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Italian Pages 228 Year 2011
Douglas Preston – Lincoln Child
Sotto Copertura Titolo originale Gideon's Sword 2011 Traduzione di Adria Tissoni ISBN 9788858620496
Sotto Copertura Questo libro è il prodotto dell’immaginazione degli Autori. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale. La rappresentazione della disciplina del Falun Gong è totalmente funzionale al racconto. Gli Autori si scusano anticipatamente per ogni eventuale imprecisione nella descrizione di questa pratica spirituale. Dedichiamo questo libro al nostro magnifico agente letterario, Eric Simonoff.
MELVIN CREW CAPITOLO 1 Agosto 1988 Niente nei suoi dodici anni di vita aveva preparato Gideon Crew per quel giorno. Ogni dettaglio insignificante, ogni gesto banale, suono e odore restò come inglobato in un blocco di vetro, immutabile e permanente. La madre alla guida della Plymouth station wagon lo stava riportando a casa dalla lezione di tennis. Era una di quelle giornate con temperature superiori ai trenta gradi in cui gli abiti ti si appiccicano addosso e la luce del sole sembra avere la consistenza della carta moschicida. Gideon aveva orientato i bocchettoni dell’aria condizionata in direzione della sua faccia. Stavano percorrendo la Route 27, fiancheggiando il lungo muro perimetrale del cimitero nazionale di Arlington quando due agenti in moto intercettarono la loro auto; uno li superò, l’altro restò indietro con le sirene ululanti e le luci rosse che ruotavano. Quello davanti segnalò alla madre di Gideon di accostare, indicando con la mano protetta dal guanto nero la rampa d’uscita della Columbia Pike. Non c’era nulla dell’apatica lentezza di un normale controllo: entrambi gli agenti balzarono giù dalla moto e si avvicinarono di corsa. «Ci segua» ordinò uno dei due poliziotti infilando la testa nel finestrino. «Subito.» «Cosa succede?» domandò la madre di Gideon. «Un’emergenza riguardante la sicurezza nazionale. Ci stia dietro: andremo veloci e le faremo strada.» «Non capisco...» I due però erano già in sella alle moto. Li scortarono a sirene spiegate sulla Columbia Pike fino alla George Mason Drive costringendo le altre vetture a scostarsi al loro passaggio. Furono raggiunti da motociclette, autopattuglie e infine da un’ambulanza, un corteo che si faceva strada urlando nelle strade intasate dal traffico. Gideon non sapeva se essere eccitato o spaventato. Quando svoltarono sull’Arlington Boulevard, capì dove stessero andando: alla Arlington Hall Station, dove suo padre lavorava per l’INSCOM, l’Army Intelligence and Security Command degli Stati Uniti. All’ingresso del complesso c’erano le transenne della polizia, ma vennero tolte per permettere di farli entrare. Percorsero la Ceremonial Drive con gran fragore e si fermarono a una seconda serie di transenne dietro un groviglio di autopompe, pattuglie della polizia e furgoni della SWAT. Tra le imponenti colonne bianche, la facciata di mattoni, i prati smeraldo e le
querce perfettamente curate, Gideon vedeva l’edificio in cui lavorava il padre. Un tempo era stato un collegio femminile e ne conservava ancora l’aspetto. Davanti, una vasta zona era stata sgomberata. Due tiratori scelti erano stesi sul prato dietro una bassa collinetta con i fucili sistemati sui bipiedi. La madre si girò verso di lui e tradendo una certa preoccupazione gli disse: «Resta in macchina. Non uscire, qualsiasi cosa accada». Scese. Una schiera di agenti le aprì un varco tra la folla, e poi scomparve. La mamma si era dimenticata di spegnere il motore dell’auto. Il condizionatore funzionava ancora. Gideon abbassò un finestrino e l’auto si riempì del suono delle sirene, delle ricetrasmittenti, di grida. Due uomini in abito blu passarono di corsa. Un poliziotto urlò in una radio. Altre sirene giunsero da lontano, da ogni direzione. Udì il suono di una voce in un megafono, acida, distorta. «È circondato. Si arrenda.» Tutti ammutolirono all’istante. «Liberi l’ostaggio ed esca immediatamente con le mani in alto.» Di nuovo silenzio. Gideon si guardò attorno. L’attenzione dei presenti era concentrata sull’ingresso principale della Arlington Hall Station, dove si sarebbe svolta l’azione. «Sua moglie è qui. Vorrebbe parlarle.» Si sentì il ronzio assordante di scariche statiche, poi il suono amplificato elettronicamente di un singhiozzo, grottesco. «Melvin?» Ci fu un altro verso strozzato. «Melvin?» Gideon s’irrigidì. È la voce di mamma, pensò. Era come un sogno in cui niente aveva senso. Non era reale. Il ragazzino posò la mano sulla maniglia della portiera e uscì nel caldo soffocante. «Melvin...» Ancora una specie di singulto. «Ti prego, esci. Nessuno ti farà del male, te lo prometto. Ti prego, lascia andare quell’uomo.» La voce al megafono era aspra e aliena, eppure era senz’altro quella di sua madre. Gideon avanzò tra i poliziotti e gli ufficiali dell’esercito. Nessuno gli prestò attenzione. Raggiunse le transenne esterne, posò una mano sul legno grezzo dipinto di blu. Guardò in direzione della Arlington Hall ma non vide nessun segno di movimento né sulla facciata né sul cortile davanti. L’edificio luccicante nella calura sembrava morto. Le foglie penzolavano sui rami delle querce, il cielo era piatto e senza nubi, quasi bianco. «Melvin, se lascerai andare quell’uomo ti ascolteranno.» Seguì un altro silenzio carico d’attesa. Poi, all’improvviso, un tipo grassoccio in giacca e cravatta che Gideon non riconobbe uscì incespicando. Per un istante si guardò attorno disorientato, quindi si lanciò in avanti macinando terreno con le grosse gambe. Quattro agenti muniti di casco e con le armi puntate lo raggiunsero, lo afferrarono e lo trascinarono alla svelta dietro uno dei
furgoni. Gideon si chinò per passare sotto le transenne e avanzò tra i poliziotti, gli uomini con le ricetrasmittenti e altri in uniforme. Nessuno lo notò, nessuno se ne curò; tutti gli occhi erano fissi sull’ingresso principale dell’edificio. Poi una voce flebile si levò da dietro il portone. «Ci dovrà essere un’indagine!» Era suo padre. Gideon si bloccò con il cuore in gola. «Pretendo un’indagine! Sono morte ventisei persone!» Si udì un armeggiare confuso, amplificato, e poco dopo qualcuno tuonò al megafono: «Dottor Crew, prenderemo in considerazione le sue richieste. Ma adesso deve uscire con le mani alzate. Ha capito? Adesso deve arrendersi». «Non mi avete ascoltato» replicò con voce tremante suo padre. «Sono morte delle persone e non è stato fatto niente! Me lo dovete promettere.» «Lo stiamo facendo.» Gideon aveva raggiunto le transenne più interne. L’ingresso dell’edificio sembrava ancora tranquillo ma adesso era abbastanza vicino da vedere la porta socchiusa. Doveva trattarsi di un sogno; si sarebbe svegliato da un minuto all’altro. Si sentiva stordito per il caldo, in bocca avvertiva un sapore metallico. Era un incubo... eppure era reale. Poi la porta si spalancò verso l’interno e la sagoma di suo padre comparve nel rettangolo nero della soglia. Sembrava spaventosamente piccolo contro la maestosa facciata della Arlington Hall Station. Fece un passo con le mani in alto e i palmi rivolti in avanti. I capelli dritti gli ricadevano sulla fronte, aveva la cravatta storta e il vestito blu stropicciato. «Può bastare» dichiarò l’uomo al megafono. «Adesso si fermi.» Melvin Crew obbedì strizzando gli occhi nella luce intensa del sole. Esplosero degli spari, tanto ravvicinati da sembrare petardi, e l’uomo fu ricacciato all’improvviso nel buio della soglia. «Papà!» urlò Gideon superando con un balzo le transenne e correndo sull’asfalto caldo del parcheggio. «Papà!» Alle sue spalle provenivano le urla: «Chi è quel bambino?», «Cessate il fuoco!». Il ragazzino saltò il cordolo e tagliò il prato in direzione dell’ingresso. Alcuni uomini si precipitarono verso di lui per intercettarlo. «Cristo, fermatelo!» Scivolò sull’erba, si rialzò. Vedeva solo i piedi del padre emergere dalla soglia buia nella luce del sole, la punta delle scarpe all’insù, le suole graffiate, una con un buco. Era un sogno, un sogno... e poi, prima di essere placcato a terra, riuscì a vederne i piedi, che fecero due scatti. «Papà!» gridò cercando di aggrapparsi all’erba del prato per rialzarsi mentre il peso del mondo gli cadeva sulle spalle. Ma aveva visto quei piedi muoversi, papà era vivo, si sarebbe svegliato e tutto sarebbe andato bene.
CAPITOLO 2 Ottobre 1996 Gideon Crew era arrivato dalla California il mattino presto. L’aereo era rimasto sulla pista dell’aeroporto internazionale di Los Angeles per due ore prima di decidersi a decollare per il Dulles. Era saltato sul primo autobus diretto in centro, poi aveva preso la metro fino all’ultima stazione e infine fermò un taxi. Le sue finanze non avevano certo bisogno della spesa imprevista di quel volo. Si era mangiato i soldi a una velocità allarmante senza badare al budget, e poi l’ultimo lavoro portato a termine era stato più difficile del solito, ed era stato un problema ricettare la merce. Quando gli avevano telefonato aveva sperato che fosse l’ennesimo falso allarme, l’ennesimo attacco isterico o l’ennesima supplica di un’ubriacona in cerca di un po’ di attenzioni. In ospedale, però, il medico era stato gelido nella sua franchezza. «Il fegato sta cedendo, e vista la sua storia clinica non può essere messa in lista per un trapianto. Questa potrebbe essere la sua ultima visita.» Era ricoverata in terapia intensiva. Aveva i capelli biondi sparsi sul cuscino e una ricrescita nera di due centimetri. Qualcuno aveva anche fatto un tentativo triste e maldestro di applicarle l’ombretto; era come dipingere le persiane di una casa infestata dagli spiriti. Udiva il respiro entrare e uscire stridulo attraverso la cannula nasale. La stanza era silenziosa, le luci soffuse e i bip degli strumenti elettronici una presenza costante. All’improvviso sentì un’ondata di senso di colpa e di pietà. Tutto preso dalla propria vita, non si era occupato di sua madre. Ma quando in passato ci aveva provato, lei si era rifugiata nella bottiglia e avevano litigato. No, non era giusto che finisse così. Non era giusto, e basta. Le prese la mano, si sforzò di pensare a qualcosa da dire e non gli venne in mente nulla di sensato. Alla fine se ne uscì con un misero: «Come stai, mamma?», detestandosi per quella domanda stupida. Lei si limitò a guardarlo. La sclera dei suoi occhi aveva il colore delle banane troppo mature. Con la mano ossuta afferrò quella di lui in una stretta debole, tremante, poi si mosse stancamente. «Bene, ci siamo.» «Mamma, ti prego, non fare così.» La donna fece un gesto sprezzante. «Hai parlato con il dottore, sai tutto. Ho la cirrosi insieme ai suoi piacevoli effetti collaterali... senza contare l’insufficienza cardiaca congestizia e l’enfisema dopo anni di sigarette. Sono un rottame, ed è tutta colpa mia.» Gideon non sapeva cosa risponderle. Era tutto vero, naturalmente, e la
madre era molto diretta. Lo era sempre stata. Ma, sebbene fosse così forte, era debolissima quando si trattava di vizi. Del resto è tipico delle personalità inclini alla dipendenza da sostanze. Anche lui era così, d’altronde. «La verità vi renderà liberi» sospirò la donna, «ma prima vi renderà infelici.» Era il suo aforisma preferito e precedeva sempre un discorso difficile. «È giunta l’ora di rivelarti una verità...» inspirò affannosamente un po’ d’aria «... che ti renderà infelice.» Lui attese mentre lei tentava di riprendere fiato. «Riguarda tuo padre.» Girò gli occhi gialli verso la porta. «Chiudila.» Con un certo nervosismo Gideon la accostò piano e tornò al suo capezzale. Lei gli strinse di nuovo la mano. «Golubzi» mormorò. «Scusa?» «Golubzi. I tipici involtini di cavolo russi.» Tacque per inspirare. «Era il nome in codice sovietico dell’operazione. Involtino. Una notte ventisei agenti sono stati stanati. E sono scomparsi.» «Perché me lo stai raccontando?» «Trebbiatrice.» Chiuse gli occhi respirando in fretta. Pareva che, una volta deciso di lanciarsi, non riuscisse a trattenersi dal proseguire. «È l’altro termine. Il progetto a cui tuo padre lavorava all’INSCOM. Un nuovo modello di crittografia... altamente segreto.» «Sei sicura di poterne parlare?» domandò Gideon. «Tuo padre non avrebbe dovuto dirmelo. Ma lo ha fatto.» Tenne gli occhi chiusi e il suo corpo sembrò collassare e sprofondare nel letto. «La Trebbiatrice andava collaudata. Testata. È stato allora che hanno assoldato tuo padre. Ci siamo trasferiti a Washington.» Gideon annuì. Per un adolescente in seconda media trasferirsi da Claremont, in California, a Washington non era stato proprio uno spasso. «Nel 1987 l’INSCOM ha mandato la Trebbiatrice all’Agenzia per la sicurezza interna per un’ultima revisione. È stata approvata e introdotta nelle operazioni.» «Non ne sapevo niente.» «Be’, adesso lo sai.» Deglutì a fatica. «Per decifrarla i russi impiegarono solo alcuni mesi. Il 5 luglio 1988, il giorno dopo l’Independence Day, i sovietici hanno stanato tutte quelle spie statunitensi.» Tacque emettendo un lungo sospiro. I bip delle macchine scandivano il sibilo dell’ossigeno e i rumori attutiti dell’ospedale. Ammutolito, Gideon continuò a tenerle la mano. «Hanno incolpato tuo padre del fiasco...» «Mamma...» le strinse la mano, «tutto questo ormai appartiene al passato.» Lei scosse la testa. «Gli hanno rovinato la vita. Ecco perché ha preso quell’ostaggio.» «Che importanza ha, ora? Ho accettato molto tempo fa che papà abbia
commesso un errore.» La donna spalancò gli occhi. «Non è stato un errore! Lui è stato il capro espiatorio.» Pronunciò queste parole con asprezza, come se stesse sputando qualcosa di sgradevole. «Cosa vuoi dire?» «Prima dell’Operazione Golubzi tuo padre scrisse un rapporto in cui dichiarava che la Trebbiatrice era teoricamente difettosa. Che c’era una potenziale falla. Lo ignorarono. Ma aveva ragione. E sono morte ventisei persone.» Inalò rumorosamente e si aggrappò alle coperte per lo sforzo. «La Trebbiatrice era secretata, potevano dire tutto quello che volevano. Non c’era nessuno a contraddirli. Tuo padre era un outsider, un professore, un civile. E aveva alle spalle una storia di depressione da riesumare all’occorrenza.» Gideon si immobilizzò. «Vuoi dire che... non è stata colpa sua?» «È stato proprio il contrario. Hanno distrutto le prove e lo hanno incolpato dell’insuccesso dell’Operazione Golubzi. Allora lui ha preso l’ostaggio. E loro gli hanno sparato quando si era arreso. Per metterlo a tacere. È stato un assassinio a sangue freddo.» Gideon provò uno strano senso di leggerezza. Per quanto quelle rivelazioni fossero sconcertanti, gli parve di essersi tolto un grosso peso. Suo padre, il cui nome era stato pubblicamente diffamato da quando aveva dodici anni, allora non era il matematico depresso, instabile e inconcludente! Tutte le provocazioni e le prese in giro sopportate, i mormorii e le risatine alle spalle non avevano più alcuna importanza. Allo stesso tempo iniziò a rendersi conto dell’enormità del crimine perpetrato contro una vittima innocente, pover’uomo. Quel giorno era impresso nella sua memoria: ricordava le promesse fatte al padre. L’avevano attirato fuori, alla luce del sole, solo per ucciderlo. «Ma chi...?» «Il tenente generale Chamblee Tucker. Un vicecomandante dell’INSCOM. Il capo del progetto Trebbiatrice. Ha trasformato tuo padre in un capro espiatorio per proteggersi. Ha dato lui l’ordine di sparare. Non dimenticare questo nome: Chamblee Tucker.» La donna smise di parlare e rimase immobile, madida di sudore, ansimando come se avesse appena corso una maratona. «Grazie per avermelo detto» mormorò lui. «Non ho finito.» Altri respiri faticosi. Gideon vedeva il monitor cardiaco sulla parete: indicava circa centoquaranta. «È meglio se ora riposi.» «No» ribatté lei in tono deciso. «Avrò tutto il tempo... dopo.» Lui attese. «Sai cos’è successo in seguito. Lo hai vissuto sulla tua pelle. I continui traslochi, i problemi economici. Gli... uomini. Non riuscivo a recuperare il controllo della situazione. La mia vera vita è finita quel giorno. Da allora mi
sono sempre sentita morta dentro. Sono stata una pessima madre. E tu... tu stavi così male.» «Non ti preoccupare, sono sopravvissuto.» «Ne sei sicuro?» «Certo.» Ma nel profondo Gideon avvertì una fitta. Il respiro della moribonda cominciò a rallentare; la sentì allentare la presa. Vedendo che stava per addormentarsi, le spostò con delicatezza la mano e gliela posò sulle coperte. Quando si chinò per baciarla, lei risollevò all’improvviso la mano e lo afferrò per il colletto con dita simili ad artigli. Lo trafisse con lo sguardo e disse con foga ossessiva: «Pareggia i conti». «Cosa?» «Fai a Tucker quello che lui ha fatto a tuo padre. Distruggilo. E alla fine accertati che sappia perché... e per mano di chi.» «Buon Dio, cosa mi stai chiedendo?» sussurrò Gideon guardandosi attorno, d’un tratto in preda al panico. «Mamma, non sai cosa dici.» La voce della donna si ridusse a un bisbiglio. «Fai con calma. Termina il college. Vai all’università. Studia. Osserva. Aspetta. Troverai un modo.» La mano a poco a poco lasciò la presa e lei chiuse di nuovo gli occhi. Sembrò che tutta l’aria che aveva nei polmoni l’avesse abbandonata in quell’ultimo sospiro. Entrò in coma e morì due giorni dopo. Quelle furono le sue ultime parole, parole che sarebbero riecheggiate incessanti nella mente di Gideon: «Troverai un modo».
CAPITOLO 3 Oggi Gideon Crew sbucò dai pini gialli che delimitavano il vasto campo di fronte alla capanna. In una mano teneva la canna d’alluminio per la pesca a mosca; in spalla portava una borsa di tela con dentro due trote adagiate su un mucchietto di erba umida. Era una splendida giornata di inizio maggio, i raggi del sole erano tiepidi sulla nuca. Con le sue gambe lunghe attraversò veloce il prato disperdendo al suo passaggio api e farfalle. La capanna era fatta di tronchi tagliati con l’ascia e le fessure erano state riempite di adobe; c’erano due finestre e una porta. Sul tetto di lamiera arrugginita spuntava una fila di pannelli solari accanto a una parabola satellitare a banda larga. Dietro, il fianco della montagna scompariva in lontananza nell’ampio bacino di Piedra Lumbre, con le vette del Colorado meridionale che orlavano l’orizzonte come tanti denti azzurri. Gideon lavorava «sulla Collina», al Los Alamos National Lab, e trascorreva le serate nello scalcinato appartamento governativo di un edificio all’angolo tra Trinity e Oppenheimer. Ma preferiva passare i fine-settimana, e la sua vera vita, in quella baita tra i monti Jemez. Aprì la porta e si diresse nel cucinotto. Dalla borsa di tela prese le due trote, le sciacquò e le tamponò per asciugarle. Allungò la mano verso l’iPod collocato nel suo dock e dopo un attimo di esitazione selezionò Thelonious Monk. Dagli altoparlanti si diffusero le percussioni di Green Chimneys. Mescolò succo di limone e sale e, sbattendo l’intingolo con la forchetta, aggiunse un po’ d’olio d’oliva e di pepe macinato, dopodiché ricoprì le trote con la marinata ottenuta. Passò mentalmente in rassegna il resto degli ingredienti della truite à la provençale: cipolle, pomodori, aglio, vermouth, farina, origano e timo. Di solito Gideon faceva un solo vero pasto al giorno, che si cucinava con molta cura. Era quasi un esercizio zen sia per la preparazione sia per la lenta consumazione. Se poi durante la giornata aveva ancora fame, andavano bene merendine, patatine e caffè al volo. Dopo essersi lavato le mani, entrò nell’area soggiorno e infilò la custodia d’alluminio della canna da pesca nel portaombrelli in un angolo. Si buttò sul vecchio divano in pelle e sollevò i piedi, rilassandosi. Il fuoco, acceso per allegria più che per scaldare, scoppiettava nel grande caminetto sopra il quale erano appese un paio di corna d’alce illuminate dalla luce gialla del sole pomeridiano. Una pelle d’orso copriva il centro del salotto; vecchi backgammon e scacchiere tappezzavano le pareti. Diversi libri giacevano sparsi sui tavolini o impilati sul pavimento, e in fondo alla stanza una libreria a muro era piena zeppa di altri volumi.
Lanciò un’occhiata a un angolo nascosto da una tenda realizzata con una vecchia coperta a righe colorate. Per un bel po’ non si mosse. Non controllava il sistema dalla settimana precedente e in quel momento non aveva voglia di farlo. Era stanco e non vedeva l’ora di cenare. Ma era un dovere auto-imposto da così tanto tempo che ormai era diventato un’abitudine, perciò si tirò su, si ravviò i capelli neri dritti e lunghi e si trascinò verso la tenda, dalla quale proveniva un debole ronzio. La scostò con una certa riluttanza. Dallo spazio buio si levò un vago odore di strumenti elettronici e plastica surriscaldata. Lì dietro erano sistemati un tavolo di legno e una serie di attrezzature informatiche con i LED che lampeggiavano nell’oscurità. C’erano quattro computer di diversa fabbricazione e dimensione, non di marca, vecchi di almeno cinque anni: un server Apache e tre Linux client. A Gideon non servivano strumenti particolarmente sofisticati: dovevano essere soltanto precisi e affidabili. Nell’angolo il solo esemplare nuovo di zecca e relativamente costoso era un router satellitare a banda larga ad alte prestazioni. Sopra la serie di attrezzature c’era un piccolo, delizioso schizzo a matita degli scogli della costa del Maine di Winslow Homer. Era l’unico manufatto rimasto della sua precedente professione: non aveva avuto cuore di vendere anche questo. Scostando una malconcia sedia da ufficio, si sedette al piccolo tavolo, vi piazzò sopra i piedi, si sistemò la tastiera sulle ginocchia e iniziò a battere. Uno schermo si rianimò mostrando un riassunto dei risultati della ricerca e informandolo che non si collegava dai sei giorni. Passò in rassegna la finestra dei risultati. Vide subito che c’era una risposta positiva. Fissò il monitor. Col tempo aveva migliorato e perfezionato il motore di ricerca ed era trascorso quasi un anno dall’ultimo falso positivo. Di scatto rimise i piedi sul pavimento e con il cuore che gli martellava nel petto si chinò sul tavolo pestando furiosamente sulla tastiera. La risposta era contenuta in un indice pubblicato sui National Security Archives presso la George Washington University. L’effettivo materiale d’archivio restava secretato ma l’indice era stato reso pubblico nell’ambito di un ampio processo di declassificazione dei documenti della Guerra Fredda in base all’ordine esecutivo 12958. La risposta positiva era il nome del padre: L. Melvin Crew. E il titolo del documento archiviato, ancora secretato, era Critica del modello di crittografia EVP-4 Trebbiatrice basato sui logaritmi discreti: strategia di attacco teorica di cripto-analisi mediante una backdoor che utilizza un gruppo di punti di torsione di una curva ellittica di caratteristica.
«Santo cielo» mormorò Gideon con gli occhi incollati allo schermo. Stavolta non era un falso positivo. Sperava da anni in qualcosa. Ma quello era più di qualcosa. Poteva essere il punto di svolta. Sembrava incredibile, inconcepibile: era davvero la relazione che il padre aveva scritto criticando la Trebbiatrice e che il generale Tucker aveva apparentemente distrutto? C’era solo un modo per scoprirlo.
CAPITOLO 4 Mezzanotte Gideon Crew camminava per strada con le mani in tasca, il cappellino da baseball girato all’indietro, la camicia sporca fuori dai pantaloni sotto un soprabito unto, i calzoni larghi che lasciavano in bella vista le mutande, pensando a quanto era fortunato: quello era il giorno della raccolta rifiuti nel quartiere di Brookland, a Washington D.C. Svoltò l’angolo di Kearny Street e superò una casa di legno malandata a un piano con un prato incolto circondato da uno steccato bianco dipinto solo in parte. In fondo al passaggio pedonale c’era un bel bidone stracolmo d’immondizia, con un puzzo spaventoso di gamberetti marci che aleggiava nell’aria umida e afosa. Si fermò all’altezza del bidone guardandosi attorno furtivo. Poi vi ficcò dentro una mano frugando in profondità, tastando via via la spazzatura. S’imbatté in qualcosa che sembravano patatine fritte, ne tirò su una manciata, ne ebbe la conferma e le gettò via. Notò un movimento fulmineo. Un gatto pelle e ossa con un occhio solo sgusciò da una siepe. «Hai fame, socio?» Il gatto emise un basso miagolio e si avvicinò agitando sospettoso la coda. Gideon gli offrì una patatina. Lui la annusò diffidente, la mangiò, miagolò di nuovo, più forte. Gideon gliene lanciò allora una manciata. «Non c’è altro, piccolo. Hai idea di quanto ti facciano male gli acidi grassi?» Il micio si gettò famelico sullo spuntino. Gideon ficcò di nuovo la mano dentro il bidone della pattumiera, rimescolò tra i rifiuti e stavolta pescò un fascio di carte. Le passò rapidamente al vaglio: alcuni fogli erano i compiti di matematica di un bambino. Voto: ottimo, notò con approvazione. Perché erano stati buttati? Avrebbero dovuto metterli in cornice. Li ricacciò dentro, trovò una coscia di pollo e la mise da parte per il gatto. Stavolta si immerse con entrambe le mani, procedendo a fatica verso il basso, e incontrò qualcosa di viscido; frugò più in profondità e le sue dita incapparono in varie cose semi-solide prima di trovare altri fogli. Li afferrò e li riportò in superficie. Erano proprio ciò che stava cercando: bollette. C’era anche la metà superiore di una fattura telefonica. Centro. «Ehi!» Gideon alzò lo sguardo. Era il proprietario in persona, Lamoine Hopkins, un afroamericano piccolo e magro che gli agitava contro un dito. «Ehi! Leva le chiappe di lì!» Senza fretta, lieto dell’inattesa occasione di poter interagire con uno dei suoi bersagli, Gideon si ficcò le carte in tasca.
«Un uomo non può mangiare?» Sollevò la coscia di pollo. «Vai a farlo da qualche altra parte!» sbraitò l’uomo. «Questo è un quartiere rispettabile! Quella è la mia spazzatura!» «Dai, amico, non fare così.» L’afroamericano estrasse il cellulare. «Lo vedi questo? Ora chiamo la polizia!» «Ehi, amico, non faccio male a nessuno.» «Pronto?» disse l’uomo in tono melodrammatico al telefono. «C’è un intruso nella mia proprietà, sta frugando nei rifiuti! Trentacinque diciassette Kearny Street Northeast!» «Scusami» bofonchiò Gideon allontanandosi dinoccolato con la coscia di pollo in mano. «Ho bisogno di una pattuglia, subito!» gridò l’uomo. «Sta cercando di andarsene!» Gideon lanciò il pollo in direzione del gatto, girò l’angolo con passo strascicato e poi riprese l’andatura normale. Si pulì mani e braccia nel modo più accurato possibile con il cappellino, lo buttò via, rovesciò il soprabito dell’Esercito della salvezza... e apparve un trench blu immacolato. Lo indossò, infilò la camicia nei pantaloni e si ravviò i capelli all’indietro con un pettine. Mentre raggiungeva l’auto a noleggio ad alcuni isolati di distanza, passò una macchina della polizia che gli lanciò una brevissima occhiata. Salì e avviò il motore compiaciuto. Non solo aveva trovato quello per cui era venuto, ma aveva incontrato il signor Lamoine Hopkins in persona e aveva avuto una conversazione tanto piacevole con lui. Sarebbe tornata utile. Il giorno dopo, dalla sua stanza di motel, Gideon iniziò a chiamare i numeri sconosciuti sulla fattura telefonica di Hopkins. S’imbatté in una sfilza di amici finché al quinto tentativo colpì il bersaglio. «Heart of Virginia Mall, assistenza tecnica» disse la voce. «Sono Kenny Roman.» Assistenza tecnica. Gideon accese rapido un registratore digitale inserito in uno splitter sulla linea telefonica. «Signor Roman?» «Sì?» «Mi chiamo Eric e telefono a nome della Sutherland Finance Company.» «Cosa desidera?» «Riguarda il prestito per il suo Dodge Dakota del 2007.» «Quale Dakota?» «Il termine del rimborso è scaduto da tre mesi, signore, e sono spiacente ma la Sutherland Finance...» «Di cosa sta parlando? Io non ho nessun Dakota.» «Signor Roman, capisco, sono momenti di crisi finanziaria, ma se non riceviamo l’importo attualmente scaduto...» «Senta, amico, si sturi bene le orecchie. Si sta rivolgendo alla persona sbagliata. Io non possiedo nemmeno un pick-up. Vada affanculo.» Un click interruppe la conversazione.
Gideon riagganciò. Spense il registratore digitale. Poi ascoltò tre volte lo scambio di battute che aveva appena registrato. Di cosa sta parlando? Io non ho nessun Dakota, gli fece il verso a voce alta. Senta, amico, si sturi bene le orecchie. Si sta rivolgendo alla persona sbagliata. Io non possiedo nemmeno un pick-up Ripeté le frasi più volte, in diverse combinazioni, finché ritenne di aver acquisito inflessione, tono e ritmo quasi esatti. Prese il telefono e compose un altro numero: quello del Dipartimento IT di Fort Belvoir. «IT» risposero. Era la voce di Lamoine Hopkins. «Lamoine?» sussurrò Gideon. «Sono Kenny.» «Kenny, che diamine...?» Hopkins sembrò subito sospettoso. «Perché parli a bassa voce?» «Ho un fottuto raffreddore. E... quello che devo dirti è delicato.» «Delicato? Cosa intendi?» «Lamoine, hai un problema.» «Io? Un problema? Quale sarebbe?» Gideon consultò un foglio di appunti scribacchiati. «Ho ricevuto una telefonata da un tizio che si chiama Roger Winters.» «Winters? Winters ti ha telefonato?» «Sì. Ha detto che c’è qualcosa che non va. Mi ha chiesto quante volte mi hai telefonato dal lavoro, cazzate del genere.» «Oh, mio Dio.» «Sì.» «Voleva sapere se mi avevi chiamato con il computer dell’ufficio usando VoIP o Skype» proseguì Gideon nelle vesti di Kenny. «Cristo, sarebbe una violazione della sicurezza! Non ho mai fatto una cosa del genere!» «Lui è convinto del contrario.» Si sentì Lamoine respirare affannosamente. «Ma non è vero!» «È quello che gli ho detto. Ascolta, Lamoine, laggiù stanno facendo un controllo sulla sicurezza, ci scommetterei qualsiasi cosa, e in qualche modo ti hanno preso di mira.» «E io che faccio?» Hopkins gemette, nel vero senso della parola. «Non ho fatto niente di male! Insomma, non avrei potuto fare una chiamata VoIP da qui neanche se avessi voluto!» «Perché no?» «Il firewall.» «Esistono scappatoie per aggirare un firewall.» «Stai scherzando? Siamo una struttura coperta da segretezza!» «C’è sempre un modo.» «Per l’amor del cielo, Kenny, è impossibile! Io sono nell’IT, ricordi? Proprio come te. C’è soltanto una porta di uscita nell’intera rete, e lascia passare
solo i pacchetti criptati con passphrase da nodi specifici, tutti sicuri. E anche in quel caso possono essere indirizzati esclusivamente a certi IP esterni. Tutti i documenti secretati di questo archivio sono digitalizzati. Sono iperparanoici, quando si tratta di sicurezza elettronica. Non avrei mai potuto fare una chiamata con Skype! Mi è impossibile perfino spedire una mail!» Gideon tossì, tirò su col naso, se lo soffiò. «Non conosci il numero della porta?» «Certo, ma non ho accesso alle passphrase settimanali.» «Il tuo capo, Winters, ce l’ha?» «No. Solo i tre pezzi più grossi dell’organizzazione ricevono la passphrase... il direttore, il vicedirettore e il direttore della sicurezza. Chi la sa può tranquillamente inviare per e-mail qualsiasi documento secretato qua dentro.» «Voi dell’IT non generate le passphrase?» «Scherzi? Arrivano dagli agenti segreti in una busta sicura. Voglio dire, vengono portate qui. Non entrano in nessun sistema elettronico: sono scritte a mano su un pezzo di carta del cazzo.» «Il problema è il numero della porta... è per caso scritto da qualche parte?» «È tenuto in cassaforte. Ma molti lo conoscono.» Gideon grugnì. «Ho l’impressione che ti stiano incastrando. Secondo me uno degli alti vertici ha combinato un casino e sta cercando di scaricare la colpa su qualcun altro. “Inchiodiamo Lamoine!”» «Non può essere.» «Succede in continuazione. Sono sempre i pesci piccoli che vengono fatti fuori. Ti devi tutelare, amico.» «Come?» Gideon lasciò che il silenzio si prolungasse. «Ho un’idea... potrebbe funzionare. Ripetimi il numero della porta.» «Sei uno cinque uno. Cosa ha a che fare con tutto il resto?» «Faccio delle verifiche. Ti richiamo a casa stasera. Nel frattempo non parlarne con nessuno, resisti, fa’ il tuo lavoro e tieni la testa bassa. Non richiamarmi: il tuo telefono è senza dubbio sotto controllo. Parleremo quando arriverai a casa.» «Non ci posso credere. Senti, grazie, Kenny. Davvero.» Gideon tossì di nuovo. «Ehi, a cosa servono gli amici?»
CAPITOLO 5 Mentre riagganciava il telefono, Gideon Crew cominciò a spogliarsi in fretta. Aprì l’anta dell’armadio e posò una borsa di vestiti sul letto. Tirò fuori una camicia pulita, fatta su misura, di Turnbull & Asser, la infilò sul torace scarno e la abbottonò. Poi fu il turno di un completo blu di sartoria Thomas Mahon. Indossò i pantaloni, si allacciò la cintura, si annodò una cravatta a fiori Spitalfield (dove diavolo andavano a prendere quei nomi, gli inglesi?), se la strinse con uno strattone deciso e mise la giacca. Si distribuì un po’ di gel sulle mani e lisciò all’indietro i capelli flosci. A mo’ di tocco finale applicò alle basette un po’ di grigio, che lo fece invecchiare all’istante di cinque anni. Si voltò per guardarsi allo specchio. Tremiladuecento dollari per il suo nuovo aspetto, camicia, completo, scarpe, cintura, cravatta, taglio di capelli, duemilanovecento per il viaggio, il motel, la macchina e l’autista. Il tutto caricato su quattro carte di credito nuove di zecca ottenute e utilizzate fino al tetto massimo solo per quello scopo, senza speranza alcuna di rifondere il debito. Benvenuti in America. L’auto lo stava già aspettando davanti il motel, una Lincoln Navigator nera; salì sul sedile posteriore e diede l’indirizzo all’autista. Mentre partiva, Gideon si mise comodo sulla morbida pelle, studiò l’espressione da assumere, si calmò e si sforzò di non pensare ai trecento dollari all’ora. O, se era per quello, al prezzo ben più elevato della truffa che stava per perpetrare, qualora lo avessero beccato... Il traffico era scorrevole e trenta minuti dopo la macchina superò il cancello di Fort Belvoir che ospitava la Direzione della gestione informazioni dell’INSCOM: un orrendo edificio basso risalente agli anni Sessanta situato in mezzo alle robinie e circondato da un enorme parcheggio. Da qualche parte in quell’edificio c’era senz’altro un agitato Lamoine Hopkins, e anche il rapporto del padre di Gideon. «Si fermi davanti all’ingresso e mi aspetti» disse. Si rese conto di avere la voce stridula per il nervosismo e deglutì cercando di rilassare i muscoli del collo. «Mi dispiace, signore, ma la scritta dice VIETATO SOSTARE.» Gideon si schiarì la gola. Con voce calma, bassa e sicura diede istruzioni: «Se qualcuno fa domande, dica che il membro del Congresso Wilcyzek è in riunione con il generale Moorehead. Se insistono, non faccia storie, si sposti e basta. Non dovrebbero volerci più di dieci minuti». «Sì, signore.» Scese dall’auto e s’incamminò sul viottolo pedonale; varcò la porta dirigendosi alla reception. Il vasto atrio era affollato di militari e civili
tronfi che andavano e venivano a passo spedito. Dio, quanto odiava Washington! Con un freddo sorriso si avvicinò alla donna al banco. Aveva i capelli acconciati con cura, in perfetto ordine: era chiaramente una persona ligia alla procedura, che prendeva il lavoro con serietà. Non avrebbe potuto chiedere di meglio. Quelli che seguivano le regole erano i più prevedibili. Sorrise e, rivolgendosi all’aria poco al di sopra della sua testa, disse: «Il membro del Congresso Wilcyzek per il generale Thomas Moorehead. Sono...» guardò l’orologio «... in anticipo di tre minuti». Lei si raddrizzò di scatto. «Certo, signore. Solo un istante.» Alzò il telefono, premette un tasto, parlò per un momento. Gli lanciò un’occhiata. «Mi scusi, signore, potrebbe ripetermi il suo nome, per favore?» Con un sospiro irritato lui lo ripeté, sottolineando con aria sprezzante che avrebbe dovuto ricordarselo: doveva impegnarsi a mantenere l’atteggiamento di chi si aspetta di essere sempre riconosciuto solo per il nome e la carica che ricopre. La donna increspò le labbra e tornò al telefono. Seguì una breve conversazione, quindi riagganciò. «Signore, sono terribilmente spiacente, ma il generale è fuori per tutta la giornata e alla sua segretaria l’appuntamento non risulta. È sicuro...?» Esitò quando lui la trafisse con un’occhiataccia. «Se sono sicuro?» domandò inarcando un sopracciglio. Ora la donna aveva le labbra completamente increspate e la sua perfetta acconciatura iniziò a tremare mentre cercava di controllarsi di fronte all’offesa. Gideon guardò l’orologio, poi lei. «Signora...?» «Wilson» disse. Estrasse un foglio dalla tasca e glielo porse. «Può verificare lei stessa.» Era una mail di sua invenzione, apparentemente della segretaria di Thomas Moorehead, in cui confermava l’appuntamento con il generale. Naturalmente Gideon sapeva che quel giorno non ci sarebbe stato. La Wilson la lesse e gliela restituì. «Mi rincresce davvero, ma a quanto sembra non c’è. Vuole che richiami la sua segretaria?» Lui continuò a fissarla con occhi glaciali. «Vorrei parlare personalmente con la segretaria.» Lei tentennò, sollevò il ricevitore e glielo porse, non prima di aver composto il numero. «Mi scusi, signora Wilson... è una questione riservata. Le spiace?» Il suo volto, che si era a poco a poco incupito, divenne d’un rosa intenso. Si alzò in silenzio e si allontanò dal banco. Gideon accostò il ricevitore all’orecchio. Il telefono stava squillando. Girandosi per impedire alla Wilson di vedere, premette un tasto e quasi impercettibilmente compose un altro interno, stavolta della segretaria del generale Shorthouse, il direttore in persona. «Solo i tre pezzi più grossi dell’organizzazione ricevono la passphrase... il direttore, il vicedirettore e il direttore della sicurezza...»
«Ufficio del direttore» rispose la voce della segretaria. Con un tono calmo e rapido, assumendo la voce dell’uomo che la sera prima lo aveva affrontato davanti i bidoni della spazzatura disse: «Sono Lamoine Hopkins dell’IT. Rispondo alla chiamata del generale. È urgente... c’è una breccia nella sicurezza». «Solo un istante.» Attese. Dopo un minuto il generale Shorthouse era in linea. «Sì? Qual è il problema? Io non l’ho chiamata.» «Mi dispiace, generale» disse Gideon imitando la voce di Hopkins ma ora con un tono basso, untuoso, «per la tremenda giornata.» «Di cosa sta parlando, Hopkins?» «Il suo sistema è fuori uso, signore, e quello di riserva non si è attivato.» «Non è vero.» «Generale, qui vediamo che tutta la sua rete è guasta. È una violazione della sicurezza, signore... e lei sa bene cosa significhi.» «È assurdo. Adesso il mio computer è acceso e funziona alla perfezione. E perché mi sta chiamando dalla reception?» «Questo fa parte del problema, signore. La matrice delle linee telefoniche è connessa alla rete informatica e dà false letture. Per favore, termini la sessione e la riapra, mentre io la traccio.» Gideon lanciò un’occhiata alla receptionist, che se ne stava ancora in disparte sforzandosi scrupolosamente di non origliare. Udì battere su una tastiera. «Fatto.» «Strano, non leggo nessuna attività a livello di pacchetto all’indirizzo della sua rete. Riprovi a chiudere la sessione.» Di nuovo sentì battere. «Niente, generale. Sembrerebbe che il suo ID sia stato compromesso. È una brutta faccenda: ci sarà una denuncia, un’indagine. E si tratta del suo sistema. Mi spiace tanto, signore.» «Non mettiamo il carro davanti ai buoi, Hopkins. Sono sicuro che sistemeremo la faccenda.» «Be’... possiamo fare un tentativo. Ma dovrò cercare di resettarlo e poi di accedere al suo account da qui. Ho bisogno però dei suoi ID e passphrase.» Silenzio. «Non sono certo di poterglieli dare.» «Forse non ne è al corrente, ma nel caso in cui la rete si resetti, la passphrase viene cambiata automaticamente, perciò lei sarà autorizzato a trasmetterla internamente all’IT. Se la cosa le crea imbarazzo, signore, la capisco, ma allora dovrò chiamare l’Agenzia per la sicurezza interna per ottenerla. Sono davvero spiacente...» «D’accordo. Non conoscevo questa prassi.» Diede a Gideon passphrase e ID. Lui le annotò. Dopo un istante, con un enorme sollievo nella voce, annunciò: «Fiuu! Il reset ha risolto il problema, signore. A quanto pare era solo uno schermo bloccato. Non una violazione della sicurezza. Lei è a posto».
«Magnifico.» Gideon premette il pulsante e si voltò verso la receptionist. «Mi spiace averla disturbata» disse porgendole il ricevitore. «Abbiamo risolto.» Uscì alla svelta dall’edificio raggiungendo l’auto in attesa. Trenta minuti dopo era di nuovo nella stanza di motel, disteso sul letto, con il laptop collegato a un computer non sicuro nel ventre della General Services Administration che aveva sabotato a distanza. Aveva scelto di prendere di mira la GSA, il vasto sistema burocratico del governo che gestiva forniture, attrezzature, procedure e simili, perché era un bersaglio abbastanza facile nonostante fosse all’interno del perimetro di sicurezza. Hopkins gli aveva spiegato, involontariamente, chiaro, che l’archivio dell’INSCOM poteva inviare documenti solo a indirizzi IP preautorizzati, e purtroppo anche questi si trovavano perlopiù all’interno dei perimetri riservati. Tranne uno. I National Security Archives presso la George Washington University. Quell’archivio privato, il più grande del mondo a eccezione della Biblioteca del Congresso, raccoglieva una gran quantità di documenti governativi tra cui, in pratica, tutto ciò che veniva per prassi reso noto nell’ambito della Revisione obbligatoria di declassificazione, il programma governativo di divulgazione dei documenti segreti in conformità con le numerose leggi che lo imponevano. Ogni giorno si riversava nell’archivio una vera e propria marea di informazioni. Mediante il computer della GSA Gideon inviò una richiesta automatica all’archivio sicuro dell’INSCOM attraverso la porta 6151, dando istruzione che il file PDF di un certo documento secretato venisse trasmesso utilizzando la medesima porta per essere aggiunto al consueto mucchio di dati declassificati della Guerra Fredda, destinati ai file batch d’uso quotidiano dei National Security Archives. Il file fu trasmesso; passò attraverso il firewall nell’unica porta autorizzata dove la passphrase del generale Shorthouse fu esaminata e approvata. Il documento fu in seguito indirizzato alla George Washington University e immagazzinato con milioni di altri in un database dell’archivio. Gideon era dunque riuscito a predisporre la declassificazione errata di un dispaccio secretato e lo aveva nascosto nell’enorme flusso di dati che usciva dal perimetro di sicurezza governativo. Ora rimaneva solo da recuperarlo. Il mattino dopo, verso le undici, un professore ospite tutto scompigliato ma innegabilmente affascinante di nome Irwin Beauchamp, che indossava una giacca di tweed, pantaloni di velluto a coste male assortiti, un paio di scarpe logore e una cravatta di maglia (trentadue dollari, Esercito della salvezza), entrò nella biblioteca Gelman della George Washington University e fece richiesta di una caterva di documenti. Non era ancora registrato nel sistema e aveva perso la tessera provvisoria della biblioteca, ma una signora gentile ebbe pietà di quel tipo con la testa fra le nuvole e gli permise di accedere al sistema. Mezz’ora dopo Beauchamp lasciò l’edificio con una cartella manila
sottile sotto il braccio. Tornato al motel, Gideon Crew dispose in fila i fogli con mano tremante. Era arrivato il momento della verità, quella verità che lo avrebbe reso libero. O più infelice.
CAPITOLO 6 Critica del modello di crittografia EVP-4 Trebbiatrice basato sui logaritmi discreti: strategia di attacco teorica di criptoanalisi mediante una backdoor che utilizza un gruppo di punti di torsione di una curva ellittica di caratteristica. Gideon Crew aveva studiato un bel po’ di matematica avanzata al college e in seguito al Massachusetts Institute of Technology, ma quell’articolo andava oltre la sua comprensione. Tuttavia ne capì abbastanza da rendersi conto di avere tra le mani una pistola fumante. Quella era la relazione scritta dal padre per criticare la Trebbiatrice, la relazione che secondo sua madre doveva essere stata distrutta. Invece no. Molto probabilmente il bastardo responsabile, ritenendo troppo difficile o rischioso eliminare del tutto il documento, lo aveva ficcato in un archivio che credeva non sarebbe mai stato declassificato. In fondo quale generale americano dell’era del muro di Berlino avrebbe pensato che la Guerra Fredda potesse finire? Continuò a leggere con il cuore che gli batteva all’impazzata arrivando infine agli ultimi paragrafi. Erano scritti in arido «scienziatese», ma ciò che dicevano era dinamite pura. In conclusione è opinione dell’autore che il modello di crittografia EVP4 Trebbiatrice, basato sulla teoria dei logaritmi discreti, sia difettoso. L’autore ha dimostrato che esiste una classe potenziale di algoritmi, basata sulla teoria delle funzioni ellittiche definite sul piano complesso, in grado di risolvere certe funzioni logaritmiche discrete nei parametri di calcolo in tempo reale. Se l’autore non è stato finora capace di individuare algoritmi specifici, ha qui dimostrato la possibilità di farlo. Il modello Trebbiatrice proposto è pertanto vulnerabile. Se venisse utilizzato, l’autore ritiene che, vista l’elevata qualità della ricerca matematica sovietica, i codici sviluppati in base a questo modello potrebbero essere decifrati in un periodo relativamente breve. L’autore raccomanda fortemente di non adottare nella forma attuale il modello di crittografia EVP-4 Trebbiatrice. Eccola. La prova che il padre era stato incastrato. E poi assassinato. Gideon Crew sapeva già tutto del responsabile: il tenente generale (attualmente in pensione) Chamblee S. Tucker, amministratore delegato della Tucker and Associates, una delle società di maggior spicco di K Street nel campo delle industrie della difesa. La Tucker and Associates rappresentava molti dei principali appaltatori della difesa del Paese e il generale si era adoperato con tutta la sua influenza per finanziarla. Faceva soldi a palate; tuttavia, a causa del suo stile di vita smodato, finivano
in fretta. Il documento in sé significava poco. Gideon sapeva che tutto poteva essere contraffatto o dichiarato tale. Il documento non era il punto di arrivo: era il punto di partenza per la sorpresina escogitata per Chamblee Tucker. Usando il computer remoto precedentemente sabotato alla General Services Administration, privò il documento dei contrassegni di segretezza e lo inviò a una decina di grandi database informatici nel mondo. Dopo averlo messo al sicuro dall’eventuale distruzione, mandò una mail direttamente dal suo computer all’indirizzo [email protected] con allegato il documento. La lettera d’accompagnamento diceva: Generale Tucker, so cosa ha fatto. So perché lo ha fatto. So come lo ha fatto. Lunedì invierò il file allegato a vari corrispondenti del «Post», del «Times», dell’Associated Press e di canali di notiziari... con una spiegazione. Le auguro un buon fine-settimana. Gideon Crew
CAPITOLO 7 Chamblee S. Tucker era seduto dietro un’immensa scrivania nello studio rivestito di pannelli di quercia della sua casa a McLean, in Virginia. In una mano soppesava pensieroso un fermacarte di vetro di Murano sui due chili. A settant’anni, era in forma per la sua età e ne andava fiero. Si passò l’oggetto nell’altra mano e lo strinse. Bussarono alla porta. «Avanti.» Posò il fermacarte con estrema cura. Charles Dajkovic entrò nello studio. Era in abiti borghesi ma il portamento e il fisico tradivano l’appartenenza militare: capelli rasati sulla nuca e attorno alle orecchie, collo massiccio, postura rigida, occhi azzurro acciaio. Un paio di baffi brizzolati tagliati corti erano l’unica concessione alla vita civile. «Buongiorno, generale» disse. «Buongiorno, Charlie. Siediti. Prendi un caffè.» «Grazie.» L’uomo si accomodò sulla sedia. Tucker indicò un vassoio d’argento su un tavolino lì accanto con la caffettiera, lo zucchero, la panna e alcune tazze. Dajkovic si servì. «Ora, vediamo...» Il generale s’interruppe. «Sei nella Tucker and Associates da quanto... dieci anni?» «Pressappoco, signore.» «Ma io e te ci conosciamo da molto più tempo.» «Sì, signore.» «Abbiamo un passato alle spalle. L’Operazione Furia Urgente. Per questo ti ho assoldato: perché sul campo di battaglia si instaura un rapporto di vera fiducia reciproca. Se non hanno combattuto insieme gli uomini non possono conoscere appieno il significato delle parole “fiducia” e “lealtà”.» «Concordo, signore.» «Ecco perché ti ho chiesto di venire a casa mia. Perché posso fidarmi di te.» Tacque. «Lascia che ti racconti una storia. Ha una morale ma dovrai scoprirla da solo. Non posso entrare nei dettagli e ne capirai anche il motivo.» Dajkovic fece un cenno d’assenso. «Hai mai sentito parlare di John Walker Lindh?» «Il “talebano americano”?» «Esatto. E di Adam Gadahn?» «Non è quel tizio che si è unito ad al-Qaeda e fa i video per Bin Laden?» «Proprio così. Sono venuto in possesso di informazioni molto segrete su un terzo americano convertito... molto più pericoloso.» Tucker tacque di nuovo. «Il padre di quest’uomo ha lavorato per l’INSCOM quando io ero là. È saltato fuori che era un traditore: passava informazioni ai sovietici. Ti ricorderai forse delle conseguenze: ha preso un ostaggio al vecchio quartier generale. I
nostri cecchini lo hanno ucciso. Suo figlio ha assistito a tutto.» «Ricordo l’episodio.» «Non sai, però, perché anche questo è secretato, che per colpa sua hanno smascherato ventisei agenti. Una notte sono stati beccati e torturati a morte nei gulag sovietici.» L’altro non aprì bocca. Posò la tazza di caffè ormai vuota. «Questi sono solo gli antefatti. Non dev’essere stato facile crescere in quell’ambiente... A ogni modo, proprio come Lindh e Gadahn, il tizio si è convertito. Solo che non ha fatto niente di stupido come andare in un campo di addestramento in Afghanistan. Ha frequentato il MIT e adesso lavora a Los Alamos. Si chiama Gideon Crew. C-R-E-W.» «Chi gli ha dato il nullaosta di segretezza?» «Amici potenti in posizioni altolocate. Non ha commesso errori. È bravo, è assolutamente convincente, autentico. Ed è il canale di al-Qaeda per arrivare alla Bomba.» Dajkovic si dimenò sulla sedia. «Perché non lo arrestano o non gli revocano almeno il nullaosta di segretezza?» Tucker si protese. «Charlie, sei davvero così ingenuo?» «Mi auguro di no, signore.» «Cosa pensi stia accadendo in questo Paese? Prima avevamo infiltrati rossi durante la Guerra Fredda, adesso abbiamo infiltrati jihadisti. Jihadisti americani.» «Capisco.» «Ora, con il genere di protezione ad alto livello di cui gode, è intoccabile. Non c’è niente di concreto, naturalmente. Queste informazioni mi sono piovute addosso per caso e non sono tipo da rinunciare a difendere il mio Paese. Immagina cosa farebbe al-Qaeda con un’atomica.» «È inconcepibile.» «Charlie, ti conosco. Eri l’uomo migliore delle forze speciali al mio comando. Hai capacità che nessun altro possiede. La domanda è: quanto ami il tuo Paese?» L’uomo parve gonfiarsi sulla sedia. «Non ha nemmeno bisogno di farmi questa domanda, signore.» «Lo so. Per questo sei l’unico a cui ho osato rivelare quest’informazione. Ti posso dire soltanto che a volte un uomo deve agire da patriota.» Dajkovic rimase in silenzio. Sul suo viso segnato dalle intemperie si era diffuso un vago rossore. «L’ultima volta che l’ho controllato, il soggetto era a Washington. Aveva pernottato al Luna Motel a Dodge Park. Crediamo stia per mettersi in contatto con un compagno jihadista. Potrebbe essere pronto a passare dei documenti.» L’altro non replicò. «Non so quanto vi resterà o dove andrà dopo. Ha con sé un computer, pericoloso quanto lui. Capisci?» «Capisco perfettamente. E la ringrazio per l’opportunità che mi offre.»
«Charlie, grazie a te, dal profondo del cuore.» Afferrò la mano di Dajkovic e poi, con un gesto spontaneo di commozione, lo attirò a sé e lo stritolò in un abbraccio. Quando Dajkovic se ne andò, Tucker credette di aver visto una lacrima nei suoi occhi.
CAPITOLO 8 La Skyline Drive seguì la curva della Stormtower Ridge e poi comparve il Manahoac Lodge and Resort, una serie di condomini e case dai tetti spioventi che attorniavano un albergo e un campo da golf alla base del monte Stormtower. Sullo sfondo i monti Blue Ridge si perdevano in lontananza nella caligine. Quando l’auto si avvicinò all’ingresso del resort, Dajkovic sollevò il piede dall’acceleratore e si fermò al cancello. «Devo solo registrarmi» disse, e lo lasciarono passare con un gesto della mano. Crew aveva lasciato un indirizzo al Luna Motel «nel caso qualcuno avesse avuto bisogno di trovarlo», secondo l’impiegato. Adesso alloggiava in quel resort: isolato, raggiungibile solo dopo un lungo viaggio in macchina e sorvegliato da decine di telecamere di sicurezza. Perciò, come aveva detto Tucker, Crew si stava preparando a incontrare un compagno... oppure era una trappola. La seconda eventualità sembrava più probabile. Ma una trappola per chi? E a che scopo? Dajkovic imboccò il viale d’accesso e parcheggiò davanti l’ingresso allungando all’addetto una banconota da cinque dollari. «Torno tra cinque minuti.» «Oh, sì» disse la signora al banco della reception in risposta alla sua domanda. «Gideon Crew ha effettuato il check-in stamattina.» Cliccò sulla tastiera. «Ha lasciato detto per lei che sarebbe salito sul monte Stormtower...» «Per me?» «Be’» rispose, «secondo il messaggio, un uomo sarebbe venuto per incontrarlo e dovevamo riferirgli dove era diretto.» «Capisco.» «Qui c’è scritto che sarebbe salito sullo Stormtower dal sentiero Sawmill. Prevede di tornare per le sei.» «Quanto richiede la salita?» «Circa due ore da ogni versante.» La donna, con un sorriso sornione, lo squadrò da capo a piedi. «Per lei probabilmente meno.» Dajkovic controllò l’ora. Le due. «Deve essere appena partito.» «Sì. Il messaggio è stato lasciato alla reception... venti minuti fa.» «Ha una cartina della montagna?» «Certo.» L’impiegata prese un’ottima carta topografica con i sentieri ben segnati. Dajkovic la prese e la portò con sé all’auto. Il sentiero Sawmill partiva in fondo alla strada; a giudicare dalla mappa, era tortuoso e risaliva la cresta
della montagna seguendo apparentemente una vecchia strada tagliafuoco. Crew dava indicazioni perché il suo contatto lo trovasse? Possibile? Improbabile, piuttosto. Nessuno che lavorasse nello spionaggio sarebbe stato così maldestro da lasciare una pista del genere. Sì, sembrava una trappola a tutti gli effetti. Non per lui in particolare, ma per qualcuno che forse gli stava dando la caccia. Se così era, allora Crew si trovava sulla montagna lungo il sentiero Sawmill, in attesa di tendere un’imboscata a chiunque lo seguisse. Dajkovic studiò il percorso. Una via più rapida, più diretta per la cima saliva dritta lungo lo ski-lift principale, sul versante posteriore del monte. Attraversato il resort e superato il campo da golf, Dajkovic arrivò al parcheggio dell’area sci. Scese e aprì il bagagliaio, dal quale prese una custodia. Tornato in macchina, la aprì ed estrasse una Colt M1911, indossò una fondina ascellare, vi infilò la pistola e si mise una giacca a vento. Un coltello a lama fissa trovò collocazione nella cintura, uno più piccolo nello scarpone; si cacciò una Beretta calibro 22 nella tasca dei pantaloni. In uno zainetto buttò un po’ di munizioni, un binocolo e due bottiglie d’acqua. Si concentrò di nuovo sulla cartina. Se Crew aveva in mente un’imboscata, c’erano un paio di posti ovvi per tenderla, là dove il sentiero Sawmill attraversava una zona di gobbe brulle. Mentre fissava la mappa, si convinse che lì sarebbe avvenuto l’agguato.
CAPITOLO 9 Dajkovic si avviò lungo lo ski-lift a passo svelto. Erano ottocento metri fino alla cima, tutti ripidi, ma lui era in perfetta forma e avrebbe impiegato dieci minuti a coprire la distanza; poi, raggiunta la vetta del monte, sarebbe sceso per il sentiero Sawmill, si sarebbe fatto strada nel bosco per raggiungere la sommità di un picco secondario identificato sulla mappa, il posto ideale da cui sorvegliare la zona di gobbe brulle, localizzare il soggetto in agguato e tendergli a sua volta un’imboscata. Cinque minuti dopo, a metà pendio, comparve una baita di manutenzione dello ski-lift, chiusa per l’estate. Dajkovic la aggirò. Mentre la superava udì un boom! spaventoso e sentì all’improvviso un violento colpo sulla parte superiore del dorso che, unito al suo stesso slancio verso l’alto, lo fece cadere in avanti sul pendio e lo lasciò senza fiato. Dibattendosi per prendere la Colt calibro 45, lottando contro il dolore alla schiena e ansimando per respirare, uno scarpone gli premette sul collo e il muso caldo di un’arma gli toccò la testa. «Mani divaricate, per favore.» Lui s’immobilizzò. La sua mente lavorava all’impazzata cercando di pensare nonostante il dolore. Allargò lentamente le mani. «Ti ho steso con un proiettile di gomma» disse la voce, «ma adesso ci sono pallettoni doppio zero.» La canna restò contro la sua nuca mentre la persona, senza dubbio Crew, lo perquisiva, sequestrandogli la calibro 45, la calibro 22 e il pugnale dalla cintura. Non trovò il coltello nello scarpone. «Girati tenendo le mani in vista.» Con un sussulto Dajkovic rotolò sulla terra del sentiero. Si ritrovò davanti un uomo alto e magro sui trentacinque anni con capelli neri dritti, un naso lungo e due occhi azzurri intensi, vivi. Con mano salda impugnava un Remington 12. «Un bel pomeriggio, per una camminata, vero, sergente? Mi chiamo Gideon Crew.» Dajkovic lo fissò. «Esatto. So un bel po’ di cose su di te, Dajkovic. Che razza di storia ti ha raccontato Tucker per mandarti qua fuori a cercarmi?» L’altro rimase zitto; la mente lavorava ancora frenetica. Era mortificato per essersi fatto prendere in contropiede. Ma non tutto era perduto: possedeva ancora il coltello. E anche se Crew aveva almeno quindici anni meno di lui sembrava debole, non propriamente un atleta. Crew gli rivolse un sorriso. «In realtà immagino cosa ti possa aver detto il buon generale.» Ancora nessuna risposta. «Dev’essere stata proprio una bella storia per trasformarti in un assassino prezzolato. Di solito non sei il tipo che spara a qualcuno nella schiena. Probabilmente ti ha detto che sono un traditore. Forse in combutta con al-
Qaeda... suppongo sia la minaccia du jour. Senza dubbio abuso della mia posizione a Los Alamos, tradisco il mio Paese. Deve aver toccato tutti i tuoi punti deboli.» Dajkovic lo fissò meravigliato. Quale intuito! «Ti avrà detto anche di quel traditore di mio padre, di cosa ha combinato facendo uccidere quegli agenti.» Rise malinconico. «E forse che la slealtà è una tradizione di famiglia.» La mente di Dajkovic si stava schiarendo. Aveva combinato un casino, ma doveva solo recuperare il coltello nello scarpone e Crew sarebbe stato un uomo morto, anche se fosse riuscito a sparare un colpo di fucile. «Posso mettermi a sedere?» chiese. «Lentamente e non fare scherzi.» Dajkovic si tirò su. Il dolore era quasi scomparso. Le costole rotte erano così: smettevano di farti male per un po’, poi il dolore tornava, due volte peggio. Arrossì all’idea che quel rammollito lo avesse steso solo con un proiettile di gomma. «Ho una domanda per te» riprese Crew. «Come sai che il vecchio Tucker ti abbia detto la verità?» Dajkovic non aprì bocca. Notò l’anulare della mano destra di Crew, privo dell’ultima falange. «Ero piuttosto sicuro che Tucker mi avrebbe piazzato alle calcagna un tirapiedi perché non è tipo da mettersi in prima linea. Sarebbe stato qualcuno di sua fiducia, lo sapevo, qualcuno che aveva servito sotto di lui. Ho controllato i suoi dipendenti e avevo previsto che saresti stato tu. Hai comandato una squadra SOF dei marine nell’invasione di Grenada difendendo la facoltà di medicina americana prima dello sbarco. Hai anche fatto un buon lavoro: nemmeno uno studente è rimasto ferito.» L’altro rimase impassibile in attesa della sua occasione. «Allora, hai già preso una decisione sul mio conto? Sei disposto ad aprire bene le orecchie? Alcuni fatti potrebbero non concordare del tutto con quello che ti ha raccontato il generale Tucker.» Lui non rispose. Non avrebbe dato la minima soddisfazione a quell’imbecille. «Comunque ho il fucile carico, perciò dovrai starmi a sentire. Ti piacciono le favole, sergente? Eccotene una; purtroppo alla fine nessuno vive felice e contento. C’era una volta, nel lontano agosto del 1988, un bambino di dodici anni...» Dajkovic la ascoltò. Erano stronzate, lo sapeva ma prestò attenzione perché un buon soldato conosceva il valore delle informazioni, anche di quelle false. Richiese solo cinque minuti. Era una storia piuttosto buona, ben raccontata. Quei soggetti, in genere, erano straordinariamente abili a mentire. Quand’ebbe finito, Crew estrasse una lettera dalla tasca e gliela gettò ai piedi. «Ecco la relazione scritta da mio padre a Tucker. La ragione per cui è stato assassinato.» Dajkovic non si curò di raccoglierla. Per un istante i due rimasero immobili a fissarsi. «Be’» brontolò infine Gideon scuotendo la testa, «immagino d’essere stato ingenuo a pensare di poter convincere un
vecchio soldato che il suo adorato comandante è un bugiardo, un codardo e un assassino.» Rifletté per un momento. «Dovrai portare a Tucker un messaggio. Da parte mia.» Dajkovic rimase cupo, la mascella contratta. «Diglielo: lo distruggerò come lui ha distrutto mio padre. Sarà lento e doloroso. La relazione che ho consegnato ai giornali porterà a un’indagine. Senza dubbio qualche agenzia di stampa, facendo appello al Freedom of Information Act, presenterà una richiesta per confermare l’autenticità del documento. Quando la verità verrà a galla, l’integrità di Tucker sarà compromessa. Nel suo campo, anche se sono tutti corrotti, una facciata di onestà è preziosa. È oro puro. La sua attività andrà a puttane. Povero Tucker! È così indebitato! Il mutuo sulla sua McVilla a McLean è insoluto. Deve una caterva di soldi per quel pacchiano pied-à-terre al golf club Pocono, l’appartamento a New York e lo yacht a Jersey Shore.» Crew scosse tristemente il capo. «Sai, il suo yacht si chiama Furia Urgente. Buffo, vero? L’unico pallido momento di gloria di quella mezza calzetta. I Pocono, McLean, Jersey Shore... il generale non può certo essere accusato di buon gusto, vero? Certo, la fidanzata dell’Upper East Side è stata un passo nella giusta direzione, ma è un uccellino affamato, ha il becco spalancato giorno e notte. Non ha risparmiato denaro da bravo ragazzo. La bancarotta tuttavia sarà solo l’inizio perché l’indagine alla fine dimostrerà tutto ciò che ti ho appena detto: lui ha incastrato mio padre. Lui stesso è il responsabile della morte di quei ventisei agenti. Finirà in prigione.» Dajkovic si accorse che Crew lo stava guardando. Di nuovo non aprì bocca. L’aggressore si sentiva sempre più frustrato per la sua mancanza di reazioni. «Permetti un’altra domanda» aggiunse infine Gideon. Lui attese. L’occasione stava arrivando. Se lo sentiva nelle ossa. «Hai visto davvero Tucker in combattimento? Cosa sai di quell’uomo come soldato? Scommetto che non metteva piede a terra finché la testa di ponte non era stata del tutto sicura.» Dajkovic non poté fare a meno di ricordare quanto fosse rimasto deluso dal fatto che il generale era arrivato per ultimo a Grenada. Ma era uno dei principali comandanti, e quello era il protocollo previsto dall’esercito. «Fanculo» sbottò Crew arretrando di un passo. «È stato un errore aspettarmi che tu fossi capace di ragionare. Hai il messaggio. Va’ a consegnarlo.» «Posso alzarmi?» «Sicuro! Tira su quel tuo misero culo e portalo via di qui.» Il momento era arrivato. Dajkovic posò una mano a terra per sollevarsi; quando la mano passò accanto allo scarpone, estrasse il coltello e con un movimento fluido lo lanciò mirando al cuore di Crew.
