Il declino della Cristianità sotto l'Islam
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Zitiervorschau

Della stessa autrice Les juifs en Égypte, Éditions de l'Avenir, Genève 1971 (edizione ebraica riveduta e ampliata a cura di Yehudai Mizrayim, prefazione di Hayyim Ze'ev Hirschberg, traduzione dal francese di Aharon Amir, Maariv, Tel Aviv 1974). Le Dhimmi. Profil de l'opprimé en Orient et en Afrique du Nord depuis la conquête arabe, Éditions Anthropos, Paris 1980. The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, prefazione di Jacques Ellul, edizione inglese riveduta e notevolmente ampliata del precedente, traduzione di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 [8a ristampa 2006] (edizione ebraica ampliata, Ha-Dhimmim. B'nai Ha-Sout, introduzione di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; edizione russa in 2 volumi, Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991). Les Chrétientés d'Orient entre jihad et dhimmitude, VIIe-XXe siècle, prefazione di Jacques Ellul, Les Éditions du Cerf, Paris 1991. The Decline of Eastern Christianity under Islam. From Jihad to Dhimmitude (Seventh-Twentieth Century), prefazione di Jacques Ellul, traduzione dal francese del precedente di Miriam Kochan e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 1996 [7" ristampa 2009] (edizione tedesca, prefazione di Heribert Busse, traduzione di Kurt Maier, Resch Verlag, Miinchen 2002, 2 a ristampa 2006). Juifs et Chrétiens sous l'Islam. Les dhimmisface au défi integriste, Berg International, Paris 1994 1 (2a edizione Face au défi integriste: juifs et chrétiens sous l'Islam, Berg International, Paris 2005). Islam and Dhimmitude: Where Civilizations Collide, traduzione dal francese del precedente di Miriam Kochan e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 2002 (4a ristampa 2006). Eurabia. The Euro-Arab Axis, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 2005 (6a ristampa 2006). Eurabia, l'axe euro-arabe, Jean-Cyrille Godefroy, Paris 2006 (traduzione italiana Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007). Verso il califfato universale. Come l'Europa è diventata complice musulmano, Lindau, Torino 2009.

dell'espansionismo

Bat Ye'or

IL DECLINO DELLA CRISTIANITÀ SOTTO L'ISLAM Dal jihad alla dhimmitudine

LilDAU

L'Editore desidera ringraziare la dottoressa Valentina Colombo per il fondamentale contributo offerto al lavoro di revisione del testo. Titolo originale: Les chrétientés d'Orient entre jihad et dhimmitude Traduzione dal francese di Lucilla Congiu Copertina di Dada Effe - Torino © Bat Ye'or 2007 © Seld / Jean-Cyrille Godefroy 2007 by arrangement with II Caduceo Literary Agency © 2009 Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 -10128 Torino Prima edizione: settembre 2009 ISBN 978-88-7180-829-1

In memoria di Renée Orebi e Daniel

Littman

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio Haviva Fenton per la traduzione dei documenti del London Foreign Office, riprodotti alle pagine

485-497.

Sono debitrice nei confronti del dottor Paul Fenton dell'Università di Lione, al quale va il merito di avermi procurato i testi di Ibn al-Fuwati, Ibn Qayyim al-Jawziyya, Gedaliah di Siemiatycze e Mattatia Garji [Gorgi], Sono inoltre lieta di potergli esprimere in questa sede la mia gratitudine per i due indici da lui curati e per i suoi amichevoli

suggerimenti.

Ringrazio altresì David Littman per le lettere provenienti dagli archivi dell'AIU (Alliance Israelite Universelle) riportate alle pagine

501-506.

Il manoscritto è stato battuto a macchina con pazienza instancabile da Nicole Fowler, che merita tutta la mia riconoscenza. Infine, ringrazio in modo particolare mio marito, le cui critiche pertinenti, i cui consigli e il cui indefettibile sostegno non soltanto hanno

notevolmente

contribuito a migliorare la qualità di questo lavoro, ma ne hanno anche semplificato le fasi conclusive.

Prefazione di Bat Ye'or all'edizione francese del 2007

Questo libro, pubblicato nel 1991 dalle Éditions du Cerf e andato ben presto esaurito, viene riproposto in Francia a quindici anni di distanza, mentre l'edizione americana del 1996 è alla sua sesta ristampa e la traduzione tedesca, apparsa nel 2002, è stata rieditata nel 2005. Fondato su documenti irrefutabili, questo saggio esamina i processi, spesso irreversibili, che hanno portato all'islamizzazione delle civiltà cristiane sorte lungo il Mediterraneo, postulando un concetto oggi entrato nel linguaggio corrente, ma all'epoca [1991] nuovo: quello di dhimmitudine, termine che designa il complesso intreccio di dinamiche interrelate proprie della conquista islamica, e responsabili delle trasformazioni al tempo stesso strutturali, sociali, psicologiche e demografiche intervenute nei popoli non musulmani sottomessi c o n il jihad.

La ripresa del jihad, registratasi nel XX secolo, si colloca quindi in un continuum storico. Tale processo, iniziato con la lotta armata dei popoli musulmani contro la colonizzazione europea, è proseguito, a partire dal 1968, con il jihad culturale finalizzato ad acquisire il controllo dei media e delle università europee, sostenuto dallo strapotere economico dei paesi petroliferi. Questa sovversione della cultura europea, denunciata da Jacques E l l u l è andata di pari passo con la glorificazione del palestinismo, ideologia jihadista concepita e coltivata in Europa al fine di distruggere Israele. Il movimento, alimentato da una consistente immigrazione islamica, rientrava a sua volta in una strategia mediter-

ranea di accordi e di graduale unificazione tra la Comunità Europea e il mondo arabo: Eurabia 2 . Interamente fondata su interessi economici, sulla perversa illusione del potere 3 e sull'antisionismo, questa politica euro-araba ha favorito l'espansione e la proliferazione in Occidente di cellule jihadiste le cui pratiche terroristiche, che ben presto potrebbero avvalersi anche di armi nucleari \ tolgono surrettiziamente all'Europa la sua autonomia in materia di politica estera e di sicurezza territoriale. In passato il jihsd combinava il terrore, l'immigrazione e la colonizzazione musulmani alla corruzione delle élite cristiane e, spesso, alla collusione dei loro responsabili politici e religiosi. Ai nostri giorni, al contrario, non vi è stata conquista militare dell'Europa, ma piuttosto accoglienza entusiastica delle ideologie e delle passioni islamiste da parte delle sue società disgregate, che si cullano nel rifiuto della storia e della realtà per drogarsi con un pacifismo antisemita che si ritorce come un boomerang contro loro stesse. E così il palestinismo, nuovo culto di Eurabia, è divenuto il cavallo di Troia dell'assoggettamento del continente 5 . Oggi sotto i nostri occhi si compiono le stesse carneficine - descritte dai testimoni oculari dell'VIII secolo - che insanguinarono la Mesopotamia, le stesse scene di decapitazione, rapimenti, riduzione in schiavitù, deportazione, terrore, cattura di ostaggi finalizzata al riscatto che svuotarono dei loro abitanti i paesi soggetti alla dhimmitudine, dall'Armenia alla Spagna, dai Balcani alla Nubia. Nel Sudan meridionale, nel Darfur, nel Ciad, in Libano, in Israele, in India, in Indonesia e altrove il jihad si combatte ancor oggi secondo le strategie legali prescritte da una giurisprudenza teologica elaborata e interpretata dai padri del diritto islamico a partire dall'VIII secolo. E, a tredici secoli di distanza, tornano a risuonare nelle nostre orecchie le stesse ideologie di conquista, nate dai medesimi testi. Non dobbiamo far altro che analizzare la storia dei popoli che subirono la dhimmitudine per ritrovare le nostre lotte, le nostre angosce e le sbruffonerie dei nostri politici, artefici cinici, incompetenti e presuntuosi delle nostre sconfitte. Quegli spettri, che

brillano della pallida luce delle stelle morte, riflettono il nostro avvenire. Bat Ye'or dicembre 2006

'Cfr. Jacques Ellul, La subversión du christianisme, Seuil, Paris 1984' (La Table Ronde, Paris 2004). Vedi anche infra, prefazione all'edizione del 1991, e, dello stesso autore, Islam e cristianesimo. Una parentela impossibile, Lindau, Torino 2006, che riporta la prefazione di Ellul al libro di Bat Ye'or The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad. di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991) [N.d.T.]. Cfr. l'omonimo libro di Bat Ye'or Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007 (ed. orig. Eurabia, l'axe euro-arabe, Jean-Cyrille Godefroy, Paris 2006; ed. inglese Eurabia. The Euro-Arab Axis, Fairleigh Dickinson University Press, Madison (USA) 2005 1 [rist. 2006]) [N.d.T.]. 3 Allude all'illusione dell'Europa di emanciparsi dagli Stati Uniti costruendo un asse geopolitico alternativo e antagonistico rispetto a quello atlantico. Cfr. Ye'or, Eurabia cit., capitolo 5 e passim [N.d.T.]. 4 Allusione alla politica di proliferazione nucleare portata avanti dal presidente iraniano Mahmüd AhmadinejSd [N.d.T.]. 5 «Il palestinismo, nuovo culto di Eurabia» è anche il titolo del capitolo 16 di Eurabia cit. [N.d.T.]. 1

Prefazione di Jacques Ellul all'edizione del 1991

La Storia, contrariamente all'immagine idilliaca o romanzata che in genere si ha di essa, non è una disciplina (per non dire una «scienza», termine che verrebbe subito contestato) innocua. Ogni ricerca storica seria - ossia, per quanto possibile, esente da pregiudizi e da a priori, e condotta sulla base del maggior numero di fonti disponibili, senza operare una selezione fra esse, ma assegnando loro una gerarchia di valore in rapporto alle rispettive finalità - insomma, ogni ricerca effettuata con coscienza e rigore crea sempre scompiglio. Infatti di solito questo tipo di storia mette in discussione le immagini preconfezionate del passato, le tradizioni e le valutazioni relative a questo o quel periodo, le opinioni e, talora, le ideologie - e così facendo suscita turbamenti, polemiche, contestazioni. Ciò è accaduto con tutte le grandi opere storiche, e il libro che oggi presentiamo non farà eccezione. Mi sento di poter dire che si tratta di una grande opera storica per lo scrupolo che rivela nell'esame delle fonti e nella ricerca stessa della loro esistenza 1 (anche se, ovviamente, non si può mai parlare di esaustività!), per il coraggio che dimostra affrontando un tema storico di prima grandezza e fin qui troppo spesso trascurato. Nell'attuale clima di diffusa simpatia per l'islam di cui abbiamo già parlato nella prefazione al precedente libro 2 , le allusioni al jihsd non sono gradite: agli occhi degli occidentali, infatti, esse getterebbero una sorta di «macchia nera» sulla grandezza e sulla purezza dell'islam. E invece questo libro, che è il seguito del precedente, ne amplia considerevolmente la prospettiva prò-

prio perché al concetto già studiato di dhimmitudine aggiunge e contrappone quello di jihad, presentato come un'alternativa «ineludibile» alla dhimmitudine: si tratta di due principi complementari, e quando ci confrontiamo con l'islam siamo obbligati a passare per l'uno o per l'altro! Occorre peraltro precisare la natura del jihad: ne esistono infatti molteplici interpretazioni. Talvolta, quando si fa riferimento a esso, si insiste principalmente sul carattere spirituale di questa «guerra»: si tratterebbe in realtà solo di un «modo di dire» per designare la lotta che il credente deve condurre contro le sue inclinazioni malvagie, contro la sua tendenza all'infedeltà ecc. Insomma, l'antico tema dell'uomo in conflitto con se stesso a noi ben noto grazie al cristianesimo (ancora ima volta ci ritroviamo su un terreno comune!). E so che questa tesi è stata effettivamente sostenuta da alcune scuole islamiche. Ma, anche se tale interpretazione è corretta, essa è ben lungi dall'abbracciare l'intero campo semantico del termine jihad. A volte, invece, si preferisce occultare i fatti, metterli tra parentesi. In una grande enciclopedia è quindi possibile leggere frasi del tipo: «Neil'VIII e nel IX secolo si assistette all'espansione dell'islam...» oppure: «Questo o quel paese passarono nelle mani dei musulmani...». Ma ci si guarda bene dal dire come si verificò l'espansione dell'islam, come quei paesi «passarono nelle sue mani». Si direbbe che gli eventi si siano prodotti da sé, grazie a un intervento taumaturgico o amichevole... Nei resoconti di questa espansione si parla molto poco del jihad. Eppure, ogni sua tappa è stata resa possibile proprio da esso! Il libro che state per leggere mette chiaramente in evidenza ciò che di solito è nascosto, oserei dire, accuratamente, tanto il processo si compie nel silenzio: un silenzio che può essere solo il frutto di un tacito accordo fondato su presupposti impliciti. Rispetto a tale accordo questo libro apparirà blasfemo, e sarà etichettato come «polemico» unicamente perché riporta alla luce dei fatti, o meglio, un insieme omogeneo di fatti, collegati tra loro da una struttura coerente, direi quasi permanente, il che dimostra che non si tratta affatto di eventi accidentali. Ma, malgrado il suo intento chiarificatore, questo libro non è affatto polemico, perché l'autri-

ce non ha problemi a riconoscere le grandi conquiste della civiltà musulmana, né ne esclude in alcun modo i pregi, sottolineando ad esempio che le vittorie dell'islam furono dovute all'abilità militare dei suoi eserciti così come all'esistenza al suo interno di statisti di grande valore. Analogamente - altra qualità che avevamo individuato in The Dhimmi - , Bat Ye'or accorda la massima attenzione alle diversità e alle sfumature, non universalizza né generalizza a partire da pochi fatti isolati: è il rigoroso e accurato esame delle fonti a consentirle di cogliere le differenze tra le varie epoche e situazioni. Due fattori sostanziali trasformano il jihad in qualcosa di totalmente diverso dai conflitti tradizionali, che vengono combattuti, per ambizione o per interesse, in vista di obiettivi circoscritti, e che, costituendo eventi eccezionali rispetto alla situazione «normale» - la pace tra i popoli - , sono destinati a concludersi con il ritorno alla pace. Il primo dei due fattori è il carattere religioso del jihad, il secondo il fatto che con esso la guerra diviene un'istituzione (e non più un evento isolato). Veniamo al primo. In genere jihad si traduce con «guerra santa», espressione piuttosto infelice che evoca simultaneamente due aspetti: da un lato si tratta di una guerra ispirata da un forte sentimento religioso, dall'altro il suo obiettivo primario non è tanto conquistare dei territori, quanto islamizzarne gli abitanti. Il jihad è un dovere religioso. Forse qualcuno dirà che ogni religione in fase di espansione rischia di sfociare in una guerra, e che nel corso della storia ci sono stati infiniti casi di guerre religiose: anzi, quest'analogia è divenuta oggi un luogo comune 3 . Ma, anche ammettendo che talora la passione religiosa si esprima così, si tratta pur sempre di una «passione», e soprattutto di un fenomeno rispetto al quale non è difficile dimostrare che non corrisponde al messaggio di fondo di quella religione. Ciò è evidente nel caso del cristianesimo. Nell'islam, invece, il jihad è un obbligo religioso: fa parte delle opere che il credente deve compiere, è la via normale di diffusione della sua fede. Tale concetto è ripetuto decine di volte nel Corano. Quindi il musulmano che pratica il jihad non agisce in contraddizione con il suo messaggio religioso: anzi, è così che lo adempie

al meglio. Inoltre, i fatti minuziosamente esposti e analizzati in questo libro illustrano con chiarezza che il jihad non è una «lotta spirituale», ma una guerra di natura decisamente militare ed espansionistica, che esprime l'accordo tra il «testo fondante» e l'azione pratica dei fedeli. Tuttavia - come mostra chiaramente Bat Ye'or - le cose non sono così semplici, perché il jihad non viene combattuto soltanto all'esterno, ma può divampare anche all'interno del mondo islamico, e furono molti, anche se caratterizzati sempre dagli stessi aspetti, i conflitti tra i musulmani. Il secondo e fondamentale tratto distintivo del jihad è che esso costituisce un'istituzione e non un evento isolato, ossia che appartiene a duplice titolo al normale funzionamento del mondo islamico. In primo luogo, infatti, tale guerra crea delle istituzioni che ne sono la conseguenza. Logicamente tutte le guerre, per il fatto che vi sono dei vincitori e dei vinti, determinano dei cambiamenti istituzionali, ma qui siamo in presenza di un fenomeno ben diverso: i popoli sconfitti cambiano status (diventando dhimmt), la shart'a tende a essere applicata integralmente, stravolgendo la precedente fisionomia giuridica del paese ecc. Le conquiste non comportano un semplice mutamento di «proprietario» per i territori, ma l'integrazione degli abitanti (a condizione che abbiano ottenuto lo status di dhimmf) in un'ideologia (religiosa) collettiva e obbligatoria e in un apparato amministrativo davvero molto perfezionato 4 . In questa prospettiva il jihad è un'istituzione perché contribuisce in modo determinante all'economia del mondo islamico. Come la dhimmitudine. Il che peraltro implica - come illustra efficacemente l'autrice - una concezione originale di tale economia. Ma quello che realmente conta è cogliere che il jihad è di per sé un'istituzione, cioè una componente organica della società musulmana. In quanto dovere religioso, esso rientra nell'organizzazione del culto, come i pellegrinaggi ecc., tuttavia non è questa la sua connotazione essenziale, la quale va invece ricercata nella divisione del mondo insita nel pensiero (religioso) islamico. Il mondo - spiega magnificamente Bat Ye'or - è diviso in due parti: il dar al-islam e il dar al-harb, ossia il «territorio dell'islam» e il «territorio della guerra». Quindi il mondo esterno

non è più diviso in nazioni, popoli, tribù ecc.: tutte le sue partizioni rientrano in blocco nel «territorio della guerra», il che implica che non sono possibili altre relazioni con esso se non di tipo bellico. La Terra appartiene ad Allah, e tutti i suoi abitanti devono riconoscerlo; perché questo avvenga, esiste un solo mezzo: la guerra. Quest'ultima quindi non è un fenomeno di natura evenemenziale e accidentale, ma un dato costitutivo del pensiero, dell'organizzazione, della struttura di questo mondo. E con il mondo della guerra non è possibile alcuna pace. Ovviamente a volte si è costretti a fermarsi: esistono circostanze - il Corano le prevede - in cui è meglio non combattere. Ma ciò non cambia niente: la guerra resta un'istituzione, il che significa che, non appena le circostanze lo permettono, essa deve riprendere. Ho insistito molto sulle caratteristiche del jihad perché ai nostri giorni si fanno talmente tante affermazioni circa la tolleranza e il fondamentale pacifismo dell'islam, che sarebbe invece opportuno richiamarne la natura... fondamentalmente bellica! L'autrice fornisce inoltre ima spiegazione illuminante dell'«islamizzazione», il complicato processo in virtù del quale le popolazioni islamiche soppiantarono i popoli, le civiltà e le religioni dei paesi vinti, un processo improntato a due modalità - quella della fusione (assorbimento delle culture locali, conversione) e quella della conflittualità (massacri, riduzione in schiavitù ecc.) - che peraltro potevano coesistere. Ma vi erano sempre due fasi distinte: la prima caratterizzata dalla guerra, la seconda dall'imposizione dello status di dhimmì. Sono queste le basi dalle quali sono scaturite al tempo stesso l'espansione dell'islam e le sue successive evoluzioni, che nulla ha potuto impedire poiché erano frutto dei rapporti tra l'impero musulmano e l'Occidente. Apparentemente, tali evoluzioni hanno condotto a un'inversione di tendenza: da un lato infatti si è assistito alla conquista di numerosi paesi islamici da parte dell'Occidente, dall'altro, taluni «valori» occidentali sono penetrati nel mondo musulmano arrivando a influenzarlo. Ma se alcuni di questi valori (ad esempio la tolleranza) sono stati recepiti come una sorta di sfida implicante la necessità di provare che anche l'i-

slam li coltiva, altri ne hanno in qualche m o d o rafforzato l'orientamento di fondo: ad esempio il nazionalismo. Tuttavia, a prescindere dalla natura di tali evoluzioni, non bisogna mai dimenticare che esse non potevano essere che superficiali, in quanto le dottrine e i comportamenti su cui si innestavano poggiavano su un fondamento religioso. E, anche se può sembrare che quest'aspetto si affievolisca o si modifichi, esiste sempre quella che altrove ho chiamato «persistenza del religioso», ossia il fenomeno per cui, se di una religione un tempo potente, e oggi apparentemente trascurata, sopravvivono solo riti, strutture, consuetudini, basta una scintilla perché tutto ciò ritorni immediatamente alla vita, a volte anche con violenza. È appunto il processo che vediam o magistralmente descritto in questo libro. La situazione che credevamo liquidata e superata d'un tratto rivive, e noi ci troviam o nuovamente di fronte alla stessa opzione fondamentale: il mondo è ancora ima volta diviso in «territorio dell'islam» e «territorio della guerra». E all'interno della umma5 l'infedele non può vivere se non nella dhimmitudine. Ciò induce l'autrice a porsi un interrogativo di inquietante attualità: si può parlare di una «dhimmitudine dell'Occidente»? Così, dopo aver attraversato tredici secoli di storia letti alla luce di tale interrogativo, giungiamo infine alla nostra condizione, di cui avvertiamo chiaramente l'ambiguità e la fragilità, m a che non comprendiamo fino in fondo in quanto ci manca una visione chiara di quell'alternativa che, in forma più o meno esplicita, si è riproposta lungo l'intero arco di tali secoli, e che questo libro ha l'immenso pregio di analizzare con rigore. Bat Ye'or ha il coraggio di verificare (seppure sommariamente, poiché non è questo il tema del suo studio) se un certo numero di eventi, di strutture e di situazioni che oggi sperimentiamo in Occidente non siano già riconducibili a una sorta di dhimmitudine del nostro mondo nei confronti di quello islamico, che ha ripreso le sue guerre e la sua espansione. I rapimenti di ostaggi, gli atti di terrorismo, la distruzione del cristianesimo libanese, l'indebolimento delle Chiese d'Oriente (senza contare la volontà di distruggere Israele), e, dal lato opposto, la reazione difensiva europea (infrastrutture an-

titerroristiche, impatto psicologico del «terrorismo» intellettuale, pressioni politiche e giudiziarie nei confronti del ricatto terroristico), tutto ciò richiama alla mente proprio la rinascita della tradizionale politica dell'islam. Alcuni dei tanti governi musulmani tentano di combattere la corrente islamista, ma perché i loro sforzi abbiano successo ci vorrebbe al tempo stesso una totale rifondazione delle mentalità, una desacralizzazione del jihód, una presa di coscienza in chiave autocritica dell'imperialismo islamico, un'accettazione della laicità del potere politico e il rifiuto di taluni dogmi coranici. Certo, dopo tutto ciò che abbiamo visto accadere in Unione Sovietica questa evoluzione non è impensabile, ma quale mutamento radicale implicherebbe! Il cambiamento di un'intera corrente storica e la riforma di una religione rigorosamente strutturata! Questo libro permette quindi di fare il punto anche sulla nostra situazione attuale, come del resto ogni autentico studio storico dovrebbe fare, senza naturalmente operare assimilazioni artificiali e ricordandosi che la storia non si ripete. Jacques Ellul Bordeaux, luglio 1991

1 A tale proposito bisogna leggere molto attentamente la parte critica della conclusione. Critica nei confronti degli a priori di cui sono infarcite numerose opere storiche, critica rispetto alle spiegazioni da esse fomite della legittimità del jihad, o all'adozione pura e semplice delle tesi musulmane da esse operata. Va altresì sottolineata l'originalità insita nella constatazione che la maggior parte di tali opere si fonda su ciò che gli arabi stessi hanno scritto di sé, e non tengono conto delle fonti provenienti dai popoli che essi hanno sottomesso e conquistato. Come se i primi fossero necessariamente obiettivi, e i secondi necessariamente parziali! Dopo aver dato tanto spesso la parola all'islam, perché non ascoltare anche tutti i popoli da esso conquistati e poi emancipati: greci, rumeni, bulgari, serbi ecc.? Ecco il grande merito, e uno dei principali elementi di novità, di questo libro. 2 The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad. di David Maisel, Paul Fen-

ton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmiti. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991), pp. 25-33. Si veda ad esempio il volume collettaneo, realizzato sotto la direzione di Pierre Viaud, Les religions et la guerre, Éditions du Ceri, Paris 1991. 'Quanto a quest'apparato, esso può dare l'impressione, come mostra questo libro, di un certo disordine, che discende però dall'estrema complessità di tale impero (di cui, ancora una volta, Bat Ye'or coglie tutte le sfumature), mentre in realtà esso è caratterizzato da una profonda, sostanziale unità. 3

Termine arabo che significa letteralmente «comunità di fedeli» e designa la comunità dei musulmani al di là della nazionalità e della parcellizzazione dei poteri politici che li governano [N.d.T.]. 5

Periodici e archivi1

AIU: Alliance Israélite Universelle (Paris) AS: «Arabian Studies» (Cambridge) ARABICA: «Revue d'études arabes» (Paris) BAIU: «Bulletin de l'Alliance Israélite Universelle» (Paris) BIJS: «Bulletin of the Institute of Jewish Studies» (London) BJRL: «Bulletin of the John Rylands Library» (Manchester) BL: British Library (London) BN: Bibliothèque Nationale (Paris) BSOAS: «Bulletin of the School of Oriental and African Studies» (London) BTS: Biblioteca del Topkapi Sarâyi (Istanbul) DOP: «Dumbarton Oaks Papers» (Washington) EI ': Encyclopédie de l'Islam, l a ediz. (Leyden-Paris, 1913-1938) EI2: Encyclopédie de l'Islam, 2 a ediz. (Leyden-Paris,1960-2005) EJ: Encyclopaedia Judaica (Jerusalem, 1971)

FO: Foreign Office, ex PRO (Public Record Office) Archives (London)2 HESPERIS: «Institut des Hautes Études Marocaines» (Paris) HGS: «Holocaust and Genocide Studies» (London) IOS: «Israel Oriental Studies» (Jerusalem) JA: «Journal Asiatique» (Paris) JAOS: «Journal of the American Oriental Society» (New York) JESHO: «Journal of the Economic and Social History of the Orient» (Leyden) JHSE: «Jewish Historical Society of England» (London) JIMMA: «Journal of the Institute of Muslim Minority Affairs» (Jeddah) JIS: «Journal of Israel Studies» (Baltimore)

JJS: «Journal of Jewish Studies» (Oxford) JOS: «Journal of Ottoman Studies» (Istanbul) JQ: «Jerusalem Quarterly» (Jerusalem) JRAS: «Journal of the Royal Asiatic Society» (London) MES: «Middle Eastern Studies» (London) NC: «Nouveaux Cahiers» (Paris) PAAJR: «Proceedings of the American Academy for Jewish Research» (New York) PARDÈS: «Pardès» (Paris) PP: Parliamentary Papers (London) PRO: Public Record Office (London) RAS: «Royal Asiatic Society» (London) REI: «Revue des Études Islamiques» (Paris) REJ: «Revue des Études Juives» (London) RFSE: «Revue de la Faculté des Sciences Économiques» (Istanbul) ROC: «Revue de l'Orient Chrétien» (Paris) RSJB: «Recueils de la Société Jean Bodin» (Bruxelles) RSPT: «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques» (Paris) SP: State Papers (London) SPS: «Studies in Plural Societies» (Den Haag) SI: «Studia Islamica» (Paris) TM: «Les Temps Modernes» (Paris) VJHfZ: «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte» (Stuttgart) WLB: «Wiener Library Bulletin» (London) YOD: «Revue des Études Hébraïques et Juives Modernes et Contemporaines» (Paris) ZfA: «Zeitschrift für Assyriologie» (Strasburgo) Zion: «A Quarterly for Research in Jewish History» (Jerusalem).

'Gli acronimi sono quelli che compaiono in bibliografia [N.d.T.]. La denominazione ufficiale è The National Archives of the UK, Public Record Office. Il Public Record Office (PRO) è il principale istituto di conservazione britannico. Ha la finalità di raccogliere e conservare con i metodi più moderni il patrimonio archivistico prodotto dall'amministrazione 2

centrale dello Stato. I fondi archivistici presenti nel PRO, che coprono la storia amministrativa, finanziaria, politica e sociale del Regno Unito dal Medioevo ai giorni nostri, si articolano in: HO, Home Office (Ministero dell'Interno); FO, Foreign Office (Ministero degli Esteri); CAB, Cabinet Office (Ufficio di Gabinetto); PREM, Prime Miriister's Office (Ufficio del Primo Ministro); WO, War Office (Ministero della Guerra) http://www.nationalarchives.gov.uk/ [N.d.T.].

Introduzione

Questo non è un libro sull'islam: non ne esamina infatti né lo sviluppo, né la civiltà. Il suo oggetto è lo studio dei numerosi popoli che esso sottomise, e l'individuazione, nella misura in cui ciò sia possibile, dei complicati processi - tanto endogeni quanto esogeni - che portarono alla loro progressiva estinzione. Questi popoli - genericamente raggruppabili sotto l'etichetta di dhimmt, ossia «protetti» - erano gli stessi che un tempo detenevano la rivelazione contenuta nei libri sacri, prima di essere conquistati dai musulmani. In particolare, per quanto riguarda l'Iran e il bacino del Mediterraneo, essi erano i seguaci delle religioni zoroastriana, cristiana ed ebraica. Per orientarmi nel mio lavoro ho fatto largamente uso di fonti che, in quanto provenienti proprio da tali popoli, hanno il pregio di essere spesso contemporanee agli eventi narrati. Queste testimonianze, inevitabilmente circoscritte a regioni ed epoche ben definite, sono responsabili degli aspetti più illuminanti come delle lacune del mio studio. Questo saggio è nato in origine come ripresa del mio Le dhimmi, e più precisamente della sua edizione inglese riveduta e ampliata 1 . Pertanto non sorprenderà il fatto di trovarvi alcune analogie con esso, in particolare nel terzo capitolo. Tuttavia l'abbondanza di nuovo materiale - che ha comportato ulteriori analisi - , unita al desiderio di assicurare al libro un formato maneggevole, mi hanno indotta a ridurre sensibilmente la parte inerente agli ebrei in terra d'islam, ampiamente trattata nei miei precedenti lavori.

Mentre la storia della civiltà islamica ha generato innumerevoli pubblicazioni generali e specialistiche, i saggi relativi ai popoli conquistati da essa restano frammentari e limitati. Tali lavori, comprensibilmente assai più preziosi, esaminano l'organizzazione e la storia dei vari gruppi etnico-religiosi in base a criteri geografici e di appartenenza religiosa. La mia ricerca non vuol essere una ricapitolazione cronologica delle vicende di tutti i popoli che furono sottomessi dagli arabi, dai turchi e dai persiani islamizzati. U n o studio simile sarebbe di competenza di un team di storici in grado di padroneggiare - oltre all'arabo, al persiano, al turco - lo spagnolo, il greco, l'ebraico, il siriaco, il copto, l'armeno, le lingue slave e i dialetti parlati da tutti i popoli che costituirono, nel corso dei secoli, la grande massa dei dhimml. Popoli che tra l'altro hanno lasciato abbondanti testimonianze sul loro passato: cronache, racconti, poemi o altri tipi di documenti. Di qui l'impossibilità per una sola persona di abbracciare nella sua totalità un processo storico che, con i suoi fermenti e le sue contraddizioni, si estende su tre continenti. La mia ricerca segue ima struttura tematica richiesta dall'ampiezza stessa dell'argomento e dalla sua estrema complessità. Tale metodo, malgrado i suoi inconvenienti, ha tuttavia il merito di consentire una sintesi dei vari temi in ima prospettiva a lungo termine. L'idea di una panoramica generale della storia dhimmì mi è stata suggerita dall'opera del geografo serbo Jovan Cvijic La Penisola Balcanica. Geografia umana2. In questo saggio di geografia umana l'autore, con l'ausilio di numerose mappe, delinea l'area di influenza islamica nei Balcani e ne esamina le differenze legate alle proporzioni demografiche, alle caratteristiche del suolo, al clima e al contesto rurale o urbano. In prospettiva analoga, il mio lavoro tenta di definire il quadro giuridico, sociologico e storico che ha determinato l'evoluzione dei popoli dhimmì, limitandosi a tracciarne appena i contorni e senza avere certo la pretesa di esaurire l'argomento. Sono debitrice nei confronti di Bashir Gemayyel per l'uso del termine «dhimmitudine» 3 , da lui coniato per designare una pre-

cisa condizione storica. Nessuna parola potrebbe definire più felicemente la materia della mia ricerca, dedicata ai molteplici, contraddittori aspetti di un'esperienza umana vissuta da milioni di individui per secoli, anzi, per più di un millennio. L'universo della dhimmitudine emerge dai documenti, e non a caso il libro, nei suoi temi di riflessione, nei suoi snodi fondamentali e nelle sue tappe, è strutturato attraverso e sui documenti, i quali, sebbene divergano lievemente sulle date - talora incerte - concordano tuttavia sui contenuti essenziali. Se testimoni appartenenti a contesti ed epoche differenti descrivono gli stessi fatti - che sono anche oggetto di specifiche prescrizioni da parte dei teologi-giuristi, quali le norme relative all'abbigliamento - , i dati in questione si possono a buon diritto considerare elementi permanenti dello status del dhimmi. Ho affrontato questo argomento in chiave rigorosamente storica, pertanto non ho ritenuto necessario ricorrere alle formule apologetiche o alle operazioni di maquillage storico che, con il pretesto dell'obiettività, sono purtroppo divenute la norma in questo campo. È del tutto evidente che un tale studio non può che proiettare un'immagine negativa della storia dei popoli musulmani, in quanto questa - talora per una serie di circostanze casuali, talora per calcolo politico - si traduce innegabilmente nei processi di disintegrazione dei popoli conquistati. Malgrado questo serio inconveniente, non ho ritenuto opportuno rinunciare a tale ricerca. Mi sembrava infatti che il prestigio di una civiltà, i cui contributi furono così rilevanti sia sul piano culturale che scientifico, non avrebbe sofferto poi tanto se, accanto alla sua epopea splendida e trionfante, la storia avesse riservato un piccolissimo posto ai popoli dimenticati che ne furono le vittime. Spero che non mi si serbi rancore per questo tributo di simpatia e di rispetto, che, peraltro, è loro dovuto. L'analisi della condizione dei dhimml contenuta in questo saggio riguarda unicamente i cristiani e gli ebrei del bacino del Mediterraneo e dell'Armenia. Gli zoroastriani, che pure ebbero un'influenza preponderante sulla civiltà islamica classica, sono menzionati solo in via accessoria.

A v e n d o già p u b b l i c a t o u n a c o s p i c u a m o l e di d o c u m e n t i relativi al M e d i o e v o e alla p r i m a m e t à del X I X secolo, qui m i s o n o lim i t a t a a u n a serie di fonti p r e m e d i e v a l i s c a r s a m e n t e n o t e , c o n c e m e n t i in p a r t i c o l a r e la c o n d i z i o n e c o n t a d i n a , e a d a l c u n i d o c u m e n t i inediti del X I X secolo. Il lettore interessato al p e r i o d o int e r m e d i o p o t r à fare r i f e r i m e n t o alla s e z i o n e « D o c u m e n t i » del m i o l a v o r o sul dhimmi, preferibilmente n e l l ' e d i z i o n e inglese 4 .

Le dhimmi. Profil de l'opprimé en Orient et en Afrique du Nord depuis la conquête arabe, Éditions Anthropos, Paris 1980 [The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991)]. 2 Jovan Cvijié, La Penisola Balcanica. Geografia umana, a cura di Marianna Rovere, trad, di Maria Cian, http://www.units.it/~labgeo/ labgeo/balkan.rtf (ed. orig. La Péninsule Balkanique. Géographie humaine, Armand Colin, Paris 1918). 1

Si veda l'intervista Liban: il y a un peuple de trop, «Le Nouvel Observateur», Paris, 19 giugno 1982, p. 62, e il discorso pronunciato da Gemayyel a Dayr-Salib (Libano) il 14 settembre 1982, giorno in cui fu assassinato, Notre droit à la différence, «Bulletin d'information» (Union libanaise-suisse), n. 1, dicembre 1982, alcuni estratti del quale sono riportati in Bat Ye'or, The Dhimmi cit., sezione «Documenti» 116, pp. 403-405. 'Vedi nota 1. 3

Avvertenza

In linea di massima l'ortografia è stata semplificata mediante l'adozione delle trascrizioni più comunemente usate a livello internazionale, sebbene corredate dagli opportuni segni diacritici. Nelle varie parti del testo (compresi i documenti, le citazioni e i riferimenti bibliografici) si è cercato di puntare alla massima uniformità nella trascrizione dei nomi individuali, mentre si è mirato a riprodurre il più possibile integralmente e fedelmente il testo delle citazioni. Nella sezione documentaria, i numeri tra parentesi quadre che nell'originale figuravano al termine delle citazioni sono stati riportati in nota e opportunamente collegati alle opere da cui sono tratte le citazioni stesse, opere che compaiono peraltro anche nella bibliografia finale. Le parentesi uncinate < > indicano le note dei traduttori dei testi siriaci, armeni e arabi. Le parti tra parentesi quadre e in corsivo sono rispettivamente precisazioni e sintesi introdotte dall'autrice per esigenze di chiarezza. Per quanto riguarda le fonti cristiane l'autrice, pur sottolineando che i lunghi commenti di ispirazione biblica sugli eventi narrati contenuti nei testi degli alti esponenti ecclesiastici non mancano talora né di bellezza né d'interesse, in quanto proiettano una luce umana sulle percezioni e il vissuto della storia, ha ritenuto necessario sostituirle con le parentesi quadre [...] per semplificare la lettura, e riprendere il filo della narrazione qualche pagina dopo. Le cifre fornite dai cronisti in relazione ad alcuni

personaggi, in genere esagerate, indicano piuttosto una scala di proporzione che un vero e proprio numero di individui. I riferimenti al Corano rimandano a G. Mandel (a cura di), Il Corano, UTET, Torino 2004.

IL DECLINO DELLA CRISTIANITÀ SOTTO L'ISLÀM

Capitolo 1 L'Oriente preislamico

Per affrontare la storia dei popoli dell'Oriente preislamico è necessario accennare, seppur in modo assai succinto, alla situazione generale prevalente in esso nel VII secolo, ossia alla vigilia della conquista araba. Situata alle porte dell'Arabia, la Persia sasanide si estendeva dal Golfo Persico a Sud sino all'Armenia a Nord e al fiume Indo a Est. Nelle fertili regioni comprese in questi immensi territori, sorgeva una fitta rete di villaggi che garantiva i rifornimenti alle città e ai borghi abitati da mercanti e artigiani operosi. Innumerevoli chiese, monasteri e sinagoghe erano disseminate lungo le valli dell'Eufrate e del Tigri. Infatti la dinastia dei sasanidi (224-651), nonostante alcuni periodi di intolleranza, aveva accettato il pluralismo religioso. L'aristocrazia, l'esercito e il popolo persiano aderivano allo zoroastrismo o mazdeismo, la religione nazionale, mentre in Babilonia e sino all'Alta Mesopotamia i cristiani e gli ebrei costituivano praticamente la maggioranza delle masse rurali e urbane Proibito in territorio bizantino e di conseguenza favorito in Persia, il cristianesimo nestoriano 2 si era diffuso in Babilonia, Susiana (Elam), Fars, Khuzestan 3 , sulla costa orientale dell'Arabia, nel Bahrein e nell'Oman; essendo penetrato fino al Slstan 4 (Afghanistan), aveva raggiunto anche la Cina 5 . Dopo i nestoriani, la comunità religiosa più consistente della Babilonia era rappresentata dagli ebrei 6 . Essi costituivano la maggioranza nella provincia meridionale compresa tra l'Eufrate

e il Tigri (Sawad), in cui una rete decisamente avanzata di canali di irrigazione consentiva un'intensa valorizzazione del suolo. Perciò quest'area era rinomata per la sua fertilità, i suoi giardini e i suoi frutteti. Gli ebrei, stanziati soprattutto sulle rive del Tigri e dell'Eufrate, costituivano anche alcuni nuclei disseminati nel territorio dell'attuale Iraq, in Siria e fino alle pendici dei monti Zagros. Benché meno numerosi dei nestoriani e degli ebrei, i cristiani monofisiti (o giacobiti) 7 costituivano comunque importanti comunità, specialmente in Mesopotamia, nella regione della Jazira, compresa tra l'Armenia e la Siria, e nei dintorni della città di Tikrit, sul Tigri (Assiria), sede del primate monofisita d'Oriente. Culle di una civiltà fondata su una fiorente economia sia rurale che urbana, queste regioni densamente popolate ospitavano città prospere, nelle quali operavano attivamente mercanti e artigiani la cui abilità conferiva agli oggetti, tanto di uso quotidiano quanto ornamentali - tessuti, forgiati, cesellati o modellati che fossero - la più splendida delle forme. La vita spirituale si svolgeva all'interno delle sinagoghe, delle chiese e dei monasteri, mentre i giuristi codificavano le basi di un'organizzazione civile che consentiva ai cristiani e agli ebrei della Persia di governarsi secondo la propria giurisdizione. Ogni comunità religiosa possedeva infatti molteplici scuole e accademie, in cui letterati, eruditi e teologi avevano modo di approfondire le loro conoscenze e di trasmettere il loro sapere. Di fronte al potente Impero persiano si stendeva l'Impero bizantino, i cui lembi orientali andavano dai confini desertici della Siria e della Palestina sino al Nord Africa. In queste province, una serie di conflitti dogmatici minavano il cristianesimo, divenuto religione di Stato in seguito alla conversione di Costantino (337). Mentre i nestoriani si rifugiavano in Persia, il dogma monofisita si diffondeva in Egitto, in Siria, in Mesopotamia, in Armenia. Sebbene interamente cristianizzati, i territori bizantini ospitavano tuttavia una foltissima comunità ebraica, disseminata un po' ovunque nelle regioni mediterranee, ma concentrata prevalentemente in Palestina (Galilea, Samaria, Giudea), in Siria e in Egitto.

Queste popolazioni, di carattere essenzialmente rurale, sfruttavano in modo intensivo le valli del Nilo, del Giordano e del Litani 8 , le aree montuose e collinari della Palestina, del Libano e della Siria, le oasi dell'Egitto, del Negev e della Transgiordania. Densamente popolate, queste zone erano tra le più fertili dell'epoca, nonostante la povertà di alcuni suoli. Agli abbondanti raccolti dei campi si aggiungevano i prodotti della frutticoltura e dell'allevamento, che garantivano i rifornimenti alimentari ai numerosi borghi come alle città, veri e propri fari di civiltà e di cultura, tra cui brillavano soprattutto Gerusalemme, Alessandria, Cesarea e Antiochia, che irradiavano del loro splendore il mondo latino-bizantino. La magnificenza dell'architettura urbana, l'ingegnosità e l'abilità degli artigiani, il genio degli artisti e il fervore delle dispute intellettuali rispecchiavano le molteplici esigenze di una folta e variegata popolazione cittadina, formata da letterati, filosofi, giuristi, teologi, eruditi o commercianti, le cui attività si dispiegavano lungo tutto l'arco del Mediterraneo e giungevano fino alle Indie. Alla vigilia della conquista islamica le civiltà mediorientali e nordafricane, nonostante i sanguinosi conflitti religiosi da cui erano tormentate, presentavano una certa omogeneità; eredi della cultura ellenistica, esse avevano incorporato attraverso il cristianesimo i valori spirituali del giudaismo. Sebbene le lingue ufficiali degli Imperi bizantino e persiano fossero rispettivamente il greco e il pahlavi 9 , le popolazioni autoctone della Babilonia, della Mesopotamia, della Siria e della Palestina parlavano e scrivevano in aramaico, un idioma vernacolare, liturgico e letterario impiegato nella stesura di testi giuridici come il Talmud e nella redazione delle opere storiografiche e teologiche delle Chiese nestoriana e monofisita (siriaca). In Egitto le popolazioni indigene usavano il copto, lingua nazionale sia parlata che scritta. Come nella Mesopotamia sasanide, così anche in territorio bizantino l'intensità della vita religiosa e culturale si esprimeva attraverso la presenza di innumerevoli luoghi di culto e la violenza delle dispute e dei conflitti religiosi, che stimolavano la produzione letteraria e artistica. Dalla valle del Nilo a Ctesifonte (Babi-

Ionia), capitale dei sasanidi, gli abitanti indigeni dei territori che sarebbero stati invasi dalle armate arabe erano tra i più civilizzati del tempo. Perfino l'Arabia, nonostante l'isolamento impostole dai suoi deserti, era permeata dalle correnti spirituali che agitavano i suoi potenti vicini: la Persia e Bisanzio. Nella Penisola erano infatti penetrati, lungo le coste dei mari prospicienti l'Egitto o la Persia, dapprima, in epoca antichissima, il giudaismo, e in seguito il cristianesimo nestoriano e monofisita. Numerose tribù ebraiche, immigrate o nate in suolo arabo, coltivavano le oasi del Hijaz, tra cui Ta'if, Yathrib, Fadak, Khaybar, Tayma, Tabùk ecc. 10 . Formate essenzialmente da contadini e artigiani, esse vivevano fra gli arabi pagani, pastori in parte sedentarizzati o mercanti residenti nelle città che assicuravano il traffico carovaniero tra la Palestina, la Siria, la Persia e l'Oceano Indiano. Fuori dalle oasi, la vegetazione desertica dell'Arabia riusciva a sfamare solo le greggi delle tribù nomadi costrette alla transumanza stagionale. Legate tra loro da rapporti di clientela o, come avveniva al Nord e al centro dell'Arabia, unite in potenti confederazioni guerriere, tali tribù erano dedite alle razzie contro le oasi e le carovane. In assenza di un'organizzazione statale e giuridica in grado di regolamentare i rapporti sociali, le relazioni tra i guerrieri nomadi dei deserti e le popolazioni sedentarie delle oasi o delle città erano regolate dalla pratica dell'estorsione o «diritto di protezione» 11 . Le continue incursioni dei nomadi nei territori coltivati della Bassa Mesopotamia e della Siria ai confini dell'Arabia avevano reso necessario, sin dai tempi antichi, un costante controllo di tali confini. Così i bizantini avevano affidato a una tribù araba cristianizzata, i ghassanidi, il compito di contenere nel deserto la spinta nomade, in cambio di regolari sussidi, di un sostegno militare sotto forma di armi e di cavalli, e di alcuni titoli onorifici. I lakhmidi, un'altra tribù araba convertita al cristianesimo, svolgevano le medesime funzioni presso la frontiera meridionale della Persia. Tuttavia la continua pressione da Sud a Nord aveva indotto molte tribù arabe parzialmente cristianizzate a stabilirsi, nel cor-

so delle loro migrazioni periodiche, ai margini dei deserti siriaci e mesopotamici. Progressivamente, in seguito a infiltrazioni lente e costanti, questi pastori nomadi si erano insediati in modo permanente o stagionale sulla riva occidentale dell'Eufrate e ai confini della Siria e della Palestina. Poiché praticavano l'allevamento, in forma semisedentaria oppure nomadica, essi frequentavano i mercati e i borghi limitrofi, conservando stretti rapporti con le tribù sorelle o alleate che si spostavano attraverso il Hijaz o il Najd 12 . Pur facendo da intermediari tra il mondo arabo e le culture stanziali, essi restavano pur sempre elementi allogeni, distinti dalle civiltà mediorientali: le dispute religiose che le infiammavano, così come le grandi correnti culturali che ne alimentavano la creatività, rimanevano loro estranee Il VII secolo inaugurò appunto ima stagione di cruenti fanatismi sullo sfondo delle guerre persiano-bizantine. In Persia il manicheismo era stato soffocato in un bagno di sangue, e nel mondo cristiano la condanna del nestorianesimo da parte del Concilio di Efeso (431), seguita dalla messa al bando del monofisismo decretata dal Concilio di Calcedonia (451), alimentava la guerra tra le Chiese d'Oriente e la Chiesa greca (calcedoniana o melchita). Tali dissensi dottrinali erano inaspriti dalle dispute tra patriarchi per il primato gerarchico delle sedi, per il controllo delle nomine e delle finanze all'interno delle diocesi, nonché per i rispettivi confini. A tali conflitti, fondati su enormi interessi politico-economici, si aggiungevano gli antagonismi nazionali tra le varie etnie cristiane, che contrapponevano i nestoriani di Persia ai monofisiti (o giacobiti) presenti in Armenia, in Egitto (copti) e nei territori aramaici (Siria, Mesopotamia). Deciso ad assoggettare e ridurre all'obbedienza le Chiese d'Oriente, l'episcopato greco ne aveva proibito il culto tramite persecuzioni e confische di chiese, monasteri e diocesi. I tumulti si aggravarono quando Eraclio (610-641) dietro istigazione dei vescovi di Gerusalemme, decretò la conversione forzata degli ebrei (628). Questa misura scatenò in tutto l'Impero un'ondata di torture e di stragi, e accrebbe l'ostilità contro la dominazione bizantina.

Prima dell'offensiva araba, la partita per il potere che si era giocata a Costantinopoli tra l'imperatore Foca (602-610) e il suo generale Eraclio aveva provocato sedizioni nelle file della burocrazia e fra le truppe greche di stanza in Egitto. Per giunta, le rovinose guerre greco-persiane (611-630) avevano sguarnito le frontiere arabe dei due imperi. Quando i beduini islamizzati pianificarono le loro spedizioni contro le città della Babilonia e della Siria, essi reclutarono alleati non soltanto tra i cristiani - nestoriani, giacobiti e perfino melchiti - , ma soprattutto tra gli arabi insediati in quelle regioni, che, passati dalla parte degli invasori, parteciparono ai saccheggi delle città e delle popolazioni fra cui avevano vissuto fino ad allora. In queste distruzioni i persiani e i greci non videro nient'altro che le consuete predazioni dei nomadi, i quali erano soliti prelevare il loro bottino mediante razzie. Ma si sbagliavano: si trattava di jihad.

Origine del «jihad»

L'islam, religione rivelata in lingua araba da un profeta arabo, nacque in Arabia nel VII secolo e si sviluppò in seno a ima popolazione le cui tradizioni e usanze erano influenzate da un particolare ambiente geografico. Per questo, pur mutuando dalle religioni bibliche il nucleo essenziale del loro insegnamento etico, esso incorporò elementi culturali locali, propri dei costumi delle tribù nomadi o parzialmente sedentarie che popolavano il Hijaz. Queste tribù, che costituivano il nucleo militante della comunità islamica, attraverso la guerra le assicurarono il costante sviluppo delle sue risorse e dei suoi adepti. Fu così che nel giro di un secolo gli arabi islamizzati, originari delle regioni più aride del pianeta, ne conquistarono gli imperi più potenti, e al tempo stesso assoggettarono i popoli che avevano dato vita alle civiltà più prestigiose. Il jihad (la guerra santa contro i non musulmani) nasceva dall'incontro tra le consuetudini del grande nomadismo guerriero e le condizioni di vita di Maometto a Yathrib (più tardi Medina),

dov'era emigrato nel 622 sfuggendo alle persecuzioni degli idolatri a La Mecca. Priva di mezzi di sostentamento, la piccola comunità musulmana in esilio viveva a carico dei neoconvertiti di Medina, gli ansar ovvero gli ausiliari. Ma poiché tale situazione non poteva protrarsi, il Profeta organizzò alcune spedizioni volte a intercettare le carovane che commerciavano con La Mecca. Interprete della volontà di Allah, Maometto riuniva in sé i poteri politici del capo militare, la leadership religiosa e le funzioni di un giudice: «Chiunque obbedisce al Messaggero, obbedisce a Dio» (Corano IV,80)15. Fu così che una serie di rivelazioni divine, elaborate ad hoc per tali spedizioni, vennero a legittimare i diritti dei musulmani sui beni e la vita dei loro nemici pagani, e furono creati versetti coranici finalizzati a santificare di volta in volta il condizionamento psicologico dei combattenti, la logistica e le modalità delle battaglie, la spartizione del bottino e la sorte dei vinti. A poco a poco fu definita la natura delle relazioni da adottare nei confronti dei non musulmani nel corso delle imboscate, delle battaglie, degli stratagemmi e delle tregue, ossia dell'intera gamma di strategie in cui si articolava la guerra santa necessaria ad assicurare l'espansione dell'islam. La vita di Maometto è già stata oggetto di molteplici studi e non è il caso di ritornare su di essa. Basti notare che la politica adottata dal profeta arabo nei confronti degli ebrei di Medina, nonché degli ebrei e dei cristiani delle oasi del Hijàz, determinò quella dei suoi successori nei confronti degli abitanti indigeni ebrei e cristiani dei paesi conquistati. Gli ebrei di Medina furono o depredati e cacciati dalla città (sorte toccata ai banu qaynuqa' e ai banu nadir, 624-625), o massacrati, a eccezione dei convertiti all'islam, delle donne e dei bambini, che furono ridotti in schiavitù (come accadde ai banu qurayza, 627) 16 . E poiché tutte queste decisioni furono giustificate mediante rivelazioni di Allah contenute nel Corano, esse assunsero valore normativo e divennero una componente obbligata della strategia del jihad. I beni degli ebrei di Medina andarono a costituire un bottino che fu spartito tra i combattenti musulmani, in base al criterio per cui un quinto di

ogni preda era riservato al Profeta. Tuttavia, nel caso dei banu nadir Maometto conservò la totalità del bottino poiché questo, essendo stato confiscato senza colpo ferire, secondo alcuni versetti coranici (LIX,6-8) spettava integralmente al Profeta, incaricato di gestirlo a beneficio della comunità islamica, la umma. Fu questa l'origine del fay', ossia del principio ideologico, gravido di conseguenze per il futuro, in base al quale il patrimonio collettivo della umma era costituito dai beni sottratti ai non musulmani. Fu nel trattato concluso tra Maometto e gli ebrei che coltivavano l'oasi di Khaybar che i giureconsulti musulmani delle epoche successive individuarono l'origine dello statuto dei popoli tributari, tra i quali il presente studio prende in esame gli ebrei e i cristiani - designati collettivamente come Gente del Libro (la Bibbia) - e gli zoroastriani persiani. Secondo questo trattato, Maometto aveva confermato agli ebrei di Khaybar il possesso delle loro terre, la cui proprietà passava invece ai musulmani a titolo di bottino (fay'). Gli ebrei conservavano la loro religione e i loro beni in cambio della consegna di metà dei loro raccolti ai musulmani. Tuttavia tale statuto non era definitivo, in quanto Maometto si riservava il diritto di abrogarlo quando lo avesse ritenuto opportuno 17 . La umma continuò a ingrandirsi e ad arricchirsi grazie alle spedizioni contro le carovane e le oasi - abitate da ebrei, cristiani o pagani - dell'Arabia e delle regioni di confine siro-palestinesi (629-632). Tali agglomerati, situati a nord di Ayla (Eilat), nel WadI Rum e nei pressi di Mu'tah, erano circondati da tribù arabe nomadi. Quando esse si schierarono con Maometto gli stanziali, terrorizzati dalle razzie, preferirono trattare con il profeta e concordare il pagamento di un tributo 19 . Attingendo a fonti contemporanee, Michele il Siro rievoca quegli eventi: [Maometto] cominciò a radunare delle truppe e a salire a tendere delle imboscate nelle regioni della Palestina, al fine di persuadere [gli arabi] a credere in lui e a unirsi a lui portando loro del bottino. E poiché egli, partendo [da Medina], si era recato più volte [in Palestina] senza subire danni, anzi, l'aveva saccheggiata ed era tor-

nato carico e dai sulaymanaye, che provocarono ovunque la rovina dei cristiani»4e. Per sottometterli, il califfo inviò il suo esercito, comandato da 'Abd Allah ibn Tahlr, che: Costrinse gli abitanti a raccogliere il grano e la paglia occorrenti al suo esercito durante l'assedio di Kaysun. L'intera Jazlra e l'Occidente [la Siria] subirono una tale oppressione che i loro abitanti desideravano la morte. Erano talmente sotto pressione che mietevano il grano, l'orzo e gli altri cereali ancora prima del tempo, per trebbiarli e consegnarli [a 'Abd Allah]. Intanto Nasr si aggirava tra i campi, massacrando i mietitori e incendiando tutto quello che c'era [per impedire all'esercito del califfo di approvvigionarsi]. 4 9

Quando 'Abd Allah andò ad assediare Kaysun (824-825), la fortezza di Nasr: «Vi fu una grande oppressione in tutti i paesi, poiché gli abitanti [dhimmi] erano obbligati a fornire i viveri all'accampamento; e quello fu un periodo di carestia e di penuria di ogni genere di prodotti, e in ogni luogo» M. Per proteggersi dai colpi di cannone degli assalitori, Nasr e le sue truppe adottarono uno stratagemma già messo in atto durante l'assedio di Balis: fecero salire sulle mura le donne cristiane con i loro figli, e li esposero alle armi da lancio dei persiani, i quali allora, per ordine di 'Abd Allah, mirarono soltanto alle mura 5 1 . Al secondo assedio di Kaysun, Nasr ripetè la stessa tattica. Nell'842 un filo-omayyade della tribù degli al-Yaman soprannominato Abu Harb radunò un gruppo di briganti e si diede ai massacri e ai saccheggi in Palestina e in Siria. Quando giunse a Gerusalemme, gli ebrei, i cristiani e perfino gli arabi fuggirono. «Il patriarca gli inviò molto oro.» Alla morte di al-Mu'tasim (842), la rivolta si estese fino a Damasco, e fu inviato un esercito nel Nord della Mesopotamia, allora in balia dei briganti e dei raid. Le insurrezioni e il continuo protrarsi del jihad richiedevano costanti movimenti di truppe sul territorio. L'obbligo per i dhimmi di dare alloggio ai numerosi eserciti e di provvedere alle loro necessità mandava in rovina gli abitanti dei villaggi, che spesso si ritrovavano derubati dai loro ospiti. Nel 997 il distretto di Dakukah (a sud di Kirkuk) era retto da due avvocati cristiani. Gli arabi del luogo andarono a dire ai soldati che si apprestavano a saccheggiare il territorio bizantino: «Perché andare cosi lontano? Non avete che da depredare questi due cristiani». Ed essi lo fecero 52 . Nel 1001 gli arabi fomentarono alcune sommosse contro i cristiani di Baghdad, le cui chiese furono distrutte e saccheggiate. Le cronache pullulano di episodi simili, per giunta reiterati nel corso degli anni. A volte i curdi, i turchi o gli arabi depredavano i dhimmi sottraendo loro il bestiame, le dorine e i giovani, a volte le accuse dei rinnegati scatenavano le persecuzioni. I documenti alludono spesso alle vessazioni e alle esazioni perpetrate contro i dhimmi da parte di governatori o di emiri semi-indipendenti.

La creazione di milizie di schiavi turchi a opera di al-Mu'tasim (833-842) introdusse un ulteriore elemento di conflittualità etnica e di anarchia nel dar al-islam. A partire dal IX secolo, i capi di questa soldataglia tennero in scacco il governo con congiure e rivolte. I governatori provinciali, provenienti da questa casta militare, perseguirono una politica di accaparramento delle terre e di controllo diretto delle imposte. Dal X secolo in poi le continue infiltrazioni di turchi e di curdi islamizzati spopolarono le regioni urbane e rurali di Egitto, Siria, Mesopotamia, Armenia, Georgia e Anatolia, teatro di scontri tra le numerose tribù turkmene, che vi fondarono emirati e sultanati autonomi e tra loro rivali. Ad esempio, nel 1057 il sultano Togrul Bey (1038-1065), durante la sua spedizione in Iraq, vedendo che il suo Tesoro era vuoto e le truppe affamate, abbandonò al saccheggio la città di Balad, sul fiume Tigri, presso Mossul 5 3 . Gli abitanti riuscirono a salvarsi pagando un riscatto in oro. Nel monastero nestoriano di Akhmul, dei 400 monaci, 120 furono massacrati e i rimanenti riscattarono le loro vite per una somma esorbitante. Quando, nel 1143, Mas'ud, sultano di Iconium (Anatolia) dopo aver distrutto la città di Sebastia e averne scacciato Ya'qub Arslan, assediò Melitene, 'Ayn alDawla, che la difendeva, estorse ai notabili cristiani cifre astronomiche per pagare le sue t r u p p e Q u e s t e circostanze si ripeterono nel 1152 e nel 1170. Durante il XII secolo i vari principi turchi e curdi, impegnati a scontrarsi nel dar al-islam per strapparsi l'un l'altro i territori e le città dell'Anatolia, della Georgia, dell'Armenia, della Siria e dell'Iraq, saccheggiavano i villaggi dei rivali e ne deportavano gli abitanti dhimmi per ripopolare i loro possedimenti divenuti deserti 55 . Le vittime di tali misure non erano i popoli nemici del dar al-harb, ma gli indigeni dhimmi del dar al-islam. La città di Tikrit (Iraq), che apparteneva ai selgiuchidi, fu interamente distrutta dal califfo al-Muktafi intorno al 1153. Taqi al-Dìn Omar, governatore dell'Armenia e nipote di Salah ai-Din (Saladino), odiava così aspramente i cristiani - riferisce il cronista - che «fece scorrere senza pietà il sangue dei contadini armeni oppressi» 56 .

Il continuo jihad contro i cristiani d'Occidente esasperava il fanatismo: «In quell'epoca [1140], ogni cristiano che pronunciasse, anche involontariamente, i nomi del re dei greci o dei franchi, veniva trucidato dai turchi. Per questo motivo a Melitene morirono molte persone» 57 . In seguito alla disfatta dei franchi a opera di Nùr ai-Din (1149), «i turchi ridussero in schiavitù tutto il paese [la regione di Antiochia]» 58 . Scrivendo dopo le vittorie di Salah ai-Din, il cronista commenta: «È impossibile descrivere a parole l'entità degli schemi, delle derisioni e degli insulti che dovettero subire in quel periodo i cristiani che vivevano nell'Impero degli arabi» 59 . Il favore di cui godevano i cristiani, soprattutto i nestoriani, presso i mongoli, attirava su di loro l'odio islamico. Nel 1261 i musulmani di Mossul saccheggiarono e uccisero tutti coloro che non si convertivano all'islam. Molti tra i religiosi, i notabili e il popolo abiurarono. In seguito, i curdi scesero dalle montagne e assalirono i cristiani massacrandoli; essi inoltre depredarono il convento di Mar Matai e si allontanarono solo dopo aver estorto ai monaci un forte riscatto 60 . Nel 1273 un gruppo di briganti siriaci provenienti da 'Ayn Tab e da Birah calarono sulla regione di Claudia (alto Eufrate) e fecero prigionieri tutti gli abitanti, comprese le donne e una moltitudine di giovani". Nel 1285 un'orda di circa 600 banditi nomadi di etnia curda, turca e araba piombò su Arbll, saccheggiando e massacrando i dhimmT dei villaggi circostanti. Dopo aver devastato l'intera regione di Mardin, essi ripartirono portando con sé un cospicuo bottino costituito da greggi, donne e bambini ridotti in schiavitù. L'anno successivo una banda di 4000 briganti curdi, turkmeni e arabi, devastò e depredò tutta la zona intomo a Mossul 62 . Nel 1289 un gruppo di predoni attaccò un grande villaggio nestoriano sul Tigri: dopo aver ucciso 500 uomini e aver devastato il luogo, si ritirarono portando con sé un ricco bottino, bestiame e circa 1000 prigionieri tra uomini, donne e bambini 63 . Le cronache cristiane e islamiche da cui sono tratti questi esempi attestano il perdurare di tale situazione. Uno dei motivi, probabimente il principale, dell'estinzione delle comunità indigene dhimmT fu il fatto che allo stato di guerra permanente contro gli

infedeli stanziati all'interno del dar al-harb (harbi) si aggiungevano i conflitti tra musulmani e l'anarchia che dilaniavano anche il dar al-islàm. I califfi, i sultani, gli emiri o i governatori provinciali - arabi o turchi che fossero - consolidavano il loro potere contro i rivali facendo emigrare e insediare le loro tribù nei paesi soggetti alla dhimmitudine. I nomadi, in costante e crescente afflusso, sopperivano alle loro necessità soltanto saccheggiando i villaggi e i borghi, usurpando, estorcendo denaro sotto tortura, taglieggiando e rapendo i giovani, merce monetizzabile e fonte di guadagno sul mercato degli schiavi. Spesso i nomadi, approfittando dell'impunità dovuta alla distanza del potere centrale e degli eserciti impegnati a combattere alle frontiere del dar al-harb, devastavano ima provincia fertile e densamente popolata lasciandovi solo macerie e riducendone in schiavitù la popolazione. Le città offrivano maggior sicurezza rispetto alle campagne, sebbene anche in esse l'anarchia e l'avidità di bottino provocassero saccheggi e incendi, oppure estorsioni, a danno dei quartieri dhimmì. Gli stessi fenomeni si verificarono all'epoca della «turchizzazione» dell'Anatolia e dei Balcani. I territori anatolici, di cui i sultani selgiuchidi si erano appropriati con il jihad, costituivano altrettanti Stati ghaziM, in cui affluivano le tribù seminomadi turkmene 65 . La cultura di queste «terre di confine» era dominata dalla nozione islamica di guerra santa e dalle prescrizioni della sharT'a relative agli infedeli e ai loro beni 66 . Lo spirito ghazi e la pressione demografica dovuta all'immigrazione turca in Anatolia e nei Balcani favorirono l'intensificarsi del popolamento islamico 67. Perciò nel XV secolo la mappa demografica delle province della Tracia e dell'Aydin si era ormai totalmente modificata per effetto della massiccia immigrazione dei musulmani, che costituivano già l'80% della popolazione. Poiché la guerra santa era la pietra angolare dello Stato ottomano 6", la fonte della sua espansione, della sua forza e della sua ricchezza, l'intera amministrazione dei territori era dominata da necessità e concezioni politiche improntate al militarismo. Quando, nel XVI e nel XVII secolo, la resistenza degli Absburgo in Eu-

ropa centrale e quella della Persia a Est arrestarono l'espansione ottomana, la macchina da guerra, in mancanza di sfoghi esterni, implose devastando il territorio stesso dell'Impero. Proprio come era accaduto con l'islamizzazione araba, in cui all'età delle conquiste era seguita una fase anarchica, l'immigrazione delle tribù seminomadi provocò disordini incontrollabili in Anatolia, in Armenia e nei Balcani. Cacciati dalle loro terre o sradicati dalle deportazioni, i contadini, gli immigrati turchi, gli avventurieri e gli schiavi in fuga divennero una massa fluttuante, priva di legami e dedita al banditismo, al cui interno i vari leader ribelli reclutavano le loro truppe e i loro scagnozzi 69 . Il movimento ribelle dei jelalT (1595-1628), funzionari decaduti della Porta 70 , mise a ferro e fuoco l'Armenia. Alla testa delle loro bande i leader dei rivoltosi, alleati con le tribù curde o turkmene, devastarono le città e i campi dell'Asia Minore e dell'Armenia, saccheggiando e massacrando, provocando carestie e l'esodo di intere popolazioni: Essi legavano e appendevano gli uomini, chi per i piedi, chi per le braccia, chi per i genitali, e li bastonavano senza pietà; quando li lasciavano andare, erano mezzi morti e respiravano a stento. Alcuni morivano tra i tormenti. A qualcuno venivano cavati gli occhi; altri erano condotti in giro con le narici trapassate da ima freccia, e costretti dagli atroci dolori a mostrare i loro depositi di orzo e di grano, o i ripostigli contenenti i loro beni e le loro ricchezze. Il pavimento delle case e degli edifici veniva scavato per scoprire i tesori sepolti sottoterra; i muri abbattuti, i nascondigli posti sui tetti frugati dai cercatori di oggetti preziosi: il risultato era una devastazione generale.71 La gente correva a nascondersi nelle caverne, sulle montagne, nei sotterranei: «Fu così che tutti i villaggi dell'Ararat furono depredati e devastati, e tutte le semenze alimentari furono portate via, come pure gli abitanti» 71 . Le modificazioni etniche erano accompagnate dal trasferimento delle proprietà fondiarie (fay'), dei possedimenti religiosi,

degli edifici (chiese e sinagoghe divenute moschee) e dei «beni di manomorta» (ivaqf) 73 allo Stato islamico. In seguito al processo di invasione, le etnie indigene entrarono in una spirale irreversibile di estinzione causata dagli espropri, dalle fughe, dalla rovina e dal venir meno degli stili di vita tradizionali e dell'omogeneità del tessuto umano, sociale, culturale e religioso. Speros Vryonis ha analizzato minuziosamente questi processi, che si verificarono dall'XI al XV secolo in Anatolia e in Armenia. I suoi metodi di indagine e di studio, se applicati all'islamizzazione araba della Mesopotamia, della Spagna e del Levante, condurrebbero alle stesse conclusioni. Il quadro generale che emerge dall'esame dell'epoca a cavallo tra il IX e il X secolo in Oriente ci mostra una società cristiana ancora ricca e numericamente prevalente, m a ormai rassegnata a un processo di decomposizione perché aveva delegato il suo futuro politico e la sua sicurezza a popoli che avrebbero finito per soppiantarla.

La funzione economica dei «dhimmJ» La funzione economica svolta dai non musulmani è un fattore decisivo e fondamentale, che regola i rapporti tra dar al-islam e dar al-harb. È infatti la rivendicazione del tributo a scatenare il jihad, ed è il suo pagamento da parte dei vinti a porvi fine. L'origine e la legittimazione del tributo si fonda su un versetto coranico (IX,29) e sul balzello imposto dal Profeta agli ebrei e ai cristiani residenti nei villaggi dell'Arabia. Quest'introito fu la fonte prima di arricchimento della umma, che da esso fu strappata alla sua miseria. Il tributo - in denaro, in natura e in forza lavoro umana - fu costantemente investito nella macchina da guerra e da conquista islamica, al duplice fine di alimentarla e di rafforzarne il potere e il dominio. L'Egitto, che si era rifiutato di pagarlo, fu invaso una seconda volta e l'entità dell'imposta fu triplicata. La Siria, la Mesopotamia, l'Armenia erano soggette a esso tanto quanto le isole greche e le città costiere occidentali. Il bottino e il tributo erano i fondamenti essenziali del sistema politico-teologico del jihad, e

legittimavano i raid e le razzie. Città, province, regioni, paesi interi venivano invasi al fine di riscuotere il tributo, e gli assediati ottenevano la pace solo sottomettendosi a esso, ossia accettando di pagare regolarmente una somma che garantiva loro protezione dai saccheggi, dalla morte o dalla schiavitù finché continuavano a versarla. Era il tributo a tutelare, almeno in teoria, la vita e la sicurezza di quella moltitudine di persone - contadini, artigiani, commercianti, gente di campagna o di città, di religione cristiana (nestoriani, giacobiti, melchiti), zoroastriana o ebraica - che vivevano nei territori islamizzati dal jihad. Ecco perché il tributo fa da trait d'union fra il concetto di jihad e quello di dhimma. È innegabile che ai paesi vassalli sia sempre stata imposta una qualche contribuzione, collettiva o individuale, ma essa non era mai stata integrata in una concezione teologica della conquista. Il taglieggiamento dei popoli stanziali da parte dei nomadi, consuetudine preislamica saldamente radicata in Arabia, costituisce il principio di fondo del clientelismo. Esso suggella l'alleanza tra i sedentari, contadini o artigiani, e i beduini, pastori e guerrieri. Questi ultimi si astengono dal saccheggiare i primi e li proteggono dalle altre tribù in cambio di un riscatto in denaro o in natura. La pratica di taglieggiare i dhimmt, elemento essenziale della dhimmitudine, sopravvisse nel corso dei secoli in molteplici forme. In un paese come la Palestina che, sin dall'inizio della conquista, fu dominata dai nomadi, fino alla fine del XIX secolo gli ebrei pagarono un «prezzo della protezione» alle tribù arabe e turkmene che vivevano allo stato nomade in Galilea, in Samaria e in Giudea. Che si pensi agli ebrei, agli armeni e ai siriaci, insediati in tutto l'Oriente, o ai greci e agli slavi dell'Europa centrale, è innegabile che dal VII al XIX secolo, e ancora agli inizi del XX, le estorsioni a danno dei popoli tributari, anche se perpetrate all'insaputa dello Stato e a scapito dei suoi interessi, si estendevano all'intero dar al-islam e investivano tutti i livelli e gli aspetti della dhimmitudine. Dalle razzie contro i villaggi o i quartieri dhimmt alle incarcerazioni e alle torture inflitte ai notabili, ai rapimenti delle dorine e dei bambini, infiniti esempi attestano lo sfruttamento in

tutte le sue forme della produttività economica dei tributari. Anche la deportazione dei popoli dell'Armenia e del Karabakh da parte dello shah Abbas I fu dettata da motivi economici. Ancor più delle imposte abusive percepite dallo Stato, l'estorsione fiscale praticata dai capitribù o dai governatori costituì un elemento essenziale di erosione e corruzione delle società dhimmT7\ Questo fenomeno fondamentale, e tuttavia assente dai regolamenti governativi ufficiali, è peraltro confermato dalla geografia della dhimmitudine. Oltre agli aspetti economici ed etnici, il tributo ha una valenza religiosa che determina le variazioni della sua base di calcolo, della sua riscossione e della sua destinazione. Tale dimensione teologica, che trascende la funzione economica, impedisce di assimilarlo alla nozione di imposta.

Il tributo: un fattore di strumentalizzazione e di collusione Dopo la conquista araba, i notabili cristiani detenevano ancora il potere economico e amministrativo, mentre i poteri esecutivo, politico e militare divennero un'esclusiva islamica. La maggioranza della popolazione era indigena e cristiana, la minoranza straniera e arabo-musulmana. I cronisti siriaci distinguono i cristiani delle diverse province islamiche con i seguenti termini: egiziani, siriaci, mesopotamici e armeni; la Palestina è ancora chiamata «il paese degli ebrei», mentre il termine tayyaye (banu tayy) designa gli arabo-musulmani, opportunamente distinti dagli indigeni. La riscossione del tributo nelle sue varie forme era assegnata ai leader religiosi dei popoli vinti, i quali ne ripartivano l'ammontare tra le proprie «pecorelle» e versavano all'erario islamico la somma pattuita, prelevandone la quota loro spettante a titolo di beneficio. E così, la scomparsa delle strutture statali bizantine comportò il trasferimento ai patriarcati delle cariche temporali, giudiziarie e fiscali non più detenute dallo Stato. Il califfo accordava l'investitura al notabile o al patriarca che si impegnava a estorcere alla sua comunità il tributo più elevato. La

rivalità tra i diversi leader di ogni comunità era doppiamente vantaggiosa per lo Stato musulmano, che non solo si arricchiva grazie al gioco al rialzo praticato dai capi dei tributari, ma guadagnava anche dei neoconvertiti. Da allora furono le autorità religiose cristiane, assistite dai notabili, a gestire le colossali somme provenienti dalle imposte prelevate ai correligionari. Sotto gli omayyadi, questa funzione fiscale delle alte cariche ecclesiastiche contribuì all'arricchimento di chiese e monasteri e all'accumulo di considerevoli fortune da parte di notabili e vescovi. Il tesoriere di 'Amr era un cristiano, Sabunji, che, sebbene melchita, si era schierato con gli invasori arabi al momento della conquista dell'Egitto. I suoi servigi furono ricompensati con la carica di tesoriere del califfo, carica che, rimasta alla sua famiglia, toccò in seguito al nipote, il vescovo Giovanni Damasceno. Michele il Siro cita l'esempio di Atanasio, precettore di al'Azlz, emiro dell'Egitto e fratello minore del califfo 'Abd al-Malik. Monofisita originario di Edessa, egli accumulò ricchezze incommensurabili e fece costruire alcune chiese. Essendo stato denunciato, fu condotto dal califfo, il quale gli disse: «Atanasio, noi non riteniamo opportuno che un cristiano possieda un patrimonio così grande. Daccene una parte». E Atanasio obbedì, senza per questo impoverirsi 75 . Nella sua Cronaca, Pseudo-Dionigi allude spesso alla miseria degli abitanti dei villaggi e alle ricchezze dei notabili - banchieri, mercanti, prelati ecc. - , che sfruttavano senza pietà i loro correligionari. In qualità di intermediari tra il califfo e lo stuolo dei contribuenti, i leader religiosi e laici accumulavano potere e prestigio, arricchendosi con l'appalto delle imposte e la vendita delle diocesi e delle funzioni ecclesiastiche. Inoltre, il controllo dei commerci e delle banche permetteva loro di svolgere un ruolo economico di rilievo. Questa potente classe di notabili laici ed ecclesiastici rimase in piedi per tutto il periodo della dhimmitudine, di cui era l'inevitabile emanazione. In quanto beneficiaria del potere islamico, essa gli fu sempre fedele. E fu dietro il suo schermo protettivo, di-

venuto via via più sottile nel corso dei secoli, che presero forma gli ingranaggi del rapporto di forza tra il potere economico cristiano e il potere politico islamico, un rapporto la cui evoluzione, modulata dalle congiunture storiche, sfociò nella distruzione del Cristianesimo orientale e nel rovesciamento delle proporzioni demografiche tra le due forze. Il successo e la durata della conquista islamica dipendevano appunto dalla collusione di interessi tra leader dei popoli vinti e califfi: i primi infatti si arricchivano grazie all'asservimento dei loro popoli e i secondi consolidavano il proprio potere grazie alla docilità di quei leader.

