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Italian Pages 233 Year 2000
Tibor Fischer
Sotto il culo della rana In fondo a una miniera di carbone
Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
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«Essere sotto il culo di una rana in fondo a una miniera di carbone» è un modo di dire ungherese usato per descrivere una condizione di sfiga assoluta, estrema: quella con cui devono fare i conti i protagonisti di queste pagine, un gruppo di giovani nell'Ungheria degli anni Cinquanta. La loro sfiga ha mille volti, uno più inquietante dell'altro: l'oppressione prima nazista e poi sovietica, i mille opportunismi individuali che rendono complicatissima l'esistenza, gli stanchi rituali di regime, l'incombente minaccia del servizio militare. I protagonisti di questa esilarante tragicommedia riescono a sfuggire al diffuso squallore della quotidianità (e all'esercito) giocando a pallacanestro in una squadra di serie A, rincorrendo fanciulle e, più in generale, esercitando la nobile e laboriosa arte del non far niente. Un brillante romanzo di esordio, ambientato nel periodo tra la fine della guerra e l'insurrezione di Budapest del '56, che narra le poco gloriose gesta di un gruppo di amici all'interno del grigio scenario del socialismo realizzato, e culmina in un amaro epilogo fatto di emigrazioni, separazioni e tradimenti. Un libro che affronta, sorridendo, temi forti: la tragica assurdità della vita in una società stalinista, l'ambivalenza dell'amicizia, la disperazione e la ribellione di una generazione che si è sacrificata per le strade di Budapest nel '56.
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Indice Novembre 1955..............................................................................................................5 Dicembre 1944.............................................................................................................23 Ottobre 1946................................................................................................................31 Settembre 1948............................................................................................................43 Gennaio 1949................................................................................................................55 Settembre 1949............................................................................................................75 Agosto 1950..................................................................................................................94 Agosto 1952................................................................................................................122 Luglio 1954.................................................................................................................136 Novembre 1955..........................................................................................................146 Settembre 1956..........................................................................................................164 23 ottobre 1956...........................................................................................................183
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Per tutti coloro che hanno combattuto (Non solo nel '56. Non solo in Ungheria)
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Novembre 1955 Era innegabile: a venticinque anni non era mai uscito dal paese e non era mai arrivato a più di tre giorni a piedi, un giorno e mezzo su carro a cavalli o un pomeriggio abbondante di treno dal posto in cui era nato. D'altra parte, rifletteva Gyuri, quanti potevano dire di aver viaggiato nudi in lungo e in largo per l'Ungheria? Viaggiavano sempre nudi. Non ricordava come e perché avessero iniziato, ma era diventata una regola inviolabile per la squadra del Locomotive durante le trasferte. Viaggiavano sempre nel loro vagone di lusso (costruito appositamente dalle ferrovie ungheresi per facilitare le Waffen-SS nelle loro razzie di opere d'arte in tutta Europa e noto agli esperti di cose ferroviarie come una vettura senza rivali su rotaie) e viaggiavano sempre nudi. Róka, Gyurkovics, Demeter, Bánhegyi e Pataki giocavano a carte sul tavolo da pranzo di mogano, un ex pezzo di antiquariato (almeno secondo Bánhegyi, che aveva lavorato nella ditta di traslochi del padre), deprezzato da anni di sgocciolamenti, graffi involontari e non, bruciature di sigaretta. Non essendo un oggetto facile da intascare approfittando di un momento di confusione, il tavolo era stato orgogliosamente conservato dalla squadra del Locomotive nonostante fosse un simbolo di lusso collettivo (anche se in stato di progressivo deterioramento). Chi era la spia? Chi faceva l'informatore? Róka cambiava continuamente posizione, come a disagio, un po' perché gli stavano spillando soldi come lattice da un albero della gomma e un po' perché aveva il sistema cardiocircolatorio in subbuglio. La pallacanestro, per Róka, era essenzialmente un modo per disseminare cromosomi in giro per il paese. La pallacanestro, come qualsiasi attività che lo portasse fuori dalle mura domestiche, fungeva da ponte fra sé e i membri dell'altro sesso. Superate le ventiquattrore di astinenza sessuale Róka diventava estremamente agitato e si lanciava, per esempio, in frenetiche corse sul posto, accompagnate da ululati. Persino in 5
un ambiente come il vagone del Locomotive, dove la conversazione verteva essenzialmente sulle donne, la dedizione di Róka per le circonvoluzioni gamiche era notevole. Ma Róka era troppo una brava persona per fare una cosa simile. In sostanza, Róka era buono e a Gyuri, come a tutti, era simpatico. Per questo faticava a immaginare che fosse lui la spia, il delatore della squadra. A dir la verità era difficile pensarlo di chiunque, tranne forse di Peter. Ma essendo Peter l'unico ad avere la tessera, era troppo ovvio. Quanto a Pataki, lo conosceva dall'età in cui si incomincia a conoscere. Gyuri non riusciva a immaginare nessuno della squadra fare la spia. Demeter era troppo signore, Bánhegyi troppo allegro, Gyurkovics troppo disorganizzato e gli altri, presi uno per uno, non erano proprio il tipo della spia. Però, capovolgendo i termini della questione, pensò che proprio il fatto di essere una brava persona potesse aver fregato Róka. Se tu non fai questo, noi facciamo quest'altro a tua madrepadresorellafratello. Come al solito, quando non era intento a darci dentro, Róka si consolava parlandone: «Così le ho spiegato che per me andava bene». Tipico di Róka. Non era per niente snob, anzi, era generoso, egualitario, e arricciava il naso di fronte a concetti meschini e borghesi come bellezza, desiderabilità, giovinezza. Stava raccontando l'incontro con una sua recente conquista, una donna il cui fascino, ci teneva a precisare, non erano affatto sminuito da una protesi al braccio. Il succo della storia era che a un certo punto la protesi si era staccata e Róka si era trovato una prolunga piuttosto ingombrante intorno all'arnese. Pareva che la signora fosse rimasta molto turbata, nonostante Róka le avesse ripetutamente assicurato che sono cose che possono succedere a chi ha una mano artificiale. Gyuri però ebbe l'impressione che il racconto non fosse terminato quando la narrazione venne decapitata da Róka furibondo perché aveva perso di nuovo e Pataki si era aggiudicato un altro ricco piatto. Gyuri non giocava a carte perché si annoiava e anche perché Pataki vinceva sempre. Giocavano pochi soldi, ma siccome ne aveva pochi, non vedeva perché darli a Pataki. Era inspiegabile ma inevitabile ed evidente: come le gocce di pioggia su un vetro scivolano verso il basso, così i soldi gravitavano verso Pataki. Ogni tanto perdeva anche lui, ma nella migliore delle ipotesi
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per educazione, e comunque con l'aria di chi ti vuole attirare in una trappola. Stufo di cercare di risolvere il problema dell'informatore, Gyuri si mise a pensare a come sarebbe stato fare il netturbino. Intanto guardava dal vetro la campagna che scorreva con bella lentezza, nonostante il treno si spacciasse per un espresso. Quello del netturbino era una specie di chewing-gum mentale per lunghi viaggi. Netturbino. Dove? Londra, New York, Cleveland, Gyuri non era schizzinoso. Un modesto netturbino, in un posto qualsiasi. Un posto qualsiasi in Occidente. Un posto qualsiasi, ma là fuori. Qualsiasi lavoro, anche umile: lavavetri, spazzino, manovale. Gli sarebbe bastato quello, fare il proprio lavoro senza bisogno di esami sul marxismo-leninismo, senza bisogno di fotografie di Rákosi o dell'ultimo supermanigoldo salito al potere. Niente martellamenti con le cifre della produzione che salivano e salivano sempre di più, più ancora di quanto previsto dal Piano perché la capacità di produzione socialista era stata sottovalutata. Gyuri aveva l'impressione che fare il netturbino dovesse essere abbastanza piacevole. Era un lavoro all'aria aperta, sano, si vedevano tante cose. Era l'umiltà di quella fantasia, la sua frugalità, a dargli il piacere più grande, perché sperava che fosse più facile realizzarla. In fondo non stava assillando la Provvidenza per diventare milionario o presidente degli Stati Uniti. Chi poteva rifiutargli un posto da netturbino? Mi basta uscire di qui. Tiratemi fuori. A parte l'imperante inclemenza del clima politico e l'onnipresente merdosità della vita, era assurdo non essersi mai spinto a più di duecento chilometri dal luogo in cui si era stati scaricati dal ventre materno. Il treno rallentò ulteriormente il suo già lento incedere, a significare che stavano arrivando a Szeged. Stando alle sue ricerche, si trovava a 171 chilometri da Budapest. Proprio accanto alla stazione di Szeged c'era un palazzo alto, di mattoni rossi, che si spacciava per albergo ma era stato, come tutti sapevano, uno dei più noti bordelli d'Ungheria prima che quei covi dell'iniquità capitalista fossero chiusi. Accademici, semplici cittadini, bifolchi con il vestito della domenica (quello che si mette solo per andare in chiesa, nella bara o al casino), commercianti e nobili (a quanto pareva solo di specie balcanica) ne avevano varcato la soglia. 7
Sul fatto che fosse diventato un albergo non c'era dubbio. Le ragazze dovevano essere state indirizzate a occupazioni più dignitose. Gyuri ricordava che il segretario del Partito aveva fatto un gran parlare allo stabilimento di Ganz quando avevano assunto quattro lucciole. Porgendo il benvenuto alle nuove dipendenti, Lakatos si era lanciato in un'accesa denuncia dell'odioso sistema capitalista, che sfruttava quelle sventurate in locali di ipocrita depravazione borghese, che aveva perpetuato il droit de seigneur e aveva mandato al macello i giovani proletari in guerre di conquista di nuovi mercati e buttato le giovani proletarie sul marciapiede. Era stata, soprattutto per Lakatos, una splendida orazione. Doveva averla letta da qualche parte; probabilmente ripeteva a pappagallo qualche brano del manuale del segretario del Partito, alla voce «accoglienza in fabbrica di ex puttane». Le ragazze avevano ascoltato gli strali di Lakatos intimidite, con la tuta da operaie. La diatriba era terminata con Lakatos che, dopo essersi asciugato dalla fronte il sudore della retorica, si chiudeva nel suo ufficio mentre le ragazze venivano accompagnate a imparare il nuovo mestiere. Nel giro di quindici giorni avevano ripreso a esercitare quello vecchio tra gli enormi rotoli di filo di rame prodotti nello stabilimento. L'essenza del comunismo era quella, decise Gyuri: mettere i bastoni fra le ruote alla gente. Róka gettò le carte sul tavolo, schifato, mentre Pataki si riempiva ancora una volta le tasche: «Per citare il grande prevosto di Kalocsa dopo che un treno gli aveva portato via tutte e due le gambe, "Almeno l'uccello me lo lasci?"». «Parliamo di quel tuo disco di jazz», replicò Pataki mescolando pazientemente le carte. Róka, figlio di un eminente vescovo luterano, era l'esperto della squadra in materia di Chiesa e odi di Orazio. Tutte le volte che il padre di Róka si imbatteva in uno dei tre figli, lo salutava con un verso di Orazio, cui questi doveva rispondere con il successivo, pena una tirata d'orecchie. Il vescovo era severo ma non fino in fondo, e chi riusciva a coglierlo in fallo su Orazio riceveva in premio una fetta di torta al cioccolato. Róka sosteneva di non aver assaggiato torta al cioccolato fino all'età di sedici anni.
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Anche Róka, come Gyuri, era un «nemico oggettivo di classe», ma a Róka non sembrava importare più di tanto e soprattutto non permetteva che questo handicap politico interferisse con il suo scopo nella vita. Scandagliò metodicamente i binari della stazione di Szeged alla ricerca di una donna che avesse l'aria di non disdegnare una sveltina contro un muro appartato con un giocatore di basket diretto a Makó. Oltre a un'inesauribile carica ormonale, Róka aveva anche un sacco di bellissimi (ossia occidentali) dischi di jazz, ormai finiti quasi tutti nelle grinfie di Pataki, per cui si guardava intorno anche nella speranza che accadesse qualcosa che impedisse il passaggio di un altro disco alla collezione di Pataki. La sua torva espressione dimostrava inequivocabilmente e tristemente che nella stazione di Szeged non c'erano donne sotto i sessant'anni. «Non abbiamo benedetto Szeged, vero?» osservò Bánhegyi. Era un passatempo infantile, ma economico e talvolta divertente. Katona si sporse da un finestrino più indietro in maniera da non perdersi la scena quando, alla partenza del treno, Róka, Gyurkovics, Demeter e Pataki schiacciarono i rispettivi posteriori contro il finestrino che dava sul marciapiede. Le pareti del vagone erano tappezzate di fotografie di viaggiatori di ogni parte d'Ungheria sbigottiti e furibondi. Szeged fu una mezza delusione. Un'anziana donna controllore, investita dal saluto a otto chiappe, rimase imperturbabile. Per miopia, forse, o per dosi massicce di guerra, quasi qualche sventura l'avesse pian piano annichilita. O forse a Szeged erano abituati alle squadre di basket. Attraversarono il fiume e Gyuri lo osservò, meditando nuovamente sui lati positivi del mestiere del netturbino. «Il confine è troppo lontano per arrivarci a piedi», disse Pataki continuando a presiedere alla spoliazione dei suoi compagni di squadra. «Conviene scappare da Makó.» Sebbene non le avesse mai espresse, pian piano le sue aspirazioni erano trapelate e i suoi compagni le avevano indovinate del tutto. Tenere un segreto e viaggiare nudi con altre persone sono cose praticamente incompatibili fra loro. «Non è poi così meraviglioso neanche là, Gyuri.» Gyurkovics lo diceva sempre. Era un bugiardo, forse non della stessa forza di Pataki, ma comunque con una sua competenza nel settore. Mentre Pataki raccontava falsità principalmente per divertirsi e vi ricorreva come arma di
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difesa solo se inevitabile, con Gyurkovics sapevi che ogni volta che apriva bocca la verità andava in esilio. Gyurkovics c'era stato, là fuori. Nel '47, prima che i confini si chiudessero peggio delle chiappe dì un pidocchio, era stato a Vienna. Era più o meno lo stesso periodo in cui Gyuri era andato da Pataki a proporgli di scappare. Con fogli di giornale al posto delle mutande, passava la maggior parte del suo tempo a preoccuparsi di quando avrebbe messo di nuovo qualcosa sotto i denti. Stava salendo a casa Pataki nella speranza di trovare tutti a tavola, quando lo aveva incontrato per le scale. Aveva degli occhiali da sole dell'esercito americano, di provenienza evidentemente clandestina; ce ne saranno state in circolazione al massimo dodici paia in tutta l'Ungheria. Pataki stava meglio di lui: non si fasciava il sedere nella carta di giornale e aveva una madre e un padre non disoccupato a procurargli da mangiare. Gyuri, però, era convinto che non fosse quello il fattore cruciale. «Andiamo via, andiamocene da questo paese», lo aveva esortato. Pataki si era trastullato brevemente con l'idea. «No», aveva risposto. «Andiamo a remare.» Era finita così. Gyuri era sicuro che se avesse detto di sì sarebbero andati subito a piedi alla stazione. Invece aveva detto di no, ed erano andati alla rimessa delle barche. Comunque, Gyurkovics aveva reciso il cordone ombelicale con la madre patria, ma incredibilmente era tornato sei mesi dopo, quando di ragioni per tornare ce n'erano ancora meno. A Vienna aveva uno zio che aveva fatto i soldi con le calzature e visto da Budapest sembrava ricchissimo. L'invidia li aveva rosi per sere e sere, ma poi Gyurkovics era riapparso con l'aria triste e un vestito modesto. Girava voce che solo l'insania o l'omicidio avessero potuto spingerlo a tornare, ma il fratello aveva rivelato che cos'era successo. Gyurkovics aveva demolito l'impero delle calzature. Nel biglietto lasciato prima di suicidarsi, lo zio aveva scritto: «Hai doti straordinarie: chi riesce a distruggere nel giro di poche settimane un'azienda costruita con quarant’anni di fatica, amore, levatacce e impareggiabile cura della clientela ha un talento fuori del comune. Spero solo che un giorno questi tuoi poteri saranno usati per il bene dell'umanità». In attesa di salvare il genere umano, Gyurkovics passava il tempo con la pallacanestro e parlava male dell'Occidente. Probabilmente aveva lasciato 10
a Vienna altri motivi d'imbarazzo che non voleva correre il rischio di veder tornare a galla, e in ogni caso non valeva la pena di attraversare il tratto di confine vicino a Makó. Chi aveva voglia di andare in Iugoslavia o in Romania? Stella rossa di qua e di là. La Iugoslavia: un branco di serbi dal coltello facile, e la Romania poi... Gyuri si era offeso quando non l'avevano convocato per la tournée in Romania. Era vero che andare in Romania non era proprio andare all'estero, ma comunque non era Ungheria e il fatto che le sue ascendenze borghesi lo avessero defraudato di un viaggio a cui prendevano parte criptofascisti decadenti del calibro di Róka e Pataki gli faceva andare il sangue alla testa. Volevano vincere e quindi non potevano lasciare a casa Pataki, ma non volevano che a passargli la palla fosse qualcuno troppo «nemico oggettivo di classe». In virtù di qualche incomprensibile procedura ministeriale il livello «inimicizia oggettiva di classe» di Róka era stato ritenuto più accettabile del suo. A ogni buon conto, la Romania non aveva una buona reputazione. Qualche anno prima Józsi, che abitava al primo piano, al ritorno dalle vacanze estive in Transilvania da certi parenti, aveva detto scandalizzato: «Si scopano le anatre, davvero, non scherzo, li ho visti con i miei occhi». «Non essere ridicolo», aveva obiettato Pataki, «saranno state oche!» Józsi sembrava sinceramente scioccato ma, se si pensa che tutti i più grandi generali ungheresi, uomini di forte tempra che hanno fatto la storia dell'Ungheria, vengono dalla Transilvania, è plausibile che alzarsi la mattina e scoprire il vicino con le brache calate intento a far strillare un pennuto sia un'esperienza formativa. Gyuri aveva chiesto notizie della Romania anche a István, che era stato l'ultimo soldato ad abbandonare Kolozsvár, «l'ultimo, ma il più veloce». István era scoppiato a ridere e non la finiva più. Elek, che prima della guerra aveva preso l'Orient Express per recarsi a Bucarest per motivi di lavoro, sentito che Gyuri stava facendo di tutto per partecipare alla tournée in Romania, aveva commentato: «Mio figlio è un imbecille. Questa è la cosa che mi fa più male». Gyuri aveva subito l'aria soddisfatta dei compagni che si preparavano alla partenza. Róka aveva imparato una frase in rumeno che ripeteva in continuazione e che a suo dire significava «mettimi l'occhiello sul pisello». 11
Pataki aveva messo nella valigia una scorta di carta igienica e una vetusta guida alle delizie gastronomiche rumene. Vennero, videro, persero, ma almeno tornarono. Gyuri era andato ad accoglierli alla stazione Keleti. Il primo a scendere era stato Róka. Era sempre stato esile di costituzione, ma adesso aveva perso parecchi chili: sembrava uno scheletro coperto di pelle biancastra, del tutto fuori luogo, essendo agosto. «Mettiamola così», aveva riassunto Róka, «se dovessi scegliere fra due settimane nella sala d'attesa della stazione Keleti senza niente da mangiare e una notte nell'albergo migliore di Bucarest, non ci penserei su due volte.» Avevano perso tutte e due le partite, principalmente perché Pataki era fuori combattimento. Lui, che non era mai stato malato un giorno in vita sua (al massimo si era inventato dei malanni per sottrarsi a obblighi di vario genere), che aveva visto un medico solo alle visite obbligatorie per gli sportivi, a Bucarest era rimasto tutto il tempo in ginocchio a dar di stomaco, vilmente tradito dai propri sfinteri, prosternato dinanzi ai numi del vomito, abbracciato ai diversi sanitari della suite a implorare l'intercessione divina. Gli altri, vittime di brutali sconquassi digestivi, erano comunque riusciti a entrare in campo, ma si sentivano le gambe pesanti come piombo e il fatto di entrare in possesso di palla era per loro motivo di enorme amarezza, poiché questo implicava dover correre o comunque agire. Il Locomotive avrebbe felicemente dato forfait a metà partita, se non fosse stato per i ferventi appelli all'onore nazionale e per le temibili minacce antelucane di Hepp. Nonostante la sconfitta fosse irrimediabilmente segnata fin dal primo minuto (o forse proprio per questo) i giocatori del Locomotive erano stati fischiati e presi di mira dal pubblico, tanto che Szabolcs si era ritrovato una freccetta infilzata in un orecchio. Quando Demeter, capitano in vece dell'indisposto Pataki, aveva invitato il capitano dell'altra squadra a scambiarsi la maglia, come tradizione nelle partite internazionali, il rumeno si era messo a mercanteggiare e alla fine Demeter si era ritrovato con tre maglie indesiderate, mentre i rumeni se ne andavano congratulandosi fra loro per aver fregato gli ungheresi. «Non credevo di uscirne vivo», aveva detto Róka baciando il marciapiede.
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Nella partita di ritorno si erano presi la rivincita battendo il Sindacato Rumeno Ferrovieri, ma solo di due punti: un margine davvero minimo e deludente, soprattutto tenendo conto del fatto che il fratello di Róka, che presiedeva alle cucine dell'albergo dove erano alloggiati i rumeni, aveva versato nel gulasch una quantità spropositata di veleno per topi. Il treno giunse a Makó, destinazione del treno stesso nonché del Locomotive. Quel pomeriggio dovevano incontrare gli Spolpatori di Makó. Nella cittadina si trovava un piccolo mattatoio che riforniva di carne il salumificio di Szeged. I loro avversari provenivano tutti dal reparto di spolpatura ossa piccole del macello. Non c'era nessuno ad accoglierli alla stazione, ma le dimensioni di Makó erano tali che perdersi era impossibile. Arrivarono alla palestra della scuola dove doveva tenersi la partita e trovarono gli Spolpatori che si trascinavano pesantemente per il campo, intenti in quello che aveva tutta l'aria di un disperato tentativo di impadronirsi dei fondamentali della pallacanestro mezz'ora prima dell'incontro. Mentre si cambiavano, Hepp inflisse loro un'edizione tascabile della sua esortazione pre-partita. Non era affatto necessario, dal momento che si capiva a occhi chiusi che gli Spolpatori non erano gran che. Le squadre sconosciute di provincia non erano mai gran che, anche perché se ci fosse stato qualcuno bravo se ne sarebbe andato via subito, risucchiato da squadre più importanti che offrivano un trattamento ben migliore. Era un'amichevole per saggiare gli Spolpatori, una squadra di recente formazione, che probabilmente aveva organizzato la partita con una squadra di I divisione come il Locomotive attraverso canali politici. Il segretario del Partito di Makó doveva aver telefonato a un altro segretario del Partito a cui aveva fatto pervenire una cassa di salami; costui a sua volta aveva telefonato a un altro segretario del Partito prospettandogli un'altra cassa di salami e così via, con il risultato che il Locomotive aveva preso un treno ed era arrivato a Makó. Quindi Hepp poteva risparmiarsi gli ammonimenti, ma era un professionista, cosa che a volte poteva risultare fastidiosa, e prendeva seriamente il suo lavoro, al contrario di altri dieci milioni di ungheresi. Era bravo come allenatore, come dirigente e come mentore della squadra, ma aveva un grosso difetto: si alzava sempre alle quattro e mezzo del mattino e 13
dopo cinquant'anni di questa vita non si era ancora accorto di essere l'unico. La sua minaccia più temibile era portarli a correre all'alba delle cinque. Una mattina, poco dopo essere entrato nel Locomotive e poco dopo aver dato fuoco al letto, Gyuri si era svegliato sul pavimento con la desolante consapevolezza che Hepp lo aspettava alle cinque e mezzo al campo sportivo nel gelo scuro e impenetrabile di ottobre. Domandandosi perché tanta parte della vita consistesse nell'alzarsi quando era buio e freddo per fare cose che non piacevano, aveva deciso di ribellarsi. Di norma Gyuri era molto scrupoloso negli allenamenti, tanto che aveva dato fuoco al letto sperando così di incenerire con esso la propria pigrizia. Come letto non era il massimo, ma era comunque dignitoso e funzionante, e al mattino Gyuri lo trovava di gran lunga preferibile alla corsa invernale. Restava comodo al calduccio corroborante e, invece di andarci, pensava e ripensava all'allenamento che gli sarebbe toccato. Sapeva di doversi allenare anche più degli altri perché non era un talento naturale come Pataki e, per ottenere ciò che la pallacanestro poteva offrirgli, doveva impegnarsi al massimo. Per questo aveva trascinato il letto nel cortile e lo aveva bruciato dopo averlo cosparso di benzina, per essere sicuro di non cadere più in tentazione. I vicini non avevano battuto ciglio, perché si ritenevano già soddisfatti se Gyuri o Pataki, catalogati come i più matti del palazzo, non tagliavano loro la gola nel sonno. Gyuri confidava nel pavimento per svegliarsi più in fretta e riuscire ad allenarsi un paio d'ore prima di incominciare la giornata. Ma anche al pavimento ci si affeziona. Così quella mattina aveva pensato che non si può andare sempre di fretta e, depennata dal programma la corsa artica di Hepp, era di nuovo sprofondato nel sonno. Alle sei (come scoprì poi) avevano suonato alla porta. Elek, che era sveglio pur non avendo ragione di esserlo, era andato ad aprire. Hepp gli aveva consegnato il biglietto da visita, che portava sempre con sé, «Dr. Ferenc Hepp, dottore in Discipline sportive», e gli aveva chiesto di indicargli la camera di Gyuri. Dal letto Gyuri aveva mentito quasi d'istinto dicendo che era malato ed Elek si era stupito, dato che la sera prima non aveva fatto cenno a nessun malessere. Questo aveva tolto anche l'ultimo barlume di veridicità a quella scusa. 14
«Bene», aveva detto Hepp in tono benevolo, «se riuscirai a vincere il tuo malessere, se riuscirai ad alzarti in piedi, poiché è una mente forte a fortificare il corpo, e ad arrivare al campo fra venti minuti e a fare dieci giri più degli altri per dimostrare a questo tuo malessere che non cedi così facilmente, ti ricompenserò adeguatamente e firmerò il tuo rinvio del servizio militare.» Era tipico di Hepp: altri allenatori avrebbero mandato qualcun altro a minacciare, ma lui non esitava a occuparsi personalmente di tutto. «Non ho bisogno di dirvi che vincerete», esordì Hepp, «quindi non lo dirò. Questi Spolpatori sono senza dubbio dei palmipedi e, se sono vestiti da giocatori di pallacanestro, è solo perché sono venute le loro mamme a cambiarli. Non voglio essere accusato di irragionevolezza, non voglio espormi a querule lamentele, ma devo insistere, signori, perché vinciate con almeno venti punti di scarto. «Dicono che un libro non si giudica dalla copertina ma, per quanto mi riguarda, il compito di una copertina è esattamente quello: questi non troverebbero neanche l'acqua in mare. Devo pertanto insistere, pur tenendo conto della vostra non sottovalutabile indolenza, su almeno venti, anzi, trenta punti di distacco. In caso contrario, saranno addominali per tutti al parco municipale alle cinque della mattina più piovosa che troverò.» A quel punto sollevò la lavagna che portava sempre con sé e tratteggiò alcuni schemi scelti dal suo quaderno, spesso come la coscia di un lanciatore di martello (Gyuri una volta aveva intravisto uno schema contrassegnato dal numero 602!). Solitamente la parte più difficile della partita era proprio ascoltare i consigli di Hepp, visto che, tanto più giocando contro dei ripulitori di ossicini, bastava prendere la palla, passarla a Pataki e guardarlo correre a infilarla con grande affabilità nel canestro. Era una tattica straordinariamente efficace contro tutti, a parte quelle tre o quattro squadre in testa alla classifica della serie A che avevano il cervello, il talento, la velocità o l'accortezza di impedirne l'esecuzione. A Makó fu dura seguire le complicatissime macchinazioni di Hepp. Sarebbe bastato metterne in pratica una o due, a prescindere dalla loro necessità o utilità (tipo marcare un paio di punti). Ma Hepp era l'allenatore, e la pallacanestro era meglio di un lavoro vero in cui si aspettano che tu faccia qualcosa per dei soldi che non ti danno. Qualche giustificazione era 15
ammessa - «Mister, la marcatura su Pataki era troppo stretta, non siamo riusciti a usare lo schema «uovo sbattuto» - ma in caso di palese non ottemperanza agli ordini, la punizione preferita da Hepp per mancato rispetto del suo quadernone di pelle era mezz'ora su e giù per le gradinate e vi assicuro che, per quanto in forma, dopo un po' le gambe finivano per diventare dei massicci grumi di dolore. Talora gli schemi di Hepp li facevano anche vincere come la volta del Grande Massacro del Politecnico, quando la favoritissima non era riuscita a sconfiggerli proprio grazie a Hepp. Al fischio finale gli universitari erano rimasti lì, immobili, incapaci di credere di essere stati battuti, e malamente, da una squadra cinque posizioni più in basso nella classifica. Ma quello che contava non era tanto la vittoria, quanto il controllo: avendo allenato lui stesso nel gimnázium, Gyuri aveva imparato che il piacere più grande viene dal tenere in mano le fila, il comando a distanza, un po' come i registi o i generali. Vuoi riconoscere la tua mano. Róka, come al solito, scese in campo per primo con il grammofono. Sapevano tutti che la sceneggiata a Makó era sprecata, ma essere dilettanti professionisti comportava proprio questo: lo spettacolo doveva continuare anche se non c'era nessuno a guardare o il pubblico era troppo idiota per apprezzare. Il grammofono era di István. István e il grammofono erano praticamente tutto quello che restava della Seconda Armata ungherese. István aveva ricevuto il grammofono in dono da Elek quando era partito per il fronte nel '41. Gyuri non aveva idea di quanto fosse costato, ma si parlava di un patrimonio; c'erano generali tedeschi che non potevano godersi le stesse distrazioni musicali di quel tenente d'artiglieria ungherese. La Seconda Armata, come tutti gli eserciti ungheresi, aveva la sciagurata abitudine di farsi sbaragliare. István era tornato, ammaccato e scorticato da una granata, mentre altri 200 000 ungheresi no. Ancora più miracoloso era stato, qualche mese dopo, il ritorno del grammofono, per mano di un suo compagno d'armi. István non aveva niente in contrario a che Gyuri lo avesse in prestito permanente. Róka mise su uno dei dischi jazz, al cui suono il Locomotive entrò con passo marziale in campo e iniziò il riscaldamento, palleggiando e inanellando un canestro dopo l'altro. I dischi che accompagnavano le loro gesta 16
erano tutti americani, il che avrebbe potuto essere causa di guai, ma prima di gettare via una cassa di dischi regalati loro da una squadra di ferrovieri sovietici avevano staccato le etichette con il vapore e le avevano incollate a quelli di jazz. Così le decadenti musiche occidentali erano mimetizzate dietro titoli tipo Lenin è fra noi, La nostra locomotiva a vapore e il grande successo In prima linea nella foresta eseguito dall'Ensemble di Canto e Danza dell'esercito sovietico (i nomi originali li avevano ormai dimenticati). A eventuali occhi indiscreti si sarebbe presentato soltanto del rispettabile cirillico rosso, quali che fossero i suoni che giungevano alle orecchie. Gli spolpatori di ossicini erano rimasti visibilmente sorpresi. Gyuri ebbe la sensazione che mai e poi mai avrebbero conosciuto l'eccitante esperienza di spolpare ossa più consistenti. Uno di essi si fece avanti e dichiarò che c'era un solo arbitro. «L'altro zio non è potuto venire.» Il più alto, sui due metri, arma segreta non troppo segreta degli Spolpatori, si mise davanti a Pataki per la palla a due lanciandogli un'occhiata di malcelato disprezzo dall'alto dei suoi dodici centimetri in più. C'era da ridere, i macellai credevano di vincere. Rimasero molto sorpresi quando Pataki scomparve con la palla e, invece di correre a infilarla nel canestro come suo solito, la passò indietro a Gyuri. Giusto per divertirsi un po', questi tentò il tiro a canestro dalla metà campo opposta. Normalmente ci si prova quando si è alla disperazione e mancano pochi secondi alla fine della partita. Le probabilità di farcela erano praticamente nulle, ma Gyuri sapeva che il Locomotive avrebbe vinto comunque, anche se avessero giocato solo in due, e quindi ci provò. La palla attraversò in quota il campo ed entrò senza nemmeno sfiorare l'anello o il tabellone. Qualsiasi giocatore dotato di una minima dose di esperienza l'avrebbe catalogato come un colpo di culo, di quelli che capitano una volta nella vita, ma gli Spolpatoti ne rimasero fulminati e precipitarono in un attimo dalla bucolica millanteria al panico più totale. Invece di stare addosso a Pataki (non che la cosa l'avrebbe infastidito molto), si ammassarono intorno a Gyuri. Dopo che Pataki aveva avuto tutto il tempo di infilare una dopo l'altra dieci schiacciate, come se si stesse allenando su un campo vuoto, gli Spolpatori iniziarono a rendersi conto che forse avrebbero dovuto tenerlo d'occhio, ma questo non risolse la situazione. 17
L'Arma Segreta si sforzava goffamente di rubargli palla, ma il suo corpaccione rappresentava un'opportunità troppo ghiotta perché la forza di gravità se la lasciasse scappare, e invariabilmente Pataki saltava più in alto o correva più veloce. Una parzialità come mai il Locomotive ne aveva visto, una parzialità così evidente da parte dell'arbitro, che permise agli Spolpatori falli, sgambetti e gomitate e assegnò tiri liberi del tutto ingiustificati, fece sì che il risultato finale fosse di 68 a 32 per il Locomotive. Era ovvio che per farli arrivare alla massima divisione non sarebbe bastata l'intera quota di produzione destinata all'esportazione dell'industria ungherese di salami. La gioia del buon risultato su cui Hepp contava gli fu guastata dal comportamento dell'arbitro, che fischiava non appena un giocatore del Locomotive si avvicinava alla palla. Hepp andò dal direttore di gara per discutere le centootto infrazioni al regolamento arbitrale annotate nel corso della partita. Dalla faccia dell'arbitro Gyuri intuì che non si era reso conto di doverle sviscerare davvero una per una tutte e centootto, fin nei minimi dettagli. La perseveranza di Hepp era uno dei motivi per cui il Locomotive era una squadra di alta classifica ma, nonostante il suo acume, la sua esperienza e la sua grinta, Hepp non era mai riuscito a far vincere il Locomotive contro la squadra dell'Esercito, che si teneva lo scudetto imbullonato nella sede come se non ci fosse bisogno di spostarlo. I punti di forza dell'Esercito erano evidenti: infiniti vantaggi per gli atleti, innumerevoli strutture, la possibilità di arruolare tutti i migliori e, soprattutto, la garanzia che se giocavi nell'Esercito non dovevi entrare nell'esercito (quello vero, in cui il vitto era scarso e ti facevano scavare trincee a temperature polari). In effetti uno dei modi più simpatici per evitare l'esercito - passatempo principale dei giovani ungheresi di sesso maschile dopo lo scopare - era proprio entrare nell'Esercito. La vita degli sportivi dell'esercito, nel basket come in altre discipline, era una pacchia. Il primo giorno magari si spingevano fino a mostrarti com'era fatto un fucile, ma quello era il massimo di scienza militare impartita agli atleti. Chiunque giocasse nella massima serie aveva un impiego nominale fornito dal club di appartenenza, con mansioni che consistevano principalmente nel ritirare lo stipendio (oltre alle buste 18
marroni del club con i «buonicalorie»). Gyuri, per esempio, aveva visitato il suo posto di lavoro diverse volte e nel corso della sua carriera nelle ferrovie aveva imparato l'alfabeto Morse. Nell'esercito lo pseudo dilettantismo raggiungeva livelli inusitati, per cui Il massimo che si chiedeva agli atleti era di indossare la divisa una volta ogni tanto. Se poi le prestazioni erano particolarmente elevate, i gradi e gli stipendi si sprecavano. Puskás, il genio del calcio, non soltanto aveva un'automobile, ma anche un autista. Nello spogliatoio il Locomotive fu raggiunto dagli avversari sconfitti. L'atmosfera che regnava non era esattamente improntata alla benevolenza e alla fratellanza sportiva: la speranza di procurarsi un po' di pálinka distillata in casa, come spesso accadeva nelle trasferte in provincia, andò delusa. La condotta e il modo di fare dei ragazzi degli ossicini era palesemente ostile; c'era da aspettarsi che quei bifolchi non avrebbero permesso alla loro rozza insoddisfazione di varcare la soglia dello spogliatoio, ma non poterono proprio restare lontani dalle attrazioni di Budapest: in parole povere, quel fine settimana a Makó non c'era altro da fare, se non tormentare il Locomotive. Gli Spolpatori scelsero Demeter come bersaglio privilegiato delle loro attenzioni. Era alto e aristocratico, come si conviene a chi discende da una famiglia di aristocratici alti. Che fosse per i settecento anni di pubbliche apparizioni o per natura, Demeter emanava signorilità in ogni occasione: dava l'impressione di essere uno che, se lo avessero estratto da sotto le macerie dopo un bombardamento, non avrebbe avuto un capello fuori posto. Se tu fossi stato in smoking e Demeter senza un vestito, saresti comunque stato tu a sentirti nudo. Demeter era anche una persona eccessivamente ragionevole, e quindi non rispose alle provocazioni poco fantasiose degli Spolpatori. Se al suo posto ci fosse stato Pataki o Katona o chiunque altro del Locomotive, il pavimento sarebbe già stato cosparso di residui dentari. Perché proprio le amichevoli andavano sempre a finire molto poco amichevolmente?, si chiese Gyuri guardandosi intorno nello spogliatoio alla ricerca di qualche corpo contundente a portata di mano, tipo un pezzo di tubatura di ferro.
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La rissa collettiva che Gyuri si aspettava non si materializzò. Il portavoce degli Spolpatori si era incagliato in una spirale di commenti del seguente tenore: «Credi di essere tanto bravo?», «Sei convinto che la tua merda non puzza, eh?». Demeter finì di aggiustarsi la cravatta e, con una determinazione tale che il movimento parve di grande lentezza, mollò un sonoro schiaffone in faccia al portavoce. Non un pugno, ma un ceffone a mano aperta, senza seguito. Poi continuò a sistemare la propria borsa. Il gregge degli Spolpatori guadagnò l'uscita senza dire una parola. Come un esperto di arti marziali si dice riesca a concentrare in un dito una forza straordinaria, così Demeter aveva infuso in quella sberla una considerevole quantità di disprezzo, decretando in maniera inequivocabile che erano di quarta categoria nello sport come nella vita. Il bello era che era stato proprio Demeter a insistere perché salutassero educatamente la squadra ospite. Prima di potersene andare dovettero cercare Hepp; alla fine lo individuarono a un paio di chilometri di distanza lungo la strada: correva con il fiatone dietro all'arbitro, che al punto quarantotto si era dato alla fuga in bicicletta. Hepp era in ottima forma per la sua età e anche rispetto a gente di vent'anni di meno, e avrebbe resistito ancora a lungo se non si fosse reso conto del fatto che le sue critiche non venivano accolte costruttivamente. Tornati a Szeged, dove avrebbero trascorso la notte, i giocatori del Locomotive decisero di controllare se nella piazza principale ci fosse un ristorante disposto a dar loro da mangiare. Ricordavano di essersela svignata senza pagare il conto da un ristorante del centro, eseguendo quello che, tra le file del Locomotive, era conosciuto come uno Zrinyi, in memoria del grande generale ungherese Miklós Zrinyi, che era uscito di corsa dal suo castello dichiarando di volersi battere contro un esercito turco dieci volte più grosso del suo (con il risultato di essere sbaragliato completamente). Si ricordavano di essere zrinyiati via da un ristorante, ma tanto malfermi sulle gambe e nel cervello che non si ricordavano più quale. Erano talmente ubriachi che metà della squadra non si reggeva in piedi ed erano riusciti a scappare solo perché avevano chiuso il personale nelle cucine. Ma che gusto c'era a trovarsi lontani da casa se non ci si comportava in modo ignominioso? Optarono per il ristorante sulla sinistra dove, dopo aver garantito più volte al capocameriere che non avevano 20
nulla a che fare con la pallanuoto, furono fatti accomodare a un tavolo. «Appena sento nominare la pallanuoto...», confidò il capocameriere. «So che cosa vuol dire: rinnovo locali, ospedale, polizia, denti rotti, anni di recupero lento e faticoso...» Hepp aveva da fare in albergo: lettere in cui illustrava le centootto infrazioni a tutti coloro che avevano anche solo remotamente a che fare con gli ambienti direttivi della pallacanestro nonché a qualcuno che non c'entrava assolutamente nulla. «Penso proprio che dovrebbe scrivere al Ministero», gli aveva suggerito Pataki, sapendo che gli sfoghi epistolari di Hepp avrebbero risparmiato alla squadra ore di analisi post-partita. Era già successo che i giocatori si calassero dalla finestra pur di scampare a Hepp. Gyuri era andato alla posta per provare a telefonare a Budapest. Tre giorni prima era stato fermato per strada da una svedese mozzafiato che gli aveva chiesto indicazioni per il Museo delle Belle Arti. Un incontro tanto miracoloso con una ragazza di fuori e per giunta carina, che gli si era presentata senza che il destino gli avesse dato alcun preavviso, lo aveva lasciato interdetto al punto che stava quasi per salutarla senza nemmeno provare ad approfondire la sua conoscenza. Era a Budapest per qualche festival della gioventù organizzato da uno degli innumerevoli comitati per la pace, ma questo non importava: era un biglietto ambulante per uscire dall'Ungheria e valeva la pena di aspettare quattro ore per una telefonata. Calma, calma, si imponeva Gyuri. Doveva mantenere la calma ancora qualche giorno e, nel caso lei non si fosse perdutamente innamorata di lui, poteva sempre gettarsi ai suoi piedi implorando di sposarlo, offrendole metà del suo salario per il resto della sua vita, dichiarandosi disposto a tutto, eventualmente anche a uccidere qualcuno che non le andava a genio, supplicandola disperatamente e senza pudore. «Affanculo l'informatore», concluse entrando nell'ufficio postale, «io me ne vado.» Mentre si metteva in fila per telefonare, la sua memoria focalizzò la persona che aveva davanti. Era Sólyom-Nagy, il più lesto di mano della scuola Minta. La sua destrezza nel rubare nei negozi, soprattutto tavolette di cioccolata, era tale che tutta la terza classe, dopo una quantità pantagruelica di cioccolata fornita a basso prezzo da SólyomNagy, non ne poteva più vedere senza sentirsi male. Si erano persi di vista, ma a Gyuri era simpatico. Inoltre gli era particolarmente grato perché 21
aveva rubato espressamente per lui un temperino multiuso, che in seguito era andato perso quando Keresztes, che glielo aveva chiesto un attimo in prestito, lo aveva piantato in uno zingaro al luna park. Venne fuori che Sólyom-Nagy studiava letteratura ungherese all'Università di Szeged. «A proposito, lei è Jadwiga», disse indicando una ragazza snella lì accanto, palesemente stufa di aspettare. Aveva un cognome vagamente polacco che Gyuri non cercò neppure di memorizzare, ma rimase male che Jadwiga non sembrasse al settimo cielo per averlo incontrato. Se non si stava attenti alle presentazioni, non si arrivava da nessuna parte con le ragazze. Sulla base di una prima valutazione effettuata nel retrobottega del cranio di Gyuri Jadwiga venne catalogata semplicemente sotto «tenere presente», avendo lui ragazze svedesi più importanti a cui telefonare. Ci vollero tre ore buone per chiamare Budapest, e lei non era all'ostello. Diventare netturbino a Stoccolma non sarebbe stato facile.
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Dicembre 1944 Il soldato tedesco arrancava dietro gli altri, tenendo stretta nella mano sinistra una buona porzione dell'intestino, che fuoriusciva da un'uniforme per altro impeccabile. A Gyuri non parve particolarmente sofferente, quasi il poco teutonico disordine delle budella in fuga gli risultasse assai più fastidioso del dolore fisico. Naturalmente protestare o aspettarsi comprensione o attenzione di sorta sarebbe stato uno spreco di tempo: comprensione e attenzione scarseggiavano, come tutto il resto. A piedi o motorizzati, i tedeschi continuavano a fingere che la guerra non fosse finita e andavano verso il fiume diretti al castello sull'altra sponda, dove correva voce intendessero asserragliarsi e combattere fino all'ultimo con i russi che si stavano rapidamente avvicinando. Gyuri aveva visto arrivare in forza i tedeschi mesi prima, quando senza tante cerimonie avevano fatto piazza pulita del governo ungherese. Erano giunti in massa a bordo di grosse motociclette e altri mezzi di trasporto veloci, pavoneggiandosi nei loro bellissimi giacconi di pelle. Adesso i tedeschi non avevano più la stessa aria gagliarda, poco allettati dalla prospettiva di essere passati al tritacarne dai russi. Avrebbe potuto essere un bello spettacolo, se non fosse stato per il fatto che la tritatura sarebbe avvenuta a Budapest. Dalla direzione del parco municipale Gyuri sentiva in lontananza il rombo sordo dell'artiglieria, il rumore dei passi possenti dell'Armata Rossa. Da quando il comando supremo ungherese, avendo perso un esercito, cercava di procurarsene un altro con cui trastullarsi, l'addestramento militare era stato intensificato anche per i quattordicenni come Gyuri. I suoi istruttori si erano limitati a farli correre come matti con la maschera antigas e strisciare avanti e indietro su mucchi di letame freschissimo. «Per i russi saranno guai seri se cercheranno di difendersi con la cacca di mucca», aveva fatto notare uno dei commilitoni di Gyuri. Gli avevano anche mostrato il tanto acclamato «Panzerfaust», il missile anticarro portatile, l'ultima arma segreta prodotta dagli scienziati tedeschi, 23
quella su cui tutti volevano mettere le mani. L'istruttore lo aveva estratto dalla custodia e lo aveva esibito come una specie di talismano. «Ecco, ragazzi, questo è il Panzerfaust», aveva detto riponendolo per poterlo poi mostrare altrove e lanciandosi in una lunga descrizione di svariate tecniche (segretissime) per lustrare alla perfezione gli stivali. Certe mansioni erano più piacevoli. C'era stato un vero boom di requisizioni, presumibilmente dovuto al fatto che era meglio saccheggiare, finché si era in tempo. Quel notorio deficiente di Hankóczy, che avendo ben quindici anni era a capo del gruppo, li aveva guidati in un tour di depredazioni nel quartiere ebraico. Ufficialmente alla ricerca di oggetti utili allo sforzo bellico, Gyuri e Dózsa avevano portato a termine una razzia eccezionalmente fruttuosa in una farmacia, sequestrando un bel po' di sapone. C'era qualcosa di strano nella presenza di Dózsa, perché era figlio di un ebreo con tanto di stella gialla, che una sera era stato portato via. Gyuri lo aveva visto partire sotto scorta con una valigetta in mano, ma dopo un giorno o due era tornato: benché non avesse suonato il violino sul tetto, lo avevano lasciato in pace. Uscendo dalla farmacia, Gyuri e Dózsa avevano udito, delle laceranti proteste provenienti dall'altra parte della? strada. Da una finestra spalancata al secondo piano un'anziana signora, di corporatura minuscola ma di voce potentissima, aveva dato il via a una furibonda tirata contro quell'indebita appropriazione di articoli da bagno «Vermi schifosi, sanguisughe! Non vi vergognate a rubare in questo modo in pieno giorno?» La donna aveva tutta l'aria di essere una megera a tempo pieno, ma Gyuri era rimasto impressionato dalla veemenza delle sue accuse: rispetto all'esportazione di famiglie ebraiche all'ingrosso, svaligiare una farmacia era un nonnulla. E poi, se i nazisti facevano quel che facevano, non era colpa di Gyuri. La vecchia era fuori del mondo, o forse la farmacia era sua? Fatto sta che non la smetteva più di urlare, e forte. La gente si fermava a rimirare la scena. La cosa più seccante, per Gyuri, era che la donna aveva ragione. Hankóczy si era materializzato e, valutata la situazione, gli aveva detto: «Bene, Fischer, spara a quella vecchiaccia». A Gyuri era stata assegnata una rivoltella d'epoca, una specie di mandato ufficiale, e gli piaceva portarla. «Forza», aveva ordinato Hankóczy in tono autorevole e militaresco. Gyuri aveva estratto la rivoltella dalla fondina. «Spara! Spara! 24
Spara!» insisteva la vecchia signora, stanca della vita, ma Gyuri, pensando che a quella distanza probabilmente l'avrebbe mancata, aveva deciso di mostrarsi clemente. «Vostra madre, cara la mia signora, era una gran troia», aveva gridato bellicosamente. Ad Hankóczy quella volgarità pesante e del tutto sproporzionata aveva dato più soddisfazione di una pallottola andata a segno. E certamente aveva sortito l'effetto di respingere dentro casa la vecchietta, squarciando irreparabilmente il suo mondo di tendine di pizzo. Hankóczy gli aveva dato una pacca di approvazione sulla spalla, ma Gyuri era stato colto da un insidioso senso di vergogna. Da piccolo ti insegnano a essere gentile con le vecchie signore, pensava, ma in realtà vorresti solo prenderle a rivoltellate. Stufo di guardare i tedeschi in ritirata, Gyuri si avviò verso casa. Era curioso di scoprire com'era la guerra vista da vicino. La prima puntata era stata il giorno precedente, quando si era affacciato insieme a Pataki dal terrazzino di casa sua, una specie di lastra di cemento che sporgeva dall'edificio, e la madre di Pataki li aveva chiamati per fargli assaggiare i pasticcini che aveva appena sfornato. Un minuto dopo si era sentito un leggero tonfo ed erano tornati sul terrazzo per vedere che cosa fosse, o meglio avrebbero voluto tornarci, ma non avevano potuto perché il terrazzo non c'era più, centrato da una granata sovietica a lungo raggio che non se l'era proprio sentita di esplodere. Gyuri aveva ascoltato Gergely raccontare una storia simile: lui e i suoi erano stati nel rifugio durante un'incursione aerea e, cessato l'allarme, erano tornati al loro appartamento dell'ultimo piano, avevano aperto la porta e non avevano trovato più nulla. Dell'appartamento restavano solo la porta di ingresso con i relativi cardini e, sotto, quattro piani di macerie polverose. «Almeno non ci è toccato rimettere a posto niente», aveva commentato Gergely. Gyuri aveva interrogato anche István sulla guerra. Era stato tre anni su fronti diversi e, da buon fratello maggiore, gli aveva portato un souvenir da ognuno: pallottole, baionette, elmetti e una rivoltella russa che purtroppo non aveva munizioni. «Com'è al fronte?» aveva chiesto Gyuri. Stranamente per lui, István aveva esitato prima di rispondere: «Devi cercare di sparare per primo... a parte questo, è come tutto il resto. C'è a chi 25
piace e a chi no.» Elek, che era stato pluridecorato nella prima guerra, non ne parlava mai, ma d'altra parte non parlava mai di nulla con Gyuri. Occuparsi dei figli per lui era naturale quanto prodursi in giochi di destrezza con degli ananas. Una volta Gyuri gli aveva chiesto di parlargli delle decorazioni, ottenendo per tutta risposta la seguente informazione: «In guerra un soldato finisce o decorato o morto, benché alcuni riescano a fare tutte e due le cose.» L'arrivo imminente dei russi, però, aveva indotto Elek a fargli un'altra paterna raccomandazione di argomento militare: «Ascolta, se arriveremo al punto in cui ci sarà qualcuno tanto stupido da dirti di combattere, sparisci e nasconditi da qualche parte finché non è tutto finito». In Damjanich utca Gyuri vide una limousine con le insegne militari parcheggiata davanti al numero 10. Mentre si chiedeva se ciò avesse a che fare con la sua famiglia scorse Kálmán, uno dei migliori amici di István, che adesso ricopriva un incarico di una certa importanza al comando supremo, con addosso un'uniforme degna di un ballo in maschera. Preso alla sprovvista nel vedere Gyuri, Kálmán passò visibilmente in rassegna una serie di opzioni prima di scegliere la più spiccia: «István è tornato. È ferito gravemente». In casa Gyuri intravide István steso sul tavolo della sala da pranzo, con un aspetto degno di una bistecca da settanta chili. Elek gli stava accanto con uno dei suoi vecchi amici dell'esercito, Krúdy, un dottore, che stava tirando fuori da una borsa nera alcuni strumenti. Gyuri sapeva, pur sapendo di non doverlo sapere, che Krúdy aveva fatto i soldi con la fica, mandando in cielo angioletti (cioè praticando aborti) e ricostruendo imeni allo scopo di restituire la verginità di un tempo alle ragazze delle migliori famiglie di Budapest. Un attimo prima che Elek gli chiudesse la porta in faccia, István, che doveva aver notato Gyuri lì impalato, gridò: «Mi dispiace, ma stavolta non ti ho portato niente». Quando Kálmán tornò insieme a un altro ufficiale, Gyuri era ancora fuori dalla sala da pranzo. «Non abbiamo trovato anestetico», annunciò sbottonandosi la divisa, «ci vorrà un sacco di tempo. Ha più metallo in corpo di un registratore di cassa. » Nelle pause dell'intervento, Gyuri apprese da Kálmán che quella mattina era venuto a sapere che l'unità di István era stata mitragliata da alcuni aerei russi a bassa quota nei pressi di 26
Gódólo, appena fuori Budapest. Kálmán aveva telefonato a Elek e insieme erano andati a cercare István. Gyuri pensò che era un bene che la madre fosse partita per la campagna in cerca di provviste, altrimenti a quell'ora Elek si sarebbe trovato a rispondere personalmente di tutta la Seconda Guerra Mondiale. Molto tempo dopo Krúdy uscì: «Adesso possiamo cominciare a preoccuparci dei russi». In un certo senso, István fu molto fortunato. Lo misero sull'ultimo treno in partenza da Budapest, pochi minuti prima che i russi accerchiassero definitivamente la città, e non dovette passare sei settimane in una cantina mentre russi e tedeschi avevano un'animata discussione su Budapest. Qualche consolazione a vivere in cantina c'era. Noemi, la ragazza del primo piano che non corrispondeva all'amore di Gyuri, fu costretta a stargli vicina per un certo periodo. Ma la dieta a base di molta noia, poca igiene personale e un po' di carne di cavallo ogni tanto era difficile da mandare giù. Era difficile anche avere una buona opinione di gente con cui si erano trascorse sei settimane in una cantina. L'unica persona a uscire onorevolmente da quella vicenda fu la signora Molnár: velenosa in tempo di pace, sprizzava allegria e incoraggiamento da quando la guerra aveva eliminato la ragione del suo scontento nei confronti della società, cioè il vantaggio che tutti gli altri avevano su di lei in campi come la giovinezza, il piacere e la pasticceria fine. Pataki aveva una grossa scorta di libri e approfittava dell'occasione per leggere. Elek se n'era stato stoicamente I seduto a fumare sigarette finché c'erano state sigarette, dopo di che era rimasto stoicamente seduto e basta. Non era passato molto tempo da quando Noemi si era, lamentata perché non ricordava più l'ultima volta che si era lavata quando si avverò il tetro pronostico del vecchio Fitos, leader dei pessimisti in una cantina dove la i concorrenza fra pessimisti era acerrima: «Rallegratevi, perché quando vi sembrerà che la situazione sia diventata insopportabile, il peggio dovrà ancora venire». I russi scoprirono la cantina. A seconda del grado di ubriachezza in cui si trovavano, portarono le donne in un'altra stanza oppure agirono sul posto. Si dimostrarono imparziali. Non violentarono solo le donne giovani e belle, ma 27
distribuirono equamente gli stupri. Fu il giorno in cui Gyuri si rallegrò di non possedere una vagina. I russi arraffarono tutti gli oggetti di valore, tutto quello che si poteva prendere; Gyuri ne notò addirittura uno che guardava avidamente l'enorme caldaia. Elek negoziò con loro in tedesco per quanto possibile, date le circostanze e le competenze linguistiche, e cioè praticamente si limitò a tradurre le richieste dei vari Ivan. La leggendaria passione degli uomini dell'Armata Rossa per gli orologi da polso si rivelò assolutamente fondata: tutti, compreso Elek, ci rimisero il proprio. I russi se ne andarono belli contenti, senza dubbio convinti che era valsa la pena di fare visita alla cantina del numero civico 10. Gyuri non rimase sconvolto né preoccupato per i gioielli della madre o l'orologio di Elek: dopo tutto, Elek ne avrebbe comprati degli altri a guerra finita. Tuttavia era contento di essersi nascosto il suo, svizzero, grosso, con tanti quadranti che non sapeva neppure a cosa servissero, intorno alla caviglia destra, protetto da un calzino spesso. «Il mio non lo hanno preso», annunciò a Elek mostrandogli il nascondiglio. Il padre lo guardò incredulo, gli diede un ceffone, prese l'orologio e si precipitò fuori a consegnarlo ai russi. Per la strada sembrava che fossero piovuti cadaveri russi. Vagando qua e là Gyuri e Pataki non notarono nessun cadavere tedesco; forse l'orrore che i tedeschi nutrivano per il disordine li aveva spinti a rassettare man mano che si ritiravano. I corpi erano tutti irrigiditi dal gelo. Molti avevano lasciato questo mondo nelle posizioni più ridicole, che ricordarono a Gyuri le foto dei morti di Pompei, pietrificati nella lava del Vesuvio, che István aveva portato da una gita scolastica. A Gyuri sarebbe piaciuto tanto andare a Pompei, soprattutto per via dei dipinti murali più artistici - così li aveva definiti la guida, a detta di István in cui pareva fosse raffigurato fra l'altro un tizio con un uccello grosso come un remo. Si fermò un camion e, prima che a lui o a Pataki venisse in mente di scappare, saltò a terra un soldato sovietico, un ciccione che doveva essere un contadino dell'Ucraina (e se non lo era, avrebbe fatto meglio a prendere in considerazione l'ipotesi di diventarlo, perché le caratteristiche fisiche le aveva tutte). Sventolando il fucile mitragliatore, la «chitarra Davai», con 28
l'aria vittoriosa tipica degli Ivan, espresse concisamente il desiderio che caricassero sul camion un po' dei suoi compagni caduti. Avendo chiarito che cosa dovevano fare, il soldato partì per un giro di saccheggio esplorativo. Nelle settimane che seguirono la fine dei combattimenti, si abituarono a veder bighellonare tranquillamente per casa russi interessati a impadronirsi di tutto quello che attirava la loro attenzione, qualsiasi cosa, dai vestiti di Elek all'acqua di colonia di sua madre, che generalmente veniva consumata sul posto. Ce n'era stato addirittura uno che si era trattenuto a lungo per cercare di capire come si facesse a bere dalla tazza del cesso. Nel frattempo era arrivato anche Józsi e aveva dato una mano a Gyuri e Pataki a caricare sul camion i soldati defunti. Il fondo del camion era gelato, per cui si potevano far scivolare i cadaveri come nel gioco del curling. Alcuni erano in pose veramente comiche: uno aveva una mano vicino all'orecchio, come se non ci sentisse bene. «Come hai detto, Sergei?» suggerì Pataki. «Gli orologi sono senz'altro nel palazzo accanto.» Un altro riuscirono a metterlo in piedi e, appoggiandolo leggermente a un muro, gli restituirono una parvenza di animazione. Pataki sacrificò l'ultima sigaretta che aveva per dare più vita alla scena. «Certo che ho da accendere», disse avvicinando un fiammifero alla sigaretta inserita fra le labbra esangui. Da lontano sembrava proprio un soldato russo che fumava. Mentre cercavano di mettere un cadavere a cavalluccio sulle spalle di un altro intuirono, dal volume sempre più alto delle imprecazioni, che il soldato stava tornando ed era piuttosto arrabbiato che non fosse ancora pronta la sua camionata di cadaveri e che Gyuri, Pataki e Józsi stessero lentamente, solennemente, rispettosamente, cautamente e teneramente sistemando sul retro i resti mortali di un eroe caduto. «Malenky robot, malenky robot» (una frase che, come ormai tutti sapevano, significava «un lavoretto») ripeteva imbufalito, «bistro, bistrot, agitando il fucile per indicare l'allegretto con brio con cui desiderava che si svolgessero le operazioni; evidentemente lo aspettava una razzia importante. I corpi che ancora si trovavano nelle vicinanze furono caricati più in fretta che se fossero stati sacchi di patate. Riempito il camion, stavano per congedarsi quando il soldato, sempre avvalendosi degli eloquenti mezzi espressivi del fucile mitragliatore, fece capire loro che anch'essi dovevano salire a bordo. Pensarono di sollevare 29
qualche obiezione, ma solo per un attimo. Si arrampicarono sul camion e videro che era diretto al parco municipale. Fu un viaggio alquanto scomodo. «Stecchiti sono stecchiti», commentò Pataki. Li portarono in un palazzo di uffici amministrativi, dove furono accompagnati e rinchiusi nel seminterrato. Tirava una certa qual brutta aria e, dal momento che Pataki aveva una zuppa di fagioli che lo aspettava per pranzo, decisero di levare le tende. Si arrampicarono fino a una finestrella da cui uscirono con grande difficoltà (una porzione o due di carne di cavallo in più la settimana prima e non ce l'avrebbero fatta). Si ritrovarono sul retro del palazzo. Nessun russo in vista. Corsero di gran carriera fino a casa senza mai fermarsi, dopo di che non misero piede fuori per un paio di giorni. Il signor Pártos del primo piano, che si era avventurato in città perché aveva sentito dire che c'era del latte, era scomparso proprio lo stesso giorno. Una settimana dopo era riuscito a far mandare un messaggio ai suoi dal carro bestiame su cui si trovava a Záhony, vicino al confine con l'Unione Sovietica, per il tramite di un ferroviere compiacente. Era stato invitato a fare un «malenky robot» da un soldato russo ed evidentemente c'era stato un malinteso, che confidava però di chiarire al più presto. Molti dei compagni di scuola di Gyuri erano morti, per cui il primo appello, quando ricominciò la scuola, fu alquanto tetro. Purtroppo nessuno degli insegnanti ci aveva lasciato la pelle, e questo era irritante. In particolare, Gyuri aveva nutrito l'ardente speranza che Vagvólgyi venisse centrato in pieno dall'artiglieria russa o da un bombardiere americano, invece se lo trovò davanti, pelato come una palla da biliardo, che gli sbarrava il passo nel corridoio senza un sorriso, chiaramente in attesa di ritirare la ricerca su Kossuth che era già in ritardo di una settimana quando i russi erano venuti a dare a Gyuri un po' di respiro. Se a dirgli «Immagino che tu abbia approfittato di questo periodo per approfondire le tue letture, vero?» fosse stato qualcun altro si sarebbe trattato di uno scherzo, l'avrebbe detto per ridere, ma Vagvólgyi non scherzava. Mentre Gyuri si affannava a spiegare che per leggere un altro libro sull'esilio americano di Kossuth non era riuscito a finire la sua opera, Vagvólgyi scuoteva la testa con aria dispiaciuta. «Fischer, Fischer, è deplorevole. Non si può permettere a una piccola guerra di interferire con l'arricchimento culturale. Conosci la nostra storia. Da buon ungherese dovresti essere preparato a qualche sporadico cataclisma.» 30
Ottobre 1946 Quando andarono ad arrestarlo, Pataki stava elucubrando assiso sul cesso. Se ne stava lì, comodamente appollaiato a sfogliare la prima edizione delle poesie di Tompa, uno splendido volume del 1849 con il titolo a caratteri dorati, ritrovato nella casa di un ebreo dopo un bombardamento. Tompa era il genere di poeta che piaceva a Pataki, pesante e minore, motivo per cui ne studiava la metrica. La sua mediocrità era piuttosto rassicurante. Tompa era stato al fianco di Petófi negli anni della rivoluzione del 1848, l'evento clou del secolo, nel bel mezzo del calderone della storia, si era visto offrire tutte le grandi occasioni della vita e se le era lasciate sfuggire. Il massimo che era riuscito a fare era scrivere sfilze di versi da biglietto di auguri, da canzonetta. Tompa era proprio quello che ci voleva come predecessore letterario: solido, affidabile, privo d'ispirazione, spianava la strada, riscaldava l'ambiente con qualche strofa promettente per poi passare il testimone ai successori per la volata finale verso la gloria. Era un alabardiere battistrada, una specie di suggeritore, non come quel bastardo di Petófi che si era appropriato della lingua e aveva confiscato quasi tutto quello su cui valeva la pena di poetare creando la letteratura ungherese nelle pause per il pranzo fra un'impresa rivoluzionaria e l'altra. Secondo alcune fonti autorevoli, era stato lui a dichiarare aperta la rivoluzione del 1848, aveva siglato tutte le migliori forme poetiche, già che c'era aveva mandato al macero interi testi scolastici e antologie e aveva combattuto nell'esercito rivoluzionario ungherese che aveva sconfitto gli Asburgo, l'esercito che sembrava aver vinto la iella quando in quattro e quattr'otto era stato sbaragliato. A quel punto Petófi aveva avuto la faccia tosta di morire, elegantissimo, con la camicia bianca, solo e appiedato contro la cavalleria cosacca. Aveva ventisei anni. Gli ungheresi nascevano con i suoi versi prestampati nella testa.
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Non ci voleva proprio: un maledetto genio a rovinarti la piazza, a prendersi tutta la gloria letteraria a disposizione. Pataki faceva due sogni ricorrenti. Uno più che un sogno era un incubo: con il cuore che gli batteva all'impazzata dalla paura si rendeva conto di non ricordare più né il nome né l'indirizzo né il numero di telefono di due o tre ragazze stupende appena conosciute. Ce li aveva lì, sulla punta della lingua, ma le dita della memoria non arrivavano allo scaffale su cui li aveva riposti, e così non sapeva come fare a rintracciare quelle straordinarie bellezze. Erano da qualche parte che lo aspettavano e lui non riusciva a estorcere niente alla propria memoria. Si svegliava in un bagno di sudore. Nell'altro sogno c'era una libreria. Era uno di quei sogni in cui sai fin dal calcio d'inizio che stai sognando. Il libro più in evidenza era un grosso volume di poesie. Si vedeva subito che era alta letteratura, roba di interesse mondiale, uno di quei libri che hanno tutti, anche quelli che non leggono. Pataki lo leggeva e si rendeva conto che erano versi straordinari, che a gomitate si sarebbero fatti posto in tutte le antologie, che avrebbero surclassato Petófi e che non esistevano. Basta solo che li impari a memoria, pensava, che li metta per iscritto appena mi sveglio e avrò immediatamente una fama immortale. Eppure, nonostante passasse e ripassasse dentro quel sogno, non riusciva mai a ricordare niente. Una volta, eccezionalmente, ritornò con un verso, «Il cane è nel canile»; dopo lunghe riflessioni decise che da solo non valeva gran che, ma non fu capace di ricordare altro. Esisteva una variante del sogno in cui trovava un mucchio di monete d'oro e, per quanto si sforzasse di portarne via il più possibile, si svegliava sempre a mani vuote. Aveva anche cercato di scrivere senza barare ma, per quanto mentre scriveva si lasciasse prendere dall'entusiasmo, appena l'inchiostro era asciutto la sua soddisfazione svaniva. Le idee e le immagini che lo mettevano in moto erano entusiasmanti, ma era come raccogliere un sassolino da un fiume: nell'acqua brilla, ma poi diventa opaco e insignificante. Pataki cercava di spruzzare d'inchiostro i personaggi invisibili che solo lui riusciva a vedere, in maniera che anche gli altri ne scorgessero i contorni, ma sbagliava la mira e sulla carta gli restavano solo degli sgorbi.