CAPITOLO 10 Gideon Crew vide il rapido movimento, il lampo dell’acciaio; si gettò di lato ma era troppo tardi. Il coltello gli si conficcò nella spalla sprofondando fin quasi all’impugnatura. Mentre cadeva all’indietro cercando di sollevare il fucile, Dajkovic gli si buttò addosso spintonandolo con forza smisurata e strappandogli il fucile dalle mani. Udì uno scricchiolio quando la testa gli rimbalzò su una pietra. Per un istante tutto divenne nero, ma subito si riprese. Gideon era steso scomposto a terra e fissava la canna del suo fucile. Sentiva la lama nella spalla, calda, rovente. Il sangue sgorgava. Allungò una mano per estrarre l’arma. «No.» Dajkovic indietreggiò. «Tieni le mani lontane dal corpo. E di’ le tue preghiere.» «Non farlo» mormorò Crew. Dajkovic inserì un proiettile nella camera. Gideon si sforzò di pensare con lucidità, di scacciare la confusione dalla mente. «Cosa sai di me oltre a quello che ti ha detto Tucker? Cristo, non sei capace di ragionare con la tua testa?» Il soldato alzò il fucile e lo guardò negli occhi. Crew si sentì in preda alla disperazione: se fosse morto, il padre non sarebbe mai stato vendicato e Tucker non avrebbe mai ricevuto la meritata punizione. «Non sei un killer» mormorò. «Per te farò un’eccezione.» Il dito di Dajkovic si contrasse sul grilletto. «Se mi uccidi, almeno fammi un favore: prendi quella busta. Indaga sulla storia che ti ho raccontato. Segui le prove. E poi fa’ la cosa giusta.» L’altro si bloccò. «Trova qualcuno che c’era nel 1988. Vedrai. Mio padre è stato ucciso a sangue freddo... con le mani in alto. E quella relazione è vera. Alla fine verrai a conoscenza anche di questo. Perché se mi togli la vita devi anche assumerti la responsabilità di scoprire la verità.» Dajkovic lo fissava con una strana intensità. Non stava premendo il grilletto... non ancora. «Non è inverosimile che un tizio con un nullaosta di segretezza a Los Alamos passi segreti ad al-Qaeda? Ma il generale Tucker lo sa e chiede a te di occupartene... ti sembra davvero logico?» «Hai amici potenti.» «Amici potenti? Chi, per esempio?» A poco a poco Dajkovic abbassò il fucile. Aveva il volto lucido di sudore ed era pallido. Sembrava quasi sul punto di svenire. All’improvviso si inginocchiò e fece per afferrare il coltello nella sua spalla.
Crew si girò. Aveva fallito. Dajkovic gli avrebbe tagliato la gola e avrebbe lasciato il suo corpo lì sul terreno. Afferrato il manico, Dajkovic lo estrasse. Gideon gridò. Ebbe la sensazione che gli avessero bruciato la carne con un ferro incandescente. Ma Dajkovic non fece per colpirlo di nuovo: si tolse invece la camicia e lo utilizzò per tagliarla a strisce. Con la mente annebbiata dal dolore e dalla sorpresa, Gideon lo osservò mentre gli bendava la spalla. «Tienile giù» gli ordinò Dajkovic. Gideon premette la stoffa contro la ferita. «Sarà meglio portarti all’ospedale.» Lui annuì respirando affannosamente. Sentiva già il sangue impregnare la stoffa. Cercò di vincere il dolore lancinante, peggiorato ora che il coltello non c’era più. Dajkovic gli diede una mano a mettersi in piedi. «Puoi camminare?» «Da qui è tutta discesa» ansimò Crew. Dajkovic in parte lo trasportò, in parte lo trascinò lungo il ripido pendio. Dopo quindici minuti erano alla macchina. Lo aiutò a salire sul sedile del passeggero e il sangue ne macchiò la pelle. «È a noleggio?» gli chiese Gideon guardando l’auto. «Perderai la cauzione.» Il vecchio soldato chiuse la portiera, girò attorno e salì al posto del guidatore avviando il motore. Aveva il volto pallido, deciso, cupo. «Allora mi credi?» «Puoi ben dirlo.» «Cosa ti ha fatto cambiare idea?» «Semplice» rispose Dajkovic uscendo in retro dal parcheggio. Inserì la marcia. «Quando un uomo capisce che sta per morire, tutto si riduce all’essenziale. Tutto viene purificato. Niente più balle. L’ho visto in battaglia. E l’ho visto nei tuoi occhi, quando credevi io stessi per ucciderti. Ho visto il tuo odio, la tua disperazione... e la tua sincerità. Allora ho capito che stavi dicendo il vero. Quindi...» esitò, diede gas e la gomma stridette sull’asfalto mentre l’auto schizzava via. «Quindi» riprese, «Tucker mi ha mentito. E adesso sono molto arrabbiato.»
CAPITOLO 11 «Cosa diavolo significa?» Tucker si alzò di colpo quando Dajkovic spinse Gideon nello studio con le manette ai polsi. Il generale girò attorno alla scrivania, estrasse una calibro 45 e la puntò contro Crew. Per la prima volta Gideon si ritrovò faccia a faccia con la sua nemesi. Di persona Chamblee Tucker aveva l’aspetto ancora più robusto e ben curato che nella decina di immagini studiate nel corso degli anni. Il collo debordava un po’ dal colletto inamidato, le guance luccicavano per la rasatura perfetta, i capelli erano tagliati a spazzola. La faccia era una ragnatela di vene, tipico di un bevitore. La tenuta era in puro stile Washington: cravatta classica, completo blu, scarpe da quattrocento dollari. Lo studio senz’anima era tutt’uno con l’uomo: pannelli di legno, mobili antichi di interior design, tappeti persiani, una parete tappezzata di foto ed encomi. «Sei pazzo?» sbottò Tucker. «Non ti avevo detto di portarlo qui. Mio Dio, Dajkovic, credevo riuscissi a gestire questa cosa da solo!» «L’ho portato qui» replicò l’ex soldato, «perché mi ha raccontato una storia completamente diversa dalla sua versione. E, accidenti, sembra proprio credibile.» Il generale Tucker lo fissò severo. «Credi a questo stronzo e non a me?» «Generale, volevo solo sapere cosa succede. Le copro le spalle da anni. Svolgo i suoi incarichi, puliti e sporchi, e continuerò a farlo. Ma sul fianco di quella montagna è accaduta una cosa strana... ho iniziato a credere a quest’uomo.» «Cosa diavolo stai cercando di dirmi?» «Comincio a nutrire qualche dubbio, e quando accade non sono più un soldato efficiente. Vuole che mi liberi di lui? Non c’è problema. Seguirò i suoi ordini. Ma devo conoscere la verità prima di piantargli un proiettile in testa.» Tucker lo fissò a lungo, dopodiché interruppe il contatto visivo e si passò una mano sulla testa ispida. Si avvicinò a una vetrinetta ben lucidata, aprì un cassetto, estrasse un bicchiere e una bottiglia di Paddy, li sbatté entrambi sul mogano e si versò due dita di liquore. Lo tracannò in una sorsata. Poi lanciò un’occhiata a Dajkovic. «Qualcuno ti ha visto entrare?» «No, signore.» Lo sguardo di Tucker andava da Dajkovic a Gideon, infine si fermò su Dajkovic. «Per la precisione, cosa ti ha detto?» «Che suo padre non era un traditore e lui non è un terrorista né in combutta con i jihadisti.» Il generale posò con cura il bicchiere. «D’accordo. Non ti ho raccontato tutta la verità. Suo padre non passava segreti ai
sovietici.» «Cosa ha fatto?» «Ricordati, Dajkovic: eravamo in guerra, nella Guerra Fredda. E in guerra accadono cose brutte. Ci sono danni collaterali. Avevamo avuto un problema: era stato commesso un errore. Avevamo sviluppato un codice difettato e alcuni agenti sono morti. La notizia non doveva assolutamente trapelare altrimenti avrebbe affondato l’intera sezione di crittologia in un momento in cui avevamo un disperato bisogno di una nuova serie di codici. Suo padre dovette essere sacrificato per il bene superiore. Ricordi com’era? O noi o loro.» Dajkovic annuì. «Sì, signore.» «E adesso Gideon Crew, a più di vent’anni di distanza, mi sta minacciando, ricattando. Cerca di fare a pezzi tutto ciò che abbiamo costruito, di distruggere non solo la mia reputazione ma anche quella di un intero gruppo di americani patrioti devoti. Per questo deve essere eliminato. Capisci?» «Capisco» rispose Dajkovic accennando un sorriso. «Non ha bisogno di rigirare i fatti per convincermi a stare con lei al cento per cento, qualsiasi cosa le serva.» «È chiaro ciò che va fatto?» «Perfettamente.» Gideon non disse niente e attese. Tucker lanciò un’occhiata alla bottiglia e al bicchiere. «Ci beviamo sopra?» «No, grazie.» Il generale si versò un altro bicchiere di whisky e lo butto giù. «Fidati, è la cosa migliore. Ti stai guadagnando la mia eterna gratitudine. Portalo fuori dal garage e accertati che nessuno ti veda.» Il sottoposto assentì e diede una leggera spinta a Gideon. «Andiamo.» Crew si girò e si avviò verso la porta con Dajkovic alle calcagna. Attraversarono l’atrio, si diressero verso la cucina e raggiunsero il fondo, dove evidentemente una porta conduceva al garage. Gideon posò la mano ammanettata sulla maniglia. Chiusa a chiave. Nello stesso istante notò un rapido movimento con la coda dell’occhio e si rese subito conto di cosa stava accadendo. Gettandosi di lato, si buttò contro la spalla di Dajkovic proprio mentre Tucker faceva fuoco, ma il proiettile colpì lo stesso il militare nella schiena facendolo sbattere in avanti contro la porta. La pistola gli scivolò via. L’uomo si accasciò sul pavimento con un lamento. Mentre Gideon si voltava e si lanciava a terra, scorse Tucker sulla soglia della cucina a braccia tese e con la pistola in pugno. L’arma sparò di nuovo, stavolta contro di lui, creando un buco nel pavimento di piastrelle messicane a pochi centimetri dalla sua faccia. Gideon saltò in piedi facendo una finta verso il generale, come se lo caricasse. Il terzo sparo arrivò proprio mentre spiccava un balzo a novanta gradi sopra
Dajkovic e afferrava la calibro 45, finita contro la parete in fondo. Si girò nel momento stesso in cui il quarto colpo gli passava sibilando accanto all’orecchio. Alzò la calibro 45 ma il generale indietreggiò oltre la soglia. Senza perdere tempo Gideon afferrò il ferito per la camicia e lo trascinò al sicuro dietro la lavatrice, quindi si mise al riparo. Pensò frenetico. Cosa avrebbe fatto Tucker? Non poteva lasciarli vivere, non poteva chiamare la polizia, non poteva scappare. Era una lotta all’ultimo sangue. Scrutò la soglia vuota. Conduceva nella grande e buia sala da pranzo. Tucker li aspettava là. Udì tossire. All’improvviso Dajkovic grugnì e si alzò. Quasi simultaneamente echeggiarono alcuni rapidi spari. Gideon si abbassò e altri due proiettili si conficcarono nella lavatrice; l’acqua fuoriuscì d’un tratto da un tubo. Crew sparò un colpo, ma Tucker era già scomparso nella sala da pranzo. «Passami l’arma» ansimò Dajkovic. Senza attendere risposta il suo massiccio pugno si chiuse sulla 45 che Gideon stringeva in mano e la afferrò. Si sforzò di alzarsi. «Aspetta. Attraverserò di corsa la stanza fino al tavolo da cucina, là. Lui si avvicinerà alla soglia per spararmi, quindi si troverà proprio dietro il telaio della porta. Spara attraverso il muro.» Dajkovic annuì. Gideon fece un profondo respiro, poi balzò fuori da dietro la lavatrice e schizzò verso il tavolo rendendosi conto troppo tardi di quanto fosse esposto. Con un urlo indistinto Dajkovic avanzò barcollando; pareva un orso ferito. All’improvviso il sangue gli sgorgò dalla bocca; con sguardo folle caricò verso la porta sparando attraverso la parete, sulla destra. Si bloccò a metà cucina vacillando, continuando a gridare, svuotando il caricatore nel muro. Per un attimo nella sala da pranzo buia non ci fu alcun movimento. Poi la pesante sagoma di Tucker grondante sangue da una decina di ferite da proiettile incespicò oltre la soglia e atterrò sul pavimento come un pezzo di carne morta. Solo allora Dajkovic si lasciò cadere in ginocchio tossendo e rotolò sul fianco. Gideon si rimise in fretta in piedi e con un calcio allontanò la pistola di Tucker dal corpo inerte. Poi si inginocchiò accanto a Dajkovic. Frugò nelle tasche dell’uomo, pescò le chiavi delle manette e si liberò. Sta’ calmo» disse esaminando la ferita. Il proiettile gli aveva trapassato la schiena in basso, perforando un polmone, ma, si augurava, mancando altri organi vitali. All’improvviso e in modo inaspettato Dajkovic sorrise. Le sue labbra insanguinate si tesero in una smorfia orrenda.
«Lo hai messo su nastro?» Gideon si picchettò la tasca. «Tutto quanto.» «Bene» mormorò l’altro, poi perse conoscenza con il sorriso sul volto. Gideon spense il registratore digitale. Si sentiva svenire e la stanza iniziò a ruotare mentre in lontananza udiva le sirene.
GIDEON CREW CAPITOLO 12 Gideon Crew scese cauto il ripido pendio verso il torrente Chihuahueños seguendo un vecchio sentiero per animali da soma. Vedeva le profonde insenature e le pozze del corso d’acqua che attraversava serpeggiando il prato là in basso. A oltre duemilasettecento metri l’aria di giugno era fresca e frizzante e il cielo azzurro pieno di nuvole. Più tardi sarebbe scoppiato un temporale, pensò. La spalla destra gli faceva ancora un po’ male ma i punti gli erano stati tolti la settimana prima, e adesso riusciva a muovere liberamente il braccio. La ferita del coltello era profonda però si stava cicatrizzando bene. La lieve commozione cerebrale dovuta allo scontro con Dajkovic non aveva causato ulteriori problemi. Spuntò nella luce del sole e si fermò. Era passato un mese da quando aveva pescato in quella valletta, poco prima di andare a Washington. Aveva raggiunto, in modo spettacolare, l’unico, primario, ossessivo scopo della sua vita. Era finita. Tucker era morto, in disgrazia. Suo padre era stato vendicato. Negli ultimi dieci anni si era fissato a tal punto sulla questione da trascurare tutto il resto: gli amici, una relazione, gli avanzamenti di carriera. E ora, realizzato lo scopo, provava un enorme senso di sollievo. Di libertà. Poteva iniziare a vivere come una persona vera. Aveva solo trentatré anni e quasi tutta l’esistenza davanti. C’erano così tante cose da fare! La prima era catturare la mostruosa trota gola tagliata, che, era sicuro, si nascondeva nella grande pozza creata dai tronchi nel torrente. Respirò profondamente l’odore dell’erba e dei pini cercando di dimenticare il passato e di concentrarsi sul futuro. Si guardò attorno beandosi. Era il suo posto preferito. Nessuno pescava in quel tratto di torrente, tranne lui: era lontano da qualsiasi sentiero tracciato e per arrivarci bisognava fare una lunga e faticosa camminata. Le trote selvatiche gola tagliata che si trovavano nelle pozze profonde e a riva erano molto schive, difficili da prendere; un’unica mossa falsa, l’ombra di una canna da mosca sull’acqua, un piede posato pesantemente sull’erba paludosa bastavano a compromettere la pesca per il resto del giorno. Gideon si sedette a gambe incrociate sul prato, lontano dal torrente, si liberò dello zaino e posò il contenitore con la canna da mosca. Ne svitò un’estremità, fece scivolare fuori i pezzi di bambù e li unì, attaccò il mulinello, infilò la lenza negli anelli, poi cercò nella custodia la mosca giusta.
Nel campo non c’erano molte cavallette, comunque abbastanza perché qualcuna saltasse nell’acqua e fosse mangiata. Sarebbero state un’esca credibile. Prese dalla custodia una piccola cavalletta gialla e verde e la fissò all’amo. Lasciati zaino e attrezzatura ai bordi del prato, avanzò lentamente stando attento a posare i piedi con la massima leggerezza. Mentre si avvicinava alla prima grande pozza, si accovacciò e diede una tirata alla canna srotolando un po’ di lenza; poi, con un movimento improvviso del polso, immerse la mosca. Quasi subito l’acqua mulinò vorticosamente. Aveva abboccato. Balzando in piedi, Gideon sollevò la punta facendo tendere la lenza e lottò con il pesce. Era grosso, un combattente, e cercò di scappare verso un groviglio di radici sotto la riva. Alzando di più la canna, usò il pollice per aumentare la trazione sulla lenza costringendo la trota nel centro della pozza. Quando guizzò in superficie, saltando e scuotendo la testa in una pioggia di gocce d’acqua che brillavano al sole, la allentò. Il corpo muscoloso, dai colori vivaci, fu colpito dalla luce, la striscia rossa sotto le branchie sembrava proprio sangue; poi sprofondò e tentò di scappare. Di nuovo Gideon aumentò la trazione ma lei era decisa a nascondersi e si dimenò fino al punto che il parastrappi si tese, prossimo a spezzarsi... «Il dottor Gideon Crew?» Spaventato, lui girò di scatto la testa e mollò la presa. Il pesce approfittò della lenza allentata e si precipitò verso il groviglio di radici sommerse; Gideon tentò di recuperare: troppo tardi. Il parastrappi si attorcigliò a una radice e la trota si liberò. La punta della canna saltò su con la lenza. In preda a uno scatto d’ira, fissò con durezza l’uomo in piedi a pochi metri dietro di lui, che indossava pantaloni cachi stirati alla perfezione, scarponi da trekking nuovi di zecca, una camicia a scacchi e un paio di occhiali da sole. Sulla cinquantina, aveva i capelli sale e pepe, la pelle olivastra e una faccia dall’aria molto stanca, un po’ butterata; sembrava uno sopravvissuto a un incendio. Eppure, era piuttosto vispo. Borbottando un’imprecazione, Gideon recuperò la lenza e osservò il parastrappi che fluttuava. Poi alzò di nuovo lo sguardo sull’uomo, che se ne stava in paziente attesa, con un vago sorriso sulle labbra. «Chi diavolo è lei?» Il tizio avanzò e gli tese la mano. «Manuel Garza.» Gideon la fissò aggrottando la fronte finché la ritrasse. «Mi scusi per averla interrotta nel tempo libero» disse Garza. «Ma non poteva aspettare.» Continuò a sorridere restando insolitamente calmo. Pareva irradiare tranquillità e controllo da ogni poro. Gideon lo trovò irritante.
«Come mi ha trovato?» «Ho provato a indovinare. Sappiamo che questo è il posto in cui a volte viene a pescare. Inoltre abbiamo individuato la sua posizione poco prima che spegnesse il cellulare.» «Quindi è il Grande Fratello. Cosa vuole?» «Non ho la libertà di discuterne con lei, per ora.» Poteva essere un contraccolpo della faccenda Tucker? Ma no: era tutto andato secondo i piani, un successo assoluto, ogni domanda ufficiale aveva trovato risposta, il suo nome e quello della sua famiglia erano stati riabilitati. Gideon guardò in modo esplicito l’orologio. «Il cocktail è alle sei nella mia capanna. Di sicuro sa dov’è. Ci vediamo a quell’ora. Sono occupato a pescare.» «Mi dispiace, dottor Crew... Gliel’ho detto: non può aspettare.» «Cosa? Chi è il soggetto?» «Un lavoro.» «Grazie, ma ne ho già uno. Su a Los Alamos. Sa... il posto dove progettano tutte quelle belle bombe atomiche.» «Detto fra noi questo è più eccitante e pagato molto meglio. Centomila dollari per un incarico di una settimana. Un lavoro per cui lei è singolarmente adatto, di cui il nostro Paese beneficerà... e Dio solo sa se non ha bisogno di soldi. Tutti quei debiti con le carte di credito...» Garza scosse la testa. «Ehi, chi non ha sfondato il tetto di una carta di credito? Questa è la terra della libertà, giusto?» Gideon esitò. Era molto denaro. E lui ne aveva un disperato bisogno. «Allora, cosa dovrei fare?» «Non posso dirglielo, non ancora. L’elicottero la aspetta in cima per portarla all’aeroporto di Albuquerque e di lì viaggerà su un jet privato.» «È venuto a prendermi in elicottero!? Che mi venga un colpo!» Gideon si ricordava vagamente di aver sentito l’elicottero. Lo aveva ignorato; i monti Jemez, sperduti, venivano spesso usati per addestramenti di volo dalla Kirtland Air Force Base. «Abbiamo fretta.» «Vedo. Lei chi rappresenta?» «Non posso dirle nemmeno questo.» Garza fece un altro sorriso e un gesto con il braccio tenendo il palmo aperto, in direzione del sentiero per animali da soma verso la sommità della mesa. «Andiamo?» «Mia madre mi ha insegnato a non accettare mai passaggi in elicottero dagli sconosciuti.» «Dottor Crew, glielo ripeto: troverà il lavoro interessante, stimolante e ben remunerato. Non vuole almeno venire con me al quartier generale della nostra società per sentire i dettagli?» «Dove?» «A New York.» Gideon lo fissò, poi scosse la testa e sbuffò. Centomila dollari
gli avrebbero permesso di partire alla grande con i numerosi progetti e idee a cui stava pensando per la sua nuova vita. «Comporta qualcosa di illegale?» «Assolutamente no.» «Diavolo! Manco da un po’ dalla Grande Mela. D’accordo, faccia strada, Manuel.»
CAPITOLO 13 Sei ore dopo il sole stava tramontando sull’Hudson River mentre la limousine arrivava a Little West 12th Street nel vecchio Meatpacking District di Manhattan. La zona era molto cambiata, rispetto a come se la ricordava Gideon dai tempi dell’università, quando ogni tanto veniva da Boston per svagarsi un po’. I vecchi magazzini di mattoni e i passaggi coperti, con le loro catene e i loro ganci per la carne, erano stati trasformati in negozi di abbigliamento e ristoranti supertrendy, alti condomini di classe e alberghi alla moda, e le strade erano affollate di persone troppo cool per essere vere. La limousine sobbalzò sulla strada dissestata, di ciottoli scuoti-budella del Diciannovesimo secolo riportati alla luce, e si fermò davanti un edificio anonimo, una delle poche costruzioni non ristrutturate che si vedevano. «Eccoci» disse Garza. Scesero sul marciapiede. Faceva molto più caldo a New York che in New Mexico. Gideon fissò diffidente l’unico ingresso della struttura, un portone di metallo a due battenti su una piattaforma di carico, ricoperto di vecchi manifesti e graffiti. Il palazzo, di circa dodici piani, era grande e imponente. Quasi in cima alla facciata riuscì a stento a distinguere una scritta dipinta: PRICE & PRICE PORK PACKING INC. Più in alto il muro di mattoni scrostato lasciava il posto a vetro e cromo; si chiese se lì fosse stato realizzato un moderno attico. Gideon seguì Garza su per alcuni gradini di calcestruzzo, a lato della piattaforma. Quando furono davanti, il portone si aprì sui cardini ben oliati. Percorsero un corridoio buio fino a raggiungere un’altra porta a due battenti molto più nuova, di acciaio inossidabile. Subito accanto c’erano una tastiera di sicurezza e uno scanner retinico. Garza posò la valigetta sul pavimento e avvicinò la faccia allo scanner; i battenti di acciaio si aprirono senza far rumore. «Dov’è l’ispettore Clouseau?» chiese Gideon, volendo fare lo spiritoso, mentre studiava l’ambiente. Garza lo osservò, stavolta senza sorridere, ma non rispose. Oltre la porta si trovava una stanza ampia, cavernosa, una struttura aperta di quattro piani, che sembrava illuminata da centinaia di luci alogene. Attorno ai livelli superiori correvano passerelle metalliche. Il pavimento, ampio quanto un campo da calcio, era occupato da file di grandi tavoli d’acciaio con sopra un’accozzaglia sconcertante di oggetti: motori a reazione sezionati, modelli 3-D molto complessi di aree urbane, un plastico in scala di quella che sembrava una centrale nucleare colpita da un attacco terroristico aereo. Nell’angolo più vicino c’era un tavolo enorme, sul quale era sistemato quello che pareva un ampio spaccato del fondale marino con gli strati
geologici. Alcuni tecnici in camice bianco si muovevano tra i tavoli prendendo appunti sui palmari o conferivano tra loro con bisbigli sommessi. «Questo è il quartier generale della società?» domandò Gideon. «Sembra più la Industrial Light and Magic.» «Immagino si possa parlare di magia» rispose Garza facendo strada. «Magia prodotta in serie.» Crew lo seguì tavolo dopo tavolo. Su uno c’erano le ricostruzioni meticolose di Port-au-Prince prima e dopo il terremoto; si potevano vedere minuscole bandiere contrassegnanti i punti di devastazione. Su un altro c’era un modello in scala enorme di una struttura spaziale, tutta tubi, cilindri e pannelli solari. «La riconosco» disse Gideon. «È la Stazione Spaziale Internazionale.» Garza annuì. «Come appariva prima di lasciare l’orbita.» «Lasciare l’orbita?» «Per assumere il suo ruolo secondario.» «Il suo cosa? Sta scherzando.» Garza gli rivolse un mesto sorriso. «Se avessi pensato che mi avrebbe preso seriamente non glielo avrei detto.» «Cosa diamine combinate qua dentro?» «Ingegneria e ancora ingegneria, nient’altro.» Giunti alla parete in fondo, salirono su un montacarichi fino alla passerella del quarto piano, poi varcarono una porta che conduceva a un dedalo di corridoi bianchi. Arrivarono infine a una sala riunioni dal soffitto basso, senza finestre. Era piccola e spartana, senza arredi. Un tavolo di un lucido legno esotico dominava il locale e sulle pareti bianche non c’erano quadri né stampe. Gideon cercò di pensare a una battuta adatta, ma così su due piedi non gli venne in mente niente. Inoltre si rese conto che con Garza sarebbe stata sprecata: pareva immune al suo sarcasmo. A capotavola c’era un uomo su una sedia a rotelle. Era forse l’essere umano dall’aspetto più singolare che avesse mai visto. I capelli castani tagliati corti, screziati d’argento, incorniciavano una grossa testa. Sotto la fronte alta brillava un unico occhio grigio, fisso su di lui; l’altro era coperto da una benda di seta nera da pirata. Il lato destro del volto era solcato da una cicatrice irregolare bluastra: iniziava all’attaccatura dei capelli, correva sull’occhio bendato, continuava fin giù sulla mascella e scompariva sotto il colletto della camicia azzurra inamidata. Un abito nero gessato completava il quadro sinistro. «Dottor Crew» esordì la figura con un flebile sorriso che non contribuì affatto ad addolcirgli la faccia. «Grazie per essere venuto fin qui. Si accomodi, la prego.» Mentre Gideon prendeva posto su una sedia, Garza rimase in piedi in fondo. «Non ci posso credere» scherzò Gideon. «Niente caffè né acqua Fiji?» «Mi chiamo Eli Glinn» affermò l’uomo ignorandolo. «Benvenuto alla
Effective Engineering Solutions Incorporated.» «Mi scuso fin d’ora per non aver portato il curriculum. Il suo amico Garza andava di fretta.» «Non amo perdere tempo. Perciò, se vuol essere così gentile da ascoltare, la ragguaglierò sull’incarico.» «Ha qualcosa a che fare con la Disneyland che c’è di sotto? Incidenti aerei, disastri naturali... Lei definisce queste cose “ingegneria”?» Glinn lo fissò mitemente. «La EES è specializzata, tra le altre cose, nell’analisi dei fallimenti.» «Analisi dei fallimenti?» «Capire perché le cose falliscono, che si tratti di un assassinio, di un incidente aereo o di un attacco terroristico, è determinante per risolvere i problemi di ingegneria. L’analisi dei fallimenti è l’altra faccia dell’ingegneria.» «Non sono sicuro di seguirla.» «L’ingegneria è la scienza che ti mette in grado di realizzare qualcosa. Ma è solo metà della sfida. L’altra metà è analizzare tutti i possibili modelli di fallimento per evitarli. La EES fa entrambe le cose. Risolviamo problemi ingegneristici molto complessi ed esaminiamo i motivi per cui le cose non riescono. In entrambi i compiti non abbiamo mai sbagliato. Mai. Con una piccola eccezione a cui stiamo ancora lavorando.» Mosse la mano come per scacciare una mosca noiosa. «Queste due cose, l’ingegneria e l’analisi dei fallimenti, costituiscono la nostra attività primaria, la nostra attività visibile. Ma sono anche la nostra copertura. Perché, ogni tanto, dietro la facciata pubblica usiamo questi stessi locali per sviluppare progetti estremamente particolari e confidenziali per clienti speciali. Clienti molto speciali. Abbiamo bisogno di lei proprio per uno di questi.» «Perché di me?» «Ci arriverò tra un attimo. Prima i dettagli. Uno scienziato cinese sta per arrivare negli Stati Uniti. Crediamo che porti con sé il progetto di un’arma nuova ad alta tecnologia. Non ne siamo sicuri, tuttavia abbiamo ragione di credere e sperare che possa chiedere asilo.» Gideon stava per fare una battuta sarcastica, ma lo sguardo nell’occhio di Glinn lo dissuase. «Da due anni» proseguì «l’intelligence statunitense è al corrente di un misterioso progetto in corso in una base sotterranea nella zona dei test nucleari di Lop Nur, nella parte più occidentale della Cina. All’impresa è stata dedicata una quantità strabiliante di denaro e talenti scientifici. Secondo la CIA stanno sviluppando un’arma nuova, una specie di Progetto Manhattan cinese, qualcosa che altererebbe completamente gli equilibri di potere.» Gideon lo fissò. «Più distruttiva della Bomba H?» «Sì, stando alle nostre informazioni. Ma a quanto pare ora uno degli
scienziati ha rubato il progetto e sta venendo negli Stati Uniti. Il perché non lo sappiamo. Speriamo chieda asilo, anche se non ne siamo certi.» «Perché lo farebbe?» «Be’, l’hanno incastrato con una squillo a un congresso scientifico a Hong Kong.» «Con una squillo?» «Ne avrà di certo sentito parlare. Una bella donna viene usata per mettere il bersaglio in una situazione compromettente, si scattano delle foto, poi si fa pressione... Ma stavolta il piano è andato male e ha scatenato la fuga dell’uomo terrorizzato.» «D’accordo, capisco. Allora quando dovrebbe arrivare lo scienziato?» «In questo momento è in viaggio. È su un volo della Japan Airlines per New York da Hong Kong. Ha cambiato aereo a Tokyo nove ore fa e atterrerà al JFK alle undici e dieci di questa sera, cioè tra quattro ore.» «Gesù. Va bene.» «Il suo incarico è piuttosto semplice. Pedini l’uomo dall’aeroporto e, appena possibile, gli sottragga i progetti e li porti qui.» «In che modo?» «Spetta a lei escogitarlo.» «In quattro ore?» Glinn assentì. «Non abbiamo idea di come siano fatti o dove siano nascosti i progetti. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essere un codice informatico nel suo laptop, all’interno di un’immagine steganografica, in un flash drive nella sua valigia o in un antiquato rullino di pellicola.» «È un incarico assurdo. Nessuno ci riuscirebbe.» «Già, in pochi potrebbero farcela. Per questo ci siamo rivolti a lei, dottor Crew.» «Sta scherzando, vero? Non ho mai fatto niente del genere prima. Il mio lavoro a Los Alamos riguarda materiali altamente esplosivi. Sotto avrete senz’altro decine di persone più qualificate di me.» «Mi creda, nessuno è in grado di svolgere questo incarico meglio di lei. Per due ragioni. La prima è la sua precedente carriera.» «Quale carriera?» «Quella di ladro. Rubava nei musei d’arte.» Calò un silenzio improvviso, glaciale, poi proseguì: «Non in quelli più grandi, naturalmente. In genere nei più piccoli, privati, con sistemi anti-intrusione meno sofisticati e opere d’arte di profilo minore». «Credo debba aumentare la sua dose di farmaci» replicò Gideon a bassa voce. «Non sono un ladro d’arte. Ho la fedina penale immacolata.» «Il che dimostra la sua bravura. Simili abilità possono essere molto preziose. Ovviamente, ha abbandonato questa professione quando nella sua vita si è manifestato un interesse nuovo, dominante. E con ciò arriviamo alla seconda
ragione. Vede, abbiamo seguito con grande interesse la sua piccola e ingegnosa operazione contro il generale Chamblee Tucker.» Gideon cercò di riprendersi sfoderando l’aria più sconcertata che gli riuscì. «Operazione? Tucker è impazzito e ha aggredito me e uno dei suoi dipendenti a casa sua.» «Questa è la versione pubblica. Io so come sono andate le cose. So che ha passato gli ultimi dieci anni a perfezionarsi, a terminare il college e a conseguire il dottorato al MIT, cercando nel frattempo un modo per distruggere Tucker e vendicare suo padre. Ha fatto in modo di “far rilasciare” quel documento top-secret dalla Direzione della gestione informazioni e lo ha usato per arrivare a Tucker. Era un uomo potente e si era ben tutelato. Lei ha dimostrato molteplici e straordinarie abilità nel progettare l’operazione e una grande padronanza di sé dopo la sparatoria. Ha gestito la faccenda proprio nel modo giusto. Nessuno ha dubitato per un istante della sua storia e lei ha vendicato suo padre.» Gideon si sentì male. Allora tutto verteva su quello: il ricatto. «Non so di cosa parla.» «Non si preoccupi, con me il suo segreto è al sicuro. Noi stessi stavamo cercando il modo migliore per togliere di mezzo Tucker... per uno dei nostri clienti speciali, naturalmente. Lei ci ha risparmiato il fastidio ed è balzato alla nostra attenzione.» A Gideon non venne in mente niente da dire. «Perché lei? Di lei conosciamo tutto, dottor Crew. Non solo le sue capacità di scassinatore e la sua... disputa con il generale Tucker. Conosciamo la sua infanzia difficile, il suo lavoro a Los Alamos, la sua predilezione per la buona cucina, la passione per le camicie hawaiane e i maglioni di cachemire. La preferenza per il jazz. La sua debolezza per l’alcol unita a quella per le donne. L’unica cosa che non siamo riusciti a sapere è come abbia perso la prima falange dell’anulare destro.» Inarcò il sopracciglio dell’occhio buono con aria interrogativa. Il volto di Gideon si fece paonazzo per la rabbia. Respirò a fondo per recuperare il controllo. «Se non vuol rispondere a questo, forse risponderà a qualcos’altro: aveva intenzione di portare Dajkovic dalla sua parte fin dall’inizio?» Di nuovo Gideon non replicò. Era incredibile, inconcepibile. «Ha la mia parola che qualsiasi cosa dirà resterà tra queste mura. Sa, siamo piuttosto bravi a tenere i segreti.» Gideon esitò. La verità era che Glinn lo teneva in pugno. Tuttavia dal suo atteggiamento serio e impassibile traspariva sincerità. «D’accordo» ammise. «L’intera faccenda è stata progettata dall’inizio alla fine. Ho organizzato l’imboscata sapendo che Tucker non sarebbe venuto di persona: quell’uomo era un codardo. Avevo studiato la sua società e le persone che lavoravano per lui, prevedendo che avrebbe mandato Dajkovic, fondamentalmente una persona rispettabile. Speravo di portarlo dalla mia parte. Ha funzionato. Abbiamo finito l’operazione insieme.» Glinn annuì. «Sì, anch’io lo consideravo un
capolavoro di ingegneria sociale su più livelli. Ma ha commesso un errore. Quale?» «Ho dimenticato di controllare gli scarponi in cerca di quel maledetto coltello.» Glinn sorrise e per la prima volta la sua faccia sembrò quasi umana. «Perfetto. Ma l’operazione è finita in modo piuttosto pasticciato. Dajkovic è stato ferito da un proiettile...» «Tucker non era uno stupido. Ha capito che il suo uomo stava mentendo.» «Come?» «Non ha bevuto con lui. Dev’essere stato quello a metterlo in guardia.» «Allora è stato un errore di Dajkovic, non suo, e questo conferma la mia idea. Lei ha commesso un unico sbaglio nell’arco dell’intera operazione. Non ho mai visto niente del genere. È decisamente l’uomo giusto per questo lavoro.» «Ho avuto dieci anni per escogitare il modo per eliminare Tucker. Per questo incarico mi dà quattro ore.» «È un problema molto più semplice.» «E se fallisco?» «Non succederà.» Silenzio. «Un’altra cosa... Che ne farete dell’arma cinese? Non farò niente che nuoccia al mio Paese, vero?» «Gli Stati Uniti d’America sono in effetti il mio cliente.» «Via, si sarebbero rivolti all’FBI, per un lavoro del genere, non a una società tipo la sua, per quanto specializzata.» Glinn frugò in tasca ed estrasse un biglietto. Lo posò sul tavolo e lo spinse verso Gideon con il dito. Lui lo guardò attentamente: era decorato con un logo governativo. «Il direttore dell’Intelligence nazionale?» «Sarei un ingenuo se pensassi di averla già convinta. Può controllare di persona. Chiami il Dipartimento della sicurezza interna e chieda di parlare con questo signore: le confermerà che siamo subappaltatori del Dipartimento e che ci adoperiamo in modo legale e patriottico per il nostro Paese.» «Non mi farebbero mai parlare con un pesce così grosso.» «Usi il mio nome e la metteranno direttamente in contatto.» Gideon non prese il biglietto. Fissò Glinn. Calò il silenzio. Centomila dollari gli facevano comodo, ma quel lavoro sembrava irto di difficoltà, di pericoli. E la fiducia che Glinn riponeva in lui era tristemente mal riposta. Scosse la testa. «Signor Glinn, fino a un mese fa tutta la mia vita era in attesa. C’era qualcosa che dovevo fare. Tutte le mie energie sono andate in quella “missione”. Adesso sono libero e ho molto da recuperare. Desidero farmi degli amici, trovare una certa stabilità, magari qualcuno con cui sposarmi e
avere dei bambini. Voglio insegnare a mio figlio a lanciare una mosca artificiale. Adesso ho tutto il tempo del mondo. Questo suo incarico... be’, mi sembra troppo pericoloso. Ho corso abbastanza rischi, nella vita, capisce? Non sono interessato.» Un silenzio ancor più cupo avvolse la stanza. «È definitivo?» insistette Glinn. «Sì.» Glinn lanciò un’occhiata a Garza e gli fece un breve cenno. Questi frugò nella valigetta, estrasse un dossier e lo posò sul tavolo. Era una cartella medica contrassegnata con un’etichetta rossa. Glinn la aprì e mise in mostra un fascio di radiografie, TAC e referti densitometrici. «Che cos’è?» chiese Gideon. «A chi appartengono quelle analisi?» «Sue» rispose in tono dispiaciuto Glinn.
CAPITOLO 14 Con apprensione Gideon si allungò e prese la cartella. I nomi erano stati rimossi dalle radiografie e dalle TAC e cancellati a penna sui referti. «Dove ha preso questa roba?» «Arrivano dall’ospedale dove è stato curato per la ferita alla spalla.» «Cosa significa?» «Mentre le trattavano la lesione, hanno effettuato i test di routine: radiografie, risonanza magnetica e analisi del sangue. Dato che aveva riportato anche una commozione cerebrale alcuni esami si sono concentrati sulla testa. E i medici hanno riscontrato quello che si definisce un reperto accessorio. Le hanno diagnosticato una malformazione arterovenosa, nella fattispecie “malformazione aneurismatica della vena di Galeno”.» «Cosa accidenti è?» «Uno sviluppo anomalo di arterie e vene nel cervello che comprende appunto la grande vena cerebrale di Galeno. Di solito è congenito ed è perlopiù asintomatico fino all’età di vent’anni circa. E poi... ehm, rende nota la sua presenza.» «È pericoloso?» «Molto.» «Qual è il trattamento?» «Nel suo caso la MAV è nel circolo di Willis, in profondità nel cervello. È inoperabile. E letale.» «Letale!? No!» «Nell’ipotesi migliore le resta circa un anno.» «Un anno?» A Gideon girava la testa. «Un anno?» Soffocò cercando di sputar fuori la domanda successiva. Deglutì. Gli salì la bile in gola. Glinn continuò in tono neutro e indifferente. «Per parlare in termini statistici più precisi, le sue possibilità di sopravvivenza a dodici mesi sono circa del cinquanta per cento, a diciotto mesi del trenta per cento, a due anni inferiori al cinque per cento. La fine arriva nella maggioranza dei casi molto in fretta, con preavviso scarso o nullo. Fino a quel momento non ci sono danni o sintomi e non si impongono limitazioni fisiche o dietetiche di alcun tipo. In altre parole, vivrà una vita normale per circa un anno... e poi morirà rapidamente. È incurabile, come ho detto, e non c’è trattamento di sorta. Non c’è niente da fare.» Gideon guardò Glinn dritto negli occhi. Mostruoso. Sentì la rabbia impossessarsi di lui, incontrollabile. Balzò in piedi. «È un ricatto? Se voi figli di puttana pensate che sia il modo per costringermi ad accettare l’incarico, siete fuori di testa.» Fissò la cartella. «Sono stronzate. È una truffa. Se tutto questo fosse vero, me lo avrebbero detto in ospedale. Non so nemmeno se quelle radiografie
mi appartengano.» Mantenendo un tono pacato, Glinn ribatté: «Abbiamo chiesto all’ospedale di non dirglielo, spiegando che era una questione di sicurezza nazionale. Volevamo avere un altro parere. Abbiamo passato la cartella al dottor Morton Stall, esperto mondiale di MAV, del Mass General di Boston. Ha confermato sia la diagnosi sia la prognosi. Mi creda, siamo rimasti scioccati e costernati quanto lei». «Perché dirmelo solo ora?» «Dottor Crew» rispose Glinn con una nota gentile nella voce, «si fidi quando le dico che ha tutta la nostra solidarietà.» Gideon lo fissò respirando affannosamente. Era una specie di complotto, oppure un errore. «Non ci credo e basta.» «Abbiamo analizzato i suoi referti medici con tutti i mezzi a nostra disposizione. Volevamo assumerla, offrirle una posizione permanente qui. Questa diagnosi spaventosa ci ha legato le mani e stavamo discutendo il da farsi, poi è arrivata la notizia di Wu. Si tratta di un’emergenza di massimo livello per la sicurezza nazionale. Lei è l’unico che potrebbe riuscirci, soprattutto con un così breve preavviso. Perciò glielo stiamo dicendo adesso... e di questo sono davvero spiacente.» Gideon si passò una mano tremante sulla fronte. «La vostra tempistica fa davvero schifo.» «La tempistica non è mai giusta, per una malattia terminale.» Tutta la sua rabbia sembrò evaporare con la stessa rapidità con cui si era scatenata. L’orrore lo fece star male. Tutto il tempo che aveva sprecato... «Alla fine non abbiamo avuto scelta. È un’emergenza. Non sappiamo con precisione cosa stia architettando Wu e non possiamo perdere quest’occasione. Se lei rinuncia, subentrerà l’FBI con la sua operazione che sta fortemente caldeggiando, e le posso assicurare che sarà un disastro. Dovrà decidere, Gideon, nei prossimi dieci minuti, e spero con tutto il cuore che deciderà di aiutarci.» «È un gran casino. Non riesco a crederci.» Silenzio. Gideon si alzò, si avvicinò alla finestra smerigliata. Si girò. «Sono offeso. Per il modo in cui mi avete trascinato qui, in cui mi avete gettato addosso tutta questa merda... per avere la sfacciataggine di chiedermi di lavorare per voi.» «Non volevo che andasse così.» «Un anno?» chiese di nuovo. «Giusto? Un anno del cazzo?» «Nella cartella c’è un grafico di sopravvivenza della malattia. È una questione di probabilità oggettive. Potrebbero essere sei mesi, un anno, due al massimo.» «E non esistono cure?» «No.»
«Ho bisogno di bere. Scotch.» Garza premette un tasto e un pannello di legno scivolò di lato. Un attimo dopo il bicchiere fu posato sul tavolo davanti a Gideon. Lui abbassò la mano, lo afferrò, bevve un sorso, un altro. Attese sentendo il torpore insinuarsi a poco a poco nel suo organismo. Non servì. «Può trascorrere l’ultimo anno divertendosi, vivendo appieno la sua vita, dandoci dentro fino all’ultimo. Oppure lavorando per il suo Paese. Tutto ciò che posso fare è offrirle la scelta» riprese Glinn. Gideon scolò il liquore. «Un altro?» offrì Garza. Gideon rifiutò con un gesto. «Potrebbe fare questo lavoro per noi» proseguì Glinn. «Una settimana. Poi decidere. Almeno avrà abbastanza soldi per vivere il tempo che le resta in modo relativamente confortevole.» Seguì una pausa di silenzio. Gideon fissò il dossier, poi Glinn, poi di nuovo il dossier. «D’accordo, Cristo, accetto!» Afferrò la cartella medica. Guardò un’altra volta Glinn. «Solo una cosa: porterò questa con me e la farò verificare. Se sono stronzate, le darò personalmente la caccia.» «Va bene» acconsentì Glinn avvicinandogli un secondo dossier. «Ecco le informazioni riguardanti l’incarico. Là dentro troverà i dati sul background e alcune fotografie del bersaglio. Si chiama Wu Longwei ma si fa chiamare anche Mark Wu. L’adozione di un nome occidentale è una prassi comune tra i professionisti cinesi.» Si appoggiò allo schienale. «Manuel?» Garza si fece avanti. Con una mano posò sul tavolo un consistente pacchetto di banconote da cento dollari e con l’altra una Colt Python. «I soldi servono per le spese accessorie» spiegò Glinn. «Sa come usare quell’arma?» Gideon prese i soldi e sollevò la Python. «Avrei preferito la finitura in acciaio inossidabile satinato.» «Scoprirà che il blu scuro è migliore per i lavori notturni» ribatté sarcastico l’altro. «Non deve in nessuna circostanza né per qualsivoglia ragione cercare di contattarci durante l’operazione. Se sarà necessario, la troveremo noi. Intesi?» «Sì. Perché?» «Una mente curiosa è una qualità ammirevole. Signor Garza, accompagni il dottor Crew all’uscita posteriore, la prego. Non c’è tempo da perdere.» Mentre si avviavano verso la porta, aggiunse: «Grazie, Crew. Grazie infinite».
CAPITOLO 15 Crew infilò la limousine in un posto in cui era vietato parcheggiare dietro la fila dei taxi, agli arrivi del Terminal 1. Stava ancora pensando alla telefonata al Dipartimento della sicurezza interna, che aveva fatto da un telefono pubblico non appena lasciata la EES. Evitando il numero sul biglietto da visita, aveva chiamato il centralino, parlato con un comune operatore, fatto il nome di Glinn ed era stato messo subito in comunicazione, su una linea sicura, con il direttore in persona. Dieci sorprendenti minuti dopo aveva riagganciato chiedendosi perché diavolo fosse stato scelto lui tra tanti per quel folle incarico. Il direttore si era limitato semplicemente a ripetere: «Riponiamo la nostra completa fiducia nel signor Glinn. Non ci ha mai deluso». Scacciò il pensiero e poi tentò con minor successo di scacciare anche quelli ben più cupi sulla sua salute. Avrebbe avuto tempo dopo, per questo. Ora doveva rimanere concentrato su una cosa: il problema immediato. Era quasi mezzanotte ma l’aeroporto Kennedy era in preda a un’attività frenetica con l’arrivo dell’ultima ondata di voli dall’Estremo Oriente. Mentre attendeva con il motore in folle accanto al marciapiede, vide due agenti della Sicurezza dei trasporti che lo fissavano. Si avvicinarono a grandi passi con un’espressione molto arrabbiata. Scese dalla limousine con il vestito scuro che gli pizzicava la pelle nella sera estiva appiccicosa e li accolse con un ghigno arrogante. «Cosa crede di fare?» esordì il primo poliziotto, piccolo, magro e aggressivo come un furetto. «L’area di attesa per le limousine è laggiù!» indicò brusco prendendo fulmineo il libretto delle contravvenzioni e facendolo tremare per l’irritazione. Il secondo poliziotto arrivò col fiatone. Era grosso e lento. «Cosa succede?» domandò, apparentemente già confuso. Gideon incrociò le lunghe braccia, appoggiò un piede sul parafango e rivolse un sorriso disinvolto a quello grosso. «Il tenente Colombo, suppongo?» «Mi chiamo Gorski» fu la risposta. «Ah» osservò Gideon. «Mi ricorda Colombo.» «Non conosco nessuno con quel nome» replicò Gorski. «Non c’è nessun tenente Colombo» intervenne il magro. «Non abbiamo idea di cosa stia parlando. Lei non deve sostare qui.» «Sono qui per un arrivo VIP... Ne siete al corrente, giusto?» Gideon ammiccò e dalla tasca pescò un pacchetto di gomme. Tolse l’involucro, ne estrasse una e la offrì. Il grassone la accettò. «Vediamo la sua patente da autista» disse il magro rifiutando con un gesto
la gomma e lanciando uno sguardo seccato al collega. Gideon prese la patente, «noleggiata» a caro prezzo insieme alla limousine, e gliela porse. Il poliziotto magro la afferrò, la fissò, la passò al collega. Il grassone increspò le labbra studiandola con attenzione. Gideon piegò la gomma, se la infilò in bocca e la masticò con aria meditabonda. «Non può fermarsi in quest’area» ribadì il magro con voce acuta. «Le faccio la multa e poi sarà meglio che sposti la vettura.» Poi aprì il libretto e cominciò a scrivere. «Lasci perdere» disse Gideon. «Le multe mi fanno venire l’orticaria.» L’agente lo schernì. «Immagino non abbia afferrato il messaggio» insistette Gideon con un’alzata di spalle. «Messaggio?» Lui sorrise compiaciuto. «A proposito di chi devo incontrare.» «Non m’importa un accidente di chi deve incontrare. Non può fermarsi qui. Niente eccezioni.» La penna tuttavia si era bloccata. Il grassone stava ancora studiando la patente da autista con le labbra increspate per la concentrazione. Gideon attese. «Allora, chi deve incontrare?» chiese infine il magro. Il sorriso di Gideon si allargò. «Sa bene che non posso rivelarglielo.» Controllò l’orologio. «Il suo aereo sta arrivando ora dall’Estremo Oriente. Alla dogana riceverà il trattamento VIP, passerà in fretta e si aspetterà di vedermi. Dentro. Non qui fuori sul marciapiede, occupato a discutere con due piedipiatti... cioè, agenti della sicurezza.» Gorski gli restituì la patente. «Patente e targa sembrano a posto» dichiarò senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Non abbiamo mai ricevuto avvisi di arrivi VIP o Security» osservò il magro. Adesso il tono era di parecchie note meno aggressivo. «Mi dispiace ma le regole sono regole.» Gideon alzò gli occhi al cielo. «Grande! Così voi ragazzi non sapete niente. Non è un mio problema. Ripensandoci... okay, datemi pure la multa. Mi servirà per il mio rapporto.» Scosse la testa e fece per risalire sulla limousine. Il poliziotto magro fissò Gideon con gli occhi socchiusi. «Se si tratta di un arrivo VIP con protezione, avrebbero dovuto avvertirci. Chi è, un politico?» Gideon si fermò con la portiera aperta. «Diciamo solo che è uno dei vostri. Un capo. Un tipo irritabile.» I due si lanciarono un’occhiata d’intesa. «Parla del commissario?» «Da me non lo avete saputo.» «Avremmo dovuto ricevere un avviso VIP» osservò Gorski ormai piagnucolante. Gideon decise che era il momento di fare il duro. Lasciò perdere l’espressione allegra e guardò l’orologio. «Ascoltatemi bene, ve lo ripeto per
l’ultima volta. Se non incontro il nostro uomo ai piedi delle scale mobili tra un fottuto minuto sarò nella merda fino al collo, e vi ci trascinerò dentro con me. Scriverò un rapporto in cui spiegherò che sono stato bloccato da due imbecilli della Sicurezza dei trasporti che si sono scordati di guardare se c’erano avvisi VIP nella cassetta della posta in arrivo.» Estrasse un notes e una penna dalla tasca. «Come si scrive il suo nome, Gorski?» «Mmm...» Gorski guardò il collega, incerto sul da farsi. Gideon si rivolse al magro. «E lei? Vuol comparire anche lei nel mio rapporto? Qual è il suo nome?» Lanciò uno sguardo fulminante prima all’uno poi all’altro. Cedettero all’istante. «Terremo d’occhio la sua limousine» disse il magro lisciandosi nervoso la parte davanti dell’uniforme. «Vada ad accoglierlo.» «Bene» aggiunse Gorski. «Non c’è problema. Noi saremo proprio qui.» «Bella mossa. Perché mentre aspettate non vi raccontate una bella barzelletta?» Gideon li superò sfiorandoli e si avviò in fretta verso le porte dell’ampia area ritiro bagagli. Su entrambi i lati i nastri trasportatori rimbombavano e cigolavano. Davanti partivano due scale mobili da cui si riversava una marea di gente. Si unì al gruppetto di autisti di limousine in attesa ai piedi delle scale, ciascuno con in mano un piccolo cartello con un nome. Le scale continuarono a scaricare persone, mentre lui scrutava ogni faccia dai lineamenti asiatici. Glinn gli aveva mostrato due foto di Wu e Gideon ne aveva memorizzato i tratti, ma c’era sempre il rischio che fosse una di quelle persone che in foto apparivano diverse. Ma no... eccolo. Un piccoletto dallo sguardo intenso, l’alta fronte bombata, la frangetta, un paio di occhiali antiquati dalla montatura nera e una giacca di tweed da professore. Scese la scala con gli occhi bassi, le spalle curve, l’aria più esitante e schiva possibile. Niente bagaglio a mano né laptop. Wu giunse ai piedi delle scale ma, anziché andare al ritiro bagagli, proseguì dritto a passo svelto superando Gideon e uscendo dalla porta in direzione del parcheggio dei taxi. Colto di sorpresa, Crew si affrettò a seguirlo. Non c’era coda, ai taxi. Wu si chinò sotto le colonnine tendinastro, afferrò il ticket da un addetto e s’infilò nel primo, una Ford Escape. Gideon tornò di corsa alla limousine. «Ehi! Che succede?» gridò l’agente magro. «Ho sbagliato terminal!» urlò lui. «Accidenti, adesso sono davvero fottuto!» Afferrò un biglietto da cinquanta dollari che si era cacciato nel taschino anteriore della giacca per le emergenze e lo gettò ai due balzando nella limousine.
Quelli rincorsero la banconota quando un venticello estivo la fece svolazzare sul marciapiede e Gideon partì di corsa all’inseguimento del taxi che stava velocemente scomparendo.
CAPITOLO 16 Gideon percorse di gran carriera la strada di uscita dal terminal e raggiunse infine il taxi mentre svoltava sulla Van Wyck Expressway. Rallentò e continuò a velocità moderata tenendo il taxi a cinque o sei macchine di distanza nel traffico scorrevole della tarda sera. Di tanto in tanto cambiava corsia, restava indietro e poi avanzava, nel caso Wu si fosse insospettito. Era quasi ordinaria amministrazione. Né il tassista né lo scienziato sembravano consapevoli di essere seguiti, nonostante la vistosa limousine che stava guidando. Percorrendo l’itinerario standard per Upper Manhattan, il taxi confluì nella Grand Central Parkway e passò Citi Field, poi l’aeroporto La Guardia. Mentre superavano il Robert F. Kennedy Bridge, apparve la skyline di Midtown Manhattan che, come un arazzo di gemme luccicanti, scintillava sopra le acque scure dell’East River. Entrando a Manhattan dal ponte della Third Avenue, il taxi evitò la FDR Drive dirigendosi invece lungo la 125th Street a East Harlem finché all’altezza di Park Avenue svoltò in direzione centro. Wu è probabilmente diretto nell’Upper East Side, rifletté Gideon. Riesaminò mentalmente il piano. Avrebbe seguito il taxi fino a destinazione, parcheggiato nei dintorni e... All’improvviso notò una Lincoln Navigator nera con i finestrini fumé che si avvicinava da dietro: viaggiava sulla corsia per veicoli lenti e guadagnava velocemente terreno. La Navigator coprì la distanza fino ad accodarsi con manovre decise al taxi, anche se avrebbe potuto tranquillamente superarlo. Gideon si tenne a distanza. Nonostante si capisse che era un’auto nuova, la luce della targa non funzionava, quindi era illeggibile. Spostandosi nella corsia di sinistra Gideon accelerò per dare un’occhiata all’interno del SUV dal parabrezza, ma a quell’ora era un’impresa disperata; rallentò, rimanendo di nuovo a una certa distanza in preda a un senso d’inquietudine sempre più forte. Il taxi acquistò velocità, ma la Navigator tenne il passo; non dava segno di volerlo superare, allora frenò leggermente. Qualcosa non andava. Il SUV avanzò piano finché il massiccio paraurti cromato toccò quello posteriore del taxi, dopodiché accelerò con un rombo scagliandolo in avanti e di lato. Con uno spaventoso stridore di gomme il taxi sterzò, poi recuperò e, sbandando, riuscì a passare nella corsia di sinistra. La Navigator gli fu subito dietro cercando di andargli addosso. Per evitare d’essere colpito, il taxi tornò nella corsia di destra e cercò di
rallentare, ma con un’abile manovra la Navigator lo seguì e lo speronò, stavolta con forza. Di nuovo il tassista accelerò per correggere la deviazione. Il suono del clacson si levò lamentoso sull’ampio viale. Il SUV balzò in avanti per speronarlo e il tassista si gettò sulla corsia di sinistra e girò l’angolo imboccando la East 116th Street verso est. Lì, in uno dei principali distretti commerciali di Spanish Harlem, c’era più movimento, il largo viale era illuminato e affollato di gente malgrado l’ora, i bar e i ristoranti erano tutti aperti. La Navigator svoltò con uno stridio di gomme e Gideon la seguì driftando maldestramente sulle quattro ruote. Con il cuore che gli batteva all’impazzata diede gas per inseguirli. Il conducente della Navigator non stava cercando di far accostare il taxi, ma di provocare un incidente mortale. Il taxi accelerò nel tentativo di battere in velocità il SUV. I due veicoli schizzarono verso est sulla 116th destreggiandosi nel traffico tra il furioso strombazzare dei clacson, le brusche frenate, le grida. Gideon stava sempre dietro i due veicoli, le mani sudate appiccicate al volante. Sfrecciarono oltre la Lexington e si avvicinarono al gruppo luminoso di semafori, nel punto in cui la 116th incrociava la Third Avenue. Viaggiavano a più di centodieci chilometri all’ora, quando il semaforo diventò giallo. Gideon frenò di colpo; non avrebbero mai potuto farcela. All’improvviso la Navigator si buttò all’esterno e accelerò contromano accostandosi al taxi. Poco prima dell’incrocio sterzò urtandolo con violenza sulla fiancata ormai senza controllo. La macchina speronata, in una nube di fumo, centrò un’auto in arrivo in mezzo all’incrocio, volò in aria e piombò in mezzo alla folla davanti una lechonera portoricana. Ci fu un rumore spaventoso, un cozzare di lamiera metallica contro carne. Vari corpi furono scagliati in aria come bambole di pezza e atterrarono ruzzolando nell’incrocio. Con un ultimo, orribile schianto il taxi fracassò la vetrina di un ristorante e si fermò sferragliando in un getto di vapore. Dalle rastrelliere e dai vassoi in mostra in vetrina cadde una pioggia di pezzi di maiale arrosto, cotenne e spiedi di maialino, che si riversò sul taxi accartocciato e rotolò sul marciapiede. Per un secondo ci fu un terribile silenzio. Poi esplose un boato di urla e grida nel fuggi fuggi generale. A Gideon, inorridito, sembrarono tutti formiche su un ceppo in fiamme. Accostò poco prima dell’incrocio, si precipitò fuori dalla limousine e corse verso il punto dell’incidente proprio mentre un autobus di linea diretto a nord arrivava rombando sulla Third Avenue a una velocità superiore al limite di almeno venti chilometri. Fermandosi al passaggio pedonale, Gideon guardò impotente il bus arrivare in volata; l’autista, accorgendosi all’ultimo dei corpi inerti, schiacciò il freno, ma era troppo tardi. Le pesanti ruote
passarono con un tonfo sordo sui cadaveri e i feriti spalmandoli sull’asfalto, poi il conducente perse il controllo del grosso mezzo, che slittò con un grande stridio di gomma bruciata. Gideon lo vide sbandare, colpire sulla fiancata una macchina dalla parte opposta dell’incrocio e poi fermarsi rovesciato sul fianco col motore in fiamme. I finestrini e la porta posteriore furono sfondati dai passeggeri urlanti che si riversarono fuori cadendo sul marciapiede, artigliandosi e calpestandosi nel tentativo di allontanarsi il più in fretta possibile. Gideon si guardò frenetico attorno in cerca della Navigator. La individuò, ferma a metà dell’isolato successivo. L’auto restò lì solo per un istante, poi con un rombo ripartì di corsa lungo la 116th e svoltò a sud sulla Second Avenue scomparendo alla vista. Gideon attraversò l’incrocio di corsa in direzione del taxi capovolto e con il muso in parte all’interno del ristorante. I corpi erano dappertutto, alcuni si muovevano, altri erano immobili. La benzina scorreva sul marciapiede formando un rivolo scuro, avanzando verso il pullman che bruciava e che esplose con un boato spaventoso e fu scagliato in aria. Le fiamme salirono fino a due, tre, quattro piani, gettando intensi bagliori rossastri sulla scena infernale. Centinaia di persone negli edifici circostanti stavano aprendo le finestre, allungando il collo, indicando. Si sentivano solo strilli e grida, richieste d’aiuto, lamenti, il gemito infinito del clacson dell’autobus, lo scoppiettare delle fiamme. Gideon non poté fare altro se non mantenere la lucidità. Gettandosi carponi, scrutò nella carcassa del taxi. Il lato del guidatore era totalmente accartocciato. Scorse l’autista: il corpo era un tutt’uno con il metallo contorto e i vetri. Girò in fretta dalla parte del passeggero, sul retro. E lì c’era Wu. Vivo. Aveva gli occhi sgranati e muoveva la bocca. Quando vide Gideon, allungò una mano insanguinata verso di lui. Lui afferrò la maniglia, cercò di aprirla. Ma la portiera era troppo deformata. Si stese sul ventre e si allungò nel finestrino rotto afferrando lo scienziato per entrambe le braccia. Le gambe dell’uomo erano orribilmente maciullate e sanguinanti. In parte trascinando, in parte trasportando Wu lontano dal fuoco che si propagava, trovò un posto sicuro dietro l’angolo e lo stese con cura. Estrasse il cellulare per chiamare il 911 ma al di sopra della cacofonia di rumori sentiva già le sirene convergere da ogni direzione. Si rese vagamente conto dell’enorme calca alle sue spalle. I curiosi si tenevano a distanza di sicurezza e osservavano la scena affascinati in modo morboso. Lo scienziato afferrò d’un tratto Gideon con una mano insanguinata, aggrappandosi alla divisa da autista. Negli occhi aveva uno sguardo perso, confuso, come se non sapesse cosa gli fosse successo. Mormorò a stento una parola.
