­ bandono della teoria dell’alienazione, che invece è la vera “pietra angolare” filosofica del suo pensiero. La storia dell’abbandono e del superamento della teoria del contratto sociale può essere a sua volta distinta in tre diversi momenti, il suo abbandono tacito e la sua neutralizzazione implicita in Kant, la sua trasformazione rivo­ luzionaria in Rousseau ed infine la sua negazione esplicita e la sua sostituzione con una teoria utilitarista in Hume e in Smith. Prima, però, occorre capire bene la funzione storica ed il tessuto teorico della teoria del contratto sociale nella sua formulazione principale, quella di John Locke. _ 21. In una storia concisa ma anche molto acuta del contrat­ to sociale, scritta da Paolo Casini, si ricordano le radici antiche di questo concetto, già presenti in Epicuro e Lucrezio. L’esistenza di un diritto naturale stoico e di un contratto sociale epicureo, non­ ché di equivalenti di entrambi nella storia della filosofia indiana e cinese, eccetera, rimanda probabilmente ad una struttura concet­ tuale comune ad un certo grado di sviluppo delle società umane, e questo spiega anche, a mio avviso, il perché sia il diritto naturale sia il contratto sociale si ripresentano anche dopo essere stati criti­ cati e temporaneamente accantonati ed abbandonati ( critica del­ l’utilitarismo, critica di Hegel, critica di Marx, eccetera). Le per­ manenze concettuali di “lunga durata” hanno momenti di eclissi temporanea, ma non spariscono mai per sempre. Il contratto sociale di Hobbes non è un vero contratto sociale: gli individui hobbesiani, che sono in realtà in-dividui (e cioè ato­ mi sociali non ulteriormente divisibili), mossi non dall'appetitus societatis graziano ma dall’impulso all’autoconservazione, escono

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dallo stato di natura caratterizzato dall’insicurezza permanente ed entrano in un mondo reso sicuro dall'obbedienza incondizionata ad un sovrano, il noto Leviatano. Questa soggezione al sovrano non è però un contratto, ma una cessione definitiva, unilaterale e senza corrispettivo che non sia la sicurezza personale e della pro­ prietà privata. _ In John Locke si ha invece un vero contratto bilaterale fra sudditi e sovrano, e questo fa in un certo senso di Locke ( al di là dei primi teorici come Grazio, Althusius e Pufendorf) il solo vero pensatore integralmente contrattualista della filosofia politica mo­ derna. Ma questo avviene solo perché i contraenti di questo patto sociale “liberale” non sono pensabili né come sudditi (nefsenso di Hobbes) né come cittadini (nel senso di Rousseau), ma solo come proprietari privati individuali. La concezione della proprietà privata in Locke è la base della sua teoria politica del contratto sociale. Non a caso, essàsLfonda originariamente sul lavoro, e questa concezione fa da anticamera sia alla teoria del valore-lavoro di Adam Smith sìa della sua ripresa da parte di Karl Marx, anche se sia Smith che Marx abbandone­ ranno i presupposti giusnaturalistici e contrattualistici. Pochi anni separano l’elaborazione filosofica della teoria della proprietà fon­ data sul lavoro in Locke e la sua elaborazione romanzesca in Defoe e nel suo romanzo Robinson Cruso'e. Dal momento che una delle fonti principali di Marx è la grande letteratura mondiale preceden­ te, possiamo tranquillamente dire che il Robinson Crusoe non è af­ fatto una fonte marxiana meno importante di quanto lo sia la Ric­ chezza delle Nazioni di Adam Smith. Solo gli studiosi professionali di filosofia, economia e scienze sociali in genere non lo capiscono, perché il tabù della specializzazione li porta a non voler “invade­ re il campo” dei loro colleghi studiosi di letteratura comparata. La critica filosofica di Locke all’idea di “sostanza” è probabil­ mente una metafora della sua critica alla proprietà comune. Così come Fempirismo filosofico “desostanzializza” gnoseologicamente il mondo dèlta conoscenza, nello stesso modo il contrattualismo privatistico