Il califfato, potenza protettrice dei «dhimml» L'invasione arabo-islamica dell'Oriente, nelle sue successive ondate, non fu un fenomeno pacifico. Per anni, anzi, per secoli, intere regioni furono devastate nel corso di ricorrenti guerre. L'arruolamento nel jihad di milizie di schiavi curdi e turchi rilanciò l'offensiva di distruzione in Asia Minore, nei Balcani e nel cuore stesso dell'Europa. In questo turbinio di violenze, il califfo rappresentava l'ordine, l'autorità, la stabilità. In qualità di detentore del potere, egli promuoveva la pace o la guerra all'interno del dar al-islam, faceva da arbitro nei conflitti tra dhimml e garantiva la legalità. Inoltre proteggeva i suoi sudditi dalle orde di immigranti che, dalla poverissima Arabia, si spostavano verso le ricche terre del bottino, desiderando avidamente i beni dei tributari non musulmani che popolavano le città e le campagne dell'Impero. Perciò le loro ambizioni si scontravano con la politica del califfo, le cui risorse economiche dipendevano dagli effettivi e dalle attività imponibili svolte dai vinti. Combattere la rapacità dei nomadi significava tutelare l'agricoltura, l'economia mercantile dei borghi e delle città e il gettito fiscale: infatti non soltanto gli arabi beneficiavano di un regime contributivo privilegiato, ma le loro rapine e i loro colpi di mano a danno dei tributari danneggiavano le fonti di introito dello Stato. Il conflitto che vede contrapposti da una parte

i califfi, e poi i sultani, protettori dei cristiani e degli ebrei sottomessi, dall'altra i clan nomadi arabi, e poi curdi e turchi, percorre tutta la storia della dhimmitudine. Questo conflitto, che prese il via all'inizio della conquista con la disputa tra Omar ibn al-Khattab e i guerrieri arabi i quali reclamavano la spartizione immediata delle popolazioni rurali e dei loro beni, trovò espressione in molti hadith, specchio delle preoccupazioni dei governanti musulmani nei primi tempi della dominazione islamica. Cos'avrebbero fatto i musulmani quando non avessero più visto «entrare né un dinar, né un dirham di imposte?» 76. Una situazione che si sarebbe certamente verificata se, in seguito ai maltrattamenti, «Dio avesse indurito i cuori dei tributari e questi avessero rifiutato di pagare l'imposta sui loro beni» 77. Questo imperativo economico ispirò le numerose esortazioni attribuite a Omar, che prescriveva ai musulmani di rispettare i diritti dei tributari, i quali «provvedono al sostentamento delle vostre famiglie» 78 . Abu Yusuf diede vita a una politica altrettanto rispettosa nei confronti dei dhimmi, «spolpandoli entro i limiti legali». Quindi il califfato si configura come istanza protettrice dei tributari indigeni dai tentativi di accaparramento messi in atto dalle tribù beduine islamizzate. Il conflitto tra Stato e nomadi, che si ripropose nel corso delle generazioni in tutto il dar al-islam, spiega la tendenza dei dhimmi cristiani ed ebrei a riferirsi con gratitudine alla suprema autorità islamica, che incarnava e garantiva l'ordine e la continuità - fondamenti di ogni civiltà - contro l'anarchia e la distruzione. A quest'antico conflitto di tipo etnico, politico, economico e sociale, l'islam conferì una dimensione teologica attraverso la sua giurisprudenza che fissò le prerogative dei musulmani e del loro dominio sugli ebrei e sui cristiani. Qualunque fosse la posta politica in gioco nella raffica di guerre e rivolte di cui erano testimoni, i dhimmi si mettevano sempre sotto la protezione del partito al potere, fondando la loro sicurezza e i loro diritti sugli organi religiosi e giudiziari dello Stato islamico, sulla shari'a e sulla dhimma. Questo sentimento di gratitudine e di fiducia verso il califfo o i rappresentanti dell'autorità traspare dalle cronache dei patriarchi siriaci.

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Patriarca greco (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).

Per giunta l'intransigenza di Bisanzio, che perseguiva una propria politica di unificazione religiosa, spingeva i culti perseguitati a richiedere la protezione islamica. Le conversioni forzate degli ebrei decretate dall'imperatore Leone Isaurico, come pure le persecuzioni contro i monofisiti, gli armeni, i siriaci e i nestoriani, provocarono un'ondata migratoria verso il dar al-islam. Infatti non solo il califfo accoglieva gli ebrei e i cristiani vittime del fanatismo bizantino, m a li proteggeva dalla rapacità delle bande di predoni. Tramite i loro rappresentanti, i dhimmT potevano fargli pervenire le loro lamentele e appellarsi alla sua giustizia. Non era facile discernere il vero dal falso né fare luce sugli intrighi, ed è degno di nota che, malgrado l'onere della gestione di un immenso impero, i califfi e i sultani si sforzassero di rispondere con equità alle lagnanze dei loro sudditi e tributari 79 . L'autorità musulmana interveniva regolarmente, e spesso con imparzialità, nei conflitti che opponevano le varie comunità giacobiti contro melchiti, melchiti contro nestoriani, cristiani contro ebrei e viceversa - e in quelli presenti perfino all'interno di ognuna di esse. È stato sottolineato spesso che il califfato sfruttava gli scismi al fine di distruggere tali comunità; tuttavia oggi si è più inclini a credere che esse si siano distrutte da sole, a causa dell'intensità degli odi e dei fanatismi che le contrapponevano ancor prima della comparsa dell'islam. E non si può negare l'azione moderatrice dello Stato musulmano in questi scontri, né il suo positivo ruolo nei conflitti tra dhimmT. Esistono abbondanti testimonianze sulla benevolenza delle autorità islamiche, califfi o leader regionali, nei confronti dei notabili dhimmT - alti funzionari, medici, astrologi, amministratori che patrocinavano le loro comunità. È a questo livello che emerge la simbiosi plurireligiosa presente nel dSr al-islam, una simbiosi fatta di comunanza di interessi, partecipazione al potere e gestione dell'amministrazione e dell'economia da parte della potente classe di mercanti e letterati che si muoveva nelle capitali e nei circoli di potere. Acquisita al regime, quest'ultima non poteva progredire e sopravvivere che alla sua ombra, grazie alla sua protezione e alla sua benevolenza. E fu all'insegna di questo contra-

sto tra tutela e oppressione, determinato da fattori economici, ideologici e politici, che si perpetuò nel tempo, con alterne vicende, ora positive ora negative, il regime della dhimmitudine.

Oppressione e collaborazione La dominazione islamica sulle popolazioni cristiane riuscì a imporsi e consolidarsi grazie alla stretta collaborazione tra lo Stato musulmano e i notabili dhimmT, che assommavano in sé i poteri spirituale e temporale. Nel complesso l'intero sistema della dhimmitudine si fondava su un delicato equilibrio di rapporti tra la umma dominante e i vinti dominati, equilibrio implicante collaborazione. Una collaborazione inevitabile, dal momento che la nomina dei capi civili e religiosi dei popoli dhimmT era soggetta all'approvazione del potere islamico, che si assicurava in tal modo la sottomissione di preziosi aiutanti. Durante i primi secoli della conquista araba, i dirigenti ebraici, ma soprattutto cristiani e zoroastriani, le folle di maivalT e gli innumerevoli schiavi cristiani ed ebrei provenienti dal bottino di guerra ricoprivano importanti funzioni non solo presso i califfi, m a anche all'interno dell'amministrazione e dell'esercito. Sotto il califfato di 'Abd al-Malik (685-705), «i capi cristiani gestivano ancora, nelle città e nei paesi, tutti gli affari di governo» 8 0 . In Andalusia, il comes (= conte) Rabi, leader della comunità cristiana di Cordova, comandava le milizie di schiavi - tutti cristiani - di alHakam I (796-822), e fu su richiesta di 'Abd al-Rahm3n II (822852) che il metropolita di Siviglia Recafredo e i vescovi delle diocesi andaluse sconfessarono la resistenza dei cristiani mozarabi. Il portavoce del califfo era un funzionario cristiano preposto all'amministrazione delle finanze, il comes Omar, figlio di Antoniano, convertitosi in seguito all'islamismo. In qualità di scribi, segretari, tesorieri, contabili, architetti, artigiani, contadini, medici, letterati, diplomatici, traduttori e politici, i cristiani formavano la base, l'ossatura, l'élite e il nerbo

dell'impero musulmano, che senza di loro probabilmente non avrebbe potuto né sorgere né progredire. I popoli cristiani vinti misero tutte le risorse, le loro competenze, i tesori di tecnologia e di scienza accumulati dalle civiltà precedenti, al servizio dei leader nomadi o seminomadi arabi e più tardi turchi. La letteratura, le scienze, l'arte, la filosofia e la giurisprudenza islamiche non nacquero né si svilupparono in Arabia, vale a dire in un contesto esclusivamente arabo-musulmano, ma tra i popoli conquistati, nutrendosi della loro linfa vitale, del corpo morente ed esangue della civiltà dhimmi. Questa dedizione e questa fedeltà non sfuggirono al potere islamico: non a caso i collaboratori più prossimi del califfo, i suoi consiglieri, erano persiani convertiti ma soprattutto cristiani, e la sua milizia personale, l'ossatura del suo esercito, era costituita da prigionieri cristiani. E non solo perché essi erano più abili e più ingegnosi, ma anche perché la loro vulnerabilità di dhimmi o di schiavi gli assicurava una fedeltà che difficilmente avrebbe potuto trovare fra i suoi correligionari. Durante la fase di disgregazione delle zone rurali, che ebbe inizio sotto gli omayyadi e si accentuò sotto gli abbasidi, nelle capitali, sia Damasco che Baghdad, si formò una potente classe di notabili dhimmi - mercanti, banchieri, commercianti - le cui ricchezze, il cui potere economico e la cui influenza a corte mascheravano il processo di sgretolamento delle classi agricole. Ma le rivolte contadine, come quelle scoppiate in Egitto, restavano localizzate, e, in assenza di sostegno da parte dei notabili e di una guida organica, erano destinate al fallimento, così come i loro artefici al massacro. Perciò i leader islamici, per quanto anticristiana fosse la loro politica, si assicuravano sempre la presenza di eminenti personalità cristiane nel loro entourage più prossimo, per avvalersi dei loro servigi. Ad esempio Nasr, che terrorizzò i cristiani della Mesopotamia all'epoca di Ma'mün, aveva un segretario nestoriano. Questa classe privilegiata di mercanti, banchieri, diplomatici o consiglieri sopravvisse nei secoli, intatta nella struttura ma mutevole nella composizione: presso gli ottomani, infatti, in genere i greci e gli armeni presero il posto degli ebrei, dei cristiani

e degli zoroastriani, che avevano servito i califfi arabi. Presente fin dagli albori dell'Impero, la ritroviamo al suo tramonto, nel 1840, nella descrizione severa ma fedele di un contemporaneo: Ubicini. In effetti, come è stato spesso sottolineato, i leader cristiani e le Chiese si adattarono alla dominazione islamica, che permetteva a una classe privilegiata e minoritaria di notabili di arricchirsi grazie all'appalto per la riscossione del tributo, e alle comunità ecclesiali di mantenere i loro riti e il controllo fiscale, giudiziario e spirituale dei loro fedeli, anche se, in quel prolungato declino che fu la dhimmitudine, le circostanze storiche certamente imprevedibili nell'arco di una vita umana - ridussero il loro potere alle istituzioni ormai sclerotizzate di altrettanti popoli-fantasma. Benché le fonti del periodo arabo ci forniscano abbondanti informazioni su tali rapporti, tuttavia è grazie alla vasta e variegata gamma di autori greci e latini che narrano la storia dei Balcani nel Medioevo che possiamo comprendere meglio la natura di queste relazioni economiche e politiche, di questa simbiosi tra conquistatori turchi e rappresentanti greci e slavi dei popoli sottomessi. Questa cooperazione, che aveva preceduto e facilitato le vittorie ottomane, non era che il prolungamento naturale delle alleanze tra i vari sultani e i principi cristiani 81 . Meno fulminea della conquista araba delle province bizantine d'Oriente, l'avanzata turca contro i centri della cristianità, Bisanzio e Roma, si articolò in quattro secoli: un periodo lungo, costellato da guerre e da alleanze tra popoli che, di volta in volta, passavano dallo scontro alla collaborazione. All'interno di tale processo è possibile cogliere un ulteriore elemento, che si perpetua nel corso della storia: la formazione di una corrente cristiana islamofila, che portò i dhimmT a ingrossare le file degli eserciti islamici, a rafforzarli e a guidarli alla conquista della loro stessa patria. Signori, avventurieri, personaggi assetati di potere le cui ambizioni erano state frustrate affluivano a getto continuo alle corti dei sultani, ai quali fornivano preziosi consigli e dati precisi sulla condizione delle province cristiane. Eludendo le difese più accanite, l'avanzata islamica, efficacemente spalleggiata dall'apporto

dei transfughi e dei rinnegati cristiani, progredì alternando alle guerre gli accerchiamenti e le invasioni pacifiche. Nei Balcani, ad esempio, il frazionamento dei territori serbo e bulgaro in molteplici signorie rivali e indipendenti, e i dissidi tra le Chiese nazionali serba, greca e bulgara diedero luogo a numerose alleanze tra i principi cristiani e gli emiri turchi. Intanto, a Costantinopoli i conflitti dinastici rendevano il trono tributario delle armate turche. Le alleanze venivano suggellate da matrimoni e dall'invio di principi in qualità di ostaggi - nonché di consiglieri greci - alla corte dei sultani. Più anarchica la situazione in Bosnia, dove le rivolte dei feudatari contro la monarchia si inasprirono a seguito del conflitto religioso tra i seguaci del bogomilismo e i cattolici 92 . Ma la collaborazione cristiano-islamica, che affondava le sue radici nelle lotte e nelle ambizioni di potere, non si limitava all'ambito politico: essa era presente anche ai più alti gradi della gerarchia religiosa ortodossa, ansiosa di proteggere dal proselitismo cattolico i numerosi popoli che controllava. L'antica rivalità tra papato e patriarcato, l'intransigenza delle posizioni, il fanatismo e la crudeltà dei conflitti religiosi intercristiani suscitarono in seno al clero greco-ortodosso un potente partito latinofobo e turcofilo. Mehmed II (1451-1481) ricompensò lo zelo filoturco di Gennadios Scholarios, acerrimo nemico dell'unione con Roma, conferendogli l'amministrazione civile e religiosa di tutti i cristiani balcanici. Collaborazione sul piano politico e religioso, quindi, ma anche su quello militare. Infatti i mercenari cristiani spagnoli, greci, slavi e armeni costituirono un significativo supporto per le truppe arabe e turche. Inoltre i principi cristiani, divenuti vassalli degli ottomani, pagavano loro un tributo e dovevano fornire contingenti di soldati che combattevano a fianco dei turchi. A livello sia militare che economico, religioso, politico e sociale, nei normali rapporti tra Stati o in quelli sfociati nella lunga soggezione della dhimmitudine, la cooperazione e l'alleanza, la fusione e l'integrazione costituirono altrettante dinamiche sincretistiche ed evolutive che attraversarono e plasmarono la storia dei rapporti tra islam e cristianesimo.



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Patriarca armeno (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).

Altre strategie di islamizzazione I pericoli costituiti dallo squilibrio demografico e dal potere economico e amministrativo detenuto dai cristiani vinti non sfuggirono né ai califfi arabi né ai sultani turchi. Se gli interessi economici portavano a limitare le misure di espulsione e di conversione forzata dei dhimmi, la sicurezza militare esigeva invece un incremento della presenza islamica nei territori conquistati, al fine di neutralizzare e spezzare le resistenze locali dei popoli vinti. La durevolezza delle colonizzazioni araba e turca poggiò sulla densità demografica dell'hinterland musulmano, da cui partivano continuamente nuove ondate migratorie. Ma in questi flussi è opportuno distinguere le migrazioni dei popoli dediti alla pastorizia, in cerca di pascoli e ricche città da saccheggiare, dalla politica di colonizzazione perseguita dai califfi, in virtù della quale gli arabi si stanziarono in tutto l'Oriente, nel Maghreb, in Spagna, nelle isole italiane e greche. Al-'Abbas ibn al-Fadl fece insediare dei musulmani in Sicilia, in Calabria e in Longobardia. Durante la spedizione contro Amorium (833), al-Ma'mun diceva: «Io andrò a cercare gli arabi , li condurrò fuori dai loro deserti e li farò stabilire in tutte le città che conquisterò, finché non attaccherò Costantinopoli» 83 . Alla politica di colonizzazione araba si accompagnò un movimento inverso, costituito dal trasferimento e dalla deportazione dei popoli dhimmi, misure, queste, rispondenti a motivi economici e strategici. La forza lavoro veniva spostata nelle zone i cui abitanti erano stati catturati e ridotti in schiavitù o decimati. Ma questo rimpasto etnico mirava soprattutto a rompere l'omogeneità del tessuto sociale, a frammentare i popoli in enclave spesso ostili tra loro e a favorire in essi, strappandoli al loro ambiente, la disintegrazione dei vincoli di solidarietà comune. Siriaci, copti, armeni, indiani, ebrei, nestoriani e melchiti furono deportati nel corso della conquista e della colonizzazione arabe. Durante l'occupazione della Babilonia (Iraq), un considerevole numero di persone era stato spostato nel Hijaz, e alla presa di Cesarea pare fossero stati deportati a Medina 4000 abitanti M. Nel

670 Mu'awiya trasferì numerose famiglie da Bassora in Siria, e sia al-Walrd che Yazrd II ricorsero a misure analoghe. Al-Mansur a sua volta deportò gli armeni di Kahramanmarafl e Samosata. AlMa'mun, nel corso della spedizione volta a domare l'insurrezione copta in Basso Egitto, fece trasferire parte dei ribelli nel basso Iraq, mentre gli altri vennero trucidati sul posto. Gli almoravidi spostarono un gruppo di cristiani da Siviglia (Andalusia) a Meknes (Marocco): secondo il qadi Abu al-Hasan al-MaghribT (XIV secolo), infatti, data l'esperienza dei cristiani in fatto di edilizia, arboricoltura e irrigazione - arti in cui i musulmani non eccellevano di certo, e che peraltro non praticavano - era opportuno farli insediare fra gli islamici per favorire lo sviluppo di quella città e indebolire gli infedeli. E in effetti la deportazione dei tributari in Marocco da parte degli almoravidi comportò un considerevole aumento di ricchezze per questa regione 85 . La politica di colonizzazione araba realizzata mediante il trasferimento delle popolazioni indigene e l'insediamento delle tribù islamiche nei territori conquistati fu applicata dai selgiuchidi (XI secolo), e più tardi dagli ottomani, nel processo di «turchificazione» e islamizzazione dell'Armenia, dell'Anatolia e dei Balcani. Nel 1137 il sultano di Iconium Mas'ùd conquistò Adana (Cilicia) e fece prigionieri tutti i suoi abitanti 86 . Nel 1171 Kilij Arslan II catturò e deportò l'intera popolazione dell'area prospiciente Melitene87. Dopo aver conquistato i Balcani, gli ottomani ordinarono il trasferimento (stirgun, esilio) dei popoli indigeni 88 . Parte dei contadini della Valacchia e della Rumelia fu deportata in Bosnia 89 . Murad I (1359-1389) si impossessò di Adrianopoli e delle regioni circostanti, che popolò di musulmani originari dell'Anatolia 90. Sotto Mehmed II, migliaia di ungheresi, serbi, bulgari e greci furono trasferiti dalle loro province natali, divenute dar al-islam, in altre regioni. Alla caduta di Costantinopoli, nel 1453, fra le 50.000 e le 60.000 persone furono ridotte in schiavitù e deportate. Poi la città deserta fu ripopolata grazie al trasferimento di migliaia di musulmani, di cristiani e di ebrei fatti arrivare da varie province dell'Impero. Nella seconda metà del XV secolo alcuni popoli greci furono trasferiti dal Pe-

loponneso nelle regioni disabitate dello Stato ottomano 9 1 . Nel 1573 circa 20.000 turchi furono spostati a Cipro con le loro famiglie e il loro bestiame 92 . Tutti questi nuclei di persone, distribuiti sia nei villaggi che nelle città, divennero fermenti attivi di islamizzazione. Ma quest'ultima fu messa in atto anche grazie ai rinnegati, che in ogni epoca fornirono un apporto talmente considerevole e svolsero un ruolo così rilevante che meriterebbero una monografia a sé. Qui ci limiteremo a citare quelli della Bosnia, che, secondo molte fonti, si consideravano i migliori tra i credenti, e furono i più violenti oppressori dei loro correligionari. I bosniaci convertiti all'islamismo esercitarono un'influenza tristemente nota soprattutto sull'amministrazione turca, sull'esercito e sul corpo dei giannizzeri. Talora, malgrado le conversioni, venivano mantenuti alcuni legami, soprattutto culturali, con la comunità originaria. Ad esempio, nel XVI e nel XVII secolo il serbo divenne la lingua ufficiale della cancelleria turca per gli affari della Penisola Balcanica. Nel 1557 uno dei gran visir convertiti all'isiàm, Mehmed Sokolovic, attraverso un'estensione della sua giurisdizione ripristinò il patriarcato serbo. Quest'importante istituzione contribuì a preservare la coscienza nazionale serba, in quanto all'ombra delle chiese e dei conventi trovarono riparo i serbi islamizzati consapevoli delle loro origini93. Una situazione analoga si verificò tra i bizantini. Fino alla conquista turca, i ruoli chiave del potere statale erano ripartiti tra i membri di un gruppo di famiglie - sempre le stesse - della nobiltà greca. I legami familiari contribuivano a cementare la solidarietà politica, militare e perfino religiosa, dato che le alte cariche ecclesiastiche (vescovati e patriarcati) erano riservate alla nobiltà. Dopo la conquista, i nobili che si convertirono per conservare le loro proprietà fondiarie e i loro privilegi mantennero comunque i legami con le loro famiglie, che erano rimaste cristiane, in particolare con i membri appartenenti all'alto clero. Un notevole saggio 94 esamina le relazioni tra i nobili islamizzati e i loro familiari cristiani a Cipro dopo la conquista turca (1570-1571).

Benché questo dettagliato studio costituisca un caso a sé, esso illustra efficacemente i processi di islamizzazione attuati dai nobili rinnegati in Turchia, nei Balcani e, qualche secolo prima, in Oriente. Le conversioni erano motivate da considerazioni di ordine materiale: la partecipazione al potere, la conservazione dei privilegi e dello status sociale. Gli islamizzati mantenevano i rapporti con i loro familiari - notabili o prelati che fossero - incaricati di amministrare a livello fiscale e giuridico i popoli cristiani per conto dello Stato musulmano. Alla corte del califfo o del sultano, essi potevano svolgere un'azione moderatrice a vantaggio della loro comunità d'origine, controllando l'esercito, l'amministrazione e la politica. E in effetti, su tutti i territori conquistati si assistette a una tripolarizzazione del potere, che sul piano militare era gestito dagli islamici (arabi o turchi), su quello amministrativo era in mano ai funzionari islamizzati, agli 'ulama, ai qadt ecc., e su quello politico era esercitato dai rappresentanti dei popoli vinti. La conservazione del potere da parte dei nobili cristiani islamizzati (monofisiti, melchiti o nestoriani) favoriva la continuità, garantiva la transizione dallo Stato cristiano a quello musulmano e assicurava il trasferimento delle tecnologie e dei meccanismi amministrativi. All'inizio delle conquiste arabe nel Levante, i monofisiti, che erano stati perseguitati da Bisanzio, erano la religione dominante, mentre il culto greco-ortodosso era proibito. Alla caduta di Costantinopoli, il patriarcato greco-ortodosso ottenne il controllo su tutti i cittadini ortodossi dell'Impero, mentre le Chiese nazionali slave furono soppresse. Questi rapporti di collusione e collaborazione tra islamizzati, notabili e potere musulmano, che si inscrivevano nella dinamica dei reciproci interessi politici, economici e strategici, non sfuggirono ai crociati. Non a caso essi non si fidavano dei greci e dei monofisiti, che più di una volta li avevano traditi. In effetti, senza questa complicità con il mondo dhimmi gli arabi o i turchi non avrebbero potuto dominare i popoli cristiani conquistati né conservare il potere sui loro territori.

I convertiti all'islam introdussero nel governo musulmano la loro esasperata faziosità e il loro settarismo politico e religioso. Ma essi, grazie alla loro azione moderatrice, furono anche gli artefici della cosiddetta età della «tolleranza umanistica», benché l'applicazione di questi termini moderni a contesti medievali non sia che un assurdo anacronismo. Di fatto questo periodo, che fece seguito alle conquiste, assicurò la transizione tra le civiltà indigene e quella islamica, caratterizzata dal fatto che una maggioranza demografica zoroastriana o cristiana era governata da una minoranza musulmana tramite i convertiti all'islam, a loro volta strettamente legati all'aristocrazia dhimmT locale. Tuttavia, con il passare delle generazioni e il consolidarsi, nel lungo periodo, delle conseguenze delle conquiste - trasferimenti di popoli e modificazioni etniche indotte dall'immigrazione - , la solidarietà familiare di tipo transreligioso venne meno, minata dall'emergere, nel corso del tempo, di nuove realtà. In questa categoria rientra anche il gruppo degli scismatici, sebbene esso non sia del tutto assimilabile a quello dei rinnegati; tuttavia accadeva spesso che uno scismatico fosse costretto a convertirsi per salvarsi la vita. Le rivalità, l'ambizione di potere, la sete di ricchezza e di dominio erano responsabili del sorgere e del perpetuarsi, all'interno delle comunità, di croniche tendenze secessioniste, che si trasformavano in altrettanti germi di autodistruzione. Gli scismatici, accecati dalle loro mire personalistiche o dal loro rancore, non esitavano a ricorrere alla diffamazione e alle delazioni, provocando così rappresaglie collettive contro i loro correligionari. Se a volte poteva accadere che trovassero un'eco favorevole ai loro intrighi in certi ambienti musulmani, le stesse manovre potevano anche portare, a seconda delle circostanze e della forza dei rivali, alla loro incarcerazione ed esecuzione. Camuffati sotto le più diverse motivazioni, tali atteggiamenti compaiono con notevole frequenza in tutte le comunità. Troppo numerosi per poter essere repertoriati, gli scismi e le delazioni costituiscono fattori permanenti del tessuto sociologico e umano della dhimmitudine, e svolgono un ruolo non solo disgregativo, ma anche contestativo ed evolutivo, all'interno delle comunità.

Tra i fattori di islamizzazione bisogna ancora segnalare le leggi religiose coraniche che consentivano a un uomo di possedere simultaneamente quattro mogli legali e un numero illimitato di schiave-concubine, nonché di divorziare ogni volta che lo desiderava. L'islamizzazione attuata attraverso le donne - nobili o miscredenti costrette a sposare dei musulmani - , ma anche attraverso gli harem, pieni di prigioniere e di schiave, favoriva il rapido incremento della popolazione islamica, mentre nel caso dei cristiani l'obbligo della monogamia, il divieto di divorzio e le diverse strategie di islamizzazione dei figli provocavano un'inesorabile inversione demografica. Le ondate di conversioni in massa conseguenti alle guerre e alle conquiste acceleravano questo movimento.

Conclusioni Il periodo che va dall'VIH all'XI secolo sembra essere quello in cui, sotto la spinta di particolari eventi storici o ideologici, si innescarono i processi che, a lungo termine, avrebbero condotto all'estinzione dei popoli e delle culture preislamiche del Medio Oriente. Questa evoluzione si inserisce nella relazione simbiotica tra l'Impero islamico e i suoi tributari non musulmani, nella loro dipendenza reciproca e nella loro alleanza obbligata contro i nomadi. Fin dalle origini lo Stato arabo-musulmano si formò, si edificò, si rafforzò e si perpetuò grazie alla produttività e al rendimento fiscale di una forza lavoro costituita da popoli indigeni che non erano né arabi né musulmani. Era quanto prevedeva il regime della dhimma, il contratto che pose fine alle ostilità del jihad: in base a esso i popoli vinti dovevano coltivare, costruire e adoperarsi per sfamare, vestire, alloggiare e arricchire la umma. Le loro imposte servivano a pagare gli stipendi dei soldati e i sussidi assegnati alle tribù insediatesi nei loro paesi. Gli indigeni venivano precettati per combattere negli eserciti, remare sulle galee e svolgere tutte le attività più faticose in settori che andavano dall'agricoltura alla costruzione di strade, dall'edilizia civi-

Ebreo e armeno a Costantinopoli, XVIII secolo (François Charles-Roux, «Les échelles de Syrie et de Palestine au XVllleme Geuthner, Paris 1928, fig. 20).

siècle»,

le e militare alla cantieristica navale, dalla navigazione alla realizzazione di infrastrutture, dalle forniture alimentari alla creazione di manufatti. Era il loro lavoro a produrre le colossali ricchezze fornite dall'Egitto, dalla Siria, dalla Palestina, dalla Mesopotamia, dall'Iran e dalle altre province. Senza questi tesori incalcolabili, estorti dal clero per conto dell'erario islamico, lo Stato arabo-musulmano non avrebbe potuto andare avanti. Perciò era nel suo interesse trattare bene questi popoli, scoraggiarne le conversioni, che avrebbero fatto diminuire i suoi introiti, e conciliarsene i capi lasciando loro le briciole e l'illusione del potere. Da un lato quindi la minoranza araba dominante dipendeva economicamente dalle maggioranze non musulmane, dall'altro però anch'esse erano dipendenti dallo Stato, che garantiva loro protezione militare e giuridica. Gestire un'immensa forza lavoro produttrice di ricchezze: fu questa la sfida politica dei primi califfi. Ma l'influsso dei nomadi all'interno dei territori conquistati e le scissioni interarabe provocarono conflitti di natura politica, economica e religiosa tra gli immigrati e i popoli indigeni. La definizione dello status di questi ultimi avvenne per l'appunto nel contesto di tali conflitti, e risentì dell'impatto culturale tra vincitori e vinti. Il contrasto tra la povertà di mezzi e di cultura dei nomadi, e le prodigiose ricchezze materiali e spirituali (arte, scienza, letteratura) di due civiltà tra le più prestigiose - quella ebraico-cristiana e quella persiana - fu compensato dal senso di superiorità razziale e di predilezione divina proprio della umma araba. Tuttavia lo scarto tra il dogma e la realtà quotidiana diede luogo a reazioni di ostilità e di disprezzo misto ad astio, che trovarono espressione in ben precise norme istituzionali. A questo punto si impone ima distinzione tra le pratiche predatorie dei nomadi, osteggiate dal governo musulmano, e la sistematica politica di oppressione attuata dallo Stato. Sotto gli omayyadi le aggressioni contro i non musulmani sembravano il risultato della caotica situazione seguita alla conquista, nonché dei problemi di coesistenza tra invasori e popoli indigeni, sebbene il tradizionale conflitto tra nomadi e sedentari si fosse già tra-

sformato in conflitto religioso. Giovanni di Nikiu, autore coevo alla conquista dell'Egitto, scrive che gli arabi definivano i cristiani «nemici di Dio» Questo perché ormai l'invasione dei nomadi islamizzati era inserita nell'ideologia religiosa della guerra santa, un dato che sfuggiva ai contemporanei. Perciò ebbe inizio la discriminazione religiosa, inaugurata da Omar I e proseguita da al-Walid e da Omar II. Ma fu l'epoca abbaside a sviluppare e a generalizzare la politica di umiliazione dei popoli indigeni non musulmani, integrandola nel sistema giuridico del dar al-islam. Parallelamente alla crescente ostilità nei confronti dei popoli indigeni da parte di una comunità islamica in continua espansione grazie al duplice apporto dell'immigrazione e degli schiavi liberati e convertiti (marnali), si sviluppavano i fondamenti politicoreligiosi e istituzionali della nascente civiltà musulmana. Insediatasi tra popoli dotati di un ricco patrimonio culturale, essa poteva sbocciare solo cancellando le civiltà che si accingeva a soppiantare. Meticolosa nei dettagli, accanita in ogni tempo, continua nella durata, questa distruzione fu il frutto del lavoro meditato e metodico di giuristi e teologi. Talora imposta alle autorità dalle pressioni popolari, talora decretata da califfi fanatici, la persecuzione delle religioni e delle culture indigene si manifestava in tutti gli aspetti della vita. Sul piano fiscale i dhimmi erano penalizzati dall'obbligo di pagare imposte esorbitanti. Su quello giuridico, la legislazione favoriva i diritti economici, religiosi e culturali della comunità immigrata a scapito di quelli dei popoli indigeni. La distruzione, generalizzata e a più riprese, delle chiese, dei monasteri e delle sinagoghe rendeva impossibile celebrare il culto ed equivaleva di fatto a proibirlo. Il saccheggio degli edifici sacri, la confisca dei beni religiosi di manomorta e il taglieggiamento dei leader delle comunità privavano i credenti dhimmi dei mezzi per mantenere il clero, le scuole e soprattutto le moltitudini di mendicanti e malati, i contadini e gli operai poveri e perseguitati dal fisco. Le ricchezze dei popoli conquistati, trasferite al Tesoro islamico, erano riservate esclusivamente alla umma, e destinate alla proliferazione di moschee e di scuole coraniche, alle dotazioni in denaro o in terreni (waqf) alle

moschee, al proselitismo, ai sussidi per i coloni musulmani delle zone di confine, all'edificazione di palazzi e lussuose dimore per l'elite islamica ecc. Oltre all'impoverimento delle comunità ecclesiastiche, anche i reiterati tentativi di esclusione dei non musulmani dagli organi di controllo dell'amministrazione e delle finanze spogliavano i popoli indigeni del loro potere economico e politico, e al tempo stesso li privavano dei loro mezzi di sostentamento. Sotto gli abbasidi il processo di umiliazione e denigrazione dei popoli indigeni, che procedette di pari passo con quello di glorificazione della umma, divenne sistematico, come se occorresse avvilire i popoli del Medio Oriente per compensare l'abisso culturale che li separava dai loro conquistatori arabo-islamici, i quali peraltro diventavano via via più raffinati man mano che si accostavano ai loro costumi e alla loro cultura. Quello della superiorità musulmana divenne un dogma tanto più imposto nelle leggi e nel quotidiano quanto più era crudelmente smentito dalla realtà. I non musulmani continuavano a fare gli amministratori, i segretari, i letterati, gli artigiani, i contadini negli stessi luoghi in cui ancora sopravvivevano le testimonianze del loro genio (urbanistica, monumenti, scultura, architettura), per non parlare di quelle delle arti minori (tessitura, lavorazione del vetro e dei metalli), di cui i musei conservano tuttora esemplari di ineguagliabile perizia e raffinatezza. Tutti i decreti intesi a umiliare i credenti cristiani ed ebrei dall'obbligo di abbassare le loro case alle discriminazioni in materia di abbigliamento e di cavalcature, finalizzate a esporli alla derisione, alla cacciata dai posti di prestigio accompagnata dalle conversioni forzate - contribuirono a instaurare una perfida e perniciosa persecuzione di Stato. Le fonti dhimmi citano ripetutamente le enormi sofferenze causate da queste umiliazioni, che provocavano sempre delle conversioni. Il periodo che va dall'VIII al XI secolo, pertanto, sembra essere caratterizzato da una svolta irreversibile nell'evoluzione dei popoli dhimmi. Dall'Egitto alla Mesopotamia, fu in quest'epoca che fecero la loro comparsa i «fuggitivi» e gli «esuli» citati dalle fonti cristiane ed ebraiche. Le popolazioni, braccate dal fisco, la-

sciavano i loro paesi d'origine e fuggivano dalla schiavitù conseguente alle razzie. La struttura di questa società rurale si disgregò, le terre un tempo irrigate, coltivate a cereali o ad alberi, furono abbandonate ai nomadi, liberi di percorrerle in lungo e in largo con le loro greggi. Questo sradicamento favorì il brigantaggio, messo in atto da bande di predoni che infestavano le strade. Intanto l'avidità dello Stato, l'accaparramento di terre da parte di governatori semi-indipendenti provenienti dalla casta militare e le croniche insurrezioni delle milizie di schiavi minavano alla radice le fonti di introiti del Tesoro: i contributi fiscali di un'abbondante manodopera dhimmì inserita nel suo ambiente geografico. Questa massa tiranneggiata si riversò nelle città già colme di schiavi deportati dai fronti di guerra o inviati dall'Africa, dall'Europa e dall'Asia. Nelle capitali, l'insubordinazione dei contingenti di schiavi diede luogo a ricorrenti sommosse, accompagnate da saccheggi e massacri % . L'effetto combinato di questi diversi fattori intaccò gli equilibri demografici dei popoli dhimmì, e alla loro progressiva scomparsa si accompagnò il processo di degrado di quei luoghi di antica civiltà. Anche se un banchiere, un mercante o un medico dhimmì potevano ancora acquistare ricchezza e prestigio all'ombra di imo schiavo influente a corte, si trattava pur sempre di apparenze, che non bastavano a scalfire la realtà. Prima che scoppiasse la prima Crociata (1096), il destino dei popoli indigeni cristiani ed ebrei, pur con modalità diverse in ognuno dei paesi di quel vasto territorio che andava dall'Armenia al Maghreb, era già inesorabilmente avviato verso la dhimmitudine. I nestoriani poterono ancora brillare di un effimero splendore sotto i mongoli pagani, ma esso venne meno quando questi si islamizzarono, e le persecuzioni dei mamelucchi e del popolino diedero il colpo di grazia anche ai copti, che fino ad allora avevano conservato con coraggio effettivi di tutto rispetto. Questi tre secoli, che furono quelli dell'islam classico e che videro sorgere i suoi fasti e il suo splendore, furono simultaneamente, e forse ineluttabilmente, quelli del declino e della decadenza delle culture indigene non musulmane.

Vedi Fred McGraw Donner, The Early Islamic Conquest, Princeton University Press, Princeton 1981 [ACLS (American Council of Learned Societies) History E-Book Project, New York 2005], capp. 5 e 6; Dominique Sourdel, Janine Thomine-Sourdel, La civilisation de l'islam classique, Arthaud, Paris 1983 1 (1993), cap. 7; Xavier de Planhol, Les fondements géographiques de l'histoire de l'islam, Flammarion, Paris 1968; Hugh Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates, Longman, London-New York 1986 1 (2004 2 ), pp. 285-287 e cap. 11. 1

Cfr. cap. 2, par. «La nascita e il consolidamento dello Stato musulmano» [N.d.T.]. 'Donner, The Early Islamic Conquest cit., pp. 227 e 231. 4 Anna Comnena in Louis Cousin (a cura di), Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin, jusqu'à la fin de l'empire, traduite sur les originaux grecs par Mr Cousin, 8 voli., Foucault, Paris 1672-1674, vol. 3, p. 457; Osman Turan, L'islamisation dans la Turquie du Moyen Âge, «SI», n. 10,1959, pp. 137-152. 2

Niceta Coniata in ivi, vol. 5, p. 174. Xavier de Planhol, De la plaine pamphylienne aux lacs pisidiens. Nomadisme et vie paysanne, Librairie Adrien Maisonneuve, Paris 1958.

5

'Nehemia Levtzion (a cura di), Conversion to Islam, Holmes & Meier, New York 1979; Id., Conversion to Islam in Syria and Palestine, and the Survival of Christian Communities, in Michael Gervers, Ramzi Jibran Bikhazi (a cura di), Conversion and Continuity: Indigenous Christian Communities in Islamic Lands, Eighth to Eighteenth Century, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1990, p. 294; Richard W. Bulliet, Conversion to Islam in the Medieval Period: An Essay in Quantitative History, Harvard University Press, Cambridge (USA)-London 1979. Jean-Baptiste Chabot (a cura di), Chronique de Denys de Tell Mahré, quatrième partie, Bibliothèque de l'École des Hautes Études, Bouillon, Paris 1895, p. 34. 7

II Mogkh è un'antica provincia armena, oggi inclusa nel distretto di Van (Turchia) con il nome di Bahçesaray. L'Arzanene (antico nome persiano dell'Aghdznik o Altzniq) è anch'esso una regione storica dell'Armenia, situata oggi nella parte nord-orientale della Turchia, sul corso superiore del Tigri e a sud-est del Lago Van [N.d.T.]. 8

'Chabot, Chronique de Denys de Teli Mahré cit., p. 46. L'Armenia conobbe all'epoca un regime di terrore che provocò numerose sollevazioni. Il cronista descrive qui i disordini che afflissero la provincia dell'Arzanene, dominata dalla porzione meridionale dei monti del Tauro e popolata da armeni.

10Mamikonian o Mamikonean è il nome di una nobile famiglia che dominò la scena politica armena tra IV e Vili secolo, nota tra l'altro per aver guidato una rivolta contro il califfato arabo tra il 774 e il 775. Con il fallimento della rivolta, la sua supremazia in Armenia finì. Lo storico citato dall'autrice, Johannes Bar Dadai, è forse da identificare con uno dei membri di questa famiglia, (Pseudo)-Yohannes Mamikonean, a cui viene attribuita la Storia di Taron, cronaca romanzata della storia armena che l'autore sostiene di aver composto nel 680-681, ma che in realtà appare successiva all'Vin secolo [N.d.T.]

Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 47. La cronaca accenna confusamente ai dissensi tra i clan armeni: i Bagratuni, che militavano con gli omayyadi, e i Mamikonian, favorevoli agli abbasidi. Altri armeni si schierarono con i bizantini, i quali, all'epoca di Costantino V, invasero la Sofene fino a Erzerum (l'antica Theodosiopolis) nel 751. 11

Ivi, p. 49. "Ivi, p. 56. "Ivi, p. 49. 12

Per questo periodo vedi Joseph-François Laurent, L'Arménie entre Byzance et l'islam depuis la conquête arabe jusqu'en 886, De Boccard, Paris 1919 (nuova edizione riveduta e aggiornata da M. Canard, Librairie BertrandFondation Calouste Gulbenkian, Lisbona-Paris 1980). Dopo la disfatta di Bagravan, l'Armenia subì sanguinose rappresaglie. 15

"Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924 1 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 3, p. 60. 17 Sawirus [Severus] ibn al-Muqaffa', History ofthe Patriarchs ofthe Egyptian Church, 3 voli., Publications de la Société d'Archéologie Copte, Il Cairo 1943-1970, voi. 2, p. 45. "Ivi, pp. 45-46. "Ivi, pp. 52-56. Ivi, p. 56. Ivi, p. 57. 22 Ivi. 20 21

Ivi, p. 59. 1 ghilmdn (sing. ghulSm) erano schiavi-soldati per lo più di origine turca, arruolati in veste di cavalieri nelle truppe dell'Impero ottomano. A partire dalla caduta del califfato abbaside, essi erano raggruppati in interi eserciti. Sembra fossero tenuti al celibato, il che spiega perché, pur ottenendo spesso posizioni di potere, in genere non fondarono dinastie né proclamarono la loro indipendenza [N.d.T.].

23 24

Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., p. 293. Vedi al-Balâdhurî (morto nell'892), The Origins of the Islamic State (Kitab futah al-buldSn), trad, di Philip Khuri Hitti, 2 voli., Murgotten, New York 1916-1924' [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2007], p. 326; Daniel Pipes, Slaves Soldiers and Islam: The Genesis of a Military System, Yale University Press, New Haven-London 1981, pp. 142-143, e capp. 5 e 6. 25 26

Altre fonti parlano di oltre 300.000 prigionieri; vedi Pipes, Slaves Soldiers and Islam cit., p. 124. 27

En-Noweiri [Al-NuwayrT] in 'Abd al-Rahmân ibn Muhammad ibn Khaldun, Histoire des Berbères et des dynasties musulmanes de l'Afrique septentrionale, trad, di William MacGuckin de Slane, 4 voli., Geuthner, Paris 1968 2 (ripr. anast. dell'ed. Algeri 1852-1856), vol. 1, p. 359, appendice. 28

Abu Ja'far Muhammad ibn Jarir al-Tabarî in Aleksandr A. Vasil'ev, Byzance et les arabes, 3 voli., Institut de Philologie et d'Histoire Orientales, poi Fondation Byzantine, Bruxelles 1950, vol. 1, La dynastie d'Amorium (820867), p. 308, e Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 100. 29

Abu al-Hasan 'All 'Izz al-Drn ibn al-Athïr in Vasil'ev, Byzance et les arabes cit., vol. 2, p. 148.

30

Ivi, pp. 152-153. Matteo di Edessa, Tavole cronologiche, in Marius Canard, L'expansion arabo-islamique et ses répercussions, Variorum Reprints, London 1974, vol. 6, p. 255; Osman Turan, Les souverains seldjoukides et leurs sujets non-musulmans, «SI», n. 1 (1953), pp. 65-100.

31 32

Ahmad ibn 'Alï Taql al-Dïn al-Maqrîzï (morto nel 1442), Histoire des sultans mamlouks de l'Égypte, trad, di Étienne Marc Quatremère, 2 voli, in 4 parti, Oriental Translation Fund of Great Britain & Ireland, Paris 18371845, vol. 1 , 4 a parte, p. 34; vedi Bar Hebraeus [Abu al-Faraj ibn Hariin alMalatï], The Chronography of Gregory Abu'l Faraj, the Son of Aaron, the Hebrew Physician Commonly Known as Bar Hebraeus, trad. Ernest Alfred Wallis Budge, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1932, vol. 1, p. 446 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2003, on line http://rbedrosian.com/ BH/bh.html, N.d.T.]. 33

Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 448. Ivi, p. 453. 36 Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 342-343. 37 Ivi, p. 263. 34

35

Pipes, Slaves Soldiers and Islam cit., p. 147. Jean-Baptiste Tavemier, Les six voyages en Turquie et en Perse de Jean-Baptiste Tavernier [1631-1668], 6 voli., nuova edizione riveduta e corretta, P. Ri38

39

bou, Rouen 1712-1713 [ 1 6 7 6 o n line al link http://gallica.bnf.fr/ark:/ 12148/bpt6k853250.pdf; Maspero, Paris 1981], vol. 1, p. 36; sulle persecuzioni contro gli armeni, deportati in Persia dallo shah 'Abbas I, vedi Arakel di Tabriz, Livre d'histoires in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Collection d'historiens arméniens: dix ouvrages sur l'histoire de l'Arménie et des pays adjacents du Xeme au XIX*™ siècle, 2 voli., Saint Petersbourg 1874-1876 1 (Apa, Amsterdam 1979 2 ) vol. 1, pp. 340-351. Sotto lo shah 'Abbâs II: «Alcuni figli di cristiani che piacevano ai persiani, maschi, femmine, ragazze fidanzate, venivano rapiti con la forza, condotti al palazzo del re, collocati tra i suoi schiavi, senza mai essere restituiti ai maîtres [genitori], e convertiti dal cristianesimo alla religione musulmana. Ciò avveniva in primo luogo per effetto delle loro infami abitudini; poi per aumentare il numero degli schiavi di razza persiana; infine, dopo qualche tempo, le case d'abitazione, i beni e i patrimoni dei genitori, lasciati dai bambini cristiani rapiti, venivano presi, saccheggiati, rubati» (Ivi, p. 303). "Tavernier, Les six voyages en Turquie et en Perse cit., vol. 1, pp. 268-269. 41 Ivi, p. 294; Eliezer Bashan, Captivity and Ransom in Mediterranean Jewish Society (1391-1830) (testo in lingua ebraica), Bar Ilan University, RamatGan (Tel Aviv) 1980. Avedis Perperean, Patmut'iwn Hayoc (Storia degli armeni 1772-1860) (in armeno), Costantinopoli 1871, pp. 260-261. 42

Haim Nahum (a cura di), Recueils de firmans impériaux ottomans adressés aux Valis et aux Khédives d'Égypte (1597-1904), Institut Français d'Archéologie Orientale, Il Cairo 1944, p. 131. 43

Paul Wittek, Devshirme and Sharï'a, «BSOAS», n. 17, 1955, pp. 271-278; Apostolos Euangelou Vakalopoulos, The Greek Nation, 1453-1669: The Cultural and Economic Background of Modem Greek Society, Rutgers University Press, New Brunswick (USA) 1976 (ed. orig. Tourkokratia 1453-1669: Hoi historikes baseis tes neoellenikes koinonias kai oikonomias, in Historia tou neou Hellenismou, 6 voli., Thessaloniki 1961-1982), vol. 2, pp. 31-44; Id., History of Macedonia 1354-1833, Institute for Balkan Studies, Thessaloniki 1973 (ed. orig. Historias tes Makedonias: 1354-1833, E. Sfakianake, Thessaloniki 1969), p. 72 [on line http://www.promacedonia.org/en/av/index.html N.d.T.]. 44

Michele Ducas, Histoire des empereurs Jean, Manuel, Jean et Constantin Paléologues in Cousin, Histoire de Constantinople cit., vol. 8, p. 337. Vedi anche Nahum Weissman, Les janissaires. Étude de l'organisation militaire des Ottomans, tesi di dottorato, Paris 1938; Dimitur Angelov, Les Balkans au Moyen Âge: la Bulgarie des Bogomils aux Turcs, Variorum Reprints, London 1978; Pipes, Slaves Soldiers and Islam cit. 45

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., voi. 3, p. 21. Per l'instabilità politica vedi Sourdel, La civilisation de l'islam classique cit., capp. 2 e 3, e Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., passim.

46

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., voi. 3, p. 22. Ivi, p. 23. Quelli citati sono nomi di tribù originarie dell'Arabia. 49Ivi, p. 52. 47

48

"Ivi. 51 Ivi, p. 53. 52 Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 181. 53 Ivi, p. 210; per un quadro generale dell'invasione dei nomadi e delle loro predazioni in Siria, Palestina, Mesopotamia e Iraq dal IX all'XI secolo vedi Kennedy, The Prophet and the Age of the Caliphates cit., cap. 11, «The Bedouin Dynasties», e inoltre pp. 297 e 307-308; Levtzion, Conversion to Islam in Syria and Palestine cit.; Eliyahu Ashtor, A Social and Economic History of the Near East in the Middle Ages, Collins, London 1976 (ed. it. Storia economica e sociale del Medio Oriente nel Medioevo, trad, di Sergio Antonucci, Einaudi, Torino 1982), cap. 2; Kamal S. Salibi, Syria under Islam: Empire on Trial (634-1097), Caravan Books, Beirut-New York 1977. Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 267. Ivi, passim; per l'Anatolia vedi Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986), p. 183, e Turan, Les souverains seldjoukides et leurs sujets non-musulmans cit. 54

55

56

Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 338.

Ivi, p. 266. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 289. 59 Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 325. "'Ivi, p. 441. 57 58

"Ivi, p. 450. 62 Ivi, p. 476. 63 II continuatore di Bar Hebraeus, Ivi, p. 483. M Per i ghazi, avventurieri avidi di bottino che affluivano ai confini turchi dell'Anatolia dall'hinterland musulmano per arruolarsi nella guerra santa, e le cui bande devastarono l'Armenia, la Mesopotamia e l'Anatolia preparando la conquista di quei territori da parte di varie tribù turche, cfr. cap. 2, par. «La seconda ondata d'islamizzazione» [N.d.T\. 65 Halil Inalcik, The Emergence of the Ottomans, in Peter M. Holt, Ann Katharine S. Lambton, Bernard Lewis (a cura di), The Cambridge History of Islam,

2 voli, in 4 parti, Cambridge University Press, Cambridge 1977, vol. 1, pp. 263-268. 66 Ivi, p. 269. 67 Ivi, p. 268; Vakalopoulos, History of Macedonia 1354-1833 cit., p. 106. 68 Inalcik, The Emergence of the Ottomans cit., p. 283. m Inalcik, The Heyday and the Decline of the Ottoman Empire, in Holt, Lambton, Lewis, The Cambridge History of Islam cit., vol. 1, p. 343. La corte e il governo dell'Impero ottomano, e per estensione l'Impero stesso [N.d.T.]. 71 Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., vol. 1, pp. 307-309. 71 Ivi, p. 309. 70

" I n età medievale e moderna il termine waqf(«beni di manomorta») designa un regime giuridico ed economico tipico del mondo islamico e riguardante i beni, specie immobili, appartenenti a istituzioni religiose e a enti morali e pertanto considerati inalienabili e non assoggettabili alle tasse di successione [N.d.T.]. L'estorsione fiscale e i taglieggiamenti sono motivi ricorrenti in tutte le cronache dhimmi. La situazione vigente prima dell'epoca delle riforme (tanzlmat) è descritta dal turcofilo Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc. de l'empire ottoman, 2 voli., Librairie Militaire de J. Dumaine, Paris 185354 (ed. it. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'Impero ottomano, 2 voli., Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853), voi. 2, pp. 272-363, nota 1. Nelle province armene la situazione non subì sostanziali modifiche fino alla prima guerra mondiale. 74

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 477. El-Bokhâri [al-Bukhâri] (morto nell'869), Les traditions islamiques (alSahîh), trad. di Octave Houdas e William Marçais, 4 voli., Leroux, Paris 1903-1914, tìtolo 58, cap. 17, «La capitation», p. 3.

75 76

Ivi. Ivi, cap. 3. 791 patriarchi copti e giacobiti alludono spesso alla benevolenza incontrata presso alcuni califfi e governatori. Per le misure di protezione nei confronti dei raya contenute nella legislazione ottomana vedi Halil Inalcik, The Ottoman Empire: Conquest, Organization and Economy, Variorum Reprints, London 1978 (Phoenix, London 2000), voi. 7, pp. 134-135. Alcuni firmarli di Murâd III (aprile 1584, novembre 1585, dicembre 1587) proibivano ai musulmani di devastare le pietre tombali del cimitero ebraico (si77 78

tuato nel Corno d'Oro, a Costantinopoli) e ingiungevano loro di porre fine alle vessazioni e ai tentativi di scacciarne gli ebrei: Abraham Galanté, Documents officiels turcs concernant les juifs de Turquie, trad. fr., Haim, Rozio & Co., Istanbul 1931, pp. 62-66; sempre Galanté (Ivi, pp. 191-192) menziona il divieto per i pirati di saccheggiare e ridurre in schiavitù gli abitanti dhimmt di Naxos (Sellm II, marzo 1568), e per i soldati e i musulmani di molestarli. A proposito della gratitudine degli ebrei nei confronti del sultano, vedi Aryeh Shmuelevitz, The Jews of the Ottoman Empire in the Late Fifteenth and the Sixteenth Centuries: Administrative, Economie, Legai and Social Relations as Reflected in the Responso, Brill, Leyden 1984, pp. 33-34. In Arakel di Tabriz si leggeranno con interesse le pagine relative alle relazioni amichevoli intrattenute con gli armeni dagli shah 'Abbâs I e 'Abbâs II. Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 474. Paul Wittek, Deux chapitres de l'histoire des Turcs de Roum (1936), in VictorLouis Ménage (a cura di), La formation de l'Empire ottoman, Variorum Reprints, London 1982 (ed. orig. The Rise of the Ottoman Empire, The Royal Asiatic Society, London 1938), pp. 285-319. 80 81

Antun Dabinovic, Les pactes d'assistance entre les gouverneurs ottomans et les grands seigneurs de Bosnie et de Croatie depuis le XVe au XVIIe siècle, «Turk Tarih Kongressi V», III seksiyon, Ankara 1960, pp. 478-673; Jovan Cvijié, La Péninsule Balkanique. Géographie humaine, Armand Colin, Paris 1918, pp. 344-355 (ed. it. La Penisola Balcanica. Geografia umana, a cura di Marianna Rovere, trad. di Maria Cian, on line http://www.units.it/~labgeo/labgeo/balkan.rtf). Per la decisione di una parte della popolazione ortodossa e del clero di schierarsi con i turchi all'epoca della conquista di Cipro vedi Inalcik, The Ottoman Empire cit., cap. 8, pp. 5-23. 82

Al-Ya'qûbl in Vasil'ev, Byzance et les arabes cit., vol. 1, La dynastie d'Amorium (820-867), p. 274.

83

Régis Blachère, Regards sur /'«acculturation» des Arabo-Musulmans jusque vers 40/661, «Arabica», n. 3, 1956, p. 259; Ashtor, A Social and Economie History of the Near East in the Middle Ages cit., pp. 15-22. 84

Hadi Roger Idris, Les tributaires en Occident musulman médiéval d'après le Mi'yàr d'Al-Wansarisi, in Pierre Salmon (a cura di), Mélanges d'islamologie, volume dédié à la mémoire de Armand Abel, Brill, Leyden 1974, p. 194. Quando lo shah 'Abbâs I deportò gli armeni: «Gli operai tagliatori di pietra furono tenuti da parte, condotti e insediati a Isfahan, perché la loro attività era necessaria in quel luogo per la costruzione delle case, sia del re che del popolo persiano» (cfr. Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., p. 488). 85

86

Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 264; per il sistematico ri-

petersi delle deportazioni, si vedano le cronache e i saggi storici sull'Anatolia: in particolare Vryonis Jr., The Decline cit., p. 169, «Displacement of Population», e, infra, «Nomadization»; Turan, L'islamisation dans la Turquie du Moyen Âge cit. All'epoca della fondazione di Qayrawân il governatore dell'Egitto ricevette l'ordine di trasferire un migliaio di famiglie copte o ebraiche per sviluppare l'economia della città, cfr. Shlomo Dov Goitein, Changes in the Middle East (950-1159) as Illustrated by the Documents of the Cairo Geniza, in Donald Sidney Richards (a cura di), Islamic Civilization, 950-1150: A Colloquium Published under the Auspices of the Near Eastem History Group, Papers on Islamic History III, Cassirer, Oxford 1973. Questi trasferimenti, determinati da cause economiche, interessavano intere popolazioni dhimml e non erano riservati esclusivamente ai popoli da poco sottomessi o ridotti in schiavitù. Alcune cronache forniscono indicazioni su questi spostamenti. Le partenze dovevano essere effettuate il giorno stesso, o con margini di rinvio assai brevi, di due o tre giorni, mettendo i deportati nell'impossibilità di vendere i loro beni. Per scoraggiare le fughe essi venivano contati e strettamente sorvegliati, ed era loro proibito spostarsi dai loro nuovi luoghi di residenza, in genere assai distanti da quelli di origine. Quando veniva deportata la popolazione di un intero villaggio, le abitazioni venivano incendiate e il villaggio integralmente distrutto. In tal modo venivano annientati gli archivi della comunità, le biblioteche e il ricordo stesso dei deportati. Bar Hebraeus, The Chronography cit., vol. 1, p. 296. ""Inalcik, The Emergence ofthe Ottomans cit., p. 288. 87

Angelov, Les Balkans au Moyen Âge cit., pp. 249 e 256. Evliya Efendi, Narrative of Travels in Europe, Asia, and Africa in the Seventeenth Century, trad. di Joseph von Hammer, 2 voli., Oriental Translation Fund of Great Britain and Ireland, London 1846-1850 (Johnson Reprint, New York 1968), vol. 1, parte l a , p. 28.

89

90

Angelov, Les Balkans au Moyen Âge cit., p. 262. Inalcik, The Emergence of the Ottomans cit., p. 288. 93 Cvijié, La Péninsule Balkanique. Géographie humaine cit., pp. 353-387. 91

92

È il saggio di Costas P. Kyrris, L'importance sociale de la conversion à l'islam (volontaire ou non) d'une section des classes dirigeantes de Chypre pendant les premiers siècles de l'occupation turque (1570-fin du XVIle siècle), in Actes du premier Congrès International des Études Balkaniques et Sud-Est Européennes, Sofia 26 août-1 septembre 1966, III, Éditions de l'Académie Bulgare des Sciences, Sofia 1969, pp. 437-462. 94

95

Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou, trad. di Her-

mann Zotenberg, Imprimerie Nationale, Paris 1879, p. 234, Demetrios J. Constantelos, The Moslem Conquest of the Near East as Revealed in the Greek Sources of the Seventh and the Eighth Centuries, «Byzantion», n. 42,1972, pp. 329-330; Jean Meyendorff, Byzantine Views of Islam, «DOP», n. 18,1964, pp. 113-132. "Simha Sabari, Mouvements populaires à Bagdad à l'époque abbasside, IXe-XIe siècle, Maisonneuve, Paris 1981. Per tale periodo vedi Richards, Islamic Civilization cit.

H o Q

iV f t II

Capitolo 5 Relazioni tra le comunità «dhimmi»

È innegabile che le relazioni tra i numerosi popoli dhimmi orientali, e più tardi europei, formino una delle trame storiche più complesse. È praticamente impossibile esaminare tutti gli aspetti di queste interazioni, che abbracciano ben tre continenti e tredici secoli: interazioni inestricabilmente intrecciate con il flusso storico, gli elementi congiunturali e le strutture fisse. Tutt'al più è possibile richiamarne alcune caratteristiche, che, attestate già prima della conquista islamica, si perpetuarono in seguito nella dhimmitudine. Su questa sfera di rapporti endogeni ai popoli dhimmi si innestarono poi fattori di evoluzione e trasformazione esogeni, quali le interferenze dei conquistatori islamici o delle potenze europee.

Fattori di interazione endogeni I numerosi e diversi popoli che, dal I al VII secolo, diedero vita al vasto Impero Romano d'Oriente, costituivano un conglomerato di etnie gelose delle loro rispettive culture e dei loro privilegi religiosi, economici e politici. Sanguinosi conflitti etnoreligiosi o di ordine economico e politico opponevano tra loro questi popoli indigeni - egiziani, giudei (ebrei), samaritani, persiani e armeni - , mentre i particolarismi nazionali li portavano a schierarsi contro gli allogeni (greci e romani), legati all'apparato militare delle metropoli imperiali.

A partire dal 337, la cristianizzazione dell'Impero Romano acuì gli irredentismi nazionali, che degenerarono in altrettante forme di fanatismo religioso. Le controversie dogmatiche furono accompagnate da persecuzioni e da guerre civili. Anche se le dispute vertevano per lo più sulla definizione della natura di Cristo, oppure sulla gerarchia dei patriarcati e i limiti delle loro diocesi, o ancora sui riti e le formule liturgiche, la vera posta in gioco era di natura politica ed economica. Eredi degli immensi patrimoni della classe sacerdotale pagana ormai scomparsa, i patriarcati d'Oriente si sforzavano di sottrarre all'ingerenza di Costantinopoli le loro considerevoli ricchezze e il controllo delle chiese e dei monasteri, e di mantenere la loro indipendenza nella nomina dei vescovi e nelle loro specifiche aree di influenza. La prodigiosa crescita del monachesimo cui si assistette a partire dal IV secolo, legata all'enorme aumento dei beni delle Chiese, assicurava a ogni vescovo schiere di monaci ignoranti, che trascinavano il popolino in sanguinose rivolte contro le fazioni cristiane rivali. La conversione forzata del mondo pagano antico come degli ebrei aveva infatti suscitato una fioritura di eresie e scismi che degeneravano in lotte fratricide. Le resistenze nazionali degli egiziani, dei siriaci e degli armeni contro Costantinopoli trovarono espressione nel rifiuto della sua gerarchia religiosa e del dogma sancito dal Concilio di Calcedonia (451). Quest'ultimo aveva adottato, riguardo alla natura di Gesù, la dottrina di papa Leone, secondo cui in Cristo vi è ima sola Persona dotata di due nature inseparabili. Approvata dall'imperatore, essa divenne «ortodossa» e obbligatoria in tutti i suoi domini, e i suoi seguaci si autodefinirono greco-ortodossi, melchiti o calcedoniani. La politica di unità religiosa perseguita dagli imperatori bizantini e dall'episcopato greco diede luogo a persecuzioni e torture contro gli anticalcedoniani, cioè i cristiani monofisiti copti (egiziani), giacobiti (siriaci) e armeni, e contro i nestoriani (Mesopotamia), tacciati come eretici a partire dal 431 L'ascendente acquisito dal clero greco sull'imperatore introdusse la persecuzione tra le pratiche governative e amministrative: i Codici teodosiano (438) e giustinianeo (534), più una serie di

leggi conciliari, diedero vita a una giurisdizione coerente e strutturata, che legittimò in tutto l'Impero bizantino la persecuzione dei pagani, dei cristiani scismatici e degli ebrei. Tali norme vennero insegnate e commentate all'interno delle accademie, dei monasteri e delle scuole patrocinate da Giustiniano e disseminate in tutto l'Impero. Sotto gli imperatori che succedettero a Giustiniano, le persecuzioni contro i monofisiti si intensificarono, e in alcuni periodi essi furono torturati, espulsi, massacrati o addirittura crocifissi, mentre i calcedoniani si appropriavano delle loro chiese, dei loro monasteri, delle loro diocesi. Nella Persia sasanide la situazione era capovolta: le autorità favorivano i nestoriani e i monofisiti, entrambi nemici dei calcedoniani ma non meno divisi tra loro. Le guerre tra i due Imperi sfociavano in vendette e in persecuzioni religiose i cui obiettivi mutavano a seconda che a prevalere fosse l'uno o l'altro schieramento, con i monofisiti e i nestoriani che approfittavano dei successi persiani per cacciare dalle loro sedi i vescovi calcedoniani e viceversa. Esasperati dall'intolleranza del clero bizantino, monofisiti, nestoriani, ebrei e samaritani favorivano le vittorie persiane per sbarazzarsi dei greci. Le guerre civili tra cristiani ortodossi e monofisiti non impedivano loro, all'occorrenza, di unirsi per perseguitare gli ebrei o scacciarli dalle città. I loro beni venivano confiscati, le sinagoghe incendiate o convertite in chiese in Egitto, Palestina, Siria, Mesopotamia e Nord Africa. L'ambizione del cristianesimo di soppiantare l'ebraismo acuì, soprattutto in Palestina, le persecuzioni contro gli ebrei. Melchiti o giacobiti che fossero, alcuni vescovi ben più simili a predoni che a prelati guidavano i loro monaci fanatici all'assalto delle sinagoghe palestinesi. Nel VII secolo gli editti che sancivano la conversione forzata e in massa degli ebrei, o la loro espulsione e la confisca dei beni, si moltiplicarono in tutto il mondo cristiano: dalla Spagna visigota governata dal re Sisebut (612-620) all'Impero bizantino, dove Eraclio, cedendo alle pressioni del vescovo melchita e di quello giacobita di Gerusalemme, aveva imposto agli ebrei di farsi battezzare (632 o 634). Nel 633 il Concilio di Toledo confermò le leggi

antiebraiche volute da Bisanzio, e nel 681 gli ebrei furono di nuovo costretti ad accettare il battesimo sotto la minaccia della morte e delle torture. Il XVII Concilio di Toledo (694) decretò la riduzione in schiavitù degli ebrei convertiti al cristianesimo, il prelevamento dei loro figli dai sette anni in su e l'appropriazione di tutti i loro beni da parte del fisco. Il termine «ebreo», che nel lessico del tempo era divenuto un comune insulto e un sinonimo di «perverso», veniva attribuito a cristiani e musulmani particolarmente malvagi. Pseudo-Dionigi qualificava come «ebreo» un governatore decisamente tirannico e Michele il Siro appioppava tale epiteto a un vescovo calcedoniano da lui detestato. Fu in questo clima di guerre civili e fanatismo che si scatenò l'offensiva arabo-islamica. In Egitto il greco Ciro, che riuniva in sé le cariche di patriarca melchita e di governatore, aveva instaurato da dieci anni un regime di terrore contro i copti: ricorrendo alle torture, alle confische di chiese e alle persecuzioni, egli si sforzava di portare il clero monofisita d'Egitto sotto il controllo e l'autorità del patriarcato di Costantinopoli. In tale contesto, le delazioni e i tradimenti finalizzati a sbarazzarsi dell'oppressione bizantina favorirono gli invasori arabi. Le prime a tradire furono le tribù arabe cristianizzate, ossia i ghassanidi, monofisiti, e i lakhmidi, nestoriani, i quali si schierarono con gli islamici fin dall'inizio della conquista. Nella battaglia dello Yarmuk (636), gli armeni arruolati nelle truppe bizantine si ribellarono e i cristiani ghassanidi passarono dalla parte dei musulmani. Damasco fu consegnata alle armate di Khalid ibn Walld (635) dal tradimento del melchita Mansur ibn Sarjun, nonno di san Giovanni Damasceno. In Egitto, Ciro cedette a 'Amr senza combattere la fortezza di Babilonia (Cairo Vecchia) e Alessandria. Giovanni di Nikiu cita diversi cristiani melchiti e monofisiti che scelsero l'apostasia e aiutarono gli invasori. Gli armeni, il cui territorio fu tanto spesso devastato ora dai bizantini ora dagli arabi, passavano spesso al miglior offerente. In Spagna, oltre che del presunto aiuto degli ebrei, i musulmani si avvalsero della collaborazione del conte Giuliano - a quanto pare un esarca bizantino che li guidò e fornì

loro le sue navi - e della delazione di Oppas, arcivescovo di Siviglia e parente dell'ex re Witiza. L'isola di Cos fu consegnata agli arabi dal suo vescovo e la Sicilia venne conquistata grazie al tradimento dell'ammiraglio greco Eufemio. Questi esempi, sebbene tutt'altro che esaustivi, illustrano tuttavia la situazione. Dopo la sconfitta delle armate sasanidi e l'ingloriosa disfatta dei bizantini, in Oriente gli alti funzionari cristiani perseguirono sistematicamente i loro interessi personali. Desiderosi di risparmiare le razzie alle popolazioni civili, in particolare a quelle dei villaggi, trattarono con i nomadi. Dopo la vittoria araba, i prelati calcedoniani furono espulsi dall'Oriente e il clero monofisita potè recuperare le sue chiese, i suoi conventi e le sue diocesi. I secolari conflitti arabo-bizantini accentuarono la separazione tra i monofisiti, che ormai vivevano nell'Impero musulmano, e il patriarcato di Costantinopoli. Evidentemente l'autorità islamica non vedeva di buon occhio l'unificazione delle Chiese, che avrebbe posto la maggioranza dei suoi sudditi sotto la leadership spirituale di Costantinopoli. La nomina dei patriarchi monofisiti più intransigenti verso Bisanzio otteneva l'approvazione dei califfi; perciò non bisogna stupirsi dei commenti favorevoli al governo islamico, ad esempio, di Michele il Siro, le cui opere esprimono peraltro una virulenta animosità nei confronti dei calcedoniani. Questi commenti, di fatto limitati a due in tutta la voluminosa Cronaca del patriarca giacobita di Antiochia, sono stati riproposti fino alla noia, mentre sono state censurate le innumerevoli lamentele strappate al patriarca dalla persecuzione contro il suo gregge nell'Impero arabo-musulmano. Sotto la dominazione araba, i conflitti intercristiani si trasformarono in guerre tra patriarcati, finalizzate a conservare o sottrarre al clan nemico chiese, monasteri, reliquie. La crisi iconoclasta, che dal 726 all'843 oppose gli iconoduli (fautori dell'adorazione delle immagini e della loro fabbricazione) agli iconoclasti, i quali, attraverso la riforma del culto, desideravano abolire le superstizioni e restringere il potere del clero, divampò a Costantinopoli ma si ripercosse anche in terra d'islam. Gli antagonismi si inasprirono a tal punto che il patriarcato bizantino si sforzò di

convertire al dogma calcedoniano con le persecuzioni i monofisti delle province asiatiche riconquistate da Bisanzio. In alcune regioni, specialmente in Egitto, la potenza delle Chiese d'Oriente, e quindi la loro combattività, era considerevolmente diminuita a partire dal IX secolo. Il progressivo impoverimento del clero, le confische e le distruzioni delle chiese, i ripetuti saccheggi e taglieggiamenti a danno dei monasteri, il declino o la scomparsa di interi villaggi avevano sottratto alla Chiesa la colossale potenza economica di un tempo, che le aveva permesso di seminare l'anarchia politica attraverso gli eccessi di fanatismo. Da allora, la dhimmitudine trasferì sul piano economico i conflitti politico-religiosi tra popoli sottomessi. Nel corso dei secoli le rivalità si giocarono nell'ambiente dei notabili, dei mercanti e dei banchieri che, grazie agli intrighi dell'harem - il favore di un eunuco greco, la complicità di ima concubina cristiana - o la corruzione di un funzionario islamico, riuscivano a proteggere le loro comunità. Ma questo effimero splendore, che a tratti rifulse qua e là nel tempo, si riduceva a un potere solo apparente, frutto del denaro e delle trame di popoli-fantasmi sottomessi a dinastie di schiavi stranieri, che governavano i territori in cui un tempo i loro antenati avevano creato le basi della civiltà. Se sul piano teologico i loro rapporti restavano ostili, sembra invece che, nei loro contatti quotidiani, le comunità dhimml d'Oriente avessero sviluppato una sorta di solidarietà e di compassione, generate dalla comune condizione di insicurezza e umiliazione. Cristiani ed ebrei subivano in egual misura i massacri, le deportazioni, i taglieggiamenti o le riduzioni in schiavitù durante le guerre, le insurrezioni o le razzie. La storia forgiò le regole di una coesistenza che sopravvisse fino ai tempi moderni all'interno di congregazioni racchiuse ognuna, oltre che entro le mura del proprio ghetto, in un millenario strato di pregiudizi. In un'area totalmente diversa, ossia in Anatolia e nell'Europa orientale, gli eventi stavano preparando il terreno per la dhimmitudine di altri popoli, anch'essi un tempo creatori di brillanti civiltà. Quando, verso l'XI secolo, la pressione demografica nell'Asia centrale spinse i turchi islamizzati in direzione dell'Armenia,

le guerre tra ortodossi greci e slavi stavano devastando la Penisola Balcanica. Mentre gli scismi indebolivano le Chiese slave bulgara e serba - che tentavano di affrancarsi dalla tutela romana o bizantina, nel 1054 si consumò la rottura tra la Chiesa latina di Roma e quella greca di Costantinopoli. La dominazione turco-islamica (XI-XVII secolo), che dall'Adriatico si estese fino alle rive del Mar Nero, stese un velo di oblio sugli interminabili conflitti religiosi ed etnici inscritti nella storia e nelle tradizioni dei popoli conquistati, decaduti al rango di millet2 o comunità etnico-religiose 3 . Lungi dallo scomparire, tali conflitti, di natura economica e politica oltre che religiosa, si esacerbarono sotto il dominio dei sultani ottomani, i quali, temendo l'unione dei popoli cristiani in funzione antiturca, sfruttarono abilmente i loro dissensi. L'islam si consolidò e si sviluppò negli immensi territori conquistati man mano che il cristianesimo, stremato dagli scismi, si indeboliva. Questi odi e rancori antichi, che avevano continuato a covare nei secoli della servitù, tornarono a divampare nel XIX e nel XX secolo, durante le guerre di liberazione dei popoli balcanici.

