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Italian Pages 400 Year 1962
KIERKEGAARD La costruzione dell'estetz`co dz' THEODOR WIESENGRUND-ADORNO
TRADUZIONE ALBA
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LONGANESI 8 C. MILANO
PROPRIETÀ LETTI-:RARIA RISERVATA Longanesi dr C., © 1962, Milano, via Borghetto, 5 Traduzione dalforiginale tedesco Kierkegaard Konstruktíon des Ãsthetischen di Alba Burger Cori
KIERKEGAARD La costruzione dell'estetico
PREFAZIONE ALL'1~:D1z1oN1: ITALIANA
È CON vero piacere che l'autore vede presentare questo libro, il primo da lui scritto, ai lettori italiani, in un'epoca in cui in Germania esso è esaurito e accessibile soltanto con difficoltà. La risonanza che i suoi lavori hanno avuto in Italia è d'aiuto anche alla presente opera nell'attesa di un suo prossimo riapparire. Il lavoro su Kierkegaard fu scritto all'età di ventisei anni, nel 1929-30, e valse all'autore nel febbraio 1931 il conferimento della libera docenza all'Università di Francoforte sul Meno. Nel 1932 il vasto e intricato manoscritto originale fu rielaborato per la pubblicazione presso l'edit0re C. B. Mohr-Siebeck. Quivi uscì nel 1933, nello stesso giorno che vide l'instaurarsi della dittatura hitleriana; la recensione dell'opera, a cura di Walter Benjamin, comparve sulla Vossische Zeitung il 2 aprile 1933, un giorno dopo il boicottaggio antisemitico. Fin dall'inizio vi si stendeva sopra l'ombra di infausti eventi politici: e tuttavia anche negli anni della tirannide il libro ebbe la sua modesta storia. Persino quando l'autore, emigrato, era stato ormai privato dei diritti di cittadinanza, esso, protetto forse dall'incomprensione dei censori, non
10 venne proibito e continuò ad essere venduto. Tanto più che la critica dell'ontologia esistenziale, che in esso viene condotta, aveva raggiunto già allora in Germania gli intellettuali dell'opposizione. È ovvio che l'autore, a una trentina d'anni di distanza, veda ormai molte cose in maniera diversa. Egli crede oggi di conoscere e di comprendere più profondamente Hegel e di conseguenza la controversia di Kierkegaard con lui; è convinto che non manifesterebbe più in modo talmente affermativo gli intenti metafisici; inoltre il tono dell'opera gli appare sovente più idealistico e solenne di quanto non sia perdonabile. Ciò che accadde dopo il 1933 non può non toccare da vicino una filosofia che si sapeva costantemente opposta all'equiparazione della metafisica con una dottrina de1l'invariabile astorico. Ciò nondimeno l'autore non ha apportato alcuna modifica al testo che è servito alla traduzione. Egli disdegna la consueta, facile dichiarazione che l'opera avrebbe dovuto essere completamente rielaborata per soddisfare alle sue esigenze attuali, e che non lo è stata per mancanza di tempo. Fin da giovane egli ha nutrito una certa diflidenza verso coloro che rinnegano i propri lavori giovanili, bruciano manoscritti, e in generale manifestano in maniera spettacolare la loro incorruttibilità di fronte a
1l se stessi. La sua avversione profonda a ricominciare sempre una nuova vita si dà a conoscere anche nel rapporto che lo lega ai suoi libri. Dietro una umile autocritica, alla quale nulla è sufficientemente buono, egli sospetta celarsi la hybris di colui che s'illude d'avere in seguito raggiunto la perfezione; una fiducia nella maturità, nutrita dal pregiudizio borghese, dietro la quale si trincera la gerontocrazia. Riconoscere quel che in una produzione ha la probabilità d'essere duraturo e quel che invece è transitorio, si sottrae al giudizio e alla volontà dell'autore. Se questi vuole decidere della vita e della morte dei suoi lavori, si rende colpevole verso di essi; infatti ciò che vi ha un qualche valore è proprio quanto si è distaccato dall'ambit0 della sua disposizione personale, si è obiettivato. Anche se, in seguito, potrà disturbarlo quel tanto d'inadeguato nel suo scritto d'un tempo: esso in cambio racchiude forse in sé altre possibilità, che l'autore non sviluppò nella sua formazione e che non si palesano neppure a lui stesso. In ogni caso l'autore del presente libro, anziché respingerlo come mero stadio preliminare, pensa che in esso poco si trovi che non meriti d'essere rimeditato sotto gli aspetti del suo pensiero d'oggi. Gli sia lecito ancora accennare al fatto che il motivo della critica al dominio della natura e alla ragione dominante la natura, quello della riconciliazione con la natura e quello
12 dell'autocoscienza dello spirito come momento della natura, sono già espliciti nel testo su Kierkegaard. Conforme alla sua tematica, il saggio non si occupa dei cosiddetti Discorsi religiosi di Kierkegaard, quegli scritti positivo-teologici che accompagnavano gli scritti negativo-filosofici, la negazione della filosofia. Ciò non toglie che esso miri all'interpretazione de1l'opera kierkegaardiana come di un tutto unico; estetica non vi significa, come non lo significa in Kierkegaard stesso, soltanto teoria de1l'arte bensì, in termini hegeliani, una posizione del pensiero nei riguardi dell'obiettività. Per tale ragione l'autore si è sentito obbligato ad attirare nell'ambito della sua speculazione, perlomeno sulla base di un esempio, anche i Discorsi religiosi. Si tratta di una conferenza sulla dottrina kierkegaardiana dell'amore, che egli tenne a New York in lingua. inglese, in un circolo di teologi e filosofi, poco prima del 1940, e che dopo il suo ritorno in Germania pubblicò in tedesco sulla Zeitsc/iriƒt für Religions- und Geistesgeschichte. Il testo viene aggiunto come corollario al presente volume. Non essendo padrone della lingua italiana, l'autore non può pretendere di apprezzare equamente l'opera della traduttrice. Ma egli sa bene quali esigenze presentava il libro, quali asperità pressoché insormontabili ad una trasposizione
13 linguistica. Egli sa anche con quanto impegno e quanta intelligenza Alba Burger ha assolto questo compito. È pertanto suo desiderio rivolgerle qui pubblicamente il suo più sentito ringraziamento.
Francoforte sul Meno Natale 1961.
KIERKEGAARD La costruzione dell'estetico
Al mio amico Siegfried Kracauer
Pareva che la nave prossima alla rovina fosse sospesa come per magia all'interno di un vortice di immensa ampiezza e di profondità smisurata. I suoi fianchi completamente lisci si sarebbero potuti credere d'ebano, se non vi fossero stati la velocità costernante del loro furioso moto di rotazione e il bagliore sƒavillante, spettrale che da loro emanava quando i raggi della luna piena, sbucando dallo squarcio rotondo delle nubi... in un fiotto di dorata luminosità si precipitavano giù lungo le nere pareti fin nelle profondità più recondite dell'abisso. EDGAR ALLAN Poi: (1841)
I
OGNIQUALVOLTA si è tentato di concepire gli scritti dei filosofi come opere di poesia, ci si è sempre lasciati sfuggire la loro intima sostanza di verità. La legge formale della filosofia esige l'interpretazione del reale nell'armonica concatenazione dei concetti. Né la manifestazione della soggettività. del pensatore, né la pura compattezza dell'opera in se stessa decidono del1'avere essa carattere di filosofia, bensì soltanto: se un dato reale è entrato nei concetti, si legittima in essi e conferisce loro un chiaro fondamento. A ciò contraddice la concezione della filosofia come poesia. Strappando la filosofia alla rigorosità secondo la misura del reale, essa sottrae l'opera filosofica all'adeguata critica; mentre invece soltanto in comunicazione con lo spirito critico l'opera filosofica potrebbe mettersi alla prova storicamente. Il fatto che a quasi tutti i pensatori « soggettivi ›› nel senso proprio della parola sia toccato di essere assunti tra le file dei poeti, si spiega con la equiparazione di filosofia e scienza, compiuta nel diciannovesimo secolo. Ciò che negli scritti filosofici non si subordinava all'ideale della scienza, fu trascinato avanti, con l'appellativo di poesia, come misera appendice. Da una filosofia scientifica si esigeva che i suoi concetti si costituissero come unità delle caratte-
22 ristiche degli oggetti da essi abbracciati. Ma se la concezione kantiana della filosofia come scienza fu formulata da Hegel, per la prima volta in senso esteso, nella proposizione « che la nostra età è propizia all'innalzamento della filosofia a scienza ›› ,1 non per questo la sua esigenza di concettualismo scientifico coincide con 1'esigenza di costituzione univoca dei concetti quale costituzione di unità delle caratteristiche. Il metodo dialettico, che informa completamente 1'opera di Kierkegaard nonostante la sua ostilità verso Hegel, consiste piuttosto nel fatto che la chiarificazione dei concetti singoli, in quanto loro completa definizione, può essere attuata solo partendo dalla totalità del sistema esposto e non mediante l'analisi del concetto singolo isolato. Nella prefazione alla Fenomenologia, che mette in rilievo appunto tutto questo, Hegel ha rammentato esplicitamente l'apparenza di poetico insita in ogni inizio filosofico: « Nella formazione che novellamente appare, la coscienza difetta di espansione e specificazione di contenuto; ancor più, difetta di quel raffinamento formale, in virtù del quale le differenze vengono con sicurezza determinate e ordinate nelle loro salde relazioni. Senza tale raffinamento la scienza non può avere il carattere della universale intelligibilità, e assume la parvenza di un esoterico possesso di alcuni individui; un esoterico possesso: infatti in questo caso essa esi-
