Simbolizzazione come costruzione [PDF]

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Zitiervorschau

Finito di stampare nel

Febbraio 1981

dalla Tip. Commerciale Fiorentina

SALVATORE CESARIO

SIMBOLIZZAZIONE COME COSTRUZIONE intervento sulla « recherche » con una introduzione ricavata da Freud-, la rappresentazione dell’oggetto perduto

N uovedizioni Enrico Vallecchi

L ’a c c o s ta m e n to di d u e a u to ri, di F r e u d a P ro u s t e v ic e v ersa , v iene c o m p iu to a ttra v e rs o l’artificio d ell’u tiliz z a z io n e di u n o s c ritto (più re c e n te ) su l p rim o , c o m e in tro d u z io n e ad u n o s c r itto (p iù d a ta to ) sui s e c o n d o . I d u e s c ritti s o n o n a ti a u to n o m i, m a s o n o c h ia m a ti a c o n d iv id e re u n o s te s s o te s to ; co si i d u e a u to ri s o n o lo n ta n i, n o n o s ta n te la m iria d e di p u n ti di c o n ia tta b ilità , m a s o n o fatti in c o n tra re , e s e n z a p a rtic o la ri p re s e n ta z io n i, in u n o s te s s o clim a p ro b le m a tic o . Se la m o rte (la p e rd ita ) è c o n s u s ta n z ia le al d is c o r s o (l’o p e ra ) q u a n ta m o rie è n e c e s s a r ia ? E q u a le re s u rre z io n e (ritro v a m e n to ) c o n se n te la fo rm a z io n e di d is c o rsi d iv e rsi (gli « a ltri e sseri» )? L a rec h e rc h e é re c h e rc h e dei m e c c a n is m i (p e rd ita e ritro v a m e n to ) della fo rm a z io n e del d is c o r s o ; m a , p iù p ro fo n d a m e n te , di q u elli (c o s tru z io n e e ric o s tru z io n e ) d e lla fo rm a z io n e di u n a serie di d is c o rsi « d iv ersi» , c a p a c i di a b ita re u n o s te s s o s m is u ra to e p e ric o la n te d is c o rs o : la v ita di un u o m o , di u n ’e p o c a .

Fanciulla dalle mille trasformazioni. Improvvisamente irradiante, munifica di tutto il corpo; cerva ossuta dagli occhi immensi; guancia capace di colmare la mia mano a dismisura; crogiolo di immagini, tramontate, intramontabili, dentro il quale a poco a poco ti preci­ so: tu, Rosanna dal capo chino... ( 3 1 .5 .7 8 )

Introduzione ricavata da Freud LA RAPPRESENTAZIONE D E LL’O G G E T T O PERDUTO Questa introduzione appare in qualche modo ricavata dal testo di Freud « La negazione » 1 che non è fuori posto considerare — quale equivalente dell’opera freudiana nel suo insieme — ■ consanguineo all’ope­ ra di Proust; potrebbe bastare ad attestare tale consanguineità — ma sarebbe solo l’elemento più appariscente — la precisazione da Freud sottolineata che la rappresentazione è rappresentazione di un oggetto per­ duto 2 ed è intenzionata a ritrovarlo. « La negazione è uno scritto all’apparenza brevissimo; dico, all’ap­ parenza, perché è un errore di prospettiva a suggerirne la brevità, mentre un altro errore di prospettiva ne potrebbe indicare invece Vinterminabilità: non certo però la prolissità. Si tratta infatti di un testo succoso, denso; un frutto essiccato che va messo a mollo perché riassuma la sua reale consistenza. E ’ un testa -che non si può infatti riassumere; si può solo diluirlo, come uno sciroppo.'tifili’acqua fresca. Ci assumiamo il com­ pito di fare questa diluizione.-yégùéndo pedissequamente il corso dell’ar­ gomentazione freudiana, anche si,,: di volta in volta, ci prenderemo la li­ bertà di qualche anticipazione, e, a poco a poco, anche di qualche diva­ gazione. Proponiamo di considerare le nostre divagazioni come l’acqua che ci ha reso bevibile lo sciroppo. Freud presenta tre form e di negazione (in fondo si tratta dell’altri­ menti nominata preterizione: tralasciare, ma facendo solo finta di trala­ sciare): 1) quella che fa il paziente coll’analista, ad esempio nella forma seguente: « Ora Lei penserà che io voglia dire qualche cosa di offensivo, ma in realtà non ho questa intenzione ». Freud sostiene che si tratta di un « ripudio, mediante proiezione ». E ’ come se il paziente dicesse: Lei pensa che io pensi di dire qualcosa di offensivo... ma è lei che pensa di dirlo, non io. E ’ interessante: il paziente si conduce con l'analista come con un paziente; gli contesta una proiezione e gli chiede di ritirarla. Po­ tremmo dire che proietta sull’analista la propria attività proiettante. Nega di proiettare; e, così facendo — sostiene Freud — , afferma che sta proiet­ tando. La cosa è molto complessa. Freud a ltrove3 dichiara che la proie­ zione è una percezione ; ma la percezione prende il nome di proiezione quando è percezione, nell’altro, di un contenuto che appartiene all’al­

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tro ma anche al proiettante; quando è tale, funziona come percezione, nell’altro, del di lui contenuto e di quello del proiettante; quindi dello stesso contenuto duplicato, « esagerato » La negazione si comporta co­ me una moltiplicazione, una esagerazione. Per il contraccolpo di tale esa­ gerazione il proiettante si ritrova vuoto dei contenuti proiettati, esagera­ tamente sfornito di essi. In altre parole, la proiezione è una sovra-percezione; è, cioè, perce­ zione, nell’inconscio proprio ed altrui, di due contenuti, di identica natu­ ra; quindi sommazione di essi e loro proiezione-percezione nell’altro, co­ me all’altro pertinenti; conseguentemente è anche una sotto-percezione, perché a una sommazione nell’altro corrisponde una sottrazione nel proiet­ tante: il proiettante resta vuoto. Sappiamo che il processo conoscitivo funziona così; la proiezione è uno dei tanti meccanismi che Freud colloca sotto la designazione generale di « difese » 5; queste si caratterizzano come finalizzate a produrre lonta­ nanza 6 estraneamento 1 scarto. In luogo di difesa noi usiamo il termine rimozione; o, detto diversamente, di tutte le difese scegliamo come pro­ totipo la rimozione 8. Per conoscermi, per leggermi — diciamo così — in faccia, devo guardarmi nella faccia dell’altro, il suo occhio sarà lo specchio anche della mia anima, oltre che della sua. In esso dovrò cercarmi. Sarò il riflesso di quello specchio; nel suo riflesso avverrà il « ritorno del rimosso ». Dovrò però selezionare tale riflesso, onde evitare di non traboccare di ciò di cui prima ero vuoto. E’ utile, a questo punto, rovesciare la definizione data più sopra (di proiezione come percezione), e dire che la percezione è proiezione. Che equivale a dire: non posso mai conoscere senza cono­ scere anche l’altro e senza che anche l’altro conosca me. Un tale punto di vista trasforma il processo conoscitivo in una contrattazione relativa a quel che spetta a me e a te; tale contrattazione approda a una conven­ zione, valida solo in quel momento e per quel momento: concordiamo che questo spetta adesso a me e che questo spetta adesso a te 9. Forse abbiamo divagato troppo. Orbene, il paziente, negando di proiet­ tare, sostiene Freud, afferma d i, proiettare. Noi « ci prendiamo la liber­ tà » di « trascurare la negazione ». Si tratta di una libertà di cui bisogna fare un uso oculato; perché non è proprio il caso di trasformare sempre ed automaticamente il no in sì e il sì in no. Precisa Freud che « quasi sempre », in situazione analitica, il paziente, negando, confessa la cosa giusta. Questo procedimento « comodo » può essere troppo com odo; in­ fatti se è — come vedremo tra poco — una « trappola tesa al paziente », vi può benissimo cascare anche l’analista, l’interprete incauto. Se si considerano la rimozione e il ritorno del rimosso come i mec­ canismi che presiedono alla formazione del discorso, si può concludere che il paziente, sostenendo di non proiettare, sostiene di non stare fa­ cendo discorsi; mentre invece li sta facendo. Egli comincia a parlare pro­ prio negando di parlare; promuovendo il primo atto (la negazione, rimo­ zione, proiezione) di quella vicenda così complessa e tortuosa 10 che è il discorso. 6

Seconda forma di negazione: l’analista questa volta chiede al paziente\ « Che cosa a suo parere era allora più lungi da Lei? ». È, dice Freud, una trappola tesa al paziente; se egli vi cade « quasi sempre » confessa la cosa giusta. Perché la cosa considerata più lontana si rivelerà essere la più vicina ( quella da avvicinarsi, quella però già avvicinata tramite il suo allontanamento). Abbiamo infatti sottolineato che la formazione del di­ scorso comporta l’allontanamento ( rimozione) dì quel che si vuole dire; Freud chiede al paziente che cosa è più lontano-da; gli chiede cioè di allontanare qualcosa; quel che egli allontanerà (rimuoverà) di più, sarà il non''detto in cerca di discorso e alla fine — per questa via — detto. Terza forma di negazione: il paziente stesso, a questo punto, « car­ pita alla cu ra» la strumentazione ch’egli stesso alla cura ha fornito (o che la cura ha in prima istanza carpito a lui) sostiene: « M i è venuta una nuova idea ossessiva. H o pensato lì per lì che potesse significare esattamente questo... Ma no, questo non può certo essere vero, altrimenti non mi sarebbe potuto venire in mente ». Con l’umiltà affettata della preterizione il paziente offre il suo contributo e ne indica la preziosità nell’atto stesso di svalutarlo. La svalutazione è il contrario di se stessa, è apprezzamento. A d essere negato, rimosso, proiettato, allontanato... è qualche cosa di specifico: Vintenzione di proferire una cosa offensiva, o la non estra­ neità di un determinato pensiero, o l ’importanza di una certa interpreta­ zione... Leniamo presente però che, nel mentre che tutto questo è negato, contemporaneamente qualche cosa viene affermato: esattamente la diffi­ coltà ad affermare direttamente. Viene cioè prodotto il meccanismo del discorso. Esso è, come esprimerci, detto direttamente; cioè se ne sta lì, in evidenza, in mostra; ma non è fatto oggetto di un discorso. Vedremo che potrà anche essere fatto oggetto di un discorso: sarà allora detto in­ direttamente, seguirà cioè una via traversa. Sembrerebbero esaurite le forme in cui la negazione ha luogo; ma vedremo tra breve che le cose non stanno così. Intanto Freud chiarisce che la negazione « è un modo di prendere conoscenza del rimosso » ; è « già una revoca della rimozione » ; attenzione: « non certo però l’accet­ tazione del rimosso ». E conclude: « Si vede come la funzione intellet­ tuale si scinde qui dal processo affettivo ». Freud ha distinto altrove 11 rimozione dell’affetto (Verdrängung) e rimozione della rappresentazione {Verleugnung), suo disconoscimento, o diniego 12. La negazione {Verneinung) è qualcosa di simile alla rimozione della rappresentazione ( anche se non coincide con essa). Freud spiega che la negazione è negazione della rappresentazione, ed è questa negazione che rende possibile l’ « accettazione intellettuale del rimosso », dove il rimosso che torna è solo il « contenuto della rappresentazione ». Aggiunge Freud: « l’essenziale della rimozione » persiste; l’essenziale, come sappia­ mo, è l ’affetto 13. Viene da domandarsi se non siamo nel bel mezzo di una quarta for­ ma di negazione. Infatti il ritorno ( affermazione) della rappresentazione (che avviene provocato dalla negazione di questa) equivale ad una nega­

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zione dell'affetto, il quale da essa viene sconnesso. E si trapassa subito in una quinta forma di negazione (o la quarta b is): quella che Freud chia­ ma una « variante, molto significativa e piuttosto sorprendente » della quarta: ci può essere la « piena accettazione intellettuale del rimosso; ma il processo di rimozione in se stesso non è per questo ancora sospeso ». Cioè il paziente può non negare più la « nozione », la rappresentazione ( abbiamo così, a vantaggio anche del paziente, il ritorno del rimosso che fino ad ora è avvenuto, nel paziente, nel suo discorrere, a beneficio solo dell’analista) u; può riconoscere la propria intenzione di proferire un pen­ siero offensivo... ma di questo nega le implicazioni affettive. Come ben sì vede si attiva una specie di marchingegno sul tipo del saliscendi in virtù del quale ciò che ritorna automaticamente provoca una rimozione e il reciproco; la rappresentazione viene afermata ma il suo ritorno comporta la rimozione dell’affetto; rappresentazione ed affetto ri­ sultano scissi; l’affetto ritorna come angoscia, cioè nel discorso dell’an­ goscia; non però nello stesso discorso della rappresentazione; e viceversa la rappresentazione ritorna ma non nello stesso discorso dell’angoscia: quello che si potrebbe chiamare un dialogo tra sordi. Nel saliscendi comunque la negazione dell’affetto è sempre negazione della nozione (rappresentazione) di esso; una negazione più forte (setti­ ma form a?), negazione appassionata e conturbante, sarà insieme negazio­ ne dell’affetto e della rappresentazione; essa sola avrà il potere di provo­ care il ritorno della rappresentazione e dell’affetto tra loro collegati (il superamento della scissione). Ci arrestiamo alla semplice enunciazione di questa settima forma di negazione. Più avanti dimostreremo da una parte l’inevitabilità del discorso, la sua onnipresenza, dall’altra la pluralità delle sue forme. Qui Freud apre un capitolo affascinante: ci parla dell’ « origine psico­ logica » della funzione del giudizio. Le osservazioni precedenti, relative alla « funzione del giudizio intellettuale » — quella dell’« affermare o ne­ gare i contenuti ideativi » — aprono spiragli interessanti su questa ori­ gine. Dice Freud che la « condanna » ( cioè il giudizio negativo) è « il sostituto (Ersatz) intellettuale della rimozione, il suo ‘no’ un contrassegno della stessa, un certificato d’origine, all’incirca come il ‘made in Germany’ ». Sembra che Freud abbia detto molto più dì quel che non intendesse; o che abbia voluto dire molto in poche parole e, di più, senza parere. Perché, mettendole sullo stesso piano, quasi di sinonimia, indica due ca­ ratteristiche precise del ‘no’ : a) il 'no’ è un « contrassegno della nega­ zione », è quello che subito dopo chiama « simbolo » di essa; b) il ‘ no’ è però anche un « certificato d’origine ». Esaminiamo queste due caratte­ ristiche separatamente. Il ‘no’ è simbolo della negazione, è cioè un suo « sostituto », o « surrogato ». Sta al posto della negazione, del negare. In altre parole il ‘no’ è un discorso fatto sulla negazione, è la parola che la dice. Se con­ tinuiamo a usare l’ipotesi relativa alla formazione del discorso di cui più sopra, possiamo dire che il ‘no’ è fratto della rimozione della rimozione

e insieme il risultato del ritorno del rimosso. Abbiamo cioè qui l’afferma­ zione non come affermazione diretta ( vedi più sopra: la messa in evi­ denza, in mostra, unica forma di « discorso diretto » ) , ma come afferma­ zione indiretta che avviene attraverso un discorso ed essa relativo, cioè attraverso la negazione della negazione (in lingua latina: non c’è nessuno, equivale a: c’è qualcuno). Tale discorso, come ogni altro, si articola in rimozione e ritorno del rimosso (in negazione e ritorno del negato). E' questa la « via traversa », la deviazione, che può essere più o meno lunga e tortuosa. "Più avanti Freud riconferma che il simbolo 15 della negazione con­ sente « un primo livello d’indipendenza dagli effetti della rimozione e con ciò anche dalla costrizione esercitata dal principio di piacere ». Che cosa intende dire? che il simbolo è qualcosa di mezzo Ira incesto ed aridità, immediatezza e distanza. L’indipendenza è infatti indipendenza dalla co­ strizione del principio di piacere che vorrebbe la « scarica », che vorrebbe addirittura non dovere scaricare, non essersi ciò mai caricato, non avere mai provato dispiacere, non essere mai stato sottoposto a tensione. In altri termini: non essere mai nato (il desiderio di tutti i p ro feti persegui­ tati: non avessi mai cominciato a parlare). L’indipendenza è però anche dagli effetti della rimozione, cioè dalla aridità e dalla distanza. Perché qualcosa torna, anche se solo la rappresentazione, anche se solo a van­ taggio dell’altro che diventa il luogo del discorso. La negazione non è distruzione, non è allontanamento in fondo al mare, cioè perdita defini­ tiva (forse neppure nel « negativismo schizofrenico » ) . Il sìmbolo della negazione occupa proprio il luogo di questo scarto tra incesto ed aridità e lo rende praticabile. Questo intende affermare Freud quando dice che mediante esso ( simbolo) il pensiero si « affranca dai limiti retta rimozione e si arricchisce di contenuti che gli sono indi­ spensabili per poter funzionare ». Questi contenuti sono strumenti e que­ sti strumenti servono per prendere ed eseguire, come vedremo, delle « de­ cisioni ». Preferisco illustrare più tardi il senso della seconda caratteristica del « no » camuffata nell’apparente sinonimia con la prima. Proseguiamo col­ l’analisi che Freud fa del giudizio dì qualità e di quello di esistenza: si tratta di « due decisioni da prendere », se cioè una cosa è buona o cat­ tiva; se è reale o no. 1 ) L’Io-piacere ingoia ciò che è buono, sputa ciò che è cattivo. Ciò che sputa è « estraneo » all’Io, è « fuori » di lui. Ciò che arreca dispiacere, ciò che anima l’inorganico, che rompe l’incanto incestuoso, penetra l’in­ conscio... lo stimolo, in quanto dispiacere, viene proiettato fuori, lonta­ no: viene rimosso, allontanato, negato... L ’Io-piacere agogna ad una morte (m orte del desiderio e morte tout court) rapida; non vuole intraprendere quella strada più lunga e tortuosa che mena alla morte (m orte del desi­ derio e morte tout court) che è per l’appunto la vita (vita del desiderio e vita tout court). Non riesce comunque a non essere nato, può tentare quindi soltanto di morire quanto prima: allucina infatti la piena soddi­ sfazione, costruendola tramite l ’allontanamento dell’agente disturbante, sti­ 9

molante; ma anche tale allontanamento è allucinato (è qui anzi l’essen­ ziale dell’allucinazione ). Non ci vuol molto però per capire che siamo già in piena attività simbolica, anche se rudimentale. C ’è già tutto il necessario: c’è la rimo­ zione; il rimosso si prepara a ritornare; anzi esso ritorna come allucina­ zione, dato che la stessa rimozione è stata allucinata. Si ha cioè il discorso dell’allucinazione. L‘immagine del reale che ci si crea è molto diversa da quella che corrisponde nel reale stesso. Si ha veramente un discorso, se per discorso si intende « deformazione » : si ha anzi il più alto grado di deformazione. Insieme il massimo possibile di incesto — per un Io ormai nato — e il massimo possibile di aridità — per un Io non ancora morto — . Nella allucinazione si può dire che la realtà è il luogo, la « terza persona » 16, del discorso. 2) Tale discorso presto esaurisce le sue possibilità e si ha il passag­ gio dall’Io-piacere all’Io-reale ( esame di realtà). Non si tratta adesso più di stabilire se una cosa che è stata percepita debba essere accolta dentro l’Io o no; ma se una cosa che è già dentro l’Io, « come rappresentazione, possa essere ritrovata anche nella percezione {realtà). E’ di nuovo, come si vede, una questione attinente al fuori e al dentro ». L ’allucinazione alla lunga non paga; è necessario che il disturbo deri­ vante dallo stimolo sia veramente tolto, nella realtà. Principio di realtà significa infatti per Freud non solo « adattamento » alla realtà ma anche adattamento della realtà ai bisogni; il conseguimento di quest’ultimo è de­ finito « la più alta prestazione dell’Io » 17; è l’opposto della fuga dalla realtà, coincide invece coll’affrontarla « in forma attiva, ed eventualmente addirittura aggressiva » ls. Si tratta quindi di fare una ricognizione per accertare come stanno le cose; decidere come stanno, per decidere come intervenirvi. Freud spie­ ga che « tutte le rappresentazioni derivano da percezioni, sono ripetizioni di esse. In origine dunque l’esistenza della rappresentazione è essa stessa una garanzia della realtà del rappresentato ». Come dire: se lo percepisco vuol dire che c’è; se non lo percepissi non ci sarebbe. Più tardi invece nasce il problema: esiste ciò che percepisco? Tale problema si pone quando percepisco qualcosa su cui non riesco ad operare per trarne soddisfazione, piacere; si pone quando l’Io ha imparato a « ren­ dere nuovamente attuale... qualche cosa che è stato percepito in passato, senza che sia necessaria la presenza all’esterno dell’oggetto in questione ». Si tratta di un grosso apprendimento, che ad esempio rende possi­ bili « rappresentazioni finalizzanti » 19; ma che apre Vangosciante que­ stione: quel che percepisco esiste? La situazione di partenza è ribaltata: ITo-piacere voleva solo allucinare, l’Io reale ha invece paura di allucinare. « Il fine primo è più immediato dell’esame di realtà non è dunque quello dì trovare nella percezione reale un oggetto corrispondente al rappresen­ tato, bensì di ritrovarlo, di convincersi che è ancora presente ». L ’intenzione del discorso è non di trovare (esperienza diretta) ma di ritrovare (mediazione dell’esperienza). Il suo fallimento è nel non riu­

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scire a ritrovare quel che è stato perduto; perduto dove? perduto nel di­ scorso stesso. Saremo autorizzati più avanti a dire: ucciso nel discorso, dal discorso. Ricordiamo la « scissione » tra funzione intellettuale e pro­ cesso affettivo; ebbene, essa descrive la scissione del discorso; questo è scissione, scarto che può esaurirsi nel distanziare ( perdere) senza riu­ scire a promuovere il ritorno (ritrovam ento), per lo meno sul piano, nell’ambito, entro le scadenze, desiderati. L ’Io-piacere, abbiamo visto, allontana da sé il dolore, il male; la realtà esterna diventa il luogo del suo discorso, allucinatorio; l’Io-reale allontana da sé il bene e il male, tutti gli affetti: le parole diventano il luogo del suo discorso, cioè i rappresentanti della realtà esterna e interna. Qui Freud introduce un « ulteriore elemento che concorre a estraniare Voggettivo dal soggettivo ». « La riproduzione — infatti — della per­ cezione nella rappresentazione non ne è sempre la ripetizione fedele... L ’esame di realtà deve comunque controllare sino a che punto si spingano queste deformazioni ». Egli conclude il paragrafo ripetendo quanto sopra già così chiaramente affermato: « Si riconosce comunque come condizione necessaria per l’instaurarsi dell’esame di realtà il fatto che siano andati perduti degli oggetti che in passato avevano portato a un soddisfacimento reale ». Se si tiene conto che il paragrafo conclusivo, l’iterazione cioè appa­ rentemente pleonastica: « S i riconosce comunque...», descrive le vie usate dalla percezione e dal pensiero per intervenire sulla realtà, ci sembra le­ gittimo spiegare l’infedeltà della ripetizione della percezione con l’infedeltà della percezione stessa; cioè ci sembra legittimo spiegare quel « comun­ que » così strategicamente situato, col fatto che la perdita, la deforma­ zione, il tradimento, l’infedeltà — residui della volontà di allucinazione dell’Io-piacere presenti nella nuova condizione e in essa esplicantisi come momenti di attività, di intervento — sono caratteristiche fondamentali del discorso. Irrinunciabili. Perché il discorso è — l’abbiamo già visto — insieme adattamento alla realtà e adattamento della realtà; cioè è rico­ gnizione ma anche trasformazione. « V a detto che tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l’Inc possiamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente » 20. Si conosce modificando ciò che si conosce; si ritrova modificando ciò che si perse... Cruciale resta il «con­ trollare sino a che punto » sì spinge l’infedeltà; in altri termini sino a che punto è possibile essere infedeli alla percezione della realtà esterna per essere fedeli alla percezione della realtà interna (del bisogno). Fino a che punto cioè sì può spingere l’attività trasformativa senza ritornare ad essere allucinatoria. Il giudicare è infatti una « azione », anche se una « azione intellet­ tuale » la quale « decide la scelta dell’azione motoria che pone un ter­ mine al differimento del pensiero e assicura il passaggio dal pensare al fare ». Il giudizio, se è la premessa per l’azione, è sicuramente qualcosa di affidabile, di valido. Non deve fuorviare il fatto che Freud ci ha pre­ sentato, all’inìzio dello scritto, giudizi ‘nevrotici’, che sono premessa per azioni ‘nevrotiche’ (quei 'passaggi all’atto’ che si cerca di evitare —

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anche se limitatamente — proprio e soltanto perché si tratterebbe di atti nevrotici)21. In ogni caso del giudizio nevrotico il giudizio non nevrotico conserva la caratteristica di essere sì affidabile, ma solo fino ad un punto che bisogna controllare, verificare; essendo la stessa verifica limitatamente affidabile. Ha detto più sopra Freud: « Negare nel giudizio è come dire in so­ stanza: ‘Questa è una cosa che preferirei rimuovere’ ». Ma non la rimuo­ vo; anzi rimuovo il rimuoverla; dopo avere rimosso la cosa in questione un niente quasi, quanto è bastato per consentire la rimozione della sua rimozione, in quanto rimozione di qualche cosa. Certo, sempre di nega­ zione si tratta, ma di una negazione che subito viene superata, utilizzata per l’azione, cioè per un altro discorso ( negazione) sperabilmente efficace ai fini del raggiungimento dello scopo. Si tratta cioè di una rimozione a cui segue — a giro di posta (torneremo su questo) — il ritorno del ri­ mosso. Di un discorso che funziona tanto bene che non ci si accorge neppure che è un discorso ( costituito cioè da rimozione e ritorno del ri­ mosso: botta e risposta). Ebbene, il giudizio segna il passaggio all’azione, ■la fine del differi­ mento, del procrastinare. Il pensare è per l’appunto differimento. Che cosa succede nell’arco del differimento? N ell’arco cioè della rimozione del­ l’azione di cui il giudizio consente il ritorno? Succede, risponde Freud, « un’azione di prova » ! Succede un’azione finalizzata a differire l’azione. Sì, è proprio così. Il pensiero, che sospende l’azione per costruire la scelta di quale azione fare, è, esso stesso, azione. Vedremo più avanti che il discorso è inevitabile, inevitabili sono cioè la rimozione e il ritorno del rimosso. Inevitabile è qui l’azione (anch’essa discorso). Il tanto deprecato passaggio all’atto è inevitabile. « Il processo di sostituzione — dice altrove Freud11 — viene tenuto lontano, se possìbile, dalla scarica mediante motilità; anche laddove ciò non riesce, esso deve esaurirsi nel mutamento del proprio corpo, e non può incidere sul mondo esterno; gli è vietato convertirsi in azione ». Ma sempre di azione si tratta e di ricorso alla motilità, che determinano un’al­ terazione psichica o un’alterazione organica. Si deve trattare di un’azione rilevante se l’Io stesso, psichico ' o l e fisico ne viene modificato. E ’ possibile solo distinguere livelli diversi di rimozione e di ritorno del rimosso. Poiché tutto è discorso si può solo distinguere tra discorso e discorso; che non è una distinzione da nulla. Altrove 23 Freud pone l’ e­ sistenza di civiltà animali, di «istituzioni sociali» (discorsi) animali, la cui costruzione ha comportanto migliaia di secoli di lotta. E ’ possibile porre anche l’esistenza di civiltà vegetali, minerali, e così di seguito. Un approccio di questo tipo consente regressioni e progressioni, passaggi da forma a forma di linguaggio, senza mai incontrare il silenzio, l’inorganico stesso essendo fermentazione di discorsi. L’ontogenesi si continua nella filogenesi e si prolunga nella cosmogenesi. Ma, tornando all’« azione di prova », essa è un « tastare motorio con scarso dispendio di energie destinate dia scarica ». C’è scarica, ma è scarica di piccoli investimenti; l’Io-piacere è utilizzato nel progetto dell’Io «

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reale, è mandato in avanscoperta, come rappresentante. Rappresentante, abbiamo detto. Ma è il discorso che rappresenta il reale, interno ed ester­ no. Questa azione motoria è quindi discorso (ci ripetiam o). Ma v ’è di più; Freud ci invita a riflettere: « Proviamo a riflettere; dov’è che l’Io ha esercitato in precedenza un siffatto tastare...? ». E ’ ac­ caduto « all’estremità sensoria dell’apparato psichico, con le percezioni degli organi di senso. Stando alla nostra ipotesi, infatti, la percezione non è un processo puramente passivo, e anzi l’Io invia periodicamente piccole quantità d’investimento nel sistema percettivo, mediante le quali assaggia gli stimoli esterni per poi ritrarsi nuovamente indietro dopo ogni puntata di questo genere ». La percezione, abbiamo detto più sopra, è un trovare. Non un ritro­ vare. Il ritrovare è compito della rappresentazione; o meglio del pensiero che si esercita sulla rappresentazione allo scopo di ritrovarle l’oggetto che essa ha perduto, di cui è sbiadita memoria, di cui è forse solo impronta vuota. Ebbene, già la percezione è discorso; anch’essa, come il pensiero, manda in avanscoperta « piccole » quantità di energia; suoi rappresentanti. I rappresentanti sono caratterizzati dalla loro piccolezza. Vengono in men­ te i « resti diurni » che hanno la caratteristica, oltre che di essere « re­ sti », già per questa ragione di proporzioni ridotte, di essere « indifferen­ ti » 24, « innocenti » 25, cioè disponibili a servire ad altri usi, deprivati di senso, pronti a farsi carico di altro senso. Vengono in mente le « inezie » 26; i «p iccoli indizi» 27... per farla breve-, le parole. Anticipando il ricorso ad un altro luogo freudiano 2Ì, ricordiamo che gli affetti e i sentimenti « corrispondono a processi di scarica le cui ma­ nifestazioni ultime vengono percepite come sensazioni ». Le sensazioni sono manifestazioni « ultime » del moto pulsionale; sono suoi rappresen­ tanti. Il processo della rappresentazione (cioè del discorso) vige ovun­ que; anche nell’inconscio dove « la pulsione non può essere rappresentata che da un’idea » 29. Ironizza Freud in « Il disagio della civiltà » 30: sembra che « saremmo più felici se vi rinunciassimo {alla civiltà) e trovassimo la via del ritorno a condizioni primitive. Tesi sorprendente perché, comun­ que si definisca il concetto di civiltà, è innegabile che ogni mezzo con cui tentiamo di salvaguardarci contro le minacce che provengono dalle fonti delle sofferenze fa parte appunto della civiltà stessa ». Il discorso si morde la coda; cioè non è possibile uscire fuori dal discorso. In altri termini, oltre che la rappresentazione, anche la percezione, anche la sen­ sazione — in ciò equiparabili alla rappresentazione — ricercano un og­ getto perduto. L ’oggetto che viene ricercato si configura quindi come un oggetto che non fu mai posseduto! ( Vedremo più avanti che il ritrova­ mento dell’oggetto potrà solo consistere nella regressione ad un livello di discorso più primitivo e nella incorporazione — per tal via — del discorso primitivo stesso in quello più evoluto). Completiamo l’esame del testo freudiano. Freud pone attenzione ai « moti pulsionali primari » in cui « forse per la prima volta, nella genesi di una funzione intellettuale » è concesso penetrare. Si tratta di Eros e di Thanathos. L ’affermazione (meglio sarebbe dire il « s ì » ) è « sostituto

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dell’unificazione » e appartiene a Eros; la negazione (il ‘no’ ) è « c o n ­ seguenza » ( quindi, oltre che simbolo e contrassegno è anche conseguen­ za) dell’espulsione e appartiene alla pulsione di distruzione. Abbiamo più sopra anticipato che il discorso uccide ciò di cui parla. Ecco la conferma di Freud. La negazione è morte. La negazione dell’Iopiacere è tentativo di ritorno veloce all’inorganico. Nell’Io-reale è nega­ zione della negazione, con conseguente produzione del simbolo della ne­ gazione... E ’ importante che la fuoriuscita dai limiti e dagli effetti della rimozione (e della costrizione del principio di piacere) sia da addebitarsi ad una over-dose di thanatos (negazione della negazione). Morte della morte, ma sempre morte. Con il che si capisce che anche il principio di realtà è principio di piacere. Il discorso è morte delle cose (perdita), ma intenzionata a farle vivere, anzi rivivere (ritrovamento), perché non può non ucciderle. Dice Freud che « nell’analisi non sì scopre alcun ‘no’ proveniente dall’inconscio ». L ’inconscio non conosce il no, sappiamo che non conosce neppure la morte. Ma non la conosce perché non la può subire non es­ sendo stato sottoposto al trauma della nascita. — Veramente sappiamo che a un livello più elementare, anch’esso scaturisce da un trauma di nascita, come tutto: onnipresenza del discorso. — È l’esser nati che determina la mortalità, insieme costrizione a morire ma anche « possibilità » di mo­ rire, implicante cioè la « possibilità » di vivere. Dì soddisfare cioè i bi­ sogni attraverso la moltiplicazione degli stessi, la loro articolazione, diffe­ renziazione... La vita è quindi discorso, discorso sull’inorganico, inconscio, ince­ stuoso, immediato (m orte). Ma la vita, se non è fatta di morte, se non muore costantemente, « non porta frutto » , non è una vita degna d’es­ sere vissuta. Anzi, il discorso è fatto di vita e di morte, di resurrezione ( ritorno del rimosso) e di nuova ulteriore morte. Morto un papa se ne fa un altro; i ragazzi della via Pai, il giorno stesso della morte del loro piccolo eroe, sul luogo stesso della tragedia, si scambiano i compiti sco­ lastici; anche se questo rattrista il loro capo; la vita continua, la morte continua; la vita-morte continua. Sospendiamo un momento l’analisi del testo freudiano per un’osser­ vazione relativa all’incesto. Freud altrove 31 richiama l’ipotesi di Ferenczi secondo la quale il pene è prezioso perché « contiene la garanzìa di una riunione con la madre nell’atto del coito ». Alla luce dì questo richiamo Freud attribuisce l’impotenza al fatto di surrogare il coito con una « fan­ tasia » di « ritorno nel grembo materno » 32: « L ’individuo il quale vole­ va farsi rappresentare dal suo organo genitale per ritornare nel grembo materno ora sostituisce (in questa fantasia) regressivamente quest’organo con tutta la propria persona ». L'organo, piccolo rappresentante dell’organismo, della intera perso­ nalità, inviato a fare le veci di questi ultimi nel grembo della donna, realizza nel coito — forma di esperienza immediata — un discorso (sur­ rogato) riferito ad un’altra esperienza immediata, che è quella intraute­ rina. Si ha cioè la sostituzione (discorso) di una sostituzione (discorso) ;

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la regressione ad un discorso precedente; dal coito al reingresso nel ven­ tre materno, finalizzato a cancellare la nascita da esso, cioè ad allucinare la fuoriuscita da esso come mai avvenuta. L ’incesto consiste nell’impotenza a fare un’esperienza immediata (il coito) perché tentati da un’altra esperienza immediata, più primitiva (il re-ingresso nel ventre materno). Più profondamente, perché tentati di annullare un’altra esperienza immediata che è stata fatta (la nascita) e di fare un’esperienza immediata che non si può fare: il reingresso nel ventre materno. Incesto non è toccare quel che è toccabile (la donna), partecipare all’esperienza immediata disponibile (il co ito ); è volere toc­ care il non toccabile (la madre quale essa fu ) ; voler partecipare ad una esperienza immediata non disponibile (il reingresso nel ventre materno). Abbiamo precisato già: volere annullare una esperienza immediata (la na­ scita) e ritornare nel ventre della madre per starci come se non se ne fosse mai usciti; cosa che è possibile solo tramite l’allucinazione. L’ince­ sto infatti si realizza attraverso l ’allucinazione; l’impotenza è, in qualche modo, stare con una donna senza starci; basta rovesciarla e si ha l’onni­ potenza, non stare con una donna (la madre) ma, nonostante questo, riu­ scire a starci. Incesto è regressione di tutti i discorsi al più primitivo; l’allucinazione, puro Io-piacere; non progressione di essi (discorsi), né tra di essi scorrimento (quella che si chiama «m obilità della lib id o » ). L ’impotenza comunque non è incesto, è discorso sull’incesto; essa in­ fatti è simulazione di impotenza. Il vero incesto è il suicidio, totale o solo psichico (malattia profonda); non però il « t e n ta t o » suicidio. Apriamo una parentesi relativamente all’impotenza che abbiamo visto essere conseguenza ed espressione dell’incesto. Potremmo ipotizzare una « invidia della vagina » nel bambino, simmetrica alla « invidia del pene » della bambina ( vedi V« invidia della pancia », che è poi invidia di poter avere un bambino — a livello simbolico un pene, e il cerchio sì chiude — anche nell’uomo adulto). Potremmo allora ipotizzare la paura dell’evi­ razione come paura di perdere quel che si ha (il bambino il pene, la bambina la vagina) nel tentativo di ottenere quel che non si ha (il bam­ bino la vagina, la bambina il pen e). Freud descrive — nell’Edipo del ma­ schio, positivo verso il padre — il desiderio della femminilità come fre­ nato dalla paura della omosessualità (evirazione). La paura dell’evirazione apparirebbe quindi derivare direttamente dal­ l’incapacità di simbolizzare; dall’incapacità cioè di immaginare consegui­ bile l’oggetto del proprio desiderio in modi diversi da quello che sul momento risulta inconciliabile colla conservazione di un oggetto che si possiede già. Dall’incapacità cioè di impostare ad un livello più complesso di discorso il tema dei due precedenti discorsi: il desiderio di conservare il pene (o la vagina), il desiderio di avere anche la vagina (o il pene). Il bambino non può avere la vagina e il pene; può avere il pene e qual­ che cosa, che non sia la vagina, « al posto » della vagina; un suo rappre­ sentante, un suo simbolo. Anche se simbolizzante nel concreto. Ad esem­ pio, l’impotente può avere la donna, in carne ed ossa, al posto della ma­ dre (ormai probabilmente inesistente).