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Non era mai riuscito a comporre nulla che gli sembrasse degno di far leggere agli altri. Era frustrante vedere qualcosa che era come una bellissima ragazza e ritrovarsi con qualcosa che era come uno scarabocchio su un muro. Così, mentre si consolava con la poesia meccanica di Tompa, Pataki ebbe la sorpresa di sentire bussare con forza alla porta del gabinetto (che non era stata progettata per resistere a colpi così pesanti) e udire una voce sconosciuta e maschile che lo chiamava per nome. Rimase sorpreso, ma non quanto lo sarebbe rimasto se avesse saputo che fuori ad aspettarlo c'era l'AVO. Per essere una polizia segreta, quelli dell'AVO non tenevano poi tanto segrete le loro attività: dopotutto una buona metà del lavoro della polizia segreta consiste nel far sì che la gente sia al corrente della sua esistenza e si passi parola. La madre di Pataki per fortuna rimase ancora più sorpresa di lui e, non riuscendo a spiccicare parola, non fece scene quando lo portarono via. Per fortuna ancora maggiore il padre di Pataki era al lavoro. Se doveva tirarsene fuori con la sua parlantina era meglio che non ci fossero interferenze. II problema era che non sapeva quale fosse il problema. I due dell'AVO stettero bene attenti a non dirgli perché dovesse essere interrogato: volevano sfruttare al massimo la loro posizione di superiorità. Pataki lo capì subito. Finché non avesse scoperto di cosa si trattava, sarebbe stato difficile decidere a che menzogna ricorrere: si preparò due o tre scuse generiche, tanto per avere una storia decente a portata di mano. Per le scale incontrarono la signora Vajda, che si rammaricava con la signora Csorgó per la demolizione della chiesa che da più di cent'anni era in fondo a Damjanich utca. «Tutto ciò non può durare ancora per molto», diceva. L'automobile dell'AVO era lunga e nera e Pataki cercò di godersi il breve viaggio. Essere arrestati aveva un che di lusinghiero, l'entourage faceva sentire importanti, ma la detenzione stava diventando un'abitudine: era l'ora di darci un taglio. C'era stato l'episodio della raccolta dei cadaveri e quella volta se l'erano cavata grazie alla finestra. Poi lui e Józsi avevano accompagnato Gyuri nella casa di campagna di sua madre a Erdóváros. Il primo giorno in campagna erano usciti da un bosco finendo dritti in un 33
campo di russi. Pataki aveva immediatamente finto di essere in preda a dolori insopportabili, del genere attacco di appendicite, e aveva fatto andare gli altri a cercare un dottore e delle medicine. La richiesta aveva sortito l'effetto desiderato: i soldati li avevano mandati al diavolo scacciandoli in tutta fretta. Il giorno dopo avevano rievocato la disavventura ridendo della stupidità dei russi, mentre sparavano a delle bottiglie che avevano portato in un punto panoramico dei paraggi per esercitarsi nel tiro al bersaglio. Era il periodo in cui dappertutto, sui giornali, sui muri, sui treni, c'erano avvisi che dicevano che chiunque fosse stato trovato in possesso di un'arma da fuoco sarebbe stato considerato un bandito, un fascista, uno da fucilare su due piedi. Probabilmente le risate e gli spari avevano coperto il rumore della pattuglia russa finché non era giunta proprio alle loro spalle. Uno dei quattro soldati, un tappetto che dimostrava sì e no dodici anni, era tutto allegro. Il manuale dell'Armata Rossa per le truppe di stanza in Ungheria evidentemente conteneva la frase «Vi fuciliamo» (a scanso di equivoci), perché il nanetto non faceva che ripeterla con un accento spaventoso, aggiungendo vari effetti onomatopeici del tipo «bbubbbbuabbaa». Tutto questo, inframmezzato da grandi risate, fino al quartier generale di Jew. Gli abitanti del villaggio non sembravano affatto ebrei e sicuramente non lo erano, altrimenti sarebbero stati tutti morti da tempo. Pataki pensò, non per la prima volta, all'imbecillità dei toponimi ungheresi e a quanto sarebbe stato idiota farsi fucilare a Jew. Li lasciarono in una stanzetta con una finestra tanto piccola che non ci sarebbe passato nemmeno un braccio, e comunque dall'altra parte era di guardia il loro minuscolo accompagnatore, che continuava a esercitarsi per il plotone di esecuzione. Tirarsene fuori con la menzogna non sarebbe stato facile, rifletté Pataki, anche perché in russo nessuno di loro sapeva dire altro che «fottiti tua madre». Józsi incominciava a odorare sgradevolmente e Gyuri aveva gli occhi sbarrati dal terrore. «Non preoccupatevi», cercò di rincuorarli Pataki, «non ci fucileranno.» «Non è per questo», replicò Gyuri, «ci hanno visto tutti mentre ci portavano qui. Mia madre mi ammazza.» A quel punto a Pataki tornò in mente che l'ultima parola di Gyuri uscendo di casa era stato un «no», in risposta alla madre che gli chiedeva inferocita: «Non avrai ancora quella rivoltella, vero?». 34
Pataki esaminò mentalmente due linee difensive. La prima era che avevano appena trovato la rivoltella e stavano andando a consegnarla, proprio perché si rendevano conto di quanto fosse illegale e pericolosa e di come potesse finire facilmente nelle mani sbagliate. Altrimenti c'era quella dell'inseguimento di un soldato nazista, reo di nutrire odiosi ideali antisovietici, che secondo la gente del villaggio si era nascosto nel bosco, con la formula magica: «Volevamo essere noi a consegnarlo all'Armata Rossa, in segno di ringraziamento per aver generosamente liberato il nostro paese da gentaglia di quella risma». Come storia era migliore, ma purtroppo anche meno credibile. Dopo un po' arrivò l'ufficiale in comando. Dall'aria rattristata del piccoletto Pataki dedusse che probabilmente non li avrebbero imbottiti di piombo. Non dovettero tirar fuori nessuna delle loro scuse, ma furono scorticati vivi da un predicozzo abrasivo come cartavetrata (con l'aiuto di un interprete). Poi, con gran disappunto di Gyuri, furono rilasciati e dovettero tornare a casa. Li avevano trattenuti poco più di un'ora. Quanto l'avrebbe trattenuto l'AVO questa volta? L'autista imboccò a velocità dignitosa Andrássy ut, quanto di più simile a un viale, e svoltò a destra al numero 60, la sede dell'AVO. Pataki diede un taglio alle reminiscenze e pensò che quel portone aveva un'aria familiare. Quindi rammentò di averlo visto in un cinegiornale in cui mostravano esponenti di rilievo delle Croci Frecciate e un assortimento di nazisti vari accompagnati in manette nell'edificio, incontro a un destino ben noto: corda e sapone per tutti. L'auto prese l'ingresso di servizio, quello riservato ai fornitori, per così dire, e Pataki improvvisamente perse tutta la sua disinvoltura, e la paura prese posto comodamente nella sua mente. Lo accompagnarono su per una scala lunga e finemente decorata, con una passatoia di uno spessore paralizzante. La ricchezza degli interni era ancor più straordinaria per il fatto che erano anni che Pataki non vedeva una parete imbiancata di fresco, o anche solo senza fori di proiettili o altri danni di natura bellica. Fu fatto entrare con uno spintone in una grande stanza con il soffitto tanto alto che quasi non si vedeva, da cui pendeva un lampadario di cristallo grande come uno yacht. «Vatti a mettere in quell'angolo», gli disse una guardia. Pataki notò che dall'altra parte della stanza, con il naso 35
schiacciato nell'angolo, c'era qualcun altro. Sebbene fosse di spalle, dai capelli rossi e ispidi come un carciofo riconobbe Fuchs. Quella scoperta, insieme al fatto di essere stato messo in castigo nell'angolo come a scuola, gli scatenarono una risata con un alto tenore di isteria. Questa, a sua volta, gli valse un tale pugno in un orecchio che quando fuori venne buio gli bruciava ancora, ma a quel punto era abbastanza contento di starsene lì in piedi come un somaro perché aveva capito tutto e si stava preparando a espiare, protestare e dichiarare il falso a ruota libera: per una volta, oltre a tutto, non aveva fatto niente. Era iniziato tutto con una gita in barca sul Danubio insieme con Gyuri. Si erano fermati a mangiare sull'isola di Csepel e, mentre riposavano sulla riva verdeggiante, Gyuri aveva notato un contenitore di quelli dove di solito si tengono le bombe a mano. Con grande giubilo avevano scoperto che era pieno. Si erano messi a pescare con le bombe con risultati eccezionali: niente esche, lenze, ami, pesi o lunghe attese. Ma dopo un po' che si raccolgono pesci morti, ci si perde gusto. Erano bombe a mano di buona qualità, di fabbricazione tedesca, e Pataki, avendo vinto anche la parte di Gyuri in una sfida a chi contava più barche, decise di venderle o barattarle a scuola, come aveva fatto con le armi alla fine della guerra, guadagnando delle belle sommette. Pataki aveva incominciato il suo smercio al dettaglio durante una lezione di fisica di Hidassy. Anche se si trattava di un argomento che aveva già spiegato mille volte, Hidassy ci metteva sempre grande entusiasmo e grande passione, tanto che, quando si lanciava in stravaganze atomiche o densimetriche, non si accorgeva più nemmeno di quello che succedeva nella prima fila. L'ultima, dove Pataki mercanteggiava le sue bombe, per lui avrebbe potuto benissimo trovarsi agli antipodi. Una volta erano riusciti addirittura a organizzare un torneo di calcio in scala ridotta, con una palla di carta, senza che Hidassy intervenisse. Hidassy costituiva un piacevole diversivo rispetto agli altri insegnanti, ai quali piaceva controllare ogni aspetto della vita dei loro alunni; per esempio, su Horváth girava voce che gli avessero tolto l'incarico nell'esercito a causa dell'imbarazzante numero di coscritti deceduti sotto di lui. Horváth era sempre a sferzare chiappe e a minacciare di espulsione chi non stava con la schiena sufficientemente dritta. Se qualcuno schiacciava 36
un pisolino in laboratorio, invece, Hidassy continuava imperterrito a sventolare pezzi di tubo di gomma o a infilare roba in un becco Bunsen. Una volta che Pataki era arrivato a dare fuoco a una panca, esclusivamente per vedere se bruciava, l'unica reazione di Hidassy era stata aprire la finestra per fare uscire il fumo. Si vociferava che un giorno, un'ora dopo la fine delle lezioni e l'uscita degli studenti, Hidassy fosse stato trovato ancora intento a spiegare l'elettromagnetismo: la fisica era la sua passione. E lui era la passione degli alunni, non soltanto perché li lasciava in pace, ma anche perché quando era il momento di interrogare e quelli rimanevano a bocca aperta come pesci fuor d'acqua dava sempre un bel voto per aver «capito il concetto». Agli orali in realtà di solito faceva una domanda e poi, prima ancora che l'interrogato avesse il tempo di dare una risposta (ammesso che ne conoscesse una), giusta o sbagliata che fosse, rispondeva lui stesso, raggiante, chiedendo al massimo un cenno di assenso da parte dell'esaminando. «Teller mi ha detto che scindendo l'atomo si può far saltare in aria il mondo intero: il minimo che potesse fare era scrivere per scusarsi», farneticava Hidassy mentre Pataki vendeva le sue bombe a mano. Keresztes e Fuchs si erano avvicinati per esaminare la merce, cosa che Pataki sperava non facessero. Keresztes era un cliente indesiderato, perché era pericolosamente imprevedibile. Durante l'assedio, i mitraglieri sovietici se lo erano trovati fra i gomiti, che chiedeva se poteva provare anche lui. Una volta Pataki e Gyuri erano al luna park e Keresztes gli si era appiccicato. Uno zingaro, senza malizia né disattenzione, ma semplicemente per il naturale moto browniano di tutti i luoghi pubblici, lo aveva sfiorato. Chiesto educatamente in prestito il famoso temperino di Gyuri, Kerezstes aveva passato in rassegna i vari accessori e, scelta la lama più lunga, l'aveva conficcata in corpo allo zingaro. «Grazie», aveva detto poi cortesemente. Era stata l'unica volta che Pataki l'aveva visto comportarsi educatamente, però. Neanche Fuchs era gran che come potenziale cliente, dato che aveva fama di essere sempre senza soldi. Dovunque si raduni una trentina di ragazzi, c'è sempre uno che finisce sotto. Bastava che qualcuno, chiunque, dicesse «facciamoci un Fuchs», e subito gli si sedevano sopra 37
mediamente in otto; a volte se ne sarebbero seduti anche di più, ma Fuchs non era molto ampio e già in dieci qualcuno era costretto a stargli in equilibrio su una mano, o sul naso, o su un dito, o su qualche altra zona periferica. Era un divertimento semplice ma inesauribile. Fuchs andava molto bene anche da chiudere negli stipetti e, dal momento che era di pubblico dominio che se arrivava a casa con oltre dieci minuti di ritardo sua madre telefonava alla polizia, una volta lo avevano ammanettato al corrimano del tram numero 47, dove era rimasto fra l'ilarità generale, nonostante le preghiere accorate, finché il manovratore non aveva riportato il tram al deposito. Ancor più divertente che maltrattare Fuchs era maltrattare la sua cartella. Era entrato in possesso di una valigetta di pelle sobria e costosa, perché a casa sua erano convinti che un accessorio simile potesse incrementare il suo rendimento scolastico. Siccome era pomposa, molto costosa e, soprattutto, era di Fuchs, fu oggetto di grande attenzione. Fuchs viveva con la propria cartella in una curiosa comunione spirituale, che trascendeva il semplice desiderio di proteggerla. Dal momento che veniva presa a calci appena possibile, doveva tenersela stretta al petto e, visto che non riusciva a sorvegliarla così da vicino tutto il giorno, ogni tanto la cartella gli spariva. Invariabilmente, non appena cadeva in mani ostili, per quanto in altre faccende affaccendato, Fuchs lo veniva a sapere per via telepatica e dovevano sederglisi addosso mentre la riempivano di liquidi, ci saltavano sopra o la inchiodavano al muro. In un'occasione memorabile, durante una delle ruberie di cioccolato di Sólyom-Nagy all'inizio del 1944, l'avevano ricoperta di cioccolato fuso su un becco Bunsen mentre Hidassy sproloquiava sullo spettro atomico. Erano seduti sul davanzale in fondo all'aula e Keresztes tastava le bombe. Pataki era sulle spine. Il laboratorio era al secondo piano e dalla finestra al marciapiede c'erano più o meno sei metri. In quel periodo nella scuola era di moda saltare giù dal tetto dell'aula di musica, un volo di circa tre metri e mezzo con atterraggio sull'erba. Il primo a farlo era stato Gombóc, il cui fratello maggiore aveva fatto il paracadutista. Il risultato era stato un'epidemia di caviglie rotte o slogate. Keresztes aveva soppesato meditabondo una delle bombe. «Senti me. Scommetto questa bomba a mano che si può saltare dalla finestra e andarsene come se niente fosse.» Non aveva precisato i termini della scommessa, ma in ogni caso Pataki non 38
voleva starci perché, che Keresztes si rompesse il collo o meno, un colpo di testa di quel genere gli sarebbe valso chissà quante ulteriori ore di punizione, e a remare sul Danubio ci andava già poco così. Pataki aveva già rifiutato tre volte quando Keresztes, cui bisognava dire le cose come minimo sei volte, aveva preso Fuchs e lo aveva buttato dalla finestra. Questi aveva fatto una faccia sorpresa nel vedersi sfuggire sotto il naso la lezione di fisica, ma si era rialzato subito e si era rassettato i vestiti. «Ecco fatto, la bomba è mia», aveva dichiarato Keresztes. E aveva tolto la sicura. Fila dopo fila, al diffondersi della notizia, i ragazzi si erano riparati tutti sotto i banchi. Dopo tre o quattro minuti buoni, Pataki era sgusciato da sotto il suo e aveva visto Keresztes che teneva la bomba controluce. «E va bene, come facevi a sapere che avrebbe fatto cilecca?» «Non lo sapevo», era stata la risposta di Keresztes. In quel momento era rientrato in classe Fuchs. Hidassy, che durante l'allarme bomba non aveva saltato una sola sillaba del suo elogio dell'elettrone, lo aveva investito: «Come osi assentarti durante la lezione senza chiedermi il permesso? Doppia punizione». Era stata l'ultima volta che avevano visto Keresztes. Circolavano due voci. Una voleva che il preside lo avesse sospeso definitivamente e l'altra che avesse scommesso con qualcuno alla stazione Kóbánya che avrebbe fermato con una testata il treno delle 4.15 proveniente da Keleti, che a Kóbánya non fermava. Pataki preferiva quest'ultima versione dei fatti, che gli pareva assai più verosimile. Fuchs si era doppiamente addolorato per la doppia punizione: non era mai stato punito in vita sua e, a quanto si diceva, Hidassy non aveva mai punito nessuno. Quando erano usciti - Fuchs piegato in due dal dispiacere, con la cartella stretta al petto - Pataki, visto che non c'erano testimoni, aveva provato pietà per lui e aveva cercato di tirarlo su di morale. «Non c'è verso», aveva protestato Fuchs. «Io non farò mai grandi cose come te, tipo vendere bombe a mano. Addosso a te non hanno il coraggio di sedersi.» Pataki aveva cercato di minimizzare la storia del traffico di armi ma, mentre aspettavano il tram, il senso dell'umorismo aveva avuto la meglio sulla compassione quando Fuchs gli aveva proposto: «Senti, non potrei 39
aiutarti a venderle?» Con fare teatrale Pataki aveva finto di pensarci su un attimo e poi aveva acconsentito. «Okay», aveva detto. Gli aveva descritto un arsenale tedesco segreto, che aveva scoperto sottoterra, strapieno di dotazioni delle truppe scelte delle SS, munizioni, armi, bombe a mano e così via, che li avrebbe resi ricchi tutti e due. «Ci vuole una corda, lunga una quindicina di metri. Poi un casco da minatore o, se non lo trovi, una torcia molto potente. E un sacco di acetosella.» «Acetosella?» «Sì, sai, quell'erba verde. È la cosa migliore per imballare l'esplosivo: ha un'azione rilassante», aveva spiegato Pataki senza fare una piega. Per tutto il resto del tragitto fino a casa, dopo aver salutato Fuchs, gli era scappato da ridere al pensiero di Fuchs che eseguiva alla lettera le sue istruzioni. Quando il giovedì successivo, come d'accordo, Fuchs si era presentato a scuola seminascosto sotto un'enorme matassa di corda, con un casco da minatore sulle ventitré e due grosse ceste di acetosella appena colta, Pataki aveva temuto di non farcela. Aveva messo al corrente della storia dell'arsenale perduto il resto della classe, per cui l'ilarità era generale, ma era stato il casco, che doveva aver messo a dura prova le capacità di Fuchs, a dare il colpo finale a Pataki. Non era riuscito a controllarsi e si era beccato tre punizioni per altrettanti inspiegabili accessi di riso. Il giorno successivo era riuscito a ricomporsi leggendo il suo Tompa. L'atmosfera scolastica al numero 60 di Andrássy ut, dopo ore e ore passate in piedi nell'angolo, fu accentuata dall'ordine di redigere un curriculum vitae di due cartelle. Pataki era più calmo, se non proprio sicuro di riuscire a farsi rilasciare quella sera stessa a suon di balle. Le bombe a mano, vendute da un pezzo, erano acqua passata: avrebbe potuto negare tutto. La tattica migliore era rifiutarsi di ammettere di averle mai viste; per quanto riguardava l'arsenale tedesco sotterraneo, dal momento che non era mai esistito, avrebbe dichiarato che era stato uno scherzo da scolaretti, si sarebbe profuso in umili scuse e se ne sarebbe tornato a casa. Era un peccato non aver potuto concordare con Fuchs una versione comune, ma si preparò una serie di reazioni emotive - paura, incredulità, pentimento - e
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qualche menzogna di riserva. Mentalmente mise a punto il giusto grado di diniego e di scandalizzata innocenza cui ricorrere nei momenti chiave. Furono interrogati separatamente. Lo fecero sedere e Pataki cercò di obbedire con tutto il rispetto e la sollecitudine umanamente possibili. L'ufficiale che lo interrogò indossava la divisa nuova blu con le mostrine dell'AVO, ed esordì dicendo: «Naturalmente sappiamo tutto di te, Pataki». Pataki non raccolse il tono sprezzante e continuò a sorridere, basandosi sulla teoria che un sorriso riduce le probabilità di essere presi a schiaffi. L'ufficiale lesse la storia della sua vita con evidente schifo e posò il foglio. Pataki, da consumato dissimulatore qual era, riconobbe subito una pausa innaturale ed ebbe la netta impressione che l'ufficiale non vedesse l'ora di tornare a casa. In fondo erano le nove. «Fuchs ha confessato tutto a proposito delle armi. Ci ha detto che volevi aiutarlo a organizzare un'insurrezione armata...» «No», replicò Pataki nel tono meno polemico possibile, «non ci sono armi, è che...» «E questo cos'è, allora?» domandò l'ufficiale sbattendo un fucile mitragliatore tedesco sul tavolo. Fece una piccola pausa ad effetto, quindi disse: «Uno stuzzicadenti troppo cresciuto e di ridottissima praticità? Un pezzo di falciatrice?». Per la prima volta in vita sua Pataki si ritrovò a corto di bugie plausibili. Lo volevano incastrare? Qualunque cosa avessero in mente, si rese conto di non avere nessuna battuta ad effetto pronta. «Come ho detto», continuò l'ufficiale, «Fuchs ha vuotato il sacco. Ha spiegato che tu non sapevi niente e che da te si faceva aiutare solo nella distribuzione. Buon per voi che vi abbiamo scoperto in tempo.» Ecco qua - Pataki se lo sentì nelle ossa vuole andarsene a casa. «Sappiamo tutto di te. È il nostro lavoro. Ma sei giovane. Chiuderemo un occhio su questo incidente, per quanto si tratti di un'infrazione grave. Ti daremo un'altra possibilità.» Qualunque cosa, pensò Pataki. «Sei negli scout, vero?» Non era una domanda. Non lo riaccompagnarono a casa in macchina. Andrássy ut, tetra e buia com'era, gli parve meravigliosa. Prese una bella boccata d'aria della notte. Gli venne in mente una poesia sulla libertà, ora che era in grado di apprezzarla. Buttare il fucile sul tavolo era stato un tantino volgare, a suo parere, però aveva temuto davvero di lasciarci la pelle. Ma se pensavano che per farlo collaborare bisognasse sbattergli una mitragliatrice davanti al naso, affari loro. 41
A quell'epoca il capo degli scout era Ladányi. Partecipavano anche gli altri gesuiti, ma per Ladányi era l'incarico principale, ed era giusto così, visto che era passato per tutta la scala gerarchica. Aveva il fisico adatto per fare il gesuita, alto, con occhi seri che ti leggevano nel pensiero. Pataki doveva fare mente locale per ricordare che, anche se si vestiva di nero, Ladányi era ancora in probandato; il periodo di prova era ridicolmente lungo nella Compagnia di Gesù, perfezionamento del bacio all'altare e così via. «So che lo troverai incredibile, però...» iniziò Pataki. «Aspetta che provo a indovinare: l'AVO vuole che tu faccia la spia sul gruppo», disse Ladányi. «Be'... francamente, sì. Come facevi a saperlo?» «Qualcuno doveva pur farlo. Data la frequenza con cui ti cacci nei guai, mi sei sembrato il candidato ideale. Posso suggerirti di copiare il notiziario del gruppo? Ti risparmierai un sacco di tempo. Dai un po' più spazio ai nodi particolarmente significativi e ai bivacchi più interessanti. È gente che ci tiene alle scartoffie. Volevi dirmi altro?» Una settimana dopo Pataki incontrò Fuchs mentre andava a scuola: era la prima volta che si vedevano dopo essere stati dentro insieme. Fuchs parve terribilmente spaventato e sconvolto. «Mi dispiace, pensavo che scherzassi a proposito di quei fucili. Per quello li ho accompagnati nella grotta, ma credo di essere riuscito a convincerli che ero stato io a trovarli. Scusami.» Non ne riparlarono mai più. In realtà non parlarono mai più di niente. E Pataki di sicuro non ne parlò mai nemmeno con altri, ma notò che nessuno si sedeva più addosso a Fuchs.
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Settembre 1948 L'addestramento delle formiche era stato un caso tipico. Gyuri sapeva che avrebbe dovuto studiare molto di più. A differenza degli esami precedenti, i cui certificati di importanza non l'avevano mai del tutto convinto, questo era talmente importante che faceva spavento, che toglieva il fiato, e avrebbe dovuto veramente studiare molto di più. Avrebbe voluto farlo e l'intenzione c'era, splendidamente formulata, un'intenzione con tutti i crismi, ma all'atto pratico si era fermato alle prove generali, senza mai esordire sul palcoscenico vero e proprio. Se ne andò per conto suo in una zona tranquilla dell'isola Margherita con la barca a remi piena di libri, senza lasciar detto a nessuno dove andava. Lui e la matematica, soli. Faccia a faccia. Sdraiato nella calura di un'estate inoltrata, Gyuri aprì i libri per mettersi a nudo di fronte ai calcoli, per crogiolarsi al sole delle equazioni, ma se l'abbronzatura si intensificava, per un motivo o per l'altro l'erudizione rimaneva invariata. Si sentì tradito. Si era tuffato nella fredda algebra come da una rupe, ma invece di precipitare fra le formule era rimasto a mezz'aria, sospeso nel vuoto come se un'oscura forza antigravitazionale lo respingesse dalla matematica. Assaporando il sole non razionato cedette a un attacco di pastorizia formichesca. Prima di allora i suoi unici contatti con le formiche erano consistiti nello schiacciarle, involontariamente o spietatamente in caso di invasione dei suoi beni commestibili e non. Si piazzò a mo' di spartitraffico all'incrocio di alcune colonne di formiche e passò tre ore buone a mettere a punto con olimpica calma una serie di ostacoli e prove da superare con l'ausilio di rametti, foglie e frammenti del panino che si era portato per pranzo. Si trastullò con l'idea di diventare un grande entomologo, uno zoologo di fama mondiale. A quanto gli risultava, la biologia era un campo non contaminato da Marx, benché alcuni suoi seguaci, come Lysenko, avessero cercato di rimediare al silenzio di Marx sui phyla. Il fascino delle formiche perdurava, in quanto non c'erano altre distrazioni. La matematica aveva questo di buono, se non altro: faceva sembrare piacevole e meraviglioso tutto il resto, si trattasse di formiche, 43
inglese, flessioni, stirare o lavare i piatti. Intere nuove galassie di interessi gli si erano dischiuse all'avvicinarsi dell'esame di matematica, e tutto quello che non aveva a che fare con la matematica era irresistibile. Rientrò alla rimessa delle barche e scoprì che Pataki aveva vogato su e giù per il Danubio alla sua ricerca nella maligna speranza di godersi lo spettacolo del suo ripasso. Gyuri trascinò i libri di matematica fino a casa. Era abituato a portarsi dietro quel grosso peso per una sorta di doppio allenamento fisico e intellettuale che gli consentisse di acquistare maggiore resistenza e, possibilmente, di assimilare qualche nozione grazie alla vicinanza fisica del sapere. C'erano parecchi cani a Budapest che venivano portati a spasso meno dei suoi libri. Entrando in casa Gyuri notò che Pataki non c'era, perché Elek era solo. Pataki aveva preso l'abitudine di frequentare casa Fischer perché trovava simpatico Elek che, a differenza di suo padre, non era contrario al fatto che Pataki fumasse; anzi, gli teneva da parte le sigarette, centellinando le ultime superstiti di ogni rifornimento per un'eventuale visita di Pataki. Succedeva sempre più spesso che tornando dall'allenamento o dalla corsa Gyuri trovasse Elek e Pataki in compagnia nicotinica, intenti a sfruttare al massimo lo scarso tabacco disponibile, mentre Elek decantava le glorie callipigie di un paio di chiappe incontrate magari quarant'anni prima. Gyuri non fumava. Giocare in serie A era tutt'altro che scontato per lui e non poteva permettersi nemmeno il più piccolo handicap, per cui non trovava niente da ridire su quella distribuzione extrafamigliare delle sigarette. Quel che lo irritava era la serenità di Elek. Ormai Elek trascorreva le sue giornate nella grande poltrona che era l'unico mobile rimasto loro da prima della guerra, anzi in pratica l'unico esemplare che restava di tutti i loro averi di prima della guerra. Sprofondato in poltrona e sostenuto da una sigaretta quando possibile, faceva la sua figura, per essere un uomo completamente; rovinato. Aveva i capelli e i baffi così ordinati che sembravano scolpiti, ma il pullover grigio che costituiva il pezzo forte del suo guardaroba aveva due buchi che non potevano passare inosservati. Altri, vedendosi sfumare il proprio 44
patrimonio dall'oggi al domani, soprattutto sprofondando di colpo dalla ricchezza all'indigenza assoluta, avrebbero reclamato amaramente contro le forze invisibili che gli avevano lasciato solo pochi spiccioli nelle tasche dei pantaloni. Da uno rimasto povero in canna all'età di sessant'anni, anche tenendo conto del comune denominatore di una guerra mondiale e di sofferenza e miseria in quantità industriale, ci si sarebbe aspettati che imprecasse, che si mettesse a urlare, che si mordesse le dita o che inveisse contro potenze oscure superiori. Invece Elek non si era lasciato andare a lamentele indecorose. Se ne stava seduto tranquillamente in poltrona, come se godesse un giorno di ferie. Aveva cercato di risollevare le proprie sorti dopo la guerra e soprattutto dopo l'iperinflazione che, come facevano orgogliosamente notare gli ungheresi, era stata la più rapida e la più immane della storia dell'economia. Una volta finita l'inflazione, Elek era andato alla banca in cui aveva depositato milioni, aveva prelevato tutto quello che aveva sul conto non più congelato e aveva comprato una pagnotta senza ricevere praticamente alcun resto. I tombini di Budapest erano intasati di banconote che la gente buttava via, foglie morte di un ordine che non esisteva più. Quello che a Gyuri dava più fastidio, più ancora della tranquillità di Elek che lo tormentava giorno e notte, era l'assoluta stupidità di quella perdita. Sarebbe bastato tanto poco, un gruzzoletto in Svizzera, un lingotto d'oro seppellito in un campo, qualche gioiello ben nascosto e sarebbe stato tutto diverso, quel tanto che bastava per avere qualcosa da mangiare, magari anche di buono. Invece le cose erano andate così e, nella migliore delle ipotesi, alla fine avrebbero tutt'al più potuto essere oggetto di una curiosa nota a pie di pagina in qualche astrusa pubblicazione di economia. Cosa piuttosto ridicola per un allibratore che aveva fatto i soldi grazie a chi aveva l'abitudine di perdere alle corse, i primi tentativi di recupero di Elek lo avevano visto all'ippodromo per una serie di scommesse. Gyuri ricordava chiaramente quando Elek prima della guerra tornava a casa con gli incassi delle corse (in una valigetta marrone, mucchi di soldi alla rinfusa che poi i suoi dipendenti avrebbero contato) ed esclamava: «La follia umana è il vero business in cui investire. Non ci si può sbagliare». Se si era arricchito con l'ippica non era tanto per merito della sua astuzia, quanto del fatto che il mondo delle scommesse era praticamente un 45
monopolio e che la concessione delle licenze era in mano a uno dei suoi ex commilitoni. Ciononostante, forse incoraggiato dalla conoscenza approfondita del settore, Elek era fermamente convinto che dai cavalli gli sarebbe venuto, se non un reddito regolare, almeno il capitale per avviare qualche impresa futura non meglio precisata, ma economicamente risolutiva. Le spedizioni di Elek all'ippodromo erano state per lo più rovinose, ma di tanto in tanto evidentemente vinceva, perché certe volte qualcosa in tavola c'era. Aveva preso anche iniziative più dirette. Un giorno Gyuri era tornato a casa e aveva scoperto che i suoi libri erano scomparsi tutti: rimaneva soltanto una chiazza più chiara nella tappezzeria. «Li ho dovuti vendere», aveva spiegato Elek su sua richiesta, «dobbiamo mangiare, sai.» Era vero, ma avrebbe anche potuto chiederglielo. La cosa più seccante non era tanto non avere più i libri, quanto che, qualunque fosse il valore di mercato della sua biblioteca, Elek si era senz'altro lasciato infinocchiare ricavandone solo la decima parte. Il suo senso degli affari, se mai era esistito, doveva essersi perso per strada durante la guerra. L'esempio migliore era il negozio di frutta e verdura che aveva gestito per un mese: la famiglia ne era uscita semidistrutta: dovevano alzarsi prima dell'alba per andare al mercato e non solo non ci avevano guadagnato nulla, ma ci avevano perso. Cifre sbalorditive, più che se avessero semplice mente buttato la verdura dalla finestra. I fruttivendoli non gradivano la concorrenza. Ormai Elek si era lasciato alle spalle i progetti ambiziosi sul tipo dei negozi di frutta e verdura: gli bastava la poltrona. Da quando era morta la mamma, Elek sembrava avere meno bisogno di farsi vedere occupato. Di tanto in tanto si assentava misteriosamente per ricomparire con pacchi di provviste, ma affrontava la vita più che altro da spettatore. Alcuni avrebbero trovato ammirevole una simile assenza di rimpianti e di desiderio di riscrivere il copione, ma Gyuri non riusciva ad approvarla. «Che effetto fa avere uno dei sederi più seduti dell'universo?» gli aveva chiesto una volta alla fine di una giornata particolarmente desolata. Elek si era stretto nelle spalle. «Mio padre perse tutto», aveva detto come se fosse una spiegazione lucida, e a mo' di conclusione aveva aggiunto: «Imparerai ad apprezzarmi quando non ci sarò più». 46
Gyuri aveva frequentato poco suo nonno. Delle visite che gli aveva fatto nella più remota infanzia ricordava due cose: le belle torte che non gli permettevano di toccare e un vecchio dalla testa dura e dall'aria pericolosa che chiedeva continuamente chi fosse Gyuri. Stando a Elek, il nonno si era fatto garante dei debiti di gioco di un amico che, non essendo in grado di pagare, invece di fare l'unica cosa giusta e onorevole in questi casi, cioè spararsi in testa, era andato a Berlino e aveva aperto un ristorante ungherese, lasciandolo lì a pagare per lui. Ma se non altro Elek e il nonno avevano avuto un patrimonio per le mani, mentre Gyuri aveva la sensazione che a lui non sarebbero toccati patrimoni da perdere. L'improvvisa indigenza di Elek in un certo senso costituiva un vantaggio per Gyuri. Un padre dimissionario dalla vita significava che non c'era attrito riguardo agli esami; Elek non si era mai preoccupato troppo del rendimento scolastico del figlio, tanto che Gyuri a volte si chiedeva se sapesse che scuola faceva. In un raro e fuggevole Recesso di diligenza, un giorno Gyuri gli aveva chiesto di 'interrogarlo sui verbi latini. «Li sai o non li sai?» gli aveva domandato Elek e, quando Gyuri aveva risposto che pensava di sì, aveva ribattuto: «E allora che bisogno c'è che ti interroghi?». Per fortuna, pensò Gyuri quella sera mentre iniziava a prepararsi per uscire facendosi la barba, gli mancava un solo esame per avere il diploma di ammissione all'Università. Mentre si ghigliottinava le setole sentì il signor Galántai, il vicino della porta accanto, che si lamentava ripetutamente della nazionalizzazione delle fabbriche, avvenuta alcuni mesi prima, che non aveva smesso di preoccuparlo. «È il colmo, non può durare ancora per molto.» Gyuri non aveva dubbi sul fatto che invece sarebbe durato, almeno abbastanza perché lo chiamassero nell'esercito. Era il suo unico incentivo a studiare, e non era una carota da poco. Niente diploma, niente Università. Niente Università uguale esercito, uguale anni di fame, di attese impalato sotto la pioggia, di trincee da scavare, senza vedere nessuno che conosci, nessuno che ti stia simpatico, anni di prigione, saluti militari e brande schifose. La gente optava per il suicidio prima del reclutamento perché era meglio morire comodamente a casa propria che tagliarsi le vene in una caserma lercia.
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Era un bene che la matematica fosse l'unico peso che ancora minacciava di trascinarlo in quell'abisso: in fondo le possibilità di bocciatura erano state molte. Letteratura ungherese era uno di quei casi in cui era praticamente resuscitato da morto. Per fortuna all'orale c'era Botond, anche se insieme a un paio di altri insegnanti cui Gyuri andava poco (o probabilmente per niente) a genio. Il testo da preparare era il Toldi di Arany. O non l'aveva mai posseduto o non lo trovava più, fatto sta che la sera prima, quando si era deciso a leggere un po', il suo improvviso desiderio di leggere Arany era rimasto frustrato per cui Gyuri si era diligentemente presentato all'esame a farsi appioppare un'insufficienza. Botond era seduto con i piedi sulla cattedra. Sulle facce degli altri insegnanti si leggeva chiaramente che lo trovavano poco decoroso, ma Botond era il capo del dipartimento di ungherese e, soprattutto, era imbattibile in fatto di letteratura ungherese. Aveva letto tutto due volte e, quanto alla poesia, sapeva recitare a memoria praticamente tutto quanto fosse stato pubblicato. Con un po' di fortuna, se prendeva il via, entrava in uno stato di trance tipo Hidassy e declamava versi in maniera impeccabile per venti minuti, dando alla classe una tregua quanto mai necessaria. Come ben si addiceva a una persona molto presa dall'arte, Botond aveva capelli lunghi e ribelli, tanto inesorabilmente ribelli che studenti e colleghi sospettavano che tutte le mattine se li pettinasse deliberatamente in modo da sembrare una stella di mare. «Bene, Fischer», aveva esordito gioviale Botond fissando il soffitto, picchiettandosi leggermente un canino con la stanghetta degli occhiali e probabilmente scorrendo qualche testo succoso nel retro della sua bottega mentale mentre assolveva all'uggioso compito di esaminare gli studenti. «È sempre un piacere vederti, ma temo che dovrai raccontarci un po' del Toldi prima che ti lasciamo andare.» «Per la verità, non posso», aveva confessato Gyuri. «Mi dispiace, ma non lo so.» «Ah, ah, sempre modesto, sempre modesto. Un brano qualsiasi, su, spara.» «Non lo so, davvero. Non voglio farle sprecare il suo tempo», aveva insistito Gyuri. 48
«Panico da esame, eh? Va bene, recita una delle tue poesie preferite.» Era una pretesa ragionevole, ma Gyuri era stato colto di sorpresa. Aveva frugato fra le sue conoscenze letterarie, ma il cassetto era vuoto. «No, professore, temo di non ricordare nulla.» «Ah, ah, Fischer, con il tuo senso dell'umorismo un giorno o l'altro finirai nei guai. Più della sufficienza non posso darti. Avanti il prossimo, prego.» Botond era estremamente paterno con tutti (tranne coloro che manifestavano un sincero odio per la poesia). Era uno dei pochi insegnanti che godevano della simpatia dei ragazzi, di un affetto alimentato da episodi di vita vissuta tramandati di anno in anno che lo volevano compagno di sbornia di tutti gli autori più importanti di lingua ungherese dall'inizio del secolo in poi. Aveva fatto la fame a Parigi insieme con Ady («Bandi e io litigavamo per chi dovesse sbucciare la patata per la cena») e con altri otto ungheresi sporchi e meno ricordati dai posteri aveva diviso a turno l'unico letto di una soffitta senza riscaldamento; si era ubriacato con tutti i protagonisti della scena letteraria, aveva dato un pugno a Picasso in una discussione sulla prosodia e, nonostante la prestigiosa carica che ricopriva, era sempre disponibile per un bicchiere con qualsiasi personalità letteraria, importante o no, sopravvissuta a due guerre mondiali e alla massiccia emigrazione. La critica letteraria assumeva un aspetto molto più avvincente se sapevi che il tuo insegnante aveva portato via da un bar l'autore trascinandolo per i piedi. No, Botond non era il tipo dalla bocciatura facile, tanto più che doveva ancora a Elek una cifra a quattro zeri. Una volta nel corridoio, con la lucidità che viene sempre dopo, a Gyuri era venuto in mente che una poesia avrebbe potuto rimediarla, una del vecchio amico di Botond, Ady, sulla gioia di vedere la Gare de l'Est di Parigi; infatti, secondo uno dei temi più suggestivi di Ady, la prospettiva più nobile per un ungherese era quella di andarsene dall'Ungheria. Buon poeta, ma in cimbali. Durante la guerra István era stato a Érmindszent, il paese natale di Ady, e si era sorpreso di non trovare nemmeno una targa in suo ricordo, quando l'Ungheria era piena di scritte commemorative tipo «Petófi passò di qui» e «Petófi passò non lontano da qui». Quando István aveva fatto notare l'omissione a un abitante del luogo, si era sentito
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rispondere: «Perché dovremmo erigere un monumento a un alcolizzato di seconda generazione?». L'esame di matematica lo aspettava per prima cosa la mattina dopo, ma stare in casa era una vigliaccata, nonostante il tempo sprecato nel pomeriggio con il circo delle formiche. Elek era seduto in poltrona, un po' in difficoltà per mancanza di sigarette. Gyuri stava per uscire quando lo colpì alle spalle con un «L'esercito ti piacerà moltissimo, vedrai». La prima volta che diede l'esame di matematica prese la precauzione di portarsi di nascosto il libro di testo. Il motivo principale per cui non passò l'esame al primo tentativo fu che non sapeva abbastanza per sapere di non sapere abbastanza. Aveva sfogliato il libro qua e là nella speranza di trovarvi soccorso, ma le pagine gli erano risultate completamente inintelligibili e si era reso conto con rabbia che, se avesse studiato un po' di più, sarebbe riuscito almeno a copiare. La seconda volta si preparò quanto bastava per capire domande e, anche se le risposte non gli saltavano prontamente agli occhi, riuscì a barcamenarsi, benché fosse come combattere l'incendio di una foresta con un ditale d'acqua. Il suo essere traboccava di disperata volontà di evitare il servizio militare. La settimana prima aveva visto un gruppo di soldati di leva: gli mancava solo la catena per sembrare dei forzati, miseri scheletri a malapena coperti di pelle, con in mano una pagnotta che aveva perso ormai da tempo qualsiasi credibilità nel mondo civile, tonto dura che per tagliarla ci voleva il piccone. A Gyuri piaceva pensare di essere un duro, ma sapeva |di non avere la resistenza necessaria per una vita di stenti così programmati e ininterrotti; per quanto le cose andassero male, finché rimanevi fuori dell'esercito la possibilità che ti succedesse qualcosa di bello, per quanto remota, c'era. Ma una volta dentro non ti restava nessuna speranza di conforto, allegria, o alcunché di classificabile sotto la voce «piacevole»; non c'erano più appuntamenti con il piacere. Nell'aula d'esame gli altri, da lontano, sembravano intenti a sgobbare fiduciosi. Gyuri si chiese se a quelli due file più indietro anche lui sembrasse padrone della situazione. Siccome la domanda iniziale offriva qualche appiglio, si affrettò a buttar giù qualcosa prima che le nozioni che 50
era riuscito a ripescare sfuggissero all'amo, sperando che, se qualche evento apocalittico avesse posto fine all'esame dopo dieci minuti, gli bastasse a passare. Aveva svolto la soluzione alla prima domanda fin dove poteva quando, sbirciando alla sua sinistra, si accorse di avere gli occhi esattamente sulla traiettoria che portava dritta dritta alla tetta sinistra di una ragazza lì seduta. O si era dimenticata di abbottonare la camicetta oppure i bottoni non avevano voglia di lavorare, fatto sta che la luce, decollando dalla pelle priva di copertura tessile, andava a compiere un atterraggio di fortuna sulla retina di Gyuri. Gli organi della riproduzione gli si misero in moto e tutta l'erudizione matematica che aveva chiamato a raccolta fu sbrigativamente messa al bando. In altre circostanze realizzare volutamente un simile allineamento e aggirare visivamente la barriera degli indumenti poteva richiedere ore, ma in quel momento delicato il suo autocontrollo e la mammella della ragazza entrarono in rotta di collisione. Distolse lo sguardo immediatamente, ma era troppo tardi: i messaggeri della chimica si erano già attivati per sollevare una sommossa globale. Paralizzato da quell'interferenza ingiustificata nella sua concentrazione, si rivolse di nuovo alla matematica, ma trovò la porta sbarrata. La seconda domanda rispose a malapena al suo saluto. Scrutando il panorama a 180 gradi alla sua destra, Gyuri si fermò a riflettere su un gruppo di studenti di un Collegio del Popolo. I Collegi del Popolo erano istituti speciali in cui venivano rimpinzati di cultura per lo più rappresentanti del fondo del barile rurale, per fornire forza lavoro maschile e femminile al Partito. Erano soprattutto ragazzotti di campagna con la cravatta annodata stretta e in mano una copia della Storia del Partito comunista bolscevico dell'URSS e un biglietto per il centro dell'universo, Budapest, dove li aspettava un alloggio in un edificio borghese appositamente assegnato. Proclamavano a gran voce la loro adesione al marxismo, come è giusto che faccia chi ha appena indossato panni nuovi. Per passare l'esame bisognava aver tentato di rispondere ad almeno tre problemi; dopo un tentativo e una finta, tutte le altre domande gli si presentarono ermeticamente chiuse e imperscrutabili. Una ragazza alla sua destra, che faceva parte della rappresentativa del Collegio del Popolo continuava ad allungare il collo per leggere sul suo foglio, cosa che divertì 51
Gyuri. Come poteva pensare che valesse la pena di esaminare quel foglio ridicolmente bianco? Stava per giungere alla conclusione che leggere e rileggere le domande nella speranza di capirci qualcosa era un'inutile perdita di tempo e che tanto valeva togliersi la soddisfazione di fare lo spavaldo e uscire, riuscendo magari a far credere a qualche povero disperato di aver risposto brillantemente a tutto, invece di contorcersi come un verme sull'amo. La ragazza del Collegio del Popolo continuava a guardare il suo foglio e, come se non bastasse, non cercava nemmeno di nascondersi. Per Gyuri farsi annullare il compito per aver copiato non avrebbe fatto una gran differenza, ma per lei forse sì. «Non posso aiutarti», le fece capire scandendo le parole senza emettere suono. «Non guardare o ci... tutti e due», concluse passandosi eloquentemente un dito sulla gola. La ragazza avvampò e abbassò lo sguardo sui propri fogli. Ammessa così la sconfitta sul fronte della matematica, Gyuri deliberò di concedersi una dose di saccheggio oculare sul petto della sua vicina di sinistra, ma rimase contrariato nello scoprire che una piega della camicetta negava l'accesso al suo sguardo, impedendo ulteriori violazioni visive. Avendo deciso che ne aveva abbastanza di starsene lì seduto come un sacco di patate, stava rimettendo il cappuccio alla penna in vista della partenza quando il sorvegliante distolse per un attimo i fanali di supervisione e dal banco alla sua destra gli giunse un foglietto ripiegato. Gyuri lo aprì e vi trovò, in una grafia ordinata, una soluzione che non gli risultò del tutto chiara, ma tanto impeccabile che non poté dubitare della sua correttezza. Copiò la risposta e a passi lenti uscì dall'aula conscio di aver superato l'ostacolo con un balzo anche se, con il senno di poi, non poteva non ammettere che addestramento di formiche e diversivi vari avevano fatto sudare sangue alla sua fortuna. A conti fatti, si formarono capannelli di studenti che discutevano di matematica. Parecchi avevano l'aria abbattuta e la faccia distrutta, quasi fossero lì per un provino per la parte della Disperazione. Per la prima volta in vita sua Gyuri fu tentato di andare in chiesa a rendere grazie.
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Non mancò di ringraziare la sua salvatrice, comunque. Si sentiva a suo agio perché era talmente brutta che farle delle avance era impensabile, e quindi poteva rilassarsi. Comparve Pataki, che si avvicinò e aggrottò la fronte vedendolo sprecare energia verbale con una ragazza tanto al di sotto della media delle più belle. Naturalmente Pataki aveva passato tutti gli esami alla prima prova. Per lui era stata una passeggiata, fatta ficcando la testa in un libro o due lungo la strada, riempiendosi le guance di nozioni come un criceto per poi risputarle davanti alla commissione esaminatrice. Ogni volta che usciva dall'aula ne sapeva già meno di quando era entrato. Per dirla in termini cestistici, era come se un cieco con un braccio solo provasse a tirare, la palla colpisse l'anello, ci girasse intorno rimbalzando e oscillando per poi cadere finalmente nella rete: tutta fortuna, d'accordo, fortuna sfacciata, al limite del miracolo, ma pur sempre due punti. Gyuri vide che Pataki si preparava senza fretta a un pomeriggio di spiritosaggini sull'infelicità delle sue scelte in materia di donne, ma non si lasciò influenzare. «Ancora grazie per l'aiuto», disse accomiatandosi, «devi essere un fenomeno in matematica.» «Oh, no», rispose la ragazza semplicemente, con tenerezza, «ci hanno dato le risposte la settimana scorsa. Abbiamo avuto tutto il tempo di impararle.» Portarono l'orologio al bordello. Era l'orologio di sua madre che, incredibile ma vero, non era finito al polso di un soldato sovietico, probabilmente l'unico orologio di prima della liberazione rimasto in Ungheria. Una volta era stato di gran valore, e quella sera bastava per due scopate, una per lui e una per Pataki. Gyuri era fermamente deciso a festeggiare e togliersi la tanto ambita soddisfazione ma, una volta concluse le trattative su quante prostitute valesse l'orologio d'oro, provò uno strano senso di distacco, come se avesse lasciato l'uccello a casa. Non avrebbe mai creduto di poter valutare tanto accademicamente una simile mostra di femminilità. Uno associava all'idea delle puttane quella di bruttezza, tristezza e depravazione, ma la ragazza che disse di chiamarsi Timea era giovane, vivace e, se non intelligente, abbastanza vispa da sembrarlo. «Sei molto bella», dichiarò Gyuri esprimendo ad alta voce quel che aveva osservato il 53
suo sguardo. «Oh, ho le tette troppo piccole», replicò lei mentre si spogliava per lavoro. Non era vero. Aveva una di quelle bellezze che tolgono d'impiccio: avrebbe potuto ottenere tutto quello che voleva da orde di uomini in ginocchio ai suoi piedi. Era strano che lavorasse in un bordello, perché sembrava una che poteva comodamente procurarsi due o tre milionari e condurre una vita meno impegnativa. Considerando l'esagerazione di tempo passato a pregustare esercizi a quattro gambe, Gyuri non riusciva a spiegarsi l'improvvisa amputazione del proprio desiderio. Guardare Timea era molto piacevole, era uno spettacolo che valeva la spesa di Per sé ma restava un'esperienza curiosamente astratta, come ammirare un oggetto artistico in un museo. Gyuri suggerì a Pataki di andare per primo. Fu spaventoso. Il Pelo sullo stomaco lo aveva tradito: fuori servizio. Era pentito di averlo voluto fare e nello stesso tempo sapeva che, appena uscito dal bordello, si sarebbe pentito per non averlo fatto. Quando rispuntò Pataki l'unica cosa che seppe proporgli fu di andarsene subito tutti e due. «Sei impazzito?» protestò Pataki. «Non si spreca una bella scopata!» Ed era tornato indietro pretendendo il coito prepagato e non goduto. Gyuri imparò così che c’è chi può prendersi l’orologio della defunta madre e portarlo in un bordello e chi invece non ne è capace. E per chi fa parte di quest'ultima categoria non c'è niente da fare. Fu una lezione che pagò a caro prezzo e da cui difficilmente avrebbe potuto trarre beneficio in futuro, perché non avrebbe avuto né altre defunte madri né altri orologi di defunte madri a disposizione. Si augurò in cuor suo che Pataki si sbrigasse. Voleva andare a casa, perché sentiva che stava per mettersi a piangere.