23 ste soltanto nel suo concetto, o è presente soltanto nel suo interno; di alcuni individui singoli: infatti la sua apparenza senza espansione singolarizza la sua esistenza ››.2 Ma la potenza rivelatrice della novella apparizione si mantiene, al di là della definizione delle caratteristiche, anche nella struttura di un pensiero che non è più compreso nell'ambito del sistema sicuro. In tal modo risolve oggi un interprete marxista di Hegel «il problema delle definizioni e della terminologia. È pertinente all'essenza del metodo dialettico il fatto che in esso i concetti falsi, falsi nella loro astratta unilateralità, pervengono ad annullarsi. Questo processo dell'annullamento tuttavia rende allo stesso tempo necessario che, nonostante ciò, si faccia uso ininterrotto di tali concetti unilaterali, astratti e falsi; che i concetti vengano condotti al loro giusto significato non tanto mediante una definizione, quanto mediante la funzione metodica che essi assumono nella totalità quali momenti annullati ››.'°' Ma nemmeno la « totalità ›› è necessaria, per conferire ai concetti dialettici la loro funzione rivelatrice nella concatenazione del pensiero. Se però la filosofia, in quanto pensiero «soggettivo ››, se ne è liberata completamente, allora è più facile che la novella apparizione le procuri la precaria rinomanza del « poetico ››. E tuttavia sono proprio i concetti dialettici il suo vero e proprio strumento. Essa si distingue dalle scien-
24 ze non soltanto quale scienza suprema, che raggruppi sistematicamente i princìpi più generali di quelle subordinate: essa costruisce idee, le quali illuminano e suddividono la massa del puro ente, e intorno alle quali si cristallizzano alla conoscenza gli elementi dell'ente. Queste idee si rappresentano nei concetti dialettici. Non appena una filosofia di tale origine viene riconosciuta come « mondo poetico ››, è automaticamente respinta l'estraneità delle sue idee, nella quale si annuncia la sua potenza sul reale insieme alla serietà della sua esigenza. I suoi concetti dialettici passano allora per ingredienti metaforicamente decorativi, che dovrebbero essere allontanati a proprio piacimento dalla severità scientifica. In tal modo essa è svalutata: «poesia» vien detto, trattandosi di filosofia, tutto ciò che non appartiene strettamente al tema. E così anche nel riconoscimento consenziente del cosiddetto poetare filosofico. Il traduttore tedesco di Kierkegaard, Gottsched, trova non soltanto che nella Ripetizione sarebbe «rappresentato magnificamente il momento estetico nelle parti serie e in quelle scherzose ››,4 ma sostiene anche: «Questo filosofo arido per natura, che non ci ha lasciato un unico verso, è al tempo stesso non solo un artista della parola, che si serve della sua amata lingua materna come di un delicato strumento musicale e ne fa scaturire i toni più vari, ma anche un poeta la cui lira è dotata delle
25 corde più possenti e più fini, delle più cupe come delle più serene ››.5 Questo elogio disonora, assieme alla filosofia, anche la poesia. Di fronte alla mera possibilità di confusioni come questa del Gottsched, il primo compito di una costruzione dell'estetico nella filosofia di Kierkegaard deve essere quello di sceverarla dalla poesia. Nei confronti della pretesa alla poesia, l'opera di Kierkegaard ha una posizione equivoca. Con astuzia essa mira a creare ogni possibile malinteso che inaugura nel lettore un processo di appropriazione della sua sostanza intima. La dialettica nelle cose è per lui al tempo stesso dialettica della comunicazione. È in questa che l'opera kierkegaardiana, con fare ingannevole, pretende l'appel1ativo di poetica, nonostante che poi spesso lo neghi recisamente. Nello scritto postumo Punto di vista per la mia attività di
scrittore, Kierkegaard si fa chiamare, senza opporvisi, da parte di un « poeta ›› immaginario, « un genio in una cittadina ››.“ La formula produce ripetutamente il suo effetto, fino a Theodor Haecker, che in uno dei suoi primi lavori dice doversi considerare la produzione pseudo-
nima di Kierkegaard « un'opera collettiva scritta non da diversi uomini di scienza, bensì da diversi geni ››." In cambio, Kierkegaard stesso, nell'opera che per la sua forma esteriore potrebbe più d'ogni altra essere chiamata poetica, con-
26 cepisce problematicamente il carattere di poeta: « Quei che lo scrisse ›› (il Diario del seduttore) «aveva una natura di poeta, una di quelle nature che non sono, per così dire, né abbastanza ricche né povere abbastanza per saper disgiungere perfettamente la poesia dalla realtà... Nel primo caso egli godeva nell'essere l'obietto estetico; nel secondo, esteticamente egli godeva l'essere suo... Così egli venne sempre a percepire la poesia in e attraverso la forma duplice nella quale trascorse la sua vita nf* Quest'immagine ambigua deforma quella del filosofo al limite della poesia che Kierkegaard pensava di essere. Altrove egli respinge duramente da se stesso l'appartenenza alla casta dei poeti: « Io non sono un poeta, non fo che lasciarmi guidare dalla dialettica ››.° Il suo oscillare si spiega con una conoscenza più precisa della funzione specifica dell'esigenza poetica in lui stesso. Poetiche Vengon dette da lui sempre le tesi della sua teologia, là dove esse non siano sviluppate apoditticamente dal contenuto dottrinario del cristianesimo: «Come scrittore io sono un genio di indole alquanto particolare, né di più né di meno, assolutamente senza autorità e per questo co-
stantemente costretto a distruggere se stesso per non divenire un'autorità per altri ››.1° In quanto «genio» egli solleva a priori la pretesa di appartenere ai poeti, per non usurpare per sé e altri il nome di apostolo. Su questo punto non
27 lasciano alcun dubbio i Saggi etico-religiosi, la stereotipica formula introduttiva dei Discorsi religiosi, la ben calcolata pubblicazione del suo saggio sull'attrice. Senza averne « incarico ››, egli tenta di strappare alla ragione recalcitrante il concetto di fede, e di generarlo dalla sua riluttanza. La caratteristica poetica del discorrere senza autorità, lo trasferisce nel campo della speculazione filosofico-religiosa, quale egli la combatte in Hegel e in Schelling, pur distinguendosi tuttavia da costoro per l'ironia di un metodo che ritiene di non poter dimostrare altro se non ciò che gli è già segretamente insito come fede. Poesia è per lui il marchio dell'inganno su ogni metafisica in faccia alla rivelazione positiva. In senso più vasto egli si dice poeta là dove si assume di rappresentare l'esistenza poetica, che secondo la sua gerarchia delle sfere costituisce lo stadio dell'abiezione nella vita degli uomini. L'origine della parola «poesia» nell'opera di Kierkegaard è sempre trasparente quale origine filosofica. È vero che, anche senza averne l'esplicito appellativo, già la conformazione stessa dell'opera kierkegaardiana tradisce largamente la pretesa allapoesia. Gli scritti Aut aut, Timore e tremore, Ripetizione, Stadi nel cammino della vita, contengono romanzi, novelle, pagine liriche; dalla compatta superficie del Diario del seduttore fino alle composizioni di un trasparente
28 concettualismo come In vino veritas e Reo innocente, una storia di sofferenze. Ma proprio questa produzione, che di per se stessa potrebbe soddisfare a criteri artistici, rivela categoricamente che il concetto di artista non può assolutamente essere applicato alla sua persona. Non è la « impurità ›› della loro forma riflessa a escludere tali produzioni dall'arte. Questa forma ha fondato in Friedrich Schlegel, Hoffmann e Jean Paul (i modelli di Kierkegaard novelliere), la sua solida legge che non può venir confutata solo perché Kierkegaard, in qualità di teorico estetico, impersona con insistenza contro di essa un classicismo reazionario che le sue stesse imprese letterarie hanno ormai superato. Il fatto è che in lui non si giunge mai, in quegli scritti, all'urto elettrizzante tra realtà contemplata e soggettività riflessiva, il quale appunto costituisce la legge formale della prosa del romanticismo tedesco. Solo esteriormente Kierkegaard ha ripetuto questo ritmo. Per lui, insieme al pensiero, anche la contemplazione è riducibile a un significato soggettivo; e mai più drasticamente di quando pare dominare sovrana come nel Diario, che invece poi si lascia dedurre, fin nella estrema casualità del caso, dallo schema premeditato del seduttore. Colui che come filosofo combatte con tanta fermezza l'identità di pensiero e essere, lascia invece nella sua creazione che l'essere si conformi senza ambagi
29 secondo il pensiero. Solo il Lukács, in un saggio giovanile su Kierkegaard e Regine Olsen, perviene a darne l'esatto giudizio: « Una sensualità incorporea e una greve, programmatica mancanza di coscienza sono i sentimenti dominanti ›› nel Diario del seduttore. « La vita erotica, la vita bella, culminante nel godimento di uno stato d'animo, questa vita intesa come concezione del mondo e soltanto come tale. ›› 11 Persino il Vetter, a cui non sfugge la precarietà dei risultati artistici di Kierkegaard, ne cerca il motivo nell'esteticismo romantico impersonato programmaticamente dal Diario, senza accorgersi però che l'esigenza immanente in esso non vi è poi, in realtà, affatto soddisfatta: « La sua fama di scrittore si è affermata con il Diario del seduttore, che ha affascinato il pubblico con quell'arte, così voluttuosamente sovraccarica, di creare lo stato d'animo. Uno slancio più serrato rivela il suo secondo capolavoro nel campo dell'arte della parola: In vino veritas... Sia nel primo sia nel secondo racconto, una fastosa eloquenza ha minato pericolosamente il contenuto; ambedue sono anche testimoni della facoltà creativa surraffinata ed esausta di un'epoca tardiva ››.12 Ma il « fascino ›› esercitato dal Diario è stato possibile solo nella situazione letteraria di un paese che nello scritto giovanile di Kierkegaard ricuperava frugalmente le sensazioni della Lucinde; e il platonizzante Con-
30 vito degli pseudonimi è, nella nuda antitetica delle concezioni del mondo di cui gli interlocutori si fanno portavoce col loro entrare in azione, tutt'altro che un capolavoro, ovvero non è che un pezzo di bravura; soprattutto poi dinanzi al diligente esteticismo di Kierkegaard non si può parlare affatto di « facoltà creativa surraffinata ed esausta di un'epoca tardiva ››. I motivi ideologici del Diario si lasciano distaccare dal loro involucro romantico senza che neppure uno ne vada perduto, ma anche senza che rimanga un solo residuo dell'involucro. Persino l'alternarsi di brani descrittivi e di brani riflessivi, mediante il quale vorrebbe affermarsi nel Diario la considerazione ideologica, è prodotto partendo da una dialettica alla quale il seduttore Giovanni, un soggetto oggetto dell'esteticismo romantico, viene subordinato, affinché in lui, conforme allo schema hegeliano della triplicità, pervenga ad annullarsi ogni « immediatezza ››. Tale dialettica si distingue da quella hegeliana solo per l'infinità (« cattiva ›› in senso hegeliano) del processo, la quale deve appunto giudicare la riflessione come reietta esteticìstìca. Così si procede attraverso tutta la dinamica dell'az_ione, tutta la psicologia della rappresentativa singola coscienza umana, giù fino all'ultimo particolare: quello della seduzione stessa. Accada con o senza intenzione da parte di Kier-