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Freud ritiene che la bambina non viva l’esperienza della paura del­ l’evirazione, per il fatto di avere già subito l’evirazione; ma anche il bambino è già in partenza evirato, perché non ha il pene del padre; non è cioè adulto. I bambini sono evirati, privati, dello status dell’età adulta; ma anche gli adulti sono privati di quello dell’età infantile. Sappiamo bene che i bambini hanno bisogno degli adulti ma reciprocamente questi ultimi dei bambini. Il problema è riuscire a simbolizzare ciò che si vuole; cioè riuscire a trovarlo in un luogo diverso da quello in cui si esibisce; riuscire a trovarlo in un discorso (in un altro discorso); indirettamente. Il contrario dell’incesto è la sostituzione dell’esperienza immediata appena fatta, con un’altra esperienza immediata; la progressione dei di­ scorsi. Il rischio del contrario dell’incesto, della progressione infinita dei discorsi (il suo opposto), è l’allucinazione all’altro capo del processo; l’Io-piacere all’altra estremità dell’Io-reale; l’allucinazione cioè di un reale ormai lontanissimo, come ancora a portata di mano. Mentre nei primi scritti33 a proposito della sublimazione (discorso) il problema è di tro­ vare la giusta misura: non bisogna esagerare con la sublimazione (con la progressione dei discorsi); negli ultimi scritti34 sembra che la sublima­ zione stessa, di per sé, determini lo scatenamento delle pulsioni distrut­ tive. Comporti un « disimpasto delle pulsioni », proprio perché è un processo di « desessualizzazione ». E ’ inevitabile questo scivolamento sul piano inclinato della distru­ zione e dell’autodistruzione? Consideriamo finalmente la seconda defini­ zione che Freud dà de\ « no » : esso è un « certificato della sua origine ». Abbiamo già visto qual’è la sua origine. Ma è interessante il fatto che Freud insieme indichi il « n o » (il discorso), come simbolo e come certi­ ficato. Vuol forse dire che esso rappresenta il reale psichico e materiale, ma che la rappresentazione deve grondare di questo reale; dice l’inconscio (in-fanzia), ma la dizione deve grondare di inconscio; di inorganico (dì destrutturazione) — il vecchio problema politico dell’organizzazione, del rapporto con la base... della rappresentanza. — D eve cioè costantemente presentare il certificato della sua origine, deve essere sempre pronto a dire da dove viene, non deve vergognarsene. Ma da dove viene? Dalle pulsioni primordiali (dai discorsi primor­ diali). E ’ necessario che queste pulsioni siano certificate, dette. E ’ neces­ sario che il rimosso ritorni, ma che, ritornando, si trascini dietro « le origini ». È necessario cioè che il discorso, — suscettibile di diventare divaricazione sempre più ampia tra vissuto e sua espressione, tra rappre­ sentato e rappresentante, di diventare perdita quasi irrecuperabile, morte quasi definitiva (irrecuperabile e definitiva nell’arco di una vita « uma­ na » ) , proprio allo scopo di evitare la distruzione, l’autodistruzione; cioè la scarica immediata, a un capo o all’altro, opposto, del processo; l’in­ cesto o il suo contrario, il ritorno non delle origini ma alle origini, cioè a livelli di discorso antichissimi, che nel corso di migliaia di anni abbiamo lottato per superare... è necessario, dicevamo, che il discorso utilizzi tutti i suoi possibili registri: quelli della sensazione, della percezione, della rap­ presentazione, del pensiero, anche dell’allucinazione sia ch’essa si manifesti

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attraverso l’astrazione massima dal reale esterno che attraverso l’astrazio­ ne massima dal reale interno (ci rendiamo ben conto che si tratta di una semplificazione) ; ma dando sempre alla massima astrazione l’alimento della massima concretezza consentita dal divieto dell’incesto (e del suo con­ trario ). Riprendiamo un momento il processo di simbolizzazione della nega­ zione. Il ritorno del negato (seno materno, grembo materno forse) sem­ bra avvenire nel discorso che è negazione: in esso si mette in mostra per diventarne l’oggetto. La negazione (cioè il discorso stesso) ritorna nel « simbolo della negazione », nel « no », che risulta essere « conseguenza » di un discorso sul discorso (discorso dì secondo livello); ad un terzo li­ vello si avrebbe un discorso sul discorso (sulla negazione) e sul discor­ rente (sul rimovente, sull’I o ) : si avrebbe il ritorno di tale discorso nella e colla strutturazione dell’Io (Es, Io, Super-Io)... Questi sono sì discorsi; ma in essi prevale la rimozione; il ritorno di un rimosso sempre più attenuato, mitigato, scolorito, che avviene sem­ pre all’interno di un nuovo discorso di grado più elevato. E ’ necessaria questa elevazione; essa è la progressiva introiezione della realtà esterna (materiale e sociale) con tutte le sue differenziazioni e consente l’azione trasformativa su questa realtà attraverso il ricorso a modalità differenziate di comportamento di cui l’apparato psichico diventa capace articolandosi nel corso dell’introiezione stessa... Rischia però di esserci sempre qualcosa che non torna. Anzi, non torna mai nulla. L’oggetto perduto è perduto per sempre. Il suo ritrova­ mento è solo una simulazione. E ’ in realtà una costruzione, un’invenzio­ ne; che può anche essere una ricostruzione dell’oggetto perduto sufficien­ temente attendibile e, contemporaneamente, una costruzione, anch’ essa sufficientemente attendibile, dì un nuovo oggetto reso necessario dalle nuo­ ve e mutate condizioni in cui ci si trova ad operare; ma rischia di essere un’invenzione non brevettabile, cioè non utilizzabile, un’allucinazione sia di quello che si perse sia di quello che non si è ancora avuto. L ’apparato psichico, abbiamo visto, manda in avanscoperta, come dire, delle staffette, degli esploratori (pìccole quantità di energia); ma bisogna che ad un certo punto decida di dare l’assalto. Bisogna che il di­ vieto dell’incesto sìa superato. Che si tocchi. « L ’Eros vuole il contatto, poiché tende all’unione, all’abolizione delle barriere spaziali tra l’Io e l’oggetto amato. Ma anche la distruzione, che prima dell’invenzione delle armi a distanza poteva effettuarsi solo da vicino, presuppone il con­ tatto corporeo, la manualità » 35. Il divieto di toccare è il divieto dell’incesto; è finalizzato all’innalza­ mento delle barriere, alla costruzione di quegli scarti che abbiamo visto consentire la formazione del discorso; il sogno (il discorso del sogno), ad esempio, si forma perché viene rispettata la barriera del sonno, perché non ci si sveglia. Ma, paradossalmente, la barriera è funzionale alla for­ mazione del discorso, il quale è poi funzionale al conseguimento del con­ tatto con la realtà. Il divieto cioè non è un divieto moralistico; sta nelle cose. Per

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toccare bisogna astenersi dal toccare. Ma una buona volta bisogna pur toccare. Ora, se teniamo presente che c’è sempre discorso e quindi sem­ pre divieto di toccare, cioè impossibilità oggettiva dì farlo; sempre quindi necessità di toccare all’interno del discorso, col discorso... l’esigenza di toccare una buona volta può solo significare esigenza di regredire a forme di discorso più elementari, che consentano un contatto più stretto, cioè, una distanza minore. Non bisogna avere paura di regredire. E ’ come dire che bisogna fare entrare nel curriculum scolastico le attività integrative, considerarle — come in modo rivoluzionario fa la legge 517 — attività « scolastiche ». Che equivale a dire: è scolastica la manipolazione delle feci. Le attività integrative sono quelle che sporcano la scuola, la mettono in disordine; la mettono egualmente a soqquadro però, e bisogna farvi quindi entrare, anche l’interclasse verticale e quella orizzontale ( altra for­ ma di attività sadico-anale)... Bisogna combattere la povertà della rimo­ zione che non sa attingere alle fonti all’una estremità o all’altra del pro­ cesso e in ogni sua singola fase 36. Quando Freud descrive il lavoro onirico precisa più volte che esso lavora il resto del giorno prima; ma, nel sogno ( nel discorso del sogno) non è solo il resto del giorno prima che ritorna. Esso va ad immergersi nell’inconscio e se lo trascina dietro nel sogno. Un’operazione simmetri­ ca 37 è effettuata dal bisogno in-fantile {il non detto) che si protende verso il resto del giorno prima e si fa da lui rappresentare. Ciascuno usa l’altro come suo rappresentante, come parola: ne viene il sogno in cui si ha il ritorno di molte cose, ma, tra le altre, anche di quelle mai dette: dell’in­ conscio (le origini). (L e cose mai dette nella realtà sono le cose dette all’origine; i discorsi originari). Ver questo Freud sottolinea l’importanza di spingere l’analisi fino all’in-fanzia38. Il bambino è « l’oggetto principale dell’investigazione psicoanalitica; da questo punto di vista ha preso il posto del nevrotico » 39. L ’analisi « ha mostrato nel malato, come del resto nel sognatore e nell’ar­ tista, la sopravvivenza del bambino, modificato appena » 40. Si tratta di modificare ulteriormente questo bambino, cioè di dire ulteriormente l’in­ fanzia. In questo senso va forse interpretata l’affermazione di Freud « L ’uo­ mo non può rimanere eternamente bambino » 41; anche se, o proprio perché, questa affermazione è controbilanciata da quella che l’individuo « crescendo, si accorge che è destinato a rimanere per sempre un bambi­ no » 42. L ’inconscio è inesaurìbile, « interminabile », ma proprio per questo va sondato, espresso, analizzato. Ritorno del rimosso e ritorno all’incon­ scio significano scoperta del nuovo riscavato nell’antico, nelle pulsioni in­ fantili, originarie, non dette e indicibili, nel senso di solo parzialmente dicibili. I sintomi sono « soddisfacimenti sostitutivi, i quali tuttavia sono causa di sofferenza o in quanto tali o perché provocano difficoltà col mon­ do circostante e con la società » 43. Sono causa di sofferenza di per se stessi perché « se una tendenza pulsionale soggiace alla rimozione, le sue

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parti libìdiche si trasformano in sìntomi, le sue componenti aggressive in senso di colpa » 4A; cioè il discorso dice, ma sostituendo quel che dice con altro; uccìdendo quel che dice e facendo vivere al suo posto qualche cos’altro: la parola. Da qui la sofferenza. Torneremo meglio su questo più avanti. Dice Freud che, col procedere della malattia, il soddisfacimento assi­ curato dai sintomi diventa sempre più « importante » 45, cioè consistente. Ne consegue il « completo fallimento della lotta difensiva iniziale » 46, che si esprime in un « Io straordinariamente limitato, e costretto a cercare nei suoi sintomi i propri soddisfacimenti. Lo spostamento dei rapporti di forza a favore del soddisfacimento può portare al temuto esito finale di paralizzare le facoltà volitive dell’Io, che per ogni decisione incontra impulsi quasi altrettanto forti sia da una parte che dall’altra. L’acutissimo conflitto fra Es e Super-io, che domina la malattia fin dal principio, può estendersi al punto che nessuna azione dell’Io — incapace ormai di assol­ vere il suo compito di mediazione — può sfuggire al coinvolgimento in tale conflitto » 47. Quel che Freud ci spiega non è tanto che l’Io si trova a dover cer­ care i propri soddisfacimenti nei propri sìntomi; perché in ogni caso i soddisfacimenti sono cercabili solo nei sìntomi (discorsi). Quel che Freud ci spiega è: 1 ) che ogni discorso tende a regredire a un livello inferiore di discorso; 2 ) che la malattia (malattia del discorso) può comportare la regressione definitiva a livelli di discorso elementari. Il sintomo dominante sugli altri è infatti quello dell’impotenza; non si ha quindi un ritorno alle origini come attingimento ad esse; ma il ritorno alle origini come cancellazione definitiva dello sviluppo compiuto. L ’attività dell’Io promotrice del « libero scambio » 48 e che gli ha procurato la sua ricchezza attraverso l’utilizzazione oculata dì tutti i re­ gistri dell’apparato psichico e, parallelamente, di tutte le proposte-occasio­ ni del mondo esterno, viene a cessare. L ’Io cade allora in miseria. Non c ’è più alcun ordine; c’è arraffa-arraffa, corruttela e delitto, generale regres­ sione al principio di piacere, della scarica immediata. Ritorno all’inorgani­ co, all’inconscio, all’Es « che è per così dire scisso, in modo che le sue singole tendenze perseguono i loro scopi indipendentemente e sensa ri­ guardo l’una all’altra » 49. Abbiamo già visto che il discorso è esso stesso « scissione », comuque e ad ogni livello. Ma in questo caso si aggiunge un livello ulteriore di scissione, quello tra i vari discorsi possibili, che rimpiazza la scissione « legata », l’articolazione dei discorsi come scambio dei discorsi, pluralità dei discorsi. Quando tutto preme verso il soddisfacimento, tutto entra in conflitto con tutto e ne deriva l’immobilità; cioè, da una parte il non soddisfacimento di tutte le istanze, dalValtra il soddisfacimento dell’im­ pulso a tornare alle origini per la via più corta e rapida (thanathos puro). L ’Io diventa una misera cosa, « straordinariamente limitato » ; è messo in iscacco, fuori gioco. Sì tratta quindi di tornare alle origini, ma non per sostituire il di­ scorso delle origini ad ogni altro discorso; bensì per includere il discorso

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delle orìgini nell’ambito dì tutti gli altri discorsi; volerlo escludere sareb­ be volere l’impossibile e pagare l’allucinazione conseguente con l’alluci­ nazione contraria. Certe « condizioni angosciose — dice Freud — non tramontano invece affatto essendo destinale anzi ad accompagnare l’ uomo per tutta la vita... contro il ritorno della situazione angosciosa traumatica originaria anche l’essere adulti non offre alla fin fine alcuna garanzia suf­ ficiente; vi è forse per ognuno un limite oltre il quale l’apparato psichico non riesce a far fronte alle masse degli eccitamenti che pretendono di es­ sere liquidati » 50. Si è costretti a tornare al processo primario; quello se­ condario è la rimozione di quello primario, il quale prima o poi torna, ubbidendo al rintocco dell’idiosincrasia individuale. I « limiti », quelli entro i quali la progressione dei discorsi può avvenire, possono essere ampliati, spostati; ma un tale spostamento non potrà né dovrà significare smarrimento delle origini, sradicamento. Sarebbe come non voler dormi­ re; o, dormendo, non voler sognare: la morte. Freud si domanda se gli uomini « devono essere così » 51; cioè « do­ minati per intero dai loro desideri pulsionali » 52. Gli uomini « non amano spontaneamente il lavoro e le argomentazioni non possono nulla contro le loro passioni » 53. Freud suggerisce di considerare tale giudizio come « de­ scrittivo » 54 e « legittima » la « speranza per il futuro » 55. In che cosa è speranza questa speranza? Nella possibilità forse che vengano formulati giudizi equivalenti a un « preferirei rimuovere » invece di rimozioni vere e proprie; che vengano cioè formulati degli « equivalenti » delle rimo­ zioni. Scopo del trattamento è proprio quello di « sostituire gli esiti della rimozione con i risultati del lavoro razionale della nostra mente » 56, cioè del lavoro giudicante del tipo «preferirei rimuovere ». Giudizi (discorsi) molto raffinati perché, da una parte sono fatti a un livello di organizza­ zione psichica più elevato, quindi di rimozione più forte, dall’altra con­ sentono una rimozione meno rilevante. E ’ pensando a questo che Freud dice che anch’egli corre forse « dietro ad un’illusione » 57. Se di un’illusione si tratta, caratterizziamola meglio. « Eppure in questa debolezza c’è qualcosa di particolare: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza. Più e più volte pervicacemen­ te respinta, riesce alla fin fine a farsi ascoltare » 5S; « ...a lungo andare nulla può resistere alla ragione e all’esperienza » 59. Come dire: ci sono due tendenze, l’una a regredire verso forme di discorso più primitive, l’altra invece a progredire verso forme di discorso più evolute; di nuovo sulla scena le forze primordiali della morte e della vita, indistruttibili. Altrettanto indistruttibili sono le due tendenze di cui sopra. Come le pulsioni di vita e di morte « non si presentano quasi mai allo stato puro » 60, e quando se ne ha un disimpasto si ha soltanto un loro nuovo modo di impastarsi, cioè un loro reimpasto; così regressione delle forme dei discorsi e loro progressione sono sempre tra loro combinate. L ’illu­ sione di Freud è che sia sempre possibile trovare l’impasto o il reimpasto giusto. Attenzione infatti: è alla ragione e all’esperienza che non si può resìstere, dice Freud; sì pone quindi il problema, tutto politico, di una « decisione » relativa al tipo d.i impasto necessario e possibile.

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La traslazione, la ripetizione, è ritorno all’immediato 6l; ad esempio, ritorno alla versione personalistica, familiare, del Super-Io 62. Essa ( trasla­ zione) è stata all’inizio un contrattempo, uno scandalo; è poi diventata un’arma, la più potente, dell’analisi. L’ uso di tale arma deve essere molto prudente: si può ripetere solo tanto quanto si riesce a elaborare6Ì; non di più. Ma è essenziale ripetere. Se non si ripete spontaneamente bisogna sforzarsi di farlo! Vedi il caso del paziente di Freud che « si sforza di ripetere... come se... rivivesse » M. Il paziente infatti scarseggia di immediato, anche se sembra tanto immediato. È, come dice Freud, ammalato di reminiscenze, ma incapace di ritrovare ciò che ha perduto 65. Se consideriamo l’analisi sotto questa angolazione, dobbiamo abbandonare la definizione che ne diamo — anche a ragione — quando diciamo eh’essa è fornitura di parola al paziente per­ ché riesca a dire l’in-fanzia, il bisogno in-fantile; perché riesca a formare altri discorsi oltre quelli del sintomo, del sogno e della traslazione. Essa è prima di tutto fornitura di silenzio, attingimento dell’in-fanzia... E ‘ chiaro che le due definizioni non sono affatto in contraddizione; sono de­ finizioni di due necessità imprescindibili. Questo fa sì che tutto il già detto sia rinunciabile 66; irrinunciabile è solo il non detto, l’infanzia (oltre che il dirla!). E ’ essa che deve tornare. Com e? In « L ’Io e l'Es » Freud parla di una specie di ritorno diretto, che non segue vie traverse. Delle « sensazioni » dice che, a differenza delle rappresentazioni, sono consce o inconsce 67. « Anche quando sono collegate a rappresentazioni verbali, non diventano coscienti a mezzo di queste ultime, ma in modo diretto ». La rappresentazione deve grondare di queste sensazioni, che l’accom­ pagnano conferendole il potere di una scarica; questa scarica — l’effetto di « azione motoria » del discorso — è la scarica delle sensazioni le quali diventano consce in questo modo: intervenendo nella coscienza la co­ stringono a tener conto di esse; ma non arrivano mai ad essere espresse nel discorso. Sicuramente non in quello verbale. Di nuovo: se teniamo conto del fatto assodato dell’onnipresenza del discorso, possiamo inten­ dere questo « modo diretto » indicato da Freud come polifonia, come compresenza di più discorsi: più raffinati e insieme più elementari. Il di­ scorso più raffinato deve sempre mescolarsi e compiacersi di questo me­ scolarsi, questo è l’essenziale; la mescolanza di fatto essendo inevitabile coi discorsi più elementari. Fu una scoperta sorprendente quella che l’Io è inconscio68, l’Io, l’istanza della coscienza. Si deve pensare seriamente al ritorno del rimos­ so non come ritorno alla consapevolezza, o, per lo meno, non come sem­ plice ritorno ad essa. La rimozione stessa — per definizione — non ri­ guarda un’oggetto che occupa lo spazio della consapevolezza. Si tratta di pensare alla rimozione e al ritorno del rimosso come interessanti l’essere nella sua globalità ( Es, Io, Super-io). Freud parla più di una volta di una specie di intelligenza inconscia; dichiara, ad esempio, « incontestabile sotto il profilo descrittivo » il fatto « che l’Inc di una persona possa reagire all’Ine di un’altra persona elu­

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dendo il C » 69; e che ogni uomo « possiede nel suo inconscio uno stru­ mento con il quale è in grado di interpretare il modo in cui si esprime l’inconscio degli altri » 70. Da ciò deriva l’uso frequentissimo da parte di Freud del termine « indovinare » in luogo di « interpretare ». Valga per tutti un esempio tratto da « Il problema dell’analisi condotta dai non me­ d i c i » 11: « ...Lei deve indovinare ciò che dietro si nasconde. In altri ter­ mini questo materiale... Lei lo deve interpretare ». In ogni caso, dice Freud, nel trattamento « il lavoro di interpretazione è piccola cosa » 72 ri­ spetto alla lotta contro le difese, rispetto cioè alla traslazione-controtraslazione. Quando Freud afferma: « La nostra terapia opera trasformando in conscio ciò che è inconscio... », più avanti però specifica che « compito del trattamento » è «. rendere cosciente ciò che è inconscio in modo pa­ togeno » n. E ’ solo quando l’opportunità dello scambio dei discorsi lo ri­ chiede che un discorso inconscio deve diventare conscio ( e viceversa). E ’ allora l’impedimento a compiere lo scambio che è patogeno. L ’Io è un’« organizzazione » 1A, l’Es non lo è 75; ma, dato che « l’Io è identico all’Es » 76 se ne conclude che l’Io è « solo una parte singolar­ mente differenziata dell’Es » 11; cioè la sua « porzione organizzata » 78. L ’Io, abbiamo visto, si fonda « sul libero scambio e sulla possibilità delinfluenzamento reciproco di tutte le sue componenti » 19; se si tiene conto che è spinto da una « coazione alla sintesi » 80 cioè da una tendenza a « legare », si intuisce che la differenziazione è insieme collegamento; per questa ragione l’Io è organizzazione e possibilità di scambio coerente, fi­ nalizzato. E ’ necessario però che l’Io non sia un’organizzazione campata in aria. D eve essere organizzazione dell’Es e del Super-io. La distinzione ( dif­ ferenziazione e scissione) tra Es, Io e Super-io, inaugura il discorso re­ lativo all’apparato psichico; bisogna però che ogni istanza che è scissa, allontanata, rimossa, ritorni; bisogna che la « scissione » 81 che è comun­ que inevitabile tra le varie istanze, non sia tale da non consentire lo scambio; deve anzi essere funzionale ad esso. Bisogna, in questo senso, che l’Io risulti « non distinguibile da esso » {l’Es) 82. « Analogo è il rap­ porto dell’io con il Super-io » 83. Dice Freud « ...non vi è ostilità fra Io e Es; essi costituiscono un tut­ to, e nello stato di salute non occorre distinguerli » 84. L ’incesto è la fu­ sione degli ingranaggi dell’apparato, il loro ingrippamento; la funzionalità perfetta è la loro distinzione e insieme il loro collegamento così recipro­ camente funzionali da creare l’apparenza di un « tutto » ; cioè di una fusione, di un incesto. D ove però le parti si toccano senza fondersi; ma, sfiorandosi, scorrono. L ’Io non è « quella unità che si è sempre pensato » 85; d’altra parte la sua « unitarietà » 86 viene meno solo nella nevrosi, la quale è anzi « in­ dizio » del suo essere venuta a mancare87. Se ne può di bel nuovo con­ cludere che l’apparato psichico è differenziato (non monolitico) ; appare unitario il momento in cui le sue varie componenti funzionano in modo tale che non si avverte la modalità del loro funzionamento (scissione e

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collegamento; rimozione e ritorno del rim osso); cessa di apparire unitario il momento in cui c’è uno scacco del loro funzionamento; che equivale solo ad un funzionamento più diffìcile, tale da comportare la riparazione degli ingranaggi e conseguentemente la loro conoscenza. Lo scacco di uno o più discorsi, solitamente lo scacco dello scambio dei diversi discorsi, inaugura il discorso sul funzionamento dell’apparato psichico. Ma avviamoci alla conclusione. La gioia che i discorsi più elevati (sublimazioni) possono assicurare « c i sembra — dice Freud — ‘più fine e più elevata’, ma... a paragone di quella derivante da moti pulsionali più rozzi, primari, che siano stati saziati, la sua intensità è minore: non scuote la nostra esistenza corporale » 88. D ’altra parte l’Io è un « Io-corpo » 89; è cioè un’« entità corporea » 90. Quindi è necessario toccare e scuotere l’esi­ stenza corporale. C’è però modo e modo. Il moto pulsionale può essere infatti « sel­ vaggio », cioè tale che l’Io «non lo controlla in alcun modo » 91. La soddi­ sfazione di un moto pulsionale di questo genere dà un « senso di felicità... incomparabilmente più intenso di quello che sì ottiene saziando una pul­ sione addomesticata » 92. Noi però sappiamo che ogni pulsione è addome­ sticata, cioè che ogni pulsione si esprime attraverso un linguaggio che co­ stituisce per l’appunto il suo addomesticamento 93. Si tratta quindi di scegliere tra addomesticamento ed addomestica­ mento. Quando Freud parla della sublimazione la definisce come scelta di una meta più « elevata » / o « più lontana » 94; ma aggiunge solitamente un’altra qualificazione della meta che illustra la prima: essa deve essere « di maggiore valore sociale » 9S. In che cosa consìste questo « maggiore valore sociale » ? Freud ritiene che « desessualizzando la libido dell’Es, l’Io lavora con­ tro le finalità dell’Eros, e si pone al servizio dei moti pulsionali di parte avversa » %. Ma, nella pagina precedente ha precisato che la « libido desessualizzata » può essere definita anche « energia sublimata » e che essa sì attiene « fermamente a quello che è il fine principale dell’Eros, cioè l’unire e il legare... ». Se ne conclude che la sublimazione è contemporaneamente negazione e affermazione; scissione e legame; morte e vita... come ogni altro di­ scorso. Ma allora che cosa la rende di maggiore valore sociale? Spesso Freud sembra incoraggiare a sostituire una « nevrosi individuale » con una « nevrosi universale » 91; cioè un discorso individuale con un discorso universale, in altri termini: sociale. Ma è veramente arduo stabilire che cosa significhi « sociale » ; anzi « maggiormente sociale », essendo ogni di­ scorso sempre in qualche modo sociale. La definizione che ci sembra più importante — anche perché quasi totalmente depurata da contaminazioni ideologiche — è quella che Freud costantemente offre ogni qualvolta insiste a definire lo scopo di Eros (m e­ glio sarebbe dire del continuo reimpastarsi dì Eros e Thatathos) come quello di « complicare la vita » 98. Sociale è ciò che sfugge alle eccessive semplificazioni (incesto all’un capo o all’altro del processo99), sodale è quel che si fa carico della complicazione. Ma la complicazione non coinci­

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de con la lontananza dalla morte ( morte del desiderio e morte tout courù) ; è invece dialogo costante con essa; è anche accettazione-celebrazione di essa; perché bisogna morire. Quella della « complicazione » 100 non è la sola assonanza con Proust. Alcune osservazioni ancora prima di concludere. Nel « Compendio di Psicoanalisi » 101 Freud dice che l’Es « non tratta direttamente con il mondo esterno e anche alla nostra conoscenza diventa accessibile soltanto grazie alla mediazione di un’altra istanza ». Quest’istanza è l’Io. L ’Io è quindi la via indiretta — il discorso — che consente la comunicazione dell’Es con il mondo esterno (e con la coscienza in quanto mondo estern o). L ’Es « non conosce l’angoscia », in ogni caso « non sa utilizzarla » m; l’Io invece sperimenta l’angoscia e « sì serve delle sensazioni di angoscia come di segnali che annunziano pericoli minacciosamente incombenti sulla sua integrità » 103. L ’Es è l’immediato, ciò stesso che provoca l’angoscia; il non detto in cerca di discorso. L ’Io è l’istanza che prova l’angoscia e che cerca di trasformarla in « segnali », in discorsi, utili per altri discorsi ancora. Dice Freud che l’Io — che abbiamo visto essere la via indiretta attraverso la quale l’Es comunica con la realtà esterna — è « in diretto contatto con il mondo esterno {la realtà) » 104. Esso — di cui è poi anche detto che « deve la sua orìgine » 103 alla « relazione con il mondo esterno reale » 106 — « rivela nella sua persistente dipendenza dal mondo esterno il sigillo indelebile della sua provenienza {più o meno il Made in Germany ) » 107. , Si tratta di una parentesi evocatrice. Altra volta Freud ha usato questa stessa formula: a proposito del « no » che è il certificato d’origine ( Made in Germany) della rimozione. Quest’ultima è originata dalle pul­ sioni primordiali. Se seguiamo però l’evoluzione del pensiero di Freud vediamo che la rimozione, inizialmente considerata come opera dell’Io, successivamente, è invece considerata « opera del Super-io, che l’effettua esso stesso oppure mediante l’Io che sta ai suoi ordini » 108. Ora, se si tiene conto del fatto che il Super-Io « contìnua as volgere per lélo il ruolo di un mondo esterno, nonostante sia diventato parte del mondo interno » 109: se cioè si tiene conto del fatto che esso è l’erede del com­ plesso edipico e che quindi rappresenta, nell’apparato psichico, l’istanza del inondo esterno — infatti i genitori rappresentano quest’ultimo; per­ ché i genitori non sono soltanto « le qualità particolari » di essi geni­ tori, ma « anche tutto ciò che su di essi ha influito in maniera determi­ nante: le inclinazioni e le esigenze del ceto sociale in cui vivono, i carat­ teri e le tradizioni della razza a cui appartengono » no; i genitori sono quindi il mondo esterno attuale, il « passato organico » e l’eredità storica {la « civiltà trascorsa » ) m — si vede bene che il Super-io di cui è opera la rimozione, è una sintesi di passato e di presente; di mondo esterno e di mondo interno; di realtà effettuale e di realtà psichica. Si vede bene cioè che l’origine della rimozione risale sia al mondo interno {Es) che a quello esterno {realtà). Se adesso ritorniamo all’Io riscontriamo questa situazione parados­

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sale: esso, oltre che in diretto contatto col mondo esterno, lo è anche col mondo interno, per l’appunto con l’Es. Sia il mondo esterno che quello interno sono fonte di pericoli, quindi di angoscia112; sono cioè non detto in cerca di discorso. L’Io « combatte su due fronti » m. L ’Io è impegnato cioè ad essere due discorsi. Sia il mondo esterno che quello interno minacciano l’Io di « annien­ tamento » 114; l’Es minaccia di ritrasformarlo in una « sua parte » Meglio, sono « le intensità pulsionali eccessive... » così come « gli ‘stimoli’ troppo grandi del mondo esterno » 116 che rischiano di annientarlo ; perché l’angoscia istituisce l’Io come organo del primo discorso, il discorso per l’appunto dell’angoscia; l’organo che costruisce « i segnali » dell’angoscia, precursori e presupposti di altri discorsi; ma un eccesso di angoscia, cioè un eccesso di non detto, uccide l’Io, uccide la possibilità di una progres­ sione dei discorsi. Appare abbastanza evidente che l’Io è — quando riesce ad esserlo — discorso contemporaneamente della realtà esterna e di quella interna; loro via indiretta. È la via che consente all’Es di comunicare indiretta­ mente con il mondo esterno; è quella che consente al mondo esterno di comunicare indirettamente con l’Es. L ’Io « adopera contro entrambi gli stessi metodi di difesa » 111; cioè si fa discorso. Freud chiama questi me­ todi, nell’essenza identici, con nomi diversi; a seconda che siano adottati verso l’Es\ « rimozioni » ; o verso il mondo esterno: « rinnegamenti » 118. La scelta fondamentale — che viene fatta negli anni dell’infanzia — sembra essere per Freud quella tra mondo esterno e mondo interno 119. La «p resa di posizione... in favore del mondo esterno in contrasto col mondo interno » m, da una parte pone le basi della nevrosi { evitabile se alla sessualità infantile fosse concesso di « sfogarsi liberamente » 121); dal­ l’altra pone le basi dell’evoluzione della civiltà. Ora, nella realtà, la scelta, qualsiasi essa sia, non può che essere scelta di « vie traverse » 122. È come dire che la formazione di una specie di nevrosi e la costruzione di una forma di civiltà sono inevitabili. La scelta tra nevrosi e non nevrosi, tra civiltà e non civiltà, non si pone. L ’Es percorre vie traverse, perché non può ottenere un « soddisfacimento diretto » 123; così fa pure la realtà esterna, la quale non può imporre la propria accettazione, diciamo così, « senza tanti discorsi ». E invece necessario, inevitabile, che dei discorsi siano fatti. L ’Io è il luogo di questi discorsi; è la sede della contrattazione. Siamo così arrivati alla conclusione che non c’è un’origine ( una G er­ mania); sono due le orìgini (le Germanie) : l’Es e la realtà; la realtà psichica e la realtà effettuale (naturale, storica, sociale). A questa du­ plice origine Freud dà un’incredibile corposità quando sottolinea che nei sogni del nevrotico si palesa la realtà psichica mentre in quelli dello psi­ cotico si palesa quella effettuale m . Come dire che l’inconscio è, a se­ conda, l’Es o la realtà. In effetti l’inconscio è l’uno e l’altra. Freud a questo punto ipotizza l’esistenza di una « scissione (spaltung) psichica » 12S; è come se ci fossero « due impostazioni psichiche anziché una sola, una, quella normale, che tiene conto della realtà e l’altra, che sotto l’influsso pulsionale, stacca l’Io dalla realtà » m. Questa stessa scis-

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sìone è però presente anche nel nevrotico, « è anzi un carattere generale delle nevrosi » 127 nelle quali un’impostazione psichica tiene conto dell’Es, e l’altra, sotto l’influsso della realtà esterna, stacca l’Io dall’Es. A proposito del discorso feticistico Freud osserva che « sarebbe in­ giusto » 128 chiamare scissione dell’Io il processo che porta alla formazione del feticcio. Propone invece di dargli il nome che si merita: « formazione di compromesso mediante spostamento » 129 e precisa che si tratta dello stesso processo che presiede alla formazione del sogno, del quale viene detto che è una « psicosi » ! « Una psicosi invero di breve durata, inno­ cua, che è perfino adibita a una funzione utile, introdotta con il consenso del soggetto e fatta terminare da un suo atto di volontà » 13°. È qui indi­ cato chiaramente il discorso, che è insieme nevrosi e psicosi, nelle sue caratteristiche che lo rendono nevrosi e psicosi normali: breve durata, in­ nocuità, assoggettamento ad un fine utile, sua promozione col consenso del soggetto, sua sospendibilità tramite un atto di volontà dello stesso. « Scissione dell’Io infatti » e « formazione di compromesso » sono fenomeni che si sovrappongono; perché la scissione dell’Io è tentativo, ine­ vitabilmente compromissorio, di fare due discorsi contemporaneamente. L ’Io cerca, scindendosi dall’Es, da lui separandosi, proprio attraverso que­ sta scissione e separazione, di comunicare con lui; così pure cerca, scin­ dendosi dalla realtà, separandosi da essa, proprio attraverso questa scis­ sione e separazione, di comunicare con essa. Di più, si offre com e il luogo in cui questi due discorsi possono incontrarsi e comunicare tra loro; si offre cioè come il luogo del compromesso. Certo se questi discorsi « coesistono... senza mai influenzarsi a vicenda » 131 il compromesso non è raggiunto, o è raggiunto non nella sede dell’Io, sicuramente non in quella dell’Io-reale. Parallelamente non sarebbe difficile dimostrare come la « for­ mazione di compromesso » si costruisca sulla base di una precedente scis­ sione tra le entità che poi approdano al compromesso. E finiamo. L ’Es ubbidisce al principio di piacere; « Ma non l’Es sol­ tanto » ,32. Qui Freud apre un « interrogativo altamente significativo dal punto di vista teorico, e finora rimasto senza risposta, come e quando si riesca in generale a superare il principio di piacere. La considerazione che il principio di piacere esige una riduzione — e forse in definitiva l’estin­ zione — delle tensioni dovute ai bisogni (Nirvana), ci rinvia alle rela­ zioni non ancora indagate a dovere tra il principio di piacere e le due forze originarie, l’Eros e la pulsione di morte » 133. Non solo l’Es, anche la Realtà mira all’estinzione dell’Io (ubbidisce cioè al principio di piacere). Tutto il problema deve essere fatto risalire alle relazioni tra Eros e Thanathos. Ma il campo di battaglia sul quale essi a questo punto si incontrano appare molto più vasto; è quello costituito da tutta la realtà: individuale (filogenetica, ontogenetica), naturale, so­ ciale, storica. Non a caso la prova di realtà (il principio di realtà) non è soltanto verifica della corrispondenza della rappresentazione con una per­ cezione possibile, ma anche con un’autopercezione possibile m . Si tratta cioè di verificare in primo luogo se un determinato oggetto, supposto ca­ pace di soddisfare un determinato bisogno, esiste nella realtà; in secondo

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luogo, se la soddisfazione presunta derivabile da questo determinato og­ getto, esiste nella realtà, è cioè realmente erogata. È chiaro quindi che l’oggetto perduto — il quale risulta composto di un oggetto esterno (ad esempio il seno) e da un oggetto interno (le reazioni affettive ad esso) — potrà essere trovato solo in un luogo diverso da quello in cui fu tro­ vato una volta; può essere solo ritrovato, cioè ricostruito. 14 aprile 1980.