Fattori di interazione esogeni La dominazione e le ingerenze dello Stato islamico La dominazione islamica, che succedette alla teocrazia bizantina, fu esercitata su popoli già fortemente impregnati di intolleranza religiosa. Lo Stato bizantino aveva promulgato molte leggi discriminatorie negli ambiti amministrativo, politico, religioso ed economico. I funzionari responsabili della loro applicazione, dopo che si furono convertiti all'islam, le incorporarono nella legislazione araba: infatti la collaborazione con gli invasori aveva dato luogo a molteplici conversioni nelle classi dominanti greche. Queste leggi bizantine, ispirate a un dogma religioso, si integrarono nella legislazione islamica ma sulla base di principi teologici diversi. Ironia della storia: nei paesi passati sotto il suo dominio, l'islam trovò un potente alleato per distruggere il Cristiane-

simo nel sistema di oppressione ideato e perfezionato dalla Chiesa. Giunti all'apice del loro potere, e nello stesso momento in cui elaboravano la legislazione antiebraica, i Padri della Chiesa prepararono anche, quali strumenti inconsapevoli della storia, la distruzione sul nascere del cristianesimo orientale. E come la Chiesa aveva dimostrato la superiorità del suo dogma umiliando Israele, così l'islam, dal canto suo, dimostrò la propria superiorità gettando l'obbrobrio sulla Chiesa. Più le religioni nemiche venivano mortificate e più la religione dominante, esaltata dal potere temporale, appariva veritiera. Nelle due legislazioni esistevano misure analoghe riguardanti il possesso di schiavi, il proselitismo, la bestemmia, l'apostasia, gli edifici di culto, le conversioni, l'esclusione dalla funzione pubblica, il divieto dei matrimoni misti, la segregazione sociale, il rifiuto di accettare la testimonianza degli «infedeli» in sede giudiziaria. Queste leggi di origine bizantina, sebbene spesso infrante, disegnarono a poco a poco gli elementi generali della condizione dhimmT. I conquistatori arabi vi aggiunsero la jizya, vale a dire il «prezzo del sangue» da versare in cambio del diritto a vivere. In seguito, ulteriori misure mortificanti dotarono la persecuzione di una raffinatezza ben di rado raggiunta. Esse contenevano disposizioni sulla forma e il colore degli indumenti dei dhimmT, sui loro copricapi e le loro calzature. Specificavano quali animali potevano montare, con quali selle e in che modo, e ne disciplinavano i comportamenti per strada, le formule di saluto ecc. Tuttavia occorre sottolineare che la legislazione cristiana relativa agli ebrei e agli eretici, per quanto ispirata a criteri prevalentemente religiosi, prese forma e acquistò i suoi tratti definitivi all'interno del quadro giuridico-istituzionale del diritto romano-bizantino. Per contro lo statuto dei dhimmT, malgrado le apparenti somiglianze dovute al fatto che, pur con alcune varianti, ne incorporò le norme, si sviluppò in seno a una struttura concettuale totalmente diversa. Infatti l'islam inquadrò tutti questi aspetti giuridici in una concezione generale della guerra santa in base alla quale i diritti dei non musulmani erano subordinati a un rapporto di protezione e di clientela mutuato dalle pratiche dei no-

madi arabi. È negli hadith che si manifestano in modo particolare gli elementi tratti dal diritto bizantino: essi, una volta rielaborati e riplasmati in una nuova e coerente struttura religiosa e giuridica, contribuirono a definire la nozione connessa all'islam di dhimmitudine. Ma fu la connessione tra i popoli dhimmT e le guerre di conquista a determinare le modalità della loro storia e il loro peculiare destino. Ogni paragone tra cristianesimo e islam che si limiti alle analogie su questioni di dettaglio e non tenga conto delle differenze essenziali a livello di concezione teologica globale, è destinato a restare superficiale. Tali differenze influenzarono in vario modo i processi di emancipazione, di uguaglianza dei diritti e di integrazione nazionale delle «minoranze» in Occidente e nell'islam. Oltre alle limitazioni previste dalla dhimma, i motivi di interferenza dell'autorità islamica nella vita delle comunità erano molteplici. Si è già visto che la necessità della ratifica da parte del califfo del diploma di investitura dei patriarchi e degli esiliarchi 4 costituiva una fonte perenne di ingerenze e di conflitti interni. Ma anche il proliferare degli scismi all'interno dei popoli tributari e il frantumarsi della loro coesione corrispondevano agli interessi politici dei califfi. La concessione di uno status ufficiale al leader dei caraiti 5 da parte di al-Ma'mun (813-833) accentuò la disintegrazione dell'ebraismo. Nell'825 un editto del califfo decretò che bastava il consenso di dieci uomini, rispettivamente ebrei, cristiani o zoroastriani, per dare vita a una comunità indipendente. Tale editto non poteva che minare l'autorità dei capi dei popoli dhimmT, ancora numericamente in maggioranza, e frammentarne l'omogeneità etnica grazie all'anarchica proliferazione di microcomunità tra loro ostili. I popoli tributari tentarono di limitare l'ingerenza del califfo nella scelta del patriarca e dell'esiliarca, i quali, divenuti suoi fantocci, gli permettevano di controllare i vertici gerarchici e funzionali delle comunità, di creare o di alimentare le divisioni intestine. La venalità delle cariche favoriva la corruzione, e quindi la malleabilità e la controllabilità, degli organismi rappresentativi e dirigenziali cristiani ed ebraici. I vescovi, ad esempio, conferivano le ordinazioni sacerdotali in cambio di doni. Il patriarca Dionigi, in

missione in Egitto (830), descrive l'ignoranza e l'enorme miseria della Chiesa copta, costretta a vendere le dignità ecclesiastiche. E non era la sola: Michele il Siro parla del «traffico di sacerdoti, che era, per così dire, legge tra gli armeni» 6 . In effetti, questo traffico era un ingrediente inscindibile della dhimmitudine. I cronisti cristiani lamentavano la decadenza e la corruzione che inquinavano il cuore stesso della Chiesa finendo per paralizzarla, e lo stesso fenomeno suscitò echi analoghi nelle cronache ebraiche. Gli esempi di interferenze islamiche pullulano nelle cronache siriache. I membri delle fazioni cristiane non esitavano a procurarsi l'appoggio del califfo mediante la corruzione o le denunce: «Dio ha consegnato i cristiani nelle mani dei [loro] nemici; coloro che li detestavano hanno prevalso su di loro. Essi si sono levati contro di noi per porre fine alla libertà che regnava nelle leggi dei cristiani, per non parlare delle vessazioni che i cristiani stessi attiravano su di sé» 7 . Le dispute tra i patriarchi imposti con la forza dai califfi o dai sultani e quelli che erano stati eletti dai sinodi dei vescovi dilaniavano le comunità. Il califfo omayyade Marwan II (744-750) ordinò ai calcedoniani di accettare come patriarca il suo orefice Teofilatto Bar Qanbara di Harran, e costui, alla testa di un esercito, andò a perseguitare e a torturare i monaci maroniti per imporre loro le sue formule liturgiche. Al-Saffah (750-754), il primo califfo abbaside, nominò patriarca dei monofisiti il frate assassino Atanasio Sandalaya, che gli aveva promesso di trasformare il piombo in oro. Al-Mahdi (775-785) proibì al patriarca Giorgio, tornato in libertà dopo nove anni di carcere a Baghdad e sostenuto dai suoi fedeli, di fregiarsi del titolo di patriarca e di esercitarne le funzioni. Spesso due, o anche tre patriarchi rivali, ricoprivano la carica simultaneamente, combattendosi a colpi di scomuniche. L'autorità islamica, costantemente sollecitata in tal senso, interveniva nelle dispute tra vescovi, patriarchi e monaci, oppure faceva da arbitro, in funzione delle somme offerte, nelle contese in cui era in palio una diocesi remunerativa o la conservazione di una chiesa o di un convento agognati da una fazione rivale 8 . Questi contrasti sfociavano spesso in reciproche accuse passibili di

pena capitale - conversione di musulmani al cristianesimo, collusione con Bisanzio o con Roma - e in denunce che provocavano il saccheggio e la distruzione di monasteri e di chiese. Le cronache siriache citano frequentemente, tra le sventure dei monofisiti, l'intervento dei melchiti convertiti all'islam o influenti presso i califfi. Ad esempio, a Damasco il ricco Atanasio fu denunciato dallo scriba calcedoniano di 'Abd al-Malik. Il proliferare di accuse di questo genere, peraltro non necessariamente fondate, attesta la virulenza dei conflitti religiosi. Nel periodo in cui prese forma il potere islamico - all'epoca della raccolta degli hadìth, della loro compilazione e della genesi di un corpus giuridico-amministrativo musulmano nel cuore stesso dei territori e dei popoli conquistati - , la principale preoccupazione delle Chiese d'Oriente era quella di estirpare dalle loro diocesi il paganesimo e le sue pratiche, ancora vive perfino nei monasteri. Esse si sforzavano di definire il dogma e il regolamento liturgico ufficiale, e lottavano per diffondere e rafforzare il cristianesimo combattendo le sempre risorgenti eresie, fonte di divisione e di indebolimento. Gli esponenti del clero monofisita, dal canto loro, rifiutavano di aderire al movimento iconoclasta (VIII-IX secolo), e soprattutto si difendevano dalle usurpazioni e dall'esclusivismo del patriarcato bizantino, alimentati dai temporanei successi di Bisanzio in Asia Minore, in Siria e in Armenia. Gli ebrei, gran parte dei quali viveva ancora in Oriente, erano anch'essi divisi da scissioni intestine che li indebolivano. Il movimento caraita, emerso intomo alla metà dell'VIII secolo, si affermò come forma di rifiuto del Talmud e dell'autorità rabbinica, un rifiuto che si innestava sugli intrighi politici connessi all'elezione dell'esiliarca, rappresentante temporale del potere ebraico presso il califfo. I gaon (i capi delle accademie rabbiniche in Babilonia e in Palestina) si immischiavano indirettamente in questi intrighi proponendo i loro personali candidati. In queste lotte, regolate dalla potenza finanziaria dei mercanti, ognuna delle fazioni rivali tentava di estendere la sua influenza giuridica e religiosa, e quindi anche il suo controllo fiscale, sull'intero popolo ebraico coinvolto nella diaspora. Queste rivalità inteme favorirono le divisioni e l'inde-

bolimento del giudaismo diasporico in un'epoca in cui la distruzione e il saccheggio della Palestina da parte di bande nomadi contribuivano al declino dell'ebraismo in quella regione. La subordinazione dei tribunali dhimml al governo musulmano attraverso la figura del qadi, responsabile dell'attuazione delle loro decisioni penali, minava la loro autorità e apriva la via alle malversazioni. Costantemente sollecitato da opposte fazioni, il potere giudiziario islamico svolgeva il ruolo di arbitro e di paciere non solo quando si trattava di ristabilire la concordia tra comunità rivali, o di riparare a eventuali ingiustizie reciproche, ma anche per porre fine alle contese partigiane che dilaniavano questa o quella comunità. Perciò i giudici dhimmt proibivano ai loro correligionari i ricorsi all'autorità islamica, che erano frequenti e anche assai dispendiosi, per risolvere le loro dispute. In Turchia questa situazione si perpetuò fino al XIX secolo, come attesta, tra molte altre fonti, il seguente rapporto del console generale inglese John Cartwright, risalente al 1835: La legge islamica governa tutti i sudditi del sultano in m o d o uniforme, senza tenere conto delle differenze esistenti tra loro, e a prescindere dall'autorità sui rispettivi fedeli conferita ai leader delle diverse comunità cristiane dell'Impero. Le loro decisioni e quelle dei loro delegati, infatti, possono essere annullate appellandosi alla legge islamica. Così nei processi civili un greco può citare il suo correligionario greco davanti al mehkeme [tribunale] per opporsi a una decisione del patriarcato. 9

Il diritto di controllo rivendicato dai giudici musulmani sugli affari dei tributari diminuiva sensibilmente l'efficacia e il prestigio dei tribunali dhimmT e incoraggiava la corruzione. Proprio com'era avvenuto in Oriente alcuni secoli prima, la conquista turca dell'Anatolia e delle province europee cristallizzò conflitti religiosi e politici secolari. Ormai non erano più i re e i principi cristiani a contendersi il potere, ma una classe di notabili e prelati che esercitavano sui loro popoli un'influenza di cui erano debitori al giogo islamico. Questi leader, che dipendevano

dal sultano per la loro investitura, erano interamente soggetti alla sua autorità. Paradossalmente, fu sotto la dominazione ottomana che il patriarcato greco acquistò sulle Chiese bulgara e serba quel controllo che non era riuscito a ottenere con interminabili guerre. Ma non è tutto! A partire da allora, esso riconquistò il diritto ad amministrare e governare a livello civile e religioso i popoli cristiani sottomessi, e si affrancò dalla tutela imperiale in materia di dogma, disciplina religiosa, elezioni patriarcali e controllo fiscale, nonché da ogni altra ingerenza del basileus. Forte dei suoi privilegi, la Chiesa greca impose ai cristiani slavi la propria lingua e il proprio culto. Quest'egemonia religiosa si associava al potere finanziario detenuto da una consistente burocrazia greca, arricchitasi grazie alla raccolta delle imposte destinate al sultano. Questo dominio spirituale ed economico dei greci sugli altri popoli raya, che si sommava all'oppressione turca, non mancò di suscitare tenaci rancori. A Costantinopoli, l'antica aristocrazia bizantina legata al patriarcato, i fanarioti, diede vita a una classe di alti funzionari interamente dedita agli interessi del sultano. Fu al suo interno che vennero reclutati, a partire dal 1711, i governatori (hospodar) dei principati di Valacchia e di Moldavia. L'amministrazione degli hospodar greci durò fino al 1822, e si segnalò per la sua politica corrotta e venale, particolarmente nefasta per le popolazioni. Dispotismo e corruzione determinavano non solo l'organizzazione interna, ma anche la sorte delle comunità rivali, ansiose di conquistare il favore del potere per sopravvivere o svilupparsi. L'intolleranza nei confronti dei non musulmani era modulata da vari fattori, legati ai contesti specifici di ogni regione del dar alislam. Le persecuzioni erano più accentuate nei luoghi in cui sopravviveva una sola comunità, come quella ebraica nello Yemen e nel Maghreb. Invece nella Spagna araba e nell'Impero ottomano, dove gli ebrei costituivano un'esigua minoranza in mezzo a un folto stuolo di cristiani dhimmT, le loro condizioni erano nel complesso migliori.

Le ingerenze degli Stati cristiani La protezione accordata dalla giurisdizione islamica ai popoli indigeni ebrei e cristiani rientrava nel quadro legale della dhimma, ossia di un trattato di sottomissione. Tuttavia, i cristiani dhimmì beneficiavano di un altro genere di protezione, proveniente dall'esterno del dar ai-islam, per l'esattezza da Bisanzio e dai paesi latini, che tentavano di proteggere i diritti e i possedimenti religiosi dei cristiani, e di mantenere con loro contatti economici, culturali e spirituali. Queste ingerenze del dar al-harb (la cristianità) erano un'ineluttabile conseguenza del jihsd, che aveva trasformato molti paesi cristiani in paesi islamici. La tutela esercitata dal mondo cristiano, comunemente etichettata come «protezione straniera», si sviluppò in diversi ambiti. Essa costituisce un capitolo della storia dei rapporti diplomatici tra dar al-harb e dar al-islam, ed è registrata nelle clausole dei trattati di pace, delle alleanze politiche o degli scambi commerciali stipulati dai califfi o dai sultani con i sovrani cristiani. 1. Protezione religiosa Dopo l'islamizzazione dei paesi cristiani del Levante, della Mesopotamia e del Maghreb, Bisanzio e poi gli Stati latini si sforzarono di salvare dalla distruzione il patrimonio cristiano indigeno attraverso la protezione religiosa. Ciò che contava era soprattutto assicurare la continuità dei pellegrinaggi in Palestina, che, malgrado la sua arabizzazione, restava la culla storica della Bibbia. In cambio di concessioni e doni accordati ai principi musulmani, la cristianità ottenne una relativa sicurezza per i pellegrini, che prima venivano spesso aggrediti, presi in ostaggio o costretti a convertirsi. Essa negoziò inoltre un alleggerimento delle restrizioni previste dalla dhimma in materia di distruzione, riparazione o costruzione di chiese. A seconda dei loro interessi politici, i califfi concedevano questi favori ai sovrani cristiani sotto forma di patti di amicizia o alleanza. Ad esempio, nel IX secolo, all'epoca delle sue guerre contro i greci, H a r u n al-Rashld si assicurò l'alleanza di Carlo Magno attraverso la concessione di un diritto di

protezione per i pellegrini e i cristiani d'Oriente, che beneficiarono così delle elargizioni fatte all'imperatore franco. Talvolta anche gli imperatori bizantini intervenivano per proteggere i cristiani dhimmi. Fu così che i tentativi di avvicinamento tra Bisanzio e l'Egitto prima della morte del califfo al-Hakim (1021) posero fine alle severe persecuzioni anticristiane, e nel 1036 una delle clausole del trattato concluso tra il califfo fatimide e l'imperatore Romano III autorizzò quest'ultimo a ricostruire tutte le chiese distrutte dai musulmani a Gerusalemme, nonché a restaurare il Santo Sepolcro. Sotto il fatimide al-Mustansir (10361094), numerosi melchiti ricoprivano cariche governative a II Cairo. Nel 1064 il patriarca greco divenne il protettore ufficiale del quartiere cristiano di Gerusalemme, mentre Romano IV Diogene finanziò la costruzione delle sue mura nel 1069 10 . Queste concessioni non erano certo unilaterali, infatti i califfi ottenevano dai sovrani cristiani privilegi non meno importanti. Ad esempio, sia a Efeso nel IX secolo che ad Atene nel IX e nell'XI è segnalata la presenza di moschee, e nel 1027 nella moschea di Costantinopoli, attribuita a Maslama (717), si recitava la preghiera in nome del califfo fatimide dell'Egitto al-Zahir. Inoltre, in molte città dell'Anatolia a Trebisonda e in Armenia era presente una folta comunità musulmana, composta di prigionieri, mercanti e viaggiatori. Le tregue che punteggiavano il jihad consentivano lo scambio di prigionieri e l'invio di sontuosi doni e di ambasciatori incaricati di importanti missioni. La delegazione inviata dal basileus Giovanni Cantacuzeno (1341-1354), ad esempio, chiese «al sultano d'Egitto, di Siria e di Giudea» di emanare un editto in favore dei cristiani dei suoi Stati, «in base al quale fosse proibito infastidire i cristiani che vivevano nei luoghi santi di Gerusalemme, nonché profanare le loro chiese o i loro monasteri». Tale editto doveva ribadire il dovere del governatore musulmano di proteggere i dhimmt e tutti i tipi di pellegrini, così che non fossero più né insultati né percossi 12 . L'ambasciatore chiese poi la liberazione degli schiavi greci e la possibilità, per i mercanti di etnia greca, di abitare nelle terre del

sultano. Nel 1391 Bayazld ottenne l'insediamento a Costantinopoli di un qtidt preposto a giudicare i musulmani, mercanti e non 13 . Bisanzio e i regni cattolici, che intervenivano in favore delle comunità cristiane indigene o straniere, vedevano i bilanci dei propri consolati pesantemente gravati dai doni o dalle somme pretese dalle autorità islamiche per far rispettare privilegi regolarmente contestati, quando non arbitrariamente annullati H . Le comunità dhimmi greco-ortodosse e latine, godendo della tutela religiosa di Stati potenti, erano favorite rispetto a quelle monofisite, nestoriane ed ebraiche, ma in compenso erano perseguitate in caso di conflitti. Nel XVI secolo le relazioni privilegiate della Francia con gli ottomani le permisero di proteggere le scuole e le missioni cattoliche presenti nell'Impero turco. Con il firmano dell'ottobre 1596, Parigi ottenne che i pellegrini cristiani non fossero né molestati, né costretti ad abbracciare l'islam con la violenza. L'anno seguente, su richiesta di Enrico IV, il sultano rinunciò a mettere ai ferri i religiosi di Terra Santa e a convertire in moschea la chiesa del Santo Sepolcro. Tuttavia i funzionari musulmani, che visitavano regolarmente le chiese per accertarsi che non fosse stata eseguita alcuna riparazione, trovavano sempre dei pretesti per taglieggiare i religiosi. Nel 1740 l'ambasciatore di Francia Jean-Louis de Bonnac ottenne la riduzione di tali visite vessatorie a un unico controllo annuale, e, dopo ben quarant'anni di negoziati, l'autorizzazione a riparare la volta del Santo Sepolcro. Poiché la stragrande maggioranza dei cristiani delle regioni islamiche era di professione ortodossa oppure monofisita, il papato tentò di ricondurli sotto la sua autorità facendoli convertire al cattolicesimo. La Congregazione per la Propagazione della Fede, creata nel 1622 da papa Gregorio XV, inviò missionari nei territori ottomano e persiano. All'inizio del XVII secolo le missioni francesi dei Padri gesuiti e lazzaristi si diffusero nelle città del Levante e della Persia. L'Ordine dei cappuccini si stabilì a Costantinopoli, ad Aleppo e in Persia nel 1626; i carmelitani e i gesuiti fondarono una missione ad Aleppo nel 1627, mentre i domenicani si insediavano in Siria, in Libano, in Iraq e in Anatolia.

Gli insediamenti missionari sorsero nelle città e nei villaggi popolati dai cristiani, come Aleppo, Gerusalemme, Tripoli, Saida, Damasco, Mossul, Diyarbakir, Baghdad, Mardln ecc. Queste missioni godevano del sostegno della Francia, i cui consoli nel XVII secolo si fecero strumenti della politica unionista romana. I missionari aprirono scuole e tentarono, convertendo i greco-ortodossi, i giacobiti siriaci, i nestoriani e gli armeni, di estendere sia il dominio spirituale del Papa sia la sfera di influenza francese, che avrebbero beneficiato entrambi di un aumento del numero dei cattolici. I patriarchi ortodossi, armeni e siriaci reagirono violentemente a queste usurpazioni, che diminuivano il loro potere e facevano sorgere, all'interno delle loro congregazioni, Chiese scismatiche rivali unite a Roma. Dal canto suo, la Porta non vedeva di buon occhio il fatto che i suoi sudditi ripudiassero la leadership spirituale dei patriarchi - che potevano essere comodamente controllati a Costantinopoli - per mettersi sotto la tutela del suo storico nemico, il Papa, il quale risiedeva a Roma. Essa quindi intervenne a sostegno dei patriarcati e per impedire il passaggio dei suoi sudditi cristiani da un rito all'altro. Negli Stati musulmani le ragioni politiche, sommate alle divergenze religiose, avevano sempre indotto a contrastare gli sporadici tentativi unionisti. I monofisiti, vescovi o laici, che si convertivano al rito latino oppure greco venivano denunciati alle autorità islamiche dalle loro stesse Chiese. I neofiti, accusati di collaborare con i nemici dell'islam per ripristinare la supremazia cristiana, sfuggivano alla morte o con l'apostasia o con la fuga. Come i califfi di un tempo, così i sultani ottomani erano i migliori alleati dei patriarcati orientali, di cui tutelavano rigorosamente le tendenze separatiste. Gli interessi politici del potere musulmano coincidevano con quelli delle Chiese orientali, il cui zelo grecofobo o antipapista veniva ricompensato con il riconoscimento ufficiale dei loro particolarismi o la concessione di chiese o monasteri sottratti a una confessione nemica. Nel 1700 il patriarca armeno monofisita ottenne un firmano che proibiva la presenza di missionari cattolici a Costantinopoli.

A Erzerum il collegio gesuitico, dove 300 armeni si erano convertiti al cattolicesimo, fu chiuso, e i sacerdoti, costretti alla fuga, si rifugiarono per lo più in Persia. Aiutati segretamente dall'ambasciatore francese Charles de Fériol, i cattolici armeni si vendicarono rapendo il patriarca monofisita. Il sultano pose fine alla contesa intestina tra armeni con una severità sfociata nel martirio o nell'apostasia. Tuttavia, i vantaggi commerciali e politici di cui godevano i cattolici incoraggiavano le conversioni, che si moltiplicarono tra i giacobiti del Nord della Siria intorno alla metà del XVII secolo. Il console francese di Aleppo, François Picquet, intervenne perfino nelle elezioni del patriarca, e ottenne dalla Porta firmani di investitura per il suo candidato. Dal canto loro i governatori provinciali, i qâdï e i consoli si intromettevano nelle nomine dei patriarchi. Si arrivò al punto che nella stessa chiesa, appositamente divisa da ima cortina, si celebravano contemporaneamente i riti cattolico e giacobita. La protezione religiosa esercitata dalla Francia favorì all'interno dei vari millet il sorgere di scismi che sfociarono nella nascita di Chiese orientali autonome - armena, giacobita, greca e caldea (nestoriana) - unite a Roma. Con il Trattato di Kuçuk Kainarji (1774), la Russia si assicurò a sua volta il diritto di intervenire a favore dei raya ortodossi. Nel XIX secolo i missionari protestanti, europei e statunitensi, che operavano sotto la protezione delle loro ambasciate, accrebbero il potere d'intervento dei rispettivi paesi convertendo ai loro riti alcuni membri delle comunità dhimmì. I patriarcati difendevano le loro comunità scomunicando i transfughi, proibendo di frequentarli e denunciandoli. Le linee di frattura all'interno di ogni millet si inserivano negli scismi religiosi occidentali e corrispondevano alle rivalità economiche e politiche esistenti tra gli Stati europei protettori. Nel XIX secolo la crescita della potenza economica e politica europea determinò l'intensificarsi del proselitismo tra i dhimmì e dei finanziamenti accordati a strutture missionarie di vario genere, tra cui ospedali, ospizi, scuole, dispensari. Fra le associazioni missionarie va ricordata la London Society for Promoting Chri-

stianity among the Jews, fondata nel 1809, che inviava periodicamente ebrei europei convertiti presso le comunità più disperate e quindi più vulnerabili 15 . All'inizio del XX secolo, poi, un gran numero di caldei (nestoriani) dell'Azerbaijan si convertirono all'ortodossia per mettersi sotto la protezione russa. È impossibile apprezzare fino in fondo i benefici effetti della protezione religiosa, tanto questa fu importante, e addirittura essenziale, per i popoli dhimmT. Ma essa ebbe anche dei risvolti negativi, poiché, ingerendosi nei millet e nelle famiglie attraverso la politica delle conversioni, diede spesso luogo a scismi e a ostilità. Tuttavia il proselitismo dei missionari obbligò il clero e i notabili dhimmT a migliorare i servizi delle loro comunità, dalle scuole agli ospedali all'organizzazione dei millet. Di fronte a nemici temibili, che agivano sotto l'egida delle loro ambasciate e disponevano non solo di risorse consistenti, m a anche di conoscenze superiori, i leader delle comunità dhimmT furono costretti a raccogliere la sfida. La lotta contro l'incuria, le prevaricazioni e le umiliazioni insite nella dhimmitudine favorì il rinnovamento e la modernizzazione delle strutture comunitarie. 2. Protezione commerciale Se la protezione religiosa rispecchiava il carattere frammentato della cristianità (divisa in ortodossi, monofisiti, cattolici e nestoriani), la protezione economica, che dipendeva dalle relazioni commerciali e dagli scambi tra Europa, Asia e Africa, si sviluppò in un contesto internazionale relativamente libero da criteri confessionali. Questi scambi, che risalivano alla più remota Antichità, avevano favorito lo sviluppo della cultura greco-romana e la fioritura delle religioni bibliche in tutto il bacino del Mediterraneo. Sebbene limitati dalla dominazione musulmana, tali rapporti proseguirono e furono definiti da patti e da trattati stipulati tra i paesi cristiani e quelli islamici. È nell'Impero bizantino che va ricercata l'origine degli accordi commerciali i quali, nel corso dei secoli, regolarono gli scambi economici tra l'islam e la cristianità. Nelle città bizantine, in particolare a Costantinopoli, i mercanti latini, raggruppati per nazio-

Condanna di Dergumidas da parte del gran visir. Dergumidas e altri due armeni, che erano passati dal rito gregoriano a quello cattolico, furono decapitati il 5 novembre 1707. Il patriarca Saary e altri sette notabili armeni, che si erano convertiti al cattolicesimo, si fecero musulmani per sfuggire alla morte (Charles de Fériol d'Argentai, «Explication de cent estampes qui représentent différentes nations du Levant avec nouvelles estampes de cérémonies turques qui ont aussi leurs explications», tavola 85, cfr. pp. 44-47).

nalità, controllavano i commerci con l'estero. Nel 1082 Alessio Comneno concesse ai mercanti veneziani una serie di privilegi fiscali e vino statuto di extraterritorialità. Ben presto anche Genova, Pisa e le altre città mercantili latine ottennero vina serie di benefici doganali. Bisanzio accordò ai mercanti stranieri - latini, musulmani ed ebrei - l'esenzione dalla giurisdizione locale, pratica questa che fu adottata dai Regni cristiani di Gerusalemme, di Cipro e d'Armenia. Raggruppati, a seconda della nazionalità, in apposite vie o quartieri, i mercanti erano governati dai loro consoli in base alla giurisdizione dei paesi d'origine. Un'analoga struttura, integrata da alcune varianti determinate dai particolarismi religiosi locali, definiva le modalità del commercio con i paesi cristiani nei paesi islamici. Nel loro Impero gli ottomani non fecero che rinnovare e confermare ai mercanti latini i privilegi di cui già godevano sotto gli imperatori greci. Tali privilegi, riportati in apposite «carte» o «capitolazioni», garantivano la sicurezza dei beni e delle persone dei mercanti stranieri non musulmani, ribadendo la loro libertà individuale, commerciale e religiosa, il loro statuto di extraterritorialità, alcune esenzioni fiscali e il diritto a una navigazione sicura. Le circostanze geopolitiche ed economiche del XVI secolo diedero modo agli ottomani di sviluppare questi rapporti commerciali su scala intemazionale stipulando trattati di tipo preferenziale con alcuni paesi europei. Le capitolazioni proibivano le ricerche, le perquisizioni e l'apposizione dei sigilli all'interno dei consolati. Esse vietavano altresì l'incarcerazione dei consoli ed esentavano i loro interpreti dhimmi dal pagamento del tributo e delle altre imposte arbitrarie. La presenza del console e del suo interprete era obbligatoria nei processi tra musulmani e stranieri deferiti ai tribunali ottomani, in quanto la sentenza doveva fondarsi sugli atti e sui registri, mentre la legge islamica si accontentava della testimonianza dei musulmani. I commercianti stranieri non potevano essere né vessati, molestati o tassati arbitrariamente, né ridotti in schiavitù, giustiziati o puniti per un delitto commesso da un altro straniero. I beni degli stranieri deceduti venivano tutelati e restituiti agli eredi. Poiché le capitolazioni potevano essere abrogate urtila te-

Talmente dal sultano, esse venivano rinnovate all'ascesa al trono di un nuovo regnante. Queste convenzioni commerciali implicavano reciprocità: anche i sudditi musulmani che vivevano in terra cristiana beneficiavano degli stessi diritti e privilegi di cui godevano i mercanti stranieri nell'Impero ottomano. A partire dal 1597 fu inserita in tutte le capitolazioni una serie di misure, tanto inefficaci quanto reiterate, volte a impedire il rapimento di viaggiatori europei e la loro detenzione in schiavitù negli «Stati pirata» maghrebini vassalli della Porta, le cui galee, dedite alla guerra di corsa attraverso i mari, traevano considerevoli profitti dal taglieggiamento dei viaggiatori infedeli. Nel 1528 la Francia ottenne il diritto a proteggere tutti i mercanti stranieri di religione cristiana residenti in Turchia. Il trattato del 1535 tra Francesco I e il sultano Suleyman servì da modello per le capitolazioni accordate in seguito ai vari Stati europei che via via affrancavano i loro commerci dalla tutela francese. I cittadini di questi paesi, i cosiddetti «nazionali», vivevano in locali detti funduq od okel (Egitto), oppure khan (Siria). Queste stazioni commerciali o «scali» contenevano alloggi abbastanza spaziosi da accogliere i mercanti, i loro consoli, i funzionari, i viaggiatori, una cappella, un tribunale e perfino un magazzino. Lo sviluppo e la varietà dei settori commerciali indussero i consoli ad ammettere nei loro scali mercanti privi di rappresentanza consolare, i quali diedero vita alla categoria dei «protetti», distinta da quella dei «nazionali». Anch'essi beneficiavano delle capitolazioni, ma, rispetto ai «nazionali», erano fiscalmente e socialmente discriminati. La classe dei «protetti», già esistente in passato nei regni latini d'Oriente e a Bisanzio, comprendeva indigeni orientali - cristiani melchiti, giacobiti, nestoriani, armeni, ebrei - ed europei. E così in terra d'islam gli interessi economici degli Stati cristiani avevano il sopravvento sui pregiudizi religiosi delle metropoli. In molte città, in particolare nelle isole dell'arcipelago greco e nei paesi barbareschi, la funzione di consoli di alarne potenze europee era esercitata da sudditi raya (= dhimmi). Oltre a costoro, beneficiavano della protezione consolare anche altri raya, tra cui gli interpre-

ti e i funzionari impiegati nei consolati. Ora, questi «protetti» raya, come tutti i sudditi non musulmani del sultano, erano costretti a indossare indumenti discriminatori, a pagare la jizya, simbolo di infamia, e a subire umiliazioni e oltraggi per le strade. Talvolta il sultano o i pasha, scontenti di un console, si vendicavano facendo impalare, impiccare o bastonare il suo interprete (dragomanno) cristiano. I consoli si sforzarono quindi di estendere la protezione di cui godevano al loro personale dhimmi, per sottrarlo alle umilianti norme della giurisdizione islamica. Si formò così, in seno alle comunità dhimmi, una classe privilegiata di notabili, in genere mercanti, protetti dagli Stati europei, le cui condizioni di vita differivano notevolmente da quelle dei loro correligionari soggetti alla dhimma. Tuttavia le capitolazioni non sempre li salvavano dalla rapacità dei governatori, come attestano i rapporti consolari e le testimonianze dei contemporanei. All'ostilità religiosa si aggiungeva la rivalità economica tra le comunità dhimmi, talora in competizione tra loro all'interno di ima stessa categoria professionale: rivalità tanto più aspra quanto più le possibilità economiche erano ridotte e soggette ai capricci di despoti corrotti. Quest'accanita concorrenza economica tra minoranze dhimmi fu all'origine dell'accusa di crimine rituale scagliata nel 1840 a Damasco contro la comunità ebraica dai cristiani siriaci e dal console francese Ratti-Menton lé. Tra ebrei emancipati d'Occidente e comunità ebraiche dhimmi si intrecciarono allora relazioni che capovolsero le strutture del giudaismo orientale. L'incontro tra gli ebrei emancipati residenti in Europa e quelli asserviti dei paesi islamici (1840) diede il via a trasformazioni radicali in seno alle comunità. Infatti, a partire dal 1862, le scuole dell'Alliance Israélite Universelle (AIU), patrocinate da ebrei francesi, modernizzarono l'insegnamento in Nord Africa, nell'Impero ottomano e in Iran 17 . In effetti, nel XIX secolo, in seguito al rinnovamento in atto nei territori musulmani, in questi paesi era emerso prepotentemente il problema di un aggiornamento dell'istruzione scolastica e degli istituti di formazione. I cristiani raya disponevano già - in Turchia,

in Egitto, in Terra Santa, in Libano e in altre regioni islamiche - di strutture scolastiche di elevato profilo culturale, gestite da religiosi o da missionari europei. Le scuole dell'AIU divennero l'equivalente ebraico delle scuole cristiane patrocinate dall'Occidente. E impossibile sottolineare adeguatamente l'importanza culturale, economica e perfino politica della modernizzazione dell'insegnamento per le diverse etnie raya, in particolare per i greci e gli armeni, che grazie a essa recuperarono la loro lingua e la loro cultura nazionale. Il rinnovamento del settore scolastico trasformò le comunità raya indigene, che languivano nell'umiliazione, in élite attivamente impegnate per l'industrializzazione e lo sviluppo dei loro paesi. Mentre i dhimml cristiani godevano della protezione degli Stati europei - specialmente della Francia, della Russia e dell'Austria - e del rispetto per le loro strutture scolastiche, culturali e ospedaliere, gli ebrei potevano contare soltanto sul sostegno del giudaismo europeo, emancipatosi di recente. Questa disparità numerica, economica e politica tra le diverse comunità raya fu tuttavia compensata dalla qualità delle scuole dell'AIU, dal desiderio di modernizzazione degli ebrei e dalla loro lotta contro l'ignoranza, prerogativa e compagna della dhimmitudine. Le innumerevoli lettere e i rapporti dei delegati dell'AIU e, a partire dal 1872, della Anglo-Jewish Association, costituiscono una fonte preziosa per lo studio sociologico della dhimmitudine in un mondo in continua evoluzione. Negli ultimi decenni del XIX secolo, eminenti personalità ebraiche di nazionalità francese e inglese, sostenute e aiutate dai propri consoli, si batterono per l'emancipazione degli ebrei d'Oriente e si impegnarono a migliorarne le condizioni culturali ed economiche nell'Impero ottomano, nel Nord Africa e in Iran. 3. Protezione politica Le congiunture politiche, le alleanze o le guerre tra i paesi islamici e le varie nazioni cristiane si ripercuotevano sulle diverse comunità raya, legate da vincoli religiosi o di protezione agli Stati europei belligeranti o alleati. Tali circostanze influivano non soltan-

to sulle relazioni delle comunità con l'Impero musulmano, ma anche sui rapporti di forza tra le comunità stesse. Ad esempio, nel XVI secolo le relazioni privilegiate della Francia con la Persia e gli ottomani conferirono alcuni vantaggi alle chiese cattoliche. Nel XVIII e nel XIX secolo la situazione conobbe sviluppi favorevoli per l'Inghilterra e le etnie da lei protette, nonché per i culti ortodossi e armeni patrocinati dalla Russia. A partire dal XIX secolo, il timore ispirato alla umma dalle possibili rappresaglie militari dei potenti Stati europei contribuì a migliorare le condizioni dei cristiani. Attraverso le protezioni, l'Europa sviluppò i suoi commerci e, più tardi, diede il via alla sua politica precoloniale. Si è già visto che all'interno della umma il dhimmT costituiva il fulcro di un conflitto tra il potere, impegnato a speculare sulle sue libertà, e il fanatismo delle masse, sempre pronte a defraudarlo di esse: situazione, questa, che lo obbligava a corrompere i suoi oppressori. Nella relazione tra islam e cristianità egli si trovò costretto ad assumere un ruolo ugualmente ambiguo. Infatti gli Stati europei traevano un duplice vantaggio dall'aumento del numero dei loro protetti in territorio musulmano: da un lato, intensificando la loro protezione commerciale, si garantivano lo sviluppo dei loro scambi economici a tassi preferenziali, dall'altro la stessa protezione permetteva loro di intromettersi negli affari del governo islamico. È importante sottolineare che i mercanti musulmani godevano di prerogative analoghe nei paesi cristiani. Tuttavia la loro condizione - quella di liberi individui che viaggiavano per affari senza alcuna restrizione - era totalmente diversa da quella dei dhimmT, che, in quanto parte delle masse indigene vinte, erano soggetti a una legislazione restrittiva e umiliante. Per questo cristiani ed ebrei, tentati dalle offerte dei consoli, ambivano alla protezione europea, la sola in grado di affrancarli da un giogo avvilente, benché al tempo stesso favorisse gli interessi dei paesi occidentali. Così, liberandosi dalla dhimmitudine, essi diventavano gli involontari strumenti della penetrazione europea. Questa collusione tra il dar al-harb e i dhimmT - essi stessi, peraltro, ex harbT per aggirare le oppressive leggi islamiche scriveva già nelle pagine della storia le rappresaglie future.

Nel corso del XIX secolo i popoli cristiani della Turchia europea, ossia i raya serbi, greci, bulgari e slavi, tentarono di liberarsi dal giogo islamico. La riconquista dei loro diritti e della loro libertà religiosa implicava una rivolta contro la dhimmitudine. Questi conflitti di matrice nazionalistica, e, per forza di cose, anche religiosa, esacerbarono le passioni anticristiane della umma18. Per tutto il XIX secolo greci, slavi, maroniti e armeni subirono rappresaglie e massacri, temperati però dalla presenza degli eserciti europei. In queste guerre cristiano-islamiche la popolazione ebraica, in netta minoranza rispetto ai cristiani, assunse un atteggiamento più pavido, più umile e, per necessità, apolitico. Il suo prudente neutralismo, unito alla protezione di eminenti personalità inglesi - di religione ebraica come Rotschild e Montefiore, o anglicana, come Disraeli, Shaftesbury ecc. - in un'epoca in cui l'Inghilterra era la più fedele alleata della Turchia, procurarono ai raya ebrei la benevolenza del governo turco, desideroso di apparire tollerante e liberale agli occhi dell'Europa. Questa disparità di trattamento politico tra raya ebrei e cristiani, e la contestuale ascesa economica degli ebrei in Turchia, in Egitto e in Siria, esasperarono le tensioni intercomunitarie. Ragioni di ordine politico suscitavano l'interesse delle potenze europee nei confronti dei raya cristiani. Desiderose di sottrarre ai russi ogni motivo di intervento militare in favore dei dhimtriì ortodossi - in realtà un pretesto per penetrare nell'Impero ottomano ormai in disfacimento - esse imposero al governo turco il principio dell'uguaglianza dei diritti per tutte le etnie che lo componevano (1839-1856). Quindi la protezione europea influenzò profondamente le condizioni politiche, economiche e sociali dei dhimmi, modificando non solo le loro relazioni con la umma, ma anche i rapporti tra le diverse comunità: un gruppo dhimmi, infatti, poteva trovarsi favorito rispetto ad altri in virtù della potenza del suo Stato protettore e dell'influenza di esso sul sultano. Così, dall'inizio del XIX secolo, la protezione dei paesi europei nel complesso assicurò ai cristiani condizioni migliori di quelle degli ebrei sia in Siria che in Terra Santa, in Egitto e in Persia.

È lecito dire che senza gli interventi e le protezioni europee i popoli preislamici sarebbero interamente scomparsi per effetto del processo di islamizzazione dei loro vecchi territori. Sta di fatto che gli ebrei e i samaritani furono quasi completamente eliminati dalla loro patria palestinese. La situazione dei cristiani nei territori arabizzati in cui un tempo la loro religione era stata potente e maggioritaria era meno grave, ma pur sempre tragica. Invece nello Yemen, in cui non si ebbe mai alcuna influenza straniera, all'inizio del XX secolo esisteva ancora una piccola comunità ebraica, ma nessuna cristiana. Stessa situazione nel Maghreb, in cui riuscirono a sopravvivere alcune comunità ebraiche, per lo più di origine spagnola, ma il cristianesimo scomparve. Se è difficile determinare il grado di influenza dell'Occidente sull'evoluzione dei popoli dhimmi, si può quantomeno affermare che esso, aiutando la Grecia, i paesi balcanici e il Libano, aprì ai dhimmi nuovi orizzonti di dignità e di libertà. Quel che è certo è che, a seguito dei contatti con l'Europa, ebbe inizio un conflitto che oppose l'intero popolo dhimmi, seppur diviso al suo intemo, ai valori tradizionali della dhimma, che avevano consacrato l'usurpazione dei loro territori e la loro umiliazione. Un conflitto condotto simultaneamente dalle diverse comunità, ma in un contesto segnato dalla disunione, dall'odio, dalle rivalità e dal servilismo delle alleanze. La protezione europea innescò due forze contrastanti. Da una parte rallentò il processo di annientamento dei popoli indigeni non musulmani, dall'altra accentuò la dhimmofobia e provocò la rescissione della dhimma, mettendo in moto i vari processi che accelerarono il declino e la scomparsa di tali popoli. La protezione europea è inscindibile dal movimento di emancipazione dei dhimmi: infatti non soltanto lo ispirò ideologicamente, ma all'occorrenza lo sostenne anche con la forza militare. Sul piano ideologico, l'emancipazione dei dhimmi si rifà alle Dichiarazioni dei diritti dell'uomo e al principio di autodeterminazione dei popoli. Nei suoi sviluppi più estremi, tale movimento divenne una guerra di liberazione nazionale dei popoli dhimmi.

1 Henry Bettenson (a cura di), Documents of the Christian Church, Oxford University Press, Oxford 1956 2 (1999 3 ), pp. 65-68.

Per il concetto di millet (lett. «nazione»), uno dei molteplici raggruppamenti etnico-religiosi in cui erano suddivisi i sudditi nell'Impero ottomano, cfr. Bat Ye'or, Eurabia, Lindau, Torino 2007, p. 334 e nota 1, p. 340 [N.d.T.]. 2

'Benjamin Braude, Foundation Myths of the Millet System, in Benjamin Braude, Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire: The Functioning of a Plural Society, 2 voli., Holmes & Meier, New York-London 1982, vol. 1; Zvi Ankori, Encounter in History. Jews and Christian Greeks in Their Relation through the Ages (testo in lingua ebraica), University of Tel Aviv, Tel Aviv 1984, cap. 4 (pp. 66 sgg.) e cap. 6 (pp. 157 sgg.); Steven B. Bowman, The Jews of Byzantium, 1204-1453, University of Alabama Press, Tuscaloosa (Alabama) 1985. L'esiliarca (da non confondersi con l'esarca, governatore delle province nell'Impero bizantino) era il capo della comunità ebraica dall'esilio babilonese all'XI secolo [N.d.T.]. 4

Sui caraiti, setta ebraica fortemente influenzata dalle correnti razionalistiche islamiche dell'epoca (sec. IX) e contestatrice del valore della tradizione postbiblica, vedi infra, in questo stesso sottoparagrafo, e http://www.cabala.org/articoli/ebraismo.shtml [N.d.T.]. 5

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche (1166-1199), trad, di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924" (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 3, p. 359.

6

Ivi, voi. 3, p. 109. "Ivi, p. 358 e passim. 7

'Console generale John Cartwright (Costantinopoli), Report from His Majesty's Consul General at Constantinople on the Consular Jurisdiction in the Levant, FO 4 0 6 / 1 4 (23 dicembre 1835). Joseph-François Laurent, Byzance et les Turcs seldjoucides dans l'Asie occidentale jusqu'en 1081, Berger, Nancy-Paris 1913, p. 22, nota 1; Marius Canard, Les relations politiques et sociales entre Byzance et les arabes, «DOP», n. 19,1964, pp. 33-56; Bar Hebraeus [Abu al-Faraj ibn Hârûn al-Malatï], The Chronography of Gregory Abû'l Faraj, the Son of Aaron, the Hebrew Physician Commonly Known as Bar Hebraeus, trad, di Ernest Alfred Wallis Budge, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1932, vol. 1, p. 196 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2003 e, on line, h t t p : / / r b e d r o s i a n . c o m / BH/bh.html, N.d.T.]. 10

"Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the

Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986), p. 50, nota 256. 12 Giovanni Cantacuzeno in Louis Cousin (a cura di), Histoire de Constantinople depuis le règne de l'Ancien Justin, jusqu'à la fin de l'empire, traduite sur les originaux grecs par Mr Cousin, 8 voli., Foucault, Paris 1672-1674, vol. 8, p. 54.

Michele Ducas, Histoire des empereurs Jean, Manuel, Jean et Constantin Paléologues in Cousin, Histoire de Constantinople cit., vol. 8, p. 335. Bayâzîd aveva preteso l'insediamento nel quartiere di Galata (Costantinopoli) di 20.000 musulmani, ai quali aveva fatto assegnare i diritti di proprietà su tutti gli orti e le vigne situati al di fuori della città. A questo scopo fu istituita una corte di giustizia islamica: cfr. Evliya Efendi, Narrative of Travels in Europe, Asia, and Africa in the Seventeenth Century, trad, di Joseph von Hammer, 2 voli., Oriental Translation Fund of Great Britain and Ireland, London 1846-1850 Qohnson Reprint, New York 1968), vol. 1, parte l a , p. 28. 13

Vedi François Charles-Roux, Les échelles de Syrie et de Palestine au XVIIIe siècle, Geuthner, Paris 1928; Francis Rey, La protection diplomatique et consulaire dans les échelles du Levant et de Barbarie, Larose, Paris 1899, passim. 14

William Thomas Gidney, History of the London Society for Promoting Christianity amongst the Jews from 1809 to 1908, London Society for Promoting Christianity amongst the Jews, London 1909. [Il testo è inoltre disponibile on line al link: http://www.archive.org/details/historyoflondons00gidnuoft, N.d.T.]. 15

The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai HaSout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991), p. 96, nota 11; vedi Abraham Jacob Brawer, «Damascus Affair», E/, n. 5, Jerusalem 1971, pp. 1249-1252 (con annessa bibliografia); Albert M. Hyamson, The Damascus Ajfair-1840, «JHSE», n. 16, 1945-1951, pp. 47-71; Tudor Parfitt, The Year of the Pride of Israel: Montefiore and the Blood Libel of 1840, in Sonia and Vivian David Lipman (a cura di), The Century of Moses Montefiore, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 131-148. ''Narcisse Leven, Cinquante ans d'histoire. L'Alliance Israélite Universelle (1860-1910), 2 voli., Librairie F. Alcan, Paris 1911-1920; André Chouraqui, 16

L'Alliance Israélite Universelle 1960), PUF, Paris 1965.

et la Renaissance

juive contemporaine

(1860-

" L e fonti relative a quest'epoca, in particolare gli archivi diplomatici e i rapporti dei consoli inglesi e francesi, rivelano il disprezzo provato dai responsabili musulmani per i greci, i maroniti, gli slavi e gli armeni che cercavano di emanciparsi. Vedi Bat Ye'or, The Dhimmi cit., sezione «Documenti», «The Era of Emancipation», e tra gli altri, PP. 1860 [2734] 69; 1861 [2800] 68; 1877 [C. 1739] 92; 1877 [C. 1768] 92; 1877 [C. 1806] 92.

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Romance d'Alexandre (1536) testo illustrato da Krikonis di Aght 'amar (ms. n. 473, folio 17, Collezione Gulbenkian, Saint Thoros Manuscript Library, Gerusalemme)

Capitolo 6 Dall'emancipazione al nazionalismo (1820-1876)

Il movimento umanitario europeo Alimentata dalle idee rivoluzionarie europee, l'emancipazione dei dhimmì fu uno dei parti della prolifica Europa del XIX secolo. Questo processo, legato a congiunture esterne al dar al-islam, potè affermarsi in esso anche contro la volontà dei dominatori musulmani grazie all'eccezionale convergenza di molteplici fattori culturali, sociali, scientifici ed economici, che coincisero con un'epoca in cui l'Europa era particolarmente forte dal punto di vista militare. In quel periodo (siamo all'inizio dell'800) i movimenti di indipendenza nazionale e di rivendicazione sociale, che veicolavano le idee delle rivoluzioni americana e francese, stavano facendo sorgere in Occidente teorie politiche ispirate a valori socialisti e laici. Contemporaneamente, la neonata passione per le scienze storiche e archeologiche e la riscoperta dell'Antichità classica incoraggiavano i viaggi in terre lontane. Le ferrovie e le navi a vapore accorciavano le distanze; il telegrafo accelerava le comunicazioni, creava l'informazione in tempo reale e dava vita alla grande stampa. Intanto una borghesia ricca, colta e ansiosa di esplorare nuovi orizzonti, figlia della Rivoluzione Industriale, iniziava ad avventurarsi in regioni un tempo pericolose e ostili ai cristiani. E anche se, in quelle dominate da tribù nomadi - come la Palestina, la Siria, l'Iraq - , era ancora necessaria una scorta armata, ormai le potenze europee erano in grado di reprimere il fa-

natismo e di far rispettare l'inviolabilità delle persone e dei beni dei loro cittadini. Nel corso di questi pellegrinaggi, che erano anche un ritorno alle sorgenti della loro cultura, gli Occidentali scoprivano i monumenti ridotti in pezzi dell'arte greco-romana ed ebraica, e il pietoso stato in cui versavano gli edifici di culto del cristianesimo primitivo. Constatavano de visu la decadenza di popoli un tempo lievito di civiltà e ormai umiliati e avviliti nei loro stessi paesi da un giogo straniero. Li vedevano aggirarsi come un monito vivente tra le vestigia devastate di un passato glorioso. Proiettati nell'era della meccanizzazione e della scienza, questi viaggiatori scoprivano alle porte dell'Europa la stagnazione e l'oscurantismo, incarnati dalle masse di eunuchi e di schiavi, dagli harem, da una giustizia parziale e sommaria e da dhimmi indigenti, soggetti a un testatico e a discriminazioni in fatto di abbigliamento. In questo clima politico e culturale, all'interno dell'intellighenzia europea si sviluppò una corrente di compassione e simpatia per le vittime di quella millenaria oppressione.

La politica delle potenze occidentali In questo secolo di espansionismo europeo, gli interessi rivali delle potenze occidentali si unirono per coniugare la Realpolitik dei governi proprio con questa tendenza umanitaria dell'opinione pubblica. Talora, in particolare nel caso della Grecia, fu la pressione di tale corrente a obbligare alcuni Stati - la Francia e l'Inghilterra - a vincere le loro esitazioni e a intervenire militarmente in aiuto dei raya. Peraltro, la debolezza dell'Impero ottomano incoraggiava nei suoi immediati vicini - la Russia e l'Austria - ambizioni annessioniste che impensierivano Francia e Inghilterra, preoccupate di mantenere l'equilibrio in Europa. Gli Stati europei, impegnati a spiarsi a vicenda, non trovando un consenso circa la spartizione dell'Impero ottomano preferivano ingessare la situazione e contrastare qualunque manovra, russa come austria-

ca, finalizzata a soccorrere le popolazioni cristiane nelle province turche di confine. L'Inghilterra, fautrice di questa politica, difendeva il principio dell'integrità territoriale dell'Impero turco. Traendo vantaggio dalla sua debolezza, essa svolgeva al suo interno un ruolo di eminenza grigia, e in più controllava le vie marittime dei commerci con le Indie. E come non tollerava gli ingrandimenti territoriali russi o austriaci realizzati a spese della Turchia, così non accettava la nascita di microstati balcanici indipendenti, che avrebbero finito per gravitare nella sfera d'influenza di altre potenze. Tuttavia le esazioni, la tirannide e il fanatismo religioso continuavano a provocare nei paesi islamici rivolte di raya, puntualmente represse nel sangue dai turchi, e ingerenze militari da parte della Russia e dell'Austria. Così l'Europa, per togliere a queste ultime ogni pretesto per intervenire, tentò di abolire gli abusi introducendo in Turchia una serie di radicali riforme. Queste misure implicavano molteplici trasformazioni, destinate in particolare a risanare le finanze del governo turco, a rafforzarne la potenza militare e a garantire l'equiparazione giuridica tra musulmani e raya. Furono queste le ragioni politiche - ma ve ne furono anche di economiche - che spinsero gli Stati europei e il movimento umanitario a unire gli sforzi per imporre a Costantinopoli il principio dell'uguaglianza dei diritti tra sudditi musulmani e dhimmT. L'emancipazione di questi ultimi implicava però un radicale capovolgimento di valori. Un concetto nuovo, oggettivo e di carattere universale - quello di diritto - si sostituiva alla vecchia idea di tolleranza, frutto del rapporto soggettivo e gerarchico tra un superiore e un inferiore, rapporto che creava, manteneva e riproduceva la disuguaglianza. Infatti, mentre il diritto è inalienabile, la tolleranza, fondata sulla buona volontà o sull'opportunismo politico, è revocabile a piacere. E se il primo garantisce dignità e sicurezza, la seconda, essendo la negazione del diritto, genera ima politica di espedienti, intrighi e corruzione, i soli mezzi per sopravvivere in una condizione di permanente insicurezza. A questo punto occorre precisare che nel caso dei raya il termine

«emancipazione» designa un processo assai diverso da quello, sia pure omonimo, che vide coinvolti gli ebrei e i protestanti nei paesi cristiani e cattolici. Infatti, dal punto di vista politico e ideologico, i dhimmi non sono assimilabili alle minoranze religiose europee; tuttavia, in assenza di un termine migliore, continueremo a usare «emancipazione», anche se esso rimanda a un contesto differente da quello europeo. Tra il principio di protezione inteso in senso europeo e quello di emancipazione esisteva una differenza profonda. La protezione nasceva da un insieme di accordi commerciali tra Stati per promuovere il commercio su basi reciproche. Queste convenzioni riguardavano i mercanti ottomani trasferitisi in Europa e i commercianti stranieri insediatisi nell'Impero turco, ai quali più tardi si aggiunsero i raya impiegati nei consolati, il cui numero restava però limitato e soggetto a dispute. Tuttavia, imponendo alla Turchia l'abrogazione della dhimma, l'Europa imboccava una direzione totalmente diversa: non solo interferiva nelle scelte del governo di uno Stato sovrano, ma per giunta sopprimeva di sua iniziativa un principio fondamentale della politica islamica: la discriminazione e la disuguaglianza di cui dovevano essere oggetto in tutti i campi i popoli indigeni sottomessi non musulmani. Non si trattava più, come nel caso della protezione, di accordi concernenti un ristretto numero di persone, ma di un'iniziativa riguardante i milioni di cristiani raya che, con densità diverse a seconda delle casualità storiche e geografiche, vivevano soggetti a leggi di conquista arabo-islamiche in quelli che un tempo erano i loro paesi. Imponendo alla Porta il principio dell'uguaglianza dei diritti, l'Europa sperava di pacificare i Balcani e, al tempo stesso, di giustificare di fronte alla propria opinione pubblica il sostegno accordato a un Impero turco riformato, che avrebbe abolito la discriminazione dei cristiani. Il 3 novembre 1839 il sultano Abdùl-Mejld emanò il Hatt-i Shertf(= Nobile Editto) di Gulhane 1 . Dopo la cocente disfatta militare inflittagli a Nezib [Nizip], qualche mese prima, dal suo vassallo Muhammad 'Ali, il suo trono era stato salvato per il rotto della cuffia dall'intervento delle potenze europee. In questo fir-

mano, il sultano annunciava la sua intenzione di procedere a un insieme di riforme (tanzimat) che avrebbero migliorato le condizioni dei suoi sudditi, indipendentemente dalla loro religione. Durante la guerra di Crimea (1853-1856), la Turchia misurò di nuovo la sua debolezza in confronto alla Russia e la sua dipendenza dagli aiuti militari franco-inglesi. Il 18 febbraio 1856, nel corso di una cerimonia ufficiale, il sultano Abdul-Mejid diede lettura del Hatt-i Humayun (= Editto Imperiale), con cui annunciava una serie di riforme che avrebbero posto fine agli abusi e alle ingiustizie e garantito la sicurezza dei beni e delle persone e l'uguaglianza di tutti i suoi sudditi di fronte alla legge, senza distinzioni di culto. Questi firmani furono emanati alla fine di due guerre che, senza il sostegno dell'Europa, sarebbero state fatali alla Porta. Entrambi erano stati voluti dall'Inghilterra, il primo da lord Palmerston, ministro degli Affari Esteri, e il secondo da lord Stratford de Redcliffe, ambasciatore inglese a Costantinopoli e promotore del movimento turcofilo. Il Trattato di Parigi, siglato qualche settimana dopo il Hatt-i Humayun, nell'articolo 7 specificava che le potenze europee firmatarie - Francia, Austria, Inghilterra, Prussia, Russia e Regno di Sardegna - ammettevano la Sublime Porta a partecipare ai vantaggi del diritto pubblico, e si impegnavano altresì a «rispettare l'indipendenza e l'integrità territoriale dell'Impero ottomano». L'articolo 8 confermava il punto precedente e precisava che i conflitti con la Sublime Porta dovevano essere risolti con la concertazione, e non con la forza. Come ad associare l'emancipazione dei raya al rispetto dell'integrità territoriale turca, l'articolo seguente si riferiva direttamente al Hatt-i del 1856 e ribadiva l'intenzione del sultano di istituire l'uguaglianza tra tutti i suoi sudditi, «senza distinzioni di religione né di razza». In questo modo l'Europa definiva chiaramente la sua posizione: il rispetto dell'integrità territoriale della Turchia era vincolato a un insieme di riforme amministrative, compresa l'introduzione dell'uguaglianza dei diritti promessa dal sultano. Contrariamente alle apparenze, questa politica favoriva gli interessi turchi e danneggiava le aspirazioni dei popoli balcanici

che sosteneva di proteggere, per quanto sia innegabile che, all'inizio del XIX secolo, solo i greci, i serbi e i rumeni manifestassero una qualche velleità di indipendenza. Secoli di umiliante servitù avevano distrutto, anche nei più colti tra i dhimmi, le qualità necessarie per unirsi e liberarsi. La loro decadenza sociopolitica era accentuata dalle discordie e dalle delazioni croniche. Minacciati da potenti vicini, i raya dei Balcani rischiavano di passare dal dispotismo turco al giogo austriaco o russo. Poiché l'Europa aveva decretato, in funzione dei suoi interessi, l'intangibilità dell'Impero turco - riformato, è vero - , la sua propaganda si sforzò di provare con argomenti speciosi la tolleranza della Porta nei confronti dei dhimmi, la cui condizione era perfino presentata come migliore di, e preferibile a, quella dei musulmani. Il movimento turcofilo europeo esaltava i privilegi e le libertà di cui godevano i raya, descritti con tratti negativi e spesso oggetto di commenti malevoli. Per comprendere tali argomenti, divenuti quasi classici anche in opere attuali, è necessario inquadrarli nel contesto della politica franco-inglese dell'epoca, preoccupata di mantenere l'equilibrio europeo 2 . Benché essenziale, l'abolizione delle discriminazioni e dell'insicurezza di cui soffriva la totalità dei popoli raya in fondo non era altro che una misura preliminare. Ogni millet fu riorganizzato al fine di eliminare, ai vertici dell'onnipotente gerarchia religiosa, i fattori responsabili degli abusi, della corruzione, del nepotismo e dell'ignoranza. A tali misure si accompagnò un programma di sviluppo scolastico e culturale. Sul piano amministrativo, i raya furono ammessi a condividere con i musulmani le responsabilità del governo delle province, con una rappresentanza proporzionale al peso di ogni comunità all'interno dello Stato. La parità di diritti implicava anche la partecipazione ai doveri militari: infatti, nella condivisione da parte dei raya dei pericoli e dei rigori delle battaglie, Londra vedeva il mezzo per addestrare alla guerra popoli soggetti al divieto del porto d'armi e condizionati dalle leggi fino a diventare vigliacchi. Questa trasformazione dei popoli tributari in cittadini alla pari con i musulmani rientrava nel vasto programma di rinnova-

mento (tanzlmat) dell'Impero ottomano avviato con il supporto di esperti europei. Rinnovamento che implicava l'introduzione nel dar al-islam delle tecniche amministrative occidentali, con tutto il corrispondente apparato giuridico, culturale e scientifico 3 . Già il sultano Mahmud II (1808-1839), impressionato dallo sviluppo industriale europeo, aveva iniziato a riformare il suo Impero; a maggior ragione, il rafforzamento militare delle potenze confinanti (russi e austriaci) non poteva che accrescere il desiderio della Porta di assicurarsi la lealtà dei suoi sudditi raya. Perciò la corrente riformista turca si impegnò a eliminare le divisioni confessionali e a fondere l'insieme eterogeneo dei popoli dell'Impero in un'unica nazionalità, sulla base di una nuova ideologia: l'«ottomanismo». Questo movimento nazionalistico, che predicava l'uguaglianza di tutti i sudditi ottomani, era irriducibilmente opposta, in virtù della sua concezione laica della società, ai valori della umma, fondati sulla solidarietà religiosa. L'ottomanismo tuttavia occultava il tratto fondamentale insito nelle rivolte dei raya, le cui rivendicazioni di libertà religiosa si intrecciavano alle aspirazioni nazionali. I serbi, i rumeni, i bulgari, i greci, gli armeni lottavano più per il loro territorio, la loro lingua, la loro cultura e la loro storia che per la loro religione. Ispirato a concezioni astratte importate dall'estero, l'ottomanismo restava un movimento superficiale e limitato a un ristretto numero di uomini politici. Concepito come veicolo di emancipazione, esso teorizzava ima strategia riformistica che era destinata a sconvolgere le tradizioni politiche e gerarchiche della umma. La nuova società, auspicata da politici ottomani realisti e desiderosi di migliorare le condizioni culturali ed economiche dei loro popoli, esigeva innanzitutto l'abolizione delle arcaiche strutture sociali che consacravano l'umiliazione dell'infedele e favorivano l'oppressione e la corruzione giudiziaria. I consoli europei menzionano spesso le carenze della giustizia ottomana. Lord Holmes, console inglese di Bosna-Serai (Sarajevo), riassume la situazione in una lettera del 1871 a lord Granville, ministro degli Affari Esteri:

Il ritardo superfluo e la negligenza a scapito di persone spesso innocenti, l'aperta concussione e la corruzione, l'invariabile e ingiusta preferenza di cui godono i musulmani in tutte le controversie fra turchi e cristiani - elementi, questi, che contraddistinguono l'amministrazione turca di quella che in tutto l'Impero è chiamata «giustizia» - non può non suggerire una domanda: quale sarebbe il destino degli stranieri in Turchia se le potenze europee revocassero le capitolazioni? Io sono convinto che la loro situazione nelle province sarebbe in ogni caso intollerabile, e che tutti, senza eccezione, lascerebbero il paese, mentre l'indignazione europea contro la Turchia ne causerebbe la rovina. L'ignoranza generale, la corruzione e il fanatismo diffusi in tutte le classi precludono ogni speranza in un'efficace amministrazione della giustizia almeno per un'altra generazione. 4

Qui fa la sua comparsa un fattore nuovo, l'opinione pubblica, elemento che condiziona il sostegno morale e politico europeo alla Turchia e la preserva dal crollo. Si spiega così la preoccupazione di fondo delle cancellerie europee, e in particolare del Foreign Office, di presentare l'esistenza dei raya, attraverso il movimento turcofilo, in una luce idillica che, per quanto necessaria alla salvaguardia dell'equilibrio europeo, non era necessariamente conforme alla realtà vissuta. Poiché la condizione dei cristiani della Penisola Balcanica aveva assunto una dimensione internazionale, che rischiava di provocare un conflitto su scala europea, la questione delle riforme preoccupò l'Europa fino alla prima guerra mondiale. L'attività diplomatica portò all'accumulo nelle cancellerie di innumerevoli volumi di rapporti, analisi, lettere che oggi costituiscono un'inestimabile fonte di informazioni sui cristiani raya. Le riforme, ultima speranza europea prima di arrivare allo smembramento di un Impero che teneva in vita a prezzo di enormi sforzi, incontrarono un'accanita resistenza negli ambienti musulmani.

La reazione islamica Nelle società islamiche del XIX secolo la disuguaglianza tra dhimmi e musulmani non solo costituiva un dogma ideologico e giuridico, ma corrompeva anche l'intero sistema relazionale della vita quotidiana. Perciò i musulmani interpretarono i concetti di diritto e di uguaglianza come un'eresia sovversiva imposta dalla cristianità per indebolire l'islam. Contro le riforme, in particolare contro quelle che concernevano l'uguaglianza religiosa, si scatenò una violenta opposizione. L'opposizione all'Europa Nell'Impero ottomano l'adozione dei principi occidentali in materia di uguaglianza dei cittadini e libertà dei popoli sollevava problemi religiosi e politici che investivano la legittimità e la sicurezza stessa dell'impero. Infatti l'emancipazione dei raya si inseriva in un vasto contesto di cooperazione, di scambi e di interazioni culturali tra Occidente (dar al-harb) e dar al-islam. Ora, la modificazione dei rapporti tra queste due entità costituiva di per sé il possibile fattore scatenante di una rivoluzione ideologica, sociale e politica. Al concetto di guerra permanente e obbligatoria contro il dar al-harb subentrava infatti una relazione pacifica, che favoriva l'adozione di riforme e di idee ispirate da un mondo non musulmano ormai assolto dal disprezzo e dal biasimo teologico. Questa riabilitazione apriva la strada all'emancipazione dei raya, a loro volta ex harbT le cui terre erano entrate a far parte del dar alislam. Inevitabilmente, il processo di emancipazione portava con sé ima serie di conflitti territoriali, poiché i seguaci delle «religioni tollerate» erano di fatto popoli espropriati. Perciò la logica int e m a del jihad escludeva l'emancipazione religiosa. La guerra permanente, la perversità del dar al-harb e l'inferiorità degli harbT sottomessi costituivano i tre poli interconnessi ed essenziali su cui si erano fondate l'espansione e la dominazione religiosa e politica della umma. Le circostanze politiche intemazionali accentuavano l'intolleranza religiosa. La Francia, nonostante si proclamasse amica dei

musulmani, aveva invaso l'Egitto (1798) e l'Algeria (1830). L'Inghilterra, grande alleata della Turchia, stava assoggettando i musulmani delle Indie. A Navarino (1827), le due potenze unite avevano affondato la flotta turco-egiziana e facilitato l'indipendenza greca, sebbene allo scopo di sottrarre il popolo ellenico alla tutela russa. La Russia, dal canto suo, nel corso della sua espansione sul Mar Nero si era impadronita della Crimea (1783), della Georgia (1800) e della Bessarabia (1812); inoltre, sognando di ripristinare a Costantinopoli la gloria di Bisanzio, assicurava il suo sostegno alle rivolte in Serbia, Macedonia e Romania. Parallelamente, conquistava territori armeni in Persia e si arrogava il diritto di controllo sull'intera popolazione armena dell'Impero ottomano (Trattato di Santo Stefano, 1878). La cristianità, percepita nel suo insieme come dar al-harb, senza distinzione di Stati o di strategie politiche, costituiva il nemico storico che l'islam aveva combattuto fin dal principio della sua espansione al di fuori dei confini arabi, e che aveva sottomesso in Africa, in Asia e in Europa, in una guerra protrattasi per dodici secoli, le cui gesta eroiche si perpetuavano nei racconti edificanti e nelle leggende popolari. L'apposizione all'ottomanismo La classe religiosa musulmana rimproverava al sultano di obbedire alle corti straniere e di abbandonare la legge islamica, che aveva assicurato le folgoranti vittorie della umma nella sua fase trionfante. La dottrina del panislamismo, predicata dagli 'ulama, reclamava il ripristino della politica dei primi califfi e l'unione di tutti i musulmani nel jihad contro i loro correligionari modernisti e contro l'Occidente. All'opposto dell'ottomanismo, che incarnava un nazionalismo unitario e laico, il panislamismo glorificava la superiorità dell'islam e i valori del jihad. Mentre i riformisti turchi, con l'ottomanismo, elaboravano una formula laica finalizzata a facilitare l'integrazione dei sudditi cristiani e la modernizzazione dell'Impero in base alla separazione dei poteri spirituale e temporale, gli 'ulamà predicavano il panislamismo, che insegnava esattamente l'opposto e proclama-

va la supremazia della sfera religiosa. Questo movimento, che affondava le sue radici nell'humus storico, nella tradizione e nella legge, conobbe un forte sviluppo presso tutte le classi sociali. Negli ultimi decenni del XVIII, e per tutto il XIX secolo, le rivolte endemiche dei dhimmi cristiani nelle province balcaniche e greche, come pure in Anatolia, esacerbarono gli odi religiosi da una parte e dall'altra. La violenza degli scontri e la cacciata dei musulmani dalle regioni cristiane liberate risvegliavano nella umma l'antico terrore di perdere il frutto delle proprie conquiste e di subire la vendetta di popoli defraudati e lungamente oppressi. Nei centri più popolosi i dervisci, predicando la guerra santa, corroboravano il sentimento generale di una catastrofe imminente che avrebbe colpito l'islam: ben presto Allah avrebbe castigato il suo popolo, reo di aver abbandonato le sue leggi per adottare quelle dell'Occidente. Questo pessimismo era alimentato dal continuo afflusso nelle città dell'Impero dei profughi musulmani che sfuggivano alla dominazione cristiana sulle ex province della Turchia europea. Indotti al fanatismo dalle guerre e dalle sofferenze, spogliati della loro onnipotenza dai tanto disprezzati ex sudditi cristiani, questi rifugiati incitavano il popolo all'odio per la cristianità. La Sublime Porta insediava questa moltitudine di profughi musulmani (muhajirun) nelle sue province nevralgiche, al fine di rafforzare il proprio controllo su di esse grazie a ima politica di popolamento islamico. I muhajirun delle regioni balcaniche furono inviati in Armenia, mentre quelli caucasici, negli anni 18741875, si stabilirono nelle province del Danubio - allora in pieno fermento nazionalistico - , nel Golan e in Galilea (Terra Santa), e alle porte di un Libano fortemente cristianizzato. Nel 1878, dopo l'annessione da parte dell'Austria della Bosnia-Erzegovina, i coloni musulmani bosniaci furono trasferiti in Macedonia e in Terra Santa. Nel 1912 la Russia tentò di arrestarne l'emigrazione in Armenia. Furono circa tre milioni i muhajirun che, un'ondata dopo l'altra, affluirono dai territori europei liberati e si insediarono nella Turchia asiatica e nelle sue province arabe 5 .

L'opposizione ali 'emancipazione Nel 1841, il console generale inglese a Beirut osservava: È un fatto curioso che, a soli sei mesi o poco più dalla lettura e dalla proclamazione in questo paese del Hatt-i SherTf di Gulhane, vi sia stata una reazione generale a favore del Corano e dei privilegi esclusivi dei maomettani nei confronti dei cristiani, in totale opposizione con la dottrina dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge che è l'essenza del Hatt-i SherTf.6 N o n solo l'emancipazione dei sudditi tributari implicava aspetti religiosi e politici insiti nel carattere dualistico della dhimmitudine, ma, come se non bastasse, l'unione dei poteri religioso e temporale all'interno dello Stato islamico determinava un'inscindibile fusione tra il confessionalismo e la sfera politica. Le leggi del jihad, fondamento del governo dei popoli vinti, tolleravano l'esistenza dei dhimmT solo in un contesto di discriminazione, all'interno del quale il pagamento della jizya simboleggiava la sottomissione degli infedeli alla supremazia islamica. Perciò i tradizionalisti interpretarono l'abolizione della jizya da parte dei riformisti e il riconoscimento dell'uguaglianza tra musulmani e raya come ima rottura della dhimma, rottura destinata a restituire alla umma i suoi iniziali diritti sulla vita e i beni dei dhimmT, e quindi a sfociare nella riduzione in schiavitù di donne e bambini oppure nell'espulsione, misure che erano state sospese soltanto in virtù del contratto di sottomissione. Pertanto le rappresaglie contro i dhimmT emancipati non solo erano giustificate, m a diventavano sia obbligatorie che meritorie, perché i seguaci delle religioni tollerate erano stati risparmiati solo nel quadro di un'ideologia politico-religiosa di mortificazione dell'infedele. Poiché il principio stesso dell'uguaglianza dei diritti era un sacrilegio, esso potè essere imposto unicamente da una forza esterna che poggiava su un dispiegamento militare. Per quanto timide fossero nelle loro applicazioni, le riforme scandalizzavano i tradizionalisti, che di conseguenza aggredivano i dhimmT, spesso con il tacito consenso delle autorità, le quali, con il pretesto di

evitare un bagno di sangue, si affrettavano a sospendere le impopolari misure. Così i dhimmt si trovarono di nuovo al centro del conflitto tra un movimento religioso di marca reazionaria e ima corrente musulmana liberale, ansiosa di modernizzare l'apparato militare del suo paese e di procurarsi l'appoggio europeo contro le usurpazioni russe. Questo conflitto tra forze riformiste e reazionarie - talora in collusione tra loro - conferì al XIX secolo il contraddittorio aspetto di un'epoca di speranze e di lutti. Esso fu infatti un secolo di emancipazione, ma anche di persecuzioni e massacri (Grecia, Libano-Siria, Serbia, Bulgaria, Armenia). La reazione era alimentata non solo dai pregiudizi religiosi, ma anche da un imperialismo di tipo culturale. L'interesse dei ricercatori europei per il patrimonio spirituale trasmesso dall'Antichità classica, infatti, risvegliava l'orgoglio nazionale dei raya e il loro desiderio di libertà proprio nel momento in cui le riforme ottomane sottraevano ai musulmani i loro privilegi tradizionali. Gli ebrei e i cristiani (greci, copti, armeni, serbi, bulgari, rumeni) si ricordavano di non essere sempre stati minoranze religiose avvilite, ma grandi nazioni, di cui, nei loro stessi paesi, era stata tollerata soltanto la dimensione religiosa, per di più a prezzo del pagamento di un tributo e della loro umiliazione. All'annientamento delle loro comunità si era accompagnato lo sradicamento delle loro culture, delle lingue e dell'arte, simboli della loro specificità nazionale. Perciò era con profondo rancore che la umma vedeva emergere dalle rovine e dall'oblio un patrimonio nazionale anteriore alla sua conquista. Queste implicazioni culturali del processo di emancipazione determinarono, come nel caso estremo degli armeni, la distruzione di monumenti e la trasformazione di molte chiese in moschee. L'emancipazione Le vicissitudini sin qui brevemente rievocate illustrano le cause che conferirono alla lotta di emancipazione e di liberazione dei popoli dhimmì dell'Impero ottomano il carattere violento e fanatico delle guerre di religione. La corrispondenza e i rapporti con-

Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Si nota l'assenza della croce (Ermete Pierotti, «Jerusalem Explored», 2 voli, Bell and Daldy, London 1864, voi. 2, tavola 31)

solari descrivono con cadenza quasi quotidiana, per giunta dal vivo, la battaglia dei raya per la loro emancipazione. Ebbene, da tutti questi documenti emerge con chiarezza un identico schema politico: erano gli 'ulama, custodi dei valori politico-religiosi, a fomentare le rappresaglie popolari. I motivi delle rivolte erano religiosi - i raya erano accusati di aver infranto i patti con un comportamento insolente e arrogante - ma i loro fini erano politici: intimidire i governatori turchi incaricati di imporre le riforme. In Armenia, in Siria, in Libano, in Terra Santa, in Erzegovina e in Macedonia i funzionari turchi sospendevano le riforme, temendo di essere assassinati, e quando le rappresaglie, collettive o individuali, contro i raya rischiavano di irritare le nazioni protettrici, la umma tentava di terrorizzare i cristiani con pressioni e minacce per obbligarli a rinunciare ai loro nuovi diritti.