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Gennaio 1949 Passarono l'ultima ora a raccontare barzellette sui cammelli. «Il nuovo ufficiale della Legione Straniera arriva al forte nel cuore del deserto del Sahara», cominciò Ladányi. «Ascolta attentamente il sergente che gli fa fare un giro introduttivo e alla fine dice: "Molto interessante, sergente, ma c'è una questione alquanto delicata che vorrei affrontare. Staremo qui per anni. Insomma, come si fa quando si accumulano troppi umori?". "Be' signore", risponde il sergente indicando un cammello legato nel cortile, "è proprio per quando a un ufficiale manca la compagnia di una signora che abbiamo Daisy, la cammella del reggimento." L'ufficiale rimane un po' scioccato, ma non dice niente. Passano i mesi e, dopo un anno nel Sahara, non ce la fa più, si precipita nel cortile gridando e si butta sulla cammella. Mentre è lì che stantuffa, arriva il sergente e, con un educato colpetto di tosse, dice: "Non sono affari miei, signore, ma gli altri ufficiali preferiscono usare Daisy per andare al bordello del paese, signore".» Per essere un gesuita, Ladányi conosceva un numero sorprendente di barzellette sui cammelli. Gyuri e Neumann non riuscivano a intervenire quasi mai. Ladányi aveva monopolizzato la sezione dei cammelli, ma il viaggio era lungo e Gyuri non avrebbe certo saputo abbastanza barzellette sui cammelli per coprire anche solo una parte del tragitto fino ad Hálás. Inizialmente Ladányi era stato un po' vago sulle ragioni di quella spedizione nel paesello dove era nato e cresciuto. «Potrei aver bisogno di una guardia del corpo», gli aveva detto. Gyuri sarebbe stato comunque contento di fargli un favore, ma era lusingato di constatare che lo si considerasse grosso e pericoloso (anche se si era portato Neumann nel caso gli servisse una guardia del corpo vera e propria. Giocatore di pallanuoto grande e grosso, Neumann aveva sempre l'ultimo pugno, su qualsiasi argomento. Una volta che due pompieri corpulenti e ubriachi gli avevano annunciato allegramente che volevano spaccargli la faccia, Gyuri lo aveva visto prenderli per il collo e sbatterli contro un muro sull'altro lato di Rákóczi ut, facendogli scricchiolare tutte le ossa. Peccato che il lancio dei 55
pompieri non fosse uno sport riconosciuto, altrimenti avrebbe di certo battuto qualche primato). «La recluta arriva al forte della Legione Straniera nel bel mezzo del deserto del Sahara», riprese Ladányi, «e un veterano gli mostra quello che deve fare. Alla fine la recluta trova il coraggio di fargli la domanda che gli sta più a cuore. "Senti, qui ci passiamo degli anni, come si fa quando non se ne può proprio più?" "Quello che facciamo noi", spiega il soldato, "è uscire dal forte, tendere un'imboscata ai beduini e sfogarci con le loro cammelle." Passa il tempo e le truppe vanno nel deserto, si nascondono dietro a una duna di sabbia e tendono un agguato ai beduini. Il veterano si precipita immediatamente verso i cammelli e la nuova recluta gli chiede: "Perché tanta fretta? Ce n'è per tutti". "Sì, ma è meglio scegliersene una carina."» Alla stazione di Békéscsaba li aspettava un contadino asciutto, con il cappello in testa, che baciò la mano a Ladányi. Il suo carro era lussuoso per lo standard del posto, ma garantiva un bel grattuggiamento di sedere per il viaggio di un'ora che, a quanto disse ossequiosamente il contadino, occorreva per raggiungere Hálás. Quel ritorno alle origini non sembrava emozionare troppo Ladányi, ma dopo aver dato un'occhiata in giro per quelle lande dove le scarpe sembravano ancora una trovata azzardata della moda e il silenzio era rotto solo dal rumore del grano che cresceva, Gyuri capì il perché. L'unica cosa che si poteva dire sul paesaggio era che la terra incominciava dove finiva il cielo. Ladányi tornava al paese a causa del compagno Faragó, che evidentemente costituiva da lungo tempo un grave cruccio per Hálás. Ladányi lo ricordava benissimo, nonostante fosse partito all'età di quattordici anni per andare a studiare a Budapest. «Faragó era nello stesso tempo lo scemo del villaggio e il ladro del villaggio. In un paese piccolo come Hálás bisogna fare un doppio lavoro», raccontò Ladányi. Ma il paese tollerava stoicamente i problemi che aveva autogenerato. La guerra e le Croci Frecciate avevano cambiato tutto. Nell'ottobre del 1944 gli abitanti di Hálás avevano creduto di vedere per l'ultima volta Faragó. Si era evoluto e, da piccoli reati commessi per sopravvivere quali 56
furto di girasoli, sottrazione indebita di albicocche e sequestro di suini, era passato a dirigere il distretto per conto dei nazisti. Ladányi non si dilungò sulle imprese di Faragó. «Meglio non parlarne.» Nessuno ad Hálás pensava di rivederlo dopo l'ottobre del 1944, dato che si era beccato sei colpi di fucile in pieno petto ed era finito all'obitorio di Békéscsaba, dove la polizia depositava i morti non reclamati e non individuati. A quell'epoca un cadavere disperso attirava ancora la burocrazia; poco tempo dopo il disinteresse sarebbe stato totale. Quando lo avevano posato sul marmo dell'obitorio, aveva incominciato a lamentarsi, un po' troppo per un cadavere, e a chiedere da bere. I suoi compaesani erano rimasti sorpresi nel rivederlo. «Se mi avete dato una rivoltella con solo sei colpi in canna, è colpa mia?» aveva detto in tono di rimprovero una voce nella csárda. Non era il primo attentato alla vita di Faragó. Un mese prima, mentre godeva dell'ospitalità di un fosso che, rispetto a casa sua, aveva il grande vantaggio di essere molto più vicino al posto dove aveva bevuto come una spugna, e dormiva profondamente all'addiaccio, qualcuno gli aveva lanciato una bomba a mano per fargli compagnia. Questa non era riuscita a far fuori Faragó e, pur avendogli fatto fuori la gamba sinistra, non gli aveva impedito di continuare a servire i suoi mentori tedeschi, ragion per cui era stato successivamente preso a revolverate. Era stato il prete del paese a suggerire un autodafé. Saputo che Faragó aveva la faccia sprofondata nel cuscino dopo aver ingerito una quantità incredibile di alcol, mani anonime avevano appiccato fuoco alla casa nel cuore della notte. Doveva essere in coma profondo, perché non si era svegliato neppure quando gli era bruciata la porta e le due case vicine erano andate in cenere. «L'aveva proposto il prete?» domandò Gyuri. «Chissà», rispose Ladányi, «se avessimo il testo originale dei dieci comandamenti, probabilmente troveremmo una nota a pie di pagina sulle deroghe concesse per Faragó.» Quando in paese seppero che, appena era cambiato il vento politico, Faragó si era candidato alla carica di segretario del Partito comunista locale, decisero di fare le cose sul serio. Faragó fu trascinato fuori di casa in piena notte a peso morto, ubriaco marcio. Gli legarono le mani dietro la 57
schiena, fissarono una corda a un ramo e gli infilarono il cappio attorno al collo. Lo sollevarono, il ramo si ruppe e le grida di Faragó attirarono una pattuglia russa di passaggio che andò a vedere che cos'era successo. Il risultato di quella sospensione notturna fu che Faragó si ritrovò con una collana di vesciche e con una rivoltella, dal momento che aveva come l'impressione che ci fosse gente cui non andava del tutto a genio. «Io sparo», aveva annunciato Faragó nella csárda, «senza chiedere niente a nessuno.» Questa dichiarazione fu rilasciata dopo la morte del compaesano sospettato di avergli aperto sei fori di ventilazione in corpo. La ragione del ritorno di Ladányi era una vigna di due ettari ben distante da Hálás, che produceva un vino così; schifoso che solo Faragó riusciva a berlo. La vigna era stata lasciata in eredità alla chiesa (probabilmente per dispetto), sebbene il reddito che procurava potesse bastare sì e no a far spolverare l'altare una volta all'anno. Faragó, in qualità di primo segretario e sindaco della comunità HálásMezómegyer-Murony, aveva decretato che la vigna andava sottratta agli spacciatori di oppio dei popoli e consegnata all'egemonia del proletariato. Il paese si era rivolto a Ladányi in quanto era stato a Budapest, sapeva che cosa c'è dentro i libri, aveva emesso il primo vagito ad Hálás, era membro a pieno titolo della Compagnia di Gesù e aveva infranto il limite delle cinquanta uova. Pur avendo lasciato il villaggio quindici anni prima e avendovi fatto ritorno un fine settimana soltanto in tutto quel tempo, Ladányi era motivo di orgoglio e faceva notizia. Quanti villaggi potevano vantare un ebreo del paese diventato gesuita? E poi era giunta eco dei tornei di omelette ai tempi in cui Ladányi era iscritto a Giurisprudenza e delle guerre del gulasch cui aveva partecipato alla fine degli anni Trenta nei ristoranti della capitale. Ladányi era quasi uno e novanta e la sua rispettabile stazza, unita a un appetito da studente, gli permetteva di immagazzinare quantità spropositate di cibo. Aveva iniziato a mantenersi agli studi e mandare soldi a casa prendendo parte a cene con allegata scommessa a chi avrebbe mangiato di più. Disputò le prime gare nel circuito studentesco, dove il ricavato copriva il costo della cena (generalmente di diverse portate), ma il suo apparato digerente perfetto gli consentì ben presto di fare un salto di qualità e 58
approdare al New York Café, dove illustri giornalisti si davano parecchio da fare per estendere la capacità umana di ingurgitare omelette. Quando Ladányi spazzolò una frittata di quarantacinque uova, insaporita con un chilo di cipolle e prosciutto, sbaragliando il critico teatrale del «Pester Lloyd» che aveva gettato il tovagliolo a quota trentotto, al paese lo vennero a sapere subito. Quando, con le sue posate personali, fu invitato ad assaggiare il nuovo gulasch supernutriente di Gundel, di cui si disse in seguito «neanche Ladányi è riuscito a mangiarne più di tre scodelle» e il cui contenuto calorico, secondo gli esami effettuati al Politecnico, era di 30 000 calorie, ad Hálás giunsero resoconti dettagliati (anche se con un mese di ritardo). Quando Sándor il Selvaggio, il forzuto del circo, sfidò Ladányi a chi mangiava più torte, fu uno spasso per tutti e Ladányi si aggiudicò uno Stradivario. Ma Ladányi aveva appeso coltello e forchetta al chiodo dopo aver infranto per la seconda volta il primato delle cinquanta uova e dopo che il redattore del «Pesti Hirlap» era caduto stecchito dall'altra parte del tavolo, stroncato da un arresto cardiaco cui probabilmente non era estranea la frittata di quarantasei uova appena ingerita. Questo incidente postprandiale e la decisione di prendere i voti avevano messo fine alla carriera gastronomica di Ladányi, ma la sua fama ad Hálás non era scemata. Pertanto, quando Faragó aveva sentito che Ladányi intendeva andare a intercedere per la vigna, aveva lanciato il guanto di sfida: «Sarà una lotta all'ultimo boccone». Hálás superava a stento le quattrocento anime, secondo Ladányi, e nonostante la giornata fredda e piovosa, c'era tutto il paese sotto l'acqua, ad aspettare l'arrivo del gesuitico convoglio. Gyuri comprese che era l'accoglienza più affettuosa che si potesse ricevere. «Ora capisco come doveva essere nel secolo scorso», pensò. Il bello di andare in un posto come Hálás era che ti rallegravi di vivere a Budapest. Gyuri mancava da sette ore soltanto e la nostalgia di elettricità, asfalto e vasta scelta di materiale genetico si era già fatta acutissima. Tornando a Budapest sarebbe stato contento per un giorno intero. Sentendosi come un magnate o una stella del cinema, scese dal carro e vide scomparire nel fango le scarpe più belle che aveva: non un gran che, ma comunque le più valide del suo arsenale calzaturiero. 59
Li accompagnarono nella csárda, un locale di legno con una stufa al centro che sprigionava ben poco calore; in realtà l'ambiente si sarebbe riscaldato con la folla che entrava pian piano. Ladányi confabulò a bassa voce con il prete del villaggio, in tono cupo e confessionale. In quanto suoi accompagnatori, Gyuri e Neumann dovettero far fronte all'ospitalità locale. Gyuri sapeva benissimo, quando aveva acconsentito ad andare ad Hálás, che campagna significava cibo a volontà: da fare c'era ben poco, ma da mangiare non mancava mai. Era quindi sua ferma intenzione ingurgitare tutto il possibile e accettare senza scrupoli tutto quello che avessero insistito per regalare loro alla partenza. Le porzioni e la brutalità della cucina contadina potevano riuscire rovinose per chi fosse a corto di allenamento. Gyuri sapeva che la prima colazione poteva bastare a mandare all'ospedale un fragile cittadino. A Erdóváros, l'estate dei suoi tredici anni, la famiglia che lo ospitava gli aveva servito un bel bicchiere di pálinka a colazione e una mattonella di grasso guarnita con una spruzzatina di paprica. Apprezzando la generosità, aveva bevuto la pálinka prima di uscire e sulla porta era stramazzato a terra. Gli ci erano volute delle ore perché le gambe si ricordassero come si faceva a camminare, ma solo pochi minuti perché lo stomaco si liberasse di tutto quel che conteneva di solido. Quel genere di carburante di primo mattino era tollerabile solo se ci si era abituati e si aveva davanti una giornata nei campi. Per quanto fosse un tredicenne piuttosto atletico, un'ora di mietitura gli aveva procurato talmente tanti dolori in talmente tante parti del corpo che si era accasciato invocando l'arrivo di un'ambulanza, mentre la donna che lavorava accanto a lui, in avanzatissimo stato di gravidanza, si era offerta di andargli a prendere da bere. L'ospitalità si scatenò subito. Gyuri non aveva mai visto tanta roba da mangiare, e tanto buona, da quando la guerra era diventata guerra vera, e forse non ne aveva mai vista tanta tutta insieme neanche prima. Era deprimente non potersi rifare di cinque anni di fame in una sera soltanto, nemmeno mettendocela tutta. Persino l'espansivo Neumann sembrava come in soggezione davanti al cibo, anche perché l'intenzione della gente di infliggere loro numerose portate era inequivocabile. Se Gyuri cercava di rallentare il ritmo, i paesani autonominatisi suoi camerieri personali gli ronzavano intorno e, se mangiava, il piatto appena svuotato veniva prontamente sostituito con uno pieno. A mezz'ora dall'inizio della 60
masticazione, Gyuri temeva seriamente di perdere conoscenza: accanto al suo piatto, su cui si stagliava un'imponente stalagmite di salsicce, maiale salato, ciccioli e fette di pane grosse come guantoni da boxe, c'erano due bicchieri di vino, uno bianco e uno rosso, due di pàlinka, all'albicocca e alla pera, e due di birra, nel caso gli venisse sete. Alle sue spalle sentiva i contadini litigare rabbiosamente fra loro per avvicinarsi e versargli ancora da bere il frutto delle loro distillazioni e fermentazioni. Anche a Ladányi venne offerto da bere e da mangiare, ma senza troppo insistere. Nessuno voleva stancare i suoi muscoli alimentari. La sua principale occupazione era porgere la mano da baciare alla gente che si era messa in coda per rendergli omaggio. Gyuri si accorse che non sembrava affatto contento, ma la venerazione dei suoi compaesani era abbastanza comprensibile, tenuto conto che c'erano professori universitari che avevano paura di Ladányi, disposti a nascondersi in qualche androne per evitare le sue domande imbarazzanti, con cui metteva il dito sulla piaga della loro ignoranza. Gyuri aveva sentito dire che quando Ladányi aveva preso la laurea in legge, la facoltà aveva proposto di dargli anche il dottorato per buona misura, per risparmiare tempo e fatica a tutti. L'appuntamento per la disfida era per le cinque, ma Faragó e i suoi assistenti si presentarono con mezz'ora di ritardo. Ladányi aveva chiesto a Gyuri di accompagnarlo ad Hálás in caso di violenza, ma non perché fosse preoccupato della propria incolumità. «I miei compaesani mi proteggerebbero ed è proprio quello che non voglio. Se le cose si mettono male, vorrei qualcuno di fuori, che non debba continuare a vivere là.» In ogni caso i timori di Gyuri circa possibili tafferugli furono annientati dallo stupore suscitato dalla comparsa di Faragó. «Non ci crederà nessuno», bisbigliò Neumann a Gyuri, che approvò con un cenno del capo. Nel momento stesso in cui lo vide entrare Gyuri si rese conto che niente di quel che avrebbe detto sarebbe mai stato preso per vero e che a Pest non gli avrebbe dato retta nessuno. Faragó fece la sua entrata in scena, scortato da due lacché alti e dinoccolati, con una pistola alla cintola. Aveva un colorito tanto spaventoso che Gyuri pensò che i cadaveri sezionati dagli studenti di anatomia dovessero avere un aspetto più sano. Faragó era ubriaco, puzzava e indossava un gessato che sembrava essere stato seppellito nel 1932 e riesumato solo il giorno prima e che, oltre a 61
tutto, faceva a pugni e sberle con la canottiera a rete che portava sotto. Il pezzo migliore era la cravatta: come cinta faceva un figurone. L'odio che serpeggiò nella sala al suo ingresso fu tanto forte e palpabile che Gyuri si stupì che Faragó riuscisse a farsi avanti, e si rese conto che quella sera avrebbe assistito a qualcosa di speciale. Fu odio a prima vista anche per Gyuri: pensò che quell'uomo doveva aver condotto i suoi compaesani ben oltre le colonne d'Ercole dell'umana rabbia per meritarlo. Era lo zero assoluto della turpitudine umana. Era uno spettacolo da non perdere, ma probabilmente era meglio che fosse relegato ad Hálás. «Noi non ce la passiamo bene», osservò Neumann squadrandolo dalla testa ai piedi, «ma penso che il resto del paese dovrebbe ringraziare Hálás perché se lo tengono qui.» Durante il viaggio Gyuri aveva stuzzicato Ladányi, sostenendo che la Chiesa si doveva adattare e adottare verso Faragó un atteggiamento comprensivo, rinunciando ai propri possedimenti terreni. Sorridendo calmo, troppo in gamba per farsi cogliere in flagrante delitto di emozioni antigesuitiche, Ladányi aveva replicato: «Non so se sia giusto o meno che abbiamo delle proprietà, e non so cosa dovremmo farne, ma so che non è giusto darle in mano a dei banditi. Se è vero che nostro Signore ci ha raccomandato di porgere l'altra guancia, va anche tenuto presente che non ha mai conosciuto Faragó». «Così lo scarafaggio nero è venuto a farsi schiacciare dal potere del popolo?» tuonò Faragó mancando la sedia su cui avrebbe voluto sedersi e sparendo alla vista. Sistematosi sulla sedia con l'aiuto dei suoi secondi, continuò poi il discorsetto di benvenuto. «Come primo segretario del Partito comunista ungherese... cioè... cioè... del Partito popolare ungherese della comunità di Hálás-Mezómegyer-Murony, e in qualità di sindaco, nonché di presidente della azienda agricola collettiva "Ebbri di successo", per citare il compagno Stalin nella relazione tenuta al Comitato centrale in occasione del diciottesimo congresso del PCUS(B)...» A questo punto Faragó perse il filo ideologico, si fermò e, non trovando altro da dire, impugnò la pistola per sottolineare il concetto e si sparò in una gamba. Per lo sconforto generale, si trattava di quella di legno. «Quindi», riprese, «quindi scientificamente, a ritmi bolscevichi, mangerò tanto da seppellirti.» Fece schioccare le dita e il proprietario della csárda si avvicinò al tavolo, dove eresse un'enorme bilancia. «L'hanno 62
usata ai campionati di pollo fritto della contea di Békés», sussurrò qualcuno all'orecchio di Gyuri, mentre il proprietario misurava due grosse scodelle di minestra di fagioli fumante per il calcio d'inizio. Ladányi non aveva detto altro che «Buonasera», mentre Faragó continuava a blaterare per spiegare a tutti quello che aveva in mente. «Cerchi di impressionarci, vero? Pensi di poter continuare a succhiare il sangue al popolo, sanguisuga con il collare di un cane?» A quel punto Faragó si interruppe; gli era caduto l'occhio sullo zingaro del paese che era in prima fila per assistere alla competizione. Pulendosi i polmoni con un energico raschio, scatarrò un bolo tanto abbondante e potente che l'ignaro zingaro perse l'equilibrio. «Niente zingari», sentenziò. Gyuri trovò la cosa bizzarra, dal momento che Faragó sembrava più zingaro dello zingaro del paese. Aveva un buzzo tanto panciuto che sembrava si fosse infilato un'enorme anguria sotto la canottiera; anche il naso, rosso come un lampone troppo maturo, era più grosso del normale. Ciccia e nasone erano prove evidenti delle sue baldorie in quei tempi di vacche magre: si riteneva un onnivoro, un megalovoro, per lui mangiare era segno di virilità. Faragó non dubitava di lasciarsi indietro l'avversario fin dal primo piatto. Ladányi recitò una preghiera e Faragó controbatté alzando il pugno chiuso e borbottando il saluto dei comunisti: «Libertà!». Quando attaccarono a scucchiaiare gagliardamente la minestra di fagioli, Gyuri pensò che in quell'occasione non c'erano dubbi su chi fosse il beniamino della folla, anche se non sempre era altrettanto facile decidere per chi fare il tifo fra Roma e Mosca. La Chiesa ungherese aveva indubbiamente le sue colpe: Mindszenty, il cardinale, era in qualche prigione di Budapest in attesa che gli confezionassero delle accuse su misura (il capo dell'AVO, Gábor Peter, prima faceva il sarto): spionaggio a favore degli americani, complotto per la restaurazione della monarchia asburgica, allevamento di coleotteri del Colorado, disprezzo nei confronti dei romanzi del realismo socialista. Dovevano aver chiesto aiuto agli sceneggiatori superstiti della cinematografìa ungherese dell'anteguerra per inventare le prove, perché a nessun poliziotto sarebbe mai venuto in mente nulla di così fantasioso. A Gyuri riusciva difficile provare pietà per il cardinale Mindszenty che, per quanto vittima dell'ingiustizia, era un buffone. La Chiesa cattolica in Ungheria non brillava per i suoi talenti. Sarebbe stato bello poter scegliere veramente, rifletteva, ma era come essere fra Germania e Unione Sovietica. 63
Che razza di alternativa era? Che lingua vorresti che parlasse il tuo plotone di esecuzione? In quelle circostanze era chiaro che un cardinale brillante non sarebbe servito a niente. Non sempre serve essere in gamba e lungimiranti. Che differenza fa per il maiale condotto al mattatoio essere intelligente? Anzi, la stupidità può essere di grande aiuto. Non che avesse avvantaggiato Mindszenty, che pure ne era ben fornito. Quando si precipita in un burrone, la qualità della testa che ci si va a spappolare non conta molto. Quando Gyuri discuteva la posizione della Chiesa, Ladányi diventava serio, ma non si preoccupava. D'altra parte era difficile che qualcosa lo preoccupasse. Finire sul rogo per lui sarebbe stata ordinaria amministrazione, anche se altri ecclesiastici si sarebbero mostrati più restii. Era difficile, per esempio, immaginare padre Jenik che si preparava al martirio, per quanto a Gyuri fosse simpatico. La sua filosofia era di prendere il meglio che offre la vita: perché Dio avrebbe creato gli alberghi di prima categoria se non voleva che li usassimo? Quando i russi avevano preso Budapest, Jenik aveva portato il gruppo scout in campagna. Per fare cento chilometri c'erano voluti due giorni su un treno talmente lento che, quando uno dei più piccoli era caduto dalla porta aperta della carrozza, uno dei più grandi aveva avuto tutto il tempo di scendere, raccoglierlo e ributtarlo su. Jenik li aveva portati in un paese dove aveva alcuni lontani parenti, e aveva incominciato a narrare con dovizia di particolari e di iperboli gli orrori e le degenerazioni della guerra, commiserando il triste destino dei ragazzi che avevano davanti. Non mentiva, ma non faceva neppure nulla per evitare di essere frainteso. Lo stesso padre Jenik che sul treno aveva riso tutto il tempo, e che Gyuri sospettava essere la fonte di tutte le barzellette sui cammelli di Ladányi, aveva assunto un'aria cupa e addolorata. Dopo un bel po' che dissertava sulle atrocità della guerra, Gyuri si era reso conto che parlava di loro. Mentre evocava i supplizi della fame e le privazioni aveva la mano poggiata sulla spalla di Papp. Papp sembrava un burattino fatto di ferri da calza tenuti insieme con la colla tanto era smunto e macilento, nonostante che suo padre fosse macellaio e in casa sua mangiassero più carne di tutti i carnivori dello zoo di Budapest. Ai contadini erano venuti i lucciconi e, a parte Hálás, era stata la volta in cui Gyuri aveva mangiato di più in assoluto. Quella sera era arrivato a pensare 64
che non avrebbe mai più avuto bisogno di mangiare in tutta la sua vita e aveva girato a vuoto nel buio sperando ardentemente che il movimento lo aiutasse a digerire, a scacciare la nausea e a macinare l'incudine che aveva nello stomaco. Per altri versi, però, padre Jenik era il classico prete dai modi paterni, sempre intento a tirarti su la manica per tastarti il polso spirituale e a far rispettare una per una le regole del club: frequenza alla messa, confessione, osservanza delle festività religiose. Ladányi non parlava mai di religione, a meno che non fosse qualcun altro a tirare fuori l'argomento o il discorso sorgesse spontaneamente. Niente lusinghe né ricatti spettacolari per riempire di chiappe le panche, niente appelli, con Ladányi. Sembrava che non gli importasse se ti facevi vedere o meno, ed era questo che era pernicioso. Gyuri aveva smesso di andare in chiesa come aveva smesso di credere a Babbo Natale: arrivati a un certo punto, non era più possibile prenderli seriamente. Era proprio questa la cosa preoccupante di Ladányi: lui era tanto in gamba che aveva sempre una vista panoramica di quello che facevano tutti. Neppure Pataki cercava di cambiare le carte in tavola con lui, perché ti leggeva nel diario prima ancora che ci scrivessi. Gyuri, quando puliva la vasca da bagno o faceva la spesa, non poteva fare a meno di pensare che anche le azioni più insignificanti facessero parte di un piano più generale, che pulire la vasca da bagno e fare la spesa facessero parte delle macchinazioni di Ladányi (solo che lui non se ne rendeva conto) e che un giorno si sarebbe svegliato tutto vestito di nero con un collare bianco. Che fosse per l'Ordine a cui apparteneva o per ládanyietà, Ladányi agiva sempre in sordina. L'estate prima, per eccesso di zelo, Gyuri aveva offerto a Katalin Takács di andarle a ritirare un vestito nuovo dalla sarta. Le sue compagne di spogliatoio avevano sparso la voce che non aveva peli sulla micia, per cui era andato dalla sarta che vestiva la ragazza che lui avrebbe voluto spogliare per controllare la voce che girava sul suo conto. Il favore fu doppio, dato che la sarta viveva nel quartiere di Angyalföld, oltre Váci ut. Si diceva che quando gli americani l'avevano bombardato a tappeto per sbaglio alla fine del '44, cercando in realtà le fabbriche sull'isola di Csepel, nessuno ci aveva fatto caso, perché nessuno aveva notato la differenza. C'era anche chi diceva che sia le Waffen-SS sia 65
l'Armata Rossa si fossero tenute alla larga da Angyalföld, perché non volevano guai. Sebbene conoscesse bene Budapest, Gyuri non si era mai avventurato in quella zona e rimase sconvolto nel constatare che tutto quello che se ne diceva era vero. Sceso dal tram, si era imbattuto in persone che giacevano ai bordi delle strade come i mucchi di foglie autunnali nei quartieri più eleganti, dopo che l'alcol aveva reciso ogni loro legame con l'universo conosciuto. Mentre camminava, gruppi di indigeni lo fissarono con odio malcelato; gli era già successo di sentirsi oggetto di aggressività e antipatia istintive, ma mai con tanto fervore cannibalesco. Quella mattina prima di partire Gyuri aveva pensato di infilarsi in tasca un coltello per via della triste fama di Angyalfòld, ma quando svoltò in Jász utca non poté fare a meno di notare due uomini che si affrontavano a colpi di vere e proprie sciabole, lunghe spade pesanti del genere preferito dai pirati hollywoodiani. Li osservava una folla di spettatori scalzi disposti a semicerchio, un po' delusi del livello della contesa. Un coltello non sarebbe servito a nulla, anzi, oltre a farsi pugnalare se lo sarebbe fatto fregare, e i coltelli come si deve scarseggiavano in quel periodo, come tutto il resto. Gyuri ebbe tutto il tempo di riflettere che la sua morte prematura e ingloriosa nelle strade di Angyalföld sarebbe stata il frutto del suo desiderio di far scivolare il proprio sguardo lungo le curve glabre di Katalin. Micia ci cova, pensò salendo al quinto piano e meditando sul fatto che tutti quelli che andava a trovare abitavano al quinto piano senza ascensore. La sarta, un'arzilla signora di ottant'anni suonati, chiaramente del genere che lavora dodici ore al giorno a costo di schiattare, confortevolmente all'oscuro di ciò che accadeva nel resto del quartiere, si congratulò con Gyuri per il buon taglio dei suoi pantaloni. Erano l'ultimo paio di Savile Row di Elek, gli unici calzoni degni di questo nome rimastigli, che Elek gli aveva prestato dopo aver deciso che quel giorno non si sarebbe alzato da letto o comunque non si sarebbe spinto più in là della poltrona. La sarta si affrettò a preparare il vestito, mentre Gyuri pensava che era un peccato che non potesse trasmettergli un po' della sua operosità. Stava correndo alla fermata del tram quanto si imbatté in Ladányi che stava parlando con alcuni residenti che lo ascoltavano pazientemente. Era 66
chiaro che lo trattavano come uno appena sceso dalla luna. Ladányi parve leggermente risentito di essere stato sorpreso a fare del bene, ma accompagnò Gyuri al tram e gli confidò di malavoglia che faceva il giro di Angyalföld tutti i giorni prima della messa del mattino. Era la pura follia della sua fede a permettergli di uscirne incolume, pensò Gyuri. Sollevato per essere scampato ad Angyalfòld, ancora intatto nel corpo e nello spirito, Gyuri era alla stazione Nyugati in attesa di cambiare tram e consegnare il vestito quando un gruppo di cinque ragazzi della sua età gli si avvicinò. Uno estrasse senza preamboli un paio di forbici e gli tagliò rapidamente la cravatta. Era l'ultima cravatta di seta di Elek, l'ultima cravatta in generale, la sola rimasta in casa Fischer. Il tagliatore gli porse i brandelli e sentenziò: «Ceruleo». A quel punto a Gyuri venne in mente che era di moda a Budapest, soprattutto fra gruppi di cinque armati di forbici, andare in giro ad amputare cravatte alla gente per poi dirgli: «Ceruleo». Non era una gran cravatta, la fantasia non era di suo gusto e c'era una macchia indelebile di minestra, ma l'impulso di mollare un pugno in faccia allo sforbiciatore era stato di un'intensità quasi incontrollabile, tanto più che quello si aspettava che Gyuri la prendesse in ridere. Gyuri pensò quanto gli sarebbe piaciuto spaccargli la faccia, poi però pensò quanto poco gli sarebbe piaciuto ricevere in cambio almeno lo stesso trattamento moltiplicato per cinque: si accontentò di un'occhiata sprezzante. I cinque salirono sul tram successivo facendo commenti sullo scarso senso dell'umorismo di certa gente. Quando, su suggerimento di Faragó, passarono al gelato al cioccolato, Gyuri capì che era fatta. Ladányi e Faragó si erano riscaldati con un paio di litri di minestra di fagioli prima di passare al piatto forte pollo fritto - in quantità meticolosamente pesate sulla bilancia. «Hálás è sempre andata famosa per il pollo fritto», borbottava Faragó, «e ora, grazie al socialismo, il pollo fritto è ancora più fritto.» Allungò la mano verso un piatto di sottili tubetti verdi. «I peperoncini sono facoltativi», annunciò infilandosene due in bocca. Arrivato a tre chili di pollo, Faragó incominciò a sudare, sebbene fosse difficile stabilire se fosse per lo sforzo gastronomico o per gli effetti calorifici dei peperoncini. Incominciava anche ad avere un'aria stranita, 67
forse perché si stava rendendo conto che il gesuita mangiava effettivamente come un lupo. Mentre in Faragó lo sforzo era evidente, Ladányi trangugiava cosce di pollo con calma, metodicità e un agio tale che sembrava non avesse ancora dovuto fare appello alla forza di volontà. «Vado a fare un po' d'acqua», comunicò Gyuri a Neumann. Stava iniziando a temere di perdere i contatti con varie parti periferiche del proprio corpo. Dopo aver bevuto due dei quattro bicchieri di pálinka a lui riservati, trovò il modo di uscire dalla csárda e, con il favore del buio, svuotò la bocca dal liquido bruciante con uno spruzzo volto a evitare almeno un po' della smisurata ospitalità di Hálás. Un tipico contadino, un uomo di una certa età con l'immancabile cappello nero che i contadini si tenevano cucito sulla testa e un paio di massicci baffoni a manubrio, venne ad aiutarlo a innaffiare il pianeta. «Buonasera, signore», disse. Gyuri non poté fare a meno di notare che solo la gente di campagna sa essere tanto educata con l'uccello all'aria. La conversazione si spostò su Faragó, anche perché Gyuri non aveva nessuna fretta di rientrare per essere vittima di ulteriori manifestazioni di generosità; era curioso di saperne di più sulle prodezze di Faragó. «Ho sentito che in tempo di guerra ne ha combinate delle belle...» «Meglio non parlarne, signore. Ci sono cose che non vanno raccontate, ma dimenticate. Il suo allenatore è Satana in persona.» Gyuri rimase fuori più che poté e, prima che organizzassero le ricerche, rientrò giusto in tempo per assistere al superamento della barriera dei dieci chili da parte di Ladányi e Faragó, quest'ultimo affaticato, il primo ancora compassato. Gyuri si vide rovesciare davanti una montagna di zampetti di maiale in gelatina e si chiese come avrebbe fatto anche solo ad assaggiarli. «L'oca affumicata non le è piaciuta, eh?» gli domandò in tono accusatorio e risentito una signora con l'aria offesa, nonostante a Gyuri sembrasse di averne mangiato sei rispettabili porzioni. Neumann non parlava molto, ma non dava segni di sofferenza (dopo tutto aveva più di cento chili di mole da sostentare). Dovevano aver rastrellato tutto quello che c'era da mangiare nel raggio di quindici chilometri. A Gyuri dispiaceva soltanto che il suo stomaco non ce la facesse più, avesse messo sulla porta un biglietto che diceva «sono a pranzo» e fosse uscito, rifiutandosi di continuare.
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Oltre a tutte le altre schifezze, Faragó aveva anche un brutto raffreddore e, mentre porgeva il fazzoletto da naso al vicesegretario del Partito perché lo mettesse sulla stufa ad asciugare, Gyuri avvertì un altro moto di compassione per la gente del villaggio. Facevano una vita semplice, terragna, che per gli appassionati del genere poteva anche essere piacevole. Non c'era da sorprendersi che detestassero Faragó: era un vero e proprio flagello, come un'invasione di cavallette o un drago che decide di venire ad abitare vicino a casa tua. «Perché proprio noi?» si era lasciato sfuggire l'anziano contadino. «Ha tutto il mondo a disposizione per perpetrare le sue stronzate e non si muove da Hálás. Perché?» Mangiare aveva perso ormai da un pezzo ogni attrattiva. Non era più una questione di appetito, ma di volontà, e proprio per questo Gyuri era convinto che avrebbe vinto Ladányi e, conoscendolo, che avrebbe anche persuaso Faragó a fargli da chierichetto. La conversione: era strano come la gente potesse cambiare completamente e rimanere sempre la stessa. Fodor, per esempio, un suo compagno di scuola per cui finire nei guai non era un effetto collaterale delle proprie attività ma l'unica attività cui si dedicava, e che rompeva le scatole quasi quanto Keresztes, aveva avuto un improvviso attacco di Spirito Santo. All'inizio c'era chi sospettava si trattasse di una bravata complessa e poco divertente, ma Fodor era stato così inflessibile nel distribuire volantini che ricordavano che Gesù aveva qualcosa da dire, che tutti si convinsero che faceva sul serio e che predicare era il suo nuovo modo di dare fastidio al prossimo. Una volta Fodor aveva sorpreso Gyuri a bighellonare in corridoio. «Gesù Cristo è venuto in terra per salvarti ed è morto per i tuoi peccati. Devi lordarlo e seguire il Suo insegnamento», lo aveva esortato. Poi, a voce più bassa, assaporando le parole, aveva aggiunto: «Sei stato avvertito. Il messaggio l'hai ricevuto e adesso non hai più scuse. Se lo ignorerai, brucerai all'inferno. Per l'eternità». Fodor si era allontanato con aria soddisfatta. Era la cosa che gli piaceva di più, andare in giro con una versione a canne mozze delle Scritture e minacciare agli infedeli la graticola eterna. Gyuri l'aveva anche visto nel Körút, in piedi su una cassetta rovesciata ad arringare passanti poco disposti ad ascoltarlo, con gli occhi che gli brillavano al pensiero dell'imminente barbecue generale. Fodor non sopportava l'idea che qualcuno, una volta attraccato al porto del Cielo, se la cavasse tirando fuori la scusa che non gli avevano spiegato il contratto del Nazareno. Voleva 69
poter saltare su e dire: «Bugiardo, bugiardo! Io gliel'avevo detto. Io l'avevo avvisato. Lasciatelo bruciare». Come fosse andato a finire, se si fosse stufato del suo sadico evangelismo o meno, Gyuri non lo sapeva. L'ultima volta lo aveva visto quando li avevano portati al cinema con la scuola e li avevano chiusi dentro. Quando li chiudevano nel cinema, il film era senz'altro sovietico. Gli studenti riempivano un'immensa balconata su diversi livelli e Fodor era saltato da quella che riteneva la separazione fra un livello e l'altro e che invece era la fine della balconata. Prima di scomparire nel vuoto, per un nanosecondo gli si era letto in faccia un inequivocabile: «Ma qui non c'era un'altra fila?». Insieme ad altri due o tre ragazzi, Gyuri si era offerto generosamente di accompagnare Fodor con le sue gambe fratturate all'ospedale, per risparmiarsi le gesta di Sergei che respingeva da solo i tedeschi invasori, riparando nel frattempo il suo trattore per ottenere un raccolto record. Fodor non era più tornato, per paura del ridicolo o forse perché era andato in cerca di anime fresche da salvare. «Sei di poche parole, eh?» disse Faragó a Ladányi, sottintendendo che questi stava scorrettamente riservando tutte le energie per mangiare. Anche se avesse avuto ancora un po' di resistenza, passare al gelato al cioccolato fu la fine per Faragó. Era già indietro di un pollo buono e aveva scelto il dolce preferito di Ladányi, che prima di arruolarsi nell'esercito di Gesù era stato soprannominato dagli scout «gelataio» proprio in virtù delle quantità epiche di gelato al cioccolato che riusciva a ingollare. Gyuri si chiese se Ladányi avesse informato il quartier generale dei gesuiti della sua missione campagnola per sfidare a tavola un segretario del Partito. Per quanto lo scopo fosse lodevole, in un'atmosfera di austerità in cui abbondavano battute del tipo «Non è già la seconda volta che mangia questa settimana, padre?», quell'abbuffata indecorosa, sebbene facesse parte della sua missione di soldato di Cristo, gli sarebbe valsa una discreta sfilza di rosari. «Che cosa vuole che dica?» si informò cortesemente Ladányi, trattenendo un cucchiaio di gelato dalla sua meta. Tutti allungavano il collo per vedere, perché Faragó era visibilmente in difficoltà e lanciava sguardi pieni di risentimento alla sua coppa di gelato. 70
«Come dice l'adagio», boccheggiò, «in una taverna non c'è posto per due suonatori di cornamusa. Noi, la classe lavoratrice... noi, strumento del proletariato internazionale... difenderemo le conquiste del popolo...» A quel punto Faragó si inceppò, cadde dalla sedia e, come se la propaganda gli fosse andata di traverso, svuotò lo stomaco sul pavimento. A Gyuri parve un perfetto caso da estrema unzione. Ladányi però non si mostrò preoccupato. «Padre Orso ha dei documenti da farle firmare, credo», dichiarò. Il prete del villaggio si chinò e gli porse una penna; Faragó era lungo per terra, come incerto se fare o meno due flessioni. Con aria torva tracciò uno scarabocchio sul foglio e, supino, fu trascinato via dalle mani inesperte della cellula del Partito, braccia e gambe penzoloni. Nel corso del loro colloquio post-minzione, l'anziano contadino aveva detto a Gyuri: «Prenda l'individuo più fetente che riesce a immaginare, ci sarà sempre qualcuno di solito parecchio imbecille, ma non sempre - che dirà che no, che è stato frainteso, che gli hanno fatto dire cose che non ha detto. Anche gli assassini, quando finiscono sul giornale, hanno una moglie o una mamma che li difende sostenendo che a conoscerli davvero sono bravissime persone. Chieda in giro se qualcuno ha qualcosa di buono da dire su Faragó, chieda a tutti quelli che lo conoscono da una vita se ricordano qualcosa a suo favore, una piccola cortesia, un ringraziamento, un piacere: vedrà che resteranno tutti muti come angurie nell'erba alta. Persino sua madre, se Faragó fosse sul patibolo, direbbe "Attenti a stringerglielo bene quel cappio" oppure "È permesso dare la mancia al boia?"». Pulendosi la bocca con un tovagliolo ricamato, Ladányi si alzò in piedi scattante come se fosse reduce da uno spuntino veloce fra due appuntamenti importanti. «Bene, adesso dobbiamo andare. Che Dio vi benedica.» Ci fu un'altra ora di baciamano e caricamento di doni sul carro, ma Ladányi insistette decisamente per partire, visto che sarebbero ancora riusciti a prendere il treno per arrivare a Budapest la mattina dopo. Alla luce della luna Ladányi sembrava incredibilmente magro. Durante il viaggio sul carro Gyuri aveva lo stomaco in subbuglio per gli scossoni e si sorprese che Ladányi non avesse la minima inclinazione alla nausea. Gyuri era convinto che ci sarebbero voluti dei mesi prima che gli tornasse 71
voglia di mangiare. Neumann ruppe il silenzio da pellegrinaggio. «Ma quel contratto significa davvero qualcosa? Scusate l'espressione, ma Faragó ha l'aria di uno che si chiaverebbe la propria nonna per un cicchetto, o anche per niente.» «Senti», rispose Ladányi, «quella di stasera è stata un'operetta morale. Mi hanno chiesto di venire e non potevo rifiutare. Dubito che farà qualche differenza, non perché il compagno Faragó la correttezza non sa neppure dove sta di casa, ma per come vanno in generale le cose in questo paese. La piccola vittoria di questa sera brillerà a lungo in anni di sconfitte, e spero che per la gente di Hálás sia importante.» «Quanto pensi che durerà?» domandò Gyuri, non proprio sicuro di voler sentire la risposta. «Non tanto», si pronunciò Ladányi. «Direi una quarantina di anni o giù di lì. Dovremo aspettare che i barbari invecchino e si ammorbidiscano.» Non era la risposta che Gyuri voleva sentire, e tanto meno da Ladányi. «È ora di emigrare.» «No, per niente. Per prima cosa, come sicuramente saprai, passare il confine non è più tanto facile. Secondo - e ci tengo a sottolineare che non è un'idea brevettata dalla Chiesa - la sostanza non è sostanziale. Non sono le condizioni materiali che contano, ma quello che ne pensi. Prendi un contadino di un paesetto nel cuore della Cina, che è l'uomo più felice del mondo perché ha due maiali mentre gli altri compaesani non ne hanno nemmeno uno. La vita non è come il basket, non è questione di punti, ma di quel che si ha qui.» Ladányi si toccò la fronte con l'indice. «Perdi solo se ti arrendi e, se ti arrendi, meriti di perdere. A pallacanestro ti possono battere, ma per il resto ti possono battere solo se tu glielo permetti. Sei fortunato, molto fortunato. Viviamo tempi difficili: se non sei completamente ottuso, capisci che è meglio accettare la sfida.» Grazie del totalitarismo, Stalin. Gyuri dubitava di potersi trovare bene quanto Ladányi in una cella di prigione. «Io preferirei un biglietto per Parigi», replicò. «Posso prenotarmi un tot di preghiere a quello scopo?»
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«Sarò lieto di inoltrare la tua richiesta, ma non essere troppo specifico, corri il rischio di ottenere quello che chiedi. Bisogna pregare per il meglio, magari sarai più felice qui che a Parigi.» «Sono pronto a correre il rischio. Darei qualsiasi cosa pur di sfuggire a questa sequela di tornitori che infrangono un primato dopo l'altro.» «Sì, questo culto del lavoratore è un po' pesante. Fa specie che sia scaturito da un accademico tedesco grasso e scroccone, che non ha mai avuto un lavoro in vita sua, è vissuto alle spalle degli amici e si è lasciato andare a pratiche quantomai borghesi quali ingravidare la cameriera. E così noioso. La gente spesso trascura l'opera di un povero falegname che si scelse dei pescatori per amici.» Continuarono a chiacchierare sul carro per un po'. «La cosa più buffa dell'influenza di Marx è che i suoi libri sono illeggibili», osservò Ladányi. «Forse il loro fascino sta proprio nell'inintelligibilità, una sorta di misticismo fatto di statistiche e stipendi di operai tessili. La gente un giorno ci riderà sopra. Purtroppo però c'è anche chi ci crede. Non quelli che si sono iscritti adesso, ma quelli che ci sono entrati prima della guerra, quando era illegale. Loro ci credono e, come ben dimostra la storia della Chiesa, le idee strampalate sono dure a morire.» «Penso che sia un processo che mi piacerebbe analizzare dettagliatamente in un caffè newyorchese. Da quella distanza magari lo troverei anche divertente.» «Anch'io», gli fece eco Neumann. «La voglia di viaggiare è tipica della vostra età. Non siete mai stati fuori dell'Ungheria, no? Attenti, perché spesso ci si affeziona alla propria prigione, sapete.» Arrivarono alla stazione giusto in tempo per prendere il treno per Budapest. Neumann, che aveva il dono prezioso di riuscire a dormire in treno, si sistemò in un altro scompartimento dove c'erano dei posti vuoti. Ladányi tirò fuori un libro: gli Analecta di Confucio. «È bello?» domandò Gyuri. «La vita è troppo breve per i bei libri», replicò Ladányi. «Bisogna leggere solo grandi libri.» «E come si fa a riconoscerli?» «Se sono in circolazione da due 73
tremila anni di solito è buon segno. Questo non è male. Ad alcuni di noi giovani hanno detto di studiare il cinese. I superiori ritengono che sia un mercato in espansione. Ogni anno ciascun gesuita riceve una lettera con i suoi ordini. Ho la sensazione che vogliano spedirci via tutti quanti. Secondo me è un errore, ma è lì che entra in gioco il voto dell'obbedienza.» Gyuri non metteva piede in chiesa da quando aveva quattordici anni e sua madre lo aveva trascinato alla messa di Pasqua. Successivamente aveva tentato di mettersi in contatto con Dio in diverse occasioni, quando aveva temuto di morire, ma sempre sul posto, non in luogo sacro. Era certamente il vantaggio più grosso di un'educazione religiosa: ti dava un numero da chiamare in caso di necessità, il che era pur sempre una consolazione, anche se non rispondeva nessuno. Gyuri aveva sentito gli svariati argomenti addotti dai sostenitori di Dio per dimostrarne l'esistenza: lo prova la progettazione («direi che come universo è ben fatto»), la perfezione del creato («per essere uno scherzo ha richiesto un sacco di lavoro») oppure la versione di Pascal, cento franchi su Dio in un senso e nell'altro. Ma, tutto considerato, l'argomentazione migliore per arruolarsi nell'esercito di Gesù era che la punta di diamante, Ladányi, ci credeva. Quando arrivarono a Budapest, Ladányi ringraziò Gyuri e Neumann dell'aiuto. Fu l'ultima volta che Gyuri vide Ladányi. In quel momento non ne aveva il più vago sentore, ma a distanza di anni, ripensandoci, gli venne il dubbio che Ladányi lo sapesse. «Non ti scordare quello che ho detto a proposito dei grandi libri. E ogni tanto leggi la Bibbia. Ha ottenuto buone recensioni, sai.» Il tono di Ladányi in quella raccomandazione d'addio non era quello di un piazzista, né di un amico che ti consiglia che cosa leggere, ma piuttosto quello di un visitatore che porge a un detenuto una pagnotta con una lima dentro.
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Settembre 1949 Proprio mentre il tram percorreva l'ultimo tratto del ponte Margherita, con la coda dell'occhio Gyuri registrò la presenza della ragazza seduta sul bordo del parapetto. Un attimo dopo non c'era più. Né lui né gli altri che sul tram avevano assistito al tentativo di suicidio potevano fare nulla. Prima che il tram si fosse fermato e loro fossero arrivati fino al ponte, il destino della fanciulla sarebbe stato deciso, per un verso o per l'altro. Sembrava un po' spietato dire "To', eccone un altro" e stringersi nelle spalle, ma tornando indietro non avrebbero dato alcun contributo, a parte fare da spettatori. La gente giù sugli argini avrebbe fatto da buon samaritano per quanto possibile. E poi Gyuri era in ritardo. Solo a lui poteva capitare di imbattersi in un suicidio quando era già in ritardo per il lavoro. D'altra parte, se non altro sarebbe stata una scusa onorevole per la sua mancanza di puntualità. Gli era rimasta impressa un'immagine nitida della ragazza: strano come un ritratto dettagliato potesse fissarsi velocemente nella memoria. Sembrava una ragazza di campagna venuta nella metropoli popolosa a prendere l'uscita da cui non c'è uscita, una ragazza non abbastanza carina da tuffarcisi dietro. D'altronde, fosse stata abbastanza carina da avere orde di uomini che le si tuffavano dietro, non avrebbe avuto bisogno di buttarsi dal ponte. E poi il suicidio, sport nazionale, vizio ungherese per eccellenza, andava rispettato. Gyuri non era aggiornato sull'andamento del suicidio sotto il regime socialista magari era stato abolito - ma la popolarità di questo genere di fai-da-te non poteva essere attribuita interamente alla Rákosi & Co. Da secoli ungheresi di qualità e in quantità, se non riuscivano a entrare in uno degli eserciti ungheresi usi a farsi sbaragliare, si facevano saltare le cervella o restituivano altrimenti la libertà alla propria anima. Bastavano un momento di inerzia, un po' di musica malinconica e subito un ungherese cercava di staccare la spina. E non solo i nobili: le domestiche ungheresi a Vienna erano tristemente famose per la loro passione di candeggiarsi le budella.
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Il tram depositò Gyuri davanti al mostruoso stabilimento dell'Elettromeccanica Ganz, ma fra tutti coloro che scesero fu l'unico ad avviarsi verso il cancello; tutti gli altri dipendenti erano arrivati molto più presto, prima dell'inizio del turno. Naturalmente, pensò Gyuri, poteva darsi che la propensione al suicidio derivasse dall'altra grande passione degli ungheresi, quella di mugugnare. E con chi meglio che con il capo Architetto? Rivolgetevi in alto, andate a parlare di persona con il vostro creatore e fategli una testa così sui difetti dell'universo. Fuori della porta dell'ufficio Dio doveva avere una fila spaventosamente lunga di ungheresi desiderosi di reclamare. Entrando nel cortile principale Gyuri passò davanti a un tabellone adorno di dilettantesche decorazioni rosse, che recava l'intestazione «Brigate socialiste». Sotto c'erano scritte più piccole, come «Guernica», «Dimitrov» e «Béla Kun», che sovrastavano meravigliosi dati di produzione e nebulose foto in bianco e nero di tornitori ovinamente soddisfatti e un po' imbarazzati intenti a tornire. Queste foto non cambiavano. Accanto, sotto un'elegante «Società di Mutuo Soccorso Ungaro-Sovietica», c'era una serie di malandate foto in bianco e nero di tornitori sovietici che guardavano con un'incoraggiante espressione da vecchio zio o da fratello maggiore, tornitori ungheresi intenti a tornire e foto di tornitori ungheresi che da bravi fratelli minori sgranavano gli occhi per l'ammirazione davanti a tornitori sovietici intenti a tornire. Anche in queste fotografie non c'erano cambiamenti stagionali. Non lontano da queste immagini, ma dalla parte diametralmente opposta del cortile, c'era una gigantesca caricatura in cartone del presidente americano Harry Truman. Ai piedi della caricatura c'era un cartello con la scritta «AMICI DI TRUMAN» in grafia traballante e, in caratteri meno marcati, «Ho deciso di distruggere le conquiste del popolo dell'Ungheria democratica: vi prego di aiutarmi battendo la fiacca. Molte grazie.» Sul cartellone, che ricordava quelli che una volta venivano appesi davanti alla fabbrica con le offerte di lavoro, erano stati inseriti dei nomi. Anche in questo non c'erano grandi cambiamenti stagionali. I primi della lista erano Pataki, Tibor, seguito da Fischer, Gyórgy (Gyuri non riusciva a capire come avesse fatto Pataki ad arrivare ancora una volta in cima alla lista) e
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altri nomi più variabili, Németh, Sándor, o Kövrig, Lászlo. Sconosciuti che però suscitavano la simpatia di Gyuri. Quella condanna alla berlina era principalmente da attribuire alla riluttanza sua e di Pataki ad andare a lavorare anche solo un po' più presto di quanto fosse strettamente necessario per evitare il licenziamento. A Gyuri non importava gran che essere amico del presidente Truman (ma si chiedeva se, qualora fosse mai riuscito ad arrivare negli Stati Uniti, quell'amicizia avrebbe potuto essergli di qualche utilità) soprattutto perché le punizioni che accompagnavano la pubblica associazione del proprio nome a quello del presidente degli Stati Uniti erano poche (e comunque ci avrebbe pensato Gombás). Era chiaro che la sezione agit-prop riteneva l'accostamento dei nomi abbastanza infamante da rendere superflue ulteriori lavate di capo. Essendo un «nemico oggettivo di classe», un alieno di classe, Gyuri non poteva cadere più in basso di quanto già non fosse e, quando distribuivano qualcosa (sempre che ci fosse qualcosa da distribuire), lui era sempre e comunque in fondo alla fila. A parte i problemi connessi al fatto di avere la stampigliatura «nemico oggettivo di classe» sulle credenziali morali che bisognava presentare ogni volta che si faceva domanda per un lavoro, un posto all'Università e più o meno tutto il resto, l'ingiustizia più grossolana e più irritante dell'essere classificato figlio di famiglia borghese risiedeva nel fatto che Elek fosse così profondamente e completamente non borghese. A parte il mestiere di allibratore, che non era esattamente la carriera più benvista nei salotti, c'era da tener conto del suo comportamento da vecchio morfinomane, molestatore di vedove e cameriere, con il manganello e la siringa sempre a portata di mano. Si era sempre fatto chiamare per nome dai dipendenti (cosa che agli occhi degli altri capitalisti equivaleva di per sé a essere iscritti al Partito comunista) e concedeva loro un pomeriggio libero se il tempo era particolarmente bello o se aveva voglia di curarsi il torcicollo con un po' di morfina (benché fosse evidente ormai da anni che al suo collo la droga non faceva né caldo né freddo, così come non era servito l'intervento di un ipnotizzatore, cui però Elek aveva concesso un solo tentativo. Brandendo il suo pendolo, costui aveva ripetuto in tono cantilenante «Sei immerso in un sonno profondo, in un sonno profondo» per dieci minuti, dopo di che Elek aveva detto «No, sono sveglio. Ha intenzione di farmi pagare lo stesso?»). In seguito, dopo aver perso tutto il 77
suo denaro, invece di cercare di rifarsi delle perdite sgobbando disciplinatamente, come si addiceva a un borghese rispettabile, Elek si era accontentato di starsene in poltrona, con il pullover bucherellato e il collo rigido, a riflettere sul dilemma teorico di come procurarsi una sigaretta. Elek e la borghesia non avevano nulla da spartire. Era vero che a un certo punto Elek aveva avuto dei soldi, ma era stato moltissimo tempo prima, quando Gyuri era ancora troppo piccolo per usarli. «Quello che ti ho dato ha un valore inestimabile», aveva detto Elek tenendo banco sulla sua poltrona quella mattina. «Ti ho dato la tua indipendenza. Ti stai facendo strada da solo, non mi devi nulla. Qualunque risultato tu ottenga, potrai dire 'Ce l'ho fatta da solo'. Non hai un padre ansioso che ti frena, né un'ingombrante figura paterna di successo che ti intimidisce. Quanti possono dire la stessa cosa? Sei una ghianda piena di talento libera di crescere senza timore dell'ombra della grande quercia.» La cosa strana di Elek era che, meno attivo diventava, meno dormiva, per cui Gyuri aveva la garanzia di poter essere messo a parte dei suoi pensieri tutte le mattine prima di uscire per andare al lavoro. «Vedi, István, per esempio, avrà sempre gli inconvenienti di tutto ciò che i soldi possono comprare.» István, in realtà, sopportava quel genere di fardello abbastanza bene. Era tornato alla fine del '45 con una decina di amici - reduci anch'essi dal campo di prigionia in Danimarca dove si erano fatti la guardia da soli duemila sigarette e una buona padronanza di quindici lingue straniere. Prima che la situazione precipitasse, István era riuscito a trovare un lavoro al Ministero dell'Agricoltura dove aveva imparato tutto quel che c'è da sapere sullo zucchero. Dal momento che la sua posizione era inoppugnabilmente subalterna e che al Ministero qualcuno che sapesse qualcosa di agricoltura dovevano comunque tenercelo, era stato magnanimamente tollerato. István ne aveva riso, così come rideva di tutto. Da sempre di indole gioviale, degli anni trascorsi sul fronte russo aveva conservato un solo souvenir importante: l'incapacità di scaldarsi per cose che non fossero tre anni sul fronte russo. Uno poteva raccontargli di essere andato a cena fuori e aver preso l'epatite, di essere in attesa della chiamata alle armi, di essere appena stato piantato dalla ragazza che in quel momento contava per lui più della vita stessa e di voler morire, e István si sarebbe messo a 78
ridacchiare oppure, se l'altro aveva l'aria davvero disperata, si sarebbe messo a ridere sguaiatamente. István era ricomparso a Budapest il giorno dopo la visita dei ladri. Non era rimasto gran che da rubare dopo che l'Armata Rossa aveva fatto ripetutamente manovra nell'appartamento e che il mobilio era stato barattato con generi alimentari. István si era presentato come se tornasse dal negozio all'angolo, e aveva trovato Gyuri sbalordito dall'inesauribilità della sfortuna che li perseguitava. Era uscito di nuovo immediatamente e la mattina dopo tutta la refurtiva era ammucchiata davanti alla porta con un biglietto in cui si chiedeva scusa perché la paletta della spazzatura non era quella originale, ma si esprimeva la speranza che quella con cui era stata sostituita fosse all'altezza del suo compito, e si concludeva con i più fervidi auguri di buon proseguimento per tutta la famiglia. In seguito vennero a sapere che l'unico altro superstite dell'unità di artiglieria di István era uno dei più noti scassinatori di Budapest, il quale si era indignato dell'affronto subito dalla famiglia del suo ufficiale in comando. Quando cominciava a sentirsi raccontare qualsiasi disastro, István ti chiedeva una cosa sola: «E tu che cos'hai fatto?». Era quel che si faceva, e non i piagnistei, che gli interessava. István tornò per la pace, si sposò, trovò un lavoro e una casa. La sua caratteristica più irritante era quel suo modo di far sembrare facile la vita. La sua diligenza e il suo senso pratico erano tali che era difficile credere che fosse parente di Elek. Da chi li aveva presi? Perché lui non ne aveva? si chiedeva Gyuri. István riusciva a risolvere qualsiasi problema e a trovare il lato buono delle situazioni peggiori, e proprio per questo Gyuri non capiva che cosa lo avesse spinto a tornare in Ungheria e poi a restarci. István sembrava capace di tutto, tranne forse trovare un lavoro come si deve a Elek. «Hai rinunciato, allora?» gli aveva chiesto Gyuri. «Rinunciato? Rinunciato a cosa? Al tennis? A fumare? Alle corse? Ai miei studi di sanscrito? Sono una vecchia scoreggia, lo sai bene», aveva ribattuto Elek impegnato in un'accurata verifica della lunghezza dei suoi baffi pelo per pelo in uno specchietto. «Non puoi pretendere troppo. Sei tu, il figlio sano e vigoroso con tutta la vita davanti, che dovresti occuparti di mantenere il tuo vecchio padre dalla salute malferma. » 79
«Non ti dà fastidio?» «Fastidio? Sì. No. Forse ti sorprenderà, ma da giovane la mia massima aspirazione non era esattamente quella di finire in una poltrona con un pullover grigio pieno di buchi. Confesso che immaginavo piuttosto qualcosa come un lusso sfrenato, ma mi dà un certo gusto deludere la gente non dando segni di disperazione da suicidio.» Avrebbe dovuto candidarsi a segretario del Partito con la parlantina e la voglia di far niente che si ritrovava, pensò Gyuri. Subito dopo la guerra avrebbero preso chiunque, ma ora non più. Ora i comunisti che avevano li impiccavano. Sulyok, il caposquadra, stava tenendo ai colleghi di Gyuri una delle sue conferenze quando lui finalmente si presentò. Nel vedere ciò gioì non poco di essere arrivato in ritardo. Il motivo principale per cui Gyuri ostentava tanta nonchalance riguardo alla propria mancanza di puntualità era che a lui e a Pataki il lavoro in fabbrica era stato procurato direttamente da Gombás, il vicedirettore dello stabilimento, e tutti lo sapevano. Vincitore di medaglie olimpiche, sollevatore di pesi le cui imprese erano state ricompensate con una piacevole sinecura presso lo stabilimento di Ganz, Gombás ci teneva molto a formare una squadra di pallacanestro nella fabbrica e a trascinarla fino in serie A. Così Pataki e Gyuri, quest'ultimo in qualità di servipalle personale di Pataki, erano stati invitati a entrare nella squadra e a passare un po' del loro tempo nella fabbrica. Gyuri andava d'accordo con Gombás e lo trovava simpatico, non solo perché gli aveva fornito il lavoro e il destro per sottrarsi all'esercito, ma anche perché era un tipo affabile, e Gyuri ammirava la sua munifica perversione. Ammirava soprattutto il fatto che, mentre altri si sarebbero tagliati le vene oppressi dalla vergogna del loro vizietto, Gombás era di una franchezza e impenitenza straordinarie riguardo al suo penchant per le ragazzine sulla soglia della pubertà. Il suo ufficio era ampio, appartato e con tanto di doccia. Là le ragazze che Gombás selezionava con cura meticolosa durante i suoi viaggi in provincia e portava a Budapest per un «corso intensivo» ricevevano le sue «lezioni private». Gyuri si aspettava da un istante all'altro di veder entrare a passo di marcia nell'ufficio di Gombás un genitore infuriato o la polizia, ma per il momento sembrava che la cosa non avesse turbato nessuno ed era sempre possibile, come aveva osservato Pataki, che 80
se la fellatio fosse mai diventata una specialità olimpica l'Ungheria avrebbe fatto il pieno di medaglie. Di tanto in tanto Sulyok si sentiva in dovere di dare lettura di qualche brano del giornale del Partito, il cui contenuto naturalmente era lo stesso di tutti gli altri giornali, ma con alcune affascinanti variazioni nella punteggiatura. Tenendo conto di quanto era noioso «Popolo libero» e di come lo si apriva esclusivamente in circostanze di tedio disperante, era difficile capacitarsi che qualcuno potesse pensare che la lettura stentata di Sulyok, che vi aggiungeva nuovi strati di monotonia, lo rendesse più memorabile. Quella mattina il brano prescelto era tratto da «Operaio del partito», un quindicinale che la noia teneva sotto custodia ancor più stretta di «Popolo libero». Sembrava che scegliessero appositamente i pezzi più spenti di «Popolo libero», ne eliminassero tutte le tracce di colore, anche microscopiche, e quindi li pubblicassero con il titolo «Operaio del partito». Sulyok stava finendo un articolo di Révai sull'esecuzione di Rajk e della sua banda. Rajk era stato accusato non solo di lavorare per i servizi segreti inglesi e americani (oltre a una brillante carriera come informatore della polizia quando il Partito comunista era fuori legge), ma anche di avere una seconda occupazione alle dipendenze del maresciallo Tito e dei suoi sporchi deviazionisti iugoslavi. «Mi scusi», disse Pataki infrangendo l'ossequioso silenzio, «è successo la settimana scorsa, vero?» «No», rispose Sulyok scandalizzato, «nel 1942.» «Ah, adesso capisco. Sono stati i fascisti a ucciderlo. Senta, le dispiacerebbe rileggere la parte in cui lo torturano fino alla morte? Merita un secondo ascolto.» Gyuri desiderò in cuor suo che Pataki non dovesse essere sempre così Pataki. Aveva l'aria di quello veramente desideroso di saperne di più sugli insuccessi del movimento dei lavoratori, ma Gyuri non riusciva a credere che la sua fortuna fosse inesauribile. Il primo giorno di lavoro Pataki si era portato via un lungo pezzo di filo di rame, asserendo: «Sono in credito con lo Stato». Chiunque altro avrebbe aspettato di prendere dimestichezza con l'ambiente per qualche giorno, prima di
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mettere le mani su qualcosa. Oltretutto Pataki non era in miseria nera: a casa trovava sempre qualcosa che lo aspettava per cena. «No, purtroppo, compagni, non abbiamo tempo», si scusò Sulyok. «Gli imperialisti non riposano; ricordate che dobbiamo consolidare la nostra disciplina del lavoro. » «Ti si consolidasse un cazzo di cavallo su per il culo!» commentò Tamás non proprio sottovoce avviandosi tranquillamente insieme a Gyuri verso i motori elettrici. Lo disse abbastanza forte da farsi sentire, ma abbastanza piano perché Sulyok potesse ignorarlo. Tamás poteva permetterselo: chi aveva voglia di morire? Perché Tamás era incredibilmente bravo ad ammazzare la gente, come comprovavano un paio di Croci di Ferro e un Ordine di Lenin. Durante la guerra si era fatto una reputazione in vari eserciti, a cominciare da quello ungherese. Farsi paracadutare da solo dietro le linee nemiche, mangiare un ratto ogni tanto dopo avergli staccato la testa con un morso, starsene a mollo in pozzanghere che avevano tutte le intenzioni di trasformarsi in ghiaccio (aveva perso il mignolo della mano sinistra per congelamento) o uccidere russi ad infinitum non era un problema per lui. Era un patito del coltello. «Sai», confidò una volta a Gyuri, «alla gente non piace farsi accoltellare.» Dopo una missione in cui aveva passato due mesi a nascondersi senza rifornimenti dietro le linee russe, lo avevano fatto prigioniero (niente munizioni) e gli avevano offerto immediatamente un lavoro. «Ammazzare russi o ammazzare tedeschi, per me è stesso.» A occhio e croce, secondo Gyuri, Tamás andava verso la quarantina, ma aveva ancora una muscolatura robusta e ben definita che avrebbe fatto squittire di gioia i pittori del realismo socialista. Il suo lavoro consisteva nell'isolare le parti dei motori elettrici che necessitavano di isolamento. Gyuri non capiva bene di che cosa si trattasse ma, dato che lui non faceva niente, non importava. Tamás sollevava i pesanti pezzi per mezzo di una catena e li immergeva in una vasca piena di sostanze chimiche che isolavano il rame. Pur avendo assistito all'operazione per mesi, Gyuri non aveva idea di che sostanze fossero o di come funzionasse il procedimento, perché faceva tutto Tamás e Gyuri lo stava a guardare con aria concentrata. Era considerato un lavoro pericoloso e, rispetto agli standard di Ganz, era
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ben pagato, il che significava che dopo aver mangiato ti restava qualche spicciolo in tasca. Il lavoro per cui veniva pagato Gyuri si riduceva a stare a sentire le avventure antiche e recenti di Tamás, che parlava ininterrottamente mentre sollevava e abbassava i motori elettrici. Tamás aveva moltissime avventure, soprattutto perché pareva che non dormisse molto. Era senza fissa dimora e considerava uno spreco di denaro affittare una stanza, per cui dormiva le tre o quattro ore di cui aveva bisogno raggomitolato per terra in qualche angolo della fabbrica molto rumoroso (anziché insopportabilmente rumoroso) e alla mattina saltava su fresco come una rosa e pieno di entusiasmo. La maggior parte delle sere, però, non gli occorreva dormire nello stabilimento per via di qualche intrigo amoroso o altra baldoria transnotturna. Tamás aveva una visione tutta sua di Budapest, basata sulle donne con cui era stato a letto e sulle kocsma in cui andava a bere; era questa la topografia che illustrava a Gyuri durante le ore di lavoro. Ecco un tipico monologo alla Tamás: «Così sono stato al "Cieco accecato dal bere": hanno una birra ceca tostissima. Be', non c'ero più andato da quando ho smesso di fottere la cameriera della moglie dell'ambasciatore francese, ed è proprio di fronte a dove scopavo la moglie del violinista zigano che suonava al "Portacenere strapieno"; sarebbe quello che ho dovuto accoltellare, non quello che mi voleva pagare perché mi tenessi sua moglie. Quella che vedevo dietro "Il vino si può fare anche con l'uva". Gran bel locale, sai, ci ho passato una serata meravigliosa con una bulgara. Io non parlavo bulgaro e lei non parlava ungherese, ma che bisogno c'è di parlare, non trovi? Abitava praticamente sopra il "Perché il pavimento mi preme contro il naso?". Ci sono rimasto accampato per giorni. «Allora, ero al "Cieco accecato dal bere" e mi stavano dando un po' di pálinka sottobanco - dicono che i tedeschi la volevano per i loro missili - e ho visto un tappetto in compagnia di una bella donna. Erano seduti vicino a un gruppo di scaricatori di porto. Insomma, questo tizio si rivolge agli scaricatori che stanno dicendo cazzo di qui e cazzo di là e in tono molto professorale gli fa: "Vi dispiacerebbe moderare il linguaggio davanti a mia moglie?". Tanto di cappello, ma prendersela perché la gente parla male in un posto come "Il cieco accecato dal bere" è un po' come entrare dal 83
verduraio e scandalizzarsi per la verdura. Mi accorgo che sta per prendere più calci di un pallone allo stadio del Ferencváros il sabato pomeriggio, così dico al barista di mettermi da parte una bottiglia di quella speciale "da truogolo" perché fra poco non ci sarà un solo bicchiere intero in tutto il locale e mollo un calcio come si deve a uno degli scaricatori, proprio mentre sta dando alle tette della moglie del tappetto una strizzatina di cortesia.» Questo era un episodio rappresentativo delle serate di Tamás: si era lasciato nella sua scia cinque scaricatori K.O. e altri due che si cercavano invano i lobi delle orecchie. «Avevano un bel cercare, perché li avevo inghiottiti io. Tutte proteine, l'ho imparato di là dal Don. Poi è arrivata la polizia. Credo che ce l'avessero con me perché il tizio che avevo aiutato di colpo si mette a sbraitare: "È lui, ho visto tutto, è lui l'avanzo di galera che ha cominciato". Ma i poliziotti sapevano benissimo che avrebbero fatto una gran figura di merda a spiegare in tribunale che avevo aggredito dieci scaricatori. Naturale che mi hanno portato dentro per interrogarmi, ma mi hanno chiesto una cosa sola: "Dov'è quella speciale da truogolo?".» Forse nell'interesse di Gyuri, Tamás era sempre di una meticolosa precisione riguardo alle coordinate delle donne con cui si accompagnava. Così Gyuri sapeva bene quanto il suo stesso indirizzo che la moglie separata di Tamás abitava a metà di Kossuth ut a Kóbánya, tra il «Beone alto» e il «Beone basso». Inoltre Tamás ci teneva molto a far presente che suo figlio, che aveva dieci anni, prendeva la miglior paga settimanale di Budapest. Tamás lavorava per tre e veniva remunerato di conseguenza. Quando faceva il calcolo della sua busta paga (evento che si ripeteva più o meno ogni ora) aggiungeva sempre qualche commento sulle condizioni superlative delle tasche di suo figlio. Era anche grazie agli sforzi erculei di Tamás che Gyuri non aveva bisogno di darsi molto da fare (Pataki però, che era addetto al reparto in cui veniva prodotto il filo di rame, non aveva assolutamente nulla da fare, tranne esclamare: «Ehi, guarda che lungo quel filo!».). Ma di tanto in tanto Tamás inventava qualcosa da fargli fare. «Vai a prendere una lama nuova per questo seghetto», gli ordinò. Gyuri ne fu contento perché così avrebbe occupato la mattina. Si avviò verso i 84
magazzini il più lentamente possibile per farsi rendere al massimo quell'incombenza. Arrivato a destinazione, ebbe la sorpresa di trovare un cartello con la scritta «non disturbare», che sembrava preso a prestito da un albergo di lusso di trenta anni prima. Il capo-magazziniere, che era segretario del Partito di quel reparto di Ganz, stava giocando a carte con tre compari. Gyuri non aveva ancora varcato la soglia quando, senza guardarlo e apparentemente senza muovere le labbra, il magazziniere disse con voce ferma ma priva di rancore: «Vaffanculo». Lo disse così en passant, così meccanicamente, che a Gyuri parve che non potesse essere collegato al suo arrivo e sussurrò: «Mi dispiace interrompervi, ma...». Il capo-magazziniere si girò inviperito. «Che Dio e tutti i suoi santi ti strafottano!» esclamò in quello che aveva tutto l'aspetto di un deplorevole lapsus per un ateo dichiarato e un materialista storico. «Come ti chiami?» «Fischer.» «Bene, sei licenziato. E mentre te ne vai, picchiati un cazzo di cavallo su per il culo», aggiunse in tono furioso congedandolo e voltandosi di nuovo verso i compagni di carte. «Ci credereste? Non si riesce a stare un attimo tranquilli in questo posto.» Tornando ai suoi motori elettrici, Gyuri meditò se Gombás, il suo nume tutelare, occupasse una posizione più elevata di Lakatos, il segretario del Partito del reparto. E se lo avessero licenziato, gliene sarebbe fregato qualcosa? Cercò di illudersi, ma si rese conto che gliene sarebbe fregato eccome: Ganz sarà anche stato un brutto posto, ma mai quanto l'esercito. Tamás rimase sorpreso vedendolo tornare a mani vuote. «Ha detto che aveva troppo da fare e che sono licenziato», riferì Gyuri. «Ha proprio un umorismo tutto suo, quel Lakatos», commentò Tamás avviandosi con il seghetto con la lama da cambiare. Continuando a meditare sul pasticcio in cui si trovava, Gyuri decise di avvertire subito Gombás della minaccia che incombeva sul suo posto di lavoro e salì nel suo ufficio. La segretaria di Gombás non c'era. Gombás neanche. Dopo aver educatamente e distintamente bussato più volte per essere sicuro di non interrompere per caso una «lezione», Gyuri trovò l'ufficio deserto. Gli 85
cadde l'occhio sul telefono nero. L'idea di sollevare la cornetta e fare una telefonata all'estero, in un posto qualsiasi, un posto qualsiasi in Occidente, gli si insinuò subdolamente in testa. Si trastullò al pensiero di farlo davvero, di fare una telefonata soltanto per sentirsi dire «Pronto» o «Buongiorno» all'altro capo del filo, solo per sentire il rumore dell'estero, il crepitio della libertà, la lingua ineffabile di oltreconfine. L'eccitazione davanti a quella prospettiva gli corse lungo la spina dorsale come il martelletto su uno xilofono. Si trastullò con quell'idea ancora per qualche minuto pur sapendo che, per una serie di motivi, primo fra tutti la mancanza di fegato, non ci avrebbe provato. Ma assaporò fino in fondo la sola opportunità di farlo. Immaginò di sollevare la cornetta e di chiedere con la voce da Gombás la comunicazione con New York, Parigi, Londra, Berlino o magari con Cleveland, Ohio. Furono cinque minuti fra i più piacevoli che gli fossero capitati da molto tempo a quella parte. Poi ricominciò a preoccuparsi di essere mandato a spasso. Dov'era Gombás? Era in giro a fare il talent scout? Sarebbe finito sotto le armi prima che Gombás ripassasse in ufficio? Tornando in officina si imbatté in Pataki che bighellonava in un corridoio palleggiando a terra e contro i muri, gli occhiali da sole sul naso. Probabilmente aveva esaurito il filo di rame da rimirare. Gyuri gli espose i suoi problemi, mentre Pataki faceva rimbalzare furiosamente il pallone intorno a un ritratto di Rákosi. «Ti ho sempre visto bene in uniforme», disse Pataki con l'assoluta mancanza di comprensione che solo i migliori amici riescono ad avere. «No, non ridere. Non credo tu abbia rivali a scavare trincee. Solo per la tua attitudine allo scavo di trincee meriteresti di diventare generale. Siccome ho sentito dire che il servizio militare è stato portato a tre anni, dovresti avere tutto il tempo.» Quindi entrò negli uffici per impressionare le ragazze impressionabili con la sua abilità nel dribbling. Pur essendo già abbastanza preoccupato per conto suo, Gyuri non riuscì a trattenere un moto di apprensione per Pataki, la cui negligenza non accennava a diminuire. Era sempre stato lui a farli finire nei guai, guai lampanti, inequivocabili, come quando al campo scout avevano bevuto il vino della messa fino all'ultima goccia, dietro suggerimento di Pataki. Inutile sperare di farla franca. Padre Jenik era giustamente andato su tutte 86
le furie ma, dal momento che mancavano solo tre giorni alla fine del campeggio, i giorni di autentica e meritata punizione erano stati solo tre. Questa volta il campeggio poteva durare molto di più... Tamás fece ritorno con due lame nuove in mano. «Te l'avevo detto che ti stava sfottendo. È un buon diavolo, il vecchio Lakatos. Non mi ha voluto lasciare andare via senza questa stecca di sigarette. Non volevo accettare, ma ha insistito tanto.» Ne diede due pacchetti a Gyuri. Arrivò l'ora di pranzo. C'era un bel sole robusto, così uscirono quasi tutti in cortile a mangiare quel che erano riusciti a procurarsi. Zsigmond e Pártos, i due preti, erano seduti vicini con il loro pane e formaggio e conversavano in latino per lustrare l'unica arma cattolica rimasta loro. Nessuno ci faceva più caso: gli operai si erano abituati a quegli strani compagni di lavoro piovuti dal cielo. Preti, ragionieri, diplomatici, cartografi, nobili, tutti imbranati dal primo all'ultimo. Era in corso una grande campagna di «trasmissione dei metodi di lavoro». Impossibile sfuggire ai manifesti, ai film, alle esortazioni scritte e a voce. Gyuri aveva visto un cinegiornale in cui un vecchio operaio stagionato, con il suo bravo berretto da vero proletario, fingendo di non vedere le nefandezze perpetrate da un giovane imberbe al tornio accanto al suo, leggeva l'editoriale di «Popolo libero» sull'indispensabilità di trasmettere i metodi di lavoro. Poi, sopraffatto dalla vergogna per la propria negligenza, si precipitava a iniziare il ragazzo alle delizie della tornitura avanzata. In soldoni il messaggio del Partito era: sarà meglio che vi insegniate le cose l'un l'altro, perché noi non abbiamo né il tempo né il denaro per farlo. Se nella fabbrica tutti quanti avrebbero preferito morire piuttosto che seguire le insistenti raccomandazioni del Partito, se non altro per non sprecare tempo prezioso ai fini del proprio salario, avevano però dato aiuto, consigli e incoraggiamenti ai nuovi venuti, che si erano ritrovati catapultati in mezzo allo stabilimento senza saper fare il loro lavoro e spesso senza sapere neppure in che cosa consistesse. Erano tacitamente riconosciuti come esiliati nazionali. Gyuri fu accolto molto cordialmente da Csokonai, seduto a scribacchiare affannosamente su un mucchio disordinato di fogli che teneva sulle ginocchia. Csokonai era un ex professore universitario, esperto di diritto internazionale, un uomo per bene, sebbene noioso se non lo si 87
prendeva a piccole dosi, e vedeva in Gyuri un alleato. Avendo notato che Csokonai aveva un sacco pieno di belle mele, Gyuri andò a sederglisi accanto, stupendosi da solo di che cosa non avrebbe fatto per mangiare qualcosa di buono. Csokonai era in uno stato di collera perenne, con solo leggere variazioni nel volume. Aveva spiegato più volte a Gyuri, tenendolo stretto per un polso (con una forza prodigiosa per un avvocato magro come un chiodo): «Al mio posto hanno messo un idiota. Un idiota. Un idiota. Uno che non sapeva niente, assolutamente niente, credimi». Csokonai lo ripeteva per non lasciare alcun dubbio sul fatto che usava la parola idiota non come figura retorica, ma come un vero e proprio termine tecnico. Gyuri approvava sempre fermamente, perché voleva che l'altro gli mollasse il polso e perché gli sembrava plausibile che un funzionario che aveva sfogliato l'edizione economica degli scritti di Lenin sul diritto internazionale avesse preso il posto di Csokonai. A sessant'anni suonati, per lui era troppo; non ce la faceva nemmeno a star dietro alle punzonatrici. Passava la maggior parte della pausa per il pranzo a stendere elenchi di violazioni di diritti e leggi nazionali e internazionali. «Questa volta li frego», ringhiava. «La pagheranno, la pagheranno. Questa follia non durerà per sempre e la pagheranno.» Quello che faceva Csokonai era estremamente pericoloso e Gyuri non aveva alcuna intenzione di frequentarlo più di quanto fosse necessario per ottenere una o due mele. La settimana precedente un operaio che aveva mandato giù o troppa pálinka o troppi stenti, di colpo era sbottato: «Dicono che sotto Horthy l'Ungheria era una terra con due milioni di mendicanti. Almeno allora erano solo i mendicanti a mendicare, e non tutto lo stramaledetto paese. Così non ce la faccio a mantenere la famiglia». Fuori dai cancelli aveva trovato ad aspettarlo un'automobile nera. «Abbiamo qualche domanda da farle. Solo cinque minuti.» Nessuno lo aveva più visto, come nessuno aveva più visto quelli che i russi avevano invitato a fare un «malenky robot», un lavoretto, cinque anni prima. Essendo un fanatico della cortesia dei bei tempi andati, Csokonai gli porse tre mele, che Gyuri ebbe la forza di rifiutare solo una volta. Meditando sulla fragilità degna di un guscio d'uovo messa in luce dalla dignità di fronte ai morsi della fame, Gyuri tornò al suo posto, dove trovò Sulyok che parlava con Tamás: «Senti, Tamás, abbiamo bisogno di un favore, siamo in difficoltà con dei compagni». Sulyok ci mise un po' a 88
sputare il rospo, ma il problema era in questi termini: c'era solo un posto in cui si producevano le macchine utensili che occorrevano a Ganz e per qualche motivo - inimicizia, corruzione ad alto livello, incompetenza, parentela - queste macchine utensili venivano spedite in altre fabbriche e non a Ganz dove, nonostante i registri venissero falsificati a ritmi stacanovisti, il Piano Triennale rischiava di non essere rispettato. «Tamás, potresti andare a spiegargli in maniera costruttiva, fraterna e socialista la necessità estrema e assoluta di rifornimenti urgenti per contribuire all'intensificazione dell'opera di adempimento del Piano Triennale?» «Volete che dirotti una spedizione, giusto?» chiese Tamás. Preso alla sprovvista da quel linguaggio poco da compagno, Sulyok trasalì, ma smise di cianciare. «Sì», disse, porgendogli le chiavi di un camion. «Se hai bisogno prendi Gyuri e qualcun altro.» Tutto sta nell'avere la preparazione giusta per il lavoro giusto, pensò Gyuri. Puoi leggere Lenin per il diritto internazionale, ma per le imboscate e le rapine su strada puoi leggere tutto il Lenin che vuoi: se non sai come si fa, non serve a niente. Tamás scelse Pálinkas, un altro pugile rinomato, e un apprendista picchiatore di nome Bód. Mentre uscivano dai cancelli, Gyuri vide Pataki: due agenti lo avevano fermato e gli stavano srotolando da sotto la camicia un lunghissimo pezzo di filo di rame. Sorridendo, Gyuri lo salutò con la mano, pregustando il racconto delle acrobazie verbali cui avrebbe fatto ricorso Pataki quella volta. Uno dopo l'altro Tamás fece scendere tutti nel posto in cui volevano andare, poi premette il piede sull'acceleratore e si diresse a Zugló, dove si trovava la fabbrica di macchine utensili. «Non preoccuparti, posso sbrigarmela da solo», disse a Gyuri con un sorriso pieno di aspettativa stampato sulla faccia, infilandosi il coltello fra i denti. A casa Gyuri trovò Elek ancora parcheggiato nella sua poltrona, ma in compagnia di Szócs, il suo ex portiere, che veniva a ossequiarlo una volta al mese. Szócs era l'unico dei vecchi dipendenti di Elek che si prendesse la Briga di venirlo a cercare, ed era benvenuto per questo e ancora di più perché portava sempre un pacco di cibarie provenienti dai suoi cugini che vivevano in campagna. Sua madre si era sempre lamentata del fatto che Elek elargiva troppe vacanze e gratifiche al personale ma, per quanto 89
ricordasse Gyuri, Szócs, che stava di guardia fuori dell'ufficio di Elek, non ne aveva mai beneficiato. Szócs era perennemente di buon umore, ma il suo giubilo saliva di un paio di gradi non appena vedeva un giovane Fischer. «Come stai, Gyuri? Non ti sei ancora sistemato? Non pensi a sposarti?» Gyuri si rendeva conto di avere l'età in cui tutti sono enormemente curiosi di sapere che cosa uno faccia del suo apparato riproduttivo, quindi era preparato a domande di questo genere da chi era più grande di lui; aveva tanta voglia di sposarsi quanto di farsi castrare, ma rispondeva di buon grado negando allegramente di avere storie importanti. Uno che aveva attraversato mezza Budapest per portare del cibo aveva diritto di chiedere quello che voleva. Gyuri scorse un pacchetto aperto di ciccioli d'oca e cominciò a predisporre lo stomaco ad accoglierli. Guardando in direzione del dito che teneva puntato su Gyuri come se fosse la canna di un fucile, Szócs sentenziò: «Te ne accorgerai, quando troverai quella giusta te ne accorgerai». Gyuri annuì in segno di approvazione come si fa con chiunque possegga dei ciccioli d'oca. «Con mia moglie me ne sono accorto la prima volta che l'ho vista», aggiunse ridendo sotto i baffi. Gyuri rimase sorpreso, perché aveva visto la signora Szócs una volta sola e la sua prima e ultima impressione era stata di incondizionata bruttezza; aveva sempre pensato che Szócs l'avesse sposata per pietà, oppure che la loro unione fosse un'ulteriore sintomo della sfortuna cronica di Szócs e non un'affinità elettiva. La vita di Szócs era costituita da una serie ininterrotta di calamità: rimasto orfano, aveva fatto naufragio lavorando come mozzo, aveva perso un occhio per un'infezione, le dita dei piedi per assideramento in un campo di prigionia russo ed entrambi i figli nella grande epidemia di dissenteria del 1919. Non restava che prenderla in ridere, nel suo passato c'erano certamente anche altri disastri ma, cosa inconsueta per un ungherese con la possibilità di attingere a materiale tanto promettente, Szócs era molto parco nel rivelare i particolari della sua vita. «Il segretario del Partito fa a Kovács », si mise a raccontare Szócs cambiando argomento. «"Compagno Kovács, perché non sei venuto all'ultima riunione del Partito?". "L'ultima riunione del Partito?" ribatte Kovács. "Se avessi saputo che era l'ultima, avrei portato tutta la famiglia."» 90
In un'epoca in cui povertà e miseria erano universalmente distribuite, Szócs era stranamente diventato una figura di successo; era un magnate dell'allegria. Nella terra dei ciechi, pensò Gyuri, chi sa usare il bastone bianco è re. L'unica cosa irritante di Szócs era che il suo fischiettare spensierato nel buio del totalitarismo inficiava l'altrui diritto all'autocommiserazione. Dopo le visite di Szócs per un po' Gyuri non riusciva ad assaporare appieno il proprio risentimento. La sua presenza gli faceva perdere quel vivo senso di ingiustizia e sofferenza che tanto si impegnava ad alimentare. Se Elek, per esempio, se ne stava comodamente seduto sul sedile posteriore della grossa automobile nera delle avversità, Szócs pareva prosperare di stenti come fossero pranzetti coi fiocchi. Con un po' di vergogna Gyuri si rallegrò che Szócs andasse via e di poter smettere di fare finta di non volersi buttare a pesce sui ciccioli d'oca. Elek si era spinto a comprare del pane fresco quel giorno e questo, insieme ai ciccioli, diffuse un profondo senso di benessere, un persistente alone di pienezza che avrebbe continuato ad aleggiare come minimo tutta la sera o fino all'allenamento successivo. I due pacchetti di sigarette (francesi) facevano parte di un grande piano che Gyuri aveva ordito per concludere qualche redditizio baratto, ma senza sigaretta Elek aveva un'aria talmente deforme e innaturale che Gyuri glieli diede e rimase a leggergli in faccia il misto di gioia e di riflessione su come meglio distribuirle nel tempo. C'era poco da sforzarsi di essere duri, forti, pericolosi e indipendenti (Gyuri valutava fra sé gli effetti di quel mucchio di ciccioli): l'autodisciplina è un oggetto delicatissimo, una pianta che appassisce se non viene mantenuta entro una fascia di temperatura molto ristretta. A sua discolpa poteva dire soltanto che i ciccioli erano eccezionalmente grassi, erano stati indiscutibilmente impacchettati prima dell'alba e portati in tutta fretta nella capitale quella mattina, con una freschezza e un aroma che andavano colti dalle papille gustative entro dodici ore, pena la scomparsa nel limbo dei sapori leggendari. L'orgia di sigarette e ciccioli generò un'atmosfera di espansività e dialogo fra padre e figlio. Negli ultimi tempi era stato Pataki il destinatario 91
principale delle allocuzioni di Elek: conversazioni con le spalle curve e la sigaretta in bocca, che vertevano principalmente su argomenti osceni di Elek. Ogni volta Gyuri andava ostentatamente a correre o si metteva a sfaccendare rumorosamente mentre loro due chiacchieravano, ma ciò non sembrava scoraggiarli affatto. Decise di farsi dire qualcosa sull'estero. «Com'era Vienna?» Prima della Grande Guerra che aveva vaporizzato l'Impero dello Strudel, Elek era stato un paio d'anni di stanza vicino a Vienna in qualità di ufficiale austro-ungarico e gentiluomo. «Non ricordo un gran che ormai», rispose Elek. «È passato molto tempo. Ho ricordi di sesso e basta. La cosa strana di Vienna era questa: grande abbondanza di cultura, biblioteche, concerti di piano, sapere e Mozart, cioccolata e pasticceria fine, e alle donne interessava una cosa sola. Se non avessi avuto vent'anni ci avrei lasciato la pelle. «Ce n'era una, sposata con un illustre geologo, che peraltro era ancora abbastanza gagliardo da adempiere ai doveri coniugali. Un giorno controllai i tempi. Dalle dieci di mattina alle tre del pomeriggio: cinque ore. Pensavo che dicesse basta o chiedesse una pausa, invece niente. Abbandonammo la missione solo perché il marito stava per rientrare con del granito molto interessante. Uscii dal portone e dovetti chiamare un taxi perché il mio corpo era sceso in sciopero. Poi venni a sapere che anche qualcun altro del reggimento faceva visita alla signora. Il marito lo sfidò a duello e io dovetti fargli da secondo. Certo che quella di tanto in tanto avrebbe anche potuto leggersi un libro o andare a un museo!» «Non credo che riuscirò ad andare a Vienna per un po'», osservò Gyuri. «Oh, sono sicuro che ci andrai. Non può durare ancora molto. Sai che tu e István siete l'ultima speranza che mi resta.» «Come sarebbe a dire?» «L'unico genere di successo cui posso aspirare ormai è andare a sedermi al caffè a raccontare ai vecchi amici i successi dei miei figli. Conto su di voi per un po' di gloria riflessa e un reddito modesto. Non vorrai che il tuo vecchio genitore si ritrovi al caffè senza nulla di cui vantarsi, no?»