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NOTE

1 Opere, Boringhieri, voi. 10. I riferimenti bibliografici sono sempre all’Opera Omnia pubblicata da Boringhieri. I passi di cui non è dato riferimento bibliografico sono citati da « La negazione ». 2 II seno materno. Vedi: « L ’interpretazione dei s og n i», voi. 3, pag. 515 e seg., oltre che il «P rog etto di una p sicologia », voi. 2, pag. 231 e seg. 3 « Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità », voi. 9, pag. 368 e seg. 4 Ibidem. 5 « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pp. 263, 310. 6 «M e ta p sicologia », voi. 8, pag. 39 e seg.; «In ib izion e, sintomo e angoscia», voi. 10, pp. 242, 309. In « Il problema dell’analisi condotto da non medici », voi. 10, pag. 369, la rimozione è definita uno « scappar via da se medesimi ». 7 Vedi, ad esempio, in « La negazione », 1’ « estraneare » l’oggettivo dal sog­ gettivo. 8 La rimozione porta, nel pensiero freudiano, una «n o v ità assoluta», (« A u to biografia », voi. 10, pag. 98) e funziona come il « punto di partenza centrale cui poi riallacci amo tutte le altre parti della teoria psicoanalitica» {ibidem). D el resto ci sembra che anche Freud, una volta rivista la nomenclatura, sia rimasto affezionato al termine e al concetto di rimozione (vedi « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pag. 272). 9 E ’ in termini di « congruenza » che Freud si esprime relativamente al rap­ porto conoscitivo tra apparato psichico e realtà esterna; il com pito della scienza viene precisato come quello di « dire come il m ondo deve apparirci in ragione del carattere particolare della nostra organizzazione », (« L ’avvenire di un’illusione », voi. 10, pag. 484). Interpretare (inter-pretium) vuol dite: mediare, contrattare. 10 Vedi, ad esempio, «A u tob iog ra fia », voi. 10, pag. 98: «strada indiretta», « vie tortuose ». 11 « Feticismo », voi. 10, pag. 492. 12 « Metapsicologia », voi. 8, pag. 43. 13 « Metapsicologia », voi. 8, pag. 61. 14 Nella « Minuta H », voi. 2, pag. 36 e seg., la signorina nega ora quel che prima ha invece confessato alla sorella. Quanto ha affermato lo ha affermato alla sorella e l’ha in lei depositato; adesso lei lo ignora; perché l’ha perso nella sorella. Lanegazione, rimozione, in cui da ora in poi persiste, equivale ad un’affermazione sì, ma solo per la sorella che è il luogo del suo discorso. 15 Anche simbolo — sin-ballo — implica l’allontanamento: « getto insieme ». 16 « Il m otto di spirito e la sua relazione con l ’inconscio », voi. 5, pag. 139. 17 « I l problema dell’analisi condotta dai non medici », voi. 10, pag. 368. 18 Ibidem , pag. 369. Vedi anche: « Un ricordo infantile di Leonardo da Vinci », voi. 6, pagg. 222-3. 19 « L ’interpretazione dei sogni », voi. 3, pag. 485. 20 « L ’I o e l’Es », voi. 9, pag. 482. 21 Sappiamo bene che la nevrosi serve a illuminare quella che ci possiamo lim i­ tare a chiamare norma. Quest’ultima è da Freud considerata solo un grado diverso di nevrosi (o viceversa, non cambia m olto). Vedi: « I l disagio della civ iltà », voi. 10, pag. 629: si può qualificare un comportamento come nevrotico solo quando è « indi­ viduale » e suscita un’« impressione di contrasto » con lo « sfondo deU’ambiente considerato ’normale’ ». In ogni caso la rimozione è una funzione normale, presente anche in «con d izion i di buona salute» («C in q u e conferenze sulla psicoanalisi», voi. 6, pag. 155); una funzione «perfettam ente giustificata» (vedi: «In ib izion e, sintomo e angoscia», voi. 10, pag. 270); q u i si tratta dell’isolamento, una delle form e della difesa. E ’ solo la sua esagerazione che sentiamo come non giustificata; essa comporta

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un viaggio apparentemente interminabile; verso una meta così lontana da cui non appare possibile il ritorno (m otte tout court). M a un grado molto elevato di rimo­ zione rende tutto più chiaro ed illumina anche i gradi di rimozione più tenue, tanto tenue da scomparire all’osservazione. 22 « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pag. 245. 23 « I l disagio della civ iltà », voi. 10, pag. 610. 24 « L ’interpretazione dei s o g n i», voi. 3, pagg. 172-3; vedi anche: « I l motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio », voi. 5, pag. 129. 25 « L ’interpretazione dei sogni », voi. 3, pag. 513. 26 « Introduzione alla psicoanalisi », voi. 8, pag. 209. 27 Ibidem , pag. 241. 28 « Metapsicologia », voi. 8, pag. 61. 29 Ibidem , pag. 60. 30 V oi. 10, pagg. 577-8. 31 « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pag. 286. 32 Ibidem , pag. 287. 33 A d esempio, « Introduzione alla psicoanalisi », voi. 8, pag. 502. 34 A d esempio, « L ’Io e l’Es », voi. 9, pagg 493, 516. 35 «In ib izio n e , sintomo e angoscia», voi. 10, pag. 271. 36 E ’ necessario cioè non interrompere il coito; ma non interromperlo significa non sospenderne l’esecuzione materiale e non sospenderne l’esecuzione psichica (la «elaborazione p s ich ica » ): vedi tutti i luoghi in cui Freud affronta e lavora pro­ gressivamente il concetto di « nevrosi attuale ». 37 E ’ qui presentata la scena reale della traslazione e della contro-traslazione (vedi « Interpretazione dei sogni », voi. 3, pagg. 500, 504-5, 507, 512-3-4, 541-2. 38 « ...l’analisi deve risalire ai primi anni infantili del paziente, giacché in tale epoca, e mentre l ’I o è debole, si sono costituite le rimozioni decisive » ( « Il pro­ blema dell’analisi condotta dai non medici », voi. 10, pag. 376). 39 « Prefazione a “ Gioventù traviata” di August Aichhorn », voi. 10, pag. 182. 40 Ibidem . 41 « L ’avvenire di un’illusione » , voi. 10, pag. 478. 42 Ibidem , pag. 454. 43 « Il disagio della civiltà », voi. 10, pag. 595. 44 Ibidem , pag. 624. 45 « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pag. 266. 46 Ibidem . 47 Ibidem , pag. 267. 48 Ibidem , voi. 10, pag. 248. 49 « Il problema dell’analisi dei non medici », voi. 10, pag. 364. Negli stessi termini è illustrata nei « Tre saggi sulla sessualità », l ’anarchiadegliimpulsi parziali della sessualità infantile; la quale com unque trova sempre un suo ordine contingente, sotto il segno della aggregazione orale, anale, fallica. 50 « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pag. 295. 51 « L ’avvenire di un’illusione », voi. 10, pag. 476. 52 Ibidem . 53 Ibidem , pag. 438. 54 Ibidem , pag. 477. 55 Ibidem. 56 Ibidem , pag. 474 (il trattamento di cui si tratta è quello del nevrotico; ma anche dell’umanità intera come nevrotica. Nel caso particolare la « nevrosi univer­ sale » è la religione, ma si può anche prescindere dalla fattispecie. 57 Ibidem , pag. 477. 58 Ibidem , pag. 482. 59 Ibidem , pag. 483. 60 « Il disagio della civiltà », voi. 10, pag. 624. 61 « L ’ Io e l’Es » , voi. 9, pag. 494. 62 II Super-io deve diventare « impersonale » per consentire la costruzione di

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nuovi discorsi; altrimenti impone l’eterno e monotono discorso relativo alle condi­ zioni della sua nascita. Risiamo sempre al principio. « Il problema dell’analisi dei non medici », voi. 10, pag. 390. 63 « Ricordare, ripetere e rielaborare », voi. 7. 64 «Psicogenesi di un caso di omosessualità fem m inile», voi. 9, pag. 146. 65 « Studi di isteria », voi. 1, pag. 179. 66 «P sicoa n a lisi», voi. 10, pag. 226; «A u tob iog ra fia », voi. 10, pag. 101: « ...non c ’è parte di questa sovrastruttura (quella speculativa della psicoanalisi) che, qualora risultasse inadeguata per qualche motivo, non possa esser sacrificata o sosti­ tuita senza danni né rimpianti ». 67 « L ’ Io e l’Es », voi. 9, pag. 487 e seg. 68 « L ’ Io e l ’Es », voi. 9, pag. 480. 69 « Metapsicologia », voi. 8, pag. 78. 70 « La disposizione alla nevrosi ossessiva », voi. 7, pag. 238. 71 V oi. 10, pag. 386. 72 ìbid em , pag. 391. 73 « Introduzione alla psicoanalisi », voi. 8, pag. 444. 74 « Inibizione, sintomo e angoscia », voi. 10, pag. 247. 75 Ibidem , pag. 288. 76 Ibidem , pag. 247. 77 Ibidem . 78 Ibidem. 79 Ibidem , pag. 248. 80 Ibidem . 81 Ibidem , pag. 247. 82 Ibidem . 83 Ibidem . 84 « Il problema dell’analisi condotta dai non medici », voi. 10, pag. 368; vedi anche « L ’ umorismo », voi. 10, pag. 506. 85 « Il problema dell’analisi condotta dai non medici », voi. 10, pag. 356; vedi anche: « Il disagio della civiltà », voi. 10, pag. 559. 86 « Dostoyeskij e il parricidio», voi. 10, pag. 523. 87 Ibidem. 88 « I l disagio della civiltà », voi. 10, pag. 571. 89 « L ’Io e l ’Es », voi. 9, pag. 490. 90 Ibidem , pag. 488. 91 « I l disagio della civiltà », voi. 10, pag. 571. 92 Ibidem . 93 D ’altra parte eccessiva intensità significa anche indicibilità. 94 « Cinque conferenze sulla psicoanalisi », voi. 6, pag. 171. 95 Ibidem , pagg. 171-2. «.U n certo tipo di modificazione della meta e di cam­ biamento dell’oggetto, in cui entrano in considerazione i nostri valori sociali, è da noi designato come ’sublimazione’ » (« Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di le zion i», voi. 11, pag. 205): ogni discorso è quindi sublimazione in quanto m odi­ ficazione della meta e dell’oggetto; sublimazione in senso più specifico è considerato quel discorso in cui tale modificazione appare più strettamente connessa con il perseguimento di valori sociali. 96 « L ’I o e l’Es », voi. 9, pag. 508. 97 « L ’avvenire di un’illusione », voi. 10, pag. 473. 98 « L ’ Io e l’Es », voi. 9, pag. 502. 99 In « Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni » (voi. 11, pag. 215) Freud ipotizza che « anche le pulsioni erotiche mirino a ripristinare uno stato anteriore quando aspirano a comporre il vivente in più vaste unità... ». Ci sembra qui indicato, abbastanza chiaramente sottolineato che Eros e Thanatos sono soltanto polarità di un processo e che Eros, spinto alle estreme conseguenze (unità sempre più vsate; sublimazioni sempre più elevate, lontane; quello che noi chiamiamo 1’« o p p o s to » dell’incesto) produce morte. (V ed i comunque parziale ritrattazione del

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punto di vista espresso nell’« Introduzione », in « Com pendio di psicoanalisi » , voi. 11, pag. 676). 100 Vedi: « L ’interpretazione dei sogni », voi. 3, pagg. 132-3; « Il delirio e i sogni della ‘Gradiva’ dì Wilhelm Jensen >->, voi. 5, pag. 321. 101 Vbl. II, pag. 624. 102 Ibidem , pag. 625. 103 Ibidem , pag. 626. 104 Ibidem , pag. 625. 105 Ibidem , pag. 628. 106 Ibidem. 107 Ibidem , pagg. 6 25/6. 108 «In trodu zion e alla psicoanalisi, nuova serie», voi. II, pag. 181. 109 « Com pendio di psicoanalisi », voi. II, pag. 633. 110 Ibidem . 111 Ibidem. 112 Ibidem , pag. 626. 113 Ìbidem. 114 Ibidem. 115 Ibidem. 116 Ibidem. 1,7 Ibidem. 118 Ibidem , pag. 630. 119 Ibidem , pag. 627. 120 Ibidem. 121 Ibidem. 122 Ibidem , pag. 628. 123 Ibidem. 124 Ibidem , pagg. 6 28/9. 125 Ibidem , pag. 629. 126 Ibidem. 127 Ibidem , pag. 631. 128 Ibidem , pag. 629. 129 Ibidem , pag. 630. 130 « La scissione dell’Io », voi. II, pag. 599. N ello stesso luogo è detto che il discorso feticistico è « ingegnoso », « molto abile ». 131 «C om p en d io di psicoanalisi», voi. II, pag. 629. 132 Ibidem , pag. 625. 133 Ibidem. 134 Vedi: « I l delirio e i sogni della ’Gradiva’ di Wilhelm Jensen », voi. 5, pag. 280: la prova della realtà è prova della realtà del desiderio.

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SIM B O LIZZA ZIO N E COM E COSTRU ZION E Intervento sulla « recherche » « . . . tutto avveniva come se fosse così, e ne sono testimone io, lo strano essere umano che, aspettando che la morte venga a liberarlo, vive a persiane chiuse, non sa nulla del mondo, se ne sta immobile, come un gufo e come questo non ci vede un poco se non nelle tenebre. Tutto avviene come se fosse così, ma forse... » 1. « . . . perché non è possibile descrivere bene la vita degli uomini se non mostrandola imbevuta dal sonno in cui essa si immerge e che da una notte all’altra la contorna come una penisola è circondata dal mare... » 2. « essi mi ricordavano come il mio destino fosse non inseguire che fantasmi, esseri la cui realtà per buona parte dimorava nella fantasia... lui (Swann) ch’era stato un amatore di fantasmi. Di fantasmi inseguiti, dimenticati, cercati di nuovo, a volte, per un solo colloquio e per toc­ care una vita irreale che subito si dileguava...»3. « ... il mio sforzo consisteva soprattutto in uno sforzo di far entrare la massa oscura, indefinita del sonno da me or ora vissuto, nella cornice del tempo. Non è un compito facile. Il sonno non sa se abbiamo dormito due ore o tre giorni, non può offrirci alcun punto di riferimento. E se non lo troviamo al di fuori, non riuscendo ad entrare nel tempo, ci riad­ dormentiamo, per cinque minuti che ci sembrano tre ore » 4. « ... quando un animo è portato al sogno, non bisogna tenernelo lon­ tano, razionarglielo. Finché toglierete il vostro animo dai suoi sogni, esso non li conoscerà; sarete trastullo di mille apparenze perché non ne avrete compreso la natura. Se un pò di sogno è pericoloso, quel che ce ne guarisce non è il sognar meno, ma il sognar di più, è tutto di sogno » 5. « Si guarisce da una sofferenza solo a condizione di sperimentarla pienamente » 6.

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PREMESSA Il testo della recherche è un testo sperimentale. La recherche è ve­ ramente cioè una recherche. Sia, come dice il titolo, del tempo perduto, sia del metodo che permette di ritrovarlo. Per cui incontriamo, come in un laboratorio, la formulazione e l ’utilizzazione di una serie di ipotesi, anche contraddittorie, fino alla impostazione conclusiva — spesso comun­ que anticipata — esibita nel volume « Il tempo ritrovato ». Non cercherò di tracciare le linee di questa evoluzione. Non è mio interesse in questo momento. Lo è invece leggere nella recherche di Proust una mia recherche, con un’operazione che è tipicamente proustiana e che Proust a chiare lettere definisce un tradimento di cui l ’autore non deve « offendersi » 1. Se enuncerò delle contraddizioni di Proust, anche poi superate nel corso deña sua recherche, lo farò solo perché queste contraddizioni sono insiste in questa ricerca, come il materiale di essa. Perché cioè essa ricerca non può approdare alla scelta di un esito se non tenendo conto di queste contraddizioni, quindi deve enunciarle. Il problema su cui lavora la recherche, o per lo meno che ci inte­ ressa individuarvi e svilupparvi, è quello della simbolizzazione. Quale potrebbe essere il modo più complesso di impostare questo problema? Utilizziamo il criterio proustiano della complessità: « Perché noi comprendiamo che la vita è un poco più complicata di quanto non si dica, ed anche le circostanze. E c ’è una necessità incalzante di dimostrare tale complessità » 8: « Il mio amore non è stato semplice » 9. Ne tento uno: la simbolizzazione è quell'insieme di pratiche che si situano nel « vero punto di intersezione fra la realtà e il sogno » 10; si interrogano sulla realtà e il sogno; insieme sul passato ed il presente: « ...era uomo, uno di quegli esseri anfibi, simultaneamente tuffati nel passato e nella realtà attuale... » 11; sulla visione immediata delle cose e l ’allucinazione che viene fatto di operarne: « L’uomo, oscillando perpe­ tuamente tra i due piani dell’esperienza e deH’immaginazione, vorrebbe approfondire la vita interiore delle persone che egli conosce, e conoscere praticamente gli esseri di cui ha immaginato la vita » n. Si interrogano con un’interrogazione decisiva a cui vogliono rispon­ dere con una scelta su che cosa sia la realtà. Negati il valore e la consi­ stenza della realtà, sia al mondo esteriore che a quello interiore, li intra­ vedono (che è un modo sbagliatissimo di esprimere la cosa): li costitui­ scono, in una serie di operazioni la cui caratteristica fondamentale è la perdita di ciò che si ha — o che ci si illude di avere — e l ’acquisizione di qualcosa che ci fonda. Operazioni estremamente pericolose perché sono giocate col rischio — ■che è però anche contemporaneamente la chance — della morte, la quale può tuttavia diventare effettiva e definitiva. Il problema cruciale è per l ’appunto quali sono i materiali che ren­ dono possibili queste operazioni: ad esempio a che cosa serve, diciamo così paradossalmente, l ’inesistenza della realtà all’operazione che si fina­ lizza alla sua costituzione. Un altro problema cruciale è: se la perdita

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e l ’acquisizione di cui sopra si scandiscono logicamente e cronologica­ mente in una chiara distinzione; ovvero se si articolano sì che la perdita possa non essere perdita totale del rapporto col mondo, possa non essere morte. Il che ipotizza una serie quasi graduabile di fasi della costruzione della realtà vera che è per l’appunto la simbolizzazione. Questo lavoro segue un movimento estremamente sinuoso, quasi che fosse un movimento cieco, che ignora dove vuole andare e dove sta andando. Ripetendo così il movimento della recherche. Alcuni suoi epi­ sodi saranno come delle folgori, delle rivelazioni. Ma forse nonostante la loro luce, nonostante la parziale utilizzazione di questa luce per un breve o lungo tragitto, le tenebre ritorneranno ad avvolgere il suo per­ corso. Racconta il libro di Daniele che Nabucco fece un sogno, se lo di­ menticò e chiese ai magi e agli interpreti di raccontargli il sogno e la sua interpretazione. Siccome questi non riuscivano nell’impresa, decise di conceder loro un altro lasso di tempo e quindi di punirli con la morte. Da­ niele, dopo digiuno e preghiera, riuscì a comunicare al re il sogno che aveva fatto (e poi dimenticato) e a dirgli la sua interpretazione. La ferocia iniqua di Nabucco appare, alla luce di un particolare punto di vista sull’interpretazione, qual’è illustrato nel testo che segue, puntuale esigenza di ciò che un interprete deve sapere fare (la sua fun­ zione sociale): individuare il sogno (sognarlo) oltre che la sua interpre­ tazione. Non basta dire* quel che si pensa su un avvenimento; bisogna pro­ durre quell’avvenimento. Se non lo si fa si è condannati a morte, come interpreti. L ’interpretazione è produzione del sogno, non discorso su di esso; è costruzione del sogno, non decifrazione di esso. La funzione del diseorso-su, della decifrazione-di, è talmente superflua e inutile che può essere — per decisione di un re — abolita. Non serve al re, perché il re, prima ancora del senso del sogno, ignora il sogno: sa solo che lo ha sognato. L ’avvenimento che il re ha sognato non è, in quanto sognato dal re, un avvenimento né privato né trascurabile: è regale. Centrale anche per gli interpreti. Che, se non lo colgono, possono morire puniti dalla col­ lera del re il quale morirà deprivato della sua regalità sfuggita insieme al sogno e alla sua interpretazione. Il sogno è infatti relativo al destino dei popoli. Come ogni sogno. Ma questo può essere anche sul momento trala­ sciato, di fronte a un altro aspetto: il sogno è inesistente, non è interpre­ tabile; deve essere evocato, meglio, fatto, dall’interprete. L ’interprete deve diventare re e fare il sogno. Solo allora lo potrà capire, perché solo allora lo potrà utilizzare. E ’ infatti come un re che Daniele parla a Nabucco: come inviato da D io, dal vero Dio. Con l ’umil­ tà dell’interprete; ma con l ’autorità del sognatore. Che è divina. Solo così egli può dire al re che cosa lui è e fa, che cosa accadrà di lui e dopo di lui. Non però perché lo preveda, ma perché lo ordina, lo costruisce. Co­ me si costruisce e si decostruisce (demolisce) una statua. La statua del sogno.

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Ca p . I

L ’AM ORE (E LA CON OSCEN ZA) COME IN V EN ZIO N E: L ’INESISTENZA DE LL’ALTRO

C ’è un filone costante della recherche che chiamarei melanconico, pessimistico, sarcastico, a seconda, che la percorre quasi tutta, tranne forse l ’ultimo volume; è come un’istanza che non riesce a realizzare piena­ mente le smentite che incontra, che anche si costruisce e riconosce. E ’ l ’istanza dell’impossibilità del rapporto con la realtà: di conseguenza del­ l ’impossibilità del rapporto amoroso e conoscitivo. Proust sembra in certi momenti aderire ad un idealismo filosofico, che sente in qualche modo verificato dagli esiti dell’esperienza amorosa: « Certi filosofi dicono che il mondo esterno non esiste e siamo noi stessi che sviluppiamo la nostra vita. Comunque sia, l ’amore, anche nei suoi più umili inizi, è un esempio impressionante di quanta poca cosa sia per noi la realtà » 13. La vita gli si presenta quindi come un « perpetuo er­ ro r e » : «...A bbiam o dell’universo appena visioni informi, frammentarie, che completiamo con arbitrarie associazioni di idee, creatrici di pericolose su ggestioni»14; il sogno e la realtà diventano indistinguibili: « ...mi im­ pauriva il pensiero che quel sogno avessè avuto la nitidezza della cono­ scenza. La conoscenza avrebbe dunque, a sua volta, l’irrealtà del so­ gno? » 15; con quanto ne deriva quasi di pazzia: « Ciò che io dimentico (nel sogno) non è questo o quel concetto... è la realtà stessa delle cose comuni che mi circondano — se dormo — e la cui non-percezione fa di me un pazzo » 16. La scoperta che « ciascuno si sente il centro del teatro » 17, e forse 10 è; e che questo suo sentirsi tale « è come il simbolo di ogni perce­ zione » ls, comporta, all’interno di questo filone (nella sua prospettiva), una serie di conseguenze negative, negative fino alla disperazione, come tra poco vedremo. L ’amore per una persona non è che « una follia cronica senza rap­ porto con lei » 19; è « ...la nostra natura che crea lei stessa i nostri amori, e quasi le donne che amiamo, e persino le loro colpe » 20. I suoi senti­ menti non sono che i nostri che, ritornati da lei, da lei rigettati, scam­ biamo per suoi: « Quando si ama, l’amore è troppo grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la persona amata, in­ contra in lei una superfìcie che lo arresta, lo costringe a tornare verso 11 punto di partenza, e questo rimbalzo noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo più dolce di quanto non fosse all’andata, perché non sappiamo che proviene da noi » 21. La donna è una creatura nostra, così l’amore per lei una nostra invenzione: « Con la memoria Swann riuniva quelle particelle, aboliva gli spazi, foggiava nell’oro un’Odette di bontà e di quiete » 22; « Albertine, insomma, come una pietra intorno alla quale sia nevicato, era solo il centro generatore d ’una costruzione immensa che passava attraverso il piano del mio cuore » 23; « Quell’Al-

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berline non era che una sagoma, tutto quel che vi si era sovrapposto era opera mia » 24. Perché noi cominciamo a giocare « con una donna non del mondo esterno, ma con una bambina che sta nel nostro cervello » questo « è il terribile inganno dell’ amore » 26. « ...la sola d ’altronde che... possederemo...: creatura fittizia alla quale a poco a poco, per la nostra sofferenza, noi obbligheremo la donna reale a rassomigliare » 27. Sembra qui che la bambola nel nostro cervello, non sia stata inventata dal nostro cervello, anche se non esiste nella realtà. (Sembra quasi una produzione inconscia, impronta subita dall’anima un giorno). Dove, di questo aspet­ to sottolineato della invenzione, si coglie la conseguente non corrispon­ denza a una realtà a cui continuamente comunque fa riferimento l ’inna­ morato. Si coglie cioè le falsità. L ’amore è un « ...sentimento che (qua­ lunque ne sia la causa) è sempre erroneo » 28. Ciò che noi amiamo, per definizione, non lo conosciamo: « Perché è una curiosa legge di natura, che si manifesta in seno alle società più complesse, quella per cui viviamo nella perfetta ignoranza di ciò che amiamo » 29. Il che può significare che addirittura non esiste. Questo sembra sia indicato come frutto della complessità del rapporto interper­ sonale come si presenta in una « società più complessa » che è poi quella umana in generale: che è quella umana quando se ne coglie cioè l ’aspetto umano che la caratterizza: la complessità (vedi più sopra). Se l ’essere amato non è del tutto inesistente, lo è comunque in mas­ sima parte: ciò che lo rende amabile all’amante è una « faccia » oggetti­ vamente di lui trascurabilissima: « ...ogni essere è doppio, e il più sput­ tanato, il più malvagio, hon sarà mai conosciuto da una certa persona se non per un’altra faccia, come sotto la protezione d ’una conchiglia, d ’un delicato involucro, d’una deliziosa rarità naturale » 30. Non c’è om­ bra di sospetto, né parvenza di ipotesi, che questa « faccia » sia signi­ ficativa, sia ad esempio la faccia vera; o, meglio, una possibilità realizza­ bile contro le altre che si sono realizzate sul suo affossamento. L ’amore sembra poter nascere con l ’aiuto dell’immaginazione il cui « slancio non è limitato da una realtà completamente percepita » 51. Sem­ bra ne derivi che una realtà esiste, ed esiste la possibilità di percepirla compiutamente. Ma, tale percezione completa, esclude la possibilità del­ l ’amore. Perché la Bellezza non è che « il completamento aggiunto ad una passante frammentaria e fuggevole dalla nostra immaginazione sovrecci­ tata dal rimpianto » n. Per cui, se arrestiamo la passante (tutto ciò che passa, che ci offre solo un aspetto fuggevole di sé) « ogni sforzo per pe­ netrare nella sua vita » diverrebbe « ad un tratto impossibile, perché la bellezza è una serie di ipotesi che la bruttezza limita, sbarrando la strada che già vedevamo aprirsi sull’ignoto » 33. E ’ come se esistesse solo la bruttezza. Ma questo « come se » fun­ ziona per davvero; sembra il punto di vista da cui costantemente si con­ sidera e si sceglie; pur essendo indicato come un punto di vista solo possibile: le osservazioni citate sono introdotte da un « . . . si sarebbe a volte tentati di chiedersi se... » 34. Ma da una parte quest’esistenza della bruttezza sembra per lo meno fornire un punto di riferimento sicu­

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t ro:

almeno qualcosa esiste, la bruttezza! Il fatto è che con questa bruttezza non si vorrebbe vivere, mentre si è come costretti a stabilire con essa rapporti molto stretti, tramite la mistificazione che trasforma la bruttezza in bellezza: « ...la fanciulla della spiaggia era stata costruita da me. Ciononostante, avendola identifi­ cata, nelle mie conversazioni con Elstir, con Albertine, sentivo verso quest’ultima l’obbligo morale di mantenerle le promesse di amore fatte all’Albertine immaginaria. Ci si fidanza per procura, e ci si crede in obbligo di sposare poi la stessa persona interposta » 3S. E questa mistificazione è irrinunciabile, oltre che inevitabilmente vis­ suta come se non lo fosse, per lo meno in una grande ambiguità sul suo esserlo o non esserlo. Sembra che essa sia come iscritta nei rapporti con la realtà definiti una volta per tutte nell’infanzia: « ...mi avrebbe dato la replica nella commedia d ’amore che avevo tutta scritta in testa dall’infanzia » 3é; che cioè risalga ad una mistificazione originaria insuperabile. E, in altre parole, dipenda dalla « fissità del nostro temperamento » che determina l ’inevitabile rassomiglianza delle donne che poi amiamo le quali altro non sarebbero per l ’appunto che « una negativa della nostra sensibilità » 3T. Paradossalmente il romanziere che racconta gli innamoramenti suc­ cessivi del suo eroe dovrebbe dipingerli « quasi esattamente simili » ; ad­ dirittura farebbe meglio se, dipinti i caratteri dei suoi personaggi, « si astenesse dal darne uno alla donna amata »! Perché il suo carattere è quello del suo amante. Questo' fenomeno, dèlia « ripetizione », sembra destinato a « suggerire una verità nuova » 38. Quale verità? Vedremo... La ripetizione avviene attraverso un funzionamento particolare del nostro sguardo, il quale « guidato dal pensiero, trascura, come l’intreccio di una tragedia classica, tutte le immagini che non concorrono all’azione, e conserva solo quelle che possono farcene intender lo scopo » 39. Attra­ verso cioè un’opera di selezione che lascia sussistere ciò che già esisteva nell’esigenza che guidava lo sguardo e alla quale esso ha ubbidito. È comunque possibile fare una « fotografia » 40 dell’essere amato, visto in genere solo nel proprio animo (vedi l’immagine che Proust ritrae della nonna quando la incontra fuori dal contesto di atteggiamenti reciproci usuali: estremamente diversa da quella amata)41. Ma tale fotografia non è mai fotografia del volto amato. Cioè, la fotografia fotografa un volto che non si ama. Ovvero, non si può amare il volto che si è fotografato. La scoperta e l ’approfondimento di questa che abbiamo chiamato in­ venzione, o mistificazione, cioè della proiezione... è indicata come pecu­ liare degli « esseri soliti ad analizzare, più che non ad apprezzare, se stessi » 42; nei quali il rendersi conto che i loro atti « non sono in rap­ porto stretto e necessario con la donna amata » oltre che « il sentimento della loro propria instabilità » 43 accresce la sfiducia di essere amati dalla donna ch’essi pensano di amare. Sembra cioè che la proiezione, la con­ sapevolezza di essa (o anche la proiezione inconsapevole?) comporti, in­ sieme alla svalutazione dell’oggetto amato (come inesistente), la svalu­

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tazione dell’amante come non amabile. Il che fa quasi nascere il sospetto eh’essa, proiezione, si fondi anche su un’esigenza di negazione della realtà sulla base di un a priori affettivo formulabile nei termini: « Il mondo non è interessato a me. Io gli sono indifferente. Me lo posso inventare ». Vedi l ’affermazione: « ...senza aver mai creduto un solo istante all’amore di Albertine... » 44. In ogni caso la posizione insistita è quella di un amante che ama senza corresponsione. Che ama il suo amore. Il quale non deve all’amante le gioie che pur gode: « ...ma quelle gioie non le dovevo ad Albertine — che, d ’altronde non mi sembrava più bella, con la quale mi annoiavo e che avevo la chiara sensazione di non amare, — ma le gustavo, al contrario, quando non mi era vicina » 45; anzi, le può godere solo in assenza dell’amante (tema su cui dovremo ritornare). Sì, perché l’amante non gliele dà, gliele suggerisce soltanto; ma, queste gioie, gliele può di­ sturbare! Non si è amati. E in fondo non si ama. Si tratta solo dell’insorgenza di un’emozione: « Non che l’amassi (Albertine): lo sapevo bene. Forse l ’amore non è altro che la propagazione di quei moti che scuotono l’ani­ ma, per effetto di un’emozione » 46. La donna amata, dissociata da questa emozione, resta solamente se stessa « ossia quasi nulla » 47. Dove si ipo­ tizza una donna in sé, isolata dal rapporto con noi; e sembra che si sug­ gerisca l ’impossibilità di questo isolamento, il quale sarebbe annullante; sia la donna che l ’uomo. Infatti l ’uomo scopre « quale misera cosa sia in sé un essere, quando non sia più, o non sia ancora, impregnato dalle nostre emozioni » 4S; quando l ’uomo stesso è non più impregnato di queste emozioni, quando è in sé, isolato dall’altro essere, che cos’e? forse anche lui « quasi nulla » ? E ’ un pò come dire: le emozioni, quando non sono più emozioni: oh, quanto non sono emozioni! Rimane aperta la definizione dell’« in sé »: che comunque sembre­ rebbe deducibile: l ’in sé è quasi nulla! Cioè, Fin sé non esiste. Ma questa definizione non è chiara. E ’ con­ traddittoria. Perché l’in sé viene pensato, s’è già visto, come costituito da ciò che rimane una volta ritiratosi il nostro interesse: da « ...quanto, non essendo più il fine della nostra volontà, cì appare in sé » 49. C ’è comun­ que anche l ’ipotesi che l ’in sé costituisca un qualche cosa di « simmetri­ co » a ciò che noi conosciamo, diverso da esso: un corrispondente all’in­ conscio, o al noumeno: « Ma, per ognuno di noi, questo tipo di padiglio­ ni è doppio: di fronte a quello che crediamo l ’unico c ’è l ’altro, invisibile a noi di consueto, il vero, simmetrico a quello a noi noto, ma ben di­ verso... » 50. Quindi l ’ipotesi che il simmetrico a lui simile non sia ne­ cessariamente il vero: « Insomma, Rachel si era sdoppiata per un istante ai suoi occhi (di Robert): egli aveva scorto a qualche distanza dalla Ra­ chel sua, la Rachel piccola cocotte, la Rachel reale, se Dure vogliamo supporre che la Rachel cocotte fosse più reale dell’altra » 52. Fino all’ipo­ tesi che ci si trovi di fronte a « possibilità diverse »: « In sé, è piuttosto l ’una o l ’altra? Forse nessuna delle due. Ma una creatura capace di ac­ cedere, nel corso vertiginoso della vita, a possibilità diverse » 53. Le quali

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possibilità sono usate, vissute: fermarle per esaminarle, significa inter­ romperle. L ’in sé e la sua conoscenza comportano la fine della vita: « E in sé cos’erano Albertine e Andrée? Per saperlo, bisognerebbe immo­ bilizzarvi, non vivere più in quella perpetua attesa di voi in cui passate sempre diverse, bisognerebbe non amarvi più... » s4, oltre che dell’amore. D i questo aspetto dell’invenzione, quasi dal nulla, viene talvolta ap­ prezzata, come dire, la positività dell’iniziativa. Così forse si può inter­ pretare l ’invito: « Lasciamo le belle donne agli uomini senza immagina­ zione » 5S. Per cui, paghi del lavoro meraviglioso della propria immagina­ zione, non ci si interessa molto a quale essere lo si applichi: si rinuncia a « tutta la donna », ci si accontenta d ’essere rassicurati della permanenza della sua identità, rispetto a quella con la quale si è cominciato un giorno a fantasticare: « ...quel che si ama è troppo nel passato, consiste troppo nel tempo perduto insieme perché si abbia bisogno di tutta la donna, si vuol solo esser certi che è lei, non sbagliarsi sull’identità, ben più im­ portante per chi ama, della bellezza » 56. Dove, da una parte è assicurata la continuità dell’operazione fantastica; dall’altra quest’ultima è indicata come investente tutta una porzione della vita (il passato) di cui la donna in questione è come solo una parte. Questo vissuto, diciamo così, positivo, dell’invenzione, è altissimo il momento in cui — vedi la situazione dell’ebbrezza — la sensazione pre­ sente acquista « una straordinaria potenza » 57 che costituisce l ’io come « sublime io » 58: così « l’ebbrezza attua per qualche ora l ’idealismo sog­ gettivo » 59. In tale stato tutto ci è indifferente, anche l’oggetto del nostro amore: «senza più alcun peso su di n o i » 60. L ’ebbrezza sembra dare il senso di una indipendenza (ch’è dovuta concretamente all’alcool) da ciò che si è inventato: l’amore. Come il senso che se ne potrebbe inventare un altro ancora. O nessuno. Ma è ben chiaro che « per disgrazia, il coef­ ficiente che muta i valori li muta soltanto in quell’ora di eb b re zza »61: l’invenzione è qualcosa — come valore — di vincolato a delle leggi, come una cosa necessitata! Talvolta invece si sente soprattutto l ’aspetto disperante di questa situazione: « Del resto, com ’è possibile desiderare di vivere, come si può fare un solo movimento per preservarsi dalla morte, in un mondo nel quale l ’amore non ha altro incentivo che la menzogna e consiste esclusi­ vamente nel bisogno che le nostre sofferenze siano placate dallo stesso essere che ne è la causa? » 62. Si arriva a desiderare di morire perché l ’amore è menzogna. Anche se tal’altra questa disperazione si attenua fino a diventare una sottile melanconia rivolta a ciò che sarebbe già morto se non fossimo noi a conservarlo, ancora per breve tempo, in vita, per il semplice fatto di ricordarci di lui, di quello che mendacemente fu un giorno: « Il che ci permette di dire veridicamente agli altri, parlando di tali cose (quelle contenute nei nostri ricordi), che essi non se ne possono fare un’idea, che eran tutt’altra cosa da quel che essi possono vedere oggi; e fa si che non possiamo considerare in noi senza una certa commo­ zione, pensando che la loro esistenza dipende ancora per qualche tempo da quella del nostro pensiero, il riflesso delle lampade ormai spente e il

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profumo dei carpini che più non fioriranno » M. Rimane comunque sempre la possibilità (« un altro modo di risolve­ re il problema ddl'esistenza » ) 65 di avvicinarsi tanto alla realtà che ci parve misteriosa, da scoprirne tutta la miseria. E ’ una delle « pratiche d ’igiene » 66 che si possono adottare, anche se è definita « non molto raccomandabile » 67: essa dà una certa « calma per trascorrere la vita », soprattutto « p e r rassegnarsi alla m o r t e » 69. Sembra una pratica a cui si ricorre in età avanzata, quando si fini­ scono col « vedere le cose in modo più pratico, pienamente conforme a quello del resto della s o c ie tà » 70. Ma, attenzione!, « l ’adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa » ! 71. L ’incontro con la realtà è possibile. Ma ad esso « si preferisce il ri­ cordo docile, che completiamo a piacer nostro di fantasticherie, dove co­ lei che in realtà non ci ama, ci fa al contrario delle dichiarazioni; il ri­ cordo che, mischiandovi a poco a poco molto di quel che si desidera, si può rendere dolce quanto si vuole » 72. Perché la realtà non è così docile. Perciò l ’incontro con essa è solo « rinviato » ; e in quell’incontro essa non subirà il nostro dettato, mentre noi subiremo la sua freddezza e la sua violenza73; dove di questa violenza, anzi di queste violenze, si specifica che sono, o saranno, o sarebbero « inattese », e proprio per questo più violente. Non si sa se si ama o non si ama. « In quei giorni fui tanto incapace di rappresentarmi Albertine che avrei quasi potuto credere di non amar­ la » 74: sembra cioè che la causa dell’amore non sia rintracciabile, siano rintracciabili di esso solo* gli effetti. E che solo per deduzione si possa risalire al loro autore: Albertine. E ancora: « Se non amavo Albertine (non ne ero ben sicuro)... » 75. La certezza è impossibile. Poco più sotto: « Noi viviamo solamente con quel che non amiamo, che facciamo vivere in noi, solo per uccidere l ’in­ tollerabile amore: sia esso amore d’una donna o di un paese o di una donna la quale racchiuda in sé un paese » 76. Esiste quindi l’amore, che viene ucciso, perché intollerabile; e lo si uccide vivendo con chi non si ama e facendolo vivere in noi! Da premesse simili è facile capire dichiarazioni come: « Per amore intendo qui una tortura reciproca » 77; e la seguente, in contrasto con la precedente, anche se solo in apparenza: « ...noi esistiamo soli. L ’uomo è l’essere che non può uscire da se stesso, che non conosce gli altri se non in se stesso, e che, se dice il contrario, mentisce » 78.