«Cosa?» Gideon gli si avvicinò di più premendo quasi l’orecchio sulle labbra del cinese. «Roger?» sussurrò l’uomo in un inglese dal forte accento. «Roger?» «Sì» rispose lui pensando in fretta. «Sono io. Roger.» Wu disse qualcosa nella sua lingua, poi tornò all’inglese. «Scrivi questi numeri. Svelto. Otto sette uno zero cinque zero...» «Aspetta.» Gideon frugò in tasca, estrasse una matita e un pezzo di carta. «Ricomincia.» Wu cominciò a dettare a fatica un elenco di numeri. Nonostante il forte accento, la voce era acuta, chiara, meticolosa: 8710500330220140104783641560022112051 9715013510100175025033629924211400991 7052009008007004003500278100065057616 384370325300005844092060001001001001 Si fermò. «È tutto?» domandò Gideon. In risposta ebbe un cenno, poi Wu chiuse gli occhi. «Sai... cosa fare con quelli» aggiunse con voce stridula. «No. Dimmelo.» Ma Wu era caduto in stato di incoscienza. Gideon si alzò. Si sentiva stordito, stupido. Il sangue dello scienziato gli aveva macchiato il petto e le braccia. Adesso erano arrivate autopompe e polizia, che stavano bloccando il viale. L’autobus bruciava ancora, nubi di fumo nero acre si levavano tumultuose nell’aria della notte. «Oh, mio Dio!» esclamò una donna vicino a lui piangendo a dirotto, fissando il ristorante. «Che tragedia. Che spaventosa tragedia.» Gideon la guardò. Poi, mentre poliziotti, paramedici e vigili del fuoco gli passavano accanto correndo, le sirene che invadevano l’aria, si alzò, abbandonò la limousine a nolo, ora circondata dai veicoli d’emergenza e si incamminò lento senza dare nell’occhio verso l’ingresso della metropolitana a due isolati di distanza.
CAPITOLO 17 Henriette Yveline abbassò il portablocco, si tolse gli occhiali da lettura e fissò il giovane inzaccherato con l’abito scuro che era giunto incespicando al banco accettazione del pronto soccorso. Era di bell’aspetto, alto e magro, i capelli corvini gettati di lato gli ricadevano sugli occhi azzurro intenso. Dio mio, in che stato era: le mani, le braccia e la camicia sporche di sangue, lo sguardo allucinato, puzzava di benzina e di gomma bruciata. Tremava. «Posso aiutarla?» chiese in tono fermo ma gentile. Le piaceva tenere la sala d’attesa del pronto soccorso in ordine, compito non facile al Mount Sinai Hospital in una notte calda di un sabato di giugno. «Dio, sì, sì» rispose precipitoso l’uomo. «Il mio... il mio amico è appena arrivato. Un orribile incidente d’auto. Si chiama Wu Longwei ma si fa chiamare Mark Wu.» «E lei è?» L’uomo deglutì cercando di recuperare il controllo. «Un amico di famiglia. Gideon Crew.» «Va bene, signor Crew. Si sente bene? Non è ferito? Sta sanguinando?» «No, no, niente» replicò preoccupato. «Non... non è il mio sangue.» «Capisco. Un attimo, per favore.» Si rimise gli occhiali da lettura, prese il portablocco con le accettazioni e le studiò con attenzione. «Il signor Wu è stato ricoverato quindici minuti fa. Adesso i medici sono con lui. Perché non si siede?» Indicò in direzione dell’ampia e sobria sala d’aspetto, piena per metà di persone, alcune delle quali piangevano sommessamente, altre con lo sguardo perso nel vuoto. Una famiglia numerosa se ne stava appartata in un angolo a dare conforto a una donna singhiozzante di centotrenta chili. «La prego, mi dica, come sta?» chiese Gideon. «Mi dispiace, ma non sono autorizzata a dare informazioni al riguardo, signor Crew.» «Ho bisogno di vederlo. Devo vederlo.» «In questo momento non può vedere nessuno» rispose Henriette un po’ più decisa. «Mi creda, i medici stanno facendo tutto il possibile.» Tacque e aggiunse: «Il Mount Sinai è uno dei migliori ospedali del mondo». Tutti traevano conforto da questa frase. «Almeno mi dica in quale stato è.» «Mi dispiace, signore, purtroppo le regole non mi consentono di dare informazioni mediche a nessuno che non sia un famigliare.» L’uomo la fissò. «Cosa intende per “famigliare”?» «Un parente identificato o un coniuge.» «Sì, ma... vede, io e Mark... noi siamo... compagni. Compagni nella vita.» Anche con il viso sporco e insanguinato lo vide arrossire a quel dettaglio privato.
La Yveline posò il portablocco. «Capisco. Ma posso solo dare informazioni a un parente o a un coniuge legale.» «Legale? Per l’amor del cielo, sa perfettamente che a New York i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono contro la legge!» «Sono molto spiacente, signore. Le regole sono regole.» «È morto?» La voce dell’uomo si alzò di parecchi decibel. Lei lo guardò vagamente allarmata. «Signore, la prego di calmarsi.» «Per questo non me lo vuole dire? Oh, mio Dio! È morto?» Adesso stava proprio gridando. «Ho bisogno di un pezzo di carta, di una prova della vostra relazione...» disse Henriette, poi si interruppe. La questione sui diritti di visita ospedaliera di compagni omosessuali era oggetto di continue e infinite revisioni procedurali. Le discussioni sull’argomento erano all’ordine del giorno e la direzione dell’ospedale aveva ingiustamente demandato ai dipendenti l’arduo onere di affrontare le proteste. «Chi si porta dietro un fascio di documenti ufficiali?» L’uomo cominciò a piangere. «Siamo appena arrivati dalla Cina!» Si scostò la massa arruffata di capelli dalla faccia con gli occhi iniettati di sangue e le labbra tremanti. «So che è sconvolto, signore, ma non possiamo dare informazioni mediche a qualcuno che sostiene d’essere il compagno senza prove di sorta.» «Vuole una prova?» Gideon tese le mani insanguinate e la sua voce salì di un’altra ottava. «Ecco la prova! Guardi qui! Il suo sangue sulle mie mani! Sono io che l’ho tirato fuori dall’auto!» Henriette Yveline non riuscì nemmeno a trovare le parole per rispondere. L’intera stanza stava ascoltando. Persino il donnone di centotrenta chili aveva smesso di piangere. «Devo sapere!» Con quell’ultimo gemito le ginocchia gli cedettero. Crollò a terra. La receptionist premette il pulsante dell’emergenza chiamando la caposala del triage. La folla fissò l’uomo sul pavimento, ma siccome il suo crollo era stato più emotivo che fisico si stava già riprendendo. Si mise in ginocchio iperventilando; qualcuno accorse per dargli una mano. «Mettetelo a sedere» disse Henriette. «L’infermiera sta arrivando.» Lo aiutarono ad adagiarsi su una sedia contro il muro. Lui vi si lasciò cadere pesantemente, si coprì la faccia e singhiozzò forte. «Signora, per favore» intervenne una ragazza. «Che male c’è a dirgli come sta il suo amico?» Un mormorio di assenso si levò dalla gente. Gideon Crew si dondolava sulla sedia con la faccia tra le mani. «È morto» ripeteva. «Lo so. È morto.» Henriette ignorò la folla e tornò al suo portablocco. Era proprio una vergogna che le regole la obbligassero a comportarsi in quel modo. Ma era determinata a non mostrarsi tentennante né debole.
«Perché non gli dice semplicemente se il suo amico è fuori pericolo?» insistette la giovane. «Signora, non le faccio io, le regole. Le informazioni mediche sono private.» Arrivò un’infermiera trafelata. «Dov’è il paziente?» «È sconvolto... è crollato a terra.» Henriette glielo indicò. La donna gli si avvicinò assumendo all’istante un tono calmo. «Salve, mi chiamo Rose. Cos’è successo?» L’uomo rispose molto infuriato. «Lui è morto e non me lo vogliono dire.» «Lui chi?» «Il mio compagno. In pronto soccorso. Però non mi vogliono dire niente perché non ho un pezzo di carta.» «Vivete insieme da molto tempo?» La risposta fu un cenno d’assenso. «Cinque anni. Lui è tutto per me. Qui non ha famiglia.» Alzò lo sguardo all’improvviso, supplicante. «La prego, non lasciatelo morire solo!» «Posso?» L’infermiera gli prese il polso, gli applicò un manicotto e rilevò la pressione sanguigna. «Lei sta bene. È solo agitato. Respiri più lentamente mentre vado a parlare con il personale dell’accettazione.» Lui annuì faticando a riprendere il controllo del respiro. L’infermiera si avvicinò a Henriette. «Senti, autorizziamolo come partner e basta. D’accordo? Mi assumo io tutta la responsabilità.» «Grazie.» La caposala se ne andò mentre Henriette recuperava il file elettronico e leggeva l’ultimo aggiornamento. «Signor Crew?» Gideon balzò su e si avvicinò. «Il suo amico è ferito in modo critico ma è vivo e si sta stabilizzando» mormorò. «Ora se firma questo modulo la autorizzerò in qualità di compagno del paziente.» «Grazie a Dio!» gridò lui. «È vivo, grazie a Dio è vivo!» La sala d’attesa proruppe in un applauso.
CAPITOLO 18 Gideon Crew si guardò attorno nella stanza che aveva riservato all’Howard Johnson Motor Lodge sulla Eighth Avenue. Incredibilmente, era decorosa, ben arredata, senza nemmeno una traccia di blu e d’arancione, e, ciliegina sulla torta, aveva un dock per l’iPod. Estrasse il proprio e, dopo aver valutato le varie possibilità, selezionò Blue in Green di Bill Evans e lo collocò nel dock. Gli accordi dolce-amari di The Two Lonely People pervasero la camera d’albergo. Buttò giù l’ultimo dito del suo espresso quintuplo e gettò il bicchierino nel cestino. Per parecchi minuti rimase immobile sulla sedia accanto al piccolo tavolo lasciando che la musica introspettiva e malinconica lo investisse, desideroso di rilassarsi, muscolo dopo muscolo, di far sì che gli eventi del giorno trovassero ordine nella mente. Solo quindici ore prima era a pesca di trote al torrente Chihuahueños. E ora eccolo lì, seduto in una stanza d’albergo di Manhattan, con ventimila dollari in tasca, una sentenza di morte sulla testa e il sangue di uno sconosciuto sulle mani. Si alzò, si sfilò la camicia e andò in bagno a lavarsi mani e braccia. Uscì e indossò una camicia pulita. Coprendo il letto con sacchetti di plastica per l’immondizia, vi dispose sopra con cura i vestiti di Wu tagliati in pronto soccorso e già finiti nel flusso dei rifiuti medici. Recuperarli non era stato facile. Una commovente storia natalizia a proposito di una promessa infranta, di un sarto di Hong Kong e di un cucciolo perduto aveva infine prodotto l’effetto desiderato... per un soffio. Sistemati gli abiti, ordinò il contenuto del portafoglio di Wu, i pochi spiccioli ripescati dalle tasche, il passaporto, una penna a sfera, un antiquato rasoio da viaggio in un contenitore di plastica, senza lametta, che aveva trovato nella tasca della giacca. Niente cellulare, niente BlackBerry, niente calcolatrice, niente flash drive. Mentre lavorava sorse l’alba, le finestre dell’albergo virarono dal grigio al giallo, e la città si svegliò con i clacson delle auto e il traffico. Quando ogni cosa fu disposta con precisione geometrica, osservò il tutto con un dito appoggiato pensierosamente al labbro inferiore. Se l’uomo trasportava i progetti di un nuovo tipo d’arma, non era uno scherzo capire dove si trovassero... sempre che li avesse addosso. L’elenco di numeri che Wu gli aveva dettato a fatica sulla scena dell’incidente non poteva essere la serie completa dei piani: progetti simili implicherebbero, anche in forma molto compressa, una quantità significativa di dati. Dovevano essere conservati in forma digitale; quindi cercò un microchip, un dispositivo di memoria magnetico o a bolle, un’immagine olografica immagazzinata in qualche mezzo o forse un supporto a lettura laser tipo un CD o DVD.
Sembrava logico che Wu si fosse tenuto i piani addosso. Chissà, magari all’interno del corpo. Con un vago brivido Gideon decise che si sarebbe occupato in seguito dell’aspetto «interno»; prima avrebbe cercato tra i pochi beni del cinese. Da un sacchetto accanto alla porta estrasse un apparecchio elettronico appena comprato. Era incredibile come a Manhattan si potesse trovare di tutto a qualsiasi ora della notte o del giorno, dalle bombe ai pompini. Aprì la scatola e iniziò a montarlo. Il MAG 55W05 Advanced Countermeasures Sweep Kit era un apparecchio usato dagli investigatori privati, dai direttori generali e da altri soggetti paranoici per ispezionare gli ambienti in cerca di cimici. Mentre ultimava il montaggio, lesse in fretta il manuale, poi lo accese. Con meticolosa lentezza passò l’antenna del rilevatore sugli indumenti stesi sul letto. Nessun risultato. Anche il portafoglio e il suo contenuto, soldi, biglietti da visita, foto di famiglia, risultarono negativi, tranne per la striscia magnetica dell’unica carta di credito che Wu aveva con sé. Quando l’antenna fu sopra la striscia, il MAG 55 emise un bip e lampeggiò mentre sullo schermo a LED le barre correvano su e giù. Sembrava ci fossero dei dati sulla striscia, ma quanti esattamente non lo sapeva: l’apparecchio gli disse soltanto che erano inferiori a 64kb. Avrebbe dovuto trovare il modo di scaricarli ed esaminarli. Il passaporto cinese di Wu era dotato di una striscia magnetica lungo il bordo esterno della copertina anteriore, proprio come quelli statunitensi. Usando il lettore integrato riuscì a stabilire che la striscia conteneva dati anch’essi inferiori a 64kb. Si grattò la testa, pensieroso. Troppo pochi per illustrare in modo credibile il funzionamento di un’arma segreta. La tecnologia avanzata era in grado di comprimere notevolmente i dati, ma non sapeva fino a che punto. Il passaporto e la carta di credito andavano analizzati di nuovo. Si gettò su una poltrona con il poggiatesta e chiuse gli occhi. Non dormiva da ventiquattro ore. Ascoltò l’intensa progressione degli accordi di Very Early, lasciando vagare la mente nel turbinio di colori e ritmi. Il padre era un patito di jazz; lo ricordava seduto sulla sua sedia imbottita con la testa china sull’Hi-Fi mentre ascoltava Charlie Parker e Fats Waller battendo il piede a tempo di musica e dondolando il capo. Era l’unica musica che Gideon ascoltava, e la conosceva bene, molto bene... Poi si accorse che si stava svegliando; sentì le ultime fievoli battute di If You Could Hear Me Now. Si alzò, andò in bagno e cacciò la testa sotto il rubinetto aprendo l’acqua fredda. Si asciugò ed emerse con nuovo vigore. Gideon aveva la capacità di cavarsela con pochissimo sonno e di svegliarsi dai pisolini completamente ricaricato. Ora erano quasi le nove del mattino e udiva le inservienti parlare
in corridoio. Messo via il rilevatore, iniziò un accurato esame visivo degli abiti di Wu con una lente da gioielliere e con un coltello X-Acto per aprire gli orli e i doppi strati. I vestiti erano rigidi, impregnati di sangue, con sopra appiccicati pezzi di metallo, vetro e plastica. Tolse ogni frammento con le pinze e lo posò su una salvietta di carta per esaminarlo successivamente. I pantaloni, in particolare, erano sporchi e strappati qua e là. Nei punti in cui il sangue era spesso e incrostato procedette passando delle salviette di carta bagnate, tamponando e prelevando poi ogni pezzetto. Quattro ore dopo aveva terminato. Niente. Era il turno delle scarpe. Aveva tenuto per ultimo il nascondiglio più probabile. Mezzogiorno. Non mangiava dall’ora di pranzo del giorno prima, un sandwich su tra i monti, e l’unica sostanza all’interno del suo stomaco era un’enorme quantità di caffè espresso. Gli sembrava di aver bevuto mezzo litro di acido per batterie. Non importava: prese il telefono e ordinò un espresso triplo al servizio in camera, caldo, molto caldo. Prese le scarpe dal sacchetto di carta e le posò sul tavolino. Erano imitazioni cinesi delle John Lobb, entrambe sporche di sangue secco: le gambe di Wu erano state schiacciate. Una era orribilmente maciullata, l’altra incrostata di poltiglia. Nella calura estiva avevano già iniziato a puzzare. Fatto spazio, esaminò la scarpa destra con il rilevatore. Niente. Bussarono. Uscì tenendo la porta pressoché chiusa, prese il caffè, diede la mancia al cameriere e lo buttò giù in un’unica sorsata. Gli sembrava di avere uno sturalavandini nello stomaco, ma tornò comunque al lavoro, smembrò la scarpa metodicamente, pezzo per pezzo, ed etichettò tutto con un pennarello. Prima staccò il tacco, poi la suola e sistemò bullette e punti in file ordinate, da una parte. Con l’X-Acto scucì tutti i pezzi di pelle e li dispose in fila. Il tacco era di cuoio, fatto di vari strati; li separò con attenzione e li mise uno accanto all’altro. Una seconda passata con il rilevatore non produsse risultati. Sempre aiutandosi con il coltello, aprì ogni pezzo di pelle esaminandone entrambi i lati e li passò di nuovo con l’apparecchio. Niente. Ripeté la procedura sull’altra scarpa senza successo. Impacchettò il tutto in sacchetti dotati di zip, etichettandoli uno a uno, dopodiché li ordinò e li infilò in una grande valigetta Pelican, che aveva acquistato appositamente, chiudendola bene. Si appoggiò allo schienale della poltrona. «Accidenti a me» bofonchiò esasperato. La faccenda stava diventando noiosa. Il pensiero di tutti i soldi che Glinn gli aveva promesso lo rianimò un po’. Ora il lavoro interno. Sembrava improbabile, comunque doveva essere scrupoloso. Prima, però: Musica per Interiora. Meglio qualcosa di più
tranquillo. Optò per Air di Cecil Taylor. Prese una spessa cartelletta dal comodino, la serie completa di radiografie del pronto soccorso, dalla testa ai piedi, a cui aveva avuto accesso in qualità di «compagno» di Wu. Togliendo il paralume alla lampada sollevò la prima, la avvicinò alla luce e la studiò con la lente centimetro per centimetro. La testa, il torace superiore e le braccia erano puliti, ma quando arrivò alla parte inferiore del torace per poco il cuore non gli si fermò: c’era un piccolo punto bianco, che indicava la presenza di qualcosa di metallico. Afferrò la lente e lo analizzò restando subito deluso. Era senza dubbio un pezzo di metallo... un frammento contorto incastratosi durante l’incidente d’auto. Non era un microchip né un minuscolo contenitore, e nemmeno un aggeggio segreto da spia. Nello stomaco o nel tratto intestinale non c’era nulla, nessun palloncino o dispositivo di immagazzinamento. Niente nemmeno nel retto. Guardare le radiografie delle gambe lo sconvolse. C’erano più di dieci pezzi di metallo, tutti rappresentati come punti bianchi irregolari, insieme a pezzi più grigi che immaginò fossero frammenti di vetro e di plastica. Le radiografie erano state prese da diverse angolature e riuscì a farsi un’idea approssimativa della forma di ogni pezzo: nessuno ricordava lontanamente un chip elettronico, un contenitore o una capsula di piccole dimensioni, un dispositivo di immagazzinamento magnetico o a lettura laser. Ebbe una visione di Wu, simile a un gufo, che scendeva la scala mobile, spaventato e intento a guardarsi attorno, piccolo, serio e... coraggioso. Per la prima volta Gideon considerò il rischio che aveva corso. Perché lo aveva fatto? Sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito a camminare ancora o anche semplicemente a sopravvivere. Il cinese era in coma; in ospedale avevano dovuto praticargli un foro nel cranio per alleviare la pressione. Gideon all’improvviso prese coscienza del fatto che quello non era stato un incidente. Era stato un tentato omicidio. No, con la morte del tassista innocente e di cinque o sei passanti era un vero omicidio, un omicidio di massa. Scacciando quei pensieri, rimise le radiografie nella cartelletta e si alzò per andare alla finestra. Era tardo pomeriggio: ci aveva dedicato tutto il giorno. Il sole stava già tramontando; la luce gialla, lunga, si riversava sulla 51st Street e i pedoni gettavano ombre sparute. Era giunto a un punto morto, o così sembrava. E adesso? Il brontolio allo stomaco gli ricordò che era arrivato il momento di riempirlo con qualcosa diverso dal caffè. Prese il telefono, chiamò il servizio in camera e ordinò venti ostriche crude servite su conchiglia.
CAPITOLO 19 Il deposito veicoli della polizia era situato sull’Harlem River nel South Bronx, all’ombra del Willis Avenue Bridge. Gideon scese dal taxi e si ritrovò in una zona squallida di magazzini e lotti industriali zeppi di vecchie carrozze ferroviarie, scuolabus abbandonati e container smangiati dalla ruggine. Dal fiume arrivava un puzzo di fanghiglia e molluschi morti. Il rumore bianco del traffico durante l’ora serale di punta sulla Major Deegan Expressway ronzava nell’aria come uno sciame d’api. Era vissuto in un quartiere non molto diverso da quello, nell’ultima di una serie di case sempre più misere che aveva condiviso con la madre. Anche il cattivo odore era familiare. Era un pensiero piuttosto deprimente. Un recinto di rete metallica sormontato da filo spinato circondava la struttura; sulla parte anteriore, accanto a una guardiola, c’era un cancello scorrevole su ruote. Oltre il recinto si estendeva un parcheggio pressoché deserto, contornato da sommacchi moribondi, al di là dei quali se ne stava acquattato un lungo magazzino. Dietro ancora, a destra, si trovava un cortile pieno di auto accatastate e schiacciate. Gideon raggiunse con passo rilassato la guardiola. Vide un poliziotto dalla carnagione scura; se ne stava seduto dietro le finestre di plastica a leggere un libro. Mentre lui si avvicinava, l’agente aprì la finestra che dava sulla strada con un braccio grosso quanto un prosciutto, tutto coperto di peli da gorilla. «Sì?» «Salve» lo salutò Gideon. «Mi chiedevo se potesse aiutarmi.» «Per cosa?» domandò l’uomo, sempre chino sul libro. Crew si spostò per vedere la copertina. Restò sorpreso: stava leggendo La città di Dio di Sant’Agostino. «Be’» proseguì assumendo il tono più servile e ossequioso possibile, «mi spiace tanto disturbarla.» «Nessun disturbo» rispose lui posando infine il libro. Gideon fu sollevato nel notare che, nonostante la fronte sporgente da uomo di Neanderthal e un’ombra di barba, aveva un volto aperto, cordiale. «Mio cognato» esordì, «Tony Martinelli, è il tassista che è rimasto ucciso in quell’incidente ieri notte. Quello in cui qualcuno lo ha buttato fuori strada sulla 116th Street... ha letto?» Ora il poliziotto era interessato. «Certo. Il peggiore incidente automobilistico in tanti anni: era su tutti i giornali. Era suo cognato? Mi spiace.» «Mia sorella è davvero a pezzi. È terribile... ha due bambini piccoli di uno e tre anni, non ha soldi e un mutuo pesante sulla casa.» «È proprio dura» commentò l’altro mettendo da parte il libro e sembrando sinceramente preoccupato.
Gideon si tolse un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la fronte. «Bene» disse, «ecco il punto. Appeso al retrovisore aveva un medaglione religioso. Era splendido, di argento 925, lo possedeva da una vita. San Cristoforo.» L’agente annuì in segno di comprensione. «Tony è andato in Italia nel 2000, l’anno del Giubileo, e il papa in persona ha benedetto quel medaglione. Non so se lei sia cattolico, ma San Cristoforo è il santo protettore degli automobilisti, e con il fatto che lui era un tassista e via discorrendo... be’, era la cosa più preziosa che possedesse. Quel momento con il papa è stato il culmine della sua vita.» «Sono cattolico. E capisco perfettamente.» «Ne sono contento. Non so se possa farlo e non vorrei metterla nei guai, ma significherebbe tanto per mia sorella riavere quel medaglione. Per metterlo, sa, nella bara e seppellirlo con il marito. Le sarebbe di enorme conforto...» La voce gli si ruppe. «Mi scusi» mormorò armeggiando in cerca del fazzoletto che si era portato appositamente e soffiandosi il naso. L’agente si dimenò a disagio. «Mi spiace per lei e i bambini, dal più profondo del cuore. Ma c’è un problema.» Gideon attese paziente. «C’è un problema» ripeté imbarazzato il poliziotto cercando il modo di dirlo. «La carcassa dell’auto è una prova in un’indagine su un caso di omicidio. In questo momento è sotto chiave, non ci si può nemmeno avvicinare.» «Sotto chiave?» «Sì. Nella gabbia prove laggiù.» Indicò con il pollice in direzione del magazzino. «Ma di sicuro qualcuno potrà entrare là dentro e staccare il medaglione dallo specchietto. Quello non è una prova.» «Mi rincresce davvero, ma le ripeto: quel taxi è sotto chiave. È racchiuso in una gabbia di rete metallica. Il magazzino stesso è chiuso a chiave e dotato di allarme. Cerchi di comprendere... in un caso del genere la catena di custodia delle prove è cruciale. Il taxi è una prova: ha sopra dei graffi, la vernice dell’altro veicolo, quello che l’ha speronato. È un grosso caso di omicidio! In quell’incidente sono morte sette persone e altre sono rimaste gravemente ferite. E stanno ancora cercando il bastardo che lo ha provocato. Nessuno può entrare là dentro, tranne il personale autorizzato, e anche in quel caso dopo aver riempito un sacco di moduli. Tutto ciò che fanno sull’auto deve essere registrato su nastro. È per un valido motivo, per aiutarci ad acciuffare il responsabile e sbatterlo in galera.» Gideon fece il muso lungo. «Capisco. È un peccato, avrebbe significato molto.» Alzò lo sguardo e si illuminò come se avesse avuto una nuova idea. «Tony non sarà sepolto prima di una o due settimane almeno. Resterà sotto chiave così tanto?» «Poco ma sicuro, quel taxi resterà sotto chiave finché non prenderanno quel
tizio, ci sarà un processo e forse un appello... potrebbe trattarsi di anni. Vorrei non fosse così.» L’agente allargò le mani. «Anni.» «Cosa racconto a mia sorella? Ha detto che il magazzino è dotato d’allarme?» «Dotato di allarme e sorvegliato, ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. E anche se riuscisse a entrarci, gliel’ho già spiegato, il veicolo è chiuso in una gabbia per le prove proprio in fondo, e nemmeno la guardia ha la chiave.» Gideon si sfregò il mento. «Una gabbia di rete metallica?» «Sì, tipo quelle che usano a Guantánamo.» «Anche la gabbia è dotata d’allarme?» «No.» «Dove sono gli allarmi nel magazzino?» «Su porte e finestre.» «Sensori di moto? Laser?» «No, c’è una guardia che fa un giro ogni mezz’ora. Credo che solo porte e finestre abbiano l’allarme.» «Telecamere?» «Sì, dappertutto. Coprono l’intera area.» Tacque facendosi serio in volto. «Non ci pensi.» Gideon scosse la testa. «Ha ragione. Cosa diavolo mi viene in mente?» «Sia paziente. Alla fine riavrà il medaglione, e forse a quel punto avrà la soddisfazione di vedere il criminale farsi dai venticinque anni all’ergastolo a Rikers Island.» «Spero lo friggano, quel bastardo.» Il poliziotto si protese e posò una mano carnosa su quella di Gideon. «Mi dispiace molto per la sua perdita.» Lui annuì, premette la mano dell’agente e si allontanò. Quando giunse in fondo all’isolato, si girò e si guardò indietro. Sotto le grondaie agli angoli del magazzino notò una serie di telecamere di sorveglianza che coprivano interamente l’area esterna. Le contò: dodici solo da quella posizione esposta. Dovevano essercene molte di più dall’altra parte dell’edificio e altrettante all’interno. Si voltò e rifletté su quanto aveva appreso. In genere quelli che la gente definiva sistemi di sicurezza erano in realtà un’accozzaglia di cose, una marea di puttanate elettroniche costose messe su a casaccio senza preoccuparsi di realizzare una rete completa e coordinata. Una delle sue peggiori abitudini, che gli guastava il piacere di visitare i musei, era la propensione a scoprire come fosse facile rubare: trasmettitori senza filo, sensori di moto e vibrazioni, rilevatori a infrarossi senza contatto, ultrasuoni... era tutto così ovvio. Scosse la testa in preda a qualcosa di simile al rimpianto. Lì, nel magazzino della polizia, non ci sarebbero state difficoltà. Neppure una.
CAPITOLO 20 Le tre del mattino. Gideon Crew percorse senza fretta Brown Place e attraversò la 132nd Street muovendosi un po’ a zig-zag e borbottando tra sé. Indossava jeans larghi e una felpa sottile con una serigrafia di Cab Calloway, un bel tocco, pensava, e un cappuccio che gli ricadeva sul viso. La finta pancia acquistata in un negozio di forniture teatrali gli gravava calda e pesante sul busto e premeva con forza sulla Colt Python infilata nella cintura contro la pelle. Attraversò la strada, salì incespicando sul marciapiede opposto e continuò sulla 132nd verso Pulaski Park, lungo la recinzione metallica che circondava il magazzino della polizia. Le lampade al sodio gettavano dappertutto una luce intensa color urina e i singoli riflettori di sicurezza attorno al magazzino contribuivano all’insieme con il loro bianco brillante. La guardiola era vuota, il cancello chiuso e bloccato, i rotoli di filo spinato in cima al recinto scintillavano nella luce. Raggiunto il punto in cui il recinto piegava in direzione di un vecchio binario ferroviario in un parcheggio abbandonato e invaso dalla vegetazione, ora diventato un deposito di vecchi autoarticolati, superò barcollando l’angolo guardando qua e là come se cercasse un posto per pisciare. Davanti a lui non ce n’era nemmeno uno e dubitò che qualcuno lo stesse osservando, ma di sicuro le telecamere di sorveglianza avrebbero registrato ogni sua mossa; probabilmente non venivano controllate in tempo reale, però sarebbero state di certo esaminate in seguito. Vacillando lungo il recinto, si aprì la patta, fece una pipì fumante e continuò fino ai binari. Girandosi di nuovo, ormai non più visibile dalla strada, si accucciò di colpo, frugò in tasca e si infilò un collant sulla faccia. La parte inferiore della rete metallica era ancorata a blocchi di cemento, e non poteva essere sollevata. Da sotto la felpa larga estrasse un tronchese e tranciò le maglie sul fondo, poi verso l’alto, lungo un palo. Afferrò la sezione tagliata e la piegò verso l’interno. Un attimo dopo era dentro. Rimise a posto il pezzo di rete e si guardò attorno. Il magazzino aveva due portoni enormi, uno davanti e uno sul retro, nei quali era stata ricavata una porta più piccola. Si avvicinò di corsa al portone posteriore e, come previsto, trovò una tastiera numerica con un piccolo schermo a LED per inserire o disinserire l’allarme. Non c’erano spioncini né finestre: la porta era un blocco unico di metallo. Naturalmente non conosceva il codice per togliere l’allarme, ma dentro c’era qualcuno che lo conosceva, quindi doveva chiamarlo. Bussò e attese. Silenzio.
Bussò di nuovo, più forte. «Ehi!» gridò. Ora sentiva all’interno il rumore della guardia che si avvicinava alla porta. «Chi è?» chiese una voce. «Agenti Halsey e Medina» abbaiò Gideon con voce sonora, autoritaria. «Tutto bene? Al distretto è scattato un allarme silenzioso.» «Allarme silenzioso? Non ne so niente.» Gideon attese mentre la guardia inseriva la password sulla tastiera dall’altra parte. Sul display a LED esterno i numeri apparvero sotto forma di asterischi. Quando la porta iniziò ad aprirsi, balzò dietro l’angolo e fuggì in direzione del cortile pieno di rottami individuato in precedenza come nascondiglio. Salì su una catasta di auto accartocciate e si stese in cima a osservare. «Ehi!» urlò la guardia sulla soglia scrutando attorno in preda al panico ma senza osare avventurarsi all’esterno. «Chi è là?» domandò con una nota d’allarme nella voce. Gideon aspettò. Un allarme prese a ululare, la guardia lo aveva premuto, proprio a comando, e nel giro di cinque minuti arrivarono tre auto della polizia. Si fermarono con uno stridio di gomme accanto al marciapiede e gli occupanti saltarono fuori. Sei agenti. Lui sorrise. Più ce n’erano, meglio era. Cominciarono a perlustrare il luogo, tre si occuparono dell’interno del magazzino, tre del cortile con i rottami. L’aveva previsto: erano fuori forma e non tentarono nemmeno di salire sulle cataste di auto. Gideon li guardò curiosare e puntare le luci dappertutto per una trentina di minuti, divertendosi a ricostruire nella mente la complicata linea di basso del pezzo di Cecil Taylor ascoltato il pomeriggio precedente. Poi ispezionarono il recinto perimetrale, ma non notarono la breccia ben occultata che vi aveva creato. Nel frattempo, gli altri tre agenti e la guardia andavano e venivano dal magazzino senza preoccuparsi di chiudere, fermare o dotare d’allarme la porta. Infine, ultimata l’ispezione, i sei poliziotti si radunarono insieme alla guardia nel parcheggio, accanto alle macchine, da cui comunicarono via radio al distretto. Stava andando tutto a meraviglia. Gideon scese dal mucchio di auto, abbandonò di corsa il cortile, schizzò attraverso il parcheggio e si appiattì contro il muro del magazzino. Avanzò strisciando verso la porta, ancora semiaperta, e sgattaiolò all’interno. Restando nell’ombra trovò un nuovo nascondiglio all’interno del magazzino, in un anfratto tra due alte file di gabbie metalliche, ciascuna delle quali custodiva un’auto. Si soffocava, lì dentro, l’aria stagnante puzzava di benzina, olio e gomma bruciata. Passarono altri quindici minuti e la guardia rientrò, chiuse a chiave la porta dietro di sé e riattivò l’allarme. Gideon lo osservò percorrere il magazzino
per tutta la lunghezza e sistemarsi in un’area illuminata in fondo, provvista di un tavolo e di una sedia, di un’immensa fila di monitor CCTV e di un apparecchio televisivo. La guardia accese il televisore e si mise comoda. Era una puntata di una vecchia sit-com, e a ogni battuta si udivano risate pre-registrate. Ascoltò. Erano davvero la voce penetrante di Lucille Ball e lo sbraitare di Ricky Ricardo in risposta? Che Dio benedica i sindacati, pensò Gideon, che avevano lottato tanto duramente per il diritto dei dipendenti del turno di notte ad avere a disposizione una tivù. Carponi, avanzò lungo le file di gabbie scrutandovi dentro fino a trovare la carcassa della Ford Escape. Estrasse il tronchese e un grosso straccio di cotone che avvolse alla prima maglia della rete, attese la risata preregistrata e tagliò. Riavvolse lo straccio alla maglia seguente, attese la risata e tagliò. Terminò quando lo spettacolo finì con la consueta esplosione di musica da pseudo-Copacabana. Aprendo il varco, sgusciò all’interno della gabbia metallica. L’auto era un disastro totale. Era stata smembrata e tagliata in vari pezzi contorti; si faceva molta fatica a capire che erano appartenuti a un veicolo. Era ancora grondante di sangue e poltiglia e puzzava come una macelleria in una calda giornata estiva. Strisciandovi attorno, Gideon individuò la zona posteriore del passeggero dove sedeva Wu e s’infilò all’interno. Il sedile era appiccicoso di sangue. Cercando di estraniarsi, cacciò le mani nello spazio dietro e tastò. Quasi subito sentì qualcosa di piccolo e duro. Lo afferrò, lo cacciò in una bustina a tenuta stagna che aveva preso dalla tasca e lo sigillò con una sensazione di trionfo. Un cellulare.
CAPITOLO 21 Nei quattro anni in cui Roland Blocker aveva fatto il turno di notte al magazzino non era mai accaduto niente. Assolutamente niente. Sempre la stessa routine notte dopo notte. Le stesse ronde, la stessa confortante rassegna di sit-com televisive in bianco e nero. Blocker amava la pace e la quiete di quel vasto spazio. Si era sempre sentito al sicuro come in un bozzolo, lì dentro, con le sue pesanti porte metalliche, gli allarmi e le telecamere perennemente vigili, il tutto ben protetto da un recinto di rete metallica di tre metri e mezzo con filo spinato. Non aveva mai avuto fastidi, né tentativi di scasso, niente. In fondo chi poteva avere interesse a rubare dei rottami? C’erano solo auto ripescate dai fiumi con dentro cadaveri, o ritrovate con un corpo chiuso nel bagagliaio, oppure auto bruciate, dei trafficanti di droga o coinvolte in sparatorie. Ora tuttavia, dopo quell’episodio, dopo che gli agenti se ne erano andati, si sentì per la prima volta spaventato. Era stata una cosa maledettamente strana, quella voce oltre la porta. L’aveva udita davvero o se l’era sognata? Un paio di poliziotti che avevano risposto all’allarme l’avevano velatamente accusato di dormire sul lavoro. E lui si era incazzato: non lo faceva mai. Le telecamere di sorveglianza erano accese ventiquattr’ore su ventiquattro, e Dio solo sapeva chi avrebbe verificato i nastri, dopo. I Love Lucy era finito e lo spettacolo seguente era The Beverly Hillbillies, il preferito di Blocker nel palinsesto notturno. Cercò di rilassarsi mentre iniziava la sigla musicale; il suono metallico dei banjo e l’accento esagerato dei campagnoli lo facevano sempre sorridere. Si chinò per aumentare l’aria condizionata e orientare i bocchettoni in modo che soffiassero direttamente su di lui. Sentì un rumore. Un clank, come se un pezzo di metallo fosse caduto delicatamente sul pavimento di cemento del magazzino. Armeggiando in cerca del telecomando, tolse il volume alla tivù per sentire meglio. Clank. Il rumore si ripeté; più vicino, stavolta. All’improvviso il cuore prese a battergli forte nel petto. Prima la voce, ora questo. Scrutò la serie di monitor CCTV interni, ma non mostrarono nulla di anomalo. Doveva premere di nuovo l’allarme? No, la polizia non glielo avrebbe mai perdonato. Considerò l’idea di mettersi a gridare, ma sarebbe stato da idioti: se c’era un intruso nel magazzino, non avrebbe risposto. Alzandosi dalla sedia, Blocker sganciò la Maglite e si avviò in direzione del secondo rumore; si mosse cauto, tenendo la mano libera appoggiata al calcio dell’arma di servizio. Raggiunta l’area sospetta, puntò la luce di qua e di là. Quell’angolo conteneva pallet impilati di vecchi pezzi d’auto cellofanati, tutti etichettati:
prove prelevate da veicoli anni prima, che non potevano ancora essere buttate. Niente. Era solo nervoso per la faccenda di prima. Forse nel magazzino erano entrati dei topi. Tornò nel suo piccolo ufficio e si sedette; alzò il volume del televisore, stavolta un po’ più del solito. Il rumore lo confortò. Era l’episodio in cui il banchiere fingeva un assalto degli indiani a villa Clampett, uno dei suoi preferiti. Si aprì una nuova Diet Coke e si preparò a goderselo. Clank. Si raddrizzò sulla sedia, togliendo il volume del televisore e mettendosi attentamente in ascolto. Clank. Era un rumore così regolare, innaturale, quasi voluto. Proveniva dalla stessa maledetta zona. Stando ai monitor CCTV tutto era nella norma. Scartò di nuovo l’idea di premere l’allarme. Si alzò in piedi, tirò fuori la torcia e la passò nella mano sinistra; con la destra aprì la fondina ed estrasse l’arma. Tornò nell’angolo da cui erano giunti i rumori e si fermò, sperando di sentirli ancora. Niente. Avanzò, deciso stavolta a superare le pile di pallet per vedere se ci fosse qualcosa o qualcuno nascosto tra queste e il muro. Procedette a passi felpati tra il materiale stoccato nel corridoio fermandosi e tendendo bene le orecchie. Ancora niente. Strano. Muovendosi con circospezione, si avvicinò all’ultima pila di bancali e fece capolino oltre l’angolo puntando la torcia contro il muro. Sentì alle spalle qualcosa di simile a uno spostamento d’aria e si girò di scatto; un’ombra nera schizzò fuori dal buio, ma prima che potesse urlare ci fu un guizzare d’acciaio e avvertì un violento strattone al collo, poi tutto cominciò a precipitare, a impazzire, a diventare rosso. E nero.
CAPITOLO 22 Gideon Crew attese, in ascolto. Ne era certo: nel magazzino c’era qualcun altro. Anche la guardia se n’era accorta ed era andata a controllare. Dal secondo giro di ispezione però non era tornata e Gideon aveva sentito un vago strascicare di piedi, seguito dal rumore di qualcosa di bagnato che cadeva piano sul pavimento. Rimase in attesa immobile. Dalla sua posizione vantaggiosa all’interno dell’auto, attraverso le varie aperture della carcassa, godeva di una visuale del corridoio centrale, che arrivava alla zona della security dal lato opposto. La guardia non si vedeva ancora. Stava impiegando troppo a controllare. Gideon udì un plop sommesso, poi qualcosa rotolò fra due pile di pallet sulla destra, fino a fermarsi nello spazio aperto. La testa mozzata della guardia. La mente di Gideon si attivò subito, frenetica. Capì all’istante che era una trappola, un modo per stanarlo, spaventarlo o indurlo a uscire allo scoperto. Un’altra persona si aggirava nel magazzino, e ora il bersaglio era lui. Passò rapidamente in rassegna le alternative. Poteva restare e combattere, dare la caccia al suo cacciatore. Ma l’avversario aveva il coltello dalla parte del manico; sapeva con precisione dove si trovava, aveva studiato tutto, aveva attirato e ucciso la guardia con estrema efficienza, senza fare rumore... L’istinto gli disse che quell’uomo era molto, molto abile, un vero professionista. Allora cosa fare? Tagliare la corda. Era riuscito a recuperare il cellulare di Wu, e dalle ulteriori ricerche non era emerso altro. L’avversario, o gli avversari, aveva previsto tutte le sue mosse. Avversari. Il solo pensiero gli raggelava il sangue. Doveva fare qualcosa per sorprenderlo. Ma cosa? Lì dentro, nell’auto contorta Gideon era ben protetto. Uscire allo scoperto era troppo pericoloso. Era fottuto. Mentre rimuginava, si rese conto che il killer, o i killer, aveva sempre seguito i suoi spostamenti. Adesso era probabilmente in posizione, teneva sotto tiro la gabbia metallica in attesa di un suo passo falso. Non avrebbe fatto rotolare la testa se non fosse stato sicuro della sua posizione. C’era un modo di uscire. Comportava un grosso rischio, ma era l’unico sistema per sopravvivere. Non aveva alternative. Guardò l’orologio. Poi estrasse la Colt Python dalla cintura e la puntò contro la serratura della porta esterna del magazzino. Sparò un colpo che risuonò fragoroso nello spazio chiuso mentre il proiettile colpiva la tastiera di sicurezza. Partì la sirena d’allarme. Ora era questione di resistere più del killer. Perché a un certo punto l’ignoto
aggressore sarebbe dovuto fuggire. E allora Gideon sarebbe riuscito a portare il culo fuori di lì. Chi era? L’autista del SUV nero? E chi altri? Durante l’inseguimento lo aveva di certo visto bene. La carcassa del taxi fu colpita da una scarica di proiettili di grosso calibro in grado di perforare il metallo come burro. Sgomento, Gideon si rese conto che il killer non sarebbe scappato, almeno non subito. Gli aveva, nel bene o nel male, forzato la mano. Adesso comunque sapeva da dove provenivano gli spari. Appiattendosi all’interno della carcassa e tenendosi dietro il blocco motore, prese la mira e attese. Lo sparo seguente arrivò con un fragoroso bang. Vide la fiammata dell’arma e rispose veloce al fuoco. Udiva già le sirene. Quanto aveva impiegato la polizia ad arrivare l’ultima volta? Circa cinque minuti. Controllò ancora l’ora. Ne erano già passati tre. Altri due colpi centrarono il metallo, riversandogli addosso frammenti di vernice, e sparò anche lui. Le sirene stavano diventando più forti, poi udì uno stridere di ruote che si fermavano all’esterno. Vide una macchia scura guizzare dietro i pallet: il killer stava fuggendo. Sgusciando svelto dal sedile posteriore distrutto, balzò in piedi pronto a scattare verso la porta quando altri due colpi gli passarono accanto sibilando. Li evitò buttandosi a terra. Quel figlio di puttana lo aveva stanato fingendo di scappare. Lui rotolò, sparò e scorse la figura vestita di nero svanire in un angolo buio; evidentemente aveva studiato un sistema per entrare e uscire. All’improvviso pestarono sul portone principale del magazzino; era chiuso a chiave con l’allarme ancora inserito. Seguire il killer sarebbe stato un suicidio. Gideon doveva trovare un altro modo. Si guardò frenetico attorno. L’unica possibile via di fuga era l’impianto di ventilazione sul soffitto. Attraversò in velocità il magazzino in direzione di un sostegno metallico e cominciò a tirarsi su. «Aprite!» gridavano i poliziotti. Ci furono altri colpi, seguiti dallo schianto di un ariete. Gideon salì usando i bulloni come pioli. Raggiunse una trave orizzontale di metallo e vi strisciò sopra fino a un rinforzo, si allungò, afferrò un’asta alla parete e arrivò all’altezza dei fori di ventilazione. L’ariete cozzò più volte contro la porta metallica e Gideon recitò tra sé una preghiera di ringraziamento per la sua ottima performance. «Roland! Sei lì dentro? Apri!» Avanzando carponi sulla trave di ferro angolare, Gideon si accucciò e si buttò oltre lo stretto spazio aggrappandosi all’apertura, con i piedi penzoloni. Un attimo dopo, mentre la porta metallica cedeva con fragore, si issò, uscì sul tetto inclinato e vi si appiattì contro respirando affannosamente.
Avrebbero pensato di guardare lassù? Sicuro! Non appena avessero scoperto la guardia decapitata, il magazzino si sarebbe trasformato nel Grand Central Terminal. Lasciandosi scivolare lungo lo spiovente del tetto, raggiunse il bordo della grondaia sul retro e scrutò giù. Bene: tutta l’attività era ancora concentrata sul davanti. Udì grida, versi d’orrore e di furia quando trovarono il corpo decapitato. Un gran casino. Gideon afferrò il bordo della grondaia e si lanciò; toccò terra e si diresse verso l’apertura. Poi ci ripensò. Il killer sembrava prevedere i suoi movimenti. Forse lo aspettava lì per tendergli un’imboscata. Scattò allora verso un’altra parte del recinto, vi si arrampicò più veloce che poté e praticò una rozza breccia nel filo spinato. «Ehi! Tu!» Maledizione! Si fece strada a forza sentendo gli spuntoni del filo tagliargli gli abiti e la pelle. In parte scese, in parte rotolò dall’altro lato piombando in alcuni cespugli. «Laggiù!» gridò un poliziotto. «Un sospetto in fuga! Da questa parte!» Bang. L’agente sparò mentre lui schizzava nel parcheggio invaso dalla vegetazione, sul retro del magazzino, schivando container abbandonati, auto bruciate e vecchi frigoriferi. Volò in direzione del binario ferroviario che correva lungo il fiume; lo superò con un balzo e, travolgendo uno steccato pericolante, raggiunse l’argine di pietra sulla riva. Il vento portava il puzzo di zolfo dell’Harlem. Saltellò di sasso in sasso. Si tuffò. Nuotò sott’acqua per un bel tratto, emerse per respirare, nuotò ancora un po’ e poi tornò in superficie tentando di non fare rumore. Si alleggerì del notevole peso del tronchese e si lasciò trascinare a valle, tenendo la testa più bassa possibile. Udiva grida dalla sponda e una predica incomprensibile provenire da un megafono elettronico. Un debole riflettore venne puntato sull’acqua, ma Gideon era già lontano; tuttavia girò la testa in modo da mostrare solo i capelli neri. C’erano un bel po’ di rifiuti che scendevano a valle con lui, e per una volta fu grato alle brutte abitudini dei newyorkesi. Si chiese se dopo quella piccola immersione fosse il caso di sottoporsi a una serie di vaccini, anche se, in fondo, non aveva importanza: era comunque un uomo morto. Continuò a farsi trascinare dal fiume verso la sagoma stupendamente arcuata e illuminata del Robert F. Kennedy Bridge. A poco a poco la pigra corrente lo condusse sul lato di Manhattan. Ora era del tutto nascosto, al sicuro dalla polizia. Sbattendo le gambe raggiunse la riva, salì su un blocco di pietra e iniziò a strizzarsi i vestiti. Aveva perso la Python da qualche parte; una vera liberazione. Avrebbe dovuto gettarla via comunque, dato che bossoli e proiettili erano rimasti nel magazzino. Inoltre, era un’arma troppo pesante per i suoi scopi.
Mise la mano in tasca ed estrasse la bustina a tenuta stagna. Era ancora sigillato: il cellulare all’interno era asciutto e al sicuro. Tenendosi in equilibrio sulle rocce guadagnò la sommità dell’argine, superò un altro recinto malridotto di rete metallica e si ritrovò in un enorme cortile per il deposito del sale del Dipartimento delle strade. Cumuli bianchi s’innalzavano tutt’intorno a lui come montagne innevate in un paesaggio alieno dipinto da Nicholas Roerich. Il pensiero di Roerich gli evocò un ricordo piuttosto interessante. Non avrebbe mai trovato un taxi in una zona così a nord alle quattro del mattino, soprattutto fradicio com’era. Lo aspettava una lunga camminata fino all’albergo dove avrebbe dovuto portar via tutta la sua merda e trovare un altro posto dove nascondersi. Poi sarebbe venuto il momento di rinverdire la sua vecchia conoscenza con Tom O’Brien alla Columbia. Chissà cosa ne avrebbe pensato il buon vecchio Tom.
CAPITOLO 23 Gideon Crew si avviò a est sulla 49th Street, ancora bagnato per la disavventura della notte appena trascorsa. Erano le otto del mattino e i marciapiedi erano invasi dal flusso dell’ora di punta, i pendolari si riversavano dai condomini circostanti e si dirigevano verso i taxi o i mezzi pubblici. Normalmente lui tendeva a non pensare in modo paranoico, ma da quando era sgattaiolato via dall’albergo aveva l’inquietante sensazione di essere pedinato. Non aveva niente di concreto in mano, solo un sentore. Quell’ansia era senza dubbio dovuta alla sparatoria della notte prima. Non poteva permettere a nessuno, sempre che ci fosse stato davvero qualcuno, di seguirlo fino da Tom O’Brien alla Columbia University. Tom O’Brien sarebbe stato la sua arma segreta nell’impresa, e nessuno, nessuno, doveva saperlo. Camminò piano finché gran parte dei pedoni, tutti newyorkesi indaffarati, lo superò. Poi si fermò con noncuranza a guardarsi in una vetrina scrutando con attenzione alle proprie spalle. Sì, un uomo asiatico in tuta da ginnastica con la faccia seminascosta da un cappellino da baseball era a un centinaio di metri indietro e stava rallentando, apparentemente per mantenere il passo. Imprecò tra sé. Forse era la sua immaginazione, comunque non poteva correre rischi. Anche se non fosse stato proprio quell’individuo, poteva essere chiunque tra la folla. Doveva presumere d’essere pedinato e agire di conseguenza. Attraversò la Broadway ed entrò nella stazione della metropolitana imboccando il sottopassaggio della linea diretta a downtown. La stazione era gremita ed era impossibile sapere se l’uomo con la tuta da ginnastica era ancora alle sue calcagna. Non importava: c’era un modo infallibile per seminare quel figlio di puttana. Gideon lo aveva già fatto prima. Era divertente, pericoloso e funzionava. Sentì il cuore accelerargli in preda all’aspettativa. Attese finché udì il vago rimbombo dei binari della linea in direzione uptown. Quando si sporse, vide i fari di un treno sopraggiungere in galleria e avvicinarsi rapidi alla banchina. Al momento giusto, accertandosi che non arrivassero altri convogli, balzò sui binari. Dalla folla in attesa si levò un coro di urla, grida e sonori ammonimenti. Ignorandoli, superò con un salto la terza rotaia, attraversò i binari della linea in direzione uptown proprio davanti il treno in arrivo e si arrampicò sulla banchina opposta. Si scatenò un altro putiferio. La gente è così eccitabile, pensò. Ma i
passeggeri in attesa erano così tanti da non riuscire a muoversi, e mentre il treno arrivava si fece strada a forza mescolandosi nella calca di pendolari, diventando anonimo all’istante. Quando il treno partì, vide attraverso i finestrini sporchi, oltre i binari, l’asiatico con la tuta da ginnastica ancora in piedi sulla banchina della linea diretta a downtown. Lo stava fissando. Fottiti anche tu, imprecò tra sé Gideon sistemandosi per leggere il «Post» al di sopra della spalla della persona accanto.
CAPITOLO 24 Come il ronzio di una zanzara, il rumore persistente di un citofono si intrufolò nel sogno straordinariamente piacevole di Tom O’Brien. Si mise a sedere con un lamento e guardò l’orologio. Le nove e mezzo del mattino. Chi poteva disturbarlo a quell’ora assurda? Altri tre brevi squilli. O’Brien borbottò, scostò le coperte, spinse via il gatto che saltò sul pavimento e barcollò nell’appartamento ingombro fino alla porta. Alzò il ricevitore e disse: «Vaffanculo». «Sono io. Gideon. Fammi salire.» «Hai idea di che ore sono?» «Fammi salire e basta. Brontolerai dopo.» O’Brien schiacciò il tasto d’apertura del portone, tolse il chiavistello della porta e tornò verso il letto. Si sedette e si sfregò la faccia. Un minuto dopo Gideon entrò portando una grossa valigetta Pelican. O’Brien lo fissò. «Bene, bene. Guarda un po’ che sorpresa. Quando sei arrivato in città?» Ignorandolo, Crew posò la valigetta, andò alla finestra e piazzandosi di fianco scostò la tenda con un dito per sbirciare fuori. «Hai la polizia alle calcagna? Freghi ancora roba dai musei?» «Ho smesso molto tempo fa.» «Hai lo stesso aspetto di merda.» «Sei sempre tanto gentile. Ammiro questa tua qualità. Dov’è il caffè?» O’Brien puntò un dito verso l’angolo cottura in fondo al monolocale. Gideon evitò i piatti ammuffiti nel lavandino, si guardò in giro e poco dopo emerse con una caffettiera e due tazze. «Amico, puzzi alla grande» gli fece notare O’Brien riempiendosi una tazza. «E i tuoi vestiti fanno schifo. Cosa diavolo combini?» «Ho nuotato nell’Harlem e attraversato i binari della metro perché m’inseguivano.» «Stai scherzando?» «No.» «Vuoi farti una doccia?» «Mi andrebbe proprio. E... hai dei vestiti da prestarmi?» O’Brien andò nella cabina armadio e frugò in un mucchio enorme di abiti evidentemente già indossati, prelevando alcuni capi e lanciandoglieli. Dieci minuti dopo Gideon era rimesso a nuovo e indossava vestiti abbastanza puliti. Gli stavano un po’ larghi, O’Brien non era rimasto pelle e ossa come lui, ed erano coperti di disegni satanici e dei logo della band death metal dei Cannibal Corpse. «Sei magnifico» commentò l’amico della Columbia, «ma hai allacciato i pantaloni troppo in alto.» Si avvicinò e glieli tirò finché non gli penzolarono
a metà sedere. «Così dovrebbero andare.» «Hai un gusto atroce in tema di musica e di abbigliamento.» Gideon se li ritirò su. «Senti, mi serve il tuo aiuto. Ho un paio di problemi da risolvere.» O’Brien scrollò le spalle e sorseggiò il caffè. Lui aprì la valigetta ed estrasse un pezzo di carta. «Non posso rivelarti molto. Sono sotto copertura e sto cercando una serie di progetti.» «Progetti? Riguardanti cosa?» «Un’arma.» «Roba da agenti segreti! Di quale arma stiamo parlando?» «Non lo so. Ed è davvero tutto quello che posso dirti in sicurezza.» Gli porse il pezzo di carta. «Qui c’è una serie di numeri e non ho idea di cosa significhino. Lo devi scoprire tu.» «È un codice di qualche tipo?» «Se lo sapessi non sarei qui. Penso però serva a rintracciare i progetti dell’arma.» O’Brien esaminò con attenzione il foglio. «La quantità di informazioni che possono contenere questi numeri è limitata, e non basta nemmeno per illustrare i progetti di un fucile giocattolo.» «Le cifre potrebbero essere qualcos’altro, un passcode, un conto bancario o una cassetta di sicurezza, indicazioni per un nascondiglio, nome e indirizzo in codice di un contatto... o, per quanto ne so, la ricetta dell’involtino primavera.» L’altro grugnì. Negli anni si era abituato alle scomparse e alle ricomparse dell’amico, al suo umor nero, al suo comportamento riservato e alle abitudini quasi criminali. Ma quello le superava tutte. Fissò i numeri, poi un sorriso gli illuminò il volto. «Sono tutto fuorché casuali» disse. «Come lo sai?» «Guardali. Dubito siano un codice.» «Cosa sono, allora?» O’Brien alzò le spalle e posò il foglio. «Cos’altro hai, di bello, nella valigetta?» Gideon allungò la mano e tirò fuori un passaporto e una carta di credito. L’amico li prese; erano entrambi cinesi. Li fissò. «Tutto questo... è legale?» «È necessario, per il nostro Paese.» «Da quando sei diventato patriota?» «Cosa c’è che non va con il patriottismo, soprattutto quando ti fa guadagnare?» «Il patriottismo, mio caro, è l’ultimo rifugio di una canaglia.» «Risparmiami le tue fesserie di sinistra. Non ti ci vedo proprio a fare le valigie e trasferirti in Russia.» «D’accordo, d’accordo! Smetti pure di iperventilare. Allora cosa devo fare con il passaporto e la carta di credito?» «Hanno entrambi una striscia magnetica contenente dati. Scaricali e analizzali. Magari c’è nascosto qualcosa di insolito.» «Un gioco da ragazzi. Poi?» Crew allungò la mano nella valigetta; con
l’attenzione che si riserva a una reliquia, prese una bustina a tenuta stagna con all’interno un cellulare. Lo posò sul palmo di O’Brien. «Questo è davvero importante. Il telefono apparteneva a uno scienziato cinese. Estrai tutte le informazioni che contiene. Ho già recuperato la lista delle telefonate e dei contatti recenti, ma è sospettosamente corta: potrebbero essercene di più, nascosti o cancellati. Se lo ha usato per navigare in rete, voglio l’intera cronologia. Se ci sono foto, tira fuori anche quelle. E infine, cosa più importante, penso esistano buone probabilità che i progetti dell’arma siano nascosti in quel cellulare.» «Sei fortunato. So leggere e scrivere il mandarino.» «Perché credi sia qui?» osservò Gideon. «Non mi manca il tuo brutto muso, ma sei un gentiluomo dagli insoliti e svariati talenti.» «E non solo intellettuali.» O’Brien posò il telefono sul tavolo. «C’è qualche soldo per me?» Gideon prese dalla tasca un rotolo spesso e fradicio di banconote. «Ma quanti bei verdoni!» Gideon sfilò dieci banconote mollicce. «Mille dollari. Te ne darò altri mille quando avrai finito. E mi serve, diciamo... per ieri.» O’Brien prese il denaro bagnato e lo dispose amorevolmente sul davanzale della finestra ad asciugare. «È una sfida. E a me piacciono le sfide.» Crew sembrò esitare. «Un’altra cosa.» D’un tratto la sua voce suonò diversa. L’amico lo osservò: stava estraendo una cartelletta. «Ho qui alcune radiografie e TAC di un mio amico. Non si sente bene e vorrebbe il parere di un medico.» O’Brien si accigliò. «Perché non lo chiede al suo dottore? Non so un cazzo di medicina. Oppure portale al tuo medico, santo cielo.» «Ho da fare. Senti, vuole solo un altro parere. Conoscerai senz’altro qualche bravo dottore da queste parti.» «Be’, sicuro, ne abbiamo alcuni alla facoltà di medicina.» Aprì la cartelletta e prese una radiografia. «Hanno rimosso il nome.» «È una persona molto riservata.» «C’è qualcosa che fai che non sia ambiguo? I dottori costano.» Gideon posò altre due banconote da cento sul tavolo. «Occupatene e basta, d’accordo?» «Sì, va bene, non c’è bisogno di innervosirsi.» Era rimasto sconcertato dal tono improvvisamente secco di Crew. «Ci vorrà tempo. Quei tizi hanno sempre da fare.» «Sta’ attento e, per l’amor di Dio, tieni la bocca chiusa. Non sto scherzando. Tornerò domani.» «Ti prego» gemette O’Brien, «non prima di mezzogiorno.»
CAPITOLO 25 La stanza d’albergo a ore era decisamente squallida, tipo quelle dei film noir degli anni Cinquanta: la luce al neon lampeggiante fuori dalla finestra, macchie giganti sulle pareti, soffitto di lamiera pressata ricoperto da diversi strati di vernice, un letto sfondato e un odore di hamburger fritti in corridoio. Gideon Crew gettò i sacchetti sul letto e cominciò a svuotarli. «Come facciamo se il letto è pieno di roba?» domandò la prostituta in piedi sulla porta, mettendo il broncio. «Spiacente» rispose lui, «non lo facciamo.» «Ah, sì? Sei uno di quelli che vogliono solo parlare?» «Non proprio.» Dispose il tutto sul letto e lo guardò in cerca d’ispirazione lasciando vagare lo sguardo su pance finte, inserti per le guance, nasi, parrucche e barbe, lattice, protesi, tatuaggi, imbottiture. Accanto all’assortimento di oggetti sistemò alcuni vestiti nuovi. Si era liberato del pedinatore, ma non era stato facile. Quell’uomo era un professionista. Crew doveva andare in due posti, ed era probabile che lui, o forse un suo compatriota, si appostasse in uno o in entrambe le destinazioni. Ci sarebbe voluto più di un travestimento per riuscire nell’impresa: si sarebbe dovuto calare in un nuovo ruolo, e la donna era fondamentale per portare a termine il piano. Gideon si raddrizzò e guardò la prostituta. Era di bell’aspetto, non drogata, con un’aria sveglia, sfacciata. Capelli neri tinti, pelle chiara, rossetto scuro, figura sottile, naso piccolo e appuntito: gli piaceva quel suo look gotico. Cercò tra gli abiti, scelse una maglietta nera e la mise da parte. Un paio di pantaloni mimetici e di stivali di pelle nera con la suola spessa completarono il travestimento. «Ti spiace se fumo?» chiese lei estraendo una sigaretta dal pacchetto e accendendola. Fece un lungo tiro. Gideon si avvicinò, le sfilò la sigaretta di mano, fece un tiro anche lui e gliela porse. «Allora, di cosa si tratta?» domandò la ragazza indicando il letto. «Ho in mente di rapinare una banca.» «Sicuro.» Buttò fuori uno sbuffo di fumo. Gideon resistette all’impulso di scroccarle una sigaretta. Fece invece un altro tiro dalla sua. «Ehi!» esclamò la donna guardandogli la mano destra. «Cos’è successo al dito?» «Mi rosicchiavo troppo le unghie.» «Furbo. Allora, perché mi hai portata qui?» «Per ottenere questa stanza “a buon mercato” senza attirare l’attenzione o mostrare un documento. Ho bisogno di un posto per pianificare il colpo.»