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«Così hai deciso di stare seduto a tempo pieno?» «Faccio il possibile. Ma ricordati che non hai scuse: la tua è l'età ideale per i disastri. Condizioni fisiche ottimali, elasticità, resistenza, una buona dose di ottimismo: diciannove anni è l'età perfetta per le catastrofi. Sei in grado di lottare. E le cose cambiano. Non c'è nulla di eterno. L'Ungheria ha attraversato strani momenti nella sua storia: i mongoli, l'andirivieni dei turchi, il nostro amico Horthy, reggente senza re, ammiraglio senza oceano. Ma Rákosi! L'unica cosa che posso dire con una certa sicurezza che non attaccherebbe in questo paese è un re ebreo. Sono pronto a scommettere che non resterai a lungo a Ganz e che riderai di tutto questo.» «Quanto sei pronto a scommettere?» chiese Gyuri intravedendo facili guadagni. «Possiamo accordarci su una cifra.» A questo punto Elek fu colto da un convoglio di colpi di tosse di una ferocia da strappare i polmoni. «Il problema», continuò flebilmente, «è che di questo passo al momento di incassare non ci sarò più. Ma ciò non toglie che tu non abbia scuse per non raggiungere una straordinaria prosperità. Pensa alle attenzioni che ti ha dedicato tua madre.» Gyuri decise di occuparsi di qualche faccenda domestica. Nulla di particolarmente impegnativo, ma puntò sulla rigovernatura ed espose qualche piatto all'acqua corrente. Considerando quanto poco avevano da mangiare, la quantità di stoviglie sporche era allarmante. «Per mesi le ho detto di andare dal dottore, per mesi. Sai che cosa rispondeva: 'Non posso, non ho la sottoveste.' Probabilmente non avrebbe fatto una gran differenza», disse Elek senza che lui gli avesse chiesto nulla. Di colpo Gyuri rimpianse di aver cominciato quella conversazione.
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Agosto 1950 Stabilirono i loro quartieri estivi fuori Tatabánya. I contadini nei campi, avendone già viste di tutti i colori, o forse in virtù di un innato realismo, non manifestarono grande sorpresa nel vedere una mezza dozzina di figuri nudi e abbronzati a passeggio fra i loro girasoli. «Giocatori di pallacanestro», borbottavano. In testa c'era Pataki con gli occhiali da sole, le scarpe da basket e una cartina ben piegata sottobraccio. Nonostante le abbondanti fatiche del ritiro cui il Locomotive era stato invitato dalla Nazionale per una serie di partitelle di allenamento, avevano energia da vendere e, su istigazione di Pataki, uscirono a fare una ricognizione pomeridiana al fine di verificare se la campagna circostante fosse noiosa come sembrava. Per il momento effettivamente lo era. I campi più vicini erano pianeggianti e scontati, ma Pataki li condusse verso una macchia di verde in lontananza, un bosco ceduo in un punto un po' ondulato, con una grande chiazza pelata alla sommità. La vista che si godeva da quel poggio confermava le ipotesi più sconfortanti: totale assenza di qualsiasi vago barlume di attrazione o motivo di interesse in tutta la regione. «Ecco a voi, signori, la campagna. Luogo ideale per chi ama le capriole nell'erba e dimora di delizie bucoliche celebrate nel corso dei millenni da illustri poeti che, a mio parere, o erano stati corrotti da ricchi contadini desiderosi di migliorare la propria reputazione o erano semplicemente affetti da arteriosclerosi galoppante», concluse Pataki. Sulla cima del colle c'era una pietra rettangolare alta più di un metro. Pataki, dopo aver consultato la cartina, la presentò come oggetto di significativo valore trigonometrico. Se non fosse stata segnata sulla carta, probabilmente l'avrebbero ignorata, ma non capita spesso di avere l'opportunità di distruggere una pietra miliare. Era straordinariamente pesante e recalcitrante ma, facendo leva su un buon numero di rami robusti, alla fine riuscirono a rovesciarla e la osservarono compiaciuti rotolare con vigore lungo il pendio per un buon tratto. Soddisfatti del pomeriggio di sabotaggio ai danni dello Stato, ritornarono al campo. 94
«La nuova Ungheria ha forse superato il vecchio sistema sociale che vedeva la popolazione divisa in tre classi: proletariato, borghesia e aristocrazia?» chiese Róka, fornendo prontamente la risposta (a quella che nessuno aveva preso per una domanda seria). «Non proprio. In Ungheria esistono tuttora tre classi: quelli che sono stati in prigione, quelli che sono in prigione e quelli che stanno per finirci.» Sulla via del ritorno Pataki fece il saluto militare con la cartina in mano a una giovane campagnola con una faccia che sarebbe stata orripilante anche per un giovane campagnolo. Un saluto beffardo, pensò Gyuri, ma un'altra settimana di ritiro e anche le ragazze più goffe, coperte di tele di sacco, avrebbero assunto l'aspetto di reginette da concorso di bellezza. Di solito dopo una giornata di allenamento Gyuri, esausto, sprofondava nel sonno non appena toccava il materasso, che pure era di una scomodità notevole. L'allenamento era faticoso come sempre e, come sempre, Gyuri doveva impegnarsi il doppio degli altri. A certi il fisico atletico viene servito su un piatto d'argento, altri devono sudare per essere all'altezza. Arrivare a sessanta flessioni per lui era stata una sofferenza inaudita, mentre Pataki poteva farle in qualsiasi momento chiacchierando su un argomento a caso. Era nato con la dinamite nei muscoli, lingua compresa. Al mattino, quando tornava dalla prima parte di allenamento, che consisteva in una corsa intorno al lago, ansimando per quel modo brutale di iniziare la giornata, Gyuri trovava Pataki che si stiracchiava pigramente e spesso si fumava una sigaretta in contemplazione sulla veranda del loro alloggio. Lui poteva permetterselo, perché in campo rendeva comunque. «So che a questo mondo non c'è giustizia, non discuto», rantolava Gyuri, «ma le ingiustizie devono per forza assumere dimensioni così titaniche?» Pataki avrebbe dovuto essere nella Nazionale e non giocarci contro per allenamento. Era stato convocato nella formazione di riserva alcuni anni prima, quando andava ancora a scuola, ma pochi mesi dopo lo avevano buttato fuori. Non per pigrizia negli allenamenti o altre mancanze sportive, ma pervia della luce degli occhi di Hármati. «È la luce dei miei occhi», diceva sempre Hármati di sua figlia Piroska, con l'orgoglio esagerato di un padre. L'insofferenza di Hármati, allenatore della Nazionale, per Pataki risaliva al giorno in cui lo aveva sorpreso nell'atto di deflorare Piroska su una poltroncina Luigi XV di valore quasi traumatizzante, recuperata 95
personalmente da Hármati fra le macerie di una casa vicina, al cui bombardamento non era sopravvissuto nessuno. «È stato per la macchia sulla poltrona», sosteneva Pataki. Tuttavia, il fascino e l'innegabile talento di Pataki gli avrebbero consentito senz'altro di essere riammesso dopo un periodo di allontanamento nominale, se Hármati non lo avesse sorpreso di nuovo, questa volta intento a farsi un bel bagno di schiuma con preziosissimi sali portati direttamente dall'Italia, insieme all'altra figlia, Noemi. Per fortuna di Pataki in quella casa ogni stanza aveva due porte e la sua velocità gli permise di rimanere davanti ad Hármati per sei giri completi dell'appartamento, prima di raccogliere i suoi vestiti e uscire. «È abbastanza grave farsi trovare con le brache calate, ma doversi anche asciugare è veramente troppo», aveva osservato Pataki in seguito, aggiungendo: «Penso che siano stati i sali da bagno a farlo imbestialire sul serio». Pataki aveva scoperto di essere un corridore veloce così, di punto in bianco, e in caso di necessità trovava sempre lo sprint. Gyuri invece, se non correva tutti i giorni, rallentava e si gonfiava come un pallone; se non prendeva tutti i giorni la palla in mano perdeva colpi. Pataki poteva scendere in campo dopo un mese di ristoranti parigini e scattare subito a schiacciare la palla nel canestro. Per smuoverlo ci voleva una buona ragione e allenarsi non poteva definirsi tale. «Non ci pagano perché ci alleniamo, ma perché vinciamo», replicava annoiato alle suppliche di Hepp affinché affinasse la sua tecnica. Hepp non aveva scelta: doveva prendere Pataki così com'era. Spesso evitava di guardarlo troppo durante gli allenamenti per non soffrire inutilmente, data la sua mancanza di collaborazione. In un'indimenticabile occasione, però, Hepp era riuscito a convincerlo a correre i 1500 metri. Probabilmente Pataki pensava ad altro quando Hepp aveva spiegato che la squadra di atletica del Locomotive non aveva nessuno che corresse i 1500 metri in un meeting imminente e aveva implorato Pataki di gareggiare, per evitargli l'ignominia di non presentare nessuno. Gyuri era presente il giorno in cui per la prima volta Pataki conobbe lo sforzo. Ricordava la sua espressione di dolorosa sorpresa quando, dopo un giro e mezzo, aveva incominciato a rendersi conto che, a differenza dello scatto da un estremo all'altro del campo di basket, i 1500 metri implicavano quanto di più scoraggiante esista al mondo: la fatica. Era 96
arrivato quinto su sei e al traguardo la sua faccia, che ben difficilmente perdeva la compostezza, era un pantano di confuso dolore. Dopo aver agonizzato per alcuni minuti abbracciato all'amata terra cercando di riprendere fiato, Pataki aveva dichiarato: «Credevo di morire. Bisogna essere fuori di testa per guadagnarsi da vivere correndo. La mia carriera di mezzofondista è finita». Gyuri era stato assai contento di vederlo in difficoltà di fronte a quell'esperienza nuova, costretto a rispolverare la propria forza di volontà. I soldi, però, restavano per lui una spinta irresistibile. I velocisti in ritiro al complesso sportivo avevano già perso una parte rilevante dei loro beni terreni, a furia di scommesse con Pataki. Erano robusti ragazzoni che si allenavano per i 100 metri con ammirevole fervore, che tendevano, flettevano e contraevano i muscoli per ore, correvano in continuazione e dappertutto, facevano pesi, stavano a dieta, andavano a letto presto e si astenevano da tutto ciò che potesse impedire loro di abbassare i tempi sui 100 metri e non riuscivano a capacitarsi che Pataki potesse batterli sullo scatto. Invece Pataki ci riusciva, sfidandoli sui cinquanta metri. Gli sprinter che non lo conoscevano tiravano fuori con gioia i soldi della scommessa (e quelli che lo conoscevano con malcelata ritrosia), ma poi di lui non vedevano altro che le spalle. Sui trenta metri era talmente esplosivo, veloce, felino, che nessuno riusciva a stargli al passo. Sui cinquanta i professionisti gli si avvicinavano, ma rimanevano comunque indietro di uno sterno. Quando, per divertimento e non per il denaro, Pataki accettava la sfida sui 100 metri, invariabilmente i velocisti lo raggiungevano prima dei sessanta metri, a ottanta lo avevano staccato e al traguardo era indietro di un pezzo. Rónai, bronzo olimpico nei 100 metri piani, faceva più fatica degli altri a rassegnarsi allo sprint di Pataki, che lo aveva battuto anno dopo anno durante gli allenamenti, agli incontri ufficiali, sull'isola Margherita e una volta persino dentro il bar dell'Opera. Fanatico anche secondo i parametri stacanovisti dei velocisti, Rónai aveva l'ossessività di un maratoneta. Durante i ritiri se ne stava spesso in disparte, forse ritenendo la conversazione, nella migliore delle ipotesi, un intralcio al suo programma di allenamento e nella peggiore un aperto tentativo di sabotaggio; come 97
massimo concedeva, a chi non era direttamente interessato alla perfezione della sua falcata, un torvo «buongiorno». Alla fermata dell'autobus e in coda davanti al cinema (non che ci andasse spesso) fletteva e tendeva i muscoli o, in mancanza di meglio, ideava nuove tecniche per raggiungere la massima forma. Rónai si alzava prima di tutti gli altri, con qualsiasi tempo, e trotterellava, felice di fare di più per fare meglio degli altri che erano ancora a letto, a Budapest o altrove, dando il massimo e pensando già all'esercizio successivo. Il mondo per lui era un conglomerato di possibilità di allenamento volte a consentirgli di caricare ulteriori munizioni nelle gambe in tempo per i Giochi Olimpici di Helsinki del '52. Alcune sue compagne di materasso, irritate da quella monomania, avevano lasciato intendere che la dispensatrice di piacere che bussava alla porta di Rónai gli interessava meno dell'addestramento dei propri muscoli mediante serie di posizioni goffe e complicate, mantenute fino al raggiungimento del numero stabilito di contrazioni, dopo di che passava a una costellazione muscolare diversa. «È così commovente sentirsi sussurrare all'orecchio "gluteus maximus"», aveva riferito una giocatrice di pallavolo. Rónai aveva perso malamente con Pataki: soldi, cibarie di vario genere e un set di scacchi magnetici da viaggio che si era procurato a Londra alle Olimpiadi del '48. Per lui era un'ossessione: la sola vista di Pataki che poltriva gli faceva venire il nervoso. Ci era andato vicino, molto vicino, e diverse volte era arrivato a un pelo da Pataki. In un'occasione i giudici avevano addirittura decretato l'assoluta parità. Ma a Rónai non bastava. Che un semplice giocatore di pallacanestro, uno che non era nemmeno in Nazionale, sempre in panciolle a chiacchierare, giocare a carte, bere birra ceca e farsi cercare dall'allenatore, che un atleta tanto spregevole riuscisse a battere uno sprinter che non toccava birra ceca dal 1946, gli sembrava assolutamente inaccettabile. «La birra», aveva dichiarato pubblicamente, «è per i deboli. Ci sono sette persone attorno a un fuoco e ci mettono la mano sopra. Uno per uno la ritirano. Quello che resiste di più è il campione del mondo.» Uno che la sera, prima di addormentarsi, non mancava mai di fare qualche esercizio per le orecchie, non poteva mollare tanto facilmente. «Presto, le sigarette», diceva Pataki appena scorgeva Rónai in lontananza e se ne accendeva due per sembrare il ritratto dello sportivo 98
dissoluto. Dopo due settimane di ritiro Rónai aveva perso tutti i soldi che aveva, più una serie di oggetti di valore fra cui un notevole tagliaunghie tedesco e un'assai meno entusiasmante boccetta di acqua di rose bulgara. Il compito dei giudici di gara era però diventato più difficile dal momento che, dopo le prime sconfitte, Rónai aveva insistito per correre al buio, quando c'era meno gente in giro. Era sempre questione di un soffio, con Rónai incollato alle calcagna di Pataki come fosse la sua ombra, ma quelle sconfitte per un capezzolo erano uno spaventoso baratro per Rónai, un abisso sempre più invalicabile. Una sera Gyuri e Pataki entrarono nella mensa del campo e videro Rónai sepolto sotto un cumulo di bottiglie di birra ceca che gridava, come rivolgendosi all'umanità intera: «Non è giusto. Non ne vale la pena, non c'è niente da fare». A Rónai non era mai venuto in mente che ci fossero persone a cui proprio non interessava mettere la mano sul fuoco. Quel pensiero confortò Gyuri, e forse anche Rónai, ma non gli impedì di continuare a perdere con Pataki. La predestinazione non godeva dell'approvazione di Hepp. Il suo intento era mortificare e umiliare la Nazionale di Hármati e aveva una valigiata di strategie per metterlo in atto. «Forse siete troppo giovani per capirlo», disse alla squadra, «ma nella vita la vera tragedia, la cosa più sconvolgente che dovrete affrontare nel corso della vostra esistenza è che nulla può sostituire il duro lavoro e...» concluse estraendo fasci e fasci di documenti, «e il ricorso a una corretta pianificazione.» Di fronte a quella minaccia di turni di allenamento staliniani, la squadra fu presa dal panico: quel mese contavano di prendere il sole e approfittare ampiamente della cucina abbondante riservata agli atleti e alle atlete che rappresentavano la nazione ungherese. Pataki prese Hepp da una parte: «Senta, abbiamo ricevuto il messaggio: vuole che battiamo la Nazionale?». «Sì», ammise Hepp. «Va bene, allora facciamo un patto», propose Pataki. «Premesso che ci alleneremo come si deve, a nome di tutta la squadra e mio personale, lasciando perdere gli allenamenti extra e gli appelli al senso del dovere, l'ultima partita, quando tutti i pezzi grossi vengono a vedere, le garantiamo, le garantisco che vinceremo noi. Mi creda, però, a esagerare la squadra si logora. Si ricordi quanto disse il giocatore di pallanuoto al
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bordello, dopo aver pagato per otto ragazze ed essersene fatte solo cinque: "È ridicolo. Stamattina c'ero riuscito con tutte e otto".» Con grande sorpresa di tutti, Hepp accettò il patto. Pataki sapeva essere persuasivo, naturalmente. A parte la facilità con cui mentiva, sapeva su quale tasto battere a seconda della persona: era un accordatore di caratteri nato. Bastava pensare al modo in cui si era tratto d'impaccio quella volta del filo di rame a Ganz, quando aveva dichiarato di averlo preso in prestito per conto di un tenente colonnello dell'AVO, il quale gli aveva chiesto di procurargliene un tot con la massima discrezione per certi progetti segreti. «Stanno facendo degli esperimenti elettrici.» C'è da presumere che quelli del servizio di sicurezza avessero subodorato che si trattava di un'ignobile stronzata, ma chi era disposto a correre il rischio, per quanto minimo, di contrariare un tenente colonnello per un po' di miserabile filo metallico? Pataki se l'era cavata con una severa ingiunzione di seguire i canali prestabiliti, in futuro. Gyuri sospettava che Hepp avesse altre ragioni per accettare, a parte le lusinghe di Pataki, ma comunque Pataki era riuscito a dargli una calmata e ad assicurare al resto della squadra un livello ridotto di attività (a eccezione di Gyuri, che non poteva permettersi di perdere nemmeno un'ora). Gyuri fu estromesso dall'anticamera del sonno da una sequenza di tonfi rumorosi che i suoi sensi lentamente localizzarono come provenienti dal letto sopra il suo. Allungò il collo e si rese conto che, o Pataki era diventato tutto a un tratto un ventriloquo eccezionale con il sedere grosso e bianco, oppure si era portato in camera compagnia femminile. Era uno scandalo: in una dittatura comunista, sull'orlo della Terza Guerra Mondiale, nel cuore della notte, Pataki aveva il coraggio di divertirsi e di turbargli il sonno. «Dio cazzo!», fu tutto quello che gli venne in mente nella rabbia del dormiveglia, non avendo ancora ripreso pieno possesso delle sue facoltà immaginative. «Non è il caso di fare complimenti», ribatté Pataki senza perdere un colpo. «Non fare minimamente caso a noi. Fai finta che non ci siamo. Continua pure a dormire.»
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Temendo che il letto a castello non fosse abbastanza resistente da sopportare vibrazioni amorose di quel genere, Gyuri buttò il proprio materasso sul pavimento a distanza di sicurezza da eventuali crolli. «Appenditici una torcia, così vedi quello che fai», consigliò. Allo spuntar dell'alba Gyuri si destò, più assonnato di quando era andato a dormire. Si rese conto subito che sarebbe stata una mattina con cui non voleva avere niente a che fare, un giorno che si annunciava, anzi, si rivelava spudoratamente, come uno di quelli in cui non si combina niente. Gyuri si ritrovò a pensare, senza alcun contorno di vergogna, ai motivi per cui non era entrato nel Partito comunista. Era lì che la sua vita aveva preso la piega sbagliata, decise. Decidere a che punto la sua vita aveva preso una piega sbagliata era un'attività che assorbiva gran parte del suo tempo libero, e ormai era convinto di aver identificato il presidente della commissione d'errore. Se solo avesse potuto mandare al se stesso di qualche anno prima il messaggio di iscriversi, se solo fosse entrato per caso in una sede del Partito e avesse inavvertitamente apposto una firma sulla domanda di iscrizione... A quel punto, naturalmente, a parte l'amaro che gli avrebbe lasciato nell'animo, la sua adesione al movimento comunista sarebbe stata gradita quanto un falò in una polveriera. Aveva le stesse possibilità di iscriversi di una balena azzurra, supponendo che riuscisse ad arrivare fino a Budapest. Nel '45 o nel '46, invece, le cose erano diverse. Allora avrebbero dato la tessera anche a Hitler: più si era, meglio era. Sarebbe potuto entrare, avrebbe potuto denunciare il proprio passato familiare, vituperare Elek dandogli del borghese decadente (cosa che di certo lo avrebbe divertito) e, con qualche declamazione di Lenin, un fine settimana ogni tanto a dare pacche sulle spalle ai minatori in qualche pozzo, si sarebbe procurato un impiego da funksh, poco faticoso e molto redditizio, e, visto il crescente tasso di arresti e impiccagioni, non sarebbe riuscito a evitare di fare carriera. Il cinese li aveva lasciati tutti di sasso.
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Gyuri cercò di fare la sua conoscenza, curioso di sapere qualcosa sulla Cina rossa. Fu poco dopo l'infruttuosa visita all'ambasciata cinese, che a sua volta aveva avuto luogo poche settimane dopo l'infruttuosa visita al Ministero degli Interni, dove lui e Pataki avevano cercato di entrare nella polizia. Quella di entrare nella polizia era stata un'idea di Pataki, ma Gyuri l'aveva accolta con entusiasmo, pensando a tutti quelli che avrebbe potuto trattare male una volta in divisa. La polizia aveva una squadra di basket in II divisione e Pataki era convinto di potercisi scavare una comoda nicchia. Le barzellette sui poliziotti erano un deterrente ma, dopo attenta riflessione sull'elenco di persone da maltrattare, Gyuri aveva deciso che valeva la pena di tentare. Inoltre erano spinti dalla necessità, da non sottovalutare, di sottrarsi al servizio militare, siccome correva voce che la forza lavoro di Ganz non avrebbe più avuto diritto all'esenzione strategica. Nessuno specificò le ragioni per cui non furono accettati: l'unica cosa che riuscirono a immaginare fu che la polizia avesse trovato un'altra fonte di giocatori di serie A o che le menomazioni e le disabilità delle loro credenziali morali li avessero fregati. Mentre Gyuri e Pataki negoziavano il trasferimento nel Locomotive e si procuravano con l'inganno due posti ai corsi serali dell'Istituto di ragioneria, Gyuri, passando in rassegna le opzioni in caso di emergenza grave, era riuscito a trovare un'alternativa all'automutilazione per non entrare nell'esercito: diventare cinese. Aveva pensato a Ladányi. Non aveva più avuto occasione di vederlo dopo l'abbuffata di Hálás, ma aveva sentito dire che era stato mandato in Cina, come previsto, prima che i comunisti laggiù salissero al potere. Dopo di che si era saputo soltanto che Ladányi era a Shanghai. Non poteva esserci da tanto. I cinesi erano stati colpiti da una forma grave di socialismo, ma almeno là non c'erano troppi russi. Non c'era abbastanza riso per tutti. Passando in rassegna la situazione cinese e speculando sulla possibile ubicazione di Ladányi in quel momento (che stesse dicendo messa in carcere? gestendo un ristorante? correggendo ideogrammi a qualche mandarino?) Gyuri concepì l'idea di andare in Cina. La Cina rossa era la prima fermata della fantasia giornalistica e, tutte le volte che aprivi un giornale o accendevi la radio, ne sentivi solo parlar bene.
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«Andiamo a dare un'occhiata ai cinesi», propose Gyuri a Pataki. «Non si sa mai, da cosa nasce cosa. Se poi sarà terribile, è terribile anche qui, ma almeno sarà disperazione cinese.» Tutto sembrava meglio della disperazione di casa. Gyuri sosteneva che dovevano farsi passare per ardenti ammiratori della Rivoluzione cinese, ansiosi di saperne di più sulle conquiste del potere popolare in Cina e desiderosi di studiare la lingua. «Con confini tanto lunghi, svicolare via non sarà un problema», era il ragionamento di Gyuri. Pataki aveva l'aria di pensare che fosse una giornata magnifica per andare a remare, ma perché non fare un tentativo? L'ambasciata cinese era in una traversa silenziosa ed elegante di Andrássy ut, nel quartiere diplomatico, dove i palazzi enormi, opulenti e riccamente decorati lasciavano intuire uno stile di vita tranquillo. Come che si diventa diplomatici, si chiese Gyuri notando la serenità e l'evidente assenza di lavoro delle ambasciate. Avevano depennato l'ipotesi di scrivere o telefonare, che dava adito a prevaricazioni e dinieghi. La cosa migliore era presentarsi di persona e non farsi sbattere la porta in faccia. Avevano discusso a lungo anche sul momento più opportuno per farlo ed erano giunti alla conclusione che la scelta migliore era il primo pomeriggio. Il portone dell'ambasciata era enorme e nero e non sembrava il tipo di porta che gradisce essere disturbata. Era un portone da guardare ma non toccare, una porta cui tenersi a rispettosa distanza. A differenza delle ambasciate occidentali, quella cinese non era presidiata da poliziotti o guardie, ma il tenore della facciata nel suo complesso era decisamente scoraggiante. Di fianco al portone c'era un campanello. Gyuri lo premette una volta, virilmente, non tanto a lungo da essere maleducato, ma non sentì nessun suono corrispondente all'interno. Attese, abbastanza a lungo da non essere maleducato, sperando in qualche segno di vita. Il tutto venne ripetuto due volte, mentre i passanti passavano e si domandavano che cosa ci facessero due giovani ungheresi ben vestiti fuori dell'ambasciata cinese. Evidentemente quel campanello non era fatto per suonare. Gyuri bussò brevemente alla porta facendosi male alle nocche (non c'erano batacchi). Alternò a più riprese educati periodi di attesa e dolorose scariche di colpi alla porta. Stavano incominciando a temere che il palazzo fosse disabitato quando scorsero un viso dalle fattezze orientali sbirciare da una finestra del 103
primo piano dopo aver scostato un'imponente tendina di pizzo. Pataki e Gyuri rivolsero all'osservatore un sorriso radioso e di educazione esemplare. Per diversi minuti dopo quel primo contatto non successe nulla. «Stanno studiando l'ungherese», avanzò Pataki, libero di divertirsi visto che non era stata un'idea sua. «Stanno cercando come si dice "vi venisse un colpo".» Dopo un tempo irragionevolmente lungo, venne ad aprire la porta un giovane cinese con un vestito consunto, che li salutò in un ungherese meccanico, ma corretto. «Siamo dei fan della Rivoluzione cinese», spiegò Gyuri. «Il mio amico e io siamo rimasti sbigottiti di fronte alle imprese realizzate dal Partito comunista cinese. Possiamo entrare a esprimere la nostra ammirazione?» Furono accompagnati in una sala lussuosa, che confermò ulteriormente il rispetto che Gyuri cominciava a nutrire per la vita diplomatica. Arrivò un altro funzionario cinese, che doveva avere una conoscenza rudimentale o nulla dell'ungherese, dal momento che quello che aveva aperto la porta ogni tanto gli traduceva spezzoni di conversazione. «Siamo stati ispirati dall'esempio della Rivoluzione cinese», proclamò Gyuri, «come ha detto Mao Tse Tung: "Il Partito comunista cinese ha introdotto fra i cinesi un nuovo modo di lavorare, un modo che essenzialmente implica l'integrazione di teoria e pratica, che crea uno stretto rapporto con le masse e realizza l'autocritica". È proprio questo che, con spirito internazionalista, fraterno e scientifico, vorremmo studiare per interesse personale e per contribuire allo sviluppo di un socialismo pacifista su base globale.» Abbastanza stranamente nessuno scoppiò a ridere quando Gyuri finì. Pataki doveva essersi morso la lingua per non sghignazzare. Gyuri aveva fatto la sua parte e Pataki non ancora, ma questo non lo trattenne: «Sì, come ha detto il compagno Mao, "Ungheria e Cina sono legate strettamente da interessi comuni e ideali comuni".» Il bello di Mao, come di Marx, e soprattutto di Lenin e Stalin, era che a un certo punto avevano detto o scritto di tutto, da «Ho ordinato una bistecca al sangue» a «L'ontogenesi ricapitola la filogenesi» e «Chattanooga Choo-Choo». Siccome dalla loro bocca era uscito di tutto, non si poteva sbagliare citando a casaccio.
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Gyuri riprese la palla e ribadì il loro fervente desiderio di andare in Cina, imparare la lingua e studiare il rinnovamento del paese. I due cinesi ascoltarono con fare estremamente compunto la proposta, quindi quello che non parlava ungherese e che emanava un'aria di anzianità disse qualcosa. Le sue parole riemersero malferme dalla bocca dell'altro in ungherese: «Compagni, il vostro ardore è davvero encomiabile e siamo commossi che le nostre conquiste in Cina vi siano state d'esempio. Ma il compagno Mao ha anche detto, con una metafora particolarmente azzeccata, che la costruzione del socialismo deve iniziare a casa propria, ed è meglio che voi continuiate a lottare qui in Ungheria a modo vostro.» Non c'era dubbio che in Cina l'arte di riconoscere le stronzate non era né sconosciuta né trascurata. Prima di congedarli gli consegnarono un volume di poesie di Mao ciascuno. Gyuri e Pataki ringraziarono sentitamente. Avevano trascorso meno di venti minuti in terra cinese. «Se non altro, possiamo dire di essere stati in Cina», disse Gyuri. Fuori, ma dentro. Anche la guerra di Corea era sembrata promettente. Pataki telefonò addirittura al Ministero della Difesa da un telefono pubblico, usando uno pseudonimo, per chiedere se c'era qualche possibilità di 'andare a combattere contro quei bastardi imperialisti'. Le autorità, intuendo la grandezza del numero di volontari di quello stampo, dedussero che con ogni probabilità si sarebbero rivelati i soldati più arrendevoli della storia militare. Diedero a Pataki tutte le informazioni su una dimostrazione antiamericana dove, gli assicurarono, avrebbe avuto modo di dare sfogo alla sua collera più che giustificata. «Perché in Corea combattono contro il comunismo e qui no?» domandò Pataki al colmo dell'irritazione. «Gli alberghi coreani sono tanto più belli? La cucina locale è superiore? La mia unica obiezione alla guerra è che dovrebbe essere qui, invece che in qualche fetida risaia coreana. Che cosa abbiamo fatto per non essere invasi dagli americani?» Con questi precedenti in materia di cultura estremorientale, accolsero con interesse e curiosità l'arrivo di un giocatore di basket cinese al campo. Hármati lo aveva presentato con grandi cerimonie e fra applausi 105
scroscianti. Ma, se i rapporti cestistici fra Cina e Ungheria partirono bene, in seguito si raffreddarono nonostante l'innegabile calore, cordialità e attenzione da ambo le parti, in quanto chi aveva organizzato la trasferta del cinese aveva dimenticato o sottovalutato l'importanza del fatto che Wu così pareva si chiamasse - non parlava ungherese, né inglese, né tedesco, né russo né altre lingue di cui gli atleti potessero avere una vaga infarinatura. Nessuno, naturalmente, sapeva il cinese. «Probabilmente crede di essere a Mosca», osservò Róka mentre Wu correva palleggiando discretamente, sì, ma niente di eccezionale. Nessuno lo aveva visto arrivare e i motivi della sua presenza rimanevano avvolti dal mistero. Hármati, interrogato in proposito, negò di sapere alcunché circa la provenienza di Wu. «È cinese, no? o forse è coreano. Che differenza c'è? Magari invece è un cambogiano a cui piace fare lunghe camminate. In ogni caso, se è cinese, lo salutiamo in quanto rappresentante del glorioso popolo cinese. Se è coreano, lo salutiamo in quanto rappresentante del glorioso popolo coreano. Siccome questo è un ritiro sportivo baciato dal vento del progresso, gli consegniamo fraternamente una palla e lo lasciamo correre per il campo in maniera corretta, scientifica e socialista. Se non altro imparerà che per giocare a basket bisogna essere un po' più alti. » Wu non arrivava al metro e settanta. Era simpatico a tutti perché, nonostante la sua vita da trappista, era straordinariamente educato e gioviale. Era l'unico che ringraziava vivamente i cuochi, profondendosi a ogni pasto in vigorosi inchini. «Devono passarsela davvero male», fu il commento di Gyuri, visto che l'unica cosa che si poteva dire a favore del cibo della mensa era che ce n'era quanto se ne voleva. La cortesia di Wu si manifestava anche sul campo dove, nelle rare occasioni in cui riusciva a prendere la palla, l'educazione gli impediva di negarla al primo che si avvicinava. Una sera le atlete invitarono gli atleti nella loro metà del complesso sportivo per una cena a base di uova e nokedli. Nonostante le altre e più importanti attrazioni, Pataki passò la serata a criticare la consistenza dei nokedli, a dire che era stata usata la farina sbagliata (il che era strano perché Pataki, come tutti del resto, sapeva che c'era un solo tipo di farina in circolazione, la farina farina, visto che i negozi ungheresi avevano adottato la filosofia di non vessare la clientela con il problema della scelta), che la 106
temperatura dell'acqua era sbagliata, che i nokedli avevano bollito troppo, che le uova non erano state messe al momento giusto. Insomma, si lanciò in una valutazione metodologica dettagliatissima. Avvertendo nell'aria un certo scetticismo circa le sue competenze culinarie, Pataki dichiarò a voce alta che avrebbe ricambiato l'invito delle atlete la settimana successiva: avrebbe preparato una zuppa di pesce come si deve, una vera zuppa di pesce. «Come sarebbe a dire vera?» si informò Róka. «Ci sono anche le zuppe finte?» «Nel senso di tradizionale, preparata con tutti i crismi, come si fa da tempo immemorabile nelle cucine d'Ungheria», replicò Pataki con alterigia. «Ma se non sai cucinare», gli fece notare Gyuri. «Ci sono cose che ogni uomo deve saper fare, e preparare la zuppa di pesce è una di queste. Forse procurarsi certi ingredienti sarà complicato, ma farò tutto il possibile. » «Ci vanno le patate?» domandò Katona. «No», rispose Pataki. «Ma a me piacciono le patate», protestò Katona. «Anche a me», replicò Pataki con un tono che cominciava a tradire una certa insofferenza. «Mi piacciono anche le scarpe da basket, ma mica le metto nella zuppa di pesce. Nella vera zuppa di pesce non ci vanno patate.» Il grande giorno si avvicinava e Pataki, di fronte alle continue richieste di metterci anche le patate, stava diventando aggressivo. Era solo un sospetto, ma Gyuri pensava che cominciasse a dubitare della propria capacità di preparare la zuppa di pesce. Tirarsi fuori dalla zuppa di pesce a forza di chiacchiere gli sarebbe stato difficile, perché una zuppa o è di pesce o non lo è. Pataki riuscì comunque a procurarsi gli ingredienti, in modo, se non altro, da avere qualcosa da cui cominciare. «Dove sono le patate?» domandò Gyuri. «Non ci sono», replicò Pataki, fingendo di soppesare con sguardo da conoscitore un pesce che aveva l'aria di aver visto fin troppa aria. 107
«Non è una carpa, vero?» domandò Gyuri. «No», rispose Pataki, «è pesce persico.» «Oh», disse Gyuri andandosene, «non credevo che la zuppa si facesse con il pesce persico.» Arrivò Gyurkovics. «Dove sono le patate?» domandò. «Non ci sono», ribadì Pataki, sempre sforzandosi di passare per uno che prepara la zuppa di pesce. «Non è una carpa, vero?» domandò. «No, è pesce persico», fu la succinta risposta. «Oh», disse Gyurkovics uscendo dalla cucina, «non credevo che la zuppa si facesse con il pesce persico.» Quando Hepp entrò e gli chiese dov'erano le patate, Pataki posò con calma sul tagliere il pesce persico che stava esaminando ed esclamò con foga: «Lo so che cosa avete in mente. Lo so che cosa volete fare. State cercando di farmi innervosire. Però», continuò in tono determinato ma senza traccia di collera, «con me non attacca.» «Okay», disse Hepp. «Ma le patate dove sono?» Fu Demeter ad aggiudicarsi la bottiglia di pálinka di riserva quando Pataki, alla quindicesima domanda, lo prese a pesci persici in faccia. Dopo che Demeter ebbe battuto prontamente in ritirata, Pataki si diede alla macchia infuriato. Quando fece ritorno (alcune ore dopo, notò Gyuri, troppo tardi per un altro tentativo di zuppa), vide che si stavano radunando tutti sotto il tendone, come per una sagra della zuppa di pesce. «Vieni», disse Katona, «devi vedere con i tuoi occhi: ho convinto Wu a farli.» «Fare cosa?» domandò Pataki senza capire. «I suoi numeri. È straordinario. L'ho sorpreso che andava a tempo con la radio l'altro giorno.» Pataki lo seguì sotto il tendone, dove sembravano riuniti tutti i partecipanti al ritiro. Katona si autonominò maestro delle cerimonie: «Signore e signori, questa sera ho l'onore di presentarvi un artista che ha percorso migliaia di chilometri pervenire fin qui. Ma, prima, vorrei chiedere un'illuminazione più discreta.» I lembi del tendone furono chiusi in maniera da ottenere una certa penombra e fece la sua comparsa una barella con una figura nascosta sotto una coperta. Quando venne sollevata, spuntarono un paio di chiappe cinesi. «Vi prego di mantenere il più assoluto silenzio. A lei, signor Wu.» 108
Lo spettacolo ebbe inizio, ma ci volle un po' perché il pubblico si rendesse conto che Wu stava scoreggiando l'Internazionale. Gli astanti, che si distinguevano per il loro scarso livello ideologico, nonostante l'invito al silenzio scoppiarono in un fragoroso applauso. Il virtuosismo e la resistenza di Wu furono strabilianti. L'Internazionale era solo l'inizio. Mentre tutti si chiedevano che cosa diavolo avesse mangiato, Wu si lanciò in un pot-pourri di melodie, che si concluse con il Danubio blu. Ci fu un'ovazione in piedi. Poi arrivò la zuppa di pesce. Tutti si accorsero che Pataki moriva dalla voglia di muovere appunti sul grado di salinità o su altri aspetti della zuppa ma, per non vedersi privato anche degli ultimi scampoli della sua reputazione, fu costretto a tacere. «È abbastanza buona, tenuto conto della sua provenienza», osservò Hepp con Gyuri. A Pataki non fu mai rivelato da dove veniva: era stata prodotta e inscatolata per ordine di un funzionario del ministero dell'Agricoltura convinto che fosse un buon prodotto da esportare in Gran Bretagna, finché qualcuno non gli aveva rammentato che la Gran Bretagna era un paese capitalista e come tale non poteva essere destinatario di zuppa di pesce ungherese. Venne fuori che tutti i paesi in grado di comprare zuppa di pesce in scatola erano capitalisti, mentre i partner commerciali dell'Ungheria, i paesi socialisti, non avrebbero sborsato un copeco bucato. A quel punto avevano deciso di spartirsi la zuppa all'interno del Ministero e le famiglie dei dipendenti avevano ricevuto una gratifica a base di pesce. István ne aveva lasciato dieci scatole a Elek, che mangiava di tutto, tranne il pesce. Giocare per le ferrovie aveva i suoi vantaggi, compresi i trasporti gratuiti.
Gyuri aspettava con ansia la fine del ritiro, perché pensava sempre più spesso a Zsuzsa e anche perché Pataki invece sperava che non finisse mai. Pataki temeva la fine del ritiro perché aveva promesso a Hepp che il Locomotive avrebbe vinto la partita contro la Nazionale. Pataki non lo dava a vedere, ma la sua tracotanza si sgonfiava progressivamente all'avvicinarsi del giorno fatidico. 109
Tutte le volte che giocavano contro di loro, Pataki si rendeva conto che la Nazionale era la Nazionale perché aveva i giocatori migliori, presi dall'esercito e dal Politecnico. Con la fronte corrugata, meditava su come vincerli. Agli altri la tregua negoziata da Pataki con Hepp andava benone perché, se era vero che perdere avrebbe implicato una punizione per tutti quanti, sarebbe stato Pataki l'oggetto delle ritorsioni specifiche da parte di Hepp, che si diceva se le legasse al dito per trent'anni. Ma preoccuparsi non era il suo forte e, dopo un paio di introspezioni che non sfociarono in soluzione alcuna, Pataki decise di rimandare tutto al momento opportuno. L'unico elemento a favore del Locomotive era che la Nazionale non aveva molto da perdere. Era vero che ci sarebbero stati in giro i pezzi da novanta del mondo dello sport, ma era anche vero che nessuno avrebbe fatto caso al risultato. Nel mondo esterno non contava. «Perché quei pezzi di merda non hanno nemmeno un infortunato?» si lamentava Pataki cambiandosi, avendo chiaramente sperato in qualche disgrazia, visto che niente altro avrebbe potuto procurargli la vittoria. Nella prima metà della partita le cose andarono bene. A metà gara il punteggio era 32 a 26 per il Locomotive. Avevano giocato bene, con uno dei palloni di cuoio preferiti del Locomotive, Vladimir. Un giocatore della Nazionale aveva osservato all'arbitro: «Non potremmo cambiare palla, per favore? Pataki con questa non ci lascia giocare». Effettivamente Gyuri non l'aveva mai visto così scatenato: era come se giocasse da solo, sempre a correre come un matto dietro la palla, sempre dando il massimo. La sua implacabile accelerazione si rivelò fruttuosa, perché prendeva la palla dove gli altri non ce l'avrebbero fatta, ma Gyuri si accorse che questo aveva un prezzo. Quando l'arbitro fischiò la fine del primo tempo, Pataki aveva l'aria esausta. «Angyal!» Pataki chiamò il braccio destro di Gyuri nel reparto tiri mancini del Locomotive. Angyal, che era rimasto tutto il tempo in panchina, gli corse incontro. Il suo talento era neutralizzare gli avversari che dimostravano eccessiva facilità a far canestro mediante una serie di tecniche mai raccomandate dagli allenatori, ma di efficacia straordinaria, fra cui lo strizzamento dei testicoli di rovescio o la gomitata in faccia in elevazione. Angyal era infortunato: si era storto una caviglia dopo aver 110
assestato una gomitata particolarmente devastante a Demény, il capocannoniere del campionato ungherese, facendogli uscire il sangue dal naso. Pataki si avvicinò e gli mormorò qualcosa all'orecchio, quindi Angyal si allontanò. «Che cosa facciamo?» chiese Gyuri a Pataki. «Sei uno straccio. Non puoi reggere fino alla fine.» Pataki sorrise. «Dobbiamo tenere duro.» Nella seconda metà della partita apparve evidente che Pataki aveva speso tutte le sue energie e perduto la prodigiosa capacità di fare incetta di palle. Hepp rimase impassibile in panchina, consapevole come tutti che il risultato era in procinto di ribaltarsi. Quando il punteggio fu 33 a 32 per il Locomotive, si udirono delle grida di «al fuoco» e qualcuno entrò chiedendo aiuto per portare secchi d'acqua e spegnere le fiamme che stavano devastando gli alloggi dei giocatori della Nazionale, i quali a quella notizia si precipitarono come un sol uomo al salvataggio dei loro preziosi articoli da toilette. La partenza era fissata per quel pomeriggio e, per setacciare fra le ceneri alla ricerca di shampoo francese e sapone italiano, la partita non fu più ripresa. Hepp non apparve contento ma, cosa più importante, con gran sollievo di tutti, neanche troppo scontento. Aveva però l'aria di chi non avrebbe mai più dato ascolto a Pataki in futuro. Salendo sull'autobus che li avrebbe condotti alla stazione, Pataki e Gyuri notarono Wu seduto vicino alla pista d'atletica, con l'espressione affabile e distante di sempre. «Immagino che nessuno gli abbia detto che il ritiro è finito o, se glielo hanno detto, non credo che abbia capito», disse Gyuri. Lo raccolsero perché, se non altro, sapevano con esattezza dove lasciarlo a Budapest...
Gyuri aveva conosciuto Zsuzsa quindici giorni prima del ritiro. Rappresentava un cambiamento di tattica per lui. Aveva rincorso diverse ragazze carine che, lungi dal lasciarsi agganciare, avevano reagito ai suoi saluti come se le avesse minacciate con un coltello. «Comunismo e 111
celibato sono troppo», gemeva Gyuri. Come un giocatore infortunato cerca di lenire l'orgoglio ferito nella divisione inferiore, Gyuri aveva incontrato Zsuzsa a un ballo e fiumi di ormoni sostenuti dalla disperazione avevano fatto affiorare una certa bellezza su un terreno poco promettente. Sebbene si fossero visti tre volte soltanto, Gyuri aveva incominciato a disfare i bagagli e sistemare il mobilio dell'affetto, e a Tatabánya aveva passato gran parte del suo tempo a fantasticare sul saccheggio dei tesori carnali della ragazza. Tornò a casa giusto il tempo di agghindarsi e controllare allo specchio il proprio corpo giovane e abbronzato. Ammirandosi, si chiese come mai le donne non gli si arrampicavano in camera dalla finestra. Non gli importava più niente del totalitarismo, quando si avviò verso casa di Zsuzsa. «Basta avere qualcosa cui aspirare», si disse. Zsuzsa aveva il telefono, ma preferì presentarsi di persona. Era in casa, ma stava accomiatandosi da un amico. Nello choc iniziale Gyuri non riuscì a decidere se fosse peggio il fatto che si trattava di un uomo ben piantato, presumibilmente detentore di un arnese imponente, o che aveva la divisa blu dell'AVO. Un professionista, non uno di quei novellini verdi coscritti per presidiare i confini e sparare ai capitalisti che cercavano di svignarsela, alle spie straniere o in generale ai mascalzoni che cercavano di sfuggire alle conquiste del popolo. Anche senza la divisa blu, si sarebbero comunque guardati in cagnesco. Ciò che fece imbestialire ulteriormente Gyuri fu che Zsuzsa non si rendeva conto della mostruosità di invitare a casa uno della polizia segreta, neppure quando lui glielo fece notare. «Elemér è tenero», fu tutto quel che riuscì a dire, mentre Gyuri strepitava contro le iniquità perpetrate dall'AVO. Sottoposta a interrogatorio, Zsuzsa spiegò che Elemér era entrato in scena recuperando Bodri, il suo cane, che era inspiegabilmente fuggito nel parco al richiamo della foresta, incurante delle suppliche di Zsuzsa. «Dev'essere abituato ad accalappiare», commentò Gyuri. L'altra grande delusione della serata la ebbe nel rendersi conto che Zsuzsa era in ottimi rapporti con la stupidità. Avrebbe dovuto capirlo dal lavoro che faceva (fiorista), ma Zsuzsa, per quanto residente in Ungheria, non sembrava vivere lì: non capiva quello che succedeva, non si era accorta di quello che succedeva e non riusciva ad afferrare quel che Gyuri 112
diceva. Quella sera Gyuri notò inoltre che aveva il naso un po' grosso, ma non poté non invidiarle la totale mancanza di contatto con il 1950, l'ottuso isolamento sottovuoto in cui viveva. «Prendi una tazza di tè», insistette Zsuzsa. Era contenta di vederlo e non diede retta alle sue farneticazioni, né capì che cosa lo sconvolgesse tanto sul piano maschile o su quello etico. Gyuri enumerò i privilegi e le forniture speciali di cui godevano gli AVO. «Non è vero, Elemér proprio oggi diceva che lavora tantissimo, e che per aiutare la madre deve arrotondare lo stipendio traducendo articoli della "Pravda".» Gyuri si rese conto che era come cercare di demolire una casa a bicchierate d'acqua e fu colto da un senso, forte e familiare, di futilità. Si sentì in gabbia. Guardò bene che cosa c'era nel piatto e gli passò l'appetito. Anche quello, pensò, sarebbe stato un altro notevole fallimento da aggiungere alla sua collezione. Immaginava già il titolo della sua autobiografia, Donne con cui sono quasi andato a letto. Né dire, né fare, né baciare. «Il 1950 fu un'annata buona, andai quasi a letto con quattro donne: un glorioso aumento di produzione, nel pieno rispetto dei princìpi del marxismo-leninismo, in confronto al 1949, in cui ero quasi andato a letto con due.» La relazione gli era spirata fra le mani, ma avrebbe dovuto puntellare la salma come fanno i soldati in trincea con i compagni caduti, per far credere al nemico di essere ancora in tanti a resistere. La complicazione era che il venerdì successivo ci sarebbe stata la festa annuale del Locomotive, suprema occasione mondana, e Gyuri avrebbe preferito affrontare il plotone di esecuzione piuttosto che andarci da solo, e sfortunatamente Zsuzsa era l'unica rappresentante del gentil sesso che gli rivolgesse la parola. Se non ci fosse andata lei, non ci sarebbe andata nessuna. Elemér fu rimosso dalla conversazione, ma questo svuotò pericolosamente di contenuto i loro discorsi e, con la mente rivolta alla festa del Locomotive, Gyuri si congedò. Intanto rifletteva a fondo sull'assurdità di vivere in un paese occupato per più di metà da donne (la demografia era dalla sua parte, dopo l'annientamento della Seconda Armata ungherese nel 1944) e non essere in grado di gestire transazioni romantiche di nessun genere. In piedi sul tram, fra passeggeri stipati come sigarette in un pacchetto, come cento gemelli in un oblungo utero tranviario, con la 113
schiena di tre concittadini addosso, Gyuri si Sentì spossatamente solo. Schiacciato, ma solo. Dove trovare qualcuno con cui parlare? Ci vorrebbe un negozio. E una volta che hai trovato qualcuno con cui parlare, come fai a non perderlo? Nei giorni successivi dedicò buona parte del tempo libero alle lamentazioni interiori e a un'abile autocommiserazione, profetizzando sventure a ruota libera, guardandosi allo specchio e chiedendosi: «Hai presente quando tutto va storto?». Ma il martedì notte si ritrovò sveglio. Delle eruzioni mentali si fecero strada chiaramente nella sua digestione cerebrale. Erano le tre del mattino, l'ora prediletta dai ragazzi di stanza nel retro della sua scatola cranica per interrompergli il sonno. Quello che lo tormentava veniva fuori e, sebbene non riuscisse a dargli un nome, dal suo colon cerebrale emanava un profondo sconforto. Accese la luce e consultò l'orologio. Le tre e tre minuti. Perché quando voleva alzarsi puntuale non ci riusciva, mentre la peggiore collera che gli ribolliva dentro saltava sempre fuori all'ora peggiore? E perché quando voleva sentirsi sveglio alla mattina non riusciva mai a essere fresco come si sentiva in quel momento? Spense la luce e si augurò che a poco a poco il sonno lo vincesse. Era ancora sveglissimo quando sentì suonare alla porta. Il suo primo pensiero fu Hepp, ma era un'ora impossibile anche per lui e comunque non aveva niente in sospeso con Hepp e di conseguenza non c'era motivo di incursioni mattutine. Quel campanello poteva solo annunciare qualche avvincente disavventura nel vicinato. Omicidio? Stupro? Arresto cardiaco? O era l'AVO? pensò sarcastico. Mentre la sua curiosità si fregava le mani tutta contenta, Gyuri andò alla porta e si trovò davanti quattro uomini dell'AVO in borghese. Si riconoscevano in borghese come in divisa, perché erano gli unici a disporre di vestiti in grazia di Dio. Tutti sapevano dello choc da campanello, del sudore freddo da paura dell'arresto, ma Gyuri non si era mai sentito abbastanza importante da essere arrestato. Per un istante credette che stessero cercando qualcun altro o avessero sbagliato indirizzo. Poi gli spiegarono che non era in arresto, che volevano solamente fargli qualche domanda. Si vestì e lasciò un biglietto a Elek, che non era reperibile in giro (senza dubbio stava riscaldando qualche vedova chissà dove). 114
Kovács, portiere e inveterata testa di cazzo, aspettava imbronciato di farli uscire per richiudere il portone. Gyuri provò un vago senso di soddisfazione nel vedere Kovács imbufalito, nella sua vestaglia tarmata e puzzolente di fumo, con i capelli che gli andavano da tutte le parti. L'automobile non era nera, come voleva la tradizione, ma di un marrone vomito. La cosa lo deluse un pochino perché rischiava di rovinargli la storia da raccontare quando sarebbe uscito, dopo cinque, sei, sette, dieci anni, chissà quando. Fu un breve viaggio per strade vuote. Gyuri in un certo senso era sorpreso che una cosa che temeva da tanto tempo si fosse inspiegabilmente materializzata così all'improvviso. Volevano addestrarlo per farlo comparire in un processo farsa? Chi c'era in galera di quei tempi? In quel periodo sembravano prediligere i comunisti, ma c'era sempre bisogno di attori di contorno. Curiosamente, provava un senso di sollievo. Aveva finalmente toccato il fondo. Non si deve più aver paura di venire arrestati una volta che si è agli arresti. Di che cosa l'avrebbero accusato? Per quanto ne sapeva, considerare il governo un branco di coglioni non era considerato reato dalle vigenti leggi. Perché non l'avevano arrestato nel novembre del '45, dopo le elezioni, quando non aveva niente da mangiare, ma aveva una rivoltella carica ed era sceso in strada con il cappotto di Elek a gridare «Cinquantasette per cento» con un mucchio di altra gente? Perché il Partito dei piccoli proprietari, gente con i baffi che andava in chiesa e sbandierava pagnotte, avesse preso il cinquantasette per cento dei voti sarebbe rimasto un mistero, se non fosse stato che dall'altra parte c'erano i russi e la testa pelata di Rákosi. Il Partito comunista di Rákosi aveva ottenuto solo il diciassette per cento, nonostante la generosità di elargizioni da parte di Mosca e il regolare invio di prigionieri di guerra a dimostrazione delle capacità diplomatiche di Rákosi. Rákosi aveva perso alla grande le elezioni in parte perché, come tutti nel Partito comunista, non poteva credere quanto la gente lo odiasse, e in parte perché aveva appena aperto il kit «come costruire uno Stato comunista» ricevuto per posta dall'Unione Sovietica e non aveva ancora finito di leggere il manuale di istruzioni. «Cinquantasette per cento» era una cosa abbastanza insulsa da gridare per le strade, ma era stato fantastico; quello slogan rappresentava una sorta
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di armadio a sei ante zeppo all'inverosimile di maledizioni e imprecazioni plurisillabiche contro i comunisti. Quando Gyuri fu condotto nell'interno elegante del civico 60 di Andrássy ut, per chissà quale ragione gli venne in mente la voce che circolava a proposito della moglie del capo dell'AVO: si diceva che la moglie di Gábor Peter fosse lesbica e avesse una forte propensione per gli incontri a tre. Questo pettegolezzo salace perse ogni interesse quando un funzionario dell'AVO che doveva avere la sua età (probabilmente a fare i turni di notte mettevano i più giovani e le reclute) aprì una cartellina e borbottò «Fischer» come se stesse registrando la consegna di una partita di lampade da tavolo. Scorse il contenuto della cartella con aria moderatamente seccata perché sembrava praticamente vuota e non conteneva gli elementi cruciali che cercava. Gyuri lo osservò attentamente e pensò: se solo non fossi nato con una spina dorsale morale, con una dotazione minima di intelligenza e dignità, potrei esserci tranquillamente seduto io, al suo posto. «Qui non mi pare di vedere la sua confessione», disse il giovane funzionario con il tono di chi è l'unico a fare coscienziosamente il proprio lavoro in tutto il palazzo. «Speriamo che sia bella, perché io porcherie non ne firmo», disse Gyuri prima di immergersi nel silenzio. Prese l'iniziativa visto che il tasso di minaccia nell'atmosfera era trascurabile (era un po' come la sala d'aspetto di un dentista senza le riviste) e anche perché aveva l'impressione che per un po' non avrebbe avuto più occasione di fare battute divertenti. Era il genere di storia che avrebbe riscosso grande successo in prigione. Il receptionist lo guardò come se avesse sporcato il tappeto, senza traccia di stupidità o di villania, ma piuttosto con tristezza. Chiamò un collega nella sala accanto. «Un altro. Fischer.» Il collega entrò con una cartellina che consultava attentamente, professionalmente. La studiò più a lungo di quanto si sarebbe detto necessario per leggere un solo foglio, anche scritto piccolo, e alla fine dichiarò: «Non c'è nessun Fischer». «Posso andare a casa, allora?» domandò Gyuri, pensando che non aveva nulla da perdere.