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Ca p. II

L ’A M ORE (E LA CONOSCENZA) COME IN VEN ZION E: LA NECESSITA’ D E LL’ESISTENZA DE LL’ALTRO

Il rapporto con l ’altro esiste; esiste come un grosso pericolo: « ...pe­ ricolo, improvviso e capace di distruggere tutta la vita: l ’ amore » 79. Forse si tratta di un rapporto con un grosso pericolo, con una grossa possibilità. Possibilità che ha una concretezza. Solo « l ’abitudine di pensare impe­ disce talvolta di sperimentare la realtà, immunizza verso di essa, le fa pensare ancora pensiero » 80. Che « l ’esperienza di sé » sia « la sola vera esperienza » 81 non com­ porta che l ’altro non possa essere. Ed essere sperimentato da noi: quel noi di cui sopra, il quale non conosce gli altri che in se stesso. « Ma ciò di cui non abbiamo avuta una intuizione diretta, quel che abbiamo im­ parato solamente dagli altri non abbiamo alcun mezzo di farlo sapere alla nostra anima, l’ora è ormai suonata, le sue comunicazioni col reale sono chiuse. E così non possiamo godere della scoperta; è troppo tardi » 82. Forse è possibile un « punto di intersezione », un luogo di in­ contro tra ciò che proviene, entra dalla « porta bassa e obbrobriosa del­ l ’esperienza » e ciò che entra dalla « porta d ’oro dell’immaginazione » s3. Che tutto ciò sia fecondato dalla immaginazione: « Abbiamo messo ovunque qualcosa di noi, tutto è fecondato, tutto è pericoloso, ed è pos­ sibile compiere scoperte altrettanto preziose nei Pensieri di Pascal, come nel foglietto pubblicitario di una saponetta » 84; che cioè ovunque abbiamo disseminato noi stessi e quindi ovunque possiamo ritrovarci (il che è sentito come pericoloso), può essere il segno non dell’inesistenza della realtà, della impossibilità del rapporto (amoroso, conoscitivo), ma di un particolare modo di rapporto (amoroso e conoscitivo) che si fonda sulla fecondazione (reciproca). Si tratta di studiare come funziona il processo di questa fecondazione. Stendhal definisce « cristallizzazione » 85 il processo dell’innamoramen­ to; Freud « proiezione »... È chiaro che l ’amore è un’invenzione! L ’innamoramento è un fatto « morboso » 86; la sua morbosità deriva dal suo accostarsi al non elaborato, al non semiotizzato. Primo. Secondo: l’elaborazione, la semiotizzazione che ne fa è necessariamente arbitraria. La sua arbitrarietà non appare evidente solo in caso di reciprocità. Quando cioè ci sono due inven2Ìoni che sembrano incrociarsi, sovrapporsi. In questo caso si può immaginare di non aver semiotizzato il non semio­ tizzato: di avere letto qualcosa ch’era già scritto, dal fato, dal fulmine! Questo amarsi reciprocamente è comunque « fittizio » 87. Uno in­ venta il suo rapporto con l’altro e il rapporto dell’altro con lui. Se l’in­ venzione funziona, si può dire solo che è un’invenzione che funziona. Quando funziona si ha forse solo un « simulacro » 88 di felicità, un simu­ lacro eh’è dato in « quei momenti unici dove la bontà di una donna, o il suo capriccio, o il caso, fanno aderire ai nostri desideri, in una coincidenza

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perfetta, le stesse parole, gli stessi atti che se fossimo davvero amati » 89. Sarebbe « saggio » « contemplare con curiosità, possedere con deli­ zia quella piccola particella di felicità, in mancanza della quale io sarei morto senza aver sospettato ciò eh’essa può essere per dei cuori meno difficili o più fortunati»; e per evitare smentite a «ta le fun zione», non cercare di prolungare il favore dovuto « all’artificio di un attimo di ecce­ zione » 90. Qui Proust parla dell’amore « non corrisposto » ; ma aggiunge: « tan­ to vale dire l’amore, giacché vi sono esseri per cui non esiste amore corri­ sposto » 91. Sembra comunque che l ’amore sia per definizione non corri­ sposto. Questa è comunque la tesi prevalente della recherche. Almeno prima delle ultime ipotesi che svelano le maniere oscure della correspon­ sione. Quello che stupisce, dal punto di vista da cui ci poniamo noi, è che ci si stupisca che un’invenzione funzioni! Come se non si dessero brevetti proprio alle invenzioni che funzionano. Come se ciò che fun­ ziona (o non funziona) non fosse qualcosa che è stato inventato! Proust giustamente definisce « disinteressato », « artistico », « per­ verso » 92 il piacere derivante dalla necessità dell’amore; dell’amore di Swann verso Odette, che attraversa le mille vicissitudini dell’invenzione che funziona, non funziona, rifunziona... che semiotizza, non semiotizza, risemiotizza... Lo paragona infatti al piacere derivato da un’altra necessità «c h e prendeva egualmente sviluppo al di fuori del mondo r e a le » 9’ : quella di sentire, di conoscere della musica. Proust sottolinea l’aspetto della costruzione. La perversità consiste (la morbosità di cui si diceva più sopra) nel fatto che l ’amore non è già nella realtà, lo si crea. Per questo rassomiglia all’arte. E a quell’arte in particolare che è la musica. « ...dopo aver costruito gelosia con amore, Swann riprendeva a creare tenerezza, pietà per Odette » 94. E questo « per effetto della stessa alchimia del suo male » 9S. E lei non sa! Lei non viene semiotizzata; lui se la inventa senza che lei si faccia inventare. E così è a nudo il processo che mirabilmente Proust narra nelle pagine indimen­ ticabili del nuovo amore di Swann. Lei non sa? Non è così semplice: « Forse non sapeva » 96. Lei, dice Proust, « nell’idea che se ne faceva, tralasciava d ’intenderne il meccani­ smo » (delle sue crisi) « non credendo che a quello che le era in prece­ denza noto: il termine necessario, infallibile e sempre identico ». « Idea — continua — incompleta — forse tanto più profonda — a giudicarla dalla visuale di vista di Swann... » 97. Ma Swann è in uno stato in cui « il chirurgo più audace si chiede se privare il malato del suo vizio o togliergli il suo male sia ancora ragio­ nevole, o anzi possibile » 98. La produzione, la semiotizzazione, è un male. Ma è forse impossibile evitarlo. Quindi, solo per questo, è ragionevole semiotizzare! Rimandiamo a più tardi l’approfondimento dei modi attraverso cui la corresponsione di cui si diceva più sopra, avviene, quando avviene. Cer­ chiamo di mettere in evidenza come nel corso della recherche, insieme

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alla scoperta della inconsistenza della realtà, dell’oggetto amato, avvenga anche la scoperta, quasi sconcertante, della sua consistenza; o meglio, della necessità della sua consistenza. Come dire: perché l’innamoramento avvenga, cioè l’investimento di consistenza da parte nostra su qualcosa che consistenza di per sé non ne ha, è necessario che questo inconsistente sia invece consistente: se non altro sia quella « superficie » che rigetta a noi ciò che a lei abbiamo diretto, e che a noi torna consentendo l ’illu­ sione che non sia più nostro ma ci venga da lei come di lei! E ’ un modo di esprimere paradossalmente la necessità che l’altro ci sia? O un modo per riconoscere paradossalmente che l’altro c ’é? O un modo per andare alla ricerca di una più adeguata definizione di che cosa è questo altro? Di fronte ad alcune delle posizioni che qui sotto riprenderemo si ha la stessa « specie di sollievo » che Proust dice trovarsi in Kant « quando dopo la dimostrazione più rigorosa del determinismo, si scopre che al di sopra del mondo della necessità c ’é il mondo della libertà » " . D opo la negazione della realtà si ha la sua affermazione... Il che sembra procurare una specie di sollievo. Anche se poi affermazione e negazione della realtà, come non sarà difficile notare, si equivalgono; sono momenti di un’oscil­ lazione che tenta di trasformarsi in intuizione della contraddizione da cui solo potrà scaturireuna definizione dialettica del rapporto. Marcel incontra nella realtà la signora di Guermantes: « ...non l’avevo arbitrariamente creata come le altre... non si poteva colorare a piaci­ mento, com ’esse che si lasciavano immergere nella tinta ranciata d’una sillaba » 10°. Essa è reale, davanti a lui. E, interessante: « ...ora che ne vedevo l’esistenza effettiva al di fuori di me, conquistò un potere ancor più grande sulla mia immaginazione » 101. Un desiderio « ci sembra più bello, ci appoggiamo ad esso con mag­ giore fiducia, quando sappiamo che fuori di noi la realtà gli si conforma, anche se per noi non è appagabile » 102. E’ come una garanzia della possi­ bilità comunque di un appagamento. Ma non è una garanzia, diciamo, astratta? Parziale? Il desiderio è « desiderio di un oggetto individuale » 103, concreto, specifico... Non inventato! « Quando pensavo all’intelligenza di Albertine, le mie labbra sporgevano istintivamente e gustavo un ricordo che pre­ ferivo avesse una realtà esterna e consistesse nella obiettiva superiorità di una persona » m. Un panorama di Venezia che Ski avrebbe forse considerato « più bello di toni della città reale... non poteva, per me, fare le veci del viag­ gio a Venezia, di cui mi sembrava indispensabile superare la lunghezza determinata, indipendente dal mio volere... Altrettanto indispensabile quanto affrontare un lungo viaggio, se volevo credere alla realtà di Ve­ nezia: d ’una Venezia che potessi vedere coi miei occhi » 105 (e qui egli coglie la rassomiglianza tra « desiderare e viaggiare », bisognosa di appro­ fondimento). G li esseri sono reali. Le differenze tra loro sono reali. Le loro « caratteristiche formano, in ogni persona, un sistema di sguardi, di di­

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scorsi, di azioni..., coerente, dispotico » m . Solo che questo sistema dispo­ tico, che si impone con la « tirannia della realtà » 10?, ci può apparire in un modo o in un altro a seconda: « Cì si annoia durante un pranzo, perché la fantasia è assente; e ci si diverte con un libro, perché essa ci tien compagnia. Ma le persone in questione son le stesse » 109. In ogni caso la differenza esiste: « ...nell’ascoltarfe, trovavo tanto piacere quanto a guardarle, a scoprire nella voce di ciascuna un quadro dai vivi colori. Ascoltavo con delizia il loro cinguettio. Amare aiuta a distinguere, a differenziare... Quando parlavo con una delle mie amiche, mi accorgevo che il quadro originale, unico nella sua individualità, m ’era ingegnosa­ mente disegnato, tirannicamente imposto tanto dalle inflessioni della voce quanto da quelle del viso, e che erano due spettacoli che traducevano, ciascuno nel proprio piano, la stessa singola realtà » u0. Il problema quindi è non se l’altro esiste o non esiste; ma che tipo di rapporto è necessario stabilire e in che modo con questo altro. Più tardi, cioè verso la vecchiaia, si può rinunciare (sembra una que­ stione di « abilità » ) 111 a sapere se l ’immagine della donna che amiamo corrisponda alla realtà o no, e se essa donna ci ami o no; ci si può ac­ contentare del piacere di pensarla. « Ma, nel tempo in cui amavo Gilberte, credevo ancora che l’Amore esistesse realmente, al di fuori di noi; credevo che, permettendoci tutto al più di allontanarne gli ostacoli, esso offrisse i suoi beni in un ordine in cui non vi fosse libertà di mutar nulla » 112. E ’ chiaro che la ,), solo se si è goduto dell’amicizia. Ma l’imprigionamento, la custodia, non possono durare oltre un certo limite. Il rimosso si macera, imputridisce. Rispunta. « ...una volta catturato e rinchiuso in casa mia, l’uccello... aveva perduto i suoi colo­ ri... » 329. Non era più la stessa Albertine... « perché il vento del mrae non gonfiava più le sue vesti; perché, soprattutto, le avevo mozzato le ali, ed ella non era più una vittoria, era diventata una pesante schiava, di cui mi sarei sbarazzato volentieri » 330. Rinasce il bisogno di esplorare « le strade, la città, il mondo » 331 e questo dà « sete di guarire, di uscire e, senza Albertine, di essere libero... » 332. Senza Albertine? Senza Albertine. Perché questa riesplorazione del mondo avvenga, è necessaria la scomparsa, la fuga di Albertine? E ’ necessaria anche la sua morte? Quest’interrogativo è drammatico e decisivo!

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G ap . IX

LA R E A L IZZA ZIO N E PRECOCE COME SIM B O LIZZA ZIO N E PRECOCE (TR A M ITE ASSO LU TIZZA ZIO N E ). LA R E A L TA ’ (INTERN A ED ESTERNA) COME IM PERFEZIONE (NON ASSOLUTO)

E ’ decisivo definire che cosa è la fuga di Albertine (primo tipo di scomparsa: «A lbertine scom parsa») e la sua morte (secondo tipo di scomparsa ). Abbiamo già considerato un altro momento di scomparsa: la scom­ parsa, diciamo così, di Venezia. Della possibilità del viaggio a Venezia. Determinata dalla comparsa pregnante — anche se solo su di un piano fantastico — di essa. Abbiamo avanzato delle ipotesi: abbiamo parlato di realizzazione precoce del desiderio (avendo in mente la dizione: eiaculatio precox). Che evidentemente avviene nella fantasia e impedisce la soddisfazione reale nella realtà. Intendendo per realtà il viaggio a V e­ nezia. Bisogna però stare attenti a considerare la soddisfazione precoce come insoddisfazione. Si è detto: precoce; ma: soddisfazione. Soddisfa­ zione, sul piano della fantasia. Il che ha comportato il sopraggiungere (si è trattato di un viaggio all’incontrario, non di lui verso Venezia, ma di Venezia verso di lui) dell’oggetto del desiderio. Il suo sopraggiungere pregnante, carico di effetti. Ma, viene da dire che anche in questo caso c’è stato un imprigiona­ mento e una fuga. Che cosa è stato fatto prigione? L ’immagine di Vene­ zia, in quanto immagine realizzativa di un desiderio (o della sua realizza­ bilità); o anche semplicemente come immagine rappresentativa di un de­ siderio (anche solo della sua rappresentabilità)! E in che cosa è consistito l ’iprigionamento?Nella assolutizzazione dell’immagine. Cercherò di spiegarmi, ricorrendo ad altri esempi tra quelli nei quali la recherche incappa e che cerca di lavorare, con esiti sempre imperfetti ma sempre anche suggestivi. Proust stesso autorizza questi accostamenti: quando ad esempio parla della somiglianza tra viaggiare ed amare; tra città e donne... « ...come il viaggio a Balbec, come il viaggio a Venezia, che tanto avevo desiderato — ciò che chiedevo a quella ‘ mattinata’ era ben altra cosa che un piacere: erano verità appartenenti ad un mondo più reale di quello dove vivevo, e la cui conquista, una volta compiuta, non avreb­ be potuto essermi tolta da incidenti insignificanti,fossero anche dolorosi per il mio corpo, della mia oziosa esistenza » 333. Va fin da subito sottolineato che la recherche non è recherche del piacere. Quel che si cerca è « b e n altra co s a ». Qui l ’ipotesi dell’oggetto della ricerca concerne una verità appartenente ad un mondo più reale di quello in cui Proust vive; la cui conquista può avere caratteri di perma­ nenza.

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Dobbiamo cercare di capire che cosa è questa verità. E ’ interessante cercare di capire le osservazioni che Proust fa sulla seconda audizione della Berma. In « I Guermantes » enuncia chiaramente in che cosa consista una primitiva ipotesi della verità permanente (dal possesso permanente) di cui si diceva dianzi. « Situate quasi all’infuori del mondo della nostra comune esperienza, queste cose esistevano in se stesse, e bisognava che io andassi a cercarle, e sarei penetrato in loro fin dove potevo, e spalancan­ do a tutto potere i miei occhi e la mia anima avrei assorbito un’altra anima. E come mi pareva bella allora la vita: la banalità di quella che di solito conducevo non aveva più nessuna importanza, come quei momenti che perdiamo per vestirci e prepararci ad uscire; giacché al di là esistevano, in modo assoluto, belle e difficili da accostare, impossibili da possedere in­ teramente, quelle realtà ben solide: Fedra, la recitazione della Berma... Ma ora, come una collina che di lontano sembra fatta di azzurro, e da vicino rientra nella nostra visione comune delle cose; tutto ciò aveva la­ sciato la sfera dell’assoluto e non era più se non una cosa simile alle altre, di cui io prendevo conoscenza semplicemente perché ero là... » 334. Lo spalancamento a tutto potere dell’anima fa venire in mente lo spalancamento ad ospitare tutta intera Venezia. Una Venezia che allora possiamo definire come esistente in se stessa: « fuori del mondo della no­ stra comune esperienza », come una realtà « ben solida », assoluta ». Cioè l ’esperienza di Venezia è fatta al di fuori dei canali della comune esperienza. E ’ fatta sul piano fantastico. Però, sul piano fantastico è fatta come esperienza di un assoluto, di qualcosa di esistente come indipen­ dentemente dalla nostra fantasia: come di fatto è la Venezia reale. E ’ molto interessante: la soddisfazione del bisogno risulta in tal modo non solo vincolata alla possibilità di raggiungere l ’oggetto reale (Venezia): occorre andare verso di esso, viaggiare verso Venezia. Ma anche vinco­ lata alla possibilità di raggiungere un oggetto reale interno (l’immagine di Venezia che ci si è confezionata ) « bisognava che io andassi a cer­ carle »: occorre viaggiare verso di esso, raggiungerlo, come qualcosa di esistente in se stesso. La fantasia, apparentemente liberatrice dai vincoli della realtà esteriore risulta vincolata ai limiti della realtà interiore; ai limiti dei meccanismi stessi del suo funzionamento. Essa funziona crean­ dosi degli oggetti solidi, anche difficili da raggiungere, talvolta irraggiun­ gibili anzi... verso i quali bisogna faticare, ansimando. E ’ questa assolutizzazione dell’oggetto del desiderio quello che ab­ biamo definito il suo imprigionamento? D i fatto la libertà della fantasia si rivela una sua dipendenza da immagini assolutizzate alle quali rimane schiava. Quando questa assolutizzazione si allenta, o addirittura scompare... si scopre il carattere di casualità dell’incontro con l’oggetto « indipenden­ te da noi » (sia che sia reale esterno che reale interno: nel passo sopra citato si parla di reale esterno): non è « più se non una cosa simile alle altre, di cui io prendevo conoscenza semplicemente perché ero là... ». C’è come un senso di liberazione in questo incontro con una cosa che è

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simile ad altre, che si incontra perché si capita là. Si potrebbe incontrare un’altra delle cose tra loro simili, si potrebbe capitare in un altro posto. Sembra sia possibile riacquistare la libertà! Anche se si può avere un senso di profondo disagio, proprio per la perdita di un oggetto assoluto: « Ne provavo uno scoraggiamento tanto profondo in quanto capivo che se l ’oggetto del mio desiderio ostinato ed attivo non esisteva più, persistevano sempre in me tuttavia quelle stesse disposizioni ad una fissazione fantastica la quale, cambiando o g ­ getto di anno in anno, mi conduceva a quei medesimi bruschi impulsi, incuranti d ’ogni pericolo... Capivo, dalla variabilità del suo oggetto la vanità dello sforzo; e insieme, l ’enormità di esso... E anche nei miei de­ sideri più materiali, sempre orientati in una certa direzione, concentrati ad uno stesso sogno, avrei potuto riconoscere come primo motore una certa idea: un’idea alla quale avrei sacrificato la mia vita, nel cui punto centrale, come nelle mie fantasie durante i pomeriggi di lettura nel giar­ dino di Combray, stava l ’immagine della perfezione » 335. Si tratta di una impresa vana e immane nello stesso tempo. E bisogna approfondirne sia la verità che l ’enormità. Che cos’è questa immagine della perfezione? Se non quella della per­ fezione dell’oggetto del desiderio, cioè della sua assolutezza? Abbiamo nelle pagine precedenti parlato di presenza ed assenza... L ’idea di perfezione, l ’esigenza di perfezione, investe anche il senso della presenza e dell’assenza, rendendole perfette, cioè assolute. « ...con quella pace senza turbamento che nessuna amante mi potè ispirare più tardi, poiché di loro si dubita sempre, anche nel momento in cui si presta loro fede, e non ci è dato mai di possedere il loro cuore come era dato a me ricevere in un bacio quello di mia madre tutto, senza la riserva di un pensiero nascosto, senza il residuo d ’un’intenzione non rivolta a me... » 336. Per cui l ’assenza della madre, diventa assenza totale di essa, come la sua presenza, presenza totale. Una situazione che richiama descrizioni kleiniane della posizione schizoparanoide (seno buono e seno cattivo); inevitabilmente portatrice di conclusioni delusive (posizione depressiva ) ! Ricordo velocemente l ’arrivo a Doncières, l’ingresso nell’albergo. Marcel prevede che vi troverà la « melanconia. Essa era come un profu­ mo irresistibile che dal tempo della mia nascita in poi si esalava da qual­ siasi stanza:...» 337. Tranne che da quelle alle quali l’abitudine gli aveva ottuso la sensibilità. Mentre, privato della protezione dell’abitudine, ridi­ ventava sensibile, ridiventava « quel certo ‘ io ’, che ritrovavo in fondo a me soltanto a intervalli di anni; ma sempre immutato, che non si era fatto adulto dai giorni di Combray... ed era sempre pronto a piangere, inconsolabile, sullo spigolo di una valigia appena disfatta » 338. Sopravvive invincibile un ‘io ’ infantile, sempre deluso, deluso di ogni luogo dove arrivi, dove disfaccia le valigie. Perché ogni assenza e ogni presenza è imperfetta! Prima di proseguire, una veloce annotazione. Ricor­ diamoci che questo ‘io ’ immutato, è l’io che, a distanza di anni, ritrova nei momenti migliori. Nei momenti della creazione artistica. L ’ingresso

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nelle sue camere dell’albergo non provoca però questa delusione: « Non ebbi il tempo d ’esser triste, perché non fui solo nemmeno per un mo1-3Q mento » . Ritorniamo alla prima definizione di perfezione come assolutezza. D i nuovo la seconda audizione della Berma. « La mia impressione, a dire il vero, benché più gradevole di quella d ’un tempo, non era di na­ tura differente. Soltanto, io non la confrontavo più ad un’idea preconcetta, astratta, falsa, dell’arte drammatica: capivo che il colmo dell’arte dram­ matica era proprio quello. M i ero sorpreso a pensare che se non avevo provato piacere la prima volta che avevo sentito la Berma era stato perché, come un tempo quando mi trovavo con Gilberte ai Champs Elisèes, ero andato da lei con desiderio troppo grande. E fra quelle due delusioni, non c’era forse soltanto quella rassomiglianza, ma un’altra an­ cora, più profonda. L ’impressione che producono in noi una persona, un’opera d ’arte (o un’interpretazione) fortemente caratterizzate, è una cosa tutta particolare. Noi abbiamo portato con noi certe idee di ‘bellez­ za’, ‘ ampiezza di stile’, ‘pathos’, che potremmo anche a rigore avere l ’im ­ pressione di ritrovare nella banalità di una opera ben costruita, di un viso dalle linee regolari; ma qui il nostro spirito intento trova davanti a sé l ’insistenza di una forma di cui non possiede l ’equivalente intellet­ tuale, di cui deve penetrare l ’essenza ignota. Sente un suono acuto, una intonazione stranamente interrogativa... e si domanda: ‘ E’ un’impressione di bellezza, quella che p rovo...?’ . E la risposta nuova sta in una voce acuta, in un tono curiosamente interrogativo, nell’impressione dispotica causata da un essere che non conosciamo: piena, completa, nella quale non c ’è il minimo spazio per la ‘ grandiosità dell’interpretazione’ . Ed è per questo che proprio le opere veramente belle, se ascoltate in tutta since­ rità, sono destinate a darci la maggiore delusione: perché nella collezione delle nostre idee non ce n’è nessuna che corrisponda ad un’impressione individuale » 9W. 1) La definizione della realtà, interiore ed esteriore, a questo punto può incominciare a prendere corpo. Realtà è ciò che insiste in una forma che non possediamo. La realtà di Venezia, sia quella della Venezia distesa sulla laguna, sia quella della Venezia distesa nei nostri sogni e nelle nostre fantasie, è smentita come realtà, sconfermata. Perché ci è nota, la possediamo. Vedendo Venezia, visitandola; visitando l’immagine che ne abbiamo costruito. Venezia reale, Venezia fantasticata non resistono in una forma che non possediamo. Perché le conosciamo. La realtà è quindi ciò che non conosciamo. 2 ) Ciò che non conosciamo ha un carattere dispotico. Non accetta di essere rimaneggiato secondo ciò che conosciamo. Non accetta di essere annullato dalla idea che noi abbiamo di esso, ci siamo fatta « preconcetta, astratta, falsa ». Ciò che non conosciamo è imperfetto. Nel senso che è diverso da ciò che avevamo immaginato. Imperfetto rispetto ad esso. Possiamo concludere che la realtà è, non solo ciò che non conosciamo; anche che la realtà è imperfetta. La realtà è « irregolare ». Vedi l ’irre­ golarità del viso, della dizione... Albertine, in quanto sconosciuta, irre­

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golare, è reale. Lei è l ’opera d ’arte che produce delusione: « Ma la mia camera non conteneva forse un’opera d ’arte molto più preziosa: Albertine stessa » ? 941. 3) Il desiderio troppo grande delude non perché è troppo grande, cioè troppo intenso. Ma perché ha fatto un troppo grande, troppo lungo percorso verso la soddisfazione, già soddisfacendosi, tramite una pre­ costruzione dell’oggetto — come oggetto assoluto, grande, addirittura grandissimo, sommo — del desiderio (interno ed esterno) fuori della realtà dell’impatto con ciò che è ignoto, imperfetto e per ciò stesso vera­ mente reale. La realizzazione precoce è una simbolizzazione precoce. An­ ticipata rispetto a ciò che si deve simbolizzare e a cui non si permette di presentarsi, non si dà il tempo perché si presenti. Viene represso, ri­ mosso, tenuto dietro le quinte. E sulla scena è fatta apparire una com­ parsa deludente perché non è il personaggio reale; la cui recitazione non recita nulla; la cui simbolizzazione non è simbolizzazione di niente. Di niente? Torneremo su questo tra breve. 4 ) La delusione impedisce il piacere. Che poi invece si raggiunge: « ...più gradevole di quella di un tempo i,. Ma abbiamo anche detto che la recherche non lo è del piacere... Infatti la recherche lo è dei mecca­ nismi della simbolizzazione. Per questo, ripeto ci torneremo tra breve, è giustificato il dubbio di sopra, se la simbolizzazione anticipata, precoce, non sia una simbolizzazione. Ma se lo è, di che cosa è simbolizzaione?

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G ap. X

V A R IA B IL IT À ’ DE LL’« IN TE R VA LLO » (R IM O Z IO N E ) TR A NON SIM B O LIZZA TO E SIM B O LIZZA ZIO N E : Q U AN TA M ORTE E ’ NECESSARIA ALLA SIM B O LIZZA ZIO N E

Proseguiamo l’esame dell’episodio della seconda audizione della Ber­ ma. « Noi sentiamo in un mondo, ma pensiamo e troviamo le parole in un altro: possiamo stabilire tra quei due mondi una corrispondenza, ma non possiamo colmarne l ’intervallo. Era un pò quello stesso intervallo, quel vuoto, che io avevo voluto valicare quando, il primo giorno in cui ero andato a sentire la Berma, dopo averla ascoltata con tutti i sentimenti, avevo provato una certa fatica a ritrovare le mie idee di ‘nobiltà di inter­ pretazione’, di ‘ originalità’ , ed ero scattato all’applauso solo dopo un attimo di silenzio, come se il mio applauso non nascesse direttamente dalla mia impressione, ma io lo avessi ricollegato alle mie idee di prima, al piacere che provavo nel dirmi: ‘ finalmente ascolto la Berma’ . E quella differenza che troviamo tra una persona e un’opera fortemente individua­ li, e l ’idea della bellezza, è altrettanto grande anche fra le persone che ci fanno provare ammirazione o amore e le nostre idee di quei sentimenti. Tanto che fatichiamo a riconoscerli. Io non avevo provato vero piacere nel sentire la Berma (così come non ne provavo nel vedere Gilberte, quando l ’amavo). E mi ero chiesto: ‘Dunque non l ’ammiro?’ . Eppure non pensavo ad altro, allora, se non a scrutare la sua recitazione, non avevo altra preoccupazione, ero tutto nello sforzo di aprire la mia mente il più possibile per accogliere tutto ciò che l ’arte sua conteneva. E capisco ora che ammirare vuol dire proprio questo » 341. Così come abbiamo considerato forse inevitabile e quindi utile l’im­ prigionamento di Albertine (nel senso di utilizzabile, perché da utilizzar­ si!)... dobbiamo forse pensare (e descrivere) il processo di simbolizzazio­ ne in modo non lineare. Cioè come comprendente il momento dell’impedi­ mento alla simbolizzazione e come comprendente una forma particolare di simbolizzazione anche di questo momento! Dice Proust che è possibile trovare una corrispondenza tra i senti­ menti e le parole; ma non è possibile colmare l ’intervallo che li separa. Se leggiamo attentamente, il ritardo dell’applauso, l’intervallo tra la sua sensazione e l ’applauso (l’equivalente delle parole per esprimerla), non è un intervallo tra le sensazioni suscitate dalla recitazione della Berma e le parole per esprimerla. C ’è un momento di silenzio, di latenza. In cui queste impressioni (nella prima audizione) sono come rimosse. Perché inadeguate (imper­ fette) a quelle previste. Se l’applauso è possibile, lo è quando la rimo­ zione è avvenuta perché l ’auditore si è potuto dire: quello che ho sentito è la Berma, la Berma recita splendidamente, quindi ho sentito una cosa splendida: quindi posso applaudire, debbo farlo, ecco lo sto facendo! Questo intervallo, che richiama l ’intervallo tra i sentimenti e le

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parole (il processo di simbolizzazione) di fatto è intervallo tra non sim­ bolizzato e difficoltà a simbolizzare; è intervallo nel senso di incapacità, inettitudine; non nel senso di difficoltà, arduità. E ’ intervallo nel senso di rimozione, non nel senso di non possibile corrispondenza. Ma questo duplice senso dell’intervallo, questa duplice portata, non indica il duplice senso, la duplice direzione del processo di simbolizzazio­ ne; che contemporaneamente rimuove ed esprime; insieme esprime e modifica? Che sarebbe a questo punto un triplice senso, una triplice di­ rezione? L ’intervallo esprime questa complessità del processo di simbolizza­ zione. La « comparsa » di cui sopra, simbolizza l’impedimento a simbo­ lizzare. E l ’impedimento (assolutizzazione preventiva di ciò che prima di simbolizzare bisogna esperire, e su cui dovremo ancora soffermarci) è im­ pedimento che si può superare, ma non completamente. Perché l ’impri­ gionamento precede e prepara la fuga (e la morte). Precisiamo comunque che Proust dice, a proposito del ritardo del­ l ’applauso, che è stato « come se il mio applauso non nascesse direttamente dalla mia impressione... ». Che vuol dire questo « come se » ? Vuol forse dire che nasceva invece proprio direttamente dalla sua impressio­ ne? Vuol dire che la via diretta della simbolizzazione è proprio quella indiretta? Perché la simbolizzazione è una via indiretta? o meglio, è una via, e di conseguenza non è diretta: cioè non è una via d ’aria. L ’im­ patto col reale avviene sempre attraverso questa deviazione dal reale che lo imprigiona, rischiando di isteririrlo, e quindi lo lascia esprimersi (fug­ gire...)? L ’assolutizzazione dell’oggetto del desiderio è un percorso obbligato? E’ il funzionamento del processo di assolutizzazione che è fatto così? Sicuramente il processo di simbolizzazione di Proust! E quale pro­ cesso di simbolizzazione possiamo simbolizzare se non il nostro? Su quali impedimenti lavorare se non sui nostri? H o detto più sopra che la recherche non è recherche del piacere. Ma della sua definizione. Che cosa è il piacere? Sembra che (vedi già illustrata incertezza di Marcel se ami o non ami Albertine) il momento in cui si incontra l’oggetto del piacere non si prova piacere. Si prova qualche cosa di diverso: per cui si può dire che non si ama colui di cui si è innamorati quando gli si può infine esprimere l ’amore, o quando si può vivere infine questo amore con lui... Ma la recherche della definizione del piacere è più profondamente la ricerca del piacere. Perché il piacere non è piacere se non quando è definito. Ed è definito non quando è sperimentato: parafrasando Proust di poco fa si potrebbe dire che la definizione del piacere è come se nascesse direttamente dalla sua esperienza. Perché la sua esperienza non è esperienza di piacere. E’ esperienza di un reale im­ perfetto e ignoto. Per poterlo chiamare piacere e sperimentare come tale bisogna simbolizzarlo. Un problema che si apre e che dovremo approfondire è se la simbo­ lizzazione del piacere necessariamente segua — dopo un intervallo — k sua esperienza. Cioè:

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f

1) Se questo intervallo intanto deve essere necessariamente lungo. 2.) Se inoltre deve necessariamente esistere cronologicamente e non solo logicamente. E ’ la domanda drammatica: quanta morte è necessaria alla simbo­ lizzazione? Si potrebbe forse ipotizzare che se non si assolutizza il pro­ cesso stesso di simbolizzazione come simbolizzazione dell’esperienza di­ retta; se si intuisce e vive un processo di simbolizzazione che è tale fin dai suoi albori, che è tale in tutte le forme che assume, su tutte le strade che percorre, si diventa più capaci di simbolizzare. EÀ un’ipotesi che si prolunga nell’ipotesi che esistono diversi linguag­ gi (simbolizzazioni); che, ad esempio, il fare l’amore sia già simbolizza­ zione; come lo sia il mimarlo; e lo sia il poetarlo, il descriverlo, il concettualizzarlo... Ed il non riuscire a farlo, il non riuscire a poetarlo etc., siano rivelatori di uno scacco della simbolizzazione; siano dovuti ad una impotentia simbolizzandi. Possiamo ritornare un attimo a definire le verità di cui più sopra. Propongo di definirle come verità relative al processo di simbolizzazione. Si tratta di quelle verità che è un’impresa insieme vana e immane cer­ care di raggiungere... Torniamo un poco indietro... Quando Proust ha finalmente sentito la Berma (la seconda volta) in modo non preconcetto, prefabbricato; quando l ’ha sentita nella sua imperfezione, nella sua realtà... dice: « ...non desideravo neppure più di venire un’altra volta a risentire la Berma: ero soddisfatto di l e i » 344. E perché? perché non fa più quello che ha fatto fino allora e che consiste nel « domandare in anticipo all’impressione dell’indomani quel piacere che non avevo trovato nell’impressione del giorno prima » 345. Essendo riuscito a simbolizzare, anche se in ritardo, non ha più bisogno di sim­ bolizzare in anticipo! Sono le simbolizzazioni fallite che determinano la impotenza a simbolizzare; ma è anche vero che attraverso questa impo­ tenza si acquista la potenza: attraverso questo ritardo (simbolizzazione retardata) si arriva a non praticare l’anticipazione (simbolizzazione preco x ). (Andrà tutto approfondito questo problema del ritardo e dell’an­ ticipo a proposito della ricostruzione dell’evento, del vissuto dell’evento, che avviene in ritardo. Certe volte dopo anni, certe volte m ai!). Ma questo ritardo e questa anticipazione, in una certa misura (da de­ finirsi) sono necessari, nella costruzione del processo. « ...è il terribile inganno dell’amore, che comincia a farci giocare con una donna non del mondo esterno, ma con una bambola che sta nel nostro cervello... una creatura fittizia alla quale a poco a poco, per la nostra sofferenza, poi obbligheremo la donna reale ad assomigliare » 346. Questa bambola forse è inevitabile, come giocare con lei, farsi da questo tipo di gioco ingannare: il gioco dell’amore. Come è inevitabile obbligare a fare giocare questo gioco la donna, reale, come se fosse una bambola. Abbiamo visto che ci sono una serie di impedimenti a procedere ve­ locemente dalla bambola come prima ipotesi (se ipotesi, non più ingan­

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no, almeno se ipotesi velocemente verificabile), con progressiva appros­ simazione al bisogno vero, che si coglie sempre in un reale ignoto e imperfetto... Ma ci sono una serie di impedimenti che fanno sì che un’individua­ zione esatta, avvenuta immediatamente, del reale ignoto e imperfetto, sia per anni, forse per sempre, nascosta, distorta, deviata. « ...improvvisamen­ te mi dissi che la vera Gilberte — la vera Albertine — erano forse quelle che al primo istante s’erano offerte nel loro sguardo, luna davanti alla siepe di rosaspine, l ’altra sulla spiaggia. Ed ero stato io, che, per non averlo saputo intendere, per averlo solo più tardi ripreso nella me­ moria... — dopo un intervallo durante il quale per via delle mie con­ versazioni, tutto un intrico del sentimento aveva fatto temer loro la sin­ cerità dei primi istanti, avevo sciupato tutto con la mia inettitudine. Le avevo ‘mancate’ completamente... » 347. Sono una serie di convenzioni sociali che impediscono di capire lo sguardo di Gilberte e di risponderle; che portano alla rimozione del significato dello sguardo di lei (trasformandolo in uno sguardo di di­ sprezzo da uno sguardo di adescamento che era) e alla rimozione della ri­ sposta ad esso. « Solo, avevo creduto, per via del gesto volgare che lo aveva accompagnato, che fosse uno sguardo di disprezzo; perché quel che io desideravo mi pareva qualcosa che le ragazzine non dovevano cono­ scere e che facevano solo nella mia immaginazione, nelle mie ore di soli­ tario desiderio. E ancor meno avrei creduto che così facilmente, così ra­ pidamente, quasi sotto gli occhi del mio nonno, una di quelle avesse avuto l’audacia di accennarla » ì48. Sembrerebbe che la realtà sia facilmente apprendibile. E ’ una fol­ gorazione che illumina una svolta della recherche! Sembrerebbe che nulla ci separi da essa. « Ebbi un sussulto di desiderio e di rimpianto... Eppure ero felice di dirmi che quella gioia verso la quale allora si tendevano tutte le mie forze e che nulla mai avrebbe potuto restituirmi, era esistita non solo nel mio desiderio, e anzi, in realtà, così vicino a me, in quella Roussaunville di cui parlavo tanto spesso e che scorgevo dallo stanzino odoroso di iris 349. E non ne avevo saputo nulla! In conclusione, essa rias­ sumeva tutto quel che avevo desiderato allora nelle mie passeggiate, fino a non potermi decidere a tornare a casa perché mi pareva di vedere che si schiudessero, che si animassero gli alberi. Quel che allora io m’augu­ ravo così febbrilmente, ella, sol che avessi saputo capirla e ritrovarla, avrebbe forse potuto farmelo gustare fin dall’adolescenza. Più compietamente ancora di quel che avessi creduto, a quell’epoca, Gilberte era vera­ mente dalla parte di Méseglise. E anche quel giorno, quando l ’avevo in­ contrata sotto un portone... non mi ero del tutto ingannato sul significato del suo sguardo » 35°. Sembrerebbe quindi che la possibilità di soddisfare i nostri desideri sia a portata di mano, vicina a noi. E che sia una possibilità tanto ampia quanto noi. non immaginiamo. Ma qualcosa ci separa da questa realtà. Perché le convenzioni socia­ li, che impediscono l ’immediata apprensione della realtà desiderata, i co­

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mandi interiorizzati, non si sa se poi sono invece anche comandi este­ riorizzati! Cioè, in ogni caso, questi impedimenti ce li ritroviamo come impedimenti reali nel processo di simbolizzazione. Il paradiso della sod­ disfazione immediata ci è precluso. Anche se co n lo è quello della soddi­ sfazione. Cioè l ’intervallo che in Proust è l’intervallo di tutta la vita, passato il quale è possibile solo colla memoria cogliere la possibilità della soddisfazione, solo come possibilità a quel punto irrealizzabile (anche se l ’irrealizzabilità è alleviata dalla gioia che finalmente si sa che ci si è ingannati, ma non così profondamente: in fondo si era visto giusto!) può essere un intervallo più breve; e dopo di esso la soddisfazione del desi­ derio può essere raggiunta. La memoria non ha un lavoro così esclusivo! Non è l ’unico luogo in cui avviene la costruzione della vita come costruzione del passato e basta. Non è più vero che la memoria sia « incapace a uscir dal passa­ to » 35i, che la vita sia « irreale » 3a2. Il processo di simbolizzazione non è solo processo della simbolizzazione del suo scacco e delle sue possibilità di funzionamento; ma anche del suo funzionamento. « N oi non appro­ fittiamo in realtà della nostra vita, lasciamo incompiute nei crepuscoli d ’estate o nelle notti precoci d ’inverno, le ore in cui c’era pur sembrato che si potesse racchiudere un pò di pace o di piacere. Ma quelle ore non sono assolutamente perdute. Quando cantano a loro volta nuovi momenti di piacere che passerebbero allo stesso modo, altrettanto gra­ cili e lineari, quelle ore vengono a conferir loro il basso profondo, la consistenza d ’una ricca orchestrazione. Esse si estendono così fino a uno di quei piaceri tipo, che si trovano solo di tanto in tanto ma che conti­ nuano ad esistere... » 353.