31 kegaard, questa seduzione diventa la parodia del suo concetto dell'attimo. A dispetto della sua presunta intima essenza demoniaca, la seduzione è costruita secondo la stessa logica del «punto in cui si toccano tempo ed eternità ››; una sola volta il seduttore possiede la donna amata, per poi subito abbandonarla per sempre. Le figure estetiche 'di Kierkegaard sono unicamente illustrazioni delle sue categorie filosofiche, che esse rendono evidenti come in un abbecedario, prima ancora che siano sufficientemente articolate come concetti. Al1'osservatore moderno esse si presentano soffuse di quel singolare carattere di apparenza che è proprio di molte illustrazioni della prima metà dell'Ott0cento. Nei loro colori si nasconde, e rimpicciolisce nel loro formato borghese di miniatura, il grande intento dell'allegoria, che nella filosofia di Kierkegaard raggiunge un'alta dignità, ma che tuttavia è incompatibile col romanzo psicologico da cui egli era attirato nei suoi inizi. Se Kierkegaard, nel suo ultimo scritto in forma di romanzo, la Storia di sofferenze, manifesta già nello schema esteriore l'alternarsi di immediatezza e di riflessione, se ormai non riveste più che a malapena di aneddotica lo scheletro della concettualità per giungere poi, nel poscritto del Taciturno, a denudarlo completamente, è molto probabile che, insieme al prorompere incontrastato dell'intenzione filosofica, lo abbia gui-
32 dato anche il riconoscimento dell'insufficienza del suo metodo estetico fittizio. Lo scheletro del concetto rimane identico nelle tre rappresentazioni della vita erotica, il Diario del seduttore, la Ripetizione e la Storia di sofferenze, e cioè diversamente da come vorrebbe il suo concetto della « ripetizione ››. Tre volte egli ci pone dinanzi agli occhi, con rigidità allegorica, l'enigmatica, vuota immagine del suo amore in declino. Questo declino trascina con sé nell'apparenza tutto ciò che appare. Dinanzi a tale amore, esseri umani si trasformano in maschere e il linguaggio si fa reboante come nei dialoghi delle opere liriche: «Credi tu che posando il capo sul colle delle ninfe, si veda in sogno l'immagine di una ninfa? Non lo so: ma so che quando il mio capo posa sul tuo petto e levo lo sguardo, scorgo il volto di un angelo ›› .13 Oppure, nel Convito degli pseudonimi, viene disperatamente evocato l'apparato scenico del Don Giovanni: « L'esaltazione dei convitati, il fragore della festa, il piacere spumeggiante dello champagne si ricordano meglio in un tranquillo e remoto isolamento. L'esuberanza dello spirito, che rifioriva nel sentimento degli oratori,
si ricorda in una sicurezza piena di pace ›› .14 E infine la catastrofe imminente: « Le porte si spalancarono a due battenti; l'effetto dello splendore della luce, la freschezza che si diffondeva, l'incantesimo dei profumi aromatici, il
33 gusto dei preparativi, per un momento sopraffacevano i sopravvenienti ››.15 Non a caso l'impotenza artistica di Kierkegaard sceglie di preferenza come argomento l'arte e il mondo degli artisti. In questo si annuncia uno dei motivi centrali dell'apparenza nel diciannovesimo secolo. Quale artista, egli non si preoccupa di dar forma a contenuti oggettivi che gli vengono incontro, bensì della riflessione del processo artistico e dell'uomo artista in se stesso. La conseguenza, che cioè l'arte diviene oggetto a se stessa, ha le sue origini già nell'idealismo estetico del giovane Schelling, come pure in Schopenhauer, e si afferma infine con effetto deleterio in Wagner ed in Nietzsche. In Kierkegaard si prepara, sotto l'influsso del romanticismo tedesco, il passaggio di quell'intenzione dalla sistematica filosofica, che egli sgretola con la sua critica, a una prassi artistica di cui egli stesso non è ancora all'altezza. Al tempo stesso egli testimonia l'isolamento dell'intellettuale dedito alla sua vita privata e ripiegato su se stesso, isolamento che a quell'epoca, nella Germania delle scuole tardoromantiche e tardoidealistiche, veniva espresso nel materiale della filosofia solo da Schopenhauer. Non era sfuggita a Kierkegaard la sua affinità con Schopenhauer, e così egli annotava poco prima della sua morte: « A.S. (strano abbastanza: io mi chiamo S.A. e noi ci rapportiamo così
34in modo inverso!) è innegabilmente uno scrittore importante; egli mi ha interessato molto, e quel che mi ha sorpreso è d'aver trovato uno scrittore il quale, malgrado un completo disaccordo, ha con me molti punti di contatto ›› ,16 Punti di contatto per il suo « atteggiamento», la cui idea non è limitata soltanto al protestantesimo radicale di Kierkegaard. Infatti, pur estendendosi la critica di Kierkegaard anche all'esistenza privata di Schopenhauer,1" i due hanno in comune un tratto dominante: la tendenza al vivere privatamente. Nell'esperto pensiero di Schopenhauer si sente il rimpianto della cattiva realtà, la solitudine di Kierkegaard non l'ha mai raggiunta. Perciò il suo fallimento artistico non si può, nell'ambito strettamente estetico, né motivare a sufficienza né criticare sensatamente. Poetare significa per lui determinare Fatteggiamento del poeta, perché dinanzi allo sguardo della sua malinconia indietreggia il mondo degli oggetti. Gli emblemi del poeta, nella figura del quale egli si riflette, lo attorniamo come requisiti non destati a vita dalla sua parola, minaccioso sfondo decorativo al suo monologo. Per il Kierkegaard estetico, che non era un poeta, esiste già la formula dell'« esteta ›› sospinto passivamente alla deriva fra conoscenza filosofica e esigenza artistica della forma. Così egli si è caratterizzato in una annotazione dei
_ 35 suoi Diari (risalente però all'epoca giovanile) che spesso viene citata: « Io mi trovo qui esitante come Ercole; non si tratta di un semplice bivio, ma di un incrocio di vie che s'irradiano in tutti i sensi. Ecco perché è tanto difficile iml›roccare la giusta. È forse appunto la disgrazia della mia esistenza, l'interessarmi a troppe cose senza arrivare mai a nessuna decisione: nessuno dei miei interessi [spirituali] è subordinato all'altro, ma tutti si tengono per mano ››.18 Molti dei critici più recenti hanno posto, nelle loro interpretazioni di Kierkegaard, il problema del letterato. Nella vasta biografia dello Schrempf tale problema passa al centro e, come nota giustamente il Przywara, ne compenetra l'intera struttura fino alla critica della kierkegaardiana teologia del sacrificio: « Se egli dunque voleva essere la vittima che già era, nolens volens, come poeta, allora era eliminata ogni discordanza, senza che tuttavia come uomo ne traesse un giovamento umano (›ia~.:° åívâmmov). Di conseguenza quel che tramite lui, organo eletto della divinità e quindi consacrato alla rovina, doveva venir comunicato all'umanità, era dunque anche l'idea per la quale voleva vivere e morire. Ma non erano forse proprio questi pensieri sul 'poeta ' l'idea da lui agognata, che sola poteva sollevarlo al di sopra della sinistra ironia della vita che lo accompagnava? Non erano essi quella rivelazione di cui doveva farsi mediatore agli
36 uomini? ›› 1° Con la formulazione datane da Schrempf, il problema dell'esteticismo letterario di Kierkegaard, divenendo un problema di « atteggiamento », viene separato dalla sua opera e condotto in sede di discussione psicologica sull'uomo. Completamente in senso psicologico esso viene trattato nella « interpretazione ›› del Vetter; e anche quella cattolica di Erich Przywara ha accettato come base psicologico-dialettica la tesi del letterato romantico-estetico.2° Questa può riferirsi, oltre che all'atteggiamento dei primi scritti pubblicati sotto pseudonimo e alle affermazioni dei Diari della stessa epoca, specialmente all'uso della parola « scrittore ››. Pari a una formula magica essa viene spesso ripetuta nell'opera di Kierkegaard; in un passo dei Diari viene spiegata con l'esplicita concezione dell'intera vita come di uno scritto; 21 nel suo carattere di formula però è accessibile soltanto all'analisi filosofica e non va accolta in nessun caso senza la dovuta interpretazione. Ma anche l'orizzonte temporale della fantasia, sul quale spicca la personalità di Kierkegaard, sembra essere quello dell'esteta letterario: non tanto quello del postromanticismo tedesco quanto quello di Baudelaire. Il Vetter, a cui dobbiamo questa scoperta, adduce una quantità di esempi dai ƒournaux intimes di Baudelaire, che testimoniano sorprendenti coincidenze fra l'esteticismo delle
37 Carte di A oppure del convito di In vino veritas e il modello parigino, sconosciuto a Kierkegaard.22 L'analogia potrà forse andare anche oltre e affermarsi in figure storiche più determinate di quanto non abbia notato lo stesso Vetter; Kierkegaard stesso infatti, gettando uno sguardo retrospettivo al periodo del suo Aut aut, si è denominato un ƒlâneur, conferendo così all'immagine della propria persona una somiglianza corporea con quella baudelairiana del dand)›.23 Ma proprio nell'intensità di una tale somiglianza si rivelano, decisivi, i contrasti. L'esteticismo non è un «atteggiamento» che possa assumersi a proprio piacimento. Come esso ha la sua epoca, così ha anche il suo ambiente: le grandi città nei primi tempi del loro sviluppo. In esse irraggia, simile all'illuminazione artificiale delle strade, nel crepuscolo di un'incipiente disperazione, estranea, pericolosa, sovrana la forma, a immortalare con crudo bagliore la vita sfuggente. Questo ambiente non è mai stato raggiunto dall'opera di Kierkegaard. La serietà industriosa di un'esistenza privata ristretta, che accompagna le manifestazioni del suo esteticismo; la mancanza di qualsiasi esperienza evidente nella sfera sociale che potrebbero frequentare il flâneur e il dandy; la città piccola come sfondo a una seduzione che deve cercarsi la sua vittima nella scuola di cucina:2“* questo ensem(ile viene a creare una parodia del dandismo in-