Gli ebrei, i quali, sia per motivi demografici che religiosi, non avevano mai avuto alcun ruolo nelle ambizioni politiche dell'Austria e della Russia, avevano, se così si può dire, beneficiato di riflesso dell'emancipazione. Nei territori musulmani - come il Nord Africa e lo Yemen - , privi di cristiani e per nulla minacciati da ingerenze russe, la dhimma degli ebrei fu mantenuta senza che ciò turbasse più di tanto l'Europa, se non per le deplorevoli conseguenze economiche. Questo fatto spinse gli ebrei ottomani a esercitare con prudenza e moderazione i loro nuovi diritti. È chiaro quindi che il contesto politico in cui si inserisce l'emancipazione dei raya cristiani o ebrei varia a seconda della religione e, all'interno delle diverse comunità cristiane, in funzione della vicinanza e della potenza dello Stato protettore e dei suoi interessi politici. Diversi anche gli strumenti di pressione di cui disponevano i protettori dei due gruppi. Nel caso dei cristiani, essi consistevano in una protezione politica e, all'occorrenza, militare, scandita dalle seguenti tappe: firma del Trattato di Kuquk Kainarji (1774), intervento di una squadra navale anglo-franco-russa a fianco dei greci (Navarino, 1827); instaurazione di un protettorato europeo sui cristiani di Turchia (Trattato di Parigi, 1856); invio di aiuti militari ai maroniti (Siria, 1860); intervento dell'esercito russo in difesa degli armeni (presa di Kars, 1878) e a sostegno della ribellione degli slavi (1877-1878); instaurazione del protettorato austriaco sulla Bosnia-Erzegovina (1878) e di quello russo sugli armeni (Trattato di Santo Stefano, 1878). Gli ebrei d'Europa e quelli statunitensi, dal canto loro, difendevano l'emancipazione dei loro correligionari in nome di una morale universale, denunciando gli abusi del fanatismo al cospetto dell'opinione pubblica, dei Parlamenti e della stampa europea. Questi eccessi screditavano i regimi che li tolleravano o le Chiese che se ne rendevano responsabili. Per necessità o per sincera convinzione - è difficile misurare il ruolo giocato da queste due componenti negli arcani del potere - , le autorità musulmane presero provvedimenti per stroncare il fanatismo. Gli esponenti dell'alto clero cristiano sconfessarono le accuse di crimine rituale e altre pratiche pubbliche di marca antisemita, frequenti soprat-

tutto tra i greco-ortodossi 7 , e i responsabili politici islamici promulgarono editti in difesa dei loro sudditi ebrei 8 . Dopo il 1860 si registra imo sforzo senza tregua delle organizzazioni ebraiche francesi e inglesi, in collaborazione con i consoli europei, per includere gli ebrei nelle misure di emancipazione inizialmente accordate solo ai dhimmT cristiani. Tale sforzo per promuovere l'uguaglianza religiosa nell'Impero ottomano, per colossale che fosse, si esplicava solo ai livelli superiori della sfera politica. Restava da compiere il passo più importante: imporre i decreti del sultano ai governatori regionali e alle masse islamiche. Infatti le autorità ottomane, temendo i pregiudizi popolari, le rivolte e l'ostilità degli 'ulama, spesso rinunciavano ad applicare le riforme. Impotente a controllare la corruzione e l'insicurezza generale delle province, il potere centrale turco abbandonava le minoranze all'arbitrio dei governatori locali o dei capitribù. Nel 1875 l'ambasciatore inglese a Costantinopoli riferiva che il gran visir Mahmud Pascià (Pasha) riconosceva l'impossibilità di introdurre in Bosnia la testimonianza dei cristiani nel corso dei processi. Pertanto constatava: «La conclamata uguaglianza tra cristiani e musulmani è comunque illusoria fintantoché viene mantenuta tale distinzione» 9 . Questa situazione giuridica comportava gravi conseguenze a causa delle modalità con cui si perveniva alla sentenza: «Questo punto [il rifiuto della testimonianza] è di grande importanza per i cristiani, poiché, considerando che i tribunali religiosi non ammettono né documenti né prove scritte, e neppure accolgono la testimonianza cristiana, essi non possono sperare che in una giustizia assai limitata» 10 . Di fatto l'intolleranza investiva l'intero ambito delle relazioni sociali e professionali, come attesta questo banale incidente: Circa un mese fa, un suddito austriaco di nome [...] fu assalito e rapito tra Sarajevo e Visoka da nove bashi-bazouk11. Al fatto assistette un musulmano rispettabile di quella città, di nome [...], il quale fu citato come testimone quando la vicenda fu portata al cospetto del tribunale di Sarajevo. Egli testimoniò in favore dell'austriaco, e il

giorno seguente venne convocato dal vicepresidente e da uno dei membri del tribunale e minacciato di essere gettato in carcere per aver osato testimoniare contro i suoi correligionari. 1 2

La difficoltà di imporre le riforme in un così vasto Impero provocò questo commento disincantato: «In verità la moderna perversione dell'idea orientale di giustizia consiste in ima concessione [elargita] a un attore per grazia e per favore, e non nell'enunciazione di un diritto [fondato] su principi di legge e ispirato alla ricerca dell'equità» 13 . Molto schematicamente, è possibile individuare tre forze distinte, che tuttavia operarono simultaneamente per destabilizzare il dar al-islam: l'emancipazione, i movimenti di liberazione dhimmT e la colonizzazione. Questi tre movimenti, legati ai progressi militari, intellettuali ed economici dell'Europa, fecero vacillare le società islamiche tradizionali. Senza tralasciare le differenze regionali, è evidente che il processo di emancipazione dei dhimmT seguì lo stesso schema tanto nell'Impero ottomano quanto, più tardi, nel Maghreb e in Persia. In tutte le province in cui l'indebolimento delle società islamiche favoriva la politica europea di emancipazione dei dhimmT, l'abolizione della discriminazione suscitò un conflitto tra l'autorità musulmana riformista, per quanto debole fosse, e l'ostilità degli 'ulama. In Egitto l'emancipazione dei cristiani, seguita da quella degli ebrei, si compì senza strappi: infatti M u h a m m a d 'Air, ansioso di conservare il sostegno economico e militare della Francia, aveva imbavagliato l'opposizione religiosa. Nel Maghreb l'emancipazione dei dhimmT patrocinata dall'Europa portò a uno scontro tra il potere islamico, minacciato di un intervento europeo, e il fanatismo delle masse. Fu così che il Pacte fondamental, imposto dalla Francia al bey di Tunisi nel 1857, dovette essere abrogato nel 1864 in seguito a un'insurrezione. L o stesso schem a si ritrova nel periodo compreso tra il 1850 e il 1875 in Marocco e in Persia, dove l'autorità riformista, e spesso impotente, del sultano o dello shah non riuscì a imporsi sulle masse guidate dagli 'ulama.

Dai documenti emerge che in Egitto e in Turchia la legislazione relativa ai dhimmì era meno severa che nel Maghreb, in Terra Santa, in Siria, nello Yemen e in Persia. In Terra Santa e in Siria le riforme imposte alla popolazione araba dal sultano turco provocarono cruente rappresaglie. Nel Maghreb fu necessario nientemeno che un completo capovolgimento di fronte - la colonizzazione - per modificare i comportamenti tradizionali. In Persia le minoranze si emanciparono grazie a una rivoluzione (1922), e nello Yemen la situazione rimase invariata fino all'emigrazione in massa degli ebrei verso lo Stato di Israele tra il 1948 e il 1949. Queste diverse modalità corrispondono alle differenti correnti storiche e ai peculiari tratti che caratterizzavano i vari popoli del dar ai-islam. Sebbene distinti - il nazionalismo mirava a liberare un territorio, mentre l'emancipazione lottava per abolire una discriminazione giuridica - questi due movimenti erano tuttavia organicamente collegati. Infatti ogni gruppo dhimmì, a causa della sua dispersione nella umma, partecipava di entrambi. Se i cristiani e gli ebrei rivendicavano uguali diritti sui luoghi in cui la storia li aveva dispersi, tali rivendicazioni si trasformavano tuttavia in movimenti nazionalistici nelle province che erano state culla della loro storia specifica: la Grecia, i Balcani, l'Armenia, la Terra Santa. Ecco perché persecuzioni e massacri colpirono indistintamente i dhimmì ovunque si trovassero, in quanto la umma accomunava in un identico rifiuto sia l'Europa - per giunta colonizzatrice - che patrocinava i movimenti di liberazione e di emancipazione, sia i suoi protetti. È possibile seguire l'arretramento della umma grazie alla traccia di sangue che lasciò nelle comunità dhimmì. La guerra di Crimea (1853-1856) suscitò rappresaglie contro gli armeni, espropriati a vantaggio dei rifugiati musulmani di etnia circassa. Massacri in Grecia e «orrori bosniaci» nei Balcani accompagnarono le guerre di liberazione greca e balcanica. L'emancipazione provocò lo sterminio di 20.000 cristiani in Siria e in Libano (1860). I pogrom in cui perirono tra il 1895 e il 1896, nell'Armenia turca, dai 100.000

ai 200.000 armeni, si estesero anche ai cristiani di Siria, i cui villaggi vennero incendiati e saccheggiati, mentre gli uomini furono uccisi e le donne rapite. All'inizio del XX secolo il nazionalismo armeno fu schiacciato da un genocidio che, tra il 1915 e il 1917, travolse indistintamente giacobiti, caldei, siriaci cattolici e protestanti. Nella sola città di Mardln (Mesopotamia) furono massacrati 86.000 giacobiti 14 . In meno di un secolo, le guerre di liberazione e i movimenti di emancipazione, oppure l'ascesa economica dei raya, provocarono l'estinzione di questi popoli e la loro pressoché totale scomparsa dal dar al-islSm. Eccettuato l'Egitto, che in questo periodo cruciale era controllato dall'Inghilterra, la disintegrazione dei popoli indigeni non musulmani della Turchia e del Levante fu il risultato sia dell'abolizione della dhimma che dell'alleanza - tanto temuta e ostinamente rifiutata in passato - tra i cristiani orientali e un Occidente indubbiamente seduttivo, ma che, sotto la vernice dell'umanitarismo, mascherava i suoi calcoli politici.

' Il decreto, noto anche come Tanzimdt Ferman-i, fu detto così perché venne firmato nel Giilhane, il «giardino delle rose» del palazzo imperiale di Istanbul [N.d.T.]. Stanford Jay Shaw, Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, 2 voli., Cambridge University Press, Cambridge 1976-1977, vol. 2, pp. 1 8 , 1 4 9 , 1 9 0 . 2

Roderic Hollet Davidson, Reform in the Ottoman Empire, 1856-1876, Princeton University Press, Princeton 1963 (University of Michigan Press, Ann Arbor 1993), pp. 95, 116, 195; Bernard Lewis, The Emergence of Modern Turkey, Oxford University Press, London 1968 (Oxford-New York 2002); Moshe Ma'oz, Ottoman Reform in Syria and Palestine, 1840-1861: The Impact of the Tanzimat on Politics and Society, Oxford Clarendon Press, Oxford 1968. 3

' Lettera inviata dal console di Bosna-Serai [Sarajevo] William R. Holmes a lord Granville, ministro degli Affari Esteri, Londra, 24 febbraio 1871, n. 20, PP 1877 [C. 1739] 92, p. 665. A proposito delle ingiustizie e della corruzione nell'Impero ottomano, vedi anche Report of Holmes to Elliot, allegato a Holmes, Ivi, n. 21, pp. 666-672.

Kemal H. Karpat, The Status of the Muslim under European Rule: The Eviction and Seulement of the Cerkes, «JIMMA», vol. 1, n. 2 e voi. 2, n. 1,19791980, pp. 7-27; Victor Guérin, Description géographique, historique et archéologique de la Palestine, 7 voli., Imprimerie impériale [poi Imprimerie nationale], Paris 1868-1880, vol. 1, Judée, 1868, p. 84; Xavier de Planhol, Les fondements géographiques de l'histoire de l'islam, Flammarion, Paris 1968, pp. 253-266; Stanford J. Shaw, Ottoman Population Movements during the Last Years ofthe Empire, 1885-1914: Some Preliminary Remarks, «JOS», n. 1, 1980, pp. 191-205. 5

Hugh Henry Rose (console generale di Siria, Beirut), Lettera al conte di Aberdeen, ministro degli Affari Esteri, Londra, 12 ottobre 1841, PRO [Public Record Office] Archives (London), oggi FO 78/449, n. 110, in Ma'oz, Ottoman Reform in Syria and Palestine cit., p. 200. L'emancipazione dei cristiani provocò una ribellione ad Aleppo nel 1850. Il patriarca greco cattolico Massimo vi aveva fatto un ingresso trionfale in pompa magna e con costosi paramenti sacri. Già irritati dalla coscrizione, i musulmani si scagliarono contro i quartieri cristiani. Vedi Ma'oz, Ottoman Reform in Syria and Palestine cit., pp. 190-91 e note. Gli ebrei, che avevano mantenuto il loro consueto comportamento improntato all'umiltà, non furono attaccati. 6

Per l'accusa di crimine rituale in Oriente vedi Moïse Franco, Essai sur l'histoire des Israélites de l'Empire ottoman: depuis les origines jusqu'à nos jours, Librairie A. Durlacher, Paris 1897 (ripr. anast. Georg Olms, Hildesheim 1973), pp. 47-48 e 87-88; Jacob M. Landau, Ritual Murder Accusations in Nineteenth-Century Egypt, in Middle Eastern Themes, Frank Cass, London 1973, pp. 99-142. Vedi anche Victor X. Fontanier, Voyage dans l'Inde, dans le Golfe Persique par l'Égypte et la Mer Rouge, 2 voli., Paulin, Paris 1844-1846, vol. 2, p. 607. Le accuse scagliate, e frequentemente reiterate, contro gli ebrei dalle Chiese orientali, avevano causato la tortura e la morte di molti innocenti. Vedi supra, cap. 5, nota 16. 7

Dopo l'accusa di crimine rituale a Damasco, sir Moses Montefiore aveva ottenuto dal sultano 'Abdul-Mejld, il 6 novembre 1840, un firmano che dichiarava falsa l'accusa di crimine rituale e ne proibiva la formulazione all'interno del suo impero.

8

'Lettera di sir Henry Elliot (Therapia, Istanbul) a lord Derby (Londra), 20 novembre 1875, FO 424/39, n. 518. 10 Lettera di sir Henry Elliot (Therapia, Istanbul) a lord Derby (Londra), 29 novembre 1875, FO 424/39, n. 572. " I bashi-bazouk (turco baflibozuk), lett. «teste corrotte» o «senza guida», erano soldati mercenari appartenenti alle truppe irregolari dell'Impero otto-

mano, tristemente noti per la loro indisciplina, i loro saccheggi e la loro brutalità. Fecero la loro comparsa alla fine del XVIII secolo e combatterono in Egitto contro Napoleone. I loro eccessi durante la guerra russo-turca del 1877-78 costrinsero il governo ottomano a rinunciare a essi [N.d.T.]. 12 Lettera di Edward Freeman (Bosna-Serai) a lord Derby (Londra), 30 dicembre 1876, FO, 424/40, n. 56. "Memorandum by Consul-General and Judge Sir P. Francis on the New Judicial Reforms Contemplated in the Sultan's Recent hade of 20th October and the Firman of 12th December 1875, Costantinopoli, 8 gennaio 1876, FO, 4 2 4 / 4 0 , allegato al n. 136. "John Joseph, Muslim-Christian Relations and Inter-Christian Rivalries in the Middle East, Suny Press, New York 1983, p. 98.

Capitolo 7 I nazionalismi (1820-1918)

La storia dei popoli schiavi è ovunque la stessa, o meglio, essi non hanno storia. Gli anni, i secoli si susseguono senza apportare modifiche alla loro situazione. Le generazioni vanno e vengono senza clamore. Si direbbe che essi temano di ridestare i loro padroni, addormentati accanto a loro. Tuttavia, se li esaminate da vicino, scoprirete che quest'immobilità è solo apparente. Un lavorio sordo e incessante li agita. La vita in loro si è totalmente ritirata all'interno. Somigliano a quei fiumi che scompaiono sotto terra: se incollate l'orecchio al suolo, potete udire il mormorio sordo delle loro acque; poi, a poche leghe di distanza, riappaiono nella loro interezza. Questa è la condizione dei popoli cristiani della Turchia sotto la dominazione ottomana '. Di primo acchito, abbracciare in una visione d'insieme l'evoluzione di popoli così diversi e numerosi come quelli che costituivano l'universo dhimmì appare un'impresa azzardata. Tuttavia si può notare che questi popoli avevano almeno un punto in comune: che fossero ebrei o cristiani - di nazionalità greca, spagnola, slava, bulgara, armena ecc. - , erano tutti soggetti alle stesse leggi islamiche. È quindi possibile appurare se vi fossero divergenze o analogie nel loro modo di rapportarsi a questa comune realtà. Inoltre è necessario sgombrare il campo da ambiguità e confusioni terminologiche. Infatti espressioni quali «indipendenza» e «territorio liberato» presuppongono una legittimità nazionale e implicano l'esistenza in questi popoli di caratteri nazionali, an-

corché attenuati dal loro stato di dhimmitudine, ossia dalla loro soggezione all'autorità politica islamica. Di conseguenza, descrivere tali gruppi unicamente come «minoranze religiose» sarebbe inadeguato. Peraltro quest'espressione, di uso relativamente recente, è nata nel mondo cristiano in riferimento all'emancipazione degli ebrei europei, oppure dei protestanti nei paesi a maggioranza cattolica. Tuttavia le considerevoli differenze tra Europa e Oriente fanno sì che il suo impiego in questo contesto sia particolarmente improprio, in quanto rischia di dare adito a interpretazioni errate. Il termine arabo ahi al-dhimma (genti del patto), che rimanda a un trattato tra vincitori e vinti, è più corretto. Quanto a millet, usato dai turchi e dai consoli stranieri, esso corrisponde alla parola «nazione» e designa una collettività di tipo etnoreligioso. Ciascuna di queste comunità non musulmane presenta peculiari caratteristiche nazionali e religiose, assai difficili da separare, tanto esse sono intrecciate e fuse tra loro. Inoltre, tali caratteristiche si evolvono nel tempo: ora si affievoliscono, si attenuano o scompaiono a seconda delle circostanze, ora invece si accentuano e si consolidano. Questa mutevolezza, che determina la specificità di ogni gruppo dhimmi, è il risultato di diverse variabili - il radicamento geografico, la religione, la storia - unite a fattori endogeni quali lo sviluppo demografico, la deculturazione, l'assimilazione, la classe sociale di appartenenza ecc. Pertanto, pur segnalando l'esistenza di differenze non soltanto tra i vari gruppi dhimmi, ma anche all'interno di ognuno di essi, differenze legate alle loro specifiche componenti socioculturali, è possibile individuare alcune analogie nella sfera che avevano in comune, quella della dhimmitudine, ossia nelle conseguenze del fatto di essere soggetti alle stesse leggi.

Anatolia e Turchia europea: caratteri comuni Senza entrare nei dettagli del processo di liberazione dei diversi gruppi dhimmi, possiamo tuttavia ricostruire le tappe comuni che permisero loro di accedere all'indipendenza. Tali fasi, che investirono gli ambiti culturale, economico, religioso e politi-

co, presero forma in un contesto di interazioni e di interdipendenze. Il processo ebbe inizio con la rinascita delle lingue nazionali, che diede nuovo impulso alla produzione letteraria; in seguito il movimento culturale mise in moto la ricerca storica, e diede il via alla modernizzazione dell'insegnamento scolastico all'interno dei gruppi. Intanto, la laicizzazione e la riforma degli organi comunitari contribuivano a ridurre il dispotismo del clero, lo strapotere e la corruzione dei notabili. Infine, il fermento prodotto dal nazionalismo culturale innescò le insurrezioni e la lotta politica per l'abolizione della dhimma. La rinascita culturale L'antico patrimonio popolare di leggende e racconti di guerra religiosamente custodito nei conventi e nei monasteri, in particolare in quelli del monte Athos, dei monti Rodopi e dell'Armenia 2 , fecondò il rinnovamento delle culture dhimmi balcaniche e di quella armena. Le antiche lingue nazionali - greco, serbo, bulgaro, valacco (rumeno) e armeno - cadute nell'oblio e nel disprezzo, furono affinate e perfezionate. Una serie di riforme linguistiche codificò l'ortografia all'interno dei dizionari e delle grammatiche, e la lingua si modernizzò e si snellì, adeguandosi alle esigenze di una produzione letteraria moderna. Attingendo al folklore nazionale delle guerre contro i turchi, la filologia restituì il passato alla coscienza popolare e alimentò la ricerca storica. Questa rinascita culturale, alla quale concorsero la filologia, la letteratura e la storia, si manifestò in Grecia grazie ad autori quali Rhigas Velestinlis e Adamantios Korais, in Serbia con Vuk Karadzii, Dmitrij Obradovic e Ljudevit Gaj, in Romania con Samuel Klein [Samuel Micu], Ion Heliade-Ràdulescu e Mihail Kogàlniceanu, e in Bulgaria con Georgi Rakovski, Ljuben Karavelov e Dragan Tzarikov. Come i greci e gli ebrei, anche gli armeni seppero preservare la loro lingua nazionale fissandola in numerose opere storiografiche e letterarie. I monaci mechitaristi di Venezia (armeno-cattolici) 3 diedero vita a ricche biblioteche. Le loro tipografie pubblicavano opere storiche e filologiche che preservavano l'identità nazionale e religiosa.

Varcando le frontiere, il vasto movimento culturale dei popoli balcanici si ricollegava al fervore della ricerca storica, filologica, linguistica e sociologica fiorita nelle capitali dell'Europa occidentale nel XIX secolo. Riorganizzazione dei «millet» Nell'Impero ottomano tutti i cristiani duofisiti - fossero essi greci, slavi o siriaci - erano stati riuniti in un unico millet, che aveva per rappresentante il patriarcato greco-ortodosso. Quest'ultimo assunse la direzione degli altri patriarcati nazionali un tempo indipendenti: il patriarcato serbo di Pei, abolito nel 1766, e l'arcivescovato bulgaro di Ohrid, soppresso nel 1767. Il millet armeno, meno gerarchizzato, era governato da vari vescovi regionali (catholicoi). Verso la fine del XVIII secolo, il patriarca armeno di Costantinopoli riuscì a imporre il suo controllo e a raggruppare sotto la sua giurisdizione la totalità dei cristiani monofisi ti 4 . L'amministrazione civile e religiosa dei raya, devoluta al patriarca assistito dal Santo Sinodo, conferiva all'autorità ecclesiastica poteri assai più estesi sotto i sultani di quelli di cui godeva sotto gli imperatori bizantini. Poiché la loro investitura dipendeva da una concessione del sultano, in genere ottenuta con la venalità e gli intrighi, i capi del millet diventavano strumenti di controllo politico e di ingerenze da parte del sovrano ottomano. Per giunta, eccetto che in materia religiosa, la convalida delle decisioni di un patriarca richiedeva la ratifica di un funzionario della Porta, il che dava luogo a fenomeni di corruzione e intromissione 5 . La nobiltà bizantina che era sopravvissuta ai massacri legati alle conquiste, o che non era andata in esilio, entrò al servizio del sultano o mediante la pratica del devshirme o venendo integrata nei quadri dell'amministrazione pubblica, e si arricchì grazie agli appalti per la riscossione delle imposte. Questa collusione, o collaborazione, dei vinti cristiani con i vincitori musulmani si manifestò soprattutto fra i greci. Indispensabili al mantenimento del governo turco, questi ultimi controllavano l'intero settore dei servizi amministrativi. Furono probabilmente i peculiari caratteri di questa collaborazione, improntata all'ostilità e al disprezzo reci-

proci, a conferire al millet greco i tratti negativi descritti da tanti osservatori dell'epoca, per quanto filoellenici fossero. Ricordiamo che le funzioni civili e le cariche ecclesiastiche venivano concesse dal sultano al miglior offerente. L'acquisto delle diocesi obbligava i titolari a recuperare fondi tramite la vendita di cariche religiose minori, mentre il commercio degli incarichi amministrativi arricchiva i banchieri e gli usurai greci del Fanar. Questa pratica, che si ripercuoteva a tutti i livelli della scala sociale e ricalcava la situazione vissuta dai cristiani d'Oriente sotto gli omayyadi e gli abbasidi, impoveriva le istituzioni. Spesso sollecitata da contestatori ambiziosi, la Porta interveniva negli affari dei patriarcati, giocando sulle discordie e gli intrighi per imporre elezioni o dimissioni arbitrarie. La riforma e la modernizzazione dell'insegnamento scolastico, unite allo studio delle lingue e delle storie nazionali, risvegliarono l'orgoglio delle nuove generazioni raya. Una classe di intellettuali educati all'estero, di artigiani, di piccolo borghesi iniziò a contestare il dispotismo dei notabili e dell'alto clero. Quest'evoluzione all'interno dei singoli millet diede il via alla lotta per la democratizzazione degli organismi comunitari. In questa fase i nazionalismi dhimmT, sebbene affondassero le radici nella religione, si configuravano come movimenti di intellettuali in conflitto con le loro gerarchie ecclesiastiche, ree di essersi fatte strumenti e complici della dominazione islamica. Anche l'abbattimento delle strutture comunitarie istituite e controllate dal potere musulmano, sulle quali era stato edificato l'intero sistema della dhimmitudine, appariva una fase preliminare obbligata della lotta per l'indipendenza politica. Questa fase corrispondeva peraltro all'evoluzione ideologica e agli orientamenti anticlericali propri del XIX secolo. È un vero peccato che le lotte in seno alle singole comunità non abbiano attirato maggiormente l'interesse degli storici, perché questi conflitti interni, con le loro tendenze democratiche e laiche, di fatto veicolarono la fine del potere economico dei patriarcati dhimmT e le rivendicazioni indipendentistiche. La lotta per l'indipendenza non si limitava quindi alla sola guerra contro i turchi, guerra che i popoli raya sarebbero stati in-

Affresco (XIII secolo). Monastero di SopoCani, Serbia (Foto D. R).

capaci di sostenere. Essa implicava altresì una radicale trasformazione di ogni millet grazie a una rivoluzione ideologica e a una riorganizzazione amministrativa. Questi cambiamenti avrebbero consentito a un contropotere laico di eliminare gli abusi e la corruzione che avevano preparato il regime della dhimmitudine e lo avevano mantenuto in vita. Le riforme introdotte comportarono l'assegnazione di salari fissi ai patriarchi e ai vescovi, e la separazione della sfera temporale da quella spirituale negli affari comunitari. La nascita di un potere laico preposto ad amministrare le rendite della comunità e a dirigere le scuole suscitò una viva opposizione all'interno del clero, in particolare di quello greco.

Durante questo periodo di transizione dalla dhimmitudine all'indipendenza, tutti i millet procedettero a una riorganizzazione interna (1860-1865). I loro rappresentanti, affrancati dalla tutela del sultano, annoveravano sia laici che religiosi, che disponevano di fondi per gestire le loro istituzioni scolastiche e filantropiche. La nuova gestione dell'informazione, affidata a ima stampa redatta in lingua nazionale, lingua riportata in vita da un processo di rinnovamento, assicurava la coesione comunitaria, introduceva la modernità e spalancava nuovi orizzonti concettuali. Quest'evoluzione, confortata dalle felici modifiche apportate dal tanzlmdt e dal sostegno delle nazioni europee protettrici, trasformò le masse dhimmT sottomesse e spianò la strada alla libertà. Le insurrezioni Malgrado secoli di soggezione, i popoli cristiani dei Balcani, della Grecia e dell'Anatolia non avevano mai perso la speranza di liberarsi. I preti di paese, benché fanatici, ignoranti e poveri, oltre a custodire la fede mantenevano viva nel popolo la coscienza nazionale. Il desiderio di indipendenza si esprimeva nelle elegie popolari nate dall'oppressione e nei poemi che celebravano gli eroi nazionali e la resistenza ai turchi. Questa miscela esplosiva di speranza e impotenza rendeva i raya vulnerabili agli intrighi di paesi pronti a sfruttarli o ad abbandonarli a seconda dei loro interessi. Le insurrezioni o le rivolte sporadiche incoraggiate dalla Russia o dall'Austria provocavano sanguinose rappresaglie. La speranza tuttavia non si estingueva, alimentata in particolare dagli agenti di queste due potenze, dalle circostanze, dal disfacimento dell'Impero ottomano, dalla sua debolezza e dalla superiorità militare degli Stati cristiani. La resistenza politica si organizzò dapprima nelle regioni di confine - i principati moldo-valacchi (Romania) 6 vicini alla Russia, il Montenegro e la Croazia - , con il sostegno di volta in volta austriaco o russo. Nel 1711 l'insurrezione dei moldo-valacchi appoggiati dalla Russia fallì. La Porta affidò l'amministrazione dei principati ad alcuni esponenti dell'antica aristocrazia bizantina, i fanarioti,

cui verme conferita la carica di governatori (hospodar)7. Nel 1769 i russi fomentarono un'insurrezione nel Peloponneso, ma Caterina II abbandonò il suo piano e lasciò sgozzare circa 50.000 greci (Trattato di Kùquk Kainarji, 1774). Questi smacchi non scoraggiarono né i greci né gli slavi, che continuarono a tentare di ottenere fondi, armi e aiuti militari dalla Russia. All'alba del XIX secolo, la rinascita del nazionalismo ellenico accompagnò le insurrezioni dei kleftes8 sulle montagne e nelle isole greche. La Filiki Etairia, associazione patriottica fondata da Rhigas e riorganizzata nel 1814 dal fanariota Alexandros Ypsilanti, alimentò il movimento nazionalista clandestino; qualche anno più tardi, insorse il Peloponneso. I turchi risposero alla rivolta dei dhimmT applicando le leggi del jihad: massacro e riduzione in schiavitù delle popolazioni cristiane ribelli. Nella sola Chio (1822), i 113.000 abitanti dell'isola si ridussero a 1800. Ma l'indignazione generale obbligò la Francia, la Russia e l'Inghilterra a intervenire. Esse tentarono di far assegnare alla Grecia lo status di provincia autonoma, retta da un governatore cristiano ma vassalla della Porta. L'indipendenza greca fu riconosciuta nel 1830. In Serbia, a partire dal 1804, Karadorde 9 , con un esercito composto da contadini, assunse la guida dell'insurrezione e scacciò i giannizzeri nel 1806. Nel 1830 la Serbia ottenne l'autonomia amministrativa pur restando vassalla della Porta, che manteneva guarnigioni militari sul suo territorio. Alcuni anni più tardi, con il Trattato di Parigi (1856), le potenze europee si sostituirono alla Russia in qualità di protettrici della Serbia e ne garantirono l'indipendenza. Influenzata dai rivoluzionari europei e dal panslavismo russo, e inoltre alimentata dal movimento per la rinascita culturale balcanica, l'insurrezione cristiana si diffuse in Montenegro, Bosnia, Erzegovina e Macedonia. Le ribellioni dei kleftes (greci), degli haiduk e dei comitadji (bulgari), bande di partigiani nazionalisti, furono appoggiate dalla Serbia, dall'Austria, dalla Russia e dal Montenegro. La lunga e sanguinosa marcia verso l'indipendenza dei vari popoli cristiani dei Balcani presenta i seguenti tratti comuni: il recupero, verso la fine del XVIII secolo, della lingua, della cultura e

della storia nazionali. Questa rinascita culturale, legata alla fioritura degli studi storici e al pensiero rivoluzionario europeo, condurrà alla democratizzazione e alla secolarizzazione dei millet tramite il ridimensionamento del potere amministrativo degli ecclesiastici e dei notabili. Tale processo è punteggiato di rivolte e insurrezioni fomentate e sostenute da potenze straniere.

Caratteri differenti Le affinità tra i processi generali di liberazione non possono tuttavia mascherare le grandi differenze che distinguevano, per non dire opponevano, le molteplici etnie insediate nelle province europee della Turchia. Tali differenze derivavano in primo luogo dalla geografia e dalla storia. Ad esempio i rumeni, contrariamente ai bulgari, beneficiavano della loro lontananza dai centri abitati, che erano prevalentemente o completamente islamizzati. La Valacchia subì la dominazione turca per quattro secoli, la Moldavia per tre; eppure questi principati, riimiti sotto il nome di Romania, non furono mai ridotti allo status di province amministrate da governatori musulmani. Retti dai boiari usciti dall'aristocrazia locale e dai loro voivodi10, essi poterono conservare le loro istituzioni, la loro cultura nazionale e una relativa autonomia. In quanto vassalli della Porta, però, erano tenuti a mantenere le guarnigioni turche di stanza nei loro territori, a fornire contingenti militari e a ottenere dal sultano l'investitura per i voivodi eletti dai boiari. I rumeni, popolo di origine neolatina ma di rito ortodosso uniate (ossia uniti a Roma), vivevano alla periferia del dar al-islam, il che costituiva un vantaggio rispetto ai tributari le cui terre erano state totalmente invase e inglobate nel mondo musulmano. Questa posizione periferica privilegiata permise loro di mantenere i legami con l'Occidente, in particolare con la Francia, e di prendere parte all'evoluzione culturale e politica della civiltà europea. Stretti nella morsa della Russia e dell'Impero ottomano, essi tentarono di svincolarsi dall'invadente protezione di Mosca, che nel 1802 aveva acquisito un diritto di controllo sugli hospodar.

La situazione era diversa per i serbi, i greci e i bulgari. I loro territori, amministrati dai turchi, subirono non solo una consistente immigrazione e colonizzazione musulmana, ma anche un regime di deportazione dei popoli indigeni. I greci tuttavia furono privilegiati rispetto ai bulgari e ai serbi, in quanto poterono preservare la loro Chiesa nazionale e, attraverso il controllo del governo turco, acquisire un considerevole potere economico e politico. Da Costantinopoli, le ricche famiglie fanariote proteggevano i loro compatrioti e intrecciavano relazioni con l'Europa, in particolare nelle aree periferiche dell'impero, che beneficiavano di larghe autonomie locali. Quanto ai serbi e ai bulgari, privati delle loro Chiese nazionali ed estromessi dalle loro sedi episcopali e metropolitane dal patriarcato greco, essi subirono ima profonda deculturazione sotto l'egemonia spirituale e religiosa del clero ellenico 11 . La scomparsa delle loro élite, dovuta ai massacri, alle conversioni o all'emigrazione, aveva lasciato senza una guida le masse incolte. I serbi, che si erano rifugiati sulle montagne del Montenegro, riuscirono a conservare il proprio spirito di indipendenza e ad arruolarsi negli eserciti austriaci, mentre i bulgari furono danneggiati dalla configurazione pianeggiante del loro territorio e dalla vicinanza di Costantinopoli, divenuta il simbolo dell'islam conquistatore. La lotta dei popoli cristiani della Turchia europea contro la dhimmitudine fu un processo vasto e articolato, scandito da molteplici fattori: in primo luogo la posizione geografica, la densità demografica e / o l'atomizzazione nella diaspora (legata alle deportazioni). Ma anche il grado di sopravvivenza della lingua e della cultura nazionali, l'autonomia o la soppressione del clero locale, i contatti con l'estero oppure l'isolamento influirono sugli eventi. L'assimilazione delle élite o l'irredentismo politico, il ruolo e il coinvolgimento delle potenze protettrici, la natura dei loro interessi e i casi della politica internazionale modularono anch'essi gli svolgimenti storici. A volte la ribellione partiva dalle élite (come in Romania), a volte dai montanari e dai contadini (è il caso della Grecia, della Serbia, della Bulgaria). La dinamica rivoluzionaria combinava

sforzi interni e aiuti stranieri. Le interferenze estere, connesse alle rivalità e agli interessi dei vari Stati europei, a tratti accelerarono, a tratti invece rallentarono od ostacolarono il movimento di indipendenza. Dopo il trattato del 1774 la Russia accreditò come consoli negli scali del Levante alcuni membri delle popolazioni greche autoctone, e garantì la sua protezione ai loro impiegati e servitori. La tutela russa stimolò i commerci e favorì il sorgere di una nuova classe di mecenati che, grazie alla distanza dai centri della politica turca, poterono finanziare la rinascita culturale dell'ellenismo. La Bulgaria fu praticamente creata dalla Russia (con il Trattato di Santo Stefano, 1878); la Serbia, vicina all'Austria, beneficiò anch'essa delle simpatie russe, ma dovette guardarsi da entrambi i suoi «protettori», cui se ne aggiunse un terzo non meno avido: la Germania. La Romania fu occupata e devastata a più riprese dall'armata russa «protettrice», mentre la posizione strategica della Grecia la collocava sotto la stretta sorveglianza dei suoi «liberatori»: Russia, Francia e Inghilterra. Obbedendo sempre e soltanto ai loro interessi strategici o economici, gli Stati europei sfruttavano le aspirazioni nazionali dei popoli raya per ingrandire il loro territorio o la loro sfera di influenza. Le controversie internazionali si innestavano sui conflitti religiosi. L'autonomia delle Chiese slave esigeva in primo luogo la loro emancipazione culturale, amministrativa ed economica dalla tutela greca. Nel 1870 la Porta, temendo l'intervento russo, riconobbe un esarcato bulgaro autonomo con sede a Costantinopoli, che fu subito scomunicato dalla Chiesa greco-ortodossa. Nel millet armeno gli scismi religiosi si riflettevano nelle discordie nazionali. I monofisiti (gregoriani) avevano conservato la loro cultura, ma i cattolici erano divisi in due sette tra loro nemiche: i mechitaristi, di orientamento nazionalista, che speravano di ottenere l'indipendenza grazie all'unione con Roma, e gli armeni di rito romano, antinazionalisti. A tali conflitti, che laceravano le comunità opponendo i laici ai religiosi, gli slavi ai greci, i nazionalisti ai notabili, si aggiungevano gli intrighi dei missionari europei, protestanti o cattolici. Per

proteggersi da essi, le chiese raya ricorsero all'autorità islamica. Nel 1817, a seguito di una lamentela del patriarca greco di Gerusalemme Policario, Mahmud II inviò ai governatori di Damasco e Saida (Sidone), nonché al qadl di Gerusalemme, un firmano in cui ribadiva il divieto di proselitismo cattolico. Il patriarca aveva denunciato le offese e i soprusi inflitti agli ortodossi dai cattolici greci. Confermando le ordinanze precedenti in materia, la più antica delle quali risaliva al 1732, il firmano specificava che il sultano «proibisce tali comportamenti, vieta ai greco-ortodossi di entrare nelle chiese cattoliche e ai sacerdoti cattolici di entrare nelle case dei greco-ortodossi e di catechizzare i loro figli, pena l'esilio e la confisca dei loro beni» 12 . Se il sultano, fedele alla grande tradizione islamica, interveniva per regolare con equità i contenziosi che dividevano i suoi sudditi, sul piano politico, tuttavia, egli infieriva su di loro con il massimo rigore. Qualche anno più tardi, nel 1821, lo stesso sultano inviò al suo vassallo Muhammad 'Ali, governatore d'Egitto, un firmano relativo alla rivolta dei raya greci, in cui gli intimava di conformarsi alla sharT'a, la quale, secondo le indicazioni dell'autorità religiosa, prescrive che «i ribelli siano combattuti apertamente e passati a fil di spada, che i loro beni siano saccheggiati e che le loro mogli e i loro figli siano ridotti in schiavitù» 13 . L'appello al jihad (30 marzo 1821), provocato dall'insurrezione in Moldavia e in Morea, fece accorrere dall'Asia orde guidate dai dervisci, che instillarono nel popolo il fanatismo contro gli infedeli. Per due mesi il terrore imperversò a Costantinopoli, in Tracia, in Asia Minore, in Macedonia. Gli arcivescovi e i prelati furono torturati, impiccati e trucidati, le chiese demolite, i greci massacrati, i loro beni saccheggiati e incendiati. I «franchi» 14 osavano a malapena uscire. Il patriarcato greco scomunicò i nazionalisti ellenici; notabili o delatori greci e rumeni denunciarono le società segrete di stampo nazionalista. Il terrore delle rappresaglie suscitò una generale diffidenza, e gli insorti furono traditi e combattuti dai loro stessi correligionari e dal loro stesso clero. Dopo la disfatta riportata dai turchi il 20 ottobre del 1827 a Navarino, i monofisiti armeni denunciarono al sultano i loro corina-

Sacerdote greco (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).

zionali cattolici, accusandoli di volersi emancipare con la complicità della Francia e del Papa. Per ordine del sultano, tutti i cattolici armeni dell'Impero furono costretti a tornare sotto l'autorità del patriarca monofisita, e quelli di Costantinopoli furono espulsi. L'intervento francese pose fine alle persecuzioni e portò, nel 1831, al riconoscimento dell'indipendenza del millet cattolico armeno, sotto l'autorità di un patriarca che godeva delle stesse prerogative del confratello monofisita. Circa dieci anni più tardi, la scissione all'interno del millet armeno si aggravò in seguito alla nascita di una Chiesa protestante armena autonoma. Osservando la violenza dei conflitti tra raya, Ubicini osservava: L'ostilità delle popolazioni raya nei confronti del dominio turco non è neanche lontanamente paragonabile all'odio reciproco da cui esse sono pervase, e, piuttosto che unirsi per far prevalere l'elemento cristiano su quello musulmano, i greci, gli armeni e i latini preferirebbero cento volte condannarsi a un'eterna schiavitù, e non esiterebbero affatto, se ciò fosse necessario, a unirsi ai turchi per impedire il trionfo dei loro rivali [...]. Fortunatamente per la Porta, se in fondo i raya nutrono ben poca simpatia per la dominazione ottomana, essi si detestano tra loro ancor più di quanto detestino i turchi, e ciò basta, lo ripeto, per mettere questi ultimi al riparo dalla minaccia di un'insurrezione dotata di un carattere tanto generalizzato da mettere in pericolo la loro esistenza.15 Per domare le insurrezioni cristiane, la Porta procedette alla massiccia islamizzazione dei Balcani; solo tra il 1855 e il 1866, un milione di rifugiati curdi e circassi si insediò in questa regione, depredando e taglieggiando i contadini. Ogni insurrezione dava luogo a massacri la cui ferocia terrorizzava gli abitanti. Le popolazioni cristiane dei Balcani impiegarono oltre un secolo per uscire, letteralmente dissanguate, dalla dhimmitudine. Questa trasformazione implicò una radicale rivoluzione interna di tipo culturale e sociale, che fu portata avanti di pari passo con la lotta politica e militare contro la Turchia. Popoli privi di eserciti e di coesione, disorganizzati e divisi da controversie millenarie

esacerbate dai loro alleati, dovettero costantemente difendersi dai loro nemici e tutelarsi dai loro protettori, che li liberavano soltanto per «divorarli meglio» (Russia, Austria), o per imporre loro confini arbitrari o artificiali (Congresso di Berlino, 1878), o ancora per costringerli con ogni mezzo a rimanere sotto il dominio islamico (Francia, Inghilterra) 16 .

L'Armenia Situata ai margini settentrionali dell'Impero arabo omayyade, l'Armenia sfuggì alla sorte degli ebrei palestinesi e dei cristiani d'Oriente, i quali, dal VII al X secolo, furono travolti e annientati dalle ripetute invasioni e dai conflitti interni al dar al-islam. In questa lontana provincia, spesso teatro di ribellioni, la dominazione arabo-islamica non riuscì a insediarsi stabilmente. Vassalla ora di Bisanzio ora del califfato, nonostante le devastazioni e le prove l'Armenia conservò la sua lingua, la sua cultura e un certo grado di autonomia amministrativa. Quando, intorno al 1050, i turchi selgiuchidi la devastarono, i cristiani emigrarono verso la regione del Tauro, in territorio bizantino, dove alcuni territori erano già stati assegnati ai principi armeni. Dopo la disfatta bizantina di Manzikert (1071), le tribù turche ricacciarono gli armeni in Anatolia, dove essi diedero vita a numerosi centri abitati (Piccola Armenia). Con la progressiva islamizzazione dell'Asia Minore, armeni e greci divennero le popolazioni dhimmT dei diversi emirati che si spartirono l'Anatolia. Intorno al 1828 il governo russo, che già controllava le province armene della Persia, iniziò a interessarsi alla sorte degli armeni raya, incoraggiandone l'emigrazione nella loro antica patria, ora divenuta parte della Russia, e promuovendo la rinascita del monastero di Etchmiadzin, sede nazionale del catholicos. Ben presto l'autorità spirituale di questo primate su tutti gli armeni eclissò quella del patriarca di Costantinopoli, soggetto al sultano. I possedimenti russo-armeni, accresciuti dalla guerra del 18771878, divennero, con le loro numerose popolazioni cristiane, fo-

colai di attività nazionaliste. Incoraggiati dagli analoghi fermenti che scuotevano i Balcani, gli armeni ottomani si avvicinarono ai loro connazionali russi, nella speranza di scuotersi di dosso un giogo oppressivo e di riconquistare anch'essi l'indipendenza. Queste simpatie filorusse ridestarono l'animosità dei popoli musulmani, contrariati dalla collusione tra un'importante etnia raya, situata al centro del loro Impero, e il loro più temibile nemico. Salvata dall'occupazione russa dall'intervento dell'Europa (1877-1878), la Turchia fu costretta ad accettare l'articolo 16 del Trattato di Santo Stefano, che legava l'evacuazione delle truppe russe dal suo territorio all'applicazione delle riforme amministrative in sei vilayet (= province) armeni dell'Anatolia centrale, dalle coste della Cilicia fino a Erzerum. Tali riforme, destinate ad abolire le discriminazioni e le umiliazioni nei confronti dei cristiani raya, imponevano l'uguaglianza giuridica e amministrativa tra i musulmani e gli armeni, assai numerosi in queste regioni. Tuttavia, invece di procedere alle riforme, il sultano AbdulHamid II (1876-1909) organizzò una milizia armata composta di curdi, che prese a perseguitare gli abitanti dei villaggi armeni. Inoltre indirizzò il flusso dei profughi musulmani in fuga dalle province turche restituite alla sovranità nazionale cristiana, oppure conquistate dalla Russia, verso i territori armeni, dove favorì il loro insediamento assegnando loro delle terre. Sul piano politico diversi elementi, tipici della condizione armena, giocavano a sfavore di questo popolo. Il più importante era la sua ripartizione geografica in varie regioni che attraversavano l'Anatolia centrale, dal Mar Nero al Mediterraneo. Se la perdita delle province europee periferiche non rappresentava un pericolo mortale per la Turchia, la nascita di un'Armenia autonoma nel cuore stesso del suo Impero l'avrebbe invece ridotta a un microstato, mutilato del suo hinterland musulmano arabo-asiatico a est, e minacciato da una «reconquista» russo-greca a Nord e a Ovest. Per giunta, gli armeni non potevano giocare sulla concorrenza di altri Stati «protettori», poiché il loro isolamento li condannava esclusivamente alla protezione russa. Ebbene, nessuno Stato era disposto a tollerare il crollo degli equilibri europei né una con-

quista russa della Turchia realizzata attraverso gli armeni. E, nella particolare congiuntura di quel fine secolo, anche quell'unico protettore si rivelava un alleato specioso. Così, non solo la collusione degli armeni con lo storico nemico della Turchia suscitava il sospetto degli ottomani, ma soprattutto la Russia zarista, alla vigilia del crollo, prestava scarsa attenzione alla questione armena. Se il sultano era contrariato dall'arruolamento degli armeni nelle truppe russe, lo zar dal canto suo diffidava della militanza armena nei comitati anarchici e rivoluzionari, tra cui il Hentchak, di tendenza marxista, fondato nel 1887, e la Fédération Révolutionnaire Arménienne (FRA), creata a Tbilisi nel 1890. E probabile tuttavia che, se non fosse stato per l'improvviso scoppio della prima guerra mondiale, la cui estensione e le cui nuove tecniche monopolizzarono tutte le forze alleate, lo sterminio degli armeni - il primo genocidio di questo secolo - sarebbe stato se non evitato, perlomeno ridimensionato. A differenza dei greci, degli slavi e dei maroniti, agli armeni vennero a mancare i soccorsi in un momento cruciale della loro storia, poiché gli eserciti europei erano impegnati a massacrarsi tra loro e perché la rivoluzione marxista-leninista stava paralizzando il loro paese protettore: la Russia. I massacri Dopo lo sterminio, perpetrato a Trebisonda, a Sassun e in altre città della Mesopotamia (1894-1896), di un numero di armeni compreso tra i 100.000 e i 200.000, e quello di 30.000 armeni ad Adana (1909), la Russia impose alla Porta l'Atto del 26 gennaio 1914. Questo accordo affidava il controllo del governo delle province armene a due ispettori generali europei e riconosceva l'armeno come lingua ufficiale. Esso aboliva altresì le restrizioni relative al numero delle scuole armene e le disuguaglianze amministrative e giudiziarie tra cristiani e musulmani. Il protettorato europeo su una popolazione ripartita in un vasto territorio situato al centro della Turchia indeboliva la politica di turchificazione e di islamizzazione perseguita dal governo dei Giovani Turchi 17 . La prima guerra mondiale sembrò essere l'oc-

casione per liquidare il problema armeno, tanto più che gli armeni del Caucaso, arruolati nelle file dell'esercito russo, non nascondevano la loro intenzione di liberare l'Armenia turca, destinata dallo zar Nicola II a un brillante avvenire. All'inizio della guerra, l'avanzata russa sul fronte caucasico e le trame dei rivoluzionari armeni servirono da pretesto ai Giovani Turchi per schiacciare definitivamente il nazionalismo armeno. Il genocidio degli armeni fu ima combinazione di massacri, deportazioni e riduzioni in schiavitù. Nelle regioni dell'Armenia centrale, tutti i maschi dai dodici anni in su furono oggetto di uno sterminio collettivo, che li vide freddati a colpi di arma da fuoco, annegati, gettati nei burroni o vittime di altri supplizi. La deportazione consistette nel trasferimento di determinate fasce della popolazione, soprattutto donne e bambini, nel deserto di Dayr alZür, tra la Siria e l'Iraq 16 . I convogli si spostavano a piedi per percorsi interminabili lungo territori accidentati, nel corso dei quali la penuria d'acqua, di cibo e di riparo notturno acuiva le sofferenze dei deportati. Per tutto il cammino le schiere di donne e di bambini erano in balia degli stupri, dei furti, della crudeltà dei briganti, dei predoni oppure degli abitanti dei villaggi, a cui si aggiungevano i loro accompagnatori, esclusivamente musulmani. In ogni città e in ogni villaggio che attraversavano, gli armeni, ammassati davanti alla prefettura, erano esposti ai cittadini islamici, gli unici autorizzati a scegliere degli schiavi tra loro. In alcuni casi, le donne potevano sottrarsi alla morte o alla schiavitù insieme ai loro figli mediante la conversione all'islam, ratificata dal matrimonio immediato con un musulmano. Coloro che sopravvivevano alle torture del tragitto - la fame, la sete, lo sfinimento, gli stupri - giungevano a Dayr al-Zür. Informate in anticipo dell'arrivo dei convogli, le tribù arabe e curde, insieme ai contadini musulmani, li aspettavano per arrecare loro gli ultimi oltraggi. I cadaveri venivano abbandonati nel deserto. II genocidio degli armeni fu il normale esito di una politica insita nella struttura politico-religiosa della dhimmitudine. Questo processo di annientamento fisico ai danni di una nazione ribelle

aveva già fatto la sua comparsa durante le rivolte dei cristiani slavi e greci, che si salvarono dallo sterminio collettivo solo grazie agli interventi europei, interventi effettuati talora a malincuore. Il genocidio degli armeni fu un jihad. Nessun raya, infatti, vi prese parte. Nonostante la disapprovazione di molti turchi e arabi musulmani, e il loro rifiuto a collaborare al crimine, questi massacri furono perpetrati unicamente dai cittadini islamici, ed essi soli beneficiarono del bottino: i beni delle vittime, le loro abitazioni, i loro campi - assegnati ai muhajirun - , le donne e i bambini, spartiti e ridotti in schiavitù. L'eliminazione dei maschi dai dodici anni in su è conforme alle prescrizioni del jihad e all'età regolamentare per il pagamento della jizya. Le quattro tappe dello sterminio - deportazioni, riduzioni in schiavitù, conversioni forzate ed eccidi - riproducono le condizioni storiche del jihad, applicate a partire dal VII secolo in tutto il dar al-harb. Cronache di provenienze diverse, soprattutto di autori islamici, descrivono minuziosamente l'organizzazione del massacro dei vinti e le deportazioni dei prigionieri, le cui marce forzate al seguito degli eserciti infliggevano loro le stesse sofferenze provate dagli armeni nel XX secolo. Questa politica non era un episodio isolato. Essa rientrava in una strategia difensiva finalizzata a mantenere sotto la giurisdizione islamica un territorio conquistato con la guerra e ad annientare i nazionalismi dhimmi. Perciò la tragedia armena fu accompagnata dallo sterminio dei cristiani giacobiti e nestoriani della valle dell'Eufrate, nel Nord della Siria. Nel mese di settembre del 1915, a Musa Dagh (Jabal Musa, presso Antiochia), tra i 4000 e i 5000 armeni, accerchiati dai turchi e dagli arabi, furono imbarcati in extremis su alcune navi francesi. Ma le autorità inglesi e francesi, temendo l'ostilità delle popolazioni islamiche, si rifiutarono di lasciarle sbarcare in Egitto, a Rodi, a Cipro, in Marocco e in Tunisia. Alla fine l'Alto Commissario inglese d'Egitto accettò il loro sbarco provvisorio ad Alessandria. Il concorso di tutte queste circostanze dimostra che il genocidio degli armeni fu un affaire esclusivamente musulmano, nelle finalità come nell'attuazione, e che nessuna fase di tale piano

Convoglio di armeni scortati da guardie turche e diretti verso il luogo della loro esecuzione. Kharput, 1915 (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme).

vide coinvolte le comunità raya. Al contrario, i rapporti pervenuti agli Alleati sugli eccidi erano di provenienza cristiana ed ebraico-ottomana. Sul fronte internazionale, poi, l'Austria e la Germania, alleate della Turchia, non furono esenti da responsabilità. In che misura i racconti di coloro che avevano preso parte a quei massacri influenzarono Hitler? Circa vent'anni più tardi, il 22 agosto 1939, alla vigilia dell'invasione della Polonia, il Fuhrer comunicava ai comandanti in capo dei suoi eserciti riuniti a Obersalzberg: Perciò, per il momento ho inviato a Est solo le mie unità di Teste di Morto [Totenkopfverbànde], con l'ordine di uccidere senza alcuna pietà né compassione tutti gli uomini, le donne e i bambini di razza o di lingua polacca. Oggigiorno chi parla ancora dello sterminio de-

gli armeni? (Wer redet heute noch der Vernichtung der Armenier?)19

Gli alibi addotti per scagionare i popoli che all'epoca collaborarono a queste atrocità si spiegano con il contesto internazionale e la volontà degli Stati coloniali di attuare una politica di appeasement nei confronti del mondo arabo e islamico. Tali Stati - la Russia, l'Inghilterra, la Francia e l'Italia - governavano su milioni di musulmani in Caucasia, in Asia, nelle Indie, in Egitto, nel Levante e nel Maghreb: perciò si sforzarono di occultare la tragedia. La responsabilità di essa fu imputata ad alcuni capri espiatori - la massoneria o altri - , utili alla ripresa delle buone relazioni con la Turchia e con i popoli islamici, in particolare con i siro-iracheni, ostili ai protettorati francese e britannico. Inoltre, nessuno Stato europeo aveva allora interesse a ingrandire il territorio dell'URSS con la creazione di un'Armenia sovietica. La specificità della storia armena rispetto a quella dei nazionalismi balcanici è data dal particolare contesto geopolitico in cui si svolse. Gli insediamenti armeni, infatti, erano situati al centro della Turchia, mentre i raya europei conservavano forti concentrazioni demografiche alla periferia dell'Impero ottomano. I popoli balcanici, inoltre, potevano contare sulle rivalità tra gli Stati vicini, mentre gli armeni dipendevano solo dalla Russia, il cui piano - la restaurazione dell'Impero bizantino, da Costantinopoli alla Mesopotamia, sotto la corona degli zar - incontrava opposizione in tutta Europa. Fu in tale contesto, qui ricostruito in forma assai schematica, che si compì il tragico destino del popolo armeno, oscurato dal frastuono e dalle stragi della prima guerra mondiale.

Le province arabe ottomane All'inizio del XIX secolo la parte asiatica e africana dell'Impero ottomano, che includeva anche l'Arabia, andava dai confini della Persia alle coste meridionali del Mediterraneo, giungendo sino all'Algeria. In queste regioni l'islamizzazione era stata più prolungata e completa, specie sul piano demografico. La lontananza dai paesi europei in grado di fornire ai raya un rifugio o un

sostegno armato, e l'assenza di protettori stranieri sensibili alla causa dei monofisiti, dei nestoriani e degli ebrei, avevano contribuito a creare una situazione assai diversa da quella dei dhimml stanziati nella Turchia europea. Per questo, intorno al XII-XIII secolo, quando si compirono i processi che avrebbero fatto precipitare l'Anatolia e l'Europa sud-orientale nella dhimmitudine, in Oriente i giochi erano già fatti. La Palestina, patria degli ebrei, e i luoghi d'origine del cristianesimo - Siria, Egitto, Nord Africa erano già stati completamente arabizzati e islamizzati. Le grandi comunità ebraiche e cristiane della Mesopotamia erano state distrutte e l'Armenia devastata. In queste antiche regioni d'Oriente, nel XIX secolo, non si trovava certo l'equivalente delle miriadi di cristiani raya europei che, sebbene asserviti, tuttavia in alcune aree balcaniche costituivano ancora la maggioranza rispetto ai musulmani immigrati o convertiti. La scarsa consistenza numerica dei raya ebrei e cristiani in quella che un tempo era stata la loro patria, unita alla loro atomizzazione nella umma araba, determinavano quindi un quadro demografico ben diverso da quello dei Balcani. Di questi antichi popoli restavano solo dei relitti, la cui consistenza fisica era stata talmente mutilata che qualsiasi speranza di indipendenza sembrava loro preclusa. Ai mali della dhimmitudine si aggiungevano le discordie interne, alimentate dalla Porta e dalle rivalità economiche e geopolitiche tra le potenze europee e i loro missionari. Perciò il rifiuto della dhimmitudine non trovò espressione in una rivolta nazionalista, m a nello schema di emancipazione elaborato dall'Europa e da essa imposto sia alla umma che ai raya. Infatti la riluttanza degli ebrei e dei cristiani ad affrancarsi dall'influenza araba nasceva non tanto dalla vigliaccheria, quanto dal viscerale terrore delle rappresaglie musulmane, nonché dalle sanguinose esperienze vissute per oltre un millennio nel cuore del contesto arabo-islamico 20 . In questo ambiente, caratterizzato da un fanatismo bigotto, il pashalik (provincia) turco semiautonomo d'Egitto costituì un'eccezione: la sua emancipazione, che precedette le riforme del 1856, si compì infatti senza strappi. Poiché la sua liberazione dalla so-

vranità turca dipendeva dalla Francia, sotto il governatore Muhammad 'Air (1805-1848) l'Egitto, volente o nolente, si incamminò sulla via della modernizzazione e della laicità. Questo processo proseguì sotto il protettorato inglese (1882) e fino alla rivoluzione nasseriana (1952), che sancì il trionfo del panarabismo. Sotto la dinastia fondata da Muhammad 'Ali (1849-1952), i copti, comunità pacifica e industriosa, poterono così dedicarsi alla ricerca storica, archeologica e filologica. Questo rinnovamento culturale, accompagnato da ima corrispondente ascesa economica e politica, fu integrato nella politica complessiva di occidentalizzazione sotto il patrocinio coloniale. Difatti l'emancipazione dei copti, dei siriaci e dei melchiti arabofoni si compì in un quadro sostanzialmente religioso, privo dei caratteri nazionalistici propri delle rivolte balcaniche. Malgrado quest'anomalia, e con la complicità della Porta, l'emancipazione dei cristiani provocò sanguinose distruzioni in Siria e in Libano, dove, a differenza che in Egitto, i governatori turchi non seppero padroneggiare la situazione. In queste regioni la contesa per le spoglie dell'Impero ottomano vide emergere le stesse rivalità che dividevano gli Stati europei, stavolta però fra i loro intermediari dhimmi. Presso questi ultimi, infatti, nacquero e si scontrarono due movimenti politici, uno cristiano e l'altro ebraico, che imboccarono vie totalmente diverse. L'emancipazione cristiana: l'arabismo La spedizione di Bonaparte in Egitto (1798-99) aveva posto le premesse per una politica araba della Francia, che proseguì con Muhammad 'Ali e suo figlio Ibrahim (1805-1848). Essa si tradusse nella creazione di un patrocinio francese sull'Egitto e sulla Siria, riuniti in un'unica provincia sottratta all'Impero ottomano sulla base di una distinzione tra turchi e arabi. A partire dal 1842, la Francia approfittò della parziale autonomia dei maroniti per svolgere un ruolo culturale e politico in Libano. Dopo il suo viaggio in Algeria del 1860, Napoleone III, il cui impero coloniale includeva ormai milioni di musulmani, precisò la natura della sua politica araba dichiarandosi «imperatore degli arabi come dei

francesi» 21 . Questa politica si accompagnò a una propaganda turcofoba, che contrapponeva la magnanimità dei califfi arabi e dell'islam originario al fanatismo oscurantista dei turchi, presunti responsabili di tutti i mali dell'Impero. In Siria e in Libano, fin dall'inizio del XIX secolo, le istituzioni missionarie cattoliche (gesuiti, lazzaristi) e presbiteriane (americani) si impegnarono a definire le basi culturali di un progetto politico mediante una serie di opere letterarie e linguistiche. I loro pupilli, essenzialmente cristiani raya, fecero loro da agenti di trasmissione. L'idea di «arabismo», inteso come patrimonio culturale comune in grado di unificare le sette cristiane dilaniate dagli scismi religiosi, si diffuse tra i maroniti, tradizionalmente protetti dalla Francia, e i melchiti siriaci, desiderosi di affrancare il loro clero dalla tutela greca. Si delineò in tal modo un'area arabofona funzionale all'unificazione cristiana e refrattaria alla politica di ottomanizzazione cara all'Inghilterra. I massacri di cristiani, avvenuti negli anni 1850-1860 in Libano e in Siria, indussero la Francia, e in seguito l'Inghilterra - specialmente durante la prima guerra mondiale - a politicizzare la nozione culturale di arabismo, che divenne il nuovo terreno di scontro tra le potenze europee rivali (Russia compresa) nel Levante. La cultura araba costituì la base ideologica della «nazione araba», concetto di matrice europea e laica destinato a prendere il posto della concezione segregazionista su base confessionale della umma. Predicando una solidarietà araba laica implicante l'uguaglianza politica e la separazione tra religione e Stato, questa forma di nazionalismo eliminava l'elemento religioso, principale ostacolo all'integrazione e all'assimilazione dei cristiani arabofoni. Desiderosi di svolgere un ruolo politico e di affrancarsi dalla marginalità del millet, i cristiani siro-libanesi militarono attivamente nel movimento nazionalista arabo. Le élite cristiane - che da sempre, grazie alla loro posizione a cavallo tra due civiltà, facevano da mediatrici tra cristianità e islam, ed erano altresì dotate di una formazione universitaria di tipo europeo - si ritenevano investite di una missione d'avanguardia: quella di rigenerare la umma guidandola verso la modernità. Ma la proliferazione delle

missioni straniere (francesi, americane, tedesche e italiane), anch'esse invischiate nell'intrico delle dispute ecclesiastiche e degli interessi conflittuali delle potenze europee, non mancò di inasprire i dissensi intercristiani locali. L'antagonismo franco-russo vide lo scontro tra maroniti e melchiti uniati (latini), entrambi patrocinati dalla Francia, e ortodossi siriaci, manovrati dalla Russia. Dopo la guerra del 1914-1918, le scissioni che affondavano le radici nelle tradizionali discordie tra le Chiese locali portarono alla spaccatura del fronte nazionalista cristiano in indipendentisti libanesi (Bulus Nujaym, la famiglia Khazin) e fautori di ima Grande Siria (Butrus Bustani, Khalil al-Khuri, Qustantin Zurayq, Jirji Zaydan). Il primo gruppo aspirava a ottenere, sotto l'egida delle potenze straniere, l'esistenza di un Libano autonomo a maggioranza cristiana. Coscienti della realtà storica e profondamente intrisi di nazionalismo, i cristiani libanesi diffidavano del panislamismo, che assimilava l'islam all'arabismo 22 . I fautori di una Grande Siria araba e laica a maggioranza musulmana provenivano dalle file dei cristiani siriaci di formazione francese (Samné, Azoury), ma soprattutto degli ortodossi, vicini alla Russia, e dei protestanti, educati nelle missioni americane e ostili al predominio maronita in Libano 23 . I promotori cristiani di un nazionalismo arabo laico si ispiravano alle concezioni europee che avevano permesso l'emancipazione degli ebrei d'Occidente 24 . Ciò equivaleva però a ignorare le profonde differenze che separavano il dar al-islam dal continente europeo, in cui l'anticlericalismo e le idee di libertà e uguaglianza erano il frutto di un'evoluzione politico-culturale legata a precise realtà. I fattori che avevano portato all'emancipazione ebraica in Occidente - in particolare la separazione dei poteri religioso e temporale, la secolarizzazione dello Stato e gli sconvolgimenti sociali generati dal mutamento dei costumi e delle tecniche - erano inesistenti nell'Impero ottomano. Inoltre, la condizione giuridica dei cristiani nel dar al-islàm era fondamentalmente diversa, sul piano politico, religioso e storico, da quella degli ebrei nel mondo cristiano. Un'ulteriore ambiguità era costituita dall'i-

Maroniti nel convento di Mar Antan. Libano, 1859 (Edouard-Auguste Spoll, «Souvenir d'un voyage nu Liban» 118591, «Le Tour du Monde: nouveau journal des voyages publié sous la direction de M. Edouard Charton et illustré par nos plus célèbres artistes», anno 2°, 1° semestre, Paris 1861, tavola 8)

dentificazione tra arabismo e islam, scolpita nel dogma e simboleggiata dall'espulsione dal Hijaz degli ebrei e dei cristiani di origine araba. Il concetto stesso di arabismo, che storicamente era sempre stato un veicolo dell'islam, era incompatibile con il secolarismo. L'arabo non poteva essere che musulmano. L'opzione filoaraba dei siro-libanesi determinò, a partire dal XIX secolo, il loro destino politico. Tale movimento presentava alcune analogie, ma anche una serie di divergenze, rispetto alle correnti nazionaliste balcaniche contemporanee. Come queste, era dilaniato dalle interferenze degli imperialismi europei. Le sue fazioni rivali restavano dipendenti dalle potenze protettrici, che le manovravano in funzione dei loro interessi mediante i notabili levantini. Costoro, sacrificando l'interesse collettivo all'ambizione personale, favorivano una politica di corto respiro, finanziariamente redditizia ma disastrosa sul lungo termine. Ma il nazionalismo arabo-cristiano differiva da quelli dei Balcani sul piano dei contenuti. Se infatti i popoli balcanici contrapponevano alla dominazione turca la legittimità di una specifica identità nazionale (linguistica, culturale, storica), radicata in un ben preciso contesto geografico, i cristiani arabofoni scelsero l'approccio opposto: anziché tentare di recuperare e definire la loro vera identità, si assimilarono alla cultura dei conquistatori. Quest'opzione politica era destinata a produrre molteplici conseguenze. In primo luogo, l'arabizzazione culturale avrebbe implicato l'abbandono della cultura e della lingua siriaca e il ripudio di dodici secoli di storia dhimmT. È evidente infatti che i cristiani non potevano richiamarsi alla grandezza della civiltà araba e al tempo stesso restare fedeli a un passato di oppressione che attestava il contrario. La glorificazione delle conquiste e della civiltà arabo-islamica di epoca omayyade e abbaside li portò così a occultare i valori e i processi che avevano condotto all'annientamento del cristianesimo orientale. Il movimento letterario e culturale del nazionalismo arabo cristiano scelse di celebrare la saggezza e la tolleranza dell'islam primitivo, nonché la tradizionale armonia tra cristiani e musulmani, nati dallo stesso ceppo arabo; per giunta, all'inizio del XX secolo

cadde nella trappola dell'antioccidentalismo. Così, invece di purificare e modernizzare la loro lingua (il siriaco) e di recuperare la loro storia religiosa, i cristiani della Siria e del Libano le occultarono per adottare incondizionatamente la cultura dei loro conquistatori. Mentre i popoli balcanici sceglievano l'indipendenza, i cristiani arabofili, ultimi residui di nazioni ormai estinte, optarono per un'assimilazione che forse avrebbe avuto successo, se non fosse stato per le caratteristiche politiche e religiose dell'islam, che creavano condizioni ben diverse da quelle dell'Europa. Predicando la laicità, i cristiani arabofili rigettarono la solidarietà religiosa del millet, che aveva tenuto viva l'unità nazionale, coagulata attorno alla Chiesa. L'arabofilia, in quanto fattore di emancipazione religiosa, generò un processo di alienazione ideologica e spezzò la coesione storica del cristianesimo orientale, nata in oltre un millennio di dhimmitudine. Contrariamente a quanto era accaduto nei Balcani, dove le comunità ecclesiali erano state focolai nazionalistici, nel Levante le Chiese nazionali furono rinnegate e denigrate per permettere, tramite il nazionalismo arabo laico, l'assimilazione dei valori e della cultura che esse avevano combattuto. Così il rinnegamento della storia dhimmi e l'indifferenza religiosa insite nel nazionalismo arabo predisponevano i cristiani di queste regioni al comunismo o all'islamizzazione, e talora a entrambi, secondo l'opportunità politica. Nella misura in cui tale orientamento coniugava le giudeofobie islamica e cristiana, esso trovò partigiani nel clero orientale. All'inizio del XX secolo, attraverso l'antisionismo, questo divenne il sostenitore più intransigente dell'arabismo. Ancora una volta, la umma traeva vantaggio dalle divisioni tra i popoli dhimmi. Durante la prima guerra mondiale l'Inghilterra si sbarazzò del cadavere ottomano e, assai opportunamente, colmò il conseguente vuoto politico con la carta del nazionalismo arabo. Da allora in poi, l'arabismo fu considerato un programma di modernizzazione e di laicità radicato nella nobile tradizione della tolleranza araba, che solo un califfo discendente dal Profeta avrebbe potuto imporre all'Oriente 25 .

Tale opzione si sposava peraltro con la linea turcofoba seguita nel Levante dalla Francia, la quale, preoccupata di salvare le sue colonie e di ingrandire la sua sfera d'influenza, aveva da tempo optato per la nascita di una grande nazione araba, che avrebbe riunito la Palestina, la Siria e il Libano. Quest'ambizioso progetto politico europeo, che prevedeva la restaurazione della umma del VII secolo e una rinascita dell'età dell'oro dei califfi omayyadi e abbasidi, ebbe tra i suoi fautori più entusiastici e attivi proprio i nazionalisti arabi cristiani. Favorendo le mire francesi, inglesi o russe, il nazionalismo arabo dei cristiani - elaborato e messo a punto nelle missioni cattoliche, protestanti od ortodosse della Siria, del Libano e della Palestina - alimentò una potente corrente antisionista di marca antisemita. Alcuni storici hanno messo in evidenza la contrapposizione tra la militanza politica delle minoranze cristiane e la pusillanime apatia delle comunità ebraiche del Levante. Questa differenza di atteggiamento si spiega con molteplici fattori, in particolare con il ruolo di mediatori svolto dai dhimmt cristiani nel circuito di scambi economici, politici e culturali che intercorrevano tra dar al-harb e dar ai-islam. Inoltre, il nazionalismo arabo laico dei militanti cristiani si sviluppò all'ombra delle istituzioni missionarie straniere, le quali godevano del sostegno e della protezione di potenti Stati cristiani, cosa che di certo non valeva per gli ebrei. L'arabofilia dei cristiani implicava altresì la cancellazione di una peculiare identità collettiva cristiana anteriore all'islam. Per il giudaismo orientale, al contrario, la rivendicazione di un'origine araba era inconcepibile, dal momento che la civiltà e le istituzioni politiche di Israele si erano formate nei due millenni che avevano preceduto la comparsa degli arabi sulla scena della storia, e si erano irradiate ben al di là della sua patria originaria. Poiché l'autorinnegamento implicito nell'identificazione con l'arabismo era l'unica strada politica aperta ai non musulmani, gli ebrei d'islam si rifugiarono nell'assenteismo, pur continuando a cercare di conciliare con le condizioni ambientali la realizzazione delle loro aspirazioni sioniste.

Il nazionalismo «dhimmT» ebraico: il sionismo Di primo acchito può sembrare aberrante classificare tra i nazionalismi dhimmT il movimento sionista, la cui formulazione politica moderna si è sviluppata in seno al giudaismo europeo. Tuttavia è bene ricordare che tutti i nazionalismi dhimmT nacquero in Europa e che le loro lotte partirono o da centri operativi situati al di fuori del dar al-islam o dalle province semi-indipendenti. Occorre altresì precisare che la dhimmitudine è ima nozione connessa a un territorio conquistato con il jihad: ogni popolo non musulmano è infatti destinato a diventare dhimmT se continua a vivere in una patria soggetta alla legge islamica, di per sé generatrice di dhimmitudine. Il sionismo quindi si configura come un nazionalismo dhimmT se mira a liberare la Palestina dalle leggi del jihad per ripristinarvi l'indipendenza della popolazione indigena e non musulmana. Sin dal XVI secolo l'idea di un ritorno del popolo ebraico nella sua terra - preannunciato dai suoi profeti, antesignani della Rivelazione cristiana - aveva alimentato, specialmente nei paesi protagonisti della Riforma, un sionismo cristiano fondamentalista parallelo al messianismo ebraico. Questa corrente avrebbe corroborato i movimenti di liberazione dei popoli dhimmT nel XIX secolo. Proprio come i nazionalismi balcanici, anche il sionismo assunse in primo luogo la forma di un rinnovamento culturale. Linguisti come Eliezer Ben Yehuda e poeti come Hayyim Nahman Bialik riportarono in vita e modernizzarono l'ebraico. Gli specifici problemi legati alla dispersione del popolo ebraico furono ridefiniti in termini politici da pensatori e politologi come Yehudah Alkalay, Moses Hess, Jehudah Leib Gordon, Yehudah Leib Pinsker, Theodor Herzl e Ahad Ha'am. In alcune comunità dell'Est europeo, ancorate al letteralismo talmudico e soggette a un rabbuiato dispotico, il sionismo politico, imbevuto delle teorie socialiste e laiche del XIX secolo, divenne un fermento rivoluzionario e di liberazione. Il recupero delle dimensioni nazionali da parte delle varie comunità si compì, come nei millet europei, attraverso il rigetto di una tirannide religiosa che, all'interno del popolo di-

sperso, aveva colmato l'assenza del potere accentratore di uno Stato sovrano. In alcune comunità della shtetl (Europa dell'Est), controllate da un rabbinato onnipotente, il sionismo laico fu aspramente combattuto dalle autorità religiose perché sminuiva il loro ascendente sulle congregazioni 26 . In Oriente invece l'assenza di un rigorismo fanatico all'interno delle comunità ebraiche evitò la rottura tra religione e sionismo politico. Quest'ultimo si inserì in modo naturale nelle aspirazioni storico-religiose delle popolazioni. Le difficoltà venivano dall'ambiente islamico, contrariamente a quanto accadeva in Europa, dove l'antisionismo emergeva in seno allo stesso mondo ebraico, tra ortodossi, assimilazionisti, bundisti 27 e comunisti, mentre le reazioni dei non ebrei andavano dall'indifferenza all'incoraggiamento. Se il sionismo fu percepito come un movimento esclusivamente europeo, ciò è dovuto al fatto che la specificità della condizione dhimmT, con le sue componenti di insicurezza e di tragica vulnerabilità, fu occultata. Il sultano ottomano aveva dichiarato che non avrebbe fatto della Palestina una seconda Armenia. Ovviamente, le velleità nazionalistiche degli ebrei nelle piccole comunità isolate e sporadiche del suo immenso Impero sarebbero state stroncate con maggior ferocia di quanto non fosse accaduto con il nazionalismo armeno, che pure era ben organizzato e armato dalla vicina Russia. Il massacro dei nazionalisti cristiani nei Balcani e il genocidio armeno mostravano agli ebrei del dar alislam, privi di qualsiasi protezione, il prezzo di sangue da pagare per la libertà28. Prigionieri di questa realtà, essi evitarono di schierarsi apertamente per il sionismo, poiché perfino nell'epoca di transizione rappresentata dalla colonizzazione europea essi rischiavano la vita. Del resto, di ciò si ebbe un'ulteriore conferma quando i paesi arabi decretarono il sionismo un crimine passibile della pena capitale. Tuttavia furono elaborate altre forme di partecipazione clandestina o camuffata, anche se in Oriente non emersero certi tratti specifici del sionismo occidentale, come il fallimento dell'assimilazione, esemplificato alla fine del XIX secolo dall'affaire Dreyfus.

È evidente però che un «affaire Dreyfus» non avrebbe mai potuto verificarsi in Oriente, dove nessun ebreo o cristiano aveva accesso a cariche importanti in uno stato maggiore musulmano. A maggior ragione, mai un paese islamico sarebbe stato così turbato, come lo fu la Francia, dall'ingiusta condanna inflitta a un ebreo o a un cristiano, e perfino a un musulmano. Lo studio del sionismo in Oriente progredirebbe certamente se smettesse di riferirsi in modo esclusivo agli schemi occidentali, estranei al fenomeno, per esaminare invece gli elementi storici e politici del rapporto dar al-islam-dhimmì e le sue modalità di sviluppo. Da questi aspetti emerge che la liberazione di una «terra di dhimmitudine», la Palestina, soggetta alle regole di conquista del jihad, non poteva essere innescata che dall'esterno del dar al-islam - com'era accaduto per altri popoli, in particolare per gli armeni - e che tale ruolo spettava all'ebraismo occidentale. Secondo Volney, alla fine del XVIII secolo la popolazione della Palestina ammontava a circa 300.000 abitanti 29 , cifra che, nel secolo seguente, aumentò in seguito all'arrivo dei musulmani in fuga dall'Europa. Nel 1878, infatti, una legge ottomana aveva decretato l'assegnazione di terre palestinesi ai coloni islamici, insieme a dodici anni di esenzione dalle tasse e dal servizio militare. Così, nella zona del monte Carmelo, in Galilea, nella piana di Sharon e a Cesarea furono assegnati appezzamenti di terra ai musulmani slavi dell'Erzegovina e della Bosnia; i georgiani furono insediati nella regione di Qunaytra, sulle alture del Golan, e i marocchini in bassa Galilea. In Transgiordania e in Galilea i turkmeni, i circassi e i ierkessi 30 , che fuggivano la russificazione della Crimea, della Caucasia e del Turkestan, si ricongiunsero alle tribù che li avevano preceduti nel XVIII secolo stabilendosi ad Abu Ghush, presso Gerusalemme. Inoltre, intorno agli anni '30, circa 18.000 fellah egiziani erano emigrati a Gerico, Giaffa e Gaza, e nel 1830, in seguito all'occupazione francese, migliaia di algerini, guidati dall'emiro 'Abd al-Qadir, avevano scelto l'esilio insediandosi in Siria, sulle alture del Golan, in Galilea e a Gerusalemme. Sempre in Terra Santa, le popolazioni cristiane indigene o immigrate dal Levante e dalla Grecia potevano contare sulla prote-

zione europea o russa, che invece mancava agli ebrei palestinesi. Dopo la guerra di Crimea, infatti, furono decretate consistenti concessioni territoriali alla Francia in favore dei cattolici, all'Inghilterra per i protestanti, all'Austria per i luterani, alla Russia per gli ortodossi e gli armeni. Nel 1887 31 il divieto di emigrare in Palestina, di risiedervi, di acquistarvi terreni e di vivere a Gerusalemme fu applicato soltanto agli ebrei, sia stranieri che raya, ma non ai cristiani né ai musulmani. Tuttavia, gli sforzi del sultano per fermare il ritorno degli ebrei in Palestina furono in parte inefficaci. Infatti la proibizione ai soli ebrei europei - e non ai cristiani - di visitare la Palestina, di insediarvisi e di acquistarvi terre era il frutto di una discriminazione religiosa assente dalle capitolazioni siglate tra la Porta e gli Stati europei. Fu in virtù di tali trattati, stipulati tra i sultani ottomani e i paesi occidentali sulla base della reciprocità, che gli ebrei europei poterono intraprendere questa prima e cruciale fase della lotta sionista, mentre quelli residenti nei paesi islamici - sudditi ottomani e non - essendo privi di tale requisito, furono respinti 32 . Grazie ad alcuni filantropi europei, la comunità ebraica palestinese potè dotarsi di dispensari e ospedali e acquisire dei terreni. Di fatto la marginalizzazione dei raya e alcuni elementi specifici dell'ebraismo europeo concorsero a limitare la prima fase dell'immigrazione sionista in Palestina a popolazioni provenienti in maggioranza dall'Europa. Questi fatti vengono citati qui solo per mettere in rilievo la totale ignoranza del contesto della dhimmitudine. La dispersione del popolo ebraico costituiva il principale ostacolo alla realizzazione della sua indipendenza. A differenza dei cristiani del Levante, miseri resti di nazioni ostili tra loro, gli ebrei, malgrado la loro frammentazione, presentavano una relativa omogeneità e potevano contare su un consistente sviluppo demografico. Ma al contrario dei cristiani balcanici, ancora assai numerosi nelle loro patrie, gli ebrei palestinesi, che uscivano da oltre un millennio di dhimmitudine, costituivano una comunità esangue, tanto più umile e vulnerabile in quanto attirava molte persone anziane e devote che si recavano a morire in Terra Santa 33 .