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Ca p. XI

DELLA PO SSIBILITÀ’ D I UN R IN N O V A M E N TO (D ETERM IN ATO D ALLA M O RTE ) U TILIZZA B ILE D A COLUI CHE MUORE. DELLA PO SSIBILITÀ’ D I UNA M O RTE (E D I UNA V IT A ) PA R ZIA LE

Il « basso profondo » è quello della nostalgia? che stinge il nuovo piacere in quello non goduto, non godibile, rinunciato? O l ’accumulo di desiderio, la « orchestrazione » di una serie di sfumature di possibili che arricchisce il piacere goduto, non rinunciato? L ’impossibilità di un’apprensione diretta immediata, rimane. Vedi l ’episodio in cui un’indiscrezione di Jupien su Françoise gli rivela il di lei animo... « quell’improvvisa visione che Jupien mi aprì una volta sul mondo reale, mi atterrì... Ma erano così tutti i rapporti sociali?... Il fatto sta che io compresi l ’impossibilità di sapere in modo diretto se Françoise mi amava o mi detestava. E così fu lei a darmi per prima l’idea che una persona non è, come avevo creduto, immobile e chiara davanti a noi, con le sue qualità, i suoi difetti i suoi progetti e le sue intenzioni a 'nostro riguardo... ma che è un’ombra in cui non possiamo penetrare, per la quale non esiste in noi conoscenza diretta, sulla quale oi facciamo un certo numero di opinioni basandoci su parole o magari su atti, che gli uni e gli altri ci danno solo delle nozioni insufficienti e per giunta con­ traddittorie... » 354. Ma è anche dovuta alla contraddittorietà dell’oggetto che si vuole apprendere; inoltre alla sua stessa evoluzione, anch’essa contraddittoria. Anche noi mutiamo! « E poi una realtà nuova ci farà forse dimenticare, detestare anche, i desideri che avevano determinato la nostra partenza » 355. Il cambiamento è una legge; ma ha le sue stasi, i suoi impaluda­ menti... Il passato non rimane immobile: « E i momenti del passato non sono immobili: serbano nella nostra memoria il moto che li travolgeva verso l ’avvenire, verso un avvenire divenuto esso stesso un passato e tra­ scinandoci con esso » 356. Ma certe volte ristagna in un ricordo dominante. E allora l ’idea stessa della possibilità dell’oblio diventa terrorizzante: « Quando me ne avvidi, fui preso da un leggero panico. Poi la concor­ renza delle altre forme della vita respinse nell’ombra quel nuovo dolo­ re... La calma che avevo assaporato era la prima apparizione di quella grande forma intermittente che avrebbe lottato in me contro il dolore, contro l’amore e che avrebbe finito per vincerli » 357. Il ristagnare del ricordo può essere vischiosità, come invece fedeltà alla ricerca di un’im­ magine di bisogno incarnatasi in un volto: « ...prima immagine, esile nel mio ricordo, desiderata, inseguita, poi dimenticata, ritrovata, di un viso che sovente più tardi ho proiettato nel passato per potermi dire, di una fanciulla che si trovava nella mia camera: ‘ E ’ lei’ » 358. Dopo la scomparsa e la morte di Albertine, l ’a priori iniziale che era metafisico, tratto da lei come dalle passanti, proiettato, diventa una specie di a posteriori: lei sola regna nel suo cuore; non è più pensabile una

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tenerezza se non come rivolta a lei, o da lei proveniente. Il primo a priori è stato costruito senza il contributo di Albertine (tranne quello minimo della sua apparizione). Il secondo a priori (il co­ siddetto a posteriori) è costruito col contributo del suo tempo perduto insieme con lui; è « costituito dalla embricatura contingente e indissolu­ bile dei ricordi *•359. Ora, essendo il suo rapporto con lei una condizione mentale, sarebbe potuto sopravvivere molto alla sua scomparsa. D ’altra parte, proprio es­ sendo una condizione mentale, cioè non avendo con lei nessun legame autentico, « non avendo nessun sostegno fuori di sé, avrebbe dovuto, come ogni stato mentale, trovarsi un giorno fuor d ’uso, essere ‘ sostituito’ ... la sciagura delle persone è quella di essere soltanto delle immagini incise e sottoposte, nella nostra mente, a una grave usura. Appunto per questo si fondano su di loro progetti che hanno in sé il fuoco del pensiero; ma il pensiero si stanca, la memoria si distrugge... » 36°. Sarebbe rimasto legato a lei se l’esistenza del suo rimpianto e della sua gelosia fosse rimasta « sottoposta soltanto al gioco dei ricordi, alle azioni e reazioni di una psicologia applicabile a condizioni di immobilità e non fosse stata trascinata invece verso un sistema più vasto in cui le anime si muovono nel tempo come i corpi nello spazio... i calcoli di una psicologia piana non sarebbero più esatti, se non si tenesse conto del tempo e di una delle sue forme: l ’oblio; l ’oblio; di cui cominciavo a sen­ tire la forza e che è uno strumento di adattamento alla realtà così po­ tente perché a poco a poco distrugge in noi la sopravvivenza del passato, cioè una costante contraddizione con quella » 361. L ’oblio di lei, la sua morte (rispetto alla memoria) avverrà insieme alla morte di lui stesso. « Legato com ’ero a tutte le stagioni, per perdere il ricordo di Albertine sarebbe stato necessario che avessi potuto dimenti­ carle tutte, salvo ricominciare a conoscerle, come un vecchio colpito da emiplegia impara di nuovo a leggere; sarebbe stato necessario che io ri­ nunciassi a tutto l’universo. Soltanto, mi dicevo, una vera e propria morte di me stesso sarebbe stata capace (ma è impossibile) di consolarmi della sua. Non pensavo che la morte di se stessi non è impossibile né straordi­ naria; che essa avviene a nostra insaputa, magari contro la nostra volontà, ogni giorno... » 352. Quando questa morte duplice è avvenuta, egli sente la diminuzione ch’essa ha comportanto (la scomparsa della sua sofferenza « mi lasciava diminuito » 363). Quando comincia a scomparire il ricordo di Albertine egli ha 1’« impressione... del vuoto, della soppressione in me di tutta una parte delle mie associazioni di i d e e ...» 364. La vita gli appare « ...come qualcosa siffattamente sprovvista del sostegno di un ‘ io ’ individuale e per­ manente, qualcosa di così inutile nell’avvenire, e di tanto lungo nel pas­ sato, che la morte avrebbe potuto benissimo terminarla qui senza con­ cluderla » 365. Questa momentanea eclissi dell’io, del senso della identità, è dovuta a una reale morte attraverso la consumazione della quale avviene la tra­ sformazione dell’io in un nuovo io: si rimane « ...meravigliati di essere

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divenuti un’altra persona » m . « Ma io tendevo a passare interamente in un altro personaggio. Il nostro affetto per i morti non si indebolisce perché siano morti loro, ma perché siamo noi stessi a morire » 367. E questa trasformazione è possibile perché in fondo non è che av­ venga la morte di un io e la nascita di un altro io. Il fatto è più semplice e più complesso: « Non ero il solo uomo... » 368. « ...In una folla, quegli elementi possono, uno a uno, senza che ce ne si avveda, essere sostituiti da altri, che altri ancora eliminano o rinforzano, tanto che alla fine si è compiuto un mutamento impossibile a concepire se si fosse una sola per­ sona » 369. Non si è una sola persona, ma una folla. Una molteplicità di possibilità, in continua evoluzione... Il fatto di essere costituiti da questa folla di io, di possibilità, com­ porta, sembra, l ’inevitabilità di una trasformazione. « Così quell’amore... dopo avermi fatto compiere un giro tanto lungo e tanto doloroso, finiva anch’esso, dopo essere stato una eccezione, ed esattamente come il mio amore per Gilberte, nella legge generale dell’oblio » 37°. Trasformazione che è non soltanto trasformazione di noi verso gli altri, ma anche di noi verso noi stessi; cioè non solo morte degli altri per noi; ma anche morte di noi per noi stessi: la possibilità della cessazione di ogni legame con noi stessi; la rinuncia all’immortalità. La possibilità quindi di simbolizzare il nostro essere vissuti, dal punto di vista distan­ ziato di una nostra morte già avvenuta. « ...non vedendola più, avevo smesso di amarla, mentre non avevo smesso di amarmi in quanto i miei quotidiani legami con stesso non erano spezzati come quelli con Albertine. Ma se lo fossero stati anche quelli col mio corpo, con me stes­ so?... Certo accadrebbe la medesima cosa. Il nostro amore della vita è solo un vecchio legame di cui non sappiamo sbarazzarci. La sua forza è nella sua permanenza. Ma la morte che la interrompe ci guarirà del de­ siderio dell’immortalità » 371. Può succedere però un enorme ritardo, come abbiamo già accennato, nel sopraggiungere dell’oblio. ( Anche là è passata la morte che ha reso tutto facile e tutto inutile » 372. Parlare di certe cose con la donna amata quando non la si ama più, è facile, perché lei e noi non siamo più quelli di prima. Al limite non è più possibile parlarne, perché non siamo più possibili interlocutori di quel colloquio. « ...non si può cambiare, cioè diventare un’altra persona, seguitando ad obbedire ai sentimenti della persona che non siamo più » 373. Proprio perché non siamo quelli che una volta erano interessati a farlo. Ne erano i possibili soggetti! Ma se fosse possibile e facile, sa­ rebbe comunque inutile! Sembra che incontrare quel che fummo non sia del tutto impossibile. Sembra che sia possibile ricordare un giorno passato, e con esattezza. « ...giorno di cui non potevo dire di ricordarmi esattamente, perché a quel­ la calma s’aggiungeva adesso una sofferenza non provata allora. Ma, assai più tardi, quando attraversai a poco a poco, in senso inverso, i tempi che avevo percorsi prima di amare Albertine; quando il mio cuore cicatriz­ zato potè senza sofferenza separarsi da Albertine morta, allora potei final-

niente ricordarmi senza dolore quel giorno... mi ricordai con piacere quel giorno 374 come appartenente a una stagione morale che fino allora non avevo conosciuta; e lo ricordai finalmente con esattezza, senza più ag­ giungervi dolore e anzi come ci si ricorda di certi giorni d ’estate che parvero troppo caldi quando li vivemmo e dai quali, soprattutto a di­ stanza di tempo, si estrae senza impura lega, il metallo d ’oro fino e di indistruttibile azzurro » 37S. E sembra che la possibilità di ricordare il giorno passato con esattez­ za dipenda proprio dal fatto che il giorno è passato! Dove, ricordarlo esattamente significa ricordarne l’estratto che è possibile farne dopo che è avvenuto: l ’oro senza lega impura. Che vuol dire? Che cosè quest’esat­ tezza? Se non la pertinenza del ricordo di quel giorno come funzione del bisogno che abbiamo oggi di ricordarlo in questo modo qui, esattamente in questo modo qui, per provarne gioia, oggi? Ma non è possibile averne provato gioia allora! Sarebbe stato utile, con la donna che si è amata, mentre la si amava, potere parlare? Parlare mentre era viva. Parlare con noi di noi, di quel che amammo, con quel che noi amammo, mentre eravamo vivi? Sarebbe sì forse utile. Ma potrebbe avvenire solo a condizione di non essere più quello che fummo. Perché quello che eravamo consisteva pro­ prio nell’impossibilità di parlarne! Ma ecco, è pensabile che questa impossibilità e la corrispondenza o contrapposta possibilità non siano separate da una distanza infinita, che siano quasi prossime? E’ possibile che il rinnovamento, che avviene attra­ verso la morte, sia un rinnovamento utilizzato da chi muore, prima che la sua decomposizione lo disperda? E se un legame rimane con questo morto, o con questa decompo­ sizione, è segno che questa morte non è morte e la decomposizione de­ composizione? Vediamo un pò: è necessario che Albertine muoia perché possa essere simbolizzata (così abbiamo visto che è necessario che sia impri­ gionata, che fugga). Ma la sua simbolizzazione non è anche la sua morte definitiva? La sua scomparsa? O deve morire una sua simbolizzazione. Una sua simbolizzazione par­ ziale. Cioè assolurizzata?... si, perché Albertine non è vero che è l ’om o­ sessualità. La sua omosessualità non è l’ignoto in quanto ignoto assolito... E ’ solo un aspetto dell’ignoto; o meglio, l ’ignoto che si è presen­ tato, la faccia dell’ignoto che abbiamo vista; la faccia che gli abbiamo visto o gli abbiamo data... Forse Albertine non era omosessuale. Né Marcel lo era, anche se implicato in una così grossa proiezione (abbiamo su questo tema già avanzato la possibilità di una procovazione). C’è la possibilità che la simbolizzazione si assolutizzi? che si produca l ’incanto di un momento del suo processo? che si sottostia al fascino di un meccanismo o dell’insieme dei meccanismi del suo processo? E si rimanga distanti a contemplarlo, questo processo. In grado di simboliz­ zarlo, ma avendolo ucciso. Come, potendo pensare la propria morte, in quanto concretamente possibile, riusciamo a simbolizzare la nostra vita

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come vita compiutasi, conclusasi, finita, morta. In una distanza dalla vita che è fatta di un senso quasi di immortalità anche se è rinuncia all’im­ mortalità, perché è comprensione del fatto che, disciolti da quel che amammo, noi stessi, dall’assuefazione a questo amore, possiamo non più amarci, possiamo non più desiderare l ’immortalità di questo amore... Così, da lontano, da molto lontano, possiamo contemplare il processo di simbolizzazione, come un processo a cui ci è dato di non più ricorrere; perché ci è dato anche di tacere, di tacere per sempre. Questa possibilità di profondo silenzio ci schiude anche la possibilità di gustare, da lontano (senza lega impura) la forza e il tormento del dire, dell’esprimere. Ma come in un altro mondo (uno sfondo morale tutto diverso). E ’ allora necessaria una morte totale (per noi anche una morte di tutta la nostra vita se vogliamo simbolizzarla come vita compiutasi, se vogliamo simbolizzarla tutta quanta e, di conseguenza, da un punto di vista estraneo a lei, quello della morte definitiva) per poter simbolizzare quello che è morto proprio in quanto è morto! E ’ necessario un punto di vista completamente diverso (non di lega impura) per poter indivi­ duare nella impura lega l’oro. Ma è comunque necessario che questo punto di vista sia punto di vista da cui si considera lo stesso fatto, la stessa persona, la stessa lega impura; inoltre è comunque necessario che da questo punto di vista a considerare quel che diventa visibile ci sia colui che era in questa lega impura. Bisogna cioè che l’oro conservi una memoria della sua apparte­ nenza alla lega in cui era mescolato. Altrimenti la distanza tra lui e lei è tale che non interessa più nessuna considerazione, non è costituibile nessun punto di vista, si rimane ciechi! non è neppure valutabile, cioè, la differenza tra oro e lega impura. Cioè, la simbolizzazione non può, per simbolizzarsi, allontanarsi trop­ po poco da ciò che deve simbolizzare, altrimenti non riesce a simboliz­ zarlo. E ’ necessaria la morte. Ma non può neppure allontanarsi troppo... La morte non deve es­ sere eccessiva. L ’ « intermittenza >:. è forse il suo ritmo di funzionamento. Io ti ho dimenticata? Sei morta per me ed io per te. Sono io stesso morto per me e tu per te! Ne possiamo prendere atto? Ma quanto grande è questa morte? Sembra infinita. Sembra quasi di essere Dio che la può considerare. Come la morte definitiva di un’anima, di due anime mortali. Un Dio materialista! Eppure non è così infinita. Perché continuiamo a vederci. A raccon­ tarci. E non solo a raccontare quello che fummo. A raccontare il nostro raccontare. A parlare di come funziona questo nostro morire e comunque in­ contrarci. Dove? Quest’oro estratto da una lega impura — oh, il fascino della lega impura, oh il desiderio impuro di riessere impura lega, quella che già fummo! impuro desiderio? — questo azzurro perfetto, brilla ec­ cessivamente. E’ gioia, ma intollerabile. Non è impuro il desiderio di altra ancora impurità. Ma perché con

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te stessa e con me? Non ci accorgiamo che quest’altra impurità già si produce. Sconcia. Non sappiamo simbolizzarla. In essa siamo ancora oro non estratto? Timore d’essere oro rinnegato. Rintanato nella sua lega per sempre. Pauroso della folgorazione della sua estrazione. La verità tra noi di noi perché non è ancora dicibile? « Il letto mette accanto al mio. Per potervi sgusciare dentro. Poi è nuda, accanto a me. Come inginocchiata. Curva dalle spalle al culo. Due piccoli seni, meravigliosi. Senza parere le accarezzo il culo. Furtivamente le bacio i seni. Scopro poi che il suo corpo è il corpo tuo » (sogno). ' A un volto nuovo resisto che un corpo racchiude immemorabile, eternamente — da sempre e per sempre — desiderato. Lo riposseggo brevemente, nascostamente. Perfezione che liquefa la mia realtà limitata. Ma alla vista si offre e al godimento sotto l’irregola­ rità, la imperfezione di un volto importuno. Bellezza unica. Questo amore si strugge, mi strugge; ma riesce ad apparire, su un letto a giacersi, verso un amplesso a tendere, quando si maschera? La sua maschera dovrà vincere il premio di una splendida bellezza. La vincerà. L’ha vinta. Oh, trionfo! anche se breve trionfo. Da culmine a cul­ mine, oh venturosa peregrinazione!

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C a p . X II

MECCANISM I DELLA M E M O R IA E DELLA SIM B O LIZZA ZIO N E: IL R IC O R D O E LA SIM B O LIZZA ZIO N E SITUANO L ’ESPERITO NELLA SCANSIONE DEL TEM PO (R IN N O V A T O ) DEL LIN G U A G G IO E DELLA CULTURA

Lungo il discorso che fin qui abbiamo sviluppato abbiamo seminato interrogativi che non hanno ancora — chissà se l’avranno mai — avuto una risposta. In attesa di ritrovarla, verso la fine — provvisoria — di questa ricerca all’interno della recherche proustiana, compiamo degli sforzi di indagine frammentaria sul tema della simbolizzazione. Sforzi frammentari che riguardano il processo della simbolizzazione all’interno del processo della memoria: come processo cioè attraverso il quale si ricorda ciò che si è dimenticato, ma, ricordandolo, lo si ricostruisce, cioè lo si costruisce; gli si dà per la seconda volta la vita; che però è una vita che non ha mai avuto: quella appunto della simbolizzazione. Perché è prevalentemente all’interno della ricerca del tempo perduto che la ricerca è ricerca dei meccanismi della simbolizzazione: cioè come ricerca dei meccanismi della memoria. Sembra che l ’oblio determini tra l’ avvenimento dimenticato e il suo rinvenimento, quella distanza che è apparsa un momento decisivo della simbolizzazione; come distanza tra il simbolizzante e il simbolizzato; cioè tra la parola e la cosa che viene parlata. E nello stesso tempo è descritta la copertura di questa distanza: che avviene tramite il ricordo. Operazione che modifica decisamente il ricordato. Proust sembra voler dire che il ricordo, quando avviene pregnantemente, è ricordo della verità accaduta. Cioè è un ricordo fedele. Per la prima volta si sa (si ricorda) quello che è successo. E’ come se fosse successo o succedesse per la prima volta. Ma questo suo succedere, identico a come è successo, ri­ producendo l ’io a cui è successo, inevitabilmente modifica sia l’avvenimen­ to ricordato, sia l ’io rievocato protagonista dell’avvenimento, sia l ’io ricordante, sia i loro rapporti. Cioè, nella misura proprio in cui la simbolizzazione simbolizza esat­ tamente il reale (ignoto, imperfetto...) modifica questo reale. La simbo­ lizzazione non è simbolizzazione solo del non simbolizzato: cioè dell’og­ getto oscuro, come distinto dal simbolizzante. E ’ simbolizzazione del rap­ porto tra il simbolizzante e questo oggetto oscuro. Anzi l ’oggetto oscuro è proprio questo rapporto. E ’ questa la ragione per cui la simbolizzazione non è registrazione ma costruzione. Tanto più in quanto essa riguarda un altro essere simbolizzante (l’oggetto consapevole, ignoto, la volontà oscu­ ra e incessante, di cui si è detto). Dicevo, ci muoviamo in modo frammentario, cogliendo spunti qua e là e sviluppandoli. Perché abbiamo in mente qualcosa ma non sappiamo bene quale. E ’, quella che facciamo, una ricerca che qui riproduciamo

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come ricerca, o tentiamo di farlo. Finora abbiamo avuto come l’intuizione della strada da fare, del modo in cui organizzare il vastissimo materiale di sollecitazioni che ci vengono da Proust. Adesso ci sentiamo come persi, anche se intuiamo nell’ultimo volume della recherche come una svolta risolutiva. Non necessariamente nel senso degli approdi di Proust. Forse anche in senso diverso... Ma è come se sentissimo il bisogno di fare un tragitto zig-zagato altrove, o prevalentemente altrove, prima di conside­ rare questi approdi, o la svolta che li produce. La simbolizzazione può non avvenire o fallire. La « memoria volontaria », la « memoria dell’intelligenza » 376 è inu­ tile' come strumento di simbolizzazione. « ...le notizie che essa dà sul passato non ne serbano nulla » 377. Sono come la cronaca rispetto alla storia, nemmeno... Il passato sembra irrevocabile. Scomparso. « Si nasconde... in qual­ che oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest’og­ getto materiale) che noi non supponiamo. Questo oggetto vuole il caso che noi lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo » 378. Questo oggetto è « quella realtà che noi rischieremmo di morire senza aver conosciuta » 379. Che cos’è? E ’ « semplicemente la nostra vita, la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luc4, la sola vita realmente vissuta » 38°. Quindi morire senza ritrovare questo oggetto si­ gnifica non esser vissuti. La simbolizzazione è la vita umana; senza di essa non c ’è vita umana. E quindi neppure la morte. Chi non ha simbo­ lizzato, non è nato, non è vissuto, non è morto. Il giorno dell’incontro con l’oggetto materiale di cui sopra, è un giorno « che per molti non giunge m a i » 381. E ’ urgente quindi «riafferrare la nostra vita; e la vita altrui, anche...» 382. In che cosa consiste questo riafEerramento (simboliz­ zazione)? « Non è una questione di tecnica, bensì di visione. E ’ la rive­ lazione che sarebbe impossibile con mezzi diretti e coscienti, della diffe­ renza qualitativa che esiste nel modo in cui ci appare il mondo, differenza che se non ci fosse l ’artista resterebbe l ’eterno segreto di ognuno » 382 bls. Simbolizzare significa quindi una pratica, non diretta e cosciente, che permette l’individuazione di una differenza del modo in cui a ciascuno appare il mondo (ritorneremo su questo). In questa differenza consiste l’esistenza dell’individuo in quanto individuo. Differenza tra lui e il mondo; tra lui e gli altri che sperimentano il mondo; tra lui e gli altri come parte del mondo, come mondo che si sperimenta. Si tratta infatti di riafferrare la vita nostra e anche l ’altrui. Di simbolizzare la nostra vita e di appropriarci anche delle altrui simbolizzazioni. Questa è una moltipli­ cazione della vita. Quest’operazione è simile all’operazione artistica, cioè alla creazione artistica. E ’ creazione cioè di qualcosa che non c ’è: è infatti il modo in cui si nasce, si vive e si muore. Senza cui non si nasce non si vive e non si muore. La simbolizzazione allora è la vita. La simbolizzazione addirittura rende la morte meno amara, meno ingloriosa, addirittura meno proba­ bile forse: « Forse solo il nulla è vero e tutto il nostro sogno è inesi­

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stente, ma allora sentiamo che è necessario che anche queste frasi musi­ cali, queste nozioni aventi un’esistenza solo in relazione con esso, non siano nulla. Noi periremo, ma avendo per ostaggi queste prigioniere di­ vine, che seguiranno il nostro destino. E la morte con loro ha qualcosa di meno amaro, di meno inglorioso, di meno probabile forse » 383. Nel senso che « forse le perderemo » 384 le « nozioni senza equiva­ lente » 385 che sono « i ricchi doni che rendono vario e adorno il nostro mondo interiore. Forse scompariranno, se ritorneranno al nulla. Ma finché viviamo, non possiamo più condurci come se non le avessimo mai conosciute, come non lo possiamo per qualche oggetto reale...» 387. La simbolizzazione dà la vita alle cose, una vita reale, le rende degli oggetti reali; anzi la simbolizzazione stessa è un oggetto reale di cui te­ ner conto, di cui non si può non tener conto. Le impressioni che causano tanta letizia (vedremo più avanti) a Mar­ cel all’ingresso della casa dei Guermantes, quasi ultimo atto della recherche « ...io le provavo a un tempo nell’istante attuale e in un istante lontano » 388. E la gioia deriva da ciò che nell’impressione c ’è quindi di « estratemporale » 389. L ’essere che provava questa gioia era un essere che aveva la possibilità di « ...gioire della essenza delle cose, cioè fuori del tempo. Questo spiegava come le mie inquietudini a proposito della mia morte fossero cessate 390 dal momento che in quel momento l ’essere che io ero stato era un essere estratemporale, e quindi incurante delle vicis­ situdini del futuro. Tale essere non era mai venuto fino a me, mai mi s’era manifestato, se no'n al di fuori dell’azione, dell’immediato godimen­ to, ogniqualvolta il miracolo d ’un’analogia m’aveva permesso di sfuggire al presente » 391. La simbolizzazione avviene tramite la distanza, il distanziamento di cui si è detto... E ’ una mediazione... In quanto tale è un’operazione « estratemporale ». Simbolizzare cioè significa raccogliere nella parola la cosa, l’avvenimento... sottraendolo al suo divenire... Sottraendolo al tem­ po, al suo scorrere. Ma introducendolo nel nostro divenire, nel nostro tempo. E ’ quindi un’operazione a duplice senso: sottrae da un tempo e introduce in un altro tempo. E ’ simile al momento della creazione: « Accadeva come al principio del mondo, come se ancora non vi fossero che loro due sulla terra, o piuttosto in quel .mondo chiuso a tutto il resto, costruito dalla logica d ’un creatore o dove sarebbero sempre stati soii entrambi: quella sonata... » 392. C ’è un principio: quello del caos e della organizzazione del caos. La determinazione del principio è determina­ zione di una distinzione tra caos e sua organizzazione, tra non semiotizzato e semiotizzato; determinazione, istituzione del tempo. Del prima e del dopo. E ’ chiaro che, nel momento in cui si costituisce questo prima e questo dopo, in cui si costituisce il tempo, come creatori del tempo e di ciò che in esso si fa avvenire, ci si sente fuori del tempo, cioè fuori di un tempo determinato su di noi dall’esterno, su di noi come creati da altri... ad esempio dallo scorrere delle ore (infatti è in quel momento ch’egli è un essere estratemporale: quando semiotizza, crea; non

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sempre). E ’ per questo che l’indifferenza alla morte è poi desiderio di vita: « ...tale struggente desiderio di vivere, che un autentico momento del passato era rinato in me in tre distinte riprese. Soltanto un momento del passato? » 393. N o, qualcosa che è comune al presente e al passato ed è « molto più essenziale di entrambi » 394. Desiderio quindi struggente. Ed è proprio questo struggente desiderio di vita che protegge dalla paura della morte. L ’immaginazione — « ...l’unico organo di cui fossi dotato per go­ dere la bellezza » 395 non può applicarsi alla realtà « in virtù di quell’inflessibile legge, la quale vuole che soltanto le cose assenti siano immagi­ nabili » 396. Le leggi dell’immaginazione sono poi quelle del linguaggio: « Non solo le leggi dell’immaginazione, ma quelle del linguaggio » 397; « Perché ciascuno vede più in bello quello che vede a distanza, quello che vede negli altri » 39S. Per cui si percepisce la realtà, ma l’immagina­ zione non si può applicare a quella realtà percepita. Proprio perché l’im­ maginazione la distanzia, dalla percezione, da quella che era nel momento della percezione (o della percepibilità, perché « la testimonianza dei sensi è anch’essa un’operazione spirituale in cui la convinzione crea l ’eviden­ za » 399). Ma questa legge può essere sospesa, neutralizzata: « E d ecco che all’improvviso l ’effetto di tal dura legge veniva neutralizzato, sospeso da un meraviglioso espediente della natura, che simultaneamente aveva fatto lumeggiare una sensazione... nel passato, permettendo alla mia immaginanazione di gustarla, e nel presente, dove l’effettiva reazione dei miei sensi... aveva aggiunto ai fantasmi dell’immaginazione ciò di cui sono abi­ tualmente sprovvisti: l’idea di esistenza; e grazie a tal sotterfugio aveva permesso al mio essere di carpire, isolare, fermare — per la durata di un attimo — ciò che di solito egli non cattura mai: un frammento di tempo allo stato puro » 400. Non l’avevo previsto, anzi l ’avevo escluso, ma mi accorgo che all’ul­ timo atto della recherche comincio, prima del tempo, a far riferimento. E’ necessaria la distanza della morte: « ....la morte non è inutile, il morto continua ad agire su di noi. Agisce più di un vivo, perché la realtà vera non può essere svelata che dallo spirito, essendo l ’oggetto d ’un’operazione spirituale, noi non conosciamo veramente se non quando siamo costretti a ricreare col pensiero quanto ci nasconde la vita di ogni Ani giorno » . La legge rimane immutabile ma viene neutralizzata per la durata di un attimo. Durata nella quale si coglie il meccanismo delia simbolizzazio­ ne. La distanza, cioè la mediazione, permane. Anzi è stata accentuata dall’oblio. Ma una percezione recente avendo evocato, dall’oblio, una percezione antica, permette: a) di esperire una realtà (nel presente); b ) contemporaneamente, di costruirne un’altra (antica ma nel pre­ sente: con un lavoro quindi dell’immaginazione; cioè un’operazione di simbolizzazione).

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E ’ un espediente, un sotterfugio. Ma è un espediente, il sotterfugio della simbolizzazione. Che, lavorando all’interno del tempo, fuoriesce da esso, tramite l ’immissione in esso di un altro tempo; che cioè, esperendo un impatto col reale (ignoto, imperfetto) lo costruisce in funzione dei suoi bisogni, bisogni presenti, se non da sempre, da molto. Se non obliati, inconsci. Se non inconsci, preconsci. E subito questi bisogni si affrettano sull’esperito per forgiarlo ai fini della loro soddisfazione. Questi bisogni escono dall’inconscio senza tempo; e costituiscono il tempo: il tempo della scoperta, delia soddisfazione. Lo creano. Per cui le possibilità di soddisfazione dei bisogni diventano concre­ te: assumono il carattere di esistenza. Cioè la soddisfazione avviene! O appare finalmente come possibile. E ’ vero da una parte che l ’essere fa questa operazione, a cavallo tra il passato e il presente, a cavallo cioè tra inconscio e conscio, tra realtà non semiotizzata o desemiotizzata e linguaggio, è un essere estratemporale; ma è più profondamente vero che è un essere dotato o che si dota del potere di strappare all’estratemporalità (l’inconscio senza scan­ sioni di tempo) l’oggetto della sua ricerca e di regolarlo secondo invece i ritmi e le funzioni del tempo: quello del linguaggio, della cultura. Ma è anche vero che questo essere, il momento in cui compie questo gesto, è al di là, al di sopra del tempo; al di là, al di sopra del tempo scandito; si mette fuori della sua regolamentazione. Il gesto che fa non è ritmato, scandito. E ’ un’usurpazione. Sia rispetto al linguaggio già parlato, sia rispetto al non detto: è un’arrogazione a sè del diritto di sconvolgere entrambi. Tramite la sottrazione all’inconscio e l ’introduzione nel conscio di pezzi di realtà, fasci di bisogni, nuclei di possibilità.

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C a p . X III

SIM B O LIZZA ZIO N E COM E COSTRUZIONE DELLA RE ALT A ’ . D IA L E T TIC A DELLA FEDELTÀ’ A L D A T O ESPERIENZIALE E FEDELTÀ’ A I BISOG N I CHE INDUCONO A D ESPERIRLO.

Ma, più sopra dicevamo che la simbolizzazione può non avvenire o può fallire. Non è, come dire, un fatto di natura, secondo natura; ma, quasi contro natura. E ’ un’operazione. In quanto tale non è necessaria. Può avvenire come non avvenire, a seconda. Può riuscire e può fallire... Vedi ad esempio l’episodio degli alberi a Balbec (passeggiata verso Hudimesnil)... che gli danno « una felicità analoga » a quella datagli dai campanili di Martinville, che però questa volta rimane « incompleta » 402. Vede tre alberi che formano un disegno che non gli appare per la prima volta... non può riconoscere il luogo da cui essi sono come stac­ cati... ma sente che questo luogo gli è stato familiare in passato. Per conseguenza: « ...il mio spirito prese a barcollare tra alcuni anni lontani e il momento presente, i dintorni di Balbec vacillarono e mi domandai se tutta quella passeggiata non fosse una finzione, Balbec un luogo dove non ero mai andato fuorché con l ’immaginazione, la signora di Villeparisis un personaggio di romanzo e i tre vecchi alberi la realtà che si trovava alzando gli occhi dal libro che si stava leggendo e che ci descriveva un ambiente nel quale si era finito per crederci effettivamente trasportati » . L ’estratemporalità è qui solo un barcollamento, l’ordine del lin­ guaggio semplicemente vacilla, c’è solo una disehiusione del non semiotizzato. Lo spirito non riesce ad aver « presa » sul luogo coperto dagli al­ beri; non riesce a « raccogliersi » , a « prendere lo slancio ». L’unico con­ seguimento è il senso della finzione. I confini tra conscio e inconscio si indeboliscono e ne consegue una specie di allucinazione. Più un baluginamento però che una allucinazione costruita, tanto meno un linguag­ gio ospitabile con pieno diritto nell’ordine del linguaggio. Per potersi rac­ cogliere e prendere lo slancio, dovrebbe « essere solo » 404. Vorrebbe met­ tersi da parte: « M i sembrava anzi che avrei dovuto fa r lo » 405. Riconosce « quel genere di piacere che esige... un certo lavoro del pensiero su se stesso... Quel piacere il cui oggetto era solo presentito, e che io stesso dovevo creare, lo provavo solo di rado, ma ogni volta mi sembrava che le cose accadute nel frattempo non avessero affatto impor­ tanza e che solo aderendo alla realtà avrei finalmente potuto iniziare una vera vita » 406. Fermiamoci un attimo, o anche più di un attimo a considerare: 1) la necessità della solitudine; 2) la necessità di impegnarsi come nel compimento di un « dovere »; 3) la necessità di lavorare, del pensiero, su se stesso; 4 ) la necessità di aderire alla realtà; 5 ) la necessità di creare l ’oggetto reale. Sul primo punto abbiamo già detto qualcosa. « Non avrei permesso

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alla gente nemmeno di venirmi a trovare a casa » 407 perché avevo « un appuntamento urgente, capitale, con me stesso » 408. Vivrà solo, realmente, dopo tanta compagnia; lavorerà di notte... « E del resto non era forse per occuparmi di loro, ch’io sarei vissuto lontano da quelli che si sarebbero lamentati di non vedermi, per occuparmi di loro più a fondo di quanto non avrei fatto in loro compagnia, per cercare di rivelarli a loro stessi, di realizzarli? » 409. Quanto al secondo punto è un’indicazione costante lungo tutto il percorso della recherche, ch’essa necessita di un impegno, di una fatica. Basterà rileggere uno solo degli episodi di memoria involontaria (le maddalenine410, i campanili di Martinville411, gli alberi di B albec412, i ciottoli413, il cucchiaio 414 il tovagliolo413, la nonna416 etc...), per vedere con tutta evidenza quale intensità di sforzo è necessaria perché la re­ cherche approdi a un risultato... « Chiedo al mio animo ancora uno sforzo » 417. « Sentendo come l’animo mio si stanchi senza successo, lo costringo...418, «...sentii che il mio dovere sarebbe stato di non limitarmi a quelle parole opache e di cercare di vedere più chiaro nella mia ebbrezza » 413. Il « dovere di coscienza », quello di « cercare di vedere quel che si na:sconde|va dietro le cose », è « arduo » 42°. Quando si accorge che la « realtà pre­ sentita » è « morta », dice che è accaduto perché non si è avuto la « volontà bastevole » 421, e più avanti parla di « dovere » 422. Il senso di questo dovere, questo sforzo... sono necessari a fare la « recher­ che » 423. Il nostro spirito « si distoglie volentieri dallo sforzo neces­ sario per approfondire in noi stessi... » 424. « Nel blocco di verzura dinanzi al quale mi lasciarono, bisognava, per riconoscere una chiesa, compiere uno sforzo che mi rese più strettamente padrone dell’idea di chiesa» 425. « ...debbo a un esercizio di volontà e di attenzione... se ero penetrato attraverso la semioscurità e avevo visto chiaro » 426. « La verità e la vita sono assai ardue; e di esse, senza pur tuttavia che le conoscessi, un’impressione mi restava dove ancora era più forte della tristezza, forse, il senso della fatica » 427. La « viltà » è quella che lo distoglie dal compito difficile 428. Altre volte rimane invece « per ore intere immobile, sfor­ zando (si) » 429. Eppure, in contrasto e in contemporanea con questo bisogno di impegnarsi in uno sforzo intenso, c’è come il bisogno di impegnarsi in un abbandono dello stesso sforzo. E ’ paradossale, ma l ’impegno, quindi la fatica, è duplice: a perseguire e a farsi raggiungere... Ba­ sta ricordare che è grazie alla « memoria involontaria » che l ’operazione della recherche funziona! Basta ricordare che è allo « indebolimento della volontà » che egli deve l’avviamento a questa esperienza che è la re­ cherche! Egli appartiene chiaramente alle nature non volontarie descritte in Albertine Scomparsa 43°. E ’ qui forse collocabile il passo seguente, ricco forse eccessivamente di ambiguità: « Ogni momento, siamo co­ stretti a scegliere tra la salute, la saggezza, da un lato, e i piaceri spiri­ tuali, dall’altro: io ho sempre commesso la viltà di scegliere le pri­ me » 431. L ’indebolimento, della volontà e della salute, abbiamo già visto,

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è forse una strategia che persegue la forza e la raggiunge! La letteratura viene molto chiaramente definita come equivalente alla pigrizia, nel senso che il lavoro letterario la richiede come atteg­ giamento utile alla produzione letteraria: « Io mi comportavo come co­ stui e come mi ero sempre comportato da quando avevo preso la decisione di darmi alla letteratura» 434: come un «in fin ga rd o»! «R isa ­ lendo pigramente, come su di una barca, la corrente del tempo, e tro­ vando sempre dinanzi a me ricordi pieni d’incanto, che io non sceglievo, che un minuto prima mi erano invisibili e che la memoria mi offriva l’uno" dopo l ’altro, senza permettermi di sceglierli, io continuavo pigra­ mente, su quegli spazi uniformi, la mia passeggiata al sole » 435. Se si guarda bene, gli episodi di ritrovamento del passato non sono preparati da uno sforzo. Sopraggiungono. Non scelti. E ’ all’interno di questi accadimenti che poi si pone la necessità di impegnarsi a cogliere l’avvenimento, a non lasciarselo sfuggire, a non smarrirlo. Insieme alla necessità, proprio per non lasciarselo sfuggire, di alternare all’insegui­ mento l ’attesa... Per cui è sempre il ricercatore che, dopo aver chiesto « al mio animo ancora uno sforzo... di ricondurmi di nuovo alla sensa­ zione che sfugge » 436, « lo costringe al contrario a prendersi quella di­ strazione che gli rifiuta » 417. Gli sta a cuore... « rispettare l ’originalità della mia sofferenza, quale l ’avevo subita d ’improvviso senza volerlo, e volevo continuare a subirla, seguendo le sue leggi...» 438. L ’avvenimento involontario, non scelto, sceglie di farselo avvenire e di seguirne le leggi; anche proprio per de­ cifrarlo. Per appropriarsene. Proust enuncia quasi la legge del ritorno del rimosso: « La filosofia parla spesso di atti liberi e di atti necessari. Forse non ve n’è nessuno più completamente subito da noi di quello che, in virtù di una forza ascensionale compressa durante l ’azione, fa, quando il nostro pensiero è in riposo, risalire così un ricordo livellato agli altri dalla forza oppressiva della distrazione, e slanciarsi, perché a nostra insaputa esso conteneva più degli altri un fascino di cui ci accorgiamo soltanto ventiquattr’ore dopo. E fors’anche non v ’è atto più libero, perché è ancora sprovvisto di abitudine, di quella specie di mania mentale che, nell’amore, favori­ sce il rinascere esclusivo dell’immagine di una data persona » 439: un momento di debolezza, un cedimento delle resistenze (il riposo del pen­ siero) permette il risalire di un ricordo compresso dalla rimozione (di­ strazione). E ’ un avvenimento che il conscio subisce. E che insieme per­ mette la libertà, data dallo sconvolgimento del conscio (l’abitudine). Qui la « mania » viene definita con le stesse caratteristiche dell’¡inconscio; o meglio del programma inconscio; della scelta inconscia 440. Questo lavoro (punto 3) è un lavoro che ha come referente, come luogo, come corpo, il soggetto. « E ’ chiaro che la verità che cerco non è in essa (nella bevanda), ma in me » 441. « Essa l ’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con una forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace di interpretare... mi rivolgo al mio animo. Tocca ad esso trovare la verità » m .