38 ternazionale. Credere a essa significherebbe ingannare circa la vera serietà della sua filosofia. Così non si può contraddire neppure la robusta saggezza dello Schrempf il quale, più disinvolto di qualunque altro dei versati critici, indovina nella prima parte di Aut aut quell'« estetismo prezioso, civettuolo e anche sciocco» e rinfaccia all'« Esteta A ›› che la sua « serietà estetica ›› non lo preservi « neppure dal puerile e dall'insulso ››.25 Con sufficiente ingenuità il seduttore confessa: « Io sono un esteta, un artista dell'amore, e all'arnore io credo, ne -ho compreso l'essenza e l'interesse, ne conosco tutti i segreti, e ho le mie proprie idee in proposito: credo, cioè, che ogni storia d'amore debba durare la metà di un anno al massimo, e che ogni rapporto debba cessare eo ipso quando più niente rimanga da godere n.26 Oppure con semplicità, in un passo di In vino veritas: « Poiché in un convito importa, specialmente, che si mangi e si beva, la donna non deve prendervi parte; perché non può cooperare, e se essa lo può, è una cosa poco graziosa ››.2" Anche come allegorie dell'esteticismo, una delle quali è rappresentata dal personaggio cifrato l'« Esteta A», simili formule lo smascherano con l'assurda ambizione del laisser faire laisser aller. Non diversamente stanno le cose con la categoria dell'« interessante ››. Come « atteggiamento », questa si esprime in maniera
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subalterna: « Come è bello essere innamorati, e come interessante il saperlo! ›› 28 Dal punto di vista filosofico invece, l'« interessante ››, la « concupiscenza estetica», in quanto definizione limite di due sfere della sua logica dell'esistenza, ha un suo significato preciso, anche se oggettivamente problematico: « Si propone l'analisi della categoria dell'interessante, che, soprattutto ai nostri giorni, quando si vive in discrimine rerum, ha preso una grande importanza; perché è veramente la categoria della svolta critica... D'altronde, l'interessante è una categoria limite, ai confini dell'estetica e dell'etica. Perciò l'esame deve sempre compiere qualche incursione sul terreno morale mentre al tempo stesso (per essere significativo), deve afferrare il problema in un intimo fervore e una concupiscenza propriamente estetici ››.” Il pensatore riesce a formulare come « problema ›› ciò che l'esteta non convalida in alcun modo mediante l'« atteggiamento ››. Il fatto che abbia potuto affermarsi, nei riguardi di Kierkegaard, la denominazione di esteta o di poeta, diviene comprensibile solo se si pensa al fascino che egli esercita con una ostinata litania di formule estetiche fisse, alle quali però non corrisponde né nel bene né nel male. Il fascino è la potenza più pericolosa della sua opera. Chiunque gli si arrende, accettando una delle grandi e rigide categorie che egli pone in-
40 cessantemente sotto i nostri occhi; chi si inchina alla loro grandezza, senza mai metterla di fronte alla concretizzazione e chiedersi se le sia adeguata, quegli è suo prigioniero come lo sarebbe di un mitico recesso. Come qui la formula magica, così entro il suo ambito domina logica immanenza, alla quale deve adattarsi tutto ciò che appare. Il concetto supremo del suo preteso esteticismo, quello della genialità, è anch'esso di tipo magico. Se esso originariamente doveva tener lontana come per esorcismo la pretesa all'apostolato, in seguito tanto Schrempf quanto Gottsched e persino Haecker sono soggiaciuti al suo magico potere. Ciò spiega come Haecker ammetta «più geni ››. Come tali egli considera gli pseudonimi: anch'essi, come la « genialità ››, potenze al servizio del fascino nell'opera kierkegaardiana. Ma col rifiuto delle sue qualità di poeta anch'esse vengono eliminate quale elemento costitutivo integrale della sua filosofia. Perciò non è concesso al metododi orientarsi fondamentalmente secondo tali potenze. Il vano tentativo di Kierkegaard di poetare dei poeti capaci di continuare una vita autonoma, confonde la condizione di creatore con quella di artista e corrisponde meglio alle sue origini idealistiche che non al suo intento finale teologico. Ogni considerazione critica che accetti integralmente la pretesa dei singoli pseudonimi e
41 sc ne faccia una misura sbaglia strada. Gli pseudonimi non sono figure nella cui incomparabile esistenza sia strettamente racchiusa l'intenzione. Essi sono in tutto e per tutto immagini rappresentanti in astratto. Ciò non vuol dire però che la critica possa trascurare la loro funzione, prendere la loro opinione come se fosse direttamente quella di Kierkegaard. Essa deve piuttosto confrontare le unità astratte degli pseudonimi con i motivi concreti che sono racchiusi nella cornice della pseudonimità, e controllare se si corrispondano nel loro insieme. Si dissolva pure a tale confronto la consistenza fallace degli pseudonimi; con o senza di essi, l'unità della connessione filosofica superficiale sbarra una volta per sempre la via a una genuina comprensione. La critica deve anzitutto capire le affermazioni degli pseudonimi secondo la loro costruzione filosofica, quale può ricavarsi in ogni momento come schema dominante. Ciò che poi gli pseudonimi dicono in più, oltre a quanto è assegnato loro dallo schema filosofico, ciò che costituisce il loro nocciolo segreto e concreto, spetta all'interpretazione nella letteralità della comunicazione. Nessun altro scrittore procede, nella scelta delle parole, con più astuzia di Kierkegaard, nessuno cerca di nascondere mediante la parola più di quanto non nasconda lui, che instancabilmente denuncia se stesso quale « spione a un più alto servizio ››,3° come poliziotto se-
42 greto e seduttore dialettico. Per scovarlo nella tana di volpe dell'interiorità riflessa all'infinito, non vi è altro mezzo che prenderlo nelle parole che, destinate a far da trappole, finiscono coll'imprigionare lui stesso. La scelta delle parole e il loro ripetersi stereotipico, non sempre predisposto, rivelano contenuti interni che anche la più profonda intenzione del procedimento dialettico preferirebbe piuttosto nascondere che manifestare. Quindi l'interpretazione di Kierkegaard pseudonimo ha il compito di scomporre l'unità poetica, fugacemente illusoria, nella polarità di intenzione speculativa e di verbalità traditrice. Non è necessario, benché se ne offrano a sufficienza lo spunto e la tentazione, che il motivo della verbalità venga trasportato psicoanaliticamente nella sua opera. Esso infatti ha nell'opera stessa il suo prototipo: l'esegesi cristiano teologica. Come gli scritti edificanti, anche la sua Scuola di cristianesimo, comparsa sotto pseudonimo, è esegetica, e tutti gli scritti pseudonimi sono inframmezzati di parti esegetiche. Ma non è pensabile una sensata esegesi ove non sia anche legata in maniera impegnativa alle parole del suo testo. Il modello dell'esegesi in Kierkegaard è l'interpretazione letterale della dottrina della parusia. In Scuola di cristianesimo la « vita di tutta la Chiesa quaggiù ›› diventa «una parentesi, nella vita di Cristo, il cui contenuto co-
43 mincia dall'ascensione di Cristo nella gloria e si chiude col suo ritorno » .31 Distruggere la dignità della parola col ricorso psicologico agli pseudonimi, significherebbe misconoscere la serietà esegetica di Kierkegaard. Infatti, dappertutto le sue asserzioni sono in rapporto con testi che egli riconosceva sacri. Le singole asserzioni degli pseudonimi vanno intese letteralmente, di volta in volta, entro l'ambito della rispettiva costruzione « di logica delle sfere ››: cioè come interpretazioni delle tre forme di esistenza, l'estetica, l'etica e la religiosa, che allo stesso tempo hanno il loro limite nella letteralità. Di fronte all'esegeta Kierkegaard, il procedimento esegetico deve entrare in azione soprattutto nella metaforica. Mentre gli oggetti intesi metaforicamente da Kierkegaard vanno chiariti tramite la logica delle sue « sfere ››, alle metafore letterali compete invece autonomia. Qui si aprono un varco le intime sostanze mitiche della sua filosofia, che la chiara architettura logica delle sfere invano tenta di bandire. La loro forza si rivela proprio nelle sue maggiori concezioni: là dove sostanza ed espressione sono più profondamente intrecciate. Così si dice nella Malattia mortale: «Come nelle favole il folletto scompare attraverso una fessura che nessuno può vedere, così la disperazione, quanto più è spirituale, tanto più si sforza di circondarsi di un aspetto esteriore sotto il quale normalmente
44 non verrebbe in mente a nessuno di cercarla ›› .32 Il paragone, che del resto mette a nudo già di per sé la frattura fra coerenza superficiale e sostanza occulta, vuole esprimere, con la figura fiabesca del folletto che sparisce, l'occultezza della disperazione, « giacché un'esteriorità corrispondente, corrispondente ad un intero chiuso, è una contraddizione in se stessa; perché, se corrispondesse, rivelerebbe ››.” Contemporaneamente però, nella parola folletto, si annuncia sotto l'aspetto mitico corporeo ciò che, pur rimanendo in forma di concetto generalmente efficace nella categoria del demoniaco della Malattia mortale, costituisce tuttavia, soltanto dopo aver preso forma corporea, il vero oggetto della demonologia kierkegaardiana. Sotto la pressione del suo soggettivismo, le immagini oggettive, alla cui interpretazione è dedicata in realtà la sua opera, si sono rifugiate in simili metafore. Dalla metaforica esse vengono richiamate indietro alla loro vera e propria realtà. Per quanto in tal modo il metodo, nei ricettacoli demoniaci di Kierkegaard, possa apparentemente avvicinarsi a quello psicoanalitico, deve però distinguersene con precisione come metodo filosofico, al fine di non soggiacere esso stesso alla demonìa. Infatti, finora la psicoanalisi concepisce l'uomo ancora in perfetta immanenza e giustifica ciascuno dei suoi moti dalla totalità della vita della sua coscienza. In-