«Non vorrai mica rapinare sul serio una banca?» mormorò la donna con una nota di preoccupazione nella voce. Lui scoppiò a ridere. «No. In realtà faccio parte dell’industria del cinema. Attore e produttore. Il mio nome è Creighton McFallon. Forse lo hai sentito.» «Mi suona familiare. Hai un lavoro per me?» «Perché credi d’essere qui? Interpreterai la mia ragazza per un po’. Per aiutarmi a calarmi nella parte. Si chiama metodo Stanislavskij. Lo conosci?» «Ehi, anch’io sono un’attrice. Mi chiamo Marilyn.» «Marilyn come?» «Marilyn e basta. Ho avuto un ruolo secondario in una soap.» «Lo sapevo! Io cambierò aspetto ma tu puoi rimanere così. Sei già perfetta.» La donna gli rivolse un rapido sorriso e lui vide per un istante la vera persona dietro la facciata. «Sai, per una cosa del genere devo essere pagata.» «Naturale. Quale sarebbe la tua tariffa, diciamo, per sei ore?» «Per fare cosa?» «Girare per la città insieme a me.» «Be’, in sei ore di lavoro di solito mi metto in tasca almeno mille dollari, ma, visto che si tratta di cinema, te ne chiedo due. E aggiungerò qualcosina di speciale solo perché... perché sei carino.» Sorrise e si toccò il labbro inferiore con un dito. Lui prese un fascio di banconote dalla tasca e glielo porse. «Questi sono cinquecento. Avrai il resto alla fine.» La ragazza li prese, ma non sembrava convinta. «Dovrei averne subito la metà.» «D’accordo.» Le allungò un’altra mazzetta. «Ti servirà un nuovo nome. Va bene se ti chiamiamo Orchid?» «Okay.» «Ottimo. Per le prossime sei ore ci atterremo sempre al personaggio. Così funziona il metodo Stanislavskij. Ma adesso devo fare alcune cose, prepararmi e via dicendo, perciò tu rilassati pure.» Gideon frugò tra la mercanzia mentre visualizzava il genere di persona che voleva diventare. Poi iniziò a crearla. Quand’ebbe finito con il trucco, naso finto, inserti per le guance, stempiatura, pancia, e lo ebbe abbinato ai vestiti da pseudorockettaro stagionato, si voltò verso Orchid, la quale aveva seguito con interesse la trasformazione fumando una sigaretta dietro l’altra. «Wow! Peccato, però. Mi piacevi di più prima.» «Questo significa recitare» replicò Gideon. «Ora dammi qualche minuto, Orchid, poi andremo a fare un giretto e ci caleremo nella parte.» Prese la lista dei contatti copiati dalla rubrica del telefonino di Wu, aprì il laptop e lo accese. Grazie a Dio il Wi-Fi gratuito, pensò, adesso era disponibile persino negli alberghi a ore. Si collegò a Internet ed effettuò una
rapida ricerca. Nella lista c’era solo un numero di telefono statunitense, ed era sotto «Fa». Un’altra rapida ricerca svelò che «Fa» era un carattere cinese e significava «cominciare». Era anche una tessera del mah-jongg chiamata «il Drago Verde». Il numero telefonico apparteneva invece a un certo Roger Marion, Mott Street, Chinatown. Roger. Il nome con cui lo aveva chiamato lo scienziato cinese. Iniziò a mettere via la roba. Con quel travestimento e Orchid a braccetto nessuno, nemmeno sua madre, lo avrebbe riconosciuto. Chiunque lo seguisse si aspettava di vederlo solo: non avrebbe manifestato alcun interesse per un rockettaro d’altri tempi con al traino una bambola. «E adesso?» «Andremo a trovare un vecchio amico a Chinatown e poi un altro ricoverato in ospedale.» «C’è tempo per quel piccolo extra di cui ti parlavo? Sai, per aiutarti a entrare nel ruolo?» Strizzò l’occhio mentre spegneva la sigaretta. No, no, no, pensò Gideon, ma mentre guardava il suo naso all’insù, i capelli neri corvini e la pelle fresca, morbida, sentì se stesso dire: «Certo, che diamine. Si può fare. C’è abbastanza tempo».
CAPITOLO 26 L’indirizzo, 426 Mott Street, era nel cuore di Chinatown, tra Grand e Hester. Gideon Crew si fermò sul marciapiede di fronte per dare una rapida occhiata. L’Hong Li Meat Market occupava il piano terra di una tipica casa di mattoni bruni del quartiere, con scale di sicurezza che arrivavano fino agli appartamenti più in alto. «E adesso?» domandò Orchid accendendosi l’ennesima sigaretta. Gideon gliela sfilò dalle dita e fece un tiro. «Perché non te ne fumi una?» «Non fumo.» Lei scoppiò a ridere. «Forse possiamo mangiarci i dim sum, da queste parti. A me piacciono i dim sum.» «Prima però devo vedere un tizio. Ti spiacerebbe aspettarmi qui?» «In strada?» Lui soffocò un commento ironico. Tirò fuori una banconota. Dio, pensò, era bello avere soldi. «Perché non vai in quella sala da tè? Non credo ci vorranno più di cinque minuti.» «D’accordo.» Orchid prese la banconota e si allontanò a passo lento dimenando il posteriore tra un girarsi di teste. Gideon tornò a riflettere sul problema. Non possedeva abbastanza informazioni su Roger Marion per elaborare una linea d’azione credibile. Ma anche un breve incontro si sarebbe potuto rivelare utile. E prima era, meglio era. Guardò attentamente a destra e a sinistra, poi attraversò la Mott e si diresse alla porta di metallo al livello stradale. C’era una fila di citofoni, tutti accompagnati da caratteri cinesi. Niente inglese. Sfregandosi pensieroso il mento, indietreggiò e bloccò un tipo con gli occhi a mandorla. «Mi scusi?» L’uomo si fermò. «Sì?» «Non leggo il cinese e sto cercando di capire quale di questi appartamenti sia del mio amico.» «Come si chiama il suo amico?» «Roger Marion. Ma si fa chiamare con il soprannome Fa... Sa, la tessera del mah-jongg detta Drago Verde.» L’uomo sorrise e indicò un carattere accanto alla targa 4C. «Quello è Fa.» «Grazie.» Il passante si allontanò e Gideon fissò il carattere memorizzandolo. Premette il pulsante. «Sì?» rispose quasi subito un uomo che parlava un inglese privo d’accento. Lui abbassò la voce fino a sibilare, in tono cospiratorio. «Roger? Sono un amico di Mark. Fammi entrare subito.» «Chi? Come ti chiami?» «Non c’è tempo per le spiegazioni. Sono seguito. Ti prego, fammi entrare!» Il portone si aprì e lui fu dentro. Risalì la tetra scala fino al quarto piano.
Bussò alla porta dell’appartamento. «Chi è?» Vedeva l’occhio dell’uomo accostato allo spioncino. «Ripeto: sono un amico di Mark Wu. Mi chiamo Franklin Van Dorn.» «Cosa vuoi?» «Ho i numeri.» Il chiavistello si aprì di scatto e la porta si spalancò inquadrando un uomo caucasico piccolo ed energico sui quarantacinque anni: testa rasata, aria vigile e in ottima forma, magro e muscoloso come un levriero inglese, con indosso una maglietta aderente e un paio di pantaloni larghi tipo pigiama. Gideon s’infilò dentro. «Roger Marion?» In risposta ebbe un brusco cenno. «Mark ti ha affidato i numeri? Dammeli.» «Non posso finché non mi dici di cosa si tratta.» Il volto di Roger si corrugò all’istante, in preda al sospetto. «Se fossi davvero un amico di Mark, non ti interesserebbe saperlo.» «Devo, invece.» Marion lo scrutò attentamente. «Perché?» Gideon rimase dov’era senza dir nulla. Nel frattempo studiò il piccolo appartamento, ingombro ma pulito. Alle pareti c’erano xilografie cinesi, pergamene piene di ideogrammi e un arazzo colorato, curioso, raffigurante una svastica al contrario circondata da simboli yin-yang e disegni a spirale. C’erano anche vari manifesti e premi di gare kung fu. Tornò a rivolgere l’attenzione su Marion. Quel tipo lo stava studiando, forse per prendere una decisione. Non sembrava minimamente nervoso. I suoi modi non erano prepotenti ma, in caso di necessità, sarebbe di sicuro diventato violento. Parlò all’improvviso. «Fuori» ordinò. «Vattene subito.» Si avvicinò minaccioso a Gideon. «Ma ho i numeri...» «Non mi fido di te. Sei un bugiardo. Vattene subito.» Crew posò la mano sulla spalla dell’uomo che avanzava. «Chi te l’ha...» Con velocità formidabile questi gliela afferrò e gliela torse con forza facendolo ruotare. «Cazzo!» urlò Gideon mentre il dolore gli trafiggeva la spalla scendendogli lungo il braccio. «Fuori!» Marion lo accompagnò alla porta, che sbatté con violenza. Il chiavistello tornò a scattare fulmineo. In piedi, nel corridoio, Gideon si sfregò pensieroso la spalla dolente. Non era abituato a essere smascherato, e non era una sensazione piacevole. Aveva scartato l’ipotesi di inventare una storia, ma forse aveva commesso un errore. Si augurò di non perdere il tatto. Trovò Orchid nella sala da tè, intenta a buttar giù un piatto colmo di anatra e riso bianco. «Non avevano i dim sum, ma questo è piuttosto buono» disse mentre il grasso le colava sul mento. «Dobbiamo andare.» Ignorando le sue proteste, la spinse fuori e si
incamminarono verso Grand Street, dove presero un taxi. «Mount Sinai Hospital» disse al guidatore. «Per vedere il tuo amico?» domandò Orchid. Gideon annuì. «È malato?» «Molto.» «Mi dispiace. Cos’è successo?» «Un incidente d’auto.» Al banco dell’accettazione Gideon diede il suo vero nome accertandosi che nessuno tranne l’infermiera di turno lo sentisse parlare. Il Gideon Crew arrivato al pronto soccorso subito dopo l’incidente aveva un aspetto del tutto diverso, e in quell’immenso ospedale difficilmente avrebbe incontrato qualcuno in grado di riconoscerlo. Qualche ora prima aveva chiamato per informarsi sulle condizioni di Wu: era stato trasferito al reparto di terapia intensiva e stava uscendo dal coma. Non era ancora lucido, ma presto avrebbe ripreso completamente conoscenza. Presto significava ora. Gideon si era preparato un elaborato piano di ingegneria sociale per carpire le informazioni di cui necessitava. Avrebbe parlato con Wu fingendo di essere Roger Marion e cercando di cavargli fuori tutto: l’ubicazione dei progetti, il significato dei numeri... Aveva riesaminato il piano in ogni dettaglio ed era sicuro che al novantanove per cento avrebbe funzionato. Di sicuro Wu non aveva incontrato o visto «Roger», con ogni probabilità lo aveva solo sentito al telefono, e Gideon, dopo la sua visita, aveva almeno un’idea del suo modo di parlare e della voce. Wu sarebbe stato disorientato, colto alla sprovvista. Sulla scena dell’incidente era troppo malridotto perché fosse in grado di notare i suoi tratti. Avrebbe potuto farcela. Nonostante gli avessero sparato, nonostante fosse finito a mollo nel fiume, sarebbero stati i centomila dollari più facili mai guadagnati. L’infermiera di turno era così indaffarata da non controllare nemmeno la sua identità e si limitò a indirizzare lui e la sua compagna a un’ampia e confortevole area d’attesa. Gideon si guardò attorno, ma non riconobbe nessun viso familiare. Eppure chi lo aveva inseguito non era molto lontano, ne era certo. «Il medico verrà da lei tra un istante» lo avvertì l’infermiera. «Non possiamo semplicemente far visita a Mark?» «No.» «Ma hanno detto che sta molto meglio.» «Dovrà aspettare il medico» ribadì decisa l’infermiera. Il dottore arrivò qualche minuto dopo, un tipo corpulento con i capelli bianchi lanosi e un’espressione triste e amichevole sul volto. «Il signor Crew?» Gideon balzò in piedi. «Sì, sono io. Come sta?» «E la signora è...?»
«Un’amica. È qui per sostenermi.» «D’accordo. Prego, venite con me.» I due lo seguirono in un’altra sala d’attesa più piccola, simile a un ufficio, deserta. Il medico chiuse la porta alle loro spalle. «Signor Crew, purtroppo il signor Wu è deceduto circa mezz’ora fa.» Gideon restò fulminato. «Sono davvero dispiaciuto.» «Perché non mi avete chiamato? Gli sarei stato accanto fino alla fine.» «Abbiamo tentato di raggiungerla al numero che ci aveva dato.» Maledizione, imprecò tra sé Gideon. Il cellulare non era sopravvissuto alla nuotata. «Il signor Wu aveva mostrato segni di stabilizzazione e per un po’ abbiamo nutrito qualche speranza, ma era gravemente ferito ed è subentrata una sepsi. Non è insolito, nelle lesioni gravi. Abbiamo preso ogni misura possibile e fatto del nostro meglio... purtroppo non c’è stato nulla da fare.» Gideon deglutì. Sentì la mano confortante di Orchid sulla spalla. «Capisco il difficile momento, ma in qualità di parente più stretto le devo far compilare alcune carte riguardanti le disposizioni per i resti e alcuni altri dettagli.» Gli porse una cartelletta. «Il corpo del signor Wu verrà trasferito all’obitorio cittadino in attesa delle sue istruzioni. Desidera vedere la salma?» «Mmm, no, no, non è necessario.» Gideon prese gli incartamenti. «Grazie, dottore. Grazie per tutto il suo aiuto.» Lui annuì. «Per caso Mark ha detto qualcosa prima di andarsene? Quando ho parlato con l’infermiera stamattina, mi ha assicurato che avrebbe recuperato la lucidità. Se avesse detto qualcosa, qualsiasi cosa, anche apparentemente senza senso, vorrei saperlo.» «Ha mostrato segni di lucidità, ma in realtà non ha mai raggiunto il livello di coscienza. Non ha mai parlato. E poi è subentrata la sepsi.» Guardò Gideon. «Sono terribilmente spiacente. Per quel che vale, le posso garantire che non ha sofferto.» «Grazie, dottore.» Il medico annuì e se ne andò. Gideon si buttò su una sedia. Orchid gli si sedette accanto con il volto segnato dall’apprensione. Lui infilò la mano in tasca, estrasse una mazzetta di banconote e gliela porse. «Questo è per te. Quando usciremo dall’ospedale, prenderemo un taxi insieme. Io scenderò dopo un po’ mentre tu continuerai fin dove vorrai essere portata.» Lei non prese i soldi. «Grazie per il tuo aiuto» aggiunse. «L’ho davvero apprezzato.» «Creighton o Crew o in qualsiasi modo ti chiami, di sicuro non sei un attore e non ti stai esercitando con il metodo Stanislavskij. Tu sei una brava persona, e sfortunatamente non se ne incontrano più tante. Qualsiasi cosa tu stia facendo, voglio aiutarti.»
Gli premette la mano. Lui si schiarì la gola. «Grazie, ma devo farlo da solo.» Capì quanto suonasse debole già mentre lo diceva. «Ti rivedrò? I soldi non mi interessano.» Gideon le lanciò un’occhiata e restò sconvolto nel vedere l’espressione sul suo volto. Pensò di mentire, ma la verità sarebbe stata meno dolorosa. «No, non ti chiamerò. I soldi sono tuoi, te li sei guadagnati.» Agitò impaziente le banconote. «Non li voglio. Ti prego, chiamami.» «Senti» disse Gideon con tutta la freddezza che poté. «È stato un accordo d’affari e hai svolto bene il tuo lavoro. Prendi i soldi e va’.» Lei si allungò e afferrò il denaro. «Sei un coglione.» Si voltò per andarsene e lui cercò di non vedere le sue lacrime. «Addio» disse imbarazzato. «Vaffanculo.»
CAPITOLO 27 Gideon Crew risalì lento la Fifth Avenue ed entrò a Central Park dal cancello sulla 102nd Street. Si sentiva spaventosamente a terra. Era pomeriggio tardo e gli amanti del jogging si stavano allenando. Non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo malato d’amore di Orchid. Wu era morto, e il suo incarico era andato in fumo. Si ritrovò a rievocare all’infinito l’immagine di Glinn che prendeva la cartella medica con un’aria afflitta sul viso. «Malformazione arterovenosa.» Più ci pensava, meno probabile gli sembrava: quella misteriosa malattia lo avrebbe ucciso nel giro di un anno, senza preavviso, senza sintomi, senza niente. E non c’erano cure. Sembrava una truffa, sapeva tanto di manipolazione psicologica. Glinn pareva il tipo da raccontare qualsiasi storia assurda pur di raggiungere il suo obiettivo. Prese a gironzolare senza sapere dove stesse andando, tagliando attraverso i diamanti dei campi da baseball, diretto a ovest. È una follia, si disse, dimenticati di Orchid e della cartella e va’ avanti. Concentrati sul problema. Ma non riusciva a liberare la mente. Sfilò dalla tasca un nuovo cellulare, fresco di negozio, uno economico con un quantitativo di minuti di conversazione precaricati, e chiamò Tom O’Brien. «Sì» rispose una voce stridente dopo un numero esorbitante di squilli. «Gideon. Ci sono novità?» «Accidenti, mi avevi dato ventiquattr’ore di tempo.» «Allora?» «Allora, la carta di credito e il passaporto sono tali. Niente dati nascosti. Idem per il cellulare. La SIM è nuova di zecca, probabilmente appena comprata.» «Dannazione!» «Le uniche informazioni rimaste nel telefonino sono la rubrica e le ultime chiamate effettuate, nient’altro. Non ci sono altri dati nascosti, microchip segreti, niente di niente.» «E cosa mi dici di quella serie di numeri?» «Quelli sono molto più interessanti. Ci sto ancora lavorando.» Gideon si voltò verso sud. Il sole era ormai al tramonto e il parco si stava svuotando. «Interessanti perché?» «Te l’ho detto prima: lì dentro ci sono un sacco di modelli.» «Per esempio?» «Numeri ripetuti, file di numeri decrescenti, roba del genere. In questo momento è difficile stabilire cosa significhino. Ho appena iniziato. Di certo però non sono un codice.» Il Central Park Reservoir si profilò davanti e Gideon mise piede sul sentiero per il jogging. L’acqua era scura e immobile.
Più lontano, a sud, sopra le cime degli alberi vide la skyline di Midtown, le luci negli edifici brillavano contro il cielo che sbiadiva. «Come lo sai?» «Qualsiasi codice cifrato contiene una serie di numeri in apparenza casuali. Ovviamente non lo sono ma tutti i test matematici di casualità dimostrano il contrario. In questo caso anche il test più semplice conferma la non casualità dei numeri.» «Test? Puoi spiegarti meglio?» «La somma delle cifre. Una serie davvero casuale ha approssimativamente il dieci per cento di zero, il dieci per cento di uno eccetera. Questa è fin troppo piena di zero e uno.» Seguì una pausa di silenzio. Gideon fece un profondo respiro e cercò di parlare in tono noncurante. «E le TAC?» «Oh, sì. Le ho passate a un medico come mi avevi chiesto.» «E...?» «Dovevo chiamarlo questo pomeriggio, purtroppo me ne sono dimenticato.» «D’accordo.» «Gli telefonerò per prima cosa domani mattina.» «Fallo, mi raccomando. Grazie.» Gideon si asciugò la fronte. Si sentiva di merda. Poi tutto d’un tratto, per la seconda volta in quel giorno, ebbe la netta sensazione di essere seguito. Si guardò attorno. Era quasi buio ed era nel mezzo del parco. «Pronto? C’è qualcuno in linea?» domandò O’Brien. Gideon si accorse di non aver riagganciato. «Adesso devo andare. Ci vediamo domani.» «Non prima di mezzogiorno.» Chiuse il cellulare e se lo cacciò in tasca. Mantenendo un passo svelto, si diresse a ovest oltre i campi da tennis restando sempre sul sentiero da jogging. Cosa lo aveva indotto stavolta a sentirsi pedinato? Non aveva visto né sentito niente... o sì? Molto tempo prima aveva imparato a fidarsi dei suoi istinti, e proprio quel mattino gli avevano di nuovo salvato il culo. Se avesse continuato a fare quel percorso avrebbe di sicuro reso le cose più facili al pedinatore, sempre che ci fosse davvero qualcuno. Meglio piegare a nord, abbandonare i sentieri e tagliare la zona boscosa attorno ai campi. L’inseguitore sarebbe dovuto restargli più vicino. Poi avrebbe potuto escogitare un modo per tornare indietro e prenderlo alle spalle. Lasciò la stradina e si inoltrò nel bosco a valle dei campi. Le foglie morte frusciavano sotto i piedi al suo passaggio. Continuò per qualche tempo; all’improvviso si fermò fingendo di aver perso qualcosa per strada e sentì uno scricchiolio di foglie alle sue spalle cessare
altrettanto all’improvviso. Adesso aveva la certezza di essere seguito, e la sua stupidità cominciò a risultargli palese. Non aveva un’arma con sé, era in mezzo a un parco deserto: come aveva potuto permettere che accadesse? Era rimasto sconvolto da Orchid e dai suoi sentimenti teneri da adolescente. Era preoccupato per Glinn, per la sua cartella medica. E di conseguenza aveva abbassato la guardia. Si mosse camminando veloce. Doveva mantenere una certa naturalezza, ma era importante uscire dal parco quanto prima e mescolarsi alla gente. Girò attorno ai campi da tennis e piegò brusco a sinistra, costeggiò il recinto dei campi, quindi in un’area cespugliosa invertì brevemente direzione e fece una rapida curva a novanta gradi tornando verso il lago artificiale. Quello, sperò, avrebbe disorientato il bastardo. «Muoviti e sei morto» intimò una voce dal buio, e una figura con una pistola spuntò davanti a lui.
CAPITOLO 28 Crew si fermò, pronto a scattare, ma non arretrò. Era una voce di donna. «Non fare lo stupido. Alza le mani, lentamente.» Gideon obbedì e la figura fece un altro passo in avanti. Teneva una Glock puntata contro di lui con entrambe le mani. Dal modo in cui la impugnava lui capì che era perfettamente addestrata a usarla. Bella, atletica, aveva i capelli color mogano raccolti in una coda e indossava un giubbotto di pelle scura sopra una camicetta bianca inamidata e un paio di larghi pantaloni blu. «Metti le mani su quell’albero, le gambe divaricate.» Gesù, pensò Gideon. Fece come gli era stato detto, e subito la donna gli bloccò un piede con il suo e lo perquisì. Poi indietreggiò. «Voltati tenendo le mani in alto.» Lui obbedì. «Mi chiamo Mindy Jackson. CIA. Ti mostrerei il mio documento, ma al momento ho le mani occupate.» «Certo» disse Gideon. «Senta, signora Jackson...» «Sta’ zitto. Parlerò io. Allora, dimmi per chi lavori e cosa diavolo pensi di fare.» Gideon cercò di rilassarsi. «Non potremmo discuterne...» «Non esegui bene gli ordini, vero? Parla.» «Oppure cosa? Mi sparerà qui a Central Park?» «Sparano a molti, a Central Park.» «Se usa quella pistola, tra cinque minuti questo posto brulicherà di poliziotti. Pensi solo alle carte.» «Rispondi alle mie domande.» «Forse.» Ci fu un silenzio teso. «Forse?» ripeté infine lei. «Devo parlare? Va bene. Non sotto tiro e non qui. D’accordo? Se è veramente della CIA, siamo dalla stessa parte.» La vide riflettere. Si rilassò e rimise la pistola nella fondina sotto il sottile giubbotto. «Si può fare.» «Ginza sulla Amsterdam ha un bel bar, sempre se esiste ancora.» «Esiste ancora.» «Allora sei newyorkese?» «Facciamo a meno di chiacchiere inutili, okay?»
CAPITOLO 29 Seduto al bar, Gideon ordinò un sakè, Mindy Jackson una birra Sapporo. Non dissero nulla fino all’arrivo delle ordinazioni. Nella luce, senza la giacca, la vide meglio: labbra carnose, naso piccolo, un’ombra di lentiggini, capelli castani folti, occhi verdi. Trenta, forse trentadue anni. Sveglia. Ma forse troppo bella per quel lavoro, anche se, ricordò a se stesso, non si poteva mai dire. Sicuramente era in possesso di informazioni importanti. E, per averle, avrebbe dovuto cedere. Le bevande furono servite e Mindy Jackson bevve un sorso, poi gli rivolse la parola con aria ostile. «Bene. Ora, chi sei? E perché ti interessi a Wu?» «Sono sicuro che non puoi dirmi tutti i particolari del tuo incarico... per me vale la stessa cosa.» La passeggiata fin lì gli aveva dato il tempo di inventare una storia; e più la bugia era vicina alla verità più era credibile. «Non ho nemmeno un distintivo. Oh, a proposito, desidererei vedere il tuo, come cortesia professionale.» «Noi non abbiamo distintivi. Abbiamo documenti.» Lo estrasse e glielo mostrò velocemente sotto il banco. «Allora, per chi lavori?» «Per te sarà frustrante, Mindy, ma lavoro per un appaltatore privato del Dipartimento della sicurezza interna. Dovevo recuperare i progetti dell’arma di Wu.» Gideon notò il disappunto sul suo volto. «Il Dipartimento della sicurezza interna? Perché diavolo s’immischiano nei nostri affari? Con un appaltatore privato?» Lui scrollò le spalle. «Cosa sai?» gli domandò. «Niente.» «Balle. Wu ti ha parlato subito dopo l’incidente. Ti ha detto qualcosa. Voglio sapere cosa.» «Mi ha detto di dire alla moglie che l’amava.» «Se devi raccontare balle, sforzati di più. Wu non era sposato. Ti ha dato alcuni numeri. Cosa sono?» Gideon la fissò. «Mmm, cosa ti fa pensare che mi abbia dato dei numeri?» «I testimoni. Hanno dichiarato di averti visto scrivere dei numeri. Senti» disse scostandosi una ciocca di capelli dal viso. «Come tu stesso hai puntualizzato, siamo dalla stessa parte. Dovremo lavorare insieme, unire le nostre risorse.» «Non sembravi interessata a collaborare.» «Dammi i numeri e lo farò.» «Sembra eccitante.» «Non fare il coglione. Voglio i numeri.» «Qual è il loro significato?» Lei esitò. Forse non lo sapeva?, si chiese Gideon, ma i numeri erano sempre stimolanti per un agente della CIA.
«Ho una domanda per te» azzardò lui. «Cosa sta combinando la CIA? I casi di sicurezza nazionale non sono di competenza dell’FBI?» «Wu arrivava dall’estero. Lo sai bene quanto me.» «Questo non risponde alla mia domanda.» «Non posso farlo» ribatté Mindy con aria sempre più irritata. «Non ho l’autorizzazione e di certo non sono affari tuoi.» «Se vuoi sapere altro, dovrai farlo. Non puoi costringermi a parlare. Non ho infranto alcuna legge. Parlare con un uomo ferito, chiedergli delle sue condizioni non è illegale.» Chissà dov’era Mindy durante la sparatoria nel deposito della polizia. Forse occupata a tagliare la testa di qualcuno? «Se è nell’interesse della sicurezza nazionale, altroché se posso costringerti!» «Cosa!? Mi sottoporrai al waterboarding qui al bar?» Malgrado tutto, la vide sorridere. Lei sospirò. «Era una faccenda troppo delicata per essere lasciata all’FBI. Wu era la vittima della nostra trappola sessuale. Abbiamo architettato noi la cosa.» «Lo avete incastrato voi?» La Jackson esitò. «Wu è andato a un convegno scientifico a Hong Kong e abbiamo saputo che aveva con sé i piani. Così abbiamo teso la trappola.» «Raccontami.» Mindy esitò di nuovo, poi sembrò giungere a una decisione. «D’accordo. Ma prova solo ad aprir bocca con qualcuno, chiunque sia, e ti farai un bel giretto a Guantánamo. Abbiamo assoldato una squillo del posto perché incontrasse casualmente Wu al bar dell’albergo del convegno. L’ha portato in camera sua e ha soddisfatto ogni sua fantasia: e noi abbiamo ottenuto le prove del misfatto, video, audio e foto.» «E ha funzionato davvero? Ma se Wu non era sposato, cosa temeva?» «In Cina funziona. I cinesi sono pudichi. Non condannano il sesso; la perversione sì, però. La sua carriera era a rischio.» Gideon scoppiò a ridere. «La perversione? Quale?» «Una dominatrice. Atletica, alta più di un metro e ottanta, bionda. Abbiamo avuto un bel po’ di difficoltà a trovarne una disposta a fare quel genere di giochetti. Gli ha frustato per bene il culetto e abbiamo messo tutto su nastro.» «Wow! Poi cos’è successo al vostro ricatto?» «Lo abbiamo avvicinato con le prove e gli abbiamo proposto lo scambio: le immagini per i progetti. Ma lui si è spaventato a morte. Ci ha chiesto mezz’ora per pensarci. Invece è partito, è salito sul primo aereo diretto qui.» «Avete fatto male i vostri calcoli.» Lei si accigliò. «Perché qui?» «Non lo sappiamo.» «Aveva intenzione di chiedere asilo?»
«Non abbiamo idea di quali fossero le sue intenzioni. Di sicuro però quando è salito sull’aereo aveva con sé i progetti.» «E dove li ha nascosti?» «Non lo so.» «E come mai quell’auto ha tentato di buttarlo fuori strada? Chi c’è dietro?» «I cinesi gli hanno dato la caccia come matti. Hanno mandato qui un agente per occuparsi di Wu. Riteniamo sia un uomo soprannominato Gru che Annuisce.» «Gru che Annuisce?» «È il nome di una posizione del kung fu. Non conosciamo la sua vera identità: è stato assoldato per uccidere Wu e recuperare i progetti. Ha fatto la prima cosa ma non ha ancora trovato i piani. Devono essere in giro da qualche parte.» Gli lanciò uno sguardo eloquente. «Li hai tu?» «No. Sai che non ce li ho. Perché altrimenti correrei ancora di qua e di là?» Lei assentì. «Adesso dammi i numeri.» Lui si spremette le meningi pensando a come ricambiare apparentemente il favore senza in realtà darle niente. Poteva dirle del cellulare? Poi però avrebbe dovuto spiegare dove lo aveva preso... pessima idea. Darle numeri falsi sarebbe stato ancora peggio. Ma sarebbe accaduto lo stesso con i numeri veri. Non avrebbe avuto più bisogno di lui. L’aiuto di Mindy Jackson era un bene troppo prezioso. «Mi spiace» dichiarò, «ma non ce li ho qui con me.» L’espressione ostile ricomparve all’istante, stavolta con più di un’ombra di incertezza. «Dove sono?» «Li ho passati ai miei capi. Li stanno analizzando.» «Non ne hai tenuta una copia?» «No, per ragioni di sicurezza. Quel tizio... Gru che Annuisce, sembra mi stia dando la caccia.» «Una bella sfortuna! Non li hai memorizzati?» «Era una lunga serie. Inoltre certe cose è meglio non saperle.» Lei lo fissò. «Non ti credo.» Lui scrollò le spalle. «Senti, quando incontrerò la prossima volta i miei capi troverò il modo di procurarti i numeri e te li passerò. Affare fatto?» Le rivolse un ampio sorriso. L’espressione ostile si addolcì solo un po’. «Perché sei andato in ospedale?» «Volevo sapere se Wu aveva detto qualcosa prima di morire.» «Ma non lo ha fatto.» Gideon annuì. «Chi era quella dark che era con te?» «Una prostituta. Mi serviva per agire sotto copertura, per depistare il killer.» «Era un buon travestimento. Tutti quei trucchi teatrali mi hanno ingannata per un po’. Sei proprio un gran figlio di...» «Grazie.»
«Adesso, cosa farai?» «Cercherò di capire cosa ne ha fatto Wu dei progetti. Ricostruirò i suoi passi, cercherò contatti, persone che possa avere incontrato per strada. Finora non ho trovato niente.» Allargò le mani. «Senti, Mindy, apprezzo molto questo scambio di informazioni.» Fece di tutto per sembrare sincero. «Continuiamo a farlo. Ti procurerò quei numeri non appena possibile, e qualsiasi altra cosa scoprirò te la farò sapere. Ti sembra abbastanza equo?» E le rivolse un altro ampio e onesto sorriso. Lei lo fissò diffidente. Poi scribacchiò un numero su un tovagliolino. «Questo è il mio cellulare. Chiamami a qualsiasi ora. Saranno guai seri per te se mi hai raccontato delle balle. Ricordatelo.» Si alzò per andarsene lasciando il tovagliolino e un pezzo da venti sul banco. «Grazie per la collaborazione» disse Gideon. «Ogni tuo desiderio è un ordine.»
CAPITOLO 30 Tom O’Brien mangiò il Chicken McNugget rimasto, freddo e duro, masticando rumorosamente mentre studiava l’ultima stampata. Lo buttò giù con una sorsata di tè kombucha. Il suo minuscolo ufficio era ben illuminato da una lampada a incandescenza, quelle a fluorescenza gli facevano venire la depressione, ed era strapieno di carte, libri, riviste, tazze di caffè, piatti e avanzi di cibo. L’unica finestra dotata di sbarre dava su un pozzo di ventilazione di giorno, ma la notte si trasformava in uno specchio sconcertante delle attività che si svolgevano al suo interno. Prima o poi, pensò O’Brien, avrebbe dovuto montare una veneziana. Si bloccò udendo un cigolio: la maniglia appiccicosa dell’entrata dell’ufficio. S’irrigidì quando la vide ruotare lentamente. Estraendo il coltellino da tasca, si mise dietro la porta con il cuore in gola. La maniglia smise di girare, la porta iniziò ad aprirsi. Lui rimase fermo con il coltellino sollevato, pronto a colpire. «Tom?» sussurrò una voce. «Gesù.» O’Brien abbassò il braccio mentre Gideon Crew entrava. Ma quando vide in faccia la persona, si rese conto che non era affatto Crew. Gridò e fece un salto indietro brandendo il coltello. «Chi diavolo...?» «Ehi! Sono io.» «Cristo, hai un aspetto tremendo. Cosa diavolo intendevi fare avvicinandoti in modo così furtivo? E come hai fatto a entrare? Il palazzo è chiuso, di notte. Aspetta, non dirmi... le vecchie abilità sono dure a morire, vero?» Gideon chiuse la porta dietro di sé e fece scattare la serratura, scostò alcuni libri da una sedia e vi si accasciò sopra. «Scusami per il sotterfugio. In realtà è per tutelarti.» O’Brien grugnì. «Avresti potuto chiamarmi, prima.» «Temo che possa essere coinvolta la CIA» spiegò Gideon. «Forse controllano il mio telefono.» «Credevo lavorassi per il governo.» «Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore.» O’Brien piegò il coltellino e se lo cacciò in tasca. «Mi hai spaventato a morte.» Squadrò Gideon da capo a piedi. «Amico, sembra ti sia ingozzato di hot dog e milk shake ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette.» «Incredibile cosa si possa fare con le protesi. Il lavoro va bene?» «Così così.» O’Brien si avvicinò al tavolo sommerso di pile di carte, frugò in un fascio ed estrasse alcuni fogli. «Da’ un’occhiata a questo.» Gideon prese le carte. «Quei numeri sono solo un elenco.» Gli lasciò cadere davanti un altro foglio. «Queste sono le cifre come me le hai date. Le ho semplicemente divise in gruppi di tre. Così è emerso un modello rilevante. Guarda.»
871 050 033 022 014 010 478 364 156 002 211 205 197 150 135 101 001 750 250 336 299 242 114 009 917 052 009 008 007 004 003 500 278 100 065 057 616 384 370 325 300 005 844 092 060 001 001 001 001 «Cosa ne pensi?» chiese O’Brien rivolgendogli divertito un ampio sorriso. Gideon non vide il modello. Alcune persone erano dure di comprendonio, quando si trattava di numeri. «Mmm...» «Osserva. Dieci gruppi di numeri di tre cifre. Guardali. Il modello dovrebbe risultare ovvio anche a uno stupido.» «Ogni gruppo di numeri è in ordine decrescente?» «Sì, ma non è quella la cosa importante. Guarda ogni gruppo, sommali.» Ci fu un lungo silenzio. «Oh, mio Dio.» «Esatto. Ogni gruppo dà mille.» «Il che significa...?» «Immagino siano elenchi di percentuali, ognuno dei quali dà mille o cento per cento con una cifra significativa a destra della virgola decimale. È una formula di qualche tipo: dieci formule espresse sotto forma dei rapporti dei vari componenti che sommati formano il cento per cento.» «Il cento per cento di cosa?» «Potrebbe essere la formula di qualche materiale altamente esplosivo, o di una lega insolita, oppure chimica o isotopica. Non sono un chimico né un fisico della materia condensata: dovrei portarla a un esperto.» «Hai in mente qualcuno?» «Sadie Epstein. È docente al Dipartimento di fisica, esperta di analisi dei quasicristalli metastabili.» «È discreta?» «Molto. Ma non le dirò granché.» «Raccontale una storia. Inventati una cosa qualunque. Per esempio una gara di qualche tipo il cui premio è un viaggio a Oxford per il convegno sulla matematica di Isaac Newton in settembre.» «Non riesci proprio a non mentire? Inventi balle anche quando non ce n’è bisogno.» «Non provo nessun piacere nel dire bugie.»
«Sei il re dei bugiardi. E da quando sei così spendaccione? Di solito piangi sempre miseria. Dove alloggi?» «Mi sposto di qua e di là in città: ho passato la notte scorsa in un motel da venti dollari l’ora a Canarsie. Stasera mi intrufolerò al Waldorf. Domani mattina ho un volo per Hong Kong.» «Hong Kong? Quanto starai via?» «Non più di un giorno. Passo a trovarti quando torno, per vedere cos’hai scoperto. Non chiamarmi. E, mi raccomando, controlla quella Sadie Epstein. Deve tenere la bocca chiusa.»
CAPITOLO 31 Norio Tatsuda era assistente di volo sulla rotta Tokyo-New York della Japan Airlines da quasi sei anni, e quando notò l’uomo seduto al posto sbagliato, riconobbe subito il tipo: era uno di quei viaggiatori inesperti e attaccabrighe sicuri di essere trattati con scortesia e raggirati in ogni occasione. Il tizio in questione indossava un abito costoso con un cappello floscio da idiota e teneva stretto un beauty case di plastica come se ci fossero delinquenti e criminali pronti a strapparglielo di mano da un momento all’altro. Con un sorriso fintamente cordiale Tatsuda si avvicinò al passeggero e fece un lieve inchino. «Posso chiederle di mostrarmi la carta d’imbarco, signore?» «Per quale motivo?» rispose quello. «Be’, pare che alla signora», e indicò la donna in piedi accanto a lui, «sia stato assegnato il posto dove siede lei, e per prassi devo verificare la sua carta d’imbarco.» «Io sono al posto giusto» affermò l’uomo. «Non lo sto mettendo in dubbio, signore, potrebbe benissimo essere un problema del sistema di prenotazione, ma devo controllare lo stesso.» Rivolse un altro ampio sorriso a quello scimmione accigliato. Scuro in volto, il passeggero cercò nelle tasche ed estrasse infine una carta d’imbarco spiegazzata. «Eccola, se le interessa tanto.» «Grazie mille.» Tatsuda aveva ragione. Il tipo sedeva nel posto e addirittura nella sezione sbagliata. «Lei è il signor Gideon Crew?» «A quanto pare.» «Sì, certo. Ora, signor Crew, secondo questa carta d’imbarco», seguì un altro sorriso smagliante, «lei ha in realtà un posto prenotato in business class, proprio davanti.» «Business? Io non viaggio per affari. Vado a trovare mio figlio.» Quell’uomo, pensò Tatsuda, era straordinariamente stupido. L’espressione combattiva sul volto, le labbra sporgenti, la fronte aggrottata e il mento sfuggente glielo confermarono. «Signor Crew, la business class non è solo per i viaggiatori d’affari. Laggiù ci sono più spazio e un servizio di qualità superiore.» Agitò la carta d’imbarco. «Dovrebbe trovarsi seduto a un posto molto più costoso.» Crew si accigliò. «Mio figlio ha comprato il biglietto, io non ne so niente, ma sto bene qui. Grazie.» Tatsuda non aveva mai affrontato una situazione del genere in precedenza. Lanciò un’occhiata alla donna, il cui posto era occupato da Crew. Essendo
giapponese non aveva capito niente della conversazione. Si rivolse di nuovo al passeggero. «Signore, vuole davvero restare qui per tutta la durata del volo? Il suo posto in business class è molto più confortevole.» «Cosa le ho appena detto? Non mi piacciono gli uomini d’affari. Sono un branco di ladri. Voglio starmene qui, nel centro dell’aereo, dove sono al sicuro, non davanti, nella zona della morte. È quello che ho detto a mio figlio, e adesso lo esigo.» Ci fu un altro inchino. Tatsuda si voltò verso la signora e passò al giapponese. «Il signore» spiegò, «vorrebbe scambiare il suo posto in business class, nella parte anteriore dell’aereo, con questo in classe economica. Lei acconsente?» Lei ovviamente accettò. Con un passeggero come Gideon Crew, Tatsuda capì che l’ardua prova era solo all’inizio, e la prima sfida arrivò non appena il capitano spense il segnale delle cinture di sicurezza. Mentre passava in corridoio a prendere gli ordini delle bevande, trovò Crew in piedi, chino sul sedile. Aveva sollevato il cuscino e stava tastando lungo gli orli e negli spazi dietro il sedile. «Posso aiutarla, signore?» «Ho perso una maledetta lente a contatto.» «Aspetti, la aiuto.» Lui lo guardò di traverso. «Aiutarmi? Ma se qua dentro io mi giro a stento!» Tatsuda vide il passeggero accanto a Crew alzare esasperato gli occhi al cielo. «Se avesse bisogno di aiuto, la prego, mi chiami. Nel frattempo, posso sapere cosa desidera da bere, signor Crew?» «Gin tonic.» «Sì, signore.» L’assistente di volo si ritirò ma tenne d’occhio Crew dalla cambusa. L’uomo aveva finito di frugare e palpare il cuscino del sedile e adesso stava armeggiando nella cappelliera. Con le sue rozze maniere aveva scucito un orlo del cuscino e anche la copertura del sedile era sul punto di staccarsi. Avrebbe dovuto controllarne attentamente il consumo di alcolici, sembrava proprio il tipo da ubriacarsi durante i lunghi viaggi aerei. Crew tuttavia non ordinò un secondo drink e, dopo una ricerca ossessiva in diverse cappelliere, come se la lente a contatto potesse essere in qualche modo caduta verso l’alto, ripiombò sul sedile e si addormentò profondamente. Con gran sollievo di Tatsuda, il difficile passeggero continuò a dormire per tutto il resto del volo verso Tokyo.
CAPITOLO 32 Gideon Crew entrò nell’immenso Tai Tam Hotel a Hong Kong. Mentre si abbottonava l’abito rimase immobile per un istante a osservare le distese di marmo bianco e nero, la fredda opulenza dell’oro e del vetro. All’arrivo non sembrava essere accaduto niente di spiacevole: aveva superato la dogana senza intoppi e tutto era andato liscio. Era piuttosto sicuro di essersi scrollato di dosso Gru che Annuisce e qualsiasi potenziale scagnozzo ben prima di lasciare l’America. Chi avrebbe immaginato che una persona inseguita da un agente cinese salisse su un aereo diretto proprio in Cina? Le mosse inattese erano spesso le migliori. Si avvicinò al banco, disse il suo nome, prese la chiave elettronica della camera e con l’ascensore salì al ventiduesimo piano. Aveva prenotato una stanza costosa con vista sul porto di Hong Kong, elemento necessario della sua copertura, e aveva dovuto spendere una cifra considerevole per alcuni vestiti eleganti. I ventimila dollari ricevuti da Glinn per la missione erano quasi finiti e poteva solo sperare nell’arrivo di un’altra miracolosa iniezione di soldi. Altrimenti si sarebbe ritrovato nella merda fino al collo. Gettò il cappello da idiota nel cestino dei rifiuti insieme al beauty case, si fece una doccia e si cambiò indossando abiti nuovi. Quaranta bigliettoni da cento, senza contare le scarpe da mille dollari. «Un uomo ci si potrebbe abituare» disse a voce alta esaminandosi allo specchio. Si chiese se si dovesse tagliare i capelli. Decise di no: la lunghezza alla moda gli dava proprio l’aspetto giusto. Guardò l’orologio. Le quattro del pomeriggio, del giorno dopo. Una volta perquisito accuratamente il sedile di Wu sull’aereo senza aver trovato alcun indizio, era riuscito a dormire così bene che sarebbe stato a posto per i due giorni successivi. E ora aveva un lavoro da sbrigare. Prese l’ascensore fino all’atrio, entrò nel Kowloon Bar, si accomodò e ordinò un Beefeater Martini extra dry senza ghiaccio, con una buccia di limone. La luce purpurea del bar gli conferiva un’aria cadaverica. Buttò giù il drink, pagò in contanti e tornò nell’atrio. Il banco della reception si trovava da un lato; appena i pochi presenti si allontanarono, Gideon si avvicinò. C’erano due impiegati e scelse il più giovane. «Desidera, signore?» domandò quello. Era un perfetto esemplare di equanimità, discrezione e professionalità. Gideon si accostò all’estremità del banco e si protese parlando in tono basso, da cospiratore. «Sono un uomo d’affari, viaggio solo.» Ebbe un vago cenno d’intesa. «Vorrei ingaggiare una escort per stasera. È lei la persona a cui rivolgersi?»
«Abbiamo un signore, per questo genere di richieste. Posso chiederle di seguirmi?» disse l’impiegato con la stessa voce pacata, senza tuttavia lasciar trapelare nulla. Gideon lo seguì nell’atrio e oltre una porta, in una serie di piccoli uffici. Venne fatto accomodare in uno di questi. Un altro tipo, di pari discrezione e di aspetto quasi identico, si alzò dalla scrivania. «Prego, si accomodi.» Gideon si sedette mentre l’impiegato alla reception se ne andava chiudendosi la porta alle spalle. L’uomo tornò al tavolo su cui si trovavano diversi telefoni e computer. «Quale genere di servizio di escort le interessa?» domandò. «Be’» Gideon scoppiò in una risatina nervosa stando attento a esalare parecchi fumi di Martini, «un uomo in viaggio, lontano dalla famiglia, finisce per sentirsi solo, capisce cosa intendo?» «Certo» rispose l’uomo, e attese con le mani giunte. «Be’, mmm...» Si schiarì la gola. «Vorrei una caucasica. Bionda. Atletica. Alta più di un metro e ottanta. Giovane ma non troppo. Sa, sotto la trentina.» In risposta ebbe un cenno. «Con la escort... è possibile avere qualche servizio speciale?» «Sì» disse semplicemente l’uomo. «In quel caso...» Esitò e poi lo disse tutto d’un fiato: «Vorrei una dominatrice. Sa cos’è?». «Si può fare» rispose l’uomo. «Desidero la migliore. La più esperta.» Lui annuì lentamente. «Di solito, per i servizi di escort si richiede il pagamento anticipato in contanti. Ha necessità di recarsi ai nostri sportelli bancari privati?» «No, sono a posto» disse Gideon con un’altra risata nervosa e picchiettandosi il portafoglio nella tasca dell’abito. Cristo, con quello rischiava di far fuori anche gli ultimi soldi. L’uomo si alzò. «E quando vorrebbe la escort?» «Prima possibile. La vorrei per l’aperitivo, la cena e poi la serata fino, diciamo, a mezzanotte.» «D’accordo. Quando arriverà, la contatterà telefonicamente nella sua stanza.»
CAPITOLO 33 Gideon entrò nel bar e la avvistò seduta in fondo con un cocktail in mano. Restò sorpreso nel vedere quanto fosse attraente, alta e slanciata, non l’atleta muscolosa che si era immaginato. Lui, dal canto suo, si era liberato del completo elegante e aveva indossato un paio di jeans neri aderenti, una maglietta e un paio di All-Stars. Le si avvicinò e si sedette. «Sto aspettando qualcuno» disse lei con un accento australiano. «Stai aspettando me. Gideon Crew al tuo servizio.» Arrivò il barista. «Lo stesso della signora, grazie.» «Allora una San Pellegrino.» «Accidenti! Butta via quella roba e portaci un paio di Martini doppi.» Gideon notò un’espressione piacevolmente sorpresa anche sul viso della donna. «Pensavo di trovarmi davanti un vecchio e grasso manager» spiegò. «No. Sono un giovane e magro non-manager. E tu ti chiami?» Sorrise. «Gerta. Quanti anni hai?» «Circa la tua età. Da dove vieni? Da Coomooroo? Goomalling?» Lei ridacchiò. «Sei davvero matto. Sei stato in Australia?» Lui guardò l’orologio, prima di rispondere: «Cosa ne dici di portare i drink al ristorante? Ho una fame da lupo». Nella sala da pranzo dell’albergo, dopo essersela lavorata a forza di Château Pétrus e formaggi, Gideon si confidò. Lo fece a poco a poco, con riluttanza e solo dietro una garbata insistenza. Raccontò a Gerta che aveva fatto fortuna vendendo la sua società. Lavorava tanto da non vedere quasi il figlioletto, e sua moglie aveva chiesto il divorzio. Poi erano morti entrambi in un incidente d’auto... Era passato così tanto tempo, dall’ultima volta in cui aveva visto il piccolo, che alla veglia non aveva quasi riconosciuto il corpicino. E ora eccolo lì, miliardario e tanto solo che avrebbe barattato tutto, tutto, per un’ora con il figlio. Quanto tempo aveva gettato via per fare soldi mentre il suo bambino lo aspettava a casa la sera, a volte sveglio con una torcia sotto le coperte per non farsi trovare addormentato quando papà fosse rientrato! Invece immancabilmente si addormentava, con la torcia ancora accesa. Gideon prese dal portafoglio la fotografia di un adorabile bambino biondo, vi versò una lacrima solitaria e si dichiarò il milionario più solo e triste della terra. Fu ricompensato da un’analoga lacrima di Gerta. Tornati in stanza, la donna iniziò a tirar fuori il suo kit, ma con una certa riluttanza. Mentre apriva la borsa di tela Gideon le confessò di non aver mai incontrato una come lei prima. Voleva esserle amico, voleva parlare ancora un po’. Era così divertente e interessante, e non riusciva a immaginare di
fare quella roba con lei, quella perversione che lo aveva aiutato a dimenticare almeno un pochettino, perché adesso la rispettava troppo. Le domandò delle sue esperienze più curiose, e lei, dopo un’iniziale diffidenza, prese a raccontargli del suo lavoro. Si sedettero vicini sul letto, mentre Gerta parlava. Dopo cinque o sei storie di guerra, alla fine ci arrivò. Era successo, disse, circa due settimane prima. Era stata ingaggiata da un tizio di una ditta australiana per un lavoro speciale. A quanto pareva, i cinesi avevano rubato la tecnologia dell’azienda, da quanto tempo Glinn era a conoscenza di questi furti?, e volevano mettere un manager cinese in una posizione compromettente per riaverla. Diecimila dollari per il lavoro di una sera. «Mi aspettavo una specie di gangster cinese» proseguì, «invece era un tipo piccolo e nervoso. Poco più di un moscerino. Ha impiegato una vita a spiegarmi cosa voleva facessi.» Ridacchiò. «Ma quando si è lasciato andare... mamma mia!» Gideon scoppiò a ridere insieme a lei e andò ad aprire una bottiglia da mezzo litro di Veuve del minibar. Ne versò due bicchieri. «Sì, è stato molto divertente. Pareva un adolescente smanioso.» «Non ti ha detto nulla sul suo lavoro?» chiese Gideon. «Rimaneva sul vago, qualcosa nel campo dell’elettricità. Non ha mai accennato al furto commesso ai danni dell’Australia.» «L’elettricità?» Gideon stappò una seconda mezza bottiglia. «Be’, mi pare abbia detto così, elettricità o forse elettronica o roba del genere. Ha buttato lì che avrebbe cambiato tutto. La Cina avrebbe preso il sopravvento sul mondo. Si è ubriacato parecchio, non diceva cose molto logiche.» «Gli australiani erano contenti di quelle informazioni?» «Erano più interessati a mettere tutto su nastro. Lo avrebbero costretto a restituire la tecnologia.» «Di che tipo, per la precisione?» Gerta bevve una bella sorsata di champagne. «Non ha voluto confidarmelo. Era un segreto.» «E tutto questo è successo nella sua stanza?» «Oh, sì. Non lavoro mai nella mia.» «Hai notato se avesse con sé un laptop? O un disco rigido portatile?» Lei tacque e lo guardò. «No. Perché?» Doveva stare attento, forse stava spingendo troppo. «Ero solo curioso. Era uno scienziato: forse la tecnologia rubata si trovava nella camera d’albergo.» «Forse. Non ci ho fatto caso. La stanza era molto ordinata, ogni cosa al suo posto.» Lui decise di insistere ancora un po’. «Ha detto niente di un’arma segreta?» «Di un’arma segreta? No, parlava solo della sua nazione. Secondo lui la Cina tra dieci o vent’anni ci seppellirà tutti e dominerà il mondo, le solite
spacconate. Ne sento parecchie, dagli uomini d’affari cinesi.» «Cos’ha detto?» «Non molto. Una volta finito, è diventato d’un tratto paranoico, si è messo a frugare dappertutto in cerca di cimici, aveva paura per me quando me ne fossi andata. Ha smaltito la sbornia molto in fretta. È stato orribile, in realtà, vedere quanto fosse terrorizzato.» «E ti hanno pagata diecimila dollari?» «Cinquemila subito, cinquemila dopo.» «Australiani, hai detto?» «Sì. Di Sydney, da dove vengo io. È stato bello incontrare dei vecchi compatrioti.» Gideon assentì. La CIA era più abile di quel che pensasse. «E invece» proseguì con una risata versando un po’ di champagne, «un uomo un paio d’anni fa voleva portare la sua scimmietta. Le scimmie sono davvero brutte bestie! Non immagineresti mai cosa voleva...» Alla fine si addormentò sopra le coperte russando leggermente. Gideon la spinse con delicatezza da una parte, poi salì dall’altra, anche lui con la testa che gli girava per i Martini, il vino e lo champagne.
CAPITOLO 34 Arrivarono circa alle otto del mattino, vestiti con abiti blu come un gruppo di impresari edili di Hong Kong, aprirono la porta con la loro chiave ed entrarono in fila nella camera. Rimasero educatamente in piedi mentre il capo parlava. «Il signor Gideon Crew?» Gideon si mise a sedere sul letto. La testa gli martellava. «Mmm, sì?» Brutto risveglio. «La prego, ci segua.» Lui li fissò. La ragazza, Gerta, dormiva ancora profondamente accanto a lui. «No, grazie.» I due uomini a fianco del capo estrassero come se niente fosse due pistole Beretta da nove millimetri identiche. «Per cortesia, non peggioriamo la situazione. Questo è un bell’albergo.» «Posso vestirmi?» «Prego.» Scese dal letto con tutti quei tizi che lo stavano a guardare, mentre lui cercava di farsi passare la sbronza e di riprendere in mano le redini della situazione. Si augurò che Gerta non si svegliasse. Avrebbe aggiunto un elemento di imprevedibilità. Doveva pensare rapidamente a qualcosa. Quando lo avessero caricato in macchina, sarebbe stato tutto finito. «Posso prima farmi una doccia?» «No.» Gideon andò a vestirsi nella cabina armadio. «Prenda gli abiti e si vesta qui.» Lentamente, senza smettere di pensare, indossò il completo da quattromila dollari e le scarpe, la cravatta e tutto quel che poté. Dopo aver speso tanto, detestava lasciarli lì. «Venga con noi.» Lo accerchiarono. Quando oltrepassarono la porta e uscirono sul corridoio, le pistole scomparvero. Salirono tutti nell’ascensore. La mente di Gideon lavorava frenetica, eppure non riuscì a escogitare niente. Fare una scenata nell’atrio? Mettersi a urlare come un matto? Dire che lo stavano rapendo? Darsela a gambe? Visualizzò ogni scenario ma finiva sempre ucciso o portato via. Quegli uomini avevano di certo una storia migliore della sua. E un documento di riconoscimento ufficiale. Non poteva vincere. L’ascensore arrivò nell’atrio, le porte si aprirono con un sussurro e si ritrovarono nel locale di marmo. In fondo, dietro la parete di vetro dell’ingresso, vide tre SUV neri parcheggiati in fila, sorvegliati da numerosi altri uomini in abito blu. I suoi accompagnatori lo sollecitarono a muoversi in fretta. E se si fosse messo a correre? Gli avrebbero sparato? Anche se fosse fuggito, dove sarebbe andato? Non conosceva nessuno, a Hong Kong, e gli restavano solo duemila dollari, una bazzecola da quelle parti.
Lo avrebbero individuato prima di riuscire a lasciare il Paese. E sarebbe stato costretto a viaggiare con il suo nome: di quei tempi era impossibile procurarsi un passaporto falso. Lo spintonarono all’uscita, verso il trio di SUV neri con il motore acceso.
CAPITOLO 35 «Ehi!» Gideon udì un grido dall’altra parte dell’atrio e vide una donna lanciarsi verso di loro. Mindy Jackson. Aveva il porta-documento della CIA, lo teneva aperto davanti a sé con il braccio teso a mo’ di ariete. «Voi laggiù! Fermi!» La voce era tanto alta da indurre tutti a bloccarsi nell’ingresso pieno di echi. Piombò in mezzo al gruppo come una palla da bowling tra i birilli spingendo Gideon di lato. Poi si voltò e gridò di nuovo: «Cosa diavolo credete di fare? Sono vicecapo della sezione locale della CIA, e questo è il mio collega. Gode dell’immunità diplomatica! Come osate calpestare il suo status!». Afferrò Gideon e lo trascinò verso la porta. Comparvero subito una mezza dozzina di pistole, puntate contro Mindy. «Lei non va da nessuna parte!» urlò l’uomo al comando avanzando nella sua direzione. Mindy estrasse l’arma in un lampo, una S&W calibro 38 Chief’s Special. Davanti a un tale spiegamento di armi, nell’atrio si levarono grida improvvise e la gente si riparò dietro poltrone e vasi. «Ah, sì?» ribatté lei. «Volete ingaggiare una sparatoria con la CIA proprio qui, in questo momento? Andiamo! Pensate forse di ottenere una promozione per aver crivellato di proiettili l’atrio del Tai Tam Hotel?» Continuando a parlare in un tono sempre più alto, trascinò Gideon verso la porta. Gli uomini restarono paralizzati mentre i due si precipitavano fuori da un’uscita d’emergenza, superata la quale Mindy lo gettò sul sedile posteriore di una Crown Victoria in attesa. Salì dopo di lui, sbatté la portiera e l’auto partì stridendo dal marciapiede. Intanto il gruppo di cinesi in abito blu si fiondò verso i SUV. «Figli di puttana» imprecò ricacciando la S&W nella fondina e appoggiandosi al sedile con un sospiro. «Figli di puttana! Cosa diavolo pensavi di combinare qui?» «Ti devo ringraziare...» «Ringraziare? Mi devi la vita. Ma sei pazzo? Hai portato il culo dritto nella tana del lupo.» Gideon, col senno di poi, capì di aver agito da incosciente. Mindy lanciò un’occhiata indietro. «E adesso ci stanno seguendo.» «Dove andiamo?» «In aeroporto.» «Ci impediranno di lasciare il Paese.» «Sono disorientati. Chiederanno istruzioni. Tutto dipende dalla rapidità con cui la burocrazia dell’intelligence riuscirà a coordinarsi. Sai maneggiare una pistola?»
«Sì.» Lei estrasse una Walther calibro 32 dalla cintura e gliela porse con un caricatore pieno di scorta. «Qualsiasi cosa tu faccia, per l’amor del cielo, non sparare a nessuno. Segui i miei ordini.» «D’accordo.» Mindy si rivolse all’autista. «Rallenta, lasciali avvicinare.» «Perché?» domandò l’uomo al volante. «Può essere un modo per capire le loro intenzioni. Ci seguono soltanto? Vogliono buttarci fuori strada?» L’autista rallentò notevolmente e il SUV nero in testa si avvicinò rapido nella corsia di sinistra. Frenò fino alla loro velocità e abbassò il finestrino fumé. Spuntò la bocca di una pistola. «Giù!» Il colpo fece saltare entrambi i finestrini posteriori e li coprì di una pioggia di frammenti di vetro. Nello stesso istante l’autista fece un’impossibile mossa evasiva, sterzando lungo quattro corsie di traffico sull’Island Eastern Corridore e facendo stridere le ruote sulla superficie. «Hai appurato le loro intenzioni» osservò sarcastico Gideon. «Sì, e sembra che abbiano ricevuto istruzioni.» L’auto stava accelerando di nuovo lungo la corsia destreggiandosi in mezzo al traffico, diretta al collegamento per il Cross-Harbour Tunnel. «Il tunnel sarà intasato» fece notare il conducente. «Cosa facciamo?» Mindy non rispose. Gideon guardò indietro. I tre SUV stavano fendendo il traffico, tenendo il passo. Thunk! Un altro proiettile si conficcò nella fiancata della vettura con lo stesso rumore prodotto da una mazza sull’acciaio. La Jackson si sporse dal finestrino rotto, sparò cinque colpi in rapida successione e il SUV rallentò. Dopo essersi accucciata sul fondo, Mindy aprì il tamburo, vi cacciò dentro nuovi colpi e lo chiuse di scatto. «Tieni giù la testa.» «Non abbiamo nessuna possibilità di uscire dal Paese» disse Gideon. Thunk! Un’altra pallottola colpì il retro dell’auto. Lui si abbassò con le mani sulla testa. «Sparare con una pistola da una macchina in corsa è molto più difficile di quanto sembri» considerò l’agente della CIA. «Non è come nei film. Dammi il tuo passaporto.» Lui lo pescò dalla tasca. Sentiva il rombo del motore, le ruote che stridevano, i clacson strombazzanti delle macchine... e ora un suono di sirene. Lei afferrò il passaporto, mise la mano in una borsa, prese una goffratrice e un piccolo timbro circolare. Aprì il documento, lo timbrò, lo firmò e lo goffrò. «Adesso possiedi uno status diplomatico» annunciò restituendoglielo. «È una fornitura standard della CIA?» La donna sorrise cupa mentre la vettura rallentava. Gideon sbirciò fuori. Stavano superando l’accesso sottomarino del CrossHarbour Tunnel. I SUV neri erano fermi molte macchine indietro. Il traffico rallentò ulteriormente, si congestionò e infine si bloccò.