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Questo, perché la verità che si cerca inerisce il soggetto: le modalità del suo funzionamento. Anche seinerisce le modalità del suo funziona­ mento in rapporto alla realtà, sia interiore che esteriore... Questo episodio spiega che Proust possa sostenere da una parte che « l a realtà non si formi che nella m em oria» 443: « i fiori che mi fan ve­ dere oggi per la prima volta non mi sembrano fiori veri » m . Che fiori veri appaiano solo quelli ripresentati dalla memoria, indica una legge del funzionamento del soggetto Proust e del suo rapporto col mondo. In par­ ticolare la fissazione (di cui si è già parlato) a immagini compiute (vedi la presenza-assenza totali della madre...), insuperabili nella loro com ­ piutezza... Ma questa realtà creata dalla memoria è una realtà « individua­ le » 445. Quando desidera rivedere la parte dei Guermantes non gli basta un’altra che gli rassomigli: deve rivedere quella 446. Questa realtà ha una esistenza indipendente da noi (già a lungo su questo tema ci siamo sof­ fermati all’inizio di questo lavoro. Ma ora ci tocca ritornarci). Noi « ...siamo sempre circondati dalla nostra anima, ma non come da una prigione immobile; piuttosto siamo come con lei trascinati in un perpetuo slancio per sorpassarla, per giungere all’esterno, con una specie di scoraggiamento, sentendo sempre intorno a noi quella sonorità iden­ tica che non è eco del di fuori ma il risuonare d ’una vibrazione interna » ... per cui gli esseri « che sentiamo bene come siano situati al di fuori di noi » tuttavia sentiamo « come non ci sarà dato mai raggiungerli » 447. Ecco: il soggetto si protende oltre se stesso in un’operazione in cui, che essa sia rivolta agli esseri esterni che gli appaiono, come s’è visto, irraggiungibili, o invece ai movimenti interni che gli risultano indecifra­ bili, « il ricercatore è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla » 448. Il ricercatore e il ricercato in ogni caso sempre coincidono; perché da trovare è sempre il funzionamento del rapporto tra il ricercatore e il ricercato; e di conseguenza, non importa dove sia il ricercato, se fuori o dentro il soggetto, è sempre dentro il soggetto; nel senso cioè che lo riguarda sempre. L ’ultimo passo che comincia: « il ricercatore », è pre­ ceduto dalla frase: « ...ogni qual volta l’animo nostro si sente sorpassato da se medesimo; quando lui, il ricercatore... » 449. Qualsiasi cosa gli ac­ cada, chi lo sorpassa è lui medesimo. Per questo la partenza dell’osserva­ zione suona: « Grave incertezza, ogni qualvolta... » 450 ! Il passo comunque continua: « Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce » 4sl, e così ci ricongiungiamo col punto da cui siamo partiti! « Ogni operazione della mente è facile, se non è sottoposta alla realtà. Qui ero costretto a sottopormici » 452. Si tratta di « riprodurre » non di « creare » 453, un nome. Ma ogni creazione è anche una riproduzio­ ne. Nel senso che ogni creazione non è creazione dal nulla, ma dal caos. Non riproduce il caos (produce per l ’appunto l ’organizzazione che non c’era prima, che prima era nulla) ma ciò che crea lo crea in riferimento

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al caos: l ’organizzazione lo è del caos. « ...non siamo affatto liberi di fronte all’opera d ’arte... non la com­ poniamo a nostro piacimento, ma preesistente a noi, dobbiamo scoprirla, al tempo stesso perché necessaria e nascosta e come faremmo per una legge della natura » 454. Vinteuil « s’era accontentato di svelarla (la frase della sonata), di renderla visibile, di seguirne e rispettarne il disegno con mano così tenera, prudente, delicata e ferma che il suono ogni minuto s’alterava, attutendosi per indicare una zona d ’ombra, riprendendo vita quando doveva seguire la traccia d ’un contorno più ardito » 45S. Il dialogo tra il pianoforte e il violino è necessitato: « La soppres­ sione delle parole, nonché lasciar regnare la fantasia, come si sarebbe potuto credere, l ’aveva eliminata; mai linguaggio umano non fu necessità così inflessibile, mai non conobbe domande così pertinenti, risposte così evidenti » 4S6. La simbolizzazione, se è simbolizzazione (altrimenti è fantasia, deli­ rio, allucinazione: altra forma di simbolizzazione, caratterizzata dall’igno­ ranza di ciò che simbolizza, da una sua minore governabilità), se cioè è simbolizzazione di qualcosa, di qualcosa di evidenziato, per cui costi­ tuisce una domanda pertinente o una evidente risposta, è necessitata. Cioè obbedisce a delle leggi precise. E ’ creazione, ma dell’oggetto reale. Così come l ’interpretazione di un avvenimento storico non è solo la riproduzione di questo avvenimento; l’interpretazione di un sogno non è solo una associazione al sogno, o anche una sua ricca amplificazione... Creazione non vuol dire la prima cosa che passa per la testa... anche se la prima cosa che passa per la testa è importante. Ma sono molte le cose che passano per la testa, e l ’ultima vale talvolta (ultima, si fa per dire!) più della prima (si fa sempre per dire, prima!). E’ l ’insieme delle cose che passano per la testa, organizzate in un cer­ to modo, che è la creazione. Essa è caratterizzata contemporaneamente dalla fedeltà (nel caso dell’esempio dell’interpretazione storica) massima al come gli avvenimenti si sono prodotti, susseguiti... e dalla fedeltà mas­ sima al bisogno che spinge a questa riproduzione fedele degli avvenimenti. Il quale bisogno è sempre un bisogno anche antico, ma presente, « con­ temporaneo » (la storia è sempre contemporanea!): « M a molto in alto tra coloro che della propria vita interiore hanno fatto il loro vero am­ biente, in ben poco conto è tenuta l’importanza degli avvenimenti. A modificare profondamente l ’ordine dei pensieri, tra essi è piuttosto qual­ cosa che in sé par non avere alcuna importanza e che invece, nei loro confronti, inverte l’ordine del tempo rendendoli contemporanei d ’un altro periodo della loro vita » 457. E ’ evidente che questa duplice fedeltà non potrà che portare a una duplice infedeltà: la creazione. Che sarà infedele sia verso il fatto acca­ duto, sia verso il bisogno che spinge a indagarlo, a documentarlo, a de­ scriverlo, a interpretarlo. Infedeltà inevitabile, perché insita già nella circostanza che chi si occupa di questo fatto se ne occupa dopo che esso è avvenuto. E con questo stesso lo situa fuori del suo contesto, quindi lo modifica comun-

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M W O C fiu m ’

que. Che sarebbe l ’infedeltà del tutto arbitraria, cioè inconsapevole. Sen­ za nessuna precisa finalizzazione. Quella che si chiama marchiana igno­ ranza. Che è ignoranza non solo del fatto ma del perché ce ne si occupa. Ed è così enunciato un grosso problema e un lontano orizzonte per la ricerca scientifica, per i.1 lavoro analitico, per la didattica... La consape­ volezza delle implicazioni della operazione di occuparsi, nel presente (e quando se n o?) di un fatto che è accaduto nel passato (e quando se no?), porta, se si lavorano queste implicazioni, a una duplice infedeltà, che è una duplice fedeltà e viceversa. Porta, attraverso questa duplice fe­ deltà-infedeltà ad una definizione della nostra posizione attuale verso un avvenimento passato e insieme alla definizione della nostra posizione attuale verso ciò che sta per avvenire. Porta cioè progressivamente alla individuazione di una scelta che, insorgendo inizialmente, si vedrà meglio, come scelta inconscia, diventa progressivamente sempre più conscia. D i­ ventando addirittura un progetto di intervento. Che prima non esisteva e quindi si può dire che è stato creato.., Forse, chiarito a questo punto il concetto di « infedeltà » come scel­ ta, costruzione, compiuta sempre all’interno di una tensione contraddit­ toria (que'lla tra due conflittuali fedeltà) può risultare più comprensi­ bile la contraddittoria tensione illustrata nelle pagine iniziali di questa recherche, tra la realtà (conoscibile, amabile) come esistente e la realtà come non esistente; tensione contraddittoria che, insopprimibile, può es­ sere utilizzata solo in una definizione (scelta-costruzione) di ciò che è reale-esistente, come processo, divenire.

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C a p . XIV

LA D E C IFRAZION E (SIM B O L IZZA ZIO N E ) COME RI A PPRO PR IA ­ ZIO N E DELLA V IT A (D E LL’IN D IVID U ALE) Ritorniamo agli alberi nei pressi di Balbec. Proust cerca di aderire alla realtà... di creare l’oggetto che gli annuncia il piacere... Si sforza « in quella direzione interiore al cui termine li vedevo in me stesso » e non nella direzione degli alberi in quanto tali: « Di nuovo dietro di essi, sentii il medesimo oggetto noto, ma vago, e che non potei ricon­ durre a me » toS. Si domanda dove li abbia visti. Fa diverse ipotesi: — che emergessero « soli dal libro dimenticato della mia prima infanzia » 459. Venivano da anni tanto lontani che il paesaggio circostante era stato abolito nella memoria; — appartenevano ai paesaggi del sogno, il cui aspetto strano era soltanto « l'aggettivazione, nel mio sonno, dello sforzo che compievo da sveglio sia per raggiungere il mistero in un luogo dietro alla cui apparenza lo presentivo... sia per cercare di reintrodurlo in un luogo che avevo desiderato conoscere e che dal giorno che l’avevo conosciuto mi era parso tanto superficiale...» 460; — era un’immagine « completamente nuova, staccatasi da un so­ gno della notte precedente, ma già così cancellata che mi sembrava ve­ nisse da molto lontano » 461; — non li aveva mai visti e « nascondevano dietro di sé... un senso oscuro e difficile da afferrare quanto un passato lontano, dimodoché, solle­ citato da essi ad approfondire un pensiero, credevo di dover riconoscere un ricordo » 462; — era « una stanchezza della mia visione a farmeli vedere doppi nel tempo come talvolta si vede doppio nello spazio » 4o3. Tra queste ipotesi è difficile scegliere: « Non sapevo » 464. Crede però che siano « fantasmi del passato, cari compagni della mia infanzia, amici scomparsi che invocavano i nostri ricordi comuni. Come ombre sem­ bravano chiedermi di portarli via con me, di restituirli alla vita? Nella loro gesticolazione ingenua e appassionata, riconoscevo il rimpianto d ’un essere amato che ha perso l ’uso della parola, sente che non potrà dirci quel che vuole e che non sappiamo indovinare » 46S. Di fronte ai campanili di Martinville la parola è recuperata. Anzi è scoperto per la prima volta che è una questione di parole: « ...quel che si nascondeva dietro ai campanili di Martinville doveva essere qualcosa di analogo a una bella frase, dacché mi davan piacere sotto forma di pa­ role... » 466. E queste parole sgorgano 467. Vedi il brano stupendo che contiene la simbolizzazione 468. Forse l ’unica simbolizzazione separata, come incorni­ ciata, all’interno della simbolizzazione costituita dalla recherche nel suo complesso. Quest’ultima come simbolizzazione del processo di simboliz­ zazione; la prima come simbolizzazione in senso più preciso: mi viene

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da dire come simbolizzazione pura. Capace di dare subito gioia; il mas­ simo della gioia. Mentre il fallimento della simbolizzazione degli alberi di Balbec (che comunque è simbolizzazione del fallimento della simbolizzazione!) è ca­ rico di disperazione: « ero triste come se avessi perduto un amico, come se fossi morto io stesso, avessi rinnegato un morto e disconosciuto un dio » 469; « Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le brfaccia e sembravano dirmi: ‘ Quel che non apprendi da noi oggi non lo saprai mai. Se ci lasci decadere in fondo a questo sentiero di dove cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che noi ti portavamo cadrà per sempre nel nulla » 470... ... il successo invece della simbolizzazione dei campanili di Martinville lo riempie di gioia: « ...provai tal gioia, mi sentii cosìpienamente liberato di quei campanili e di quel che si celava dietro di loro, che, quasi fossi stato io stesso una galiina e avessi fatto l ’uovo, mi misi a cantare a squarciagola » 471. Che cos’è questa decifrazione? Forse la decifrazione non lo è tanto di quel che c ’è dietro i campanili... non è un gioco a rimpiattino... a chi arriva per primo... a chi capisce dove si è nascosto l ’altro. La decifrazione è la rivelazione della vita dei campanili che si muo­ vono come animati appunto di una vitaloro; che è anche la vita della visione dei campanili durante il viaggio, vita antropomorfica. Mentre Proust stesso è invece, come dire, deantropomorfizzato, paesaggistizzato. Il rapporto tra Proust e il paesaggio è vissuto intensamente, fino alla possibilità di cogliere la sequenza delle impressioni visive immediate (e non solo visive) e di introdurle in una simbolizzazione che permetta loro di sussistere come un ordine sostitutivo di quello in cui sarebbero state ricacciate (quello della realtà come deve esser vista) da una serie di correzioni. Correzioni che avrebbero però tolto loro il senso delPespe'rienza della passeggiata; per cui sarebbe stato come se la passeggiata non fosse stata fatta, quella passeggiata, quel giorno là. Sarebbe stato come se fosse stata fatta la Passeggiata, la passeggiata quale è quando la si vuota delle caratteristiche che la fanno essere questa o quella passeggiata. La decifrazione di conseguenza è appropriazione della vita. Perché la vita è in quella passeggiata là, e non nella passeggiata in sé. « L ’unico vero viaggio, l ’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l ’universo cogli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è » 472. Lo scopo viene ad essere la creazione di « quel mondo che noi chiamiamo 1’ ‘individuo’, e che senza l ’arte ci rimarrebbe sempre sconosciuto » 473. « Soltanto grazie all’arte ci è dato uscire da noi stessi, sapere ciò che un altro vede di un universo che non è il nostro stesso e i cui paesaggi ci rimarrebbero ignoti come quelli che possono trovarsi nella luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mon­ do, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi, e quanti più sono gli artisti, tanti più sono i mondi a nostra disposizione, diversi gli uni dagli altri più ancora dei mondi roteanti nell’infinito...» 474. 104

Ca p. XV

CON SOLAZION E (R IM O Z IO N E ) E M O RTE (DISTRU ZION E) COME C O N TR AR IO DELLA SIM B O LIZZA ZIO N E

Un altro ritrovamento è quello della morte della nonna. In un « ricordo pieno e involontario » 473, egli « ritrova » « la realtà viva » m , cioè rivede la nonna viva che si china su di lui in occasione del primo arrivo a Balbec... E dal « folle desiderio » 477 di balzare tra le sue braccia, un anno dopo la sua sepoltura « a causa di quell’anacronismo che tanto impedisce al calendario dei fatti di coincidere con quello dei sentimenti, io avevo saputo che era morta... ai turbamenti della memoria si sono legate le intermittenze del cu ore...» 478. La realtà viva della nonna è lui che, ritrovandola, la ricrea (ritrovare e ricreare sono esattamente i termini che, Proust usa). « Tale realtà non esiste per noi finché non sia stata ricreata dal nostro pensiero (se non fosse così gli uomini che hanno preso parte a un’immane battaglia sarebbero tutti dei grandi poeti e p ici)...» 479. Ricreata significa due cose: che è stata creata una volta; e che adesso è creata la seconda volta (in contrapposizione e parallelo a trovare e ritrovare). Il pensiero, tale realtà, la ricrea. La ricreazione modifica la situazione rispetto al primo atto creativo. E questo forse proprio perché il primo atto creativo è stato inconscio, o è stato rimosso. « L ’essere che mi veniva in aiuto, che mi salvava dall’aridità del­ l ’anima... » 480 è la nonna viva «presenza sconosciuta, d iv in a » 481. Tale aridità è il frutto della « negazione » 482. Mentre dall’impressione dolorosa, di cui tra poco parleremo, gli sembra che un giorno potrà ricavarne « un poco di verità 483, l ’oblio della nonna non riesce a pensare « ad afferrar­ lo per trarne verità: in se stesso non era che una negazione, l ’affievolimento del pensiero, inetto a ricreare un momento reale della vita e co­ stretto a sostituirvi immagini convenzionali e indifferenti » 484. Eppure una verità preziosa la insegna; quella della negazione. E ’ falso che « i nostri beni interiori... siano perennemente in nostro pos­ sesso. Forse è ugualmente inesatto credere ch’essi sfuggano o ritornino. Comunque, se restano in noi, per la maggior parte del tempo è in un regno sconosciuto, e dove non ci rendono alcun servigio, e dove anche i più usuali sono soffocati da ricordi di un ordine diverso e che escludono ogni simultaneità con essi nella coscienza » 485. Come è possibile che questa negazione sia incrinata? « Ma se riaf­ ferriamo il quadro delle sensazioni dove som custoditi (i beni interiori) essi hanno a loro volta il medesimo potere di scacciare tutto ciò che è loro incompatibile, e di insediare in noi soltanto l ’io che le ha vissute » 487. Perché sono proprio queste sensazioni che sono state rimosse, negate. E ’ un pò lo stesso discorso che si è fatto a proposito della « decifrazio­ ne » più sopra. Ciò che viene negato in questo caso (del ritrovamento), o colto nel caso della decifrazione, è sempre la vita, la vita immediata,

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le sensazioni... Il loro risvegliarsi interrompe l ’aridità della vita. Ma questa aridità viene interrotta in modo significativo solo quando queste sensazioni sono simbolizzate; quando cioè sono costituite in un ordine simbolico che permetta loro di combattere la dispersione che imporrebbe loro l ’ordine vigente; o di evitare l ’inglobamento in questo stesso or­ dine (questo ordine vigente essendo costituito dalle « immagini conven­ zionali e indifferenti » di cui sopra). « ...quelle alterazioni della sintassi e dell’accento che sono in rapporto con l ’originalità intellettuale. Rap­ porto che esige, d ’altronde, un’interpretazione » 488. E ’ per questo che cerca in tutti i modi di conservare queste sensa­ zioni-alterazioni... che sono dolorose. Perché? La scoperta della oonna viva, l ’incontro con la nonna viva, determinano la scoperta della nonna morta, l’incontro con la nonna morta, con la sua morte. E ’ come se avesse avuto bisogno della vita per capire — per con­ trasto — la morte. E di simbolizzare la vita per poter simbolizzare la morte. Non capisce: « ...m’addestravo a subire l ’angoscia di questa contrad­ dizione » m , consistente nel fatto che tanto più viva è la nonna tanto più è morta. Tanto più coglie la sua vita e la gode, tanto più sente la sua morte e la soffre. Questa contraddizione ha il sapore di una contrad­ dizione fondamentale. Il dolore « v e r o » 490 (veri sono i dolori che « c i tolgono letteralmente la vita per molto tempo, a volte per sempre », men­ tre gli altri sono, nonostante tutto, passeggeri: « se ne vanno presto come son venuti tardi..., per provarli, ci è stato necessario comprender­ li » ) 491; il dolore profondo, è quello della madre, che ha lo sguardo fisso e senza lacrime dal momento della morte della nonna: il suo sguardo si è « fermato su quella contraddizione incomprensibile del ricordo e del nulla » 492. Anche lui sperimenterà un dolore simile (« io dovevo conoscerlo un g iorn o...») 493, nell’esperienza con Albertine. E ’ un’esperienza dolo­ rosissima, capace di spegnere la vita. Un’esperienza che pone a cavallo tra il ricordo e il nulla; la vita e la morte. Rimanere a cavallo tra essi è dolorosissimo, tanto che può uccidere. Perché? E ’ come se dal punto di vista del nulla si possa ritrovare, ricreare il ricordo; dal punto di vista del ricordo si possa ritrovare, ri­ creare il nulla. A cavallo tra il momento presente e l ’antico, si vive un attimo di estratemporalità che dà la gioia della sottrazione al ritmo del tempo, il senso della immortalità...; a cavallo tra la vita e la morte, tra il ricordo e il nulla, tra il creare e il non creare... si vive un’esperien­ za extraterrestre (perché è come essere a cavallo, invece che tra il pre­ sente e il passato, tra il passato e il presente); si sente in modo pre­ gnante, preciso, fino a poterlo simbolizzare, il fatto che possiamo morire, che moriremo, quasi siamo già morti... morte sono già — perché un giorno lo saranno — anche le nostre creazioni e le nostre ricreazioni; le nostre ricerche e i nostri ritrovamenti. Se abbiamo detto che non simbolizzare gli avvenimenti della vita equivale a non viverla; a questo punto dobbiamo dire che non simbo­

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lizzare la morte, ma farne comunque l ’esperienza, equivale ad essere uccisi. In ogni caso la simbolizzazione della morte è simbolizzazione del­ l ’essere uccisi; è cioè simbolizzazione dell’esperienza della morte, real­ mente fatta, non solo pensata astrattamente. Ma ritorniamo indietro. Dicevamo che le sensazioni che Proust cerca di conservare sono dolorose. Lo sono perché « i morti non esistono che in noi, e laceriamo senza tregua noi stessi, quindi ci ostiniamo a ricordare i colpi che abbiamo loro inferto... Sentivo che non la ricordavo davvero che nel dolore e avrei voluto che s’infiggessero ancor più duramente in me quei chiodi della sua memoria. Non cercavo di rendere la sofferenza più dolce, di abbellirla » m , fìngendo la morte come non definitiva. Per­ ché la vuole subire « ogni volta che ritornava quella contraddizione così strana, della sopravvivenza e del nulla che s’intersecavano in me » 495. Sono dolorose le sensazioni perché sono sensazioni della morte sua (della nonna in quanto ormai interna alla sua memoria). E ’ , come dicevamo, da tale « impressione dolorosa » che spera un giorno di ricavare un pò eli verità: « ma sapevo che se questo poco di verità l ’avrei tratto mai, non poteva essere che da lei, così singolare, così spontanea, non tracciata dalla mia intelligenza, né attenuata dalla mia pusillanimità, ma scavata in me dalla morte stessa, dall’improvvisa rive­ lazione della morte, come da un fulmine scavata in me, secondo un gra­ fico sovrannaturale e inumano, un solco duplice e misterioso » 4%. È, ripetiamo, la conservazione di questa sensazione immediata che permette la sua simbolizzazione in un ordine diverso da quello conven­ zionale: in questo caso nell’ordine simbolico della morte definitiva, non in quello (simbolico anch’esso) convenzionale, apparente (come quello di un essere « diviso da noi, ma che, rimasto individuale, ci conosce e ci resta avvinto da un’indissolubile armonia ») 497. Sembra che il preambolo, il vestibolo della verità, sia il dolore: « La felicità è salutare al corpo, ma alle energie dello spirito dà sviluppo il dolore » 49S. Sembra che il dolore venga inteso qui come ciò che spezza il ritmo dell’abitudine; e di conseguenza permette di individuare una leg­ ge di funzionamento: deli’abitudine e di altro: « Il dolore penetra in noi e, destando nel nostro cuore una curiosità dolorosa, ci costringe a pene­ trare più profondamente in tale conoscenza » 499. Una verità di questo tipo, che si fa precedere dall’esperienza del do­ lore « incompatibile con la letizia, con la salute, non è sempre compati­ bile con la vita. Il dolore finisce con l’uccidere » 50°. Abbiamo comunque già visto come la scoperta della verità dia gioia esaltata, desiderio strug­ gente di vivere, superiorità rispetto alla morte (nel duplice senso di in­ differenza ad essa, ma anche di vitalità capace di combatterla). C ’è un modo di evitare la morte. Già alluso più sopra quando Proust dice dei dolori che sono « così inutili » 501: « Dobbiamo però sbrigarci nel profittarne perché non troppo lunga è la loro durata: infatti, o ci si consola o, quando son troppo forti e il cuore non è più saldissimo, si 502 muore » . Così illustra il « vantaggio » ad esempio della difficoltà della me­

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moria: « ...è un fatto che soltanto il male ci spinge ad osservare, a im­ parare e ci permette di scomporre i meccanismi che altrimenti non p o­ tremmo conoscere... Una certa insonnia non è inutile per apprezzare il sonno, e proiettare su questa tenebra un poco di luce. Una memoria senza lacune non è uno stimolante molto forte allo studio dei fenomeni della memoria » 503. « Se un pò di sogno è pericoloso, quel che ce ne guarisce non è il sognar meno, ma il sognar di più, è tutto il sogno » 504. Bisogna non risparmiarsi la sofferenza, ma sapersi assumere quella che è neces­ saria: forse tutta. Intanto riviene in mente il rimpianto del non profittare della vita... L ’invito ad approfittare dei dolori è equivalente a quello di approfittare della vita: vedremo (o l’abbiamo già visto, in parte) che la simbolizza­ zione è realizzazione della vita, almeno come vita umana. L ’invito ad approfittare del dolore, nella breve durata della sua pre­ sentazione e della sua possibile esperienza, è invito a simbolizzarlo. La consolazione (rimozione) e la morte (distruzione) sono il contrario della simbolizzazione.

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Gap.

XVI

LA SIM B O LIZZA ZIO N E (SUBLIM AZION E) COME N ON REPRESSIVA.

E qui di questa simbolizzazione viene indicato un aspetto: la subli­ mazione. Ch’è chiamata con termine diverso: trasposizione 505 (vedi anche infinito trasporre) 506, e trasformazione 507 (o infinito trasformarsi) 508. E che 'consiste nel fatto che « le forze possono trasformarsi in altre forze, poiché il calore che perdura si tramuta in luce e l ’elettricità del fulmine può impressionare la lastra fotografica; poiché il nostro sordo dolore al cuore può innalzare sopra di sé, come un vessillo, un simbolo visibile e permanente d ’un’immagine ad ogni pena nuova; accettiamo il male fisico che essa ci procura; lasciamo che il nostro corpo si disgreghi, giac­ ché ogni particella che se ne distacca, viene, luminosa questa volta e intelligibile, per completarla a prezzo di sofferenze di cui altri meglio dotati non hanno bisogno, per consolidarla, a mano a mano che le emozioni dissanguano la nostra vita... ad aggiungersi alla nostra opera » 509. Facciamo seguire un altro lungo passo: Il genio « proviene dalla facoltà di trasformare, trasporre... Per riscaldare un liquido con una lampadina elettrica non occorre avere la lampadina più forte possibile, ma una la cui corrente possa cessare di illuminare, venir derivata e dare, invece di luce, calore... chi, cessando bruscamente di vivere per sé, ha avuto il potere di rendere la propria personalità simile a uno specchio, in modo che la sua vita, per quanto mediocre potesse essere d ’altronde, sotto l’aspetto mondano ed anche, in certo senso intellettuale, vi si ri­ fletta; perché il genio consiste nel poter riflettere e non nella qualità intrinseca dello spettacolo r ifle s s o »510, «...n o n è l’uomo più intelligen­ te, più colto, più ricco di relazioni sociali, ma l ’uomo che sa farsi spec­ chio di sé e che può così riflettere la propria vita, sia pur essa mediocre, quello che è destinato a diventare un Bergotte... » 5U. Trasformazione, trasposizione; ma anche derivazione e riflessione (co­ me quella dello specchio). Questo gesto, variamente denominato, sembra che sia caratterizzato dall’essere brusco (« bruscamente »); e consista per l’appunto nel ces­ sare bruscamente di vivere : di vivere « per sé ». Comporta inoltre un « potere », quello per l’ appunto di rendere la propria personalità simile ad uno specchio. La simbolizzazione è tale qualsiasi cosa simbolizzi: è indifferente al suo contenuto. Può simbolizzare tutto. Abbiamo visto come Proust abbia simbolizzato anche il fallimento del processo di simbolizza­ zione, oltre che la sua riuscita. L ’energia da alcuni scopi viene deviata ed usata verso altri scopi. Dalla vita comune, convenzionale, già definita come « arida » (vedi anche « poiché se l ’abitudine è una seconda natura, essa ci impedisce di co­ noscer la prima, di cui non ha né la crudeltà né gli in c a n ti»)512, e quindi, in quanto tale, andata sottoposta alla rimozione, non più quindi 109

vita (essendo la rimozione rimozione proprio della vita), si deve trovare il potere di orientarsi verso un’altra vita, quella della simbolizzazione, non importa di che, anche di questa aridità, del meccanismo della rimozione... Questo sembra comportare il dolore, sia come preambolo dell’espe­ rienza, sia anche come accompagnamento dell’esperienza. Ma non è ne­ cessariamente così. Già si riconosce che « altri meglio dotati non hanno b is o g n o » 513 di soffrire, o di soffrire a tal punto... Inoltre: « Le idee sono succedanei dei dolori: allorché questi si mutano in idee, perdono un poco della loro azione nociva sul nostro cuore, e fin dal primo istante la trasformazione stessa sprigiona subito un poco di gioia. Succedanei, però, soltanto nell’ordine del tempo, giac­ ché sembra che l ’elemento primordiale sia l ’idea, e il dolore soltanto il modo come certe idee entrano dapprima in noi. Ma vi sono molte fami­ glie nel gruppo delle idee; certune sono, fin dal loro primo apparire, * * gioie » 514 .

Quando i dolori (e non solo i dolori) si simbolizzano, sprigionano gioia, perché? Perché la loro simbolizzazione è un recupero dell’energia rimossa, è un recupero della vita! La sublimazione, che rimuove come abbiamo visto e vedremo ancora meglio, l ’oggetto che simbolizza (i cam­ panili diventano nomi, e i nomi stanno al posto dei campanili) disinnesca anche la rimozione (ciò che sta dietro i campanili, cioè la vita dei cam­ panili, finalmente, sotto forma di nomi, di scrittura... viene davanti ai campanili e li nasconde quasi, entra in scena e li sostituisce quasi: rimet­ tendo in gioco l ’ordine simbolico esistente). Forse da questa apparente contraddizione, o non apparente, si esce solo se si considerano diversi piani di simbolizzazione. Abbiamo già alluso ai diversi linguaggi e sostenuto che sono tutti simbolizzazione. Non c ’è nel mondo fenomeno che non sia trasformazione di una forza in un’altra forza. In questo senso simbolizzazione! Non c’è fenomeno che non abbia un suo linguaggio, che non costituisca di per se stesso un lin­ guaggio: « I cieli raccontano la gloria di D i o . . . » 516. E se raccontano qual­ che cosa d ’altro non importa, qualcosa raccontano comunque! Solo se si parte da questa constatazione, la simbolizzazione di cui ci occupiamo, quella che si apparenta alla creazione artistica, cioè la sim­ bolizzazione propria, caratteristica dell’uomo, non può risultare semplici­ sticamente repressiva. Repressiva sì, ma di un ordine simbolico: quello non umano. Istitutiva, creatrice di un nuovo ordine simbolico: quello umano. Si tratta poi di vedere quale ordine simbolico umano, perché ce ne sono possibili infiniti! Le idee, cioè le simbolizzazioni, sostituiscono i dolori. Che vuol dire che le simbolizzazioni seguano solo nel tempo, i dolori, il non-simbolizzato? Che, logicamente invece li precedono? In ogni caso ci sono delle idee che sono « fin dal loro primo appa­ rire, g i o i e » 517: la gioia della simbolizzazione, abbiamo già detto, deriva dalla appropriazione della vita. Forse un particolare importante rischia di essere sottaciuto. Dice Proust: « ...il calore che perdura si tramuta... ». Forse è un punto cru-

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dale: la simbolizzazione è implicitamente definita: prolungamento oltre che trasformazione. Anzi prolungamento funzionale alla trasformazione. La parola, il gesto etc., sono gli strumenti che permettono il perdurare, il prolungarsi, cronologicamente e logicamente, della sensazione imme­ diata, di un insieme di sensazioni immediate, di una « serie di eventi »... perché possano essere utilizzati, cioè trasformati: per esempio nella « sov­ versione » di tutta un’esistenza... Si potrebbe quindi dire che la simbo­ lizzazione prolungando, facendo perdurare: rimuove dal luogo in cui era (nel quale, se rimanesse inalterato, rimarrebbe ignorato; di lui non si sa­ prebbe più nulla) per collocarlo in un altro luogo, ciò che per l’appunto potrebbe — restando immediato, capace cioè della vita di un attimo, improlungabile, senza durata — essere rimosso — tolto da ogni luogo (o collocato nel luogo sconosciuto in cui viene ricacciato tutto ciò che è privato di un luogo) — al fine proprio di sottrarlo alla rimozione, al fine cioè che sia simbolizzabile. Cosa che può essere solo se è tramutato in qualche cosa di diverso. Cosa d ’altronde inevitabile, perché è già data dal suo essere stato spostato in un luogo diverso, cioè dal suo aver mutato luogo: di qui il concetto (e la realtà) della costruzione e della scelta. Costruzione e scelta del luogo e della sua abitazione. Facciamo qui alcune osservazioni relative alla costituzione dell’ordine simbolico in quanto ordine temporale. Già a tale costituzione abbiamo accennato e di nuovo su di essa dovremo tornare. « ...ma forse l ’altra vita, quella dove si dorme, non è — nella sua parte recondita — sottoposta... alla categoria del t e m p o » 518. Il sonno ignora forse la legge del tempo » 5W. Ma, « il mio sforzo per svegliarmi consisteva soprattutto in uno sforzo di far entrare la massa oscura, inde­ finita del sonno da me or ora vissuto, nella cornice del tempo » 52°. Ma, nel nuovo ordine simbolico, scandito dal tempo, dalle differenziazioni... da una legge... è necessario fare entrare: 1) non solo questa massa oscura, non regolamentata che, diversamente, resterebbe « un bene perduto » 521 (vedi piacere dell’eiaculazione notturna). Perché « abbiamo provato il piacere di un’altra vita che non è la nostra »: cioè fuori da un ordine simbolico 522; 2) ma anche quell’« io » o quel « noi » che sarebbe « senza con­ tenuti » 523 il momento in cui esce « dal nero uragano » 524 del sonno e del sogno (questa altra vita), dal quale « usciamo (ma non diciamo neppure noi) supini, senza pensieri, un ‘ noi’ che sarebbe senza conte­ nuto » 526. Si potrebbe pensare che si tratti di due ordini simbolici, essendo quello del sonno e del sogno un ordine anch’esso. Ma sopraggiunge l’os­ servazione: « H o detto due tempi; forse non ce n’é che uno solo; non che quello dell’uomo sveglio sia valevole per il dormiente, ma forse per­ ché l ’altra vita, quella dove si dorme, non è — nella sua parte recondita — sottoposta alla categoria del tem p o...» 527, cioè rappresenta non un altro ordine, ma il caos primitivo, da ordinare, da interpretare, nel senso non di ravvisarvi l ’ordine che vi è insito, ma di organizzare secondo delle linee da inserirvi arbitrariamente... Ili

Infatti il brano continua: « ...nella cornice del tempo. Non è un compito facile; il sonno che non sa se abbiamo dormito due ore o due giorni, non può offrirci alcun punto di riferimento. E se noi non lo tro­ viamo al di fuori, non riusciamo a rientrare nel tempo, ci riaddormentiamo per cinque minuti che ci sembrano tre ore » 528 (vedi meravigliosa descri­ zione del risveglio, del rientro nel tempo, della costituzione delPordine simbolico, nelle prime lunghe, prolungate pagine della recherche). Il punto di riferimento su cui o con cui costruire l ’ordine simbolico, ritmato dal tempo, dalla legge, non è fornito dal sonno, dal non-simbolizzato, è quindi arbitrario. La legge toglie l’arbitrio, ma tramite un altro arbitrio. E la massa del sonno non è necessariamente la massa dell’oblio, cioè del dimenticato (dell’inconscio o del rimosso personale): materia poi della simbolizzazione 529. « ...chi mi dice che in questa massa (di ricordi) a me sconosciuta non ve ne siano che risalgono molto al di là della mia vita umana?531. Il non simbolizzato è la storia ma anche la natura: l’oblio « può estendersi a una vita che ho vissuta nel corpo di un altro uomo, fors’anche su un altro pianeta » 532. Riprendendo il punto 2)... Questo noi è senza contenuti al risveglio. E ’ un altro noi! « Non si capisce cos’è che guida la nostra scelta, e perché tra i milioni di esseri umani che potremmo essere, mettiamo la mano esat­ tamente su quello che eravamo il giorno prima. Che cos’è che ci guida, quando c ’è stata una vera interruzione... C’è stata forse una vera morte... La resurrezione al risveglio, dopo quel benefico accesso di alienazione mentale che è il sonni), deve rassomigliare in fondo a ciò che accade quan­ do ritroviamo un nome, un verso, un motivo dimenticato. E forse la re­ surrezione dell’anima dopo la morte è concepibile sotto la specie di un fenomeno della memoria » 533. Qui allora soccorre lo studio dei meccanismi della memoria. Che vengono a coincidere coi meccanismi della simbolizzazione. (Vedi: « ...sia che la realtà non si fermi che nella memoria... ») 534. « Anziché un duplicato sempre presente ai nostri occhi la memoria è piuttosto un nulla, di dove una somiglianza ci permette di trar fuori, di tanto in tanto, richiamandoli in vita, ricordi ormai estinti» 535. Vedi anche dove si domanda, sul funzionamento della memoria, se è il ricordo che viene a lui (parla di uno sforzo penoso che vale la pena di fare perché così si conoscono le leggi della memoria) o se è lui che va al ricordo: si ripresenta il problema dell’atteggiamento passivo e attivo di cui abbiamo parlato a proposito per esempio della decifrazione dei campanili... dove prevale l’atteggiamento attivo, nel senso che l ’impegno è a tendersi ma anche a distendersi: la distensione è come frutto di un impegno. Il processo di simbolizzazione e quello della memoria in parte coin­ cidono (vedi come coincide il processo della decifrazione con quello della memoria...): in ogni caso c ’è un non simbolizzato e un modo particolare, che viene descritto, di simbolizzarlo, prima ancora, di impattarlo.

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C ap.

X V II

LA SIM B O LIZZA ZIO N E COME POSSIBILE NEL CUORE DELLA ESPERIENZA (NELL’A R C O DELLA SUA D U R ATA) E COME M O D IF IC A ZIO N E D I ESSA.