45 vece Kierkegaard stesso, con la dottrina dell'esistenza e il personalismo radicale, trascina a comporre la singola esistenza umana così autonoma e chiusa, come la psicoanalisi tenta primieramente di strapparla, in quanto conoscenza, al conflitto degli istinti. L'immanenza è il campo in cui domina sovrana la demonìa, e la psicoanalisi gli si sottomette, prima ancora di pronunciar parola, perché essa deduce dalla stessa immanenza che le sue formule evocano. La critica tuttavia mette in dubbio proprio il diritto della perfetta argumentatio ad hominem, efficace fin nel più profondo della teologia: il diritto dell'identità di persona e cosa, la tesi della Postilla non scientifica, che cioè la soggettività sia la verità. Accettare, in generale, questa tesi di Kierkegaard, basta per capitolare sotto il suo regime. Perciò la coraggiosa biografia di Schrempf, che partendo dalla tesi del pensatore soggettivo disputa disperatamente con Kierkegaard su ogni frase dell'opera e su ogni decisione della vita, è una lotta contro spiriti; teatro di essa è l'oscurità dell'immanenza soggettiva, senza speranza fin dall'inizio. Superiore a tutta la rimanente letteratura critica su Kierkegaard, non soltanto per quella famosa « passione ›› della quale sempre si parla quando l'ingegno critico non è sufficiente, bensì per l'intimo contatto dialettico col suo oggetto, il libro tuttavia non riesce alla fine a rendere fi-
46 losoficamente fecondi i suoi giudizi, perché la casuistica del principio della verità della soggettività gli mozza il fiato. Abbagliato, egli insegue la traccia di un avversario la cui figura non si lascia afferrare fintanto che, dissolvendosi, abbraccia l'osservatore stesso. Lo Schrempf si salva rinunciando alla traccia che aveva fedelmente seguìto; gli rimangono le mani vuote del libero pensatore secolarizzato etico, mentre gli sfugge tutto ciò che in Kierkegaard è abbozzato di una verità migliore che non quella precaria di un'identità convalidata. La vicinanza che lo Schrempf per primo ha raggiunto deve essere mantenuta; ogni giudizio su Kierkegaard deve essere conquistato dal suo ambito. Essa però diviene verità solo quando è sciolta dal suo incantesimo e afferrata singolarmente. È chiaro che la personalità di Kierkegaard non si lascia stanare semplicemente dall'opera col procedimento di una filosofia oggettiva di cui non invano egli era l'accanito oppositore. Ma la personalità deve essere evocata unicamente nella sostanza intima dell'opera, la quale non si esaurisce nella personalità come questa non si esaurisce nell'opera. Perciò la costruzione dell'estetica, in Kierkegaard, non deve partire neppure dall'esteta. La categoria dell'estetico è di fronte a lui una categoria della conoscenza. Pur non lasciandosi anticipare per definizione come tale, essa deve tuttavia venire chiaramente scissa da ogni pro-
47 miscuità. Anche se si tiene presente una convergenza finita di arte e filosofia, bisognerebbe evitare ogni estetizzazione del procedimento filosofico. Piuttosto, quanto più pura è cristallizzata la forma filosofica come tale, quanto più duramente essa esclude ogni metaforica che esteriormente la avvicinerebbe all'arte, tanto meglio riesce a sussistere artisticamente in virtù della sua l.egge formale. Innanzitutto si devono ricercare in Kierkegaard le equivocazioni del termine « estetico ››. La sintesi dei significati non si trova né nell'arte né nell'atteggiamento di Kierkegaard: essa può riuscire alla costruzione solo quando se ne siano resi chiari e nitidi gli elementi. Tre di questi sono distinguibili, nonostante che compaiano sempre intrecciati. Anzitutto, «estetico» indica in Kierkegaard, come nell'uso corrente della parola, il campo delle opere d.'arte e della riflessione teorica sull'arte.3'* Così nella maggior parte degli scritti che costituiscono il primo volume di Aut aut: il vasto saggio sul Don Giovanni di Mozart, la breve e importante trattazione Sul riflesso del tragico antico nel tragico moderno, le Sil/iouettes di personaggi di drammi, e Pinterpretazione del Primo amore di Scribe. Con la scelta degli oggetti, tali scritti si ricollegano al secondo significato, quello centrale, della parola in Kierkegaard: l'estetico come atteggiamento, ovvero, secondo l'uso che ne fa più tardi, come « sfera ››. Il se-
48 duttore corporeo costituisce la tesi dialettica all'antitesi del Giovanni riflesso; le voci di Marie Beaumarchais, di Elvira, di Margherita, rispondono tristi all'invito della seduzione; completamente apparente è l'amore, fatto di puro ricordo, nella commedia dello Scribe. Ma allo stesso tempo i saggi possono essere accettati, in quanto teoria dell'arte, come del tutto autonomi, indipendentemente dall'intento dello pseudonimo Eremita o dell'anonimo A. Soprattutto il saggio sul tragico contiene motivi che ricompaiono immutati nella teologia di Kierkegaard. Analogamente, anche il saggio sull'attrice non si esaurisce nei suoi piani machiavellici che ne determinarono la pubblicazione. Esso ricorda chiaramente la teoria « etica ›› kierkegaardiana dell'invecchiare nella vita coniugale, che non diminuirebbe l'amore; e contraddice alla concezione dell'estetico come puro presente e pura immediatezza, concezione che egli sviluppa con sempre maggiore conseguenza nella rappresentazione della « sfera ››. È probabile che l'estetico, in quanto artistico, si sia fuso nel Kierkegaard maturo con la formula del « poetico ››, usando la quale egli voleva mettersi al sicuro col dichiararsi non autoritario. Non si capirebbe altrimenti il fatto che egli annunciò essere estetica tutta la sua opera pseudonima antecedente alle Briciole filosofiche, e quindi anche scritti manifestamente teo-
49 logici come Timore e tremore e Il concetto dell'angoscia. Il secondo uso della parola viene definito esplicitamente già in Aut aut: « L'estetica, nell'uomo, è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l'etica è quello per cui diventa quello che diventa. Chi vive tutto immerso, penetrato nell'estetica, vive esteticamente ››.35 L'atteggiamento estetico, guardato dal punto di vista di quello « etico ››, appare come un non decidersi. In seguito l'atteggiamento etico retrocede dietro la sua dottrina del paradossale religioso. Di fronte al «salto» che separa dalla fede, l'estetico viene, dalla sua condizione di gradino nel processo dialettico, vale a dire di gradino del non decidersi, deprecativamente trasformato nella semplice immediatezza della creatura umana. Infatti, proprio questa deve venire infranta dal paradosso e ne costituisce l'opposto assoluto. Con ciò cade finalmente sotto il verdetto, seppure con varie clausole, il momento estetico come arte, che nei primi scritti affermava ancora il proprio diritto perlomeno dialetticamente. Al mutamento terminologico corrispondono gli attacchi all'arte, a cominciare dalla Scuola di cristianesimo, attacchi che ormai hanno ben poco in comune col precedente rifiuto dell'esistenza estetica. Il terzo significato della parola rimane alquanto in disparte dall'uso abituale kierkegaardiano. Esso si trova solo nella Postilla
50 conclusiva non scientifica. Qui l'estetico è riferito alla forma della comunicazione soggettiva, e si giustifica dal concetto kierkegaardiano dell'esistcnza. « Il pensatore soggettivo ›› ha «in quanto esistente, un interesse sostanziale al proprio pensiero, nel quale egli esiste. Perciò il suo pensiero ha un altro genere di riflessione, cioè la riflessione dell'interiorità, del possesso, tramite la quale esso appartiene al soggetto e a nessun altro. ›› 36 La « doppia riflessione ›› del pensiero soggettivo, cioè riflessione sulla « cosa ›› e sulla «interiorità» del pensatore, deve « esprimersi anche nella forma della comunicazione, vale a dire che il pensatore soggettivo deve subito rivolgere la sua attenzione al fatto che la forma dovrà avere artisticamente altrettanta riflessione quanta egli stesso, esistendo, ne ha nel suo pensiero. Da notarsi bene: artisticamente, perché il segreto non consiste nel fatto che egli esprime la doppia riflessione direttamente, dato che un simile esprimersi è addirittura una contraddizione ››.3" Di conseguenza, estetica si chiama addirittura la maniera secondo la quale l'interiorità si manifesta quale modo della comunicazione soggettiva, perché secondo la dottrina di Kierkegaard essa non può diventare «_oggettiva ››; « Dovunque, nella conoscenza, ha importanza il soggettivo e quindi l'appropriazione è la cosa principale, ivi la comunicazione è un'opera d'arte ››,38 oppure brevemente: « quan-
51 to più arte, tanto più interiorità ››.” La categoria kierkegaardiana dell'estetico abbraccia i disparati significati della parola. E tuttavia non si lascia ricavare dalla loro addizione, come non si lascia ottenere dal loro conflitto astratto. Neppure mediante l'ipotesi, formulata dal Przywara, di una psicologia disparata: « Il Kierkegaard dell'odierna filosofia dell'esistenza ›› sarebbe « un primo piano che lascia intravedere il Kierkegaard dell'Aut aut fra psicoanalisi e austera religione ››.4° Ciò farebbe risultare una fantasmagoria di concetti in lotta, nelle cui masse gigantesche scompare ogni determinato colore e aspetto degli oggetti. Mai i pomposi conflitti dell'universale raggiungono il vero e proprio stato di cose. Questo può ricavarsi unicamente nelle cellule concrete della dialettica, così come le genera l'opera stessa di Kierkegaard. L'indeterminatezza di questa categoria non può correggersi con un metodo di larga portata, bensì soltanto mediante una più precisa considerazione dei singoli fenomeni. A tale considerazione la categoria dell'estetico si offre, apparentemente, più maneggevole là dove si ricollega all'uso storico della parola: nella dottrina del bello, nell'estetica esplicita del primo volume di Aut aut. Ma la sua sostanza specifica impedisce di presumere qui la chiave del ricettacolo categoriale. Nella totalità del pensiero kierkegaardiano l'estetica sta isolata.