Gideon lanciò di nuovo un’occhiata dal finestrino e vide gli uomini in abito blu riversarsi giù dai loro mezzi, un centinaio di metri più indietro. Corsero verso la Crown Vic disponendosi a ventaglio tra le auto, con le pistole in pugno. «Siamo fottuti» disse. «Niente affatto. Non appena esco, inizia a sparare al di sopra delle loro teste. Sta’ attento a non colpire nessuno.» «Aspetta...» E invece in un lampo Mindy balzò fuori e corse via accucciata, schivando le file di veicoli fermi. Lui mirò leggermente al di sopra delle teste degli uomini in avvicinamento e premette il grilletto; la pistola rinculò, sparò uno, due, tre colpi tanto forti da risultare assordanti tra i muri dell’accesso sottomarino. Si buttarono tutti a terra e attorno a lui si levò un coro di grida, le portiere si spalancarono e le auto si svuotarono. Fu subito il caos. Ora capì la strategia della Jackson. Sparò altri due colpi aumentando il panico: altre portiere si spalancarono, altre grida, altre persone scesero dalle macchine urlando e correndo come pazze in ogni direzione. I cinesi in abito blu si alzarono e cercarono di farsi strada a forza nella calca in fuga, ma era come contrastare una marea in arrivo. Gideon sparò di nuovo in alto, stavolta in tutte le direzioni, bang bang bang bang! Il panico si diffuse e gli inseguitori si gettarono di nuovo a terra per ripararsi. La folla si riversò all’esterno scatenando il caos anche nelle macchine più lontane, che a loro volta si svuotarono a ondate successive. Sentì Mindy sparare con la S&W da qualche parte alle sue spalle, il revolver a canna corta era più forte della sua calibro 32. Al rumore parte dei fuggitivi cambiò terrorizzata direzione, le persone cozzarono le une contro le altre e si rifugiarono sotto le macchine. Gideon udì i finestrini rompersi, i clacson strombazzare. Cercò di individuare gli uomini in abito blu, ma erano scomparsi nella calca ondeggiante, bloccati a terra o forse persino calpestati. All’improvviso la portiera si spalancò; lui si girò e vide la Jackson. Lei si passò il dorso della mano sulla fronte e rimise la pistola nella fondina. «È arrivata l’ora di dividersi.» Lui saltò fuori e corsero in mezzo alla calca dirigendosi verso l’uscita del tunnel. Era come un’infezione, la folla in preda alla frenesia dilagante aumentava man mano che abbandonava le auto. Temevano un attentato terroristico. Spinti dalla ressa, emersero dalla strada sottomarina. La gente si riversò oltre un muretto di cemento, si precipitò giù per un breve argine e raggiunse la Hung Hing Road, dove confluì in una massa urlante verso nord, nell’Hong Kong Yacht Club. Travolse i due custodi nella guardiola accanto al cancello, lo abbatté e si sparpagliò sul grazioso viale fiancheggiato da alberi
del club. «Seguimi.» L’agente dell’FBI si staccò dalla fiumana e tornò indietro lungo una strada di servizio, attraversò un binario e si arrampicò su un recinto di rete metallica. Finirono per lasciarsi alle spalle la calca e correre lungo la passeggiata affacciata sul Victoria Harbour. Questa curvava attorno a un molo asfaltato che si allungava nel porto. Mindy urlava da un po’ al cellulare e adesso lo chiuse di scatto. «Laggiù!» Corse lungo l’ampio molo asfaltato. «È un vicolo cieco!» urlò Gideon. Poi però vide davanti a sé un’enorme H stampata in giallo sull’asfalto, racchiusa da un cerchio giallo. Alzò lo sguardo e quasi a comando udì il rumore di un elicottero che arrivava basso e rapido. Il velivolo girò attorno al molo, decelerò e si posò riducendo la velocità dei rotori. Lo raggiunsero mentre il portello si apriva. Non appena furono all’interno, l’elicottero riprese quota e attraversò il porto. Mindy Jackson si sistemò su un sedile, si allacciò la cintura di sicurezza e si voltò verso di lui. Estrasse un notes dalla tasca insieme a una penna. «Ti ho appena salvato il culo. Adesso mi dici i numeri. E basta con le stronzate.» Lui le disse i numeri.
CAPITOLO 36 Salirono sul primo aereo in partenza, un volo Emirates, usando i timbri diplomatici per evitare il controllo passaporti. Arrivarono a Dubai verso le nove, ora locale. Per la coincidenza per New York avrebbero dovuto aspettare il mattino dopo. «Il Bur Dubai Hotel è piuttosto carino» osservò Mindy Jackson mentre attraversavano la dogana e si dirigevano alla coda per i taxi. «Me ne devi una.» Lui allargò le mani. «Bevuta o...?» Lei arrossì. «Bevuta. Una buona bevuta. Quanto è contorta la tua mente?» Presero un taxi. «Al Bur Dubai» disse all’autista; si rivolse a Gideon. «Il Cooz Bar è un locale Jazz and Cigar. Poltroncine di velluto rosso, sgabelli leopardati al banco, un bel po’ di legno chiaro.» «Buffo, non sembri una fumatrice di sigari.» Il taxi avanzò lento nel traffico della sera e alla fine si fermò davanti l’albergo, composto da due edifici curvi ultramoderni, bianchi e neri, che si intersecavano. Andarono dritti al bar senza registrarsi, appena in tempo per la seconda parte dello spettacolo. Mentre venivano fatti accomodare, la grande orchestra cominciò a suonare. Prevedibilmente il pezzo di apertura fu Caravan di Duke Ellington. Gideon ascoltò: non era niente male. Arrivò il cameriere. «Un Absolut Martini» ordinò l’agente, «dry e con due olive. E» aggiunse passando in rassegna la lista dei sigari, «mi porti un Bolívar Coronas Gigantes.» Gideon optò per una birra, stando sul leggero dopo gli eccessi della sera prima. Il cameriere tornò con le ordinazioni. «Hai intenzione di fumarlo?» chiese lui osservando il contenitore di alluminio a forma di siluro. «No, lo farai tu. Adoro gli uomini che fumano il sigaro.» Cedendo agli istinti più bassi, Gideon lo estrasse e lo avvicinò al naso. Era molto buono. Tranciò l’estremità con il tagliasigari fornito in dotazione e lo accese. La Jackson lo guardò di sottecchi. «Proprio come pensavo. Il sigaro ti dona.» «Speriamo solo non mi venga un cancro e non debbano togliermi le labbra.» «Hai anche delle belle labbra.» Mindy sorseggiò il drink continuando a scrutarlo. «Sai, non ho mai visto nessuno con il tuo aspetto. Capelli neri corvini, occhi azzurri intensi.» «Nero irlandese. Anche se non lo sono.» «Quindi ti scotti facilmente al sole?» «Purtroppo sì.» Lì, in un luogo così lontano da casa, Mindy Jackson sembrava una persona diversa. «Hai idea del significato di quei numeri?» le domandò lui.
«Non ancora. Li ho già comunicati per telefono.» «Mi piacerebbe sapere se scoprono qualcosa.» Lei non rispose. L’orchestra passò a un altro classico di Ellington, Moon Indigo. Avendole dato i numeri, Gideon si sentiva in diritto di spingere un po’ di più. «Allora dimmi qualcos’altro su Gru che Annuisce. Sembra saltato fuori da un film di James Bond.» «In un certo senso è così. È un assassino nato. Sappiamo molto poco di lui: arriva dalla zona più occidentale della Cina, è di estrazione mongola. Una sorta di piccolo Gengis Khan. Ci risulta sia stato addestrato in un’unità speciale, dove ha imparato tutto sulla cultura americana. A quanto pare, è al servizio dell’Ufficio 810.» «L’Ufficio 810?» Lei lo guardò con aria strana. «Per essere un agente, seppure privato, sei di un’ignoranza mostruosa.» «Sono nuovo.» «L’Ufficio 810 è la versione cinese della Gestapo o del KGB, solo più piccolo e più mirato, controllato personalmente da alcuni ufficiali d’alto rango del Partito comunista. Gru che Annuisce è uno dei loro uomini migliori, e a quanto sembra lo hanno imbottito di sostanze chimiche e ormoni, ma non è solamente una brutale macchina da guerra sempre pronta a uccidere. È intelligente e imbevuto di cultura popolare americana. Secondo un rapporto suona anche la chitarra con il bottleneck. Blues.» «Da non crederci. Ma se è così bravo, perché ha combinato un casino con Wu?» «Combinato un casino? I suoi ordini erano di uccidere lo scienziato e scappare. E li ha seguiti alla lettera. I danni collaterali non hanno importanza... per lui.» «Però non ha trovato i piani.» «Non prevedeva di farlo, allora. Quella è la fase due. Ci sta lavorando adesso.» «Perché mi dà la caccia?» «E dai! Cinque o sei testimoni ti hanno visto scrivere quei numeri. Lui non ha bisogno di scoprire quali sono: deve solo chiudere per sempre la bocca a chiunque li conosca.» Gideon scosse la testa e aspirò una piccola boccata. «Se fosse così in gamba, sarei già morto.» «Finora sei stato terribilmente bravo. O forse è stata fortuna sfacciata. Sei imprevedibile. Nessuno si aspettava la tua partenza per Hong Kong.» «Tu però l’hai fatto.» «Per niente. Hanno allertato gli aeroporti, le tue mosse sono state segnalate. Quando tornerai negli Stati Uniti, Gru che Annuisce sarà là ad attenderti. Non so se sopravviverai.» Sorrise e pescò un’oliva dal bicchiere lanciandosela in bocca. «Grazie per la fiducia. Ma i numeri adesso li conosci pure tu, quindi sei
anche tu un bersaglio.» «Non preoccuparti; saprò cavarmela.» Lui aspirò un’altra boccata. «A ogni modo, come ha fatto Wu ad andarsene con i progetti?» «Riteniamo lo stesse pianificando da tempo. Era uno dei capi, avrà avuto accesso totale a ogni informazione. Forse la trappola sessuale è stata solo la spinta finale.» «E se non avesse davvero rubato i progetti? Come potete esserne certi?» «Siamo in possesso di informazioni segrete a prova di bomba. Ci sono costate parecchio.» «Lo scienziato potrebbe essere stato di per sé una falsa pista, un trabocchetto...» «Ne dubito.» «Dati specifici sull’arma?» «Questo è l’aspetto più spaventoso. Non sappiamo se sia un ordigno termonucleare potenziato o qualcosa di completamente nuovo. In base al gruppo eterogeneo di scienziati di Lop Nur si potrebbe propendere per la seconda ipotesi: lì non si trovano fisici nucleari né specialisti di materiali altamente esplosivi, ma ci sono molti esperti di metallurgia e nanotecnologia, fisici quantistici e della materia condensata.» «Fisici quantistici? Potrebbe trattarsi di un ordigno strano che sfrutta le particelle: un’arma laser, un minibuco nero o persino un congegno basato sulla materia-antimateria.» «Sei più in gamba di quanto sembri. Cosa fai esattamente a Los Alamos?» «Progetto e collaudo lenti altamente esplosive.» «Cosa sarebbero?» «È segreto. Basti dire che sono fatte di un materiale convenzionale altamente esplosivo e rientrano tra i componenti utilizzati per far implodere il nucleo delle bombe nucleari.» La Jackson bevve un altro sorso di Martini. «Come hai fatto a diventare un esperto in questo campo?» Gideon alzò le spalle. «Be’, nel mio caso mi piaceva far esplodere le cose.» «Vuoi dire auto? Persone?» «No. È iniziato come un gioco, da ragazzino. Fabbricavo congegni pirotecnici mescolando la polvere da sparo. Erano una specie di fuochi d’artificio. Li facevo esplodere nei boschi dietro casa e chiedevo un quarto di dollaro ai bambini del vicinato per assistere. In seguito si sono rivelati buoni... per altri usi.» Sbadigliò. «Un vero uomo del Rinascimento. Vuoi ordinare da mangiare?» «No, sono troppo stanco e mi è passata la fame.» «Stanco? Allora prendiamo due stanze?» La sua voce si affievolì e le labbra si piegarono in un sorriso eloquente. Lui guardò gli occhi verdi di Mindy, i capelli lucidi, il naso spruzzato di lentiggini.
Vedeva il sangue pulsarle leggermente nel collo. «Non fino a questo punto.» Lei lasciò un biglietto da cinquanta sul tavolo e si alzò. «Bene. Detesto spendere i soldi del governo per una stanza se nessuno la usa.»
CAPITOLO 37 Roger Marion chiuse la porta di casa e inserì il chiavistello con un sospiro. Era un giovedì molto movimentato, a Chinatown, e Mott Street traboccava di umanità: il mormorio animale filtrava ancora nell’appartamento dalle finestre chiuse, munite di sbarre, le quali davano sulla scala antincendio rivolta sulla strada. Si fermò per riprendersi, per ripristinare il centro di calma distrutto dal caos incessante della città. Chiuse gli occhi, entrò in uno stato di pace e con gesti sciolti, disinvolti eseguì la serie di movimenti nota come mile shenyao. Sentiva la Ruota della Legge girare, girare, girare all’infinito. Ultimati gli esercizi, andò in cucina a preparare il tè. Posò il bollitore sul fuoco, prese la pesante teiera di ferro e un barattolo di tè bianco in foglie disponendo il tutto sul banco. Quando l’acqua fu calda tolse il bollitore dal fornello e ne versò un po’ nella teiera per scaldarla. Dopo averla sciacquata gettò via l’acqua, mise dentro una cucchiaiata di foglie arricciate di tè e le coprì con altra acqua calda. Portò teiera e tazza in soggiorno. In piedi nel centro della stanza trovò un uomo con le braccia conserte e un sorriso sul volto. «Buono il tè!» esclamò questi in cinese. Indossava un abito ordinario, camicia bianca, cravatta grigia in pesante tessuto a coste; aveva la faccia liscia, priva di rughe come una pezza di seta, gli occhi freddi e vuoti, i movimenti aggraziati. Sotto i vestiti Marion intuì un perfetto esempio di magrezza atletica. «Bisogna lasciarlo in infusione» spiegò senza mostrarsi sorpreso, chiedendosi come fosse riuscito a introdursi nell’appartamento. «Prendo un’altra tazza.» L’uomo assentì e Roger si girò per andare in cucina. Mentre rovistava nell’armadietto, estrasse un piccolo coltello da un blocco sul banco e se lo infilò nella cintura, sulla schiena. Tornato in soggiorno, posò la seconda tazza accanto alla teiera. «Preferisco che il tè bianco resti in infusione per almeno dieci minuti» disse il cinese. «Quindi avremo tutto il tempo di parlare.» Marion attese. Il tipo giunse le mani dietro la schiena e iniziò a passeggiare lentamente per la stanza. «Sto cercando una cosa» riprese. Si fermò davanti l’arazzo appeso alla parete e lo studiò. Marion non aprì bocca. Studiò mentalmente la serie di mosse più efficace per ficcargli il coltello in gola. «Sai dov’è?» domandò lo sconosciuto. «Cosa stai cercando?» «Dovresti saperlo.» «Non ne ho idea.» A quella frase l’uomo gesticolò, come per scacciare una
zanzara. «Cosa ne avreste fatto?» Marion rimase di nuovo in silenzio. Nella sua mente era tutto pronto, e poi: «Un po’ di tè?». L’altro si girò. «Non è rimasto abbastanza in infusione.» «Io lo preferisco più leggero.» «Allora serviti. Io aspetto.» Marion si chinò disinvolto e afferrò la teiera di ferro per il manico. Aveva la mente lucida e sgombra. Inclinò la teiera e, dopo aver riempito la tazza, la posò, sollevò la tazza con calma come per portarla alle labbra e poi con uno scatto del polso gettò il contenuto ustionante in faccia all’uomo estraendo nel frattempo il coltello con un gesto fulmineo per squarciargli la gola. Ma lo sconosciuto e la sua gola non erano lì, e il coltello saettò innocuo nell’aria. Perso l’equilibrio per lo slancio, Roger cadde in avanti e, mentre cercava di recuperarlo, un braccio con una mano munita di artigli spuntò dal nulla. Cercò di schivare quella sorta di punte metalliche, ma era troppo tardi. Sentì un violento strattone alla gola e un improvviso flusso d’aria rovente. L’uomo in piedi al suo fianco, con in pugno ciò che si rese conto essere la sua stessa trachea insanguinata, pulsante, fu la sua ultima immagine. Gru che Annuisce arretrò di qualche passo. Il corpo della sua vittima si contorceva mentre il sangue usciva a fiotti sul tappeto. Attese un minuto, poi aggirò l’ostacolo e andò in cucina. Si lavò le mani tre volte con acqua molto calda e si esaminò con attenzione l’abito. Non c’erano particelle della xi orén, della piccola persona, sui vestiti. Tutta l’azione si era svolta lontano dal suo corpo. C’erano solo alcune gocce di sangue sulla punta della scarpa sinistra, che tolse meticolosamente con uno straccio bagnato, per poi lucidarla in fretta. Quando tornò in soggiorno, il sangue aveva smesso di fluire. Il tappeto ne aveva assorbito parecchio, evitando che la macchia si allargasse. Girando di nuovo attorno al corpo, si versò una tazza di tè e lo assaporò con piacere. Il tempo di infusione era perfetto. Se ne versò un’altra tazza ripescando dal suo vasto bagaglio di filosofia confuciana una massima particolarmente appropriata: «Se le punizioni non vengono assegnate nel modo giusto, il popolo non sa come muovere le mani e i piedi».
CAPITOLO 38 Gideon Crew passeggiava accanto al nastro bagagli come se attendesse la valigia. Ovviamente era solo un diversivo: stava studiando le persone lì presenti. Gli risuonarono nelle orecchie le parole d’addio di Mindy Jackson. «Gru che Annuisce è un tipo difficile da notare. Lo riconoscerai solo per gli occhi inespressivi e il fisico perfetto.» Prevedibilmente, al nastro bagagli c’erano molti asiatici, e numerosi corrispondevano alla descrizione alquanto vaga di Mindy. Non diventare paranoico, si disse. Concentrati sul passo successivo. Estrasse il portafoglio, controllò rapidamente i soldi che gli restavano. Circa un migliaio di dollari. Sentì, non per la prima volta, un senso di fastidio perché Glinn e la società sembravano averlo abbandonato. «Quando tornerai negli Stati Uniti, Gru che Annuisce sarà là ad attenderti. Dubito che sopravviverai.» Aveva chiaro in testa come avrebbe dovuto procedere. Se Wu non aveva con sé il progetto, dopo aver attraversato la dogana, forse lo aveva dato a qualcuno prima di superarla. Gideon si trovava opportunamente all’interno della zona di sicurezza doganale. Proprio mentre stava ragionandovi sopra dagli altoparlanti provenne l’assillante avviso pre-registrato: «Segnalate persone sospette o bagagli incustoditi alle autorità competenti». Carpe diem. Si guardò attorno e scorse un agente della Sicurezza dei trasporti. «Mi scusi» lo apostrofò, «credo d’aver visto qualcosa di sospetto e vorrei segnalarlo alle autorità.» «Posso prendere io la segnalazione» rispose l’agente. «No» replicò compassato Gideon. «Devo segnalarlo alle autorità competenti. È molto importante.» «Posso prendere io la segnalazione, signore» ripeté l’altro. «Ma l’annuncio diceva “autorità competenti”» insistette Gideon alzando il tono della voce. «Non intendo offendere, ma lei è un agente. Io voglio parlare con qualcuno che “abbia autorità”, proprio come indica l’annuncio. Non c’è tempo da perdere. Ho visto una cosa molto allarmante e devo riferirla subito.» Strinse le labbra e assunse un’espressione bellicosa. Lo sguardo dell’uomo vacillò. «Va bene, mi segua.» Lo condusse in un dedalo di piccoli uffici senza finestre e di corridoi, fino a una porta chiusa. Bussò e una voce li invitò a farsi avanti. «Grazie» disse Gideon entrando, poi gli chiuse la porta in faccia. Si voltò e vide un uomo flaccido seduto a un’ampia scrivania
completamente sommersa di carte. «Cosa succede?» L’agente cercò di entrare ma Gideon, in piedi sulla porta, la bloccò con un piede. Gettò il passaporto sulla scrivania e disse: «CIA. Lo mandi via». L’uomo prese il passaporto per esaminarlo. L’agente bussò di nuovo. «Apra.» «Grazie» gridò l’uomo. «È tutto. Torni pure al suo dovere.» Rivolse di nuovo l’attenzione al passaporto e osservò accigliato i timbri diplomatici. «CIA, ha detto? Mi può mostrare il suo distintivo?» «Certo che no!» rispose brusco Gideon. «Non portiamo documenti quando lavoriamo sotto copertura diplomatica.» L’autorità competente posò il passaporto. «D’accordo, cosa succede?» Gideon gli lanciò una lunga occhiata ostile. «Il capitano Longbaugh?» «In persona. Ora però sarà meglio mi dica cos’ha per la testa, signore, perché come può vedere sono molto occupato.» Si capiva che Longbaugh era un tipo abituato a trattare con burocrati e funzionari insignificanti. Sarebbe stato un osso duro. Gideon estrasse un notes dalla tasca e lo consultò. «Il sette giugno alle ventiquattro e ventitré è arrivato un volo della Japan Airlines con a bordo un passeggero, un certo Mark Wu. Mentre lasciava il JFK è stato seguito e il suo taxi buttato fuori strada a Spanish Harlem. Forse ha letto dell’incidente. Sono rimaste uccise otto persone, compreso il signor Wu.» «Ho letto.» «Ci serve la copia dei nastri di sicurezza con i suoi movimenti dal luogo in cui è sbarcato a quello in cui ha preso il taxi.» «Per questo ho bisogno di vedere un pezzo di carta.» Gideon avanzò di un passo. «Abbiamo per le mani un problema di terrorismo e lei ha bisogno di vedere un pezzo di carta? Siamo ancora a questo punto, dopo l’11 settembre e due guerre?» «Signore, ci sono procedure...» Gideon si protese e gli urlò in faccia come un sergente istruttore, inondandolo di saliva. «Procedure? Pezzi di carta? Sono in gioco delle vite umane! Se ne rende conto?» Era un approccio ad altorischio/alta-ricompensa. Se non avesse funzionato, era fottuto. Funzionò. «Non c’è bisogno di urlare» ribatté Longbaugh scostandosi, adesso intimorito. «Troveremo senz’altro una soluzione.» «Allora la trovi! E subito!» L’uomo stava sudando come un matto, terrorizzato all’idea di prendere la decisione sbagliata. Gideon assunse d’un tratto un tono molto più calmo, più gentile. «Senta, capitano, capisco quanto possa essere difficile il suo lavoro, e la rispetto per questo. Metterò una buona parola per lei con gli alti vertici quando tutto sarà finito. Lo sa meglio di me, le carte richiedono tempo. E noi non lo abbiamo.» Si protese. «Ora le rivelerò una cosa. Non dovrei, ma lei mi sembra una
persona fidata. A metà Pacifico c’è un aereo con a bordo un noto terrorista. Quel figlio di puttana è stato fatto salire a Lagos ed è diretto qui con l’intenzione di compiere un attentato terroristico.» «Oh mio Dio!» «Oh mio Dio è proprio il commento azzeccato. Siamo indietro, dobbiamo recuperare il tempo perso. Mentre parliamo, stiamo piazzando agenti sotto copertura in tutto il terminal, ma io devo vedere quei nastri. Sembra ci sia un nesso fondamentale.» «Capisco.» «Potremmo procedere in modo molto, molto discreto?» lo supplicò Gideon. «Se mettessimo in allarme quell’uomo o i suoi complici...» Non terminò la frase. Ormai aveva Longbaugh dalla sua al cento per cento. «Provvedo.» Il capitano si alzò. «Mi segua.» La sala operativa centrale della Sicurezza dei trasporti si trovava nel ventre dell’aeroporto ed era molto imponente: pareti piene di schermi e consolle con tutte le attrezzature più recenti. La stanza era buia e silenziosa, decine di persone fissavano i monitor su cui scorrevano non solo le immagini delle varie zone dell’aeroporto, ma anche le riprese degli scanner dei bagagli, degli apparecchi a raggi X e delle telecamere posizionate nelle piste di rullaggio e negli hangar. La loro efficienza fu stupefacente. Venti minuti dopo Gideon uscì dalla dogana con un DVD nuovo e molto scottante.
CAPITOLO 39 «Ho preso un film per stasera» disse Gideon infilandosi sulla panca di pelle bianca nella sala dell’Essex Lounge e dispensando un sorriso a Mindy Jackson. Poi si rivolse al cameriere: «Mi porti quello che ha preso la signora, dry e con due olive». «Quale film?» domandò lei. «Il Mark Wu show.» Posò il DVD. «Lo spettacolo dello scienziato cinese, secondo per secondo, da quando scende dall’aereo fino al parcheggio dei taxi.» Lei scoppiò a ridere. «Che c’è di così divertente?» «Ho già visto lo show. Fa schifo: non c’è niente. Nada.» Gideon si sentì arrossire. «L’hai già visto?» «Stai scherzando? È stata la prima cosa che abbiamo fatto. Come te lo sei procurato?» Arrivò il drink e lui buttò giù una bella sorsata per mascherare la delusione. «Ho usato i timbri in rilievo che mi hai messo sul passaporto. E urlato un po’.» «Prima o poi qualcuno non si berrà le tue stronzate. Sta’ attento.» «Finora è andata bene.» Mindy scosse la testa. «Non tutti al mondo sono più stupidi di te.» «Be’, io non l’ho visto» riprese. «Lo guardi con me... di sopra nella nostra stanza?» «Nella nostra stanza?» Il suo sorriso divenne un po’ freddo. «Quello che è successo a Dubai resta a Dubai. Lo guarderemo nella mia stanza. Tu trovati un posto dove dormire. Basta unire le risorse, per usare la tua deliziosa espressione.» Gideon finse di non esserci rimasto male. Lei finì il drink e si alzò. «Resterai deluso.» «Lo sono già.» Di sopra, in camera di Mindy, Gideon accese il lettore e inserì il DVD. La prima ripresa mostrava un’immagine grandangolare del gate con in sovrimpressione la scritta dell’ora, della data e del luogo. Dopo un istante comparve Wu, piuttosto simile a come se lo ricordava: la frangia, la fronte bombata, schivo, molto pallido. Attraversò l’inquadratura facendosi strada tra i passeggeri in attesa del volo seguente. Poi una sequenza di inquadrature rapide: si vedeva lo scienziato percorrere il terminal, arrivare al controllo passaporti, aspettare nella coda interminabile NON US CITIZENS, superare il controllo passaporti, passare rapido la dogana, uscire e prendere la scala mobile. «Ehi. Eccoti!» esclamò la Jackson. «Sembri un cervo abbagliato dai fari.» «Molto divertente.» Il DVD terminava all’esterno con la Escape che si
allontanava. Gideon si sfregò gli occhi. Si sentiva un maledetto idiota, in aeroporto aveva corso un rischio enorme, con possibili ripercussioni future, per niente. «Sono stanca» dichiarò la Jackson. «Sento il jet-lag. Grazie a te la notte scorsa non ho chiuso occhio. Ti spiace lasciarmi sola?» Lui stava fissando l’immagine dell’auto, ferma sullo schermo. «Prima fammi rivedere una cosa...» «Fuori.» «No, sul serio. È proprio all’inizio.» «Cos’è?» «Quando Wu passa in mezzo alle persone in attesa, non hai notato la donna asiatica con un bambino?» «C’erano molti asiatici.» «Sì ma... voglio rivederla.» Lei sospirò e si voltò verso lo schermo. Guardarono di nuovo il video. «Ecco!» esclamò all’improvviso Gideon facendola sussultare. «Non ho notato niente.» «Sta’ attenta.» Tornò indietro e lo riprodusse al rallentatore. «Non ho visto niente. Fidati, i nostri esperti hanno esaminato il nastro nel dettaglio.» «Zitta e guarda là!» Bloccò l’immagine. «Un classico gioco di destrezza. Una manipolazione inversa con il palmo rivolto all’esterno.» «Una che?» Lui si sentì arrossire. «Ho studiato magia.» Non entrò nel merito spiegando perché lo avesse fatto. «Impari a maneggiare pezzi di carta piuttosto piccoli. I maghi chiamano queste mosse “manipolazioni”. Di solito servono per i trucchi con le carte.» Mandò indietro il DVD e lo fece ripartire, fotogramma per fotogramma. «Osserva. Il bambino lascia cadere l’orso di peluche mentre Wu si avvicina, lei si china a recuperarlo da terra, chiunque guardi segue la mano che raccoglie l’orso. Ma osserva la mano sinistra della donna... ha il palmo rivolto all’esterno, il polso dritto. Wu la supera e subito dopo la sua mano sinistra è chiusa e il polso è leggermente piegato.» Avanzava fotogramma per fotogramma. «Credo di aver capito» affermò Mindy dubbiosa. «Le ha passato qualcosa.» «No, no! È il contrario: lei gli ha passato qualcosa. E lo ha fatto in modo da non essere vista da nessuno.» «Ma perché?» «Non ne ho idea.» Bloccò il video, prese un foglio di carta da lettera dell’albergo e le dimostrò la mossa. «Maledizione! Se gli ha passato un pezzo di carta, dov’è?»
«Chi lo sa? Suppongo lo abbia distrutto quando si è reso conto d’essere seguito.» «Quella donna» osservò l’agente della CIA, «è la chiave. Dobbiamo trovarla.» Gideon annuì. Mindy si voltò verso di lui. «Ci dividiamo il compito. Tu cerchi il ragazzo, io la donna.» «Come diamine faccio a trovare il ragazzo...?» s’interruppe notando qualcos’altro nel video: un particolare evidentemente trascurato fino a quel momento. Lei si era già messa la giacca e aveva preso la borsa. «Chiamami se trovi qualcosa. Io farò lo stesso.»
CAPITOLO 40 La faccia con un’ombra di barba scivolò dalla mano alla quale si era appoggiata e Tom O’Brien si svegliò di scatto. Lanciò uno sguardo annebbiato all’orologio: erano da poco passate le dieci. Si era addormentato di nuovo alla scrivania parecchie ore prima e adesso le gambe gli formicolavano. Si era lasciato prendere dall’estensione Python per la manipolazione dati a tal punto da fare tutta una tirata dalla notte precedente senza andare a letto. Si alzò con un gemito e si massaggiò le gambe. Cibo. Quello lo avrebbe svegliato. Dopo aver infilato un CD dei Sacramentum nel lettore e averlo avviato, entrò in cucina. Scostando mucchi di piatti sporchi per crearsi uno spazio di lavoro, estrasse una baguette dall’involucro di carta e la tagliò. Si preparò in fretta un panino: burro di arachidi, banana a fette, mini marshmallow. Come tocco finale aggiunse alcune fettine di sottaceti. Premette le due metà insieme, si cacciò il panino sotto un braccio, pescò una bottiglia da un litro di Dr Pepper dal frigo e tornò in ufficio. Vedendo un uomo in soggiorno strillò per lo sgomento e la sorpresa. Bottiglia e panino caddero per terra in perfetta sincronia tra una pioggia di marshmallow e sottaceti. Poi riconobbe Gideon Crew. «Smettila!» gridò all’amico. «Se muoio d’infarto, chi risolverà il tuo piccolo problema?» Si inginocchiò e cominciò a rimettere insieme il panino ripulendo i sottaceti dai peli di gatto. «Mangi ancora quella porcheria?» chiese schifato Gideon. «Suppongo non ti interessi vivere abbastanza da goderti la previdenza sociale.» «Non preoccuparti per me. Non sono io quello inseguito da frotte di spie di Langley.» Tom si accigliò. «Non ho avuto tempo di andare avanti con quei numeri.» «No? E perché?» «A differenza di qualcuno, devo lavorare per vivere.» «Sì. Assistente lettore alla Columbia. Quando smetterai di fare l’eterno specializzando e ti guadagnerai sul serio quella laurea?» «E affronterò il mondo reale?» O’Brien addentò il panino ed entrò nell’ufficio con Gideon alle calcagna. «Senti, non è soltanto il lavoro. È la natura stessa del problema. Te l’ho detto, è come avere una ricetta senza gli ingredienti. Tre cucchiai da tavola di x, cinquanta grammi di y e un pizzico di z. Senza gli ingredienti non posso fare un accidente!» «C’è un’altra cosa per la quale mi serve il tuo aiuto.» «Ne avrò altri mille?» Crew lo ignorò, infilò la mano nella giacca ed estrasse
un DVD. «Qui dentro c’è un video. Puoi ingrandire e migliorare un’immagine?» L’altro lo prese e si rallegrò. «Oh, questo è facile.» Gideon indicò il lettore di musica con aria afflitta. «Prima di iniziare, ti spiace spegnerlo? Se c’è una musica cancerogena, è quella.» L’amico lo guardò fingendosi inorridito. «Non ti piace il black death metal?» «Nemmeno quand’è in offerta speciale.» Gideon si guardò attorno in cerca di un posto dove sedersi, ma c’era solo una sedia nell’ufficio minuscolo, ingombro fino all’impossibile, e O’Brien vi si era già piazzato. «Non ho mai visto tanto ciarpame in uno spazio così ristretto. Quando butterai via un po’ di questa merda?» «Ciarpame? Merda?» Il padrone di casa tirò su col naso mentre abbassava il volume del lettore. «Qui dentro tutto è assolutamente necessario per il mio lavoro. Per esempio...» Girò la sedia con le ruote, prese un apparecchio metallico grigio grande quanto una scatola da scarpe da un antiquato computer Unix, su cui stava precariamente appollaiato, lo posò sulla scrivania, inserì il cavo e lo collegò al PC. «Cos’è quello?» domandò Gideon. «È un VDT. Un Virtual Digital Telecine. Di solito lo si usa per convertire materiale video da un formato a un altro. Ma questo modello specifico è molto utile per il lavoro forense.» Lo accese, premette alcuni tasti sul minuscolo schermo a LED, poi infilò il DVD nella fessura. Mentre la macchina ronzava, addentò un gigantesco boccone e cliccò due volte su un’icona del desktop. «Sto attivando l’applicazione host del VDT.» Sullo schermo apparve un’ampia finestra, circondata da altre più piccole con i comandi per la conversione fine-grained, la correzione gamma e utility per la manipolazione dell’immagine. «Cosa devo ingrandire?» «Riproducilo. Ti fermo io quando arrivi all’immagine in questione.» O’Brien cliccò il tasto forward nella finestra dei comandi di conversione e sullo schermo apparve un’immagine. «Un aeroporto» disse. «Cazzo. È un nastro della sicurezza.» «E allora?» «Sono di pessima qualità, e anche molto compressi.» Per un minuto guardarono in silenzio un uomo asiatico dall’aria preoccupata attraversare lo schermo e farsi strada nella calca di passeggeri. «È stato riversato a una frequenza elevata di fotogrammi» brontolò fissando il monitor. «Un pelo sotto i 30 FPS...» «Ecco.» Gideon indicò il monitor. «Torna indietro solo un po’, poi va’ avanti, fotogramma per fotogramma.» O’Brien ripartì dal momento in cui l’uomo incontrava il gruppo di passeggeri. «Più lento, per piacere.» Tom bevve una lunga sorsata di Dr Pepper e armeggiò con i comandi di conversione. «Un fotogramma al secondo.»
Guardarono insieme mentre un bambino nella folla lasciava cadere un orso di peluche, una donna accanto a lui lo raccoglieva e glielo porgeva. «Ferma! Il bambino ha una cartella. La vedi?» «Sì» disse O’Brien scrutando lo schermo tremolante. «Trova il fotogramma più nitido di quella cartella e miglioralo. Ha un logo sfocato di qualche tipo. Voglio sapere cos’è.» «Certo.» Tom andò avanti e indietro esaminando i fotogrammi finché trovò la ripresa più nitida. «È sfocata da matti» bofonchiò. «Chiunque te lo abbia demultiplato, ha fatto un lavoro da schifo.» «Avevano fretta.» «Dovrò deinterlacciare l’immagine altrimenti il combing ci ucciderà.» Le dita di O’Brien volarono sulla tastiera. L’immagine nella finestra principale sbiadì e si ingrandì. «Cosa sono quelle barre sull’immagine?» domandò Gideon. «È il 2:3 pulldown. Sto cercando di compensare.» Digitò fulmineo una serie di comandi. L’immagine si rischiarò e si stabilizzò. «Va meglio. Ora applico l’unsharp masking.» Attivò alcuni sotto-menù con il mouse. «È uno scudo con un motto» osservò Gideon. Tom maneggiò l’apparecchio migliorando ulteriormente l’immagine. «Pectus est enim quod disertos facit» lesse Gideon sullo schermo. «Cosa diavolo è? Latino?» «È infatti il cuore che rende eloquenti» tradusse lui. «Che cavolata» commentò O’Brien scuotendo afflitto la testa di fronte alla suprema idiozia della massima. «Chi diavolo l’ha detto?» «È tratto dall’Institutio oratoria di Quintiliano. Ma è abbastanza pomposo e insignificante da essere il motto di una scuola privata.» Si alzò. «Grazie, amico.» «Ehi! E gli altri mille?» «Goditi il panino. Mi farò vivo.» Poco prima di uscire si bloccò. «Ah, non hai avuto ancora notizie dal medico?» «Oh, sì. L’ho sentito. Volevo parlartene.» «E...?» «Spero che il tizio di quelle radiografie non sia davvero amico tuo.» Gideon lo guardò. «Perché?» «Per il dottore è fottuto.»
CAPITOLO 41 Gideon salì sullo sgabello di vinile del ristorante aperto tutta la notte e prese caffè, uova in camicia, frittelle di patate, pane tostato e marmellata d’arancia. La cameriera prosperosa, strizzata in una divisa stile anni Cinquanta, annotò l’ordinazione e la urlò in cucina. «Dovrebbe fare la cantante lirica» osservò Gideon inquieto. La donna si girò verso di lui con un sorriso radioso. «Infatti lo sono.» Succede solo a New York, pensò, poi sorseggiò stordito il caffè. «Spero che il tizio di quelle radiografie non sia davvero amico tuo.» Forse il dottore di O’Brien si sbagliava. Non sarebbe stata la prima volta. Purtroppo quello era il terzo parere. Sarebbe stato più felice se non lo avesse saputo? Se si fosse goduto l’ultimo anno di vita nella beata ignoranza? No... quello aveva cambiato tutto. Provò uno strano senso di dissociazione, come se fosse già fuori dal suo corpo, lontano dalla realtà. All’improvviso le sue priorità erano mutate. Non aveva più senso incontrare una donna, crearsi una famiglia. Fare carriera. Non fumare o preoccuparsi del colesterolo. In realtà, niente aveva più senso. Bevve un altro sorso di caffè cercando di scrollarsi di dosso un’insolita sensazione di sfinimento e incredulità. Una cosa alla volta, si disse. Ci sarebbero state tante occasioni per pensarci, dopo. In quel momento aveva un lavoro da portare a termine. Si costrinse a pensare alla Throckmorton Academy. Aveva visto giusto, sul motto della scuola privata. Dopo averne esaminato con attenzione il sito web, aveva racimolato indirettamente alcune informazioni importanti. Era una scuola molto esclusiva, dotata di un ottimo e complicato sistema di protezione dei dati sensibili riguardanti studenti e dipendenti. Ma ogni persona e ogni organizzazione avevano un punto debole, e quello della Throckmorton Academy era evidente: la smisurata considerazione di sé. Pectus est enim quod disertos facit. Sicuro. Il problema era escogitare un piano di ingegneria sociale per sfruttarlo. Quelli non erano idioti. Non poteva irrompere là dentro spacciandosi per un presuntuoso miliardario di successo che gestiva fondi speculativi e voleva iscrivere il figlio. Senza dubbio avevano già avuto occasione di conoscere personaggi del genere. Sarebbero risultati immuni al trucco. Non poteva atteggiarsi a celebrità, vera o finta. Google aveva posto fine a quei giochetti. Ci voleva qualcosa di completamente diverso, per fare leva in modo più sottile sulle loro aspettative, sui loro principi e forse sui loro pregiudizi. Mentre rimuginava, nella sua testa cominciò a prendere forma un’idea. Purtroppo, per riuscirci ci volevano due persone.
Mindy Jackson non andava bene, e poi era impegnata a seguire le sue piste, inoltre non era il tipo giusto. No, doveva essere Orchid. Lei sarebbe stata perfetta. Soffocò il senso di colpa all’idea di usarla di nuovo, ma in fondo il fine giustifica i mezzi. Dopotutto, non gli aveva detto di volerlo rivedere? Un uomo si accomodò sullo sgabello accanto al suo e posò un «Post» piegato sul banco. Gideon si irritò: per quale motivo, in un ristorante vuoto alle tre del mattino, un coglione doveva sedersi proprio accanto a lui? La cameriera arrivò con il suo piatto, lo servì e si rivolse all’altro cliente, il quale ordinò caffè e una pasta danese. Gli versò il caffè, gli portò la pasta e si ritirò in cucina. «Come va?» mormorò l’uomo aprendo il giornale. Gideon lanciò infastidito un’occhiata di sbieco e decise di ignorarlo. «Sarà quasi senza soldi» mormorò ancora lo sconosciuto leggendo con attenzione la prima pagina. Gideon sentì qualcosa toccargli la gamba e abbassò lo sguardo: gli stava porgendo un grosso rotolo di denaro sotto il banco. Non ebbe il tempo di reagire, glielo infilò nella tasca della giacca sempre continuando a leggere il giornale. Crew alzò la testa e lo guardò meglio in faccia. Garza. Il braccio destro di Eli Glinn alla Effective Engineering Solutions. Provò un misto di shock e fastidio. Complimenti. Bella capacità di tenersi al di sotto del radar! «Era ora!» rispose aggressivo, reso irascibile dall’imbarazzo di essere stato colto alla sprovvista. «Mi chiedevo quando Glinn avrebbe mandato un fattorino.» Garza si accigliò e perse un po’ della sua imperturbabilità. «È questo il modo di ringraziare?» «Ringraziare? Ovviamente voi alla EES sapete molto di più sulla situazione rispetto a quanto mi avete riferito. Mi avete mandato allo sbaraglio.» Garza bevve un sorso di caffè, scostò la pasta danese, si alzò e posò alcuni dollari sul banco. «Sta procedendo bene... almeno finora. Se fossi in lei, anziché lamentarmi, mi preoccuperei da morire. Se possiamo localizzarla e trovarla noi, può farlo anche Gru che Annuisce.» Poi si dileguò nella notte lasciando il giornale aperto sul banco con il titolo in mostra. OMICIDIO SULLA MOTT Residente di Chinatown trovato con la gola squarciata. Sotto c’era una foto di Roger Marion.
CAPITOLO 42 Il tizio conosciuto come Gru che Annuisce avanzò a fatica sul marciapiede davanti il ristorante. Crew era ancora là dentro, parlava con la cameriera grassa. Era arrivato un uomo, gli aveva passato dei soldi e se n’era andato. Non era lui il suo obiettivo. Gli interessava Crew. Fermatosi accanto al piccolo portico di una casa di arenaria abbandonata, vi si issò sopra, posò la lattina di birra avvolta in un sacchetto di carta e chinò la testa. I bidoni dell’immondizia, disposti in fila per la raccolta del mattino, gettavano una lunga ombra, nascondendogli ulteriormente la faccia. Un gruppo di giovani rumorosi attraversò la strada all’angolo di Avenue C e proseguì nella notte ridendo e gridando. Tutto tornò silenzioso. Con la mano destra nella tasca del vecchio impermeabile, piegò le dita e i plettri affilati come rasoi sbatterono leggermente gli uni contro gli altri. Era stato addestrato a usare molte armi particolari, sai doppi, nunchaku, canne, bastoni da passeggio, dischi con punte, tridenti, lance con lame a mezzaluna, ma i plettri erano stati la sua innovazione. Si trattava di veri Dunlop modificati, affilati e lucidati. Da ragazzo, nel tempio di addestramento in Cina, era stato immerso nella cultura americana: film, libri, videogame, musica. Soprattutto musica, poiché era l’anima di un popolo. Di sua volontà aveva studiato la chitarra bottleneck e imparato le melodie di Big Bill Broonzy, Blind Willie Johnson e Skip James. Hard Time Killing Floor Blues. Quella era la vera musica americana. If I ever get off this killin’ floor I’ll never get down this low no more. Mentre canticchiava a voce bassa, le dita, nascoste nella voluminosa tasca dell’impermeabile, scandivano le note e i plettri affilati producevano un ticchettio simile a quello dei ferri da maglia. Con la coda dell’occhio notò un movimento nel ristorante e, sempre canticchiando, spostò l’attenzione su di esso. Crew uscì dal locale, attraversò la strada con la sua caratteristica andatura a lunghi passi e girò seguendo il marciapiede in direzione di Gru che Annuisce, verso Avenue C. Con la testa china e la tesa bassa del vecchio cappellino a nascondergli la faccia, il cinese si mise in attesa. Crew gli passò accanto e lui lo lasciò andare sorridendo tra sé all’idea di quanto sarebbe stato facile. Ma c’erano ragioni per non ucciderlo ora, ottime ragioni. Quando raggiunse Avenue C, Gideon allungò la mano per chiamare un taxi e uno si fermò quasi subito. Gru che Annuisce prese nota del numero della vettura e riprese a canticchiare. Mezz’ora dopo si alzò, si stirò e percorse la strada con passo strascicato. Prese il cellulare e chiamò il numero di emergenza della Taxi and Limousine
Commission. Spiegò di aver lasciato un palmare nel taxi preso verso le tre e trenta del mattino tra la Avenue C e la 13th Street, fino al Grand Central Terminal. Attese mentre contattavano l’autista. Questi non aveva visto il palmare; ci fu però un equivoco sulle corse, infatti secondo i tabulati il taxi non si era fermato al Grand Central ma tra la Park Avenue e la 50th, davanti il Waldorf Astoria Hotel. Gru che Annuisce ringraziò, si scusò per il problema e chiuse il telefono. Gettando l’impermeabile informe in un bidone dei rifiuti, raggiunse Avenue C e prese a sua volta un taxi. «Al Waldorf» disse deciso mentre si accomodava.
CAPITOLO 43 Crew gettò il grosso rotolo di denaro sul letto della suite. Poi prese il cellulare e chiamò Orchid. «Cosa cazzo vuoi?» Dopo molti commenti sprezzanti, rimproveri e scuse, lei accettò di assecondare il complicato piano di Gideon. Riagganciò, andò alla finestra che dava sulla Park Avenue e scrutò l’ampio viale davanti all’hotel. Non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere pedinato, ma probabilmente era perché Garza lo stava rendendo paranoico. Aveva dato al tassista istruzioni specifiche, quindi nessuno sarebbe stato in grado di seguirlo. Per quale motivo allora si sentiva come una formica sotto una lente d’ingrandimento? Si fece portare la valigia dal deposito bagagli del Waldorf, dove l’aveva lasciata prima di partire per Hong Kong. Estratto il kit, passò in rassegna le varie opzioni e scelse un personaggio in stile Morte di un commesso viaggiatore, un borghese di provincia chiuso nella sua muta disperazione. Mise insieme il necessario e si travestì. Quando si esaminò nello specchio a figura intera, fu soddisfatto del risultato. Guardò l’orologio. Erano da poco passate le quattro. Così camuffato, lasciò l’albergo dall’uscita posteriore e si diresse a est lungo la 51st Street, dove avvistò Orchid che, come da accordi, gironzolava davanti al minuscolo Greenacre Park. «Mi scusi, signorina?» disse fermandosi accanto alla ragazza. Lei lo aggredì e con una voce tagliente quanto un rasoio disse: «Togliti dai piedi. Aspetto qualcuno». «Sì, ma vede...» «Sparisci! Sennò ti tiro un calcio nelle palle così forte da renderti sterile» ringhiò. L’uomo scoppiò a ridere, lieto della riuscita del trucco. «Sono io. Gideon. Bel travestimento, eh?» Orchid restò senza fiato e gli si avvicinò di più. «Dio, è peggio del precedente.» Buttò la sigaretta e la pestò, arrabbiata, fino a polverizzarla sul marciapiede. «Hai una bella faccia tosta. Chiamarmi dopo il modo in cui ti sei comportato.» «Sono al Waldorf» disse afferrandola sottobraccio e tirandola. «Ascolta.» Le cacciò in mano un fascio di banconote. «Prendi un’altra stanza per il signore e la signora Tell. Sali su, va’ a letto, spegni le luci ma lascia la porta aperta. Ti raggiungerò fra trenta minuti.» «Senti, tu...» Lui tuttavia, senza aggiungere altro, si allontanò sulla 51st Street, entrò nel Metropolitan Hotel, si tolse il travestimento in un corridoio deserto, uscì, poi ricomparve al Waldorf nelle vesti di Gideon Crew. Andò in
camera, si rimise gli abiti da borghese di provincia, poi al banco della reception si presentò come un certo signor Tell che doveva incontrare la moglie, percorse i corridoi senza imbattersi in nessuno fino alla stanza riservata da Orchid, aprì piano la porta, la chiuse e la bloccò. La ragazza era seduta sul letto con il lenzuolo che le copriva in parte il corpo nudo. «Non ho intenzione di sorbirmi altre balle, questo è poco ma sicuro.» Lui la raggiunse e le prese il viso tra le mani. «Sono stato un coglione, è vero, ma sopportami ancora per un po’. Domani ci travestiremo da Signor e Signora Buon Borghese e cercheremo di iscrivere il nostro brillante rampollo alla Throckmorton Academy. Sarà divertente, credimi. E ci sono parecchi soldi che ti aspettano.» Orchid lo fissò. «Non mi piace il modo in cui mi tratti. E il metodo Stanislavskij... Tutte stronzate! Voglio sapere cosa sta succedendo veramente.» «D’accordo. Prima però dormiamo un po’ perché domani sarà una giornata bella tosta.» Lei gli lanciò un’occhiataccia. «Dormire?» Lo cinse con le braccia e lo spinse sul letto. «Togliti quella roba dal viso e ti faccio vedere io come dormiremo.»
CAPITOLO 44 Gru che Annuisce, seduto sul sagrato della chiesa di Saint Bartholomew, strimpellava la sua Beard Road-O-Phonic con davanti la custodia aperta per raccogliere qualche spicciolo. Erano le nove del mattino. Il marciapiede era perlopiù trafficato di bancari e broker che andavano al lavoro e lo superavano di corsa senza voltarsi. Feeling funny in my eyes, Lord, pizzicava le corde, cantava con una voce bassa e aspra, grazie agli anni trascorsi ad ascoltare Bukka White e a esercitarsi. Aveva finalmente ritrovato la calma dopo la mezza crisi di panico del mattino, quando Crew gli era quasi sfuggito. Aveva fatto un giochetto di qualche tipo con le camere e poi all’improvviso era comparsa la donna. Lo aveva quasi ingannato. Quasi. Infatti aveva riconosciuto la sua caratteristica andatura a passi lunghi. I believe I’m fixing to die. Gideon se n’era andato con la ragazza e lui aveva deciso di non seguirli. Di sicuro sarebbero tornati. Gru che Annuisce aveva imparato ormai da tempo una lezione fondamentale: era pericoloso e spesso controproducente pedinare in modo ossessivo la preda. E superfluo. Tutti vivevano secondo determinati schemi ripetitivi. Era meglio scoprire e prevedere queste abitudini anziché seguire ogni inutile passo. Il momento di farlo scattava quando la routine veniva infranta e la preda imboccava un nuovo cammino. Feeling funny in my eyes, Lord, i manager passavano frettolosi pensando solo agli affari. Si sentiva offeso perché nessuno lanciava qualche moneta nella custodia: i padroni del mondo lo superavano senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Poi all’improvviso qualcuno gli gettò un pezzo da venti. I believe I’m fixing to die. Così andava meglio. L’America, che Paese meraviglioso! Peccato fosse destinato alla rovina.
CAPITOLO 45 Gideon Crew scese dall’auto e guardò l’ufficio ammissioni della Throckmorton Academy. Davanti a loro incombeva un palazzo di granito grigio del Diciannovesimo secolo in stile neo-romanico, tra arbusti perfettamente curati, aiuole fiorite e prati tosati. Una targa di ottone fissata al muro recava la scritta SWITHIN COTTAGE, in linea con l’abitudine autodenigratoria di tanti uomini benestanti di chiamare le ville enormi e costose «cottage». Quel posto trasudava soldi, privilegi e compiaciuta superiorità, nel vero senso della parola. «È davvero stupido» commentò Orchid in piedi nel parcheggio mentre si sistemava la giacca del completo pantalone arancione tutto appiccicaticcio. «Non capisco. Sembriamo due idioti. Ci butteranno fuori a calci in culo.» «Forse» replicò Gideon afferrando una spessa cartella di documenti raccolti dopo ore di lavoro accurato. Si lisciò i pantaloni e la giacca a quadri, si aggiustò la cravatta di poliestere e si diresse alla porta d’ingresso. «Ma perché ci siamo vestiti così?» gli sussurrò furiosa Orchid. «Siamo del tutto fuori luogo.» Lui la prese rassicurante per un braccio. «Stai al gioco, e ti risulterà tutto chiaro, promesso.» Entrarono in una sala d’attesa bene arredata e la receptionist li osservò, poi chiese in tono deliberatamente neutro: «Desiderate?». «Salve» esordì caloroso lui avvicinandosi e stringendo la mano della donna sorpresa. «Il signore e la signora Crew. Siamo qui per l’iscrizione di nostro figlio Tyler.» «Avete un appuntamento?» «Sì.» «Con chi?» Gideon frugò tra le carte. «Con il signor Van Rensselaer.» Era uno di quei vecchi nomi newyorkesi e lo pronunciò in modo terribile. La donna si alzò e scomparve in uno studio interno privato. Un attimo dopo riemerse. «Il signor Van Rensselaer vi riceverà subito» li informò sottolineando la dizione corretta. Il funzionario addetto alle ammissioni era proprio come Gideon se lo aspettava: alto, rilassato, affabile, vestito con sobrietà. Era un uomo che, se non proprio aperto di mente, si giudicava tollerante e moderato; lo si capiva dai capelli leggermente lunghi e gli occhiali alla moda. Perfetto. Van Rensselaer li salutò cordiale e dal suo sguardo trapelò solo un fugace senso d’allarme mentre mascherava con professionalità la reazione alla vista dei loro abiti e dei loro modi. «Grazie mille per averci ricevuto» disse Gideon dopo le presentazioni. «Vorremmo iscrivere nostro figlio, Tyler, in seconda. È un ragazzo molto
speciale.» «Sì, certo. Naturalmente qui alla Throckmorton Academy seguiamo una procedura standard. Colloqui con i genitori e il bambino, referenze di docenti e una serie di test attitudinali. Purtroppo, abbiamo un surplus di richieste. Pertanto sono spiacente, ma, come credo di averle già spiegato al telefono, al momento non ci sono disponibilità per la seconda classe.» «Però Tyler è speciale.» Van Rensselaer non si era seduto. «Sarebbe ingiusto rubarvi altro tempo prezioso, ma ci terremmo a mostrarvi il campus. Naturalmente se in futuro ci saranno disponibilità, sarà nostra premura informarvi. Ora saremmo lieti di organizzare il vostro giro guidato.» «Grazie. Pensavo solo di lasciarle questa cartella con il lavoro di Tyler.» Gideon la agitò in direzione del funzionario, il quale la osservò con vago disgusto. «Al momento non è necessario.» «Dia almeno un’occhiata alla sinfonia.» «La... mi scusi?» «La sinfonia. Tyler ne ha composta una.» Ci fu un lungo silenzio. «Quanti anni ha Tyler?» «Sette.» «Ed è stato aiutato a comporre questa... sinfonia?» «Cielo, no!» intervenne all’improvviso Orchid, e la sua voce aspra, resa roca dalle sigarette, echeggiò nell’ufficio silenzioso. «Cosa ne sappiamo noi di musica classica!» Seguì una risata. Soffocando un sorriso, Gideon estrasse lo spartito. Dopo un istante Van Rensselaer lo prese. «Ha usato GarageBand» precisò. «È fantastico, ci sono un sacco di trombe. C’è anche allegato il CD. Dovrebbe ascoltarlo.» L’uomo iniziò a sfogliare la stampata. «Qualcuno lo avrà di certo aiutato.» «No, davvero. Non sapevamo nemmeno lo stesse facendo.» «Mmm, nessuno di voi due è portato per la musica?» «Mi piace Lady Gaga» rispose Orchid con un risolino nervoso. «Come ha fatto Tyler a coltivare queste doti?» «Non ne ho idea. È stato adottato, sa, in Corea.» «Corea» ripeté Van Rensselaer. «Certo. Alcuni nostri amici avevano fatto richiesta di adozione di bambini asiatici, e abbiamo pensato che sarebbe stato fantastico... insomma, noi non possiamo avere figli. Ma non c’è solo la sinfonia. Ecco alcuni disegni. Può tenerli: sono copie.» Lui estrasse i disegni. Era sorprendente cosa si trovasse sul web. Prima di copiarli, in fondo a ognuno Gideon aveva aggiunto una piccola firma: Tyler Crew.
Van Rensselaer li prese e li guardò. «Quello è il nostro cane. Tyler lo adora. E quella è una vecchia chiesa che ha trovato in un libro.» «Chartres» mormorò il funzionario. «Cosa?» Era stata un’ardua impresa scovare i disegni giusti tra i numerosi disponibili online; dovevano essere infantili e al tempo stesso artisticamente geniali. «Sono sorprendenti» commentò a bassa voce Van Rensselaer passandoli in rassegna. «Tyler è speciale» ribadì Orchid. «È già più intelligente di me.» Si mise una Chiclet in bocca e cominciò a masticare. «Una gomma?» L’uomo non rispose. Era assorto a contemplare i disegni. «Tyler» proseguì Gideon, «è anche un bambino come gli altri. Non è uno di quei ragazzini presuntuosi. Gli piace guardare I Griffin con noi... si diverte così tanto! Il suo episodio preferito è quello in cui Peter si ubriaca e si cala i pantaloni nel giardino di casa proprio quando passa la polizia.» Orchid scoppiò a ridere. «Quello è il migliore.» «I Griffin?» Sul volto di Van Rensselaer comparve un’espressione inorridita. «A ogni modo, nella cartella ci sono un po’ di sonetti di Tyler, altri disegni e composizioni musicali.» «Tutti suoi?» «L’ho aiutato con le vignette» dichiarò fiero Gideon. «Ma, be’, non sappiamo molto di musica, letteratura o disegno. Vede, sono proprietario di un bar con vari schermi TV per seguire gli eventi sportivi. A Yonkers.» Il funzionario della Throckmorton guardò prima lui, poi Orchid. «È anche bravo in matematica, non so dove diavolo abbia imparato quella roba. Così come quando a due anni e mezzo ha iniziato a leggere da solo. Là dentro ho messo anche alcune lettere dei suoi insegnanti.» Frugò nella cartellina e tirò fuori un paio di lettere che aveva preparato con cura e stampato su finta carta intestata di alcune scuole. «Ce n’è una del tutor di matematica, è molto più avanti rispetto alla sua classe, e un’altra del direttore.» Descrivevano in modo eloquente il genio straordinario di Tyler e facevano velate allusioni all’ambiente domestico. «Ah, e qui ci sono i risultati del test del QI.» Van Rensselaer li studiò. Il suo volto divenne immobile, quasi inespressivo, e il foglio tremò leggermente. «Credo...» iniziò a dire, «viste le circostanze... forse potremmo trovare un posto per Tyler, qui alla Throckmorton. Certo, dovremo sempre incontrarlo e sottoporlo alle procedure d’ammissione.» «Splendido!» gridò Orchid applaudendo. Si stava davvero appassionando. «Prego, sedetevi» li invitò l’uomo. «Solo un attimo» replicò Gideon mentre si accomodava.
«Ci sono alcune cose di cui vorrei accertarmi. Prima di tutto, ci saranno altri scolari asiatici, nella sua classe? Non vorrei si sentisse diverso.» «Certo» rispose sollecito il funzionario, ormai calatosi nella parte del commerciale. «Più o meno quanti in tutta la scuola elementare? Vorrei conoscere il numero esatto.» «Un attimo solo. Adesso controllo l’elenco delle classi.» Van Rensselaer chiamò la receptionist e richiese i dati, che lei portò un istante dopo. L’uomo lo scorse e allungò il foglio sulla scrivania. «Ha verificato quelli di origine asiatica.» Gideon lesse. «Mi spiace ma non posso lasciarvelo. Teniamo molto alla privacy delle famiglie dei nostri alunni.» «Oh, ha ragione.» Lo esaminò. Quindici studenti. Tutto lì. Imparò i nomi a memoria. «Ho anche sentito» riprese severo posando il foglio, «che nel campus c’è stata una grave epidemia d’influenza.» «Influenza? Non mi risulta.» «Così mi hanno riferito. Per la precisione mi hanno detto che il sette giugno, poco prima delle vacanze, quasi tutti i bambini delle elementari si sono assentati perché malati.» «Non mi pare possibile.» Van Rensselaer richiamò la receptionist. «Mi porti i registri delle presenze della scuola elementare il sette giugno.» «Subito.» «Si potrebbe avere un caffè?» domandò Gideon fissando la caffettiera nell’angolo. «Cosa? Oh, la prego di scusarmi! Avrei dovuto offrirvelo prima. Mi perdoni!» «Non c’è problema, io lo voglio con doppia panna e tre cucchiaini di zucchero.» «Per me doppia panna e quattro cucchiaini di zucchero» gli fece eco Orchid. Van Rensselaer si alzò e, mentre armeggiava, la receptionist rientrò. Posò il documento sulla scrivania proprio mentre il funzionario tornava con le tazzine. Gideon si allungò per prenderle, ma rovesciò il caffè su tutta la scrivania. «Oh, mi spiace tanto!» esclamò. «Sono proprio un pasticcione!» Prese un fazzoletto dalla tasca, cominciò ad asciugare il liquido, a tamponare le carte e a mettere in disordine. Si misero tutti a pulire; la receptionist recuperò alcune salviette di carta. «Sono desolato» mormorò Gideon. «Davvero.» «Non si preoccupi» ribatté teso Van Rensselaer osservando l’ammasso di carte umide, macchiate. «Può capitare.» Ma si rianimò subito. «Gradiremmo incontrare Tyler il prima possibile. Possiamo prendere un appuntamento per il colloquio?» «La chiamerò io» rispose Gideon.
«Tenga il dossier. Dobbiamo scappare.» Pochi minuti dopo Gideon e Orchid erano in macchina e superarono il cancello di ferro battuto. Lei non ne poteva quasi più dal ridere. «Per la miseria, sei divertente, lo sai? Hai visto l’espressione sulla faccia di quel tizio? Pensava fossimo persone spregevoli. Spregevoli. So tutto di quei tipi: vogliono sempre un pompino “perché alle loro mogli non piace prendere...”» «Certo, certo» la interruppe Gideon sperando di cambiare discorso. «Voleva salvare il povero Tyler da noi, era prevedibile.» «Allora qual è lo scopo? Perché questa messinscena? E non propinarmi altre balle sul metodo Stanislavskij.» Gli elenchi delle classi e il registro delle presenze del sette giugno erano ora al sicuro, nella tasca della giacca di Gideon, e gli avrebbero rivelato con precisione quale studente asiatico si era assentato il giorno successivo all’arrivo di Wu al JFK. Perché, presumeva Gideon, un bambino che si trovasse nella zona attese dell’aeroporto internazionale di New York dopo mezzanotte difficilmente sarebbe andato a scuola la mattina dopo. «Il metodo Stanislavskij» ripeté Gideon Crew. «Ti do la mia parola d’onore, riguarda tutto il metodo Stanislavskij. E tu sei una star.»