Tuttavia, in epoca moderna, le circostanze, un tempo favorevoli alla dominazione araba, iniziarono a modificarsi. Ormai le persecuzioni dei non musulmani, segnalate dai consoli di Costantinopoli ai rispettivi ambasciatori e condannate nelle capitali europee, davano luogo a sanzioni. D'altra parte, lo sviluppo della stampa e dei mezzi di comunicazione e locomozione conferiva al sionismo l'impulso di un movimento di liberazione nazionale coerente e, grazie all'espansione della diaspora, esteso su scala mondiale. Ora che i tempi erano cambiati, le moderne tecnologie venivano a correggere gli svantaggi numerici. Le piccole migrazioni regionali, un tempo neutralizzate mediante persecuzioni, espulsioni e uccisioni, si trasformarono in un movimento di massa, che questa volta avrebbe condotto all'indipendenza dello Stato ebraico. Il ritorno degli ebrei nella loro antica patria (il cosiddetto «raduno degli esuli») costituì l'episodio più tragico e al tempo stesso più eroico di questa lotta. Sul fronte esterno, nell'Europa hitleriana, gli ebrei dovettero affrontare la politica di sterminio dei nazisti, che imperversava in tutti i territori occupati. Dovettero forzare il blocco inglese, che di fatto conciliava gli interessi britannici, le mire naziste e la politica araba. Nella stessa Palestina dovettero combattere contro l'opposizione e il terrorismo arabo-palestinesi, mentre edificavano le strutture istituzionali di uno Stato indipendente. Nell'antisionismo arabo è opportuno distinguere la corrente islamica da quella cristiana, in quanto la loro ideologia e i loro scopi sono fondamentalmente diversi. L'opposizione musulmana si fonda sui valori del jihad e sulla volontà di ripristinare in Israele la legge islamica, generatrice di dhimmitudine per i popoli indigeni. Con lo stesso accanimento con cui tentò di stroncare i nazionalismi cristiani, la umma araba negò la legittimità di uno Stato ebraico sovrano. Israele era parte del dar al-harb, così come tutte le terre non musulmane destinate alla conquista. Per giunta, l'antisionismo islamico è essenzialmente anticristiano, in quanto entrambi i popoli scritturali, gli ebrei e i cristiani, devono essere obbligatoriamente soggetti alle stesse leggi di ispirazione divina.

L'antisionismo dei cristiani arabofoni, più complesso, deriva in parte dalla tradizionale giudeofobia teologica, che, soprattutto in Palestina, si accanì a perseguitare e umiliare gli ebrei. I cristiani d'Oriente, in particolare gli indigeni palestinesi o gli immigrati recenti (siro-libanesi e greci), non potevano tollerare il ripristino di uno Stato ebraico libero dalla dhimmitudine quando loro languivano ancora in tale condizione. A queste ragioni di natura soggettiva si aggiungevano le manovre degli Stati protettori, la Francia e la Russia, che erano profondamente ostili al sionismo. Sul piano dell'ideologia politica, inoltre, esso si contrapponeva alle tesi dei nazionalisti arabi cristiani, che dissolvevano l'identità e l'anima dei loro popoli nel mito di una nazione araba laica, elaborato nelle cancellerie europee in funzione dei loro interessi coloniali e postcoloniali. Tuttavia, in Libano si manifestò una corrente cristiano-maronita favorevole al sionismo e alla nascita di uno Stato cristiano come terra d'asilo per i perseguitati dalla umma. Questo movimento, che preferiva la realtà storica alle ideologie fumose, fu soffocato dalla Francia, impegnata ad attuare nelle sue colonie ima politica islamofila. Ma il vero humus dell'antisionismo cristiano, quello da cui attinse la sua virulenza, la sua linfa e la sua colorazione specifica, restava il terreno avvelenato della dhimmitudine. I cristiani arabofoni, minoranze vulnerabili in balia degli interessi inglesi, francesi o russi, e al tempo stesso ostaggi spiati dalla umma, usarono Tantisionismo, cemento di un odio che unificava cristiani e islamici, come un mezzo - forse l'unico - di assimilazione nella umma. Dalla ricostruzione della fase attiva della lotta contro la dhimmitudine emergono alcune osservazioni. Eccetto che per la Romania, favorita dal suo status di provincia periferica tributaria, la liberazione dei popoli raya si configura come un vasto movimento nato dalle classi popolari, tramandato da una generazione all'altra per più di un secolo e realizzato dai popoli nonostante e contro i notabili e l'alto clero, strumenti e regolatori del sistema di oppressione. Questa lotta dai molteplici aspetti dovette adattarsi al modello imposto a ciascun popolo dalla sua storia e dalla sua geografia.

Le situazioni variavano in base alla conformazione del territorio, ossia a seconda che fosse costituito da valli facilmente penetrabili in quanto pianeggianti e aperte (Palestina, Bulgaria), o da regioni montuose che, essendo di difficile accesso, offrivano un sicuro luogo di rifugio (Libano, Montenegro). Il cammino verso la libertà si articolò in diverse fasi - ognuna delle quali caratterizzata da più dimensioni - e si compì per gradi. In primo luogo, ogni gruppo mise in atto una serie di riforme interne che accompagnarono, sostennero e condizionarono i successi o i fallimenti della lotta esterna. Quest'evoluzione interna, che riguardò gli ambiti culturale (sistema scolastico), amministrativo (eliminazione del nepotismo e della corruzione, lotta contro l'oligarchia dominante) e istituzionale (secolarizzazione, conflitti tra elementi progressisti e conservatori), preparò la trasformazione dei millet in nazioni amalgamate da un senso civico ormai in grado di rimpiazzare la solidarietà religiosa e il clientelismo. Questo lento, difficile processo di rinnovamento interno distrusse le strutture endogene di asservimento generate dai gruppi stessi e favorì la nascita - nelle terre della dhimmitudine e nel cuore del dar ai-islam - di Stati indipendenti che, dopo secoli di servitù e di esilio forzato, riallacciarono i legami con il passato degli antichi popoli indigeni, le cui lingue e le cui specifiche istituzioni erano state nel frattempo riportate in vita. In tutto questo periodo, alle lotte settarie e alle delazioni si aggiunsero i pericoli esterni. Minacciati di sterminio da parte della umma, i popoli raya furono inoltre costretti a guardarsi dalle insidie e dalle trappole tese loro dai paesi protettori, e ad aprirsi un varco verso la libertà anche in mezzo a queste. A tratti Francia e Inghilterra si accordarono per prolungare a loro spese la dominazione ottomana, a tratti li indebolirono con discordie intestine da esse stesse alimentate per manovrarli. Ora vennero fagocitati dalla Russia e dall'Austria, ora invece abbandonati, quando le grandi potenze europee non arrivarono addirittura a smembrarli per controllarli meglio (Trattato di Berlino, 1878; Trattato di Bucarest, 1913). L'alleanza dei popoli dhimmì con gli Stati occidentali era fondata su una convergenza di interessi, in quanto i primi si ap-

poggiavano all'Europa per liberarsi dalla dhimma, mentre i secondi sostenevano questa lotta per ampliare la loro sfera d'influenza. Nello scacchiere intemazionale, in cui le grandi potenze disputavano il loro crudele gioco, i popoli dhimmi erano poco più che pedine, cinicamente manipolate o sacrificate. La destabilizzazione dei millet per effetto delle pressioni combinate degli Stati protettori era spesso aggravata dalle guerre tra i paesi europei. Alle insurrezioni dei popoli raya la Porta rispondeva con altrettanti ordini di sterminio. Greci, bulgari e slavi furono salvati soltanto dall'intervento degli eserciti europei, inviati sotto la spinta dell'opinione publica o del calcolo politico. Ma gli armeni, abbandonati dai loro protettori russi, incarnarono paradigmáticamente nel XX secolo il destino millenario dei dhimmi ribelli. Fu il primo genocidio del '900, perpetrato con la complicità dell'esercito tedesco, che collaborò con i turchi su tutti i fronti di guerra. Trent'anni dopo, i testimoni di quei massacri avrebbero pianificato lo sterminio degli ebrei. L'Inghilterra protesse gli ebrei e il sionismo, m a solo per sostituire la Francia o la Russia in Palestina. Dopo aver ricevuto il mandato su questo paese nel 1 9 2 2 e s s a si affrettò a smantellarlo per offrirne i tre quarti a 'Abd Allah, figlio dello sharip5 di La Mecca. Le rigorose limitazioni all'emigrazione degli ebrei in Palestina (White Paper, 1939) li condannarono a morte in Europa. L'Inghilterra, giunta all'apice del suo prestigio e della sua forza, dopo aver protetto e utilizzato il sionismo per i suoi scopi, decise di stroncarlo e di sacrificare gli ebrei ai suoi interessi arabi. Nel 1948 la sorte degli armeni sembrò incombere anche su Israele, quando gli eserciti di sette Stati arabi tentarono di annientarlo sotto gli occhi colmi di rancore dell'Inghilterra, umiliata per essere stata sbattuta fuori dalla Palestina dai suoi stessi «protetti». U n secolo dopo le guerre turche contro i greci, i bulgari, gli slavi e gli armeni, le rappresaglie arabe si abbatterono sulle comunità ebraiche inermi dell'Egitto, della Siria, dell'Iraq, della Libia, dello Yemen e del Nord Africa. Ma contrariamente ai turchi, i quali, dopo le loro pesanti disfatte, seppero accettare l'indipendenza dei popoli un tempo loro tributari, i paesi arabi, i cui

a n t e n a t i h a n n o c r e a t o il jihad e la dhimma, e c c e t t u a t o l ' E g i t t o c o n t e s t a n o a n c o r o g g i la legittimità dello Stato di Israele. L a lotta c o n t r o la d h i m m i t u d i n e fu p o r t a t a a v a n t i d a p o p o l i i n e r m i , c o n il c o r p o s p e z z a t o d a l l ' o p p r e s s i o n e e l ' a n i m o u m i l i a t o e fiaccato d a secoli di m o r t i f i c a z i o n e . L o g o r a t i d a i t r a d i m e n t i fratricidi, i n g a n n a t i dai loro alleati, c h e s p e c u l a v a n o sulle loro d e b o l e z z e , e c o n t r a s t a t i d a n e m i c i implacabili, essi s e p p e r o t u t t a v i a e l e v a r s i dalla schiavitù alla libertà.

'Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc de l'Empire ottoman, 2 voli., Librarne Militaire de J. Dumaine, Paris 1853-54 (ed. it. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'Impero ottomano, Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853), voi. 2, p. 32. 2 II monte Athos o Monte Santo, situato nella Penisola Calcidica e oggi sede di una repubblica monastica autonoma sotto la sovranità greca, ospita numerosi monasteri. Dalla fine del VII secolo, infatti, divenne meta di eremiti, che si diedero una regola approvata poi dall'imperatore d'Oriente. Nel XV secolo, all'apice dello sviluppo monastico, l'Athos contava 30 conventi di 1000 monaci ognuno; oggi ne ospita 20, tutti di rito ortodosso, che godono di autonomia amministrativa già riconosciuta dai turchi e confermata nel 1927. I monti Rodopi, compresi per lo più in Bulgaria meridionale e in minima parte in Grecia, sono anch'essi sede di numerosi monasteri sorti dopo che fu dichiarata l'indipendenza della Chiesa ortodossa bulgara (927). Il più grande di essi è quello di Rila. Tra la fine del XII e quella del XIV secolo, essi divennero prestigiosi centri letterari e artistici. Sotto la dominazione turca e dopo la caduta di Costantinopoli (1453), i monasteri bulgari scelsero come punto di riferimento la repubblica monastica del monte Athos. Dalla seconda metà del '700 (declino dell'Impero ottomano), essi assunsero un ruolo ancor più rilevante nella cultura bulgara. In particolare Rila divenne uno dei maggiori centri del movimento detto «Rinascimento bulgaro», assieme al monastero della Santa Trinità di Etropole (centro di rilegatura artistica dei libri, illustrazione di manoscritti e decorazione di icone), a quelli di Samokov, Trjavna, Bansko, Strandja, sede di scuole d'arte dalla fine del XVIII secolo, di Backovo - secondo so-

lo a Rila per grandezza e importanza architettonica, - di Cipka, Drjanovo, Rozen e Aladza [N.d.T.]. 3 La Congregazione mechitarista è un Ordine religioso cattolico fondato a Costantinopoli nel 1700 da Mechitar, un monaco benedettino armeno, e trasferitosi a Venezia nel 1715, prima presso la chiesa di San Martino, poi nell'isola di San Lazzaro, dove ha sede tuttora. Seguendo l'esempio del fondatore, i monaci proseguirono il lavoro di riscoperta, studio, traduzione e stampa di antichi testi armeni, e di traduzione in armeno di importanti opere classiche e della cristianità. Ma la comunità fu scossa da tensioni che nel 1772 sfociarono in una scissione: un gruppo di monaci restò a Venezia, mentre un altro si spostò a Trieste e poi a Vienna, dov'è ancora attivo. Nel 2000 i due rami si sono ricongiunti, e l'Ordine ha così ritrovato l'originaria unità [N.d.T.]. Kevork B. Bardakjian, The Rise of the Armenian Patriarchate of Constantinople, in Benjamin Braude, Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire: The Functioning of a Plural Society, 2 voli., Holmes & Meier, New York-London 1982, voi. 1, pp. 89-100. 1

Roderic Hollet Davidson, Reform in the Ottoman Empire, 1856-1876, Princeton University Press, Princeton 1963 (University of Michigan Press, Ann Arbor 1993), pp. 114-135. 5

II termine moldo-valacchi rimanda a una precisa fase della storia della Romania, nata dall'unione di due dei tre principati sorti nel XIII secolo, la Valacchia, la Moldavia e la Transilvania, divenuti vassalli dell'Impero ottomano rispettivamente dal 1476, dal 1538 e dal 1547. La Transilvania, benché soggetta all'Impero ottomano, era l'unica parte ancora autonoma, appartenendo al Regno d'Ungheria, di cui condivise le sorti passando dal 1711 sotto la reggenza della monarchia absburgica ed entrando a far parte dell'Impero Austro-Ungarico nel 1867. Invece la Romania nacque dall'unione del principato di Moldavia e di Valacchia (1859), che divennero indipendenti nel 1877. Dopo la prima guerra mondiale la Romania riconquistò e incorporò la Transilvania, la Bucovina e la Bessarabia [N.d.T.]. 7 Per i funzionari fanarioti reclutati, dal 1711 al 1822, come governatori (hospodar) dei principati di Valacchia e di Moldavia, cfr. cap. 5, par. «Fattori di interazione esogeni», sottopar. «La dominazione e le ingerenze dello Stato islamico» [N.d.T.]. 6

"I kleftes (lett.: ladri) erano bande di ribelli greci che, muovendo dalle loro basi sulle montagne, condussero continue azioni di guerriglia contro il dominio ottomano tra i secoli XVIII e XIX, contribuendo alla lotta per l'indipendenza della Grecia [N.d.T.].

Dorde Petrovic [pseud. Karadorde] fu il leader della prima rivolta serba contro i turchi (1804-1813) e il capostipite della dinastia dei Karadordevic. Il suo pseudonimo deriva dal fatto che i turchi lo chiamavano Kara Yorgi, Giorgio il Nero, per il timore che incuteva o per il colorito scuro [N.d.T.]. 9

10 Tra il X e il XVII secolo (e in Romania fino al XX), il termine «boiardo» o «boiaro» designava un membro dell'alta aristocrazia feudale russa, rumena, ucraina e bulgara, con potere e influenza secondi solo a quelli dei principi regnanti. Voivòda è un termine slavo indicante in origine il comandante di un'unità militare. Sin dal Medioevo, il titolo veniva attribuito ai governatori o capi di territori in Polonia, Russia, Moldavia, Serbia, Romania e Bulgaria; in questi ultimi due paesi esso spettava anche al principe ereditario [N.d.T.].

La distinzione tra sedi episcopali e metropolitane, rette rispettivamente da vescovi e arcivescovi, corrisponde a quella tra diocesi e arcidiocesi: l'arcidiocesi è la diocesi più importante della provincia ecclesiastica, detta anche sede metropolitana dalla figura del metropolita, nata nelle Chiese d'Oriente come figura intermedia tra vescovo e patriarca, e resa ufficiale dal Concilio di Nicea. Il suo compito principale era presiedere all'elezione dei vescovi e ordinarli. Attualmente nella Chiesa ortodossa, soprattutto slava, 11

11 titolo di metropolita è superiore a quello di arcivescovo, e designa i primati delle più importanti città; i metropoliti della Chiesa greca hanno un ruolo direttivo durante i rispettivi sinodi e concili di vescovi. Invece nella Chiesa cattolica la carica è quasi solo onorifica [N.d.T.]. 12 Haim Nahum (a cura di), Recueils de firmans impériaux ottomans adressés aux Valis et aux Khédives d'Égypte (1597-1904), Institut Français d'Archéologie Orientale, Il Cairo 1944, p. 91.

"Ivi, pp. 109-110. u Dall'età delle Crociate, appellativo generico con cui greci, turchi e arabi indicavano i popoli cattolici dell'Occidente europeo stanziati nel Mediterraneo orientale e sulle coste del Mar Nero. Infatti i crociati erano detti «franchi» dagli arabi e «latini» dai bizantini. http://www.islamistica. com/giuseppe_cossuto/levantini.html [N.d.T.]. 15 Ubicini, Lettres sur la Turquie cit., vol. 2, pp. 415-418. "Robert William Seton-Watson, The Rise of Nationalité in the Balkans, Constable & Co., London 1917 (Howard Fertig, New York 1966). 17 Movimento politico nato all'inizio del XX secolo nell'Impero ottomano, ispirato alla Giovine Italia e intenzionato a trasformare l'Impero, ormai autocratico e inefficiente, in una monarchia costituzionale con un esercito addestrato ed equipaggiato modernamente. Esso comprendeva per lo più

intellettuali reclutati nelle società segrete degli studenti universitari progressisti, nonché ufficiali dell'esercito che volevano modernizzare e occidentalizzare l'intera società, liberandosi dei «Vecchi Turchi». L'ala militare del gruppo, nell'estate del 1908, marciò con le proprie truppe su Istanbul, costringendo il sultano a concedere una Costituzione e cambiamenti al governo del paese [N.d.T.]. James Bryce (a cura di), The Treatment of the Armenians in the Ottoman Empire (1915-1916), Sir Joseph Causton & Sons, London 1916; Johannes Lepsius, Deutschland und Armenien 1914-1918: Sammlung diplomatischer Aktenstücke, Der Tempelverlag, Potsdam 1919 (Donat & Temmen, Bremen 1986); Yves Temon, Les arméniens: histoire d'un génocide, Editions du Seuil, Paris 1977 [ed. it. Gli armeni: 1915-1916, il genocidio dimenticato, Rizzoli, Milano 2007]; Arthur Beylerian, Les Grandes Puissances, l'Empire ottoman et les arméniens dans les archives françaises (1914-1918), Publications de la Sorbonne, Paris 1983. Nonostante la proibizione dei Giovani Turchi di aiutare gli armeni, alcuni cristiani, ebrei e musulmani (sia turchi che arabi) si sforzarono di soccorrerli. 18

«The Times», London, 24 novembre 1945, p. 4, documento presentato al processo di Norimberga. Cfr. Winfried Baumgart, Zur Ansprache Hitlers vor den Führern der Wehrmacht am 22. August 1939: Eine quellenkritische Untersuchung, «VJHfZ», n. 16,1968, p. 139; Kevork B. Bardakjian, Hitler and the Armenian Genocide, Zoryan Institute, Cambridge (USA) 1985; Vahake N. Dadrian, The Role of Turkish Physicians in the World War I Genocide of Ottoman Armenians, «Holocaust and Genocide Studies» 1, n. 2,1986, pp. 169192; Id., The Convergent Aspects of the Armenian and Jewish Cases of Genocide. A Reinterpretation of the Concept of Holocaust, «Holocaust and Genocide Studies» 3, n. 2, 1988, pp. 151-169. 19

James Finn, Stirring Times, or Records from Jerusalem Consular Chronicles of 1853 to 1856, Kegan Paul & Co., London 1878 (ripr. anast. Adamant Media, Boston 2004); Bat Ye'or, The Dhimmi: Jews and Christians under Islam, pref. di Jacques Ellul, ediz. inglese riveduta e notevolmente ampliata, trad, di David Maisel, Paul Fenton e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford (USA) 1985 (8 a ristampa 2008; edizione ebraica ampliata: Ha-Dhimmin. B'nai Ha-Sout, introd. di Moshe Sharon, Cana Press, Jerusalem 1986; ediz. russa in 2 voli., Society for Research on Jewish Communities-Aliyah Library, Jerusalem 1991), sezione «Documenti», n. 35, pp. 228-241. 20

Jean Ganiage, L'expansion coloniale de la France sous la Troisième République (1871-1914), Payot, Paris 1968, p. 30.

21

Per un'analisi approfondita del nazionalismo arabo, delle sue origini e dei suoi sviluppi, vedi Albert Hourani, Arabie Thought iti the Liberal Age (1798-1939), Oxford University Press, London-New York-Toronto 1967 2

22

(1962 '); Sylvia G. Haim (a cura di), Arab Nationalism: An Anthology, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1976 2 ; Robert Brenton Betts, Christians in the Arab East, Society for Promoting Christian Knowledge, London 1979 2 (1972'). 23 Hourani, Arabie Thought in the Liberal Age cit., cap. 11, pp. 273-279. 24 Ivi, pp. 309-311. 25 Ivi, pp. 267-273. 26 II termine shtetl (pl. shtetlekh, dal ted. Stiidtlein) designa gli insediamenti dell'Europa orientale con un'alta percentuale di abitanti di origine ebraica (ashkenaziti). In senso lato indica l'intera area della cultura yiddish http://www.israele.net/sezione„l71 .htm [N.d.T.]. 27 II bundismo è un movimento ebraico di ispirazione socialista fondato a Vilnius nel 1897 da un gruppo di socialdemocratici ebrei, intenzionati a contrapporsi al sionismo e al suo progetto di stato israeliano liberale a immagine dell'Occidente capitalista. Il termine deriva da Bund (abbreviazione di Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Poyln un Rusland un Poyln, Sindacato Generale dei Lavoratori Ebrei di Lituania, Polonia e Russia) http://www.comiteactionpalestine.org/modules/news/article.php? storyid=33 [N.d.T.]. 28 In una lettera al presidente dell'AIU, il rabbino capo dell'Impero ottomano Nahum Effendi spiega che il suo atteggiamento, seppur tacciato di antisionismo, ha «evitato agli ebrei turchi e palestinesi il destino degli armeni e dei greci»: lettera inviata da Costantinopoli il 27 aprile 1919 al presidente dell'Alliance Israélite Universelle, cfr. Esther Benbassa, Un grand rabbin sépharade en politique, 1892-1923, Presses du CNRS, Paris 1990, p. 234. Constantin-François Volney, Voyage en Égypte et en Syrie (1783-1785), 2 voli., Parmantier-Froment-Didot, Paris 1825 (1788-1789 '), vol. 2, p. 215. Per un'analisi statistica più precisa, relativa alla fine del XIX secolo, vedi Vital Cuinet, Syrie, Liban et Palestine. Géographie administrative, statistique, descriptive, 3 voli., Ernest Leroux, Paris 1896. 301 circassi o ierkessi sono una popolazione della Caucasia nord-occidentale, che risiede principalmente nelle Repubbliche di Adighezia e Karaiajevo-Cerkessia (entrambe parte della Federazione Russa). Benché la Circassia sia stata ceduta alla Russia nel 1829, il suo popolo fu soggiogato solo nel 1864, quando gran parte di esso abbandonò il Caucaso ed emigrò 25

in varie zone dell'Impero ottomano. Mentre in Occidente si preferisce il termine circassi, che però si applica anche ad altri popoli del Caucaso settentrionale, essi si autodefiniscono Adighi (Adyghe) [N.d.T.]. Allude alle restrizioni imposte all'immigrazione ebraica dal governo turco e delle parole del console russo, che si era vantato di «avere più sudditi a Gerusalemme che in tutti gli altri consolati russi messi insieme». Ma il divieto, segnalato nel marzo 1887 dal console britannico a Gerusalemme, durò poco tempo, perché il deciso intervento di vari stati, prima fra tutti la Gran Bretagna, portò alla sua abrogazione (gli ebrei dell'impero ottomano o dei paesi musulmani ne rimasero esclusi) http://www.al-moharer.net/ mohl40/kayalil-140.htm [N.d.T.]. 31

Bat Ye'or, Yehudi Mitzraiyim [Gli ebrei in Egitto], Maariv, Tel Aviv 1974 (testo in lingua ebraica) (ed. orig. Les Juifs en Égypte, Éditions de l'Avenir, Genève 1971), cap. 13; Id., Zionism in Islamic Lands: The Case of Egypt, «WLB», n. 30 (nuova serie 43-14), 1977, pp. 17-29; Id., Le Sionisme dans les pays islamiques: le cas de l'Égypte (edizione abbreviata e in francese del precedente articolo), in Le Second Israël, dossier pubblicato da «Les Temps Modernes», n. 394 bis, Paris, maggio 1979, pp. 162-181; Michel Abitbol, Zionist Activity in the Maghreb, «JQ», n. 21,1981, pp. 61-84. Per un'analisi di questo periodo nell'Impero ottomano, si veda la tesi di dottorato di Esther Benbassa, Haim Nahum Efendi, dernier Grand Rabbin de l'Empire ottoman (19081920): son rôle politique et diplomatique, 2 voli., Université de Paris HI, 1987. 32

Per un'analisi del sionismo nell'Impero ottomano vedi Esther Benbassa, Israël face à lui-même: Judaïsme occidental et judaïsme ottoman (XIX-XX siècle), «Pardès», n. 7, Paris 1988, pp. 105-129; Id., Zionism in the Ottoman Empire at the End ofthe 19th and the Beginning ofthe 20th Century, in Studies in Zionism, «JIS», n. 11, Baltimore 1990 (autunno), pp. 127-140. 33

II mandato britannico sulla Palestina fu deciso alla Conferenza di San Remo (aprile 1920) e reso esecutivo dalla Società delle Nazioni (Société des Nations) il 24 luglio 1922. Il mandato riconosce il collegamento storico del popolo ebraico con la Palestina e obbliga il Regno Unito a sostenere la costruzione del Jewish National Home. Il mandato ha governato la Palestina dal 1920 al 1948. Nel settembre 1922 Londra separò la Transgiordania dalla Palestina della quale constituiva il 78%, per costituire uno stato soltanto arabo, proibito agli ebrei. 34

Lo sharlf (plur. ashraf lett. «illustre, nobile», termine che designa i discendenti di Maometto attraverso la figlia Fatima e il cugino 'Air ibn Abl Talib) di La Mecca era il governatore del Hijâz e il custode delle città sante di La Mecca e Medina dall'era degli abbasidi fino al 1924, quando i 35

Sa'ud occuparono il Hijaz sconfiggendo l'ultimo Gran Sharlf di La Mecca 'Ali ibn al-Husayn. Da allora sono essi ad amministrare le città sante e i pellegrinaggi a La Mecca [N.d.T.].

Capitolo 8 Alcune forme di ritorno del passato in età moderna

Il retaggio dell'epoca coloniale Nel prolifico XIX secolo l'Occidente, spinto dalla curiosità, si riversò come una marea entusiasta e fecondatrice nell'antico Oriente. Gli esploratori e i geografi tracciarono le carte di contrade misteriose, gli archeologi e gli storici decifrarono i segni dei millenni, mentre gli scienziati definivano i fondamenti della medicina moderna. Il turbinio delle rivoluzioni sociali si accompagnava al progresso tecnologico, i cui strumenti, via via perfezionati, svelavano agli studiosi l'esistenza di immensi ambiti di ricerca. La Terra, rimpicciolita dalle ferrovie, schiudeva la molteplice varietà delle sue culture, lasciando emergere il relativismo dei valori e la fondamentale identità della natura umana da un capo all'altro dell'universo. Armati di idee rivoluzionarie, i politici e i giuristi elaborarono nuove legislazioni, che sancivano l'uguaglianza tra gli uomini, la libertà dei popoli, la laicità della sfera giuridica e l'intangibilità del diritto naturale e di quello umanitario. Come un inarrestabile uragano, la civiltà europea e i suoi eserciti rivoltarono da cima a fondo il dcir al-islam. Poco più di cent'anni dopo l'Europa, letteralmente dissanguata da due guerre mondiali, traumatizzata dalle stragi subite, screditata e scacciata, vilipesa e umiliata, si ritirava con ignominia nei propri confini. L'avventura coloniale era terminata! Ma ne cominciava un'altra, questa volta nello spazio!... Prodiga del suo genio, l'Europa abbandonava ai deserti

d'Oriente le città che aveva edificato come per gioco, mentre, simili a miraggi di sabbia e a caricature rinsecchite, si sgretolavano i suoi ideali di libertà. A partire dalla seconda metà del XIX secolo le antiche comunità dhimmì, favorite da un'istruzione di tipo europeo e liberate dalle catene dell'oppressione, avevano partecipato attivamente al rinnovamento e all'industrializzazione dei propri paesi. Il sorgere della borghesia e di un'amministrazione pubblica multiconfessionale condusse all'abolizione della millenaria e rigida divisione su basi religiose imposta dalla dhimma. Commercianti, industriali e funzionari, reclutati dall'apparato amministrativo coloniale, nel loro duplice ruolo di agenti e di «ingranaggi» del processo di modernizzazione catapultarono il dar al-islam dal Medioevo nel XX secolo. Sotto i regimi coloniali europei, le trasformazioni in atto all'interno delle comunità dhimmì si accelerarono. La nascita di una piccola borghesia educata nelle scuole europee cristallizzò le tensioni di classe, che a loro volta innescarono la democratizzazione degli organismi comunitari e lo sgretolamento del potere dei notabili. Questa evoluzione, che ricalcava il modello europeo, sebbene ineluttabile non era certo priva di inconvenienti. Infatti l'impatto della civiltà occidentale - tanto più seducente agli occhi dei dhimmì in quanto fonte di liberazione - indeboliva ulteriormente l'identità storica dei vari gruppi. Il processo di acculturazione si innestava peraltro sull'alienazione causata da ima millenaria oppressione, che era stata così profondamente interiorizzata e assimilata sul piano sociale da sfuggire a qualsiasi riflessione critica. L'ibridismo culturale accentuò l'amnesia delle comunità, che vennero sommariamente designate come «le minoranze». Nei primi decenni del XX secolo, l'ascesa sociale ed economica dei cristiani e degli ebrei d'Oriente e del Maghreb si integrò nelle dinamiche di «occidentalizzazione» dell'islam messe a punto dai regimi coloniali. Si innescò così un movimento di reinterpretazione dei dogmi religiosi e politici del mondo islamico, finalizzato ad abolire le disuguaglianze tra musulmani e non musul-

mani. Tale evoluzione ideologica prese lentamente forma in seno alle strutture statali che, subentrate ai principi politici ispirati alla sharfa, sostituirono il consenso nazionale a quello della umma. Generazioni di intellettuali e politici islamici furono plasmate secondo quest'orientamento all'interno delle scuole coloniali e delle università europee. La rivoluzione intellettuale e industriale, imposta dalle esigenze di modernizzazione e legata alla colonizzazione europea, trasformò e sconvolse le società arabo-islamiche tradizionali in modo talmente profondo che gli schemi della dhimmitudine scomparvero nell'oblio. Quest'occultamento confortava peraltro il desiderio della corrente panaraba cristiana di non urtare le suscettibilità musulmane. Fermamente intenzionati a utilizzare ^ a r a b i smo» come strumento di uguaglianza, i nazionalisti arabi cristiani fecero di tutto per seppellire la dhimmitudine. Dal canto loro Francia e Inghilterra, che governavano i popoli musulmani colonizzati, condivisero questa politica di appeasement e di intesa. Ancor più accentuato fu lo spirito di conciliazione creatosi tra l'Europa e i nuovi Stati arabi indipendenti, che rappresentavano ormai un'importante scommessa economica e geostrategica. Le antiche istituzioni religiose e scolastiche cristiane dovettero astenersi dal criticare la storia islamica per continuare a esistere, mentre un team di storici legati al mondo arabo per ragioni professionali o economiche metteva a punto una ricostruzione delle vicende dei dhimmT censurata o improntata a un mix di elementi fattuali, apologetici e fantastici. Dopo la seconda guerra mondiale, l'egemonia intellettuale della sinistra e il sorgere di regimi arabi socialisti o alleati di Mosca contribuirono a consolidare un internazionalismo rivoluzionario arabofilo che conobbe il suo apogeo a partire dal 1973, grazie all'impennata dei prezzi del petrolio. Accomunate nella generale condanna riservata a un Occidente imperialista, colonialista, clericale e reazionario, le comunità dhimmT, un tempo oggetto delle attenzioni europee e russe, furono bollate come agenti dell'imperialismo, tacciate di collusioni nazionalistiche, confessionalistiche e isolazionistiche, ed etichettate con l'epiteto di compradoreK

La patente di obbrobrio affibbiata all'imperialismo europeo portò a screditare i suoi ex protetti e produsse un'inversione di ruoli nella storia mediorientale. I gruppi dhimml si videro attribuire un passato puramente mitico di «minoranze religiose» che, in terra araba e islamica, avrebbero goduto di un'ospitalità e una tolleranza indiscriminate e uniformi. Per giunta alcuni di essi che vantavano culture d'origine del calibro di quella aramaica (ebraica, siriaca), copta, armena e greca - , per il fatto che erano ebrei o cristiani furono etichettati come stranieri rispetto al contesto arabo-musulmano! L'occultamento delle forze che avevano modellato la storia del Medio Oriente permise di trasformare lo Stato di Israele in una creazione colonialista e di interpretare la resistenza cristiana libanese come una forma di fanatismo clericale reazionario. Così le congiunture politiche - ossia gli interessi dei paesi occidentali e dei cristiani «arabi» assimilazionisti, uniti alla corrente dell'internazionalismo rivoluzionario - concorsero a cancellare definitivamente dalla faccia della storia la dhimmitudine. Sul piano politico i paesi arabi recuperarono, sotto forma di nazionalismi, i particolarismi regionali della umma. Sorti all'interno di confini delimitati dalla colonizzazione, i nuovi Stati coincidevano spesso con antiche entità geografiche prearabe. La colonizzazione europea delle antiche province arabe e ottomane e del Maghreb durò, a seconda delle regioni, dai 50 ai 130 anni. Questo periodo vide il rapido succedersi di una serie di trasformazioni scaturite dalle riforme giudiziarie e amministrative del tanzimat: emancipazione dei dhimmT, indipendenza dei popoli raya, abolizione della schiavitù ecc. All'evoluzione politica si accompagnarono innovazioni tecnologiche quali la creazione di importanti infrastrutture del genio civile e l'industrializzazione delle colonie 2 . Le nuove esigenze richiesero la costruzione di strade e di città, lo sviluppo dell'istruzione scolastica e di quella universitaria. L'accavallarsi di tanti e tali sconvolgimenti - ciascuno dei quali ricco di ripercussioni politiche, culturali e ideologiche - si verificò tra il 1830 e il 1960, ossia in un tempo infinitesimale se paragonato alla storia millenaria dell'Oriente islamico. È pertanto

legittimo interrogarsi sulla solidità e la durevolezza di fondamenta erette in un arco di tempo così ridotto. Ritirandosi dal dar ai-islam, l'Europa si illudeva di avervi lasciato due risorse politiche: l'arabismo laico e infrastrutture istituzionali moderne, fondate sull'interdipendenza tra le tecnologie e i valori occidentali, destinati a perpetuarsi nelle università di sua creazione. Ma l'attuale rinascita dell'islam tradizionale - che va sotto il nome di «fondamentalismo» o «integralismo» o «radicalismo» - predica esattamente l'opposto, e propugna il rifiuto di quelle idee straniere che furono assimilate solo da una ristretta élite «occidentalizzata», peraltro oggi in via di estinzione. Ormai sono le stesse università fondate dagli europei per tramandare i propri valori a formare i quadri dirigenti dei gruppi di militanti islamici antioccidentali. Ed è sempre la tecnologia militare e scientifica dell'Occidente ad armare i ghazi o i fedayin3 moderni, nonché a fornire loro i mezzi di telecomunicazione grazie ai quali possono coordinare la loro azione e la loro propaganda in tutto il dar al-islam e il dar al-harb. L'Europa aveva depositato presso la umma un bagaglio di valori comprendente, tra gli altri, i concetti di emancipazione, uguaglianza dei diritti e laicità, ma ritirandosi lo portò via con sé.

Le radici dell'islamismo moderno Questo capitolo non pretende affatto di tracciare anche solo una sintesi dell'età moderna, la cui fluidità e complessità sfuggono ai politologi più esperti, i quali spesso sono disorientati fra sapere e «politicamente corretto». Qui ci accontenteremo di accennare ai prolungamenti attuali delle ideologie del passato. Certo, essi non rispecchiano tutti i variegati aspetti del mondo islamico; tuttavia è innegabile che la loro crescente importanza contribuisca a fare oggi dell'islamismo un potente movimento politico trasversale all'Asia, all'Africa e all'Europa. In realtà l'attuale ascesa dell'islam non costituisce affatto una rivoluzionaria innovazione ideologica, poiché essa rientra in

un'ininterrotta corrente storica, la stessa che, nel corso dei secoli, alimentò e sostenne il jihad, la conquista di nuovi territori e la dhimmitudine dei popoli indigeni non musulmani. Contenuto dalla superiorità militare europea e tenuto sporadicamente a freno, a partire dal XIX secolo, dalle forze innovative del progresso, il radicalismo islamico prese forma sotto la spinta di tensioni politiche e sociali che aggregarono le masse attorno a una serie di leader religiosi cui veniva attribuito il carisma della santità. Nell'Egitto degli anni '30 e nell'Iran prekhomeinista, l'islamismo funzionò da valvola di sfogo in grado di incanalare nell'alveo religioso - dal momento che ogni altra forma di protesta politica era proibita - il malcontento popolare e la rivolta dei «colletti bianchi». L'integralismo moderno - espressione delle violente tensioni e dello smarrimento che pervadono società eminentemente religiose quali quelle musulmane, mandate in frantumi dall'intrusione occidentale - , ha cause molteplici e contraddittorie. Il suo scopo, invece, è inequivocabile: ripristinare il Corano e la shari'a come uniche fonti del governo e della giurisdizione negli Stati islamici 4 . Questo ritomo a una rigida ortodossia esige in primo luogo l'eliminazione di ogni valore o legge estranei all'islam, ossia mutuati dal dar al-harb. La restituzione ai popoli dhimmT dei territori conquistati e gli umilianti rovesci militari subiti sono infatti imputati a queste nefaste influenze, responsabili dei castighi divini abbattutisi sulla comunità dei fedeli di Allah, attualmente guidata da leader eretici. L'islamismo si traduce quindi anzitutto in un rigetto dei cambiamenti introdotti dai contatti con le civiltà del dar al-harb e nel rifiuto di riconoscere la sovranità dei dhimmt. Questo atteggiamento è il frutto della riduzione del mondo non musulmano a una serie di stereotipi dispregiativi, che mirano a neutralizzarne il potere di seduzione: Grande Satana, nemico dell'umanità, culla del materialismo, del colonialismo, dell'imperialismo e del sionismo. In Iran i mullah fomentarono la rivoluzione contro la dinastia filo-occidentale dei Pahlavi alimentando e usando il fanatismo per impadronirsi del potere. L'ignoranza e la miseria popolare fu-

rono il seme della rivolta, orientata e guidata dal clero. I Pahlavi (1925-1979), che avevano cercato di modernizzare il paese, vennero travolti dalla marea integralista. In Egitto il presidente Sadat tentò di ingraziarsi il movimento islamista al fine di controllarlo dall'interno e debellarlo. Tuttavia la sua politica di apertura nei confronti del dar al-harb, dell'Occidente e di Israele, illuminata dalla visione modernista di una società liberata dal giogo della religione, fece di lui, come già era accaduto per i Pahlavi e i turchi kemalisti 5 , il nemico dell'islam. L'islamismo però non si limita allo stadio del rifiuto: esso accoglie in sé le sofferenze e le speranze dei popoli. Perciò si autoproclama la via della redenzione di ima umma corrotta dall'Occidente. I popoli musulmani - esso insegna - conosceranno di nuovo la gloria se ripristineranno nel nostro tempo le istituzioni che furono elaborate nel VII secolo e che li condussero al potere. Un potere che si fondava sul jihad, l'annessione di terre, il bottino derivante dalle vittorie, il saccheggio a danno delle civiltà vinte e lo sfruttamento delle enormi riserve di schiavi e manodopera provenienti dalle Indie, dall'Africa, dall'Oriente e dall'Europa. E così il rigetto dell'Occidente e la nostalgia di una potenza edificata sulla guerra e sulle conquiste contribuiscono a fare dell'islamismo il veicolo e il pilastro del jihad. Il programma politico della corrente integralista è ben noto. Essa predica il ritorno alla sharfa in tutti gli Stati musulmani. Questo primo stadio permetterà l'accorpamento delle leadership politica e militare e il ripristino della mentalità ghazi. Solo allora potrà essere intrapreso lo stadio successivo nonché finale, articolato nelle seguenti fasi: conquista del mondo e instaurazione della supremazia universale della legge islamica, distruzione delle civiltà dell'epoca preislamica (jdhiliyya) non musulmane e imposizione della dhimma ai popoli del dar al-harb, riconquistato e quindi ridivenuto dar al-islam. La corrente islamista legittima la sua ideologia sulla base del passato: in effetti le epoche gloriose dell'islam furono proprio quelle legate alle due ondate (araba e turca) di conquiste. Non fu certo nella sua culla - l'Arabia, popolata esclusivamente da arabi musulmani - né a La Mecca o a Me-

dina, che rifulse in tutto il suo splendore la civiltà islamica. Essa brillò soltanto nelle terre della dhimmitudine, nei periodi in cui i dhimmì costituivano ancora delle maggioranze soggette a conquistatori musulmani numericamente inferiori. Sotto gli arabi, infatti, essa raggiunse il suo apogeo nell'Oriente cristiano e in Spagna, ma lo stesso fenomeno si verificò sotto i turchi: non fu nell'Asia centrale che i selgiuchidi e gli ottomani fondarono un impero prestigioso, ma in Anatolia e nei Balcani, dove assoggettarono le popolazioni ortodosse. Oggi i popoli musulmani, i quali - tranne che nei paesi petroliferi - sono tra i più poveri del pianeta, sono affascinati dalle ricchezze dell'Europa e dell'America tanto quanto un tempo i nomadi dell'Arabia e del Turkestan erano attratti dalle fiorenti e raffinate città dell'Oriente prearabo e di Bisanzio. In effetti il movimento integralista non nasconde affatto la sua intenzione di islamizzare l'Occidente. La sua propaganda, contenuta negli opuscoli in vendita nei centri islamici europei, ne chiarisce gli scopi e i mezzi, che includono il proselitismo, le conversioni, i matrimoni con donne indigene e soprattutto l'immigrazione. Ricordando che i musulmani partirono sempre minoritari nei paesi conquistati (o, per usare il loro termine, «liberati») prima di divenire la maggioranza, gli ideologi del movimento considerano l'insediamento islamico in Europa e negli Stati Uniti come la grande occasione dell'islam.

Dhimmitudine dell'Occidente? Il jihad sferrato contro l'Occidente dalla corrente islamista è un conflitto multiforme e pluridimensionale, che non si lascia circoscrivere in una definizione. Esso si manifesta attraverso le azioni terroristiche dei gruppi ghazi, ossia dei terroristi al servizio di alcuni Stati (Iran, Iraq, Siria, Libia), attraverso pressioni economiche o minacce (una su tutte, l'arma del petrolio) e attraverso il condizionamento psicologico. La cattura di ostaggi è una tipica tattica del jihad6. Sul piano teologico-giuridico, essa è ritenuta sia moralmente che legalmen-

te giustificata. L'ostaggio, un prigioniero harbt, costituisce una risorsa dal punto di vista militare, poiché consente di effettuare scambi di prigionieri o di ottenere un riscatto che serve a finanziare la guerra di islamizzazione. In entrambi i casi l'ostaggio (americano, europeo o di altra nazionalità) è considerato un oggetto disumanizzato, ossia privo dei diritti inalienabili legati all'essere umano. Tale disumanizzazione è un aspetto fondamentale del concetto di harbì. È l'opportunità del momento che può trasformare un harbì qualunque in un prigioniero. In passato erano le razzie di confine e la pirateria marittima, specialmente maghrebina, ad alimentare ima cospicua riserva di ostaggi destinati alla schiavitù qualora non venissero riscattati. Fino al 1815, le Reggenze barbaresche e il Marocco costituirono dei veri e propri Stati pirata, che si arricchivano con il bottino umano prelevato dal dar al-harb7. Il terrorismo moderno richiama le razzie di confine, solo che oggi i mezzi di locomozione permettono ai ghazi di seminare la morte nel cuore stesso del dar al-harb, mentre i loro antenati massacravano gli abitanti dei villaggi di frontiera. Si deve al terrorismo arabo-palestinese se sono stati rinverditi ai giorni nostri i fasti eroici del ghazi che si imboscava per assalire i civili. Ammassati fino al 1982 nei campi militari situati in Libano o presso il confine israelo-libanese, gli arabi palestinesi hanno dato vita a una società guerriera, resa fanatica dalla predicazione del jihad anti-israeliano. E proprio come i ghazi medievali, che combattevano nei ribat posti al limes dei territori cristiani con l'appoggio dell'intera umma, così i palestinesi, moderni eroi del jihad, hanno suscitato l'ammirazione popolare grazie agli attacchi terroristici sferrati contro i civili e alle loro «performance» di pirateria aerea. Eredi spirituali dei fedayin - i campioni dell'islam, noti anche come «combattenti della fede», che per più di un millennio avevano affossato gli Stati cristiani della regione - , essi hanno concentrato su di sé e riportato in vita le tradizioni belliche antioccidentali. Quindi il terrorismo arabo-palestinese ha rispolverato, aggiornandola a livello ideologico e tattico, la millenaria ghazwa anticristiana.

Se da un lato fu l'antisionismo ad alimentare e innescare l'opposizione al cristianesimo, dall'altro fu il millenario movimento anticristiano, istituzionalizzato da secoli di jihad e da ima corrispondente tradizione culturale e politica, ad avvelenare ed esacerbare il moderno antisionismo. La tradizione storica delle guerre per la conquista dei territori cristiani (Oriente, Bisanzio, Europa) e l'assoggettamento dei popoli cristiani sono di fatto confluiti nell'antisionismo attuale. L'antisionismo cristiano sia orientale che occidentale, che forniva una legittimazione etica alle razzie palestinesi e al jihad, fu simultaneamente responsabile di tre fenomeni: distrusse le comunità cristiane libanesi, indebolì le Chiese d'Oriente e, per finire, proiettò sull'Occidente l'ombra della dhimmitudine. Infatti, dal punto di vista storico, sia il jihad anti-israeliano che quello antioccidentale non sono che i due aspetti interdipendenti e interconnessi di una stessa guerra contro le due Genti del Libro, accomunati, sotto il dominio islamico, da un'identica condizione di dhimmitudine. La causa di questi conflitti non va ricercata nel desiderio d'indipendenza di tali popoli, ma nella natura delle relazioni internazionali con gli ebrei e con i cristiani prescritte dal dogma islamico. La guerra per annientare Israele concesse una proroga ai cristiani d'Oriente e allontanò provvisoriamente dall'Occidente l'offensiva del jihad. Attribuire a Israele la responsabilità della rinascita dell'islam tradizionale, come fanno alcuni cristiani orientali, è del tutto infondato: essa deriva semmai dall'occultamento di dodici secoli di dhimmitudine cristiana. Infatti, anche se Israele non esistesse, il resto del dar al-harb - dall'Europa all'Australia - resterebbe come un tempo oggetto di mire e di conquiste, destinato cioè a diventare terra di bottino e di futura dhimmitudine. Pertanto la soluzione non passa certo per l'eliminazione degli Stati bersaglio del jihad, ma consiste in un cambiamento di mentalità e nella salvaguardia di questi Stati. Se si pensa alle infrastrutture antiterroristiche che oggi presidiano militarmente l'Europa, i suoi luoghi pubblici e i suoi aeroporti, a quanto investono i contribuenti per finanziare la difesa

armata delle loro libertà, all'impatto psicologico del terrorismo intellettuale, alle restrizioni politiche e giudiziarie imposte dal ricatto dei terroristi e alle deroghe introdotte alle leggi vigenti, è legittimo chiedersi se l'Occidente non sia già entrato, senza neppure accorgersene, in una fase di dhimmitudine. L'analisi dell'età moderna non rientra affatto nell'ambito di questo studio. Nondimeno, le osservazioni sin qui condotte sulla continuità della storia e sul suo riproporsi nell'attualità contemporanea inducono a certe constatazioni. In primo luogo, è evidente che la rinascita di alcune strategie islamiche tradizionali non è certo un fenomeno passeggero. Questi comportamenti affondano le loro radici in tredici secoli di storia e si sviluppano in base a permanenti realtà di ordine ideologico, religioso, demografico e politico. L'ultima ondata del jihad fu fermata davanti a Vienna nel 1683. Ma il consolidamento delle frontiere non interruppe certo il processo di islamizzazione di territori popolati in origine solo da non musulmani. Le strategie volte a trasformare quello che un tempo era il dar al-harb in dar alislam si articolarono - come nella precedente conquista araba - , nell'arco di più secoli, e prolungarono sul piano interno gli obiettivi del jihad. Poi, con il rafforzamento militare dell'Europa, ebbe inizio una sorta di ritirata islamica, che liberò progressivamente dalla dhimmitudine i territori del continente. Durante il periodo coloniale l'Europa tentò di «epurare» e occidentalizzare l'antico islam arabo, sostituendo alla sharl'a ima giurisdizione laica. Ma il movimento panarabo, incoraggiato dall'Europa e dai cristiani d'Oriente, era fatalmente destinato a risorgere e a riportare in vita i valori elaborati dagli arabi, gli stessi che, all'epoca delle conquiste, li avevano condotti all'apice della gloria, presiedendo alla formulazione e all'applicazione della shari'a. La nostalgia di quell'epoca contribuì ad alimentarne il ricordo e gli sforzi intesi a farlo rivivere, e a perpetuare la demonizzazione del dar al-harb. Gli espedienti di Ubicini, giornalista turcofilo del XIX secolo che tentò di addomesticare o neutralizzare l'ostilità musulmana verso l'Occidente camuffando moderni concetti occidentali sotto ima vernice islamica, ci appaiono oggi

nient'altro che trucchi grossolani. Sarebbe stato meglio intraprendere ima critica approfondita, sull'esempio dei moderni riformatori turchi, piuttosto che tentare di costruire sul terreno effimero delle adulazioni menzognere. Sebbene numerosi governi musulmani - Turchia, Egitto, Marocco e altri - tentino oggi di combattere la corrente islamista, i loro sforzi sono destinati a fallire senza un radicale cambiamento di mentalità, una desacralizzazione del jihsd storico e un'analisi priva di compiacenza dell'imperialismo islamico. In assenza di un simile approccio, il passato continuerà ad avvelenare il presente e ostacolerà l'instaurazione di relazioni armoniose. Un'autocritica di questo tipo, in fin dei conti, non è poi così eccezionale, se si pensa che in Occidente piaghe quali il fanatismo religioso, le Crociate, l'Inquisizione, la schiavitù, l'apartheid, il colonialismo, il nazismo e, più recentemente, il comunismo, vengono tutte rimesse in discussione, analizzate ed esorcizzate. Perfino il giudaismo così anodino se paragonato alla potenza della Chiesa e all'enorme diffusione del cristianesimo - , a sua volta impegnato in un grande processo di rinnovamento, è stato costretto a sbarazzarsi di alcune strutture passatiste. E quindi inconcepibile che l'islam, movimento partito da La Mecca e poi dilagato in tre continenti, sia l'unico a potersi esimere da una riflessione sui meccanismi della sua potenza e della sua espansione. Questa valutazione storica compete ai musulmani stessi, e non tanto a quelli che, vivendo in Occidente, non sono affatto rappresentativi, quanto a quelli che risiedono nei propri paesi, in mezzo a centinaia di milioni di persone. Perfino un enorme impero come quello sovietico - con i suoi Stati satelliti europei e le sue colonie - , dopo aver visto crollare le sue fondamenta ha saputo inaugurare la perestroika, aprire gli archivi, svuotare i campi di prigionia e, grazie a un processo di autocritica, intraprendere la sua redenzione. È quindi lecito sperare che un giorno la liquidazione del contenzioso sul passato dei dhimmi dia il via all'armonizzazione della grande famiglia umana.

1 II termine comprador, lett. «acquirente», in origine riferito alle aziende private che si arricchivano grazie ai commerci con l'estero (es.: imprese coloniali), in seguito è passato a indicare, soprattutto nell'analisi marxista, quella parte della borghesia che privilegiava gli scambi finanziari e commerciali con le potenze coloniali a scapito degli investimenti nel settore nazionale. La scelta di un aggettivo spagnolo si spiega con il fatto che esso fu applicato in primo luogo alla borghesia portuale sudamericana, i cui interessi la portarono a sviluppare i commerci di tipo transnazionale anziché quelli intemi. Il termine ha sempre e comunque un valore dispregiativo [N.d.T.].

Per il Nord Africa si veda Jean Ganiage, L'expansion coloniale de la France sous la Troisième République (1871-1914), Payot, Paris 1968, compresa la bibliografia; Jean-Louis Miège, Le Maroc et l'Europe: 1830-1894, 4 voli., PUF, Paris 1961-1965; Id., Documents d'histoire économique et sociale marocaine au 19e siècle, Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1969 (che fa da indice ai 4 volumi precedenti). 2

Per il concetto di ghazi cfr. cap. 2, par. «La seconda ondata d'islamizzazione»; per quanto riguarda i fedsyin, lett. «devoti», il termine designava in origine i seguaci ismailiti di Hasan-i Sabbàh, il quale, sulle alture iraniche di Alamut, fondò uno Stato teocratico da cui partivano frequenti attentati contro i crociati presenti in Terra Santa, ma anche contro gli esponenti del potere sunnita (specialmente i selgiuchidi) che, in Siria e in Palestina, perseguivano una politica di buon vicinato con i crociati. La loro capacità di sacrificio, spinta fino al suicidio, fece ritenere i fedsyin i più temibili esponenti dell'islam militante dei secoli XIII e XIV. In età moderna il termine è stato riesumato dai militanti della guerriglia armata palestinese contro lo Stato israeliano [N.d.T.].

3

Wilfred Cantwell Smith, Islam in Modem History, Princeton University Press, Princeton 1977 (1957'); Manfred Halpem, The Politics of Social Change in the Middle East and North Africa, Princeton University Press, Princeton 1963; Richard P. Mitchell, The Society of the Muslim Brothers, Oxford University Press, Oxford 1969 (Oxford-New York 1993); Sayyed Ruhollah Khomeyni, Principes politiques, philosophiques, sociaux et religieux de l'ayatollah Khomeiny, estratti di testi, trad. di Jean-Marie Xavière, Libres-Hallier, Paris 1979; Emmanuel Sivan, Radicai Islam: Medieval Theology and Modem Politics, Yale University Press, New Haven-London 1985 1 (1990 2 ); JeanPaul Charnay, Principes de stratégie arabe, L'Heme, Paris 1984 1 (2003 2 )); Id., L'islam et la guerre: de la guerre juste à la révolution sainte, Fayard, Paris 1986; Gilles Kepel, Le Prophète et Pharaon: les mouvements islamistes dans l'Égypte 4

contemporaine, Édit. La Découverte, Paris 1984 (ed. it. Il profeta e il faraone: i Fratelli Musulmani alle origini del movimento islamista, Laterza, Roma-Bari 2006); Bruno Étienne, L'islamisme radical, Hachette, Paris 1987 (ed. it. L'islamismo radicale, Rizzoli, Milano 2001); Olivier Carré, Juifs et chrétiens dans la société islamique idéale d'après Sayyid Qutb [1906-1966], «RSPT», n. 68, Paris 1984; Daniel Pipes, In the Path of God: Islam and Political Power, Basic Books, New York 1983 (Transaction Publishers, New Brunswick 2002); Id., The Rushdie Affair: The Novel, the Ayatollah and the West, Birch Lane, New York 1990 [Transaction Publishers, New Brunswick (USA) 2003]; JeanPierre Péroncel-Hugoz, Le radeau de Mahomet, Lieu Commun, Paris 2006 (1983 '); William Montgomery Watt, Islamic Fundamentalism and Modernity, Routledge, London-New York 1990 (1988 •). II kemalismo è l'ideologia alla base della lotta di liberazione nazionale dei popoli turchi guidata dall'ufficiale Mustafa Kemal, chiamato in seguito Atatiirk ovvero «padre dei turchi», e culminata nel 1923 con la fondazione della Repubblica turca [N.d.T.]. 5

Poiché il libro era in corso di stampa durante la guerra del Golfo, gli sviluppi di tale situazione non hanno potuto essere esaminati qui. Sarebbe tuttavia azzardato tentare di prevederne le conseguenze, sia nel senso della modernizzazione che in direzione del radicalismo, malgrado gli sforzi delle élite musulmane. 6

'William Shaler, Sketches of Algiers, Cummings, Hilliard & Co., Boston 1826, pp. 134-138; Ellen G. Friedman, Spanish Captives in North Africa in the Early Modern Age, The University of Wisconsin Press, Madison-London 1983; Charles Richard Pennell (a cura di), Piracy and Diplomacy in Seventeenth-Century North Africa. The Journal of Thomas Baker, English Consul in Tripoli, 1677-1685, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford-London-Toronto 1989.

Capitolo 9 Caratteri della dhimmitudine

I capitoli precedenti sono serviti a rievocare le molteplici sfaccettature e interazioni che hanno caratterizzato i vari gruppi dhimml nel corso della loro storia. Costellata da date precise e influenzata da avvenimenti specifici, questa storia - o meglio, quest'intrico di storie ora divergenti ora parallele - sembra ridursi alla consistenza effimera di un tempo frammentato, ulteriormente scandito dalla dispersione in un variegato spazio geografico. Tuttavia, al di là dei singoli eventi storici, la cui infinita varietà proietta sulla superficie del tempo una struttura eterogenea e composita, nelle società dhimmT è possibile cogliere un altro aspetto: quello della fissità e della permanenza, che affondano le loro radici nella lunga durata, come se la dhimmitudine derivasse da strutture fisse destinate a perpetuarsi nel tempo. Ora, le strutture fisse di tutte le collettività sono sostanzialmente le ideologie (religioni), le istituzioni e le leggi, che, condizionando e modellando le menti dei singoli membri, contribuiscono al perdurare di identici comportamenti sul piano sociale. Questo capitolo tenterà di chiarire l'aspetto atemporale della dhimmitudine, le sue fondamenta e la sua ossatura, riproponendo quindi - con inevitabili ripetizioni - le linee essenziali dei contenuti diffusamente esposti nei capitoli precedenti. La dhimmitudine può essere definita come l'insieme delle caratteristiche elaborate in un lungo arco di tempo da società sottomesse, nelle loro stesse terre, a costumi e ideologie introdotti dal jihad. La dhimmitudine è una condizione collettiva che trova

espressione in una specifica mentalità, e investe sia l'ambito politico che quello economico, culturale, sociologico e psicologico, dal momento che essi sono tutti interdipendenti e correlati tra loro. Tuttavia, la dhimmitudine si configura soprattutto come un processo dinamico e interattivo, e non come un fenomeno passivo: è una miscela di azione, collaborazione e fusione tra collettività distinte, e di conseguenza è determinata tanto dalle strutture del gruppo dominante quanto da quelle del gruppo dominato.

Fattori insiti nel gruppo dominante che rendono inevitabile la dhimmitudine Il movente ideologico della dhimmitudine è espresso da questa osservazione del celebre storico del XIV secolo Ibn Khaldun: Per l'islamismo la guerra contro gli infedeli è un dovere sacro, poiché questa religione si rivolge a tutti gli uomini e poiché essi devono abbracciarla per amore o per forza. Per questo nel mondo islamico il potere spirituale e quello temporale [il califfato e l'autorità reale] coincidono, affinché colui che li esercita possa adoperarsi simultaneamente in questa duplice direzione.1 Se sul piano tattico il jihad non si differenzia più di tanto dai normali conflitti, per contro, sul piano ideologico, esso possiede tratti eccezionali, per non dire unici. Infatti è la sola guerra offensiva di carattere perenne e universale legata a un sistema religioso. Certo, innumerevoli popoli hanno dato vita a conflitti religiosi - di tipo offensivo o difensivo - altrettanto o ancor più crudeli, ma lo scopo di queste guerre restava limitato nel tempo o circoscritto nello spazio. Il complesso di strategie che costituiscono il jihad rappresenta il mezzo per costringere con la forza le popolazioni prese di mira a entrare nella dhimmitudine. Sebbene in altri regimi politici sia possibile individuare alcuni tratti simili, la dhimmitudine resta una struttura irriducibile e peculiare, legata a un particolare ordi-

ne ideologico e politico. Solo un superficiale processo di amalgama potrebbe indurre ad assimilarla ad altri sistemi. La dhimmitudine infatti nasce dal jihäd e dalla shan'a. Esistono fattori politici contingenti che possono talora condurre all'abolizione della dhimmitudine, ma ciò non implica necessariamente che il suo archetipo sia distrutto, poiché esso si situa nell'ideologia, nei testi giuridici islamici e nella percezione collettiva. Divenuto un modello astratto, ma pur sempre un punto di riferimento, tale archetipo attinge dalla storia una forza ossessiva, che gli consente di selezionare e organizzare le correnti politiche del presente in funzione della sua realizzazione in nuove, favorevoli congiunture. Così l'archetipo preserva, proiettandola nel futuro, la possibilità di ricreare la dhimmitudine, anche se questa è temporaneamente abolita da contingenze storiche quali la vittoriosa ribellione di un gruppo oppresso. E, pur essendo di per sé privo di contenuti, il concetto di dhimmitudine trasmette al futuro una struttura ideologica in grado di volta in volta di elaborare, sulla base delle circostanze fluide ed eterogenee in cui è inserito, quelli che gli sono più congeniali.

L'area della dhimmitudine La dhimmitudine è una categoria a sé nella storia delle società umane. Tuttavia, come altre categorie sociopolitiche, possiede una propria struttura e una propria evoluzione. Essa è contraddistinta da tre fattori: 1. il carattere universale: colpisce qualsiasi raggruppamento umano vittima del jihäd, indipendentemente dalle sue peculiarità etniche o sociali; 2. l'enorme - o meglio, pressoché illimitata - estensione geografica: decine di milioni di esseri umani divennero dhimmv, 3. la durata tendenzialmente infinita: essa si protrae per secoli. Nel complesso, la dhimmitudine presenta un carattere unitario, che però non esclude la presenza al suo interno di una grande varietà di elementi. Essa abbraccia fattori diversi ed eteroge-

nei, che rientrano tuttavia in un sistema di costanti fisse e stabili. La dhimmitudine è imo schema concettuale, un quadro generale in cui vari fenomeni tra loro interconnessi determinano le specifiche evoluzioni di ogni gruppo. Non si tratta di una nozione statica, ma dinamica, se non altro vista la disgregazione e la progressiva scomparsa delle nazioni interessate (cristiani d'Oriente), o la loro improvvisa rinascita (greci, bulgari, israeliani ecc.). Codificata in testi giuridici di carattere religioso, ossia metastorico, essa è dotata di una tipicità e di una coerenza che le consentono di dominare la molteplicità caotica della storia e l'intreccio degli eventi. Perciò, malgrado gli innumerevoli fattori circostanziali di ordine sociale, politico, religioso, etnico e psicologico che include, essa rivela comunque alcuni tratti permanenti e sostanziali. La dhimmitudine si è diffusa e affermata in seguito a processi diversi, spesso impalpabili e impercettibili nel presente, ma i cui effetti si sono sommati nel tempo. È così che nel corso dei secoli si è delineata un'area della dhimmitudine, dotata di una geografia umana diversificata, ma contrassegnata a livello sociologico da caratteri specifici e relativamente omogenei. Ciò non implica affatto un'affinità tra i gruppi etnici interessati - tutt'altro - , ma indica soltanto un'analogia tra i processi di disintegrazione che li hanno colpiti, come pure una somiglianza tra le loro strategie di sopravvivenza, rivelatesi più o meno efficaci nel lungo periodo in base a fattori sia circostanziali (ossia legati al momento storico), sia costanti (cioè determinati dalla collocazione geografica). Il crollo dell'Impero bizantino permette di individuare alcuni fattori responsabili della dhimmitudine. Nell'evento in questione è possibile distinguere tre fasi, scaglionate su cinque secoli: quella precedente alla conquista, quella della conquista vera e propria e quella successiva a essa, ossia la gestione dei territori occupati, divenuti terre della dhimmitudine. Paul Wittek sottolinea come in tale processo si coniughino e si alternino la corrente ghazi - ossia le modalità del jihäd - e quella che egli definisce la «tendenza musulmana», vale a dire l'instaurazione e il perfezionamento degli organi di governo di un vero e proprio Stato 2 . È precisamente in questa dialettica tra la guerra e le strutture statali edificate nei

territori conquistati con tale guerra che prende forma il carattere giuridico-istituzionale della dhimmitudine, codificata e prescritta da innumerevoli fatSzva (sing. fatwa) e ordinanze obbligatorie.

Strutture insite nei gruppi sottomessi che conducono alla dhimmitudine Queste strutture si evidenziano nei rapporti di dipendenza economica e politica dei gruppi dhimmì rispetto al potere islamico. Esse si situano pertanto ai massimi livelli gerarchici di queste comunità. Le funzioni delle alte cariche ecclesiastiche e dei notabili - banchieri e mercanti - sono già state delineate a sufficienza nei capitoli precedenti, il che ci consente ora di non tornare sull'argomento. Qui basti precisare che il perpetuarsi di tali gerarchie nel corso dei secoli rispecchiava il prevalere delle varie forze dhimmì alleate con i vertici islamici nei conflitti che, sotto forma di scismi religiosi o etnici, dilaniavano le comunità. L'avanzata dei nazionalismi dhimmì e il loro sviluppo amplificarono le tensioni presenti all'interno dei millet, che divennero via via più evidenti e violente, fino a provocare, con la rinascita degli Stati sovrani, la disintegrazione e la distruzione delle strutture di potere corresponsabili della dhimmitudine. Tali strutture affondavano le radici negli obiettivi politici a breve termine, negli interessi finanziari e nella preminenza assegnata al guadagno e alle ambizioni personali a scapito delle esigenze collettive e di una visione di più ampio respiro. Esse erano essenzialmente il frutto del dominio imposto con la forza - per l'esattezza, dalla forza militare straniera - a un gruppo sottomesso da ima classe privilegiata uscita dal suo stesso seno, nonché della corruttibilità dei leader e del ricorso a eserciti mercenari per proteggere comunità ricche, schiave del profitto e incapaci di assumersi da sole l'onere della propria difesa. Tra i vari popoli soggetti alla dhimmitudine si osservano differenze di comportamento, a seconda che fossero stanziati sulle rive orientali o su quelle occidentali del Mediterraneo. I cattolici spagnoli, gli ortodossi greci o slavi non persero mai la speranza

di liberarsi e, con il supporto delle nazioni cristiane dell'hinterland, portarono avanti per secoli la loro lotta per l'indipendenza. Per contro, sulla riva orientale, i copti, gli aramei, i monofisiti e i nestoriani, sopraffatti dalla politica e dagli eserciti e isolati dal loro separatismo religioso, optarono per l'alleanza con le armate beduine, a cui delegarono il compito di proteggerli e difenderli. E così i mercenari arabi o turchi, intrepidi, tenaci e dotati di un'intelligenza politica di tutto rispetto, grazie alla loro abilità e tolleranza conquistarono un immenso impero e liquidarono i loro «protetti».

Le comunità: l'organizzazione ai tempi della dhimmitudine Anche se le leggi della dhimma in teoria si applicavano in modo uniforme alle comunità ebraiche e cristiane, a prescindere dai rispettivi culti, diversi fattori di ordine geografico, demografico, politico ed economico influivano sull'organizzazione e l'evoluzione dei due gruppi. L'argomento è così vasto e presenta tanti e tali aspetti differenti che per i dettagli preferiamo rinviare il lettore alle opere specialistiche sui singoli millet. Qui ci limiteremo ad azzardare alcune ipotesi di carattere generale. Sul piano comunitario la coesione nasceva da un solido sistema organizzativo, in virtù del quale tutti gli individui si sentivano legati da un senso di responsabilità collettiva, peraltro riconosciuta anche dall'autorità islamica. I vari organi della comunità provvedevano alle esigenze del culto, dell'istruzione, della beneficenza (ospedali, dispensari ecc.). Un fondo collettivo si occupava di pagare la jizya per gli anziani, gli indigenti, gli invalidi, nonché i cosiddetti «soprusi» o imposte irregolari 3 , e il riscatto degli ostaggi cristiani ed ebraici ridotti in schiavitù. La comunità dispensava viveri, denaro, indumenti e cure gratuite alle vedove, ai poveri, agli orfani e agli anziani. Inoltre provvedeva al mantenimento degli stranieri di passaggio e aiutava gli altri millet che si trovavano in ristrettezze.

Sebbene alimentato dai tributi estorti ai popoli vinti, il Tesoro islamico copriva appena i bisogni della umma, per cui le comunità cristiane ed ebraiche dovevano autofinanziarsi. Il pesante carico fiscale favoriva il passaggio all'islam mediante le conversioni, ma ciò, riducendo il numero dei contribuenti dhimmi, ne aumentava proporzionalmente le spese. La graduale diminuzione delle entrate comunitarie, dovuta in particolare alle reiterate confische di beni religiosi dhimmi e ai «soprusi», ridusse i servizi forniti alla collettività, e soprattutto i sussidi elargiti alle miriadi di vittime dei saccheggi, di malati e di indigenti. L'impoverimento delle comunità, attestato da innumerevoli fonti, stimolò ulteriormente il processo delle conversioni. In un'epoca come questa, in cui la spiritualità era particolarmente intensa, il rispetto delle tradizioni religiose e dei tabù sociali orientava i comportamenti e plasmava le mentalità dalla nascita alla morte. Questo sistema di credenze costituiva ima rigida ossatura, senza dubbio limitante, ma al tempo stesso rassicurante. La legge religiosa era infallibilmente in grado di distinguere il bene dal male; inoltre, aveva l'ultima parola in fatto di perdono o di dannazione, nozioni la cui carica emotiva dominava le esistenze individuali. La classe religiosa, depositaria della scienza sacra, preservava l'identità e la coesione del gruppo, che a essa toccava guidare nei meandri della storia. L'importanza del loro ruolo di leader spirituali era vissuto e avvertito con particolare intensità dai capi religiosi, specie nelle epoche di sconforto e smarrimento. La forza interiore, alimentata dalla fede, consentiva di superare le difficoltà. Oltre ai legami religiosi, il millet rinsaldava la solidarietà insita nelle relazioni familiari, sociali e professionali. Inoltre garantiva i diritti dell'individuo e gli assicurava protezione. Le giurisdizioni cristiana ed ebraica si pronunciavano in materia di economia nonché di stato civile (matrimoni, divorzi) in collaborazione con i tribunali islamici. Spesso alcuni dhimmi si rivolgevano a questi tribunali per eludere le sanzioni inflitte dai loro giudici. In altri settori, specie in quelli delle transazioni immobiliari e della registrazione dei prestiti, erano i giudici dhimmi stessi a rivolger-

si al qàdi per l'iscrizione degli atti nei registri 4 . Quest'azione combinata delle diverse giurisdizioni nelle attività quotidiane, sebbene non piacesse affatto ai millet, gelosi della propria autonomia giuridica, aveva tuttavia il merito di tessere una rete flessibile e dinamica di relazioni e protezioni tra le diverse comunità. I vari organismi del millet e i loro legami con le istituzioni islamiche fornivano ai dhimmT una guida e una tutela.

Il ruolo dei notabili I notabili rivestivano un ruolo non privo di ambiguità. In veste di intermediari tra i popoli dhimmT che amministravano e il potere musulmano che se ne serviva, essi diventavano spesso, in virtù dei privilegi connessi alle loro funzioni, gli agenti e i pilastri dell'oppressione. Meglio servivano l'Impero islamico, più si arricchivano e consolidavano la loro influenza sulle rispettive comunità 5 . Questo carattere ambiguo, legato alla loro funzione socioeconomica di leader dei millet, appare particolarmente evidente - come attestano le abbondanti fonti al riguardo - nella collusione dei fanarioti greci con i sultani ottomani. L'alleanza stipulata dagli imperatori e dai principi bizantini con gli emiri e i sultani turchi prima delle conquiste si prolungò nella dhimmitudine, a tutto vantaggio della umma. Tutti gli osservatori concordano nell'individuare una notevole varietà di tipologie non solo tra i popoli raya, m a anche all'interno dei singoli gruppi. Al vertice della gerarchia stavano i patriarchi e i notabili che gestivano i millet. Era a questo livello che si esplicava al meglio la saldatura tra i poteri dello Stato islamico e quelli dei capi dhimmT, nonché la convergenza dei loro interessi sul piano dell'influenza religiosa e dell'amministrazione fiscale. Nella misura in cui il loro millet era numericamente superiore agli altri, i notabili potevano controllare le finanze dell'Impero grazie all'entità dei tributi che riscuotevano dal loro popolo. Secondo Ubicini, osservatore tardo e non par-

ticolarmente ben disposto verso i greci, essi, per il fatto che form a v a n o il millet più numeroso e attivo dell'Impero ottomano, ne sostenevano l'intera economia, mentre la maggior parte degli scambi commerciali interni era in m a n o agli armeni, l'etnia che, secondo quest'autore, «ha più interessi in c o m u n e con i turchi» 6 . Fu questa convergenza tra le ambizioni personali dei notabili e gli interessi dello Stato a conferire al governo islamico i suoi tratti di tolleranza. Una tolleranza, però, strettamente legata agli ambiti amministrativo ed economico, in quanto, fin dagli inizi della conquista, la funzione produttiva dei dhimmT costituì un fattore essenziale per la gestione dei paesi sottomessi. E poiché l'entità del tributo dipendeva dalla rilevanza demografica dei millet e dalle loro attività economiche, mantenere immutato il numero dei dhimmT limitando i vantaggi derivanti dalle conversioni e garantire la stabilità dei commerci tutelando la sicurezza di persone e beni equivaleva ad assicurare allo Stato un costante volume di entrate. Infatti sembra proprio che, nell'Impero ottomano come in quello arabo, le epoche di particolare prosperità economica e sviluppo abbiano coinciso con quelle in cui i popoli dhimmT erano ancora la maggioranza. L'entità dei tributi e delle imposte, correlata con la consistenza demografica dei popoli dhimmT, determinava la potenza e il prestigio dei notabili presso il sultano. Per quanto vantaggiose sul piano economico, le maggioranze dhimmT rappresentavano pur sempre, su quello politico, un pericolo e una minaccia per il potere islamico. Questo conflitto tra interessi politici ed economici diede luogo nel corso dei secoli a reazioni diverse, a seconda dell'incidenza delle guerre. All'inizio delle conquiste arabe e ottomane, la strumentalizzazione delle élite dhimmT assicurò la stabilità del regime, e, nel lungo periodo - come avvenne in Oriente e in Anatolia - , la progressiva scomparsa di questi popoli, con la conseguente svalutazione dei loro notabili, ridotti ormai a insignificanti gruppuscoli all'interno della umma.