52 Essa serba in maniera rudimentale una fase della sua filosofia, di cui è rimasta come documento, per esempio, la polemica con Andersen. Dal vero Kierkegaard essa si distanzia già per la neutralità con la quale fa da spettatrice dinanzi all'arte e alle sue esigenze, senza porre seriamente la questione del diritto sul quale l'arte si basa. Anche se la neutralità viene accolta nella dialettica come neutralità dell'« atteggiamento estetico ››, in se stessa però essa giustifica soltanto frammentariamente il suo collegamento con la dialettica. Nel primo volume di Aut aut la maschera dello pseudonimo è soltanto una larva sottile che mai nasconde a sufficienza i suoi tratti, in parte di speculazione ingenuo-estetica, in parte di dogma positivo-cristiano. A ragione lo Schrempf dice che l'« Esteta A anche nella prima parte fa uso continuo di pensieri cristiani, cosicché a nostra meraviglia notiamo come quest'uomo frivolo pensi in realtà stranamente da cristiano ›› ,41 Ovvero, ci sarebbe da integrare, da esteta, con i concetti dell'estetica kantiana e postkantiana idealistica: concetti del finito, dell'infinito, della contraddizione, che non subiscono da parte della dialettica kierkegaardiana alcuna correzione rilevante. Questi tessono una rete a larghe maglie intorno alle creazioni artistiche. Da essi sono ricavate le definizioni sia del tragico sia del comico. Entrambe vengono costruite secondo il principio formale della con-
53 traddizione, incontestato dalla critica kierkegaardiana a Hegel, nel senso hegeliano: «Ma poggiando il comico già per sua propria natura su contrasti contraddittori, sia tra gli scopi stessi, sia tra il loro contenuto e la casualità della soggettività e delle circostanze esterne, ne consegue che l'azione comica ha un bisogno quasi ancor più impellente che non quella tragica di uno scioglimento. Infatti, la contraddizione fra il vero in sé e per sé e la sua realtà individuale risulta, nell'azione comica, ancor più profonda ››.” La tragicità e la comicità, che coincidono sotto la condizione formale della contraddizione, vengono distinte da Kierkegaard a seconda del rapporto nel quale stanno tra loro, di volta in volta, la finitezza e l'infinità in quanto momenti contraddittori. Tragico si chiama in lui il finito che entra in conflitto con l'infinito e, misurato a esso, viene giudicato secondo la misura infinita; comico, l'infinito che si irretisce nel finito e viene a cadere sotto le determinazioni della finitezza. Ciò spiega il Taciturno, nel suo commento alla Storia di sofferenze, ancora con un esempio in campo erotico: «Il tragico è che due amanti non si capiscano; il comico, che due che non si capiscono si amino ii/*3 La dialettica di queste determinazioni fondamentali non si spinge oltre il loro «scioglimento» formale. Perciò Kierkegaard mantiene una definizione del bello equivalente a quella kantiana,
54 formulata da Guglielmo come tesi del suo avversario A, il rappresentante ufficiale dell'estetica kierkegaardiana: « Il bello è ciò che ha la sua teleologia in sé ››.44 Il vuoto del concetto di contraddizione si rivela in definizioni banali e non fondate del tragico e del comico: « La cosa è molto semplice. Il comico è presente in ogni stadio della vita (solo che ne è diversa la posizione), poiché ovunque è vita è anche contraddizione, e dove è contraddizione è presente il comico. Il tragico e il comico sono la stessa cosa, in quanto ambedue designano la contraddizione, solo che il tragico è la contraddizione sofferente, il comico la contraddizione senza dolore ›› .'*5 Il fatto che nonostante ciò il concetto centrale dialettico della contraddizione non sia del tutto compatibile con la definizione formale idealistica del bello, non è sfuggito a Kierkegaard. Contro la tradizione dell'estetica formale egli vorrebbe servirsi dell'estetica contenutistica di Hegel: « Esisteva una scuola di esteti che, continuando unilateralmente a mettere in rilievo l'importanza della forma, non senza colpa causò l'equivoco opposto. Mi è spesso apparso strano che questi esteti si richiamassero senz'altro alla filosofia hegeliana, mentre una conoscenza sia pure superficiale della fìlosofia di Hegel, e in particolare della sua estetica, convincono che egli, soprattutto per quel che riguarda
55 l'estetica, mette altamente in rilievo l'importanza della materia ›› .ff Adeguata all'estetica formale sarebbe una lirica futile, priva di oggetto: « Dio sa quali sono le letture dei giovani rimatori odierni! I loro studi consistono, in gran parte, nell'imparare rime a memoria. Dio sa qual è la loro funzione nella vita! In questo momento ignoro se essi rendano altro servizio oltre a quello di prestare una edificante prova dell'immortalità dell'anima; perché si può ripetere per loro, a nostra consolazione, la battuta di Baggesen a proposito del poeta Kildevalle: ' Se diventa immortale lui, lo saremo tutti quanti' ››.” Invece, nell'estetica contenutistica, Kierkegaard riesce solo apparentemente a correggere il formalismo. Infatti dovunque l'estetica si appoggia sul dualismo di contenuto e forma, senza rendere evidente nell'analisi compiuta delle forme e dei contenuti il loro reciproco esser prodotti gli uni dalle altre, si impone di necessità per la teoria il primato del principio formale. Kierkegaard si attiene senz'esitare a quella dualità, annunciando allo stesso tempo il proprio classicismo: «La fortuna ›› della riuscita estetica «ha due fattori: è una fortuna che la
più splendida materia epica sia stata alla portata di Omero; qui viene data altrettanta importanza a Omero come al soggetto epico. Qui ritrovo la profonda armonia che echeggia in ogni opera d'arte che chiamo classica. Questo
56 sia detto anche per Mozart: è una fortuna che forse l'unico soggetto veramente musicale, nel senso più profondo, sia toccato proprio a Mozart ››.'*S La rigida divergenza tra forme e contenuti viene superata soltanto dal primato della forma, ed è quest'ultimo che subito infrange nuovamente il riconosciuto diritto proprio dei contenuti. Cioè mediante il principio della scelta. Kierkegaard distingue fra contenuti estetici e non estetici. Ciò toglie ai contenuti ogni sostanza speciíica: nella scelta, la soggettività diviene il momento dominante già con la predisposizione del materiale, e sono eliminati quei contenuti che vi solleverebbero contro le proprie pretese. Con questo Kierkegaard, nonostante il presunto procedimento dialettico, fa in realtà un passo indietro situandosi anteriormente a Kant e a Schiller. Infatti, secondo l'intatto principio formale di costoro, tutti gli oggetti hanno la possibilità di diventare oggetti dell'arte, purché vengano compenetrati dalla forma; e come il principio formale non è in grado di risvegliarne l'intima sostanza, così però in cambio non sbarra a questa l'accesso all'arte. Ciò spiega perché in Hebbel, Flaubert, Ibsen,
poterono farsi strada, sotto l'involucro del principio formale, motivi realistici. Kierkegaard invece, pur attribuendo agli oggetti un diritto autonomo, li adopera in maniera tale che proprio i più incalzanti rimangono, per amore di
57 se stessi, esclusi dall'elaborazione: sono gli oggetti dell'esperienza sociale. Dinanzi agli albori del realismo, verso la metà del secolo, la sua posizione rimane la seguente: « La poesia fa un tentativo dopo l'altro di presentarsi come realtà, cosa del tutto impoetica; la speculazione vuole, entro il suo ambito, raggiungere continuamente la realtà » (19 Drastiche ne divengono le conseguenze negli Stadi; esse vengono riprovate, è vero, da Kierkegaard, in quanto « atteggiamento estetico ››, ma rimangono incontestate nel loro diritto estetico interno: « L'estetica dichiara con orgoglio, e nel far questo è rigorosamente logica: ' La malattia non è un motivo poetico, la poesia non deve divenire un ospedale '. Ciò è giusto. E deve anche essere così: solo un poetastro da strapazzo vorrà adoperare esteticamente la malattia. ' Solo la salute t`r piacevole ', dice Friedrich Schlegel, e dal punto di vista dell'estetica egli ha perfettamente ragione. Una posizione analoga deve prendere la poesia di fronte alla povertà. Per tener lontani da sé lamenti e piagnistei essa deve decretare: 'Solo la ricchezza è piacevole '_ Dei veri poveri essa non sa che farsene. Neppure l'idillio costituisce una vera e propria eccezione a questo principio ››.5° Di conseguenza, anche la possibilità di una psicologia artistica viene ristretta e privata dei suoi veri oggetti: « Perché l'elemento estetico renda, con estrema conseguenza, co-
58 mico ogni autotormento, è facile a comprendersi, proprio perché nel far ciò è rigidamente conseguente. L'estetica presuppone un rapporto immediato tra forza e sofferenza: quella è nell'uomo, questa lo raggiunge dall'esterno. Perciò l'estetica deve preservare il suo eroe dalla brama morbosa di tormentare se stesso. Che questi si ripieghi sul suo intimo, essa non può considerarlo che come una diserzione; e non potendo fucilare il disertore lo rende ridicolo ›› .51 Così l'estetica di Kierkegaard trascende contenutisticamente in « atteggiamento estetico ››; se per lui l°esistenza estetica è quella della pura immediatezza, quest'ultima viene a costituire per lui l'unico oggetto della poesia: « La poesia ha a che fare con l'immediatezza. Perciò essa non può pensare una duplicità. Se per un unico momento si ammette il dubbio che due amanti possano non essere amanti sicuri in modo assoluto, che possano non essere in se stessi pronti in modo assoluto all'unione nell'amore, allora la poesia si allontana risolutamente dai colpevoli: ' Vedo che tu non ami, e perciò non posso occuparmi di te '. In questo la poesia ha ragione. Se in tale compito essa sbaglia, non fa che rendere ridicola se stessa, come è già accaduto abbastanza spesso in questi ultimi tempi ››.” Per Kierkegaard l'elemento estetico, sia come arte sia come atteggiamento «non ha nulla a che fare con l'interiorità ››.” Solo questo delinea in
59 pieno la figura scurrile della sua estetica. Se una soggettività autonoma e capace di scegliere infrange il diritto degli oggetti, il prezzo che deve pagare in cambio è se stessa. Nella sua concretezza non può conformarsi come oggetto artistico: negli oggetti essa si ritrova soltanto come schema di idee prestabilite e tramandate, che non emanano da tale soggettività allo stesso modo come essa non si mette alla prova in loro. Kierkegaard si appella a Hegel che corresse « l'espressione del soggetto sfrenato nella sua parimenti sfrenata mancanza di contenuto» 54 col « reintegrare il contenuto, l'idea, nei loro diritti ››.” Ma qui egli crede di ricavare da Hegel delle tesi che in realtà appartengono al diciottesimo secolo. Con l'equiparazione di « contenuto ›› e « idea ››, egli si riferisce a una ontologia delle arti naturale-razionale e predialettica. Questa si rivela nella statica delimitazione delle arti che Kierkegaard intraprende nonostante che, richiamandosi a Schelling,” egli volesse seguire « in maniera dialettica e storica lo sviluppo dell'esteticamente bello ››:57 « L'elemento della musica è il tempo; ma la musica non esiste nel tempo, essa risuona e insieme si smorza; esiste solo nell'attimo in cui sorge e svanisce. Di tutte le arti, è la poesia che più d'ogni altra fa valere il significato del tempo, e proprio per questo essa è la più perfetta di tutte le arti ››.”