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Entrambi gli rivolsero un'occhiata come a dire che sarebbe stato inopportuno, estremamente inopportuno, aprire bocca di nuovo. L'uomo alla reception fece un cenno verso Gyuri. «Che cosa credi che ci faccia qui? Che aspetti l'autobus?» «Non mi interessa che cosa ci fa qui. Nell'elenco non ce. L'ho già detto, sai, non siamo l'hotel Britannia. Lei si chiama Fischer?» chiese poi rivolgendosi a Gyuri. «Sì.» Controllò nuovamente a lungo l'elenco. «Usa forse pseudonimi o soprannomi?» «No.» Ripassò l'elenco nella speranza che d'improvviso spuntasse fuori un Fischer. «Lei è ungherese, presumo», disse controllando un modulo viola evidentemente riservato agli stranieri. Gyuri confermò. «Be', c'è un Fodor e basta. Non c'è nessuno che comincia per effe nemmeno nell'elenco degli stranieri.» «Non importa», disse il receptionist, «sbattilo al piano di sotto.» «Sì che importa. A che cazzo serve un elenco se poi non ci si trova un cazzo?» Il receptionist prese la cartellina e scrutò l'elenco con l'aria di chi ha il sospetto che l'altro non vedrebbe un Fischer neanche se ce l'avesse sotto il naso. «Va bene, portalo di sotto e basta.» «Ma siamo al completo. Mi è rimasta solo la doppia.» Gyuri fu condotto sottoterra e accompagnato in una cella illuminata da un improbabile membro della famiglia delle lampadine e stipata di zingaro. C'erano due panche e su tutte e due era seduto lo zingaro più grosso che Gyuri avesse mai visto, anzi, l'individuo più grosso mai visto in assoluto. Era come Neumann con tre o quattro cuscinoni legati intorno. Come si faceva a diventare tanto grassi in Ungheria? A parte la straordinaria dotazione di lardo, lo zingaro aveva la parola «bang» tatuata sulle nocche della mano sinistra e sulla ganascia sinistra una specie di griglia, come se qualcuno vi avesse giocato a filetto con una lama eccezionalmente affilata. Gyuri si chiese se lo zingaro avesse mai preso in considerazione di darsi alla pallanuoto. 117
«Salve», disse lo zingaro ritirando una guarnigione di coscia per liberare un pezzo di panca, e tendendogli la mano «Sono Filetto.» Quindi aggiunse, radioso: «Magnaccia». Gyuri gli strinse la mano e si presentò. Era pieno di ammirazione per la chiarezza delle generalità declinate da Filetto. Come avrebbe dovuto definirsi lui: cestista? dipendente delle ferrovie? studente della vita? «Fischer Gyórgy, alieno di classe.» «Perché sei dentro?» si informò Filetto. Gyuri rifletté. «In realtà per niente.» «Se non hai fatto niente, vedrai che ti danno il massimo della pena. Ho sentito che hanno ancora un sacco di condanne da dieci anni da appioppare. Qualche settimana fa hanno preso un mio compare a Nífregyháza. "Niente di personale, Bognár", gli hanno detto, "ma abbiamo bisogno di qualcuno a cui rifilare dieci anni e sappiamo che in fondo a te non importa più di tanto perché sei uno schifoso zingaro eccetera. Firma la confessione così ce ne andiamo a casa.".» Filetto era dentro perché aveva ostacolato il corso della giustizia. Due uomini dell'AVO, che rincorrevano un ragazzino che aveva bucato le gomme delle loro auto erano inciampati addosso a Filetto, riverso in fondo a una scala ubriaco fradicio dopo un banchetto di nozze particolarmente prolungato. Privo di sensi, non era riuscito ad adottare la sua usuale tecnica di fuga. «I poliziotti oggigiorno non sono più quelli di una volta. Ti ci siedi sopra e si spezzano.» Lo avevano minacciato delle più terribili ritorsioni perché ci erano volute due squadre e un furgone da macellaio per ingabbiarlo. «Non posso dire di aver voglia di stare dentro. Le prigioni sono veramente in ribasso», brontolò Filetto. Spiegò che era stato nella maggior parte degli istituti di pena dell'Ungheria, fra cui la temuta «Stella» di Szeged, dove Rákosi aveva trascorso quindici anni. Ma Rákosi aveva una discreta biblioteca, una cella tutta per sé e una campagna internazionale a favore della sua liberazione. Intellettuali progressisti di tutta Europa avevano inviato telegrammi di protesta ai consoli ungheresi. Gyuri ne aveva visto uno del nucleo Amici dell'URSS di West Hull a una mostra sulla vita di Rákosi. Il telegramma parlava di «somma indignazione» per 118
l'incarcerazione di Rákosi. Gyuri aveva riflettuto che, se fosse vissuto a West Hull, probabilmente si sarebbe sentito più amico dell'URSS. Aveva anche cercato «sommo» sul dizionario inglese, perché era una parola che non aveva mai sentito. Era strano che gli intellettuali progressisti stessero zitti di fronte all'abbondanza di incarcerazioni di quel periodo. Aveva il presentimento che nessun intellettuale progressista avrebbe mandato telegrammi in suo favore né da West Hull né da altrove; bisognava però tenere conto del fatto che Gyuri era maldisposto nei loro confronti perché avevano comunque evitato a Rákosi la pena capitale. «Il pan secco era ottimo», disse Filetto ricordando il suo soggiorno alla "Stella". «Valeva la pena di finirci solo per il pan secco.» Filetto continuò il suo monologo, passando in rassegna altre delizie carcerarie ed esortando ripetutamente Gyuri a rivolgersi senza indugio a sua sorella appena fosse uscito: fra un anno, due anni, dieci anni. L'avrebbe trovata intorno a Rákóczi ter, dove si aggirava abitualmente. «È il modo migliore per scaricare la tensione.» La differenza principale fra la prigione e fuori in Ungheria, rimuginava Gyuri, era che in prigione c'era meno spazio. Per il resto, più o meno, cambiava poco. C'era meno spazio e un penetrante odore di zingaro non lavato. Perlomeno l'afrore tentacolare di Filetto era compensato dall'assenza di ritratti di Rákosi nell'atrio. Senza perdere l'aplomb, Gyuri ripassò in rassegna i vari possibili esiti della sua incarcerazione, che invariabilmente comprendevano ulteriori dosi massicce di carcere, dolore e relativi accessori. A Gyuri piaceva credersi duro e incrollabile, ragion per cui non amava trovarsi in situazioni che dimostrassero platealmente il contrario. Sulla parete era inciso: «Sono un membro del parlamento», affermazione di per sé senza senso; presumibilmente era un'aposiopesi, causata dal prematuro allontanamento del suo autore dalla cella. Sotto, in grafia diversa, con uno strumento semiaffilato di diverso tipo, qualcuno aveva aggiunto: «Sono un membro dell'Ujpest football club». C'era anche un messaggio sbiadito a matita (notevole, visto che a Gyuri avevano sottratto qualsiasi oggetto personale e impersonale, oltre a cintura e stringhe): «Se stai leggendo qui sei nella merda». 119
Be', pensò Gyuri, eccomi sotto il culo della rana. Sotto il culo di una rana in fondo a una miniera di carbone, ho toccato davvero il fondo dell'esistenza. Peggio di così non poteva andare. La vita gli avrebbe mai riservato qualcuna di quelle cose che venivano definite piacevoli o degne di essere vissute? Aveva vent'anni. Sarebbe uscito in tempo per afferrare qualcosa che valesse la pena di afferrare? Senza grande soddisfazione esaminò i libri mastri dei suoi anni. Quando il venerabile poeta Arany aveva compiuto ottant'anni, stando a quel che diceva Pataki, gli avevano chiesto come vedeva i momenti più alti della sua celebrata esistenza di poeta leggendario, rivoluzionario, profeta, eroe e vanto nazionale. «Qualche trombata in più non avrebbe guastato», era stata la risposta. Che non era entrata nelle biografie. La prospettiva di tenere l'uccello in un bacino di carenaggio per una decade era solo marginalmente meno allarmante di quella di ritrovarsi con le ossa rotte o di dover affrontare una morte sgradevole, o anche non sgradevole. Filetto si stancò delle sue elucubrazioni sulla cucina penitenziaria e i meriti di sua sorella e si sdraiò per dormire. «Non può durare a lungo», diceva il muro dietro di lui. Sotto, il vizio ungherese di avere sempre l'ultima parola aveva fatto aggiungere a qualcuno: «È già durato abbastanza». Ci sarebbero stati altri processi di Norimberga? si chiese Gyuri. E lui li avrebbe visti? Che cosa avrebbero detto quelli dell'AVO a propria discolpa? «Abbiamo solo obbedito agli ideali». Era difficile mantenere il senso del tempo, ma a Gyuri parve che fosse passato un giorno senza cambiamenti o incursioni nella cella, a parte lo strano scompiglio allo spioncino quando le guardie andavano a scrutarli. Nessun segno di cibo, a parte il fatto che l'appetito di Gyuri se l'era data a gambe. «È colpa mia se non ci danno da mangiare», si scusò Filetto. «Non possono sopportare la vista di uno zingaro grasso.» Quando era ormai sicuro, spiritualmente pronto ad affrontare con serenità una condanna a dieci anni di carcere, fu rilasciato. A giudicare dalla luce, era il mattino dopo. Nessuno gli aveva dato spiegazioni o roba del genere. Lo chiamarono, gli restituirono una parte dei suoi effetti personali (le stringhe ma non gli spiccioli). Gyuri si guardò bene dal chiedere notizie degli oggetti mancanti o il motivo della propria manomissione. Uscendo fu così contento di vedere Budapest, Budapest 120
effervescente di attività, che quasi quasi gli venne voglia di farsi arrestare più spesso. Si stava abituando all'idea del proprio rilascio quando vide avvicinarsi Elemér, il braccio violento e accalappiacani del proletariato. Fumava una sigaretta per far passare il tempo e, chiaramente, lo stava aspettando. «Quando vuoi», fu tutto quel che disse prima di allontanarsi. Lo choc fu tale che Gyuri non ebbe il tempo di ammazzarlo prima che sparisse. La sua rabbia crebbe, di dimensioni e di intensità, al punto che gli parve che gli stesse per scoppiare la testa. Fremente di collera, tornò a casa in tram. Se qualcuno lo avesse anche solo involontariamente urtato, sarebbe stata una strage, istantanea, furibonda e devastante. A casa trovò il biglietto che aveva lasciato per Elek sul tavolo della cucina, che aveva tutta l'aria di non essere stato letto. Dov'era finito il vecchio satiro? si chiese strappandolo. Entrò proprio in quel momento, annusò l'aria e pronunciò un commento che voleva essere brioso sulle condizioni maleodoranti in cui versava Gyuri dopo la sauna fredda dell'AVO: «Il comunismo non ti esime dal lavarti, sai». Gyuri non disse mai niente a nessuno.
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Agosto 1952 Era stato solo un mese, ma anche se non avesse mai concluso nient'altro in vita sua, quel mese sarebbe stato abbastanza. Il campo era a Böhönye, ma il sergente-maggiore che fa stato scelto appositamente per raddrizzare la schiena gli studenti universitari nelle quattro settimane in cui gli erano affidati, trasformandoli in energici ufficiali, era venuto ad accoglierli alla stazione di Pécs. Il sergentemaggiore non era per nulla turbato dalla secolare tradizione che voleva i sergenti-maggiori sadici, aggressivi e grandi urlatori. Si impegnò fin dal primo momento a dimostrare di essere molto peggio di quanto avessero immaginato. La sua mossa iniziale fu: «Presto combatteremo la Terza Guerra Mondiale». Da buon soldato non era esattamente innamorato della pace, che privava i militari del rispetto e delle risorse che essi ritenevano di meritare pienamente. Il massimo che riusciva a digerire era una pace che fosse meramente preparatoria a un conflitto mondiale. «Siete degli stronzi, degli abominevoli stronzi... che è mio dovere tramutare magicamente in stronzi di una vaga utilità. Volete sapere qual è la mia filosofia? La mia filosofia consiste nel rendervi la vita talmente impossibile che la guerra vi sembrerà un piacevole diversivo, un temporaneo sollievo, e morirete in modo da non disonorare le nobili tradizioni dell'esercito ungherese.» (Praticamente l'unica cosa che siano mai riusciti a fare gli eserciti ungheresi, pensò Gyuri.) «Prevedo che alcuni di voi si suicideranno. Sappiate che se almeno uno di voi stronzi non cercherà di tagliarsi le vene lo riterrò un fallimento personale. E se non ci riuscite al primo colpo, siamo disposti a darvi una mano: il tentato suicidio è punibile con la morte.» A onor del vero va detto che, se non altro, il sergente-maggiore aveva l'aria di uno che se ne intende di vita militare: era grande e grosso, sicuro di sé, rozzo, uno che si è contenti di avere al proprio fianco. Un bastardo, sì, ma competente. «Un ufficiale scarso va bene finché stai in caserma», gli aveva detto Tamás a Ganz. «Anche se ci mette due ore a trovare il verso giusto di una mappa 122
non importa, ma quando arrivi al fronte, ci vuole uno in gamba, altrimenti sei fregato. Noi avevamo uno che si chiamava Kocsis. Il buffo era che aveva sempre voluto fare l'ufficiale, veniva da una famiglia di militari, ma anche dopo essere passato per la Ludovika, non riusciva a dirigere nemmeno la piscia in un secchio, figuriamoci dirigere un'operazione militare. Eravamo al fronte da un'ora e ci aveva già fatto circondare dal nemico. Fu ucciso in quattro e quattr'otto da un soldato sovietico che si era abilmente infiltrato oltre le nostre linee con un'uniforme ungherese, parlava perfettamente ungherese e aveva vissuto a Budapest per trent'anni.» La prima minaccia del sergente-maggiore fu: «Quando arriveremo alla base, farete conoscenza con la piazza d'armi e imparerete a conoscerla talmente bene che, se per qualche inaudito miracolo ne uscirete vivi, a novant'anni vi ricorderete ancora tutte le buche che ha». A questo punto il sergente incaricato di fargli da assistente gli bisbigliò all'orecchio quello che tutti avrebbero scoperto in seguito, e cioè che a Böhönye non c'era piazza d'armi. «Faremo un sacco di esercitazioni», continuò il sergente-maggiore, «in modo che da molto lontano gli imperialisti possano sbagliarsi e prendervi per soldati.» L'esercito non aveva perso la sua irrefrenabile passione per i mucchi di letame e a Böhönye non mancavano i prati. Si allenarono nella marcia da parata, con le baionette immobili posate sulla spalla del soldato davanti. Su una piazza d'armi piatta e uniforme il risultato avrebbe potuto essere un solenne spettacolo di coordinazione e di sfoggio marziale, ma in un prato disseminato di sterco bovino e di buche si tradusse in una rimozione continua di orecchie. Il primo a perdere l'equilibrio auricolare fu Gyóngyósi, un avvocato che, in quanto avvocato, se lo meritava. Da quella volta non avrebbe più preso parte a processi farsa. Fu un mese brutto, veramente brutto, ma trattandosi per l'appunto di un mese soltanto non riuscì a essere insopportabilmente brutto. La maggior parte del tempo gli propinarono i soliti giochetti militari, cercando di fargli fare in cinque minuti un ammontare di sforzi che richiede mezz'ora. E Dohányi, il sergente-maggiore che non disse mai come si chiamava («Non voglio che pensiate a me come a una persona, ma solo come a un maledetto bastardo»), ci teneva molto a farli correre in assetto di guerra, con addosso dieci chili di equipaggiamento e la maschera antigas. La stranezza delle 123
maschere antigas, osservò Gyuri pensando che erano fatte per respirarci dentro, era che respirarci dentro era praticamente impossibile, soprattutto se si faceva qualcosa di leggermente più impegnativo che stare fermi. La sofferenza maggiore veniva dagli infiniti esercizi fisici. Anche per Gyuri, atleta dilettante professionista, era arduo. Sugli studenti abituati a una vita più sedentaria produssero gli effetti voluti da Dohányi: dolori acuti, choc, incredulità per la quantità di supplizi che il corpo riusciva ad assorbire in ventiquattrore. «Il sonno è borghese», sentenziò Dohányi prima di spedirli insieme con il sergente a sciropparsi una notte intera di manovre. Il secondo giorno quasi tutti avevano assunto un'aria atterrita, come se li stessero prendendo costantemente a pugni nello stomaco. Nei momenti di sforzo particolarmente atroce, per esempio correndo con una barella carica di ipotetici soldati feriti, Gyuri ripensava a un quadro che aveva visto poco tempo prima, dove un soldato se ne stava sdraiato comodamente in un prato a leggere pensoso, circondato da commilitoni rilassati al limite del coma. Il quadro si intitolava: Soldato che legge, circondato da commilitoni. Dohányi avrebbe sparato a chiunque si fosse fatto beccare sdraiato a pensare o a leggere. Benché Dohányi facesse del suo meglio per rendere le cose più raccapriccianti possibili, il clima, estivo in piena regola, caldo e corroborante, lo tradì. Talvolta l'afa era fastidiosa, ma d'estate la disperazione non è mai da suicidio. Le torture di Dohányi, che in un inverno freddo e fangoso sarebbero riuscite insopportabili e devastanti, in fin dei conti risultarono digeribili. L'assenza di cedimenti lo lasciò visibilmente frustrato. In piedi vicino a Bencze, l'architetto, che era crollato in mezzo a un prato sotto uno zaino carico di munizioni e, incapace di rialzarsi, annaspava nell'erba come se stesse flebilmente tentando di attraversare il prato a nuoto, Dohányi aveva gridato pieno di comprensione: «Non ne puoi più? Vuoi riposarti? Diserta, così posso farti fucilare». Continuava a consigliare inutilmente la diserzione e concludeva sempre con la battuta: «Vi faccio fucilare. Perché far perdere tempo agli imperialisti?» Gli imperialisti erano un altro classico del repertorio di Dohányi, un uomo la cui conoscenza del mondo si basava sui pochi mesi in cui era stato fuori dall'Ungheria a uccidere gente. «Gli imperialisti sono alle porte. La 124
numero tre può scoppiare da un giorno all'altro. Tre volte fortunati. Naturalmente voi stronzi, se non altro in uniforme, non farete nessuna differenza, ma non vogliamo che ve la facciate addosso nei rifugi civili spaventando la popolazione. La cosa migliore per voi è che appena comincia la guerra vi scaviate una fossa, ci saltiate dentro e vi sotterriate.» Ma dov'erano gli imperialisti americani? E quelli britannici? O magari quelli tedeschi? Erano anni e anni che si sentivano promettere imperialisti, pensò Gyuri con rabbia. A che gioco giocavano gli imperialisti? Si era preparato la frase per accogliere gli invasori americani: «Come mai ci avete messo tutto 'sto tempo? Venite, vi porto da qualche comunista interessante, che sarete certamente ansiosi di fucilare». Il campo di addestramento e l'idea stessa di campo di addestramento furono un totale spreco di tempo gentilmente inflitto dagli stessi che avevano avuto altre idee brillanti come l'economia pianificata, in cui per procurarti qualche bullone in più dovevi annaspare oltre decine di ostacoli per arrivare alla persona responsabile al Ministero, per poi scoprire che era in ferie. A parte trovare conferma alle loro supposizioni circa l'estremità del fucile da cui usciva la pallottola, i figli eroici dell'Ungheria democratica appresero soltanto un'altra cosa: un odio formativo nei confronti dell'esercito. Nel caso di Gyuri l'inutilità dell'addestramento fu doppia: sebbene lo scopo del campo fosse fare di loro altrettanti vigorosi condottieri, a lui non sarebbe stato permesso di fare carriera essendo un «nemico oggettivo di classe», per cui al massimo poteva aspirare a diventare il caporale più preparato di tutto l'esercito del Popolo. Una volta tanto le lezioni di politica furono estremamente bene accette, pur essendo noia allo stato puro. Tutti le aspettavano con ansia perché almeno lì se ne stavano seduti, non gli sbraitavano dietro e non si dovevano premunire di maschera antigas. Dohányi rimaneva in piedi in disparte, palesemente furioso per quella tregua nella sua meticolosa dieta a base di tormenti. L'ufficiale che teneva le lezioni di politica era il tenente colonnello Tibor Pataki, fatto che Gyuri era intenzionato a sfruttare per sfottere abbondantemente Pataki non appena fosse tornato a Budapest, lontano dai militari e dalla campagna, dove l'unica alternativa era fra erba ed escrementi di vario genere. Il tenente colonnello Pataki era evidentemente 125
un insegnante molto impegnato: era arrivato su una macchina con autista, fresco fresco da un altro corso. Dal tono monotono e senza esitazioni si capiva che aveva molta pratica. «Naturalmente è al generalissimo Stalin, cui dobbiamo la vita, che rendiamo omaggio, ed è il trionfo della strategia staliniana nella Grande Guerra Patriottica che prendiamo a guida ed esempio, ma è soprattutto l'edizione ungherese delle opere di Stalin, nuova arma invincibile nelle nostre mani, che ci consentirà di seguire le orme del glorioso Esercito Sovietico di Stalin», recitò tutto d'un fiato davanti a una sfocata fotografia in cornice di un ufficiale sovietico che, con fare esperto e professionale, controllava la canna del fucile portogli da un soldato di fanteria sovietico, il quale sorrideva compiaciuto e fiero della pulizia delle proprie dotazioni. La fotografia era a sinistra del tenente colonnello Pataki. Alla sua destra ce n'era un'altra, grigia, confusa, con tante piccole figure in fila che urgevano striscioni con slogan indecifrabili. La didascalia diceva: «Manifestazione pacifista, Londra». Il tenente colonnello Pataki riprese l'argomento, caro a Dohányi, del comunismo che si prepara a schiacciare sotto gli stivali le decadenti nazioni borghesi, a trafiggerle con la baionetta e a infierire girando la lama nella ferita, ma in termini molto più raffinati e noiosi, per circa un quarto d'ora, prima di intrattenersi nuovamente su Stalin, leader del Fronte di Pace. Se il tenente colonnello faceva sul serio, se credeva in quello che diceva, pensò Gyuri, c'era da piangere. E se non credeva all'immondo bolo di assurdità che spiattellava come un pappagallo o un grammofono color cachi, c'era lo stesso da piangere. C'era più da piangere in un caso o nell'altro? O forse si poteva prendere l'intera scena, con tutti quanti riuniti nella baracca a fingere di assimilare i saggi insegnamenti che il tenente colonnello fingeva di impartire, per una colossale e complicatissima presa in giro. Forse un bel mattino si sarebbero svegliati tutti, in Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia, in Germania, in Romania, in Unione Sovietica e persino in Albania, al suono delle omeriche risate di Stalin al Cremlino: «Non avrete mica pensato che facessi sul serio, vero?» Vivere attenendosi ai princìpi bolscevichi era un'idea assurda quanto quella di andare in giro con due dita ficcate nelle narici dalla mattina alla 126
sera. Almeno la Chiesa pretendeva che ci si presentasse una volta alla settimana, ma per il resto era disposta a non impicciarsi. Se il potere al popolo avesse comportato soltanto una predica di un'ora alla settimana, pensò Gyuri, avrebbe anche potuto accettarlo. Esaminando il tenente colonnello, Gyuri era propenso a classificarlo come un duro e puro, un minorato morale, un aborto etico. Questo sarebbe sicuramente passato alla storia come il risultato più duraturo e più magistrale ottenuto dal Movimento ungherese dei lavoratori: aver portato alla luce, riunito e allevato tante merde da competizione. Quante supermerde poteva produrre un paese piccolo come l'Ungheria? Centinaia? Migliaia? No, i talent scout del Partito dei lavoratori avevano scritturato centinaia di migliaia di stronzi in sembianze umane. Certo non tutti sarebbero diventati manigoldi di serie A e, chissà, magari c'era anche chi aveva aderito per sbaglio, credendo di far bene. Ma per il pubblico dei coscritti quella predica inequivocabilmente noiosa era almeno ingentilita dal contorno della distensione corporale; un buon numero di membra è di muscoli avevano avuto modo di riposarsi e, mentre uscivano in fila dalla lezione di politica, si chiesero se avrebbero avuto la fortuna di ripetere quell'esperienza. Alla fine delle quattro settimane erano tutti talmente contenti di andare via che non trovarono la forza di odiare veramente Dohányi quando rivolse loro alcune ingiurie d'addio: «Mi dispiace vedervi partire, stronzi, ora che se non altro state a malapena in piedi da soli. L'umanità ci avrebbe guadagnato se foste crepati qui, ma non credo che farete molta strada, coglioni semoventi che non siete altro. Non disturbatevi a ringraziarmi». Gyuri e pochi altri furono tentati di rivolgergli qualche oscenità ma, siccome non si può mai sapere con certezza fin dove arriva la giurisdizione militare, optarono per qualche saluto scomposto e corsero alla stazione. Tornando a Budapest Gyuri si sentì più vecchio, più vecchio, fiero di aver superato le quattro settimane senza essersi buttato in ginocchio a implorare pietà. Alla vista della città fu travolto da un torrente di entusiasmo e di gratitudine. Quando scese dal treno per parecchi secondi provò il desiderio di baciare la terra e la gioia di essere nuovamente nella capitale durò fino a Thököly ut, dove la strizzata che gli inflisse la folla sul tram gli fece perdere anche le ultime gocce di allegria. 127
Fu mentre percorreva a piedi l'ultimo tratto di Thököly lítper svoltare in Dózsa Gyorgy ut che, con la coda dell'occhio, scorse una figura in una rosticceria densamente popolata. Il suo subconscio diede una gomitata al conscio e riconobbe Pataki in coda al banco. Osservò lo spettacolo attraverso la vetrina per un po', quindi, per paura di perdersi il seguito, entrò tutto eccitato nel negozio. Pataki era lì, preso in mezzo a un sandwich di casalinghe dal fare deciso, con una borsa della spesa in mano, un grosso cesto di paglia che a Gyuri non parve far parte della dotazione ufficiale della famiglia Pataki. Pataki avvertì la presenza di Gyuri appena si avvicinò. Per una frazione di secondo ci fu un allarme generale, un impulso ad agire, un guizzo di costernazione. Se Gyuri non lo avesse conosciuto dall'età di quattro anni, quei movimenti fuggevoli e quasi esclusivamente sottocutanei sarebbero passati inosservati. Così come ci vuole un esperto qualificato per riconoscere una banconota contraffatta, ci voleva un esperto patakiano per riconoscere la sua indifferenza contraffatta, per individuare l'infinitesimale turbamento, il protone di vergogna, quasi fosse stato sorpreso in flagrante mentre tirava fuori l'arnese da un qualche erbivoro. Il motivo di tanto stupore era che Pataki non andava mai a fare la spesa. Mai. Per alcuni accessori maschili tipo vestiti e simili sì, ma allora non si trattava di entrare in un negozio, bensì di convincere qualcuno a fornirgli l'articolo richiesto mediante baratto, corruzione, ricatto o accattonaggio. Anche a un'età più malleabile, sui sei o sette anni, Pataki si era sempre cocciutamente rifiutato di andare a fare la spesa, incurante di minacce o incentivi. Pur non avendo mai dichiarato pubblicamente che si trattava di una scelta di vita, la sua decisione implicava chiaramente che entrare nei negozi era una cosa che non si fa, un'indebita appropriazione del tempo da dedicare alle gite in barca, un oltraggio alla dignità virile. Quando Gyuri era andato a ritirare il vestito dalla sarta di Angyalfòld, Pataki non aveva detto niente, ma il suo silenzio era stato eloquente: sei mio amico, quindi passerò sopra a questo attimo di deplorevole smarrimento, a questa triste debolezza. Pataki era il massimo esponente della «toccata e fuga» in amore, del «mordi e fuggi a remare». Gyuri non aveva ancora le prove nero su bianco, ma presentiva che Pataki in coda per un pezzo di formaggio fosse sintomo 128
di un suo crollo dottrinale, che il suo dongiovannismo lo avesse piegato a quei compiti muliebri. «Com'era l'esercito?» lo salutò Pataki in modo impeccabilmente casuale, come se si fossero incontrati in palestra e non al banco dei formaggi. «Ti avranno offerto un posto da generale, spero.» «È stato esattamente come ci si aspetta che sia l'esercito», disse Gyuri. Poi, incapace di trattenersi, andò dritto alla giugulare. «Fai la spesa per la mamma, eh?» «No. Bea mi ha chiesto di comprare due o tre cose per pranzo», rispose Pataki. In un certo senso fu Pataki al meglio di sé: il tono perfetto per una normalissima, comunissima coda, quasi si trattasse semplicemente di una coda in cui si parla di code e non di una resa incondizionata, del crollo irreparabile delle regole di una giovane vita. Dunque era Bea. Quando lo avevano buttato fuori dall'Istituto di ragioneria non era stata una sorpresa per nessuno. Pataki era giunto a sapere degli esami solo per caso. Passava davanti alla scuola quando era stato sopraffatto da un'incontenibile voglia di pisciare e andando al gabinetto aveva fortuitamente scoperto il calendario degli esami. Aveva supplicato Gyuri di ricordargli quali erano le materie che avrebbe dovuto studiare: si era iscritto al corso di gestione delle scorte nell'industria leggera o a quello avanzato di analisi dei costi? Era talmente indietro che anche copiare non gli sarebbe servito a nulla. Subito dopo Pataki aveva ottenuto un posto all'Accademia di arte drammatica e cinematografica. Per ironia della sorte, non lo avevano ammesso per la straordinaria performance con cui era sfuggito alle grinfie dell'esercito, che lo avevano ghermito al volo non appena l'Istituto di ragioneria lo aveva scaricato. Pataki aveva finto di avere un menisco balordo e quindi aveva dovuto camminare con una gamba rigida per sei settimane, senza un attimo di tregua, un'impresa degna di un maratoneta che aveva richiesto ferrea verosimiglianza ventiquattr'ore su ventiquattro, una recitazione drammatica priva di pause, benché, per la verità, la potenziale ferocia dei critici non autorizzati costituisse un grande incentivo a mantenere la corretta posizione da menisco difettoso. Un medico 129
compiacente assoldato da István gliene aveva tolto uno sano dal ginocchio destro e Pataki aveva ottenuto l'esonero dall'esercito. Prima ancora che il ginocchio fosse guarito del tutto, era stato ammesso all'Accademia di arte drammatica e cinematografica a studiare fotografia e quindi di nuovo esentato dal servizio militare. L'esistenza di Bea si era palesata a poco a poco, più per le assenze di Pataki che per la di lei presenza. Ma alla fine Pataki era stato sorpreso, dopo aver detto a tutti che andava a prendere dei reagenti per lo sviluppo, in coppia con Bea su una panchina con vista sul Danubio. Gyuri e Róka li avevano scoperti mentre finivano di fare il giro dell'isola Margherita di corsa. La robustezza del suo saluto, la coreografia dei suoi movimenti, la dolcezza melliflua della voce che dotava di vita propria ogni sillaba, lo slancio del portamento avrebbero tradito l'aspirante attrice che era in Bea anche senza che mostrasse la sua tessera da studentessa. Trovare Bea e Pataki insieme su quella panchina era stato alquanto sorprendente, perché la posizione ufficiale di Pataki in materia era che sedersi sulle panchine dei giardini pubblici fosse roba da sempliciotti o da falliti. «Vi dispiace se ci sediamo anche noi?» disse Gyuri accomodandosi sull'erba vicino alla panchina. Lui e Róka si incollarono a Bea e Pataki, supponendo che la cosa avrebbe intralciato, imbarazzato o infastidito l'amico, il quale al contrario si mostrò più affabile che mai, come se non ci fosse niente di più naturale e di più piacevole che starsene tutti e quattro a guardare il Danubio. «Stai mettendo qualcosa da parte per farmi un regalo, vero?» chiese Gyuri approfittando del fatto che Pataki era con le spalle al muro per ricordargli la mancata comparsa di un regalo per il suo compleanno, passato ormai da dieci giorni. Pataki ebbe un fremito, troppo breve per essere notato da chi non fosse un consumato osservatore patakiano, quindi lasciò Gyuri di stucco porgendogli un volume incartato con cura (doveva averlo incartato qualcun altro). «Lo abbiamo appena comprato», disse Pataki. Senza dubbio si riferiva al suo regalo di compleanno, ma la riluttanza con cui glielo porse fu presto spiegata. Il regalo era un libro, Scrittori ungheresi su Mátyás Rákosi, un volume pubblicato nel mese di marzo per celebrare il sessantesimo compleanno di 130
Rákosi. «Proprio quello che desideravo», disse Gyuri ricorrendo a una forma assai lieve di sarcasmo, visto che si richiedeva la minima ironia: non solo quell'antologia era inequivocabilmente una cosa per cui Gyuri non nutriva alcun interesse, ma aveva tanta voglia di portarsela a casa quanta di conficcarsi un coltello seghettato nel palmo di una mano. Pataki doveva averla comprata per sé, per aggiornarsi sulle ultime novità in campo letterario. Era una raccolta di brani di autori ungheresi di primo piano che si sarebbe potuta benissimo intitolare Leccare il culo: 35 variazioni sul tema. L'unica vera abilità letteraria dell'opera consisteva nel ridurre al minimo l'infamia e la vergogna insite nel comporre un panegirico su un orangutan calvo diventato primo ministro e primo segretario del Partito dei lavoratori. Non era difficile immaginarli comodamente seduti all'Unione degli Scrittori a dirsi l'un l'altro: «No, no, Zoli, non sono abbastanza all'altezza per offrire il mio contributo. Sono sicuro che Józsi o Laci riusciranno a buttare giù qualcosa». Bea era carina, ma non era certamente la più bella delle ragazze di Pataki, e in omaggio alla sua teatralità Gyuri lesse a voce alta la prima opera del libro, una poesia di Zoltán Zelk. Anche al meglio di sé Zelk era a dir poco terrificante. Stranamente Pataki, i cui giudizi in campo poetico di solito erano spietati, con Zelk era sempre indulgente, anche se sosteneva che si potesse insegnare a qualsiasi cane dotato di ragionevole intelligenza a comporre versi migliori di quelli di Zelk pescando parole a caso da un cappello. «Il compagno Rákosi ha sessant'anni, Non serve dire altro, Se lo metto nero su bianco Subito lo saprete Il compagno Rákosi ha sessant'anni.» Forse grazie alle inflessioni che Gyuri abilmente dava alla lettura, Róka scoppiò a ridere fino alle lacrime. Riuscita a controllare l'ilarità, la sua musa gli fece dono della strofa seguente: «Il compagno Rákosi è una testa
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di cazzo, non serve dire altro, se lo metto nero su bianco subito lo saprete, il compagno Rákosi è una testa di cazzo». «Oh, sei ingiusto», lo rimproverò gentilmente Bea. «Rákosi è un buon diavolo, è perché c'è lui che mi sono iscritta al Partito.» Fu come buttare benzina sul fuoco. Piegati in due sull'erba, Gyuri e Róka risero tanto da sentirsi male, con grande stupore di Bea che non intendeva farli ridere, dato che parlava sul serio. Pataki riuscì a salvare la situazione svignandosela prima che qualcuno si offendesse. «Noi andiamo al cinema. Sarà meglio che ci muoviamo.» Lui e Bea si avviarono tranquillamente verso la fermata dell'autobus. Tuttavia, prima di congedarsi Bea tenne a chiarire che la sua ammirazione per Rákosi era sincera. «Ha fatto un gran bene a questo paese.» Róka rimase seriamente scioccato: sebbene non facesse discriminazioni di sorta nell'aiutare le donne a raggiungere l'orgasmo, alla sua generosità si accompagnavano granitici princìpi morali che gli impedivano qualsiasi tipo di rapporto con il Partito. A Gyuri Bea parve piuttosto una che non aveva riflettuto molto su Rákosi & Co., una che non aveva riflettuto molto su nulla. Per lei il Partito voleva dire occasioni mondane, incontri, canzoni, discorsi, copioni. «Che cosa crede di fare?» continuava a chiedere Róka con toni retorici. «Non ti sembra l'ora che il Partito gli mostri la sua faccia migliore?» ribatté Gyuri sfogliando l'omaggio a Rákoi e chiedendosi se avrebbe trovato qualcuno tanto stupidi da accettare un baratto. C'era un solo tesserato in buona fede nel Locomotive, Peter, un ragazzo di campagna che veniva da Kecskemét ed era ottusamente favorevole al nuovo ordine, come poteva esserlo solo chi era stato salvato da una regione in cui l'evento più sensazionale era la pigra emissione di ossigeno da parte della vegetazione locale. Peter non faceva altro che frequentare corsi e sprizzava ottimismo ed entusiasmo socialista per la vita da tutti i pori. Sarebbe stato l'ideale per una di quelle foto di giovani ungheresi che osservano con un misto di trasporto e di orgoglio gli ultimi progressi compiuti dal potere popolare. Inoltre Peter non si separava mai da libri come Stalin: una breve biografia («mai abbastanza breve», commentavano gli altri) e nei momenti liberi li studiava lentamente, sottolineando i brani che gli sembravano ricchi di particolare significato. Che Peter fosse disposto a barattare qualche genere 132
squisitamente appetitoso mandatogli dai suoi premurosi familiari con quell'importante opera letteraria? «Ma che cosa crede di fare?» insistette Róka. Lo stupore di Róka sarebbe stato, se possibile, ancora più grande se avesse saputo che il padre di Pataki, un ragioniere che aveva preso la strada della socialdemocrazia, aveva passato il 1951 legato in un sotterraneo dell'AVO. Il padre di Pataki lo aveva detto soltanto al figlio e questi lo aveva detto soltanto a Gyuri. In gennaio Gáspár era stato prelevato come da copione e invitato a recarsi in Andrássy ut per testimoniare. Aveva cominciato a sospettare qualcosa quando lo avevano legato dalle spalle alle caviglie in una specie di camicia di forza integrale fatta di corda, in un bozzolo di canapa, e depositato in uno scantinato buio dove era rimasto per circa una settimana. Dopo di che lo avevano slegato in una stanza per interrogatori e gli avevano dato un pugno in faccia intimando: «Confessa qualcosa. Sorprendici. Intrattienici». Gáspár non aveva potuto fare altro che dire che doveva esserci un equivoco ed emettere qualche lamento quando avevano cercato di convincerlo a parlare a suon di pugni. Sentenziando «Chi ha arrestato questo insulso bastardo?» lo avevano buttato di nuovo nello scantinato, dove era rimasto fino alla fine dell'anno. Per mangiare era costretto a mettere la faccia nella gavetta che di tanto in tanto qualcuno introduceva nella cella. Si sentiva come una busta fra la corrispondenza in arrivo, che aspetta di essere aperta. Da fuori gli giungevano ogni tanto stralci di conversazione: «Non ti serve un socialdemocratico, Jenö?» «Cosa credi, di essere nel 1950?» «Che ne diresti di un ragioniere?» «A me non serve proprio. Hai esagerato di nuovo? Ricorda quello che diceva Belkin, non arrestarne mai più di quanti te ne servano, se no sono grane e scartoffie». Ogni cinque o sei settimane lo portavano a lavarsi. Una volta aveva fatto la doccia insieme a uno che assomigliava in modo impressionante a János Kádár, l'ex ministro degli Interni comunista. Aveva anche la stessa voce di Kádár. «Quanto potrà durare ancora?» aveva detto il sosia di Kádár. In quelle circostanze Gáspár non era riuscito a trovare niente da dire.
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Finalmente poco prima di Natale nello scantinato era entrato uno che lo aveva slegato e gli aveva detto: «Togliti dalle balle! Abbiamo bisogno di questa cella». Per sua fortuna fuori stava passando uno dei cinque taxi di Budapest («Lavoro soprattutto in questa zona», gli aveva spiegato l'autista), perché il tragitto dallo scantinato alla strada gli aveva già mandato i muscoli in bancarotta. Gáspár, che non era mai stato un tipo particolarmente estroverso, era diventato ancora più schiavo della poltrona di Elek, schiacciato dalla sofferenza fisica, dalla vergogna della prigionia e in più dall'umiliazione ulteriore di essere stato giudicato troppo insulso per essere inserito in un complotto. Agli amici Pataki aveva presentato la relazione con Bea con una sbruffonata: «Il Partito mi ha fottuto e io mi fotto il Partito», ma adesso, in coda insieme a lui per tre deca di formaggio Anikó, Gyuri si rese conto che era la fine. Da una parte, avrebbe voluto avere con sé il proprio diario per scriverci denigrazioni, prese in giro e punzecchiamenti che sarebbero bastati per mesi. Sorprendere Pataki con la borsa della spesa in mano significava avere scoperto una vena di comicità praticamente illimitata, dall'epigramma al poema epico. «Passavo per Thököly ut e...» D'altra parte, però, Gyuri era addolorato. Pataki era una figura eroica nella battaglia dei sessi: invincibile, indomito, immune ai colpi che mandavano gli altri al tappeto. Ed ecco che il più grande dei grandi era caduto, con una borsa della spesa in mano. Pataki era diventato mortale. Lungo le pareti del negozio erano allineati enormi barattoli di cetriolini che spadroneggiavano di fronte a piccoli barattoli di conserva di albicocche. Tutte le superfici libere della bottega erano occupate da barattoli riempiti fino all'orlo. Era l'unica cosa che si trovasse in tutta l'Ungheria, in tutti i negozi come quello: cetrioli sottaceto e conserva di albicocche. Se a uno i cetrioli sottaceto e la conserva di albicocche piacevano molto, l'Ungheria era il paese giusto. Una tale abbondanza di cetrioli sottaceto e conserva di albicocche era già qualcosa, pensò Gyuri, visti gli esordi dell'Ungheria nella seconda metà del XX secolo. Era quello il genere di stagnazione organica, di stasi in bella vista, di obbedienza sottovetro che avrebbero voluto dai cittadini, immagazzinati nelle loro case come prodotti che non richiedono cure, impassibili di fronte 134
alla lentezza della rete di distribuzione, docili su uno scaffale finché non c'è bisogno di loro.
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Luglio 1954 Infuriato per l'ingiustizia di un regime che voleva fare di lui un ragioniere, Gyuri andò alla sua lezione di inglese. Makkai abitava in una traversa di Úllói ut e, cosa inusuale per essere uno che Gyuri frequentava regolarmente, solo al secondo piano. Non aveva una casa spaziosa, ma in qualità di diplomatico d'anteguerra e attuale borghese impenitente, Makkai ospitava in maniera permanente, legale e forzata un figlio della terra, che lavorava sodo per la pace internazionale e studiava alla scuola del Partito. Makkai di solito dava la stura alle lamentazioni non appena apriva la porta a Gyuri, inveendo contro il pensionante mentre lo faceva accomodare. «Non mi importa che sia comunista. Non mi importa che mi lasci i discorsi di Rákosi sparsi dappertutto. Non mi importa che sia un balordo imbecille - dopo tutto è sempre meglio non giudicare il prossimo - quello che mi urta è che puzza. È imperdonabile, imperdonabile. In tempo di guerra ci era capitato per casa un ufficiale delle SS, massacratore, torturatore di bambini e reo di chissà cos'altro. Lo sopportavo, mentre questo no. E non credere che esageri. Non si tratta di quella sporcizia da "stamattina non ho avuto tempo di lavarmi", assolutamente no. È il sentore inconfondibile di chi non ha nemmeno un ricordo d'infanzia del sapone, un odore che si taglia con il coltello. «Ho provato a fare qualche allusione, tipo elogi quotidiani dell'acqua corrente, asciugamani puliti in punti strategici della sua stanza, resoconti dettagliati di quanto mi è costato acquistare e installare una nuova doccia. Mi sono perfino inventato falsi articoli di giornale secondo cui lavarsi regolarmente può allungare di vent'anni l'aspettativa di vita, oppure secondo cui il compagno Rákosi ha sottolineato quanto è importante che i bravi comunisti si lavino le ascelle, con lo slogan "Pulito è sinonimo di sovietico". Niente. Gli ho persino regalato due lussuose saponette il primo maggio.»
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Makkai sembrava un tantino indiscreto per uno costretto a coabitare con un quadro di partito, o forse si teneva tutta l'indiscrezione per Gyuri. L'anno precedente, alla morte di Stalin, uscendo dall'Istituto di ragioneria Gyuri aveva sorpreso la compagna Kompán in ginocchio davanti al busto di Stalin nell'atrio, scossa da singhiozzi incontrollabili, come accade a chi ha perso un parente stretto. Quando Gyuri si era iscritto all'istituto, era stata abbastanza gentile e, dal momento che era un «nemico oggettivo di classe», gli aveva detto: «Ti terrò d'occhio, Fischer. Dovrai impegnarti il doppio degli altri, per rimediare alle tue origini». Non l'aveva detto con malignità o prepotenza, ma in tono incoraggiante, indulgente, esprimendo ciò che qualsiasi funzionario del Partito avrebbe pensato dopo aver letto il dossier che seguiva Gyuri dappertutto, le sue credenziali morali. La compagna Kompán era così affranta che Gyuri aveva pensato di consolarla per cortesia, ma poi aveva deciso che non sarebbe servito e se n'era andato a lezione di inglese. Quando arrivò a casa di Makkai, lo trovò che ballava sul tavolo: svelò a Gyuri che erano quarant'anni che non lo faceva e per questo era fuori allenamento. Andò in di,pensa a prendere una bottiglia di champagne. «Purtroppo è sovietico: l'ho tenuto in fresco per anni, per essere sempre pronto a festeggiare.» La lezione quel giorno consistette in brindisi al per nulla compianto Iosif Visarionovic e in una serie di epiteti selezionati tra i più infanganti. «Beato te che sei giovane. Non può più durare a lungo, ormai», dichiarò Makkai. «Avrai la possibilità di andare in pellegrinaggio a urinare sulla tomba di Stalin, anche se quando arriverà il tuo turno forse sarai già vecchio.» Era la prima volta che lo vedeva sorridere: in quattro anni di lezioni private l'afflitto Makkai non aveva mai dato segno di apprezzare alcunché. Gyuri credeva di conoscerlo bene: vedovo senza figli, tetro studioso la cui erudizione, lungi dal procurargli stima, ricchezze o almeno un posto sicuro, era diventata un handicap, come fosse incatenato alla carcassa in decomposizione di un elefante. Quel sorriso lasciò intravedere a Gyuri interi settori di Makkai a lui sconosciuti, come quando si gira un vaso polveroso in cima a una credenza e si scopre che dietro c'è un disegno mai visto. Quando sentì alla radio la notizia della morte di Stalin, Gyuri si stava lavando i capelli. A parte la sensazione di intenso benessere che lo pervase, 137
la prima cosa che gli venne in mente fu se l'intero sistema sarebbe crollato prima che lui sostenesse l'esame di marxismo-leninismo che doveva dare la settimana successiva. Poteva contare sulla caduta del comunismo o doveva proprio mettersi a studiare Marx? La seconda fu come meglio mancare di rispetto nei dieci minuti di silenzio decretati per il giorno seguente. Quando in seguito vide al cinema il filmato sulla città di Budapest che rendeva omaggio alla memoria di Stalin interrompendo ogni attività, gli operai con la faccia scura immobili sul ciglio della strada, i ferrovieri con la faccia ancora più scura che facevano fischiare le locomotive, folle di persone vestite di nero che si accalcavano verso l'enorme statua di Stalin in piazza Hósök, quando vide tutto ciò, Gyuri rimpianse di non essere riuscito a invitare una troupe di cameraman a casa sua perché immortalasse l'unica parte di lui che stava sull'attenti, infilata e sfilata ritmicamente dentro e fuori una sua ex ormai sposata, ma sempre disponibile a tuffi nel passato. Gyuri guardò il cinegiornale diverse volte perché in un'inquadratura della folla intorno alla statua di Stalin si vedeva, microscopica, la finestra della sua camera da letto e questo gli permetteva, con un po' d'immaginazione, di rivivere le gioie del suo lutto, che le telecamere avevano soltanto sfiorato. Ma la morte di Stalin, sebbene l'avesse fatto quasi impazzire di gioia, non aveva cambiato molto le cose. Rákosi aveva abbassato un po' la cresta e Nagy era diventato primo ministro. Gyuri aveva sentito dire che certi detenuti erano stati liberati, ma dal punto di vista monumentale Stalin resisteva. La statua di bronzo alta otto metri, eretta sulle rovine di una chiesa demolita al termine della guerra, era la prima cosa che si vedeva dalla finestra della camera da letto di Gyuri, che lo considerava un affronto fallico del destino nei suoi confronti. Nagy naturalmente era diverso da Rákosi. Aveva i baffi, Rákosi invece no. Inoltre Nagy aveva ancora qualche capello. Ma la statua di Stalin era ancora lì a sodomizzare il panorama di Budapest, spogliando delle ultime tracce di dignità una capitale che doveva ancora riprendersi dalla sbornia del dopoguerra. Quella sera Makkai gli aprì prima ancora che avesse suonato il campanello. «Tre a due per i tedeschi», dichiarò. «Devono averla 138
comprata.» Distrutto dalla contabilità, incattivito e frustrato dal corso di ragioneria, intontito dalla noia, Gyuri non si era interessato della finale di Coppa del Mondo che aveva monopolizzato l'attenzione di tutti: Ungheria Germania Ovest. Non era certo dell'umore giusto per una lezione d'inglese, ma siccome Makkai non aveva il telefono e non sapeva come annullarla, si era presentato per non offendere Makkai, che era un esperto conoscitore del galateo e amava dare lezioni di lingua. Makkai non prendeva molto per due ore di lezione, anche se per Gyuri era comunque un sacrificio. Aveva l'impressione che non insegnasse per soldi (sebbene certamente gli facessero comodo) quanto per attirare in casa sua un certo pubblico e per essere preso sul serio per un po'. Per strada era un pensionato come gli altri, una vecchia scoreggia senza posizione, senza polso, senza lavoro, senza soldi, mentre in cattedra era un abile gestore di tesori intellettuali. Quelle infusioni di stima erano vitali per Makkai, che ringiovaniva di qualche anno parlando di sintassi e pronuncia inglese e della vita in Inghilterra, dove aveva lavorato all'ambasciata ungherese. «Un palazzo meraviglioso. Non avremmo potuto permettercelo, ma era un'eredità degli Asburgo. Noi abbiamo preso l'antico palazzo degli Asburgo a Londra, gli austriaci quello di Parigi e i cechi hanno fatto i salti di gioia per quello di Berlino. Così imparano.» Gyuri si sedette e aspettò Pataki, che improvvisamente aveva deciso di mettersi a imparare l'inglese anche lui. Pataki aveva anche deciso che il modo migliore per farlo era assistere alle lezioni di Gyuri. Questi gli aveva fatto notare che ormai era molto più avanti di lui, ma Pataki non si era lasciato scoraggiare e gli aveva assicurato che si sarebbe messo presto al passo. «Tre a due», ripeté Makkai, sbigottito di fronte al risultato della partita di calcio, ammutolito come ogni altro ungherese a parte Gyuri, che era troppo preso dalle proprie disgrazie contabili. Insieme con il resto della squadra, Puskás, l'uomo dalle gambe inarrestabili e dai piedi d'oro, era l'unico depositario dell'orgoglio nazionale. In termini contabili l'Ungheria aveva solo una cosa a suo credito: il genio del calcio, Puskás. Tarchiato, grassoccio, a vederlo faceva ridere i polli (stava alla larga dagli allenamenti forse ancora più di Pataki) ma sul campo vedeva quel che a tutti gli altri sfuggiva e finiva invariabilmente per mettere la palla in rete. Anche gli altri 139
giocatori erano in gamba, ma Puskás era il piccolo gigante della squadra. Avevano persino annientato l'Inghilterra per cinque a uno per cui tutti erano sicuri che avrebbero battuto i tedeschi in finale. «L'hanno comprata, sicuro. I tedeschi avranno tirato fuori una bella cifra. Avranno offerto un prestito al governo o chissà che cosa. Li devono avere obbligati a perdere», diceva Makkai. La lezione sarebbe dovuta iniziare già da cinque minuti, ma di Pataki non c'era ancora la minima traccia. Makkai decise di concedersi una tazza di caffè brasiliano, che gli faceva arrivare a Budapest un cugino che viveva a Colonia. «Sono stato fortunato: questa volta alla dogana me ne hanno fregato solo metà. Di solito scompare tutto il pacchetto», commentò Makkai. «Ma forse sono ingiusto nei confronti dei doganieri, potrebbe essere stato il postino. » Il compito rifiuto di Gyuri resistette solo fino alla seconda offerta. Le lezioni di inglese andavano bene. Gyuri aveva raggiunto il livello in cui poteva aprire coraggiosamente qualsiasi libro senza che le pagine avessero segreti per lui. A volle trovava punti oscuri, attimi di confusione, ma in genere il grosso del significato riusciva ad afferrarlo. Ne era molto contento, perché, in fondo in fondo, aveva studiato saltuariamente e di sera, quando spesso era stanco morto per via della pallacanestro. Il fascino più grande dell'inglese era che lo parlavano esclusivamente dei bastardi imperialisti decadenti, gentaglia come i grassi capitalisti di Wall Street i) i loro complici costruttori dell'impero britannico. Il bello era che l'inglese non era obbligatorio come il russo e che non era facile studiarlo in quanto considerato fiacco, infamante e antigienico, a differenza dei testi cirillici robusti e purificatori. Gyuri aveva dato diversi esami di russo, che consistevano nell'imparare a memoria frasi come «Compagno, sono arrivati i delegati del Sindacato dei lavoratori siderurgici?» oppure «Come va oggi l'egemonia del proletariato?». Per passare praticamente bastava infarcire temi e conversazioni di un buon numero di «compagno». Gyuri era fiero di avere preso i voti più bassi possibile e di avere già dimenticato tutte quelle nozioni, crollate come un castello di carte appena messo piede fuori dell'aula.
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Si era cimentato con il suo inglese una sola volta, in occasione di una visita dell'allenatore della squadra di basket dell'Università di Manchester. Gyuri aveva avuto l'incarico di fare da tramite fra l'ospite e i padroni di casa. Aveva scoperto con orrore di non capire neanche una parola, neanche una sillaba di quel che diceva costui, tanto che aveva preso da parte il rappresentante del Ministero per accertarsi che l'uomo parlasse effettivamente inglese. «Credo», si era sentito rispondere. «È scozzese.» Gyuri aveva finito per doversi inventare domande e risposte lunghe più o meno quanto le frasi pronunciate dallo scozzese. Erano rimasti tutti soddisfatti. «Ecco», gli disse Makkai porgendogli il caffè, tanto caffeinato che si sentiva a cinque passi di distanza, scuro e profumato d'estero. Brasile, pensò Gyuri assaggiandolo: caffè, spiagge, fascisti ungheresi in quantità. A parte questi ultimi, come destinazione il Brasile non sarebbe stato male. Pataki, che non aveva mai dato troppo peso al tempo e al suo scorrere, non era ancora arrivato. Anche sovietizzato al punto da portare dodici orologi al polso, non sarebbe comunque riuscito ad arrivare puntuale. La sua mancanza di sincronismo con il resto del mondo si era aggravata da quando Bea lo aveva piantato. Pataki non lo aveva mai ammesso, non riconosceva che Bea lo aveva scaricato, mollato da grande altezza, ma l'inizio della sua relazione con uno degli attori più affermati, più influenti e più pagati d'Ungheria era coinciso con tre giorni in cui Pataki non si era alzato da letto, incapace di trovare il coraggio di lavarsi i denti o di affrontare un tête-à-tête con Elek. «Dai», lo aveva esortato Gyuri quando era a contatto con il letto ormai da quarantotto ore, «tirati su e andiamo a remare.» Pataki si era voltato dall'altra parte per impedire a Gyuri di intaccargli l'umor nero. «Francamente, non vedo motivo per rimanere lucidi. Non ne vale la pena», aveva replicato. «Comportati da uomo», aveva insistito Gyuri, «pensa alle facciate che ho preso io.» «Sì, ma tu ci sei abituato» era stata la risposta. Neppure Hepp era riuscito a persuadere Pataki a mettersi in posizione verticale. Il terzo giorno però si alzò e Gyuri lo vide saltellare per la strada
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con un pallone da pallacanestro e l'aria di andare di fretta. «Che cosa è successo?» gli aveva domandato. «Ho un'erezione.» Pataki entrò con venti minuti di ritardo dichiarando: «Tre a due per i tedeschi. Devono averla comprata». Pataki e Makkai si scambiarono commenti indignati sull'infamia e la turpitudine di quegli anni, infastidendo non poco Gyuri. Tuttavia, una volta iniziata la lezione, Gyuri riacquistò il proprio equilibrio e ci prese gusto a vedere Pataki assolutamente disorientato di fronte a una lingua di cui non capiva nemmeno una parola, con Makkai che passava ancora una volta in rassegna il vocabolario olfattivo dell'inglese snocciolando trenta aggettivi per descrivere la natura miasmatica degli anfratti corporei del suo pensionante. Gyuri si rese conto che Pataki avrebbe lasciato perdere. Nel congedarli, Makkai tornò sull'argomento pensionante. «Frequenta un corso triennale alla scuola del Partito. Tre anni! Ma quanto ci vuole per imparare a dire "Sì, compagno"?» Insistette per mostrare a Pataki la camera dello sgradito ospite, a ulteriore dimostrazione della potenza dell'olezzo. «Che cosa posso fare? Sapete dove posso comprare del vetro tritato fine?» «Perché non scrive ad Andrássy ut?» suggerì Pataki. «Potrebbe riferire di averlo visto aggirarsi in prossimità dell'ambasciata americana con un paio di baffi finti. Se ci riesce, gli infili anche due dollari sotto il cuscino e il gioco è fatto.» Makkai stava per mettersi a ridere, poi si rese conto che Pataki non scherzava e fece un cenno del capo che si poteva prestare a diverse interpretazioni. Anche se sul tram non c'era nessuno a parte Gyuri e Pataki, era pur sempre un luogo inequivocabilmente pubblico quello in cui Pataki estrasse dalla borsa da viaggio in cui teneva le sue apparecchiature fotografiche una cartellina piuttosto sottile e la porse a Gyuri. «È il tuo regalo di compleanno, in ritardo», spiegò. Sulla cartellina c'era la sigla AVH, ultima versione della denominazione AVO, e sotto, a caratteri più piccoli, la dicitura «strettamente riservato». Dentro c'era l'incartamento di Gyuri, il dossier del Ministero degli Interni, con tanto di profilo e giudizio civile e ideologico. C'erano data di nascita e 142
nome, ma la data di nascita era sbagliata e uno dei nomi era scritto male. Con grafia ornata e inchiostro blu qualcuno aveva annotato soltanto «Niente da segnalare». Era il commento più offensivo che avesse mai ricevuto, che batteva di gran lunga le osservazioni caustiche degli insegnanti. Lo stato di polizia non lo considerava un elemento da sorvegliare, non lo riteneva abbastanza interessante da meritare ulteriore attenzione. «Dove l'hai preso?» domandò Gyuri sentendosi decisamente a disagio con un simile documento del Ministero degli Interni per le mani. «Me l'ha dato Ágnes, la cantante della polizia segreta. Se si sa a chi chiedere e come chiedere, si ottiene tutto.» Gyuri sapeva, sia pur avendo solo una conoscenza approssimativa delle ragazze che si avvicendavano a ritmi sostenuti nella camera da letto di Pataki, che aveva avuto una relazione con una dattilografa dell'AVO, la quale per giunta cantava nel coro femminile dell'AVO, che allietava l'ambasciatore sovietico nelle grandi occasioni. Era la ragazza più rossa che avesse mai avuto e frequentava un corso serale di sceneggiatura all'Accademia di arte drammatica e cinematografica «per vivacizzare le confessioni», secondo quel che diceva Pataki. «Non avevano molto da dire sul mio conto», dichiarò Gyuri. «Ammettiamolo: non si entra nell'AVO se si ha voglia di lavorare. Dovresti vedere il mio, comunque», disse Palala tirando fuori una cartella spessa come un'enciclopedia. «Non avrei mai immaginato che avessero tante collaboratrici, compresa quella caldissima spazzacamino che ho brevemente frequentato nel '49. Non ho ancora finito di leggerlo», disse poi sfogliando il plico. «Ma di sicuro ce una spia nel Locomotive.» Si infilò una mano in tasca e ne estrasse una tessera. «In ogni caso, grazie ad Ágnes, sono preparato.» Mostrò un tesserino di riconoscimento dell'AVO, con su la sua foto e il suo nome. La sorpresa di Gyuri aveva appena iniziato il lungo viaggio verso la superficie quando, dal tram che sferragliava in Muzeum Kórut, videro e sentirono una gran folla che si agitava dalle parti di Bródy Sándor utca. «Non sarà mica il compleanno della mamma di Lenin?» domandò Pataki,
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per quanto il raduno avesse un che di insolitamente poco ufficiale. Scesero dal tram per andare a dare un'occhiata da vicino. Intorno alla sede della Radio ungherese c'erano centinaia di persone. Fu subito chiaro che l'assembramento era dovuto alla delusione per il risultato della finale della Coppa del Mondo. Ogni tanto esplodevano slogan scanditi «Vogliamo giustizia!» e «Truffa, truffa, truffa!». Più che altro, Gyuri rimase scioccato da quella presa di posizione pubblica: non ne vedeva da anni, dalle elezioni del '45. «Andiamo a vedere da vicino», propose Pataki facendosi largo. La folla sembrava sul punto di travolgere il cordone di AVO armati e dall'aria infelice all'ingresso della Radio. Pataki era ansioso di arrivare al fronte d'urto e, nonostante le riserve di Gyuri, il moto della folla li spingeva sempre più vicino agli irascibili armigeri che difendevano l'autorità dello Stato. A rendere più acuto lo sconforto di Gyuri, proprio in quel momento l'ufficiale in comando stava per perdere la pazienza. Gyuri non capiva che cosa volesse la gente. Non era chiaro se considerassero la radio più tangibilmente rappresentativa del potere rispetto al parlamento e quindi preferissero sfogarsi con quella, o se volessero trasmettere un comunicato. Forse ce l'avevano con il commento della partita. L'ufficiale al comando del contingente AVO continuava a ripetere ad alta voce: «Per l'ultima volta, state indietro e tornatevene a casa». «Per l'ultima volta, fatti i cazzi tuoi», gridò uno accanto a Gyuri. La folla era furibonda e sorprendentemente sicura di sé, tenuto conto del fatto che, mentre loro non avevano che la collera, gli AVO avevano il fucile ed erano notoriamente capaci di sparare sulla gente. L'ufficiale continuava a ordinare alla folla di disperdersi e quelli che non gli stavano immediatamente davanti, ma riuscivano a farsi sentire, continuavano a dirgli di farsi i cazzi suoi. Anche Gyuri, trascinato dall'entusiasmo, snocciolò una buona dose di contumelie, visto che sembrava la cosa giusta da fare. Gli AVO avanzarono e la folla non arretrò. Tre AVO caddero a terra e si udì un urlo di giubilo «L'ho preso in pieno nelle palle». Un sasso mandò in frantumi una finestra del palazzo della Radio.
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A quel punto spararono in aria. Il divertimento era finito. Gyuri, come molti altri, decise che morire sarebbe stata una reazione spropositata alla papera del portiere ungherese. Si mise a correre più forte che poteva nello spazio millimetrico lasciatogli da chi aveva davanti. Gli AVO incalzavano con il calcio del fucile. Per sgomberare la strada ci volle un po', ma tutti ormai scappavano a rotta di collo. Gyuri, la cui attenzione era stata concentrata esclusivamente sulla necessità di levare al più presto le tende, scoprì che Pataki era scomparso. Non lo preoccupò il pensiero che fosse fra quelli stesi sull'asfalto impegnato a tenersi insieme la testa con le mani. Pensò piuttosto che avesse legato con qualche avvenente contestatrice. Tornato a casa, trovò Elek che ascoltava alla radio i commenti sulle imprese vandaliche dei teppisti scatenati per le strade di Budapest. Era bello essere famosi. «Stasera ho imparato una cosa interessante», confidò a Elek. «Agli ungheresi della dittatura importa poco, ma perdere una partita di calcio sì che li manda in bestia.»
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Novembre 1955 L'uomo russava, russava così forte, così fragorosamente che sarebbe stato troppo anche per uno sorretto da una dose infinita di tolleranza. Gyuri e gli altri passeggeri, dotati soltanto di una normale indulgenza, sentirono la propria sopportazione schiacciarsi come un afide sotto una mazza. Aveva l'aria di un meccanico, un che di umile e di civile. Le penne nel taschino della camicia testimoniavano un'istruzione e una cultura rudimentali e l'abilità con cui si soffiava il naso con la mano destra e con un solo gesto riusciva a proiettare il muco fuori dal finestrino aperto testimoniava lunghi periodi di cantiere. Era salito sul treno a Budapest e aveva sistemato le sue misere cose sulla reticella, si era seduto in uno dei posti vicino alla porta, aveva appoggiato la testa al vetro e si era addormentato, all'istante, senza preamboli. Nel giro di pochi secondi aveva cominciato a russare. Come se venisse da una grande distanza, dapprima leggero, quel suono era cresciuto costantemente fino a diventare un frastuono portentoso che eruttava dalla bocca spalancata dell'uomo. Gli altri si erano guardati, prima con una sorta di tacito divertimento, poi con stupore e infine con aperta irritazione. La cosa strana della gente che si comportava male, che lasciava traboccare sugli altri la propria villania, osservò Gyuri fra sé, era che di solito rimanevano più imbarazzate le vittime che i colpevoli. Il volume della russata era fenomenale. Un leggero raspare intermittente sarebbe stato sopportabile, ma i polmoni del meccanico tempestavano i timpani dei compagni di viaggio senza pietà. Inoltre, a dire il vero, era quanto mai sgradevole essere messi a parte del lavorio interno di un meccanico corpulento, assistere in prima fila allo spettacolo delle sue vicissitudini respiratorie. C'erano sporadici momenti di calma che producevano un ottimistico senso di sollievo, di speranza che l'assedio uditivo fosse stato levato, ma quegli intervalli di silenzio servivano solo ad affilare le armi per un nuovo assalto più serrato e agguerrito. Gyuri, dalla parte opposta dello scompartimento, non aveva modo di impedire all'uomo di russare, ma quelli che erano seduti più vicino 146
cercarono di abbassare il volume. Colpi di tosse discreti seguiti da colpi di tosse meno discreti, urla, spinte e spintoni non riuscirono a fargli perdere nemmeno un colpo. La donna con il fazzoletto in testa cominciò a schioccare forte la lingua, come si fa per imitare il verso delle galline. Il ronfare vacillò e scomparve sopraffatto dal chiocciare. «Con mio marito funziona sempre», proclamò orgogliosa, ma il russare ne approfittò per ripartire a piena andatura sulla corsia di sorpasso. L'uomo che gli stava seduto di fronte provò a passare una potente salsiccia all'aglio sotto il naso del dormiente. Nulla da fare. Il meccanico continuò a russare beatamente. Quel letargo imperturbabile, quel sonno senza sforzo suscitarono l'ammirazione di Gyuri, oltre che la sua irritazione. Lui sul treno non era mai riuscito a dormire, al massimo cadeva in un confuso stato di ebetudine ancora peggiore della stanchezza. Lo sbandieratore di salsicce si andava facendo nervoso e aggressivo nei confronti di quel tanghero avvinghiato alle braccia di Morfeo, del tutto indifferente alle suppliche e alle angherie di cui era oggetto. Se non fosse stato per l'eclatante va e vieni dell'aria, l'assenza di reazioni da parli del dormiente sarebbe stata piuttosto preoccupante, tanto restio era il suo corpo a fare il proprio dovere e trasmettere i reclami a chi di competenza. «Mio caro signore», disse l'occhialuto protestatore dando un altro spintone al meccanico, «lei russa piuttosto Forte.» Per sfuggire al rombo di tuono palatale Gyuri uscì dallo scompartimento. Che dono riuscire a dormire in quel modo, pensò. Che piacere dormire per risvegliarsi soltanto a cose cambiate. Uno degli aspetti peggiori era quello: la noia. La dittatura del proletariato, a parte l'asprezza e la brutalità del suo dispotismo, era terribilmente noiosa. Non era il genere di tirannide da invitare a una festa, non reggeva il confronto con le grandi tirannidi del passato, di Caligola, oppure di Nerone. Quelle sì che erano tirannie, con eccessi, colore, grande abbondanza di fornicazione, direzione artistica, eccitazione sfrenata, panem et circenses. E a noi che cosa è toccato? rimuginò Gyuri. Panem quasi niente e, quanto ai circenses, solo quelli in cui dei tizi con una palla rossa al posto del naso corrono intorno a una pista piena di segatura.