Mecenatismo ed «età dell'oro» Il ruolo di mediazione rivestito dai dhimml negli scambi NordSud e i loro contatti con la cristianità permisero ai notabili di essere al tempo stesso i mecenati delle loro comunità e gli strumenti della loro evoluzione. All'ombra di questo mecenatismo le culture dhimml fiorirono ognuna secondo la propria indole - legata alle rispettive radici preislamiche - , ma anche grazie all'interazione con il mondo musulmano, bizantino, latino. Non si trattò certo di prestiti culturali a senso unico, in quanto le civiltà dhimml fornirono il terreno di coltura e la materia prima a cui si abbeverarono sia l'islam che l'Occidente cristiano. Nella storiografia ebraica l'espressione «età dell'oro» designa quei periodi, effimeri e legati a specifiche circostanze, in cui gli alti funzionari dhimml esercitarono il patrocinio sulle loro comunità, attirandovi gli intellettuali in fuga dalle aree in preda all'anarchia. La mobilità dei millet ebraici garantì la continuità di una ricerca intellettuale particolarmente vivace, fin dall'età ellenistica, in campo filosofico, esegetico e giuridico. Infatti gli ebrei, popolazione assai numerosa e disseminata per le città e i paesi dell'Egitto, della Palestina, della Siria, dell'Iraq e dell'Asia Minore, nel periodo preislamico avevano creato fiorenti centri di erudizione ad Alessandria, in Palestina e in Babilonia. Nei primi secoli dell'islam, quando il popolo ebraico non aveva ancora subito drastiche modificazioni demografiche, questa ricca tradizione culturale proseguì con varia fortuna. Tuttavia la totale assenza di fonti relative alla Spagna, al Nord Africa, all'Egitto, alla Siria e alla Palestina, fatta eccezione per le scarse notizie reperibili qua e là negli autori ebraici e musulmani posteriori e nella ricca letteratura giuridica babilonese, riduce ogni ipotesi a mere congetture. Della foltissima comunità ebraica egiziana non si sa praticamente nulla fino al X secolo 7 . Tuttavia la mobilità individuale è attestata dalla corrispondenza tra i diversi millet in cui risiedevano personalità di origine straniera, per lo più mercanti o eruditi in fuga dalle zone in preda all'anarchia o in cerca del sapere de-

Dhimmi armeno con la moglie (1720). («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).

tenuto da insigni maestri 8 . Peraltro questa mobilità, che era stata un elemento costitutivo della diaspora ebraica fin dai tempi biblici, era presente, sempre come fattore di sopravvivenza, comunicazione e scambio, anche tra i cristiani. Mentre su Siria, Palestina ed Egitto, in balia delle bande tribali, regna il silenzio, i centri babilonesi, che sorgevano in prossimità della capitale abbaside e godevano di una relativa sicurezza, fiorivano e accoglievano i fuggitivi. Se nel IX e nel X secolo le razzie delle tribù arabe dei carmati e dei banu tayy disperdevano intere comunità della Siria, della Palestina e della Mesopotamia, nello stesso periodo sorgevano altri centri in cui le condizioni politiche favorivano la prosperità economica e la vita intellettuale. La disintegrazione del califfato abbaside innescò l'emigrazione ebraica verso la Tunisia fatimide e favorì il sorgere a Qayrawan di una fiorente comunità, in cui, nel X e nell'XI secolo, si distinsero medici, filosofi, grammatici e filologi. Quando la regione ripiombò nell'anarchia, altri centri emersero ad al-Fustat (Egitto) e in Spagna. Gli emiri detentori del potere, che talvolta è il caso dei fatimidi - provenivano dalle minoranze religiose eretiche, si circondavano di consiglieri dhimmT i quali, in quanto elementi stabili, fidati e strumenti del progresso economico, costituivano un'intellighenzia in grado di dominare il mondo tribale. In Andalusia le circostanze erano particolarmente favorevoli alla fioritura delle comunità ebraiche. In un contesto dominato dalle ribellioni dei cristiani, dei berberi e degli arabi immigrati dalla loro Penisola, gli ebrei, con le loro tradizioni artigianali e commerciali, le loro conoscenze linguistiche e le loro brillanti figure intellettuali, si configuravano come un popolo affidabile e generatore di prosperità. Sotto il patrocinio di Hasday ibn Shaprut (905-975), diplomatico, medico, fine letterato e consigliere dei califfi 'Abd al-Rahman m e al-Hakam II, fiorirono la produzione lessicografica e filologica, la poesia e la scrittura. Probabilmente questo mecenate ebreo incontrava l'approvazione del califfo omayyade di Spagna, desideroso di far sorgere a Cordova, la sua capitale, un centro spirituale ebraico indipendente da quelli babilonesi [Academia di Sura e Pumbedita], la cui lealtà andava al suo riva-

le, il califfo abbaside di Baghdad. A Granada, all'inizio dell'XI secolo, un altro visir ebreo, Samuel ibn Naghrila, trucidato nel 1056 durante ima sommossa, patrocinava una fiorente comunità che sarebbe stata a sua volta annientata dalla plebaglia nel 1066. Il declino delle comunità ebraiche, iniziato in Marocco e in Spagna sotto la dominazione degli almoravidi, originari della Mauritania, sarebbe proseguito con l'annientamento dell'ebraismo e del cristianesimo spagnoli a opera della dinastia berbera degli almohadi. Fuggendo le persecuzioni musulmane, questi gruppi si dispersero nella Spagna cristiana e in Sicilia, o, come fece Maimonide 9 , passando per il Maghreb si diressero in Oriente, in particolare in Egitto, dove esistevano comunità prospere in grado di accogliere i fuggitivi. Nella parte orientale dell'Impero islamico, nell'Iran retto dai mongoli pagani, dopo la caduta del califfato abbaside rinacquero alcuni centri culturali dhimmt. Un intellettuale ebreo, Sa'ad alDawla, medico e visir di Arghun Khan (1284-1291), potè proteggere la sua comunità fino a che la conversione all'islam del successore di Arghun e l'omicidio del suo visir chiusero questa «età dell'oro» in un bagno di sangue. Il principale interesse di queste epoche privilegiate della storia, in cui per una, al massimo due generazioni, a Qayrawan come in Andalusia, ad al-Fustat come a Baghdad, rifulsero il mecenatismo e il munifico patrocinio dei notabili, consiste nella fioritura, in un tempo assai breve, di una ricca produzione letteraria, erudita, giuridica e filologica. Il fenomeno si spiega precisamente con la mobilità degli intellettuali, che si rifugiavano nei luoghi più propizi alla ricerca del sapere. Gli immigrati giungevano in queste città recando con sé le loro competenze professionali, le loro tradizioni culturali, insomma, tutto un patrimonio di conoscenze e know-how che arricchiva la comunità locale e l'intero Stato. L'esempio degli ebrei che, cacciati dalla Spagna (1492) e poi dal Portogallo (1497), furono accolti nell'Impero ottomano, è ben noto. Ma anche la corrente culturale ebraica che, seppur con splendore intermittente (a tratti si spense, ma per riaccendersi altrove), brillò ininterrotta per tutto il Medioevo, attesta il perma-

nere e il dinamismo della vita spirituale di questo popolo - saldamente ancorata alle sue origini e al tempo stesso versatile e varia - fino al definitivo declino causato dal calo demografico e dalla generale decadenza. Quanto ai cristiani dhimmt, sembra che anch'essi abbiano conosciuto un'evoluzione parallela, sebbene non abbiano mai usato l'espressione «età dell'oro», probabilmente perché non scorgevano un particolare privilegio nel fatto di essere associati al governo del loro paese da invasori stranieri. Peraltro, la simbiosi cristiano-islamica in tutti i campi fu ben più generalizzata, profonda e dinamica di quanto non lo sia stata quella ebraico-islamica, che pure è assai più nota. Erano cristiani - giacobiti, melchiti o nestoriani - i politici, i consiglieri, gli ambasciatori, gli scribi addetti alla Segreteria di Stato, gli scrittori, i traduttori, i banchieri e i mercanti, per non parlare dei convertiti, presenti in ogni classe sociale, laica come religiosa, e a tutti i livelli gerarchici. Mentre i califfi o i leader arabi dissidenti accrescevano il proprio Impero e il proprio potere, i cristiani, sotto il patrocinio dei loro mecenati, dei rinnegati o degli schiavi, poterono conservare la loro cultura. Il periodo omayyade, che da un lato corrisponde alla fase di incubazione della società dhimmì, dall'altro alla fioritura della civiltà islamica, è anche l'epoca in cui fu più forte la simbiosi tra cristiani e musulmani. Una simbiosi che non escluse tuttavia la distruzione di insigni centri culturali quali Ctesifonte, Gerusalemme, Cesarea, Alessandria, Cartagine, e un'anarchia imputabile alle grandi migrazioni tribali, apparentemente responsabili della assenza quasi totale di vestigia dell'epoca. Questa sinergia dalle molteplici sfaccettature è riconducibile alla convergenza di interessi tra i califfi e le popolazioni sedentarie, nonché ai loro comuni sforzi per mantenere integre e preservare le strutture economiche. Oltre a questa cooperazione economica e amministrativa, senza la quale non sarebbe mai potuto sorgere lo Stato islamico, fu elaborata una simbiosi culturale la cui straordinaria forza e ricchezza si spiegano alla luce della situazione precedente alla con-

quista araba. Infatti, fin dal riconoscimento ufficiale del cristianesimo da parte di Costantino, i Padri della Chiesa si erano sforzati di convertire il mondo pagano ellenizzato ai precetti biblici, nonché di assicurarne l'unità dottrinale e la coesione religiosa. Questa rielaborazione del pensiero e della civiltà pagana richiedeva una costruzione concettuale di enorme portata e la creazione di un corpus teologico, filosofico e giuridico in grado di conciliare l'eredità greco-romana con l'etica biblica. Malgrado gli sconvolgimenti politici legati alla conquista araba, questo lavoro proseguì nei centri di erudizione presenti all'interno dei monasteri melchiti, giacobiti e nestoriani, particolarmente numerosi in Egitto, in Mesopotamia e in Babilonia. La cultura continuò a circolare al riparo delle alte mura dei monasteri, risparmiati dai nomadi in cambio del pagamento di tasse di protezione, oppure patrocinati da notabili o eunuchi vicini al potere centrale. La ricerca spaziava dall'esegesi all'ascetica, dalla teologia al diritto canonico, dai trattati polemici a quelli impegnati a definire il dogma e la liturgia, dalle cronache ai saggi storiografici, abbracciando tutti gli ambiti, da quello religioso a quello filosofico e giuridico. Varcando i confini, tali correnti culturali si ricollegavano ai vasti movimenti di idee che in passato avevano rivoluzionato il mondo pagano, e che avevano gradualmente generato, sulle rive del Mediterraneo, la cultura ebraico-cristiana. I legami con Bisanzio e con Roma venivano mantenuti, se non altro sotto forma di scontri ideologici e polemiche virulente, ma anche grazie a contatti e apporti di vario genere, dovuti agli innumerevoli prigionieri cristiani provenienti da tutte le parti dell'Impero, dall'Armenia alla Spagna. Alimentata dal suo precedente dinamismo, la produzione teologica sarebbe proseguita con alterne fortune a seconda delle vicende politiche. Nella sua espressione melchita, si sarebbe estinta con Giovanni Damasceno (morto all'incirca nel 748), teologo, filosofo e musicista. In Egitto, le rivolte dei copti e l'anarchia seguita all'ascesa al potere degli abbasidi (750) avevano distrutto la Chiesa. Il patriarcato copto, che all'apice del suo splendore era stato il fiore

all'occhiello del cristianesimo primitivo e il campione della resistenza giacobita, all'inizio del IX secolo era minato dalla miseria, dai debiti e dall'ignoranza, e non era più in grado di mantenere i suoi monasteri, un tempo fiorenti e ora desolatamente fatiscenti, né i suoi stuoli di monaci, una volta così ribelli e ormai dispersi o convertiti. Alessandria, faro della civiltà mediterranea nel V secolo, intorno all'814, dopo reiterate razzie, era ormai ridotta a un borgo cadente, circondato dalle rovine dei suoi monumenti devastati. Allora la cultura giacobita si rifugiò nel Nord della Siria e in Mesopotamia settentrionale, nei monasteri di Antiochia e di Tikrit, mentre la Babilonia restava il feudo dei nestoriani. Tale situazione fu dovuta a una serie di circostanze politiche favorevoli, tra cui in primo luogo la vicinanza alla capitale Baghdad e il controllo esercitato dai banu taghlib, tribù araba di origine cristiana, sul Nord della Siria e della Mesopotamia. Inoltre la prossimità di Co-

Annunciazione (1179-1180) (manoscritto copto n. 13, folio 136 recto, BN).

stantinopoli, e in particolare la riconquista bizantina di Aleppo (962), di Antiochia (969) e della Galilea (972), posero tutte queste regioni sotto il protettorato bizantino; tra il 950 e il 1050, i giacobiti furono perfino incoraggiati a emigrare e a ripopolare le province riconquistate. Infine, gli emiri hamdanidi di Aleppo e i loro successori, i mirdasidi (1023-1038), essendo minacciati a Ovest dai fatimidi egiziani, a Sud dai carmati e a Est dai bizantini, avevano adottato una politica conciliante nei confronti dei cristiani. La corrente culturale islamo-ebraico-cristiana Parallelamente alle correnti teologiche proprie di ogni comunità, si sviluppò un campo di interazione islamo-ebraico-cristiano, integrato in tutti gli aspetti della vita economica, amministrativa, giuridica, politica e culturale. A causa del loro isolamento geografico, i nuovi padroni arabo-musulmani delle popolazioni aramaiche e persiane possedevano un ben misero bagaglio culturale. Occorreva ora elaborare una nuova civiltà a misura degli intrepidi guerrieri che proseguivano la loro corsa al bottino fin nel cuore dell'Europa. E, mentre i nomadi facevano pascolare le greggi nelle città ormai in rovina, attingendo i loro sussidi dai popoli dhimmT, questi ultimi si dedicarono a tale compito, vale a dire a rendere assimilabile da parte degli arabi l'intero patrimonio di conoscenze che avevano generato e al tempo stesso alimentato le loro culture. Zoroastriani, giacobiti (sia copti che siriaci), nestoriani, melchiti ed ebrei tradussero in arabo i trattati di astronomia, di medicina, di alchimia e di filosofia, i testi letterari e novellistici. Ciò richiese tra l'altro la coniazione di termini inediti e l'adeguamento della lingua e della grammatica arabe a nuovi modelli concettuali, non soltanto in ambito filosofico, scientifico e letterario, ma anche in campo amministrativo, economico, politico e diplomatico. È impossibile elencare in questa sede gli innumerevoli artefici di tale processo culturale, e neppure i loro fondamentali contributi in tutti i settori. DhimmT o schiavi che fossero, questi individui, malgrado le vicissitudini politiche e le razzie, contribuirono a preservare e perpetuare il loro patrimonio intellettuale. I centri della loro civiltà, un tempo autentici fari di luce per tutto l'O-

riente, cadevano ormai in rovina, ma ne nascevano altri - Kufa, Damasco, Baghdad, Qayrawan, al-Fustat, Cordova, Siviglia ecc. - , in cui si riversavano i letterati e gli eruditi in fuga dalle città incendiate e dai villaggi devastati, che trasferivano così di luogo in luogo il loro prezioso sapere. La prima opera scientifica redatta in arabo fu un trattato di medicina scritto in greco da Ahrun, un sacerdote cristiano di Alessandria, e tradotto dal siriaco all'arabo nel 683 da Masarjawayh, un medico ebreo di Bassora (Iraq) 10 . In Babilonia, all'epoca dei primi abbasidi, la medicina veniva ancora insegnata in aramaico. Il medico nestoriano Ibn Bakhtishu' (morto nel 771 ca), chiamato a Baghdad da al-Mansur, vi fondò un ospedale di cui divenne direttore il figlio (morto nell'801). Un giacobita, Yuhanna ibn Masawayh (777-857), medico, traduttore e oftalmologo, compilò in lingua araba il primo trattato di oftalmologia. Artisti, architetti e muratori, tutti reclutati nelle file della manodopera locale, accresciuta dai contingenti di prigionieri, contribuirono a perpetuare stili e tecniche. I ricchi temi animalistici, floreali o geometrici propri dell'arte persiana ed ellenistica andarono così a decorare le creazioni omayyadi e abbasidi. La Cupola della Roccia 11 di Gerusalemme, costruita negli anni 687-690, è di concezione ed esecuzione bizantine 12 ; Baghdad fu costruita nel 762 da centomila architetti, operai e artisti fatti venire appositamente dalla Siria e dalla Mesopotamia. Quest'immenso progetto di trasmissione della cultura mediante la sua trasposizione in lingua araba raggiunse il suo apogeo sotto i primi abbasidi, la cui corte, interamente «iranizzata», tentava di riprodurre gli splendori di Cosroe. Fu il periodo delle traduzioni (750-850), incoraggiate da al-Ma'mùn il quale, nell'830, creò una biblioteca che era al tempo stesso un centro di traduzioni (Bayt al-hikma, la Casa della saggezza), in cui varie opere vennero tradotte dal sanscrito, dal persiano, dall'aramaico, dal greco. Fino all'XI secolo l'istruzione statale veniva impartita all'interno di strutture semipubbliche, ma soprattutto nelle moschee, i principali luoghi di trasmissione del sapere, in cui venivano allestite delle biblioteche.

Questo movimento culturale assorbiva gli elementi più brillanti delle comunità, a causa dell'islamizzazione di intellettuali ansiosi di conservare condizioni favorevoli agli studi. Le molle che spingevano gli eruditi dhimml a convertirsi erano molteplici: la possibilità di accedere più facilmente al sapere e di ottenere borse di studio; le manifestazioni di gelosia e di frustrazione dei concorrenti musulmani nei loro confronti; le persecuzioni, le pressioni e le minacce messe in atto dai califfi per ottenere la conversione di sapienti che, in tal modo, avrebbero innalzato il prestigio dell'islam e confermato la sua superiorità rispetto alle civiltà degli infedeli. Tra i convertiti celebri possiamo citare l'astronomo ebreo Sind ibn 'Ali; gli zoroastriani Ibn al-Muqaffa' (morto nel 757) e Bashar ibn Burd (poeta cieco morto nel 783), entrambi giustiziati insieme a migliaia di altre persone nel corso delle persecuzioni contro i persiani; il Mago al-Khwarizmi (780-850 ca); il medico, filosofo e astronomo giacobita 'Ali al-Tabari e il medico nestoriano Hunayn ibn Ishaq (809-873), ambedue «convertiti» dalle persecuzioni di Mutawakkil; e ancora il cristiano Qudama; l'ebreo residente a Baghdad Ya'qub ibn Killls, morto nel 991, che gettò le basi della prosperità dell'Egitto fatimide e fu patrono delle scienze e delle lettere; il geografo greco Yaqut (1179-1229). Questo gruppo di dhimmi islamizzati era rimpinguato da un folto stuolo di schiavi liberati e di prigionieri. Ibn Ishaq, il biografo del Profeta, era il nipote di un cristiano catturato nel 633 da Khalid ibn al-Walid ad Ayn al-Tamr, in Iraq 13 . Abu Harufa, il fondatore della scuola di diritto hanafita morto nel 767, era figlio di uno schiavo zoroastriano; il persiano Ibrahlm al-Mawsili (724-804), il padre della musica classica araba, era stato catturato da bambino a Mossul; Jawhar, che nel 969 assoggettò l'Egitto per conto del fatimide al-Mu'izz, fondò II Cairo ed eresse la moschea di Al-Azhar (972), era uno schiavo cristiano originario di Qayrawan. L'integrazione e la fusione tra i popoli islamico, persiano e cristiano avvenne negli harem colmi di donne etiopi, greche, «franche», armene e slave, come pure alla corte del califfo, circondato da eunuchi, mamelucchi, ghilman e giannizzeri. Le arti e l'architettura ci hanno tramandato il ricordo di masse anonime di pri-

gionieri: mosaicisti greci o «latini» 14 catturati nel corso delle campagne omayyadi e abbasidi, marmisti bizantini esperti in rivestimenti murari, architetti e muratori armeni e «franchi» che apposero il sigillo della loro arte nelle moschee mamelucche. Fino al X secolo, in quelli che un tempo erano i territori aramairi e persiani, vivevano l'uno accanto all'altro popoli di diverse etnie, tuttora legati a un passato non musulmano e ben disposti nei confronti delle loro comunità originarie. Si trattava di società mobili, variegate e «multiculturali», in cui, malgrado i duri colpi inferti dalle persecuzioni, dalle conversioni forzate e dalle migrazioni inarrestabili dei nomadi, i convertiti all'islam non erano ancora la maggioranza. La sovrastruttura neomusulmana (politici, militari, letterati, eruditi) che, dalla Spagna all'Armenia, reggeva questi popoli in perenne trasformazione, annoverava tra i suoi ricordi d'infanzia quelli delle sinagoghe, delle chiese o dei templi buddisti e zoroastriani. Nata dal processo di fusione realizzato dall'islam nel crogiolo della storia, quest'élite diede vita a una nuova civiltà mentre sperimentava da un lato le catene della schiavitù e dell'oppressione, dall'altro gli agi del potere e i benefici di una collaborazione in cui diede il meglio di sé. Tre secoli dopo le prime invasioni arabe, il declino del cristianesimo era particolarmente evidente in Nord Africa, dove le 500 diocesi originarie si erano ridotte a ima quarantina. Benché dissanguato dalla tratta degli schiavi, il regno di Nubia sarebbe rimasto cristiano sino alla fine del XIV secolo. Le zone rurali dell'Egitto, della Siria e del Nord dell'Iraq erano ancora popolate in prevalenza da cristiani. Tuttavia si intravedevano già le tracce degli inesorabili sviluppi futuri: tracce impossibili da distinguere nell'arco di una vita umana, e inoltre né regolari né uniformi, ma diverse da regione a regione a seconda delle congiunture storiche e della posizione geografica. Gli storici ritengono che il periodo culminante del processo di penetrazione delle tribù dedite alla pastorizia e al nomadismo sia stato quello compreso tra il 950 e il 1050. Già in atto fin dall'epoca preislamica, tale processo si intensificò con la conquista araba, benché i califfi, spalleggiati dagli indigeni convertiti, tentassero di con-

tenerlo. Ma le dinamiche che avevano condotto alla nascita dell'Impero musulmano, fondato su milizie di schiavi di cui il califfo era di fatto ostaggio, corruppero il potere e accelerarono un'evoluzione politica e demografica che, in costante progressione nelle province eccentriche e rurali, si concluse nell'XI secolo con la conquista delle città. Con l'apparizione di nuove tribù nomadi islamizzate originarie dell'Asia - i buwayhidi, i selgiuchidi, i turkmeni - , gli stessi cicli, lenti e discontinui, di impercettibili trasformazioni, si ripeterono in Anatolia, e in seguito nell'Europa sud-orientale. In Mesopotamia, dopo la caduta dei mongoli e le devastazioni compiute da Tamerlano (1400-1405), i centri nestoriani e giacobiti di Tìkrit, Amid, Mardin, Arbil, Mossul e Tur Abdin furono distrutti. Sotto la guida di cortigiani, mercanti e prelati, i popoli dhimmT perpetuarono una cultura condannata all'emarginazione e al declino, poiché, in connessione con questo processo di stagnazione e di progressivo inaridimento, si affermò una dinamica che avrebbe condotto al sorgere di un'altra civiltà. La cultura dhimmT, «tradotta» in nuovi schemi concettuali, permise all'islam di edificare la sua grandezza sulle fondamenta elaborate dalle élite dei vinti prima di sparire nel dispregio e nell'oblio. Perciò questi tre secoli di simbiosi e di «età dell'oro» sembrano il canto del cigno di una splendida fase della storia umana.

La sindrome «dhimmT» In ogni società le disuguaglianze e i pregiudizi danno luogo a comportamenti particolari, e le società dhimmT non sfuggono a questa regola generale. Tuttavia, poiché l'analisi dei condizionamenti psicologici in atto nei gruppi attiene più propriamente alla sfera della psicosociologia 1 5 , qui ci limiteremo a citare un'unica sindrome, specificamente connessa al nostro tema. La sindrome dhimmT è un insieme di atteggiamenti mentali e di comportamenti legati alla dhimmitudine e comuni a diversi gruppi, che li esprimono con maggiore o minor intensità a seconda delle circostanze.

Gli elementi fondamentali di tale sindrome consistono negli effetti psicologici congiunti della vulnerabilità e dell'umiliazione. Ridotto, nei casi più estremi, a una sopravvivenza precaria il cui valore dipende dal denaro, il dhimmi si percepisce e si riconosce come un essere umano svalutato. I rapporti asimmetrici: oppressione/gratitudine E evidente che tutti i rapporti tra vincitori e vinti sono asimmetrici. Talvolta l'asimmetria si attenua e viene meno in seguito alla fusione dei due gruppi. Tuttavia, se è radicata nella religione, diviene duratura. Nel nostro caso, l'asimmetria che connota ogni aspetto delle relazioni sociali dà luogo a condizionamenti psicologici analoghi a quelli rintracciabili in altre società coeve, ossia medievali. La dhimmitudine possiede però due tratti peculiari. In primo luogo il «diritto di protezione» pagato dal vinto non è un'imposta qualsiasi: esso implica la riduzione dei suoi diritti umani a una somma di denaro, il cui pagamento è per giunta accompagnato da una serie di umiliazioni. Ne consegue che non solo la sua vita si configura come un bene monetizzabile, ma, dal momento che egli è ritenuto spregevole, il potere che lo risparmia risulta essere tanto più magnanimo. Un altro fondamentale elemento di disumanizzazione discende dal diritto inalienabile del vincitore sulla vita del vinto. Comprensibile nel fervore del combattimento, tale diritto, incorporato nello statuto giuridico del dhimmi, si perpetua di generazione in generazione anche in tempo di pace. Ancora nel XIX secolo le tribù curde e turche estorcevano ai villaggi giacobiti siriaci e armeni della Piccola Armenia (Cilicia, Iraq settentrionale) una serie di «diritti di protezione», senza con ciò escludere il prelevamento arbitrario di somme di denaro o l'obbligo di sottoporsi a periodiche corvè. In cambio di diverse prestazioni, i monasteri ottenevano la protezione da queste tribù, che si astenevano dal saccheggiarli. In un simile scenario, invitabilmente, la sicurezza e i diritti fondamentali delle persone non sono prerogative inalienabili, ma il frutto di un rapporto di protezione da un ambiente ostile, costantemente rinnovato con il denaro e la sottomissione. Per que-

sto il dhimmi, il quale, come l'ostaggio, si muove in un contesto di vulnerabilità che distrugge la nozione di diritto, è condannato a stillare un'intima gratitudine per la tolleranza che gli viene magnanimamente accordata. La dhimma è pertanto incompatibile con la moderna concezione dei diritti umani, intesi come prerogative inalienabili e uguali per tutti.

Manovrabilità del «dhimmi» Sono molti i fattori che contribuiscono a creare un terreno propizio alla manipolazione dei gruppi o dei singoli. Tra gli altri possiamo citare la vulnerabilità, i condizionamenti psicologici, la corruzione e la perdita di identità o amnesia storica. La vulnerabilità è intrinsecamente connessa alla dhimmitudine per il fatto che il dhimmi, sconfitto in guerra e inerme, è costretto a riscattare continuamente la sua vita. Inoltre, il diritto dell'autorità islamica a ratificare la nomina dei leader spirituali delle comunità dhimmi le consente di intervenire in questa scelta nel m o d o più conveniente ai suoi interessi, di imporre il proprio candidato e di aggravare le scissioni di natura venale che corrompono le istituzioni. In tal m o d o la moralità e il livello culturale delle comunità si degradano, poiché al disprezzo dell'ambiente estemo si aggiunge il discredito intemo. Sulla vulnerabilità si innesta il condizionamento ideologico, di cui il caso dei giannizzeri fornisce l'esempio più perfetto. Costoro - in origine bambini cristiani rapiti in tenera età nel corso dei raid o reclutati a quote fisse sotto forma di quinto del bottino di guerra o di devshirme - venivano anzitutto ridotti in schiavitù e convertiti all'isiàm. Poi, dopo essere stati sottoposti a un'intensa educazione militare e religiosa, costituivano le truppe d'élite dell'Impero musulmano. Strumenti ciechi e fanatici del sultano, essi finivano per divenire i persecutori più crudeli dei cristiani, che venivano così combattuti dai loro stessi figli. La dhimmitudine integrale, giunta alla sua perfezione, si incarna nel giannizzero.

Il successo di questa strumentalizzazione poggiava su due fattori: l'estrema vulnerabilità del bambino, strappato alla famiglia e completamente dipendente, per le sue esigenze, dai padroni musulmani, e il totale sradicamento dal passato e dai legami familiari. Su questa spersonalizzazione dell'anima infantile e su questa destrutturazione identitaria si fondava il carattere, spesso così crudele, del giannizzero o del mamelucco. Soldati senza passato e senza famiglia, condannati al celibato obbligatorio, i giannizzeri incarnavano una sorta di robotizzazione del materiale umano, integrato in una macchina da guerra. Quanto alla corruzione, essa permise di comprare la collaborazione dei leader dhimmt nel periodo in cui i loro popoli, essendo ancora in maggioranza, dovevano essere trattati con riguardo. È quindi comprensibile che la «conquista dei cuori» 16 fosse annoverata nel repertorio delle strategie militari del jihad. La corruzione - non si potrà mai sottolinearlo abbastanza - ebbe un ruolo decisivo nel declino delle popolazioni vinte. Il fascino delle ricchezze derivanti dalla gestione delle entrate fiscali trasformò i loro leader in convinti membri dell'establishment. La promessa di un patriarcato a un dissidente ambizioso, il trasferimento a una comunità religiosa della proprietà di una chiesa o di un monastero appartenenti a ima setta rivale, la protezione dei suoi edifici di culto in cambio di una delazione o del rifiuto della politica unionista di Bisanzio o di Roma, costituivano altrettanti mezzi di pressione esercitati sui dhimmì, per non parlare delle minacce di rappresaglie a loro carico. Una cronaca redatta dalla comunità ebraica di Fes (Marocco), risalente al 1648, descrive le dispute continue tra i notabili per ottenere dal sultano il titolo di nagid (capo della comunità). I concorrenti facevano a gara a chi offriva di più sul piano fiscale, attingendo a piene mani ai fondi di una collettività che, così facendo, mandavano in rovina. Perciò «la comunità decise di sopprimere tale carica, ma dovette ritornare sulla sua decisione poiché non si poteva fare a meno di questa figura a causa dell'oppressore» '7. Una corruzione analoga regnava nelle comunità cristiane.

Ancora in tempi relativamente recenti, il jihad antisionista e la guerra in Libano 1 8 ci hanno riportato alla mente questi aspetti, che da sempre appartengono alla storia della dhimmitudine. In particolare, i conflitti intercristiani che hanno insanguinato il Libano hanno evidenziato le rivalità tra i vari leader, che in un clim a di disunione perseguivano ima politica da notabili dhimmi. La frammentazione della cristianità libanese ricalca le fratture presenti in seno all'intera cristianità orientale e fa seguito alle spaccature che, in epoca prearaba, dilaniavano le Chiese, le sette, le etnie. Tali fratture, cristallizzate nella dhimmitudine, si perpetuarono all'interno di gruppi che, simili a particelle alla deriva nella massa islamica, andarono gradualmente polverizzandosi nel corso dei secoli in seguito all'accelerazione di alcuni processi complementari: lo sradicamento dei contadini dhimmi, l'urbanizzazione e le conversioni. La parcellizzazione dei gruppi vinti e il proliferare di dissensi al loro interno ne accentuò la vulnerabilità, la malleabilità e la disponibilità a essere strumentalizzati. Esclusione e occultamento della storia La sfera della dhimmitudine, per il fatto che interessa intere collettività umane, deborda dall'ambito dell'esistenza individuale e abbraccia tutte le manifestazioni culturali proprie di una comunità. Generalmente l'identità collettiva di un gruppo si costruisce grazie a una coscienza storica costituita da una serie di punti di riferimento saldamente ancorati nello spazio e nel tempo. Sono questi punti di riferimento che permettono al gruppo di situarsi nel mondo e di realizzare la sua coesione nel corso dei secoli. Sul piano collettivo, la condizione dhimmi è accompagnata dalla distruzione della cultura e della storia del gruppo. Ciò è il risultato dell'usurpazione e dell'appropriazione del passato dei popoli vinti da parte dei vincitori, eredi legittimi delle civiltà edificate sui territori da essi conquistati. Questa reticenza sul passato dei dhimmi non è casuale: essa corrisponde all'intento di cancellare la loro storia. L'annientamento di una collettività implica infatti il passaggio della sua eredità culturale - umanistica, scien-

Armeni fucilati in un campo, Ankara, 1915 (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme).

tifica, artistica - al gruppo dominante. All'imperialismo territoriale si accompagna quello intellettuale: la cultura, in mano al potere, diviene un ulteriore strumento di oppressione e di alienazione. Tutte le manifestazioni culturali sono infatti monopolio della umma: le lingue dhimml sono bandite e relegate alla sfera liturgica, e i loro monumenti, testimoni della grandezza delle loro civiltà, vengono distrutti o riadattati in funzione delle esigenze islamiche. In nessun campo l'infedele può prevalere sul musulmano, confortato fin dall'inizio della conquista dal dogma teologico della sua superiorità. Quest'arrogante convincimento non solo contribuì a far ripiegare su se stesso il dar al-islam, che disprezzava l'intera cultura del dar al-harb, ma si manifestò sotto forma di intolleranza intellettuale nei confronti dei dhimmT, i quali, a prescindere dai loro meriti passati, si videro invariabilmente bollati dal marchio del disprezzo. Per giunta, le insostituibili competenze e le superiori qualifiche di alcuni di loro, essendo motivo di umiliazione per quanti li circondavano, li costrinsero a convertirsi. L'islamizzazione della cultura implica l'islamizzazione della geografia, fenomeno insito in tutte le conquiste. Spesso le città

Giannizzero (1720) («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d. ).

perdono i loro nomi originari: così l'armena Amida diventa Diyarbakir, Costantinopoli Istanbul e Gerusalemme al-Quds, mentre Hebron è arabizzata in al-Khalll. Gli esempi, presenti in tutto il dar al-islam, potrebbero proseguire all'infinito, ed è curioso constatare come le cronache delle comunità ebraiche e cristiane continuino a fare riferimento ai toponimi originari, come se la storia nazionale, per nulla intaccata dall'islamizzazione dei territori, proseguisse sommessamente nei suoi ancestrali punti di riferimento geografici. L'occultamento della storia dei vinti deriva dal silenzio e dal divieto di critica imposti ai suoi protagonisti. In effetti, il rifiuto di accettare la testimonianza di un dhimmì contro un musulmano dà luogo a un ben preciso comportamento ed è indicativo della psicologia dei due gruppi. I dhimmì, spogliati dei loro mezzi di difesa, vengono a trovarsi nella condizione di ostaggi in balia di accuse gratuite. Questa perenne, umiliante vulnerabilità è fonte di servilismo, piaggeria e corruzione. Dopo l'emancipazione, i consoli europei toccarono con mano il timore dei dhimmì di far valere i loro diritti. Il fatto è che la loro «arroganza» era spesso punita con il ricatto e l'omicidio. Nel gruppo dominante, il rifiuto della testimonianza - conseguente alla soppressione della parola, segno distintivo dell'essere umano - esprime la negazione di un diritto. Questa parola mutilata, questa testimonianza rifiutata si traspone dal piano individuale a quello collettivo e si perpetua nei secoli. Infatti, se è vero che la storia di un popolo è la prova della sua esistenza nel tempo e il fondamento dei suoi diritti, occultarla equivale a sopprimere i diritti di quel popolo. La versione ufficiale della storia diventa allora un'epopea monocorde, che prolunga il meccanismo di cancellazione e di esclusione dei popoli dhimmì. Questo fenomeno di occultamento - che Vidiadhar Surajprasad Naipaul ha definito «uccidere la storia» 19 - prosegue anche ai giorni nostri.

'Abd al-Rahmàn ibn Muhammad ibn Khaldûn, Prolégomènes, trad, dall'arabo di William Mac Guckin de Slane, 3 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1862-1868 (Geuthner, Paris 1934-1938), vol. 1, p. 469 (ed. ingl. The Muqaddimah. An Introduction to History, trad, di Franz Rosenthal, 3 voli., Routledge & Kegan, London 1967, vol. 1, p. 183 [ed. on line http://classiques.uqac.ca/classiques/Ibn_Khaldoun/Ibn_Khaldoun.html, N.d.T.]). 2 Paul Wittek in Victor-Louis Ménage (a cura di), La formation de l'Empire ottoman, Variorum Reprints, London 1982 (ed. orig. The Rise of the Ottoman Empire, The Royal Asiatic Society, London 1938), vol. 2, pp. 2-33. ' P e r la nozione di «sopruso» ÇawSrid) o imposta irregolare, cfr. cap. 3 [N.d.T.]. l

Aryeh Shmuelevitz, The Jews of the Ottoman Empire in the Late Fifteenth and the Sixteenth Centuries: Administrative, Economic, Legal and Social Relations as Reflected in the Responsa, Brill, Leyden 1984; per il coordinamento tra le legislazioni, vedi cap. 2. 4

L'ambiguità del ruolo dei leader, sia laici che religiosi, delle comunità non islamiche, non è stata finora oggetto di alcuno studio specifico. Tuttavia si troveranno informazioni relative all'Andalusia in Évariste Lévi-Provençal, Histoire de l'Espagne musulmane, 3 voli., Maisonneuve-Larose, Paris 1999 (1950-1953'); Eliyahu Ashtor, The Jews of Moslem Spain, 3 voli., Jewish Publications Society of America, Philadelphia 1973-1984 (Varda Books, Judaic Digital Library, 2004); sugli armeni nel XVIII e XIX secolo esiste un interessante saggio di Hagop Barsoumian, The Dual Role of the Armenian Amira Class within the Ottoman Government and the Armenian Millet (17501850), in Benjamin Braude, Bernard Lewis (a cura di), Christians and Jews in the Ottoman Empire: The Functioning of a Plural Society, 2 voli., Holmes & Meier, New York-London 1982, vol. 1, pp. 171-184; Apostolos Euangelou Vakalopoulos, The Greek Nation, 1453-1669: The Cultural and Economic Background of Modern Greek Society, Rutgers University Press, New Brunswick (USA) 1976 (ed. orig. Tourkokratia 1453-1669: Hoi historikes baseis tes neoellenikes koinonias kai oikonomias, in Historia tou neou Hellenismou, 6 voli., Thessaloniki 1961-1982), vol. 2, pp. 31-45. Ulteriori informazioni possono essere reperite nelle cronache delle comunità, e, per la Turchia nel XIX secolo, in Jean Henri Abdolonyme Ubicini, Lettres sur la Turquie ou tableau statistique, religieux, politique, administratif, militaire, etc de l'empire ottoman, 2 voli., Librairie Militaire de J. Dumaine, Paris 1853-54 (ed. orig. Lettere sulla Turchia o quadro statistico, religioso, politico, amministrativo, militare ecc. dell'impero ottomano, Ufficio del Cosmorama Pittorico, Milano 1853). "Ubicini, Lettres sur la Turquie cit., vol. 2, p. 347. 5

Jacob Mann, The Jews in Egypt and Palestine under the Fatimid Caliphs, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1969 (1920-1922'), vol. 1, p. 13. * Shlomo Dov Goitein, A Mediterranean Society: The Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, 6 voli., University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1971 (ed. it. Una società mediterranea, compendio in un volume a cura di Jacob Lassner, Bompiani, Milano 2008), vol. 1, pp. 30-57. Vedi anche Id., Changes in the Middle East (950-1159) as Illustrated by the Documents of the Cairo Geniza, in Donald Sidney Richards (a cura di), Islamic Civilization, 950-1150: A Colloquium Published under the Auspices of the Near Eastern History Group, Papers on Islamic History, Cassirer, Oxford 1973, pp. 17-32. 7

' Moshe ben Maimon, più noto in Italia come Mosè Maimonide, fu un filosofo, rabbino e medico spagnolo di origine ebraica. Nato nel 1138 a Cordova, quando nel 1148 la città fu conquistata dagli almohadi fu costretto a spostarsi con la famiglia prima nel Sud della Spagna, poi a Fes, in Marocco, e infine, toccando Acri, Hebron e Gerusalemme, ad al-Fustat, primitivo nucleo urbano da cui nel X secolo era sorta II Cairo. Qui potè dedicarsi con successo agli studi filosofici, teologici e medici. Nel 1171 assunse il ruolo di nàgid (capo) della locale comunità ebraica. Nel 1185 circa divenne il medico personale del visir dell'Egitto. Morì nel 1204 [N.d.T.]. 10 Philip Khuri Hitti, History of the Arabs, MacMillan-St. Martin's Press, London-New York 1968 (Macmillan, London 1937', 10 a ed. Palgrave Macmillan, London 2002; ed. it. Storia degli Arabi, trad, di Paola Attendoli, La Nuova Italia, Firenze 1966), p. 225 e cap. 21. Come ho già precisato nell'introduzione, il considerevole apporto degli zoroastriani in ambito letterario, scientifico, teologico, che contribuì in modo determinante a plasmare la civiltà islamica, non viene menzionato in questo lavoro. Vedi anche Erwin Isak Jacob Rosenthal, Studia Semitica, 2 voli., Cambridge University Press, Cambridge 1971, voi. 2, Islamic Themes. 11 La Cupola della Roccia è un edificio sacro di struttura ottagonale sormontato da un'enorme cupola dorata, che sorge a Gerusalemme sulla roccia sacra da cui, secondo la tradizione islamica, Maometto ascese al cielo. Fu costruita verso la fine del VII secolo dal califfo 'Abd al-Malik nel tentativo di superare in splendore le chiese cristiane della regione. Essa rimane ancor oggi il simbolo architettonico della città, per il fatto che la sua cupola dorata si staglia su tutte le altre costruzioni di Gerusalemme [N.d.T.]. 12 Aleksandr A. Vasil'ev, History of the Byzantine Empire, 2 voli., University of Wisconsin Press, Madison 1928-1929, vol. 1, p. 284.

"Hitti, History ofthe Arabs cit., p. 388. " Per il significato dei termini «franco» e «latino» in questo contesto, cfr. cap. 7, nota 14 [N.d.T.]. L'opera di Laurence D. Loeb [Outcaste: Jewish Life in Southern Iran, Gordon & Breach, New York 1977, N.d.T.] è dedicata appunto all'analisi di questo tema all'interno della comunità ebraica di Shiraz. In fatto di condizionamento mentale, si può citare il seguente episodio: dopo i ripetuti esodi e tragedie abbattutisi sulle comunità giacobite dell'Iraq nel corso della prima guerra mondiale, i leader di tali comunità chiesero di potersi esprimere in occasione della conferenza di pace che si tenne a Parigi (1919), e il vescovo giacobita di Siria Ignazio Afram I Barsoum, futuro patriarca, si unì alla delegazione. Durante una sessione, egli si sorprese a difendere i diritti degli arabi anziché quelli della sua comunità, suscitando gli applausi dei delegati arabi, che lo chiamarono «il vescovo dell'arabismo» (cfr. John Joseph, Muslim-Christian Relations and Inter-Christian Rivalries in the Middle East, Suny Press, New York 1983, p. 101); lo stesso vescovo scrisse al gran visir per elogiare la legge islamica e accusare gli armeni di aver massacrato e saccheggiato la sua comunità (27 aprile 1896); inoltre scrisse alla regina Vittoria celebrando la protezione dei turchi (Ivi, pp. 92-93). E evidente che testimonianze di questo tipo erano motivate dalla paura e dall'insicurezza. Esse costellano l'intera storia della dhimmitudine fino ai giorni nostri, e, proprio come le dichiarazioni degli odierni ostaggi, non costituiscono documenti credibili. 15

"Per la nozione di «conquista del cuore» (ta'llf al-qulub), cfr. cap. 1, par. «Il jihad: dogma e strategie» [N.d.T.]. "Georges Vajda, Un recueil de textes historiques judéo-marocains, «Hespéris», n. 12,1951, p. 47. Per la Bulgaria cfr. Iono Mitev, Le peuple bulgare sous la domination ottomane (1396-1878) in Ivan Dujiev et al., Histoire de la Bulgarie dès origines à nos jours, Horvath, Roanne 1977, p. 252. "Qui l'autrice fa riferimento al conflitto libanese scoppiato nel 1982 e conclusosi nel 1990, caratterizzato appunto da violenti scontri tra fazioni cristiane [N.d.T.]. " Vidiadhar Surajprasad Naipaul, Crépuscule sur l'islam: voyage au pays des croyants, Paris 1981, voi. 2, cap. 4, «Uccidere la storia», pp. 144-155 [ed. orig. Among the Believers: An Islamic Journey, André Deutsch, London 1981 (Picador, London 2001), trad. it. Tra i credenti: un viaggio nell'Islam, Rizzoli, Milano 1983].

Capitolo 10 Conclusioni

Questo capitolo si limiterà a esaminare alcuni argomenti tipici della controversia relativa alla condizione del dhimmi. In primo luogo è necessario riconoscere che la dhimmitudine mette a confronto due concezioni irriducibili. La prima, che appartiene alla dimensione teologica, invoca la presenza di una volontà divina incarnata negli scopi e nei metodi del jihad. Jihad e dhimma, in quanto emanazioni della volontà di Allah, sono corredati di attributi divini - immutabilità, perfezione, giustizia, infallibilità - che fanno di entrambi dei sistemi perfetti, i quali non ammettono alcuna critica. La sottomissione dei cristiani e degli ebrei alla legge islamica, conforme alla volontà divina, si realizza nella perfezione della dhimma, e qualunque critica al jihad e alla dhimma, che pure si collocano sul piano temporale, è considerata un sacrilegio a causa dell'inscindibile unione tra quest'ultimo e la sfera spirituale. La seconda concezione è quella che inquadra il jihad nel più ampio contesto delle guerre ordinarie, alle quali può essere accostato in base a criteri fondati su argomenti razionali e non sulla fede. Procedendo da una conquista che, secondo questa concezione, non è né giusta né santa, la dhimma non è che un sistema politico, e in quanto tale per certi aspetti evoca, o differisce da, altre forme di governo. Questa realtà storica può pertanto essere esaminata in tutti i suoi aspetti, elogiata o criticata, paragonata in termini favorevoli o sfavorevoli ad altri contesti bellici e politici, senza chiamare in causa considerazioni di ordine teologico. Que-

sta visione è conforme all'approccio critico di tipo razionalistico proprio delle discipline storiche occidentali. Il dibattito non nasce dal confronto tra queste due concezioni, di natura sostanzialmente diversa e pertanto incomparabili. Nasce da divergenze all'interno dello «schieramento» razionalistico, i cui principali e più controversi argomenti saranno raggruppati in base a diversi temi. In linea di massima i fatti sono noti. I cronisti, musulmani e non, hanno ampiamente riferito e commentato una serie di informazioni la cui convergenza attesta, nei limiti della credibilità storica, le date e gli eventi relativi al jihad e alla dhimma. Il problema sta nella definizione dei termini, nell'interpretazione dei fatti e nel giudizio di valore formulato sulla dhimma. I popoli vinti, nel momento in cui entrano nella dhimmitudine, sono gruppi etnici, oltre che religiosi, o semplici minoranze religiose prive di caratteri nazionali (ossia di una lingua, una storia e una cultura comune)? La dhimma è un trattato scaturito da una guerra, rinnovato di anno in anno dal vincitore unilateralmente in cambio degli obblighi imposti ai vinti, o uno status che accorda a chi ne gode eccezionali privilegi? E in confronto ad altri, questo sistema è spietato e crudele o, al contrario, particolarmente tollerante?

Popoli vinti o minoranze religiose tollerate? L'espressione «minoranze religiose protette» o «tollerate» è una definizione appropriata dello status dei popoli dhimmt? In primo luogo, i termini «protetto» e «tollerato» hanno significati diversi; inoltre, usati separatamente sono incompleti, in quanto i dhimtni erano al tempo stesso «protetti» e «tollerati». Ma l'equivoco, oltre che in questi due aggettivi, si annida nei termini «minoranza» e «religione». Nei territori conquistati con il jihad - in pratica tutti i paesi musulmani tranne l'Arabia - le Genti del Libro erano in netta superiorità numerica sia rispetto agli arabi che diedero vita alla prima ondata di islamizzazione, sia rispetto ai turchi artefici della

seconda. I processi, poco noti e complessi, che trasformarono queste maggioranze in minoranze, durarono, si presume, circa tre o quattro secoli per ciascuna ondata di islamizzazione. L'espressione «minoranze religiose», che sintetizza drasticamente un processo storico durato per secoli, di fatto ne stravolge il senso, indicando come punto di partenza quello che è invece il suo risultato (la condizione minoritaria). Questa lettura arbitraria, che cancella con un tratto di penna una fase essenziale in cui si compirono cambiamenti irreversibili, occulta la dimensione politica della dhimmitudine, riducendola esclusivamente a uno status minoritario di tipo religioso. Inoltre la formula appare inadeguata per alcune regioni, come i Balcani, in cui i non musulmani rimasero in maggioranza sino al XIX secolo; furono le circostanze della conquista, unite alle leggi da cui erano retti, a farli ugualmente rientrare nella categoria di dhimmt. Pertanto il fatto di appartenere a ima «maggioranza» o a una «minoranza» non è l'elemento determinante e necessario per la nascita della dhimmitudine, ma un suo aspetto contingente, e quindi non basta per definire in modo esaustivo questo fenomeno politico. Oggi designare come ex «minoranze religiose tollerate» popoli quali i romani, gli slavi, i greci e gli ebrei suonerebbe assurdo. Analogamente, l'espressione stereotipata «cittadini di seconda classe» non significa nulla, anzitutto perché i dhimmi non erano cittadini, e poi perché il termine «seconda classe» è privo del substrato storico e giuridico della dhimma.

Carattere politico della dhimmitudine La correlazione tra diritto territoriale e guerra determina lo status degli edifici di culto delle popolazioni indigene. Tale correlazione genera, dalla Mesopotamia all'Andalusia, perenni discussioni sulla legittimità delle chiese e delle sinagoghe, il cui status è dibattuto dai giureconsulti in base alle modalità di una conquista avvenuta secoli prima. Il fatto di appurare, ad esempio, se l'Egitto o una determinata città siano stati conquistati a seguito

di una resa o mediante le armi riveste un'importanza capitale, poiché sancisce una volta per tutte i diritti dei dhimmi. Ed è appunto la loro condizione di popoli vinti, perpetuata dalla dhimmitudine, a motivare i numerosi riferimenti ai documenti di resa - autentici o fittizi - risalenti all'epoca delle conquiste, i quali specificavano i diritti e le garanzie che le parti in causa cercavano di difendere o di impugnare. Religiosamente custoditi nei più intimi recessi delle sinagoghe, dei monasteri, delle chiese, questi documenti erano spesso gli unici, pietosi baluardi rimasti ai dhimtriì per sottrarre alla distruzione le ultime vestigia della loro civiltà. Nell'Impero ottomano questa legislazione di tipo territoriale, scaturita dalla conquista, fu abolita soltanto con la promulgazione delle nuove leggi sui diritti della persona e della proprietà introdotte dal tanzlmdt e dal Hatt-i Humàyun del 18 febbraio 1856. Il devshirme, ovvero il prelevamento di un quinto della popolazione cristiana dei Balcani, e in seguito dell'Anatolia (greci e armeni compresi), è un ulteriore elemento del quadro politico-militare della dhimmitudine. Esso perpetua il diritto di conquista che autorizzava i vincitori a prelevare un quinto del bottino umano fra i vinti, i cui discendenti erano quindi ritenuti prigionieri per sempre.

Il problema della tolleranza La tolleranza islamica nei riguardi delle religioni cristiana ed ebraica può essere indagata in rapporto a due ambiti: quello teologico, che trova espressione nella dottrina coranica, e quello politico, che si traduce nel dominio esercitato sulle Genti del Libro. Benché queste due sfere siano interdipendenti - come emerge in particolare dal versetto IX,29, che lega l'ingiunzione religiosa al contesto politico - tuttavia tra esse esistono notevoli differenze. Infatti, mentre sul piano teologico la dottrina ufficiale dell'islam nei confronti delle altre religioni fu codificata una volta per tutte nei testi sacri, le leggi che sancivano lo status politico degli ebrei e dei cristiani furono elaborate gradualmente nel corso dei secoli

successivi alla morte del Profeta, e fondate sulle interpretazioni posteriori del Corano e degli hadith, nonché sull'islamizzazione di pratiche preesistenti, introdotte nella religione musulmana dai convertiti. Qui ci limiteremo a esaminare l'ambito politico, osservando innanzitutto che il termine «tolleranza» è improprio in quanto è equivoco. La tolleranza in ambito politico La politica esercitata dal governo islamico nei confronti delle Genti del Libro varia a seconda che ci troviamo nel Hijaz, la culla della civiltà musulmana, o nel dar al-harb, la terra degli infedeli e del bottino. Nel primo regna incontrastato l'islam: le Genti scritturali indigene sono di fatto esuli e i pagani vivono sotto il giogo della spada o delle conversioni forzate. Nel dar al-harb, il territorio della guerra e degli infedeli, le religioni monoteiste dei popoli indigeni, che sono numericamente superiori, sono tollerate, m a soltanto nel quadro della dhimmitudine. Questa netta distinzione tra «terra degli arabi» e «terra della guerra e degli infedeli» si esprime a livello politico, religioso e fiscale. La tolleranza si misura in base al grado di costrizione esercitato da un gruppo su un altro. Quindi essa nasce sempre in un contesto di disuguaglianza. Il giudizio che attribuisce una valenza etica a questo rapporto disuguale si fonda su un'implicita giustificazione dell'uso della forza (etichettata come benevola), che scaturisce dalla svalutazione della vittima: è infatti l'intrinseca perversità di quest'ultima a conferire valore alla tolleranza del gruppo dominante. Se invece - come attestano tutte le guerre e le invasioni che nel tempo hanno sconvolto il pianeta - il rapporto di disuguaglianza generato dalla violenza e dalla guerra si configura come un'ingiustizia, la valenza etica della tolleranza viene meno. Nel formulare un giudizio di merito su un sistema politico occorre innanzitutto definire i criteri di valutazione a cui ci si attiene. Bisogna giudicarlo sulla base dei dogmi, peraltro soggetti a molteplici interpretazioni, o dei fatti storici, a loro volta costituiti

da elementi complessi, contingenti e transitori? E, ammesso che sia possibile stabilire i criteri della tolleranza, si può parlare di tolleranza relativa, ossia limitata a un solo popolo, o anche a più popoli? Tolleranza relativa o tolleranza assoluta? Il problema dei criteri di tolleranza relativa o assoluta è tipico degli imperi multinazionali o multiconfessionali. Nel contesto della dhimmitudine, esso consiste nel determinare il carattere e le cause di ima tolleranza selettiva anziché uguale per tutti. Ad esempio, come si conciliano con il concetto di tolleranza da una parte l'accoglienza riservata dall'Impero ottomano agli ebrei cacciati dalla Spagna, dall'altra i massacri, le deportazioni, le conversioni forzate, le riduzioni in schiavitù e il devshirme, messi in atto dagli stessi ottomani a danno di altri popoli? La medesima ambivalenza si manifesta nei secoli XVIII e XIX, in cui coesistono simultaneamente la crescente potenza economica dei grandi funzionari statali greci e armeni e gli eccidi delle popolazioni greche e slave che si ribellavano alla dhimma. Come far rientrare nella stessa etichetta di «tolleranza islamica» il genocidio degli armeni? L'ambiguità nasce dal circoscrivere una situazione storica estremamente complessa entro gli angusti limiti di un giudizio di valore: quello sulla tolleranza. Eppure la dhimmitudine abbraccia situazioni contrastanti nell'arco di uno stesso periodo, come pure fasi evolutive determinate da motivi contingenti e transitori, che investono simultaneamente più piani. Ad esempio, gli ebrei vennero accolti da Bayazid II perché, nell'Anatolia spopolata del XV secolo, essi costituivano una forza lavoro importante per lo sviluppo economico, ma due generazioni dopo la loro stella tramontò a favore dei greci e degli armeni. In questo immenso affresco storico, il concetto di tolleranza perde consistenza, e appare come un semplice vocabolo coniato dagli occidentali nel XIX secolo in funzione dei loro obiettivi politici: la conservazione dell'Impero ottomano o la politica di appeasement nei confronti degli arabi. Liberata dalla trappola oziosa della tolleranza e delle discussioni sui suoi gradi e le sue sfumature - tanto speciose quanto i

paragoni tra Oriente e Occidente - la dhimmitudine ritrova il suo autentico contesto politico. È infatti in questo stampo che essa fu concepita, razionalizzata, fissata nei dogmi, nelle regole e nelle leggi. Progetto religioso inscritto nei testi fondanti, destinato a realizzarsi sulla Terra tramite istituzioni politiche e giuridiche, la dhimmitudine è la storia dei popoli le cui trasformazioni preparano il compimento terreno di questo progetto. Il suo ambito abbraccia la geografia (importanza della topografia), la sociologia (conflitti religiosi e culturali), gli specifici tratti dei diversi popoli dhimmT, le loro interazioni ostili o pacifiche e il gioco delle politiche e degli influssi esterni. Situata nel campo mobile dei meccanismi militari, politici, ideologici ed economici che regolano le società umane, la vicenda dei popoli dhimmT si libera da etichette moralizzanti nonché sclerotizzanti, ed entra finalmente nella storia. Nel suo saggio sulla geografia umana della Penisola Balcanica, con l'ausilio di numerose cartine e schizzi, Jovan Cvijic analizza l'area della dhimmitudine - da lui definita l'area dei raya sulla base della topografia, del clima, della vegetazione, delle manifestazioni sociologiche, del folklore, della cultura, perfino dell'architettura, e degli stili di vita. Le sue ricerche sul campo dopo il ritiro dei turchi e le inchieste da lui effettuate presso gli anziani dei villaggi contribuiscono a farci conoscere strutture destinate a scomparire per effetto della modernizzazione.

La corrente storica

globalizzate

Per «corrente g l o b a l i z z a t e » intendo la scuola di pensiero secondo la quale le «minoranze religiose tollerate» avrebbero beneficiato di uno status privilegiato che attesterebbe la tolleranza religiosa islamica. Questa affermazione chiama simultaneamente in causa tre livelli di riflessione: quello temporale (l'analisi politica), quello teologico (il ruolo dell'islam) e quello dei giudizi di valore (la valutazione critica della tolleranza). La corrente g l o b a l i z z a t e presuppone implicitamente una concezione statica della storia. I popoli dhimmT vengono infatti

presentati come i beneficiari di uno status improntato a benevola tolleranza, che avrebbe interessato in maniera uniforme e indefinita ben tredici secoli e tre continenti. Le esplosioni di fanatismo o le ondate di persecuzioni, quando non sono occultate, vengono interpretate come situazioni eccezionali, imputabili alle vittime stesse o a provocazioni straniere, «strappi» passeggeri e accidentali in un tessuto storico la cui uniformità esprime di fatto la negazione della storia. Quest'interpretazione puerile dell'esistenza dei dhimmì, simile alle immagini di Épinal conferisce all'islam un'aura di eccezionalità: questa condizione paradisiaca collettiva, di cui avrebbero beneficiato per tredici secoli milioni di individui, non è stata infatti sperimentata da nessun altro popolo, in nessuna epoca e in nessuna parte del pianeta, essendo disgraziatamente incompatibile con la condizione umana. I popoli felici - come si suol dire - non hanno storia. Perciò gli stuoli di dhimmT che entrano nella beatitudine divina della dhimmitudine, così simili agli ipotetici «popoli felici», sono in realtà i personaggi senza storia del mondo delle fiabe. Questa concezione conforta i teologi musulmani, i quali ritengono che la legge islamica, espressione della volontà divina, sia in grado di ispirare la migliore forma di governo possibile per le Genti del Libro. La corrente globalizzate raggruppa diverse tendenze politiche. La sua origine risale al XIX secolo, quando servì per elaborare argomenti di propaganda apologetica in favore della conservazione dell'Impero ottomano, al fine di sottrarre le province cristiane alle avide mire russe e austriache. Il dogma della tolleranza islamica e della felicità dei raya divenne la pietra angolare della politica e degli equilibri europei. La dimensione etnica dei popoli dhimmì fu negata e sbeffeggiata, in quanto poteva giustificare le rivendicazioni nazionali sapientemente manovrate dagli imperialismi stranieri. La difficile e sanguinosa marcia verso la libertà intrapresa da greci, serbi, croati, rumeni, bulgari e armeni tutti indistintamente raggruppati sotto l'etichetta di «minoranze religiose protette» - suscitò, all'epoca, un'indignazione simile all'ostilità manifestata attualmente verso altri gruppi dhimmì e verso Israele.

La corrente globalizzate sposava le tesi dei nazionalisti turchi, la cui argomentazione principale consisteva nel rifiuto dei caratteri nazionali dei raya, e nella conseguente contestazione delle loro pretese di indipendenza all'interno dei loro territori ancestrali. I dhimmi, considerati esclusivamente «minoranze religiose» che avevano beneficiato di uno status particolarmente privilegiato per i suoi tratti tolleranti, avrebbero conosciuto di nuovo la gioiosa esperienza della dhimmitudine, un tempo prevalente, qualora avessero rinunciato alle loro affabulazioni nazionalistiche e si fossero fusi nell'ottomanismo. L'esaltazione della tolleranza islamica, nella sua duplice funzione di argomento politico e di valvola di sfogo per i pregiudizi religiosi, fu utilizzata tanto dai latini contro gli slavi e i greci, quanto dai cattolici contro gli ortodossi. La corrente globalizzante, che rifletteva le tendenze politiche e culturali del XIX e del XX secolo, divenne il veicolo di pregiudizi razzisti nei confronti di gruppi umani la cui presunta inferiorità precludeva loro l'accesso alla sovranità nazionale e la cui schiavitù era ritenuta uno status privilegiato. Entrambe le posizioni nascevano da ima svalutazione dei loro diritti funzionale agli interessi politici europei. La dhimmitudine divenne così il terreno di convergenza e di scontro dei vari conflitti religiosi e nazionali, fattori, questi, intrinsecamente e inscindibilmente connessi alla sua struttura geopolitica e alla sua storia. Segnaliamo ancora, nell'ambito dell'interpretazione globalizz a t e , la corrente ebraica, che usò il contesto della dhimmitudine per pareggiare i conti con la Chiesa, mettendola a confronto con la tolleranza del suo tradizionale nemico: l'islam 2 . Sul piano politico i sionisti, desiderosi di tenersi buono il governo turco in Palestina, attribuirono all'«età dell'oro ebraico-islamica», fiorita in Spagna e nell'Impero ottomano (XVI secolo), una durata ininterrotta di tredici secoli su tre continenti, senza distinzione di luoghi né di periodi. In seguito, alcune correnti israeliane trasformarono questa pietosa menzogna in sacrosanto assioma politico e strumento di propaganda, nel quadro dei loro sforzi di pace con gli Stati arabi.

Lo scoppio della prima guerra mondiale sconfessò in pieno il principio delle nazionalità. Gli armeni, vittime della loro liaison forzata con la Russia, furono sacrificati dagli alleati, tutt'altro che impazienti di ingrandire un'Armenia sovietica a scapito della Turchia, vista come un baluardo contro il comunismo. Lo sviluppo del panarabismo, l'ascesa dei popoli arabo-musulmani nel contesto geopolitico internazionale, il loro accesso all'indipendenza e la formazione di un blocco egemonico islamico hanno fatto tornare d'attualità in tempi recenti la corrente globalizzate, dandole nuova linfa grazie all'afflusso dei petrodollari. Oggi alcuni partiti politici europei - per non parlare dei movimenti islamisti - usano gli stereotipi della corrente globalizzante per colpevolizzare l'Occidente, rinfacciandogli le Crociate e l'imperialismo, mentre interi secoli di jihsd, di dhimmitudine e di devshirme, genericamente etichettati come «tolleranza islamica», non suscitano la benché minima riprovazione in questi moralisti. Poiché l'estrema complessità dei rapporti simbiotici tra la civiltà islamica e il mondo dei dhimmì non merita di essere ridotta a un giudizio puerile su tolleranza o intolleranza - giudizio che sarà sempre soggettivo - , ci asterremo in questa sede da un dibattito futile, di cui rigettiamo in foto lo spirito semplicistico e i metodi. Tuttavia, in ima prospettiva analitica, discuteremo la pertinenza dei suoi argomenti più classici. La pratica dell'elusione o amalgama La pratica dell'elusione consiste nel confrontare su base egualitaria due termini di cui viene data per scontata l'uguaglianza mentre in realtà sono di natura fondamentalmente diversa e addirittura contraddittoria - eludendo appunto quegli elementi o parametri che danno luogo alle differenze. Tale pratica era familiare al movimento politico turcofilo. La propaganda apologetica turca si sforzava di convincere l'opinione pubblica che il destino dei raya era perfino migliore di quello dei musulmani. Tale affermazione poggiava su diversi argomenti: la tradizionale tolleranza islamica nei confronti delle «minoranze religiose», la possibilità dei raya di ricorrere alla protezione

dei consoli, la loro esenzione dal servizio militare, la ricchezza dei loro notabili ecc. 3 Questi paragoni collocano su un piano di uguaglianza popoli che, a livello giuridico, nazionale e storico, vivevano in condizioni diametralmente opposte. L'intero contenzioso della dhimmitudine - in particolare il problema della disuguaglianza giuridica e fiscale, che rendeva necessarie le protezioni consolari - viene così eluso 4 . Infatti i musulmani, sebbene oppressi sotto il profilo amministrativo, vivevano in uno Stato fondato sul diritto islamico, la cui cultura nazionale era turca o araba. Invece la posizione dei greci o degli slavi, per limitarci alle province europee, era quella di popoli soggetti a una legislazione straniera. La riluttanza dei cristiani balcanici ad arruolarsi nell'esercito ottomano dopo il tanzimat - riluttanza stigmatizzata dalla corrente europea turcofila - si spiega con il loro rifiuto a collaborare al perpetuarsi della schiavitù che li opprimeva nel loro stesso paese, schiavitù le cui secolari sofferenze marchiavano la loro carne e il loro spirito 5 . La pratica dell'amalgama consiste anche nel negare l'intero contesto della dhimmitudine, camuffandolo con le difficili condizioni imposte ai popoli musulmani dalla tirannide dei governi, dalle carestie e dalle guerre. Situazione, questa, che nessuno si sogna di negare, ma che è totalmente indipendente dal problema dei dhimmi. Nessuno storico serio infatti ha mai messo nello stesso calderone la miseria e lo sfruttamento dei mugik in Russia e i pogrom antiebraici, la povertà dei contadini spagnoli e l'Inquisizione, la miseria dei ceti rurali francesi e la strage di San Bartolomeo 6 . Se i mali che affliggevano i musulmani e le Genti del Libro fossero stati davvero equamente condivisi, le proporzioni demografiche tra i due gruppi si sarebbero mantenute nella forma iniziale: una minoranza islamica che viveva in seno a una maggioranza cristiana, con una foltissima rappresentanza ebraica in tutto il bacino del Mediterraneo. E poiché le calamità naturali non selezionano gli uomini in base alla religione, non ha senso appellarsi a esse per spiegare il rovesciamento di tali proporzioni e la riduzione degli ebrei e dei cristiani a sparute minoranze. Bisogna quindi includere anche la responsabilità umana in quel complesso di

fattori discriminanti - tipici appunto della dhimmitudine - che impedirono lo sviluppo di questi gruppi a beneficio della umma. Questa corrente rinfaccia all'Europa il suo «bigottismo» e il suo «fanatismo religioso di stampo medievale», riportati in vita dalla sua stampa e dai suoi politici, che «denunciano a gran voce» le morti, relativamente poco numerose, dei cristiani all'interno dell'Impero islamico, mentre tacciono sui massacri perpetrati su vasta scala, nei Balcani e altrove, a danno dei musulmani 7 . Quanti stigmatizzano con violenza la parzialità di un'Europa indifferente al destino delle vittime musulmane tralasciano però di segnalare se esista o meno nel mondo islamico una voce che condanni l'imperialismo del jihad, l'oppressione e la crudeltà della dhimma, e che riconosca la legittimità delle rivendicazioni dei raya all'interno dei loro paesi. La corrente turcofila, che bacchetta l'imperialismo occidentale in nome di un approccio critico e moralizzante di tipo unilaterale, ma scagiona quello legato al jihad, introduce un contrasto tra le persecuzioni, la brutalità e l'oppressione degli Stati europei nei confronti dei loro sudditi musulmani, e, sul versante opposto, la tolleranza e il benevolo trattamento (good treament) riservato ai non musulmani nei grandi imperi islamici, compreso quello ottomano 8. È evidente che l'epopea storica della beatitudine dhimml, totalmente priva di consistenza scientifica, non è altro che uno strumento di propaganda antioccidentale. Questi pregiudizi, riscontrabili anche nei testi più eruditi, rivelano che gli intellettuali, per quanto dotti, non sempre sono esenti da parzialità o da cliché. Pratica e teoria: costumi e leggi Il classico argomento della corrente apologetica sostiene che le regole del jihad, essendo di natura puramente teorica, furono applicate solo in casi rari o eccezionali, generalmente in seguito a provocazioni del fanatismo europeo o dei dhimml stessi. Tale interpretazione è però smentita da tutte le fonti storiche. I cronisti arabi, turchi, armeni, latini e bizantini attestano che il jihad fu sempre combattuto secondo le regole: razzie, saccheggi, incendi, massacri, riduzione in schiavitù del bottino umano. Si potrebbe

obiettare che la crudeltà delle guerre bizantine ed europee non era certo inferiore. Naturalmente..., ma nessuno si è mai sognato di contestarlo. E sufficiente leggere le cronache musulmane anteriori alle Crociate, o le opere di Jean-Paul Charnay sull'argomento, per constatare fino a quale grado di assurdità si sia spinta questa lettura fuorviante anche tra gli storici più competenti. Scoprire che esistono autori i quali, a dispetto di una moltitudine di documenti che lo smentiscono, conferiscono alla conquista araba un carattere pacifico, non può non sorprendere 9 . Scrivere poi che «la Siria, dalla fine dell'XI secolo, [... è] completamente estranea a qualsiasi forma di guerra santa» 10 , equivale a occultare quattro secoli di jihsd su tutti i fronti, o a pensare che i processi di islamizzazione anteriori all'XI secolo abbiano avuto luogo nel vuoto, ossia in uno spazio totalmente disabitato. Il devshirme - il rapimento e la riduzione in schiavitù dei bambini cristiani - è designato come un «procedimento originale» e le deportazioni in massa attuate dagli ottomani come «scambi di popoli» 12 . Secondo questa stessa corrente, le discriminazioni giuridiche insite nella dhimma caddero ben presto in disuso e furono imposte solo in casi eccezionali. Notiamo in primo luogo la generalizzazione implicita in tale affermazione: per poterla verificare lo storico dovrebbe disporre di dati precisi su tutti i centri abitati non islamici presenti nei territori conquistati in Africa, in Asia, in Europa. Solo un censimento del genere, che, a seconda delle regioni, coprisse un arco temporale da cinque a dodici secoli, permetterebbe di determinare con esattezza i periodi in cui queste regole furono rispettate oppure allentate. L'impossibilità di effettuare un tale censimento riduce quest'affermazione a una mera congettura. Per contro, fino al XIX secolo gli osservatori hanno segnalato in molteplici luoghi ed epoche le discriminazioni in materia di abbigliamento, il rifiuto della testimonianza dei dhimmT, le restrizioni relative alle cavalcature e ai luoghi di culto, i carichi fiscali - in particolare i «diritti di protezione» percepiti dai capi nomadi - e il pagamento della jizya-, il fatto poi che quest'ultima, prima dell'in-

traduzione del tanzimat, fosse camuffata come imposta di esenzione dal servizio militare, rappresenta ima flagrante interpolazione che non concorda né con il versetto coranico IX,29, né con l'opinione dei fondatori delle quattro scuole di diritto coranico. Non solo la dhimma fu imposta pressoché ininterrottamente, visto che nel XIX secolo era ancora applicata nell'Impero ottomano - il più civilizzato del m o n d o islamico - e nel XX secolo in Persia, Maghreb e Yemen, ma a livello consuetudinario si affermarono ulteriori abusi non codificati dalle leggi, quali il devshirme, l'assegnazione ai raya dei compiti più umilianti (come il boia o il becchino), il rapimento degli orfani ebrei (Yemen), l'obbligo di camminare scalzi (Marocco e Yemen) ecc. Non si può non citare inoltre il condizionamento mentale subito dal dhimmi, che, conscio della sua vulnerabilità, entrava nel ruolo del personaggio impostogli dall'ambiente. Così, oltre alle costrizioni legali, in lui subentrava un altro fattore: la percezione dell'esistenza di una sfera del lecito, sintetizzabile nella formula (ancora attuale): «oltrepassare i propri limiti». Una percezione tramandatasi nella mentalità collettiva degli ebrei e dei cristiani, che trovava espressione in una vasta g a m m a di comportamenti. Questo condizionamento psicologico pervadeva tutti gli aspetti dell'esistenza, permeando l'individuo dalla culla alla tomba, colorando la sua anima e influenzando il suo portamento, i suoi atteggiamenti, il suo aspetto esteriore e le sue attività. È dalle fonti che emergono le diverse sfaccettature della dhimmitudine e il processo di identificazione tra la legge e la consuetudine. Le testimonianze de visu, riportate da molteplici fonti, dell'esistenza di una normativa immutabile riservata alle Genti del Libro, che si perpetuò attraverso i secoli da un capo all'altro del dar al-islam (entro i confini presi in esame qui), costituiscono un indizio sufficientemente probante del suo radicamento nei costumi. E anche se a volte un califfo non teneva conto di questi pregiudizi, la pressione dei teologi e del fanatismo popolare lo obbligava a conformarsi a essi. Non ha senso, d'altronde, generalizzare i singoli casi di favoritismo, in quanto il problema della dhimmitudine non investe le scelte particolari o individuali di questo o quel

notabile, né il carattere benevolo o tirannico di questo o quel leader musulmano, ma è un fatto di civiltà, di ideologia, di costumi. Furono i periodi di allentamento della dhimma - allentamento le cui cause e le cui modalità sono tuttora da determinare - a restare eccezionali, e non il contrario, come afferma in m o d o lapidario, e senza addurre alcuna prova, la corrente apologetica. L'alibi del «deus ex machina» La corrente apologetica imputa le epoche di fanatismo a cause esterne, come se la tolleranza intesa in senso lato - ossia come coesistenza pacifica fondata sulla reciproca stima tra musulmani e dhimmi - appartenesse a un universo ideale, chiuso, avulso dal m a g m a perenne dei conflitti umani. Dei periodi più oscuri della storia dhimmi sarebbero quindi responsabili le Crociate, le guerre in seno al mondo cristiano, la Reconquista, le invasioni mongole, le ingerenze europee, il colonialismo, l'imperialismo e, da ultimo, i nazionalismi dei popoli sottomessi. Passando dal ruolo di osservatore a quello di giudice, cui compete assegnare le responsabilità, l'apologeta trascura la sfera della dhimmitudine. Eppure è proprio essa a inglobare e determinare tutti questi fattori - le manipolazioni da parte degli Stati imperialisti, le collusioni con i crociati o gli eserciti europei e le rivolte nazionalistiche - , i quali a loro volta innescano le reazioni della umma in difesa delle conquiste del jihad. Quest'intreccio di interazioni costituisce appunto il terreno specifico della dhimmitudine, vale a dire l'area cruciale in cui si scontrano e si decidono i destini dei gruppi. Quindi alla base della riflessione sui rapporti - di adattamento o di conflitto tra i popoli sottomessi e la società islamica dominante dovrebbe esservi l'integrazione di tutti questi aspetti della dhimmitudine. In altre parole, quali che siano gli agenti esterni (Occidente, Russia ecc.), le rappresaglie contro gli ebrei e i cristiani all'interno del dar al-islam attengono al rapporto umma-dhimmT. Il fatto che gli Stati europei o l'Impero zarista abbiano sfruttato le disgrazie dei raya per ingrandirsi, o che questi ultimi si siano lasciati manovrare per ottenere la libertà, non sono che le inevitabili conseguenze della dhimmitudine. L'espressione «minoranze

religiose protette», tuttavia, permette di aggirare questo fattore essenziale sostituendovi un Occidente manipolatore e imperialista. È come se il contesto storico dell'Inquisizione cattolica in Europa - islamizzazione dell'Anatolia cristiana e dei Balcani, nascita della Riforma protestante e delle guerre di religione in seno alla cristianità - fosse usato come pretesto per eludere lo studio rigoroso dei suoi principi e delle sue regole. In sostanza, le strutture fisse dei sistemi politici sono occultate dalle situazioni transitorie che, di tanto in tanto, si sovrappongono a esse esasperando le tensioni. Ma i due contesti, l'uno determinato da istituzioni permanenti e l'altro derivante da fattori contingenti, non possono essere amalgamati. Il metodo storico comparativo La storia dei dhimmt dà spesso luogo a confusi paragoni tra il m o n d o cristiano e quello islamico. Ma il metodo comparativo esige precisione. È importante definire gli ambiti di confronto - specificando se si tratta di segmenti di storia (periodizzazioni) o di categorie specifiche (istituzioni giuridiche, politiche, religiose ecc.) - e indicare se ci si riferisce al breve o al lungo periodo, al dogma o alla sua attuazione. Il paragone implica l'attenzione a diversi parametri, non solo temporali e geografici (date, luoghi), ma anche storici (ossia contingenti). La periodizzazione, ossia la comparazione di segmenti di storia in uno spazio circoscritto, scongiura le generalizzazioni, che portano a sconfinare in ambiti temporali e spaziali più ampi (ad esempio, dalla Spagna musulmana alla Germania nazista), generalizzazioni che implicano peraltro ima concezione statica e uniforme della storia, mentre essa è dinamica e multiforme. Infatti, dal momento che le società sono organismi viventi, le istituzioni e i costumi si evolvono e si modificano in virtù delle interazioni tra fattori permanenti e fissi (leggi) e fattori contingenti (eventi e aggiustamenti politici). Perciò occorre distinguere le situazioni transitorie, nate da aspetti circostanziali, da quelle permanenti, determinate da regole codificate in un corpus teologicogiuridico. U n giudizio generale sulla condizione degli ebrei nel-

l'islam che si fondasse sulla loro situazione nella Spagna omayyade del X secolo sarebbe subito contraddetto dalla realtà radicalmente opposta che sperimentarono in Yemen nello stesso periodo, e perfino in Andalusia una o due generazioni più tardi. Quest'estrapolazione a partire da sequenze localizzate entro perimetri spaziali e temporali definiti è un classico esempio della tendenza g l o b a l i z z a t e . E necessario osservare che, negli stessi luoghi o in altre regioni, era possibile trovare al tempo stesso ima simbiosi socioculturale, alleanze fondate sull'interesse (come quella tra turchi e bizantini), una stretta collaborazione in seno all'amministrazione (i fanarioti) e all'esercito (le milizie cristiane al servizio degli ottomani), ma anche l'oppressione di altri strati sociali (contadini, artigiani urbani dhimmt). Così il potere dei fanarioti e degli hospodar non impedì la condizione servile del popolo greco, anzi, ne fu addirittura la conseguenza, così come la ricchezza dei notabili armeni di Costantinopoli non scongiurò l'oppressione dei loro correligionari nella Cilicia-Armenia n , né, più tardi, il tragico compimento del loro destino di dhimmt con il genocidio di un'intera etnia. Per procedere a un confronto tra le rispettive politiche del cristianesimo e dell'islam nei confronti dell'ebraismo è necessario distinguere al loro interno i seguenti elementi: la sfera politica, quella teologica e l'evoluzione delle idee e delle istituzioni. Un ulteriore e non trascurabile elemento di riflessione è costituito dalla presenza nel mondo cristiano di due principi - quello della separazione dei poteri religioso e temporale e quello laico dell'uguaglianza dei diritti degli individui e dei popoli - inesistenti in quello islamico. Sul piano sociologico è possibile notare che il cristianesimo nacque in ambiente ebraico, e in origine sembrò assumere la forma di ima disputa religiosa interna all'ebraismo. Poi, grazie alla sua graduale espansione in un contesto pagano, assimilò elementi ellenistici, conservando tuttavia l'essenza delle sue radici ebraiche. Le due religioni condividono quindi un patrimonio spirituale comune; inoltre, il loro radicamento geografico permette di inserirle entrambe nella categoria delle culture le cui istituzioni, va-

lori, civiltà e arti si formarono e si svilupparono grazie alla sedentarizzazione. Naturalmente, questi elementi comuni non escludono gli episodi di rigetto, di persecuzione e di intolleranza. L'islam, dal canto suo, non si situa in una continuità cronologica rispetto all'ebraismo o al cristianesimo, m a rivendica il ruolo di religione originaria. Il Profeta infatti, attraverso il Corano, propone ima versione riveduta e corretta della Rivelazione divina fornita dai suoi predecessori ebrei e cristiani, di cui la versione biblica sarebbe una falsificazione. Non siamo quindi in presenza di una disputa interpretativa su un testo comune, m a di una confutazione di questo testo. Inoltre il credo islamico, che si è sviluppato in un contesto assai differente dal mondo mediterraneo, ha incorporato i costumi e i valori dei beduini arabi e dei nomadi, in particolare la concezione del jihad. Nel mondo islamico lo status dogmatico e politico degli ebrei è equiparato a quello dei cristiani, e in entrambi i casi è regolato dal jihdd, una realtà che, non avendo equivalenti nel mondo cristiano, accentua la complessità dei paragoni. Qualunque saggio comparativo sulle politiche adottate dal cristianesimo nei confronti delle minoranze religiose e dall'islam rispetto ai popoli dhimmi dovrebbe tener conto delle sostanziali differenze esistenti tra questi due gruppi. In particolare, va sottolineato che nel cristianesimo le minoranze religiose non hanno mai costituito i residui di antiche maggioranze etniche. In realtà l'espressione «minoranza religiosa», impropriamente usata per designare i popoli dhimmi, è estrapolata dal contesto europeo. Il fatto che nel giro di due-tre decenni, soprattutto in Francia, si siano formate comunità islamiche che includono milioni di individui, può talora dare luogo a strani paragoni. Ad esempio l'islamologo Bruno Etienne osserva: «I musulmani in Francia [si trovano] in una situazione analoga a quella dei dhimmi nei paesi arabo-islamici» 1 4 . Ora, se veramente la condizione degli immigrati musulmani in Francia fosse simile a quella dei dhimmi, essi sarebbero i residui di popolazioni indigene un tempo in maggioranza, ridotte allo stato di minoranze dalle persecuzioni e dagli esili. Invece i musulmani presenti in Francia - come in altre

parti d'Europa - sono emigrati giunti in Occidente, per loro libera scelta, da vari paesi (tra cui, appunto, quelli sottratti ai dhimrriì), anche se è innegabile che siano privi di certi diritti, riservati ai cittadini degli Stati d'accoglienza, e che siano purtroppo esposti a una diffusa ostilità di matrice xenofoba. L'accostamento con i dhimmi, suggerito dal fatto che anche a questi - peraltro impropriamente - viene riservato l'epiteto di «minoranze», occulta la presenza di substrati storici e culturali totalmente differenti.