CAPITOLO 46 «Vorrei sapere cosa diavolo sta succedendo veramente!» disse Orchid mentre svoltavano l’angolo tra la 51st e la Park. Gideon camminava svelto. Aveva evitato di rispondere alle domande per tutto il tempo, cercando di concentrarsi sulla mossa seguente. E lei era sempre più incazzata per questo suo atteggiamento. Orchid si sforzò di tenere il passo. «Maledizione, perché non mi parli?» Gideon sospirò. «Perché sono stanco di mentire alla gente. Soprattutto a te.» «Allora dimmi la verità!» «Non posso. Finiresti nei guai.» Superarono i cancelli di ferro del parco di Saint Bart e Gideon udì l’aria di un vecchio pezzo blues suonato da un musicista di strada. Si fermò d’un tratto ad ascoltare. La vaga melodia della chitarra gli giunse al di sopra dei rumori del traffico di mezzogiorno. Le posò una mano sul braccio. «Aspetta.» «Non puoi tenermi all’oscuro...» Lui fece una leggera pressione in segno di avvertimento e Orchid tacque. «Sta’ calma» mormorò. «Non reagire.» Ascoltò la musica fievole, il canto roco. In my time of dyin’ Don’t want nobody to mourn. «Cosa c’è?» sussurrò Orchid. Gideon la frenò con un’altra stretta. Continuò ad ascoltare la musica fingendo di rispondere al cellulare. All I want for you to do Is to take my body home. Riconobbe una melodia di Blind Willie, In My Time of Dyin’. Gli evocò una sensazione confusa di déjà vu e si sforzò di ricordare dove avesse sentito negli ultimi tempi quella chitarra bottleneck. Era stato sulla Avenue C. Non era una chitarra, ma un vagabondo che canticchiava senza strumenti la stessa melodia blues. Quando era uscito dal ristorante. Visualizzò una strada buia e si rammentò di un senzatetto seduto sotto un portico che canticchiava... canticchiava soltanto. Well, well, well so I can die easy Well, Well, Well Well, Well, Well so I can die easy. Ora ascoltava con molta attenzione. Quel tizio era bravo. Molto bravo. Non brillante, non tecnico ma suonava lento e disinvolto, come si conveniva alle autentiche melodie delta blues. C’era però qualcosa di strano: alcune parole erano diverse dall’originale. Quella era un’altra versione. Jesus gonna make up Jesus gonna make up Jesus gonna make up my dyin’
bed. Quando capì, restò di stucco. Mascherando la sorpresa, chiuse il telefono fingendo di aver terminato la chiamata e tirò Orchid per il braccio verso la tenda all’ingresso del Waldorf. Non appena furono dentro, affrettò il passo spingendola nell’atrio, oltre il gigantesco vaso di fiori, verso Peacock Alley. «Ehi! Cosa diavolo...?» Superarono di corsa il maître sfiorando il menù che questi aveva offerto loro, giunsero in fondo al ristorante e varcarono la porta della cucina. «Dove andate?» La voce fu coperta dallo sbatacchiare delle pentole e dalle grida. «Signore, non può...» Ma Gideon stava già raggiungendo rapido il fondo della cucina. Varcò di corsa un’altra porta ed entrò in un lungo corridoio fiancheggiato da enormi celle frigorifere. «Tornate qui!» gridò il maître in lontananza. «Qualcuno chiami la sicurezza!» Gideon svoltò brusco, schizzò oltre una terza porta e finì in un cortile interno, lo percorse, raggiunse la zona esterna di carico, scese i gradini e corse lungo un breve vicolo fino alla 50th Street sempre trascinando con sé Orchid. Attraversò rapido la strada in mezzo al traffico strombazzante, passò in fretta due isolati, entrò nel ristorante del Four Seasons, salì le scale fino al livello superiore della Pool Room e varcò la soglia della cucina. «Di nuovo?» Sfrecciando tra altre urla e proteste, spuntarono sulla Lexington Avenue di fronte all’ingresso della metro della 51st Street. Attraversarono di corsa la strada e scesero i gradini. Gideon passò due volte la tessera ai tornelli e sbucarono sul marciapiede proprio mentre arrivava un treno della linea uptown. Lui lo prese con Orchid al traino. Le porte si chiusero. «Cosa cazzo sta succedendo?» imprecò lei cercando di riprendere fiato. Gideon si accasciò su un sedile pensando in fretta. Aveva sentito la stessa voce mormorare e canticchiare sulla Avenue C. E oggi l’uomo suonava una versione molto rara di una melodia di Blind Willie, distribuita in vinile in Europa e in Estremo Oriente. «Se possiamo localizzarla e trovarla noi» aveva detto Garza, «può farlo anche Gru che Annuisce.» E sembrava proprio ce l’avesse fatta. Gideon espirò lentamente e si guardò attorno nella carrozza. Sicuramente non era riuscito a seguirlo sul treno diretto ad uptown. «Scusami.» Le prese la mano ansimando ancora. «Ne ho abbastanza dei tuoi sotterfugi» ribatté agitata Orchid. «Lo so. Lo so.» Le diede un colpetto affettuoso sul braccio. «Sono stato disonesto con te. Senti, Orchid: ti ho impelagata in qualcosa di molto più pericoloso di quanto avevo immaginato. Sono stato un vero idiota. Per favore, torna al tuo appartamento e stattene buona. Ti contatterò più in là, quando tutto sarà finito.»
«Assolutamente no! Non mi mollerai di nuovo.» Adesso stava davvero urlando, e tutti nella carrozza si girarono. «Ti chiamerò. Te lo prometto.» «Non mi puoi trattare così.» «Ti prego, Orchid, tu mi piaci veramente, dico sul serio. E proprio per questo non posso trascinarti in questo casino.» La fissò negli occhi. «Ti chiamerò.» «Perché non lo dici e basta?» gridò lei. D’un tratto le lacrime le rigarono il viso. «Ti trovi in qualche pasticcio, vero? L’ho capito sai? Perché non vuoi il mio aiuto? Perché continui a respingermi?» Lui non ebbe il cuore di negarlo. «Sì, mi trovo in un bel pasticcio, ma tu non puoi aiutarmi. Torna a casa. Ti cercherò, te lo prometto. Presto, in un modo o nell’altro, sarà finita. Senti... devo andare.» «No!» Gli si aggrappò come se stesse per annegare. Era inutile. Doveva allontanarsi da lei, per la sua stessa sicurezza. La metropolitana arrivò alla 59th Street, si fermò con un gemito e le porte si spalancarono. All’ultimo minuto Gideon si divincolò e corse fuori. Si fermò e si girò per scusarsi di nuovo, ma le porte si chiusero di colpo. Dal finestrino scorse fugacemente il suo volto distrutto mentre il treno lasciava la stazione. «Ti chiamerò. Te lo prometto!» urlò, ma era troppo tardi e il treno se n’era già andato.
CAPITOLO 47 Gideon guidava di malumore nel traffico di metà pomeriggio del Jersey. Aveva attraversato l’Holland Tunnel, poi con la Chevy a noleggio si era diretto a nord, in quel vecchio e trascurato agglomerato urbano in cui una cittadina si fondeva nell’altra: Kearney, North Arlington, Rutherford, Lodi. Le strade sembravano tutte uguali: strette, affollate, costeggiate da file di palazzi di tre o quattro piani costruiti con mattoni a vista alternati da negozi con squallide vetrine e i grossi fasci di opprimenti cavi telefonici penzolanti sopra la testa. Di tanto in tanto si scorgeva la pensilina di un cinema chiuso o la vetrina di un’ex rivendita di bibite: quegli edifici mostravano com’era in passato il quartiere. Cinquanta o sessant’anni prima quei posti erano piccoli centri autonomi, vivi e allegri, pieni di ragazze con i calzini corti e di uomini con la bombetta e un taglio alla Elvis. Ora di essi restava solo una pallida ombra, a malapena visibile nella processione infinita di salumerie, mercado, discount e negozi di telefonia mobile. Dopo essere entrato nella contea di Bergen, attraversò altre cinque o sei cittadine tristi. C’erano ovviamente molti percorsi più rapidi per raggiungere la destinazione, ma Gideon voleva prendersela con calma. Aveva assolutamente bisogno di rilassarsi, e guidare lo aiutava a distendere la mente. Era stato travolto da un turbine di sensazioni fastidiose, sgradevoli: agitazione per la notizia di Gru che Annuisce, vergogna e imbarazzo per il modo in cui aveva trattato Orchid. Lo aveva fatto per il suo bene, per proteggerla, lei non doveva affezionarsi a un uomo a cui restava un anno di vita. Eppure non si sentiva affatto meglio. L’aveva usata cinicamente. Mentre procedeva verso nord, diretto al confine dello Stato di New York, le strade si fecero più larghe e si inoltrarono nel verde. Il traffico diminuì. Le abitazioni diventarono più sontuose e rade. Lanciò uno sguardo al foglio appoggiato sul sedile del passeggero. Sopra vi era scribacchiato: BIYU LIANG, BERGEN DAFA CENTER, OLD TAPPAN. Con l’elenco delle presenze che Van Rensselaer gli aveva involontariamente fornito, era stato facile individuare il bambino asiatico del JFK, Jie Liang, e da lì apprendere l’identità della madre. Non sapeva cosa fosse un centro Dafa, ma era il luogo di lavoro della donna, nonché la sua destinazione. Quindici minuti dopo si trovò davanti l’entrata di una vecchia tenuta, non enorme ma ben curata, un’ampia villa di conglomerato con il garage separato e la portineria, trasformata in un piccolo campus di qualche tipo. Un’insegna arretrata rispetto alla strada annunciava: BERGEN DAFA CENTER. Parcheggiò nel posteggio accanto all’edificio principale e salì svelto i gradini verso la grande porta d’ingresso decorata con arabeschi di ferro battuto.
Entrò in un atrio riccamente ornato, adibito a reception. Su un raffinato cartello appeso a una parete si leggeva ESERCIZI FALUN GONG 3-5 GIORNI FERIALI, LEZIONI 7-10 SERE FERIALI, e qui e là c’erano altre scritte in cinese. Una giovane donna asiatica sedeva dietro un tavolo. Sorrise quando lui si avvicinò. «Desidera?» domandò in un inglese privo d’accento. Gideon ricambiò il sorriso. «Vorrei parlare con Biyu Liang, per piacere.» «Al momento è impegnata in una sessione» rispose la receptionist allungando la mano in direzione di una porta aperta, dalla quale proveniva un misto di musica e parole. «Grazie, aspetterò la fine.» «Guardi pure, se vuole.» Gideon superò la porta ed entrò in una stanza spaziosa di una semplicità zen. Una donna stava aiutando un gruppo di persone a eseguire una serie di esercizi lenti: si muovevano tutti con grazia, seguendo il suono ipnotico di una musica pentatonale prodotta da campanelli e percussioni. L’istruttrice parlava un mandarino melodioso. La studiò con attenzione. Era più giovane di quella dell’aeroporto, ma le assomigliava tanto. Probabilmente la signora del video era la nonna del bambino. Osservando quegli esercizi, riuscì a percepire qualcosa di ineffabile, di bello, quasi di universale. Falun Gong, rifletté. Ne aveva sentito parlare: era una pratica buddhista seguita in Cina. Doveva saperne di più. La lezione continuò per altri dieci minuti. Mentre il gruppo si disperdeva chiacchierando a bassa voce, Gideon rimase in piedi all’ingresso, in attesa. La donna lo notò e si avvicinò. Era piccola, con un viso tondo e raggiante. «Posso esserle utile?» «Sì.» Gideon le rivolse un ampio sorriso. «Mi chiamo Gideon Crew e mio figlio Tyler entrerà alla Throckmorton Academy in autunno. Ci siamo appena trasferiti qui dal New Mexico. Sarà nella classe di suo figlio Jie.» «Che bello» rispose calorosamente. «Benvenuto.» Si strinsero la mano e lui si presentò. «Lo abbiamo adottato» proseguì Gideon, «in Corea. Vorremo tanto si sentisse a casa: ha ancora un po’ di difficoltà con l’inglese, per questo io e mia moglie siamo stati contenti di sapere che nella classe ci sarebbero stati altri bambini asiatici. È difficile ambientarsi in una scuola nuova in un posto nuovo. Così speravo di incontrare lei e qualche altro genitore.» «Parlerò a Jie di suo figlio. È un bambino molto gentile e, conoscendolo, si impegnerà fin da subito per fare amicizia con lui.» Gideon si sentì in imbarazzo. «Grazie, tutto questo farà davvero la differenza.» Accennò ad
andarsene, poi d’istinto si voltò. «Mi perdoni se la disturbo ancora. Mentre aspettavo, non ho potuto fare a meno di assistere alla sua lezione. Ne sono rimasto colpito: la musica, i movimenti. Cos’è esattamente?» Lei s’illuminò. «Pratichiamo il Falun Gong, o più correttamente la Falun Dafa.» «Sono molto curioso e... be’, penso fosse molto bello. A cosa serve? È un condizionamento fisico?» «Quello è solo un aspetto secondario. È un sistema completo per coltivare mente e corpo, un modo per ritrovare il proprio io originario.» «È una religione?» «Oh, no. È una nuova forma di scienza. Anche se abbraccia principi buddhisti e taoisti. Lo si potrebbe definire un cammino spirituale e mentale.» «Vorrei saperne di più.» Lei si dimostrò cordiale e gli fornì una spiegazione ben collaudata. «Chi pratica la Dafa è ispirato da valori universali: sincerità, compassione e moderazione. Attraverso una serie di cinque semplici esercizi e la meditazione cerchiamo di armonizzarci con questi sentimenti. Con il tempo il corpo e la mente si trasformano e mettono in contatto con le verità più profonde e assolute dell’universo. Passo dopo passo questo cammino porta a ritrovare se stessi.» Ovviamente, questo tema le stava molto a cuore. Gideon ne era rimasto sinceramente colpito. Poteva esserci davvero qualcosa di vero, in tutto ciò; lo aveva avvertito anche solo ascoltando e osservando i movimenti. «È aperto a chiunque?» «Certo. Accogliamo tutti. Come vede, abbiamo ogni sorta di praticanti, di qualsiasi estrazione e provenienza. In effetti, la maggior parte dei nostri partecipanti sono occidentali. Le piacerebbe fare una prova?» «Sì. È costoso?» Lei scoppiò a ridere. «Può venire, ascoltare, fare gli esercizi per tutto il tempo che vuole. Le sedute in inglese sono in genere di sera. Se col tempo sente qualche giovamento, gradiremmo naturalmente ricevere un contributo per il centro. Ma non ci sono tariffe.» «È originario della Cina?» A quella domanda la donna esitò. «È collegato ad antiche tradizioni e credenze cinesi. In Cina però è stato abolito.» Quello sarebbe stato di certo un argomento molto interessante da approfondire. Ma in quel momento doveva trovare la donna più anziana, la nonna. «Grazie per tutte queste informazioni. Parteciperò senz’altro a una sessione. Ora, tornando alla scuola: hanno detto che Jie ha una nonna a cui è molto legato.» «Mia madre. È la fondatrice del Bergen Dafa Center.» «Ah. Potrei incontrarla?» Nel momento stesso in cui lo chiedeva, si rese conto di essersi spinto un po’ troppo in là. La donna si mise vagamente sulla difensiva. «Mi dispiace, segue altre attività del Dafa e non si occupa più della
gestione quotidiana.» Tacque. «Se posso permettermi, perché vorrebbe incontrarla?» Gideon sorrise. «Jie deve essere molto legato alla nonna... e lei lo porta sempre a scuola... be’, pensavo sarebbe stato bello incontrarla. Ma ovviamente non è affatto necessario...» In quell’istante si accorse di aver commesso un altro errore. La giovane assunse un’aria gelida. «Non lo accompagna mai alla Throckmorton e mi stupisce che la scuola la conosca.» Di nuovo, silenzio. «E mi chiedo come possa conoscerla lei...» Maledizione a me, pensò afflitto Gideon. Avrebbe dovuto stare zitto. «L’hanno menzionata a scuola... forse Jie ha parlato di lei.» «Sì. Immagino sia possibile» disse lei. «Non voglio rubarle altro tempo» si congedò Gideon ritirandosi e rivolgendole un sorriso innocente. «È stata molto gentile.» Lei, ora più tranquilla, gli diede un dépliant. «Questo è l’orario delle sessioni introduttive. Spero di vederla presto. E parlerò a Jie di suo figlio Tyler. Forse prima dell’inizio della scuola in autunno potremmo invitarlo per una giornata di giochi.» «Sarebbe davvero gentile da parte sua» rispose Gideon con un ultimo sorriso.
CAPITOLO 48 Orchid uscì dal deli sulla 51st Street e si avviò svelta sul marciapiede verso la Park Avenue aprendo il pacchetto di sigarette appena comprato e gettando l’involucro nei rifiuti. Anziché tornare a casa, si era messa a camminare per strada con la mente in subbuglio. Era furiosa e determinata. Gideon era semplicemente odioso, un autentico bastardo, ma nello stesso tempo si trovava in un guaio spaventoso. Ora lo capiva. Aveva bisogno d’aiuto e lei gli avrebbe dato una mano. Lo avrebbe salvato da qualsiasi cosa lo stesse rincorrendo e tormentando, spingendolo a comportarsi in modo strano. Ma come poteva aiutarlo? Svoltato l’angolo, imboccò la Park Avenue a passo deciso. Il portiere in uniforme del Waldorf le aprì la porta mentre si avvicinava. Orchid si fermò nello splendido atrio con il respiro affannoso. Una volta ripreso il controllo, si accostò al banco della reception e utilizzò i nomi falsi con cui si erano registrati. «Il signor Tell è tornato? Sono la moglie.» «Chiamo la camera.» La receptionist telefonò, ma non rispose nessuno. «Lo aspetterò nell’atrio» disse lei. Prima o poi sarebbe dovuto tornare: tutte le sue cose erano ancora lì. Aprì il pacchetto di sigarette, ne estrasse una e se la infilò tra le labbra. «Mi scusi, signora Tell, non si può fumare nell’atrio.» «Lo so, lo so, esco.» Accese la sigaretta mentre usciva, per pura ripicca. Sul marciapiede di fronte all’albergo camminò su e giù fumando nervosamente, poi gettò il mozzicone per terra ai piedi del portiere, ne pescò un’altra dalla borsa e accese anche quella. Sentiva il vago suono della chitarra di quel vagabondo sul sagrato di Saint Bart. Per ammazzare il tempo, attraversò la strada per ascoltare. L’uomo, con addosso un impermeabile sottile, informe, strimpellava e cantava. Era seduto a gambe incrociate e pizzicava le corde con i plettri. La custodia era aperta al suo fianco e dentro c’erano numerose banconote spiegazzate. Meet me Jesus meet me Won’t you meet me in the middle of the air And if these wings should fail me Lord Won’t you meet me with another pair. Accidenti se era bravo. Non lo vedeva in faccia, stava chino sulla vecchia chitarra e indossava un cappello di feltro marrone, ma udiva la sua voce roca, segno di dolore e di una vita dura. La ragazza si scoprì partecipe, e la cosa la fece sentire triste e felice nello stesso tempo. Cacciò d’impulso la mano in borsa, vi frugò, estrasse un dollaro e lo gettò nella custodia. Lui fece un cenno senza interrompere la musica.
Jesus gonna make up Jesus gonna make up Jesus gonna make up my dyin’ bed. Quando risuonò l’ultimo malinconico accordo e la canzone finì lui posò la chitarra e alzò la testa. Era asiatico e giovane, piuttosto bello. Orchid ne rimase stupita. Non aveva il tipico volto di chi si rovina la vita con l’alcol o le droghe, i suoi occhi erano limpidi e profondi. Sapeva riconoscere al volo un vero senzatetto, e nonostante i suoi abiti trasandati quel ragazzo non lo era: probabilmente era un musicista serio. I vestiti logori e il vecchio e sporco cappello di feltro servivano solo a interpretare quel ruolo. «Ehi, sei piuttosto bravo, sai?» «Grazie.» «Dove hai imparato a suonare in quel modo?» «Sono un discepolo del blues. Io vivo il blues.» «Sì. A volte anch’io mi sento così.» La fissò finché Orchid non cominciò ad arrossire. Poi prese a raccogliere il mucchio di soldi dalla custodia, se li ficcò in tasca e ripose la chitarra. «Per oggi basta. Vado a bermi una tazza di tè da Starbucks dietro l’angolo. Ti piacerebbe accompagnarmi?» Ti piacerebbe accompagnarmi? Quel tipo probabilmente studiava alla Juliard e suonava lì per pagarsi la retta. Sì, doveva essere così. Apprezzò la formalità con cui glielo aveva chiesto e lo stratagemma della semi-copertura. Una parte di lei era ancora furiosa con Gideon. Si augurò che li vedesse insieme, per dargli una bella lezione. «Certo» accettò. «Perché no?»
CAPITOLO 49 Gru che Annuisce sedeva al tavolino a sorseggiare tè verde e ad ascoltare la donna che parlava. Quell’occasione gli era piovuta dal cielo e sapeva esattamente come sfruttarla per stanare Crew, destabilizzarlo e ricondurlo sulle difensive. Era un colpo di fortuna. «Eri già passata, oggi» disse. «Ti ho notata subito.» «Oh be’, sì, è vero.» «Eri con un uomo... tuo marito?» Lei rise. «È solo un amico.» Si protese. «E tu. Tu non sei uno di strada, o mi sbaglio?» Silenzio. «Non mi inganni.» Orchid ammiccò. «Anche se, devo ammetterlo, è un’ottima messinscena.» Lui sorseggiò il tè con aria indifferente. Nel profondo però era molto turbato. «Un amico? Il tuo ragazzo?» «Be’, non proprio. A dirla tutta, è un tipo piuttosto strano.» «Oh... Cosa intendi?» «Ha detto di essere un attore, un produttore. Si veste in modi assurdi, esce e finge di essere qualcun altro. Mi trascina ovunque. È completamente matto. Ha detto che segue il metodo Stanislavskij, ma io credo si trovi in qualche guaio.» «Di che tipo?» «Vorrei saperlo anch’io! Mi piacerebbe aiutarlo, ma lui me lo impedisce. Mi ha portata a Riverdale, in quella scuola privata davvero elegante. Abbiamo finto di essere i genitori di un piccolo genio e ha rubato alcune carte: Dio solo sa perché. Nel cuore della notte abbiamo fatto un folle cambio di stanza al Waldorf.» «Cosa alquanto bizzarra.» «Sì, e poi siamo andati a far visita a un suo amico in ospedale ed era morto.» Gru che Annuisce bevve un sorso di tè. «Sembra un affare losco.» «Non lo so. Mi pare un tipo a posto. Non riesco proprio a capire.» «Dov’è adesso?» La ragazza scrollò le spalle. «Mi ha, come dire?, mollata sulla metro. È saltato giù, promettendomi di chiamarmi più tardi. La nostra roba è ancora in camera.» «Roba?» «Sì, si porta dietro un trolley pieno di trucchi. E una di quelle valigette rigide, ben chiusa a chiave. Non ho idea di cosa contenga, la sorveglia con molta attenzione.» «Una valigetta rigida? Nella stanza?» «Plastica sagomata dura. La tiene sotto chiave nel deposito bagagli del Waldorf.» Orchid continuò ignara a chiacchierare. Quando Gru che Annuisce le ebbe cavato di bocca tutte le informazioni necessarie, riportò il discorso
su di sé. «Hai insinuato che mi sia travestito. Cosa intendevi?» «Dai. Guardati.» Rise lei prendendolo in giro. «So chi sei veramente.» Lui si alzò e controllò l’orologio. «È quasi l’ora dei vespri a Saint Bart.» «Cosa? Vai in chiesa?» «Sì, a sentire la musica: amo i canti gregoriani.» «Oh.» «Vuoi venire con me?» Orchid esitò. «Be’... sicuro. Ma non pensare sia un appuntamento.» «Assolutamente no. Apprezzerei la tua compagnia. Come amico.» «D’accordo, ci sto!» Un istante dopo entrarono in chiesa. Le porte erano aperte, ma l’interno era vuoto e buio per il calare del crepuscolo. «E la musica?» domandò lei. «Qui non c’è nessuno.» «Siamo un po’ in anticipo» rispose Gru che Annuisce. La prese per il braccio e la condusse gentilmente lungo il corridoio verso gli scranni più in ombra del coro, nella parte anteriore. «Questo è un buon posto.» «Va bene.» Nella voce di lei si percepì una nota di dubbio. Gru che Annuisce aveva tenuto la mano destra nella tasca dell’impermeabile. Aveva ancora i plettri sulle dita. Quando furono nel coro, estrasse la mano dalla tasca. «Sento i plettri che tintinnano» osservò lei. «Sì. Anch’io sento sempre la musica, di solito il blues.» Sollevò la mano e mosse le dita davanti il suo viso con i plettri che scintillavano debolmente nella luce fioca, dopodiché iniziò a cantare con estrema dolcezza. In my time of dyin’ Don’t want nobody to mourn All I want for you to do Is to take my body home.
CAPITOLO 50 Gideon lasciò il centro ma, anziché tornare alla macchina, attraversò con calma il prato del campus in direzione della portineria della vecchia tenuta, ora chiaramente una piccola residenza privata. Probabilmente era la casa di un’anziana signora, maniaca della pulizia e dell’ordine, con il suo bel sentiero di mattoni, le minuscole aiuole fiorite accanto alla porta, le tendine di pizzo e strani ninnoli visibili dalle finestre. Si avvicinò alla porta con la massima noncuranza possibile ma non aveva ancora fatto in tempo a raggiungerla quando due asiatici in tuta scura si materializzarono dal nulla. «Possiamo aiutarla?» chiese in maniera educata uno dei due, parandoglisi davanti e stando ben attento a bloccargli il passo. Gideon non sapeva nemmeno il nome della nonna. «Sono qui per vedere la madre di Biyu Liang.» «Mi scusi... Madame Chung la sta aspettando?» Era soddisfatto, alla fine aveva individuato la casa. «No, ma sono il padre di un bambino che inizierà a frequentare la Throckmorton Academy quest’autunno...» Non lo lasciarono neanche finire. Nel modo più gentile possibile, ma inequivocabile, gli si avvicinarono, lo presero per le braccia e iniziarono ad allontanarlo. «Venga con noi.» «Sì, ma suo nipote Jie sarà in classe con mio figlio...» «Prego, venga con noi.» I due cominciarono a trascinarlo, però non lo stavano portando alla sua macchina ma verso una porticina metallica sul lato della villa. Gli balenò in mente uno sgradevole ricordo: di quando si era svegliato in un albergo di Hong Kong circondato da agenti cinesi. «Ehi, aspettate un momento...» Si divincolò e piantò i talloni nel terreno. I due si fermarono, strinsero la presa, poi si rimisero a spintonarlo verso la porta. Dalla piccola casa echeggiò una voce. Gli uomini si bloccarono. Gideon si voltò e vide un’anziana cinese sui gradini dell’ingresso mentre gesticolava con la mano raggrinzita. Disse qualcosa in mandarino. Dopo un istante le guardie lo lasciarono e una alla volta si scostarono. «Entri» lo invitò la vecchia continuando a gesticolare. «Venga.» Gideon guardò prima i due gorilla poi lei e non perse tempo. La donna lo condusse in salotto. «Si accomodi. Un tè?» «Sì, grazie» rispose Gideon sfregandosi le braccia nei punti in cui l’avevano stretto. Un servitore comparve sulla porta e si ritirò subito dopo aver ricevuto istruzioni da Madame Chung.
«Scusi le mie guardie» disse. «Ma ultimamente sto correndo diversi pericoli e ho bisogno di protezione.» «Perché?» domandò Gideon. L’anziana signora si limitò a sorridere in risposta. Il servitore tornò con una piccola teiera di ghisa e due minuscole tazze rotonde di porcellana. Mentre versava il tè, Gideon colse l’occasione per studiarla. Era indubbiamente quella del DVD della sicurezza: in sua presenza, pensando al lungo e strano percorso per raggiungere quel luogo, provava uno strano e reverente timore. Eppure a quattr’occhi sembrava molto diversa. Dal video granuloso dell’aeroporto gli era stato impossibile cogliere appieno quanta vitalità ed energia avesse ancora. Raramente una persona di quell’età riesce a trasmettere simili sensazioni. Era come un uccellino dalla vista acuta, vigile, sveglia, piena di gioia. Gli porse una tazza; poi, sedutasi nella poltrona di fronte, giunse le mani sulle ginocchia e lo guardò tanto intensamente da farlo quasi arrossire. «Ha qualcosa da chiedermi, non è così?» disse. Gideon non rispose subito. La sua mente si mise frenetica al lavoro. Aveva elaborato diverse storie, ovviamente, diversi possibili scenari fasulli per cavarle le informazioni. Ma seduto davanti a Madame Chung, faccia a faccia con lei, si rese conto di quanto sarebbe stato difficile ingannarla. Tutte le accurate elucubrazioni, le macchinazioni, le tattiche, gli stratagemmi e i raggiri persero d’un tratto mordente. Si sentiva stranamente impaurito; non sapeva cosa dire. Cercò in fretta di escogitare una storia migliore, una sequela più convincente di bugie e mezze verità da raccontarle, ma sarebbe stata un’impresa disperata. «Mi dica solo la verità» riprese lei con un sorriso, come se gli leggesse la mente. «Io...» Non riuscì a proseguire. Se fosse stato sincero, tutto sarebbe stato perduto. In quel momento arrossì sul serio in preda all’imbarazzo. «Allora, se non le dispiace, le farò io qualche domanda.» «Va bene» accettò lui con enorme sollievo. «Qual è il suo nome?» «Gideon Crew.» «Da dove viene e cosa fa?» Lui esitò, cercando di nuovo di escogitare una bugia adatta, ma forse per la prima volta in vita sua non gliene venne in mente neanche una. «Vivo nel New Mexico e lavoro al Los Alamos National Lab.» «Dove è nato?» «A Claremont, in California.» «I suoi genitori?» «Melvin e Doris Crew. Scomparsi entrambi.» «E la ragione per cui è qui...?»
«Mio figlio Tyler frequenterà la stessa classe di Jie alla Throckmorton da quest’autunno e...» Lei giunse le mani. «Mi scusi» lo interruppe in maniera educata scrutandolo però con i suoi occhi neri e vivaci. «Secondo me, lei è un bugiardo professionista» disse. «E ha appena esaurito le menzogne.» Lui non trovò risposte. «Perciò perché per una volta non prova a essere sincero? Potrebbe raggiungere più facilmente il suo scopo.» Gideon si sentì messo con le spalle al muro. Non aveva modo di girarsi e scappare. Era impossibile. Com’era potuto accadere? Lei attese sorridente, le mani giunte. Diamine. «Sono un... una sorta di agente speciale» rispose. La donna inarcò le sopracciglia disegnate con cura. Lui fece un respiro profondo, tremante. Non poteva appigliarsi a niente se non alla verità, e per quanto fosse strano si sentì sollevato. «Il mio compito è scoprire cosa abbia portato Mark Wu in questo Paese e recuperarlo.» «Mark Wu. Sì, questo ha senso. Per chi lavora?» «Per gli Stati Uniti. Indirettamente.» «E io come c’entro in tutto questo?» chiese l’anziana donna. «Voglio sapere cos’ha dato a Mark Wu poco prima che fosse inseguito e ucciso. Inoltre, se portava davvero i progetti di un’arma nuova, di quale si tratta e dov’è ora.» Lei annuì molto lentamente. Bevve un sorso di tè e posò la tazza. «È mancino o destro, signor Crew?» Gideon si accigliò. «Mancino.» La donna annuì di nuovo con l’aria di chi la sapeva lunga. «La prego, mi dia la mano sinistra.» Dopo un istante Gideon gliela porse. Lei la prese delicatamente con la destra. Per un momento lui percepì solo la sensazione della pelle secca e raggrinzita della vecchia a contatto con la sua. Poi per poco non gridò per la sorpresa e lo sgomento. Sentì un bruciore improvviso. Sussultò in poltrona e lei mollò la presa. «Cercherò di rispondere a tutte le sue domande» disse la donna giungendo di nuovo le mani sulle ginocchia. «Il suo lavoro l’ha costretta a diventare un bugiardo professionista. Ma in realtà è una persona buona e sincera. Lo percepisco chiaramente. La aiuterò; sarà un bene per entrambi.» Bevve un altro sorso di tè. «Dunque. Mark Wu era uno scienziato che stava lavorando a un progetto segreto in Cina. Era anche un devoto della Falun Dafa.» Annuì lentamente, più volte, lasciando aumentare il silenzio. «Non so se lo sa, ma la Falun Dafa è stata brutalmente vietata in Cina. Per questo motivo ha continuato a esistere in clandestinità. In totale clandestinità.» «Perché i cinesi hanno fatto una cosa del genere?» «Perché rappresentiamo una seria minaccia per l’attuale classe dirigente. La Cina ha una lunga storia di imperi abbattuti da movimenti spirituali carismatici. Hanno ragione ad avere paura. La Dafa non solo mette in dubbio
i presupposti del comunismo e del governo totalitario, ma pure le loro nuove e importanti concezioni sul materialismo e sul capitalismo sfrenato.» «Capisco.» A Gideon fu tutto chiaro: Wu senza dubbio aveva un valido motivo per chiedere asilo politico. Ma allora, perché la CIA gli aveva teso quella trappola a sfondo sessuale? «In Cina, a causa della persecuzione, i seguaci praticano la Dafa di nascosto, in segreto. Ma noi siamo rimasti legati ai nostri fratelli cinesi. Siamo tutti in contatto. Il nostro è uno spirito comunitario. Il governo ha cercato di bloccarci i siti web e di zittirci, ma ha fallito.» «Perciò dice di essere in pericolo?» «Questa è in parte la ragione» sorrise. «Non sta bevendo il suo tè.» «Oh, mi scusi.» Gideon sollevò la tazza e ne prese una bella sorsata. «Molti seguaci della Dafa sono scienziati e ingegneri informatici. Abbiamo sviluppato un software potente chiamato Freegate. Ne avrà forse sentito parlare.» «Mi ricorda qualcosa.» «Lo abbiamo distribuito in tutto il mondo. Consente agli utenti di Internet in Cina e in altri Paesi di accedere ai siti web e social network censurati e bloccati dai firewall dei rispettivi governi.» Mentre ascoltava, Gideon sorseggiò piano la sua bevanda e la trovò squisita. «I server Freegate mascherano i veri indirizzi IP, pertanto la gente può navigare liberamente online. Proprio qui, al Bergen Dafa Center, abbiamo un grosso cluster di server Freegate. Ce ne sono altri nel mondo.» Gideon finì il tè. «Cosa c’entra tutto questo con Mark Wu?» «Vede, Mark Wu ci stava portando un segreto dalla Cina. Un segreto enorme, davvero.» «Con “ci” intende al Falun Gong?» Lei assentì. «Era tutto pronto. Lui ce lo avrebbe passato e noi lo avremmo messo sui server Freegate e comunicato al mondo intero.» Gideon deglutì, poi chiese: «Allora, cos’è questo segreto enorme?». Lei sorrise di nuovo. «Non lo sappiamo.» «Sta scherzando? Come potete non saperlo? Non le credo.» Le parole gli uscirono di bocca senza rendersene conto. Madame Chung lasciò correre. «Wu non poteva dircelo o non ha voluto farlo. Il nostro compito era diffondere l’informazione. Questo è tutto.» «E riguardava una superarma?» «Forse. Ma ne dubito.» Gideon la fissò. «Perché?» «Perché Wu parlava di una nuova tecnologia con la quale la Cina sarebbe riuscita a conquistare il mondo... a dominare il mondo, deve aver detto. Non credo si trattasse di qualcosa di pericoloso. Inoltre, dubito desiderasse rivelare tutti i piani di una nuova arma: avrebbe significato mettere le informazioni in mano ai terroristi.» Tacque. «Sciaguratamente lo hanno
ucciso prima.» «Se aveva i piani con sé, adesso dove si trovano?» «Non sappiamo nemmeno questo. Era molto reticente.» «Vi avrà di certo indicato dove e quando ve li avrebbe consegnati.» «Per questo incarico ci siamo affidati a un nostro collaboratore. Roger Marion, uno dei nostri contatti tecnici. Li avrebbe prelevati in una stanza d’albergo. Quando Wu è arrivato in aeroporto, gli abbiamo passato il nome di Roger.» Tacque, cercando di rammentare. «Nella fase di trattativa lo scienziato ci ha fatto una strana richiesta. Aveva bisogno di una stanza e di qualche minuto per estrarre le informazioni.» «Estrarre? Non capisco.» «Ha usato l’espressione cinese cai jian: vuol dire “estrarre o tagliar via”. Forse le informazioni erano nascoste dentro qualcosa che andava rimosso.» Gideon ripensò subito alle orribili radiografie. Forse lo scienziato aveva inserito le informazioni all’interno del suo corpo. «Wu aveva memorizzato anche una serie di numeri. Cos’erano?» Lei lo guardò. «Come fa a sapere dell’elenco?» Per un attimo Gideon trattenne il fiato. «Perché l’ho seguito dall’aeroporto. Ho visto il taxi speronato dal SUV. L’ho tirato fuori. Ha creduto fossi Roger Marion, mi ha dato i numeri. Ho cercato di salvarlo, ma ho fallito.» Ci fu un silenzio piuttosto lungo. Infine l’anziana donna parlò di nuovo. «Wu non ci ha rivelato il significato di quei numeri. Crediamo però siano necessari per completare il progetto e far funzionare l’oggetto misterioso, trafugato dai laboratori cinesi. Finché queste due componenti rimarranno divise il segreto sarà al sicuro. Una volta arrivato in America avrebbe consegnato entrambi a Roger.» «E avete corso tutti questi rischi credendo fermamente alle parole di Wu e senza sapere cosa stesse portando con sé?» «Il dottor Wu frequentava la Dafa da molti anni. Il suo parere era del tutto rispettato.» Era vicino, molto vicino, quasi in modo irritante, a scoprirlo. «In quale modo ha descritto le informazioni segrete? Erano una serie di piani, un microchip... cosa?» «Ne ha parlato come se si trattasse di un oggetto. Di una cosa.» «Di una cosa?» «Ha usato la parola wù, che significa “cosa, oggetto, materia solida”. È anche il termine cinese per “fisica”. Per essere precisi, non è identico al suo cognome. Si pronuncia wù, con un tono più alto.» Di nuovo la mente di Gideon andò alle radiografie della parte inferiore del corpo dello scienziato. Mostravano le gambe schiacciate, piene di frammenti di metallo e plastica. Aveva esaminato con cura tutti quei segni e quelle chiazze, ma gli era forse sfuggito qualcosa? Una di quelle macchie irregolari poteva essere l’oggetto misterioso? Aveva cercato una serie di piani, un microchip, un
microcontenitore. Magari era qualcosa di completamente diverso. Forse un pezzo di metallo. Un pezzo di metallo... Secondo la Epstein, l’amica di O’Brien, quella sequenza di numeri ricordava una formula chimica di un composto metallico. Ecco cos’era. Ecco cos’era. «Deve capire una cosa» aggiunse Madame Chung, «il dottor Wu non era venuto negli Stati Uniti per chiedere asilo politico o altro. Era un cittadino cinese leale e fedele. Ma in quanto scienziato, in questo caso sentiva di avere un obbligo morale. Attraverso i nostri server voleva svelare questo grande segreto al mondo intero affinché non potesse più essere nascosto. Doveva essere un dono, un dono per il mondo. Da parte nostra.» Quindi Mindy si sbagliava sulle sue motivazioni, pensò Gideon. Ma al momento aveva pensieri più importanti. La sua mente lavorava all’impazzata. Le gambe di Wu erano piene di metallo e il suo corpo si trovava ancora in obitorio. In attesa di essere prelevato da lui, quale parente più stretto. Santo cielo, doveva solo andare laggiù a prenderlo. Ma prima doveva recuperare le radiografie e capire cosa doveva estrarre. Urgeva far visita a Tom O’Brien e alla sua amica. Madame Chung lo stava fissando. «Signor Crew» disse in tono deciso, «si rende conto che quando recupererà qualsiasi cosa il dottor Wu ci stesse portando, dovrà consegnarmela?» Lui ricambiò lo sguardo. «Se ne rende conto, vero? È un obbligo a cui non può sottrarsi.» La sua voce musicale sottolineò allegra quelle ultime parole mentre gli rivolgeva un altro fulgido sorriso.
CAPITOLO 51 Gideon Crew tornò al Waldorf verso le undici di sera, sgattaiolò dentro dalla porta di servizio ed evitò Saint Bart, temendo di trovare Gru che Annuisce ancora lì con la sua chitarra. Riflettendo mentre rientrava dal New Jersey, si era reso conto di quanto quella postazione non fosse stata scelta a caso. Dai gradini di Saint Bart, infatti, il suo avversario poteva godere di un’ottima visuale sulle finestre di entrambe le sue camere, nonché sull’ingresso principale dell’albergo e su quello della 51st Street. Forse non era a conoscenza delle due stanze ma doveva comunque tenere in considerazione questa eventualità. Maledicendosi per la sua stupidità, premette il pulsante di un ascensore di servizio e salì al piano della camera di riserva. Dopo averla raggiunta, entrò cauto senza accendere la luce nel caso Gru che Annuisce lo stesse osservando dalla strada. Forse, d’altronde, lo stava aspettando nella stanza. Gideon si fermò in ascolto. Per la prima volta si dispiacque di aver perso la pistola nel fiume, o almeno di non averne chiesta un’altra a Garza. La cosa più snervante di quell’uomo non era la sua abilità nel pedinarlo. No, era la sua maledetta bravura con la chitarra blues. Malgrado quanto gli aveva detto la Jackson, lo aveva immaginato come una specie di killer prezzolato, una caricatura uscita da un film di kung fu, un esperto di arti marziali lontano anni luce dalla cultura americana, impacciato in quanto straniero e poco pratico della città. Tutte le sue supposizioni si erano rivelate sbagliate. Rabbrividì. La camera era silenziosa, l’aria immobile. Finalmente si mosse verso il letto ed estrasse la valigetta Pelican da sotto. Alla luce riflessa che entrava dalla finestra non sembrava fosse stata toccata. Inserì la combinazione e la aprì, estrasse la cartelletta contenente le radiografie di Wu e il dossier medico, poi la chiuse e reinserì la combinazione. Si tolse la giacca, si infilò le due cartelle sotto la camicia e la reindossò. Pensò per un istante alle sue TAC e radiografie, poi scacciò il pensiero. Se avesse perso ora la concentrazione, avrebbe fallito. Dalla strada di fronte giunse un frastuono sempre più forte di sirene. Gideon si avvicinò alla finestra e scrutò fuori. Stava succedendo qualcosa a Saint Bart. Erano arrivate varie ambulanze e auto della polizia, bloccando il traffico diretto a nord di Park Avenue. Si stava formando un assembramento. I poliziotti stavano sistemando le transenne e respingendo la folla. Di Gru che Annuisce e della sua chitarra neanche l’ombra; probabilmente, con tutto quel movimento, si era allontanato. Ma lui era sicuro che fosse ancora nei paraggi a sorvegliarlo.
Scivolò fuori dalla stanza chiudendosi piano la porta alle spalle. Nel corridoio bene illuminato nessun rumore. Doveva riuscire a vedere Tom O’Brien senza essere inseguito. Il trucco della metro era piuttosto efficace, ma forse la seconda volta Gru che Annuisce sarebbe stato pronto. Ormai il suo avversario conosceva bene i suoi travestimenti. Ci rifletté per un po’. Il Waldorf aveva quattro uscite, una sulla Park, una sulla Lexington e due sulla 51st Street. Poteva essere appostato nei pressi di una qualsiasi di queste strade. E l’aveva senz’altro visto entrare nell’albergo. Come accidenti fare per raggiungere la Columbia? Ebbe un’idea. Forse la folla davanti Saint Bart gli sarebbe tornata paradossalmente utile per seminare un pedinatore. Avrebbe colto la sua occasione in mezzo alla calca. Prese l’ascensore, attraversò l’atrio e uscì dall’ingresso principale.
CAPITOLO 52 Gideon si incamminò svelto verso la folla, che ora si stava riversando in Park Avenue bloccando il traffico. Era sorprendente come a New York potessero formarsi assembramenti a qualsiasi ora del giorno e della notte. Si guardò di nuovo attorno, ma di Gru che Annuisce non c’era traccia, almeno in apparenza. Non se ne stupì; era un avversario molto abile, questo ormai l’aveva capito. Si mescolò alle persone ai margini della calca e iniziò ad attraversarla. Se fosse riuscito a raggiungere abbastanza in fretta l’altro lato, l’inseguitore, sempre se ce n’era davvero uno, sarebbe stato costretto a fare lo stesso. E a rendersi di conseguenza visibile. Quando fu all’altezza del centro della ressa, percepì un moto di orrore collettivo. I soccorritori erano comparsi sulla porta della chiesa con una barella e la stavano spingendo giù per la rampa per i portatori di handicap. Sopra c’era un sacco per le salme. Qualcuno evidentemente era morto... e, dato il gran numero di poliziotti presenti, sembrava trattarsi di un omicidio. La folla si accalcò e mormorò agitata. Sempre spingendo il corpo, gli uomini attraversarono il giardino della chiesa e percorsero il corridoio creato dalle transenne, diretti a un’ambulanza in attesa. Una situazione perfetta. Gideon si avvicinò allo sbarramento, lo saltò, schizzò nel tratto aperto, si chinò sotto quello di fronte e si confuse tra la gente. Un poliziotto gli urlò dietro, ma i funzionari avevano cose più importanti di cui occuparsi in quel momento e lasciarono perdere. Uscendo a fatica dalla ressa e ignorando le furiose proteste, Gideon emerse dall’altra parte della strada e corse lungo Park Avenue. Si guardò alle spalle per vedere se qualcuno avesse scavalcato le transenne e si fosse fatto strada tra la gente. Nessuno lo aveva fatto. Svoltò a destra, attraversò il viale con il rosso e là, ben parcheggiato, c’era un taxi che stava scaricando un passeggero. Vi saltò subito dentro. «West 120th tra la Broadway e la Amsterdam» disse. «Vada!» Mentre il taxi partiva, Gideon osservò la folla dal finestrino, ma di nuovo nessuno sembrò seguirlo o cercare di fermare un altro taxi. Guardò l’orologio. Era quasi mezzanotte. Prese il cellulare e compose il numero di Tom O’Brien. «Ehi!» esclamò l’amico sarcastico. «Finalmente hai imparato a chiamare a un’ora decente. Che succede?» «Ho scoperto cosa Wu portava con sé. È un composto o una lega speciale. Ed è inserito nei suoi arti inferiori.» «Fantastico.» «Sto venendo da te con le sue radiografie. Nelle gambe c’è un bel po’ di
porcheria per via dell’incidente. Mi serve il tuo aiuto per individuare il possibile punto.» «Dovrò chiamare Epstein: è lei il fisico.» «Me l’ero immaginato.» «E poi cosa succederà quando avremo identificato il pezzo di metallo?» «Andrò in obitorio e lo estrarrò.» «Grande. E come farai?» «Mi sono già presentato come il “parente più stretto” di Wu e mi aspettano per il ritiro del corpo. Sarà una passeggiata.» All’altro capo risuonò una risata lunga, bassa, ansimante. «Accidenti, Gideon, sei davvero unico, sai?» «Tieniti pronto. Non ho tempo da perdere.» Riagganciò e compose il numero di Orchid. Voleva dirle che aveva quasi risolto il «pasticcio» in cui si trovava e avrebbe tanto voluto rivederla, se non il giorno dopo, sicuramente quello dopo ancora. Sarebbe stata contenta di sentire tutto questo. Il suo cellulare era spento. Si mise comodo sul sedile con in testa lo sgradevole pensiero che fosse con un cliente.
CAPITOLO 53 «Buon Natale a te» disse O’Brien guardando Gideon entrare senza bussare, come al solito. «È la persona di cui mi hai parlato?» domandò la Epstein stravaccata su un piccolo divano, nervosa per essere stata buttata giù dal letto a un’ora così tarda. Aveva i capelli gettati di lato ed era di umore particolarmente storto perché, O’Brien lo sapeva, quando l’aveva svegliata nel cuore della notte aveva pensato a qualcosa di molto diverso. Era sempre pronta per una bella scopata, bisognava dirlo. «Gideon, ti presento Epstein. Epstein, Gideon.» «Se non sbaglio, O’Brien ti ha chiamata Sadie» osservò Gideon stringendole la mano che lei aveva mollemente allungato. «Chiunque mi chiami Sadie» rispose lei strascicando le parole per il sonno, «si becca un bacio sul collo. Sarà meglio si tratti di una cosa importante.» «Lo è» ribatté O’Brien partendo subito con la bugia che aveva confezionato. «Ti ricordi della serie di numeri? Be’, abbiamo le radiografie del contrabbandiere, sai, ha avuto un incidente ma portava una sostanza nella gamba, per passare la dogana...» La Epstein tagliò corto con un gesto della mano. Si voltò verso Gideon. «Dimmi tu di cosa si tratta.» Gideon le lanciò un’occhiata. Era troppo sfinito per mentire. «Per la tua sicurezza, è meglio se non ti racconto nulla.» «Come vuoi. Sbrighiamoci però.» Tom O’Brien si sfregò eccitato le mani. Amava gli intrighi. «Prendi le radiografie.» Gideon le estrasse da sotto la camicia. O’Brien sgombrò un tavolo luminoso, ve le posò sopra e accese la luce. Dopo un istante la Epstein si tirò su, si chinò per guardarle e si rilassò di nuovo. «Che cosa disgustosa!» «Ricapitoliamo» disse O’Brien sfregandosi di nuovo le mani. «Il tizio portava qualcosa nella gamba, un pezzo di metallo o roba simile, e ha memorizzato i rapporti dei vari elementi di cui è composto. Questa è l’idea che Epstein si è fatta sulla serie di numeri. Giusto?» Lei assentì. «Bene. Perciò ora abbiamo le radiografie e dobbiamo scoprire quale di questi punti o macchie corrisponda a questo fantomatico metallo. Vuoi vederle meglio, Epstein?» «No.» «Perché no?» O’Brien cominciava a irritarsi. «Perché non ho idea di cosa stiate cercando. È una lega? Un ossido? Un altro composto? Ogni sostanza reagisce in modo diverso ai raggi X. Potrebbe essere qualsiasi cosa.» «Be’, cosa pensi sia? Sei tu il fisico della materia condensata.» «Se voi due contapalle mi deste qualche idea di quel che sta succedendo,
forse potrei azzardare un’ipotesi.» O’Brien sospirò e guardò Gideon. «Glielo diciamo?» Lui rimase in silenzio per un po’. «Va bene. Ma si tratta di informazioni riservate e la tua vita sarebbe in pericolo se altri scoprissero un tuo coinvolgimento.» «Risparmiatemi le stronzate sulle guerre tra spie. Non ho intenzione di dire nulla. Nessuno mi crederebbe, a ogni modo. Spiegatemi e basta.» «Da alcuni anni i cinesi lavorano a un progetto top-secret in una delle loro installazioni nucleari. La CIA ritiene sia un’arma nuova di qualche tipo, ma stando alle mie informazioni non è così. Anzi, pare sia una scoperta tecnologica con la quale la Cina diventerebbe la nazione più potente del mondo.» «Sembra improbabile» osservò la Epstein. «Ma va’ avanti.» «Uno scienziato cinese stava portando questo segreto negli Stati Uniti, non per darlo a noi, ma per altre ragioni.» La Epstein si era infine raddrizzata e stava dimostrando un certo interesse. «E questo segreto è la cosa inserita nella gamba?» «Esatto. Era composto da due elementi: la cosa nella gamba e la serie di numeri. Come avrai sicuramente capito, queste due componenti funzionano solo se vengono unite. Lo scienziato è stato ucciso in un incidente d’auto. Quelle sono le radiografie del pronto soccorso.» La ragazza le esaminò con nuovo interesse. «I numeri» disse «mi suggeriscono un materiale fatto di numerosi composti chimici o leghe complessi.» Si voltò verso O’Brien. «Hai una lente di ingrandimento?» «Ne ho una da gioielliere.» O’Brien frugò in un cassetto e alla fine la pescò. La esaminò, fece una smorfia e la pulì con un lembo della camicia prima di porgergliela. Lei la accostò all’occhio e si chinò di nuovo sulle radiografie analizzando le chiazze bianche in successione. «Lo hanno proprio ridotto in polpette. Guarda quanta merda ha nelle gambe.» «È stato un brutto incidente» disse Gideon. La Epstein analizzò attentamente ogni chiazza. Si trattenne un bel po’ sulla prima radiografia. Dopo quella che parve un’eternità, passò alla seconda, poi alla terza. Si fermò quasi subito su un piccolo frammento. Lo osservò a lungo, poi si raddrizzò lasciando cadere la lente. Era raggiante. O’Brien arretrò involontariamente di qualche passo. «Allora?» domandò. «Incredibile» sussurrò lei. «Credo di sapere di cosa si tratta. All’improvviso tutto ha senso.» «Diccelo!» la sollecitarono all’unisono i due uomini. Lei sfoderò un ampio sorriso. «Volete davvero saperlo?» «Dai, Epstein! Niente giochetti.» O’Brien notò i suoi occhi luccicanti. Non l’aveva mai vista tanto eccitata.
«È solo un’ipotesi» rispose, «ma è fondata. È l’unica teoria che ritengo concordi con i fatti... e con l’oggetto singolare in questa radiografia.» «Spiegati» disse O’Brien in tono più insistente. Lei gli porse la lente. «Vedi questa cosa qui: quella che sembra un piccolo pezzo di filo piegato?» Lui si chinò e guardò. Era lungo circa nove millimetri, un pezzo di filo di diametro medio, piegato in modo irregolare. «Guarda le punte.» O’Brien le osservò con attenzione. Due ombre nere svasate all’estremità. «Sì?» «Vedi, quelli sono raggi X che escono dalle estremità del filo.» «E quindi...?» «Il filo ha in qualche modo assorbito i raggi X e li ha incanalati o reindirizzati all’esterno.» «E...?» O’Brien alzò lo sguardo e si tolse la lente. «È quasi incredibile. Un materiale con la capacità di attrarre e incanalare o concentrare i raggi X. Ce n’è solo uno, a quanto mi risulta, in grado di farlo.» O’Brien scambiò un’occhiata con Gideon. La Epstein sorrise maliziosa. «Vi ricordo che è un filo.» «Gesù, Epstein» gridò O’Brien. «Ci stai facendo venire una crisi di nervi. E allora?» «Cosa fanno i fili?» domandò lei. O’Brien fece un profondo respiro e guardò di nuovo Gideon. Sembrava impaziente quanto lui. «Conducono l’elettricità» rispose Gideon. «Esatto.» «Allora?» «Allora questo qui è di tipo speciale. Conduce l’elettricità, ma in modo diverso.» «Non vi seguo più» si spazientì O’Brien. «Abbiamo tra le mani» annunciò lei trionfante, «un superconduttore a temperatura ambiente.» Silenzio. «Tutto qui?» chiese O’Brien. «Tutto qui?» lo aggredì la Epstein incredula. «È soltanto il Santo Graal della tecnologia energetica!» «Mi aspettavo qualcosa che avrebbe... cambiato il mondo» replicò lui in tono ben poco convincente. «Questo cambierebbe il mondo, razza d’idiota! Il novantanove per cento di tutta l’elettricità generata sulla terra viene persa in resistenza mentre scorre dalla fonte alla destinazione d’uso. Il novantanove per cento! Ma in un filo superconduttore scorre senza alcuna resistenza. Senza perdite. Se l’America sostituisse tutti gli elettrodotti tradizionali con cavi fatti di questo materiale ridurrebbe l’uso di elettricità del novantanove per cento.»
«Oh, mio Dio» bofonchiò O’Brien mentre assorbiva l’impatto. «Si potrebbe sopperire a tutto il fabbisogno energetico degli Stati Uniti con l’uno per cento soltanto di quanto è necessario oggi. E potrebbe essere fornito dagli impianti solari, eolici, idroelettrici e nucleari già esistenti. Non più centrali a carbone né raffinerie. I costi di trasporto e produzione calerebbero enormemente. L’energia sarebbe in pratica gratuita. Il funzionamento delle auto elettriche non costerebbe quasi nulla: spazzerebbero via l’industria automobilistica a benzina. Quella petrolifera e carbonifera crollerebbero. Parliamo in sostanza della fine dei carburanti fossili. Non più emissioni di gas serra, non più OPEC che tenga in pugno il mondo.» «In altre parole» osservò Gideon, «se un Paese riuscisse a controllare questa scoperta annienterebbe tutti gli altri in campo economico.» La Epstein scoppiò in un’aspra risata. «Peggio. Controllerebbe l’economia mondiale. Dominerebbe il pianeta.» «E tutti gli altri sarebbero fottuti» aggiunse O’Brien. Lei lo guardò. «Sì, è il termine tecnico per descrivere il concetto.»
CAPITOLO 54 TACCIANO I DISCORSI. FUGGA IL RISO. QUESTO È IL LUOGO DOVE LA MORTE SI COMPIACE DI SOCCORRERE LA VITA. Erano le due del mattino e Gideon Crew si stava stancando di leggere e rileggere lo stesso motto sopra la porta dell’obitorio. Lo irritava; era insieme macabro e pretenzioso. Da quello che vedeva, non c’era niente di lieto, in quel posto sinistro e puzzolente, o se era per questo nella morte. Aspettava da quarantacinque minuti e la sua pazienza aveva quasi raggiunto il limite. La receptionist sembrava muoversi come sott’acqua, spostava un pezzo di carta qui, un altro là, rispondeva a una chiamata, mormorava a voce bassa con le lunghe unghie rosse che ticchettavano mentre maneggiava le carte. Era assurdo. Si alzò e le si avvicinò. «Mi scusi... Aspetto da quasi un’ora.» Lei sollevò lo sguardo. Le unghie smisero di ticchettare. Nei capelli biondi decolorati da vamp si intravedeva la ricrescita nera. Era una dura newyorkese della vecchia guardia. «Ci è arrivato un omicidio. Ha occupato tutto il nostro personale.» «Un omicidio? Una vera rarità, a New York.» Gideon si chiese, al di là dell’irritazione, se fosse quello di Saint Bart. «Senta, il mio... compagno è in qualche cella frigorifera là dentro, e desidero solo passare un minuto con lui.» Aggiunse una nota d’afflizione nella voce. «La prego...» «Signor Crew» rispose lei senza scomporsi, «si rende conto, vero, che i resti sono rimasti qui per cinque giorni in attesa di sue istruzioni? Sarebbe potuto venire in qualsiasi momento. Abbiamo cercato di contattarla almeno...» verificò al computer «... una decina volte.» «Ho perso il cellulare» tentò di giustificarsi. «Ed ero in viaggio.» «D’accordo. Ma non può pretendere di arrivare qui all’una di notte e trovare tutto pronto e a disposizione, no?» Gli lanciò un’occhiata intransigente. Gideon si sentì imbarazzato e sconfitto. Aveva ragione, doveva ammetterlo. Ma il taglierino in tasca era come una patata bollente e le radiografie nella borsa della spesa idem. Inoltre non riusciva a smettere di pensare a Gru che Annuisce e a cosa stesse facendo in quell’istante, se fosse nei paraggi, se stesse sorvegliando l’obitorio. Più gli toccava aspettare, più tempo guadagnava il suo avversario. «Quanto ci vorrà ancora?» domandò. Le unghie rosse ripresero a ticchettare e a spostare carte. «La chiamerò
quando qualcuno si libera.» Lui si risedette e tornò a fissare immusonito il motto. Sentiva vaghi rumori provenire da dietro la porta d’acciaio inossidabile, intercalati dallo sferragliare sordo delle barelle. Là dentro stava succedendo qualcosa: l’omicidio, non c’erano dubbi. Ora era sicuro che fosse quello di Saint Bart. Roba grossa. Una persona uccisa in una delle chiese più vecchie e sacre di New York, che vantava una delle congregazioni più ricche. «Cosa succede lì dietro?» chiese Gideon. La donna alzò ancora lo sguardo. «Autopsie, celle frigorifere, uffici.» Al di là della porta provenivano altri rumori, vaghi brusii di agitazione e attività. Gideon guardò l’orologio. Erano quasi le due e mezzo. L’interfono sul banco della receptionist gracchiò. Lei rispose a voce bassa, poi lo guardò. «Sta arrivando qualcuno per lei.» «Grazie.» A un certo punto fu avvicinato da un tizio con un camice bianco non particolarmente pulito. Si era rasato con poca cura, sul collo aveva piccoli grumi di sangue. Alzò un portablocco e lesse. «George Crew?» «Gideon. Gideon Crew.» Senza aggiungere altro si girò e Gideon lo seguì «Vorrei restare un attimo con lui... da solo» disse parlando alla schiena dell’uomo. Non ci fu risposta. Percorsero un corridoio di linoleum lungo e illuminato, al termine del quale, a quanto sembrava, si trovava la sala autoptica. Dalle finestrelle scorse una fila di tavoli di acciaio inossidabile e ceramica, numerosi bidoni per i rifiuti sanitari, pile di contenitori Tupperware. Vide un gruppo di persone attorno a un tavolo, tra cui poliziotti e detective. Doveva essere la vittima dell’omicidio. «Da questa parte, prego.» Gideon si voltò per seguire l’uomo che imboccò un altro corridoio che conduceva a una stanza lunga le cui pareti erano totalmente ricoperte da file di cassetti metallici. Il logo della compagnia li identificava come attrezzature della SO-LOW, INC. Le «celle frigorifere». L’assistente consultò il portablocco muovendo le labbra e poi, sempre continuando a muoverle, guardò la fila di cassetti fino a trovare quello giusto. Lo aprì con una chiave legata a un cordino a spirale appeso in vita ed estrasse il cassetto. Comparve un sacco da salma di plastica grigia con la zip ben chiusa. L’odore di ciliegia amara della formaldeide gli bruciò le narici senza riuscire neanche lontanamente a coprire quello di decomposizione. «Mmm. È sicuro che sia Mark Wu?» Gideon si ritrovò inspiegabilmente nervoso. «Così c’è scritto sul registro.» L’uomo confrontò il portablocco con il numero dell’etichetta attaccata al sacco. Gideon sentiva nella tasca il manico di plastica dura del taglierino. Nonostante l’aria fredda dell’obitorio, era viscido a causa del sudore sulla mano. Sarebbe stata una dura prova. Deglutì e cercò di prepararsi.
«Vorrei restare un attimo da solo con lui.» Aveva cercato di formulare la richiesta con un piccolo singhiozzo finale. Non gli venne bene, sembrò più uno spasmo. Stavolta in risposta ebbe un cenno. Con ogni probabilità nemmeno l’assistente moriva dalla voglia di restare là dentro più dello stretto necessario. «Cinque minuti?» «Mmm, e se facessimo dieci?» Seguì un altro singhiozzo... migliore, stavolta. Ottenne un grugnito d’approvazione. «Aspetterò in corridoio.» «Grazie.» L’uomo uscì e la porta si richiuse alle sue spalle. Le lampade a fluorescenza ronzavano debolmente; il sistema di ventilazione sibilava, l’odore nella stanza era così forte... Gideon ebbe la sensazione d’esserne impregnato. Dieci minuti. Meglio muovere il culo. Prese le radiografie, ricontrollò la collocazione del filo. Era nella parte interna della coscia sinistra, dove Wu lo avrebbe raggiunto facilmente. Per la stessa ragione non poteva essere in profondità. Con un po’ di fortuna il segno o la crosta del punto di inserzione sarebbero stati ancora visibili, presumendo che la pelle non si fosse deteriorata molto negli ultimi cinque giorni. Fece un profondo respiro, si protese e afferrò la lampo. Gli sembrò un piccolo verme freddo, schiacciato tra pollice e indice. Esitò, fece un altro respiro. Poi abbassò la cerniera mettendo in mostra la faccia, il petto nudo privo di peli, il taglio a Y rozzamente ricucito dopo l’autopsia. Il corpo era stato lavato malamente, erano rimasti parecchi grumi e strisce di sangue, diverse tracce di cose varie. C’erano numerosi tagli e lacerazioni che erano stati ricuciti con maggior cura, ovviamente quando Wu era ancora vivo. L’odore era insopportabile. Con la mano sinistra estrasse il taglierino dalla tasca, lo asciugò e con il pollice aprì la lama. Era il momento. Con un ultimo strattone abbassò completamente la cerniera e guardò. Sconvolto, rimase senza fiato. «Le gambe!» urlò. «Cosa diavolo...? Dove sono finite le gambe?»