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Non solo doveva toccarmi una dittatura, pensò furioso, ma per giunta una dittatura abborracciata, di terza categoria, una dittatura noiosa. Potevo starmene a Budapest e andare a vedere il Boris Godunov, pensò. Lo aveva visto solo quattro volte. Un altro trionfo, per certi versi non molto sbandierato, del nuovo ordine era che si poteva sempre andare a vedere il Boris Godunov quando si voleva. Dopo tutto, la scelta fra le opere liriche russe non era molto vasta. Róka era invischiato con una cantante, aveva maturato una passione insaziabile per l'opera e aveva invitato Gyuri a vedere la sua fidanzata in azione. Era divertente vedere i poliziotti e i metalmeccanici stipati nelle prime file dell'auditorium, che ne avessero voglia o no. (A Ganz i tornitori tiravano a sorte per assegnare i biglietti che distribuiva loro il segretario del Partito, perché molti preferivano fare un turno di lavoro in più piuttosto che sorbirsi la musica.) Gyuri aveva fatto atto di presenza al Boris Godunov il mese prima, così aveva deciso di andare a Szeged per indagare sulla festa di cui Sólyom-Nagy si era fatto promotore. Nello scompartimento accanto una bellissima ragazza parlava animatamente con un'amica con il piglio di chi sa di essere bella. Chi ha bella presenza, una buona dose di fascino, se la cava sempre: è il salvagente che tiene a galla. Sadicamente la ragazza si passava la lingua sulle labbra e dondolava energicamente la gamba sinistra incrociata sulla destra, a un ritmo e in un modo tale che anche a uno senza la mente monomaniaca di Gyuri avrebbe ricordato il movimento sulla monorotaia. Perché, si rammaricò Gyuri, le belle ragazze non si siedono mai nel mio scompartimento? Perché mi ritrovo sempre con qualche balordo che russa? Ma tornando al suo posto ammise a se stesso - perché ormai si conosceva che se la bella si fosse seduta nel suo scompartimento non sarebbe stato capace di predisporre nessuno degli indispensabili rampini da conversazione, oppure non avrebbe avuto il coraggio di usarli. Dopo aver cercato invano di far smettere di dormire così rumorosamente il tanghero il passeggero, disperato, abbandonò la tattica di lanciare educati promemoria al sistema nervoso del russatore. Gli sistemò opportunamente la mano nel vano della porta scorrevole, quindi la sbatté con tutte le sue forze nella speranza di ghigliottinargli le dita. L'uomo si
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svegliò, ma emise soltanto un leggero grugnito di sorpresa, come se lo avessero inavvertitamente sfiorato. «Mi scusi», disse quello che aveva sbattuto la porta. «Temo di averle schiacciato le dita.» Il legittimo proprietario delle dita schiacciate non pareva per nulla infastidito. Si mise a svolgere un foglio di carta grande come un lenzuolo contenente tre ali di pollo fritto bisunte e se le mangiò con tanto gusto e tanto rumore che tutti ebbero la sensazione di assistere alla masticazione appollaiati su un molare. Il sollievo generale, quando ebbe finito di triturare l'ultimo pezzo di pollo, si dileguò non appena riprese sonno e ricominciò a russare dal punto in cui si era interrotto. Mancavano ancora due ore a Szeged. In quanto teoricamente dipendente delle ferrovie, Gyuri viaggiava gratis, ma non per questo il viaggio fu meno oneroso. A diciott'anni andresti dall'altro capo del mondo per una festa, pensò accorgendosi di come adesso aveva bisogno di fare uno sforzo per dedicarsi alla ricerca del piacere. «Non preoccuparti», gli aveva detto Elek in preda a un impeto di paternità. «C'è una stagione per queste cose. Per me è stata il 1911. Nel 1911 appena facevo ciao a una ragazza in genere quella scappava di corsa o chiamava la polizia. Per tutto l'anno ci fu una specie di Grande Muraglia cinese tra loro e me. Le nazioni, gli individui, tutti hanno i loro alti e bassi. La penuria di fica non è mai duratura.» Forse la saggezza paterna lo avrebbe consolato di più se Elek non gliel'avesse impartita mentre si agghindava per uscire con una delle sue amichette. Pataki doveva aver allegramente riferito a Elek la notizia dell'ultimo insuccesso di Gyuri, un impareggiabile colpo da maestro nella storia dei fiaschi romantici, tre in una botta sola. Avendo incontrato la sorella più piccola della moglie di István in Andrássy ut, Gyuri era stato presentato alle due graziose pallavoliste che erano con lei. Aveva approfittato del fatto che il discorso fosse casualmente caduto su un nuovo film per proporre di andarlo a vedere insieme. Come tutti i film ungheresi, con tutta probabilità era una porcheria, ma poteva darsi che servisse ad accrescere il suo ascendente sulle ragazze. E il bello di suggerire il film era che, tecnicamente, non aveva chiesto loro di uscire, per cui un eventuale rifiuto si sarebbe potuto 149
ascrivere al film e non alla sua personale mancanza di fascino. Era indispensabile ricorrere alla cultura perché la sua autostima era al livello del marciapiede e anche perché, da una valutazione precipitosa degli indicatori di interesse delle pallavoliste, non era riuscito a stabilire quanto fossero ansiose di lasciarlo entrare nel parco divertimenti a due gambe. Inoltre era fondamentale trovare l'equilibrio tra la loro attrazione nei suoi confronti e la sua nei loro; la bionda gli piaceva di più, ma sarebbe stata una sciocchezza lasciar perdere la bruna nel caso si fosse rivelata libera e vogliosa. L'invito doveva operare una sorta di selezione naturale; dal momento che la meno disponibile aveva meno probabilità di presentarsi, sarebbe sopravvissuta la più abbordabile. Deciso a dare un taglio alla sfiga Gyuri aveva convocato anche una terza, Ildikó, un'aspirante ragioniera che aveva conosciuto in biblioteca aiutandola a prendere un libro da uno scaffale troppo alto per lei. Impalato davanti al cinema, Gyuri si congratulava con se stesso per aver sbaragliato la sfortuna, per aver vinto la iella con un attacco in massa concertato. Ma quando la proiezione cominciò senza che delle ragazze si fosse vista l'ombra, cominciarono anche a manifestarsi la perplessità e la sensazione angosciante di essere stato piantato in asso non una, ma tre volte. Triplicando la posta si era moltiplicato per tre anche il danno. E non era nemmeno riuscito a vendere nessuno degli altri tre biglietti. Era già senza un quattrino e, sebbene Gyurkovics gli dovesse cento fiorini, non aveva osato chiederglieli proprio perché era così al verde: avrebbe dato l'impressione di essere estremamente al verde, ed era ciò che voleva evitare. Guardando fuori dal finestrino, oltre il russatore, Gyuri vide i contadini occupati in qualcosa di agricolo e autunnale. Troppo stupidi per trovare la strada che porta in città, ridacchiò fra sé pieno di autocompiacimento metropolitano. Ma qualcuno doveva pur coltivare patate. E qualcuno doveva farci un film. In qualità di accolito dell'Accademia di arte drammatica e cinematografica, Pataki era stato in campagna a portare i cavalletti della troupe del cinegiornale che doveva studiare in azione. Erano andati nel villaggio di Zsámbék, l'esempio di paesanità e di intatta bucolicità agreste più vicino a Budapest, a una sola ora di auto dalla 150
capitale. L'evento che la troupe del cinegiornale voleva riprendere era il quarto anniversario e mezzo della fondazione di un'azienda agricola collettiva, una scelta cui probabilmente non era estranea la necessità del regista, un certo Gáti, di farsi offrire dai compagni alcune casse di vino bianco per delle sue feste in giardino. Persino negli ambienti artistici di Budapest, dove l'egomania rappresentava il biglietto d'ingresso, Gáti era riuscito a meritarsi un certa fama per le sue bizze. Chissà perché aveva interpretato la presenza di Pataki come un omaggio, come il tributo di uno che desiderava ardentemente imparare i segreti della cinematografia documentaria da un maestro, e lo aveva preso affettuosamente sotto la sua ala protettrice, benché a Pataki sarebbe senz'altro piaciuto di più andare a remare. «Questo posto è un vero cesso», sentenziò Gáti osservando Zsámbék. «Credo di aver votato qui nel '47. Ma ho votato dappertutto nel '47, sai. Quanta gente può dire di aver votato sessanta volte in una sola elezione? Questi tuguri con tre oche in croce si assomigliano tutti, però. Io e il Comitato della Gioventù Comunista del Secondo Distretto abbiamo passato l'intera giornata in macchina ad andare a votare. Una menata incredibile, la democrazia.» Si trovavano nell'ufficio dell'azienda agricola collettiva. Intuendo che era il momento giusto per un po' di regia, Gáti si affacciò alla finestra e gridò al cameraman che stava lambiccandosi su varie inquadrature: «János, mi raccomando, coglimi questo senso di conquista storica, capito?». Poi tornò a ingollare generose sorsate di vino locale. «Regola numero uno: sapere quello che si vuole. Regola numero due: scegliersi un buon cast. Un buon cast è tutto. Ho già il personaggio principale, zio Feri. È l'anziano del villaggio, per così dire, che ha vissuto anni e anni di sofferenze, fame, sfruttamento e compagnia bella, ma adesso, raggiunta una serena vecchiaia, guarda soddisfatto alle conquiste del popolo, lieto di sapere che le generazioni future non conosceranno mai bisogno né stenti, grazie all'applicazione del socialismo scientifico, ecc. ecc.» Gáti svuotava i bicchieri di vino uno dopo l'altro neanche li versasse in un lavello. «Lo zio Feri è il soggetto ideale. L'ho scoperto quando sono venuto la settimana scorsa. Ricerca, tutto sta nella ricerca... Questo bifolco è perfetto. Ha dei baffi che saranno lunghi mezzo metro. Trasuda arguzia campagnola e agreste baldanza da tutti i pori. C'è un po' di zio Feri in ciascuno di noi. 151
Lui dice che non vuole, ma lo farò diventare famoso.» Erano rimasti solo un paio di bicchieri. «E ricorda, regola numero quattro: non si parla mai abbastanza al proprio cameraman.» Gáti si affacciò di nuovo alla finestra: «János, hai finito?». E a Pataki: «Farai molta strada. Sai ascoltare». E al presidente dell'azienda agricola collettiva: «Ottimo. Prendiamo l'intera partita». Con un braccio paternamente posato sulla spalla di Pataki, Gáti si avviò verso i campi per le riprese chiave. «Dov'è il nostro zio Feri?» urlò. «Zio Feri è molto malato», spiegò il presidente, che aveva convocato una serie di vecchi contadini incartapecoriti fra cui fargli scegliere un sostituto. «Vedi», disse Gáti a Pataki in un tentativo abortito di bisbiglio, «la gente si intromette sempre. Credono tutti di saperne più di te. Credono di poter fare il regista. Su, dov'è il vecchio minchione? Che fa, si vergogna?» Il presidente, il sindaco e il segretario del Partito spiegarono tutti, a turno e in tono estremamente mortificato, che il vecchio Feri era davvero molto malato. Non potevano accontentarsi di un'altra macchietta, scelta con cura e sufficientemente decrepita? Per tutta risposta Gáti scoppiò a ridere e pretese di essere accompagnato nell'umile dimora di Feri, dove il prete gli stava timidamente somministrando l'estrema unzione. «Smettila o ti facciamo sbattere dentro», disse Gáti. Scherzava, ma Pataki ebbe l'impressione che il prete si fosse cacato addosso. «Come va, zio Feri?» chiese poi al vecchio dandogli un'energica pacca, che non sortì alcuna reazione per il semplice motivo che Feri era troppo occupato a morire. «Secondo me sta benone», sentenziò Gáti, ma il cameraman e Pataki dovettero portarlo fuori di peso, perché ormai l'intera struttura fisica del vecchio era allo stremo. Anche se zio Feri avesse voluto dare istruzioni alle proprie gambe, queste non gli avrebbero prestato il benché minimo ascolto. Gáti procedette imperterrito fino a un punto che gli parve adatto mentre Pataki, il cameraman e il presidente trasportavano zio Feri, che per essere un contadino era leggero, ma era pur sempre un peso non indifferente. «Ecco fatto», disse Gáti in mezzo a un tripudio di pannocchie di granturco.
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«Filmicamente questo dice tutto», annunciò mentre i portatori arrancavano sotto il peso del contadino. «Già», intervenne il presidente, «ma non appartiene all'azienda collettiva, è di Levai. È scappato dalla finestra all'assemblea in cui bisognava firmare per la cessione delle terre.» Gáti non si lasciò scoraggiare. Per fortuna c'era un cancello di legno a cui poterono appoggiare zio Feri, perché le gambe rifiutavano di reggerlo. «Okay, si gira», ordinò Gáti. «Ditemi, zio Feri, quanti anni avete?» Lo zio Feri non rispose. Sembrava interamente concentrato sulla respirazione. «Quanti anni ha?» chiese Gáti al presidente. «Non lo so. Settanta e qualcosa.» «Okay. Allora, zio Feri», riprese Gáti, «che effetto fa vedere le conquiste della nuova Ungheria?» Anche questa volta lo zio Feri non ebbe alcuna reazione. Gáti provò con un'altra domanda: «Zio Feri, che effetto vi fa contemplare i meravigliosi cambiamenti che sono avvenuti qui a Zsámbék?». Lo zio Feri rimase muto. Pataki non dubitava che se lo zio Feri fosse stato ancora provvisto della facoltà di locomozione a quell'ora se ne sarebbe andato, ma non poteva fare altro che starsene abbarbicato al cancello. Gáti lasciò girare pazientemente la pellicola, in attesa dell'opinione dello zio Feri. Dopo uno o due minuti, lo zio Feri si mise a piangere. «Perfetto!», esclamò Gáti. «I successi della democrazia popolare lo commuovono fino alle lacrime. Fammi un primo piano. Poi ci possiamo aggiungere i sottotitoli.» Pataki trovò poco convincente la spiegazione di Gáti e giunse alla conclusione che le lacrime dello zio Feri fossero dovute al fatto che stava morendo in un campo, davanti a una macchina da presa. Secondo Pataki lo zio Feri sopravvisse solo di poco a quel momento di gloria. Essendo una persona ben educata, aspettò di essere ricondotto a casa per tirare le cuoia, mentre Gáti caricava il camion di casse di vino ripetendo: «Avete visto che baffi?». Sapere quello che si vuole è una gran cosa, pensò Gyuri. «Che ambizioni hai?» gli aveva chiesto Makkai la prima volta che era andato a lezione di inglese da lui, dopo avergli confidato che all'età di 153
quattro anni lo avevano piazzato in groppa a un cavallo senza sella come voleva la tradizione magiara (stando a Makkai) per mettere alla prova la sua forza e la sua fortuna. A quella domanda Gyuri si era reso conto di non avere nessuna vera ambizione, ma solo un desiderio: andarsene. Non avere ambizioni pareva in un certo qual modo imbarazzante, una specie di disdoro sociale, una vergognosa manchevolezza. Diventare miliardario o sovrano del pianeta non sarebbe stato male, però: non si sarebbe tirato indietro. Forse il motivo per cui non aveva mai comprato nulla ai banchi dell'ambizione era che Elek aveva dimenticato di metterlo in groppa a un cavallo senza sella all'età di quattro anni. Gyuri sperava che il tanghero continuasse a dormire e mancasse la stazione di Szeged, ma con la stessa precisione con cui il macchinista fece fermare le carrozze accanto al marciapiede, questi calcolò il momento in cui catapultarsi fuori dal sonno. A quel punto Gyuri era l'unico superstite nello scompartimento, perché tutti gli altri avevano cercato scampo davanti a quel bombardamento a tappeto di zzz. Non sapeva molto di Szeged, ma quanto bastava per prendersi la briga di mandare soccorrevolmente il tanghero nella direzione opposta, quando questi gli chiese la strada che portava in centro. Assaporando quella minima vendetta, Gyuri andò a cercare SólyomNagy per far passare il tempo che mancava alla festa di quella sera. In cerca di Sólyom-Nagy dovette andare e venire per l'università più volte, passare ripetutamente dalla sua camera e chiedere qua e là, ricevendo sistematicamente risposte negative. Procedendo per eliminazione alla fine Gyuri si diresse alla biblioteca universitaria. Vi regnava il rituale grave mutismo, tipico delle biblioteche, un silenzio sedimentatosi coi millenni. Di solito le biblioteche, con il loro cumulo di cultura letteraria, gli ispiravano una sensazione stranamente rassicurante. Tutto a posto, lo rincuoravano tacitamente i libri, siamo qui. Fuori magari la follia raggiunge vette impensabili, imperversa la scempiaggine e la mediocrità fa strage di tutto e di tutti, ma noi non abbiamo nulla a che fare con il vaniloquio; qui la cultura attinge a profondità incommensurabili, qui è racchiuso il meglio di tutti i secoli. Eliminati gli Zelk, i poetastri e i palloni gonfiati, i venditori di frasi fatte messi alla porta; essiccati, 154
polverizzati, sbriciolati e soffiati via gli invertebrati del passato, sono rimasti solo gli scheletri di quelli con la spina dorsale, di quelli tanto fortunati da essersi fatti le ossa prima di Marx e che quindi non hanno avuto l'opportunità di gettare anatemi su di lui autocondannandosi di conseguenza all'esilio della non lettura. Gli scaffali offrivano a piene mani la libertà di viaggiare, migliaia di vie di fuga verso altri paesi, verso ere di cui Lenin non aveva mai sentito parlare e che non avevano mai sentito parlare di Lenin. («Che cosa accadde nel 1874?» gli aveva chiesto il giorno prima Róka interrogandolo in vista dell'esame di marxismo-leninismo. «Nel 1874?» «Sì, nel 1874!» «Non ne ho la più pallida idea.» «Lenin compì quattro anni.») Entrare in una biblioteca aveva sempre un effetto purificatore (a condizione di non interessarsi di nulla che fosse stato pubblicato dopo il 1945), ma Gyuri non riusciva mai a fermarcisi a lungo perché dopo un quarto d'ora al massimo si ritrovava in preda a un'incontenibile agitazione, gli veniva voglia di grattarsi la schiena o di sgranchirsi le gambe, di bere un caffè, di tutto fuorché di leggere. Per quanto intensamente si sforzasse di immergersi nei libri, di trattenere il fiato accademico, invariabilmente si trovava costretto a riemergere per un interludio d'aria. Quando si trattava di studiare era un velocista. Poi, c'era il dramma della bestia che albergava nei pantaloni. Chissà perché la disciplina e il decoro delle biblioteche erano grandissimi catalizzatori di propensioni amorose. Proprio perché per definizione non avevano nulla a che fare con il sesso, le biblioteche glielo ricordavano costantemente. Si sedeva, mandava giù qualche riga ed eccola, era lei: per quanto vuota, nessuna biblioteca era mai sprovvista di una fanciulla. Per quanto avvincente fosse il testo di ragioneria che stava leggendo, nella sala dei bottoni di Gyuri tutti scattavano sull'attenti e si affollavano intorno alla nuova arrivata. L'atmosfera austera della biblioteca esaltava in maniera insopportabile financo la leggiadria delle ragazze più insignificanti. Allora cominciavano le supposizioni. Mettere una certa parte in una cert'altra parte avrebbe influito sul resto della sua vita? Ci sarebbe voluto un machete per aprirsi un varco nella giungla subumbelicale? La densità della vegetazione venerea era un tema uggiosamente ricorrente, come l'irrigazione del delta e i confini delle areole. Il comitato insisteva con le 155
medesime domande finché la curiosità non lo faceva star male e gli toglieva il respiro. Se solo fosse riuscito a incanalare altrove parte di quel torrente, sarebbe diventato presidente di una nazione di medie dimensioni. Era il moto perpetuo: magari rallentava, ma non si fermava mai. Si sedeva in biblioteca e i più svariati stili e posizioni cominciavano a sfilargli davanti: lo zerbino? la pecora nera? l'albero spoglio? il pompon? il pennello? la corazza a maglia? Il suo campo visivo si riduceva alle dimensioni del monte di Venere. Salì i vari piani della biblioteca universitaria di Szeged, ma di SólyomNagy continuava a non esserci traccia. Gli venne in mente che lì aveva studiato Attila József, il che conferì alle scale un grado infinitesimale di interesse in più. Non sapeva bene perché, ma Pataki si era arrabbiato molto per via di József: una volta Gyuri lo aveva sorpreso a prendere a calci un libro delle sue poesie. József era così follemente povero e folle che non aveva altra scelta che fare il poeta. Era così povero che non poteva permettersi neppure di morire di fame in un fienile e così pazzo che si era buttato sotto un treno a una bella età, trentadue anni, benché, volendo, si potesse obiettare che trentadue anni era il limite ultimo per una morte tragica e prematura, soprattutto considerando che aveva avuto una vita così implacabilmente spaventosa che veniva da chiedersi perché mai avesse aspettato tanto. József era anche l'unica persona di carattere, e certamente l'unica dotata di un minimo di sensibilità per la lingua ungherese, che fosse mai entrata nel Partito comunista, cui aveva aderito, spinto da inguaribile solitudine, negli anni Trenta, quando il Partito era illegale. Era stato espulso quasi immediatamente per aver avuto la temerarietà di pensare, sottraendo così se stesso all'ignominia e mettendo al sicuro il primato di pura imbecillità del Partito. L'assenza di Sólyom-Nagy permeava di sé tutta la biblioteca. Passando accanto a una studiosa zelante seduta vicino alla finestra, Gyuri ne incrociò lo sguardo e riconobbe Jadwiga, la ragazza polacca che aveva conosciuto la settimana prima, leggermente offuscata da un paio di occhiali. Scambiato con lei un silenzioso saluto, Gyuri andò a controllare nei pochi biblioangoli che restavano, pieni di libri e senza traccia di Sólyom-Nagy.
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La polacca non era una compagnia irresistibile, ma che cosa avrebbe fatto altrimenti fino alla sera? Tornò sui suoi passi fino alle barricate di volumi dietro cui leggeva asserragliata Jadwiga, pensando che se non altro Sólyom-Nagy e la vita universitaria potessero offrire materiale da conversazione sufficiente per un caffè. Jadwiga accettò l'invito e per qualche minuto si dedicò a riporre gli accessori da studio con una meticolosità che fu per Gyuri motivo di forte invidia. I segnalibri finirono nei libri, le matite in un astuccio, i libri nelle rispettive pile, gli appunti insieme agli altri appunti e tutti gli utensili accademici andarono a formare un mucchio ordinato. Jadwiga prendeva sul serio le pause per il caffè. Al caffè si separarono. Jadwiga tenne occupato un tavolo e Gyuri andò a fare la coda. Quando fece ritorno con le tazze, la seconda sedia era sparita. «Mi dispiace», disse Jadwiga come se si fosse svegliata in quel preciso momento, «non me ne sono accorta.» Il caffè era pieno di gente e Gyuri dovette girare un bel po' per riuscire a rubare una sedia. Una matricola pallida e inerme che faceva la guardia a un gruppo di sedie fu costretta a cedergliene una, perché Gyuri, a causa della levataccia, aveva l'aria abbastanza pericolosa e violenta da scoraggiare eventuali proteste. «Così Sólyom-Nagy è un tuo grande amico?» si informò Gyuri. «No», rispose Jadwiga con un sorriso malizioso, «non ho molti grandi amici.» Studiava letteratura ungherese. Misurava la conversazione mantenendosi al livello della cortesia, ma niente di più. Gyuri dovette ricorrere a un'insistenza da Inquisizione per farsi un'idea dell'ambiente da cui veniva. Parlava spaventosamente bene l'ungherese, con un lievissimo accento che pareva quasi mantenuto deliberatamente per darsi un tocco di fascino esotico, giusto per ricordare che ungherese non era. Siccome era vero e siccome un complimento non fa mai abbottonare nessuna, Gyuri disse: «Parli ungherese meglio di molti ungheresi. E credo anche che tu sia l'unica non ungherese ad aver imparato l'ungherese in questo secolo. Perché l'hai scelto?»
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«Mio padre è stato in Ungheria durante la guerra. È un interesse di famiglia. » Gyuri sapeva che durante la guerra erano passate per Budapest orde di soldati polacchi in fuga da un fronte per andare a combattere su un altro. Uomini duri, risoluti, sconvolti per il fatto di essere temporaneamente impossibilitati a uccidere, perplessi su chi sarebbe stato in cima alla lista del prossimo massacro, i tedeschi o i russi. Stranamente in una regione in cui le nazioni passavano la maggior parte del loro tempo a cercare di capire quale dei popoli confinanti odiassero di più, tra polacchi e ungheresi esisteva un plurisecolare rapporto di amicizia. C'era persino un detto, disponibile in entrambe le lingue, che celebrava la comune passione per le risse e le bevute in compagnia. Voler andare in Ungheria a imparare la lingua pareva bizzarro, ma d'altra parte, lui non aveva forse provato ad andare in Cina? E persino la Polonia, rossa com'era, sarebbe stata un diversivo. L'anno prima era stato convocato per la partita di Gdansk e la sua foto sorridente era finita sul manifesto pubblicitario, ma ancora una volta gli avevano negato il passaporto. Persino Hepp era rimasto sorpreso. Ciononostante in quel momento Gyuri era certo di poter contribuire a migliorare i rapporti magiaro-polacchi. Accennando alla festa di cui Sólyom-Nagy era copatrocinatore, Gyuri chiese a Jadwiga se ci sarebbe andata anche lei. «Non sono stata invitata», rispose. Poi, per gelare ulteriormente le avances di Gyuri, aggiunse: «Non mi piacciono molto le feste». Lasciato trascorrere un intervallo di tempo decoroso dopo aver bevuto il caffè, Jadwiga si alzò per tornare ai suoi studi. Gyuri la accompagnò, nella rara eventualità che Sólyom-Nagy si fosse palesato in biblioteca. Era un evento assai improbabile - era disposto ad ammetterlo - a meno che non lo avesse fatto per sottrarre qualche libro prezioso da cedere in seguito al miglior offerente. Uscì dalla biblioteca senza Sólyom-Nagy, ma con il numero della stanza di Jadwiga alla Casa dello studente, rivelatogli con appena un'ombra di esitazione. Non faceva mai male sapere dove trovare delle interessanti ragazze polacche. Calcolò che dovesse avere diciannove o vent'anni, ma aveva uno spessore spirituale decisamente superiore alla sua età e una tecnica di corteggiamento superba basata sull'abile elargizione di scarsissimi indizi.
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Gyuri gironzolò per Szeged senza trovare Sólyom-Nagy da nessuna parte. Per essere una città ungherese Szeged era piuttosto grande: ci volevano cinque minuti per attraversarla da un capo all'altro a piedi, ma era comunque strano che non si fosse imbattuto in Sólyom-Nagy. Che avesse sbagliato giorno? Che Sólyom-Nagy fosse a Budapest? Nel dubbio, meglio pranzare, compito che Gyuri svolse in piedi in una macelleria, masticando lentamente salsiccia csabai in mezzo a un panino, con una senape miserabile che rovinava il sapore. Dopo pranzo, decise di pranzare di nuovo, quindi tornò all'Università a caccia di Sólyom-Nagy ripercorrendo il circuito ormai familiare che si snodava tra dormitorio, parco, biblioteca. Bussò alla porta di Jadwiga. Dal rumore capì che la stanza era popolata. «Avevo voglia di rivederti», le disse quando venne ad aprirgli. Jadwiga lo studiò per un lungo secondo, poi lo fece entrare. «Spero che ti piaccia il tè», disse, «perché non ho altro da offrirti.» Da consumato veterano delle ristrettezze pecuniarie, Gyuri riconobbe immediatamente i segni della povertà nella stanza. Era clinicamente ordinata e Gyuri, che quella mattina aveva inciampato negli oggetti più svariati sparsi sul pavimento di camera sua, oggetti che erano certamente lì da prima che cominciasse i suoi studi di ragioneria, si ritrovò ad ammirare ancora una volta la miracolosa abilità con cui le donne instillavano automaticamente l'ordine. Fu mentre Jadwiga prendeva il bollitore per scaldare l'acqua che gli omini nella testa di Gyuri gli fecero pervenire due bollettini simultanei. Uno sottolineava quanto fosse elegante e aggraziata, quanto riuscisse a rendere teneramente e grandiosamente erotico un gesto come prendere in mano un bollitore. Passando in rassegna il seno, le braccia, le gambe, ne ammirò la flessuosità e l'agilità. Fortuna: aveva una di quelle corporature snelle e resistenti alle ingiurie del tempo che garantiscono lo stesso paesaggio coniugale a quarant'anni come a sedici. Il secondo pensiero che si affacciò con una certa brutalità all'attenzione di Gyuri fu la certezza che la voleva sposare. Era sorprendente. Non si era mai sentito particolarmente attratto dai vincoli matrimoniali prima di allora; anzi, l'idea di un ulteriore legame con l'Ungheria, di qualsiasi cosa che potesse essere di ostacolo alla sua fuga, era una iattura. Allora era così che succedeva. Eccola lì - imprevista, senza essersi fatta annunciare, senza essersi neppure schiarita la gola - l'idea che si voleva sposare, 159
inconfondibile e urgente come una voglia di torta al cioccolato. Che stesse per impazzire? Meditò su questa ipotesi mentre Jadwiga faceva bollire l'acqua sul fornello a gas in fondo al corridoio. Il vecchio Szócs aveva ragione. Al muro c'era un crocifisso di legno rustico, forse intagliato da un contadino pio con del bel tempo da perdere. Certo, Stalin era morto, erano davvero nel 1955, ma era come depositare un cazzo di cavallo di marmo alto due metri davanti all'ufficio del rettore. Evidentemente di sodo Jadwiga non aveva solo il seno. Gyuri apprezzò l'ardire, ma si chiese se avrebbe incontrato interferenze di tipo teologico nella sua spedizione verso le regioni meridionali. In un certo senso gli rincrebbe accettare il tè e il biscotto piuttosto squallido che Jadwiga gli offrì, perché intuì che in questo modo consumava la metà dei suoi beni terreni: il tè lo aveva dovuto raccogliere in fondo al barattolo e aveva il sospetto che il biscotto fosse stato tenuto da parte per qualche occasione speciale, che di certo non era la sua visita. Un invito a cena, sempre che riuscisse a trovare un ristorante dai prezzi ridicoli, si rendeva doppiamente necessario. «Mi daresti una mano ad aprire la finestra?» gli chiese. «L'aria è un po' viziata qui dentro.» Era in piedi vicino alla finestra che spingeva invano. Come le era venuto in mente? Non si sarebbe potuto eccitare di più se lo avesse invitato a spogliarla completamente. La finestra non richiese molta insistenza per aprirsi, ma anche se fosse stata inchiodata, Gyuri l'avrebbe spalancata a spallate in un baleno, tanta era la forza che gli ribolliva in corpo. Jadwiga non cedeva né sulla festa né sulla cena. «Sono indietro con lo studio», disse in tono risoluto. Gyuri non rimase indebitamente turbato da quel rifiuto. Intuiva che non era motivato dal desiderio di liberarsi della di lui compagnia. Reggimenti di libri attestavano la sua serietà. Cosa veramente strana per una persona che frequentava l'Università, lo studio le interessava. Il biscotto, nella sua solitudine e stopposità, gli impediva di scoraggiarsi. Sentiva che si muovevano su traiettorie convergenti, non parallele. Fu amore alla prima tazza di tè.
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Si accomiatò per lasciarla studiare e per predisporre qualche avance. Sólyom-Nagy era ricomparso nella sua stanza. Si scusò per l'assenza, dovuta all'approvvigionamento di rifornimenti liquidi per la serata. La festa era a teatro. Gyuri, che credeva di aver assistito a baldorie e depravazioni di livello professionistico a Budapest, si aspettava dei baccanali di profilo più provinciale, ma dovette ammettere che quella sera a Szeged il comportamento generale fu squisitamente e irrefrenabilmente immorale. Fu senza dubbio l'evento sociale più smodato cui avesse mai preso parte. Sul palco c'era un semicupio in cui Sólyom-Nagy mise insieme quello che si annunciava come il cocktail più enorme mai preparato in Ungheria, un trionfo della pianificazione socialista a base di brandy albanese, gelato, vodka e altri ingredienti che nessuno seppe o volle identificare. Il semicupio era in funzione da meno di mezz'ora e c'era già gente che non riusciva a schiodarsi da terra. Gyuri ne prese solo un bicchierino che sorseggiò lentamente, e fu contento di non esserselo vuotato nel gargarozzo come gli altri, perché anche così gli sembrava che il palco si fosse pericolosamente inclinato. C'era Ágnes, che Gyuri non vedeva da anni. Era quello il guaio di vivere in un paese piccolo: si finiva continuamente per andare a sbattere contro il proprio passato. Gyuri aveva sentito dire che era andata a studiare a Szeged. Per molto tempo le aveva chiesto di uscire. Pataki era il cavalier servente della sua migliore amica, Elvira. Gyuri chiedeva e Ágnes declinava. «Esce sempre con l'amico di chiunque stia con Elvira», gli diceva Pataki per incoraggiarlo, insistendo che Ágnes aveva già lasciato intendere di apprezzare le qualità di Gyuri. Tuttavia, ogni volta che Gyuri le proponeva qualche forma di socialità, Ágnes tirava sempre fuori una scusa. Non opponeva mai un semplice rifiuto, non ricorreva mai due volte alla stessa scusa, e si andava dai capelli da lavare a una giustificazione lunga venti minuti con tanto di leone scappato dallo zoo di Budapest, dove suo fratello era vicesegretario del Partito. Gyuri ricordò che la trama cominciava con il tentativo di attuare un approccio più socialista e più scientifico alla rimozione della cacca di elefante in stretta ottemperanza ai princìpi del marxismoleninismo. Fu senza dubbio l'alibi più lungo che Gyuri si fosse mai sentito propinare e, 161
dal momento che dubitava che la fantasia di Ágnes ne fosse all'altezza, probabilmente era anche vero, fatto sta che alla fine lei gli aveva detto che, purtroppo, non poteva venire al cinema. Gyuri avrebbe appeso al chiodo i panni del cacciatore molto tempo prima, se Pataki non avesse tanto insistito che aveva l'ok della torre di controllo. «Chiedile di uscire e basta», gli intimava spazientito. Alla fine, dopo essersi sorbito la cronaca degli impegni di Ágnes in decine di puntate, Gyuri aveva lasciato perdere, anche perché non era poi di una bellezza tale da suscitare brame incontrollabili. Dopo tutto, aveva pensato, se proprio gli toccava amare non corrisposto ed essere sistematicamente umiliato, tanto valeva che questo accadesse per una donna dal fascino prodigioso, il che sarebbe stato un filo meno umiliante. «Non sai chiedere, è inutile, non sai chiedere», aveva commentato Pataki. Ágnes sembrava dispiaciuta dei malintesi passati perché piangeva, come molti altri del resto. Il passaggio dall'allegria iniziale a una lacrimosa impotenza era stato fulmineo. Un'ora dopo il calcio d'inizio alle otto, c'era già un'atmosfera da tre del mattino. «Mi dispiace tanto, Gyuri», singhiozzava Ágnes. Sembrava sinceramente contrita perché continuava a ripeterlo con la testa posata sul petto di Gyuri. Immaginò che si riferisse ai rifiuti che gli aveva inflitto, ma era difficile stabilirlo con certezza. Su ordine e richiesta dei suoi ormoni, contemplò l'ipotesi di un valzer senza veli contro qualche muro appartato, ma la abbandonò. Non voleva essere ammesso nel club solo perché non c'era nessuno di guardia all'ingresso e poi, benché una parte di lui avesse già cominciato l'autofustigazione per non aver accettato ciò che gli veniva offerto sul vassoio del suo stesso sterno, si rese conto che avrebbe preferito essere con Jadwiga. Avrebbe preferito stare seduto a parlare di letteratura con Jadwiga, piuttosto che fare un giro di lingua con Ágnes o, quanto a quello, con qualsiasi altra femmina debitamente consenziente. Si ottiene sempre quello che si vuole quando non lo si vuole, concluse scaricando Ágnes a continuare il suo soliloquio in un punto più confortevole della platea. Uscì e l'aria fresca della notte lo rinvigorì, spazzando via un po' delle macerie alcoliche lasciate dalla mistura di Sólyom-Nagy. In seguito venne a sapere dallo stesso Sólyom-Nagy che poco dopo la sua partenza due 162
attrici si erano messe a ballare su una bara di cartapesta e si erano spogliate completamente. Non c'era il benché minimo pericolo che venissero acclamate miss Szeged o nemmeno reginette della festa, ma uno spogliarello di attrici non faceva mai male. Sólyom-Nagy aveva raccontato anche che era arrivata la polizia, chiamata per via di un gruppetto che, in seguito a chissà quale ebbro ragionamento, si era buttato dal bar del teatro al marciapiede sottostante, un salto di sei metri. I vicini si erano lamentati con la polizia per via del rumore provocato dagli impavidi saltatori quando erano scoppiati in grasse risate alla vista delle proprie caviglie rotte. La storia della polizia era migliore. «Me ne sono andato cinque minuti prima che arrivasse la polizia» suonava meglio che «Me ne sono andato cinque minuti prima che due attrici si denudassero completamente.» Avvicinandosi alla Casa dello studente, Gyuri vide una luce accesa in quella che supponeva fosse la stanza di Jadwiga. Proprio quello che gli ci voleva: una finestra illuminata in lontananza, il pensiero che là ci fosse qualcosa, qualcosa per cui darsi da fare. La compagnia di una minuscola speranza. Bussò educatamente alla porta. «Ho un'importante consegna di ungherese parlato per lei», le disse quando gli aprì. Lo osservò pensosa con gli occhi di chi ha letto molto, poi si fece da parte invitandolo tacitamente a entrare. Chiuse la porta. Gyuri si sedette sul letto della sua compagna di camera, che non era ancora rientrata, e Jadwiga gli si sistemò di fronte. Stanca di studiare, lo guardò da capo a piedi quasi fosse la prima volta che lo vedeva, strizzando leggermente gli occhi come per metterlo meglio a fuoco. Poi con un mezzo sorriso disse: «Dobbiamo parlare». Una pausa. «Possiamo essere amici... ma niente di più.» «Hai un ragazzo?» chiese Gyuri sentendosi straordinariamente sicuro di poter schiacciare e annientare senza il benché minimo sforzo qualsiasi concorrente. Era come ubriacato dalla certezza di essere di fronte a un sicuro successo. Gli piaceva tutto di lei, il modo di parlare, il modo di stare seduta, il modo in cui si comportava con lui. La perfezione. Jadwiga fece un'altra pausa. «No.» Con un gran sorriso: «Ho un marito».
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Settembre 1956 Passando per Petófi Sándor utca, Gyuri vide il cartello alla finestra del laboratorio fotografico: «Cercasi tecnico di laboratorio». Questo, più della telefonata, lo convinse che Pataki era partito. Il telefono era suonato e Gyuri aveva contato il silenzio rotto dai disturbi statici. Erano passati quarantadue secondi prima che la cornetta all'altro capo del filo venisse riagganciata, ma non poteva che essere il segnale di quarantacinque secondi concordato con Pataki. Pataki se n'era andato, era arrivato in paradiso e chiamava da un telefono celestiale. Gyuri rimase con un sorriso stampato sulla faccia, un sorriso tanto grande che il giorno dopo gli facevano male le guance, un sorriso che annullò la lieve traccia di malinconia che aveva provato alla partenza di Pataki. Una malinconia appena accennata, perché non voleva prendere in considerazione l'eventualità di non rivederlo mai più. Pataki se n'era andato. Per le autorità non era solo un cazzo di cavallo nel culo, ma un cazzo di cavallo colossale. A Gyuri faceva talmente piacere che cercava di non pensarci troppo tutto in una volta e di razionarsi il gongolamento: non più di un paio d'ore al giorno. Ma fu come se quel cartello avesse fatto crollare il marciapiede sotto i piedi alla sua soddisfazione. Erano passati solo quindici giorni e la nostalgia di Pataki era già intollerabile. Non c'era nessuno in tutto il paese che potesse chiamarlo testa di cazzo con la stessa autorevolezza, l'autorevolezza di chi ti conosce da una vita. Quando giunse a casa, si rallegrò che Elek non presidiasse la sua poltrona e che con lui fosse in libera uscita anche la sua curiosità. Si rallegrò inoltre che Jadwiga avesse acconsentito a venire a Budapest risparmiandogli il viaggio fino a Szeged. Anche agli altri toccava faticare tanto per un po' di felicità? Bella roba trovare un amore di prima classe, ma con lei che abita dall'altra parte del paese. Guardò fuori e controllò la strada, anche se era troppo presto perché stesse già arrivando. Aveva insistito perché non andasse a prenderla alla stazione; con un disprezzo tutto polacco per gli orologi, non sapeva che treno avrebbe preso. Ma 164
almeno aveva smesso di tirare fuori il marito. Al ritorno dalla Polonia, quell'estate, aveva parlato a lungo dei disordini scoppiati a Poznan, la sua città. Gyuri era stato ad ascoltare tutto e aveva notato con piacere che Jadwiga era particolarmente reticente riguardo al marito, che sembrava ormai scomparso, cancellato come Trotsky dai quadri in cui era ritratto alle spalle di Lenin. Il fatto che fosse sposata aveva mandato in frantumi tutte le sue amorevoli aspirazioni, come un negozio di porcellane su cui si schianta un bombardiere debitamente carico e con il pieno di carburante. Gyuri sperava che la sua facciata lasciasse trapelare la virile determinazione cui aspirava senza riuscire a provarla e non il tracollo generalizzato che stava abbattendo tutto ciò che incontrava al suo passaggio dentro di lui. Se lo sarebbe dovuto aspettare; fino a quel punto era andato tutto troppo liscio. Jadwiga aveva parlato con orgoglio del marito. «Mio marito fa lo scrittore», aveva detto in tono che non lasciava dubbi sul fatto che fosse l'unica occupazione degna di un marito come si deve. Stava scrivendo un libro sulla pittura polacca. Comunque erano usciti a fare una passeggiata. Era buio pesto, faceva freddo e tirava vento e a Szeged non c'era niente da vedere nemmeno di giorno e quando il tempo era particolarmente bello, ma Gyuri si divertì, nonostante la sensazione di essere appena stato preso a calci in faccia, perché l'impenetrabilità della notte garantiva loro una certa qual forma di duopolio. Erano i motori dell'universo, l'animazione di un'oscurità spopolata. Gyuri generalmente riteneva che camminare fosse un passatempo inferiore, ma quella passeggiata con Jadwiga fu infinitamente preferibile a qualsiasi altra cosa avesse mai fatto con, per esempio, Ágnes. Al momento di salutarsi le diede un rispettoso bacio sulla guancia. Sul treno che lo riportava a Budapest, si gingillò con due pensieri. Primo, che non gli importava se fosse sposata o meno e, secondo (premio di consolazione per il tracollo della sua moralità), che doveva essere un matrimonio alquanto bizzarro, visto che stavano a centinaia di chilometri di distanza, a giorni e giorni di viaggio. Non sembrava proprio per niente un matrimonio perfetto, ma piuttosto un matrimonio la cui pasta era stata tirata talmente sottile che si poteva far finta di non vederla.
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Aveva stabilito di evitare Szeged per un minimo di una quindicina di giorni, ma il fine settimana successivo si ritrovò a correre alla stazione Nyugati. Si inventò qualche attività atletica nei paraggi per giustificare la propria presenza e andò a cercare Jadwiga. La trovò in biblioteca che dormiva. Uscì, comprò un fiore e glielo posò sul quaderno, in attesa del risveglio della studiosa dormiente, che ebbe luogo dieci minuti dopo. Rimase sorpresa nel vedere il fiore e poi, guardandosi intorno, rimase sorpresa nel vedere Gyuri. Nonostante la discutibile opportunità dell'omaggio, ne fu contenta. «Sei un amico davvero fedele», dichiarò. Quella volta l'invito a cena fu accettato e Gyuri non rimpianse di dover dormire sul pavimento di SólyomNagy, sebbene gli effetti del suo rigido abbraccio si fossero fatti sentire sulla schiena per le ventiquattrore successive. La conversazione fu gradevole, nulla di eccezionale ma, come la passeggiata, fu intensamente piacevole per Gyuri. Se Pataki avesse saputo che il suo amico aveva passato quasi due giorni in treno per una cena mediocre condita da un dialogo insipido, sarebbe rimasto incredulo e scandalizzato, ma Gyuri lo considerava tempo ben speso. Venne fuori che il marito di Jadwiga lavorava molto, ma l'ammirazione con cui fu comunicata questa informazione fu un tantino esitante, lievemente adulterata. Il fine settimana successivo vide Gyuri accumulare ulteriore esperienza sulla linea ferroviaria Budapest-Szeged. Ormai conosceva a menadito ogni singolo covone e albero. Gyuri non aveva svelato a Elek la ragione dei suoi viaggi a Szeged, ma era evidente che non si trattava di passione per l'architettura locale. «Divertiti», gli aveva detto Elek con il tono tipico dei genitori che credono che la loro figliolanza si dedichi incessantemente ai bagordi non appena messo piede fuori di casa. Jadwiga rimase di nuovo sorpresa nel vederlo. «Prendi molto sul serio l'amicizia», osservò. La cena e quindi il cinema ripulirono con cura le tasche di Gyuri. Mentre imbucava gli auguri di compleanno al nonno, Jadwiga gli chiese se i suoi nonni erano ancora vivi. La cosa lo infastidì leggermente perché gli aveva fatto la stessa domanda in occasione della loro prima passeggiata; evidentemente non aveva memorizzato tutte le sue parole come faceva lui con tutte quelle di lei, appuntandole in un fascicolo sempre più voluminoso per poi riesaminarle con calma. «Mio nonno è stato 166
in quello che i tedeschi chiamavano Auschwitz. Agli ebrei non piace specificare quanti polacchi sono morti laggiù. Mio nonno è sopravvissuto, credo perché è un tipo tenace, molto tenace. Ha insegnato anche a me il valore della tenacia.» Ripensandoci, Gyuri si stupì di quanto piacere si potesse provare senza togliersi nemmeno un singolo capo d'abbigliamento e con un fossato di ossigeno che lo divideva dal castello che intendeva saccheggiare. Aveva ascoltato educatamente i numerosi accenni al marito che non le scriveva quanto avrebbe dovuto, anche se Jadwiga gli aveva presentato la cosa più come una critica indirizzata agli uomini in genere. Viaggiare era noioso, però. Se sul treno ci fosse stata una palestra almeno si sarebbe potuto allenare. Aprì un testo di ragioneria e lui e la pagina entrarono immediatamente in attrito. Viaggiare assorbiva gran parte del suo tempo. Il week end successivo fu esonerato dal purgatorio di ore e ore di viaggio perché Jadwiga venne a Budapest a trovare alcuni suoi amici polacchi, che finì poi per salutare a malapena. La situazione era insolita per Gyuri. Non aveva mai portato nessuno in giro per Budapest e non aveva mai avuto voglia di farlo. Jadwiga ci era stata soltanto di passaggio, mentre andava o tornava da Szeged, e quindi dovette scervellarsi con un certo vigore per mettere a punto un itinerario. La portò sulla collina di Gellért dove c'era la statua della Libertà, una donna che si allungava con le braccia tese come per prendere qualcosa su uno scaffale alto. In mano le avevano messo qualcosa di informe, forse foglie di palma o di alloro gigantesco, un fardello certamente molto significativo, che gravava sulla briosa signora la quale ciononostante ostentava un'espressione trascendentale. La statua si vedeva da quasi tutta la città e dai suoi piedi si godeva una vista panoramica di Budapest. Originariamente intesa come monumento al figlio dell'ammiraglio Horthy, pilota di caccia caduto sul Don come quasi tutti gli ungheresi della sua età, non era ancora stata completata quando erano cambiati il governo e le divise per le strade. Purgata del suo passato dinastico e politico e caricata dell'ideologia della nuova era, era stata piazzata in cima alla collina di Gellért come un faro spirituale.
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A complemento della Statua della Libertà, forse intesa come ulteriore spinta ideologica che ne controbilanciasse i vergognosi precedenti, c'era una statua più piccola e goffa di un soldato sovietico, soprannominato dalla gente del posto l'Ignoto Ladro di Orologi, spiegò Gyuri. Situato sotto la Statua della Libertà, meno visibile e meno lesivo del panorama, l'imbronciato milite sovietico, scocciato di essere di guardia da anni e anni, recava l'iscrizione: «Dal popolo ungherese, con gratitudine». «Ti assicuro che i polacchi sono molto più grati», dichiarò Jadwiga. Come sempre faceva quando era a corto di liquidi, Bánhegyi si era lussato la spalla (sapeva lussarsi e rimettersi a posto le articolazioni a comando), era andato dal medico, aveva ritirato l'assegno dell'assicurazione (nonostante il giorno dopo sarebbe sceso baldanzosamente in campo con la palla in mano) e aveva invitato tutti al ristorante della stazione Keleti. Jadwiga fece un'ottima impressione per come parlava bene l'ungherese (Róka si rifiutò di credere che fosse polacca) e per la baldanza con cui si spazzolò un enorme piatto di wienerschnitzel e una generosa porzione di cervello di vitello. Gyuri intercettò gli sguardi di ammirazione dei compagni di squadra e Róka dovette assentarsi per ben due volte in stato di estremo turbamento per «prendere una boccata d'aria». Pataki se ne stette zitto. Il suo mutismo esprimeva ampiamente il suo alto apprezzamento per Jadwiga. Gyuri avrebbe temuto la possibile concorrenza di Pataki se non fosse stato convinto che quella volta il destino era dalla sua. «Immagino che tu non abbia ancora cominciato le trivellazioni», commentò Pataki in tono inquisitivo. Gyuri ricorse a un grugnito polivalente che conteneva divertimento, diniego, conferma e disprezzo, sperando che Pataki ne scegliesse uno qualsiasi e cambiasse discorso. Tutti evidentemente presupponevano che avesse libero accesso e la cosa era soddisfacente, dal momento che la reputazione è solo a un passo dalla realtà. «Credo che questa volta ce la farai», sentenziò Pataki. Sul treno per Szeged, la settimana successiva, cercò un pretesto per giustificare il viaggio, ringraziando nel contempo il cielo di essere dipendente delle ferrovie e di potersi quindi permettere una relazione
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interurbana. Jadwiga non sembrò sorpresa di vederlo, né si premurò di chiedergli il motivo della sua presenza a Szeged. Gyuri non aveva mai incontrato la sua compagna di camera, Magda, ma le si era molto affezionato per il semplice fatto che non c'era mai. Mentre erano seduti in camera, Gyuri si domandò come effettuare elegantemente quel salto con l'asta che porta dall'amicizia a una forma più avvinghiante di amore. Guardò l'ora e stabilì che per le sei doveva essere o in un groviglio di indumenti, oppure fuori da quella stanza. Lui ci aveva messo il viaggio. La scadenza continuava a spostarsi più avanti come l'orizzonte man mano che il tempo passava, mentre lui rimaneva immobile in una posizione di cordialità di fronte a Jadwiga. In una pausa della conversazione si fece sentire lieve lo scoccare dell'ora in lontananza. «Sono le otto e non ti sei ancora lanciato», commentò Jadwiga. «Voi uomini siete delle creature così fragili». Si avvicinarono per soddisfare il loro desiderio reciproco. L'importante, rifletté abbracciandola sopraffatto dalla gratitudine, era che provava anche lei la stessa cosa: se non si fosse aperto un varco nel suo cuore, sarebbe stato intollerabile. Si strinsero come se stessero fluttuando nello spazio. Due possibili conclusioni si fecero comodo nella sua mente: che tenendola fra le braccia aveva colto tutto ciò che voleva nella vita e che aveva raggiunto l'estremo del piacere. «Spegni la luce», sospirò lei. Giusto prima che planasse su di lei nell'oscurità, Jadwiga lo fermò e dal letto scostò la tenda; immediatamente il suo corpo nudo si coprì di luce lunare. Dove l'aveva imparato? Si liberarono della solitudine insieme con il sudore e, dopo una buona dose di ansimi di sorpresa e di sforzo, caddero stremati uno sull'altra. Ecco qualcosa che nessuno ti può portare via, pensò Gyuri: denaro in una banca a prova di ladro. Qualunque cosa accada adesso, ho vinto. Il marito di Jadwiga, venne fuori, era uno stronzo. Succube della lussuria che gli martoriava i testicoli, Gyuri continuava a guardare fuori dalla finestra e quando pensava di essere sul punto di svenire per l'impazienza, Jadwiga comparve. Camminava a passo svelto, notò, una donna con uno scopo, cui la settimanale separazione di tutta la settimana scatenava lo stesso suo ardore concupiscente. Uno degli aspetti 169
più affascinanti era il modo in cui si toglieva i vestiti come se fossero in fiamme, lasciandoli dove cadevano incurante di eventuali danni sartoriali, per tuffarsi sul letto neanche fosse una pozza d'acqua fresca. Le altre donne, indipendentemente dai loro ardori sotterranei, temevano le sgualciture e prendevano tempo per sistemare ordinatamente gli abiti su un attaccapanni o su una sedia. Gyuri vide i contorni di lei dietro al vetro opaco della porta di casa e pensò che era davvero fortunato a ricevere una visita simile. Senza quasi considerarlo, Jadwiga si diresse marziale verso la camera da letto, si tolse il vestito e, inciampando nelle mutande, cadde a faccia in giù sul letto. «Vieni», gli ordinò dal capo opposto di quel sentiero di abiti spiegazzati. Divinità part-time, ruminò Gyuri in un accesso di lirismo, ho lanciato strali liquidi nella mia tempesta privata. Jadwiga si alzò per andare nel bagno e Gyuri scorse una goccia fruttifera correrle lungo la coscia verso la caviglia. Aveva voglia di metterla incinta. Sì, di metterla incinta. Che cosa gli stava succedendo? Non riusciva a crederci, ma concluse che contro la biologia non si può fare nulla. Inoltre era molto, molto improbabile che riuscisse a ottenere qualcosa di più importante o significativo di così, rendere una persona perfettamente felice, costruire una stanza di estasi, anche se era solo una bollicina in un oceano di tristezza. Era troppo materiale per essere la vetta più alta di una vita, troppo trito per essere il culmine di una biografia, troppo sfacciato per una lapide: «trombò di gusto». Ma cos'altro gli aveva dato lo stesso senso di gioia e di pienezza? La trappola più antica si era aperta e richiusa su di lui e a lui non importava. «È il momento più bello della mia esistenza», disse all'assente Jadwiga. Qual era più la storia in cui il diavolo offre a un uomo la possibilità di fermare il tempo, di inchiodare in un punto a sua scelta, e l'uomo non sa decidere quando? Gyuri aveva avvertito vaghi sentori d'amore prima di allora, ma guardando Jadwiga capì che era una prospettiva che avrebbe potuto farsi durare per tutta l'eternità, indipendentemente da quel che accadeva fuori dalle mura domestiche. Non gli importava chi fosse il segretario generale del Partito dei lavoratori o se lì fuori stessero costruendo il socialismo o se la gente saltasse di ramo in ramo. Lui aveva il suo universo portatile, la sua autosufficienza mobile. Era un senso di 170
soddisfazione in cui un uomo dalle grandi ambizioni si sarebbe potuto impantanare ma, dal momento che lui non ne aveva mai avute, era pronto a sprofondarci dentro e goderselo. Mentre Jadwiga iniziava a raccogliere i vestiti, tornò Elek e per qualche oscuro motivo - andava in camera di Gyuri in media due volte all'anno entrò e colse tutta la storia della sua pelle. Borbottando le sue scuse da dietro la porta, Elek si ritirò sulla sua poltrona come un pappagallo sul trespolo, quasi in quel modo potesse diventare invisibile e inoffensivo. Imperturbata dall'ingresso di Elek, Jadwiga continuò le operazioni di vestizione. La sua calma olimpica era l'opposto della scena isterica che aveva fatto Tunde quando Elek aveva potuto contemplarne lo statuario torso nudo nella doccia. Si era messa a strillare neanche fosse stata in pericolo di vita e si era prontamente coperta con le braccia le regioni che hanno fama di rivestire maggiore interesse per gli uomini, per tamponare il flusso di materiale libidinoso. La reazione di Tünde era stata eccessiva: nonostante a quei tempi spogliarsi in pubblico non fosse visto di buon occhio, il suo fisico era ammirato quanto la Statua della Libertà e, in particolare, le parti che si riparava dietro a quelle foglie di fico di carne umana erano state toccheggiate più dell'orario dei treni esposto alla stazione Keleti. Ma per qualche ragione Tünde credeva che strillare a pieni polmoni fosse una reazione adeguata per una ragazza ammodo di fronte a un visitatore non annunciato. La nudità di Jadwiga non aveva battuto ciglio. Gyuri amava i suoi seni attenti e amava le sue gambe muscolose (era stata una velocista dilettante) depositarie di celestiali afrodisiaci. Amava i suoi glutei sagaci che avevano risolto una volta per tutte l'annosa disputa del culo più bello. Amava le sue labbra, i bordi ben disegnati della sua bocca; amava la felice pianta dei suoi piedi e tutto ciò che vi stava sopra. Non vedeva nulla che guastasse quella vista. Forse era il sintomo dell'amore totale nel vero senso della parola: come in un capolavoro, non si poteva tagliare, aggiungere o modificare nulla. Se il creatore gli avesse proposto un'offerta speciale di restyling: «Gyuri, in esclusiva per te, cambio quello che vuoi: allunghiamo un briciolo la gamba? aggiungiamo un po' di seno? capelli più chiari? più scuri? lobi delle orecchie più carnosi? più giovane? più vecchia? più spiritosa? più seria? cambiamo il 171
colore degli occhi? le diamo un passaporto americano?» Gyuri si rendeva conto che avrebbe risposto: «Va bene così, grazie». Non avrebbe cambiato un capello, un poro, non avrebbe aggiunto né tolto la minima particella, perché altrimenti non sarebbe più stata lei. Era inutile cercare di decidere quale fosse la parte migliore di lei; era incapace di fare il giudice al concorso delle bellezze di Jadwiga, perché i suoi tratti continuavano a scavalcarsi tra loro guadagnando a turno il suo favore. Fu allora che si rese conto di aver scaricato la zavorra del mondo, di essere rimasto isolato sul pianeta Jadwiga. Sebbene non si trattasse della prima scorreria di Jadwiga in casa di Gyuri, era la prima volta che vedeva Elek, il quale era stato assunto come guardiano notturno all'ospedale Lászlo (un'occupazione adatta a lui, dal momento che gli imponeva di stare a lungo seduto a non far niente, completamente libero di immaginare come spendere il denaro che contava di vincere alla lotteria). Così, dopo il primo urto frontale, venne il momento del baciamano formale che Elek le fece battendo i tacchi. In cucina, mentre Gyuri allineava gli ingredienti per una frittata, Elek gli si avvicinò furtivo a sussurrargli la propria calorosa ammirazione: «Congratulazioni». Gyuri fece finta di niente, ma l'approvazione di Elek gli fece piacere. Elek osservava Gyuri che rompeva le uova con l'ammirazione dell'analfabeta culinario. «Non hai più saputo niente del giovane Pataki?» chiese. Gyuri scosse la testa. Alla radice della partenza di Pataki c'era la motocicletta più veloce di tutta l'Ungheria. O forse era solo una delle radici. O meglio, continuava a riflettere Gyuri, prendendo gusto alla metafora, soltanto una parte del fogliame. Chissà? Si trattava di una Moto Guzzi, una montagna a due ruote, che in origine apparteneva a Sándor Bokros. Con una serie impressionante di speculazioni commerciali, a partire dal 1945, quando lavarsi era di gran moda, come un prestigiatore Bokros era riuscito, in grazia di una serie di metamorfosi mozzafiato, a tramutare una dozzina di saponette in una mezza dozzina di pellicce. Poi era partito alla volta dell'Italia dove, secondo fonti affidabili, per poco non ci aveva rimesso l'uccello e si era 172
comprato una moto. Improvvisamente, per chissà quale incomprensibile aberrazione mentale, era tornato in Ungheria sulla sua moto proprio quando i confini venivano chiusi tanto ermeticamente che alla fine si erano ristretti di cinquanta chilometri. Nemmeno in Italia di moto come quella ce n'erano tante, ma a Budapest sembrava arrivata addirittura da Marte. Bokros aveva due problemi: far fronte all'epidemia di adulazione e curiosità e trovare un tratto di strada in cui togliere la prima. Quando finalmente capì che sarebbe stato meglio optare per un regime totalitario dove le strade erano asfaltate e diritte, era ormai troppo tardi. Tutti temevano il peggio: o che la moto venisse nazionalizzata, o che lui morisse a seguito di un dissapore con qualche curva ungherese, ma quello che avvenne in realtà nessuno se lo sarebbe mai immaginato. Mentre sorpassava un trattore carico di falci su una strada di campagna, cadde una lama e gli tranciò di netto la testa. «Non ci vuole tanto cervello per guidare una moto», aveva detto Pataki al funerale, riflettendo sul fatto che Bokros aveva proseguito la corsa per mezzo chilometro senza testa. «Sándor ti piacerà, è simpatico a tutti», diceva la gente a proposito di Bokros. Invece suo fratello Vilmos veniva descritto come una di quelle persone che stanno sull'anima a tutti. Indiscutibilmente la signora Bokros doveva mangiare poca affabilità quando aveva concepito Vilmos. Uno degli aspetti più sconvolgenti della morte di Sándor era che la motocicletta più veloce del paese sarebbe passata in mano all'odiato Vilmos. Vilmos assolveva un compito importante nel Locomotive: si trovavano tutti uniti nel dirne peste e corna. Invece di essere afflitta da una vasta gamma di rancori e vendette, la squadra usava Vilmos come bidone dell'inimicizia. Non giocava quasi mai, un po' perché non era molto bravo, un po' per via dello scherzo immancabile in ogni trasferta, che consisteva nello spingere Vilmos sul marciapiede appena il treno si metteva in moto, preferibilmente con addosso solo le scarpe da pallacanestro. «Dov'è Bokros?» chiedeva Hepp. «L'abbiamo visto passeggiare per HatvanCegléd-Veszprém», rispondeva uno di loro. Vilmos scoprì che l'unico modo sicuro per evitare quell'esibizionismo forzato nei posti più insulsi e fuori mano del paese era barricarsi nella toilette fino a destinazione. Accadde la settimana dopo che Gyuri aveva perso la scommessa con Bokros sul risultato della partita di calcio Esercito-Siderurgici. Gyuri era 173
sicuro che avrebbe vinto l'Esercito e non riusciva a capacitarsi che Bokros fosse tanto stupido; ma non sapeva, a differenza di Bokros, che nella stessa data era stato fissato un incontro internazionale, così che l'Esercito avrebbe dovuto fare a meno dei suoi giocatori migliori. In quel periodo Gyuri era al verde, ma aveva messo gli occhi su una cintura di pelle che era precedentemente appartenuta a Sándor e quindi, con un'iperbole eccessivamente colorita, in cambio della cintura aveva scommesso che, in caso di vittoria dei Siderurgici, Bokros avrebbe potuto cacargli in mano. I Siderurgici vinsero, ma, misteri della vita!, Vilmos manifestò un improvviso sprazzo di senso dell'umorismo. Naturalmente nessuno voleva perdersi lo spettacolo. Vilmos si mise in posizione e Gyuri si accucciò cortesemente alle sue spalle, pronto a raccogliere la palla fecale. «Non farla cadere per terra!», fu l'esortazione generale. Gyuri attese dignitosamente di tenere fede alla parola data ma Bokros, trovandosi tutto a un tratto al centro dell'approvazione per aver messo in piedi uno spettacolo tanto divertente, si scompisciava dalle risa e non riusciva a convincere i suoi ufficiali giudiziari muscolari a sfrattare gli occupanti delle sue budella. «Datemi un giornale», disse sperando che la lettura di qualche brano del discorso del primo ministro Hegedus sui rapporti magiaro-sovietici lo aiutasse a rilassare gli sfinteri, ma la folla alla fine si dovette disperdere delusa. Gyuri si era perso il preambolo della discussione, ma la scommessa fra Pataki e Bokros la settimana successiva era sorta da un feroce scambio di insulti. Era successo sull'isola Margherita dopo un allenamento. Gyuri entrò in scena mentre Pataki, che in quegli ultimi tempi si era fatto molto suscettibile, diceva a Bokros che valeva meno di una merda. Pataki era furioso e aveva l'aria furiosa, il che era strano perché generalmente non faceva volantinaggio sui propri sentimenti; Bokros, da cui ci si sarebbe aspettati che fosse abituato a sentirsi dare della merda e peggio, era indignato. «Chi ti credi di essere?» esclamò. «Ti credi tanto importante? Ti credi tanto duro?» Bokros era sul punto di scoppiare nel pronunciare quella parola. «Quando si tratta di cose serie non fai tanto il furbo.»