Ritorniamo a prima di questa digressione. La simbolizzazione porta a degli esiti, dei prodotti che sono « staccati da un essere particolare » 536, perché simbolizzare significa « pensare in forma universale » 537 (trascri­ vere in un linguaggio universale 538). C ’è un disagio che Proust trova di fronte a questa caratteristica della simbolizzazione: 1) intanto la simbolizzazione lo è, ad esempio, di una persona che non ha avuto coscienza che la simbolizzazione in questione sarebbe stata per lei un compimento. Cioè la simbolizzazione giova solo a colui che la fa 539; 2) inoltre ogni fruitore della simbolizzazione ne fruirà prescindendo dall’individuo simbolizzato, dall’individuo simbolizzante e dal loro rap­ porto. La userà cioè secondo modalità sue, finalità sue... Sarà cioè « in­ fedele » 540 (vedi quanto già esposto a proposito della fedeltà-infedeltà). Ma questa forma di infedeltà è preceduta da un’altra forma di infe­ deltà: quella del simbolizzante rispetto al simbolizzato! « ...tale è il destino dei m o r t i» 541 sembra essere l’unica soluzione possibile. Cioè dei simbolizzanti tutti quanti, che saranno cioè a loro volta simbolizzati. Inoltre: « ...un libro è un grande cimitero dove sulla maggior parte delle tombe, i nomi sono svaniti e non si leggono più » 542. Ogni simbolizzazione passa... la morte distrugge cioè anche il cimitero... In ogni caso la simbolizzazione, che avviene in forma di universalizzazione — e questa è solo una faccia della costante infedeltà, su cui si costituisce e che inevitabilmente è costretta a subire — , è uno strumento contro la morte. Contro la morte di ciò che muore in noi nell’oblio. Ci permette di ricordare e anche di « comprendere codeste parole dimenti­ cate » 543 anche se « a questo scopo è necessario prima trascriverle in un linguaggio universale » 544. Rimane comunque il fatto principale che l ’universalizzazione è il frutto o, come abbiamo detto, l ’altra faccia dell’infedeltà. Per cui il sog­ getto individuale tra i soggetti individuali (l’uno e gli altri infedeli) perde la sua individualità specifica, che è tradita; ma tradita in un’altra forma individuale. Perché la creazione artistica è individuale, anche se non riferita a nessuno dei personaggi realmente esistiti. « Tra l ’altro, se una tal legge di trasposizione che rendeintelligibili codeste parole, riusciremo a spiegarla, la nostra stessa inferiorità, non diventerà anch’essa, una forza nuova? » 545. Qual’è l ’utilizzazione della simbolizzazione che può dar forza? Da un punto di vista l ’opera dell’artista può essere considerata un « amore infelice » 546 « che fatalmente ne presagisce altri e grazie al quale la vita

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rassomiglierà all’opera, sì che il poeta non avrà quasi più bisogno di scri­ vere, potendo trovare in quel che ha già scritto l ’oroscopo di quel che avverrà. Così il mio amore per Albertine era già iscritto nel mio amore per Gilberte, e con quanto aveva di diverso... » 547. « Ma da un altro punto di vista, l ’opera è presagio di felicità, per­ ché ci insegna che, in ogni amore, l ’universale giace a fiancodel partico­ lare, e ci insegna a passare dal secondo al primo grazie a una ginnastica che fortifica con il dolore, portandoci a trascurarne la causa per approfon­ dirne l’essenza. Difatti, come dovevo piti tardi sperimentare, anche nel momento in cui si ama e si soffre, se la vocazione s’è alfine attuata, s’av­ verte così bene nelle ore dedicate al lavoro il dissolvimento della persona amata in una più vasta realtà, che si finisce, a tratti, col dimenticarla e col non soffrire più, lavorando, per l ’amore che le rechiamo, se non come per un male puramente fisico in cui la persona amata non entra minima­ mente, quasi per una specie di malattia del cuore » 548. La lunghezza della citazione è giustificata dalla importanza di quello che dice o che se ne può ricavare. La simbolizzazione, da un punto di vista, è simbolizzazione, espressione, di quello che si è: rivelazione a noi di noi stessi, talmente esatta da poter funzionare come oroscopo per il futuro... In questo caso la simbolizzazione non si protende verso altre simbolizzazioni. Sembra quasi destinata a ripetersi: perché si è esaurita, o meglio, ha esaurito il suo compito. Da un altro punto di vista invece, la simbolizzazione non funziona come oroscopo di ripetizione, ma come presagio di felicità, quindi di libe­ razione (perché solo* essa la può dare). Questo quando è valorizzato il suo essere universalizzante, cioè il suo essere infedele (vedi più sopra). La valorizzazione del suo aspetto di infedeltà permette la fine della ripe­ tizione, della coazione a ripetere sempre lo stesso ordine simbolico. A dire sempre le stesse cose già dette. Può essere infine detto qualcosa di diverso ! E questa infedeltà, irripetizione, questo mutamento, si presenta nel cuore stesso dell’esperienza, mentre si ama e si soffre (se « la vocazione è alfine compiuta », se cioè si è riusciti a comprendere la legge della tra­ sposizione e ad usarla ' per conseguire forza!); perché nel cuore stesso dell’esperienza avviene il lavoro (« lavorando » ) di simbolizzazione; e questo lavoro permette come di salvare l ’essere amato dal divenire l’es­ sere che fa soffrire; di salvare noi dal diventare l ’essere che soffre (per lo meno, la sofferenza è localizzata al cuore, quasi solo come organo fisico; non investe tutto l ’essere). Perché si capisce che cosa sta avvenendo tra l ’essere amato e noi; e che questo che avviene è « una più vasta realtà » nella quale la persona amata (e noi), da una parte, ci dissolviamo'; ché da un’altra parte invece è vero che ci costituiamo! Diventiamo cioè capaci di dare un senso alla nostra sofferenza, capaci di utilizzarla per la trasformazione « in una più vasta realtà » del rapporto di sofferenza! E ’ vero che il « lavoro » di cui sopra « riprendendo il lavorio trala­ sciato dall’illusione amorosa, offre una specie di seconda vita a sentimenti

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che non esistevano più. Certo, noi siamo costretti a vivere la nostra par­ ticolare sofferenza col coraggio del medico che ripete su se stesso la pun­ tura pericolosa. Ma nello stesso tempo siamo costretti a considerarla sotto una forma generale che in certa misura ci permette di sfuggirne la stretta, rende partecipe della nostra pena ogni altra persona, e nemmeno è priva di una certa gioia. Là dove la vita alza un muro, l’intelligenza apre una breccia, giacché se per un amore non corrisposto non c ’è rimedio, è possibile liberarsi della constatazione di una sofferenza non foss’ altro traendone le conseguenze ch’essa comporta. L ’intelligenza non ammette nella vita situazioni chiuse, senza via di scampo » 549. La simbolizzazione da una parte rinnova l’esperienza, la rievoca, non solo, la riaccende: le dà una seconda vita. Ma dà la possibilità di sfuggire ai suoi limiti, di esserle infedeli — proprio perché ci costringe a considerarla sotto una forma generale, cioè ci costringe a prescinderne nell’atto che le dà la seconda vita — (oltre a partecipare la nostra espe­ rienza agli altri, ad essere cioè uno strumento di socializzazione con tutte le conseguenze implicite in questo fatto; e a darci la gioia che si è già visto com ’è che possiamo, tramite suo, godere). L ’intelligenza, la simbolizzazione cioè, non ammette situazioni chiu­ se e senza rimedio. E ’ un’affermazione ineguagliabile nella sua decisione, nel suo coraggio, nella sua potenza anche di incoraggiamento. La simbo­ lizzazione apre infatti ogni situazione. Se la ripete, la ripete con un’opera­ zione che la costringe al mutamento; dà il via alle conseguenze che, chiuse in quella situazione, la rendevano senza rimedio... La simbolizzazione è una forza, uno strumento. « ...Elstir non poteva guardare un fiore se non trapiantandolo in quel giardino interiore dove siamo costretti 550 a rimanere sempre. In quell’acquerello egli aveva mo­ strato la comparsa delle rose che aveva veduto e che senza di lui non avremmo conosciuto mai; di modo che si può dire ch’era una varietà nuova... » 551. Elstir produce una nuova varietà di fiori! Il « trattamento » del pit­ tore, dell’artista originale (che trasforma le cose) è simile a quello del­ l ’oculista, « non è dei più gradevoli » 5:>2. Il pittore ci cambia gli occhi, il modo di guardare e quindi crea nuovi oggetti per la vista: « il mondo non è stato creato una volta sola, ma tutte le volte che è sopraggiunto un artista originale » 553. Trattati dall’artista, guardiamo il mondo e « ci sembra completamente diverso da quello che era prima, ma perfettamente chiaro. Passano signore per la via, diverse da quelle di prima, perché ora sono altrettanti Renoir, quei Renoir in cui ci rifiutavamo un tempo di riconoscere delle donne... Tale è l ’universo nuovo e caduco che è stato da poco creato; e durerà fino alla prossima catastrofe geologica che sarà scatenata da un nuovo pittore o da un nuovo scrittore originale » 554. I l modo di guardare nuovo (simbolizzazione) incide su ciò che si vede e lo modifica... Che Proust parli di catastrofe geologica, oltre che una enfatizzazione, forse è l’intuizione che la simbolizzazione incide non solo sugli avvenimenti della storia, ma anche sugli eventi della natura (che sono lavorati dalla storia e il reciproco).

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La simbolizzazione ha la forza di modificare il reale. Alcuni esempi lungo la recherche... Può modificare il corpo facendolo ammalare: la nonna è diagnosticata come affetta da una malattia nervosa, psicosomatica e dopo poco m u ore535; o anche guarire... Le malattie del corpo «alm eno quelle che toccano più da vicino il nostro sistema nervoso » sono una « sorta di particolari passioni o di particolari fobie contratte dai nostri organi, dalle nostre articolazioni, che si troverebbero così ad aver preso per certi climi un’avversione altrettanto inesplicabile e ostinata quanto la simpatia di certi uomini per le donne, ad esempio, con l ’occhialetto, o per le cavallerizze » 556. Che cos’è che modifica la salute del corpo? « un qualche nostro so­ gno che non sempre sappiamo discernere ma che perseguiamo... un sogno prolungato e incosciente » 357 che noi poniamo nelle persone che amiamo, e anche nel nostro corpo, perché lo poniamo ovunque. Questo sogno è il sogno di poter soddisfare un bisogno e anche il sogno di averlo soddi­ sfatto: fantasia rappresentativa e realizzativa... Tale bisogno si simbo­ lizza, in modo inconscio, nella malattia e nella perversione sessuale. La simbolizzazione, non essendone dominata, e, prima ancora, individuata, la materia, agisce con forza in direzioni che non conosciamo, non padroneg­ giamo: in questo caso la malattia e la perversione sessuale! in ogni per­ versione è comunque presente « anche nella più folle di esse » l’amore. Così possiamo costruirci il nostro corpo... « ...Odette, disciplinando i propri lineamenti, aveva fatto del suo volto e della sua persona quella creazione di cui attraverso gli anni, i parrucchieri, i sarti, lei stessa... dovevano rispettare le grandi linee » 55S. Il suo corpo simbolizza il suo sogno rivolto a se stessa. Possiamo costruirci anche il sesso, e ce lo costruiamo! « A forza di pensare teneramente agli uomini si diventa donne, e una veste posticcia intralcia i nostri passi. L ’idea fissa può modificare (così in altri casi la salute) in questi casi il sesso » 559. Anche la morte ci costruiamo... « Nondimeno la morte sembra sog­ getta a certe leggi... E perché non dovrebb’esser possibile che la stessa morte accidentale — come quella di Saint Loup, del resto legata per molti aspetti al suo temperamento, forse più di quanto io non abbia creduto opportuno dire -. Il modo della simbolizzazione come abbiamo già visto è, da una parte necessitato, ma anche infedele. Questa necessità e infedeltà competono a noi e a nessun altro. Per questo sono in qualche modo entrambe arbitrarie. Nel senso cioè che non esistono regole per realizzarla (la simbolizzazione). Proprio perché realizzarla significa enunciare le sue regole, istituirle. Questo libro di segni oscuri, sconosciuti è « il più arduo a deci­ frarsi » 65°, ma « è anche il solo dettatoci dalla realtà, l ’unico ‘impresso’ in noi dalla realtà medesima. Di qualunque idea si tratti, lasciata in noi dalla vita, la sua rappresentazione materiale, impronta dell’impressione eh’essa ha prodotto in noi, è pur sempre l ’attestato della sua indispensa­ bile verità. Le idee formate dalla intelligenza pura non posseggono che una verità logica, una verità potenziale, e la loro elezione è arbitraria.

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Il libro dei caratteri figurati, non tracciati da noi è l ’unico libro nostro. Non che le idee che noi ci formiamo non possano essere logicamente giuste. Il fatto è che non sappiamo se sono vere. Soltanto la impressione, per quanto infima possa sembrarne la materia, e inverosimile la traccia, è un criterio di verità... L ’impressione è per lo scrittore ciò che l’esperi­ mento è per lo scienziato, con questa differenza però, che nello scienziato il lavoro dell’intelligenza precede, nello scrittore segue » 651. Quello che forse si può obiettare è che il lavoro (di simbolizzazione) è successivo sia nell’artista che nello scienziato. Intendendo per lavoro di simbolizzazione un lavoro ulteriore rispetto a quello che è già simbo­ lizzazione sul piano della costruzione stessa della impressione, la quale è una operazione spirituale anch’essa. Insistiamo: le verità « che l ’intelligenza... coglie apertamente, da­ vanti a sé... sono piatte... perché non sono state ricreate... peraltro, sen­ tivo che codeste verità che l ’intelligenza trae direttamente dal reale non sono poi del tutto da buttar via, giacché esse possono, sì, incapsulare iA una maniera meno pura, ma anche permeare di intelligenza le impres­ sioni che vengono recate, fuori del tempo, dall’essenza comune alle sen­ sazioni del passato e del presente, ma che, più preziose, sono anche troppo rare perché l’opera d’ arte possa essere composta soltanto da quel­ le » E ’ con chiarezza sciolta l ’ambiguità su che cosa è reale. Reale è ciò che in noi imprime la vita. Reale è ciò che è tracciato su di noi dall’ester­ no, non tracciato da noi. Anche se poi questo reale, proprio perché non vada perso, deve essere simbolizzato, in un ordine simbolico coerente, che gli dia un luogo ubi consistât, in cui possa esibirsi e da cui possa esercitare la sua forza. Il reale ha due poli, l’esterno rispetto a noi e l ’interno: « ...ogni impressione è duplice, per metà inguainata nell’oggetto, prolungata in noi stessi per l ’altra metà che soltanto noi potremmo conoscere ■ — ci af­ frettiamo a trascurare proprio quest’ultima, cioè la sola cui dovremmo atte­ nerci, e non teniamo conto che dell’altra metà, la quale non potendo essere approfondita, perché posta fuori di noi, non ci richiederà alcuna fatica... » 653. Vedi « la capitale importanza » sentita da Proust del « lac interne 654 perfino nelle relazioni internazionali » 65S. Anche se non ci sarebbe bisogno di risottolineare che la spinta iniziale viene come dall’esterno, cioè la realtà esiste: « Senza dubbio la sua spinta iniziale fu necessaria, e in que­ sto senso l ’aspetto esteriore della nostra vita, la stessa materia dell’opera nostra dipendono da lui » 656. Il che vuol dire di nuovo che la realtà è solo costruibile, è presentata solo dalla simbolizzazione... perché è un rapporto tra chi percepisce e il percepito... Rapporto che va approfondito dal percipiente... E quando (cosa che probabilmente si dà sempre, anche nei casi in cui non appare che come paradossale) il percepito è a sua volta un percepiente, lo sforzo è fatto da due punti di vista, di percezione, diversi. Con tutte le difficoltà conseguenti che portano inevitabilmente alla definizione della realtà come 130

realtà in progresso e quindi della simbolizzazione come processo. « Un’ora non è soltanto un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di propositi e di climi. Ciò die noi chiamiamo realtà è un certo rapporto fra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultanea­ mente — rapporto che sopprime qualsiasi visione cinematografica... rap­ porto unico che lo scrittore deve ritrovare se vuol concatenare per sempre nel suo discorso i due termini differenti » 657. Già a livello sensoriale (livello di simbolizzazione sensoriale) la realtà si compone di sensazioni attuali e ricordi di sensazioni. Per cui ad ogni livello di simbolizzazione la realtà è sempre un rapporto tra due termini differenti. Il vero non è la fotografia di una situazione. Proprio perché questa fotografabile situazione non esiste mai; la fotografia vera essendo quella che fotografa il rapporto tra l ’oggetto fotografato e l ’occhio che lo vede; rendendo visibile nella fotografia, in lei stessa, questo occhio che vede l’oggetto, in quanto occhio rapportato all’oggetto e reciproca­ mente. Proust rassomiglia questo rapporto tra elementi differenti a una legge nel campo dell’arte, simile a quella causale in campo scientifico 658; tale rapporto salda « coi necessari anelli dello stile » 659 (vedi simbolizzazione), i due elementi differenti; il che equivale alla riunione « mediante il vincolo ineffabile d’un matrimonio di parole » 660 di due sensazioni tramite la liberazione della « qualità comune » ad entrambe, col risultato di « sot­ trarle alle contingenze del tempo, in una metafora » 661. La realtà non è quella « specie di sottoprodotto dell’esperienza, press’a poco identica per tutti » 662 che è la descrizione della realtà pre­ sente tagliata dal suo rapporto col « passato, di cui le cose conservano l ’essenza, e con l ’avvenire dove esse ci stimolano a goderlo di nuovo » 663. Per scrivere questo libro « essenziale » lo scrittore non ha da « in­ ventarlo », in quanto esiste già in ciascuno di noi, ma da tradurlo. Il do­ vere e il compito d ’uno scrittore sono quelli d ’un « traduttore » m . Tra­ duzione è quindi un’altra parola, accanto a trasposizione, trasformazione, riflessione, prolungamento etc... che indica il processo di sublimazione e lo precisa. Questo nuovo termine indica forse la sottolineatura della fedeltà a ciò che si esperisce, che già, a livello di esperienza, è una mo­ dalità di simbolizzazione; il processo di simbolizzazione è un processo di traduzione, allora, di una simbolizzazione in un’altra. La simbolizzazione, in quanto traduzione, in quanto fedele all’espe­ rito, non può che scarnificarlo, che individuarlo cioè così com ’è. La sim­ bolizzazione di conseguenza sfronda l ’esperienza di una serie di infingi­ menti di cui essa tende ad ammantarsi. Infatti essa non è una delle « ma­ nifestazioni esteriori » 665 di quel che abbiamo sentito, le quali « non fan­ no che sbarazzarcene, versandole fuori di noi sotto una forma indistinta che non ci insegna ad intenderlo » 666. La simbolizzazione riconduce la esperienza alla « verità realmente sofferta » 667, e di conseguenza abolisce « quanto più ci sta a cuore, quanto a tu per tu con noi stessi, durante febbrili progetti di lettere o di altri passi, aveva formato il nostro intimo e appassionato colloquio con noi stessi » 668. La simbolizzazione è cioè

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ridimensionamento di quello che si chiama sentimentalismo. E ’ esatta, precisa, crudele. Per questo è vera. Dice ciò che veramente è il nostro bisogno. Non lo mistifica, non ce ne allontana, per vie meno impervie di quelle che ci possono apparire quelle della sua reale soddisfazione. Anche se va detto con estrema chiarezza che la simbolizzazione ridimensionatrice del sentimentalismo non è La simbolizzazione; è altrettanto simbolizzazione quella sentimentale! L ’arte, tesa « a cercare di scorgere sotto la materia, sotto l’espe­ rienza, sotto le parole, qualcosa d ’altro, è esattamente il lavoro inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo stornati da noi stessi l ’or­ goglio, la passione, l ’intelligenza, e l’abitudine anche, compiono in noi, ammassando sulle nostre genuine impressioni, per nasconderle, le nomen­ clature, gli scopi pratici cui erroneamente diamo il nome di vita. Essa solo esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra intima vita, la vita che non si può osservare, le cui apparenze, che osserviamo, è necessario tradurre e spesso leggere a rovescio, e decifrare con grande fatica... ci farà tornare agli abissi profondi dove ciò che è esistito realmente giace ignoto. E certo era una tentazione forte ricreare la vita, ringiovanire le impressioni. Ma richiedeva coraggio, in ogni senso, anche sentimentale... quel che proviamo è simile alle negative dove non vediamo che nero finché non le accostiamo a una lampada, e che anch’esse devono essere guardate a rovescio: ciò che abbiamo provato non sappiamo che cosa sia finché non lo abbiamo accostato all’intelligenza. Solo allora, quando essa l ’ha illuminato, quando l’ha intellettualizzato, ne distinguiamo, con qualche stento, il contorno » 669. Qui la simbolizzazione viene chiamata intellettualizzazione. O illu­ minazione dell’intelligenza: essa opera tramite un procedimento di ro­ vesciamento... Ma non è che la verità sia sotto le cose; sembra che le cose siano sopra la verità. Cioè che sulle genuine impressioni, già provate (non mai provate, esistenti quindi in un luogo non raggiunto — forse irraggiungibile da noi, comunque denominato — ) altre sono am­ massate. Per cui, ad esempio, il nostro vero sentimento, va come ricer­ cato in una profluvie di sentimenti che l ’hanno inondato occultandolo. E questo comporta un coraggio sentimentale: che consiste nel riconoscere molti « nostri » sentimenti, come non nostri, e come non sentimenti. Proust (stavo scrivendo Freud) dice di sé « ...non ho spirito di os­ servazione » 67°. Prosegue, spiegando in che cosa consista questa mancanza di spirito di osservazione: « ...poiché le impressioni che per me davano valore alle cose, erano di quelle che gli altri non provano, o reprimono, senza pensarci, come insignificanti... » 671. Questa mancanza di osservazio­ ne è capacità di osservare « la vita che non si può osservare » 672 se non tramite un grosso lavoro di traduzione e di intellettualizzazione... Lavoro che porta alla luce l’osservabile, perché per potere osservare, prima bisogna tradurre e intellettualizzare. Appare così totalmente vano il cosiddetto « spirito di osservazione » che Proust dice, possiamo pen­ sare polemicamente, di non avere. E l’osservabile portato alla luce è la verità; una verità condivisibile.

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Perché la simbolizzazione è socializzabile, anzi è essenzialmente socializza­ zione, comunicazione, con noi stessi, le persone, le cose: « ...la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero altrui... in parte un atto intellettuale... » m . Per questo Proust può chiedere ai suoi lettori « ...se è proprio così, se le parole che essi leggono dentro di sé sono proprio quelle che io ho scritto (senza che peraltro possibili divergenze al propo­ sito dovessero derivare da un mio errore, bensì, talvolta, dal fatto che gli occhi d ’un altro lettore potessero non esser fra quelli a cui meglio s’adattasse il mio libro per leggere dentro di sé) » m . Se poi Proust afferma che il « lettore, quando legge, non è che let­ tore di se stesso » 675 vuol solo dire che il lettore, per leggere l ’altro in rapporto a se stesso — per questa via concorta procede la socializzazione — e se stesso in rapporto all’ altro, deve fare delle distorsioni: ad esem­ pio lo scrittore « non deve scandalizzarsi se l ’invertito dà un viso ma­ schile alla sua eroina. E ’ proprio codesta peculiarità leggermente aberrante a permettere all’invertito di dar poi a ciò che legge il suo pieno signifi­ cato universale... » 676. L ’inversione, cioè la diversità (che abbiamo detto più fondamentale dell’inversione), appare in questo esempio operante con tutta evidenza (Charlus, pensando a Morel, riesce a leggere l ’«infedele» su cui Musset nella Nuit d ’Octobre e nel Souvenir piange...): la diversità tra simbolizzante e simbolizzante (peculiare ad un livello della socializza­ zione); diversità che ripete quella tra simbolizzante e simbolizzato (pe­ culiare ad un altro livello della socializzazione. Ci sono vie diverse attraverso le quali si accede al non simbolizzato; alle impressioni immediate, decostruite rispetto all’organizzazione che poi hanno accettato stereotipa (e che è sempre in qualche modo un oblio). Proust allude ad esempio alle possibilità che dà « una grande stan­ cata » 677, proprio perché produce una buona notte di sonno e ci aiuta a discendere « nelle gallerie più sotterranee della coscienza, quelle dove nessun riflesso immediato della veglia, nessuna luce di memoria rischiara più il monologo interiore (se pure non ne resta interrotto anch’esso), rivoltando così bene il suolo e i sassi del nostro corpo, laggiù dove i nostri muscoli immergono le loro ramificazioni per rinnovare la loro vita, quel tal giardino dove siamo stati fanciulli » 678. La cosa fondamentale è comunque raggiungere il luogo in cui il mo­ nologo interiore addirittura si interrompe: che è il massimo di destruttu­ razione dell’ordine simbolico. E per arrivare a questa destrutturazione, e, tramite essa, agli ele­ menti destrutturati, ringiovaniti nella loro immediatezza, sicuramente non sono utili « i pellegrinaggi assai rischiosi » verso i luoghi dell’infanzia, nel caso che sia l’infanzia che si voglia destrutturare. Non è utile, anzi forse è controproducente, il sopralluogo. Perché ciò che si cerca può essere trovato non nel luogo d o v e successo, ma sotto: « non basta una escursione per visitare una città morta, ma bisogna ricorrere agli scavi » 679. Uno dei modi di recuperare il tempo perduto può essere, dicevamo, il sogno, che potrebbe essere una « seconda musa » 680 che crea una con­ dizione per lavorare, per astrarsi dall’abitudine, per svincolarsi dal concreto.

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Ma il parere di Proust definitivo sembra che si tratti di un modo a cui « a torto » si ricorre 681. « Il fatto che il mondo del sogno non è il mondo della veglia non implica che quest’ultimo sia meno vero del primo: tutt’altro!... il mondo della veglia possiede pur sempre questa superio­ rità: che può venir ripreso e continuato ogni mattina, mentre non si può fare altrettanto ogni sera con il sogno. Ma esistono mondi più reali di quello della veglia? Noi abbiamo visto che anch’esso viene trasformato da ogni rivoluzione artistica e, ancor più, in pari tempo, il grado di ca­ pacità e di cultura che differenzia un artista da uno sciocco ignorante » 682. Ancora: « Godevo di quegli estremi strascichi del sonno: vale a dire, della sola invenzione che si possa avere nella maniera di raccontare, dacché tutte le narrazioni fatte nello stato di veglia, anche quando sono abbellite dalla letteratura, non comportano quelle misteriose differenze da cui deriva la bellezza » 683. Ma meglio ci portano verso il passato « certe impressioni fugaci e fortuite » 684 « con una precisione più acuta, in un volo più leggero, immateriale, e vertiginoso, più infallibile, meno soggetto a corruzione, di quelle dislocazioni organiche » 085. Il sogno è utile in quanto fornisce delle differenze; così come è utile ogni iniziativa (abbiamo già visto) di caratte­ re anche letterario, che spezzi la sintassi in quanto equivalente dell’ordine simbolico vigente... Ma non è sufficiente spezzare un ordine, bisogna edi­ ficarne un altro... bisogna poter continuare li sogno... « l’opera d ’arte è il solo mezzo per ritrovare il tempo perduto » 686.

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C ap .

X X II

PERDITA DEL TEM PO E SUO R ITR O V A M E N TO COME DECOSTRUZIONE E COSTRU ZION E DELL’ORDIN E SIMBOLICO.

Ma che cos’è questo Tempo Perduto? Mi sembra a questo punto evidente che non è semplicemente il passato. E il suo ritrovamento non è soltanto il ricordo, comunque conseguito. Il passato è l’esperienza espe­ rita, in questo senso passata, cioè fatta: « Io compresi che il materiale dell’opera d ’arte altro non era che la mia vita passata, compresi ch’esso era venuto a me commisto a frivoli piaceri, all’ozio, agli affetti, al dolore da me immagazzinati senza ch’io potessi prevederne la destinazione... » 687: è cioè — il passato — l ’esperienza passata, qualsiasi esperienza passata, di qualsiasi tipo, sia quella del passato lontano, che quella del passato recente, che quella del presente appena spirato... E ’ tutta la esperienza fatta di cui non si è prevista la destinazione. Destinazione può essere considerato un altro nome con cui viene chiamata la simbolizzazione. E la memoria è la simbolizzazione che si esercita sempre su un’espe­ rienza passata, già avvenuta. Il parlare del passato, e del passato anche lontanissimo; l’impegnarsi in una ricerca faticosissima dello stesso, per­ mette a Proust di indicare col massimo di chiarezza, con la pregnanza più penetrante, lo scarto tra non simbolizzato e simbolizzazione. Scarto di cui abbiamo già percorso per brevi tratti il tragitto pericoloso, talvolta mortale. Perché la distanza tra non simbolizzato e simbolizzazione è una distanza che si può non colmare: si manifesta allora la morte, che è insita nel processo stesso della simbolizzazione. Che cos’è questa distanza infatti se non la morte? L ’oblio, se non la morte? Giustamente Proust chiama « resurrezioni » i ricordi! E che cos’è il ritrovamento del tempo perduto se non allora la sim­ bolizzazione, questo trasformare in parole, questo dire, l’esperito, allon­ tanandolo da noi, obliandolo, e riavvicinandocelo, ricordandocelo? (dove oblio e ricordo si sovrappongono a rimozione e ritorno del rimosso già individuati come processo unitario). « Tutta l ’arte di vivere consiste nel non servirsi delle persone che ci fanno soffrire se non come d ’uno scalino per accedere alla loro forma divina e di popolare così giornalmente la nostra vita di divinità » 688. L ’opera d ’arte è allora evidentemente la vita. La simbolizzazione è una specie di divinizzazione: cioè di sottrazione dell’esperienza alla banalità, alla sterilità, al suo avvenire senza avvenire per noi. Questa divinizzazione deve essere un processo quotidiano, giornaliero. Un modo di vivere. Vedi il «qu asi modo di esistenza...» 683. « ...la memoria, introducendo il passato nel presente senza alterarlo, tal quale era nel presente, sopprim e appunto quella grande dimensione del Tempo secondo la quale si attua la vita » 690. Ci siamo già soffermati abbastanza a lungo su questo... L ’introduzione del dato immediato, in­ coerente con un ordine simbolico, in questo ordine simbolico, lo scon­

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volge. Il tempo è sconvolto da ciò che in esso si introduce di privo di scansione temporale, cioè di non appartenente a un ordine simbolico. Il tempo è l ’ordine simbolico. L ’ordine del linguaggio. Del prima e del dopo e dell’adesso graduati, sfumati... Perdere il tempo e ritrovarlo si­ gnifica decostruire e ricostruire l’ordine simbolico, questa « grande di­ mensione » che permette alla vita di svolgersi. La possibilità intuita di costruire un ordine simbolico rende la vita « degna d ’essere vissuta » m . « Quanto più me lo sembrava degna di essere vissuta ora, ora ch’io sapevo ch’era possibile illuminarla, la vita, che noi viviamo nelle tenebre, e ricondurla alla sua verità, essa che di continuo viene mistificata, per realizzarla alfine in un libro! Felice chi riuscirà a scriverlo un tale libro — pensavo — , quale impresa gli si offre davanti » 693. Nell’ultima pagina della recherche Proust dice di aver avuto (finge di dirlo rispetto ad una opera che non ha ancora compiuto; ma la re­ cherche è « l’opera », non esiste un’altra opera; non esiste che l ’ope­ ra in quanto ricerca di essa) l ’intenzione di mettere in risalto nella sua opera la « cognizione del tempo incorporato, degli anni passati non distinti da noi » 694. E prosegue: « E ’ proprio perché contengono così le ore del passato i corpi umani possono far tanto male a coloro che li amano, perché contengono tanti ricordi, gioie, desideri già svaniti in loro ma così crudeli per colui che contempla e prolunga nell’ordine del Tempo il caro corpo di cui è geloso, geloso fino a desiderarne la distru­ zione. Perché dopo la,morte il Tempo si ritrae dal corpo e i ricordi — così indifferenti, così impalliditi — svaniscono nell’essere che non è più, e presto svaniranno in quello che ancora torturano: i ricordi destinati a perire infine, quando il desiderio d ’un corpo vivo non saprà custodirli. Provavo un senso di profonda stanchezza nel sentire che tutto quel Tem­ po, così lungo, non soltanto era stato ininterrottamente vissuto, pensato, secreto da me, che era la mia vita, che era me stesso, ma che per di più dovevo tenerlo avvinto a me senza requie, che esso mi sorreggeva, ch’io ero appollaiato sul suo apice vertiginoso, che non potevo muovermi senza spostarlo con me. Il giorno in cui avevo udito lo scampanellio nel giardino di Combray, così lontano e tuttavia così profondamente interiore, era un punto di riferimento in quella immane dimensione che non sapevo di avere. Ero colto da vertigini al vedere sotto di me, e tuttavia in me, quasi io avessi miglia di profondità, tanti anni... mi pareva che non avrei avuto la forza di tenere ancora a lungo avvinto a me quel passato che discendeva già così lontano, e che io portavo in me così dolorosamente! Se almeno mi si fosse lasciato abbastanza tempo per compiere la mia opera! Non avrei mancato di segnarla col sigillo del Tempo, la cui idea oggi mi s’era imposta con tanta forza, anche se questo avrebbe potuto farli rassomigliare ad esseri mostruosi, esseri come occupanti nel tempo un posto ben altrimenti considerevole accanto a quello così angusto che è riserbato loro nello spazio: un posto, al contrario, prolungato a dismisura, poiché simultaneamente essi toccano, giganti immersi negli anni, epoche da loro vissute a tanta distanza l ’una dall’altra — e tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi — nel Tempo » 695.

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I vari ordini simbolici che abbiamo attraversati (costruiti, decostruiti, ricostruiti), sono incorporati in noi. Questa è la nostra età. Gli anni sono il numero infinito di simbolizzazioni fatte. Ritorna più esplicita la defini­ zione della simbolizzazione come prolungamento: prolungamento mostruo­ so, perché spinge il numero infinito di simbolizzazioni compiute in un luogo in cui siano riaggregate in un ordine simbolico che tutte le riab­ bracci, un luogo melchisedecchiano! Contemporaneamente queste simbolizzazioni sono iscritte nei corpi. Sono come le parole della legge scritte nelle tavole di carne del cuore (non su quelle di pietra di Mosé). E’ per questo che è doloroso conser­ vare queste parole, nel proprio corpo. Dentro la propria età. Ed è difficile serbarle insieme, queste parole tante e diverse! E ’difficile, arduo simbolizzare questa successione di ordini simbolici; questo attraversamento che noi abbiamo fatto di modi di esperienza tanto diver­ si... Attraversamento infinito, che ci rende, per l’appunto rispetto al tempo, quegli esseri mostruosi che sono giganteschi perché « simultanea­ mente » a cavallo di epoche diverse, di ordini simbolici differenti. II noi stessi che siamo è così eterogeneo che provoca una profonda stanchezza doverlo senza requie tenere avvinto a sé come costituente un ordine simbolico coerente. Un ordine simbolico coerente che coerenti ha reso un’infinità di differenze che in esso, traumatizzandolo, si sono in­ trodotte, sulle quali e con le quali esso, traumatizzandole, si è costituito. Per cui è vero che noi lo teniamo avvinto a noi, ma insieme siamo appoggiati su di lui, come su qualcosa che potrebbe da un momento al­ l ’altro franare. I corpi amati sono i luoghi concreti, materiali in cui l’ordine simbo­ lico si è iscritto. Anzi l ’ordine simbolico è rappresentabile come l’ordine delle interazioni tra corpi diversi. Tale ordine simbolico è un ordine che declina e il suo declino si manifesta come sofferenza dei corpi, dei cuori... E tale sofferenza può diventare tanto acuta da portare alla loro distru­ zione, alla loro uccisione. Che è solo un preannuncio della morte di ogni ordine simbolico, della morte definitiva dei corpi, oltre che della congiun­ zione dei corpi, dei corpi che si erano variamente congiunti. « Punto di riferimento », nell’« immane dimensione » del tempo che allora « non sapeva di avere », è il campanellino... il segnale della fine della serata, del ricevimento... della fine dell’attesa della mamma... Che vuol dire questo messaggio così misterioso?

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C ap.

X X III

LA RECHERCHE: OPERA CHE SI COM PIE COME RECHERCHE D E LL’O PERA (D EI M E ZZI CHE CONSENTONO IL SUO C O M PI­ M ENTO). IL G IO C O CON LA M O RTE: LA SIM B O LIZZA ZIO N E COME BISOGNOSA DELLA M O RTE (D I UNA GIU STA MISURA D I M O RTE ) E COME VIN CITR IC E D I ESSA IN Q U AN TO SUA SIM B O LIZZA ZIO N E.

E ’ una data fondamentale, quella che segna l ’inizio della sua ma­ lattia e dell’indebolimento della sua volontà, che comporta la rinuncia al « compito difficile », quello della sua opera. Compito che adesso, alla fine della recherche decide di assolvere, ma che noi abbiamo detto essere stato già assolto proprio dalla recherche. « ...come al François de Champi ammirato la prima volta nella mia cameretta di Cambray, nella notte che forse è la più dolce e la più triste della mia vita, quando ahimè... avevo ottenuto dai miei genitori una prima abdicazione, da cui potrei far datare il declino della mia salute e della mia volontà, la mia rinuncia, ogni giorno aggravatasi, a un compito diffìcile — e ritrovato oggi nella biblioteca dei Guermantes proprio nel giorno più bello della mia vita, mentre d ’un tratto mi si illuminavano non soltanto gli antichi brancolamenti del mio pensiero, ma lo scopo stesso della mia vita e, forse, dell’arte... » 696. « Da quella sera, in cui la mia madre aveva abdicato, -datava, con la morte lenta della nonna, il declino della mia volontà, della mia salute » 697. Quindi proprio attraverso la rinuncia al compito, il compito è stato assolto. Il « declino della... salute e della... volontà » ineriscono in modo particolarissimo a questo compito: Combray ricorda — e per questo è un punto di riferimento privilegiato nell’immane dimensione del tempo — • l ’assenza della mamma e la sua presenza (la mamma e la nonna sono assomigliate: si allude infatti alla lenta morte della nonna come a una concausa del duplice suo declino). Ricorda cioè lo scarto da noi del dato immediato allungato fino adda possibilità della sua perdita defi­ nitiva, la morte. E il suo recupero, tramite quella determinazione, che abbiamo già visto, quella ferma determinazione, quell’eccesso del volere, del bambino che decide di aspettare fino a che la mamma non ritorni. Recupero che comporta l’abolizione quasi completa dello scarto, e quindi in un qualche altro modo la perdita definitiva, la morte. L ’abdicazione è qualificata come abdicazione dei genitori; ma anche solo come abdicazione della madre. In questa seconda qualificazione è associata alla madre la nonna, come una nonna che muore lentamente. Che cos’è l’indebolimento della volontà se non il corrispettivo dell’irrobustimento — fino quasi alla ybris — di essa che determina il re­ cupero del dato, la presentificazione della madre? Indebolimento provo­ cato da un’abdicazione al processo di simbolizzazione che necessita di una misura di scarto? Che necessita di tanto scarto quanto basta perché

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non ci sia fusione, e quindi più nessuno spazio per il discorso? E che cos’è la recherche, in quanto opera che si compie proprio come recherche dell’opera, dei mezzi per compierla, del suo senso, se non la ricerca di come lavorare questo indebolimento, di cui è trovato un punto di riferimento neU’infanzia (in un episodio infantile), anche se tale punto di riferimento è mobile e si ripresenta in ogni altraspecie di episodio? La recherche non può essere ricerca delle leggi della memoria, ab­ biamo visto, che attraverso la sofferenza dello « sforzo penoso » del non ricordare... Del processo di simbolizzazione, se non attraverso i suoi falli­ menti. Questo dimostra l ’utilità della sofferenza. Essa ci permette di ac­ cedere a quell’« immensità di leggi » 698. Forse alcuni geni non hanno bisogna della sofferenza. Forse però troppo facilmente deduciamo dalla serenità dell’opera quella della loro vita che invece è stata « di continuo dolorosa » 6" . I dispiaceri sono « servitori atroci, insostituibili, che per vie sotterranee ci conducono alla verità e alla morte » 70°. Una morte che vien fatto di desiderare in confronto a tanta sofferenza: « Ma pure, quando un essere vivente è così mal conformato (e può darsi che nella natura un tale essere sia proprio l’uomo) da non poter amare senza sof­ frire, e da aver bisogno di soffrire per imparare delle verità, la vita: d ’un tale essere finisce per riuscire ben spossante... E appena s’è com­ preso che la sofferenza è la miglior cosa che si possa incontrare nella vita, allora si pensa senza sgomento, quasi come a una liberazione, alla morte » 701. « Quanto alla felicità, essa non ha quasi che un solo bene­ ficio: render possibile la sventura! » 702. Comunque « felici coloro che hanno incontrato la prima innanzi di incontrare la seconda, e per i quali, per quanto vicine debbano essere l ’una all’altra, l ’ora della verità è suonata innanzi l ’ora della morte » 703. La simbolizzazione è un gioco mortale, con la morte. Ci riesce il gioco se arriviamo prima della morte. Se cioè prima che la morte vinca, riusciamo a simbolizzare, a simbolizzare anche la morte. Perché questo ci fa nascere e vivere — anche se solo per un attimo — prima di mo­ rire. E ci fa anche quindi morire come esseri umani. È l ’acquisizione della qualità di esseri umani eh’è fonte di felicità... Morte e verità sono molto vicine... La morte è un’esperienza ch’egli ha già più volte fatto. « Poiché capivo che morire non era per me qual­ cosa di nuovo, ma che al contrario, dal tempo della mia fanciullezza, già più duna volta io ero morto » 704. E questa morte mano mano che si avvicina come una morte reale (cioè fisica), definitiva, gli procura una stanchezza che gli rende « importuna » anche la sua opera 705. Fin quando « il pensiero della morte » si insedia « definitivamente » in lui « al modo di un amore. Non che io amassi la morte: la detestavo. Ma senza dubbio, dopo avervi pensato di quando in quando, come ad una donna che non si ama ancora, adesso quel pensiero aderiva così strettamente al più profondo strato del mio cervello, che io non potevo occuparmi d’una cosa qualsiasi senza che questa cosa attraversasse anzitutto il pensiero della morte » 706. 139