60 La classificazione delle arti è altrettanto antiquata quanto inadeguata alla loro figura. Infatti il tempo fa parte proprio delle condizioni costitutive della musica. Nella sua disposizione formale, nell'alternarsi di ripetuto e di nuovo, nel concetto del lavoro di motivi e di temi e di tutta la sua « tettonica ››, si producono, proprio in virtù del suo decorso temporale, rapporti che oggettivano in durata l'effimero risuonare, il singolo momento musicale isolato. Del tutto assurda è la sua affermazione che la musica «esiste soltanto in quanto viene ripetuta... esiste soltanto nel momento in cui viene suonata ››.” Nel testo scritto, che è leggibile non altrimenti che un testo letterario, la musica ha una sua esistenza indipendente dal risuonare nel momento. Pur sostenendo il contrario,6° Kierkegaard incappa nella classificazione delle arti a seconda del loro contenuto. L'idealismo della sua scelta del contenuto tende sempre a trasformarsi in barbarica credenza nel contenuto stesso. Ad alcune opere d'arte viene riconosciuto un alto rango a causa del loro contenuto, senza curarsi minimamente di come esse siano conformate. In ogni caso l'assessore Guglielmo, che per il resto ostenta volentieri ignoranza in cose d'arte, dice: « C'è un quadro che rappresenta Romeo e Giulietta; è un quadro eterno. Per quanto riguarda il suo valore artistico, la bellezza delle sue forme e dei suoi colori, non
61 mi arrogo di pronunciare un giudizio; perché non ho né il senso artistico necessario né la necessaria preparazione in campo artistico. Ma è un quadro eterno perché rappresenta una coppia di amanti e dà espressione a quanto vi è di essenziale nel loro rapporto... Giulietta è prostrata in atto di ammirazione ai piedi dell'amato ›› .G1 Ciò che nel Settecento, in qualità di estetica degli affetti, era adeguato alla grande attività artistica, ormai non riesce più a mettere insieme che apologie di meschine opere di genre. È vero che persino Hegel ne offre lo spunto: « Come si dice anche che le vere opere d'arte, per esempio le madonne di Raffaello, non godono la venerazione e non ricevono la quantità di offerte di cui invece sono oggetto le immagini sacre scadenti, meta principale di visitatori e centro di maggior tributo di adorazione e generosità; mentre nelle prime la religiosità passa oltre, perché si sentirebbe da esse evocata e interpellata nell'intimo; ma tali esigenze sono cosa estranea là dove non esiste che il sentimento di altruistico legame e di ottusità sottomessa. Così l'arte è già uscita dai princìpi della Chiesa ››.” Ma non invano compare in Hegel l'accenno al motivo teologico, il solo che possa far comprendere la grossolanità degli eccessi di Kierkegaard in campo di estetica del contenuto. E cioè la rappresentazione dell'immagine sacra, del « sim-
62 bolo» nel senso più preciso, il cui contenuto domina quale intima sostanza di verità e distrugge la forma immanente, come descrive il tardo Kierkegaard a proposito dell'immagine del Crocifisso. Questo motivo si rivolge contro l'estetica stessa. Dove Kierkegaard rimane fedele a essa, la dualità di forma e contenuto mantiene il suo carattere idealistico. L'estetica contenutistica diviene formalistica sotto il segno della « grandezza» degli oggetti: « Infatti, quegli esteti che troppo unilateralmente insistono sull'attività creatrice, hanno tanto dilatato questo concetto, che il pantheon della classicità si è talmente arricchito, anzi congestionato, di opere grottesche e insignificanti, da fare svanire completamente l'immagine che ne avevamo, di una ariosa aula in cui vivono poche e significative figure di grandi, riducendosi piuttosto a un ripostiglio. Se-
condo quest'estetica, ogni cosuccia perfetta in senso artistico è un'opera classica, alla quale è assicurata immortalità eterna; anzi questi prestigiatori apprezzano soprattutto simili cosette, e benché odino i paradossi, non temono il paradosso che, in arte, la maggior grandezza sia nella cosa più piccola. L'errore di questa asserzione risiede nel fatto che mette in rilievo soltanto l'attività formale. Un'estetica siffatta poté durare solo un determinato periodo di tempo, fino al momento cioè in cui si vide che il tempo
63 si burla di lei e delle sue opere classiche. Questo concetto era, in sede estetica, una forma di quel radicalismo che, in modo analogo, si era manifestato in tanti altri campi... ›› 63 Qui viene misurato sull'oggetto, come «grandezza ››, ciò che il soggetto trascendentale gli aveva già impresso come « idea » e come « totalità ››. Dei centri della contemplazione artistica sapeva render meglio conto la scuola hegeliana, alla quale Kierkegaard è debitore sia dell'estetica contenutistica sia della categoria della totalità. Nella Estetica del brutto di Rosenkranz, che Kierkegaard stimava molto, opera apparsa dieci anni dopo la pubblicazione di Aut aut, si dice: « La grandezza (magnitudo) in generale non è ancora sublime; venti milioni di talleri sono un gran patrimonio, che probabilmente fa molto piacere di possedere, ma è certo che non contengono alcunché di sublime. Così anche la piccolezza (parvitas) in generale non è ancora volgare. Un patrimonio che comprende solo dieci talleri è molto piccolo, ma è pur sempre un patrimonio, nel quale non vi è nulla di disprezzabile. Un paternoster scritto molto in piccolo su un nocciolo di ciliegia non per questo è brutto, ma è soltanto scritto molto in piccolo. La piccolezza può, a tempo e luogo dovuti, essere esteticamente altrettanto necessaria quanto la grandezza. Anche la soverchia piccolezza può, come la
64 soverchia grandezza, giustificarsi in un determinato caso ››.°* Kierkegaard evita questo riconoscimento, attenendosi al concetto tradizionale di classicità: «Tutte le opere classiche, come ho accennato prima, stanno tutte alla stessa altezza, perché sono tutte infinitamente in alto ›› .'35 Ma come criterio non sa indicare altro che quello dell'immortalità: « Col suo Don Giovanni Mozart entra nella piccola schiera degli immortali, il cui nome non sarà mai oscurato dal tempo, perché l'eternità li ricorda ››.“ Sotto l'appellativo di immortalità egli fa sparire l'eternità non diversamente da come altrove lo rimprovera a Hegel. Nell'arte essa è per lui legata all'astrattezza: «Credo invece che le considerazioni seguenti aprano la prospettiva di un criterio di divisione che può essere utile proprio perché è del tutto casuale. Quanto più è astratta e quindi povera
l'idea, quanto più è astratto e quindi povero il medium ››, vale a dire il materiale artistico come il suono o il linguaggio, « tanto maggiore è la probabilità che non si verifichi nessuna ripetizione, tanto maggiore è la probabilità che l'idea, quando ha trovato la sua espressione, l'abbia anche trovata una volta per sempre ››,°" che cioè l'opera sia immortale. L'astratto viene definito come l'immutabile nel tempo, il concreto come lo storicamente determinato. “B Le idee estetiche sono per lui universalia post rem, acquisite con
65 l'eliminazione degli elementi storico-specifici. Con ciò la sua estetica si incaglia in un nominalismo che alla fine le ruba l'oggetto. Non ciò che è stato sottratto al tempo mediante un'astrazione è veramente duraturo nelle opere d'arte, anzi, nella sua vacuità è la prima cosa a cader preda del tempo. Si affermano invece come duraturi quei motivi la cui recondita eternità è più profondamente immersa nella costellazione del temporale, più fedelmente custodita nel suo cifrario segreto. Le opere d'arte non obbediscono alla potenza dell'universa1ità delle idee. Il loro centro è l'elemento temporale e particolare, al quale si adeguano in quanto ne costituiscono la realizzazione figurativa; ciò che esse significano in più, lo significano unicamente nella figurazione. Lo schema di suddivisione delle arti in astratte e concrete rimane, insieme alla gerarchia della loro « eternità», puramente chimerico, perché la concrezione è richiesta in ciascuna arte c non è affatto limitata al solo linguaggio. Ancora una volta la musica sta contro le determinazioni di Kierkegaard. È vero che egli la concepisce in un certo senso come linguaggio: « Il regno che conosco, al cui estremo confine mi recherò per scoprire la musica, è il linguaggio. Se si vogliono porre i diversi mezzi espressivi in un certo ordine di evoluzione, si è costretti a mettere il linguaggio e la musica vicini; per
66 questo si dice che la musica è un linguaggio, e questo è qualcosa di più di un'osservazione spiritosa ››.” Ma il rapporto tra musica e linguaggio viene poi da lui considerato come semplice analogia, fondata unicamente sul carattere dell'organo ricettore: « La musica, oltre al linguaggio, è l'unico medium che si rivolge all'orecchio ››."° La loro differenza viene equiparata a quella esistente fra l'astratto e il concreto. « Ma che cosa significa dire che il medium è concreto, se non che si avvicina più o meno al linguaggio? ›› 71 E al contrario: « Ma quale idea è la più astratta? L'idea più astratta che si possa pensare è la genialità sensuale. Ma con quale medium si rappresenta? In un solo e unico modo: con la musica ››." Tralasciamo pure di domandarci con quale diritto la genialità sensuale possa chiamarsi l'idea più astratta; ma la determinazione della musica come il materiale più astratto conduce a conseguenze assurde. Da essa viene dedotto che il Don Giovanni è l'unico ed esclusivo capolavoro della musica, non diversamente da come in Hegel lo stato prussiano era la realizzazione della ragione universale: « La perfetta unità di questa idea ››, della genialità sensuale, « e della forma a essa corrispondente, l'abbiamo nel Don Giovanni di Mozart. Ma proprio perché l'idea è così smisuratamente astratta, e astratto è anche il medium, non vi è nessuna probabilità che Mozart possa mai avere un
67 concorrente. La fortuna di Mozart fu di trovare un soggetto in se stesso assolutamente musicale, e se qualche altro musicista volesse gareggiare con Mozart, non gli rimarrebbe altra possibilità che ricomporre il Don Giovanni... Il Don Giovanni... è e rimarrà unico nel suo genere, come le opere classiche della scultura greca. Ma poiché l'idea del Don Giovanni è assai più astratta di quella che sta a base della scultura, è facile comprendere che mentre nella scultura si hanno parecchi capolavori, nella musica ve ne è soltanto uno. Nella musica vi possono certo essere molte altre opere classiche, ma c'è un'opera sola della quale si può dire che la sua idea è assolutamente musicale, così che la musica non vi entra come accompagnamento, ma come manifestazione dell'idea, come manifestazione del suo essere più profondo. Perciò Mozart col suo Don Giovanni sta al di sopra di tutti gli immortali ››.” Più avanti di così, l'idealismo estetico non si lascia spingere: dinanzi all'unità dell'« idea ››, del concetto generale, vuoto di ogni contenuto, di « genialità sensuale ››, si contraggono insieme tutte le differenze qualitative nelle quali ha il suo fondamento l'arte, e non ne rimane canonicamente superstite che un capolavoro, triste e solitario, in quanto totalità chiusa e conchiudente. Arbitrariamente la musica viene riservata a un'astratta demonìa, e la musica ii assoluta ›› viene colpita, come in seguito nella scuola
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del George, dal verdetto: « Quando infatti la lingua finisce e comincia la musica, quando, come si dice, tutto è musica, non si va più avanti, ma indietro. È per questo che io, e gli intenditori mi daranno forse ragione, non ho mai avuto simpatia per la musica sublimata, che non crede di aver bisogno della parola. Essa di regola intende essere più elevata della parola, benché lo sia di meno ››.” Quello stesso Kierkegaard che tanto spesso sembra intuire nell'immagine di Mozart i contorni della futura storia della musica, che coglieva nel Don Giovanni il demoniaco della pura potenza naturale, quale si libera in senso musicale soltanto con Wagner, e che interpretava l'opera buffa secondo uno schema romantico ermeneutico che venne realizzato dopo di lui, quello stesso Kierkegaard non avrebbe dovuto, secondo la dottrina della sua estetica della musica, approvare neppure un solo movimento di Beethoven. Le sue intuizioni musicali, come ad esempio la descrizione della ouverture del Don Giovanni, che trova il suo corrispondente solo nelle parole di Nietzsche sul prologo dei Maestri cantori, gli furono concesse a dispetto della sua teoria. La gerarchia delle arti gli permette di arrivare a riconoscimenti teorici soddisfacenti soltanto nel campo del linguaggio. Di conseguenza la sua estetica dualistica di forma e contenuto trova nella filosofia del linguaggio la sua espressione più im-
69 pegnativa: quella dottrina della « comunicazione» che racchiude in sé la terza possibilità d'impiego del termine « estetico». Qui l'idealismo dell'estetica kierkegaardiana raggiunge il suo fondo filosofico: « L'artistico consiste nella riduplicazione del contenuto nella forma, e soprattutto bisogna astenersi da tutte le affermazioni a suo riguardo in forma inadeguata ››.” Ma in quanto pura riduplicazione, l'« estetico» è scindibile dalla sostanza e superfluo; è l'aggiunta della soggettività a un essere che ri-
mane estraneo di fronte a essa, e che essa non sa raggiungere altrimenti che non fornendolo esteriormente del suo sigillo nella comunicazione. Contrariamente a ogni pretesa della «interiorità ››, non le è concessa nella figura artistica l'unità immediata col suo oggetto. La falsa interpretazione da parte degli studiosi di Kierkegaard: che le sue attitudini di artista siano riposte nell'ornamento e non nella cosa stessa, viene incoraggiata dalla sua estetica teorica. Essa sorge nella costellazione nella quale compaiono gli elementi fondamentali di ogni filosofia idealistica, e quindi anche di quella kierkegaardiana: soggetto e oggetto. Egli vede arte, là dove un qualcosa di oggettivo, la « sostanza ››, conformata dal soggetto, « viene espressa in esistenza ››. In quanto momento dell'« esistenziale ››, la forma è per lui soggettiva. Come ogni concrezione, così anche quella dell'opera d'arte
70 viene da lui pensata quale semplice prodotto di due momenti astratti: dell'10 astratto e dell'idea astratta; perlomeno secondo l'analogia di soggetto e oggetto, di forma e contenuto. Senza esitazione egli ha trasferito la loro polarità nel campo estetico concreto e in quello dell'« espressione esistenziale ››. L'estetica di Kierkegaard non è nulla di più che lo schema di questa trasposizione. In essa non si può afferrare il significato della sua categoria dell'estetico. Tale significato è ricostruibile soltanto dalla relazione stessa fra soggetto e oggetto, e quindi dagli oscuri sfondi di una filosofia che raggiunge la sua teoria dell'arte soltanto in fuggevoli sprazzi.