La scelta delle fonti e la loro attendibilità Mentre gli studi relativi alla civiltà islamica sono innumerevoli, quelli dedicati ai dhimmi sono a dir poco esigui. Questi popoli infatti dovettero attendere di essere liberi per poter scrivere la loro storia, in quanto un dhimmi non poteva esprimere altro che gratitudine per il fatto di essere stato tollerato, dal momento che ogni forma di critica alla dhimma era proibita. Per perorare la sua causa, egli era obbligato a passare attraverso canali stranieri, portavoce, si sa, sempre interessati. La dhimmitudine divenne quindi il terreno di scontro privilegiato delle passioni politiche, dei pregiudizi religiosi, degli imperialismi. Per oltre un secolo l'emancipazione dei dhimmi e le loro guerre d'indipendenza, seguite dalla nascita di Stati sovrani (Grecia, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Libano e Israele), suscitarono appassionati dibattiti e conflitti micidiali, che cambiarono il volto del pianeta. Occorre quindi rassegnarsi ad ammettere la parzialità delle fonti relative a questo settore, inclusa - anzi, soprattutto - quella delle fonti musulmane e delle argomentazioni pseudoobiettive addotte dai simpatizzanti islamici. Questi testi esprimono infatti le opinioni di storici contemporanei, che vissero i conflitti sociali, politici e religiosi del loro tempo alla luce dei propri pregiudizi. Alcuni puristi rifiutano di prendere in considerazione i documenti di provenienza europea e si rifanno esclusivamente alle fon-

ti arabe e turche, come se queste non fossero ancor più parziali Esse infatti ci parlano attraverso il loro prisma ideologico, imperniato sulla santità del jihad, l'equità della dhimma e la perfezione della legge islamica. Questo flusso uniforme di dati non induce alcuna contestazione o alcun interrogativo: soltanto la serena certezza di un discorso ideale in cui i vinti esistono unicamente per servire, per giunta con gratitudine, la causa dell'islam. Le fonti dhimmT, dal canto loro, esibiscono una violenta cacofonia, piene come sono di virulente accuse reciproche che rispecchiano gli scismi religiosi e i fanatismi settari del tempo. Così, se gli ebrei gioiscono del massacro dei cristiani che li hanno perseguitati, i cristiani plaudono all'eccidio degli ebrei che cordialmente detestano, mentre i copti e gli armeni si rallegrano dello stato di asservimento dei greci, i quali a loro volta si consolano della propria umiliante condizione con l'annientamento delle Chiese serba e bulgara. Un vescovo loda l'islam per la distruzione di ima Chiesa rivale, un altro si rende complice dell'oppressione di un gruppo che odia. Tali discordanze - specchio della classe sociale e del grado di partecipazione al potere dell'autore - si manifestano anche in seno a una stessa comunità. A ciò si aggiungono le dichiarazioni dei rinnegati e dei transfughi, che giustificano la propria conversione incolpando le loro comunità di origine. L o storico potrebbe quindi attingere senza difficoltà a questa o quella fonte dhimmT per puntellare la tesi islamica della tolleranza. Le fonti europee, dal canto loro, evidenziano altrettanti paradossi e contraddizioni, specchio delle alleanze politiche tra i paesi europei e quelli musulmani, delle inimicizie e dei pregiudizi religiosi che dividevano i cattolici, gli ortodossi, i protestanti, i giacobiti, i nestoriani, gli ebrei ashkenaziti o sefarditi. La nascita degli Stati balcanici, fenomeno relativamente recente, ha alimentato gli studi slavi e bizantini. Queste fonti - trascurate e screditate perché accusate di pregiudizi anti-islamici, e perciò spesso criticate dai moderni - ci hanno invece restituito un passato occultato. Gli storici greci e slavi contestano la tesi della «tolleranza» del dominio turco, generalmente difesa dagli storici anglofoni e francofoni. Lo studioso serbo Jovan Cvijic definisce

«un doloroso martirio» il giogo musulmano in Moravia l é . Le critiche sono ancora più aspre nei testi armeni, greci e bulgari. Sono quindi due interpretazioni della storia e dei fatti a scontrarsi: quella dei popoli che hanno vissuto e subito la dhimmitudine, e quella degli studiosi estranei a tale contesto, e motivati, nella selezione delle loro fonti, da pregiudizi e interessi diversi. Probabilmente tali opinioni resteranno sempre inconciliabili, poiché gli storici ex dhimmT non potranno leggere le prove sopportate dai loro popoli con la disinvolta indifferenza dei loro colleghi stranieri. È così che il devshirme ha potuto essere presentato come un'istituzione benigna, a cui i cristiani avrebbero collaborato con gratitudine, scorgendovi un mezzo di promozione sociale. Secondo alcuni autori musulmani, infatti, i cristiani accorrevano riconoscenti a offrire i loro figli che, grazie al devshirme, avevano l'onore di essere convertiti all'islam 17 . Eppure altre fonti attestano esattamente il contrario. È noto che gli abitanti di Galata si arresero alle armate turche a patto che venisse loro risparmiato il «tributo del sangue». Innumerevoli ballate e racconti popolari esprimono il dolore delle madri a cui erano stati strappati i figli, l'abbandono dei villaggi da parte dei contadini fuggiti per nascondere i bambini nelle foreste. La crudeltà del «tributo del sangue» ha impresso nell'animo dei popoli greco, slavo e armeno il ricordo di un orrore indelebile, che è all'origine di una vasta letteratura popolare. Queste fonti di provenienza dhimmT smentiscono recisamente la tesi dell'entusiasmo delle famiglie cristiane per il devshirme. Per tagliare la testa al toro, ci si p u ò chiedere se questa pratica sarebbe sembrata odiosa anche alle famiglie musulmane. Se essa - come di fatto avviene - si rivela deprecabile per alcuni gruppi umani m a benigna per altri, è perché i dhimmT appaiono agli occhi dei musulmani come creature prive di valore e umanità, e perciò sprovviste dei naturali sentimenti che un genitore prova per i suoi figli. Questa visione disumanizzante dei popoli dhimmT attenua l'orrore del devshirme e lo camuffa in una pratica benefica.

Punizione degli schiavi cristiani (XVI secolo): «Così, quando qualcuno di questi sventurati fuggitivi viene ripreso, essi lo torturano in mille modi: infatti, oltre a bastonarlo mentre è appeso per i piedi, e talora anche per le ascelle, gli cospargono le piaghe di sale e di altre intollerabili misture per accrescere il suo tormento. Sovente quelli che sono stati riacciuffati per la seconda o la terza volta hanno dei padroni talmente severi che non si fanno scrupolo di farli impiccare, e ancor più spesso impalare per via anale» (André Thevet, «La cosmographie universelle d'André Thevet, illustrée de diverses figures des choses plus remarquables veués par l'auteur», 2 voli., Pierre l'Huilier, Paris 1575, voi. 1, libro 8, folio 265, recto e verso).

Qui entra in gioco il classico sofisma che consiste nel neutralizzare o sopprimere l'etica dalla storia sulla base del concetto di relatività dei valori (storicismo). Ma se l'approccio storicistico è valido nel caso della dhimmitudine, dev'esserlo anche per l'intera storia umana. La crudeltà della schiavitù, il fanatismo delle leggi medievali, tutte le forme di barbarie che la coscienza moderna oggi ripudia perderebbero ogni connotazione malefica se ricollocate in un quadro di relatività dei contesti. Eppure, gli studiosi che invocano lo storicismo per sottrarre al giudizio storico

la sfera della dhimmitudine non applicano tale procedimento ad altri fenomeni. Se l'interpretazione storicistica vale esclusivamente nel caso dei popoli dhimmt, questa scelta equivale a classificarli come categorie a sé stanti.

Epilogo La dhimmitudine è un evento storico, politico, sociale e geografico. La sua collocazione spaziale, benché mobile, è delimitata da contorni e frontiere assai precisi. È un fenomeno storico vivente, con i suoi periodi di espansione e di arretramento. Numerosi popoli ne sono stati toccati, e milioni di individui hanno subito le sue restrizioni. Essa appartiene alla storia generale dell'umanità, e tuttavia è determinata da peculiari caratteristiche che ne fanno una categoria a sé. La sua durata, che varia a seconda dei luoghi, va da alcuni secoli a più di un millennio. La dhimmitudine è un sistema evolutivo e non statico, chiamato dalla sua stessa dinamica a svilupparsi senza sosta. Di conseguenza non può essere racchiusa entro formule quali «minoranze religiose protette», «sistema islamico basato sulla tolleranza» o «cittadini di seconda classe». La dhimmitudine - attraverso i suoi tipici strumenti, il jihad e la shari'a - è stata un motore decisivo della storia umana. A partire dal suo originario nucleo di espansione, l'Arabia, ha dato luogo a continue guerre in più continenti. Ha provocato ribellioni a non finire e ripetuti interventi armati dei paesi europei e della Russia; nel XIX secolo, poi, ha letteralmente dominato la politica degli Stati occidentali, divisi tra la sua abolizione o la sua conservazione nell'area balcanica. La dhimmitudine ha inghiottito nella morte infiniti popoli e brillanti civiltà. Ha plasmato e distrutto innumerevoli generazioni, ha condizionato intere mentalità. Ancor oggi essa mobilita forze politiche e militari di livello planetario. La dhimmitudine costituisce un campo di indagine e di confronto per équipe pluridisciplinari di specialisti: infatti richiede un approccio multidimensionale, che tenga conto delle interazioni tra molteplici fattori.

Non è un periodo storico in cui si possano distinguere da un lato i buoni e dall'altro i cattivi, poiché, come in ogni epopea umana, tutto si mescola e si intreccia nell'arco del tempo. Di questa miscela di secoli e genti non restano che pallidi riflessi ed echi estinti. Questo saggio non intende né confermare né smentire il concetto di tolleranza islamica. Esso infatti non si colloca sul piano dei giudizi di valore: si limita a suggerire dei temi di riflessione e a formulare, a titolo di conclusione, alcune domande. Quali sono le popolazioni oggetto della dhimmitudine? Perché essa ha inghiottito interi popoli, mentre altri sono riusciti a sottrarvisi? Quali sono le forze che secolo dopo secolo, ondata dopo ondata, modellandosi su un disegno iniziale, su un progetto politico a lungo termine, la preparano e la impongono? E, d'altro canto, quali sono le cause patogene che, all'interno della cultura presa di mira, concorrono e cooperano alla sua autodistruzione? Ambizioni personali, tradimenti, lotte intestine, o un inconscio desiderio di morte insito in queste società materialiste e raffinate, impotenti e incapaci di lottare per sopravvivere? La dhimmitudine infatti - è bene sottolinearlo - è tanto la storia di un'oppressione quanto quella di una collaborazione. Probabilmente essa non sarebbe stata possibile senza questa cooperazione, fondata su regole e obiettivi ben precisi, tra ima minoranza militarizzata di conquistatori e alcune maggioranze pacifiche e altamente civilizzate, che delegarono agli eserciti stranieri la difesa del loro patrimonio e delle loro ricchezze. Ciò determinò da un lato il trasferimento di beni dai popoli ricchi a quelli poveri, dall'altro la nascita di nuove civiltà sulle ceneri delle vecchie. Questo progetto di islamizzazione di enormi territori e miriadi di popoli (dalla Russia al Sudan, dal Maghreb all'Indo), che avrebbe potuto fallire - e spesso la storia sembra effettivamente esitare deve il suo successo tanto all'ardore impetuoso dei combattenti islamici e all'acume dei suoi politici quanto alla venalità, ai tradimenti, all'attiva collaborazione dei leader dhimmi e dei rinnegati ambiziosi. Mentre la umma unificava in funzione di un comune obiettivo il suo enorme potenziale militare, demografico, giuridico e finan-

ziario, i notabili dhimmi, divisi dal settarismo religioso e dal pragmatismo economico, si preoccupavano di arricchirsi prima sotto il dominio arabo e poi sotto quello turco. In effetti, sarebbe facile presentare questa storia come un percorso di codardia, di cecità, di pusillanimità. Eppure, la dhimmitudine ha in serbo anche un'altra verità. Quella di popoli che, una volta assimilate l'eredità ellenistica e la spiritualità biblica, diffusero la civiltà ebraico-cristiana ovunque, fino all'Europa e alla Russia. Di ebrei, cristiani e zoroastriani che, sopraffatti da bande di nomadi, seppero insegnare ai loro oppressori, con la pazienza dei secoli, le sottili arti del governo degli imperi dalla necessità di un ordine fondato sulla legge alle tecniche per gestire le finanze e amministrare le città e le campagne, nonché alle regole della fiscalità in luogo di quelle del saccheggio - e poi ancora la filosofia, le scienze, le lettere e le arti, l'organizzazione e la trasmissione del sapere: insomma, i rudimenti e le basi della civiltà. Erano dhimmi i contadini che seminavano, piantavano e coltivavano, quelli che scavavano i solchi, mietevano e lavoravano i campi, quelli che curavano i frutteti e il bestiame, come pure gli apicultori e i vignaioli, i fattori e i braccianti. E, spostandoci nelle città, erano ancora dhimmi gli artigiani che lavoravano, forgiavano, tessevano e modellavano gli oggetti, i vetrai, i navigatori e i commercianti, così come gli urbanisti che ideavano le città, gli architetti che progettavano le moschee e i palazzi islamici, i muratori che le costruivano e coloro che si occupavano della manutenzione di ponti e acquedotti. In qualità di artisti, essi crearono, perfezionarono e misero generosamente a disposizione dell'«arte islamica» un talento che aveva animato l'architettura, la scultura, l'arte musiva e l'infinita gamma di arti minori di ima civiltà mediterranea preislamica che ancora adesso ci stupisce. In veste di letterati, sapienti, poeti, filosofi e storici, essi coltivarono assiduamente il sapere tramandato nei secoli. Infine, come traduttori e copisti, trascrissero queste summae di conoscenza per darle in pasto ai loro rozzi conquistatori. Decimati dalle razzie nelle campagne, essi si rifugiarono nelle città, che svilupparono e abbellirono. E, sebbene marchiati dal-

l'obbrobrio, furono ancora loro a essere trascinati da una regione all'altra dai conquistatori per ridare vita a zone desertifícate e rianimare città distrutte. Ancora una volta i dhimmT costruirono e lavorarono. E ancora una volta furono scacciati, depredati e taglieggiati. Ma nella misura in cui essi sparivano, svuotati del loro sangue e perfino della loro anima, era la civiltà stessa a scomparire, mentre le terre che un tempo, quando le occupavano loro, erano state luoghi di civiltà, di raccolti e di prosperità, entravano in una lenta fase di decadenza e di barbarie. Le élite che fuggirono in Europa portarono con sé il proprio bagaglio culturale, la propria erudizione e la propria conoscenza dell'Antichità classica. Fu allora che nei paesi cristiani in cui si erano rifugiati - Spagna, Sicilia, Provenza, Italia - sorsero centri culturali in cui gli ebrei e i cristiani in fuga dall'islam poterono trasmettere alla giovane Europa il sapere dell'antico Oriente preislamico, tradotto a suo tempo in arabo dai loro antenati. Stanziati a cavallo delle due sponde del Mediterraneo, e in qualità di intermediari tra due civiltà, essi assicurarono i commerci, gli scambi, la circolazione di beni e idee e il trasferimento delle tecnologie, arricchendo se stessi e gli altri con la loro ingegnosità. Poi, quando nel XIX secolo l'Europa sollevò la cappa di obbrobrio che li opprimeva, eccoli di nuovo pronti a cogliere le sfide della modernità: dalla ferrovia al telegrafo, dalla stampa al giornalismo, dai trasporti alle industrie e alle banche. Ovunque essi furono promotori e lievito di civiltà ed evoluzione, e, indossati ancora una volta i panni di infaticabili artefici del progresso e costruttori di civiltà, introdussero in tutto l'Impero islamico, dalla Persia al Maghreb, le infrastrutture della modernità. Infine, dopo essere stati scacciati, depredati e decimati per l'ennesima volta, essi fuggirono in America, in Europa o in Israele, dove oggi gli armeni, i maroniti, i siriaci, i caldei, i copti e gli ebrei vivono non della carità internazionale, m a del loro lavoro. Di questi popoli, dalla Turchia all'Iran ai paesi arabi, sopravvivono ormai solo sparute minoranze, ultime vestigia delle moltitudini di cristiani e di ebrei che un tempo popolavano queste terre. Soltanto i cimiteri e le rovine evocano il loro passato. I loro diritti storici, politici e culturali si

Architetto armeno di Costantinopoli (1707): «La maggior parte degli architetti e dei carpentieri di Costantinopoli è armena. Essi dispongono di uno strumento che funziona da un lato come martello, dall'altro come ascia, e se vi aggiungono la sega non hanno bisogno di nessun altro attrezzo per costruire una casa» (Charles de Fériol d'Argentai, «Explication de cent estampes qui représentent différentes nations du Levant avec nouvelles estampes de cérémonies turques qui ont aussi leurs explications», Jacques Collombat, Paris 1715, tavola 88, p. 48).

d i s s o l v o n o nel g r a n d e oblio del t e m p o , e nella loro storia u s u r p a t a si s v e l a il s e n s o p r o f o n d o della d h i m m i t u d i n e : la s c o m p a r s a nella n o n esistenza e nel nulla. Per questo è con u n sostanziale o m a g g i o che questo studio v o r r e b b e c o n c l u d e r s i . C e r t o , c o n il p a s s a r e dei secoli e il g r a d u a le affiorare della v e r i t à storica, e m e r g o n o s e m p r e p i ù le infinite v a r i e t à dei c a r a t t e r i u m a n i - servili, corrotti, c o d a r d i , p u s i l l a n i m i e p r e s u n t u o s i , m a a n c h e eruditi, laboriosi, eroici - di questi reietti della storia. M a tutti questi aspetti si c o n f o n d o n o e si m e s c o l a n o sui l o r o volti pieni di s a n g u e e l a c r i m e , pieni di i n t e r r o g a t i v i e di s a g g e z z a , scolpiti in u n m i l l e n a r i o m a g m a u m a n o a cui lo stor i c o p u ò solo a c c o s t a r s i c o n rispetto, e s e n z a a l c u n giudizio.

Épinal è una città della Francia orientale al confine della pianura lorenese, che deve la sua fama alle images, stampe popolari di ampia diffusione, considerate tra i precursori del fumetto, nate nella seconda metà dell'800. Tali immagini, di soggetto ora devozionale ora storico, sono caratterizzate da un'iconografia ingenua e quantomai semplificata, tanto da essere divenute per antonomasia il simbolo di un procedimento narrativo o figurativo non realistico, pluridimensionale e complesso, ma schematizzato ed edulcorato [N.d.T.]. 1

Bernard Lewis, Islam in History: Ideas, Men and Events in the Middle East, Alcove Press, London 1973 (Open Court, Chicago-La Salle 1993), pp. 123137. Évariste Lévi-Provengal (Les communautés juives dans VEspagne califienne, «Evidences», 5, n. 32, Paris, maggio 1953, p. 15) segnala l'estrema carenza di fonti relative agli ebrei spagnoli tra l'VUI e l'XI secolo. Vedi anche Eliyahu Ashtor, The Jews of Moslem Spain, 3 voli., Jewish Publications Society of America, Philadelphia 1973-1984 (Varda Books, Judaic Digital Library, 2004). 2

3 Stanford Jay Shaw, Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, 2 voli., Cambridge University Press, Cambridge 1976-1977, vol. 2, p. 128; Roderic Hollet Davidson, Reform in the Ottoman Empire, 18561876, Princeton University Press, Princeton 1963 (University of Michigan Press, Ann Arbor 1993), p. 116. 4 Shaw, Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey cit., vol. 2, p. 149.

I dhimmì rifiutano l'arruolamento per arricchirsi mentre i musulmani combattono e si sobbarcano i sacrifìci della guerra (Ivi, p. 128); i contadini musulmani soffrono per la tirannia dei feudatari musulmani tanto quanto i cristiani, i quali però sono difesi dagli europei (Ivi, p. 149). La condizione dei contadini bulgari e degli altri cristiani è identica a quella di tutti gli altri sudditi dell'Impero (Ivi, p. 160), e lo stesso accostamento con finalità livellanti è ripetuto a proposito degli armeni (Ivi, p. 201). 5

Allude alla strage compiuta in occasione della «notte di San Bartolomeo» (tra il 23 e il 24 agosto 1572), che per i francesi è semplicemente «la SaintBarthélemy» dalla fazione cattolica ai danni degli ugonotti a Parigi, nel clima di rivincita indotto dalla battaglia di Lepanto e dal crescente prestigio della Spagna [N.d.T.]. 6

Shaw, Shaw, History of the Ottoman Empire and Modem Turkey cit., voi. 2, pp. 18,158, 259; Robert Mantran, Les débuts de la Question d'Orient (17741839), in Robert Mantran (a cura di), Histoire de l'Empire ottoman, Fayard, Paris 1989 (trad. it. Storia dell'Impero ottomano, Argo, Lecce 2004), p. 442. 7

Shaw, Shaw, History of the Ottoman Empire and Modem Turkey cit., voi. 2, p. 259.

8

'Claude Cahen, L'islam des origines au début de l'Empire ottoman, Bordas, Paris 1970, p. 116 (ed. orig. Der Islam I, Vom Ursprung bis zu den Anfàngen des Osmanenreiches, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main 1968; ed. it. L'islamismo. Dalle origini all'inizio dell'Impero ottomano, Feltrinelli, Milano 1969 [1981 2 ]). 10Ivi, p. 221. "Ivi, p. 258. nIvi, p. 259. La regione della Cilicia-Armenia è l'erede del regno di Armenia-Cilicia, noto anche come Armenia Minor o Piccola Armenia (come viene designata al cap. 7 e al cap. 9), fondato nel Medioevo dagli esuli armeni in fuga dall'invasione della loro patria da parte dei selgiuchidi sul golfo di Alessandretta, nell'attuale Turchia meridionale. Esso rimase autonomo dal 1078 al 1375, quando fu invaso e conquistato prima dai mamelucchi egiziani e poi da Tamerlano [N.d.T.]. 13

"Bruno Étienne, L'islamisme radicai, Hachette, Paris 1987, p. 285 (ed. it. L'islamismo radicale, Rizzoli, Milano 2001). Le osservazioni dei viaggiatori europei circa le differenze di abbigliamento presenti nell'Impero ottomano sono confermate da alcuni documenti ufficiali turchi. V. Abraham Galanté, Documents offtciels turcs concernant les juifs de la Turquie, tr. frane., Haim, Rozio & Co., Istanbul 1931. 15

"Jovan Cvijié, La Péninsule Balkanique. Géographie humaine, Armand Colin, Paris 1918, p. 465 (ed. it. on line La Penisola Balcanica. Geografia umana, a cura di Marianna Rovere, trad, di Maria Cian, http://www.units.it/~labgeo/labgeo/balkan.rtf); Apostolos Euangelou Vakalopoulos, The Greek Nation, 1453-1669: The Cultural and Economic Background of Modern Greek Society, Rutgers University Press, New Brunswick (USA) 1976, p. 211 (ed. orig. Tourkokratia 1453-1669: Hoi historikes baseis tes neoellenikes koinonias kai oikonomias, in Historia tou neou Hellenismou, 6 voli., Thessaloniki 1961-1982, vol. 2), e Id., History of Macedonia 1354-1833, Institute for Balkan Studies, Thessaloniki 1973 (http://www.promacedonia.org/en/av/index.html), pp. 122-123 e passim (ed. orig. Historias tes Makedonias: 1354-1833, E. Sfakianake, Thessaloniki 1969). 17 Vedi Paul Wittek, Devshirme and Sharta, «BSOAS», n. 17, 1955, pp. 271278; J.A.B. Palmer, The Origin of the Janissaries, «BJRL», n. 35,1952-1953, p. 470.

DOCUMENTI

L'evangelista san Marco (1455). Illustratore: Minas del Vaspurakan. Lago Van (manoscritto 3815, Collezione Gulbenkian, Saint Thoros Manuscript Library, Gerusalemme).

Jihad

L'ERA DELLE CONQUISTE ( V I I - X I s e c o l o )

Egitto, Palestina, Tripolitania

(640-646)

La presa di al-Fayyum Il generale Teodosio, apprendendo dell'arrivo degli ismailiti, si spostava da u n luogo all'altro al fine di osservare le mosse del nemico. Gli ismailiti attaccarono, uccisero il comandante, massacrarono tutte le sue truppe e si impadronirono subito della città . Chiunque si recasse presso di loro, veniva massacrato; non

risparmia-

rono né vecchi, né donne, né bambini 1 . Dopo la fuga dell'esercito greco nei pressi di Nikiu2 Allora i musulmani arrivarono a Nikiu. Non vi era un solo soldato che opponesse loro resistenza. Si impadronirono della città e massacrarono tutti coloro che incontravano, sia per strada che nelle chiese - uomini, donne e bambini - , senza risparmiare nessuno. Poi si spostarono in altri luoghi, li saccheggiarono e uccisero tutti gli abitanti che vi trovavano. Nella città di Sa sorpresero Esqtitaos e i suoi uomini, che appartenevano alla tribù del generale Teodoro, nascosti nelle vigne, e li massacrarono. Ma ora tacciamo, perché è impossibile riferire gli orrori commessi dai musulmani quando occuparono l'isola di Nikiu nel diciottesimo giorno del mese di guenbót (una domenica), nel quindicesimo anno del ciclo lunare 3 , c o m e pure le terribili scene che si verificarono a Cesarea di Palestina [...] 4 .

' A m r [ibn al-'Às] 5 assoggettò l'Egitto. Poi inviò gli abitanti di quel paese ad attaccare gli abitanti della Pentapoli [Tripolitania], e, d o p o che ebbero riportato la vittoria, non permise loro di rimanere lì. Prelevò da quel paese un bottino considerevole e un gran numero di prigionieri. AbulyanOs [...], il governatore della Pentapoli, le sue truppe e i notabili della provincia si ritirarono nella città di Teucheira 6 , che era solidamente fortificata, e vi si rinchiusero. I musulmani se ne tornarono al loro paese con il bottino e i prigionieri. Il patriarca Ciro provava un profondo dolore a causa delle sventure che si erano abbattute sull'Egitto, poiché 'Amr, che era di origine barbara, trattava gli egiziani senza pietà e non rispettava gli accordi che erano stati stipulati con lui [...] 7 . La posizione di ' A m r diventava di giorno in giorno più solida. Egli riscuoteva l'imposta che era stata concordata, ma si guardò bene dal toccare i beni delle chiese, preservandoli da ogni saccheggio e proteggendoli per tutta la durata del suo governo. Dopo aver preso possesso di Alessandria, fece prosciugare il canale della città, seguendo l'esempio di Teodoro il malfattore. Egli aumentò l'imposta portandola a 22 batr d'oro, di m o d o che gli abitanti, piegati sotto il peso del tributo e impossibilitati a pagarlo, si nascosero [...]". Ma è impossibile descrivere la straziante situazione degli abitanti di questa città, i quali, non trovando nessuno che li aiutasse, arrivarono a offrire i propri figli in cambio delle enormi s o m m e che dovevano pagare ogni mese, poiché Dio li aveva abbandonati e aveva consegnato i cristiani nelle mani dei loro nemici 9 . Giovanni di Nikiu Iraq Omar ibn al-Khattab (634-644), desiderando spartire al-Sawad tra i musulmani, ordinò che [gli abitanti] fossero contati. In seguito alla spartizione, ogni musulmano ricevette tre contadini. Omar chiese consiglio ai Compagni del Profeta 10 , e 'Ali disse: «Lasciali [liberi], poiché possono diventare una fonte di guadagno e un aiuto per i musulmani» 1 1 . al-Baladhuri

Armenia L'armata devastatrice uscì dall'Assiria [Alta Mesopotamia] e, passando per la valle di Dzor 1 2 , penetrò nella contrada di DarOn, di cui si impadronì, così come dei distretti di Peznounik' e di Agh'iovid 1 3 ; poi, dirigendosi verso la valle di Pergri attraverso Ortorou e Gokovid, essa dilagò nella provincia dell'Ararat [ . . . ] " . Non vi fu nessuno tra gli armeni che potè dare l'allarme al villaggio di Tev'in [Dvin 1 5 ], fatta eccezione per tre capi, che accorsero proprio in quel m o m e n t o per radunare le truppe disperse: Teodosio Vahevonni, Katchian Ar'avegh'ian e Shapuh Amatimi. Essi si precipitarono a Tev'in. Giunti al ponte sul Medzamor 1 6 , lo distrussero alle loro spalle e andarono ad annunciare agli abitanti la triste notizia dell'avvicinarsi dei nemici; poi fecero entrare nella fortezza tutti coloro che si trovavano nel paese, ed erano giunti lì per la vendemmia. Teodoro 1 7 , dal canto suo, si era diretto nella città di Nakhidjevan. Giunti al ponte sul Medzamor, gli infedeli dapprima rimasero bloccati; ma poi, siccome avevano per guida Vartig, principe di Mogkh 1 8 , soprannominato Agnig, attraversarono il ponte e invasero tutta la regione. Dopo aver preso una considerevole quantità di bottino e di prigionieri, andarono ad accamparsi ai margini della foresta di Khosrovaguerd. Il giovedì diedero l'assalto alla città di Tev'in, che cadde in loro potere; infatti l'avevano avvolta in una grande nube di fumo, e, un po' grazie a questo espediente, un po' a colpi di frecce, ebbero la meglio sugli uomini che difendevano i bastioni. Poi, issate le scale, si arrampicarono sulle m u r a e di lì, lanciandosi nella piazzaforte, aprirono le porte. Tutto l'esercito [arabo] si precipitò all'interno e passò gli abitanti a fil di spada. Una volta sazio di bottino, rientrò negli accampamenti, che erano situati fuori città. Dopo alcuni giorni di riposo, gli ismailiti [= arabi] ripresero la via per la quale erano venuti, trascinandosi dietro una moltitudine di prigionieri: in tutto 35.000. Tuttavia il principe d'Armenia Teodoro, signore di Rechtounik, che con un piccolo drappello di uomini aveva preparato un'imboscata nel distretto di Gokovid ", piombò su di loro; ma fu sconfitto e costretto

alla ritirata. Gli infedeli, d o p o essersi messi al suo inseguimento, uccisero molti dei suoi uomini, dopodiché rientrarono in Assiria 2 0 . Sebeo

Cipro, le isole greche e l'Anatolia

(649-654)

Mu'awiya e il suo seguito si diressero a Costanza, capitale di tutto il paese. La trovarono completamente piena di abitanti. Stabilirono il loro dominio su questa città con un grande massacro [...]. Radunarono tutto l'oro dell'isola, molte ricchezze, schiavi, e si spartirono il bottino. Gli egiziani ne presero una parte, gli arabi un'altra, e se ne andarono. Ma dal momento che il Signore aveva fissato il suo sguardo sull'isola e aveva deciso di farla devastare, subito dopo scatenò Abu al-'Awar e il suo esercito, che giunsero a Cipro per la seconda volta, poiché avevano appreso che gli abitanti si erano nuovamente riuniti lì. Quando arrivarono,

la popolazione fu presa dallo spavento. Al loro ingresso, i

tayyaye fecero uscire la gente dalle caverne e saccheggiarono l'intera isola. Essi cinsero d'assedio la città di Pathos e, dopo un aspro combattimento, la sottomisero. Quando gli abitanti chiesero di trattare, Abu al'Awar li informò che avrebbe preso l'oro, l'argento e i loro beni, m a che non avrebbe fatto loro alcun male. Allora essi aprirono le porte della città: i tayyaye radunarono tutte le ricchezze e ritornarono in Siria. In seguito, Mu'awiya assediò la città di Aruad [Arwad], che sorge su un'isola, ma senza riuscire a impadronirsene. Mandò a dire al vescov o Tommaso che gli abitanti dovevano abbandonare la città e andarsene in pace, m a essi non accettarono, e Mu'awiya ritornò a Damasco. Q u a n d o arrivò la primavera, Mu'awiya tornò ad assediare Aruad. Allora tutta la popolazione la abbandonò, e Mu'awiya la distrusse in modo che non fosse più abitata. Abu al-'Awar venne per mare con il suo esercito e arrivò nell'isola di Cos, di cui si impadronì grazie al tradimento del vescovo del luogo. Egli devastò e depredò tutte le sue ricchezze, massacrò parte della popolazione e trascinò via i superstiti c o m e prigionieri, poi distrusse la sua cittadella. Quindi passò a Creta e la saccheggiò. Poi lui e i suoi uo-

Sinagoga di Kefar Nahum, Mar di Galilea, Israele (abbandonata insieme alla chiesa adiacente intorno al 700). mini si diressero a Rodi, che devastarono nell'anno 965 [654] secondo il calendario greco 2 1 [... ] 22 . In quel periodo giunse al termine la tregua di sette anni che i romani [bizantini] avevano stipulato con i tayyaye. Questi presero a saccheggiare tutte le regioni dell'Asia [Minore], della Bitinia e della Panfilia. In Mesopotamia scoppiò una grave pestilenza. I tayyaye saccheggiarono e devastarono di nuovo tutti i territori fino al Ponto e alla Galazia 11. Michele il Siro

Cilicia e Cesarea di Cappadocia Essi [i tayyaye] passarono in Cilicia saccheggiando e facendo prigionieri, e piombarono a Euchaita [città dell'Armenia sul fiume Halys]

senza che la popolazione se ne accorgesse. In un attimo presero il controllo delle porte, e, quando Mu'awiya arrivò, ordinò di passare a fil di spada gli abitanti; dispose sentinelle in più punti affinché nessuno potesse fuggire. Dopo aver radunato tutte le ricchezze della città, essi si misero a torturare i capi perché mostrassero loro le cose [= i tesori] nascoste. I tayyayS ridussero in schiavitù tutti gli abitanti, uomini e donne, ragazzi e ragazze, e diedero vita a una grande orgia in quella sventurata città, commettendo iniquamente ogni sorta di impurità all'interno delle chiese. Poi se ne tornarono allegramente al loro paese [...] 2 4 . Mu'awiya, generale dei tayyaye, divise le sue truppe in due gruppi. Alla testa di uno di essi mise il perfido siriaco Habib 25 , che inviò in Armenia nel mese di tesrin . Quando le sue truppe vi giunsero, trovarono il paese pieno di neve. Ma usarono l'astuzia e portarono con sé dei buoi, che fecero marciare davanti a sé per aprirsi la strada. Così penetrarono nella regione senza essere intralciati dalla neve. Gli armeni, che non avevano previsto questa mossa, furono colpiti quando meno se l'aspettavano. I tayyayé diedero inizio alle devastazioni e ai saccheggi. Fecero prigionieri gli abitanti, incendiarono i villaggi e ritornarono al loro paese felici e contenti 2 6 . Intanto l'altro esercito, quello rimasto con Mu'awiya, penetrò nella regione di Cesarea di Cappadocia. Passando per Callisura, essi trovarono i villaggi pieni di uomini e di animali, e se ne impadronirono. Dopo aver radunato il bottino raccolto in tutto il paese, Mu'awiya attaccò la città [Cesarea], assediandola per dieci giorni. Poi devastò radicalmente l'intera provincia, lasciò la città in preda all'abbandono e tornò indietro. Di lì a pochi giorni lui e i suoi uomini tornarono per la seconda volta ad attaccare Cesarea, e combatterono contro di essa per molti giorni. Gli abitanti, vedendo che una grande collera si era abbattuta su di loro e che non avevano un liberatore, acconsentirono a trattare per avere salva la vita, e i notabili uscirono e concordarono il pagamento di un tributo. Quando i figli di Agar [gli arabi] penetrarono in città e videro la bellezza degli edifici, delle chiese, dei monasteri, e la grande opulenza che vi regnava, si pentirono di aver fatto loro delle promesse. Ma, non potendo ritornare sulla parola data, presero tutto quello che volevano e si spostarono nella regione di Amorium. Alla vista di quel paese affascinante,

simile a un autentico paradiso, decisero di non compiervi alcuna devastazione, ma si diressero verso la città. Dopo averla circondata, riconoscendo che era imprendibile, proposero agli abitanti di negoziare e di aprire loro la città. Ma, poiché essi non acconsentivano, Mu'5wiya inviò le sue truppe a devastare la regione: esse si impossessarono dell'oro, dell'argento, delle ricchezze, e se ne tornarono nel loro paese 27 . Michele il Siro

Armenia (705 circa) Lo sterminio dei nobili armeni Al tempo della dominazione degli arabi , dopo la morte del prim o Muhammad , nell'anno 85 della loro era e sotto il califfato di 'Abd al-Malik, figlio di Marw5n, essi, ispirati da Satana che infondeva loro uno spirito di collera, appiccarono un incendio contro di noi. Di comune accordo, infatti, ordirono un atroce piano pervaso da una malizia velenosa e letale, che andò a sommarsi ai mali che già ci avevano colpito così dolorosamente 2 8 : sterminarono e massacrarono interamente le nostre truppe e i loro generali, i nostri capi, i nostri principi, i nobili e tutti coloro che appartenevano alla stirpe dei satrapi. Essi si affrettarono a inviare in diversi luoghi messaggeri latori di notizie false, incaricati di persuadere tutti i leader armeni, mediante parole insidiose e promesse menzognere, a radunarsi in uno stesso punto. Essi distribuirono loro, da parte del califfo, ricchi doni e tahegan29 a profusione, e condonarono loro le imposte di quell'anno. Poi, con l'astuzia li privarono delle armi, fingendo di essere loro a volersi proteggere dalle loro spade: «Voi - dissero - non siete stabili come noi nei vostri giuramenti». Quindi, d o p o averli radunati tutti, li misero sotto buona guardia in due diversi luoghi, gli uni a Nakhidjevan e gli altri nel villaggio di Hram 3 0 . Il capo di questi scellerati [messaggeri] era un certo Qasim 3 1 amico di M u h a m m a d 3 2 , il quale era stato nominato governatore dell'Armenia per ordine di 'Abd al-Malik. Avendo così radunato i satrapi armeni, [gli arabi] dissero: «Che nessuno osi allontanarsi da questa grande riunione». Poi, dopo essersi se-

gratamente impossessati delle loro armi, si misero in agguato e, precipitandosi alle porte, le bloccarono con materiali vari. Intanto gli armeni intonavano il cantico dei Santi Bambini nella fornace e quello degli angeli che celebrano con i pastori il Re degli spiriti celesti. Gli arabi, avendo praticato un'apertura nel tetto, appiccarono il fuoco in quel punto, e vi ammassarono materiale combustibile in quantità ancora maggiori di quelle utilizzate nella fornace di Babilonia. Spinti dalla paura del loro tirannico sovrano e da una legione di demoni penetrati nei loro corpi, [gli arabi] erano in preda all'ira e correvano tutt'intorno all'edificio facendo lampeggiare le spade. Gli armeni intanto sentivano ardere le viscere di amore paterno, e, mentre una pioggia di fuoco, cadendo dal solaio, aderiva alle vesti dei loro figli, gliele strappavano a brandelli. Di fronte all'atroce spettacolo della morte delle creature a cui avevano dato la vita, essi non si preoccupavano in alcun m o d o del loro pericolo personale: così morirono tutti avvolti dalle fiamme [...]. I carnefici ormai non avevano più nulla da temere dalle loro vittime, loro che tante volte, malgrado la superiorità numerica, erano stati battuti da un pugno di coraggiosi e nobili condottieri armeni. E non è tutto: i nostri guerrieri più illustri ebbero la testa mozzata, e i loro corpi furono inchiodati alle croci. Fu questo l'ultimo atto di quell'atroce tragedia. In seguito gli infedeli - quegli scellerati - si riversarono da tutte le parti e rovistarono da cima a fondo le case di coloro che avevano immolato. Portarono via tutti i tesori presenti nel paese; si impadronirono anche delle case dei cavalieri e delle loro famiglie, dopodiché condussero con sé i prigionieri a Nakhidjevan. Quanto a quelli che erano rimasti sconvolti dalla notizia di tali atrocità e che piangevano sulle sorti della nostra patria, essi li trascinavano in giro per mostrare loro i malcapitati che erano stati inchiodati alle croci; in tal m o d o intendevano non solo incutere il terrore nell'animo del nostro popolo, ma ostentare la loro «prodezza» agli occhi dell'universo. Questo mistero d'iniquità si compì nel sedicesimo anno del regno di 'Abd al-Malik, che devastò l'Armenia e la ricolmò di sventure fino al giorno in cui morì 3 3 . Per ben quattro volte, sempre su suo ordine, si ripeterono questi massacri. Dopo la sua morte, nel primo anno del califfato di al-Walrd [...], durante le festività pasquali, gli arabi trasportarono una moltitudine di prigionieri nella capitale Tev'in. Li tennero in car-

Chiesa di Aght'amar (915-921). Lago Vari, Turchia (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme). cere per tutta quella torrida estate, e a mio avviso tra essi furono più i morti che i sopravvissuti. Q u a n d o venne l'autunno, li fecero uscire di prigione e, impresso loro un marchio sul collo, li costrinsero a partire per la Siria, dopo aver contato e registrato ciascuno di loro. A Damasco i nobili vennero trattenuti a corte, i loro figli avviati all'apprendimento di un mestiere e tutti gli altri spartiti fra vari padroni. Quanto a coloro che morirono lungo il cammino, non so se fu data loro sepoltura o se rimasero a giacere nello stesso punto in cui erano caduti 3 4 .

Élégie sur les malheurs de l'Arménie et le martyre de saint Vahan de Kogh'ten

Spagna e Francia

(793-860)

Nel 177 < 1 7 aprile 7 9 3 > Hishàm, principe di Spagna, inviò nel territorio nemico un folto esercito guidato da 'Abd al-Malik ibn 'Abd al-

Wahld ibn Mughit, che si spinse fino a Narbona e a Djeranda . Questo generale dapprima attaccò Djeranda, dove si trovava una guarnigione scelta di franchi; uccise i più valorosi di essi, distrusse le mura e i dintorni della città e fu lì lì per impadronirsene. Poi marciò su Narbona, dove ripetè gli stessi exploit; quindi, proseguendo l'avanzata, invase il suolo della Cerdagna. Per molti mesi il suo esercito attraversò in lungo e in largo la regione, facendo violenza alle donne, uccidendo i guerrieri, distruggendo le fortezze, bruciando e saccheggiando ogni cosa, mentre il nemico fuggiva disordinatamente dinanzi a esso. Infine, rientrò in Spagna sano e salvo, portando con sé Dio solo sa quale enorme bottino. Questa spedizione è una delle più celebri tra quelle condotte dai musulmani in Spagna [...] 3 5 . Nel 210 < 2 3 aprile 825> 'Abd al-Rahman ibn al-Hakam inviò nel territorio franco un forte squadrone di cavalleria comandato da 'Ubayd Allah, noto con il nome di Ibn al-Balansi. Quest'ufficiale organizzò razzie in tutte le direzioni, si abbandonò ai massacri e ai saccheggi e fece molti prigionieri. Nel mese di rebì I ebbe luogo tino scontro con le truppe degli infedeli, conclusosi con la disfatta di questi ultimi, che subirono numerose perdite; i nostri invece riportarono una significativa vittoria [...J 3 6 . Nel 223 < 2 dicembre 8 3 7 > 'Abd al-Rahm5n II ibn al-Hakam, sovrano di Spagna, inviò un esercito contro Alava; questo si a c c a m p ò nei pressi di Hisn al-Gharat, che cinse d'assedio, e si impossessò di tutto il bottino che vi trovò, poi uccise gli abitanti e si ritirò, portando via come prigionieri le donne e i bambini [...] 3 7 . Nel 231 < 6 settembre 8 4 5 > un esercito musulmano penetrò in Galizia, nel territorio degli infedeli, compiendo ovunque saccheggi e massacri. Esso avanzò fino alla città di Leon, di cui intraprese l'assedio con le catapulte. Gli abitanti, spaventati, fuggirono abbandonando la città e tutto ciò che conteneva, di m o d o che i musulmani poterono saccheggiarla a loro piacimento, per poi distruggere quel che restava. Ma essi si ritirarono senza essere riusciti ad abbattere le mura: esse infatti avevano un'ampiezza di 17 cubiti, per cui non poterono far altro che aprirvi numerose brecce [...] M . Nel 246 < 2 7 m a r z o 860> M u h a m m a d ibn 'Abd al-Rahmàn avanzò con ingenti truppe e un consistente apparato militare contro la regione di

Pamplona; egli conquistò, devastò e annientò questo territorio, saccheggiandolo e seminandovi la morte 3 9 . Ibn al-Athlr

Anatolia La presa di Amorium

(838)

[...] Q u a n d o gli abitanti si accorsero che Bodln 4 0 faceva entrare i tayyaye, si rifugiarono chi in chiesa, gridando: «Kyrie eleison», chi in casa, altri ancora nelle cisterne o nelle buche; le donne coprivano i loro figli c o m e chiocce, poiché temevano di esseme separate dalla spada o dalla schiavitù. I feroci tayyaye diedero inizio al massacro, e accumularono interi mucchi di cadaveri; poi, quando le loro lame furono sazie di sangue, arrivò l'ordine di sospendere la strage e di fare prigionieri gli abitanti per condurli fuori da Amorium. Allora saccheggiarono la città. Q u a n d o il re entrò a vederla, ammirò le sapienti strutture dei templi e dei palazzi. Ma, poiché gli era giunta una notizia che gli aveva arrecato inquietudine, le fece appiccare il fuoco e la incendiò. Vi erano talmente tanti conventi e monasteri femminili al suo interno che oltre mille vergini furono fatte prigioniere, senza contare quelle che erano state massacrate. Esse vennero cedute agli schiavi turchi e mori e abbandonate ai loro oltraggi: sia gloria agli imperscrutabili giudizi Abu al-Aghlab organizzò u n n u o v o assalto nella stessa direzione; il bottino che esso fruttò fu tra i più considerevoli, sebbene gli schiavi fossero venduti a prezzi bassi. Quanto a coloro che presero parte alla spedizione, essi ritornarono in patria sani e salvi. Lo stesso anno fu inviata una flotta contro le isole ; anch'essa, d o p o aver raccolto un ricco bottino e aver conquistato diverse città e fortezze, ritornò a casa sana e salva [...] Nel 234 < 5 agosto 848> i ragusani conclusero la pace con i musulmani, in cambio della consegna della città e di tutto quello che conteneva. I vincitori la distrussero dopo averne prelevato tutto ciò che era trasportabile.

Nel 235 < 2 5 luglio 8 4 9 > un esercito musulmano marciò contro Castrogiovanni [Enna] e ne tornò sano e salvo, dopo essersi abbandonato ai saccheggi, ai massacri e agli incendi in tutta la città. Nel redjeb del 236 morì l'emiro musulmano della Sicilia, M u h a m m a d bin 'Abd Allah ibn al-Aghlab, che era rimasto al potere per diciannove anni. Egli risiedeva a Palermo, da cui non usciva mai, limitandosi a inviare di lì truppe e colonne che utilizzava come strumenti di conquista e di saccheggio [...] 4 4 . Anche nel 271 [884?] un forte esercito musulmano fu inviata contro Rametta; esso compì enormi devastazioni e rientrò con un abbondante bottino e un gran numero di prigionieri. Poiché in quel periodo era morto l'emiro della Sicilia al-Husayn ibn A h m a d , gli subentrò Sawàda b. M u h a m m a d ibn Khafaja al-Tamlmi. Q u a n d o costui arrivò nell'isola, guidò un forte esercito contro Catania e annientò tutto ciò che si trovava nei < d i n t o m i > . Poi andò a portar guerra agli abitanti di Taormina, e devastò i raccolti del paese. Stava continuando la sua avanzata, quando un messaggero inviato da un patrizio cristiano venne a sollecitare una tregua e uno scambio di prigionieri. Sawada accordò una tregua di tre mesi e riscattò trecento prigionieri musulmani, dopodiché fece ritomo a Palermo 4 5 . Ibn al-Athlr

Mesopotamia Le cause delle invasioni turche (XI secolo) Poiché gli arabi, vale a dire i tayyayè, si stavano indebolendo, mentre i greci [bizantini] si stavano impadronendo di numerose regioni, i tayyaye furono costretti a chiamare in loro aiuto i turchi. Essi combattevano accanto agli arabi in qualità di sudditi, e non di padroni. Ma poiché, ovunque andassero, si comportavano valorosamente e riportavano la vittoria, a poco a poco si abituarono a trionfare. Ogni volta essi si caricavano delle ricchezze della regione e le portavano in patria per mostrarle agli altri, incitandoli a partire con loro per andare a stabilirsi in un luogo magnifico come quello, colmo di simili beni 46 .

Saccheggio di Melitene [odierna Malatya]

(1057)

In quello stesso periodo ebbe inizio l'impero dei turchi nelle regioni della Persia. Infatti, nell'anno 430 dell'impero arabo un sultano soprannominato Togrul Bey 4 7 occupò il trono regale del KhorSsan. Egli inviò delle truppe nel territorio armeno, che all'epoca era sotto il dominio romano [bizantino]; quando esse vi giunsero, si misero a fare prigionieri, a saccheggiare e a incendiare barbaramente ogni cosa. Più volte catturarono gli abitanti e li portarono via con sé senza che nessuno osasse affrontarli 48 . Durante l'inverno del 1369 [1057], circa 3000 uomini giunsero all'ex città fortificata di Melitene, e poiché essa era priva di m u r a in quanto Ciriaco 4 9 le aveva distrutte quando l'aveva sottratta ai tayyayS, gli abitanti presero a rifugiarsi sulle montagne, dove vennero uccisi dal freddo e dalla fame. Il primo giorno, i turchi cominciarono a massacrare senza pietà, tanto che molti si nascosero sotto i cadaveri delle uccise. Gli invasori stabilirono il loro accampamento fuori dalla città, sul fianco di una collina; nessuno di loro passava la notte fuori dal campo. Per tutta la notte i ceri della chiesa restavano accesi Il secondo giorno si misero a torturare gli uomini perché mostrassero loro le cose [tesori] nascoste, e molti morirono tra i tormenti: fra essi il diacono Petrus, scrittore e maestro di scuola [...]. I turchi restarono a Melitene dieci giorni, devastando e saccheggiando. Poi incendiarono la sventurata città, razziarono i territori circostanti fino a una giornata di marcia e diedero fuoco all'intera regione. Durante questo saccheggio fu preso e razziato anche il convento di BarGSgai [nella zona di Melitene]. Dopo aver catturato gli abitanti della regione, i turchi se ne andarono, m a si allontanarono dalla strada [principale] e si trovarono ad attraversare montagne impervie e fiumi. Mentre erano accampati in una valle situata in prossimità dei monti dei slnlsayS 51 , vi fu un'abbondante nevicata che impedì loro di avanzare. I slrusayè, che se n'erano accorti, piombarono sui turchi occupando tutte le vie e i passaggi che si aprivano dinanzi a loro, così che essi morirono di fame e di freddo in quel luogo; i sopravvissuti vennero uccisi dai sinisaye, e non uno di essi riuscì a salvarsi. Del folto gruppo dei prigionieri di Melitene, tutti quelli che erano sfuggiti alla morte contribuirono al massacro, e vi presero parte anche coloro che erano nascosti sulle montagne [...] 5 2 .

L'imperatore [Michele VI Stratiotico, 1056-1057], vedendo che i turchi avanzavano ed erano giunti fino al Ponto Eusino " facendo prigionieri, saccheggiando e incendiando, mosso a pietà per i popoli cristiani della regione inviò cavalli e carri, e, dopo che essi vi ebbero caricato tutto il loro mobilio, li fece trasportare oltre il mare. razziarono le città e i villaggi di tutta l'area pontica, e il fatto che essi fossero disabitati si rivelò un vantaggio per loro, che vi trovarono altrettanti luoghi

Chiesa di Ani, anno 1000 circa, Ararnt, Turchia (foto conservata al Museo armeno di Gerusalemme).

in cui insediarsi. Ora, mentre tutti biasimano l'imperatore, noi dal canto nostro diciamo che questo male non venne da lui, ma dall'alto 51 . Michele il Siro

Armenia Presa di Ani da parte del sultano Alp Arsldn

(1064)

Nell'anno 513 dell'era armena, durante la festa della Madonna, un lunedì, la città di Ani fu conquistata dal sultano Alp Arslan, il quale ne massacrò gli abitanti, eccetto le donne e i bambini, che condusse via con sé c o m e prigionieri 55 . Samuele di Ani

Siria e Palestina Poiché i turchi regnavano in Siria e in Palestina, essi infliggevano ogni sorta di tormento ai cristiani che si recavano a pregare a Gerusalemme: li percuotevano, li depredavano e riscuotevano da loro il testatico non soltanto all'ingresso della città, m a anche al Golgota e al Santo Sepolcro. Inoltre, ogni volta che vedevano ima carovana di cristiani, soprattutto da Roma e dalle regioni dell'Italia, si ingegnavano a ucciderli nei modi più diversi. E quando innumerevoli pellegrini furono morti per questo motivo, i re e i conti furono finalmente presi da zelo e uscirono da Roma alla testa dei loro eserciti; si unirono a loro truppe di tutti i paesi cristiani, ed essi sconfissero per m a re i turchi fino a Costantinopoli 5 6 57. Michele il Siro

¡ihAD

387

L A TEORIA DEL «JIHÀD» 58

Il jihad è un obbligo istituito per volere divino. Il suo adempimento da parte di alcuni ne dispensa gli altri. Per noi malikiti è preferibile non dare inizio alle ostilità con il nemico prima di averlo invitato ad abbracciare la religione di Allah, a meno che non sia egli stesso a prendere l'iniziativa di attaccare. Due sono le alternative da proporgli: o si converte all'islamismo, o paga il testatico ; in caso contrario, gli si farà guerra. È concesso agli infedeli di pagare la jizya solo se vivono in un territorio in cui è possibile applicare le nostre leggi. Se però sono fuori dalla nostra portata [giurisdizione], potranno pagarla solo se si recano nel nostro territorio. Altrimenti si farà loro guerra [...]. Si deve combattere il nemico senza preoccuparsi di appurare se il jihad sarà condotto da un capo devoto o depravato. Non vi è alcuna controindicazione rispetto all'eliminazione dei prigionieri di razza bianca non arabi. Ma nessuno dovrà essere ucciso se ha ottenuto Vamati , né si dovranno violare gli impegni presi nei confronti dei prigionieri. Non si trucideranno né le donne, né gli impuberi. Si eviterà di uccidere monaci e rabbini, a meno che non abbiano preso parte ai combattimenti. Anche la donna sarà messa a morte se ha partecipato alla guerra. L'amari accordato dal più umile dei musulmani dev'essere ritenuto valido anche dagli altri. Perfino la donna e l'impubere islamici possono concederlo se ne comprendono la portata. Ma, secondo un'altra opinione, tale amati è valido solo se un imam lo ratifica. Del bottino raccolto dai musulmani nel corso delle operazioni belliche l'imam preleverà un quinto, e distribuirà i restanti quattro quinti tra i membri dell'esercito. Tale spartizione avverrà di preferenza in territorio nemico 5 9 . Ibn Abi Zayd al-Qayrawaru Nell'islamismo la guerra contro l'infedele è un obbligo di natura divina, poiché questa religione si rivolge a tutti gli uomini, ed essi devono abbracciarla per amore o per forza. Perciò presso i musulmani sono state istituite sia l'autorità spirituale sia quella temporale, affinché i

due poteri si adoperino contemporaneamente a realizzare questo duplice scopo. Le altre religioni non si rivolgono alla totalità degli uomini, pertanto non impongono ai loro adepti l'obbligo di fare la guerra agli infedeli; esse autorizzano a combattere soltanto per autodifesa. Per questo motivo i leader di tali religioni non si occupano minimamente di amministrazione politica. Il potere temporale è nelle mani di un individuo che lo ha ottenuto in m o d o del tutto fortuito o in seguito a un accordo con cui la religione non ha niente a che fare. Presso questi popoli la sovranità [politica] è nata perché, come abbiamo già indicato, un sentimento collettivo per sua stessa natura li ha portati a ciò; non è stata la religione a imporre loro questa istituzione, dal m o mento che essa non prescrive loro di sottomettere gli altri popoli, com e avviene nell'islamismo. Essi sono obbligati soltanto ad assicurare la sopravvivenza della loro religione all'interno della loro nazione; perciò gli israeliti, dopo l'epoca di Mosè e di Giosuè, attesero circa quattro secoli prima di pensare a fondare un regno: la loro unica preoccupazione era preservare in vita il loro culto [...] 6 0 . Da allora in poi i cristiani, in seguito a una serie di dispute relative ai dogmi e a ciò che si deve credere a proposito del Messia, si divisero in più sette, ciascuna delle quali invocava il sostegno del re cristiano che era anche il suo sovrano. Tale disparità di opinioni, per cui di volta in volta nascevano sempre nuove sette, prevalse per molti secoli, fino a quando rimasero solo tre sette principali: i melchiti 6 8 .

Questi beni sono stati designati con l'appellativo di fay' in quanto Allah li ha sottratti agli infedeli per restituirli del Profeta e che sono pertanto inquadrate tra le «terre della decima». La stessa regola fu applicata a Ta'if e al Bahrein, nonché ai beduini che si convertirono per conservare le loro falde acquifere e i loro terreni: entrambi sono infatti rimasti di loro proprietà, e continuano a esserlo [...] 7 4 . Tutti i popoli politeisti con i quali l'islam ha concluso la pace a patto che riconoscessero la sua autorità saranno soggetti alla spartizione [delle terre] e pagheranno il kharaj-, essi sono infatti da considerarsi tributari, e il suolo che occupano è definito «terra del kharaj». L'importo dell'imposta sarà quello stabilito dai trattati stipulati con loro, m a sarà riscosso in buona fede e senza applicare sovrattasse. Qualunque territorio di cui l'imam [sovrano] sia entrato in possesso con la forza, se egli lo ritiene opportuno - infatti ha piena libertà sotto tale profilo - può essere da lui spartito tra coloro che l'hanno conquistato, e in questo caso diviene «terra della decima», oppure lasciato in possesso degli abitanti, come fece Omar ibn al-Khattab per al-Sawad 7 5 . In questo caso il territorio diviene «terra del kharaj» e nessuno può riprenderselo: i vinti ne detengono la piena proprietà, trasmissibile per eredità o mediante contratto, e l'entità del kharaj a cui è soggetto non deve superare le possibilità dei contribuenti [...] 7 6 . Lo statuto dei territori conquistati varia a seconda che siano arabi o non arabi: infatti si fa guerra agli arabi soltanto per farli aderire all'islam, non per esigere da loro il testatico; da essi non si pretende altro che la conversione, e le loro terre, se ne conservano il possesso, sono considerate «terre della decima»; perfino se l'imam non gliele lascia e ne attua la spartizione, esse sono ritenute ancora «terre della decima». 1 criteri da adottare nei confronti dei non arabi sono diversi: infatti si combatte con loro sia per convertirli che per esigere da loro il testatico, mentre nei confronti degli arabi si persegue solo il primo scopo, visto che devono scegliere tra la conversione e la morte. N o n conoscia-

m o alcun caso in cui il Profeta, o uno dei suoi Compagni o dei califfi che gli sono succeduti, abbia accettato il pagamento del kharHj dagli arabi idolatri, i quali potevano unicamente scegliere se convertirsi o morire. Se venivano sconfitti, le loro mogli e i loro figli erano fatti prigionieri, come fece il Profeta con i banu hawazin in occasione della battaglia di Hunayn 7 7 ; in seguito però restituì loro la libertà. Peraltro si comportò così soltanto con gli idolatri. I sudditi arabi che professano religioni rivelate [ebrei e cristiani] sono trattati c o m e i non arabi: pertanto sono ammessi a pagare la capitazione. È quanto fece Omar nei confronti dei banu taghllb [tribù cristiana], ai quali raddoppiò l'elemosina rituale in sostituzione del kharSj, in linea con quanto aveva fatto il Profeta, esigendo un testatico di un dinar, o il suo equivalente in indumenti, da ogni suddito pubere dello Yemen, misura che ai nostri occhi appare simile < a quelle adottate nei confronti> dei popoli seguaci delle religioni rivelate. Qualcosa di analogo fece il Profeta accordando la pace agli abitanti di Najran [cristiani] in cambio di un riscatto. Quanto ai non arabi, ebrei o cristiani, politeisti, idolatri o adoratori del fuoco, dai sudditi maschi si riscuote la capitazione. Il profeta infatti la fece pagare ai Magi di Hajar, i quali sono politeisti e non aderiscono a una religione rivelata: pertanto essi sono considerati da noi c o m e non arabi, e non sposiamo le loro donne così come non m a n g i a m o le bestie che sgozzano. Omar ibn al-Khattab applicò ai non arabi di sesso maschile e di religione politeista dell'Iraq un testatico corrispondente a tre fasce di reddito: cittadini indigenti, ricchi e di condizione media. Per quanto riguarda i rinnegati, arabi e non arabi, essi sono trattati com e gli arabi idolatri: devono scegliere tra la conversione e la morte, e non sono passibili di capitazione [... ] 78 . Gli abitanti dei villaggi e delle campagne - m a lo stesso vale per le città, i loro abitanti e tutto ciò che contengono - possono, a discrezione dell'imam, rimanere nelle loro terre, nelle loro case e nelle loro abitazioni, e continuare a godere dei loro beni in cambio del pagamento del testatico e del khardj, < o essere spartiti tra i vincitori;». Non esistono eccezioni se non per gli arabi maschi e idolatri, che non sono ammessi a pagare la capitazione, e devono scegliere tra la conversione e la morte [...].

L'imam può quindi scegliere tra due opzioni altrettanto valide: o effettuare la spartizione c o m e ha fatto il profeta, o lasciare i beni al loro posto, c o m e fece lo stesso profeta altrove, tranne che a Khaybar, o c o m e O m a r ibn al-Khattab, che lasciò tutto immutato nel Sawad [Iraq]. La maggior parte delle regioni agricole siriache ed egiziane fu conquistata con la forza, e pertanto furono ammessi a trattare solo gli abitanti delle piazzeforti. Poiché le campagne erano state occupate dai vincitori e prese con la forza, Omar le abbandonò nelle mani della comunità islamica dell'epoca e di quelle a venire. Fu questa la soluzione adottata di preferenza da lui, e anche l'imam può conformarsi a tale linea, purché adotti in compenso le precauzioni necessarie dei fedeli e della religione 79 .

Strategie di combattimento Il meglio che abbiamo sentito dire a questo proposito, a quanto pare, è che non vi è nulla di male ad adoperare ogni sorta di armi contro i politeisti: dall'inondare e bruciare le loro abitazioni al tagliare i loro alberi e le loro palme da dattero al fare uso di mangani

il tutto senza

attaccare con deliberata intenzione le donne, i bambini o i vecchi in età assai avanzata. È inoltre possibile inseguire coloro che fuggono, dare il colpo di grazia ai feriti, uccidere i prigionieri quando essi costituiscono un pericolo per i musulmani, m a soltanto quelli che hanno già iniziato a radersi [i puberi], poiché gli altri sono dei bambini e non si possono giustiziare. Quanto ai prigionieri che vengono condotti dall'imam, è a sua totale discrezione scegliere se metterli a morte o far pagare loro un riscatto, adottando la soluzione più vantaggiosa per i musulmani e più oculata per l'islam. Il riscatto imposto a costoro non è costituito né da oro, né da argento o merci preziose, ma esclusivamente da schiavi destinati al servizio dei musulmani. Tutto ciò che i vincitori hanno raccolto sul c a m p o di battaglia, o sottratto dai beni e dagli effetti personali dei vinti, costituisce il fay', che viene suddiviso in cinque porzioni: una di esse è assegnata a coloro che sono elencati nel Libro sacro, mentre le altre quattro sono riparti-

te tra le truppe che hanno contribuito ad accumulare il bottino, nella misura di due parti per i cavalieri e una per i fanti. Se è stata conquistata una determinata porzione di territorio, l'imam adotterà la soluzione più prudente per i musulmani: se ritiene di doverla lasciare ai suoi abitanti imponendo loro il kharaj - c o m e fece O m a r ibn alKhattab, che lasciò il Sawad [Iraq] nelle mani delle popolazioni indigene - p u ò farlo; se invece ritiene di doverla assegnare ai conquistatori, ripartirà il territorio tra loro d o p o averne prelevato la quinta parte [...] 8 1 . Per parte mia, ritengo che la decisione relativa ai prigionieri spetti all'imam: a seconda di ciò che gli sembra più conveniente per l'islam e per i musulmani, potrà farli giustiziare o usarli c o m e riscatto per i prigionieri islamici [ . . . ] 8 2 . Quando i musulmani, assediando una fortezza nemica, trattano con gli assediati, i quali accettano di arrendersi alle condizioni indicate da un u o m o designato e costui decide che i combattenti siano messi a morte, le donne e i bambini fatti prigionieri, la sua decisione è da ritenersi valida. Fu appunto quello che stabilì Sa'ad ibn Mu'adh per i banu qurayza 8 3 [ . . . ] w . Se il verdetto adottato dall'arbitro designato avesse previsto qualcosa di diverso dalla morte per i combattenti e dalla riduzione in schiavitù per le donne e i bambini, [e] se comportava l'obbligo del pagamento della capitazione, sarebbe stato ugualmente corretto; e se qualcuno, in un caso analogo, stabilisse che i vinti devono essere invitati a convertirsi, ed essi lo facessero, la sua decisione sarebbe ancora valida ed essi diventerebbero musulmani e liberi [...] 8 5 . Sta all'imam pronunciarsi sul trattamento da riservare ai vinti, e la sua scelta cadrà su ciò che è preferibile per la religione e per l'islam: se ritiene che l'esecuzione dei guerrieri e la riduzione in schiavitù di donne e bambini siano più utili per l'islam e per i suoi adepti, egli adotterà quest'opzione sulla base di quanto fece Sa'ad ibn Mu'adh; se invece ritiene più vantaggioso trasformarli in tributari soggetti al kharaj, soluzione preferibile in quanto fa aumentare i I f a y ' , che a sua volta accresce le risorse a disposizione dei musulmani per lottare contro di loro e gli altri politeisti, allora sarà questa la misura che adotterà nei loro confronti. Infatti non è forse vero che Allah nel suo Libro dice:

« [...] sino a che non versino la tassa con le loro proprie mani d o p o essersi umiliati» < C o r a n o IX,29>, e che il Profeta chiamava i politeisti ad abbracciare l'islam, o, in caso di rifiuto, a pagare la capitazione, e che O m a r ibn al-Khattab, d o p o aver assoggettato gli abitanti del Sawad, non versò il loro sangue e ne fece dei tributari? [...] 8 6 . Se i vinti accettano di arrendersi sottoponendosi all'arbitrato di un musulmano designato da loro e di u n esponente della loro fede, quest'ultimo verrà ricusato: non è lecito infatti tollerare la collaborazione tra un fedele e un miscredente quando si deve prendere una decisione in materia di religione. Se per errore il rappresentante del principe acconsente, e viene emessa una sentenza congiunta da questi due uomini, l'imam non le darà forza esecutiva a meno che essa non comporti che i nemici diventino tributari o si convertano; se infatti adottassero questa seconda opzione, non vi sarebbe nulla da rimproverare loro, e se si riconoscessero tributari sarebbero accettati come tali senza bisogno di ima sentenza ad hoc 8 7 . Abu Yusuf

1 Giovanni di Nikiu, La chronique de jean, évèque de Nikiou, trad. di Hermann Zotenberg, Imprimerie Nationale, Paris 1879, pp. 228-229. 2 L'originale ha Nikius, la forma usata dall'autore della Cronaca, che nel testo etiopico si alterna a Nakius (forma araba). Per uniformità (Nikiu, forma attuale del nome, è quella già usata in precedenza nel libro), si è scelto di unificare le due grafie [N.d.T].

GuenbOt (o ghenbdt) è il nono mese del calendario etiope, un calendario su base limare costituito da dodici mesi di 30 giorni ciascuno, seguiti da un tredicesimo mese di 5 giorni (6 negli anni bisestili). Il primo dell'anno corrisponde al nostro 11 settembre (o al 12 negli anni bisestili) http://www.amicidelsidamo.org/cultura_etiope.php [N.d.T]. 4 Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évèque de Nikiou cit., pp. 243-244. 3

Per 'Amr ibn al-'Às e la conquista dell'Egitto cfr. cap. 2, par. «L'espansione terrestre» [N.d.T.]. 'Città di origine greca nota anche come Taucheira, Tauchira o Teuchira, ribattezzata Arsinoe dai Tolomei e parte della Pentapoli; sorge sulle coste 5

della Cirenaica, in Libia, a nord-est di Bengasi. È l'attuale Tocra [N.d.T.]. 'Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou cit., pp. 254-255. 8 Ivi, p. 261. "Ivi, pp. 262-263. Compagno del Profeta o semplicemente Compagno (sShib o sahabi, plur. ashSb, sahb) è il termine arabo che indica chi sia stato a contatto diretto, a titolo di fedele e di discepolo, con il profeta Maometto. Furono i Compagni a memorizzare e trasmettere gli hadìth e il Corano, prima che questo fosse messo per iscritto. La generazione successiva ai Compagni e che con essi abbia avuto relazioni più o meno prolungate è definita dei Seguaci (arabo Tabi'un) [N.d.T.]. 10

Abu al-'Abbâs Ahmad ibn Jabir al-Baladhuri, The Origins of the Islamic State (Kitab futah al-buldan), trad. di Philip Khuri Hitti, 2 voli., Murgotten, New York 1916-1924 1 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2007], p. 423. 11

A sud-ovest del lago Van. Per questi eventi cfr. Ghevond, Histoire des guerres et des conquêtes des arabes en Arménie, trad. di Garabed Chahnazarian, Meyrueis, Paris 1856 [http://www.mediterranee-antique.info/ Moyen_Age/Divers/Ghevond.htm, N.d.T.], p. 5. 12

A ovest del lago Van. Sebeo (VII sec.), Histoire d'Héraclius par l'éoêque Sébéos, trad. dall'armeno e note di Frédéric Macler, Léroux, Parigi 1904 (ed. it. Storia, trad. dall'armeno, introd. e note di Claudio Gugerotti, Mazziana, Verona 1990), p. 227. Cfr. http://rbedrosian.com/sebl.htm. 15 In prossimità dell'attuale Erevan. " U n affluente dell'Arasse. 13

14

" Teodoro Rechtouni era il generale in capo dell'Armenia bizantina. Destituito dall'imperatore Costante II, passò dalla parte degli arabi e fu riconosciuto da Mu'âwiya come signore dell'Armenia e della Georgia fino alla regione di Karabakh, a est. Distretto dell'Armenia [cfr. supra, cap. 4, «I nomadi quale fattore di islamizzazione», e nota 8], " A sud del monte Ararat. 18

Sebeo, Histoire d'Héraclius par l'éoêque Sébéos cit., p. 228. La datazione a cui si fa riferimento è la cosiddetta «era dei greci» o «di Alessandro» in uso presso i siriaci cristiani e gli arabi, nota anche come «era dei Seleucidi» perché il computo degli anni partiva dal 312 a.C. (data del rientro di Seleuco a Babilonia dopo la vittoria di Gaza), rimasta localmente in uso in Asia Minore fino all'epoca araba [N.d.T.]. 20 21

22

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d'Antioche

(1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voli., Leroux, Paris 1899-1924' (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), voi. 2, p. 442. 23 Ivi, p. 450. 24 Ivi, p. 431. 25 Habib ibn Maslama conquistò la Quarta Armenia [insieme alla Prima, alla Seconda e alla Terza Armenia, ima delle quattro amministrazioni militari bizantine in cui era divisa l'Armenia Minore, N.d.T.], tutta la regione del lago Van, il Vaspurakan [prima provincia, e poi regno, della Grande Armenia situato attorno al lago Van, considerato la culla della civiltà armena, N.d.T.], la Siunia [oggi Syunik, era una delle quindici province del Regno d'Armenia, e precisamente della Prima Armenia, N.d.T] e la Georgia. Gli arabi devastarono l'Armenia nel corso di campagne che si ripetevano con cadenza annuale. 27 Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 2, p. 441. 26

Nel 695 gli arabi avevano operato confische e massacri in Armenia. Intorno al 700 la sollevazione generale della regione provocò una campagna di repressione.

28

II tahegan (o dahekan) era una moneta d'oro all'incirca dello stesso valore del dinar arabo. Cfr. Nicola Cariello, Bisanzio Roma e Kiev al tempo dell'imperatore Giovanni Tzimisce: antologia di documenti, 969-976, Fabreschi, Subiaco 2008 [N.d.T.]. 29

"Sul fiume Arasse. 31 Governatore di Nakhidjevan e luogotenente di Muhammad. 32 Generale di 'Abd al-Malik e figlio di Marwan. 33 Altri cronisti collocano questi eventi sotto il califfato di al-Walld (705715). 34 Élégie sur les malheurs de l'Arménie et le martyre de saint Vahan de Kogh'ten, in Édouard Dulaurier, Recherches sur la chronologie arménienne, 2 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1859, vol. 1, pp. 238-240. Abu al-Hasan 'Ali 'Izz al-Dïn ibn al-Athïr, Annales du Magreb et de l'Espagne, trad. e note di Edmond Fagnan, Adolphe Jourdan, Algeri 1898, p. 144 (ripr. anast. GAL, Grand Alger Livres, Alger 2007). 35

Ivi, p. 200. Ivi, p. 211. MIvi, p. 222. "Ivi, p. 236. "Bôdîn era uno dei tre notabili di Amorium che si erano recati con il vescovo a parlare con il califfo arabo Abu Ishâq per dissuaderlo dall'attacca36 37

re la città, ma poi era tornato da lui e gli aveva promesso di consegnargli la città in cambio di 10.000 darici [N.d.T.]. J1 Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, pp. 98-100. 12 Ivi, p. 102. 43 Ibn al-Athlr, Annales du Magreb et de l'Espagne cit., pp. 192-193. "Ivi, pp. 217-218. 45 Ivi, p. 261. "Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 154. Si tratta di Togrul Bey (1038-1063), fondatore della dinastia dei selgiuchidi. 481 turchi selgiuchidi devastarono l'Armenia fin dall'inizio dell'XI secolo. L'autore qui fa riferimento alle campagne degli anni 1048-1054. 49 Le fortificazioni di Melitene erano state distrutte nel 934 dal domestikos [generale] bizantino Johannes Kurkuas e dal principe armeno Mleh. "Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 158. 47

Gli abitanti del Sasun, il distretto, oggi situato nella provincia turca di Batman e un tempo parte del territorio armeno, attraversato dai monti del Tauro, che avrebbe preso il nome dalla famiglia armena dei Sanasuni [N.d.T.]. 51

52 53

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 159. L'attuale Mar Nero.