CAPITOLO 55 Alcuni isolati a nord del terminal dei pullman di Port Authority, proprio vicino all’Hudson River, sorgeva un edificio di dieci piani di calcare marrone quasi privo di finestre, che occupava un intero isolato. In origine era lo stabilimento e il quartier generale della New Amsterdam Blanket and Woolen Goods Corporation. In seguito, quando l’azienda aveva cessato l’attività, una società con grande spirito d’iniziativa lo aveva acquistato e convertito in una struttura di box a noleggio. Quando questa era fallita e lo stabile era stato sequestrato per il mancato pagamento di alcune tasse, la città aveva trasformato con poche modifiche i garage in ricoveri «temporanei» per senzatetto. Nota ufficialmente come Abram S.Hewitt Transitional Housing Facility e ufficiosamente come il Formicaio, dava alloggio a una vasta comunità di disillusi e diseredati. Gru che Annuisce si era stabilito proprio lì, al settimo piano. Gli andava alla perfezione. Con l’impermeabile e il cappello sporchi e la testa china, era uguale agli altri inquilini. La custodia rovinata della chitarra era l’unico elemento a conferirgli una certa distinzione in quell’ambiente squallido e miserabile. Alle due e quarantacinque di notte percorse lo stretto corridoio del settimo piano superando i vari alloggi, una fila di serrande chiuse identificate da un numero stampato, con la chitarra che gli batteva leggermente sulle gambe. Oltre le porte metalliche sentiva tossire, russare e altri rumori meno identificabili. Raggiunta infine la sua, aprì il lucchetto con la chiave, alzò la saracinesca, vi passò sotto, la abbassò e la fermò con la sbarra di sicurezza. Si allungò, tirò la cordicella per accendere la lampadina spoglia poi si guardò attorno. La finestra a fessura dava su un pozzo buio di aerazione. Nessuno aveva cercato di introdursi in quella minuscola stanza, ne era sicuro: aveva sostituito il lucchetto in dotazione con uno provvisto di un meccanismo di ritenuta a cinque perni e di un anello di acciaio inossidabile, e non era stato toccato. Eppure, gli veniva istintivo verificare. C’era poco da controllare: un futon fatto con cura, una valigia di pelle logora, una stuoia di carta di riso, una cassa di bottiglie da un litro di acqua minerale, alcuni rotoli di salviette di carta. In un angolo c’era un lettore portatile di musica e una pila di CD di blues stra-usati. In un altro una piccola fila ordinata di paperback di successo. Gru che Annuisce preferiva Hemingway, Twain e la letteratura sulle arti marziali della dinastia Tang: Fengshen Yanyi, I Briganti. Solo un oggetto in quel piccolo spazio poteva essere considerato decorativo: una fotografia, molto spiegazzata e sbiadita, di una catena montuosa bruna dall’aria desolata. Era l’altopiano del Pamir nella regione autonoma dello Xinjiang. Posata con cura la chitarra e appesi impermeabile e cappello a un
gancio metallico, Gru che Annuisce si sedette sulla stuoia di carta e fissò la fotografia con profonda concentrazione per cinque minuti esatti. Era nato su quell’altopiano, all’ombra di quelle montagne, lontano da qualsiasi villaggio. Suo padre era stato un povero e piccolo contadino ed era morto quando lui aveva meno di un anno. La madre aveva cercato di mandare avanti la fattoria. Un giorno, quando Gru che Annuisce aveva sei anni, si fermò da loro un uomo. Sembrava molto diverso da tutti gli altri e parlava un mongolo zoppicante, con uno strano accento. Disse di venire dall’America. Gru che Annuisce aveva sentito vagamente parlare di quel luogo. Disse di essere un missionario, in viaggio di villaggio in villaggio, ma a lui sembrava piuttosto un mendicante. In cambio di un pasto avrebbe pregato e insegnato loro la parola di Dio. La madre lo invitò a cenare con loro. L’uomo accettò. Mentre mangiavano, parlò di posti lontani, della sua strana religione. Era un po’ maldestro con le bacchette, si puliva la bocca sulla manica e continuava a bere a rapide sorsate da una fiaschetta. A Gru che Annuisce non piaceva il modo in cui continuava a fissare la madre con gli occhi lucidi. Di tanto in tanto si metteva a cantare: era una musica malinconica, triste, nuova per lui. Dopo cena, mentre bevevano il tè, cominciò a palpeggiarla. Quando lei si ritrasse, la gettò a terra. Gru che Annuisce gli si buttò addosso e fu brutalmente spintonato via. Appena lo sconosciuto iniziò a violentare la madre, lui cercò di nuovo di difenderla, ma l’altro era forte e lo colpì con un mattone facendogli perdere i sensi. Al suo risveglio, trovò la madre strangolata. Alcuni giorni dopo i monaci Shaolin lo portarono via, a vivere con loro nel tempio. A parte il kung fu, tuttavia, la vita monastica non si rivelò di suo gradimento, e quand’ebbe appreso tutto ciò che i santi uomini potevano insegnargli scappò prima a Hohhot e poi a Changchun, dove visse per strada e divenne un abile ladro. La polizia statale lo arrestò e, notando il suo talento, lo mandò all’Ufficio 810 perché fosse sottoposto a un addestramento speciale. Ogni giorno Gru che Annuisce faceva quell’amara riflessione mentre fissava la fotografia sbiadita della sua casa lontana. Era il suo personale modo di meditare. Si alzò, effettuò una serie piuttosto lunga di esercizi respiratori e di riscaldamento. Poi, in assoluto silenzio, eseguì i ventinove passi rituali del kata «ghigliottina volante». Con il respiro un po’ più affannoso, si risedette sulla stuoia di carta di riso. Gideon Crew aveva quasi raggiunto l’obiettivo. Lo avrebbe condotto a ciò che cercava. Mentre vi si avvicinava, sarebbe stato eccitato, spinto dalla fretta. Era il momento giusto per colpirlo, pugnalarlo inaspettatamente al fianco. Aveva ucciso quella ragazza proprio per questo scopo. «Non dare tregua al nemico» aveva scritto Sun Tzu. «Attaccalo quando è impreparato, compari là dove non sei atteso.» Da quella notte di molti anni
prima sull’altopiano del Pamir, Gru che Annuisce non aveva più sorriso. Ciononostante, ora avvertiva dentro di sé un’intensa sensazione di calore, di appagamento per la violenza compiuta e di attesa per quella che sarebbe seguita. Infilando la mano in uno strappo nell’orlo del futon, estrasse una valigetta antiproiettile nascosta in una cavità ricavata nell’imbottitura. Disarmò il congegno esplosivo, poi la aprì. Dentro c’erano sei cellulari, passaporti cinesi, svizzeri, britannici, americani, varie migliaia di dollari in diverse valute, una Glock 19 con silenziatore e un unico fazzoletto di seta chiara con un complicato ricamo. Lo prese con cura, con amore. Era appartenuto a sua madre. Se lo stese sulle ginocchia, mise l’altra mano nella tasca dell’impermeabile e tirò fuori la serie di plettri: uno per il pollice e quattro per le altre dita. Erano ricoperti di sangue e materia, avevano perso il caratteristico splendore. Prese una bottiglia d’acqua minerale, la aprì e vi inzuppò una salvietta di carta. Poi dispose i plettri di fronte a sé, uno alla volta. Molto tempo prima aveva dato loro un nome, li aveva chiamati in base alle divinità mitologiche, e ora, mentre li puliva a turno, meditò sul nome e sulla personalità di ciascuno. Mignolo: Ao Guang, il drago re del mare orientale che un tempo aveva seminato il caos nel mondo peccatore. Anulare: Fei Lian, il dio del vento. Medio: Zhu Rong, il dio del fuoco. Indice: Ji Yushyu Xuan, il dio della tenebra infinita. E, signore di tutti, il plettro del pollice, Lei Gong, il «duca del tuono», con il compito di punire i mortali che deviavano dal cammino della verità. Gru che Annuisce usava il plettro del pollice per ancorare la mano alla trachea delle vittime mentre gli altri squarciavano. Era particolarmente sporco e richiese una seconda applicazione d’acqua per essere pulito in modo soddisfacente. I plettri tornarono finalmente a brillare, la loro pace e il loro equilibrio vennero ripristinati con cure amorevoli. Ora avrebbero riposato, in attesa del nuovo esercizio in programma. Gru che Annuisce avrebbe seguito la loro guida. Li avvolse nel fazzoletto della madre e li mise in una piccola scatola di legno. Poi, allungatosi sul futon, si addormentò tra i rumori notturni intermittenti del Formicaio.
CAPITOLO 56 «Dove sono finite le gambe?» Gideon perdeva di rado il controllo, ma stavolta era fuori di sé, completamente sconvolto. L’assistente entrò di corsa. «Ehi, amico, stia calmo...» «Nessuno me l’ha detto! Nessuno ha chiesto il mio permesso!» «Senta, la smetta di urlare...» «Vaffanculo!» La sua voce echeggiò più volte nei corridoi spogli. Si udì un rumore di piedi che correvano. «Non può urlare qua dentro. Se non si calma, dovrò chiamare la sicurezza.» «Faccia pure! La chiami! Chieda loro chi ha rubato le... le gambe del mio amante!» Anche in preda alla furia, doveva attenersi alla parte. Un altro assistente entrò, seguito da una guardia della sicurezza. Gideon li aggredì. «Voglio sapere dove sono le gambe di Mark!» «Scusatemi» intervenne un uomo facendosi strada nel gruppo stupefatto. Di fronte al panico mantenne un’aria autorevole, tranquilla. «Sono un tecnico di laboratorio. Signore, si deve calmare.» Poi si rivolse all’assistente: «Vada a prendere la cartella del defunto». «Non mi serve quella. Mi servono le gambe!» «Ma ci dirà cos’è successo alle gambe» spiegò l’uomo posando una mano sul braccio di Gideon per placarlo. «Capisce? Dobbiamo scoprire cosa sia successo. Sospetto...» esitò, prima di proseguire: «... che siano state amputate». La parola «amputate» rimase sospesa nell’aria come un cattivo odore. «Ma...» Gideon s’interruppe. Sì, doveva essere andata proprio così. Le gambe erano state schiacciate, maciullate al di là di ogni possibilità di recupero. Dovevano essere state amputate nel tentativo di salvargli la vita. Avrebbe dovuto capirlo quando aveva visto per la prima volta le radiografie. L’assistente tornò, seguito dalla receptionist bionda che teneva in mano un foglio di carta appena stampato. Il tecnico di laboratorio lo prese, lo scorse e lo allungò a Gideon. Il referto confermava l’amputazione degli arti inferiori alcune ore dopo l’incidente, senza dubbio poco dopo l’effettuazione delle radiografie. Gideon guardò di nuovo il foglio. Era accaduto quasi una settimana prima. Ormai erano perdute per sempre. Deglutì. La delusione fu così grande da ammutolirlo per qualche secondo. «Di nuovo tutto sotto controllo» affermò il tecnico di laboratorio, quindi gli altri iniziarono ad andarsene. Gideon recuperò la voce. «Dove... dove sono finite?» L’uomo continuò a tranquillizzare Gideon tenendogli con delicatezza il
braccio. «Tra i rifiuti sanitari. Sono state eliminate.» «Ah, sì? E cosa accade ai rifiuti, vengono portati in una discarica o roba del genere?» «No. Vengono bruciati.» «Oh.» Gideon deglutì. «E... quanto ci vuole?» «Non li conservano a lungo, ovviamente. Senta, mi spiace davvero, ma le gambe non ci sono più. Anche se per lei è stato uno shock... be’, il suo amico è morto.» Gesticolò in direzione del corpo. «Questo è solo un guscio abbandonato. Lui è andato da un’altra parte, e là dove si trova ora non deve camminare come noi. Almeno questo è ciò in cui credo.» « È solo che...» Gideon tacque. Non poteva credere di aver fallito. «Mi spiace tanto» ripeté l’uomo. Gideon annuì. «Posso esserle utile in qualche altro modo?» «No» rispose stanco lui. «Qui ho finito.» Chiuse la cerniera del sacco e spinse il cassetto. Si chiese cosa avrebbe detto Eli Glinn. Mentre si giravano, notò per la prima volta sulla soglia una donna afroamericana piuttosto grossa e imponente con il camice da chirurgo e la mascherina abbassata. Si schiarì la gola. «Non ho potuto fare a meno di sentire» affermò. «Sono la dottoressa Brown» disse, «uno dei medici legali.» Il tecnico di laboratorio la salutò, poi calò il silenzio. La dottoressa Brown iniziò a parlare con molta dolcezza. «Mi può ripetere il suo nome, signore?» «Gideon Crew.» «Signor Crew, ho un’informazione che forse potrebbe darle un po’ di conforto.» Gideon si preparò a un’altra filippica religiosa. «Il signor Correlli ha ragione. Nel nostro Paese le parti corporee asportate chirurgicamente finiscono, secondo la procedura standard, nel flusso dei rifiuti sanitari. Ma in questo caso non può essere successo.» «Perché no?» «Qui a New York abbiamo un sistema insolito, forse persino unico. Quando un arto viene rimosso in un intervento chirurgico, se il paziente non dà indicazioni specifiche, esce dal reparto di patologia, viene posto in una scatola e mandato al cosiddetto campo del vasaio per essere sepolto.» Gideon la fissò. «Al campo del vasaio?» «Esatto. È il luogo dove vengono seppelliti i poveri. Prende il nome dalla Bibbia, di preciso dal campo in cui Giuda si è ucciso.» «La città di New York ha un cimitero per i derelitti?» «Certo. Quando una persona muore e il corpo non viene reclamato da nessuno, o se la famiglia non può permettersi il funerale, la città seppellisce i resti là. Lo stesso vale per gli arti non reclamati.»
«Dove si trova questo... cimitero?» «Su Hart Island.» «Hart Island?» ripeté Gideon. «Dov’è?» «A quanto ne so, è un’isola disabitata nello stretto di Long Island.» «Le gambe sono state sepolte là?» «Senza dubbio.» «C’è modo di... ritrovarle?» «Sì» rispose il medico legale. «Dopo essere passati dal reparto di patologia, corpi, arti e quant’altro vengono collocati in contenitori numerati ed etichettati, e seppelliti in modo tale da essere recuperabili per analisi anatomopatologiche o forensi. Perciò non deve preoccuparsi. Le gambe del suo amico hanno ricevuto una degna sepoltura.» «Sono così sollevato!» Gideon fece uno sforzo per controllare il battito frenetico del cuore. Era una notizia incredibile, inconcepibile. L’anatomopatologa gli diede un colpetto affettuoso sulla spalla. «Bene, spero di averle arrecato un po’ di conforto.» «Sì» rispose lui. «Sì, è così. Anche se...» A quel punto rivolse al medico legale uno sguardo implorante, pieno di sentimento. «Vorrei poterle vedere. Piangere. Lei di certo capirà...» Nonostante tutta la padronanza di sé, la dottoressa Brown sembrò sconcertata. «Be’, signor Crew, capisco il suo stato d’animo, ma lei può piangere questi resti.» «Ma è solo una parte di lui.» Gideon assunse la voce tremolante di uno che sta per crollare da un momento all’altro. La Brown rifletté e quindi parlò: «In alcune rare occasioni un medico legale ha avuto necessità di recuperare resti umani. È sempre un’impresa enorme, richiede un sacco di carte, settimane di tempo. È indispensabile un ordine del tribunale. L’accesso ad Hart Island è vietato a qualsiasi visitatore. La sepoltura viene effettuata dai prigionieri di Rikers Island». «Ma se si possono recuperare gli arti, come fanno a sapere dove sono? Ne hanno traccia?» «I contenitori numerati vengono impilati in ordine nelle fosse. Quando ne riempiono una, mettono una lapide di cemento in cima e ne iniziano una nuova.» «E per trovare il numero e il posto? Voi li sapete?» Il medico legale prese la stampata dal tecnico di laboratorio e la consultò aggrottando la fronte. «I file, qui, hanno un numero.» Gideon tese la mano. «Posso?» Lei gli porse la stampata e lui trascrisse la sequenza pescando una penna dalla tasca: 695998 MSH. «Grazie, grazie molte.» «La posso aiutare in qualche altro modo?» domandò la donna. «Mi attendono da tempo per un’autopsia, se non le spiace. Purtroppo siamo un
po’ a corto di personale.» «No. La ringrazio di cuore, dottoressa Brown. Trovo da solo l’uscita.» «La accompagno fino alla sala d’attesa.» Gideon seguì la sagoma massiccia e rassicurante in corridoio, oltre la sala autopsie ancora in piena attività. Al suo interno erano rimasti almeno una decina di detective della Omicidi e agenti di polizia; altri si erano spostati in corridoio e lo ostruivano quasi del tutto. Proprio mentre li superava, Gideon notò dall’altra parte della porta i giornalisti che, accalcati, urlavano e spingevano. «Dev’essere stata una brutta faccenda, quell’omicidio» osservò. «Un crimine brutale» rispose concisa la Brown. «Scusate» disse spingendo la porta e cercando di superare una troupe televisiva particolarmente aggressiva. Non appena la stampa si accorse del camice da chirurgo, avanzò strepitando. «Buona fortuna.» Mentre la folla la bersagliava di domande, lei si ritirò dietro la porta. «Sospettati!» gridò qualcuno. «Ci sono sospettati?» «Dov’era nascosto il corpo nella chiesa?» Gideon cercò di fendere la calca che continuava a gridare domande alla porta chiusa. «... testimoni o piste?» Con una gomitata spinse di lato un robusto tecnico del suono e si diresse all’uscita. «... Anche in questo caso la gola è stata squarciata come a Chinatown?» Gideon si bloccò di colpo e si girò. Chi lo aveva detto? Osservò la folla in subbuglio e afferrò un reporter che si aggirava ai lati con un registratore in mano. «Quest’omicidio... cos’è la storia della gola squarciata?» «Lei è un testimone?» chiese l’uomo in tono ansioso, tendendogli la mano. «Bronwick del “Post”.» Gideon lo fissò. Aveva denti gialli, da furetto, che gli spingevano in fuori il labbro inferiore, e un incongruo accento cockney. «Forse. Risponda alla mia domanda: la gola è stata squarciata?» «Sì. Un omicidio orribile. Hanno trovato il corpo di una donna nascosto sotto una panca a Saint Bart. Era quasi decapitata, uguale al tizio di Chinatown. Ora: il suo nome, signore? E in quale modo è legato al caso?» Gideon lo afferrò con più forza. «Ha detto una donna? La vittima era una donna? E si chiamava...?» Avvertì una sensazione improvvisa, indefinibile, spaventosa, come se degli insetti gli stessero rodendo i nervi. «Una ragazza, sì, sotto i trenta...» «Il nome!» Lo scosse. «Devo saperlo!» «Stia calmo, amico. Si chiamava Marilyn...» Consultò gli appunti. «Marilyn Creedy. Ora tocca a lei, signore. Mi dica cosa sa.» Gideon gli diede uno spintone e partì di corsa, senza fermarsi.
CAPITOLO 57 L’alba sorse sul Central Bronx Hospital, una macchia color giallo sporco che si diffuse a poco a poco nel cielo sopra la Mosholu Parkway. Gideon Crew guardò dal finestrino graffiato del Lexington Avenue Express senza vedere niente, senza udire niente e senza provare niente. Era sul treno da ore, andava dal capolinea sud all’ultima fermata a nord, da Utica Avenue nel Queens a Woodlawn nel Bronx e ritorno, viaggiava al di là di ogni emozione nella landa grigia della mera esistenza. Erano anni che non si lasciava andare, ma si era ritrovato a piangere per la rabbia e il dolore, la stupidità e l’egoismo. Ora però era oltre tutto ciò. Era uscito dall’altra parte del tunnel e la sua mente aveva ripreso a funzionare, lenta ma costante. Analizzava attentamente i fatti. Gru che Annuisce aveva assassinato Orchid e aveva nascosto il corpo con molta cura in modo da avere tutto il tempo di sparire indisturbato dalla circolazione. L’aveva uccisa per due ragioni. Primo, la ragazza era venuta a conoscenza di qualcosa e pertanto doveva metterla a tacere. Ma, fatto più importante, il cinese voleva stanare lui. Sotto questo profilo lo aveva inquadrato alla perfezione: con l’omicidio lo avrebbe senz’altro scovato. Gru che Annuisce doveva morire. Non c’era altro modo. Gideon aveva trascinato Orchid in quell’orrore; doveva vendicarla. E Gru che Annuisce si aspettava esattamente questa reazione. Nelle lunghe ore sul treno Gideon aveva studiato i dettagli. Quello che entrambi cercavano era sepolto ad Hart Island. Sarebbero andati tutti e due là a prenderlo, ma solo uno sarebbe tornato. Gideon tuttavia non era un pazzo, e sapeva di dover predisporre le cose a suo favore. A quel punto sarebbe entrata in gioco Mindy Jackson. Si era dimostrata abile. Sarebbe stata la sua arma segreta. Prese il cellulare dalla tasca e compose il suo numero di telefono. Con sua grande sorpresa rispose subito. «Gideon?» «Dove sei?» «In centro. Finora non ho avuto fortuna con la donna. E tu? Hai scoperto qualcosa?» «Tutto.» Ci fu silenzio, poi un freddo: «Racconta». «Prima però voglio una promessa. Faremo tutto a modo mio.» Dopo un’altra pausa di esitazione: «Va bene. D’accordo». «Wu non contrabbandava i piani di un’arma: portava un pezzo di filo inserito nella gamba, fatto di un materiale nuovo, rivoluzionario. I numeri sono la formula, la ricetta. Metti insieme i due elementi e hai tutto.» «Di quale materiale nuovo stiamo parlando?»
«Di un superconduttore a temperatura ambiente.» Gideon le spiegò la rilevanza e restò colpito dalla rapidità con cui lei comprese ripercussioni... e rischi. «Le gambe» proseguì, «sono state amputate dopo l’incidente. Sono sepolte in una fossa comune ad Hart Island, il cimitero dei poveri di New York. Ho un paio di cose da sbrigare, poi stasera vado a recuperarle.» «Come farai a trovarle?» «Le parti del corpo vengono etichettate e seppellite in contenitori. Ho il numero del nostro. Potrebbe essere necessario fare un po’ di... cernita. Ho studiato tutto. A City Island, dopo il ponte sulla destra, c’è un posto dove si noleggiano dei fuoribordo. Murphy’s Bait & Tackle. Vediamoci lì alle dieci.» «Quanto dista l’isola dalla costa?» «Circa un miglio a nordest di City Island, nel centro dello stretto di Long Island, di fronte a Sands Point. Porta un fucile di precisione.» «Magnifico. Come hai...?» Lui la interruppe. «Gru che Annuisce sarà là.» «Oh, Gesù.» «Ricordati il patto. Faremo tutto a modo mio. Niente squadre di agenti della CIA che piombano sull’isola e lo mettono in fuga. Solo tu e io.» Chiuse di colpo il telefono. Poi raccolse una cartaccia dal pavimento della carrozza e cominciò ad annotarvi qualcosa. Gru che Annuisce era seduto dall’altra parte della strada, di fronte a Saint Bart, e strimpellava la malandata chitarra. La polizia era andata e venuta, le transenne erano state tolte, le squadre di pulizia avevano risistemato la chiesa. Tutto era tornato alla normalità. Era una splendida mattinata, c’erano solo alcune nubi vaporose che correvano sullo sfondo azzurro. Ora doveva solo aspettare. I want my lover, come and drive my fever away. Crew arrivò dalla 49th Street, controcorrente rispetto alla massa di pendolari, svoltò l’angolo e imboccò la Park. Perfettamente in orario. Non provò la minima soddisfazione nel notare la sua aria da cadavere resuscitato: stravolto, scarmigliato, gli occhi ridotti a due pozze scure. Lo vide attraversare Park Avenue e dirigersi dritto verso il punto in cui aveva piazzato la custodia aperta della sua chitarra per raccogliere l’elemosina. Continuò a suonare e a cantare con voce dolce. Quando Crew gli si parò davanti, stava sempre strimpellando e cantando. La folla del mattino fluiva loro accanto; non avrebbe potuto fare niente di inconsulto. Doctor says she’ll do me more good in a day. Crew gettò una carta appallottolata nella custodia, in mezzo alla manciata di banconote e monete, e rimase immobile.
Gru che Annuisce terminò la canzone e infine sollevò la testa. I loro sguardi si incrociarono. Si fissarono per quasi un minuto e negli occhi di Crew percepì un odio implacabile, che lo scaldò più del fuoco. Poi Gideon all’improvviso si girò e tornò da dove era venuto, verso la Lexington Avenue. Quando se ne fu andato, Gru che Annuisce prese la carta stropicciata e la aprì ritrovandosi davanti un messaggio scribacchiato. Gru che Annuisce appallottolò lentamente il foglietto nel pugno mentre un’aria di profonda soddisfazione gli si diffondeva sul volto.
CAPITOLO 58 Ovunque ci fossero spacciatori c’erano armi. E il centro del traffico di droga a New York, almeno per le strade, era il quartiere ironicamente chiamato Mount Eden, nel South Central Bronx. Gideon era seduto sul treno D che da Manhattan sfrecciava verso nord, con un rotolo di banconote in tasca, e non vedeva l’ora di spenderle. Aveva molta fretta e quello era l’unico modo per procurarsi facilmente una pistola, anche se non era uno dei più intelligenti. Mentre il treno lasciava la stazione di 161st Street Yankee Stadium, un uomo appena salito andò a sederglisi accanto. Impiegò qualche istante a riconoscere Garza camuffato da artista, con un basco nero e una giacca da marinaio. «Cosa sta combinando per l’esattezza?» gli domandò. Il tono non era più tanto affabile come all’inizio. «Il mio lavoro.» «Ha perso il controllo. Deve calmarsi, rallentare i ritmi, venire a discutere della fase successiva con noi.» «Questa faccenda non vi riguarda» ribatté lui senza preoccuparsi di tenere la voce bassa. «È personale.» «Si sta lasciando coinvolgere troppo. Non ho mai visto niente di così poco professionale. Eli ha sbagliato a fidarsi di lei. Rischia di compromettere la missione con la sua avventatezza.» Gideon non rispose. «Andare alla Throckmorton Academy, spacciarsi per un genitore... una mossa davvero assurda! D’ora in poi vogliamo sapere cosa farà e dove andrà. Se crede di poter battere Gru che Annuisce, è pazzo.» Gideon percepì che Garza non sapeva nulla di Hart Island. Essere per una volta in vantaggio su Glinn e sul suo abile compare gli procurò una certa soddisfazione. «Gestirò la faccenda di persona.» «No, non lo farà. Ha bisogno di rinforzi. Non faccia l’idiota.» Gideon ebbe un moto di scherno. «Dove lo incontrerà?» «Non sono affari suoi.» «Faccia di testa sua, Crew, e le togliamo l’incarico. Glielo giuro su Dio.» Gideon esitò. Quella era una complicazione di cui non aveva bisogno. «Al Corona Park. Nel Queens.» Passò un secondo. «Al Corona Park?» «Sa, dove c’era la vecchia Fiera mondiale. Ci incontriamo alla Unisphere.» Silenzio. «Quando?»
«Stasera a mezzanotte.» «Perché là?» «Un posto vale l’altro.» Garza scosse la testa. «Gru che Annuisce ha ucciso una mia amica. Adesso si tratta di me o di lui. Come ho detto, è diventata una questione personale. Sistemata questa faccenda, mi occuperò della vostra. Non cercate di fermarmi.» Garza rimase zitto per un po’, poi annuì. Quando il treno entrò nella stazione successiva, si alzò e se ne andò con un’aria disgustata sul volto. Crew scese tra la 170th e Grand Concourse. Si incamminò in direzione est, verso il parco, superando una fila di edifici abbandonati. Quando vide un posto triste con la terra al posto dell’erba e rifiuti sparsi ovunque capì di essere arrivato, rallentò e prese a gironzolare come uno dei tanti abitanti delle periferie in cerca di droga. Venne quasi subito avvicinato da uno spacciatore, il quale lo superò e mormorò a mezza voce: «Fumo, fumo». Lui si fermò e si girò. «Sì.» Il pusher deviò e tornò indietro. Era un ragazzo basso, curvo, con una cresta di capelli in testa, i pantaloni a vita bassa e le mutande in bella vista. «Cosa ti serve? Ho fumo, biancaneve, ero...» «Una pistola.» Ci fu silenzio. «Pago bene» proseguì Gideon. «Ma mi serve qualcosa di grosso calibro, della migliore qualità.» All’inizio lo spacciatore parve non sentire. Poi borbottò qualcosa che sembrò un «aspetta qui» e si allontanò lento. Gideon attese. Venti minuti dopo il ragazzo tornò. «Stammi dietro» disse. Gideon lo seguì all’esterno del parco e quindi all’interno di un edificio fatiscente sulla Morris Avenue, una vecchia casa di arenaria con le finestre a pezzi e l’interno buio, dalla quale fuoriusciva una puzza di piscio. Per quanto pericoloso fosse, era meglio che chiederla di nuovo a Garza. Non voleva essergli più riconoscente del necessario. Stranamente non provava nervosismo e nemmeno paura. Niente, tranne la rabbia. Lo spacciatore si avvicinò alla squallida tromba delle scale, fece un fischio verso l’alto e ne ricevette un altro come risposta. «Primo piano» mormorò. Gideon salì le scale schivando preservativi usati, fiale di crack e vomito. Raggiunse il pianerottolo, sul quale lo stavano aspettando due ispanici, entrambi con addosso costose tute da ginnastica e grosse sneaker bianche. Il più alto, chiaramente il capo, aveva una barba ben curata di cinque giorni, parecchi anelli e catene d’oro, ed esalava un forte odore di Armani Attitude. Il più basso sfoggiava una bella serie di herpes labiali. «Vediamo i soldi» disse lo Spilungone con un ghigno sicuro di sé. «Prima la pistola.» Il capo cacciò le mani in tasca e appoggiò la schiena al muro squadrando Gideon da capo a piedi. Era alto e usava la sua statura per
intimidire. Aveva tuttavia uno sguardo stupido. «Ce l’abbiamo.» «Tirala fuori. Non ho tutto il giorno.» Quello basso con l’herpes infilò la mano nella giacca ed estrasse a metà una Beretta nove millimetri. «Il prezzo?» «Quanto hai?» Gideon sentì la rabbia, già intensa, salirgli nel petto. «Senti, bello. Dimmi il prezzo. Poi la provo; se va bene ti pago, se non va bene me ne vado.» Lo Spilungone annuì e increspò le labbra. «Fagliela vedere.» Herpes allungò la pistola a Gideon. Lui la prese, la esaminò e fece scorrere alcune volte l’otturatore. «Il caricatore?» Comparve il caricatore. Gideon lo prese e si accigliò. «Le cartucce?» «Senti, amico, evitiamo le sparatorie qui.» Gideon rifletté. Avevano ragione. Avrebbe dovuto provarla dopo, sul campo. Afferrò il caricatore, lo inserì, alzò l’arma e premette il grilletto. Sembrava in ottime condizioni. «La prendo.» «Duemila.» Era parecchio per una pistola da settecento dollari. La guardò attentamente. Il numero di serie era stato limato, anche se magari con l’acido sarebbe ricomparso. Tastò nella tasca della giacca dove aveva messo i contanti, divisi in mazzette da cinquecento tenute da elastici. Ne scelse quattro e li tirò fuori. Mise l’arma in tasca e diede i soldi allo Spilungone. Fece per andarsene e sentì una voce. «Solo un momento.» Si voltò: aveva un’arma puntata contro. «Il resto dei soldi» ordinò lo Spilungone. Gideon lo fissò. «Mi state rapinando? Rapinate me, un cliente?» «Hai afferrato, amico.» Gideon aveva altri duemila dollari in tasca. Prese una decisione rapida, estrasse il denaro e lo gettò per terra. «È tutto.» «Anche la pistola.» «Questo è troppo.» «Allora di’ addio al tuo culo bianco.» Ghignarono entrambi mirandogli contro. «Al mio culo bianco?» ripeté incredulo Gideon. Frugò in tasca, estrasse la pistola e la puntò contro i due. «Non è carica, coglione.» «Se ve la restituisco, promettetemi di lasciarmi andare» piagnucolò lui porgendogliela. «Certo.» L’assicurazione fu seguita da un sorriso ampio e imbecille. La mano di Gideon tremava tanto che iniziarono a ridere. Lo Spilungone si allungò per prendere l’arma e in quell’attimo di distrazione Gideon attaccò Herpes: gli fece volare via di mano la pistola e nel frattempo lo colpì al ginocchio con un piede, per poi ruotare e togliersi dalla linea di tiro dello Spilungone.
Mentre Herpes cadeva gridando, lo Spilungone sparò e Gideon sentì il proiettile sfiorargli la giacca all’altezza della spalla. Con un urlo furioso gli si lanciò addosso, facendolo crollare come un albero marcio e strappandogli la pistola. Gliela cacciò nell’occhio e gliela premette contro il globo. «No, no, ooh!» gridò l’altro per il dolore, cercando di girare la testa, ma la canna premeva con tanta forza che fu costretto a star fermo. «Smettila, ti prego, o cazzo, non farlo! Il mio occhio!» Recuperata la pistola, Herpes si era rimesso in piedi e l’aveva puntata contro Gideon, il quale urlò a squarciagola: «Buttala o sparo! E poi ti uccido!». «Buttala» strillò lo Spilungone. «Fallo!» Herpes uscì zoppicando dalla stanza senza buttarla. Stava per mettersi a correre, intuì Gideon. Al diavolo, scappi pure. Herpes partì di scatto. Gideon udì i suoi passi risuonare secchi sulle scale, poi uno schianto quando cadde in preda al panico. Seguì un’altra corsa claudicante e poi ancora silenzio. «Sembra siamo rimasti solo noi due» disse Gideon. Sentiva il sangue caldo corrergli lungo il braccio. Evidentemente il proiettile l’aveva colpito. Vedeva sporgere un pezzo di stoffa. La zona della ferita era intorpidita, insensibile. Lo Spilungone singhiozzando farfugliò qualcosa d’incoerente. Continuando a tenergli la canna premuta nell’orbita, Gideon gli tastò la giacca e prese i soldi. Trovò un’altra mazzetta, ben più grossa: erano almeno cinquemila. Prese anche quella, insieme a un coltello. Poi, ripensandoci, gli strappò i gioielli d’oro dal collo, gli sfilò a forza gli anelli con i diamanti e afferrò il portafoglio. Tastando le tasche, prelevò le chiavi dell’auto e quelle di casa, spiccioli vari e cinque o sei cartucce da nove millimetri, che erano state rimosse dal caricatore della Beretta. Gli allontanò la pistola dall’occhio. Lo Spilungone, steso per terra, frignava come un bambino. «Ascoltami, Fernando» disse Gideon guardando la patente. «Ho le tue chiavi. Conosco il tuo indirizzo. Prova solo a farmi qualche scherzo: vengo a cercarti, ammazzo te, la tua famiglia, il cane, il gatto e anche il pesciolino rosso.» L’uomo si lasciò sfuggire un gemito e si coprì la faccia con le mani dondolandosi per terra. Mentre si allontanava dall’edificio, Crew si accertò che Herpes non fosse appostato nei paraggi, poi si avviò verso la stazione della metro di Grand Concourse. Per strada buttò le chiavi, i gioielli pacchiani e il portafoglio in un tombino, tenendosi soldi e pistole: adesso ne aveva due. Sgattaiolò in un portone ed esaminò il bottino. La seconda era una Taurus Millennium Pro calibro 32 ACP pronta all’uso. Mise le cartucce da nove millimetri nel caricatore della Beretta, lo inserì con decisione e infilò entrambe le armi nella cintura, sulla schiena. Poi si tolse la giacca e si
esaminò la spalla. Non era proprio la ferita superficiale che credeva, ma aveva leso solo la carne. Si rimise la giacca e guardò l’orologio. Le dieci. Mentre si dirigeva verso la metropolitana, si fermò in un drugstore dove comprò un cerotto a farfalla; nel bagno se lo applicò alla spalla. Poi entrò in un grande magazzino dove acquistò un notes, carta, penne e una spessa busta manila. Infine si rifugiò in una caffetteria della zona per scrivere il suo testamento.
CAPITOLO 59 La caffetteria era un posto allegro, un solido baluardo contro la sporcizia e la disperazione esterne. Una cameriera energica con i capelli corti e una maschera di fondotinta arrivò sollecita. Aveva almeno sessant’anni, ma quanto a spirito era una ragazzina. «Cosa posso portarti, tesoro?» Era perfetta. Per la prima volta da tanto tempo Gideon provò una sensazione positiva. Si sforzò di sorridere. «Caffè, uova fritte su entrambi i lati, bacon e pane bianco.» «Certo.» La donna si allontanò e lui aprì il notes riflettendo. C’erano due cose che amava al mondo: la sua capanna sui monti Jemez e il disegno di Winslow Homer. Lo schizzo doveva tornare al Merton Art Museum di Kittery, nel Maine, a cui lo aveva sottratto anni prima. Ma la capanna... voleva lasciarla a qualcuno capace di amarla come aveva fatto lui, che non la facesse andare in rovina e resistesse alla tentazione di venderla a un costruttore. Anche se avesse sconfitto Gru che Annuisce, ed era un grosso «se», sapeva di non aver ancora molto da vivere. La cameriera gli servì la colazione. «Sta scrivendo il romanzo americano del secolo?» Lui le rivolse il suo miglior sorriso e lei si allontanò contenta. Mentre meditava sul suo destino, e negli ultimi tempi lo aveva fatto spesso, si rese conto di non avere nessuno. Aveva trascorso gran parte della vita a respingere le persone. Non aveva famiglia, veri amici né colleghi a cui fosse legato. Forse poteva considerare come amico Tom O’Brien, ma il loro rapporto era sempre stato affaristico, e Tom non era un uomo integro. La sua unica vera amica era stata una prostituta, e lui l’aveva fatta uccidere. «Ancora caffè?» chiese la cameriera. «Grazie.» Poi gli venne in mente un nome. Una persona di cui si poteva fidare. Charlie Dajkovic. Dalla morte del generale Tucker non aveva più avuto nessun contatto con lui. Dajkovic aveva passato un po’ di tempo in ospedale ma ora si stava riprendendo bene. Non erano amici, non esattamente. Ma era un tipo onesto e buono. Gideon iniziò a scrivere cercando di controllare il lieve tremore alla mano. Non era facile. A Dajkovic sarebbero andati la capanna e tutti gli oggetti al suo interno, fatta eccezione per il Winslow Homer. Lo nominò suo esecutore testamentario e lo incaricò di restituire il disegno (in modo anonimo) al Merton Art Museum. In vita aveva eluso tutti i sospetti; non voleva di certo essere identificato da morto. Non impiegò molto a ultimare il testamento. Rileggendolo, la sua mente andò alla pozza segreta in cui pescava nel torrente Chihuahueños. Ci erano
voluti anni di esplorazioni tra i monti Jemez per trovare quel posto: il più bello della terra. Dopo un attimo di riflessione, girò la lettera e tracciò una mappa per Dajkovic mostrandogli come arrivarci, aggiungendo alcuni suggerimenti sulle mosche da usare nei vari periodi dell’anno. Quello sarebbe stato il suo lascito più grande. Si augurò fortemente che a Dajkovic piacesse pescare. Quand’ebbe finito, chiamò la cameriera. «Altro caffè?» «Un favore.» La donna si illuminò all’istante. «Questa lettera» disse Gideon, «è il mio testamento. Mi servono due testimoni.» «Oh, tesoro, non avrà più di trent’anni, perché pensa a queste cose?» La cameriera gli riempì ugualmente la tazza. «Io ne ho molti più di lei e ancora non ci bado.» «Ho una malattia terminale.» Non appena lo ebbe detto si chiese perché mai si stesse confidando con quella sconosciuta. La cameriera gli posò con delicatezza una mano sulla spalla. «Mi dispiace. Ma non c’è niente di immutabile. Preghi il Signore e lui farà un miracolo.» Si girò. «Gloria? Vieni qui, questo signore ha bisogno del nostro aiuto.» Arrivò l’altra cameriera del locale, una ragazza grassoccia di circa vent’anni, radiosa in volto per il piacere di rendersi utile. Gideon si commosse di fronte a quelle due donne dal cuore grande, incontrate per caso. «Firmerò questo testamento» spiegò Gideon. «Voi due siete i miei testimoni. Mettete i vostri nomi qui, scrivendoli sotto in stampatello.» Gideon firmò, lo fecero anche loro e poi, mentre si alzava, la cameriera anziana spontaneamente lo abbracciò. «Preghi Dio» disse. «Non c’è niente che lui non possa fare.» «Grazie. Siete state entrambe molto gentili.» Le due donne si allontanarono. Gideon scrisse un biglietto di accompagnamento a Eli Glinn, chiedendogli di far pervenire la lettera a Dajkovic; poi la chiuse e la indirizzò a Glinn presso la Effective Engineering Solutions a Little West 12th Street. Prese la mazzetta rubata allo spacciatore, la infilò sotto il piatto capovolto e uscì rapido dalla caffetteria. Per strada, mentre si dirigeva verso la metropolitana, imbucò la lettera in preda a una forte autocommiserazione per la sua esistenza solitaria, incasinata. In un modo o nell’altro, sarebbe ben presto terminata. Forse la cameriera aveva ragione: avrebbe dovuto provare a pregare. Nient’altro aveva funzionato, nella sua misera vita.
CAPITOLO 60 Gideon prese la metropolitana fino al capolinea e salì sul bus per City Island. A mezzogiorno era davanti il Murphy’s Bait & Tackle su City Island Avenue con i gabbiani che gli volteggiavano sopra la testa. Era difficile da credere, ma quel sonnolento villaggio di pescatori faceva parte della città di New York. Entrò in un negozio angusto con tre pareti ricoperte di vetrinette e in fondo un gigante in maglietta. «Posso aiutarla?» tuonò questi con un cordiale accento del Bronx. «Lei è Murphy?» «L’unico e il solo.» «Vorrei noleggiare una barca.» Dopo aver velocemente compilato i moduli l’uomo lo accompagnò attraverso il negozio fino ai moli sul retro. Lì si trovavano ormeggiate una decina di piccole imbarcazioni di vetroresina, ognuna con un motore fuoribordo da sei cavalli, l’ancora e una tanica di benzina. «Sta arrivando un temporale» disse Murphy mentre faceva tutti i preparativi per la partenza. «Meglio se torna per le quattro.» «Non c’è problema» disse Gideon riponendo la canna da pesca e il contenitore per le esche acquistati per la copertura. Pochi minuti dopo partì, passò sotto il City Island Bridge ed entrò in acque aperte nello stretto di Long Island. Hart Island si trovava a circa mezzo miglio a nordest; era una massa lunga e bassa, indistinta nella caligine, dominata da una grossa ciminiera alta una quarantina di metri. Si era alzato il vento e la piccola barca fendeva la maretta con l’acqua che sbatteva contro lo scafo. Nubi scure correvano in cielo e i gabbiani cavalcavano le correnti stridendo forte. Gideon consultò la carta nautica comprata in precedenza e identificò a occhio nudo i vari punti di riferimento: Execution Rocks, Blauzes, Davids Island, High Island, Rat Island. Doveva memorizzare il più possibile. Gli sarebbero serviti per orientarsi nel buio nel caso quella notte fosse riuscito a sopravvivere. La barca avanzava a passo d’uomo. A poco a poco l’isola prese forma nella foschia. Lunga quasi un chilometro e mezzo, era costellata di gruppi d’alberi che crescevano qua e là tra gli edifici di mattoni in rovina. Quando fu a un centinaio di metri dalla costa, girò la barra del timone e iniziò a fare il periplo dell’isola osservandola con il binocolo. La grande ciminiera si levava da un complesso fatiscente sulla costa orientale: un tempo probabilmente era una centrale elettrica. Dappertutto c’erano scogliere e affioramenti
rocciosi. Insegne giganti, grandi quanto cartelloni pubblicitari, collocate a poche centinaia di metri l’una dall’altra lungo la costa, avvertivano i visitatori: DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA DELLA CITTÀ DI NEW YORK AREA INTERDETTA VIETATI L’ACCESSO, L’APPRODO E L’ANCORAGGIO I TRASGRESSORI SARANNO PUNITI Raggiungendo l’estremità settentrionale dell’isola, scorse una certa attività e mise il motore in folle studiando la scena col binocolo. Attraverso la coltre di querce, distinse un gruppo di carcerati in tuta arancione che lavoravano in un campo. Una scavatrice era ferma nei paraggi con il motore acceso. Stavano scaricando bare di pino dal retro di un camion e disponendole accanto a una fossa appena scavata. Una squadra di guardie penitenziarie bene armate si teneva a poca distanza e seguiva le attività in corso indicando e gridando istruzioni. Lasciando la barca alla deriva, Gideon continuò a osservare prendendo di tanto in tanto appunti. Quando infine fu soddisfatto, riaccese il motore e continuò lungo la costa occidentale dell’isola. A circa metà strada comparve una lunga spiaggia sabbiosa coperta di rifiuti portati dal mare, tra cui spazzatura varia, pezzi di legno e vecchi scafi di barche. La spiaggia terminava contro un frangiflutti di calcestruzzo, dietro il quale sorgevano il vecchio complesso della centrale elettrica e la grande ciminiera. Dipinto sulla facciata di mattoni dell’edificio principale c’era un messaggio lungo almeno trenta metri e alto dieci: PRIGIONE VIETATO AVVICINARSI Decise di attraccare accanto al frangiflutti, vicino a una palude salmastra, oltre una serie di scogli dall’aria infida. Gideon avvicinò la barca e la condusse lentamente tra gli scogli. Un istante dopo spense il motore, balzò in acqua e la tirò a riva. Controllò l’orologio: era l’una.
CAPITOLO 61 Gideon risalì la spiaggia, scavalcò il basso frangiflutti e sgattaiolò al riparo tra alcuni alberi, poi si fermò per fare il punto della situazione. A sinistra si estendeva un terreno senza recinzione, oltre il quale sorgeva la centrale elettrica in rovina. A destra, arretrato rispetto alla costa, c’era un agglomerato di casette modeste con tanto di strade, lampioni, vialetti d’accesso e marciapiedi. Sembrava un vecchio quartiere di periferia, anche se tutto stava cadendo a pezzi: le abitazioni diroccate, gli infissi delle finestre rotti e anneriti, i tetti infossati, i rampicanti che soffocavano i lampioni e fagocitavano le case, la strada stessa ridotta a una ragnatela di crepe da cui spuntavano erbacce e alberi stentati. Osservò tutto quanto rimanendo in estrema allerta. In lontananza, in fondo, udiva il vago rombo della scavatrice in funzione per preparare una fossa comune. Ma la parte intermedia dell’isola sembrava deserta. Prese dalla tasca una stampata di Google Earth e la studiò per qualche minuto. Poi iniziò a muoversi cauto lungo la strada invasa dalla vegetazione e sul vasto terreno in direzione del complesso fatiscente. Un blocco di calcare inciso, inserito nella facciata di mattoni del primo edificio, ne annunciava funzione e anno: SALA DINAMO 1912. Attraverso i vetri rotti delle finestre si vedevano dei macchinari giganteschi: volani di ferro, cinghie coperte di ruggine, tubi per il vapore, una caldaia enorme e un bruciatore avvolti da rampicanti cresciuti fino a uscire dal tetto sfondato. Gideon si avviò a nord verso il cimitero nascondendosi fra i cespugli e gli alberi a lato della strada, avanzando piano, controllando l’immagine di Google Earth, prendendo appunti e memorizzando tutto. Era un paesaggio post-apocalittico: un’intera comunità lasciata a decomporsi. Niente era stato chiuso o sbarrato con assi; era come se, mezzo secolo prima, tutti se ne fossero andati senza più tornare. C’erano auto sommerse dalle erbacce, un emporio con la merce ricoperta di muffa ancora sugli scaffali, case con gli stipiti delle porte spanciati, all’interno delle quali scorse i mobili mezzi marci, la carta da parati scrostata, un ombrello accanto alla porta, un vecchio cappello su un tavolo. Superò una chiesetta in rovina, squarciata e lasciata in balia degli elementi, una macelleria con i coltelli arrugginiti ancora appesi ovunque e, nella piazza centrale, una vecchia Barbie senza testa. Ai confini della cittadina giunse a un dismesso campo da baseball con le gradinate ricoperte dai rampicanti e il terreno ridotto a una piccola foresta. Gideon costeggiò le rovine di un sanatorio e le file di dormitori di una casa
di lavoro giovanile con il motto DIO E LAVORO inciso sulle architravi malandate. Lì era pieno di buche, di vecchi scantinati e fondamenta, alcuni esposti, altri coperti da pavimenti marci. Tutto era sul punto di crollare. Consultando di nuovo la stampata di Google Earth, individuò al di là dei dormitori un’ampia area circolare rivestita di calcestruzzo con varie botole metalliche arrugginite: erano i resti sotterranei della vecchia base di missili Nike. Mentre si avvicinava all’estremità settentrionale, gli edifici cedettero il posto a vasti campi incolti costellati qua e là di lapidi di cemento, numerate e imbiancate a calce. Il rumore della scavatrice si fece più forte. Gideon si inoltrò in un fitto bosco che fiancheggiava i campi e continuò verso nord. Dopo cinquecento metri il bosco si diradò aprendosi su un altro terreno; lì, si gettò a terra e avanzò sul ventre scrutando l’attività a un centinaio di metri più in là, in un’area appena scavata. Le bare giacevano allineate sul margine di una lunga fossa e i carcerati le stavano passando rapidi ai compagni nella buca, i quali le disponevano in pile di sei lungo quattro file. Osservò mentre completavano due file orizzontali, quarantotto bare in tutto. Ognuna aveva un numero scribacchiato con un pennarello nero sul lato e sul coperchio. Un detenuto che godeva di privilegi speciali controllava il lavoro con un portablocco in mano, spalleggiato da diverse guardie armate di pistole e fucili da caccia. Quando tutte le casse furono calate nella fossa, gli uomini uscirono, disposero alcuni pezzi di lamiera ondulata sullo strato superiore e rimasero in disparte mentre la scavatrice veniva accesa, sputava una nube sporca di fumi di gasolio e spingeva un muro di terra sulle lamiere coprendo le bare fino a livellare il suolo. Il vento soffiava forte agitando le cime degli alberi, e Gideon sentiva di tanto in tanto l’odore della terra smossa misto a quello acre della formaldeide e della decomposizione. In fondo al campo sorgeva una costruzione di mattoni aperta sui lati in cui si trovava una seconda scavatrice. Aggirò il campo cercando un punto d’osservazione migliore e la zona in cui erano sepolti i contenitori piccoli con gli arti. Lo trovò in una fossa parallela, più in là. Era stata parzialmente coperta di terra ma i contenitori più recenti erano stati lasciati in vista, per poter disporre la serie successiva. Con il binocolo vide che erano piccoli, della dimensione giusta per le parti corporee, contrassegnati anch’essi da numeri scarabocchiati. Sulle file di mini-bare avevano messo un pezzo di lamiera ondulata tenuto da un lato da un mucchio di terra: evidentemente per proteggerle dalle intemperie, finché non avessero finito il lavoro. Doveva effettuare un’ispezione più accurata. La fossa era profonda, ma da dove si trovava non riusciva a capire quanto.
Doveva avvicinarsi di più per guardarvi dentro, molto di più. E non c’era modo di farlo senza essere scoperto. Si alzò, si cacciò le mani in tasca e mise piede con noncuranza nel campo aperto.
CAPITOLO 62 Lo notarono subito. «Ehi! Ehi, lei!» Due guardie estrassero la pistola e si precipitarono verso di lui. Gideon continuò a camminare, a muoversi rapido verso la fossa cercando di non farsi bloccare. Quando lo raggiunsero, era in piedi sul bordo e guardava in basso. «Fermo! Mani in alto!» Gideon sollevò lo sguardo con aria stupita. «Cosa succede?» «Non si muova! Mani in alto!» Una guardia si inginocchiò e lo tenne sotto tiro con la pistola d’ordinanza mentre l’altra gli si avvicinava cauta con il fucile pronto. «Mani dietro la testa.» Gideon obbedì. Uno era bianco, l’altro nero, entrambi muscolosi e in forma. Indossavano camicie blu con la scritta bianca NYC CORRECTION SSD stampata sulla schiena. Uno lo perquisì, gli svuotò le tasche prelevando la mappa di Google Earth, il notes, il portafoglio e un pezzo di pergamena che Gideon aveva preparato in precedenza. «È pulito.» L’altro agente si alzò e rinfoderò la Glock. «Ci mostri un documento.» Gideon, con le mani ancora sollevate, parlò con la voce tesa per il panico. «Non ho fatto niente, lo giuro! Sono solo un turista!» «Un documento» ripeté la guardia. «Svelto.» «È nel portafoglio.» L’uomo glielo restituì, Gideon prese la sua patente del New Mexico e gliela porse. «Forse non dovrei trovarmi qui...?» I due studiarono la patente passandosela più volte. «Non ha letto i cartelli?» «Quali cartelli?» balbettò lui. «Sono solo un turista del...» «Basta con le stronzate!» L’agente nero, chiaramente al comando, si accigliò. «I cartelli sulla costa. Dappertutto. Mi vuol far credere di non averli visti?» La radio della guardia si animò, una voce voleva sapere cosa stesse accadendo. Lui sganciò la ricetrasmittente. «Solo un tizio del New Mexico. È tutto sotto controllo.» Rimise a posto la radio e fissò sospettoso Gideon. «Le spiacerebbe dirci come è arrivato qui e cosa diavolo sta combinando?» «Be’, ero... fuori con la barca da pesca e ho deciso di esplorare l’isola.» «Ah, sì? È forse cieco?» «No, davvero, non ho notato nessun cartello. Ero preoccupato per il mare, non ho fatto attenzione, ve lo giuro...» Fece di tutto perché il suo piagnucolio risultasse ben poco convincente. L’agente bianco sollevò la pergamena. «Cos’è?» Gideon arrossì. Non rispose. Le guardie si scambiarono un’occhiata divertita. «Sembra una mappa del tesoro» osservò l’agente bianco sventolandola sotto il naso di Gideon.
«Io... io...» balbettò lui, e tacque. «Niente balle. Lei è in cerca di un tesoro sepolto.» La guardia sorrise. Dopo un attimo di esitazione, Gideon abbassò la testa. «Sì.» «Ci racconti.» «Sono venuto qui in vacanza dal New Mexico... Un tizio giù, a Canal Street, mi ha venduto la mappa. Sapete, sono un cacciatore dilettante di tesori.» «Canal Street?» I due agenti si scambiarono un’altra occhiata; uno alzò gli occhi al cielo. Quello nero si sforzò di rimanere serio mentre esaminava la carta. «Secondo questa mappa, è addirittura sull’isola sbagliata.» «Davvero?» «La x sulla mappa indica Davids Island. Quell’isola laggiù.» La indicò con il mento. «Questa non è Davids Island?» «Questa è Hart Island.» «Non sono pratico dell’oceano, devo essermi confuso.» Seguirono altre risate, non di scherno ma di divertimento. «Amico, lei è proprio stordito.» «Presumo di sì.» «Allora chi è il pirata che avrebbe sepolto il tesoro? Il capitano Kidd?» Ridacchiarono ancora sotto i baffi, poi il volto della guardia di colore si fece di nuovo serio. «Ora mi stia bene a sentire, signor Crew, lei sapeva di approdare abusivamente. Ha visto i cartelli. Non ci racconti stronzate.» Gideon chinò la testa. «Sì, li ho visti. Scusatemi.» La radio si rianimò e un’altra voce chiese notizie dell’intruso. Lui rispose: «Capitano, quest’uomo andava in cerca di un tesoro sepolto. Ha una mappa. L’ha comprata a Canal Street». Tacque e Gideon udì il crepitio di una risata all’altro capo. «Cosa faccio?» Ascoltò per un po’ e poi disse: «D’accordo. Chiudo». Sfoderò un ampio sorriso. «Oggi è il suo giorno fortunato. Non la arresteremo per essere approdato qui abusivamente. Dov’è la sua barca?» «Sulla spiaggia accanto a quella grossa ciminiera.» «Ce l’accompagno, intesi? Per sua informazione, quest’isola è totalmente interdetta al pubblico.» «Cosa fate qui?» «Architettura del paesaggio» rispose la guardia tra le risate. «Ora andiamo.» Gideon la seguì attraverso il campo e per la strada. «Sul serio, cosa fate laggiù in quel campo con tutte quelle scatole che seppellite? Sembrano bare.» L’agente esitò. «Sono bare.» «Cos’è, una specie di cimitero?» «Sì. È il cimitero pubblico della città di New York. Il cimitero dei poveri.»
«Il cimitero dei poveri?» «Quando qualcuno muore in città e non ha famiglia o soldi per pagare la sepoltura, viene interrato qui e i carcerati di Rikers Island svolgono il lavoro. Per questo motivo è vietato attraccare, capisce?» «Sì, certo. Quanti corpi ci sono?» «Più di un milione» rispose l’agente senza alcuna nota d’orgoglio. «Per la miseria!» «È il cimitero più grande del mondo. Risale alla Guerra civile.» «Incredibile. E date a tutti una sepoltura cristiana?» «Inter-religiosa. Vengono a benedire i morti preti, pastori, rabbini, imam. Ognuno ha il suo turno.» Superarono la vecchia centrale elettrica. La sala dinamo in rovina si stagliava sul groviglio di vegetazione, accanto a un vasto campo. «Dov’è la sua barca?» chiese la guardia guardando in direzione della spiaggia. «Laggiù, dietro il frangiflutti.» Anziché attraversare il campo, l’uomo si incamminò a nord lungo la strada facendo un anello. «Perché va da questa parte?» «L’accesso a quel campo è proibito» rispose. «Perché?» «Non lo so. Sull’isola ci sono molti posti pericolosi.» «Oh davvero? E lei sa dove sono?» «Abbiamo una carta, sono indicati come zone di accesso vietato.» «Ce l’ha con sé?» La guardia la prese. «Siamo obbligati a portarla.» Gideon prese la carta e la esaminò finché lo ritenne lecito, poi l’agente la ripiegò e la mise via. Dopo aver fatto un’ampia deviazione attorno al campo, arrivarono alla spiaggia e raggiunsero la barca. «Mmm» mormorò lui. «Posso riavere la mia roba?» «Immagino non sia un problema» rispose l’uomo, e gli restituì mappa, notes e le altre carte. «Davids Island è aperta al pubblico?» si informò Gideon. La guardia rise. «È un parco, ma se fossi in lei non mi metterei a scavare buche laggiù.» Esitò. «Le spiace se le do un piccolo consiglio?» «Prego.» «Quella mappa è falsa.» «Falsa? Non sa cosa dice!» «Canal Street! Ha presente tutti i Rolex, le borse di Vuitton, i profumi Chanel e la roba di Prada che ci vendono? È il centro della contraffazione. Anche se, devo ammetterlo, una mappa fasulla di un tesoro implica un salto di qualità.» Scoppiò in una risata calorosa e gli diede amichevolmente una pacca sulla spalla.
«Non perda tempo e non si cacci nei guai. Mi creda, quella non è una mappa del tesoro.» Gideon assunse l’aria più abbattuta che poté. «Mi dispiace molto.» «Dispiace più a me. Mi rattrista sapere ci siano ancora, a New York, così tanti pezzi di merda pronti a derubare i turisti.» La guardia alzò gli occhi al cielo, ora quasi nero per le nubi tempestose. Il vento soffiava a raffiche e la baia era piena di onde con le creste bianche. «Se fossi in lei, mi scorderei di Davids Island e porterei via il culo dallo stretto. Da queste parti ci sono forti correnti di ritorno, durante i temporali, e ne sta arrivando uno grosso.»
CAPITOLO 63 Alle dieci di quella stessa sera Gideon gironzolava per City Island Avenue osservando Murphy da lontano vestito come uno studente in vacanza con lo zaino in spalla contenente le due armi da fuoco illegali, alcune scatole di cartucce di riserva, un coltello, una lampada frontale, una torcia, una pala e un piccone pieghevoli, una corda, uno spray lacrimogeno, un tronchese, due paia di occhiali per la visione notturna, le mappe e il notes. Le raffiche di vento che arrivavano dallo stretto facevano dondolare le vecchie insegne di legno di Murphy sui cardini cigolanti. L’aria odorava d’acqua salmastra e alghe. L’orizzonte sud era tutto un balenare di fulmini tra i giganteschi cumuli in rapido avvicinamento. Non vedeva segno di Mindy. Erano passati alcuni minuti dall’ora dell’appuntamento, ma probabilmente era arrivata in anticipo e si era nascosta da qualche parte per aspettarlo. Quasi a un comando prestabilito, udì la sua voce bassa provenire dal piccolo parco buio alle sue spalle. «Ciao, Gideon.» Sbucò fuori atletica e ben curata, con lo zaino e un berretto di lana messo alla sbarazzina sulla testa, i capelli scompigliati dal vento. Lo salutò con un bacio affettuoso. «Che incantevole sorpresa.» «Non fare lo stupido» rispose lei con un sorriso malizioso. «Fa parte della copertura: due ragazzi in vacanza estiva... l’hai detto tu, giusto?» «Giusto.» Attraversarono la strada. Accanto al noleggio barche c’era un cantiere nautico circondato da un alto recinto di rete metallica per bloccare l’accesso alle banchine. Gideon guardò da una parte all’altra: la strada era deserta, quindi si arrampicò sul recinto e saltò dall’altro lato. Mindy lo imitò e scavalcò la rete senza far rumore. Attraversarono di corsa il cantiere, oltrepassarono un altro recinto e arrivarono sulla banchina che conduceva ai pontili galleggianti. «I fuoribordo li tengono lì» spiegò Gideon indicando un capanno chiuso. Si lanciò verso la serratura con il tronchese e un istante dopo tirarono fuori un Evinrude da sei cavalli con una tanica piena di benzina, i tubi per il carburante e un paio di remi. Vi saltarono sopra; lui sistemò il motore a poppa e collegò i tubi del carburante mentre Mindy toglieva gli ormeggi e scostava l’imbarcazione dal pontile. Gideon iniziò a remare. Pochi minuti dopo avevano lasciato lo scalo ed erano in balia del vento sempre più forte. Mindy si riparò dalla schiuma sollevata dalle raffiche. «Hai un piano?» «Certo. Gru che Annuisce è già sull’isola. Aspetta solo me, perciò stenditi e sta’ giù mentre ti spiego.»
«Certo, capo.» Si raggomitolò sotto il capo di banda. Superati i moli, Gideon abbassò il motore, lo accese e si diresse lungo il canale segnalato verso la sagoma scura di City Island Bridge. Al di là si apriva lo stretto di Long Island. Anche al buio riusciva a distinguere le creste bianche delle onde. Sarebbe stata una traversata burrascosa. «Sentiamo» disse Mindy dal fondo della barca. «Ti farò scendere all’estremità sud dell’isola. Io approderò a metà e raggiungerò il punto in cui si trova il campo di sepoltura. Tu invece seguirai la cartina. Attieniti all’itinerario che ho tracciato: l’isola è una vera trappola mortale. Quando arriverò al campo, tu sarai già in posizione tra gli alberi e mi coprirai. Io entro, trovo l’arto, prelevo il filo e ci dividiamo.» «E Gru che Annuisce?» «Si farà vedere, non c’è modo di sapere quando. Il terreno attorno al campo è aperto: non può attraversarlo senza farsi scoprire da te. Quando comparirà, uccidilo. Senza esitazioni.» «Non è molto leale.» «Al diavolo la lealtà. Hai problemi a sparare a un uomo nella schiena?» «Non a un uomo come lui.» Gideon indicò con un cenno lo zaino. «Là dentro hai un fucile di precisione come ti ho chiesto?» «Non proprio, ma andrà bene, una Kel-Tec SUB-2000 semiautomatica da nove millimetri. Ho anche un giubbotto di Kevlar. E tu?» «Due pistole e un giubbotto antiproiettile.» Gideon prese una mappa chiusa in una tasca con la zip. «Non avrai problemi a trovare la strada ma, ti ripeto, l’intera isola è un campo minato, perciò segui l’itinerario indicato sulla carta: niente scorciatoie. C’è anche un orario. Rispettalo.» «E se ti aspetta nella fossa? Se esci allo scoperto e ti spara?» «Attraverserò il campo con la scavatrice. Ce ne sono due in un capanno, sembrano carri armati.» La barca continuò ad avvicinarsi scoppiettando al City Island Bridge e all’imbocco dello stretto. Il vento ululava sferzando il canale e increspando le onde. «Dimmi dell’isola.» «All’inizio era un campo di prigionia per i soldati della Guerra civile. Molti morirono e furono sepolti lì. Nel 1869 la città di New York la comprò per utilizzarla come cimitero pubblico, sfruttandone però solo metà. Il resto venne usato per altre cose in fasi diverse: manicomio femminile, casa di lavoro per giovani, sanatorio, luogo di quarantena per malati di febbre gialla, carcere. Negli anni Cinquanta è stata una base militare per una batteria di missili Nike Ajax, collocata nei silos. Adesso è disabitata e utilizzata solo per le inumazioni. Ma non hanno portato via né chiuso niente, hanno lasciato che tutto andasse in rovina.» «E le inumazioni?» «Esistono due fosse parallele, una per gli arti amputati, l’altra per... be’, i
cadaveri completi. Gli arti vengono seppelliti, ho calcolato, con una frequenza di circa sette, dieci al giorno. Ogni contenitore ha due numeri: uno è quello della cartella clinica e l’altro è aggiunto dai carcerati al momento della sepoltura, per essere individuato in caso di necessità. La parte del corpo è anche contrassegnata all’interno del contenitore. È passata circa una settimana da quando hanno amputato le gambe di Wu, quindi dovremmo andare indietro di sessanta, settanta contenitori. Questi vengono collocati nella fossa in quattro file, in pile di otto, per un totale di trentadue per fila orizzontale; di conseguenza dovrebbero trovarsi nella seconda o nella terza.» «E poi?» Gideon picchiettò lo zaino. «Ho le radiografie con me. Estrarre il filo sarà un lavoro schifoso.» «Quando pensi si farà vedere Gru che Annuisce?» «È imprevedibile. Per questo rimarrai nascosta per tutto il tempo e comparirai solo quando uscirà allo scoperto per attaccarmi. Aumenta al massimo l’elemento sorpresa. Capisci?» «Perfettamente. Hai un piano B?» «Anche C e D. La natura insolita dell’isola sarà per noi un vantaggio.» Gideon sorrise cupo. «Gru che Annuisce si comporta da giocatore di scacchi. Noi invece faremo una partita a dadi.»