Questo amore della morte, in connubio contraddittorio con la de­ testazione di essa; questa sua onnipresenza in ogni pensiero è il segnale da una parte che la morte sta veramente sopraggiungendo, e che l ’amarla, pur detestandola, permette, attraverso il capovolgimento della detesta­ zione in amore e viceversa, attraverso la produzione di un punto di vista sulla morte e sulla vita, di simbolizzarla, di superarla e vincerla proprio nel momento in cui essa sta per sopraggiungere definitiva. Dall’altra parte è segnale che questa presenza si è disseminata, che l ’agglutinazione dell’assenza nella presenza e viceversa è spezzata: la morte è disseminata nella vita come un punto di vista. Come uno scarto che è lo strumento per vedere la vita e viverla. La « parte della nostra anima più duratura dei vari ‘ io ’ che succes­ sivamente muoiono in noi » 707 cioè la capacità che faticosamente ci co­ struiamo di stabilire un ordine simbolico che tenga conto e si materi proprio dei vari ordini simbolici attraversati; l’istanza a continuare il processo incorporando le fasi precedenti di esso e tentandone sempre una nuova utilizzazione, un nuovo rilancio; questa istanza « deve, qua­ lunque sia il dolore d ’altronde utile che ciò possa arrecarci, distaccarsi dagli esseri amati affinché ne comprendiamo, e gliela restituiamo, la ge­ neralità, votando tale amore — la comprensione di tale amore — a tutti, allo spirito universale, e non a una donna, poi ad un’altra alle quali l’uno, o l’altro di coloro che noi siamo successivamente stati vorrebbe fondersi » 708. E ’ questa fusione, questa che potremmo chiamare volontà di fusione (da « vorrebbe fondersi » ), che ostacola e inceppa il processo di simbo­ lizzazione (e che Proust ha comunque così bene simbolizzato). C ’è un livello di morte oltre il quale l ’elaborazione del lutto deve intervenire sulla simulazione che la vita continui. E tale elaborazione non può essere che la simbolizzazione. Quando incontra dai Guatermantes i rappresentanti della società da molto tempo non più frequentata, estremamente invecchiati, quasi irri­ conoscibili, è costretto a confrontare l ’immagine loro attuale con quella di una volta ed a costruire l’ appartenenza delle due alla medesima per­ sona. L ’identificazione « significa pensare sotto una sola denominazione due cose contraddittorie; significa ammettere che... la persona che ricor­ diamo non esiste più e quella che c’è non la conosciamo; significa do­ vere penetrare un mistero non meno sconcertante del mistero della mor­ te, di cui del resto esso è una specie d ’introduzione e d ’araldo » 70g. La continuità del nostro io è proprio questa costruzione (vedi il prolungamento) che fa convergere sotto una stessa denominazione, il no­ stro nome, due cose contraddittorie. Quello che siamo stati fino allo attimo che è appena spirato e quello che siamo adesso. Il primo, lo ri­ cordiamo, ma non esiste; il secondo c ’è ma non lo conosciamo. E questo è il mistero della morte; quando essa si avvera nella sua pienezza, ri­ mane solo il ricordo, e il presente si offre come cadavere, o come anima che intraprende un viaggio sconosciuto o inconoscibile; a meno che lo intraprenda nella nostra anima, che è l ’elaborazione del lutto, la simbo­

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lizzazione, il colloquio tra noi e il morto, colloquio che modifica lui e noi, che permette di costruire-conoscere il nuovo lui e il nuovo noi... E ’ il mistero della morte che separa, con uno scarto decisivo, l’ordine simbolico estinto da quello non ancora costituito, trasformando l ’ordine estinto in un non semiotizzato bisognoso di simbolizzazione; così come il non ancora istituito è non ancora semiotizzato. L ’istanza (la parte della nostra anima più duratura) che guida questa duplice simbolizzazione è un’istanza che gioca alto con la morte, anzi la sperimenta. Come morte dell’« io », in quanto omogeneo, continuo, che cresce per giustapposizioni dei pezzi (esperienze) che ancora gli mancano. L ’« obiezione più grave » 710 alla sua opera, al successo del processo di simbolizzazione, sembra consistere nella scoperta angosciante dell’« azione demolitrice del tempo » 711 fatta « proprio nel momento in cui volevo accingermi a rendere chiare, a rendere comprensibili in un’opera d ’arte delle realtà estratemporali » ln. Ma quest’obiezione è un contributo! Anche se, sì, un contributo angosciante. Perché, la sottrazione all’ordine temporale (simbolico): 1) comporta l ’estinzione di un ordine simbolico, e la fatica della costruzione di un nuovo ordine simbolico. Con ciò stesso l’esperienza intensa della morte; 2) non esclude l’esperienza definitiva della morte. Uscire dal tempo anzi, e non più ritornarci, se non nelle simbolizzazioni degli altri, è proprio la morte definitiva! (fisica o psichica). Ma c ’è una lotta disperata contro la morte che Proust impegna negli ultimi atti della recherche. Una lotta significativa perché, se è contro la morte fisica, è introducibile all’interno del processo di simbolizzazione come lotta contro la morte, affinché essa sia solo tanta quanta è necessaria perché il processo avvenga. Ha sempre sostenuto che la compagnia degli amici è inutile, anzi dannosa; utile è invece il contatto con le fanciulle in fiore. Ebbene, ades­ so che è alla soglia della morte, desidera tali contatti: « ...teneri amori con fanciulle in fiore sarebbero stati un prelibato alimento ch’io avrei potuto a rigore concedere alla mia fantasia, simile al famoso cavallo nutrito soltanto di rose » m . Ma perché soltanto nella fantasia? In ogni caso le fanciulle una volta in fiore non lo sono più adesso: « Soffrivo d ’esser costretto a rag­ giungerle soltanto in me stesso, giacché il tempo, se muta gli esseri umani, non varia l ’immagine che ne abbiamo serbato. Nulla è più dolo­ roso di questo contrasto, tra l ’alterazione degli esseri umani e la fissità del ricordo, quando ci accorgiamo che ciò che ha serbato tanta freschezza nella nostra memoria non può averne più nella vita, che non ci è possi­ bile accostare nel nostro mondo esteriore ciò che ci appare così bello dentro di noi, ciò che ci desta un desiderio peraltro così individuale di rigoderne la vista » 714. Questo desiderio che si presenta come un « violento desiderio » 715 non può soddisfarlo che con esseri della stessa età di quelli ricordati: « c io è con un altro essere... » 716; « ...in luogo delle fanciulle sconosciute,

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altre oggi in possesso della giovinezza che esse avevano posseduto al­ lora » 717. Questo sembra dare un’estrema e definitiva conferma, « una prova più piena », al « sospetto » 718 « che quanto sembra peculiare alla persona che desideriamo, non appartenga invece esclusivamente a lei » 719: infatti è in altre fanciulle che cerca quello che cercò in quelle una volta in fiore... Ed è in esse che ha la possibilità di trovarlo! Anche se si ricorda tutta la portata del « sospetto », deve concludere che le fanciulle in fiore lo avevano attratto perché « anteriore a ciascuna di loro c ’era stata in me la suggestione del mistero che le pervadeva e quindi, anziché chie­ dere a Gilberte di farmi conoscere delle fanciulle, avrei fatto meglio a recarmi in luoghi dove nulla ci avvicina a loro, dove tra noi e loro sen­ tiamo qualcosa di insormontabile, dove a un passo di distanza, sulla spiaggia, nelPavviarci al bagno, ci sentiamo divisi da loro dall’impossi­ bile » 720. Ecco insieme ricongiungersi e potersi annodare in un’ipotesi nuova il senso della irrealtà del piacere che gli esseri ci offrono e ci fanno' anche sperimentare (come dato immediato); il desiderio (necessità) di rinunciare a questi piaceri e a questi esseri, ponendosi ad una certa di­ stanza da loro, che sia tale da farceli considerare impossibili a raggiun­ gersi; il desiderio di questi piaceri — questa è una novità decisiva — anche in esseri diversi, in « un altro essere », che sembra, oltre le ne­ cessità poste dalle leggi della simbolizzazione, di distanza e di morte, da ciò che si desidera e da ciò che non si desidera, porre la necessità, ine­ rente sempre al processo di simbolizzazione, al rigore delle sue leggi, di allontanarsi dagli esseri che abbiamo amato, e da noi che li abbiamo amati. Porre una distanza e una morte tra noi e loro e cercare altrove il desiderio, cercare cioè un desiderio nuovo. Avvenendo la scoperta di questa necessità, che poi è una grandis­ sima chance, sulla soglia della morte, nell’età senile, essa si tinge di dram­ maticità; ma si esprime anche con maggiore forza il bisogno del nuovo, il bisogno della vita, della gioia di vivere, di rivalicare la distanza e riattin­ gere il dato immediato per goderlo, dovunque si presenti, liberi da ogni « fissazione fantastica ». Desiderio di arrivare in tempo per consumare la gioia dentro e non dopo l ’evento, dentro e non fuori del rapporto: « Ma a che cosa sarebbe servito, se, dato che allora essa avesse avuto il tempo di riconoscersi, né io né lei avremmo saputo dove fosse realmente il nostro bene, se non quando quel bene, se non perché quel bene, non era possibile più e non potevamo realizzarlo mai p i ù » 721. 14 maggio 1978.

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NOTE * 1 2 3 4 5 6

Sodoma e Gomorra, pag. 389. I Guermantes, pag. 87. Sodoma e Gomorra, pag. 419. Sodoma e Gomorra, pag. 391. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pagg. 416-7. Albertine scomparsa, pag. 121.

PREMESSA 7 « L ’autore non deve offendersene, anzi deve lasciare la massima libertà al lettore dicendogli ‘ provate un pò voi stesso se vedete meglio con questa lente, o con quest’altra, o con quest’altra ancora’ ». (Il tem po ritrovato, pag. 221). 8 II tempo ritrovato, pag. 227. 9 Albertine scomparsa, pag. 75. 10 Ibidem , pag. 157. 11 Ibidem , pag. 119. 12 I Guermantes, pag. 239. CAP. I 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 23 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44

Albertine scomparsa, pag. 150. Ìbidem , pag. 158. Sodoma e Gomorra, pag. 392. Ibidem. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. Ibidem. Sodoma e Gomorra, pag. 238. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. Ibidem , pag. 186. La strada di Swann, pag. 312. Albertine scomparsa, pag. 26. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pagg. I Guermantes, pag. 380. Ibidem. Ibidem. Sodoma e Gomorra, pag. 207. I Guermantes, pag. 288. Ibidem , pag. 289. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. Ibidem. Ìbidem. Ibidem. Ibidem , pag. 448. Ibidem , pag. 462. Ibidem , pag. 466. Ibidem. I Guermantes, pag, 143. Ibidem , pag. 144. Ibidem. Sodoma e Gomorra, pag. 236. Ibidem. II tempo ritrovato, pag. 220.

22.

162.

431-2.

290.

* La traduzione italiana cui si fa riferimento è quella curata da Mondadori (1973).

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4S La prigioniera, pag. 10. 1,6 Ibidem. 47 Ibidem , pag. 89. 48 Ibidem. 49 La strada di Swann, pag. 320. 50 Sodoma e Gomorra, pag. 455. 52 I Guermantes, pag. 165. 53 La prigioniera, pag. 61. 54 Ibidem , pag. 60. 55 Albertine scomparsa, pag. 28. 56 Ibidem , pag. 29. 57 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 389. 58 Ibidem , pag. 390. 59 Ibidem. 60 Ibidem , pag. 391. 61 Ibidem. 62 La prigioniera, pag. 90. 64 Ibidem , pag. 277. 65 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 518. 66 Ibidem. 67 Ibidem. 69 Ibidem. 70 Ibidem , pag. 307. 71 Ibidem. 12 Ibidem , pag. 198. 73 Ibidem. 74 Albertine scomparsa, pag. 53. 75 La prigioniera, pag. 93. 76 Ibidem. 77 La prigioniera, 'pag. 106. 78 Albertine scomparsa, pag. 39. CAP. II 79 Albertine scomparsa, pag. 198. 80 Ibidem , pag. 185. 81 Sodoma e Gomorra, pag. 327. 82 Albertine scomparsa, pag. 264. 83 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 278. 84 Albertine scomparsa, pag. 128. 85 In « L ’amore », Mondadori, 1976, pag. 299. 86 La strada di Swann, pag. 302. 87 Ibidem. 88 Sodoma e Gomorra, pag. 242. 89 Ibidem. 90 Ibidem. 91 Ibidem. 92 La strada di Swann, pag. 302. 93 Ibidem. 94 Ibidem. 95 Ibidem. 96 Ibidem . 97 Ibidem , pag. 305. 98 Ibidem. 99 I Guermantes, pag. 488. 100 La strada di Swann, pag. 173. 101 Ibidem. Succede anche l’inverso: « Che la Signora di Guermantes fosse si­ mile alle altre donne, era stata per me sulle prime una delusione, e ora, per reazione

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e con l’aiuto di tanti buoni vini, era quasi una meraviglia... 102 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 289. 103 Ibidem , pag. 291. 104 Albertine scomparsa, pag. 81. 105 La prigioniera, pagg. 166-7. 106 I Guermantes, pag. 576. 107 Ibidem. 109 Ibidem. 110 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 478. 111 La strada di Swann, pag. 398. 112 Ibidem. 113 Ibidem , pagg. 401-2. 114 Ibidem , pag. 156. 115 Ibidem. 116 Ibidem. 117 Ibidem , pagg. 156-7. 118 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 392. 159 Ibidem , pag. 293. 120 Ibidem. 121 La strada di Swann, pag. 407. 122 Ibidem , pag. 389. 123 Ibidem. 124 I Guermantes, pag. 164. CAP. I l i 125 La strada di Swann, pag. 388. 126 Ibidem , pag. 387. 127 Sodoma e Gomorra, pag. 534. 128 Ibidem. 129 Ibidem. 130 I Guermantes, pag. 396. 131 Ibidem. 132 Albertine scomparsa, pag. 85. 133 Ibidem , pag. 86. 134 Ibidem , pag. 87. 135 Ibidem , pag. 82. 136 Ibidem. 137 La strada di Swann, pag. 345. 138 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 219. 139 Ibidem. 140 Ibidem. 141 Ibidem , pag. 152. 142 Ibidem , pagg. 152-3. 143 Ibidem , pag. 424. 144 Ibidem. 145 Ibidem. 146 Ibidem , pag. 425. 147 Ibidem. 148 Ibidem. 150 La strada di Swann, pag. 422. 151 Ibidem. 152 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 446. *8 Ibidem. 154 Ibidem , pag. 447. 155 La prigioniera, pag. 341. 156 Ibidem. 157 Ibidem.

CAP. IV 158 La strada di Swann, pag. 391. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 Ibidem. 162 Ibidem. 164 Albertine scomparsa, pag. 15. 165 Ibidem. 166 Ibidem, pag. 92, 167 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 291. 168 Ibidem. 169 Ibidem , pag. 370. 170 Ibidem. 171 La strada di Swann, pag. 234. 172 La prigioniera, pag. 48. 173 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 294. 174 Ibidem. 175 Ibidem. 176 Ibidem , pag. 406. 177 Ibidem. 178 Ibidem , pag. 431. 579 La strada di Swann, pag. 231. 180 Ibidem. 181 Ibidem, pag. 272. 182 La prigioniera, pag. 82 (vedi anche pag. 141), così come l’ interesse pei Odette diventa equivalente in Swann al suo interesse una volta per la storia: La strada di Swann, pag. 273. 183 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 371. 184 Ibidem. 185 Ibidem. 186 Ibidem. 187 Ibidem. 188 Ibidem. 189 Ibidem. 190 Ibidem , pag. 372. 191 Ibidem, pagg. 372-3. 192 Ibidem , pag. 373. 193 Ibidem. 194 Ibidem. CAP. V 195 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 376. 196 Ibidem , pag. 407. 197 Albertine scomparsa, pag. 226. 198 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 407. 199 Ibidem , pag. 382. 200 Ibidem. 201 Ibidem , pag. 419. 202 Ibidem-, « ...che avevo riconosciuto come uno stato interiore, in cui traevo da me solo la qualità particolare, il carattere speciale dell’essere amato, tutto quanto lo rendeva indispensabile alla mia felicità ». 203 Ibidem. 204 Ibidem , pag. 407. 205 Albertine scomparsa, pag. 53. 206 Ibidem. 207 Ibidem. 208 Ibidem , pagg. 20-1.

209 Ibidem , pag. 13. 210 La prigioniera, pag. 139. 211 La strada di Swann, pagg. 7-8. 212 La prigioniera, pag. 209. 213 Ibidem , pag. 59. 214 Albertine scomparsa, pag. 53. 215 La prigioniera, pag. 253 . 216 Ibidem. 217 Ibidem. 218 Ibidem. 219 Ibidem. CAP. V I 220 Sodoma e Gomorra, pag. 247. 221 Albertine scomparsa, pag. 100. 222 La prigioniera, pag. 22. 229 Sodoma e Gomorra, pag. 522. 224 Ibidem. 225 Ìbidem , pag. 524. 226 Ibidem. 227 Albertine scomparsa, pag. 257. 229 Ibidem. 230 Ibidem. 231 Ìbidem. 232 Ibidem. 233 Sodoma e Gomorra, pag. 529. 234 Ibidem. 235 Ibidem , pag. 536. 236 Ibidem , pag. 529. 237 Ibidem. 238 Ibidem , pag. 140. 239 Ìbidem. 240 Ibidem. 241 Ibidem. 242 Ibidem. 243 La prigioniera, pag. 8. 244 Senza saltarne una, com e faceva invece la madre. 245 La prigioniera, pag. 8. 246 Ibidem. 247 Albertine scomparsa, pag. 230. 248 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 224. 249 Vedi anche: I Guermantes, pag. 90: si trova a Doncières, in una casa « ben diversamente orientata da quella dei miei genitori e nella quale affluiva un’aria pura ». 250 La prigioniera, pag. 339. 251 II tempo ritrovato, pag. 196. 252 Ibidem , pag. 359. 253 Ìbidem. 254 Ibidem. 255 Ibidem , pag. 339. 256 Ibidem , pag. 359. C AP. V I I 257 I Guermantes, pag. 163. 258 Sodoma e Gomorra, pag. 525. 259 La prigioniera, pag. 379.

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260 Ibidem , pag. 255. 261 Ibidem , pagg. 379-80. 262 Albertine scomparsa, pag. 130. 263 La prigioniera, pag. 378. 264 Albertine scomparsa, pag. 111. 265 Ibidem. 266 Ibidem. 267 Ibidem , pagg. 111-12. 268 Ibidem , pag. 112. 269 Ibidem , pag. 114. 270 Ibidem , pag. 117. 271 Ibidem. 272 Ibidem , pag. 136. 273 Ibidem. , 274 Ibidem. 275 Ibidem. 276 Ibidem , pag. 139. 277 Ibidem , pag. 132. 278 Ibidem. 279 Ibidem , pag. 133. 280 Ibidem , pag. 182. 281 Ibidem , pag. 145. 282 Ibidem , pag. 193. 283 Ibidem. 284 Ibidem. 285 Ibidem. 287 Ibidem , pagg. 193-4. 288 Ibidem. 289 II tempo ritrovato, pag. 225. 290 Ibidem. ' 291 Ibidem , pag. 226. 292 Ibidem , pag. 220. 293 Sembra che in qualche m odo l’inversione qui, rispetto ad altri luoghi della recherche, sia come più accettata, quale possibilità. Più sotto parla dell’inversione come di una «particolarità leggermente aberrante» (pag. 221). 294 II tempo ritrovato, pagg. 220-1. C AP. V I I I 295 296 297 298 299 300 301 302 303 304 305 306 307 308 309 310 311 312 313

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La prigioniera, pag. 364. Ibidem , pag. 25. Sodoma e Gomorra, pag. 141. La prigioniera, pagg. 23-4. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 478. Vedi: I Guermantes, pag. 407; A ll’ombra..., pagg. 436, 478. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 295. Ibidem. Sodoma e Gomorra, pag. 504. Ibidem. Ibidem , pag. 402. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 413. Ibidem. Ibidem , pag. 314. Ibidem. Ibidem. Ibidem. La prigioniera, pag. 323. Ibidem , pag. 324.

314 Albertine scomparsa, pag. 156. 3,5 Ibidem. 316 Ibidem. 317 La prigioniera, pagg. 65-6. 318 Ibidem , pag. 66. 319 Ibidem. 320 Ibidem. 321 « Il suo sonno metteva al mio fianco qualcosa di così calmo, di così sen­ sualmente delizioso, come quelle notti di plenilunio nella baia di Balbec, divenuta dolce come un lago, dove le fronde si muovono appena e, distesi sulla sabbia, si sta­ rebbe ad ascoltare senza fine il frangersi del riflusso » (Albertine scomparsa, pag. 66). 322 La prigioniera, pag. 68. 323 Ibidem. 324 Ibidem , pag. 69. 325 Ibidem , pag. 70 326 Ibidem , pagg. 71-2. 327 Ibidem , pagg. 72-3. 328 Ibidem , pag. 69. 329 Ibidem , pag. 168. 330 Ibidem , pag. 364. 331 Ibidem , pag. 25. 332 Ibidem. CAP. IX 333 334 335 336 337 338 339 340 341

A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 18. I Guermantes, pagg. 45-6. Ibidem , pagg. 46-7. La strada di Swann, pag. 183. I Guermantes, pag. 83. Ibidem. Ibidem. Ibidem , pagg. 50-1. La prigioniera, pag. 375.

CA P . X 343 344 345 346 347 348 349 350 351 352 353

I Guermantes, pag. 51. Ibidem , pag. 53. Ibidem. Ibidem , pag. 380. Albertine scomparsa, pag. 268. Ibidem , pag. 270. Vedi: La strada di Swann, pagg. 156-7, il luogo della masturbazione. Albertine scomparsa, pag. 270. Ibidem , pag. 98. La prigioniera, pag. 247. I Guermantes, pag. 406.

CAP. XI 354 355 356 357 358 359 360 361

I Guermantes, pagg. 68-9. Sodoma e Gomorra, pag. 160. Albertine scomparsa, pag. 75. Ibidem , pag. 35. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 404. Ibidem , pag. 140. Albertine scomparsa, pag. 141. Ibidem , pagg.140-1.

149

362 I b id e m , pag. 70. 363 I b id e m , pag. 177. 364 I b id e m .

365 366 367 368

I b i d e m , pag. 178. I b i d e m , pag. 179. I b id e m , pag. 180. I b id e m , pag. 76.

369 I b id e m .

370 I b id e m , pagg. 226-7. 371 I b id e m , pag. 227. 372 La strada di Swann, pag. 373. 373 I b id e m .

374 In cui era andata con Françoise a fare acquisti invece di restare al Trocadero. 375 Albertine scomparsa, pag. 73. CAP. X II 376 La strada di Swann, pag. 45. 377 I b id e m . 378 I b id e m .

379 II tempo ritrovato, pag. 205. 380 I b id e m .

381 La strada di Swann, pag. 45. 382 II tempo ritrovato, pag. 205. 382 bis ib id e m .

383 La strada di Swann, pag. 347. 384 Ibidem, pag. 346. 385 Ibidem. « 387 I b id e m .

388 II tempo ritrovato, pag. 180. 389 I b id e m .

390 391 392 393

«avevo cessato di sentirmi... mortale ». La strada di Swann, pag. 46. II tempo ritrovato, pagg. 180-1. La strada di Swann, pag. 348. II tempo ritrovato, pag. 181.

394 I b id e m . 395 I b id e m . 396 I b id e m .

397 I Guermantes, pag. 241. . 398 I b id e m .

399 La prigioniera, pag. 185. 400 II tempo ritrovato, pag. 181. 401 Sodoma e Gomorra, pag. 177. CAP. X III 402 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 294. 403 I b id e m .

404 I b id e m , pag. 295. 405 I b id e m .

406 Ibidem. 407 II tempo ritrovato, pag. 298. 408 I b id e m , pag. 299. 409 I b id e m .

410 411 412 413

150

La strada di Swann, pag. 45 e seg. I b id e m , pag. 177 e seg. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 294 e seg. II tempo ritrovato, pag. 175 e seg.

414 Ibidem. 415 Ibidem. 416 Sodoma e Gomorra, pag. 164 e seg. 417 La strada di Swann, pag. 47. 418 Ibidem. 419 Ibidem , pag. 154. 420 Ibidem , pag. 177. 421 Ibidem. 422 Ibidem , pag. 178. 423 Ibidem , pag. 177. 424 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 234. 425 Ibidem , pag. 292. 426 Sodoma e Gomorra, pag. 59. 427 Albertine scomparsa, pag. 206. 428 La strada di Swann, pag. 48. 429 Ibidem , pagg. 67-8. 430 Albertine scomparsa, pagg. 198-9. 431 La prigioniera, pag. 121. 434 Ibidem , pag. 79. 435 Ibidem , pag. 80. 436 La strada di Swann, pag. 47. 437 Ibidem. 438 Sodoma e Gomorra, pag. 167. 433 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 397. 440 V edi descrizione del ritorno del rimosso, del risalimento in: La strada di Swann, pag. 47. 441 La strada di Swann, pagg. 46-7. 442 Ibidem , pag. 147 (vedi anche A ll’ombra..., pagg. 234-5). 443 Ibidem , pag. 182. 444 Ibidem. 445 Ibidem , pag. 183. 446 Ibidem. 447 Ibidem , pag. 87. 448 Ìbidem , pag. 47. 449 Ibidem. 450 Ibidem. 451 Ibidem. 452 Sodoma e Gomorra, pagg. 59-60. 453 Ibidem. 454 II tempo ritrovato, pag. 190. 455 La strada di Swann, pag. 347. 456 Ibidem , pag. 348. 457 II tempo ritrovato, pag. 40. CAP. X IV 458 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 295. 459 Ibidem. 460 Ibidem. 461 Ibidem , pagg. 295-6. 462 Ibidem , pag. 296. 463 Ibidem. 464 Ibidem. 465 Ibidem. 466 La strada di Swann, pag. 179. 467 « Ben presto le loro linee e le loro superfici soleggiate, si ruppero, come se fossero stati una scorza: ebbi un pensiero che un attimo prima non esisteva in me, che

151

si formulò in parole nella mia mente, e il piacere che dianzi m’ aveva causato la loro vista ne fu così accresciuto... ». La strada di Swann, pag. 179. 468 La strada di Swann, pagg. 179-80. 469 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 296. 470 Ibidem. 471 La strada di Swann, pag. 180. 472 La prigioniera, pag. 251. 473 Ibidem, pag. 250. 474 II tempo ritrovato, pag. 206. CAP. XV 475 476 477 478 479 480 481 482 483 484 485 4871. 488 489 490 491 492 493 494 495 496 497 498 499 500 501 502 503 5°4

Sodoma e Gomorra, pag. 164. Ibidem. Ìbidem. Ibidem, pagg. 164-5. Ibidem, pag. 165. Ibidem, pag. 164. Ibidem. Ibidem, pag. 168. Ibidem, pag. 167. Ibidem, pagg. 167-8. Ibidem, pag. 165. Ibidem. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 131. Sodoma e Gomorra, pag. 166. Ibidem, pag. 176. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ibidem, pag. 167. Ibidem. Ibidem. Ibidem. II tempo ritrovato, pag. 216. La prigioniera, pag. 141. II tempo ritrovato, pag. 216. Ibidem. Ibidem. Sodoma e Gomorra, pag. 60. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 416.

CAP. XVI 505 II tempo ritrovato, pag. 214. 506 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 130. 507 II tempo ritrovato, pag. 214. 508 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 130. 509 II tempo ritrovato, pagg. 216-7. 510 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pagg. 130-1. 511 II tempo ritrovato, pag. 32. 512 Sodoma e Gomorra, pag. 162. 513 II tempo ritrovato, pag. 217. 514 Ibidem , pagg. 216-7. « ...pensare in forma universale, scrivere, è per lo scrittore una funzione sana e necessaria, che a compierla rende felici... ». ( Ibidem , pag. 212). 516 Salmo 19:1. 517 II tempo ritrovato, pag. 217. 518 Sodoma e Gomorra, pag. 390.

152

519 Ibidem , pag. 391. 520 Ibidem. 521 Ibidem , pag. 390. 522 Ibidem. 523 Ibidem , pag. 389. 524 Ibidem. 526 Ibidem. 527 Ibidem , pag. 390. 528 Ibidem , pag. 391. 529 Idem, pagg. 391-3. 531 Ibidem , pag. 392. '532 Ibidem , pag. 393. 533 I Guermantes, pag. 90. 534 La strada di Swann, pag. 182. 535 La prigioniera, pag. 142. CAP. X V II 536 II tempo ritrovato, pag. 213. 537 Ibidem , pag. 212. 538 Ibidem , pag. 214. 539 Ibidem , pagg. 212-3. 540 Ìbidem , pag. 213. 541 Ibidem. 542 Ibidem. 543 Ibidem , pag. 214. 544 Ibidem. 545 Ibidem. 546 Ibibem. 547 Ibidem. 548 Ibidem , pag. 215. 5 « Ibidem. 55i Sembra quasi che ci sia un certo rimpianto, un lamento in questo « c o ­ stretti » ; come una nostalgia per una possibilità perduta o mai avuta di uscire da questo giardino... 551 Sodoma e Gomorra, pag. 348. 552 I Guermantes, pag. 335. 553 Ibidem. 554 Ibidem. 555 Ibidem , pag. 312 e seg. 556 II tempo ritrovato, pag. 147. 557 Ibidem. 558 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 434. 559 Sodoma e Gomorra, pag. 319. 560 II tempo ritrovato, pag. 158. CA P. X V III 561 II tempo ritrovato, pag. 110. 562 Ibidem , pag. 203. 565 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 487. 566 Ibidem. 567 Ibidem , pagg. 487-8. 569 La strada di Swann, pag. 126. 570 Ibidem , pag. 147. 571 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 414. 572 Ibidem , pag. 412. 573 Ibidem , pag. 409. 574 I Guermantes, pag. 430.

153

576 Albertine scomparsa, pag. 11. 577 I Guermantes, pag. 430. 578 A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 409. 579 Ibidem. 580 La strada di Swann, pag. 95. 581 Ibidem. 583 Ibidem , pag. 237. 584 Ibidem. 584 Ibidem. 585 Ibidem , pag. 236. 586 Ibidem. 587 Ibidem. 588 Ibidem. 589 Ibidem. 590 Ibidem , pag. 237. 591 La prigioniera, pag. 367. 592 Ibidem , pagg. 250-1. CA P . XIX 593 La prigioniera, pag. 367. 594 Ibidem , pag. 251. 595 Ibidem , pag. 368. 596 Ibidem , pagg. 367-8. 597 Suggerita, ispirata dall’immaginazione, dai rumori chiari, dai chiassosi colori che Vinteuil inviava dal m ondo in cui componeva la sua musica. 598 La prigioniera, pag. 368. 599 Ibidem.

600 Ibidem, pag. 3 74 .« 601 602 603 604 606 607 608 609 610 611 612 613

Ibidem. Ibidem. La strada di Swann, pag. 209. Ibidem. Ibidem , pag. 210. Ibidem , pag. 211. Ibidem , pag. 237. Ibidem , pag. 215. Ibidem , pag. 219. Ibidem , pag. 218. La prigioniera, pag. 365. Ibidem.

CAP. XX 614 615 616 617 618 619 620 621 622 623 624 625 626 627

II tempo ritrovato, pag. 179. Ibidem , pag. 176. Ibidem , pag. 175 e seg. Ibidem , pag. 177 e seg. (vedi anche pag. 163). Ibidem , pag. 178. Ibidem , pag. 183. Ibidem , pag. 193. Si tratta del terzo degli episodi sopra citati. II tempo ritrovato, pag. 178. Ibidem , pag. 179. Ibidem , pagg. 179-80. Ibidem , pag. 176. Ibidem , pag. 177. Ibidem , pagg. 197-8.

628 Ìbidem , 629 Ibidem , 630 Ibidem , 631 Ibidem. 632 Ibidem , 633 Ibidem. 634 Ibidem , 635 Ibidem , 636 Ibidem , 637 Ibidem , 638 Ibidem, 639 Ibidem ,

pagg. 196-7. pag. 176. pag. 182. pag. 183. pag. 184. pag. 183. pag. 184. pagg. 184-5. pag. 185. pag. 186-7.

CAP. XXI 640 II tempo ritrovato, pag. 185. 641 Ibidem. 642 Ibidem , pag. 187. 643 Ibidem. 644 Ibidem. 645 Ìbidem , pag. 188. 646 Ibidem. 647 Ibidem. 648 Q ui utilizza l’esempio del libro da leggere. 649 II tempo ritrovato, pag. 189. 650 Ibidem. 651 Ibidem. 652 Ibidem , pagg. 208-9. 653 Ibidem , pag. 201. 656 Ibidem , pag. 224. 656 Ìbidem , pag. 226. 657 Ibidem , pag. 199. 658 Ibidem. 659 Ibidem. 660 Ibidem. 661 Ibidem. 662 Ibidem , pag. 200. 663 Ibidem. 664 Ibidem. 665 La strada di Swann, pag. 153. 666 Ibidem. 667 II tempo ritrovato, pag. 201. 668 Ibidem. 669 Ibidem , pagg. 206-7. 670 Sodoma e Gomorra, pag. 354. 671 Ibidem. 672 II tempo ritrovato, pag. 206. 673 La strada di Swann, pag. 21 (vedi anche pag. 33). 674 II tempo ritrovato, pagg. 345-6. 675 Ibidem , pag. 221. 676 Ibidem. 677 I Guermantes, pag. 93. 678 Ibidem , pag. 94. 679 Ibidem , pag. 93. 680 II tempo ritrovato, pag. 225. 681 Ibidem. 682 La prigioniera, pagg. 118-9. 683 Ibidem , pag. 120.

684 I Guermantes, pag. 93. 685 Ibidem. 686 II tempo ritrovato, pag. 209. CAP. XXII 687 688 689 690

II tempo ritrovato, pag. 209. Ibidem. A ll’ombra delle fanciulle in fiore, pag. 297. II tempo ritrovato, pagg. 343-4. 691 Ibidem, pag. 345. 693 Ibidem. 694 Ibidem, pag. 360. 695 Ibidem, pagg. 360-1. X X III 696

Il tempo ritrovato, pag. 196. Ibidem, pag. 359. 698 Ìbidem, pag. 207. 699 Ibidem. 700 Ibidem, pag. 220. 701 Ibidem, pagg. 219-20. 702 Ibidem, pag. 217. 703 Ibidem, pag. 220. 704 Ibidem, pag. 350. 705 Ibidem, pagg. 354-5. 706 Ibidem, pag. 355. 707 Ibidem pag. 207. 708 Ibidem. 709 Ibidem, pag. 251. 710 Ibidem, pag. 231. 711 Ibidem. 712 Ibidem. 713 Ibidem, pag. 300. 714 Ibidem. 715 Ibidem. 716 Ibidem. 717 Ibidem. 718 Ibidem. 719 Ibidem. 720 Ibidem , pag. 301. 721 Albertine scomparsa, pag. 94. 697

156

I N D I C E

Introduzione ricavata da Freud: La rappresentazione dell’oggetto perduto

pag.

N o t e .............................................................................................................................

»

28

P r e m e s s a .....................................................................................................................

»

35

CA P . I

CA P. I I

CAP. I l i

CAP. IV

5

L ’amore (e la conoscenza) come invenzione: L ’inesistenza dell’a l t r o ...............................................................................................»

37

L ’amore (e la conoscenza) come invenzione: La necessità dell’esistenza dell’a l t r o .............................................................. »

43

La realtà come interazione (reale è il trasformabile e il t r a s f o r m a n t e ) . .............................................................................. »

48

La realizzazione precoce e la « legge di natura » che impedisce la soddisfazione del d e s id e r io ...............................

»

52

CAP. V

II reale come « diverso » e il diverso come non simbolizzato

»

56

CAP. V I

II ritardo, l’assenza, la morte come condizioni della sim­ bolizzazione ......................................................................................

»

61

CAP. V I I

L ’oblio e la diversità come forme di assenza .

»

65

CAP. V I I I

Imprigionamento, fuga e morte di Albertine: gradi del­ l ’esperienza artistica (del processo di simbolizzazione) .

»

70

La realizzazione precoce come simbolizzazione precoce (tra­ mite assolutizzazione). La realtà (interna ed esterna) come imperfezione (non a s s o lu t o ).......................................................

»

76

Variabilità dell’« intervallo » (rimozione) tra non simbo­ lizzato e simbolizzazione: quanta morte è necessaria alla s im b o liz z a z io n e ..............................................................................

»

81

CAP. IX

CAP. X

CAP. X I

.

.

.

Della possibilità di un rinnovamento (determinato dalla morte) utilizzabile da colui che muore. Della possibilità di una morte (e di una vita) p a r z ia le ....................................... »

86

CAP. X I I

Meccanismi della memoria e della simbolizzazione: il ri­ cordo e la simbolizzazione situano l’esperito nella scansione del tempo (rinnovato) del linguaggio e della cultura .

»

92

CAP. X III

Simbolizzazione come costruzione della realtà. Dialettica della fedeltà al dato esperienziale e fedeltà ai bisogni che inducono ad esperirlo......................................................................

»

97

La decifrazione (simbolizzazione) come riappropriazione della vita (dell’i n d i v i d u a l e ) .......................................................

»

103

CAP. X IV

CAP. X V

Consolazione (rimozione) e morte (distruzione) come con­ trario della sim b o liz za zio n e .......................................................»

105

CAP. X V I

La simbolizzazione (sublimazione) come non repressiva .

»

109

CAP. X V II

La simbolizzazione come possibile nel cuore dell’esperienza (nell’arco della sua durata) e come modificazione di essa .

»

113

157

CAP. X V III La sensazione come c o s tr u z io n e ................................... CAP. X IX

CAP. X X

CAP. X X I

CAP. XXII

»

117

La simbolizzazione come simbolizzazione di un determinato modo di sim bolizzare..........................................................

»

121

II ritrovamento del tempo perduto come simbolizzazione d d l’esperienza p a s s a t a ...................................................

»

124

La costruzione della realtà (come rapporto tra non simbo­ lizzato e simbolizzante; tra simbolizzante esimbolizzante).

»

129

Perdita del tempo e suo ritrovamento come decostruzione e costruzione dell’ordine s i m b o l i c o ..........................»

135

CAP. X X III La recherche: opera che si compie come recherche dell’ope­ ra (dei mezzi che consentono il suo compimento). Il gioco con la morte: la simbolizzazione come bisognosa della morte (di una giusta misura di morte) e come vin­ citrice di essa in quanto sua simbolizzazione . . . .

»

138

N o t e .................................................................................................................

»

143

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O~Ds'S T A M P A 1

D ello s te s s o a u to re : M o k sh a . L a lib e ra z io n e d a lla rip e tiz io n e c o a tta , E d . B lu, R o m a , 1974; P e r u n a p s ic o lo g ia M a te ria lis tic a , M a n z e lla , R o m a , 1976; F a rs e n e e d is fa rn e d e lla p sico lo g ia, M a n z e lla , R o m a , 1977; L o p s ic o lo g o n e lla s c u o la e nel q u a rtie re , U n ie d it, F ire n z e , 1980; D a lla d i d a t t i c a ‘ a sp a z io a p e r to ’ alla « c o stru z io n e » di u n o s p a z io , C L U S F , F ire n z e , 1 9 8 i. H a c u ra to : U n q u a rtie re s p e rim e n ta , G u a ra ld i, F iren z e , 1978; In sie m e a G io v a n n a C a r b o n a r o : In s e rim e n to degli h a n d ic a p p a ti e in n o v a z io n e d id a ttic a , A s s e s s o ra to alla P u b b lic a Is tru z io n e , C o m u n e di F ire n z e , 1980, S a lv a to re C e s a rio in seg n a .P sic o d ia g n o s tic a p re s s o l’U n iv e rsità di F ire n z e e, c o m e ra p p re s e n ta n te delle U n ità S a n ita rie L o cali fio ren tin e, c o o rd in a gli in te rv e n ti p e r l'in se rim e n to s c o la s tic o degli h a n d ic a p p a ti p re s so l’A s s e s s o ra to alla P u b b lic a Is tru z io n e del C o m u n e .