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 160. Samuele di Ani, Tables Chronologiques, in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Collection d'historiens arméniens: dix ouvrages sur l'histoire de l'Arménie et des pays adjacents du Xeme au XIXème siècle, 2 voli., Saint Petersbourg 18741876 (ripr. anast. Apa, Amsterdam 1979), vol. 2, p. 297. 56Si tratta della prima Crociata (1096-1099). 51

55

Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien cit., vol. 3, p. 182. Vedi capitolo 1, nota 22. 59 Abu Muhammad 'Abd Allàh ibn Abi Zayd al-Qayrawànï, La Risala (Épitre sur les éléments du dogme et de la loi de l'Islam selon le rite malikite), traduzione e cura di Léon Bercher, Algeri I960 5 (ed. it. La Risala, ovvero Epistola sul diritto islamico, testo arabo a fronte, Edizioni Orientamento, Caprara di Campegine 2006), p. 163.

57 58

'Abd al-Rahmàn ibn Muhammad ibn Khaldun, Prolégomènes, trad. dall'arabo di William Me Guckin barone de Slane, 3 voli., Imprimerie Impériale, Paris 1862-1868 (Geuthner, Paris 1934-1938), vol. 1, p. 469. " In realtà melchiti non è sinonimo tout court di ortodossi: designa invece i cristiani dei patriarcati di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, che, in w

linea con le prescrizioni del Papa e dell'Imperatore bizantino, sposavano le tesi del Concilio di Calcedonia (451) sulla duplicità della natura e l'unicità della persona di Cristo. Il termine (semitico melek, «re»), che identificava i seguaci dell'imperatore, fu coniato in chiave spregiativa dai monofisiti, convinti del carattere unicamente divino della natura di Cristo. I melchiti aderirono allo scisma che nel 1054 originò le Chiese ortodosse, ma nei secoli successivi alcuni di essi tornarono alla comunione con Roma entrando a far parte delle Chiese di rito orientale e di lingua araba [N.d.T.]. 62 Ibn Khaldun, Prolégomènes cit., vol. 1, p. 476. La sura al-Anfdl, «il bottino di guerra», 6 l'ottava del Corano. Fu rivelata dopo la battaglia di Badr, svoltasi nel 624 a sud-ovest di Medina e conclusasi con un'importante e inaspettata vittoria dei musulmani sui loro oppositori meccani (i banû quraysh), che si erano fermati ai pozzi di Badr con le loro carovane per abbeverare i dromedari e gli uomini [N.d.T.]. 63

Henri Laoust, Le traité de droit public d'ibn Taymiya, Institut Français de Damas, Beirut 1948, pp. 27-28. 64

Nella letteratura religiosa islamica il termine sahìh («sano, corretto, giusto») designa i testi su cui, data la loro correttezza formale e sostanziale, è possibile fare il massimo affidamento. In particolare i sunniti definiscono «I due Sahìh» le due principali raccolte di hadlth, attribuite rispettivamente a Bukhari e a Muslim [N.d.T.]. 65

"Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya cit., p. 28. 67 Una delle tre principali tribù ebraiche di Medina, da dove fu espulsa da Maometto nel 625. "Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya cit., p. 34. 69Ivi, pp. 35-36. Ivi, p. 51. 1 muhâjirûn sono i convertiti della primissima ora, che insieme al profeta Maometto lasciarono La Mecca diretti a Medina effettuando l'egira (in arabo hijra). Essi si distinguono dagli ansar o «ausiliari», gli abitanti di Medina che aderirono all'isiàm all'arrivo in città di Maometto e contribuirono alla sua vittoria. Per i Compagni del Profeta cfr. supra, nota 10 [N.d.T.]. ^Laoust, Le traité de droit public d'Ibn Taymiya cit., p. 178. "L'autore, un giurista, rivolge qui i suoi consigli al califfo Hârûn al-Rashïd (786-809). 70 71

Abu Yusuf Ya'qûb, Le livre de l'impôt foncier (Kitâb ai-Kharâdj), trad. di Edmond Fagnan, Geuthner, Paris 1921, pp. 94-95. 71

Al-Sawâd è il nome islamico della fertile e acquitrinosa regione della Mesopotamia corrispondente a una zona dell'Iraq meridionale [N.d.T.]. 75

Abu Yusuf, Le livre de l'impôt foncier cit., p. 95. 1 banu hawâzin erano una delle tante tribù del Hijaz che nel 630 furono sconfitte dai musulmani nella battaglia di Hunayn, presso il wOdl omonimo [N.d.T.]. 76

77

Abu Yûsuf, Le livre de l'impôt fonder cit., pp. 100-101. Ivi, pp. 103-104. "Macchine da guerra simili alle catapulte usate nel Medioevo [N.d.T.]. 81 Abu Yusuf, Le livre de l'impôt fonder cit., pp. 301-302. 82 Ivi, pp. 302-303. 83 Una delle tre principali tribù ebraiche di Medina. m Abu Yusuf, Le livre de l'impôt fonder cit., p. 310. 85 M , p. 311. 86 Ivi, p. 312. 87 Ivi, p. 314-315. 78

79

Battaglia di Bolnisi (Georgia, 7227). Scontro tra i georgiani e le truppe del sultano dello shah del Khwarazm [Corasmia] /alai ai-Din in marcia verso Tiflis [Tbilisi], Tankh-i jalmngushà'i di Juvaym, manoscritto copto-persiano Shiraz (1437), supplem. persiano n. 206, folio 67, BN.

La condizione contadina

L E REALTÀ VISSUTE

Mesopotamia-Iraq (Vili secolo) Spopolamento [Al-Mansur] nominò un altro governatore e lo incaricò di contrassegnare e marchiare a fuoco gli uomini nella parte superiore del collo, c o m e fossero schiavi '. Dice il profeta: «E chiunque non ha ricevuto il marchio della bestia sulla fronte [,..]» 2 . In questo caso, però, gli uomini non recavano tale segno solo sulla fronte, ma anche su entrambe le mani, sul petto e perfino sulla schiena [...] 3 . Giunse quindi sul posto il nuovo governatore, e al suo arrivo fece tremare la regione più di tutti coloro che l'avevano preceduto. Infatti aveva avuto ordine di imprimere sulle mani degli abitanti un marchio indelebile, destinato a rimanere nello stesso identico punto per tutta la vita di coloro per le strade non c'era anima viva e che nessuno si recava in città dalle campagne, mandarono a dire al funzionario che era subentrato ad al-'Abb5s nella riscossione della tassa 4: «La gente fugge dinanzi al marchiatore, e se costui non se ne va sarà impossibile percepire l'imposta». Il funzionario, udendo queste cose, inviò un messaggio al marchiatore, che partì. Poi, per qualche tempo gli uomini beneficiarono di una tregua sotto quel profilo, perché egli morì durante il viaggio 5 . L'esilio Al-Mansur istituì un altro governatore, con il compito di ricondurre al suo paese e alla casa di suo padre ciascuno di «ccoloro che si erano dati alla fuga>. Costui, dal canto suo, designò ulteriori governatori e prese a inviarli nelle varie città, ma non necessariamente in quelle di loro competenza: anzi, spesso mandava il reggente di una di esse in un'altra, di m o d o che a volte i governatori di tutte le città della Mesopotamia si trovavano riuniti nello stesso luogo per affrontare il problema dell'esilio. Da allora non vi fu più scampo in nessun luogo, ma dappertutto regnarono il saccheggio, la malvagità, l'iniquità, l'empietà e ogni sorta di cattiva azione - calunnie, ingiustizie e vendette reciproche - non solo nei confronti degli stranieri, m a anche dei membri della propria famiglia. Il fratello tendeva insidie al fratello, il quale a sua volta lo consegnava ai governatori. Poi al-Mansur insediò un persiano [un funzionario di Baghdad] a Marda [Mardun], con l'incarico di ricondurvi i fuggitivi e di riscuotere il tributo. In questa città infatti le fughe erano state più massicce che in qualsiasi altra, e l'intera regione era occupata dagli arabi poiché i siriaci [le popolazioni indigene non musulmane] erano fuggiti al loro avanzare. Quest'uomo si chiamava KhalTl ibn Zadan. Egli inflisse molte sofferenze agli arabi, ed è impossibile trovarne l'uguale, prima e d o p o di lui, per l'animosità che manifestava contro di loro. Egli spedì vari emiri in tutte le città, e se questi scoprivano che un u o m o - oppure suo padre o suo nonno - aveva vissuto a Marda anche quaranta o cinq u a n t a n n i prima, lo strappavano alla sua casa, al suo villaggio, alla

sua terra, e lo riportavano in quella città. Per quest'uomo il presente non significava nulla, e su di lui la persuasione non aveva alcun effetto, così che ben pochi riuscivano a sfuggirgli. In tal m o d o egli radunò in quella regione una moltitudine tanto grande che non vi era luogo, né villaggio, né casa che non fosse pieno e non traboccasse di abitanti. Quindi costrinse gli arabi a trasferirsi da una regione all'altra e si impadronì di tutto ciò che possedevano; poi riempì le loro terre e le loro case di siriaci, e fece seminare il loro grano da questi ultimi. Inoltre catturò i più ricchi e inflisse loro senza alcuna pietà tormenti e supplizi di ogni sorta. Generalmente convocava uno di loro, gli faceva radere i capelli e la barba e indossare una corona di pasta, dopodiché lo esponeva al sole. Quindi gli versava dell'olio sul capo in m o d o che gli colasse a poco a poco sugli occhi, e così la sua testa era preda di atroci dolori. Poi gli faceva applicare alle cosce, alle dita, alle braccia catene strette e inserire delle «noci» di ferro negli occhi 6 . Queste erano le torture che egli infliggeva senza alcuna pietà agli arabi, molti dei quali morirono in seguito a esse. Gli altri fuggirono e presero a trasferirsi da un luogo all'altro [ . . . ] ' . Faremo conoscere anche i mali che si abbatterono sugli arabi, poiché nessuno sfuggì alle calamità che si verificarono in quel periodo a causa dei nostri numerosi peccati [...]". In verità, in questo caso il malvagio fu punito dal malvagio [...]. Gli arabi infatti si erano insinuati, c o m e il tarlo nel legno, tra gli sventurati contadini del luogo, prendendo le loro terre, le loro case, le loro sementi e il loro bestiame, tanto che ormai mancava poco che si appropriassero anche di loro e dei loro figli in qualità di schiavi: infatti, all'interno delle loro stesse proprietà, questi contadini lavoravano già come schiavi per gli arabi [...]. Ovunque non si sentiva parlare d'altro che di percosse e di crudeli supplizi; per giunta, in alcuni casi gli arabi portarono alla rovina i contadini che vivevano nelle loro terre: poiché infatti i governatori li caricavano di imposte, essi li costringevano a pagarle con loro fino a quando non li avevano rovinati e non si erano impadroniti di tutto ciò che possedevano. Allora essi fuggivano dalle loro abitazioni. Ma quello fu solo l'inizio della calamità e il principio della devastazione: infatti nel paese vi erano ancora risorse sufficienti, perciò i contadini non erano

ancora ridotti totalmente alla fame; tuttavia quei governatori perversi non erano mai sazi [...]*. Quando i capi di distretto e i governatori entravano in un villaggio, mettevano le mani sul prefetto del luogo e gli ordinavano di consegnare loro tutto il denaro che aveva riscosso. Quindi, aperto il sacco, prendevano tutto quello che volevano, dicendo: «Questa è la parte dell'emiro». Percuotevano senza pietà anche le persone rispettabili e i vecchi con i capelli bianchi. Da quel momento, ovunque non si sentivano altro che grida strazianti. Egli [il governatore] dava spesso manforte ai governatori incaricati di cercare i fuggitivi, rendendosi complice delle loro furfanterie. Li inviava agli estremi confini della provincia, incaricandoli giunsero nella regione di Mawsil [Mossul], alcuni uomini che si occupavano con amorevole sollecitudine della manutenzione delle sante chiese, e che avevano deciso di farsi carico dei problemi il sultano d'Egitto non dovessero beneficiare più dello status di minoranza protetta :

tale status risultava infranto a causa

della loro associazione con i musulmani che detenevano il potere.

Tale partecipazione al potere è contraria all'avvilimento e al disprezzo che sono alla base del p a g a m e n t o della jizya. È sufficiente che uno solo < o una parte> di loro abbia violato il patto perché esso risulti invalidato per tutti. dichiarò lecito versare il sangue degli ebrei e spogliarli dei loro beni, e presentò la necessità di reprimerli c o m e un obbligo più imperioso di quelli che abbiamo nei confronti degli altri infedeli. Egli scrisse a tale proposito un'opera composta di più capitoli < ? > , che lo fece entrare in conflitto con la maggior parte dei giuristi del suo tempo, tra i quali vi erano lo shaykh Ibn Zakri e altri di farina e frumento e un tuman d'argento in favore di ogni famiglia di emigranti 6 4 . A b r a m o di Creta

Palestina Ebrei e cristiani a Gerusalemme

(1700)

Noi [ebrei] fummo costretti a dare una grossa s o m m a di denaro alle autorità musulmane di Gerusalemme affinché ci consentissero di costruire una nuova sinagoga. Infatti, benché quella vecchia fosse troppo piccola e noi volessimo ingrandirla solo in misura minima, in base alla legge islamica era proibito apportarvi anche la più lieve modifica [...]. Oltre a quello che spendevamo in mance per guadagnarci il favore dei musulmani, ogni maschio [ebreo] era tenuto a pagare annualmente al sultano un testatico che ammontava a due pezzi d'oro. Il ricco non doveva dare di più, m a il povero non poteva dare di meno. Ogni anno, generalmente durante il periodo di Pasqua, arrivava a Ge-

Ebreo («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).

contratti di pace; [altre], c o m e II Cairo, Kufa, Bassora, Baghdad e Wasit, sorsero in aree disabitate che furono delimitate e poi popolate da musulmani; [infine] bisogna considerare tutti i villaggi che vennero conquistati con la forza, e che il califfo non ritenne opportuno restituire a coloro ai quali erano stati sottratti. Vi sono città islamiche in cui i «popoli protetti» [dhitnmi] non possono usare apertamente nessuno dei loro simboli religiosi: ad esempio edificare ima chiesa, esibire vino o carne di maiale, suonare le campane. Secondo l'opinione unanime dei giuristi, in queste città non può sorgere alcuna nuova sinagoga, chiesa, monastero o luogo di preghiera. Abbiamo già segnalato in precedenza che la nostra città, Il Cairo, è di origine islamica; essa fu fondata d o p o la conquista dell'Egitto, durante il regno dei fatimidi. Ecco perché al suo interno non p u ò essere costruita alcuna chiesa, sinagoga o altro edificio di culto. Tra coloro che lo affermano va annoverato il muftT islamico nonché erudito hanafita shaykh Qasim ibn Qutlubugha 7 6 , discepolo di Ibn alH u m a m 7 7 . I testi della sua scuola sono unanimi nel proibire la costruzione di chiese e altri monumenti analoghi di proprietà dei dhimmi in tutto il territorio islamico. Quindi c o m ' è possibile che ciò sia consentito in questa colonia islamica, in questa città in cui l'incredulità non ha mai preso piede sin dal m o m e n t o della sua fondazione? Il Profeta - pace e benedizione su di lui - ha detto: «Niente castrazione né chiese nell'islam». Ora, il termine per «castrazione», khisa, che segue lo schema fi'al™, è il sostantivo verbale di khsy, «castrare». Il nesso tra «castrazione» e «chiesa» sta nel fatto che l'erezione di una chiesa in territorio m u s u l m a n o comporta la perdita della virilità da parte dei suoi abitanti, proprio c o m e la castrazione implica di fatto la perdita della virilità da parte degli animali, sebbene, nel nostro contesto, la parola alluda a una disaffezione nei confronti delle donne generata da un eccessivo attaccamento alle chiese. La connessione è evidente. Dicendo: «Niente chiese», il Profeta intendeva: «Nessuna costruzione di chiese», ossia esprimeva un divieto, quello per cui non p u ò essere edificata alcuna chiesa in territorio islamico in quanto ciò implica la perdita della virilità per quanti vi abitano, il che non può essere consentito, così c o m e è vietato privare gli uomini della virilità mediante castrazione 7 9 .

Badanadji o armeno che imbianca le mura («Costumes turcs de la cour et de la ville de Constantinople en 1720, peints en Turquie par un artiste turc», Ms. Département des estampes, Bibliothèque nationale de Paris, s.d.).

Sebbene alcuni dati siano già ricavabili dalle precedenti affermazioni, sappi che, come ai dhimmì è proibito costruire chiese, così essi sono soggetti ad altre interdizioni. In primo luogo non devono recare aiuto a un miscredente a danno di un musulmano, arabo o meno, né devono rivelare al nemico i punti deboli dei musulmani, ad esempio la loro eventuale impreparazione al combattimento. Inoltre, i dhimtnT non devono imitare i musulmani nel m o d o di vestire, indossare uniformi militari, ingannare o colpire un musulmano, innalzare la croce in un'assemblea islamica, lasciare che i maiali escano dalle loro case ed entrino nei cortili dei musulmani, esibire bandiere durante le loro ricorrenze o portare armi nei loro giorni festivi, anzi, non devono portarle affatto e nemmeno tenerle in casa. Se fanno ima di queste due cose, devono essere puniti e le loro armi confiscate. Nessun ebreo né cristiano ha il diritto di andare a cavallo, con o senza sella. Essi possono invece montare un asino, m a con il basto. Non devono portare né la qaba né abiti di seta, e neppure il turbante, ma una qalansuwa [alto berretto conico] imbottita. Se passano vicino a un gruppo di musulmani, devono scendere dall'asino, che peraltro possono usare solo in caso di necessità, malattia o partenza per la campagna; comunque, anche in questi casi bisogna lasciare loro solo uno spazio ristretto. Essi non devono imitare il m o d o di vestire delle persone istruite e onorevoli, né indossare indumenti lussuosi, di seta o di altri tessuti pregiati. Devono distinguersi da noi nell'abbigliamento secondo gli usi propri di ciascun luogo, e non usare ornamenti, così da sottolineare la loro umiliazione, la loro sottomissione e la loro mortificazione. Perfino i lacci delle loro calzature non devono essere simili ai nostri, e, dove si usano scarpe chiuse e senza lacci, le loro devono essere grossolane e di colori sgradevoli. I Compagni [del Profeta] si sono trovati d'accordo su tali misure, che hanno la funzione di evidenziare l'avvilimento dell'infedele e di tutelare la fede del musulmano poco fervente. Infatti, se costui lo vedrà umiliato non sarà attratto dalla sua fede, al contrario di quanto accadrebbe se gli apparisse potente, fiero o rivestito di abiti lussuosi, cosa che potrebbe indurlo a stimarlo e ad avvicinarsi a lui, viste la sua miseria e la sua povertà. In breve, la stima per l'infedele è mancanza di fede. Nel trattato alasbah wa-al-naza'irm si dice: «La deferenza per l'infedele è mancanza di

fede. Chi saluta un dhimmT con deferenza è colpevole di infedeltà. Chi, rivolgendosi a un magio 8 1 , gli dice in tono deferente: " O Maestro", è reo di incredulità. È così perché essi sono i nemici del nostro diletto, il Signore dei Messaggeri, e chi onora i nemici del suo diletto umilia il suo diletto. Ecco perché è proibito nominare funzionario un infedele. Lasciare che egli prenda il sopravvento su un musulmano conferendogli il potere di picchiarlo, di imprigionarlo o di opprimerlo per estorcergli del denaro fa dell'infedele un esattore fiscale nei confronti del musulmano. Il tutto per conto di un capotribù o di un dignitario che, per ragioni meramente temporali e disprezzando la punizione che ci attende nell'aldilà, non teme le conseguenze della scelta di conferire al miscredente potere sul credente. Se l'infedele ha agito in questo modo, egli ha violato il patto [dhimma] con i musulmani citato in precedenza, e può essere messo a morte». Kamal ibn al-Humam [morto nel 1457] dice: «L'infedele dhimmT che si innalza al di sopra dei musulmani in modo tale da opprimerli può essere messo a morte dal califfo». È proibito assegnare loro un posto d'onore in un'assemblea di musulmani, manifestare amicizia nei loro confronti e salutarli. Se avete salutato qualcuno che credevate musulmano, per poi scoprire che si trattava di un dhimmT, ritirate il vostro saluto adducendo il pretesto: «Ha risposto al mio saluto». Se uno di loro vi saluta, rispondetegli solo: «Altrettanto a te». Se siete in corrispondenza con un dhimmT, usate la formula: «Saluti a chi segue la retta via», ma evitate di congratularvi con lui, di consolarlo o di fargli visita a meno che non speriate di convertirlo all'islam. Se è questo che vi aspettate, andate pure a trovarlo e proponetegli l'islam. L'infedele non può costruire una casa più alta di quella del suo vicino musulmano, anche se questa è molto bassa e se il musulmano accetta senza problemi l'altezza della sua casa. Egli non ha il diritto di acquistare una copia del Corano o un testo di diritto islamico o relativo alla tradizione profetica 82 , né di prenderli in pegno, poiché questo non sarebbe corretto. Come si è già detto in precedenza, non bisogna alzarsi di fronte a lui e salutarlo per primi. Se insieme all'infedele che vi accingete a salutare c'è un musulmano, porgete a lui il vostro saluto, e non lasciatevi andare a espressioni del tipo: «Come va? Come stai? Come ti senti?».

È invece consentito dire: «Che Dio ti onori e ti guidi», sottintendendo: «All'islam», come pure: «Che Dio ti conceda una lunga vita, grandi ricchezze e molti figli» perché questo implica il pagamento di numerose imposte prò capite. C o m e i musulmani devono differenziarsi nettamente dagli infedeli in vita, così anche le loro tombe devono essere chiaramente distinte da quelle dei miscredenti, ed essere situate lontano da esse 8 3 . al-DamanhurT

Turchia Lettere degli ambasciatori britannici a Costantinopoli

(1662-1785)

Lettera di sir James Porter a sir William Pitt, Londra Costantinopoli, 3 febbraio 1758 [...] Le proibizioni relative all'abbigliamento dei cristiani e degli ebrei, che vietano loro qualsiasi indumento che non sia di tessuti modesti e di colore nero o bruno, nonché quelle concementi i copricapi e gli stivali, sono applicate con il più grande rigore e in una forma sino a oggi sconosciuta, che preoccupa molto tutti coloro che non sono maomettani, e li induce a temere di incorrere in terribili punizioni; eppure ciò sembra del tutto naturale se si considera che proviene da un principe devoto e ascetico [il sultano Mustafa III] M . Lettera di sir John Murray a lord Thomas Weymouth, Londra Costantinopoli, 17 settembre 1770 [...] Il Bostanci Bashi85 è cambiato, e il nuovo funzionario ha immediatamente emanato dei decreti [in base ai quali] nessun greco, armeno o ebreo deve farsi vedere fuori di casa mezz'ora dopo il crepuscolo; pertanto, se incontrasse per strada uno qualunque [di loro] d o p o l'ora [stabilita], lo farebbe impiccare senza distinzioni. Si suppone che la ragione di questo editto sia che i turchi escono travestiti con abiti [non musulmani] K .

Marocco (XIX secolo) Lettera del sultano del Marocco Mulay Abd al-Rahmdn (1822-1859) sole di Francia a Tangeri

al con-

(1841)

Gli ebrei del Nostro fortunato Paese hanno ricevuto garanzie delle quali beneficiano in cambio del rispetto delle condizioni imposte dalla Nostra Legge religiosa ai popoli che g o d o n o della protezione [dhimma\: tali condizioni sono state osservate, e lo sono tuttora, dai Nostri correligionari. Se gli ebrei le rispettano, la nostra Legge vieta di versare il loro sangue e ordina di rispettare i loro beni, m a se violano anche una sola di esse, la Nostra Legge autorizza a versare il loro sangue e ad appropriarsi dei loro beni. La Nostra gloriosa religione attribuisce loro unicamente i marchi della mortificazione e dell'avvilimento, per cui il solo fatto che un ebreo alzi la voce contro un musulmano costituisce una violazione delle condizioni su cui si basa la protezione. Se «in casa vostra» essi sono uguali a voi in tutto e per tutto, se sono assimilati a voi, questo va benissimo per il vostro paese, m a non per il Nostro. Tuttavia il vostro status nei Nostri territori è diverso dal loro: voi siete dei «riconciliati», mentre loro sono dei «garantiti». Così, se uno di loro viene a commerciare nel Nostro fortunato Impero, deve conformarsi agli stessi obblighi a cui sono soggetti i «protetti» in casa Nostra, e portare gli stessi segni esteriori [di discriminazione]. Colui che non è disposto a osservare tali obblighi, non deve far altro che restare nel suo paese, poiché noi non abbiamo bisogno dei suoi commerci se essi sono esercitati in condizioni contrarie alla Nostra Legge benedetta. [...] [Lettera] terminata il 20 del mese sacro di dhu al-Hijja87 dell'anno 1257 9 8 . Eugène F u m e y

Afghanistan Cacciata degli ebrei da Mashhad (1839) e da Herat

(1857-1859)

Nell'anno 1839, in seguito a un'ondata di diffamazioni, il giovedì 13 del mese di nisan [marzo-aprile] i musulmani insorsero contro i nostri

padri, e minacciarono di uccidere e annientare tutti gli ebrei [di Mashhad] e di spogliarli di tutti i loro beni se non si fossero convertiti all'islam. Trentun ebrei furono trucidati, e, se non fosse stato per la grazia di Dio, saremmo morti tutti. [...] Qualche tempo dopo, coloro che desideravano rimanere fedeli alla parola di Dio lasciarono la città di Mashhad e si recarono a Her5t [Afghanistan nord-occidentale], dove, a partire dal 1840, vissero in pace e al sicuro per 15 anni. [...] Ma nell'anno 1856, a causa dei nostri numerosi peccati, l'esercito di Nasser alD m Shah Qajar 89 attaccò e tenne sotto assedio per nove mesi la città di Herat. Alla fine del mese di tishri [ottobre] 1857, la città cadde senza colpo ferire, in seguito a un tradimento. Da allora, [gli assalitori] cominciarono a umiliarci con accuse di ogni genere e a minacciarci dicendo: «Voi avete perpetrato questo o quel crimine, e quindi noi vi puniremo in questo o quel modo». Ci calunniarono con accuse menzognere al cospetto del nostro re e dei suoi principi, persuadendoli a bandirci dalla città e a inviarci in esilio a Mashhad. Così, il 15 sebat [gennaio-febbraio] del 1858 gli aggressori piombarono su di noi sferrando colpi mortali e dicendo: «Uscite dalle vostre case: è un ordine del re». Poi sbatterono tutti - uomini, donne e bambini - fuori di casa, senza risparmiare n e m m e n o i vecchi e i lattanti, senza misericordia né c o m p a s s i o n e T u t t a la città risuonava dei lamenti dei poveri e degli orfani. N o n a v e m m o neppure il tempo di raccogliere i nostri effetti personali e di preparare delle provviste perché, nel giro di tre giorni, tutti gli ebrei furono cacciati dalla città e radunati in un luogo chiamato Musalla. Il 19 sebat iniziarono a deportarci, e per 30 giorni avanz a m m o senza sosta, circondati da soldati musulmani. Faceva freddo, dal cielo cadevano neve e grandine, e molte persone perirono lungo il cammino a causa del freddo estremo, della penuria di viveri e di innumerevoli altre calamità. Giungemmo a Mashhad nel mese di adar [febbraio-marzo], m a non f u m m o autorizzati a entrare in città: fummo invece rinchiusi in un recinto per animali all'interno della fortezza conosciuta c o m e Bab Qudrat. Esso non era altro che ima prigione, e le sue anguste dimensioni accrebbero la nostra vergogna e la nostra umiliazione. Per le enormi sofferenze, alcuni dei nostri fratelli si convertirono all'islam. Di noi si sarebbe potuto ben dire: «Di fuori la spada li priverà dei figli, dentro le case li ucciderà lo spavento» [Dt. 32,25], per-

Sulak Bashi (capitano delle guardie) (Charles de Fériol d'Argentai, «Explication de cent estampes qui représentent différentes nations du Levant avec nouvelles estampes de cérémonies turques qui ont aussi leurs explications», Jacques Collombat, Paris 1715, tavola 16).

ché i nostri carcerieri ci picchiavano tutti i giorni con grande brutalità e ci estorcevano l'importo del noleggio dei cammelli che a v e v a m o portato con noi [...]; inoltre, e r a v a m o tormentati dalle malattie e dalla pestilenza, e molti di noi morirono. Soffrimmo infinite altre sventure che sarebbe tedioso elencare, perché, c o m e si suol dire, «La prigionia è peggio della spada della morte» [TB, Baba Bathra, 8 b ] " . Restammo lì per due anni interi, fino a che in Cielo i nostri peccati furono perdonati, e il re si decise a permetterci di tornare alle nostre case. Partiti da Mashhad nel mese di kislev [novembredicembre] del 1859, arrivammo a Herat il lunedì 13 tebet [dicembregennaio], e ciascuno potè rientrare a casa propria 9 2 . Mattatia Garji

Si tratta del califfo HarOn al-Wathiq (842-847). Al-Mutawakkil regnò dall'847 all'861. [Il calendario islamico parte dal 622, l'anno dell'egira di Maometto da Medina a La Mecca; tuttavia, poiché si tratta di un calendario lunare, per determinare le corrispondenze tra anno islamico e anno gregoriano non è sufficiente sottrarre 622 a quest'ultimo, ma occorre utilizzare una speciale formula N.d.T.]. 1

2

Bar Hebraeus [Abu al-Faraj ibn Harun al-MalatT], The Chronography of Gregory Abu'l Fara), the Son of Aaron, the Hebrew Physician Commonly Known as Bar Hebraeus, trad. di Ernest Alfred Wallis Budge, 2 voli., Oxford University Press, Oxford 1932, voi. 1, p. 141 [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2003; http://rbedrosian.com/BH/bh.html N.d.T.]. 'Ivi, p. 183. 3

Si tratta in realtà dell'imam di Egitto e Siria: infatti i califfi fatimidi, antagonisti di quelli abbasidi e omayyadi, preferivano definirsi imam, in linea con la tradizione sciita a cui appartenevano [N.d.T.]. 6 E la chiesa del Santo Sepolcro, chiamata anche chiesa della Resurrezione dai cristiani di rito ortodosso [N.d.T.]. 7 Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, p. 184. "Johannes Obadiah era il figlio di un condottiero normanno, Drochus, signore del feudo di Oppido Lucano, in Basilicata, all'epoca (XI secolo) sotto il dominio normanno. Mentre suo fratello, Rogier, fu cavaliere e poi barone delle sue terre, Johannes prese gli ordini religiosi, ma nel 1102 si convertì al5

l'ebraismo (di qui l'appellativo di proselito), assunse il nome di Obadiah e, subito dopo la prima Crociata, si trasferì in Medio Oriente e scrisse estesamente delle sue esperienze in molte di quelle regioni. Nulla di certo si sapeva di lui fino al XX secolo, quando importanti frammenti delle sue memorie furono scoperti tra le collezioni di manoscritti Geniza di II Cairo (si tratta dei circa 200.000 documenti rinvenuti nel 1864 da Jacob Saphir nella geniza, cioè nel deposito di documenti, della sinagoga Ben Ezra di D Cairo, risalenti ai secoli IX-Xm) e di altre biblioteche europee e americane. Le pagine erano sufficientemente ben conservate, tanto da permettere di gettare luce su vari eventi storici non documentati in nessun'altra fonte, nonché di ricostruire la sua identità di proselito e di musicista grazie alle minuziose indicazioni geografiche e topografiche presenti nella sua Cronaca e alle indagini di Shlomo Dov Goitein, Alexander Scheiber, Normann Golb e Leo Levi http://www.oppidolucano.net/cultura/obadiah.html [N.d.T.]. 'Il termine «caratteri sacri» non designa le semplici lettere dell'alfabeto ebraico, ma l'antico ebraico, noto come paleoebraico, usato ai tempi di Mosè e di Davide [N.d.T.]. 10 Alexander Scheiber, The Origins ofObadyah, the Norman Proselyte, «JJS» 5, n. 1,1954, p. 37. 11 Hady Roger Idris, Contributions à l'histoire de l'Ifriqiya (d'après le Riyad anNufus d'Abu Bakr El-Maliki), «REI», n. 9,1935, p. 142 [L'allusione alle scimmie e ai maiali è tratta da Corano V,60 N.d.T.]. 121 kharijiti (lett. «coloro che uscirono») sono un movimento separatista sorto in seno all'islam in seguito all'uccisione del terzo califfo 'Uthman (656) e all'avvento al potere di 'Ali, quarto califfo legittimo per i sunniti, nonché primo califfo legittimo e primo imam per gli sciiti. I kharijiti, inizialmente seguaci di 'Ali, in seguito si separarono da lui e dalla umma. Le sette che si rifanno a tale movimento si ispirano a due principi fondamentali: ogni uomo religioso e puro, anche uno schiavo, può essere eletto califfo, ma, qualora si riveli indegno o incapace, dev'essere deposto e messo a morte; la fede è subordinata alle opere e ogni peccato è un atto di infedeltà: chi lo commette, ad esempio un ribelle alla legittima autorità califfale, va considerato decaduto dalla sua qualità di membro della umma, e, in quanto murtadd (apostata) è lecito ucciderlo. I kharijiti, inoltre, accettano solo l'interpretazione letterale del Corano, e hanno formulato una loro raccolta di leggi e di hadith [N.d.T.]. 13 Lett. «il (mese) vuoto», è il secondo mese del calendario islamico, considerato il più infausto del calendario perché nel corso di esso Adamo fu cacciato dall'Eden [N.d.T.].

'Izz ai-Din ibn al-Athir al-Jazarî, Annales du Magreb et de l'Espagne, trad, e note di Edmond Fagnan, Adolphe Jourdan, Algeri 1898 (ripr. anast. GAL, GrandAlger Livres, Alger 2007), pp. 328-329. 14

Generale sconfitto da Abu Yazld. " Al-Jazarî, Annales du Magreb et de l'Espagne cit., p. 330. 17 Ivi, p. 331. 18 Nel Medioevo servitore addetto alla custodia e alla cura del palafreno (cavallo da sella e non da battaglia, usato per viaggi o parate), dell'equipaggiamento del cavaliere e della sua persona [N.d.T.]. 15

" Evariste Lévi-Provençal, Seville musulmane au début du XII""e siècle. Le traité d'Ibn 'Abdun sur la vie urbaine et les corps de métiers (trad., introd. e note), «Islam d'hier et d'aujourd'hui», vol. 2, Maisonneuve, Paris 1947, p. 110 (edizione on line al link: http://classiques.uqac.ca/classiques/levi_provencal_evaris te / seville_musulmane_l 2e / levi_provencal_Ibn_Abdun.doc ; Maisonneuve & Larose, Paris 2001; trad. it. di Francesco Gabrieli, Il trattato censorio di Ibn 'Abdtìn sul buon governo di Siviglia, in «Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche della Reale Accademia nazionale dei Lincei», serie VI, voi. 11, fase. 11-12, Roma 1936, pp. 878-935 [N.d.T.]). Ivi, p. Ivi, p. 22 Ivi, p. 23 Ivi, p. 20 21

112. 114. 123. 128.

Abu Yusuf Ya'qûb al-Mansûr (1184-1198), sovrano almohade della Spagna e del Nord Africa. Gli ebrei e i cristiani sono stati costretti a convertirsi all'isiàm. 24

'Abd al-Wâhid al-Marrâkushî, Al-mu'jib fi talkhls akhbSr ahi al-Maghrib (Histoire des Almohades), trad, di Edmond Fagnan, Adolphe Jourdan, Algeri 1893, pp. 264-265.

25

Ibn al-Fuwatì, al-HawOdith al-jSmi'a (Storia completa di Baghdad), Mustafa Jawad, Baghdad 1932. 26

"Termine del linguaggio giuridico indicante un documento che attesta il diritto di un creditore a esigere un credito www.lef.ch/dottrina/ LEF82_agg_2005_02_18.pdf [N.d.T.]. Ghâzi ibn al-Wâsiti in Richard James Horatio Gottheil, An Answer to the Dhimmis and to Those Who Follow Them, «JAOS», n. 41,1921, pp. 439-440. M Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abii'l Faraj cit., vol. 1, p. 449. 30 Ivi, p. 451. 28

Tur Abdin, tra Mardin e Mossul, nella Jazïra, era un centro giacobita.

31

Una nota, presente sia nella traduzione che nell'introduzione del curatore, segnala che in questa data Bar Hebraeus morì e che la sua cronaca fu continuata da qualcun altro. 32

Si noterà la confusione tra le date greche e arabe. L'espressione, palesemente eufemistica, evoca gli stupri compiuti dai banditi [N.d.T.] 35 Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, pp. 475477. 33 34

Ivi, pp. 483-484. Funzionario musulmano che persuase il suo signore, l'Il-Khan Ghazan (1295-1304), a convertirsi all'islam, e diede così il via a un'ondata di persecuzioni contro i buddisti e i cristiani [l'IlKhanato o U-Khanato era un Khanato mongolo comprendente Persia, Iraq, Afghanistan, Azerbaijan, parte della Siria e del Pakistan, N.d.T.]. 36 37

Allude ai templi buddisti, in particolare alle pagode, la cui originaria funzione - come attesta l'etimologia, che rinvia al persiano butkada (but, idolo, immagine + kada, dimora, tempio) - doveva essere quella di ospitare le immagini sacre, a differenza degli stupa, per lo più destinati a conservare le reliquie [N.d.T.]. 38

"Quest'espressione si incontra spesso in autori greci, armeni e siriaci in riferimento ai musulmani. Ciò è dovuto al fatto che, all'epoca, l'islam era percepito come una religione portata da popoli stranieri, generalmente nomadi. " I n riferimento agli eventi accaduti dopo la morte dell'Il-Khan Argun (1284-1291) e l'esecuzione del suo visir, l'ebreo Sa'd al-Dawla, Bar Hebraeus scrive: «Non c'è lingua che possa narrare, né penna che possa descrivere le prove e la collera che si abbatterono sugli ebrei in quel periodo». Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, p. 491. Gli abitanti di Ninive, città situata di fronte a Mossul. Bar Hebraeus, The Chronography of Gregory Abu'l Faraj cit., voi. 1, pp. 507508. "Si tratta di al-Malik al-Mu'ayyad Abu Nasr (1412-1421), sultano mamelucco d'Egitto della dinastia Burji [N.d.T.]. J1

12

Abu al-Mahasin ibn Taghribirdl, al-Nujum al-Zàhira fi Muluk Misr wa-alQahira (Le stelle brillanti nei regni dell'Egitto e di II Cairo). Extraits relatifs au Maghreb, a cura di Edmond Fagnan, Imprimerie D. Braham, Constantine 1907, «Recueil des notices et mémoires de la Société archéologique de Constantine», n. 30,1906, pp. 115-116. 44

Ivi, p. 117. Muhammad ibn 'Ali ibn 'Askar, Dawha al-nasir (L'alba della vittoria), in Georges Vajda, Un traité maghrébin «Adversus Judaeos»: Ahkùm ahi al-Dhim>5

46

ma du shaykh Muhammad ibn 'Abd al-Karlm al-Maghîlî, in Extraits des études d'orientalisme dédiés à la mémoire de Lévi-Provençal, Paris 1962, p. 806. 47 Ibn 'Abd al-Karim al-Maghill, in ivi, p. 811. 48 A1-'Adâwi Ahmad al-Dardïr, Fetoua (= Fa twit) 11772], trad, di FrançoisAlphonse Belin, «JA», 4 a serie, n. 19,1852, pp. 107-108. 491 trasferimenti di popoli furono sempre effettuati su larghissima scala, sia dagli arabi all'epoca delle loro conquiste che dai selgiuchidi, dagli ottomani e dai safavidi. Qui riportiamo alcune testimonianze che attestano come furono vissuti questi traumi. Per le deportazioni dei bizantini da parte dei turchi vedi Speros Vryonis Jr., The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1971 1 (1986); per le comunità ebraiche all'interno dell'Impero ottomano vedi Joseph Hacker, The Siirgiin System and Jewish Society in the Ottoman Empire during the 15th-17lh Centuries, «Zion», n. 55, 1990, pp. 27-82 articolo in lingua ebraica [trad. ingl. in Aron Rodrigue (a cura di), Ottoman and Turkish JewryCommunity and Leadership, Indiana University Turkish Studies Dept., Bloomington (USA) 1992, pp. 1-65], 50 II termine am.Tr, successivamente evolutosi in senso politico (cfr. il nostro «emiro»), ha qui il significato originario di «comandante» [N.d.T.]. 51 La deportazione degli armeni si inserisce nel quadro dell'annosa disputa persiano-ottomana per il possesso dell'Armenia, iniziata nella seconda metà del XIV secolo, con l'ascesa degli ottomani nell'Anatolia centrale e occidentale e nei Balcani, e l'affermarsi in Iran della dinastia dei safavidi. La disputa, culminata, all'inizio del XVII secolo, nel fallito tentativo di cacciare gli ottomani dal territorio armeno da parte di shah Abbas I, che durante il ritiro aveva costretto gli abitanti di Julfa a emigrare a Isfahan, si sarebbe conclusa negli anni 1735-36 con la conquista persiana della Transcaucasia meridionale, inclusa l'Armenia orientale http://www.mekhitar.org/ITA/storia6.shtml [N.d.T.]. Titolo persiano indicante un capo politico o militare; qui «comandante» [N.d.T.]. 53 Arakel di Tabriz, Livre d'histoires in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Collection d'historiens arméniens: dix ouvrages sur l'histoire de l'Arménie et des pays adjacents du Xe"* au XIX*™ siècle, 2 voli., Saint Petersbourg 1874-1876 1 (Apa, Amsterdam 1979 2 ), vol. 1, pp. 287-295. 52

1 jelalT (turco celali) erano un gruppo di tribù ribelli dell'Anatolia che diedero vita a una serie di rivolte contro l'Impero ottomano nel XVI e XVII secolo. Il loro nome deriva da quello del predicatore Celai, leader della prima rivolta (1519). Il fenomeno cessò sotto il regno di Murad IV (1612-1640) [N.d.T.]. 54

Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., voi. 1, pp. 309-10. " U n o dei quartieri di Isfahan era abitato da sempre da ebrei, e si chiamava Yehudiyah. 55

57 Secondo il Corano Mosè (Musa) fu un grande uomo, uno dei maggiori profeti che precedettero Maometto, nonché la figura biblica menzionata più di frequente [N.d.T.].

Antica valuta persiana in oro, del valore di 10.000 dinar. Tuttora in Iran esiste una moneta con questo nome, ma di valore assai inferiore (equivale a 10 rial) [N.d.T.]. 58

Allude alla macellazione rituale degli animali, la cosiddetta shechitah, che dev'essere effettuata secondo regole ben precise. Essa prevede l'uccisione dell'animale con un solo taglio alla gola eseguito con un coltello affilatissimo, in modo da provocarne l'immediata morte e il completo dissanguamento. Ogni animale non macellato secondo queste regole è automaticamente impuro. http://www.pisaebraica.it/ebraismo/kasherut2.htm [N.d.T.]. 59

Nel 1661 un editto autorizzò gli ebrei a professare apertamente la loro religione, a condizione che pagassero la jizya e portassero un segno distintivo sugli indumenti.

60

Arakel di Tabriz, Livre d'histoires cit., voi. 1, pp. 489-496. " I l kalantar era un alto ufficiale equivalente a un maggiore nell'esercito persiano, di grado inferiore al khan ma superiore al melik, nobile armeno con funzioni di alto ufficiale ed esattore fiscale in Persia e nell'Armenia orientale nei secoli XIV-XVIII [N.d.T.]. 61

Unità di misura ponderale in uso nel Mediterraneo (Grecia, Palestina) e in Medio Oriente, equivalente a circa 327,45 g. Secondo alcuni è il corrispettivo greco e semitico del latino libra http://www.2iceshs.cyfronet.pl/ 2ICESHS_Proceedings/Chapter_l 6/R-8_Nikolantonakis.pdf; http://www.ancientlibrary.com/smith-dgra/0716.html [N.d.T.].

63

Abramo di Creta, Histoire de Nadir-Chah, in Collection d'historiens arméniens cit., voi. 2, pp. 278-279.

64

Queste procedure - incarcerazione e riscatto dei tributari - sono già state ampiamente menzionate dallo Pseudo-Dionigi di Teli Mahre, da Michele il Siro, dai documenti della geniza [cfr. supra, nota 8] pubblicati da Shlomo Dov Goitein, da autori armeni e stranieri quali D'Arvieux, Taver65

nier ecc. Esse possono essere considerate come elementi costanti della dhimmitudine. "Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym (Pregate per la pace di Gerusalemme), Berlino 1716 (testo in lingua ebraica), folii 3 a-b. 67 Allude alle principali festività religiose ebraiche, nate dalle prescrizioni bibliche risalenti ai tempi di Mosè e specificate in Levitico 23 [N.d.T.]. "Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym cit., folio 7 b. Ivi, folii 8 b-9 a. Si tratta del talled (o anche tallii, talit, taled), indumento rituale ebraico la cui origine risale ai tempi della compilazione della Torah: nella sua forma più comune consiste in un telo rettangolare, in genere di lana, seta, lino o cotone, di varia grandezza, più o meno decorato e dotato di frange agli angoli e spesso anche (più corte) su due dei lati [N.d.T.]. 69 70

Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym cit., folii 13 a-b. Nel 1730, per evitare rappresaglie, il console di Francia fece togliere dal suo alloggio una tenda di tela verde, colore riservato ai soli «sceriffi» (sharìf), ossia i discendenti del Profeta: vedi François Charles-Roux, Les échelles de Syrie et de Palestine au XVIIIe siècle, Geuthner, Paris 1928, p. 54. 71

72

Gedaliah di Siemiatycze, Sha'alu Shelom Yerushalaym cit., folio 13 b. Badr al-Dîn Muhammad al-Qaraft (1533-1601), autore del trattato di giurisprudenza al-Durar al-nafs'is. 73

74

Abu 'Ubayd al-Qâsim (morto nell'838), studioso vissuto in Iraq [autore del KitSb al-amwal (Il libro delle entrate fiscali), Ithaca Press, London 2005, N.d.T.]. 75

Qâsim ibn Qutlubugha (1399-1474), insigne erudito egiziano della scuola hanafita.

76

" K a m a l al-Dìn Muhammad ibn al-Humâm (morto nel 1457), giurista egiziano. Particolare schema vocalico impiegato per la creazione dei sostantivi dai temi verbali http://www.glottodidattica.net/Articoli/articolo4_01.pdf [N.d.T.]. 78

Ahmad ibn 'Abd al-Mun'im al-Damanhûrï, IqSmat al-hujja al-bdhira 'alshadm kanà'is Misr wa-l-Qnhira, in Moshe Perlmann, Shaykh Damanhuri on the Churches of Cairo (1739), University of California Press, Berkeley 1975, pp. 20-21.

79

""Titolo di numerosi libri sulla «struttura sistematica della legge positiva». L'opera citata è forse quella di Ibn Nujaym (morto nel 1562), autore hanafita di testi di questo genere.

Sacerdote e sapiente delle antiche religioni mesopotamico-persiane, in questo caso di quella zoroastriana [N.d.T.]. 82 Allude alla sunna, la raccolta degli atti e dei detti del Profeta trasmessi 81

negli hadïth, la seconda fonte della Legge islamica (sharT'a) dopo lo stesso Corano [NAT.]. 83 Al-Damanhûrï in Perlmann, Shaykh Damanhuri on the Churches of Cairo cit., pp. 55-57. 84 Lettera di sir James Porter, ambasciatore britannico a Costantinopoli, a sir William Pitt, ministro degli Affari Esteri, Londra, SP (State Papers) 9740 (n.p.) [= no page, senza numero di pagina, N.d.T.]. 8 5 Capo delle guardie del sultano Mustafa III [N.d.T.]. 86 Lettera di sir John Murray, ambasciatore britannico a Costantinopoli, a lord Thomas Weymouth, ministro, Londra, SP 97-46, pp. 216-216b. 87 Dodicesimo mese del calendario islamico, sacro perché dedicato al compimento dei riti di pellegrinaggio [N.d.T.] 88 Eugène Fumey, Choix de correspondances marocaines (50 lettres officielles de la cour chérifienne), Maisonneuve, Paris 1903, pp. 14-16. 89 Noto anche come Nasr al-Dïn Shah Qajâr (pers. Nasisiri al-Dïn Shah Qajar), fu shah di Persia dal 1848 al 1896 [NAT.]. T e r un'altra descrizione di questi eventi cfr. Nikolaj Vladimirovii Khanikoff [Nicolas de Khanikoff], Méched, la Ville Sainte, et son territoire: extraits d'un voyage dans le Khorassan [1858], «Le Tour du Monde: nouveau journal des voyages publié sous la direction de M. Edouard Charton et illustré par nos plus célèbres artistes», anno 2°, 2° semestre, Paris 1861, pp. 280-282. " TB sta per Talmud Babilonese e il Baba Bathra («ultima porta») è uno dei 63 trattati che lo compongono [N.d.T.]. Mattatia Garji [Gorgi] in Reuven Kashani (a cura di), Qorot ha-Zemanim (Chronique du Judaïsme Afghan [du rabbin Matathias Gargi] (ebr.), «Shevet veAm», nuova serie, n. 1, Jerusalem 1970, pp. 12-13.

92

L'età dell'emancipazione

IMPERO OTTOMANO

Rapporti dei diplomatici britannici

(1850-1876)

Lettera di lord Hugh H. Rose a sir Stratford

Canning

Beirut, 31 ottobre 1850 Il sig. Console Werry ha già informato Vostra Eccellenza dei deplorevoli eventi di Aleppo

e la mole di deposizioni pervenutemi sullo

stesso argomento ha contribuito a gettare una luce ancor più fosca su questi incidenti. Citerò alcuni fatti, i quali proveranno che, se non fosse stato per l'imperdonabile comportamento delle autorità civili e militari turche, la rivolta avrebbe potuto essere facilmente repressa. [...] Dopo aver consentito agli insorti di commettere, durante la notte, ogni sorta di atrocità nel quartiere cristiano, al mattino Kertm Pasha fece quella che definì «una dimostrazione militare», ossia fece sfilare le sue truppe e i suoi cannoni, al suono della fanfara, attorno al quartiere dove, in pieno giorno, i rivoltosi incendiavano e saccheggiavano chiese, trucidavano esponenti del clero e laici, violentavano le donne cristiane davanti ai loro parenti più prossimi e più cari. Gli insorti avevano capito benissimo la natura di questa pusillanime parata, perché il sig. Werry ha riferito «che durante e dopo la dimostrazione le atrocità a Guedidah proseguirono». Finalmente, dopo 24 ore di violenze ininterrotte, fu inviato nel quartiere cristiano un piccolo contingente guidato da un civile, 'Abd Allah Bey, e pochi [soldati] regolari musulmani, che

ripristinarono l'ordine. Questo fatto, c o m e ho già affermato, prova quanto sarebbe stato facile per le autorità ristabilire l'ordine fin dall'inizio. [...] Gli avvenimenti di Aleppo hanno suscitato in tutte le etnie, e a qualsiasi livello della scala sociale, un'impressione quale non avevo mai visto prima. La popolazione di Aleppo è la comunità più ricca e meglio amministrata della Siria. Che una comunità come questa, in un periodo di pace assoluta, vivendo sotto la protezione di un governo organizzato, di due pasha e di una guarnigione di truppe regolari armate, possa ritrovarsi vittima - senza la più piccola provocazione da parte sua e senza il minimo preavviso - di atrocità che ben di rado si verificano anche in una città preda di tumulti, è un fatto che, con mio grande rammarico, ha generato una reazione particolarmente ostile nei confronti del governo che se ne è reso responsabile. I cristiani di Siria, perfino quelli che sono sotto la protezione delle truppe regolari e delle autorità, tremano al pensiero di poter condividere la sorte dei loro correligionari di Aleppo. Ovviamente i timori di coloro che vivono dove non vi sono né truppe regolari, né rappresentanti governativi, sono ancora più forti 2 . Lettera del console James Finn al conte di Malmesbury,

Londra

Gerusalemme, 8 novembre 1858 Continuando a riferire circa le apprensioni dei cristiani di fronte alla ripresa del fanatismo fra i musulmani, ho l'onore di informarla che mi vengono trasmessi rapporti quotidiani sugli insulti e gli atti di violenza dei quali sono vittime per le strade gli ebrei e i cristiani. Benché generalmente insignificanti, questi fatti accadono di frequente. Le vittime, se si tratta di indigeni, hanno paura di informare le autorità turche, in quanto, malgrado il Hatt-i HùmUyun3, che io sappia non esiste a tutt'oggi un solo caso in cui la testimonianza di un cristiano a carico di un musulmano sia stata accolta in un tribunale distrettuale o in una corte d'assise (medjlis) 4 . Si sono avuti casi di musulmani puniti per aver offeso dei cristiani, ma solo in m o d o sommario e senza un processo formale, o senza che fosse stata registrata la deposizione del cristiano (si possono trovare esempi di tale giustizia nelle Mille e una notte, il che attesta che essa esisteva già prima del Hatt-i

Humayun).

Ma gli stessi incresciosi eventi si verificano anche a danno di personaggi importanti. Solo pochi giorni fa Sua Beatitudine il Patriarca greco stava tornando, attraverso i vicoli, dalla Corte di Giustizia del qadi (dove forse si era recato a far visita al nuovo qOdT), preceduto dai suoi cavassi5 e dai suoi dragomanni, quando ha dovuto sorbirsi un fuoco di fila di maledizioni contro la sua religione, le sue preghiere, i suoi padri ecc. E ciò [è accaduto] qui a Gerusalemme, dove sventolano le bandiere dei consoli cristiani, compresi quelli russi. Ma questo stato di cose può durare ancora a lungo? Questo è il genere di incidente la cui funzione è rivelare gli umori dell'opinione pubblica piuttosto che portare alla punizione dei colpevoli, punizione che, peraltro, difficilmente potrebbe essere messa in atto. M a esso non sarebbe potuto accadere all'epoca di Kiamil Pasha, nonostante egli fosse il protettore degli interessi latini 6 . L'attuale pasha si vanta di non prestar fede troppo facilmente alle lamentele dei cristiani. Di recente, in un momento di distrazione, ha confessato al mio dragomanno che, al di là dei suoi compiti abituali, la sua vera missione non è tanto demoralizzare i cristiani quanto piuttosto ridimensionare o ridurre l'influenza europea. Chiedo il permesso di esprimere la mia opinione su questo punto. Che tra i pochi patrioti turchi prevalga una simile aspirazione, purché resti confinata nella sfera dei sentimenti e non sfoci nell'azione, è giustificabile, ma sfortunatamente essi pensano di poter realizzare il loro obiettivo soltanto paralizzando il progresso del loro stesso popolo. Pertanto i lavori pubblici non sono solo intralciati: sono impediti d'autorità. Il benché minimo tentativo di dar voce all'opinione pubblica attraverso la stampa viene soffocato, e siccome gli europei sono cristiani, ed essi devono essere ostacolati, l'indipendenza dell'Impero turco viene fatta consistere nell'indipendenza dell'islam 7 . Allegato alla lettera del console James Finn al conte di Malmesbury,

Londra

Gerusalemme, 8 novembre 1858 H o l'onore di farle pervenire, allegata alla presente, una copia del mio dispaccio del 27 ultimo scorso, indirizzato a Mr. Moore, console generale di Sua Maestà [a Beirut], e di informarla di questo: premesso che

nella regione di Nablus esistono molti villaggi in cui risiedono alcune famiglie cristiane, all'avvicinarsi del pasha militare Tahlr, e poco prima del suo insediamento, esse sono state sottoposte a saccheggi e oltraggi da tutte le parti. Ma i due villaggi di Zebabdeh e Likfair cinteramente abitati da cristiani, e nel primo dei quali si trova un'umile cappella> sono stati completamente saccheggiati: uomini e donne sono stati spogliati perfino delle camicie, e poi lasciati mezzi morti. L'aggressione è stata opera delle tribù di Tubaz e Kabatieh, da sempre particolarmente violente, e a tutt'oggi le autorità militari non hanno garantito alcuna soddisfazione o punizione. Non c'è bisogno che le dica che nulla è stato fatto nemmeno dall'autorità civile, anch'essa incarnata da un leader fazioso. Ma all'arrivo in città di Tahir Pásha i musulmani, invece di farlo accampare nelle tende data la bella stagione, hanno preteso una casa da assegnargli come caserma, e, in assenza del sacerdote cristiano , hanno requisito la sua casa e le sue provviste di grano e olio per uso domestico in vista dell'inverno. Tuttavia esse non sono state affatto consumate dai soldati , ma sono state mescolate in un unico sacco - frumento, lenticchie e olio - e gettate in mezzo alla strada. Mi sento sempre più autorizzato ad attribuire le sommosse scoppiate a Nablus nel 1856 a un diffuso sentimento anticristiano. Può essere che al momento il pasha militare non sia stato ancora informato delle modalità seguite per requisire la casa del sacerdote per le sue esigenze. Ma perché lui non lo sa e io sì? Semplicemente perché io sono cristiano mentre lui non lo è: per questo loro [i cristiani di Nablus] hanno paura di dirglielo, tanto più che egli ha paura a sua volta di esercitare la benché minima repressione sugli abitanti. In conclusione, ho l'onore di citare la frase usata continuamente dai cristiani di Palestina: essi dicono che, da quando è finita la guerra di Russia [di Crimea], la loro condizione è divenuta di gran lunga peggiore di quanto non fosse prima, almeno a partire dal 1831 8 . Lettera del console James Henry Skene a sir Henry Bulwer,

Constantinopoli

Aleppo, 31 m a r z o 1859 [...] Ad Aleppo i sudditi cristiani del sultano vivono ancora in uno sta-

to di terrore. È difficile spiegare questo fatto se non c o m e u n riflesso del panico dovuto a quanto hanno subito nove anni fa. Infatti ho potuto constatare che la loro condizione non è in alcun m o d o peggiore di quella delle popolazioni cristiane di altre città turche, dove pure tali apprensioni non esistono affatto. Ma non è facile dimenticare eventi come quelli del 1850: le case furono saccheggiate, vi furono omicidi di personaggi eminenti e stupri sulle donne. Pertanto è legittimo attendersi che coloro che sono stati testimoni oculari di tali orrori nascondano le proprie ricchezze e impediscano ai familiari di farsi vedere in giro al di là dei confini del quartiere cristiano. Prima dell'occupazione egiziana del 1832, essi avevano dei motivi di lamentela che al momento non possono essere invocati: non erano autorizzati a montare a cavallo in città, e neppure a passeggiare nei giardini; i ricchi mercanti erano costretti a indossare gli abiti più umili per non mettersi in evidenza, e, se contravvenivano a tale divieto, spesso erano costretti a spazzare le strade o a svolgere la mansione di facchini per dar prova della loro pazienza e obbedienza. Inoltre, un musulmano non doveva mai apostrofarli se non con espressioni piene di disprezzo. Gli egiziani invece li trattavano diversamente, e dopo la fine della loro occupazione [1840] nessun atteggiamento simile è stato mai apertamente evidenziato dalla popolazione musulmana. Tuttavia, in cuor mio credo sia cambiato poco o nulla. I cristiani dicono che non vi è stato alcun mutamento, se non a un livello alquanto superficiale, e parlano continuamente di saccheggi e massacri, c o m e fossero imminenti, ogni volta che le festività musulmane scatenano il fanatismo. [...] Vi è un'altra parte di questo distretto consolare in cui sembra che sia cambiato ben poco rispetto ai vecchi tempi, quando rapine e spargimenti di sangue erano all'ordine del giorno in Turchia. Alludo alle montagne dell'Ansaireh, che si estendono dalla valle dell'Orante al monte Libano. Di recente un membro del medjlis di Tripoli, passando per un villaggio cristiano mentre inseguiva gli ansaireh in rivolta, lo ha incendiato, e quando gli abitanti hanno trasportato i loro beni mobili più pregiati in chiesa, dove speravano che sarebbero stati rispettati, [i suoi uomini] vi hanno fatto irruzione con la forza e l'hanno saccheggiata. Questa vicenda, al pari di altre non meno abominevoli accadute nello stesso periodo, è stata sottoposta al Console Generale di

Sua Maestà in Siria, in quanto gli autori dei crimini sono sotto la giurisdizione del pasha di Beirut, e pertanto sarà già stata portata all'attenzione di Vostra Eccellenza'. [...]

RAPPORTO RELATIVO ALLA CONDIZIONE DEI CRISTIANI IN TURCHIA ( 1 8 6 0 )

L'11 giugno

1860 l'ambasciatore britannico a Costantinopoli, sir

Henry

Bulwer, inviò ai consoli regionali una circolare contenente 25 quesiti relativi alla condizione dei cristiani nell'Impero ottomano, sollecitando le loro risposte. L'inchiesta era fondata sull'impegno preso dalla Turchia (Trattato di Costantinopoli, 12 marzo 1854) a promuovere l'uguaglianza tra tutti i suoi sudditi in cambio del sostegno militare franco-inglese

nella guerra di Crimea.

Qui di seguito sono riportati alcuni estratti dell'inchiesta. Risposte alle domande Dal console Charles J. Calvert a sir Henry

Bulwer

Salonicco, 20 luglio 1860 [...] [Domanda n. 12: i casi di oppressione nei confronti dei cristiani di Salonicco sono imputabili alle azioni del Governo o al fanatismo della popolazione?] 12. Sono attribuibili soprattutto all'odio innato che i musulmani nutrono nei confronti dei cristiani, e se mai i funzionari della Porta agiscono contro i cristiani, essi, , in genere lo fanno perché istigati da qualche influente proprietario terriero islamico che siede nel medjlis [consiglio municipale]. Per il resto, le popolazioni musulmana e cristiana vivono in pace tra loro, non già per ragioni di affetto e di simpatia, ma perché, a causa della reciproca avversione, si evitano il più possibile l'un l'altra. Il musulmano si considera sempre superiore al cristiano, e, ogni volta che agisce con bontà nei suoi confronti, lo fa con una sorta di condiscendenza e di indulgenza che trasforma il diritto in favore 1 0 . Dal console James Finn a lord John Russell Gerusalemme, 19 luglio 1860 [...] [Domanda n. 7: la testimonianza di un cristiano è accettata nelle Corti

di Giustizia? In caso contrario, indicare le occasioni in cui è stata rifiutata.] 7. Nel Mahkeme o Corte di Giustizia del qadì la testimonianza del non musulmano viene sempre respinta. Nei vari medjlis si ricorre sistematicamente a qualche sotterfugio per rifiutare di accogliere la testimonianza del non musulmano contro il musulmano, o per registrarla sotto il termine tecnico di «testimone»

Queste corti di giustizia e il pa-

sha preferiscono condannare immediatamente un musulmano e dare ragione a un cristiano senza registrarne la deposizione, piuttosto che accettare la testimonianza di un non musulmano. Invece la testimonianza di un cristiano a carico di un ebreo o viceversa, vale a dire di un non musulmano contro un altro non musulmano, è sempre accolta. [...] [Domanda n. 8: nel complesso la popolazione cristiana vive meglio, è più considerata e meglio trattata di quanto non lo fosse cinque, dieci,

quindici,

vent'annifa?] La condizione dei cristiani era infima e incredibilmente degradante prima dell'occupazione egiziana [1831-1840]. Sotto il dominio egiziano i cristiani godevano di libertà e benessere maggiori rispetto al presente. Dopo la cacciata degli egiziani, si è avuta una reazione a favore dei musulmani, sebbene, fino al 1853, essa sia stata notevolmente mitigata dalla crescente influenza dei consolati e degli europei in generale. Durante la guerra russa [guerra di Crimea] la condizione dei cristiani è migliorata, e sono stati portati alla mia attenzione diversi esempi di comportamenti arroganti dei cristiani nei confronti dei musulmani, ora che i primi potevano contare sui consolati. Dopo la guerra si è manifestata un'altra tendenza, che per molti aspetti è di segno anticristiano, e, nel caso dei governatori, antieuropeo. [Domanda n. 9: attualmente esistono discriminazioni su base religiosa, e se sì, qual è la natura di tali discriminazioni?] 9. Ai cristiani non viene affidato alcun incarico di fiducia, né nel governo locale, né nelle forze armate, e nemmeno nella polizia. Sostanzialmente si può dire che essi costituiscano la classe dei governati, e i musulmani quella dei governanti. [...]

[Domanda n. 11: i cristiani incontrano difficoltà nel costruire chiese o neliosservare le loro pratiche religiose?] 11. Sorgono sempre delle difficoltà, finché da Costantinopoli non arriva un decreto che autorizza la costruzione di nuove chiese; m a tali decreti, quando si riesce a ottenerli, sono formulati - almeno a tutt'oggi - in termini talmente vaghi da generare inutili vessazioni e lunghi ritardi. Qui più che altrove si osserva la tendenza a creare ostacoli. Sinora non mi è giunta notizia di richieste di campanili da parte dei cristiani. Le campane sono di uso comune nelle città in cui i cristiani sono numerosi, mentre in altre non sono permesse a causa degli atteggiamenti fanatici della maggioranza degli abitanti. Il loro impiego risale però solo agli ultimi anni, fatta eccezione per il Libano, dove sono in uso da tempo. [Domanda n. 12: quando si verificano casi di oppressione nei confronti dei cristiani, essi sono generalmente dovuti alle azioni del Governo o al fanatismo della popolazione?] 12. L'oppressione nei confronti dei cristiani nasce in genere dal fanatismo popolare, m a non viene né repressa, né punita dal Governo: un significativo esempio di ciò è costituito dal caso di Nablus (aprile 1856). Sempre nel 1856, si verificò u n episodio simile a Gaza. M a fin dal suo arrivo Suraya Pasha mostrò la tendenza a umiliare i cristiani, ad esempio rinchiudendo nella prigione comune il sacerdote e il diacono copti. Il fanatismo popolare non esplode mai prima che risulti evidente l'orientamento fanatico del governatore 1 2 . Dal console John Elijah Blunt a sir Henry

Bulwer

Pristina, 14 luglio 1860 [...] Per molto tempo la provincia [di Uscup] 1 3 è stata in balia del brigantaggio: questa piaga, alimentata da un'indomabile popolazione di montanari, eminentemente bellicosi e mercenari, è più sviluppata nelle pianure. Ma si può dire che la sua diffusione sia stata piuttosto arrestata che incoraggiata: infatti le chiese e i monasteri cristiani, le città e i loro abitanti non vengono più depredati, massacrati e bruciati dalle orde degli albanesi c o m e accadeva abitualmente fino a dieci anni fa. Nel complesso, il sottoscritto può affermare, senza tema di smentita,

che la provincia di Uscup attraversa una felice fase di transizione dal male al bene, probabilmente lenta nella sua attuazione, ma, proprio per questo, non meno sicura nei suoi effetti. [...] 1. Essi [i cristiani] non sono autorizzati a portare armi. Questo fatto, considerata l'assenza di ima polizia efficiente, li espone maggiormente agli assalti dei briganti. [...] [...] [Domanda n. 7: la testimonianza di un cristiano è accettata nelle Corti di Giustizia? In caso contrario, indicare le occasioni in cui è stata rifiutata.] 7. La testimonianza dei cristiani nei processi tra musulmani e non musulmani non è ammessa dai tribunali locali. Nel caso in cui ambo le parti siano non musulmane, la testimonianza cristiana è accettata. Circa 17 mesi fa un soldato turco ha assassinato un maomettano, un u o m o anziano che stava lavorando nei campi. Le uniche due persone che hanno assistito al fatto sono due cristiani: ebbene, il medjlis di Uscup non ha voluto tener conto della loro testimonianza, sebbene il sottoscritto insistesse presso il kaimakam [governatore distrettuale] perché lo facesse. All'incirca nello stesso periodo, uno zaptieh [poliziotto] ha tentato di convertire con la forza all'islamismo una ragazza bulgara. M a poiché ella ha dichiarato dinanzi al medjlis di C a m a n o v a 1 4 che non avrebbe rinnegato la sua religione, lui l'ha uccisa nei pressi della residenza stessa del tnudir [governatore cittadino]. La tragedia ha suscitato enorm e scalpore nella provincia. I medjlis di Camanova e Prisrend 1 5 hanno rifiutato

di tenere conto della testimonianza cristiana, e sono stati

compiuti sforzi di tutti i tipi per salvare lo zaptieh; ma poiché l'eco del caso era giunta a Costantinopoli, le autorità hanno avuto ordine di «accettare la testimonianza di tutti coloro che avevano assistito all'omicidio». Ciò è stato fatto, e Kiani PSsha, che proprio in quel periodo ha assunto il comando della provincia in cui poi ha operato così bene, ha fatto immediatamente decapitare lo zaptieh. Sei mesi fa, nel distretto di Camanova un bulgaro - senza che da parte sua vi fosse stata alcuna provocazione - è stato aggredito da due albanesi, che lo hanno ferito gravemente; nonostante l'episodio sia stato tra-

smesso per competenza a Prisrend, il medjlis ha rifiutato di prenderne atto in quanto la sola testimonianza prodotta era quella di un cristiano. [Domanda n. 8: nel complesso la popolazione cristiana vive meglio, è più considerata e meglio trattata di quanto non lo fosse cinque, dieci,

quindici,

vent'annifa?] 8. Decisamente sì: mentre ovunque vi sono segnali che i turchi, specialmente le classi più elevate, stanno perdendo terreno sotto il profilo demografico, agricolo e commerciale, per i cristiani è il contrario. Quasi in ogni città vi sono strade, anzi, interi quartieri, che sono passati sotto il controllo dei cristiani. L'imposta detta djeremeh, la forma di gran lunga più odiosa dell'oppressione orientale, che era rigidamente applicata fino a quindici, vent'anni fa, è stata abolita dal tanzlmàt. Dieci anni fa la tortura era sistematicamente usata dalle autorità, m a [oggi] non si fa più ricorso a essa. N o n era permesso costruire chiese, e, per giudicare il grado di «tolleranza» turca in quel periodo, basti pensare che bisognava strisciare sotto le porte, alte a malapena quattro piedi. Fumare e andare a cavallo alla presenza di un turco era u n reato; m a anche attraversargli la strada o non alzarsi in piedi dinanzi a lui era considerato un torto. [...] [Domanda n. 9: attualmente esistono discriminazioni su base religiosa, e se sì, qual è la natura di tali discriminazioni?] 9. La testimonianza cristiana, c o m e si è già dichiarato in risposta alla d o m a n d a n. 7, non è rispettata dai medjlis. Il contegno incivile e sprezzante dei mudir e dei membri dei medjlis nei confronti dei cristiani sembra essere percepito da questi ultimi c o m e determinato dalla differenza di religione. I termini degradanti kaffir [infedele] e giaour [pagano], con cui i governanti si rivolgono loro, li offendono e suscitano il loro odio. [Domanda n. 15: i cristiani sono ammessi nei medjlis o consigli locali? Questi consigli, in generale, sono più favorevoli al progresso e al buon governo rispetto ai funzionari della Porta, o più ostili?] 1 5 . 1 cristiani sono ammessi in questi organi, ma in genere si tratta di

una pura formalità. Non è loro consentito svolgere un ruolo importante negli affari pubblici, e sono trattati in m o d o irrispettoso. Nel complesso questi consigli sono di gran lunga più ostili alle riforme e al buon governo dei funzionari della Porta [ . . . ] " . Dal console James Henry Skene a sir Henry Bulwer Aleppo, 4 agosto 1860 [...] Vaste pianure di una terra tra le più fertili giacciono incolte a causa delle incursioni dei beduini, che spingono a Ovest le popolazioni agricole per garantire il pascolo alle loro sempre più numerose greggi di pecore e mandrie di cammelli. H o visto 25 paesi devastati da una sola incursione di shaykh M o h a m m e d Dukhy con 2000 cavalieri banü sachar. H o visitato un fertile distretto che vent'anni fa ospitava 100 villaggi, e non vi ho trovato che pochi fellah residui, destinati ben presto a seguire i compagni sulle colline che si ergono lungo la costa. H o esplorato città nel deserto con strade ben pavimentate, case ancora provviste di tetti e porte di pietra che ruotavano sui cardini, pronte per essere occupate eppure del tutto disabitate; quanto alle migliaia di acri di buona terra coltivabile che le circondavano, con tracce di condutture idriche per l'irrigazione, ora non producono che magri pascoli per le pecore e i cammelli dei beduini. Quest'invasione del deserto a danno delle pianure coltivate cominciò ottant'anni fa, quando le tribù anezi migrarono dall'Asia centrale in cerca di pascoli più vasti, invadendo la Siria. Oggi esso ha raggiunto il mare in due punti: presso Acri [Palestina] e tra Latakia e Tripoli [Libano], Tuttavia, non sempre gli arabi portano via agli abitanti dei villaggi tutte le loro provviste, m a spesso si accontentano di un'offerta conciliatoria in denaro e granaglie. [...] L'insicurezza per la propria vita e i propri beni causata dall'insubordinazione delle tribù nomadi è un male gravissimo; le autorità turche potrebbero fare molto per porvi rimedio Dal console supplente James Zohrab a sir Henry Bulwer Bosna Serai [Sarajevo], 22 luglio 1860 [...] L'odio dei cristiani nei confronti dei musulmani bosniaci è intenso. Infatti, per un periodo di circa 300 anni, essi sono stati sottoposti a

un'immensa oppressione e crudeltà. Per loro non esisteva altra legge che il capriccio dei loro padroni 18 .

CORRISPONDENZA RELATIVA AI DISORDINI IN ERZEGOVINA E IN MONTENEGRO

(1861-1862) Nella primavera del 1861 il sultano, tramite un proclama ufficiale

pro-

mulgò una serie di riforme in Erzegovina, promettendo tra l'altro ai cristiani la libertà di edificare chiese e usare le campane, e la possibilità di acquistare proprietà fondiarie (Cfr. FO 4 2 4 / 2 6 , n. 320, allegato 2, in n. 167, Ali Pasha to the Representatives of Austria, France, Great Britain, Prussia and Russia, 1 maggio 1861). Dal console William R. Holmes a sir Henry Bulwer Bosna-Serai [Sarajevo], 21 maggio 1861 [...] Riguardo alle concessioni contenute nel Proclama, desidero sottolineare che qui - e, per quanto mi è dato credere, anche in Erzegovina - le più importanti, se non tutte, sono da tempo in vigore solo nominalmente, ma non sono mai applicate nei fatti, come sanno molto bene gli insorti. A d esempio, la promessa di autorizzare la costruzione di chiese fatta anche agli altri sudditi cristiani della Porta qui sembra ingannevole, se si pensa che una delle comunità cristiane - quella grecoortodossa - ha raccolto denaro per edificare una chiesa, ma ciò le viene impedito con il futile pretesto della vicinanza a ima moschea, moschea che si trova a più di 150 metri dal sito proposto per la chiesa, ed è a malapena visibile da esso. È ampiamente noto che il pregevole accordo stipulato qualche tempo fa tra i contadini e i proprietari terrieri, in seguito all'invio di una delegazione ad hoc dalla Bosnia a Costantinopoli, è rimasto lettera morta. Ancor oggi ogni possibile ostacolo viene frapposto all'acquisto di terra da parte dei cristiani, e non è un segreto che molto spesso, dopo che eremo finalmente riusciti a comprare e valorizzare un terreno, esso è stato loro tolto per questo o quell'ingiusto pretesto 20 .

CORRISPONDENZA RELATIVA A PRESUNTI CASI DI PERSECUZIONE RELIGIOSA IN TURCHIA ( 1 8 7 3 - 1 8 7 5 )

Da sir Henry Elliot al conte Granville Therapia [Tarabya] 2 1 ,10 ottobre 1873 [...] Quasi tutti i consoli di Sua Maestà concordano nel riferire che l'uguaglianza teorica tra musulmani e cristiani di fronte alla legge, che non è mai pienamente esistita in pratica, nella maggior parte delle province è oggi più illusoria di quanto non fosse qualche anno fa, e che è necessario che il Governo [turco] dimostri di essere fermamente intenzionato ad applicarla 2 2 .

Memorandum

del console generale e giudice sir Philip Francis al conte di

Derby sulle nuove riforme giudiziarie contemplate dal recente firmano del sultano Costantinopoli, 5 gennaio 1876 [...] Sembra che uno degli obiettivi - di per sé del tutto rispettabile del nuovo firmano [allude aWirade23 del 2 ottobre e al firmano del 12 dicembre 1875] sia far sì che le testimonianze rese dai cristiani o dai non musulmani al cospetto dei tribunali del paese siano accettate. Tale risultato è stato ottenuto indirettamente, ossia non decretando che d'ora in poi i testimoni cristiani saranno ascoltati dinanzi alla shan'a