CAPITOLO 64 Quando la barca entrò nello stretto, la tempesta li investì con furia sollevando onde violente che si abbattevano sullo scafo e si riversavano all’interno. Si stava avvicinando un grosso temporale, i boati lontani si diffondevano sul mare come colpi d’artiglieria. Gideon orientò la barca in direzione del vento. «Inizia a buttar fuori l’acqua.» Tenendosi bassa, Mindy prese una vecchia bottiglia di candeggina Clorox a prua e si mise al lavoro. In quel momento un’onda grossa colpì il capo di banda e li infradiciò dalla testa ai piedi. «Mio Dio!» esclamò lei mentre buttava fuori l’acqua. «Sembra di essere in una vasca da bagno.» Le luci di City Island tremolavano all’orizzonte, ma davanti era tutto nero. Gideon prese una bussola dalla tasca, fece un rilevamento e corresse la rotta. Se la maretta era brutta, le onde lunghe erano peggio, straordinariamente violente in un tratto riparato. Il motore scoppiettava e singhiozzava; se si fosse guastato, sarebbero stati spacciati. Ma non si guastò e l’imbarcazione continuò nella burrasca con Mindy che non smetteva di svuotarla. Non era una lunga traversata, mezzo miglio, ma lo scafo andava in direzione del vento, si muoveva a passo d’uomo e una forte corrente lo spingeva verso nord, oltre l’isola, in mare aperto. Se l’avessero mancata, la prossima tappa sarebbe stata Execution Rocks. Gideon fece un altro rilevamento e compensò l’effetto della corrente puntando più a sud. Un’altra onda si abbatté sulla fiancata gettandoli di lato e per poco non sommerse la piccola imbarcazione. Il motore tossì e lui faticò per orientarla di nuovo in direzione del vento. «Annegheremo prima ancora di arrivare» osservò Mindy. Mentre parlava, tuttavia, la vaga sagoma dell’isola, orlata dalla linea indistinta dei frangenti, iniziò a delinearsi nell’oscurità. Gideon virò verso l’estremità meridionale. Si trovavano sul lato riparato, e più si avvicinavano più le pericolose onde lunghe si calmavano. «Tieniti pronta a saltare» le disse a bassa voce prendendo un paio di occhiali per la visione notturna dallo zaino e porgendoglieli. «Usali. Niente luci. Trovati in posizione all’ora indicata. E, per l’amor del cielo, aspetta il momento giusto prima di agire.» «Faccio queste cose da molto più tempo di te» replicò Mindy mettendosi gli occhiali. Comparvero i frangenti. La maretta si abbatteva su una spiaggia di grossi ciottoli. «Ora» mormorò lui. Lei saltò in mezzo alle onde e Gideon invertì così bruscamente la marcia da far quasi uscire l’asse portaelica dall’acqua. Un attimo dopo Mindy era
svanita nel buio. Gideon tornò nella burrasca e tracciò un anello lontano dalla costa in modo da non essere né avvistato né sentito. Tentò di governarla e nello stesso tempo di buttare fuori l’acqua. La pioggia cadeva senza tregua e le onde si riversavano all’interno dell’imbarcazione. Stimando la posizione, puntò a nord tenendosi parallelo alla costa orientale, poi quando calcolò di essere all’incirca a metà isola piegò verso di essa. Avvicinandosi, distinse a malapena la sagoma della gigantesca ciminiera contro il cielo scuro: il suo riferimento. Individuò il punto lungo la costa, la zona in cui si trovava la piccola palude salmastra, e condusse la barca verso la spiaggia alla massima velocità. Balzò fuori e la trascinò in mezzo alla fitta vegetazione palustre. Accovacciato al riparo, si preparò per la traversata a piedi: indossò gli occhiali per la visione notturna, controllò le armi e diede un’ultima occhiata alla cartina. Per essere meno prevedibile, aveva scelto un itinerario improbabile e inadeguato, attraverso le zone più pericolose e instabili delle rovine. Gru che Annuisce era di certo arrivato tempo prima, aveva esplorato l’area e si era appostato, come un ragno in attesa della mosca. E malgrado non lo avesse detto a Mindy, lui credeva di sapere esattamente dove, perché era una posizione vantaggiosa da ogni angolazione. Sarebbe stata anche la sua scelta. Gru che Annuisce non avrebbe resistito alla tentazione di occupare il punto offensivo più efficace, ormai aveva capito il suo modo di agire. Ora pioveva a dirotto, i poderosi boati dei tuoni seguivano i lampi dei fulmini. Un altro elemento probabilistico a suo favore. Controllò l’orologio: le dieci e trenta. Aveva ancora venti minuti prima che Mindy raggiungesse la sua postazione. Avanzò lento nell’erba bagnata e si infilò in alcuni grossi cespugli di mirica. Gli occhiali conferivano all’ambiente una nauseante luminosità verde. La pioggia sfocava e offuscava la sagoma delle piante. Si sentiva un mezzo cieco in un paesaggio fantasma. Si fece strada tra la vegetazione fino a raggiungere il retro di un edificio fatiscente: il complesso della casa di lavoro per giovani. Si infilò dentro attraverso una finestra rotta e si ritrovò in un locale pieno di muffa con l’acqua che scrosciava dai buchi nei piani superiori e nel tetto. I ragazzi della casa avevano il compito di fabbricare calzature, e dappertutto c’erano vecchie paia di scarpe: accartocciate come foglie d’autunno, giacevano sparse tra frantumi di vetro, gli attrezzi, i portascarpe di ferro e le forme di legno marce. Avanzò lungo il muro con la pistola in pugno stando attento a non calpestare i vetri. Un attimo dopo stava percorrendo il lungo corridoio centrale, pieno di echi, dell’edificio. I rumori attutiti della tempesta filtravano attraverso le pareti. Giunse poi alla porta sul retro appesa a un solo cardine. Da lì schizzò rapido in mezzo alle erbacce e arrivò al dormitorio. Superò una fila di letti
arrugginiti e muri pieni di graffiti, si fermò per lasciar passare una scarica particolarmente intensa di fulmini e tuoni. Ogni lampo illuminava l’interno tingendolo di luce spettrale, le strutture dei letti gettavano ombre tremolanti intorno. Un’incisione solitaria scritta a grandi lettere sopra un letto diceva: VOGLIO MORIRE. Proseguì rapido. In fondo alla costruzione superò varie stanzette ingombre di schedari rotti, scatole di cartone sfasciate, pacchi di documenti e dossier, tutti fradici e marci. Un grosso ratto in cima a un mucchio di carte lo guardò passare. Si ritrovò ben presto fuori nella tempesta, con la pioggia ancora più violenta. Era entrato nella parte più antica del cimitero, ora riconquistata dagli alberi. Mentre avanzava in mezzo al folto, si imbatté in vecchie lapidi sommerse dalle foglie e dalla vegetazione: ce n’erano file e file, segno della presenza di fosse comuni. Dal sottobosco spuntava qua e là qualche osso. Si avvicinò al retro del capanno in cui si trovavano le scavatrici. Nella sua precedente incursione aveva notato che erano Caterpillar 450E a benna ad azione rovescia, nuove di zecca. Si era preparato ad accenderle senza chiavi, ma sperava di trovarle inserite. Attese ben nascosto, restando in ascolto e osservando. Ogni lampo gli offriva un nitido scorcio della zona circostante, però di Gru che Annuisce non c’era traccia. Ma non significava nulla. Era molto vicino, se lo sentiva. Gideon aggirò lentamente il capanno sempre tenendosi nascosto, muovendosi con infinita cautela e scrutando nel contempo il bordo del tetto. Era fatto di legni disposti su vecchi muri di mattoni ed era ricoperto di lamiere ondulate fissate con viti ai dormienti che collegavano le travi. Era tutto marcio, ma non ancora prossimo a cedere. Confermava un fatto sostanziale: avrebbe retto il peso di un uomo. Si avvicinò all’angolo del capanno dove i mattoni erano crollati creando un buco. Con una mossa fulminea lo varcò e si ritrovò all’interno. Le due scavatrici brillavano di un verde intenso attraverso gli occhiali. Appiattendosi contro il muro in fondo, raggiunse a poco a poco il Caterpillar più vicino, si allungò e aprì la portiera della cabina lasciata socchiusa. Si tirò su rapido e si infilò dentro chiudendo silenziosamente la portiera. Colpo di fortuna. Le chiavi erano lì. Controllò l’ora: Mindy doveva essere in posizione da almeno dieci minuti. Doveva dare inizio al primo round. Azionò i comandi, posò la mano sulla chiave e la girò. La scavatrice si accese con un rombo gutturale. Molto bene. Aveva una comoda cloche che qualsiasi idiota sarebbe stato in grado di utilizzare, o almeno così si presumeva. Abbassò veloce gli stabilizzatori e alzò la benna in posizione verticale, sopra la cabina, per proteggersi da quanto sarebbe accaduto di lì a poco. Poi attivò il comando dell’azione rovescia e fece un
profondo respiro. Con un movimento uniforme delle dita sollevò di colpo la pesante benna da un quarto di tonnellata, come un uomo con il pugno alzato sopra la testa. Colpì fragorosamente il tetto, facendolo incurvare verso l’alto tra i gemiti del legno marcio e cascate d’acqua. Per un istante sembrò che l’intero tetto si staccasse, poi la benna perforò le assi rovinate, e la lamiera arrugginita e il tetto caddero giù con uno schianto. Con un altro movimento violento sbatté la benna di lato e il braccio meccanico creò un lungo squarcio nel tetto. Poi la ritrasse, la posizionò su una trave e tirò verso il basso con forza. Precipitò tutto quanto: legni marci, assi e pezzi contorti di lamiera ondulata, accompagnati da un torrente d’acqua. Un paio di spari rimbalzarono furiosi contro la benna. Aveva visto giusto: Gru che Annuisce si era appostato sul tetto del capanno, da cui non solo godeva di una visione panoramica del cimitero e delle fosse, ma poteva anche sparare a chiunque si fosse avvicinato alle scavatrici. Senza esitare Gideon piegò il braccio del Caterpillar, pronto a partire, sollevò gli stabilizzatori, inserì la marcia in avanti e condusse la scavatrice nel campo, spostando quindi la benna all’indietro per crearsi uno scudo dai proiettili di piccolo calibro. Quasi subito una raffica di pallottole colpì la parte posteriore della benna facendola risuonare come una campana. Gideon tuttavia era al sicuro all’interno della cabina. Quel bastardo doveva essersi preso un bello spavento quando la scavatrice aveva spaccato il tetto. Peccato non si fosse rotto l’osso del collo! Dimostrava però una cosa: Gru che Annuisce non era quella macchina per uccidere invulnerabile e onnisciente tanto decantata da Garza. Gideon condusse la scavatrice nel campo fangoso alla massima velocità. Il fuoco divenne più preciso, i proiettili perforarono il tetto della cabina inondandolo di pezzi di plastica e materiale isolante. Lui si chinò ulteriormente guidando alla cieca mentre altri colpi bucavano il parabrezza. La benna non poteva garantirgli una protezione totale. Si alzò per un istante a controllare la posizione e capì di esserci quasi. Altri due proiettili gli sfrecciarono accanto, uno gli passò tra i capelli. Un attimo dopo Gideon fermò la scavatrice, spalancò la portiera, balzò giù e volò nel vuoto oltre il bordo della fossa. Atterrò nella fanghiglia sul fondo, poi risalì in fretta fino all’orlo e perlustrò il campo con gli occhiali per la visione notturna. Gli spari erano infine cessati. Aveva preso possesso della fossa, Mindy non si era ancora fatta vedere, il suo avversario aveva fatto male i calcoli e forse era anche ferito. Si sentì pervadere da una sensazione simile all’euforia. Fino a quel momento gliele aveva suonate alla grande.
CAPITOLO 65 Gideon si voltò verso il muro di contenitori. Laggiù nella fossa era al riparo dagli spari e Mindy era in posizione tra gli alberi, o almeno così sperava, pronta a far fuori Gru che Annuisce se avesse tentato di attraversare il campo. Non c’era comunque tempo da perdere. Si tolse gli occhiali per la visione notturna, li cacciò nello zaino, indossò la lampada frontale e la accese. Si ritrovò davanti una parete di scatole di pino: cinque file di dieci contenitori impilati l’uno sull’altro. Anche recenti, erano già sporchi di fango. I fulmini squarciavano il cielo e la pioggia continuava a scrosciare. Il puzzo era insopportabile, un misto di carne putrefatta, calzini sporchi e formaggio liquido. Osservò i numeri della fila in alto: 695-1078 MSH, 695-1077 SLHD, 6951076 BGH. Pensò: 1076 meno 998 uguale 78. Perciò le gambe di Wu dovevano trovarsi settantotto contenitori più indietro. Con una rapida occhiata notò che quel numero non era nella fila in vista. Estrasse il piccone dallo zaino e colpì un contenitore in basso perforandolo con la punta. Quando lo estrasse, fece cadere l’intera fila; molte scatole si ruppero spargendo dappertutto gambe e braccia in decomposizione con tanto di etichette che svolazzarono via. Il fetore salì come una nebbia umida. Crollata la fila anteriore, comparve il successivo strato di bare. Gideon le esaminò alla luce, ma erano in gran parte coperte di melma e i numeri non si vedevano. Cominciò a pulirle una alla volta e a controllarle. Mentre lavorava udì all’improvviso un rumore sinistro: la seconda scavatrice si era messa in moto. Allora si rese conto dell’errore: aveva lasciato le chiavi inserite nell’altro Caterpillar. Dal rombo capì che era uscita dal garage e stava attraversando il campo alla massima velocità. Si infilò gli occhiali e risalì fino al bordo della fossa. La seconda scavatrice si stava avvicinando tra una miriade di schizzi di fango, con le ruote che macinavano terreno e la benna sollevata, simile al pungiglione di uno scorpione. Gru che Annuisce l’aveva posta davanti a mo’ di scudo, usandola proprio come aveva fatto lui. Aveva forse un minuto per fuggire. C’era solo una cosa da fare. Aggrappandosi a una radice sul margine della fossa, si tirò su e corse alla scavatrice ancora ferma in folle. Una raffica di proiettili perforò la cabina mentre abbassava la benna, la quale lo protesse ma nel contempo gli tolse la visuale. La posizionò in modo da vederne solo il margine superiore e quindi puntò dritto verso l’altra scavatrice con la cloche tutta in avanti, venti tonnellate d’acciaio che avanzavano nel campo fangoso. Ficcò lo zaino sull’acceleratore
tenendolo premuto a tavoletta per poter stare in piedi e sporgersi a sparare con la Beretta. Ma i tiri non furono accurati e i proiettili rimbalzarono inoffensivi contro la pala del Caterpillar in arrivo. Si stavano avvicinando rapidi in rotta di collisione, entrambi a trenta chilometri all’ora. Gru che Annuisce rispose al fuoco con un’arma di maggior precisione e costrinse Gideon a ripararsi in fretta all’interno. Mancavano quindici, forse venti secondi all’urto. Gideon si preparò all’impatto, cercò frenetico di reggersi mentre valutava tutte le possibili conseguenze. Lo scontro avvenne con uno scossone tremendo, uno schianto assordante di acciaio contro acciaio; Gideon fu scagliato in avanti deformando la cabina e fracassando il parabrezza già tutto perforato. Mise subito la retromarcia, indietreggiò e fece inversione maneggiando la cloche. Gru che Annuisce stava facendo lo stesso con le ruote che rimescolavano il fango. Gideon stese il braccio meccanico e, usando la benna come una mazza, la ruotò verso la cabina dell’altra scavatrice. Il pezzo d’acciaio da un quarto di tonnellata si girò tra i gemiti dei meccanismi idraulici. Ma Gru che Annuisce aveva previsto la mossa, alzato la sua benna per bloccarla e i due bracci cozzarono con un rumore violento. Il colpo spinse di lato la benna di Gideon tra gli schizzi dei liquidi idraulici, e quasi subito una raffica di proiettili investì la cabina. Uno gli si conficcò nel giubbotto antiproiettile, sbattendolo all’indietro e lasciandolo senza fiato. Ansimando e faticando a controllare i comandi, Gideon si accorse di aver casualmente ruotato la macchina rimettendola in posizione d’attacco. Alzò la benna e la abbassò con violenza sulla cabina dell’altra scavatrice. Ma di nuovo Gru che Annuisce aveva previsto la mossa e balzò in avanti colpendo il Caterpillar di Gideon, inclinandolo all’indietro. La benna di Crew sfregò sull’angolo della cabina provocando un nugolo di scintille; lui allora azionò frenetico i comandi estraendo gli stabilizzatori per evitare di ribaltarsi. Gru che Annuisce alzò ulteriormente la benna preparandosi a sferrare un ennesimo colpo. Mentre lo faceva, tuttavia, restò esposto. Gideon mollò i comandi e sparando con entrambe le mani svuotò la Beretta contro la cabina. I finestrini andarono in frantumi e l’interno fu invaso da una pioggia di pezzi di plastica. Gru che Annuisce si era però gettato sul fondo, protetto dalla benna abbassata, dove Gideon non avrebbe potuto colpirlo. Riafferrati i comandi, premette l’acceleratore speronando l’altra macchina e alzando nello stesso tempo la benna per distruggere la cabina. Gru che Annuisce parò la mossa alzando a sua volta il braccio meccanico. Si scontrarono scatenando una nube di scintille. Un attimo dopo il killer lo allungò e lo abbassò sulla cabina di Gideon con uno scricchiolio spaventoso, fracassandola quasi del tutto. Metallo e plastica cigolarono, fili e materiale
isolante si spezzarono. Gideon si gettò sul fondo evitando all’ultimo momento d’essere ridotto in poltiglia. Ora però la sua scavatrice era inutilizzabile, il sedile schiacciato, i comandi andati. Sentì Gru che Annuisce sollevare la benna per sferrare un altro poderoso colpo. Doveva uscire. Si buttò contro la portiera deformata. Non si sarebbe mai aperta. La benna si abbassò con un altro schianto terribile intrappolandolo quasi all’interno, ma, sollevandosi, un dente si impigliò nel telaio e creò un varco nella cabina accartocciata. Cogliendo l’occasione, Gideon si gettò nel buco, estrasse nello stesso tempo la Taurus e sparò. Atterrò nella fanghiglia e rotolò mentre Gru che Annuisce sollevava ancora la benna con la palese intenzione di spiaccicarlo come un insetto. Gideon si rimise in piedi e corse verso la fossa a una cinquantina di metri di distanza. Una raffica di spari sollevò il fango tutt’intorno a lui e uno lo centrò nella schiena protetta dal giubbotto antiproiettile, stendendolo. Sguazzò nella melma, incapace di alzarsi, dilaniato dal dolore. Vide altri spari avvicinarglisi sul terreno, avanzare verso di lui, udì la scavatrice partire minacciosa in piena velocità. Non sarebbe mai arrivato alla fossa... ... e poi sentì un lontano pop pop pop provenire dagli alberi, un rumore di proiettili che colpivano il metallo. Mindy. Costretto a fermare la scavatrice e a girarla per ripararsi, Gru che Annuisce cessò il fuoco. Gideon ne approfittò per rialzarsi e raggiungere la fossa in cui si buttò. Si voltò e iniziò a sparare d’infilata dal bordo. Svuotato il caricatore, lo riempì con mano tremante e lo reinserì mantenendo un fuoco costante. Il tiro incrociato mise in trappola Gru che Annuisce. Ruotava la benna cercando di usarla come scudo ma non era in grado di bloccare i colpi provenienti da due direzioni, che perforavano la cabina. Fece retromarcia con un rombo furioso del motore diesel, indietreggiando nel campo, togliendosi dalla portata delle pistole. Gideon smise di far fuoco e sfruttò il momento per ricaricare la Beretta. Vide intanto la sagoma scura di Mindy correre sparando verso di lui. Gideon svuotò il caricatore coprendola e un attimo dopo lei saltò nella fossa. «Dovevi restare tra gli alberi!» urlò per sovrastare la tempesta. «Hai bisogno che qualcuno ti copra mentre cerchi la gamba.» Aveva ragione, ammise tra sé Gideon. Mindy si piazzò accanto al bordo del fosso sparando con ritmo costante. Il fuoco di risposta sollevava la terra davanti o colpiva il lato della fossa alle loro spalle. Gideon si voltò rapido verso la parete di contenitori puntando la luce su ognuno e pulendoli dal fango. Eccolo là, a metà: 695-998 MSH. «Trovato!» esclamò. «Sbrigati!» Mindy continuava a sparare dal margine della fossa. Lui tolse frenetico le bare poste sopra fino a liberare quella giusta.
La afferrò per i bordi e la estrasse. Petto e schiena gli pulsavano violentemente per lo sforzo: i proiettili gli avevano rotto una costola, forse due. Sollevando il piccone, lo abbassò con tutte le sue forze sul coperchio, spaccandolo. Con un altro violento colpo staccò i vari pezzi e con la torcia guardò all’interno. «Cazzo!» urlò. «È un braccio!»
CAPITOLO 66 Gideon afferrò l’etichetta legata a un dito e lesse ad alta voce i dati della paziente. MUKULSKI, ANNA, ST. LUKE’S DOWNTOWN 659346C-41. «Quei bastardi hanno scambiato i pezzi dei corpi!» gridò. «Continua a cercare!» urlò Mindy di rimando. Si chinò mentre altri proiettili colpivano il bordo della fossa inondandoli di fango. Gideon studiò il mucchio di contenitori, ne scelse uno a caso, lo colpì con il piccone e staccò il coperchio. Ne uscì qualcosa che sembrava un polmone malato. Ributtandolo dentro con un calcio, attaccò un altro contenitore, poi un altro ancora, staccando i coperchi, ignorando qualsiasi cosa non fossero gambe e leggendo a mano a mano tutte le etichette. Nella confusione molte scatole si erano aperte e lui frugò nei cumuli di parti corporee e di organi molto meno riconoscibili, verificando le etichette e accumulando da un lato quelle scartate. Erano rimaste giorni, settimane nel caldo terreno estivo, e la maggior parte erano molli, rigonfie, in decomposizione. «Sta tornando con la scavatrice» annunciò Mindy. «Tienilo a bada!» Gideon spinse via i resti e con il piccone rovesciò un’altra serie di contenitori staccandone i coperchi. Rotolarono fuori altri arti: era un vero carnaio. «Mi spiace, amici» biascicò sottovoce. «Sta arrivando! Non riesco a fermarlo: ha sollevato la benna!» «Guadagna un po’ di tempo!» Gideon frugò frenetico leggendo le etichette, buttando da parte la roba scartata. E poi eccole là: due gambe quasi completamente schiacciate nella stessa scatola, con la scritta: WU, MARK, SINAI 659347 A-44. «Trovate!» Tirò fuori la sinistra dal contenitore e la posò su un’asse di legno. Era tanto putrefatta che si staccò all’altezza del ginocchio. Ma era la coscia giusta. Estrasse il taglierino dallo zaino e prese le radiografie illuminandole con la torcia, per fare il confronto con la gamba. «Per l’amor del cielo, sbrigati! Ha abbassato la benna e ci sta spingendo contro un muro di terra! Sparare sembra inutile!» Gideon fece un profondo respiro. Poi affondò il taglierino nella carne e praticò una lunga incisione. Lo ritrasse e tracciò una linea parallela a un centimetro di distanza, poi un’altra ancora. Il filo era proprio al di sotto della superficie, ma la gamba era tanto maciullata, tanto decomposta e piena di frammenti dell’auto che era difficile identificare il punto esatto in cui tagliare. «Sbrigati!» urlò Mindy. Sentiva il rombo della scavatrice in avvicinamento, la forte vibrazione nel
terreno. Praticò un altro taglio a un angolo di novanta gradi. «Oh, mio Dio!» Mindy sparava in continuazione. La scavatrice era quasi sopra di loro. La lama fu deviata da qualcosa. Gideon affondò le dita, lo afferrò, lo estrasse: un pesante pezzo di filo piegato a U, lungo quasi un centimetro. «Trovato!» gridò, e se lo cacciò in tasca. Ora il rombo era sopra di loro. Un mucchio enorme di terra misto a ossa li investì come un cavallone gettando Gideon a terra e seppellendo Mindy. L’urlo di lei si interruppe bruscamente mentre il buio avanzava soffocandolo... Gideon riprese conoscenza sepolto fin quasi al petto, bloccato da una massa di fango e acqua. Sentiva le costole rotte sfregare l’una contro l’altra. Si scosse la terra dalla testa, inspirò e cercò di tirarsi fuori. Uno scarpone pesante si abbassò sul suo collo e lo ricacciò nel fango. «Non così in fretta, amico» intimò una voce fredda, priva d’accento. «Dammi il filo.» Gideon rimase lì ansimando forte. «Aiutala. È sepolta...» Lo scarpone gli si conficcò nel collo e la voce disse: «Non preoccuparti di lei. Preoccupati di te». «Sta soffocando!» Gru che Annuisce gli sventolò davanti l’etichetta della gamba di Wu. «Dammi il filo.» Gli frugò nella tasca della camicia scostando la terra. Mentre tastava, individuò la Beretta e la Taurus. Poi fu il turno del taglierino. «Fammi alzare, santo Dio!» Lo scarpone si sollevò dal suo collo e Gru che Annuisce indietreggiò con gli occhiali per la visione notturna che gli penzolavano al collo. «Tirati fuori. Lentamente.» Gideon cercò di uscire. «La pala» farfugliò. Il cinese la prese e gliela gettò. Lui tolse il più in fretta possibile la terra, trasalendo per il dolore. Riuscì infine a sfruttare il peso della parte inferiore del corpo per muovere le gambe. Si scosse di dosso la terra e si sollevò liberandosi. Si alzò in piedi, fece un respiro tremante, poi si gettò sulla valanga di terra che aveva seppellito Mindy. «Il filo» disse Gru che Annuisce premendogli la pistola, una TEC-9, contro una tempia. «Santo cielo, dobbiamo tirarla fuori!» «Sei un idiota.» Gli sferrò un colpo in testa con il calcio, gli strappò la pala di mano e gli
ficcò la canna della TEC-9 nell’orecchio. «Il filo.» «Vaffanculo.» «Allora lo prenderò dal tuo cadavere.» Fece ruotare la pistola calda e sussurrò: «Addio».
CAPITOLO 67 Manuel Garza stava camminando sulla pista ciclabile all’estremità settentrionale di Meadow Lake con addosso una divisa logora del Dipartimento della nettezza urbana sottratta dal vasto guardaroba della Effective Engineering Solutions. Udiva in lontananza il ronzio della Van Wyck Expressway. Erano le undici passate; gli amanti del jogging, i patiti della bici e le madri con i passeggini erano tornati a casa ore prima, mentre gli sloop erano ormeggiati. Infilzò un rifiuto con il bastone retrattile e lo ficcò nel sacco di plastica appeso alla cintura di servizio. Una copertura simile era molto più credibile negli anni Ottanta, quando New York era sporca. Adesso, con la città lucidata a specchio, era una rarità trovare le squadre di netturbini intenti a pulire i parchi. Rifletté sull’opportunità di escogitare nuove coperture: pendolari, o forse senzatetto, maratoneti. Infilzò un altro rifiuto facendosi più cupo in volto. Il pensiero della EES gli riportò alla mente Eli Glinn. Nonostante lavorasse per lui da molto, non lo aveva mai capito. Ogniqualvolta credeva si fosse rammollito per via dell’età, lui lo smentiva. Non riusciva mai a prevedere cosa avrebbe o non avrebbe fatto. Come quella volta in Lituania, quando aveva minacciato di far esplodere l’ordigno nucleare perché il cliente si era rifiutato di effettuare il pagamento finale. E non stava scherzando. Aveva davvero iniziato la sequenza per armarlo prima che questi capitolasse. O quella fatidica spedizione nella Terra del Fuoco in cui erano stati inseguiti e Glinn aveva fatto saltare un iceberg per... Scacciò quel ricordo in particolare e, dando le spalle al lago, tornò al veicolo del Dipartimento dei parchi posteggiato lì nei paraggi. Proprio quel mattino, dopo l’incontro sulla metropolitana, Glinn aveva respinto la sua richiesta di mettere alle calcagna di Crew diverse squadre perché lo pedinassero nell’ultima fase della missione. Lui aveva ascoltato attentamente, poi aveva scosso la testa. «Non lo faremo» aveva sentenziato. «Non lo faremo.» Garza alzò gli occhi al cielo. Una tipica risposta di Glinn, priva di motivazioni e spiegazioni. Un ordine puro e semplice. Si issò sul veicolo, ripose il bastone retrattile e aprì l’armadietto metallico per gli attrezzi fissato a un lato del mezzo. Fece un rapido inventario del contenuto: una Glock da nove millimetri con silenziatore, un fucile a canne mozze, una pistola stordente, una radio della polizia, occhiali per la visione notturna, kit da paramedico per le emergenze, cinque o sei distintivi di dimensioni varie delle forze dell’ordine federali, statali e locali. Soddisfatto, chiuse l’armadietto, poi avviò il veicolo a nord, verso il Queens Museum of Art.
Glinn non aveva voluto assegnare nessuna squadra a Gideon Crew. Perciò Garza era venuto lì di sua iniziativa. Era una missione cruciale, c’era in gioco il destino del mondo. Non voleva assolutamente lasciare Crew da solo, soprattutto quand’era coinvolto un individuo pericoloso come Gru che Annuisce. La Unisphere, aveva detto Crew. La vedeva davanti a sé in lontananza: una cupola enorme, argentea, scintillante, contornata da fontane, dall’altra parte della Long Island Expressway. Ma Crew non aveva specificato se si sarebbero incontrati proprio alla Unisphere o nelle vicinanze. Il fatto che quella maledetta cosa si trovasse esattamente nel centro del Flushing Meadow Corona Park, il secondo parco più grande di New York, non gli facilitava per niente il compito. Se fosse stato per lui, avrebbe piazzato poliziotti veri e finti, personale medico d’emergenza pubblico e privato, cecchini, squadre antincendio, esperti di dirottamento, autisti pronti per un’eventuale fuga, agenti per bloccare i giornalisti e quant’altro, sparpagliandoli nel parco in luoghi precisi. Di fatto, era solo e si era studiato il piano su misura. Fin dall’inizio non aveva avuto assolutamente senso. Perché assoldare proprio Crew per una missione così importante? Glinn avrebbe potuto scegliere tra numerosi agenti che avevano dimostrato le proprie capacità in combattimento. Non era stato saggio prendere un simile pasticcione, senza esperienza, che non aveva fatto la gavetta né aveva scalato la gerarchia com’era successo a lui. Gideon Crew era impulsivo, agiva spinto dalla rabbia e dall’adrenalina e non dalla fredda cautela. Garza era un uomo piuttosto equilibrato, ma al solo pensiero sentì l’irritazione ribollirgli nel ventre. Guardò di nuovo l’orologio: le undici e trenta. Davanti a lui la Unisphere brillava contro il cielo notturno come una meteora. Non aveva molto tempo: avrebbe fatto un’ultima ricognizione per scegliere il luogo migliore da cui seguire la situazione. Diresse il veicolo verso la grande cupola e premette con forza l’acceleratore.
CAPITOLO 68 Gideon sapeva che stava per morire, tuttavia non provò assolutamente nulla. Almeno in quel modo sarebbe stato più rapido e meno doloroso. All’improvviso si udirono un grido e una raffica di spari. Voltandosi verso il rumore, vide un’apparizione mostruosa, una sagoma coperta di fango emergere dalla valanga di terra, sparare e urlare come una forsennata. Gru che Annuisce fu colpito con violenza dai proiettili. Mentre cadeva rispose al fuoco con una sventagliata. «Ho finito le munizioni!» gridò Mindy gettando il fucile e cercando tastoni la sua pistola nella melma. Gideon si buttò su Gru che Annuisce, afferrò la pistola e tentò di strappargliela di mano sperando fosse morto. Ma non lo era: probabilmente indossava anche lui un giubbotto antiproiettile. I due sguazzarono nel fango, lottando con foga per impossessarsi della TEC-9. Gru che Annuisce era però incredibilmente forte e si scrollò di dosso Gideon, sollevando l’arma. Mindy si fece avanti con un’asse di legno, cercò di fracassargliela sulla testa, ma con una piroetta il killer si tolse di mezzo e parò il colpo con la spalla alzando tremante la pistola. Gideon indietreggiò incerto. A quel punto avevano solo una possibilità: scappare. «Fuori!» urlò. Mindy saltò oltre il bordo del fosso e Gideon la seguì. Dalla TEC-9 partì un’altra raffica ma loro stavano già correndo attraverso il campo avvolti dal buio della tempesta. Il killer prese a sparare a casaccio. Per un istante il cielo fu squarciato da un fulmine gigantesco, seguito dal rombo del tuono. «Quel bastardo sta ricaricando» disse ansimando Mindy. Raggiunsero il limitare degli alberi proprio mentre una nuova raffica dilaniava il fogliame ricoprendoli di vegetazione. Si lanciarono nel sottobosco e corsero fino a non poterne più. «La tua pistola?» chiese Gideon con affanno. «Persa. Ho quella di riserva.» Estrasse una Colt militare calibro 45. «Il filo?» «In tasca.» «Dobbiamo continuare a muoverci.» Si girò e si diresse veloce a sud. Gideon la seguì controllando il dolore come meglio poteva. Aveva perso gli occhiali per la visione notturna e la torcia nella lotta, e ora stavano avanzando nel buio più totale, brancolavano nel bosco scostando a forza grossi cespugli e rovi. Gru che Annuisce li stava di certo seguendo, si disse.
«Non funzionerà» farfugliò. «Lui ha gli occhiali per la visione notturna. Dobbiamo uscire allo scoperto, dove possiamo vedere.» «Giusto» convenne Mindy. «Seguimi.» Ricordando la mappa, Gideon puntò dritto a est. Il bosco si diradò e attraversarono un altro cimitero calpestando crani seminascosti sotto le foglie. Spuntarono su un’ampia strada invasa dalla vegetazione, fiancheggiata su un lato da edifici lunghi e bassi: il complesso della casa di lavoro per giovani. Dal cielo a sud proveniva una luce, quella di New York, a malapena sufficiente perché riuscissero a vedere. Gideon partì di corsa e Mindy lo imitò. «Dov’è la barca?» chiese senza fiato. «Vicino alla spiaggia, accanto alla ciminiera» rispose. Da dietro arrivò una raffica improvvisa di spari e Gideon si gettò istintivamente a terra. Mindy atterrò accanto a lui, rotolò e rispose al fuoco. Ci fu un grido acuto, poi silenzio. «L’ho preso!» esultò. «Ne dubito. È scaltro, quel bastardo.» Rimettendosi in fretta in piedi, si precipitarono verso i dormitori in rovina varcando con un balzo la porta distrutta. Gideon continuò, corse quasi alla cieca attraverso le stanze decrepite inciampando in pezzi di letti e frammenti d’intonaco. Quando uscì, piegò all’improvviso verso la chiesetta fatiscente, la percorse, saltò fuori dal rosone in fondo, poi tornò indietro. «Cosa stiamo facendo?» sussurrò Mindy alle sue spalle. «La barca è dall’altra parte...» «Ci muoviamo a caso. Dobbiamo seminarlo, nasconderci.» Ansimando, con le costole in fiamme, superò un tratto di bosco fitto in direzione della riva opposta, muovendosi più lento ora, cercando di non produrre alcun rumore. Gli alberi si diradarono e i due misero piede nel campo da baseball con le gradinate ricoperte di alberi e rampicanti e il diamante scomparso sotto un groviglio di erbacce. In un attimo erano arrivati. Gideon si fermò e si mise in ascolto. Il vento ululava, la pioggia scendeva pungente, a scrosci: era impossibile sentire alcunché. «Lo abbiamo seminato, ne sono abbastanza sicura» sussurrò Mindy pescando alcuni proiettili dalla tasca e ricaricando l’arma. Indicò le gradinate. «Sembrano un buon posto.» Lui assentì. Gattoni, si infilarono sotto i vecchi sedili. Erano coperti da uno spesso tappeto di vegetazione. Dentro era una specie di grotta. La pioggia tamburellava sulle panche metalliche in alto. «Qui non ci troverà mai» disse lei. Gideon scosse la testa.
«Alla fine ci beccherà ovunque. Aspetteremo un po’, poi raggiungeremo di corsa la barca. Non è tanto lontana.» Restò in ascolto. Al di sopra del rombo della tempesta udiva in lontananza quello dei cavalloni. «Credo davvero di averlo colpito.» Gideon non rispose pensando invece all’itinerario per raggiungere la barca. Il killer non era ferito e non se l’erano scrollati di dosso, ne era certo. «Non hai una torcia o la carta?» le chiese. «Era tutto nel mio zaino. Ho salvato solo la pistola.» «Come sei uscita dalla terra?» «Era molle e non ero molto in profondità. Con la pala hai tolto gran parte del peso. Dammi il filo.» «Per l’amor del cielo» sibilò lui, «di questo parleremo dopo.» Poi comparve la pistola, puntata dritta contro di lui. Mindy si alzò lentamente e arretrò di un passo. «Ho detto, dammi il filo.» Per un istante, mentre fissava l’arma, la mente gli si bloccò. Poi ricordò il commento di Gru che Annuisce. «Sei un idiota.» In quell’occasione gli era sembrato solo un semplice insulto. Se ne era accorto troppo tardi. Niente di quanto diceva o faceva il suo avversario era casuale. «Cosa diavolo stai combinando?» «Dammi il filo e basta.» «Chi sei? Non sei della CIA.» «Lo ero. Non pagavano un cazzo.» «Quindi presti i tuoi servizi al miglior offerente.» Mindy sorrise. «Per così dire. Faccio questo lavoro in particolare per l’OPEC.» «L’OPEC?» «Sì. E non farmi credere di non essere abbastanza sveglio da capire perché l’OPEC voglia quel filo.» «No» rispose lui prendendo tempo. «Causerebbe gravi danni alla loro attività. Potremmo dire addio al mercato del petrolio. E alle auto a benzina. Perciò dammelo, da bravo ragazzo. Non voglio ucciderti, Gideon, ma sarò costretta a farlo se non obbedirai.» «Quanto ti pagano?» «Dieci milioni.» «Ti sei venduta per poco.» Ripensò a Hong Kong, alla goffratrice diplomatica in borsa. Quello di per sé avrebbe dovuto insospettirlo. Lavorava sempre da sola, senza rinforzi, senza un collega. Ben poco in linea con lo stile CIA. Gru che Annuisce aveva ragione: era stato un idiota. Mindy tese la mano. Certo, avrebbe potuto ucciderlo comunque. Ma forse, soltanto forse, il ricordo del tempo passato insieme l’avrebbe frenata...
Mise la mano in tasca e le porse il filo. «Questo significa fare il bravo ragazzo.» Tenendo sempre Gideon sotto tiro, lo sollevò e lo esaminò. Poi lo chiuse nel pugno e prese di nuovo la mira. «Credimi» disse. «Mi spiace davvero.» Gideon capì che parlava sul serio: le spiaceva davvero, ma lo avrebbe fatto comunque. Chiuse gli occhi.
CAPITOLO 69 Nel buio echeggiò un unico sparo. Gideon non sentì niente: nessun dolore, nessun impatto di proiettile. Spalancò gli occhi. All’inizio non si accorse di nulla, poi vide l’espressione assente sul volto di Mindy, il foro nitido del proiettile tra gli occhi. Per un istante rimase lì in piedi, quindi cadde in avanti nella terra. Le strappò il filo dalla mano che ancora si contorceva e scappò. Altri spari perforarono i sedili degli spalti del campo da baseball, inondandolo di frammenti di legno e vegetazione. Uscì dalle gradinate da dietro e puntò dritto verso la barca. Era la sua unica possibilità di sopravvivere. Davanti a lui sorgeva il villaggio post-Armageddon. Sfrecciò per le strade rovinate, coperte di foglie, svoltò un angolo, poi un altro ancora. Sentiva Gru che Annuisce rincorrerlo con passo pesante e guadagnare sempre più terreno. Entrare in una casa avrebbe significato finire in trappola. Non poteva battere in velocità il nemico. Al primo incrocio tornò indietro continuando a curvare per non lasciare all’inseguitore un buon campo di tiro. Avrebbe dovuto prendere la calibro 45 di Mindy, ma non c’era tempo: o la pistola, o il filo. Gru che Annuisce stava costantemente guadagnando terreno. E Gideon ansimava tanto da temere che le costole rotte fossero lì lì per perforargli i polmoni. Cosa fare adesso? L’ultima strada terminò. Di fronte c’era il campo adiacente alla sala dinamo. Era già stato in quel posto. La guardia aveva aggirato con cura quella zona. «L’accesso a quel campo è proibito» aveva detto. «Sull’isola ci sono molti posti pericolosi.» Qual era il pericolo? Forse poteva rappresentare un’occasione. Per lui sicuramente l’ultima. Schizzò nel campo correndo a zigzag. Sentiva il killer alle calcagna; non si fermava per sparare, sfruttava invece la situazione per avvicinarsi tanto da non sbagliare. Gideon lanciò un’occhiata dietro di sé: come previsto, c’era una sagoma che correva, a una cinquantina di metri soltanto. A metà campo si rese conto di aver commesso un grave errore. Non avrebbe mai raggiunto il fondo e non aveva nessuna possibile via di fuga: un punto pericoloso, il segno di qualche buca o vecchia struttura. Solo un maledetto campo senza copertura. Il terreno era duro e pianeggiante. Era una gara di corsa e Gru che Annuisce era il più veloce. Si guardò alle spalle mentre le sue gambe macinavano terreno. Adesso era a trenta metri soltanto. Quando si girò verso il margine irraggiungibile del campo scorse la
ciminiera mostruosa e fatiscente che si innalzava dalla sala dinamo. D’un tratto capì. Il pericolo non era il campo, ma la ciminiera. Era vecchia e instabile e sembrava potesse cadere da un momento all’altro. Quella era la ragione per cui la guardia aveva deviato. Una vecchia scala di ferro a chiocciola saliva fino alla cima. Curvò precipitandosi verso la ciminiera. Facendosi strada a forza nel sottobosco, ne raggiunse la base. Esitò solo un attimo: era un viaggio di sola andata verso il nulla. Fanculo. Balzò sui gradini arrugginiti e iniziò a salire. Tre spari echeggiarono colpendo i mattoni attorno a lui e ricoprendolo di polvere e schegge. La scala tuttavia saliva a chiocciola seguendo la curva della ciminiera, fornendogli un riparo. Mentre si arrampicava strideva e rimbombava, si infossava e dondolava a ogni passo; la ruggine gli cadeva addosso, smossa dall’improvvisa sollecitazione. Un gradino si ruppe e lui si aggrappò alla ringhiera penzolando per un istante nel vuoto prima di riprendersi e tirarsi su. Mentre proseguiva salendo sprezzante sempre più in alto, udì il metallo gemere sotto di lui e percepì una nuova vibrazione. Gru che Annuisce lo stava seguendo. Ovvio. Era una mossa stupida. Lo avrebbe raggiunto in cima e poi gli avrebbe sparato. Gideon avvertì la ciminiera vibrare, investita dal vento, e lo scricchiolio della malta che si sbriciolava. Iniziava a rendersi pienamente conto della follia commessa. La tempesta scuoteva l’intera ciminiera: sembrava sul punto di precipitare. Non vedeva possibilità di uscire vivo da quell’inseguimento. Partì uno sparo, il proiettile intaccò la ringhiera accanto alla sua mano. Prese a salire più in fretta sfruttando la curva della scala a mo’ di copertura. Un fulmine illuminò la scena spettrale: l’isola, le rovine, la ciminiera decrepita, la scala marcia, il mare agitato dalla tempesta. «Crew!» udì gridare da sotto. «Crew!» La voce particolare e monotona di Gru che Annuisce squarciò l’ululato del vento. Lui si fermò, in ascolto. La ciminiera gemeva e ondeggiava. «Sei in trappola, razza di idiota! Portami giù il filo e ti risparmierò!» Gideon riprese a salire. Partì un altro colpo, ma lo mancò. Gru che Annuisce doveva avere un bel po’ di difficoltà a sparare con precisione, visti il dondolio della ciminiera, il vento e la pioggia. Gli sembrò inoltre di percepire una nota di terrore nella sua voce. Non ne rimase affatto stupito. Era una sorta di passo in avanti. Lui invece, stranamente, non provava paura. Quella era la fine: non c’era modo di scendere vivo da lì. Tanto era già un uomo morto. Quel pensiero gli diede uno strano senso di sollievo. Era la sua arma segreta,
l’arma di cui Gru che Annuisce non era a conoscenza: aveva i giorni contati. Mentre saliva, il vento gemeva sempre più furioso, e per poco non lo scagliò giù dalla scala. Un altro fulmine squarciò il cielo, seguito all’istante dal fragore del tuono. Udì uno stridio metallico quando una parte della scala si staccò dalla ciminiera. I bulloni saltarono via con un rumore secco, come di spari. Il pezzo rotto penzolò nel vuoto, con Gideon appeso alla ringhiera. Si aggrappò al metallo con tutte le sue forze mentre il vento lo spingeva indietro sbattendolo contro i mattoni. Il ferro resse finché le violente oscillazioni della scala terminarono. Trovò un appoggio e, rimessi i piedi sui gradini dondolanti, ricominciò a salire. Alzò lo sguardo: altri fulmini saettavano nel cielo. Era quasi a metà. Doveva proseguire per evitare di restare troppo a lungo con il peso su un gradino marcio e rimanere nel contempo dalla parte opposta della ciminiera rispetto a Gru che Annuisce. «Crew!» gridò questi dal basso. «È un suicidio!» «Per tutti e due!» urlò lui di rimando. Ed era davvero un suicidio. Anche se la ciminiera non fosse caduta, non poteva ridiscendere la scala; ormai era troppo danneggiata e inoltre era bloccato dal killer. Non aveva un’arma. Appena raggiunta la cima, Gru che Annuisce gli si sarebbe avvicinato. Era la fine. «Crew! Sei pazzo!» «Puoi contarci!» La ciminiera tremò a una folata particolarmente intensa e un’altra pioggia di mattoni precipitò al suolo. Gideon si appiattì contro la parete mentre sbattevano e rimbalzavano sui gradini. Guardò giù ma Gru che Annuisce non era visibile, nascosto dalla curva della ciminiera. I fulmini ormai erano quasi continui e gli consentivano di vedere ogni pochi secondi. Alzò lo sguardo. Era quasi in cima. Una stretta passerella di ferro girava attorno al bordo del grande camino. Metà dei sostegni non esistevano più ed era pericolosamente inclinata da un lato. Proseguì, un passo dopo l’altro, aggrappandosi alla ringhiera. All’improvviso raggiunse la cima nella tempesta ululante. Strisciò attraverso un buco e arrivò sulla passerella tenendosi bene per via dell’inclinazione. Il bordo della ciminiera, privo di numerosi mattoni, ricordava una fila di denti neri irregolari. La sommità era coperta da una grata pesante che bloccava la fuoriuscita delle ceneri; due portelli di ottone per il tiraggio erano aperti, simili a gigantesche ali di pipistrello. Dall’interno proveniva uno strano gemito sordo, sembrava levarsi dalla gola di un mostro primitivo, antidiluviano. Non c’era un posto dove andare. «Uno di noi morirà ad Hart Island. Così hai voluto e così dev’essere.»
CAPITOLO 70 Dal basso echeggiò una risata. «Capolinea!» gridò la voce, d’un tratto sarcastica. E ora? Gideon era salito sulla ciminiera alla cieca, senza un piano. Una folata lo investì e la sommità del camino ondeggiò. Altri mattoni si sgretolarono e staccarono dal bordo. Di quel passo l’intera struttura sarebbe crollata da un momento all’altro. All’improvviso ebbe un’idea. Afferrò un mattone e guardò giù in attesa del fulmine successivo. Questo arrivò accompagnato dal boato di un tuono e illuminò Gru che Annuisce aggrappato alla scala, quindici metri più in basso. Gideon si spostò in fretta dall’altro lato e lanciò il mattone nel vuoto. Seguì una raffica di spari che perforò la passerella metallica e Crew per poco non cadde per cercare di proteggersi. Echeggiò un’altra risata. Tirare roba addosso a Gru che Annuisce era inutile: con gli occhiali per la visione notturna riusciva facilmente a schivarla, mentre lui doveva attendere la luce dei fulmini. Si sarebbe soltanto beccato un proiettile in corpo. Il vento soffiava attorno ai portelli di tiraggio aperti producendo un suono simile a un canto. Scrutò all’interno della ciminiera, ma era buio pesto. Borbottava e gemeva incessante. Le raffiche ne sferzavano la sommità, la passerella di ferro vibrava e il camino ondeggiava. Quella dannata cosa stava proprio per cadere. Proprio per cadere... Per qualche ragione nella sua mente prese forma un’immagine di Orchid. «Ti trovi in qualche pasticcio, vero? Perché non vuoi il mio aiuto? Perché continui a respingermi?» Guardò il sistema di tiraggio. Era di ottone e ancora in buone condizioni, una lunga leva azionava una serie di ingranaggi che alzavano e abbassavano i portelli semicircolari. Gideon la tirò. I pesanti portelli cigolarono e vibrarono ma parevano bloccati. Diede un forte strattone: ancora niente. Aggrappandosi alla passerella con entrambe le mani, alzò un piede e sferrò un calcio. La leva balzò su e le ante si chiusero con un boato poderoso, producendo un’onda d’urto che si propagò per tutto il camino. Una decina di mattoni si staccarono e caddero nel buio, e la ciminiera stessa oscillò violentemente. «Cosa diavolo stai combinando?» urlò Gru che Annuisce dal basso con voce piena di terrore. Un cupo sorriso illuminò brevemente il volto di Gideon. Afferrata la maniglia, si accucciò sulla passerella vacillante, si piegò in avanti e riaprì a forza i portelli, che si sollevarono come un ponte levatoio. Gli ingranaggi girarono con un rumore basso, il verderame si staccò a pezzi.
Gideon tirò la leva e la abbassò di nuovo. Lo schianto fece vibrare ancora più violentemente la ciminiera. Dalla canna fumaria provennero scricchiolii e stridii mentre l’intera struttura tremava. «Sei pazzo!» gridò Gru che Annuisce. Grazie a un fulmine scoprì la sua posizione: si trovava proprio sotto il bordo della passerella. Gideon lo sentiva ansimare forte e udiva la scala di ferro gemere sotto i suoi passi. Aveva dimostrato coraggio ad arrivare fin lì. Scorse dei plettri luccicanti sulle dita della sua mano destra. Gideon aprì di nuovo a forza le ante. «Sogni d’oro!» Mollò la leva con un boato spaventoso. «No!» Riaprì ancora i portelli e li richiuse, e stavolta la ciminiera sembrò spostarsi dalla base. Dal basso giunse uno stridio. «Idiota!» Alla luce di un fulmine Crew scorse il killer aggrappato alla scala cinque metri più in basso, chiaramente terrorizzato e in fase di discesa. Dalle labbra gli sfuggì una risata folle. «Chi è l’idiota?» gridò. «Non ho paura di morire! Saresti dovuto rimanere laggiù ad aspettarmi!» I portelli si chiusero di nuovo. La passerella vibrò, si inclinò all’improvviso con fragore e Gideon cominciò a scivolare. Si aggrappò alla leva e si tenne. Udì il rumore secco dei sostegni di ferro che saltavano e la passerella si inclinò di più. Il vento la investì violentemente e la rovesciò. Con un ultimo stridio si staccò e precipitò nel buio. Gideon restò appeso alla leva d’ottone, accanto alla bocca diroccata del camino, le gambe penzoloni nel vuoto. Saettò un altro fulmine. Gru che Annuisce stava scendendo velocissimo. Se avesse raggiunto il fondo, lui avrebbe perso l’occasione di vendicarsi. E sarebbe comunque morto. Con una forza improvvisa, si tirò su e mise una gamba sopra la leva. Di lì riuscì a issarsi sul bordo della ciminiera e ad aggrapparsi alla grata per le ceneri. La sentiva ancora muoversi e ondeggiare sotto di lui, gli stridii provenienti dalla canna fumaria stavano aumentando. La fatiscente struttura stava per crollare. Abbassò di nuovo i portelli con un altro forte schianto scatenando l’ennesima onda d’urto. Con uno strano rumore simile a un gemito acuto l’immensa ciminiera si inclinò prima da una parte, poi dall’altra, si fermò e quindi, a ritmo lentissimo, iniziò a piegarsi sempre più nella direzione opposta al vento. Stavolta non tornò in posizione verticale, anzi continuò a inclinarsi. La cima tremò violentemente una, due volte. «Nooo!» udì gridare dal basso. Seguì il rombo prodotto dai mattoni che si spaccavano e si frantumavano sotto il peso della ciminiera. Sarebbe caduta, non c’erano dubbi. Sarebbero morti entrambi. Gideon si augurò solo che la sua fine fosse rapida.
La luce livida di un fulmine illuminò Gru che Annuisce. Non era nemmeno a metà. «Questo è per Orchid, bastardo!» urlò nel buio. La ciminiera si inclinò sempre più, prese a cadere rapida, ad acquistare velocità. Un altro fulmine squarciò il cielo illuminando il mare in burrasca. Fu allora che capì di poter ancora salvarsi. La ciminiera stava crollando, sempre più rapida, verso il mare. Il vento gli sibilava nelle orecchie mentre si teneva aggrappato alla leva accompagnandola nella caduta. Tutti i suoi sensi furono sopraffatti dal boato assordante della struttura che collassava, dalle raffiche impetuose e dal rombo sempre più vicino del mare. Grazie al bagliore dei fulmini vedeva le sezioni inferiori del camino disintegrarsi a contatto col terreno in una pioggia di mattoni e formare una linea di macerie in direzione dell’acqua. Il mare si avvicinava veloce e Gideon si preparò. Poco prima che la punta della ciminiera lo toccasse saltò in alto e all’esterno perdendo parte della spinta verso il basso. Nello stesso tempo si irrigidì contraendo i muscoli del ventre e allungando in alto le braccia per entrare in acqua in posizione verticale. L’impatto fu violento e fu subito scagliato in profondità. Allargò rapido gambe e braccia, rallentando e poi fermando la caduta negli abissi. Prese a nuotare verso l’alto, faticando a muoversi nell’acqua gelida. Continuò a salire, ma la superficie sembrava troppo lontana perché potesse raggiungerla. Proprio nel momento in cui sentì i polmoni sul punto di scoppiare, riemerse ansimando e sbuffando, inspirò e tenne la testa fuori dall’acqua in mezzo alla tempesta. Era tutto buio. Sollevato da un’onda, distinse a malapena le luci di City Island e si orientò. Tenendosi a galla in verticale, cercò di riprendere il fiato e le forze. Puntò quindi verso la spiaggia di ciottoli e la barca nuotando nel mare grosso, sommerso in continuazione dalle onde. Le costole rotte gli bruciavano nel petto ma proseguì nel buio più totale. Con i suoi rombi e i boati la tempesta lo avvolgeva come in un grembo infernale. Stavano svanendo anche le ultime forze. Sarebbe stato ironico, pensò, sopravvivere al crollo per finire annegato. E così sarebbe stato. Non riusciva quasi più a muovere gambe e braccia e a tenere la testa fuori dall’acqua. Una grossa onda lo spinse sotto e si rese conto di non essere più in grado di tornar su. Fu allora che toccò i ciottoli sommersi della spiaggia e si rimise in piedi. Non sapeva quanto fosse rimasto sulla riva e nemmeno il modo in cui era riuscito ad allontanarsi dai cavalloni, ma riprese conoscenza nel tratto superiore della spiaggia. Accanto a sé vide i resti della grande ciminiera che la attraversavano e finivano in acqua. Dappertutto c’erano mattoni
polverizzati e pezzi contorti di metallo. Metallo. Tastò la tasca in preda a un’improvvisa paura. Il filo c’era ancora. Mettendosi a fatica gattoni, superò le rovine sfruttando i fulmini per orientarsi. Lì, dopo una breve ricerca, trovò il corpo di Gru che Annuisce tra le macerie, a neanche un metro e mezzo dal mare. Spinto dal panico, aveva cercato di scendere. Quella decisione avventata lo aveva ucciso: era finito sul terreno anziché in acqua. Era ridotto a una spaventosa poltiglia. Gideon si allontanò rimanendo sempre carponi e riuscì infine ad alzarsi. Con un senso di vuoto, di sfinimento fisico e spirituale, avanzò barcollando verso la palude salmastra dove aveva nascosto la barca. Gli restava ancora una cosa molto importante da portare a termine.
EPILOGO Gideon seguì Garza nella sede della Effective Engineering Solutions su Little West 12th Street. Garza non aveva detto niente, ma lui percepiva la sua rabbia, a stento trattenuta. L’interno della EES appariva immutato: stesse file di tavoli pieni di strani modelli e attrezzature scientifiche, stessi tecnici di laboratorio che si spostavano affaccendati di qua e di là. Gideon si chiese ancora una volta per chi lavorasse davvero. Sebbene la telefonata al Dipartimento della sicurezza interna gli avesse dato la conferma di quanto Glinn e la sua organizzazione fossero legali, gli sembrava tutto incredibilmente strano. Entrarono nella spoglia sala riunioni del quarto piano. Glinn sedeva di nuovo all’estremità del tavolo, l’occhio sano grigio come il cielo di Londra. Nessuno parlò. Gideon si accomodò senza essere invitato e Garza fece lo stesso. «Bene» esordì Glinn. Sbatté lentamente la palpebra segnalando a Garza che poteva parlare. «Eli» disse questi con voce pacata ma tesa, «prima di iniziare, vorrei esprimere le mie più vive proteste per il modo in cui Crew ha condotto la missione. Fin da subito ha quasi sempre ignorato le nostre istruzioni. Ha mentito ripetutamente, a ogni appuntamento, e alla fine ha fatto di testa sua. Non ha detto la verità sul luogo dell’incontro con il killer, ha corso un rischio enorme e su Hart Island ci ha creato un problema che si sarebbe potuto rivelare gigantesco.» Glinn sbatté di nuovo lentamente la palpebra. «Mi dica del problema su Hart Island.» «Per fortuna» continuò Garza, «siamo riusciti a mettere tutto a tacere.» Gettò la copia del mattino del «Post» sul tavolo. VANDALI DEVASTANO IL CIMITERO DEI POVERI, DUE MORTI strillava il titolo. «Mi riassuma i fatti.» «L’articolo riporta che ieri notte Hart Island è stata devastata dai vandali. Hanno rubato una barca a City Island, aperto una serie di tombe, profanato resti umani e distrutto alcune attrezzature. Uno della banda è morto a causa del crollo della vecchia ciminiera sulla quale era salito. Non è stato ancora identificato. Un altro, una donna, è stato ucciso da sconosciuti con un’arma da fuoco. I complici sono scappati e sono ricercati dalla polizia.» «Perfetto» commentò Glinn. «Signor Garza, ancora una volta il suo lavoro si è dimostrato prezioso.» «Non grazie al qui presente signor Crew. È vivo per miracolo, maledizione.» «Un miracolo, signor Garza?» «Come lo definirebbe? Fin dall’inizio ha combinato solo guai.» Gideon vide
un sorriso piegare brevemente le labbra pallide di Glinn. «Io mi permetto di dissentire.» «Ah, sì?» «Qui alla EES sono stati brevettati numerosi algoritmi in grado di valutare i vari comportamenti umani e analizzare complicate simulazioni della teoria dei giochi.» «Non c’è bisogno di ricordarmelo.» «A quanto pare sì. Non si è chiesto perché non abbiamo messo degli agenti alle calcagna di Wu? Perché non abbiamo mandato le consuete squadre di sei uomini a controllare il dottor Crew? Perché non gli abbiamo fornito ulteriori armi o informazioni? Perché non abbiamo chiesto rinforzi alla polizia o all’FBI? Possediamo ampie risorse per fare tutte queste cose e anche di più.» Si protese a poco a poco sulla sedia. «Si è domandato il motivo per cui non abbiamo mai cercato di uccidere noi stessi Gru che Annuisce?» Manuel tacque. «Signor Garza, lei conosce le nostre capacità di calcolo. Ho preso in esame tutti questi scenari e altri ancora. Avremmo fallito su ogni fronte. Se Gru che Annuisce fosse stato ucciso, i cinesi avrebbero reagito su scala colossale. La precocità era il fattore da evitare. La linea dell’agente solitario offriva le maggiori probabilità di successo. Il dottor Crew avrebbe agito da solo senza aiuti, e Gru che Annuisce sarebbe rimasto vivo fino alla fine per riferire notizie positive, rassicuranti ai suoi capi.» «Me lo lasci dire. Alcuni dei suoi programmi sono una fesseria» osservò Garza. Glinn sorrise. «Lei è un ingegnere puro, il migliore. Mi preoccuperei se non guardasse con sospetto ai miei metodi di psicoingegneria.» Si rivolse a Gideon. «Il dottor Crew possiede capacità uniche. E opera nelle condizioni psicologiche più liberatorie in cui un essere umano possa trovarsi: sa quando e come morirà. Gli indiani americani erano consapevoli della forza insita in questa conoscenza. La visione più grande che un guerriero potesse avere era contemplare la propria morte.» Gideon si dimenò a disagio sulla sedia. Si chiese se Glinn sarebbe stato altrettanto compiaciuto e soddisfatto quando avesse conosciuto l’esito finale dell’operazione. Girò l’occhio grigio verso di lui e lo scrutò attentamente. Alzò quindi la mano deforme dalla sedia a rotelle tenendola a coppa. «Il filo, dottor Crew?» Eccola infine, la resa dei conti. «Non ce l’ho.» Seguì una strana stasi di attesa. C’era un silenzio totale. «E perché non ce l’ha?» «L’ho dato al Falun Gong. Insieme ai numeri. Ho portato a termine la missione di Wu. Tra poco la tecnologia sarà disponibile al mondo intero, gratuitamente.» Per un istante la maschera di sicurezza di Eli Glinn
scomparve e il suo volto fu attraversato da qualcosa di indecifrabile, una forte emozione. «Temo che il nostro cliente sarà molto scontento di apprendere la notizia.» «L’ho fatto perché...» La misteriosa espressione svanì con la stessa rapidità con cui era comparsa e il vago sorriso riapparve. «Non aggiunga altro, la prego. So perfettamente perché l’ha fatto.» Seguì un’altra pausa di silenzio. «Le maggiori probabilità di successo!» sbottò Garza. «Questo c’era nella sua maledetta simulazione al computer? Gliel’avevo detto fin dall’inizio di non fidarsi di quest’individuo. Cosa diremo al nostro cliente?» Glinn guardò prima l’uno poi l’altro senza parlare. La sua espressione non era del tutto insoddisfatta. Il silenzio si protrasse finché Gideon non si alzò. «Se qui abbiamo finito» disse, «torno nel New Mexico a dormire per una settimana. Poi andrò a pesca.» Glinn si mosse sulla sedia a rotelle e sospirò. Dalla coperta che gli avvolgeva le ginocchia spuntò una mano raggrinzita. Conteneva un pacchetto di carta marrone. «Il pagamento.» Gideon esitò. «Credevo non mi pagasse più.» «Alla luce di quanto mi ha detto, i nostri accordi sono cambiati.» Glinn aprì la busta ed estrasse diverse mazzette da cento. «Sono la metà di centomila.» Gideon li prese. Meglio di niente, pensò. Poi con sua sorpresa Glinn gli porse gli altri. «E questo è il resto. Non tuttavia come pagamento per i servizi resi. Piuttosto, è un anticipo.» Gideon si cacciò i soldi nella tasca della giacca. «Non capisco.» «Prima di andarsene» spiegò, «dovrebbe far visita a un suo vecchio amico qui in città.» «Grazie, ma ho appuntamento con una trota gola tagliata al torrente Chihuahueños.» «Ah, ma speravo tanto avesse il tempo di vedere il suo amico.» «Non ho amici» replicò secco Gideon. «E sicuramente se ne avessi in questo momento non mi interesserebbe “far loro visita”. Poiché, ho i giorni contati.» «Si chiama Reed Chalker. Credo abbia già lavorato con lui.» «Lavoravamo nello stesso reparto tecnico, non è la stessa cosa che lavorare con lui. Non lo vedo da mesi a Los Alamos.» «Be’, ora lo vedrà. Le autorità sperano possiate fare due chiacchiere.» «Le autorità? Due chiacchiere?»
«In questo momento Reed Chalker ha un ostaggio. Quattro, a dire il vero. Una famiglia nel Queens. Li sta minacciando con un’arma.» Gideon si sentì sprofondare. «Gesù. È sicuro sia Chalker? Era il classico tipo di Los Alamos: schietto, incapace di fare del male a una mosca.» «Farnetica. È paranoico. Fuori di testa. Lei è l’unica persona nei paraggi a conoscerlo. La polizia spera che possa calmarlo, indurlo a liberare gli ostaggi.» Gideon non rispose. «Perciò sono spiacente, dottor Crew, ma quella trota gola tagliata si godrà la vita ancora per un po’. Ora deve proprio andare. Quella famiglia non può attendere.»
FINE