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«Ma io non ho leccato il culo a tutti quelli del Ministero dello Sport, usciere compreso.» «No, tu sei tanto indipendente, sei il ribelle dello spogliatoio, il rivoluzionario che farà crollare tutto con il suo esplosivo sarcasmo... Sottovoce, però, perché di parlare a voce alta non hai il coraggio. Se pensi che tutto faccia schifo, perché non lo dici chiaro e tondo?» «Te lo faccio vedere», disse Pataki indicando la Casa Bianca dall'altra parte del fiume. Perché non gli dà un pugno? pensava Gyuri. «Te lo faccio vedere chiaro e tondo, se ci tieni tanto. Scommettiamo la tua moto contro metà del mio stipendio di un anno che farò il giro della Casa Bianca nudo come un verme mostrandogli una maestosa veduta a 360 gradi delle mie belle chiappe magiare.» «Ci sto», accettò Bokros reso irremovibile dalla rabbia e dalla certezza che Pataki non avrebbe osato farlo per davvero. Ma Pataki fece cenno a Gyuri e a Bánhegyi. «Venite, voglio dei testimoni.» Gyuri aveva passato gran parte della propria esistenza a pensare che Pataki esagerasse, ma non era mai stato tanto convinto che il suo amico si avviasse a uno scontro frontale con il destino da quella volta, nel '45, che Pataki gli aveva detto: «Certo che dovremmo provare quella rivoltella. Tua madre non se ne accorgerà. Che cosa vuoi che ci succeda, che i russi ci arrestino e ci facciano fucilare?». La Casa Bianca era ufficialmente la sede del Ministero degli Interni, ma era soprattutto il covo del Partito dei lavoratori e dell'AVO. C'era chi diceva che fosse il quartier generale dell'AVO, ma per non correre rischi l'AVO sembrava averne diversi: tanto per cominciare Andrássy ut, seguito da una serie di confortevoli villette sulle alture di Budapest dove si poteva picchiare la gente in santa pace. La Casa Bianca, come veniva chiamato volgarmente il Ministero in riva al fiume, assomigliava in modo impressionante a una scatola da scarpe. Si diceva che l'architetto incaricato del progetto (non perché fosse membro del Partito, ma per via dei suoi illustri natali: visto che suo padre era un alcolizzato e un operaio fallito e sua madre una prostituta di modesto successo, veniva ritenuto adeguatamente antiborghese), secondo la migliore tradizione dell'architettura ungherese che consisteva in far festa e 175
bisboccia, avesse speso i sei mesi assegnatigli per l'elaborazione del progetto e tutti i soldi del compenso a far festa e bisboccia e a dire a tutti quelli che incontrava (operai edili, commessi, proctologi, inservienti della piscina, lastricatori, percussionisti e un signore sul tram numero due che allevava sanguisughe in attesa di un loro imminente revival in medicina) che gli era stato commissionato il progetto del Ministero. Una mattina l'architetto era stato crudelmente svegliato da una telefonata dalla sede del Partito, in cui gli era stato comunicato che lo cercavano da una settimana, che quel pomeriggio avrebbe dovuto mostrare il modello della costruzione e che Rákosi era di cattivo umore. Per fortuna l'architetto non risentiva dei postumi di qualche sbornia dal momento che era ancora ubriaco, essendo appena andato a letto dopo tre giorni di gozzoviglie a un matrimonio di zingari a Mátészalka. Aveva la mente abbastanza lucida da rendersi conto che lo aspettava la fucilazione o, con un po' di fortuna, una breve vita in fondo a una miniera a fare torte di uranio in qualche parte fuori moda dell'Ungheria. Frugando disperatamente nell'armadio, aveva ritrovato un modello costruito anni addietro quando era studente, prima della guerra, in occasione di un concorso per la costruzione di un albergo di lusso a Lillafured. Era un modello abbastanza dettagliato, anche se le torrette gotiche non seguivano propriamente gli ultimi dettami di Mosca; ma se quel plastico rischiava di segnare la fine della sua carriera di architetto, gli avrebbe perlomeno dato la possibilità di salvarsi la vita e di continuare a nutrire qualche vaga speranza di feste e bisbocce future. E poi, chissà, magari Rákosi andava matto per le torrette gotiche... Intento a mettere a punto una scorta di menzogne sfacciate con cui accompagnare il modello, non si era accorto che non si era tirato su i calzoni ed era inciampato, danneggiando in modo irrimediabile il modello e con esso la più epica delle sue bugie. Nel vedere una scatola da scarpe rintanata nell'armadio, si era ricordato le parole del suo professore: «Le idee migliori vengono per caso». (Detto professore si era visto assegnare l'incarico di costruire il museo etnografico perché aveva sbagliato a copiare l'indirizzo di un potenziale cliente che voleva il progetto di una pasticceria ed era finito sulla soglia dell'ufficio del direttore del comitato del museo, che era rimasto conquistato dalla sua 176
fumosa parlantina.) Presa la scatola da scarpe, vi aveva disegnato delle finestre e aveva incominciato a improvvisare un discorso cosparso di abbondanti riferimenti alla dittatura del proletariato. «Avrei potuto portare un modello elaborato, ma in questi tempi in cui è il popolo lavoratore a dettare...» Poi c'era la storia di Széll. A Gyuri veniva in mente tutte le volte che vedeva la Casa Bianca. Széll e suo padre erano specializzati in macchine per l'industria alimentare e dicevano di aver ricevuto l'ordine di installare due tritacarne di dimensioni mastodontiche nei sotterranei della Casa Bianca, evidentemente destinati alla triturazione dei corpi particolarmente difficili per i pesci. Naturalmente sia Széll sia il padre erano bugiardi inveterati, al punto che se davanti al plotone di esecuzione avessero chiesto loro «Volete salva la vita?» si sarebbero visti costretti a rispondere di no. D'altra parte non era difficile immaginare che un grosso tritacarne potesse tornare utile e fosse un buon modo per colorare di rosso il bel Danubio blu. Gyuri, Bánhegyi, Róka e alla fine anche Bokros, cercarono tutti di dissuadere Pataki dal portare a termine la sfida, ma Pataki era incandescente dalla rabbia anche in piena luce del sole. Bokros cercò di ridimensionare la faccenda con un certo spirito, probabilmente rendendosi conto che le conseguenze potevano essere deleterie anche per lui. «No», dichiarò Pataki voltandogli le spalle. «Domani alle dodici.» Preoccupato, Gyuri rifletté su come dissuadere Pataki dal provocare la Casa Bianca con la vista delle sue chiappe. Parlargliene non sarebbe servito e Gyuri era incerto sul tipo di macchinazione che potesse sortire l'effetto desiderato. Era come se gli mancasse la chiave inglese della misura giusta per svitare un bullone: un gioco da ragazzi se si hanno gli utensili adeguati, altrimenti un'impresa impossibile. Esisteva una formula verbale che poteva farlo scoppiare a ridere e mandarlo a remare, ma Gyuri non trovava la combinazione. Era talmente allarmato che arrivò persino a parlarne con Elek, il quale non rimase scosso, né mostrò alcuna costernazione alla prospettiva di perdere l'amico di nicotina, ma mantenne il suo altero distacco da poltrona. «Suppongo che verrai arrestato insieme a lui, no? Dicono che il carcere sia un'esperienza formativa. A dire il vero, il mio carattere era già formato quando mi sbatterono dentro a Bucarest.» 177
«Sei stato dentro?» «Solo qualche giorno. Corruzione.» «Corruzione? E chi hai corrotto?» «No, il problema era che non avevo corrotto nessuno. Rimasero seriamente sconvolti.» «Senti, Pataki ci rimarrà molto più di qualche giorno.» «È difficile capire perché la gente faccia certe cose. Quando ero nell'esercito a Vienna un mio amico litigò furiosamente per una banalità: la posizione dei tovaglioli nella mensa ufficiali o roba del genere. Alla fine sfidò a duello l'altro. Tutti a turno facemmo il possibile per dissuaderli. A parte che rischiavano di lasciarci la pelle, i duelli erano assolutamente vietati e c'erano un sacco di carriere che rischiavano di cadere stecchite come foglie morte. Siccome la cosa che faceva più paura era perdere la faccia, gli misi un braccio sulla spalla e dissi: "Jószi, è uno stupido malinteso. Le persone adulte non si comportano così. L'onore è l'onore, ma non si può sparare a un collega per un tovagliolo". Credevo di fare bene, ma lui alzò gli occhi e ricordo ancora adesso il suo sguardo appassionato. "No", mi disse. "Non capisci. Io voglio fargli saltare le cervella." Il tovagliolo naturalmente non c'entrava, era il solito ingorgo di traffico fra le cosce di una Fraulein viennese. «Se vuoi gliene parlo, ma non credo che servirà. Queste pazzie latenti covano per anni interi, come i migliori commenti improvvisati. È successo lo stesso con le mie dimissioni: sembrava che mi fossi stufato improvvisamente, ma era parecchio che ci rimuginavo. Il mio problema con l'esercito era che non riuscivo a prenderlo sul serio e loro non me lo perdonavano. Immagino che chi non si dimostra abbastanza riverente vada a finire nei guai in qualsiasi professione. Ma in campo militare è tutto una buffonata. Ogni volta che cominciano qualcosa di buono lo lasciano in mano a dei dilettanti e così un soldato vero spicca come una quercia in un prato. Se vuoi gliene parlo, ma non credo che mi starà a sentire. Tu non l'hai mai fatto.» Quella sera però Pataki non si lasciò né trovare né dissuadere e così all'ora prestabilita si ritrovarono sul ponte Margherita. Bokros aveva 178
un'aria pallida e postuma, visto che non aveva niente da guadagnare comunque andassero a finire le cose. Implorò Pataki di lasciare perdere. Se gli avesse offerto la motocicletta, forse sarebbe stato più convincente, ma non lo fece. «Sarà meglio che restiate qua», suggerì Pataki affidando a Gyuri l'incarico di sorvegliare la moto che presto sarebbe entrata a far parte della sua scuderia. «Ci vorrà un po' di tempo», disse Pataki avviandosi a passo di corsa verso la Casa Bianca con la tranquillità dell'atleta senza scrupoli. Indossava la tuta nera, finché non raggiunse l'argine vicino al Ministero. Dalla loro postazione privilegiata sul ponte, Gyuri e Bokros lo videro ridurre la propria tenuta a un paio di scarpe da basket, stile Locomotive. Sembrava abbronzato e rilassato e anche a centinaia di metri di distanza la sua muscolatura offriva un profilo ben definito. Era una muscolatura superba, pensò Gyuri, e gli venne in mente che Pataki per poco non era stato scelto come modello per l'Adone proletario nudo che faceva bella mostra di sé sul retro delle nuove banconote da venti fiorini. Cercavano un valido esempio del nuovo vigore ungherese e l'artista aveva optato per Neumann, che meglio incarnava un simbolo maestoso di rinascita, giustizia e verità, grinta e invincibilità socialista, forse anche perché Pataki aveva chiesto dei soldi. «Mica gli do i pettorali gratis.» C'erano guardie tutto intorno all'edificio: la gente non veniva propriamente incoraggiata a passare davanti al Ministero. Se da un certo punto di vista quelli dell'AVO ritenevano giusto ostentare una sede sontuosa in riva al Danubio, lo svantaggio era che tutti sapevano dove trovarli, cosa che con ogni evidenza li metteva lievemente a disagio. Le guardie erano insonnolite e chiaramente non abituate a fare il loro lavoro. Pataki si avvicinò all'ingresso principale prima che dessero chiari segni di agitazione e di perplessità di fronte a quella sfida al potere popolare. Poi una guardia ebbe l'idea di lanciarsi all'inseguimento e le altre la trovarono sufficientemente valida da seguirne l'esempio. Erano bene armate, ma quanto a gambe erano messe male. Usando con criterio la propria accelerazione, Pataki guizzò davanti a tutti, sfuggì ai nuovi arrivati e mantenne una certa distanza provocante fra sé e la torma degli inseguitori. Scattò dietro 179
l'angolo del Ministero con il suo codazzo di guardie, che lasciarono sguarnita, immobile e deserta la facciata della Casa Bianca. Dopo un intervallo di tempo più lungo di quanto sembrasse possibile Pataki rispuntò da dietro l'edificio e superò il traguardo nel punto da cui era partito e dove aveva lasciato la tuta. Sembrava soddisfatto di aver circumnavigato la Casa Bianca con le chiappe al vento quando i suoi inseguitori in uniforme lo raggiunsero. Nel prenderlo così senza vestiti, le guardie dubitarono sul da farsi. Alla fine gli gettarono una coperta addosso e lo fecero salire su un cellulare. «Be'», concluse Bokros. «Il motore ha bisogno comunque di una ripassatura.» Quasi tutti i giocatori del Locomotive decisero di andare da parenti in campagna, a fare lunghe passeggiate in collina o a stare da qualcuno per qualche giorno. Gyuri attese a casa l'ondata punitiva, si preparò a un interrogatorio e a negazioni quadridimensionali. Cinque giorni dopo la plateale esibizione delle chiappe alla Casa Bianca, al suo ritorno a casa Gyuri trovò Pataki che si accingeva a fare una doccia. Puzzava un po' ed era un filo spettinato, ma per il resto aveva l'aria sorprendentemente incolume. «Spero che ti sia portato la saponetta, scroccone schifoso che non sei altro», protestò Gyuri. Poi, incapace di trattenere oltre la curiosità, domandò: «Com'è andata?». «Cosa?» gridò Pataki sotto la doccia. «Come sarebbe: com'è andata?» Si stava insaponando e Gyuri capì che così non gli avrebbe raccontato niente. «Pensavo che i talent scout dell'AVO ti avessero scritturato.» «Ah, quello! Non è chiaro? Sono malato di mente. Uno sano di mente fa forse il giro del Ministero di corsa tutto nudo? Hai di fronte a te un malato di mente appena scappato dal manicomio. Mi prepareresti qualcosa da mangiare' Noi matti mangiamo le stesse cose di voi normali.» Dopo un po' Pataki entrò in cucina leggendo una lettera spedita poco prima della sua bravata. Era del Ministero dello Sport, che lo informava che la sua domanda di borsa di studio all'estero era stata respinta. In fondo alla pagina, sotto al secco rifiuto, avevano giudiziosamente apposto un timbro che diceva: «Lotta per la pace». 180
«Guarda un po'», disse Pataki sventolando la lettera con fare disgustato. «Come possono pensare che voglia vivere in un paese dove mettono idiozie come queste sulle lettere? Basta, me ne vado.» Era un po' che Pataki tirava fuori l'argomento fuga, cioè che ne parlava quando Gyuri era a portata d'orecchio. L'argomento aveva incominciato ad affascinarlo principalmente perché Bánhegyi era stato trasferito al reparto spedizioni internazionali delle ferrovie. A Bánhegyi, come a tutti quelli del Locomotive, non chiedevano di lavorare, ma quando faceva un salto sul posto di lavoro giusto per ritirare lo stipendio aveva accesso a tutte le informazioni. Era un modo estremamente rischioso di scappare, ma a quei tempi ne erano disponibili solo di estremamente rischiosi. Se non fosse stato per Jadwiga, se fosse stato solo, Gyuri ci avrebbe provato, ma non voleva fare correre rischi a lei per quanto, conoscendola, sapeva che non si sarebbe tirata indietro. Il fatto era che aveva qualcosa da perdere. Pataki avrebbe dovuto accettare la sua proposta nel '47. Pataki insistette per andare a caccia di Bánhegyi. «Voglio andarmene prima che mi becchino i dottori.» Il Cielo era evidentemente dell'umore giusto per esaudire il suo desiderio, perché trovarono Bánhegyi di ritorno dal dottore, che gli aveva appena rilasciato un certificato per una lussazione. «Sì», disse, «di treni che passino il confine ce ne sono, ma dove vadano non lo so. Cambiano le composizioni e le destinazioni continuamente. » Bánhegyi avrebbe preferito aspettare qualche giorno per studiare le possibilità, ma Pataki non volle sentire ragioni. «Rifletterci non lo renderà più facile», decretò. Così a mezzanotte andarono ai binari di raccordo, ruppero i sigilli di un vagone merci e lo aprirono. Era pieno di scarpe. «Le scarpe sono rischiose», spiegò Bánhegyi. «Possono andare a Ovest come a Est.» «C'è altro in partenza stasera?» domandò Pataki. «No.» «Allora va bene questo.» Salì a bordo con una borsa che conteneva due pagnotte, del formaggio, sei mele, una bottiglia di acqua minerale e tre bottiglie di birra ceca, il cui ultimo indirizzo era stato quello di casa Fischer. «Ubriacarsi è uno dei pochi divertimenti possibili in un vagone
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merci buio pieno di scarpe», disse Pataki giustificando la compagnia che si era scelto. Concordarono un modo per comunicare. «Anche se finisci in Siberia, mandaci una cartolina», lo pregò Gyuri. «Certo», rispose Pataki. «Ai miei ditelo fra un giorno o due. Ditegli che avrei voluto dirglielo, ma che così è più facile per tutti.» Porse una busta a Gyuri. «È una lettera di scuse generali. Digli di non cercare la fede del nonno: l'ho presa io. Sapete mica quanti anni danno per una cosa così?» Guardò Gyuri. «Allora tu non vieni?» «Ormai non può più durare a lungo.» Chiusero il portello e Bánhegyi rimise i sigilli ufficiali.
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23 ottobre 1956 Andando al Ministero dello Sport (era così che tutti chiamavano il Comitato Nazionale per l'Educazione Fisica e lo Sport, cui piaceva fingere di non essere un Ministero perché ciò avrebbe screditato quell'atmosfera di dilettantismo che cercavano di coltivare) Gyuri vide salire sul tram un controllore. Era senza biglietto. Era sempre senza biglietto. Era sempre stato senza biglietto. Non aveva pagato un centesimo per i trasporti pubblici dagli ultimi anni della guerra. Per di più, in tutto quel tempo non aveva mai nemmeno contemplato l'ipotesi di pagare, neppure per un attimo. Questo prima di tutto perché non se la sentiva proprio di cedere allo Stato una parte, per quanto esigua, del proprio denaro, e in secondo luogo perché di solito i tram erano talmente pieni che solo una percentuale irrisoria del suo corpo vi trovava posto. Il più delle volte era costretto a viaggiare fuori, appeso per una mano, con un piede soltanto sul predellino, in compagnia di vari concittadini nella sua stessa posizione, e non gli pareva che quella sistemazione giustificasse alcun genere di pagamento. Una volta tanto che era seduto, si stava chiedendo a che punto gli convenisse scendere quando all'altro capo del tram un operaio con tanto di tuta blu di colpo si mise ad abbaiare al controllore: «Quando lo Stato comincerà a pagarmi con soldi validi, allora avrò un biglietto valido, capito?». La violenza di quello scatto d'ira fu stupefacente, molto maggiore di quanto ci si sarebbe aspettati anche nelle circostanze più estreme di fronte alla richiesta di un biglietto. Fece scendere il silenzio sull'intero tram e attirò l'attenzione generale di chi già pregustava una bella sceneggiata da pubblici trasporti. Normalmente la gente che non voleva o non poteva pagare scendeva al volo all'avvicinarsi delle autorità, come faceva Gyuri, e il tram prendeva l'aspetto di un albero che perdeva via via le foglie. Evidentemente il controllore era incappato in una rabbia che covava da un pezzo. La sua richiesta aveva spalancato la porta a un accumulo di rancore e la pura ferocia della replica, con l'aperta minaccia di lesioni corporali imminenti quanto spietate proclamata a gran voce, lo convinsero a soprassedere. Gyuri aveva assistito a un solo caso di rifiuto incondizionato prima di allora: un uomo anziano, che tratteneva a stento 183
due enormi cani lupo con la bava alla bocca, invitato a mostrare il biglietto, aveva dichiarato sorridendo: «Sinceramente non ho voglia di pagare». E non lo aveva fatto. Sentendosi la dignità in pericolo, il controllore scese all'Asteria. Gyuri guardò fuori e notò gruppetti di studenti qua e là con dei cartelli in mano. Erano stati tranquilli per un po', intimoriti da alcuni dei migliori esempi della brutalità disponibile sul pianeta Terra, ma poi gli ungheresi avevano ricominciato con lo sport nazionale: mugugnare. Avevano ricominciato tutti, a quanto pareva. Ci si erano messi persino all'Unione degli Scrittori, tempio indiscusso della malnutrizione morale, rinnegando di colpo tutto ciò che avevano scritto negli ultimi anni. Sollevata la testa da sotto il culo di Rákosi, l'Unione sbatteva gli occhi alla luce del giorno. Mentre andava all'udienza disciplinare Gyuri aveva saputo da Laci, il fratello minore di Pataki, che gli studenti del Politecnico stavano organizzando una manifestazione. «Una vera manifestazione, sai, decisa da noi.» Non era chiaro se fosse autorizzata o meno. Alcuni capi dicevano di sì, altri di no. Agli studenti non sembrava importare. La manifestazione non avrebbe cambiato niente di niente. Gyuri non lo aveva detto a Laci perché era troppo entusiasta all'idea, ma era stato tentato di citargli il dottor Hepp: «Signori, una cacca d'orso si può capovolgere, si può portare a fare un giro sul Balaton, si può mettere in una bella scatola legata con un nastro azzurro, la si può denigrare o si può comporre un'ode in suo onore, ma rimarrà sempre una cacca d'orso». Che differenza avrebbe fatto allora se anche avessero cambiato il leader del Partito come avevano fatto in Polonia? O se il nuovo leader avesse svillaneggiato il vecchio leader? O se si fossero trovati con un Gero invece di un Rákosi? O con un Nagy invece di un Gero? Erano tutti stronzi provenienti dallo stesso nastro trasportatore. Era come protestare per il cambio di una lampadina. E se il nuovo leader avesse dato la colpa di tutto al vecchio? Era il gioco della cavallina politica, le sedie musicali al Comitato Centrale. Perché prendersela tanto? Il suo umore quella mattina non era dei migliori per via della convocazione disciplinare, ma l'incidente dell'AVO lo rallegrò.
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All'Astoria salì sul tram un ufficiale dell'AVO (quelli in uniforme si erano fatti più rari per le strade negli ultimi tempi, sembravano a disagio). Portava elegantemente un'elegante valigetta e trasudava una vigorosa fiducia nella propria importanza, sembrava quasi che fosse quell'importanza a tenere ben alta la testa sul tram. Accanto a lui c'era un gruppo di manovali sporchi, robusti, neri di lavoro, tipi che senza dubbio nel tempo libero amavano sopra ogni altra cosa il prendere a calci in testa il prossimo. Era prevedibile che sarebbe finita così. Se la presero comoda, però, squadrando l'ufficiale dalla testa ai piedi mentre il tram continuava la sua corsa. Alla fermata successiva uno si sporse in avanti e gli chiese con voce stentorea tra fumi di pàlinka: «Vediamo un po', ti sei lavato i denti stamattina?». «Come?» chiese l'AVO stupito da quella domanda tanto diretta. «Ti sei lavato i denti stamattina?» insistette l'uomo. «Sì», fu l'unica risposta che riuscì a trovare l'altro. «Benissimo. Allora per questa volta puoi leccarmi il culo.» La detonazione di ilarità fu tale che l'ufficiale praticamente volò giù dal tram. Gyuri si sentì onorato di essere presente alla nascita di un aneddoto che avrebbe ravvivato non poche serate in una kocsma. Schiacciato fin quasi alla prostrazione sotto il peso del proprio colossale imbarazzo, l'AVO si accorse che era arrivato alla sua fermata e sgattaiolò via. Al Ministero dello Sport Hepp lo aspettava fuori, guardando con fare ostile l'orologio neanche fosse in qualche modo complice del suo ritardo. Non erano in ritardo per l'udienza, ma a Hepp piaceva arrivare sempre con dieci minuti di anticipo. Gyuri faceva l'impossibile per essere puntuale con Hepp, perché con lui i ritardi si pagavano. «Ma avevamo detto alle undici», diceva Hepp, non riuscendo sinceramente a capire perché un accordo tanto chiaro non fosse stato rispettato. E continuava con quella solfa finché uno non temeva di uscire di senno. Inutile ricorrere a scuse come carestie di tram, terremoti o subitanei fenomeni di combustione casalinga: Hepp replicava semplicemente: «Perché non sei partito prima?». Per lui il ritardo era qualcosa di incomprensibile, una stele mal conservata in una lingua antica. Più che arrabbiarsi, non capiva: «Ma avevamo detto alle undici». Lo ripeteva a non finire, in tutte le tonalità, con 185
la determinazione di un crittografo deciso a decifrare un codice indecifrabile. La puntualità solare di Hepp era infallibile. A memoria d'uomo era arrivato in ritardo a un appuntamento una sola volta in tutta la sua vita, quando Pataki, saputo che Hepp doveva recarsi a un seminario di allenatori, era entrato di soppiatto nel suo ufficio proprio mentre questi si preparava a uscire. Nascondendosi dietro un innocente scambio di convenevoli, Pataki si era appropriato della chiave dell'ufficio, aveva chiuso la porta dall'esterno ed era andato a raggiungere gli altri fuori, dall'altra parte della strada, a godersi la scena. Nel giro di qualche minuto Hepp aveva cominciato a ordinare a gran voce che lo liberassero, strillando appassionatamente dalla finestra del secondo piano. Alla fine era riuscito a convincere un passante a procurargli una scala, ma ormai aveva un irrimediabile quarto d'ora di ritardo. Naturalmente dietro la convocazione di Gyuri al tribunale disciplinare c'era Matasits. Da un certo punto di vista, non c'era neanche gusto. Ogni volta che Gyuri giocava in una partita arbitrata da Matasits, accumulava prontamente i suoi cinque falli e veniva espulso prima ancora di aver fatto un giro intero del campo, anche se non aveva commesso nessun fallo o non era nemmeno passato per le vicinanze della palla. L'irresistibile impulso a fischiare che Matasits sembrava provare ogni volta che lo vedeva lo aveva convinto ormai da molto tempo che l'arbitro l'aveva classificato come un cattivo soggetto, un recidivo incallito. Pur essendo disposto a riconoscere che nessun arbitro gli avrebbe dato il premio per il giocatore di basket più corretto dell'Ungheria, Gyuri trovava irritante quell'ammasso di biasimo infondato. Per quanto cercasse di comportarsi in maniera impeccabilmente esemplare, dimostrandosi di una cortesia assurda, porgendo agli avversari la palla su un piatto d'argento al minimo segno di interesse da parte loro ed evitando il contatto con i giocatori dell'altra squadra neanche fossero lebbrosi radioattivi, se arbitrava Matasits, finiva espulso. Correva voce che Matasits lo ritenesse responsabile di una consegna al suo domicilio di duecento paia di occhiali sovietici e che volesse vendicarsi di quell'affronto merceologico. Tuttavia era la prima volta che Gyuri finiva addirittura davanti alla Commissione disciplinare. Il dono di muoversi furtivo nei punti ciechi del campo visivo degli arbitri di solito gli permetteva di far scempio 186
impunemente degli avversari; aveva inoltre sviluppato un talento da prestigiatore nell'indirizzare l'attenzione dei direttori di gara nella direzione sbagliata per poi sgomitare, afferrare per i pantaloncini e pestare piedi sotto il loro stesso autorevole naso. Hepp era giunto a esprimere giudizi qualitativi sui suoi falli nell'analisi post-partita: «sufficiente», «di classe» e addirittura, dopo una zuccata assassina a Princz (uno che considerava le partite di pallacanestro un'illimitata occasione per dar colpi nelle balle altrui), e dopo che questi era stato portato via in barella, «mondiale». Quando c'era Matasits, però, Gyuri si atteneva risolutamente, benché inutilmente, alla massima nobiltà di comportamento. Durante una partita con l'Esercito in cui, malgrado l'assenza di Pataki, l'Esercito era in vantaggio solo di poco, Gyuri e un altro giocatore erano a caccia di una palla e quello l'aveva presa facendo crollare a terra Gyuri, che a terra era rimasto mentre lui se ne volava fino al canestro del Locomotive e segnava due facili punti. Come tutti, Róka aveva pensato che il plateale crollo di Gyuri fosse un tentativo fin troppo istrionico di rientrare in possesso della palla. «Okay», gli aveva detto vedendolo ancora a terra, «ora puoi alzarti.» Ma Gyuri non si era alzato perché era completamente privo di sensi. Matasits lo aveva ammonito per ostruzione volontaria, dichiarando che in tutta la sua lunga carriera di arbitro non aveva mai visto nessuno fingere così sfacciatamente e che la questione sarebbe finita davanti alla Commissione disciplinare, tanto più che Gyuri, quando aveva ripreso contatto con la realtà e aveva capito che cosa stava succedendo, barcollando, aveva cercato di strozzare Matasits. La Commissione era composta da tre distinti signori inerti e manifestamente annoiati seduti dietro un'ampia scrivania: avevano l'aria di risiedere in quella stanza anche quando non c'erano sedute della Commissione. Matasits esordì: «Egregi signori, ci troviamo di fronte a un caso di vilipendio di ciò che l'uomo ha di più sacro». Leggeva malamente degli appunti. Gyuri si mise comodo perché, a giudicare dalla quantità di fogli che Matasits aveva in mano, la cosa sarebbe andata per le lunghe. Matasits aveva attinto abbondantemente al dizionario. Sciorinando liberamente una serie di luoghi comuni, accusò Gyuri di essere la fonte di tutti i mali, un omicida neandertaliano che si aggirava per i campi da gioco sulle quattro 187
zampe, usando la propria limitata capacità di parola per coprire di insulti funzionari con tutte le carte in regola. Con evidente e progressivo disappunto di Matasits, i giurati non rimasero a bocca aperta per l'orrore, ma presero diligentemente e impassibilmente nota. Aspettandosi qualcosa dell'ordine della condanna al rogo, magari con l'aggiunta di una squartatina tanto per gradire, Matasits uscì scoraggiato per la fredda accoglienza ricevuta. Le facce annoiate rincuorarono un po' Gyuri, benché sapesse benissimo che anche della gente annoiata può smembrare una carriera. Poi fu il turno di Hepp: «Signori, pur non potendo trovare alcuna scusante al comportamento di Fischer, vorrei far presente che egli è reduce da un periodo di enormi, dico enormi, pressioni. Poco tempo fa gli è morta la madre e questa perdita, insieme al volontariato come allenatore presso l'orfanotrofio di Ferencváros e in aggiunta allo straordinario impegno dispiegato sul posto di lavoro...». Una bella orazione, pensò Gyuri, anche se non era proprio sicuro che ci fosse un orfanotrofio a Ferencváros. Alla fine lo invitarono ad alzarsi e a far presenti eventuali circostanze attenuanti. «Vorrei scusarmi, signori, per avervi costretto a dedicarmi il vostro tempo prezioso e vi assicuro che questa è l'ultima volta in cui mi vedete in una posizione...» La Commissione non ne poteva più. Erano pagati per stare seduti, non per ascoltare. Era l'ora di pranzo e Gyuri fu interrotto sbrigativamente da quello nel mezzo. «Cinquanta fiorini di multa», sentenziò. Gyuri, esaltato dall'esiguità della cifra, ebbe l'impulso sconsiderato di offrirne cento se gli lasciavano dare un pugno in faccia a Matasits. «Non vai alla manifestazione?» gli chiese Hepp quando furono fuori. «Ci vanno tutti, a quanto pare.» «Se pensassi che servisse a qualcosa, sarei il primo ad andarci.» Gyuri valutò se andare a lavorare o no. Fu una valutazione rapida. La Manifattura Piumini poteva fare a meno di lui per un pomeriggio, se ne aveva fatto a meno senza problemi nei due mesi da quando era stato assunto. Era stato Hepp a trovargli un lavoro là: come ogni buon giocatore di pallacanestro dilettante, Gyuri aveva bisogno di un lavoro e, ottenuto il diploma di ragioniere, riteneva di meritare un posto di maggior prestigio,
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maggiori prospettive e maggiore stipendio rispetto a buttar giù un messaggio in Morse ogni tanto nelle ferrovie. Così gli avevano rimediato il posto nell'ufficio pianificazione alla Manifattura Piumini. Ovviamente nessuno ambiva a un posto dove ci fosse pericolo di lavorare davvero, ma era sempre meglio andare a ritirare lo stipendio in un ambiente stimolante e raffinato. Tutto ciò che aveva dovuto fare nei due mesi di permanenza alla Manifattura era stato, per pura curiosità, prendere le cifre, fornite dal Ministero, relative alle quantità che la fabbrica doveva produrre in base al Piano Quinquennale e dividere i totali per il numero di unità della fabbrica. Avendo così calcolato le quote di produttività unitaria, le aveva sommate di nuovo ottenendo la produzione fissata dal Piano. Quanto a ciò che avveniva effettivamente nello stabilimento, lui non lo sapeva e dubitava che qualcun altro lo sapesse o volesse saperlo. La maggior parte del poco tempo che passava in ufficio lo impiegava con un collega economista, Zalán, a lanciarsi fiammiferi (accesi sulla carta vetrata della scatola) da una scrivania all'altra, scommettendo su quali pile di fogli avrebbero preso fuoco. Era entrato in possesso del Piano dettagliato per caso, dopo essersi imbattuto in Fekete, il direttore della Manifattura Piumini, che si precipitava in un corridoio con un paio di canne da pesca. Lo aveva riconosciuto perché prima della guerra Fekete era un famoso campione di lotta libera, soprannominato il «Boa grasso». Correva voce che avesse prestato dei soldi ad alcuni membri del Comitato Centrale nei giorni della loro illegalità, quando vivevano tutti nella stessa pensione. «Piacere di conoscerla», aveva detto Fekete stringendogli calorosamente la mano e sfoderando un sorriso da ex showman del bicipite. «Vado terribilmente di fretta, ma nel mio ufficio troverà una copia del Piano. La prenda pure.» Era stata l'unica volta che Gyuri aveva visto Fekete, soprattutto perché questi si presentava in ufficio solo quando aveva bisogno di un posto adatto per le sue avventure extraconiugali, e anche perché non avevano nulla da dirsi. Gyuri era andato nell'ufficio di Fekete e, con l'aiuto di una delle segretarie che quel giorno era venuta a bagnare le piante, lo aveva 189
perquisito a tappeto: del Piano non c'era traccia. Essendo appena assunto, curioso e leggermente inebriato all'idea delle proprie responsabilità, Gyuri aveva deciso di telefonare al Ministero per chiedere chiarimenti. Aveva parlato con tre persone diverse prima di rendersi conto che anche solo capire la procedura sarebbe stata una fatica improba e decisamente al di là delle sue mansioni. Si era divertito a contare: aveva spiegato ventidue volte che chiamava dalla Manifattura Piumini e desiderava avere i dati corretti e aggiornati del Piano. Per ultima gli avevano passato una voce dalla cui ostilità e reticenza aveva dedotto di essere finalmente arrivato alla persona giusta nell'ufficio giusto. «Vuole che glielo dica per telefono?» aveva ripetuto più volte la voce irata. «E chi mi assicura che lei non è una spia americana?» «Mettiamola così», aveva detto Gyuri rimuginando su quel dilemma epistemologico, «una spia americana le direbbe di andare a fare in culo?» Vergognandosi di aver provato a fare sul serio il proprio lavoro, Gyuri era uscito dalla fabbrica. Passando davanti alla guardiola all'ingresso gli era caduto l'occhio sull'indefesso paladino del potere del proletariato che vivisezionava sul tavolo alcuni mozziconi per ricavarne un Frankenstein di sigaretta. Gyuri aveva notato che stava facendo a pezzi una pagina di un documento intitolato La Manifattura Piumini ungherese: Dati Riveduti e Corretti del Piano Quinquennale, 1955. Nel dubbio, meglio andare a casa e mettersi a letto, aveva pensato. Aveva passato una notte insonne a preoccuparsi all'idea della Commissione disciplinare e a prepararsi una linea di difesa, convinto che quella sarebbe stata l'occasione in cui tutti gli arretrati di sfortuna gli si sarebbero rovesciati addosso. Aveva deciso di andare a casa e infilarsi fra le lenzuola. Trovò Elek che cercava di convincere dei fondi di caffè usati a concedere un bis e a produrre ancora un po' di brodaglia nera. «È appena passata Jadwiga», disse. «È venuta a Budapest per la manifestazione.» Gyuri fece un'immediata inversione a U e uscì. Dall'altra parte del fiume vide la folla intorno alla statua di Bem e si accinse ad attraversare il ponte Margherita. Bem era il generale polacco che non sapeva bene in quale rivoluzione si trovava e con grande zelo nel 1848 aveva guidato l'esercito di indipendenza ungherese contro gli 190
Asburgo; lo aveva guidato con lusinghieri successi finché non erano entrati in guerra i russi e l'esercito di indipendenza aveva dimostrato di essere un vero esercito ungherese facendosi sbaragliare. Ma almeno la sconfitta era stata attribuita alla schiacciante superiorità numerica dei russi, anche se versioni apocrife della vicenda volevano che, nel sentire che un esercito dieci volte più grande del suo stava per attaccarli, Bem avesse commentato: «Bene, temevo che la facessero franca». Gli studenti avevano deciso di riunirsi intorno a Bem perché uno degli scopi della manifestazione era esprimere approvazione per i cambiamenti politici avvenuti in Polonia (di cui Jadwiga aveva parlato con grande entusiasmo), che erano del tipo che volevano anche per l'Ungheria: un comunismo affabile, spensierato, estraneo ai furori ideologici. Non sembravano i soli a desiderarlo. Non solo piazza Bem era un mare di teste, ma l'argine tutto intorno era un enorme ammasso di umanità. Trenta o quarantamila persone, e ai margini della folla se ne aggiungevano altre. Era il rigurgito di un sistema indigeribile, con tutti gli ingredienti dell'incontrollabilità. «Gyuri!» Si voltò e vide Laci con due amici che reggevano una grande bandiera ungherese. Fu la prima volta in cui Gyuri ricordò poi di essersi sentito vecchio, di aver provato invidia per quelli più giovani di lui, che non avevano ancora esaurito l'entusiasmo e riuscivano a credere che portando in giro una bandiera si potessero cambiare le cose. «C'è Jadwiga da qualche parte», disse Laci guardando la folla alle proprie spalle. «È venuta con degli amici di Szeged.» Gyuri scrutò nella calca. Poteva volerci tutto il resto della giornata a trovarla, se i loro destini non erano sincronizzati. «Complimenti. Non avrei mai creduto di vedere niente di simile», osservò Gyuri, sorpreso dalle dimensioni della protesta. «Hai visto i sedici punti?» gli chiese Laci aprendo un volantino e porgendoglielo. «Abbiamo cominciato a stenderlo ieri all'Università e non riuscivamo più a fermarci.» La prima rivendicazione che lesse riguardava un cambiamento ai vertici del Partito dei lavoratori. Era il genere di cosa che, solo per averla pensata, nel 1950 ti saresti ritrovato per dieci anni in una cella buia con i reni gonfi e l'acqua gelata fino alle ginocchia. Ora, un po' perché Stalin annusava le 191
violette dalla parte delle radici e un po' perché zio Nikita trattava come spazzatura tutti i suoi predecessori, quel genere di cosa era concepibile, purché la dicessi in compagnia di una folla molto, ma molto numerosa. Il movimento comunista, secondo la miglior tradizione dei capitalisti falliti, era abilissimo nel cambiare nome e indirizzo e continuare l'attività dietro una nuova facciata. Le rivendicazioni si facevano più rivendicative. Imre Nagy dentro, le truppe sovietiche fuori. Libere elezioni e libera stampa. Perché già che ci siamo non chiedere anche la vita eterna e un conto in banca milionario obbligatorio per tutti gli ungheresi? pensò Gyuri. C'era anche la richiesta di aprire tutti i dossier segreti sui cittadini. «Gran bell'elenco», disse, «gran bella folla.» «Le autorità erano contrarie finché non abbiamo cominciato», disse Laci, «ma ora è arrivata un sacco di gente del Partito che non era stata invitata. Immagino che preferiscano fingere di appoggiare la cosa.» Lì per lì l'idea che Jadwiga manifestasse contro il Partito lo aveva lasciato interdetto. A parte i rischi di carattere più specificatamente fisico, tipo essere picchiati o morire, era il rischio dell'espulsione dal paese che lo rodeva. Per Gyuri, che faceva parte della massa priva di passaporto, la Polonia era irraggiungibile quanto il Polo Sud. Ma era chiaro che la folla era troppo numerosa perché ci fossero problemi. Era talmente enorme che non si poteva né spararci in mezzo né pensare di disperderla. Senza dubbio in un secondo tempo capi e oratori sarebbero stati invitati in qualche cella sotterranea per una chiacchierata e qualche lesione strutturale. Ma per la strada l'assembramento era schiacciante: come un parente sgradito che viene in visita, non si poteva fare altro che assecondarlo con aria giuliva finché non decideva di tornarsene a casa. Sarebbe andato tutto bene, purché Jadwiga riuscisse a trattenersi dall'arringare la folla o recitare versi incendiari. «Ora andiamo al parlamento», annunciò Laci, «e ci rimarremo finché non faranno di nuovo primo ministro Imre Nagy. » Gyuri li guardò avviarsi sul ponte. Laci aveva solo quattro o cinque anni meno di lui, ma il suo idealismo faceva sì che Gyuri si sentisse suo nonno. Strano come in due fratelli ci potessero essere tante differenze e somiglianze. Pataki aveva sempre messo la propria intelligenza al servizio dell'uccello e si era sempre sforzato di tirare scemi gli altri. Laci invece era studioso e schivo; tutte le 192
volte che era andato a casa loro, Gyuri lo aveva trovato con un libro in mano, spesso un libro di testo mortalmente noioso. Non si notava, ma era sempre presente. Non era stata una sorpresa che avesse vinto una borsa di studio per andare all'università, successo non indifferente per chi non era figlio di un membro del Comitato Centrale. La sua insubordinazione era semplicemente più nascosta, più insidiosa, quatta quatta in attesa del momento opportuno. Laci non ne aveva parlato, ma Gyuri era sicuro che al Politecnico più che farsi trascinare era un trascinatore. Scrutando fra la folla, cercò tracce di Jadwiga. Lo rincuorò non vederla incitare i manifestanti con il megafono. Per le strade non c'erano più solo studenti, la manifestazione stava crescendo a vista d'occhio: soldati, anziani, nullità, giocatori di pallanuoto, casalinghe, impiegati, tutti quelli che vedevano la manifestazione e i cartelli e si rendevano conto che non era una messinscena organizzata dai comunisti, che non era un Primo maggio fuori stagione, mollavano tutto e si univano al corteo con l'aria di dire: «Perché non ci abbiamo pensato prima?». C'erano decine di persone che tentavano di abbattere la statua di Stalin, folletti radunati intorno ai suoi stivali. Molte altre davano consigli su come procedere. Tentativi e consigli si protraevano ormai da tempo. La statua, con i suoi otto metri di altezza, era stata fatta oggetto di attacchi con mazze, seghetti da metallo, catene fissate a camion e, com'è ovvio, di copiosi quanto sanguinosi insulti, ma rimaneva altamente indifferente all'agitazione attorno ai suoi piedi. Gyuri era molto contento di esserci. Se non fosse uscito a cercare Jadwiga probabilmente si sarebbe perso tutto: c'era da scommettere che Radio Budapest non avrebbe trasmesso la notizia che quella sera si sarebbe svolta una performance unica e irripetibile di idoloclastia. Era indiscutibilmente un momento storico, una di quelle cose che volenti o nolenti i nipoti si sentono raccontare. Gyuri non aveva mai provato prima di allora una soddisfazione altrettanto intensa; piacere sì, ma nulla aveva mai spinto il suo animo a buttare la testa all'indietro e ridere di cuore. Non gli sarebbe dispiaciuto, però, se quel momento storico si fosse dato una bella mossa, perché faceva troppo freddo per star fuori, anche per una di quelle sensazioni che capitano una sola volta nella vita, ed essendo stato in giro tutto il giorno era stanco. Inoltre non poteva fare a meno di 193
pensare che stessero esagerando un po'. Si era posizionato con cura in maniera da avere una buona visuale ma, in caso si fossero profilate delle sanzioni, anche una buona via di fuga. Un po' come a scuola, quando il maestro sta per tornare e mettere fine alla baraonda. Non c'era nulla che giustificasse la sua sensazione di disagio, però. Circolavano alcuni poliziotti, ma avevano l'aria abbastanza divertita e Gyuri ne sentì uno con i baffi che suggeriva di provare con un cannello ossiacetilenico. Un'ora prima erano passati due poliziotti più anziani e più grassi. Il più grasso, e probabilmente anche il più anziano dei due, aveva tentato di disperdere la folla, ma dopo aver lanciato qualche avvertimento si era stufato di essere preso per i fondelli ed era sparito con il suo megafono, per andare a occuparsi di cose più urgenti altrove. Comunque andasse a finire, era stata la giornata più divertente che ricordasse di aver passato da... be', non riusciva a ricordare esattamente da quanto tempo a quella parte, ma per un giorno il regno della noia era stato sospeso. Arrivò un camion e due operai, che maneggiavano l'attrezzatura per l'acetilene con disinvoltura da esperti, salirono sul piedistallo per amputare il vecchio Iosif alle caviglie. Quando la fiamma - una sorta di sole in miniatura nel buio della notte - raggiunse il polpaccio di Stalin, si alzò uno scroscio di applausi. Il pubblico avrebbe potuto essere ancora più numeroso per un evento così monumentale: ci saranno state al massimo tremila persone intorno alla statua, una piccola parte di coloro che, in giro per le strade quella notte, avrebbero provato un brivido di piacere vedendo cadere quell'obbrobrio di bronzo. Ma il giorno dopo, ne era certo, tutti avrebbero sostenuto di aver assistito di persona. Gyuri pensava che la maggior parte della gente fosse ancora in centro, intorno al parlamento dove Imre Nagy aveva salutato timidamente le centomila persone presenti e aveva esordito dicendo: «Compagni...». L'effetto era stato esattamente il contrario di quello desiderato. Benché la folla lo volesse al potere, quell'inizio infelice aveva suscitato fischi e la risposta ritmata: «Non ci sono compagni». Nagy aveva fatto meglio nel resto del discorso, invitando alla calma e al buonsenso. Non era stata un'orazione brillante, ma in quanto comunista Nagy non era abituato all'idea di un pubblico che avesse voglia di starlo a sentire. La gente non 194
era al colmo della felicità, ma si stava facendo tardi e i più, soddisfatti della bella giornata trascorsa manifestando, cominciavano a tornare a casa. Gyuri aveva visto quasi tutti quelli che aveva conosciuto in vita sua nella piazza del Parlamento, tranne Jadwiga. Stava andando a casa a vedere se era là quando si era imbattuto in Stalin sul punto di andare al tappeto. Con un po' di oculata combustione, Stalin incespicò nella volontà popolare e crollò con un fragore sonoro che annientò l'ovazione dei cacciatori di souvenir che facevano ressa per avventarsi con mazze e martelli sulla carcassa abbattuta. A Gyuri sarebbe piaciuto molto tenersi un pezzo di Stalin a mo' di talismano, a imperitura memoria del fatto che il male non sempre trionfa, ma decise di tornare alla Radio a cercare Jadwiga se non l'avesse trovata a casa. E siccome non c'era, prese il tram per piazza Kálvin. Il dedalo di strade intorno alla Radio in Sándor Bródy utca era pieno zeppo di gente. Sembrava una replica della protesta per la Coppa del Mondo, solo che questa volta il numero delle comparse era quadruplicato. Gyuri sentì dire che nel tardo pomeriggio una delegazione di studenti era riuscita a entrare nella sede della Radio per chiedere cortesemente che i punti venissero letti al resto del paese. Altre delegazioni, altri amici della democrazia, altre cortesie si erano aggiunti man mano nel corso della serata finché alle undici la cortesia era stata messa da parte e l'idealismo studentesco aveva ceduto il passo alla bellicosità proletaria. Gyuri sperava che Jadwiga non fosse nei paraggi (benché avesse la sensazione che la propria presenza causasse la di lei assenza) perché era sicurissimo che sarebbe stato alla Radio che il Partito avrebbe detto basta. Finché si trattava della statua di Stalin, potevano lasciare che la gente si sfogasse, perché tutto sommato Stalin era morto e fuori moda, e così si risparmiavano il fastidio di rimuoverla loro stessi, ma la Radio era potere reale, presente e palpabile, poteva diffondere il senso di inquietudine alle parti più intorpidite della capitale e del resto del paese... Gyuri scorse Laci e la sua banda vicino all'ingresso principale. Riuscì a raggiungerli, suscitando non poco rancore fra la gente che dovette spintonare e calpestare per questo. «Hai mica visto Jadwiga?» chiese. «Sì», rispose Laci, «era qui un momento fa.» E aggiunse tutto fiero: «Stanno per dare lettura dei punti».
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Ci fu un po' di agitazione all'ingresso e un sacco di merda in giacca e cravatta si mise a gridare: «Viene data lettura dei punti in questo momento. Tornate a casa, per favore. Li stanno leggendo mentre vi parlo. Tornate a casa». Aveva una voce tonitruante e familiare; Gyuri pensò che fosse uno degli speaker. L'uomo della radio insisteva che i punti stavano venendo letti e che la gente doveva tornare a casa. Poi alla finestra di una casa lì di fronte si materializzò una donna con, un'aria da casalinga infelice. Tenendo in equilibrio una radio sul davanzale con un certo sforzo, in modo che per la strada potessero vagamente sentire quello che trasmetteva, gridò: «Schifoso bugiardo! Danno musica». I lacrimogeni arrivarono subito dopo. Fu un disastro. Gli AVO non avevano maschere antigas, il gas investì soprattutto loro e, dal momento che la strada era stretta e piena di gente, anche quelli che volevano andarsene non poterono farci molto. Ci fu un gran piangere e tossire, ma più che altro una gran rabbia. La si vedeva montare, come un cielo che si incupisce prima di un temporale. Gyuri si ritirò alla ricerca di Jadwiga, ma anche perché intuiva come sarebbe andata a finire. I comunisti non saranno stati buoni a organizzare l'economia, ma se c'era una cosa che sapevano organizzare erano i servizi d'ordine. Aveva appena raggiunto a fatica il riparo del vicino Museo Nazionale, che si trovava fuori tiro rispetto all'ingresso della Radio ed era dotato di muri e colonne così spessi che le armi da fuoco non gli avrebbero fatto più effetto della pioggia, quando si udirono i primi spari. Fu il rumore più stomachevole che avesse mai sentito. Alla paura seguì la nausea all'idea che sparassero alla gente solo perché si trovava nel posto sbagliato. Le strade, naturalmente, si stavano svuotando il più rapidamente possibile. In un portone di fronte, che riusciva a intravedere solo di tanto in tanto fra la gente che passava di corsa, Gyuri notò un uomo grassoccio accasciato contro la porta, seduto con la schiena appoggiata al muro e le gambe tese in avanti, come un orso di pezza. Aveva una grande chiazza rossa sulla pancia. Un altro gli bisbigliava all'orecchio, forse per convincerlo a non morire dissanguato. Gyuri scorse due corpi immobili a terra davanti alla Radio. Fu sorpreso da quanto lo nauseasse quello spettacolo. Credeva di aver visto abbastanza cadaveri durante la guerra per essere immune alla ripugnanza, ma evidentemente bisognava tenersi in 196
allenamento quando si trattava di indifferenza davanti alla morte. E la rabbia. Credeva di aver avuto voglia di uccidere in passato, ma solo allora capì che effetto faceva veramente, che lo voleva davvero e che non sarebbe stato difficile; quel desiderio, fino a quel punto rimasto dietro le quinte, entrò in scena, pronto all'azione. Le grida e il fuggifuggi andarono avanti per un po', poi successe qualcosa che Gyuri non aveva previsto: cominciarono a sparare verso la Radio. Qualche finestra andò in frantumi e Gyuri vide un giovane nascondersi dietro l'angolo di un palazzo per improvvisarsi cecchino. Era in abiti civili. Dove aveva preso il fucile? Voltandosi verso piazza Kálvin, vide un camion fermo, che sembrava dell'Esercito. Dovevano aver distribuito armi, perché di colpo si udivano spari da tutte le direzioni. Sarebbe stato buffo, pensò, se una seconda rivoluzione fosse cominciata lì al Museo Nazionale, sugli stessi scalini da cui Petófi aveva letto una delle sue poesie tagliando il nastro inaugurale, per così dire, della rivoluzione del 1848. Comparvero due operai con l'immancabile berretto da cui si intuiva che venivano da Csepel: avevano un sacco di caricatori e trasportavano una mitragliatrice pesante. Si chiedevano a voce alta come fare ad arrivare sul tetto del museo, da dove avrebbero potuto usufruire di uno splendido arco di fuoco sulla Radio. «Mai venire alla Radio senza mitragliatrice», decretò uno dei due. Comparve anche uno spilungone con i capelli ricci che, posizionatosi dietro una colonna, cominciò a prendere la mira con il fucile che si era appena procurato. Ecco la ricompensa per aver obbligato tutti a fare il militare, pensò Gyuri. Era certo di aver già visto quell'uomo, al cui viso cercava invano di assegnare un nome e una collocazione. Si guardarono e dall'aspirante franco tiratore giunse un'improvvisa trasmissione di pensiero per via oculare: sì, è quello che chiedevamo nelle nostre preghiere, la vendetta armata. E rivolse a Gyuri un gran sorriso. Forse si conoscevano, o forse era solo il cameratismo istantaneo di quella notte. «Mi sento così fortunato!» esclamò l'uomo. «È meraviglioso, meraviglioso.» E fece partire due raffiche senza badare troppo alla mira.
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Fu una notte lunga e sconcertante. La maggior parte degli spari era genericamente diretta contro la Radio, senza un obiettivo specifico. La gente si divertiva semplicemente a sparare contro i muri. A un certo punto ci fu anche un prolungato scontro a fuoco con l'altro capo di Sándor Bródy utca, quando si temette che stessero arrivando dei rinforzi AVO. In realtà si trattava di un altro gruppo di affezionati ascoltatori della radio che, imbracciate le armi, volevano far sentire la loro voce. Stanco e infreddolito, Gyuri decise che nonostante tutto non si sarebbe mai perdonato se non avesse fatto anche lui la sua parte nella sparatoria. Si avvicinò furtivamente a un combattente ben vestito e gli chiese dove si fosse procurato il fucile. «Me l'ha dato un soldato, ma se vuoi ti do il mio. Io devo andare. Fa' attenzione, tira un po' a sinistra.» A questo punto scrutò a lungo l'orologio nel buio. «Speravo di far fuori un AVO, ma mia moglie si starà chiedendo dove sono finito. Una sparatoria alla Radio non le sembrerà una scusa plausibile.» Verso le due del mattino Gyuri scivolò in un cortile poco lontano insieme ad alcuni altri per vedere se riuscivano a entrare in un appartamento dell'ultimo piano. Trovarono un gruppetto di cinque AVO rannicchiati in un angolo, senza armi e senza nessuna intenzione di battersi. «Non dovreste essere nell'edificio della Radio a difendere le conquiste del popolo?» chiese sarcastico uno dei compagni di Gyuri. «Credete che vogliamo morire per un branco di comunisti del cazzo?» ribatté indignato uno degli AVO. Purtroppo erano così patetici che non veniva nemmeno voglia di prenderli a calci. Mentre riflettevano sul da farsi, si presentò una deliziosa pensionata in vestaglia che chiese se qualcuno gradiva del tè o del caffè. «Ho anche un po' di cracker», disse, «ma nient'altro. Non aspettavo visite.» Portò loro da bere e si arrabbiò molto quando qualcuno provò a darle dei soldi. «È il minimo che possa fare.» Bevuto il tè, Gyuri, che non aveva ancora sparato un colpo, andò nell'appartamento della vecchia signora, si presentò al marito, aprì la finestra e sparò tre colpi in direzione della Radio. Richiuse la finestra e ringraziò i padroni di casa per la collaborazione mostrata. Si sentiva meglio, molto meglio, ora che aveva partecipato. 198
Verso le sei balenò nella mente degli assedianti il sospetto che dentro non ci fosse nessuno a impedire loro di entrare. Lo fecero e trovarono alcuni AVO ormai parecchio irrigiditi ma, con grande imbarazzo, dovettero constatare anche che gran parte della guarnigione era scappata dalla porta di servizio, o almeno così sembrava. Scoprirono alcuni annunciatori vergognosamente nascosti sotto le scrivanie o negli armadietti delle scope. Un ragazzo esaltato che poteva avere al massimo quindici anni li chiamò fratelli e li esortò a impugnare le armi per la rivoluzione. Si capiva che era una rivoluzione perché quell'invito non suonò ridicolo. Rivoluzione. Era la prima volta che Gyuri sentiva pronunciare quella parola riferita a quanto stava accadendo. E perché no? In modo tutt'altro che sorprendente gli speaker si dissero entusiasticamente disposti a fare quanto richiesto. È stupefacente quanto rispetto ti mostri la gente quanto tu sei armato e loro no, pensò Gyuri. Gli studi erano vuoti e recavano tracce di una fuga precipitosa, ma da una radio proveniva della musica come se fosse un mercoledì mattina qualunque. Stavano trasmettendo da qualche altra parte. «E ora che cosa facciamo?» disse uno dei vincitori mettendo il dito sulla piaga. Gyuri passò il fucile a un altro giovane esaltato ma disarmato e se ne andò a casa. Davanti alla stazione Keleti vide passare sferragliando un convoglio di autoblindo e carri armati inequivocabilmente sovietici. Be', era stato bello finché era durato. A casa trovò Elek che faceva la sua modesta colazione in cucina. «Non dirmi che non l'hai incontrata», disse stupefatto. Senza aspettare ulteriori spiegazioni, Gyuri uscì di nuovo di corsa e perlustrò insistentemente le strade circostanti. Era ridicolo. Decise di tenere fede alla propria filosofia e starsene a letto (la partenza di Pataki gli aveva messo a disposizione una nuova macchina da sonno in sostituzione di quella bruciata in un impeto di ardore spartano) finché Jadwiga non fosse ricomparsa. «Imre Nagy ha parlato alla radio», disse Elek. «Hai sentito?» «No, me lo sono perso.» «È di nuovo primo ministro. Ha chiesto a tutti di calmarsi.» 199
«Avrà un bel chiedere», borbottò Gyuri dal letto. Andando al Politecnico, vide uno dell'AVO che prendeva una lezione di volo. Si era svegliato nel pomeriggio dopo sei insoddisfacenti ore di riposo, di sonno rovinato dall'amore e da altri adrenergici, e aveva deciso di andare al Politecnico perché probabilmente era là che venivano coordinate tutte le attività studentesche. «Senti», disse a Elek, il quale aveva ritenuto che gli eventi giustificassero un giorno di assenza dal lavoro, «torno alle otto in punto, a prescindere da quanto sia interessante la rivoluzione. Di' a Jadwiga che mi aspetti, se passa da casa.» Fuori si udiva rumore di spari lontani, alla distanza giusta per essere avvincente senza farsela nei pantaloni. In Lenin Kórut la gente si era procurata delle scale per tirar giù le targhe con scritto Lenin Kórut. Si era radunata una folla per godersi lo spettacolo, ma improvvisamente scoppiò un tafferuglio e un uomo con la faccia rotonda e l'impermeabile fu acciuffato da quelli che gli stavano intorno al grido di «AVO! AVO!». Gyuri non capì che cosa lo avesse tradito, ma non c'era dubbio che l'accusa fosse fondata. L'uomo estrasse una pistola e concluse la propria carriera sparando due colpi che ferirono gravemente un albero. Mentre otto paia di mani lo trattenevano, gli controllarono i documenti, dopo di che qualcuno propose: «Diamogli una lezione di volo». E così fecero. Lo accompagnarono su un tetto e lo fecero camminare su una tavola inesistente. L'AVO non era molto bravo a volare: cadde come un masso sprecando in urla tutta la sua energia. La gente non applaudì, ma non parve neppure turbata. Era abbastanza giusto. Quelli maggiormente dotati di senso civico si misero a rimuovere la salma dalla strada; tutto a un tratto un piccoletto vicino a Gyuri, che aveva assistito all'intera scena in silenzio come se stesse aspettando l'autobus, senza alcun preavviso si gettò sul cadavere e cominciò a pugnalarlo con un temperino neanche stesse tempestando di pugni una porta. Gridava: «Hai ammazzato mio fratello, hai ammazzato mio fratello», con la stessa monotonia con cui infieriva sul corpo. Gli altri non sapevano neanche loro che cosa fare, ma interromperlo nella sua furia sarebbe stato scortese.
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Gyuri aveva pensato che i disordini fossero ormai finiti, che il flirt con la libertà fosse un'avventura di una notte e basta, ma era chiaro che la gente stava ancora facendo quello che le pareva. E i russi a che gioco giocavano? In centro, più vicino all'Università, vide dei carri armati russi parcheggiati minacciosamente qua e là, che si sforzavano di apparire aggressivi e nello stesso tempo di non dare nell'occhio, ma non assistette a nessuno scontro. All'Università incontrò subito Laci con una fascia tricolore al braccio e una pistola in bella mostra nella fondina. Era chiaro che si trovava nell'orbita di Laci tanto quanto era fuori da quella di Jadwiga. Nell'atrio principale dell'Università l'accessorio più di moda sembrava essere un'arma da fuoco: o una «chitarra Davai» o, come minimo, una rivoltella. Gyuri si aspettava che Laci gli dicesse che Jadwiga lo aveva cercato fino a un attimo prima, invece non l'aveva vista affatto. Laci era scosso: «Stamattina ci hanno attaccato. Sono passati degli AVO in macchina, hanno aperto il fuoco e ucciso uno dei nostri. Avevo una mitragliatrice, li avevo sotto tiro... Gyuri, non ce l'ho fatta a premere il grilletto». Era successo. Lo choc di essere un idealista. C'è gente che non sa raccontare le barzellette o non arriva a toccarsi la punta dei piedi. Laci non riusciva a premere il grilletto. Era buffo, a quell'ora suo fratello sarebbe andato in giro con i caricatori di ricambio. Mentre Gyuri lo confortava, furono raggiunti da un altro studente. «Ehi, Gyuri, ti piace la rivoluzione? Vuoi vedere la nostra collezione di AVO?» Nell'aula di chimica c'erano dodici dipendenti AVO, dall'aria prevedibilmente afflitta, che erano stati prelevati dalle ronde degli studenti. Uno studente li torturava descrivendo loro ciò che li aspettava in base ai princìpi del diritto internazionale e naturale, spiegando come sarebbero stati inquisiti formalmente, correttamente e legalmente da un organo regolarmente eletto e quindi processati se avevano commesso azioni illegali. Osservando quelle figure dalle spalle curve, circondate da piatti con avanzi di spinaci cotti (difficili da mandare giù persino per degli studenti affamati), Gyuri pensò che avevano avuto fortuna a essere stati catturati dagli studenti e a non dover camminare su tavole inesistenti. 201
Qualcuno lo chiamò per nome. Riconobbe Elemér, il braccio violento e accalappiacani del proletariato. «Gyuri, Gyuri, perché non gli spieghi chi sono? Digli che lavoravo soltanto nel reparto forniture per ufficio e cancelleria. Non vogliono credere che sono uno che non conta niente.» Gyuri fu colto talmente alla sprovvista che non trovò né emozioni né risposte. In seguito si sarebbe chiesto se la consumata invertebratezza di Elemér non fosse in un certo senso ammirevole, quasi una simile assenza di spina dorsale morale meritasse attenzione quanto le acrobazie di un contorsionista al circo. La capacità di sopravvivenza era certamente lodevole. Elemér gli si era rivolto con il tono con cui a una festa si saluta un amico che non si vede da tempo. Gyuri optò per guardarlo fisso, addoloratissimo per il fatto che non si trovasse fra la sede della Radio e un fucile mitragliatore carico. L'alternativa era: ammazzarlo di botte o non fare nulla. Sapendo che gli studenti ci sarebbero rimasti male se avesse infangato la decenza e il decoro della loro riserva di AVO, Gyuri uscì lanciando a Elemér un'occhiata che gli avrebbe senz'altro rovinato la digestione. Fuori si sentivano ancora gli scontri infuriare in lontananza, attutiti come una lite domestica al di là di un muro. I tram erano diventati una specie rara e difficile da vedere, ma ne comparve uno che portò Gyuri dall'altra parte di piazza Zsigmond Móricz, dove poté ammirare un bel primo piano di due carri armati sovietici che cannoneggiavano presumibilmente qualche roccaforte di combattenti per la libertà. Di là dal ponte, a Pest, la situazione sembrava più tranquilla; degli spazzini scopavano i marciapiedi con i soliti gesti indolenti: evidentemente il loro sindacato non li aveva mobilitati. Senza abbassare la guardia vista la presenza di carri armati pieni di iniziative, Gyuri ripensò alla salma dello studente ucciso quella mattina, che era stata esposta solennemente davanti all'università vicino agli alberi, circondata da fiori e corone improvvisate e coperta da una bandiera stesa su di lui come una tovaglia. Era un vecchio tricolore che doveva essere stato tenuto da parte chissà dove, non una delle bandiere moderne che tutti sfoggiavano adesso, da cui era stata ritagliata la parte centrale con lo stemma araldico sovietico.
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Il catafalco di fortuna era toccante, ma non compensava neanche lontanamente quella morte. Una vita intera buttata, una persona cancellata e sostituita da un'effigie a grandezza naturale, una caricatura livida, sotto gli occhi di tutti. Convinzioni, emozioni, ricordi accumulati laboriosamente in ventitré anni gettati nella spazzatura. Ventitré anni. Cosa? 200.000 ore, una Seconda Armata ungherese che si lavava i denti, si puliva dietro le orecchie, si schiacciava punti neri, chiacchierava di scemenze, aspettava l'autobus, sbaragliata. Un'identità spazzata via, sgomberata con le pulizie di primavera. Un intero essere di cui restava solo un resoconto sommario nella memoria di pochi, finché anche quei depositari non fossero stati a loro volta eliminati. Troncato di netto. Non c'era nulla come la morte, pensò Gyuri riemergendo a fatica dalla morbosità di quei pensieri, per far sembrare bella la vita. Scese dal tram nel Kórut. Anche se i negozi erano quasi tutti chiusi, ricordava che poco prima la tavola calda popolare aperta giorno e notte (un negozio di specialità gastronomiche a corto di specialità) era aperta e decise di indagare sui generi alimentari disponibili. Nei pressi della tavola calda, abbandonata in mezzo alla strada come un gigantesco pallone da football, c'era la testa della statua di Stalin che la folla esultante aveva trascinato fin lì in segno di vittoria per esporre la testa del traditore in scala gargantuesca. Un signore stava cercando di staccarne un pezzo con l'aiuto di un piccone e a Gyuri venne in mente di prendersi un souvenir anche lui. Era pazientemente in coda dietro l'uomo, quando comparve il carro armato sovietico. Arrivò rombando in mezzo al Kórut e aprì il fuoco su Gyuri. Riparandosi dietro la testa di Stalin insieme all'altro cacciatore di souvenir, la prima e unica cosa a cui riuscì a pensare mentre i proiettili mandavano in frantumi le vetrine e spezzavano i rami degli alberi, fu quanta voglia di vivere avesse. Non si era mai reso conto di quanto quel desiderio fosse sconfinato e assoluto, grande non meno dell'universo, né che avrebbe fatto qualsiasi cosa, ma veramente qualsiasi cosa, pur di vivere, magari soltanto qualche secondo in più. Se vivere voleva dire starsene avvinghiato alla testa di Stalin per i quarant'anni successivi, per lui andava benissimo, pur di non morire. Più raggomitolato di un feto, chiuse gli occhi senza stare a chiedersi se servisse a qualcosa. 203
Gli spari cessarono e nulla si mosse, a parte qualche scheggia di vetro che rotolava; tutti coloro che avevano assunto posizioni assortite per terra ne erano evidentemente soddisfatti e non avevano nessuna fretta di muoversi. Gyuri poteva sentire ancora il rombo del motore del carro armato sgradevolmente vicino. A qualche metro da lui un vecchio, teneramente abbracciato al marciapiede vicino a un albero, con la borsa della spesa a fianco, protestava con insistenza e volume sorprendenti: «Due guerre mondiali. Due guerre mondiali e ora anche questo». Gyuri valutò se dal punto di vista dell'istinto di conservazione non sarebbe stato un investimento più oculato correre in un riparo più sicuro e più spazioso ma, pur confidando nella propria velocità, l'idea di avere solo un po' d'aria fra sé e la canna della mitragliatrice pesante del carro armato era troppo inquietante. A meno che il carro armato non si avvicinasse, intendeva restarsene a sudare dietro a Stalin. Il rombo era sempre alla stessa distanza; Gyuri cominciò a incuriosirsi, ma non si sognava neanche di sporgersi per guardare che cosa stessero facendo. «Non avrei mai immaginato di provare gratitudine per Stalin», commentò il suo compagno di sventura, semischiacciato sotto di lui. Rimasero in quella posizione per un periodo assai lungo, o almeno così parve loro. Ma a Gyuri non dispiaceva aspettare: era una di quelle attività cui ci si può dedicare solo da vivi. Il suo vicino di nascondiglio era stato a Recsk, la colonia penale in mezzo alla campagna ungherese trasformata in campo di sterminio. Gyuri non ne sapeva niente, a parte il fatto che era esistito e che era stato chiuso sotto Nagy; c'era stato un amico di István, ma gli aveva fatto un racconto quanto mai succinto della prigionia. Normalmente Gyuri rifuggiva dalle storie di vita presentate nella consueta forma ungherese di memoriale storico allargato, dalle autobiografie orali che sembravano essere la vera passione degli ungheresi, ma questa volta non aveva scelta, e poi le vicende umane di Miklós erano piuttosto avvincenti. Gyuri si era sempre ritenuto piuttosto sfortunato, ma in quel momento capì di essere solo uno sventurato della domenica. «I tedeschi sono un popolo di grandi tradizioni culturali, quando non te li trovi in casa come invasori», spiegò Miklós, che aveva militato un po' nella resistenza antinazista. Era stato fatto prigioniero, ma gli ungheresi erano troppo pigri per giustiziarlo e lo avevano passato ai tedeschi, i quali 204
lo avevano spedito a Dachau. All'arrivo degli americani stava morendo di colera, ma poi era guarito. «Mi sembrava un po' assurdo morire appena liberato.» Era tornato in Ungheria. «Quando si dice essere stupidi.» Lì aveva lavorato per il Partito dei piccoli proprietari. Poi gli avevano offerto un passaggio su un'automobile nera, a seguito del quale si era ritrovato prigioniero a Recsk. Il concetto cardine di Recsk era che ci si entrava, ma non se ne usciva. «Le proporzioni erano modeste rispetto ai modelli sovietici o tedeschi», ammetteva Miklós, «ma il nostro è un paese piccolo, in fondo: eravamo solo in millecinquecento.» Per tre anni Miklós e gli altri non avevano avuto notizie dall'esterno. «Le uniche notizie che ricevevamo venivano dai giornali sporchi di merda che rubavamo nella latrina delle guardie e, parliamoci chiaro, i giornali non dicono un gran che in ogni caso. Abbiamo scoperto che Stalin era morto solo quando uno di noi ha notato che la sua foto in un ufficio era listata a lutto. » Miklós era molto loquace nonostante la scomodità della posizione, inchiodato a terra da un giocatore di pallacanestro di serie A. «Sai qual era la cosa peggiore? Sono tutte balle quelle sull'importanza della libertà, dell'amicizia e di tutta quella roba astratta. Sai cos'è che conta? Dormire e mangiare. La fame era inimmaginabile. Pensavi che fosse tremenda durante la guerra? Da' retta a me, qualche settimana, qualche mese di fame non sono niente, niente. Uno scherzo. Ma un anno, due anni, tre anni senza abbastanza da mangiare...» A quel punto si era messo a gridare «...è una cosa da non credere. Da quando sono uscito, mi porto sempre dietro questo.» A fatica svolse un cencio che conteneva un pezzo di formaggio, un tozzo di pane e qualche ravanello. «Devo portarmi sempre dietro delle provviste. Non le uso quasi mai, ma devo averle con me.» Offrì a Gyuri un ravanello dall'aria molto provata. «No, grazie. Pensa di andare a cercare le sue vecchie guardie ora che ha la possibilità di esprimere la sua gratitudine?» «È una domanda interessante. Ne discutevamo un sacco a Recsk. Che razza di gente bisogna essere per ammazzare di botte uno solo per il gusto di farlo? C'erano pareri discordi in proposito al campo, come sempre succede quando si mettono insieme due ungheresi. Sai come verrà descritto
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nei libri di storia il 23 ottobre? Come il giorno in cui gli ungheresi furono d'accordo. «A ogni modo, secondo me le guardie di Recsk erano fondamentalmente normalissime, anche se non troppo intelligenti. Gli avevano detto che eravamo la feccia dell'umanità, i più malvagi, degenerati, odiosi, pidocchiosi parassiti mangiabambini mai visti sulla faccia della terra: insomma, il tipo di gente che si trova di solito nei campi di concentramento. A che serviva cercare di spiegargli che eravamo finiti là dentro per aver votato nel modo sbagliato? «L'altra cosa è che, sai, uno che finisce dentro per sbaglio per molto tempo, non per un anno o due, ma tre o anche di più, tende ad andare da un estremo all'altro. Per esperienza ti posso dire che si diventa o eccessivamente indulgenti, o eccessivamente vendicativi. Credo che dovremmo ricordarci di Recsk. La gente dovrebbe sapere che cosa è successo laggiù. Ma credo anche che dovremmo dimenticare e andare avanti a occuparci di altre cose. Quando se ne saranno andati i carri armati.» Si sentì un rombo che si allontanava. Avendo pienamente chiarito la propria opinione e fatto il vuoto intorno a sé, il carro armato se ne andò. Quando vide riemergere la gente dalla tavola calda, Gyuri capì che poteva rialzarsi senza correre rischi. Si sentiva addosso i vestiti zuppi di sudore e un puzzo di paura da far storcere il naso. «Piacere di averla conosciuta», disse stringendo la mano a Miklós, «spero che la rivoluzione le piacerà.» Comprò qualcosa da mangiare. Erano le sette passate e, dato che aveva appuntamento con Jadwiga alle otto e che era disastrosamente a corto di fortuna, non vedeva l'ora di tornare a casa. Andando verso la stazione Keleti vide con un certo disagio che la rivoluzione stava prendendo forza. C'erano soldati russi morti lungo i marciapiedi e appoggiati ai muri come vagabondi ubriachi. Sebbene non avesse nulla in contrario ai soldati russi morti, da quello spettacolo dedusse che si stava avvicinando alla zona degli scontri, anziché allontanarsi come desiderava. Le mani gli tremavano ancora per il tempo passato a fare da bersaglio. Il suo stomaco avrebbe ruminato il terrore per settimane intere. Assurdamente, nel bel mezzo della sparatoria aveva provato l'impulso di gridare a quelli del carro armato:
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«Smettetela! Non avete capito: io sono un codardo. Non è giusto. Trovatevi qualcuno di coraggioso a cui sparare». Un'autoblindo sovietica che era stata fatta esplodere, probabilmente con una bomba a mano, stava riscuotendo grande successo fra i presenti perché, a quanto pareva, dentro era in mostra un russo senza testa. La gente faceva a gara per vedere l'interno bruciacchiato. La vista del russo morto lasciò Gyuri assolutamente impassibile: aveva sentito mille argomentazioni sul fatto che anche i russi erano uomini, che siamo tutti uguali e che grande compositore era stato Cajkovskij, ma non poteva fare a meno di desiderare che i russi se ne andassero a fare in culo, a essere uomini e uguali a noi in Unione Sovietica. Neppure un corpo carbonizzato ai suoi piedi gli ispirò alcuna compassione. Probabilmente era un coscritto, ma non gliene fregava niente. Tutt'intorno alla stazione Keleti c'erano dei gruppi di carri armati che gli tagliavano la strada che aveva pensato di fare per rientrare a casa. Non facevano niente, ma non sembravano intenzionati ad andarsene. Stavano lì a occupare la strada e basta. Gyuri notò che nessuno si avvicinava. C'era un sacco di gente in giro, nessuno voleva rimanere a casa, ma per centinaia di metri intorno ai carri armati c'era il deserto. La milizia di strada che si era formata spontaneamente all'angolo di Rákóczi ut discuteva sul da farsi. C'erano due soldati, alcuni adolescenti (due sui pattini a rotelle) e un'accozzaglia di quegli individui che avresti potuto aspettarti di incontrare alla fermata dell'autobus, comprese due postine. «Ci vogliono delle bottiglie incendiarie. Al Corvin usano quelle. Chi può procurare delle bottiglie vuote?» chiese uno dei soldati. Erano quasi le otto. Gyuri prese una traversa per vedere se riusciva ad aggirare l'Armata Rossa. Un'ora dopo, facendo l'ultimo tentativo di avvicinamento dalla parte dello zoo, Gyuri scoprì con notevole disappunto che l'Armata Rossa aveva completamente circondato casa sua. Era talmente furibondo che avrebbe attaccato uno dei carri armati. Mentre osservava quello che bloccava il fondo di Benczur utca e pensava a come farlo saltare in aria a mani nude da una prudentissima distanza di sicurezza, vide uscire da uno dei caseggiati in fondo alla strada 207
un uomo che si mise a bussare sulla fiancata del carro come se fosse una normalissima porta. Bussò con molta perseveranza finché, trascorso qualche minuto, la torretta si aprì e ne sbucò una testa cinta da un casco di cuoio. Che cosa aveva bussato a fare? Per chiedere da accendere? Sperando che ci fossero meno probabilità che i russi aprissero il fuoco nel bel mezzo della conversazione, Gyuri partì al galoppo. Passando di corsa, malgrado il suo scarso russo si rese conto che l'uomo stava arringando i militari. «Che cosa ci fate qui?» chiedeva in tono perentorio. «Siamo qui per proteggervi dai teppisti e dai reazionari», protestò l'ufficiale. «Dove sono i teppisti? Dove sono i reazionari?» Era un dialogo interessante, ma Gyuri aveva già avuto la sua dose di attualità per quel giorno. Salendo le scale, trovò Jadwiga che scendeva. «Sei in ritardo», gli disse severa. «Il tempo vola quando fai la rivoluzione.» Di sopra Elek li accolse con la notizia che Imre Nagy aveva formato un nuovo governo. «Sono contento per lui», commentò Gyuri, «ma se non ti dispiace, abbiamo alcuni aspetti urgenti dei rapporti magiaro-polacchi da prendere in esame.» Perché non procedere in modo confortevole? pensò Gyuri rallegrandosi di aver ricevuto un letto a tutti gli effetti come regalo di addio da Pataki. Sfinito dalla storia, dalla preoccupazione, dalla paura e dai doveri coniugali, stava per abbandonarsi al sonno quando Jadwiga disse, a proposito di nulla in particolare: «Stiamo vincendo. La prossima sarà la Polonia.» Gli piaceva la sua follia. Contava davvero quello che succedeva fuori dalla camera da letto in cui avevano stabilito una zona demalvagizzata? «Chissà, magari faranno qualcosa anche i cechi», continuò Jadwiga raccontandogli come era arrivata a Budapest e la sua giornata di rivoluzione. Il sabato precedente gli studenti dell'Università di Szeged avevano indetto un'assemblea, com'era diventato di moda fare, per discutere della diffusa iniquità delle cose. «È stata la prima volta in vita mia che ho visto qualcosa di sia pur vagamente democratico. Strano che 208
abbia dovuto aspettare ventidue anni per sentire qualcuno dire quello che pensa in pubblico; la cosa aveva un che di quasi indecente. Così abbiamo votato di uscire dal sindacato studentesco comunista e di fondarne uno nostro. Sono stata io a proporlo. Ho pensato a quello che hai detto tu sul fatto di lottare fino in fondo. È stato quello a spingermi.» Per quanto Gyuri sforzasse la sua memoria, non riuscì a ricordare di aver fatto alcuna dichiarazione del genere. Quindi gli studenti di Szeged avevano deciso di mandare una delegazione a invitare la gioventù universitaria di Budapest a fare la stessa cosa. Jadwiga era arrivata a Budapest lunedì notte, ma aveva preferito non andare a guastare il sonno di Gyuri con un saluto alle quattro del mattino. Poi aveva fatto un giro turistico del crollo del potere del Partito. Mentre Gyuri si riparava dietro Stalin, lei era al cinema Corvin, in uno dei posti migliori di prima fila da cui assistere ai combattimenti. Gyuri le raccontò i suoi vari incontri con i carri armati sovietici. «Hai avuto paura?» gli chiese. «No», mentì, scegliendo un tono di fredda indifferenza verso la letalità dei mezzi blindati sovietici, ma non di disprezzo, perché non voleva strafare. «Neanch'io ho avuto paura», disse lei. Non era la prima volta che Gyuri notava che Jadwiga era molto più coraggiosa di lui. Di animo fermo quanto il seno, bella e forte, Venere e Marte insieme. Il suo era un coraggio autopropulso, indipendente, distaccato, uno di quelli che funzionano anche quando si è soli, al buio, nella camera a gas. Che cosa ci fa con me? Gyuri poteva riuscire a rimediare un po' di spavalderia davanti a un pubblico o con il sostegno di qualcuno, ma quel genere di coraggio solitario che esiste anche se non c'è nessuno a testimoniare o a prendere appunti era fuori della sua portata, lo sapeva. Si diventava coraggiosi facendo cose coraggiose, così come si diventa forzuti facendo flessioni? Il coraggio era ossa o muscoli? Coraggiosi si nasce o si diventa? Si alzarono per amalgamare in una frittata gli ingredienti comprati da Gyuri. Dopo mangiato Jadwiga uscì dalla cucina e tornò subito con un fucile mitragliatore, una classica «chitarra Davai», che posò sul tavolo.
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«Hai niente per pulirlo?» chiese. Gyuri si accorse che Elek lo guardava molto divertito. L'unica cosa più improbabile di una rivoluzione, pensò Gyuri arrivando all'Ambasciata britannica con una cartella piena di documenti dell'AVO che dimostravano che un diplomatico britannico aveva fatto la spia per conto dell'AVO, sarebbe stata arrivare all'Ambasciata britannica con una cartella piena di documenti che dimostravano che un diplomatico britannico aveva fatto la spia per l'AVO. Suonò il campanello. Dopo una pausa di dignitosa durata la porta si aprì e Gyuri vide con piacere che era Nigel. «Buon giorno», gli disse sfoggiando la sua pronuncia più ornata. «Come va, Nigel? Sai se l'ambasciatore è libero?» «Per la precisione, è ministro plenipotenziario, ma questo non deve scoraggiarti.» Gyuri non aveva idea di che cosa intendesse dire Nigel, ma non voleva rovinare la sua fama di stella nascente nel firmamento della lingua inglese parlata. Lui e Nigel si erano conosciuti tre giorni prima, al culmine dei combattimenti. La regola era dare addosso a qualunque cosa sbucasse da Nádor utca. Avevano una mitragliatrice pesante sempre pronta a sparare; se n'era impossessato un minatore di Tatabánya, arcigno e scorbutico, che non lasciava avvicinare nessuno. «Ero artigliere nell'esercito, chiaro? So come si usa quest'aggeggio. Non voglio che nessuno ci metta le mani, non voglio cazzate.» Non abbassava mai la guardia e pisciava sul posto, pur di non mollare o perdere di vista per un attimo la mitragliatrice. Quando era comparsa l'automobile, l'arma si era immediatamente inceppata, ma era stato meglio così perché almeno avevano avuto il tempo di riconoscere l'Union Jack legato malamente sul cofano. L'auto aveva arrancato fino a fermarsi rispettosamente davanti alla loro postazione e, mentre il minatore imprecava e malediceva la qualità dei prodotti dell'industria manifatturiera sovietica e scaraventava cartucce a destra, a sinistra e al centro, Nigel era sceso e aveva detto allegramente: «Buon pomeriggio. C'è per caso qualcuno che parla inglese e che sa la strada per la Legazione britannica?» Gyuri si era meritato quella conversazione.
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Nigel aveva un aspetto elegante, da spia di alto livello, da diplomatico in carriera, da persona che vale la pena di conoscere, insomma. In realtà però disse che aspirava a diventare cantante d'opera e che studiava a Vienna. Era venuto a Budapest insieme a un amico per consegnare dei medicinali. Non c'era nessun altro che parlasse inglese, ma se anche ci fosse stato, Gyuri non gli avrebbe lasciato aprir bocca: si incaricò di tutto, rallegrandosi al pensiero di ogni fiorino proficuamente investito nelle lezioni d'inglese. «E ti piace Budapest, Nigel? Lascia che ti accompagni all'Ambasciata. E dimmi, che cosa pensi delle donne viennesi?» Una settimana dopo l'inizio della rivoluzione era tutto finito, tranne l'opera degli storici. Con grande stupore di Gyuri, della popolazione intera e, più di ogni altro, dei russi, i dilettanti, i part-time di Budapest avevano battuto l'Armata Rossa. Era vero che molti russi non avevano una gran voglia di combattere, quasi tutti erano stati di stanza in Ungheria per un certo periodo e davano l'impressione di capire che cosa veniva chiesto loro di fare, ovvero che non stavano combattendo il fascismo internazionale o la malavita ungherese, ma i cittadini di Budapest. In verità Gyuri aveva visto un solo russo assolutamente entusiasta di premere il grilletto: un disertore conosciuto al Corvin, che sparava contro gli ex commilitoni. Ma il problema più grosso per i russi, i quali contavano sul fatto che l'AVO facesse la propria parte, era che senza un adeguato sostegno di fanteria i loro carri armati erano risultati curiosamente vulnerabili nelle strade di Budapest. La gente aspettava semplicemente che ne passasse uno e, al costo di una bicchierata, gli lanciava sul retro la sua brava bottiglia incendiaria. La benzina accesa veniva risucchiata dalle griglie di ventilazione dei T-34 fin dentro il motore, trasformando gli occupanti in enormi bastoncini di carbone; se qualcuno faceva in tempo a salvarsi dal rogo, gli sparavano appena scendeva. Imre Nagy formò un nuovo nuovo governo, questa volta con alcuni membri che non erano stati nel Partito Comunista. Cessate il fuoco. Esultanza. Gli ungheresi si erano conquistati il paradiso. Come molti altri curiosi, anche Gyuri e Jadwiga erano entrati a dare un'occhiata alla Casa Bianca che, come è giusto che sia in una rivoluzione, era stata rovesciata da cima a fondo; non restava un solo cassetto o scaffale che non fosse stato svuotato da gente che si era abbandonata alla cupidigia 211
o si era semplicemente divertita a buttare tutto all'aria. «Scegli sempre i posti più romantici per le nostre passeggiate, Gyuri», aveva commentato Jadwiga. Il primo documento che Gyuri aveva preso in mano era una pratica in cui era esposto dettagliatamente il caso di un diplomatico britannico ricattato perché sorpreso a contrabbandare oro e quindi lavorato per benino dall'AVO. Gyuri aveva intascato il dossier e si era diretto all'ambasciata britannica, felice di aver trovato una via di accesso a regioni più civilizzate, mentre Jadwiga era rimasta a leggere diligentemente, con la lentezza e l'attenzione di sempre, brani di quelle ricche antologie della depravazione. Con notevole velocità e facilità, dovute forse a una buona parola di Nigel o alla mancanza di formalità di quei giorni, Gyuri fu fatto accomodare nell'ufficio dell'ambasciatore, che accettò cortesemente il dossier. Emise qualche sbuffo di fumo dalla pipa, manifestamente a suo agio nella rivoluzione, e lesse con attenzione le prime pagine. «Ah, Dawson. Già», disse pensando ad alta voce. «Molte grazie, signor Fischer. È stato molto gentile da parte sua.» Cinquanta secondi in tutto: Gyuri si ritrovò fuori in men che non si dica. Non che si aspettasse niente di particolare - anche se qualche lingotto d'oro, un passaporto britannico, un'offerta di lavoro o qualcosa del genere sarebbero stati bene accetti - ma almeno un minimo di eccitazione e di incredulità... Invece l'ambasciatore lo accompagnò alla porta come se gli avesse appena restituito un bottone che gli si era staccato dal cappotto. Nella sala d'attesa vicino all'ingresso Nigel chiacchierava con un uomo che Gyuri aveva già incontrato in un'altra occasione: il corrispondente del «Times». Per lui era stata un'emozione, perché il «Times» era il «Times» e anche perché tutti sapevano che i corrispondenti dall'estero lavoravano per i servizi segreti britannici, anche se quel corrispondente in particolare faceva del suo meglio per nasconderlo. In effetti si comportava in maniera piuttosto anonima. Copertura brillante. Gyuri ammirava la professionalità. C'era anche un tizio grande e grosso, dall'aria inequivocabilmente militare di chi ha come massima aspirazione nella vita quella di ispezionare fucili. Neanche a farlo apposta, fu presentato a Gyuri come l'addetto militare.
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«Che cosa pensa del nuovo governo?» chiese il «Times», probabilmente in cerca di una bella citazione. «Va bene. Sono favorevole, finché dura.» «Che cosa intende dire?» «Che i russi torneranno.» L'affermazione fu accolta con una lieve derisione tutta britannica. Nei pochi giorni in cui aveva avuto a che fare con inglesi in carne e ossa, Gyuri aveva rapidamente imparato che il grado di civiltà raggiunto dai britannici permetteva loro di farti capire chiaramente quanto eri stupido senza dovertelo dire materialmente: ecco il risultato del cricket e di secoli di democrazia parlamentare. «I russi si sono impegnati ad andarsene. Ho visto io stesso Mikoyan in parlamento con le lacrime agli occhi per aver perso l'Ungheria», spiegò il corrispondente. «Se ne stanno andando. Non hanno scelta.» Gyuri aveva fatto la stessa discussione quella mattina con Elek, che era tutto ringalluzzito per la notizia e aveva esclamato: «Te l'avevo detto che non poteva durare ancora molto». Gyuri ricorse a una versione semplificata e vigorosamente edulcorata della propria tesi, a uso e consumo dei britannici. «So bene che i russi questa volta hanno perso e se ne stanno andando, ma non credo che diranno: "Ah, volete essere indipendenti. Scusateci se non avevamo capito che non ci volevate fra i piedi". Torneranno.» Ci furono altri britannici fremiti di divertimento sotto i baffi nei confronti di quell'ungherese diffidente all'oscuro della situazione internazionale. «No», sentenziò l'addetto militare, «qui hanno chiuso.» «In verità», disse il «Times», «sono pronto a scommettere cinque sterline che non torneranno. Potrà pagarmi con delle lezioni di ungherese, perché vincerò io.» «Lo spero proprio», disse Gyuri. Jadwiga gli aveva dato appuntamento al Corvin. Strada facendo si fermò nel Kórut a comprare un giornale. C'era il corpo di un soldato sovietico ancora a terra, cosa insolita perché ormai i morti erano stati portati via quasi tutti. Al polso gli luccicava qualcosa di metallico. Gli parve familiare: era un orologio Omega, come quello di cui l'aveva alleggerito l'Armata Rossa nel '44, esattamente lo stesso modello. Slacciò il 213
cinturino e guardò il rovescio della cassa. C'erano incise le lettere Gy. F. «Grazie per avermelo conservato», disse mettendoselo in tasca. Mentre attraversava la strada per andare dal giornalaio, fu fermato da un grido. Era Róka. «Ehi, alieno di classe! È te che voglio», disse porgendogli una delle pile di giornali che cullava fra le braccia. «Ammazzato qualcuno di interessante?» si informò. «Non direi», rispose Gyuri, «ma ho fatto il difficile.» Durante gli scontri Róka aveva passato la maggior parte del tempo a inseguire una camionata di AVO appassionati di atrocità a sorpresa: spalancavano il portellone posteriore del camion e sparavano addosso a chiunque fosse a tiro, uomo o donna, giovane o vecchio, disarmato o disarmato. La banda di Róka li aveva mancati di pochissimo in più di un'occasione. Pareva che gli AVO fossero stati visti l'ultima volta mentre si dirigevano verso Angyalfòld. «Non possono aver resistito più di dieci minuti», necrologizzò Róka. Il giornale che gli porse era intitolato «La Verità». «Faccio parte del comitato di redazione», spiegò tutto fiero. «Ah, prima che me ne dimentichi, Hepp vuole tutti al club all'ora Hepp, lunedì mattina. Dice che abbiamo già perso abbastanza tempo.» Ingiungendogli, prima di congedarsi, di andare ad avvertire Gyurkovics, che era riuscito a farsi affidare la distribuzione di una grossa partita di formaggio fuso di provenienza svizzera, Róka proseguì offrendo il suo giornale a chiunque fosse disposto a prenderlo lungo la via. Gyuri non aveva mai immaginato di poter avere voglia di leggere un giornale ungherese in vita sua. In quel periodo i giornali si moltiplicavano con i ritmi tipici delle statistiche di produzione delle imprese comuniste. I vecchi giornali erano cambiati in seguito a massicci trapianti redazionali, mentre quelli nuovi spuntavano come funghi. Non erano un gran che, ma riuscivano a suscitare l'inedito desiderio di leggere quello che avevano da dire. Non succedeva più di sapere già quello che c'era scritto prima ancora di averlo letto: adesso ci si trovavano tutte quelle cose che per quasi dieci anni non si erano mai viste stampate, opinioni che non erano quelle del Partito. Dando una scorsa a «La Verità», Gyuri lesse un po' di nuova poesia ingessata e pesante, un po' di vecchia poesia esangue e flebile e qualche articolo sul 23 che a fatica si poteva considerare informazione. Eppure leggere era un piacere.
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Dopo la battaglia, le grandi pulizie. Ovunque c'erano vetri infranti, macerie e ruderi di guerra che la cittadinanza orgogliosa spazzava via trionfalmente. I rottami sovietici venivano rimossi dalle strade per permettere la normale circolazione del traffico. Tutti si comportavano al meglio, come se la Rivoluzione fosse un ospite d'onore da impressionare con la propria ospitalità e civiltà. Dalle viscere della terra era salita una bolla di creanza, che era esplosa a Budapest. I contadini venivano dalla campagna con i loro carri a distribuire cibo a tutti quelli che incontravano, offrendo sacchi di patate, mele, zucche, qualche melone tardivo. Nella vetrina in frantumi di una gioielleria Gyuri vide un cartello che spiegava che il contenuto era stato portato al sicuro nell'appartamento del piano di sopra. Sui marciapiedi c'erano scatole di cartone con la scritta «per i caduti» che traboccavano di banconote offerte per i familiari a carico dei defunti. I combattimenti peggiori, o i migliori a seconda del punto di vista, si erano svolti intorno al cinema Corvin. Non era un cinema né particolarmente salubre né confortevole, come cinema non era proprio niente di speciale ma, quasi per effetto di una stupefacente lungimiranza, non avrebbero potuto progettarlo meglio per la guerriglia urbana. A pianta rotonda, era attorniato infatti da una serie di caseggiati disposti in cerchio, con numerosi comodi passaggi di accesso. Ma il Corvin non era stato l'unico luogo di raduno per giovani facinorosi: avevano giocato a nascondino in tutta Budapest. La concorrenza era stata spietata anche nelle vicinanze: nella scuola di Práter utca, subito dietro il cinema, e, sull'altro lato di Úllói ut, nella caserma Kilián, che ospitava un battaglione «C», un'accozzaglia di soldati che le autorità non consideravano dediti alla causa comunista, che si erano sorbiti una dose ancora più massiccia del solito di scavi di trincea e lavori stradali, che in generale se la passavano da schiavi, non pagati e sottonutriti, e si erano mostrati particolarmente interessati al tema Rivoluzione. Come se non bastasse, parallela a Ulloi ut, la principale via di accesso a Budapest per le truppe sovietiche, c'era Tuzoltó ut, una strada ridicolmente stretta che vantava i suoi guerrieri, localmente noti, com'era ragionevole aspettarsi, con il nome di ragazzi di Tuzoltó; costoro avevano messo a segno uno dei colpi migliori, localmente noto come il massacro di Tuzoltó. 215
Constatando che in Úllói ut i compagni alla ricerca di teppisti e reazionari andavano incontro continuamente a sgradevoli incidenti, quasi sempre mortali, il comandante di un distaccamento di carri armati sovietici aveva deciso di passare per Tuzoltó ut. Cinque tank vi erano entrati, e nessuno ne era uscito. «Abbiamo preso il primo e l'ultimo», aveva riferito a Gyuri uno dei partecipanti (un famoso giocatore di pallanuoto). «Così gli altri tre sono rimasti bloccati. Non c'era pericolo che se ne andassero. Abbiamo fatto una pausa per pranzo e poi li abbiamo finiti.» Tuzoltó ut era talmente intasata di pezzi di carri armati sovietici che i ragazzi avevano dovuto trasferire la loro attività in un'altra strada. Quando Gyuri giunse al Corvin, come sempre davanti al cinema c'erano tantissime persone; l'esigenza di stare fuori, per la strada, non era diminuita. La gente voleva vedere la storia con i propri occhi. Il cannone anticarro era ancora vicino all'ingresso con un cartello appoggiato alla canna che diceva: «trattenuto a furor di popolo»; la gente continuava a girare armata nonostante l'appello a riconsegnare le armi. Jankó, il comandante dell'unica batteria anticarro del Corvin, trascinava qua e là la sua gamba di legno e non sembrava intenzionato a dare ascolto all'appello. Aveva un fucile a tracolla - un invidiatissimo AK47, l'ultimo modello di fucile d'assalto sovietico - una pistola nella fondina e una baionetta che spuntava dallo stivale del piede buono. Evidentemente terrorizzato all'idea di perdere la benché minima occasione di uccidere dei russi, Jankó aveva fatto un ottimo lavoro al cannone: sei colpi e sei carri esplosi come popcorn. Cosa non sorprendente per un uomo di tale omicida efficienza e tanto appassionato di gadget letali, aveva la faccia cattiva. Gyuri l'avrebbe visto bene come cacciatore di ratti, che si accontentava di uccidere mammiferi piccoli finché non se ne presentavano di più grossi e più sovietici. Di Jadwiga, com'era prevedibile, non c'era traccia in nessuno dei posti in cui sarebbe dovuta essere. Gyuri diede un'occhiata alle varie assemblee in corso, ma non la vide. Ora che non si combatteva più, la gente faceva due cose soltanto: o si riuniva in assemblea o dipingeva ovunque il vecchio stemma nazionale. Le assemblee, inizialmente euforiche ed entusiasmanti, avevano imboccato la china che porta alla noia. Non poter esercitare il 216
diritto alla libera associazione era stato pesante, ma era un po' come non leggere un libro per cinque anni e poi iniziarne cinque contemporaneamente per recuperare. Orge di idee da un capo all'altro del paese. Si stavano formando organizzazioni di ogni tipo: i vecchi partiti politici che riprendevano il discorso da dove lo avevano lasciato nel 1947 e associazioni di ogni tipo per i prigionieri politici, gli studenti, gli impiegati, gli economisti, i pallanuotisti rivoluzionari. La vecchia barzelletta dei due ungheresi su un'isola deserta che si dividono in tre partiti politici era sempre più vera. Probabilmente esisteva già anche un'associazione di combattenti per la libertà con una gamba sola a cui poteva iscriversi Jankó. Gyuri gironzolò nel cortile del Corvin. I combattenti erano giovani, per la maggior parte ancora adolescenti (di nuovo Gyuri si sentì un po' obsoleto); generalmente erano di classe operaia e, be', per lo più non molto intelligenti. Ma quale persona intelligente avrebbe passato il proprio tempo libero a sfidare carri armati sovietici? No, la gente colta e intelligente se ne stava quasi tutta a casa a comporre pamphlet e lasciava che i poveri e gli stupidi morissero al suo posto, uscendo a sventolare bandiere al momento opportuno. Il Corvin si trovava in uno di quei quartieri dove una bella rissa veniva sempre apprezzata, che fosse uno scontro con i tifosi di una squadra di calcio rivale o con l'Armata Rossa. Gyuri si aspettava di incontrare Tamás; il Corvin sembrava fatto apposta per lui e non c'era dubbio che, se Tamás era vivo, dovevano esserci dei russi che stavano morendo. Ma i posti brulicanti di vita oltre al Corvin erano moltissimi. Pure al Corvin c'erano facce che gli erano familiari: aveva visto Filetto che discuteva con due ragazze vezzosamente armate di fucili mitragliatori. L'aveva salutato, ma sospettava che non lo avesse riconosciuto, poiché il suo ruolo di compagno di cella per Gyuri era stato più importante di quello di comparsa sul palcoscenico di Filetto interpretato da Gyuri. Si aspettava anche di incontrare da un momento all'altro Pataki. Schiene, profili, tagli di capelli, figure in lontananza imitavano Pataki o emanavano un che di patakiano. Pensava che magari Pataki fosse sulla strada del ritorno in Ungheria perché non voleva perdersi tutto. Dal parlamento uscì uno che gli assomigliava talmente, che si muoveva in 217
modo così simile a lui, che Gyuri stava già preparandosi gioia e saluti e solo l'assenza del benché minimo segno di riconoscimento nelle iridi dell'impostore lo tradì all'ultimo momento... Alla fine, in fondo a Úllói ut, vicino ad alcune macerie pittoresche, Gyuri trovò Jadwiga che si faceva fotografare da due fotografi occidentali, che apparentemente avevano un debole per le belle ragazze armate. Gyuri si indispettì. Jadwiga stava facendo soltanto uno dei suoi sorrisi di cortesia, il suo biglietto da visita con tutti i denti in mostra, ma loro non potevano saperlo. Si avvicinò per guardare più in cagnesco i fotografi, ma quelli avevano già finito e stavano andando a scattare la loro prossima istantanea. Viktor, il disertore sovietico, e un altro polacco che a Gyuri sembrava si chiamasse Witold erano appoggiati allo scheletro di un carro armato, da dove avevano osservato la scena delle fotografie. Jadwiga indossava la sua giacca sovietica imbottita, la buccia di un soldato sovietico morto, pensò cupamente Gyuri. Anche lui aveva preso armi agli internazionalisti morti, ma le armi erano in un certo senso infedeli, non appartenevano a nessuno, si facevano portare e basta. La giacca blu di Jadwiga, che costituiva circa un terzo del suo modesto guardaroba, era finita a brandelli il 26 mentre strisciavano a terra al Corvin sotto il fuoco dei sovietici. Più di tutto il resto era stato spaventoso il rumore dei carri armati. Razionalmente non era più pericoloso degli spari della fanteria, ma suonava più pericoloso. Quando Jankó aveva risposto al fuoco con il cannone anticarro, Gyuri aveva creduto di morire dalla paura. Mentre avanzava strisciando sull'asfalto, usando muscoli della cui esistenza non aveva mai avuto il benché minimo sentore, più appiattito che se si fosse trovato sotto le zampe di un elefante, meditava sul fatto che sarebbe bastata una delle centinaia di pallottole che attraversavano sibilando il Corvin per disarcionarlo dal continuum spaziotemporale e si chiedeva perché non scappavano tutti, Jadwiga era angustiata soltanto dal fatto che la sua giacca la stava tradendo sul campo di battaglia e cadeva a pezzi mentre lei sparava. Da una delle spedizioni a fare shopping nei momenti di calma presso sovietici fuori servizio, per rifornirsi di armi e munizioni, era tornata con quella robusta giacca.
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«Allora come sta il nostro ottimista?» gli aveva detto. Quella mattina Jadwiga naturalmente si era schierata con Elek, sostenendo che ormai l'Armata Rossa ne aveva abbastanza e che Gyuri non voleva affrontare la libertà di fare quello che voleva senza poter ricorrere alla comoda scusa di uno stolido regime dittatoriale che gli impediva di mietere successi. «Oggi Budapest, la settimana prossima Varsavia, vero, Witold?» Witold annuì, poi Jadwiga aggiunse in russo: «Mosca, siamo realistici, fra un mese». Viktor aveva approvato con un sorriso. «Per questo devono smetterla qui», commentò Gyuri. «Non può durare ancora a lungo.» «Sei così abietto», protestò Jadwiga. «Spero che i nostri figli non prendano da te. Quando gli racconterò com'era stupido loro padre, si metteranno a ridere.» Dopo averle strappato la promessa di rincasare presto, Gyuri si avviò verso Damjanich utca. Passando davanti a una libreria che aveva vomitato il proprio contenuto per la strada, gli venne in mente che a casa erano a corto di carta e, per fare un esperimento scientifico, raccolse alcuni volumi che non erano bruciati o erano stati solo parzialmente rosicchiati dalle fiamme. A casa, seduto comodamente sul gabinetto, li esaminò. Révai, l'ideologo del Partito, fu una delusione. Era un volume imponente, Sapevamo che uso fare della libertà (684 pp.), ma la carta era troppo lucida per superare a pieni voti l'esame di nettaculo. Méray, il giornalista che aveva impavidamente inventato e quindi denunciato le atrocità commesse dagli americani in Corea nel suo Testimonianza (213 pp. con illustrazioni) sembrava più promettente. Gyuri non aveva idea di che cosa fosse veramente successo in Corea, ma era pronto a giocarsi la pelle che le uniche cose che non fossero menzogne belle e buone nel libro erano il nome dell'autore e le virgole. Ciononostante Méray presentava una maggior capacità di assorbimento. Passando a Discorsi e articoli scelti di Rákosi (559 pp.), l'inadeguatezza rispetto alla funzione da svolgere restava palpabile. La salvietta più efficace per il suo fondoschiena risultò essere La svolta (359 pp.), sempre di Rákosi, un'edizione molto vecchia, del 1946, su carta ruvida che andava quasi bene. 219
Gyuri cercò di godersi quel soggiorno al quartier generale dei quarti posteriori in compagnia dei libri, ma sebbene l'idea gli fosse sembrata molto allettante, la realtà non fu all'altezza delle aspettative. I comunisti non reggevano neppure come carta da cesso. Pareva quasi di vedere Rákosi che, prevedendo che un giorno o l'altro a qualcuno potesse venir voglia di prendere i suoi libri e farne biada per il culo, ordinava che le sue opere venissero stampate sulla carta meno accomodante possibile. Sarebbe stato un aneddoto divertente da scrivere a Pataki. Dov'erano Révai, Rákosi e gli altri? si chiese Gyuri. Dov'erano tutti quegli stronzi, gli amatissimi figli prediletti del popolo? I russi probabilmente li avevano nascosti nelle cantine della loro ambasciata, immagazzinati per eventuali necessità future con tanto di etichetta «dittatori di riserva». L'ultimo libro che aprì era in inglese, L'Europa dell'Est nel mondo socialista, di Hewlett Johnson, presunto decano di Canterbury. Era un peana in onore dell'ordine socialista. O era un falso, oppure il decano era stato sorpreso a fare delle grandissime seghe a dei ragazzini di Varsavia e costretto a scriverlo sotto ricatto, pensò Gyuri, perché nessuno poteva essere tanto imbecille da scrivere cose simili di propria volontà. Era il parco più grande di Amburgo ed era pieno di anatre, ma non riusciva a prenderne nemmeno una. Le anatre erano più furbe e più veloci di quanto sembrassero e Pataki aveva lo svantaggio di doversi guardare continuamente alle spalle per non farsi arrestare. C'era senz'altro qualche ordinanza locale che tutelava le anatre tedesche dai profughi affamati. Cercò di improvvisare trappole con spago e pane secco, tentò di usare il cappotto come fosse una rete, provò persino ad acchiapparle e torcere loro il collo a mani nude. Quando venne buio, si rassegnò a un'altra cena a base di uova sode. Aveva provato tutte le alternative possibili per la cottura e tutto sommato quelle sode erano le meno deprimenti. Le uova erano molto meglio di niente, ma dopo mesi di uova, sempre uova e nient'altro che uova, qualunque genere commestibile che non fosse un uovo emanava un fascino senza precedenti. Passando davanti a un negozio di alcolici, Pataki cedette e decise di concedersi un piccolo sperpero. Due birre per festeggiare la Rivoluzione. 220
C'era un tedesco pingue davanti a lui al banco, che stupidamente comprava più birra di quanta ne potesse portare. L'uomo si affannava, cercando di destreggiarsi con il suo carico impossibile, e Pataki stava per chiedere due bottiglie di birra, quando si sentì posare una mano sulla spalla. Si voltò e vide un tizio con i capelli lunghi che gli disse in tedesco: «Sono ungherese, lasci che le offra da bere». Pazzo? Ubriaco? Incontenibilmente socievole? Semplicemente ungherese? «Sono ungherese anch'io e mi lascerò offrire da bere», rispose Pataki nella sua lingua madre. L'uomo si chiamava Kincses ed era evidentemente abituato a fare di tutto pur di avere compagnia. La sua stanza era praticamente sopra la bottiglieria, per cui si rifugiarono a bere lì. Kincses era molto contento di non dover ricorrere al suo tedesco dall'accento spaventoso e di poter dare libero sfogo alla sua loquela. Era in Germania Ovest da più di tre anni. Aveva lavorato un po' come modello per gli artisti, ma la moda dell'espressionismo astratto lo aveva privato della sua occupazione e adesso era diventato factotum in uno dei bordelli più frequentati. «Tutto molto tedesco. Mi hanno fatto fare un colloquio. Mi hanno chiesto se avevo esperienze di lavoro precedenti in un bordello. Erano serissimi; avevano il terrore di assumere personale non qualificato. Tu cosa fai?» «Io dirigo l'ufficio acquisto francobolli di una banca», disse a sua volta Pataki, «sono quello che mandano all'ufficio postale.» Brindarono alla Rivoluzione. «Ieri ho provato a rientrare», disse Kincses. «Sono arrivato fino al confine con l'Austria, ma gli austriaci non mi hanno fatto passare. Erano convinti che in Ungheria ci fossero già abbastanza ungheresi. Bada che non so nemmeno io perché avevo tanta voglia di tornare, se penso alla fatica che ho fatto per venir via. È stato un valzer fra i campi minati. E tu come hai fatto?» «Con un vagone ferroviario personalizzato. Dovevi proprio volertene andare se sei uscito a quel modo.» «In realtà non avevo grandi scelte. Questo semplifica sempre le cose. Perché, vedi, venivo da un posto che si chiama Recsk, un campo di concentramento.» Kincses illustrò a grandi linee i princìpi ispiratori di 221
Recsk. «Mi aiutarono in tanti a scappare. Ci vollero mesi per mettere insieme un'uniforme da guardiano. Fu una cosa molto sfrontata, molto drammatica. Una grandissima faccia di bronzo, una sera buia d'inverno, guardie annoiate e ottuse, e uscii. Me ne andai a piedi. Non c'era speranza di rimanere in libertà in Ungheria, per cui sapevo di dovermene andare. «Pensavamo tutti che fosse importante che il mondo sapesse di Recsk. Memorizzai i nomi di tutti, le date di nascita, le professioni e le città in cui vivevano. Stavo imparando gli indirizzi quando l'uniforme fu pronta.» «E il mondo che cosa ha detto?» chiese Pataki. «Non molto. Esci da un campo di prigionia e sei un eroe; esci da un campo di prigionia e da una Cortina di Ferro e scopri di aver fatto il giro del globo morale: non sei un eroe, ma un elemento estremamente sospetto. Sono stati tutti molto cortesi, ma ho avuto l'impressione che pensassero che fossi pagato da qualcuno a Mosca.» (Pataki ricordò il suo interrogatorio: «Ach, Herr Pataki, lei dice di essere stato mandato dall'AVO, ma noi sappiamo da gente mandata dall'AVO che la gente mandata dall'AVO ha istruzioni di dire che è stata mandata dall'AVO». Quel colloquio non aveva portato da nessuna parte: era rimasto nel paese, ma senza nessun generoso stipendio da parte dei servizi di sicurezza.) «E tu tornerai?» chiese Kincses. «Quando me ne vado, me ne vado.» «Non pensi che dovrei dirglielo?» chiese Jadwiga. «No. Meglio non intromettersi in quel genere di traffico affettivo», rispose Elek. «Ma non ce il minimo dubbio: i documenti erano molto chiari.» Elek aveva l'aria infelice. «I documenti saranno anche stati molto chiari, ma Pataki tu non lo hai conosciuto bene. Era un fulmine di guerra sia in campo che fuori. Non gli sarà stato facile cavarsela a suon di chiacchiere dopo la sua passeggiata con tanto di chiappe al sole davanti alla loro porta, ma lui è sfuggente. Forse gli AVO hanno creduto che lavorasse per loro e lui gliel'ha fatto pensare solo per andarsene. » Si accese una sigaretta che teneva da parte da tempo. «Scommetto che è anche riuscito a farsi dare un anticipo.»
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Fu l'artiglieria a svegliarli. Lontana, ma forte. Gyuri guardò fuori della finestra. Era tutto buio e tranquillo. Nessuna avvisaglia dell'alba o dei russi, ma stavano per giungere entrambi. Accesero la radio e sentirono Imre Nagy annunciare il prevedibile attacco dei russi e dichiarare che le forze ungheresi stavano combattendo. Poi ci fu un appello, una richiesta di aiuti dall'estero. Gyuri si vestì, perché la sventura va affrontata in pantaloni, mentre i succhi gastrici gli ballavano il can-can nello stomaco. «Dobbiamo andare al Corvin», disse Jadwiga. Gyuri veramente non ci voleva andare, non era per niente contento di aver avuto ragione. Si accorgeva che avere ragione non è necessariamente meglio che avere torto. Se credeva di essersi arrabbiato in passato, si rendeva conto che le collere precedenti erano state solo false partenze rispetto alla rabbia che provava in quel momento. Grazie all'Armata Rossa stava per scoppiare, ma non voleva combattere. Tremava, in preda a un misto di novanta per cento di ira e dieci per cento di paura. Avrebbe voluto proporre di andare al confine, ma sapeva che Jadwiga non ne avrebbe voluto sapere. Lo propose comunque, sapendo che se non l'avesse fatto se ne sarebbe pentito. «Andiamo in Austria», disse. «Non parlerai sul serio?» ribatté lei. Uscirono di corsa. Jadwiga aveva la sua arma preferita. Per la strada c'era poca gente e quella poca, armata o disarmata, aveva l'aria di non sapere che cosa fare. Gyuri cercò di reprimere i propri pensieri perché non voleva che venissero a galla, visto che tanto non sarebbero serviti a niente, ma non riusciva a tenerli sommersi: affioravano alla superficie da soli. Perderemo. Ci ammazzeranno. Fluttuavano qua e là nella sua mente. Gli sembrava che anche gli altri si sforzassero di trattenere le stesse idee. Procedendo furtivamente arrivarono al Kórut, che Gyuri riconobbe improvvisamente come la strada dove sarebbe morto. «Con te mi sento al sicuro», disse Jadwiga caricando l'arma; era una cosa curiosa, perché Gyuri non si sentiva affatto al sicuro con se stesso. Anche Kurucz camminava per il Kórut, guizzando da un portone all'altro con un paio di bombe a mano alla cintola e la pistola pronta; Kurucz era uno dei soldati di professione che erano finiti al Corvin. Nel vederlo Gyuri si rianimò un po': Kurucz era amico intimo della sopravvivenza. Intelligente, fortunato, Kurucz non commetteva errori: non 223
sarebbe stato facile farlo fuori. Stando vicini a lui magari un po' di protezione sarebbe caduta anche su di loro. Gyuri notò che si era messo il pullover con il davanti dietro. «Avete sentito di Maléter?» chiese Kurucz. Gyuri scosse la testa. Il colonnello Maléter era stato nominato ministro della Difesa alcuni giorni prima sulla base delle sue attività alla caserma Kilián. «Ieri sera è andato a cena con il Comando Supremo sovietico e non è tornato.» Un'altra buona notizia, pensò Gyuri assordato dalla voce che gli gridava stai per morire all'orecchio. «Be, la leadership militare non è mai stata il nostro forte», osservò Kurucz. Era una scemenza, ma Gyuri non poteva fare a meno di pensare che le cose sarebbero andate diversamente se Pataki non se ne fosse andato. Con Pataki non sarebbe successo. Pataki non si sarebbe fatto raggirare da un branco di generali sovietici grassi. Non li avrebbe lasciati cacare per tutto il paese. Non sapeva come, ma Pataki sarebbe stato più furbo di loro, o per lo meno non avrebbe perso la partita prima ancora di cominciare. «Se solo ci fosse Pataki...» disse, cercando di pensare a che cosa fare. «Se avessi letto di più non diresti cose del genere», tagliò corto Jadwiga. Gyuri non capì che cosa intendesse, ma Jadwiga andava spesso soggetta ad attacchi di misticismo slavo. Il Corvin pareva al centro dell'attacco: era il prezzo della celebrità, sanguinario tributo al suo esercito adolescente. Erano in azione le forze aeree, l'artiglieria e nuovi carri armati più grossi. Avanzarono lentamente lungo il Korut, ma cercare di avvicinarsi di più sarebbe stato suicida. Erano dietro un mucchio di sacchi di sabbia rimasti dalla battaglia precedente quando uno dei carri armati, a centinaia di metri di distanza, aprì il fuoco. Metà del palazzo alle loro spalle sparì. Gyuri ci mise un po' a convincersi che era ancora vivo e che tutte le varie parti del suo corpo erano al loro posto e ancora funzionanti. Jadwiga era vicino a lui, coperta di polvere e di macerie. Quando vide la ferita, due pensieri fecero a gara dentro di lui: uno, che le ferite allo stomaco erano sempre mortali, e l'altro che il suo equilibrio mentale non l'avrebbe retto. Tenendola fra le braccia come se potesse servire a qualcosa, cercò di non farsi leggere in faccia 224
l'orrore, la consapevolezza che stava per vedere l'ultima cosa che voleva vedere, la morte della persona che amava. Lei capì subito. «Non mi dimenticherai», disse. Nigel ingannava il tempo che mancava all'inizio della Terza Guerra Mondiale lustrando tutte le scarpe su cui riusciva a mettere le mani nella legazione. Squillava il telefono. Una volta Nigel aveva risposto: «Pronto, legazione britannica». «Siamo in trappola. Stiamo per morire», aveva detto una voce. Era una voce piena, profonda, calma, che parlava un ottimo inglese, con quel tanto di accento ungherese che bastava a conferirle un gradevole tocco di colore; si poteva pensare che appartenesse a un professore di letteratura inglese. Nigel non sapeva che cosa dire. Era chiaro che ci sarebbero volute parole di commiserazione, ma nel suo galateo più immediato non c'era nulla di adatto a una situazione del genere. Per fortuna la voce aveva continuato a parlare senza dargli la possibilità di intervenire. «Il nostro palazzo è completamente circondato dai russi. Combatteremo fino all'ultimo proiettile, ma moriremo. Noi non siamo importanti, ma dovete aiutare il nostro paese. L'Ungheria deve essere libera...» Era caduta la linea. Tutti davano una mano e tutti facevano tutto all'ambasciata, ma Nigel non voleva più rispondere al telefono. La Legazione era diventata il rifugio di una strana mescolanza di cittadini britannici, studenti volenterosi, avventurieri, giornalisti, vacanzieri e due uomini d'affari la cui inesorabile devozione alla vendita delle loro lamette da barba alla faccia della storia era senza dubbio degna di nota. Nessuno ne parlava, ma si dava tacitamente per scontato che stesse per scoppiare la guerra e che si sarebbero trovati tutti dietro le linee nemiche; comunque fosse andata, non sarebbe stato piacevole. A tutti era stata presentata copia della loro stessa morte. Nigel aveva optato per la lucidatura delle scarpe perché così aveva qualcosa da fare e perché, come diceva scherzando, «Vogliamo essere impeccabili quando i russi ci cattureranno. Il direttore del mio vecchio college non me lo perdonerebbe mai se andassi incontro alla fine con le scarpe impolverate.» Il giornalista della BBC vagava per l'ambasciata 225
abbracciato a una bottiglia di vodka e aveva abbordato ripetutamente tutte le donne che incontrava con un «Le interessa una scopata?». Nigel prevedeva che il ministro plenipotenziario avrebbe fatto le sue rimostranze alla BBC quando tutto fosse finito, sempre che fosse in condizione di farlo. Il ministro non vedeva di buon occhio i giornalisti; per un pelo non aveva chiuso la porta in faccia al corrispondente del «Daily Worker»: «Non dovrebbe essere là fuori con i suoi amici comunisti?». L'addetto politico e l'addetto militare si avvicinarono al punto in cui Nigel lustrava le scarpe. «Alla fine è riemerso Kádár. Ha parlato alla radio, non si sa da dove, e ha detto di aver formato un governo operaio-contadino che ha invitato i russi a fare un po' di pulizia. Mi piacerebbe contare gli operai e i contadini nel suo governo», commentò l'addetto politico. «Chi è Kádár?» chiese Nigel. «È stato ministro degli Interni sotto Rákosi. Un comunista nostrano anziché moscovita. È stato ministro anche nell'ultimo governo di Nagy, ma pareva che si fosse stufato e qualche giorno fa era scomparso.» «Nessuno sa dov'è stato nel frattempo?» chiese l'addetto militare. «In qualche posto sicuro e sovietico, direi. Probabilmente è stato una settimana a pensare una nuova combinazione delle parole socialista/operaio/partito con cui battezzare la sua nuova creatura. Ma è rimasto fermo al Partito socialista dei lavoratori ungheresi, che è un'idea di Nagy. Immagino che abbiano esaurito tutte le varianti.» «Mmmm. Immagino sia l'ora di arruolarsi», disse l'addetto militare uscendo per entrare nella rivoluzione. Non si diventa più coraggiosi, ma solo più stanchi, stufi di aver paura. Così pensava Gyuri arrampicandosi sul muro per entrare nel cimitero di Kerepesi. Insieme a Kurucz lo attraversò di corsa, aggirando le lapidi e i cespugli. Dov'erano gli altri? si chiese. Quando si voltò, vide i mongoli scavalcare il muro. Il ritorno dell'Armata Rossa era stato possibile soprattutto grazie alle truppe provenienti dall'Asia centrale o da qualche altra zona dell'Unione dove furoreggiavano gli occhi a mandorla. A differenza delle truppe già di 226
stanza in Ungheria, che più o meno sapevano che cosa stava succedendo, Gyuri aveva sentito dire che i mongoli erano convinti di combattere in prossimità del canale di Suez. Uccidere non era certo un problema per loro. Kurucz fece segno che dovevano fermarsi e resistere. Gyuri aveva ancora abbastanza energie per apprezzare il lato comico di una sparatoria al cimitero: una bella comodità per chi avrebbe dovuto mettere in ordine, dopo. I mongoli si muovevano cauti, quasi temessero l'arrivo da un momento all'altro dei paracadutisti americani. Era tutto il giorno che Gyuri sentiva parlare dell'arrivo dei paracadutisti americani in qualche parte dell'Ungheria, specialmente dove non ce n'era nessun bisogno. Be', se non si fossero sbrigati, presto sarebbe finito tutto. Gyuri notò che molti personaggi del Partito erano seppelliti in quel cimitero e sperò di trovare la lapide di qualche quadro dietro cui ripararsi in modo da costringerli a spararle contro. Kurucz scaricò contro i bastardi gialli l'intero caricatore, mettendo a dura prova il loro sistema cardiovascolare e forse beccandone uno. Lui e Kurucz si ritirarono dietro a un mausoleo gigante a pochi metri di distanza, una specie di breve storia dell'architettura, in dodici stili diversi, forse per coprire tutte le possibili mode da lì al giorno del giudizio. Era orripilante, ma doveva essere costato una fortuna. «In memoria della famiglia Gerebend», diceva la lapide. La famiglia Gerebend avrebbe avuto delle brutte sorprese, pensò Gyuri. Erano a corto di munizioni. Kurucz aveva ancora una bomba a mano e basta, poi potevano iniziare a tirare pietre. Lontano, i mongoli discutevano a voce alta la loro strategia. Dopo pochi minuti ne spuntò uno che strisciava sul ventre cullando il fucile come da manuale, ma allo scoperto. Si credeva forse invisibile? Era offensivo, umiliante. Gyuri sentì il gusto dell'ira sul palato emozionale. Era tutta la mattina che mancava il bersaglio, ma con gli ultimi due colpi centrò il mongolo strisciante. Questi si rivelò un vero e proprio urlatore, esprimendo eloquentemente in un linguaggio universale quanto è doloroso morire ammazzati. Dopo un'ulteriore frenetica consultazione fra asiatici, da un vasto fronte si aprì il fuoco delle armi leggere che sforacchiarono l'ultima dimora della 227
famiglia Gerebend. Gyuri capì che Kurucz avrebbe preferito restare a cavare gli occhi ai gialli, ma gli fece cenno di andare. Fu facile. Uscirono dal cimitero mentre la sparatoria continuava, condita con qualche svogliato lancio di bomba a mano. Chissà quante ore sarebbero andati avanti 1 mongoli prima di rendersi. conto che loro erano usciti dalla porta di servizio. «Io vado verso Úllói ut», disse Kurucz. «Non ritornerai», disse Gyuri accorgendosi dal proprio tono di voce di essere isterico. Si stupì di averne ancora la forza. Úllói ut era un'anteprima della fine del mondo, una piccola apocalisse localizzata. Spararsi in bocca sarebbe stato meno rischioso. «Ho vissuto come un verme per tanto tempo», dichiarò Kurucz, anche se a Gyuri pareva impossibile. «Sono contento di poter morire da uomo. Tu dove vai?» «Via. In Occidente. In Austria», rispose Gyuri. «Neanche tu ritornerai.» Gyuri gettò l'arma scarica. Se gliene fosse servita un'altra, avrebbe potuto raccoglierla a qualsiasi angolo di strada e comunque ad andare in giro armati non ci si guadagnava niente. «L'Armata Rossa non dimenticherà la gita a Budapest», disse Kurucz. «È stato... be', chissà cosa non ci scriveranno sopra.» Strisciando lungo i muri verso casa, Gyuri si imbatté nell'addetto militare britannico nascosto in un androne a osservare. Quando Gyuri lo salutò in inglese, l'uomo capì che si conoscevano, anche se era evidente che non si ricordava chi fosse. «Spaventosi, quei nuovi carri armati», disse indicandone un branco dall'altra parte di piazza Hósök. «Anche i cannoni nuovi hanno una potenza di fuoco rimarchevole.» Gyuri assentì perché non sapeva che cosa aggiungere alla conversazione. Si limitò a sorridere educatamente come si conviene quando il proprio paese viene invaso da nuovi carri armati interessanti. L'addetto aveva l'ombrello, osservò, come si conviene agli inglesi. Trovò la casa vuota. Elek, come tutti gli altri abitanti del palazzo, si era rifugiato in cantina, proprio come durante l'assedio del '44. Con un ultimo 228
gesto di ribellione e di sfida, Gyuri si arrampicò sul letto e dormì indefessamente per le venti ore successive, opponendo una vera e propria resistenza passiva. Fu svegliato da István che si aggirava per il salotto. István stava staccando dal muro un quadro, un paesaggio così orrendo che persino le legioni di soldati sovietici che si erano avvicendate a fare razzia in casa loro l'avevano snobbato e, quando facevano la fame, Elek non era riuscito a trovare chi lo comprasse nemmeno per pochi fiorini. «Un carro armato ha crivellato la nostra natura morta», spiegò István. «Ilona dice che bisogna sostituirla. Sei stato a combattere? Si vede dalla faccia, hai un'aria abbastanza spaventosa.» Gyuri frugò in cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare, più per un riflesso condizionato che per fame. «Dov'è Jadwiga?» domandò István. L'occhiata di Gyuri chiarì tutto. Iniziò a mettersi strati su strati di vestiti. Quando arrivò al cappotto, infilò una mano in tasca e tirò fuori gli effetti personali di Jadwiga. Posò sul tavolo anelli e documenti. Tenne il passaporto. «Ho bisogno di un favore. Quando tornerà la calma, spedirai queste cose in Polonia?» Afferrò la sciarpa e disse a István: «Io me ne vado. Sii felice e compagnia bella». Oberato dalla tristezza, la strada fu lunga. Santo Dio, pensò, deve proprio andare così? Era più freddo del solito, per essere novembre, e sembrava più buio del solito per essere le sei, quasi i russi avessero importato una dose ulteriore di oscurità e l'alba avesse dato forfait. I treni circolanti erano pochi, ma alla stazione Keleti ce n'era uno, fin troppo gettonato e pronto a partire. Anche se la destinazione ufficiale era ungherese, non era un treno per l'Ungheria. Anche se nessuno lo diceva, tutti sapevano che era il locale per Vienna. In centro c'era maggior calma, ma quando il treno uscì sbuffando da Budapest e passò l'isola di Csepel, si udirono delle esplosioni. Csepel, da sempre ufficialmente definita «rossa» in quanto abitata esclusivamente da operai, fu l'ultimo quartiere di Budapest a cedere. Avevano una fabbrica di munizioni e delle batterie antiaeree tanto potenti da ridurre come groviera i carri sovietici. Ai loro stessi capi che raccomandavano la resa, era stato dato il caldo consiglio di andare al diavolo. Enormi colonne di fumo 229
aleggiavano immobili, come inchiodate sull'isola. Gli abitanti di Csepel si erano fatti una certa reputazione per la tenacia, la durezza e l'estrema violenza, seconda solo a quella di Angyalfòld. Sul treno c'erano due persone che Gyuri conosceva. Il primo, Kórodi, viveva all'altra estremità di Damjanich utca. Gyuri non lo vedeva da anni nonostante abitassero vicini, ed era quasi paradossale incontrarlo mentre andavano a controllare se il confine era ancora aperto. Avvinghiato alla custodia del violino neanche fosse un salvagente, Kórodi fu contento di vedere Gyuri. «Era un secolo che non ti vedevo», disse sedendoglisi accanto nella carrozza ristorante senza ristorante. «Era un secolo che non mi vedeva nessuno», ribatté ridendo Kórodi. «Ho passato tutto il tempo a suonare. A volte anche quattordici ore al giorno. Mai una sera senza violino. Mai una storia, mai un bel bagno lungo, mai un romanzo d'appendice, mai un romanzo come si deve. Non sarò il migliore violinista del mondo, ma sono senz'altro quello che ha studiato di più. Ho lasciato perdere tutto perché lo sapevo, lo sapevo che un giorno me ne sarei andato e allora ne sarebbe valsa la pena. Quei bastardi perdigiorno degli occidentali ci resteranno secchi.» «Le strade non saranno lastricate d'oro», disse la parte di Gyuri responsabile delle risposte spiritose. «Sai una cosa? Anche se sono lastricate di merda, non me ne importa niente.» L'altro conoscente di Gyuri era Kurucz. Mentre cercava un posto, Gyuri non l'aveva riconosciuto subito perché aveva la faccia quasi completamente coperta di bende e si appoggiava a una stampella. Dal poco che vide, Gyuri concluse che doveva avere la faccia ridotta peggio di tanti cadaveri rimasti all'aria per giorni. Non si salutarono subito per un ritorno all'antica cautela ma, lasciata Budapest da un'ora, Gyuri lo vide che fumava nel corridoio. C'era spazio sufficiente per un colloquio a bassa voce. «Che cosa ti è successo?» domandò Gyuri. «Mi hanno ammazzato», rispose Kurucz con la voce pastosa di chi non dorme né mangia da giorni. «Vicino a Rákóczi ut. Eravamo circondati e avevamo finito le munizioni. Hai mai provato a prendere a calci nei 230
coglioni un carro armato? L'unica chance per sopravvivere era arrendersi. Non che ci aspettassimo gran che. Eravamo dodici, quasi tutti ragazzi. Ci hanno messi in fila lì dov'eravamo, ci hanno fucilato e hanno anche buttato una o due bombe a mano tanto per gradire. Mi hanno preso nel collo e l'orecchio sinistro non ce l'ho più. Per non parlare di una buona dose di shrapnel. Dovevo essere messo maluccio, per fortuna. Poi mi ricordo solo che mi sono svegliato in una casa e ho pensato che in paradiso la tappezzeria faceva schifo; quelli che mi hanno salvato e rappezzato mi hanno detto che ero l'unico superstite.» Fissarono il buio fuori del finestrino: una cupezza ininterrotta, una gelatina sinistra e impenetrabile. Non c'era traccia di niente. «Ne abbiamo uccisi troppi? Troppo pochi?» si domandò Kurucz riferendosi a quelli dell'AVO e del Partito. «Trovano sempre dei sostituti. Collaborazionisti e stronzi sono gli ultimi a morire, come la speranza.» Kurucz aveva fatto un periodo di servizio militare sul confine e propose a Gyuri di aiutarlo ad attraversarlo in un punto molto verde. Elek, che si annoiava e non aveva nessuna voglia di andare a vedere se c'era ancora il suo lavoro in ospedale, salutò con calore István quando arrivò a casa. «Hai visto Gyuri? Sto incominciando a preoccuparmi. Sono riuscito a comprargli i suoi dolci preferiti. Ci crederesti? In mezzo a questa baraonda la pasticceria ha riaperto. » István sospirò di fronte al disordine di Gyuri. «Se n'è andato», disse. Quel novembre non c'era più bisogno di dire nulla «Proprio quando stava diventando un tipo interessante», osservò Elek. Una volta raggiunta la parte occidentale del paese la gente scese dal treno in vari punti, a seconda di come aveva intenzione di fuggire. C'erano famiglie con due, tre o addirittura quattro figli e innumerevoli valigie, viaggiatori solitari, coppie che si tenevano per mano e persino un contadino che aveva dichiarato di volersi portare oltreconfine un maiale pluridecorato in diverse fiere. Regnava una tetra atmosfera da escursione vacanziera.
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Kurucz sembrava sapere il fatto suo, pur essendo bene avviato verso la morte. Questo perlomeno consentì a Gyuri di non pensare; non aveva nemmeno paura, perché quel che era successo aveva soffocato il suo terrore, anche se a caro prezzo. Si avviarono lentamente a piedi verso il confine, controllando diffidenti tutti quelli che incontravano, la maggior parte dei quali li evitava con altrettanta alacrità e circospezione. Il piano era arrivare più o meno a un chilometro dal confine, aspettare che calasse la notte e quindi rimettersi in cammino. C'era una sottile coltre di neve. Perché faceva tanto freddo? Gyuri pensava che non gliene sarebbe importato nulla delle circostanze, ma il freddo era forte e chiaro. Non aveva per niente fame. Non c'è nulla come la morte per far passare l'appetito; non riusciva nemmeno a immaginare di aver voglia di mangiare. Avrebbe barattato volentieri un po' di freddo per un po' di fame. Ma non si poteva lamentare. Kurucz, che di materiale su cui lavorare ne aveva parecchio più di lui, non aveva aperto bocca. «Le mine le hanno tolte, vero?» domandò Gyuri, come se gli fosse venuto in mente solo allora che, in segno di amicizia verso l'Austria, era stata annunciata la rimozione di quasi tutti i campi minati e delle fortificazioni. «Sì, i campi minati non dovrebbero esserci più», rispose Kurucz, aggiungendo poi: «Ma mi dici quando mai hanno fatto una cosa per bene in questo paese?». Al crepuscolo Kurucz disse che erano arrivati in vista dell'Austria. Neve e alberi di qua e di là. L'Austria sembrava straordinariamente uguale all'Ungheria. Aspettando nel bosco a Gyuri venne tanto freddo che perse i contatti con alcune delle sue estremità. Camminando in circolo per evitare l'assideramento totale, Gyuri inciampò in tre cadaveri lievemente coperti di neve: erano due donne e un bambino. Le sue emozioni, scoprì, erano diventate insensibili come le sue dita. La luna era quasi piena, cosa poco incoraggiante. Ma si vedeva la luce dei fuochi intorno a cui, probabilmente a causa del freddo, si raccoglievano le ombre di sentinelle di nazionalità ignota. Fari che li tenevano lontani. Gyuri e Kurucz si muovevano senza fretta, con molta attenzione, e nonostante ciò continuavano a inciampare e a incespicare lungo quel 232
confine sorprendentemente sconnesso. Furono più circospetti che mai quando raggiunsero una zona scoperta, che presumibilmente era stata un campo minato. Anche se i suoi piedi si erano fatti molto poco comunicativi, Gyuri a un tratto sentì qualcosa di molto poco campestre sotto il piede destro. Grippò completamente. Alla fine, con un bisbiglio in punta di piedi, a metà esatta fra l'ansia e la collera, Kurucz gli domandò: «Che cosa ti ha preso?». «Niente. Credo di aver calpestato una mina.» Alla luce fievole Gyuri aveva dedotto di aver messo il piede su quella che aveva tutta l'aria di essere una mina dissotterrata. Alla fine proseguì, convinto che se avesse dovuto esplodere l'avrebbe già fatto. La solita porcheria sovietica. Trovarono un granaio. Era freddo come fuori, ma almeno avevano l'impressione di essere al riparo. Gyuri passò qualche ora a cercare di prendere sonno, rabbrividendo di freddo e di infelicità. Appena ci fu un sospetto di alba, uscì a pisciare. Fece fatica a trovarsi l'uccello, tanto era rimpicciolito per il freddo. «Va bene. Troviamoci un posto più caldo», disse Kurucz non appena ci fu abbastanza luce. Gyuri si guardò indietro e capì che ce l'avevano fatta perché c'era una fila di torrette di guardia ormai lontane. Era fuori. Improvvisamente, inaspettatamente, cominciò a piangere. Continuò a camminare all'indietro perché Kurucz non se ne accorgesse. Le lacrime, a squadre, discesero la sua faccia a corda doppia.
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