II
CHE la sua pretesa di decidere circa la verità e la non verità del pensiero mediante il semplice ricorso all'esistenza del pensatore non costituisca un a priori della conoscenza, Kierkegaard stesso lo testimonia con l'intenzione originaria della sua domanda filosofica. Infatti, questa ha di mira la determinazione non della soggettività ma dell'ontologia, e la soggettività vi compare non come intima sostanza dell'ontologia bensì come suo campo d'azione. Nella Prima e ultima dichiarazione, che è la massima elevazione tra pseudonimità e parola aperta, vien detto che il significato degli pseudonimi, i quali appunto garantiscono il carattere di radicale soggettività della « comunicazione ››, non sta nel « fare una nuova proposta, una scoperta inaudita, o fondare un nuovo partito e volere andar oltre, bensì proprio nel contrario, nel fatto cioè che essi non vogliono avere alcun significato, che alla distanza concessa loro dalla doppia riflessione vogliono rileggere ancora una volta, da soli e ove possibile in maniera più profonda, il testo originale dei rapporti dell'esistenza umana individuale, l'antico, il noto e il tramandato (lai padri ››.1
L'immagine arcaica di uno scritto nel quale sia registrata l'umana esistenza esprime qual-
72 cosa di più che non soltanto l'individuo esistente. Innumerevoli paragoni kierkegaardiani aventi per oggetto lo « scritto ›› si riferiscono allo « scrittore ››; ma questi è al tempo stesso il lettore, anche il lettore del proprio scritto, per esempio secondo alcuni passi della Prima e ultima dichiarazione, la cui civetteria nasconde ma non distrugge la serietà del pensiero: « Fin da principio ho compreso molto bene, e comprendo anche ora, che la mia efficacia personale è qualcosa di imbarazzante, che gli pseudonimi nella loro maniera patetico-ostinata vorrebbero eliminare quanto prima possibile o perlomeno rendere il più possibile insignificante, ma che tuttavia, ironicamente attenti, continuano a desiderare di avere con sé come resistenza respingente ››.2 E infine l'immagine dello scritto viene avulsa dal soggetto nella teologia de L'ora: « Il Nuovo Testamento, come guida per i cristiani... diviene una curiosità storica, come una guida di un paese dove da tempo tutto si è mutato. Una tal guida non può più servire a indirizzare realmente il viaggiatore: essa ha, tutt'al più, il valore di una lettura curiosa. Dove ora si corre comodi con la ferrovia, là, secondo la guida, s'apre 'il terribile orrido del lupo, in cui si può precipitare settantamila braccia sotto la terra '; dove si siede tranquilli in un accogliente caffè, fumando placidamente il proprio sigaro, là, sempre secondo la guida, sta in ag-
73 guato ' una banda di ladroni pronta a balzare sui viaggiatori e a ucciderli ' ››.3 Il passo polemizza non tanto contro il « testo ››, il manuale stesso, quanto piuttosto contro la sua depravazione storica. È solo quest'ultima che fa del testo un cifrario. Nel paragone kierkegaardiano dello « scritto ›› sono insiti: l'irrevocabile dato di fatto del testo stesso; la sua illeggibilità in quanto è uno «scritto segreto ››; lo schema di quest'ultimo come schema di « cifrario ››; l'origine del cifrario nella storia. fƒirrevocabile dato di fatto del testo ha le sue basi nella teologia di Kierkegaard. L'immutabilità di Dio e quella della verità è un tema dei suoi Discorsi religiosi; e in Scuola di cristianesimo, dove si compenetrano sostanza « edificanle ›› e sostanza filosofica, vien detto: «Questo [scopo superiore] può essere assai vario; ma per :attirare veramente e sempre non deve essere soggetto a variazione e mutamento; dev'essere uscilo vittorioso in ogni circostanza ››.* Ciò vale tanto per il creatore quanto per la creatura: « Una generazione può imparare molto da un'altra generazione; ma quel che è propriamente umano, nessuna generazione lo impara da quella che precede ››.='* Ma il senso costante del testo costante è secondo Kierkegaard inintelligibile: la pienezza della verità divina è divenuta inaccessibile per la creatura umana. Egli ne parla in parabole, simili a quelle che solo alcune ge-
74 nerazioni più tardi un discepolo di Kierkegaard, il poeta Franz Kafka, doveva svolgere compiutamente: « Se uno mi desse anche dieci talleri, non mi assumerei il compito di spiegare l'enigma dell'esistenza. E perché poi dovrei farlo? Se la vita è un enigma, andrà certo a finire che colui che ha proposto l'enigma lo risolverà da sé. Io non ho inventato la temporalità; al contrario, ho osservato che nel Libero pensatore, nel Franco tiratore e in altri giornali del genere nei quali vengono proposti degli enigmi, la soluzione viene comunicata al pubblico nel numero successivo. Va da sé che si troverà spesso una vecchia zitella o un pensionato che vi vengono menzionati con elogio come i solutori dell'indovinello; costoro quindi hanno saputo la soluzione un giorno prima, ma la differenza non è grande ››.° Così dice un « umorista» la cui opinione è più vicina a quella di Kierkegaard di quanto egli non voglia affermare nella Postilla non scientifica. Analogamente l'« etico» nel secondo volume di Aut aut: « Siccome l'etica giace nel più profondo dell'anima, non è sempre manifesta, e chi vive eticamente può fare le stesse identiche cose di chi vive esteticamente, tanto che per molto tempo ci si può ingannare; ma alla fine giunge il momento in cui appare che chi vive eticamente ha un confine che l'altro non conosce ›› ." Ciò che è soltanto nascosto viene comunicato paradossalmente in ci-
75 frario. Come ogni allegoria, secondo l'interpretazione del Benjamin, anche questa non è solo segno ma anche espressionefi Non fa parte dei modelli ontologici, come non può risolversi in determinazioni fra gli uomini. Essa costituisce un regno intermedio. Tale regno si rappresenta negli « affetti ›› che Kierkegaard ha trattato, sotto il nome di psicologia, principalmente nel Concetto dell”angoscia e nella Malattia mortale. A ragione lo Haecker ha nettamente distinto la psicologia di Kierkegaard da quella tradizionale scientifica. Tuttavia non si può nemmeno, come Haecker ritiene ancora possibile nel suo primo saggio kierkegaardiano? equipararla all'attuale filosofia fenomenologica. Infatti, ogni fenomenologia cerca, in virtù di una ratio autonoma, di costituire direttamente un'ontologia. La psicologia di Kierkegaard invece sa a priori essere l'ontologia inaccessibile alla ratio, e tenta semplicemente di afferrarne i riflessi negli affetti. Teologicamente è ricca di presupposti; non è un'antropologia che soddisfi a se stessa. Nel Concetto dell'angoscia egli, col rapporto tra angoscia e peccato, non ha soltanto supposto gli affetti come segni cifrati di un oggetto positivo teologico, ma li ha anche definiti esplicitamente come tali: « Lo stato d'animo della psicologia è l'angoscia che cerca di rintracciare il peccato ed essa, nella sua angoscia, ne delinea il contorno, :mgosciandosi sempre di più per il disegno che
76 essa stessa produce ›› .1° Non diversamente, nella Malattia mortale, la disperazione è la cifra della dannazione: « In questo consiste il rapporto della coscienza con Dio. La coscienza funziona in modo che la relazione si accompagna immediatamente a ogni colpa e che è il colpevole stesso a doverla scrivere. Ma si scrive con inchio-
stro simpatico e perciò la scrittura si legge bene soltanto quando, nell'eternità, è esposta alla luce, mentre l'eternità esamina le coscienze ››.” Ma inaccessibilità dell'ontologia e cifrario non sono semplicemente determinazioni per l'uomo naturale. Neppure dall'evento preistorico del peccato originale essi vengono sufficientemente giustificati. La frattura tra la cifra illeggibile e la verità stessa è stata prodotta soltanto più tardi dalla storia. Ciò che Guglielmo, e quindi Kierkegaard stesso, afferma circa la « eccezione ››, contiene al tempo stesso frammentariamente la concezione kierkegaardiana della storia dello spirito: «Perché dinanzi al deserto in cui egli ha osato inoltrarsi e dove c'è da perdere più che non la sola vita, si ritrae tremando ogni uomo che sente ancora umanamente. Egli è venuto a una rottura con i rapporti fondamentali dell'esistenza umana, e così questi, che lo dovevano portare sicuro attraverso la vita, si trasformano per lui in potenze ostili ››.” La frattura esiste non soltanto fra uomo e testo. Se nella sua teologia entrambi non si stanno di fronte in
77 maniera reale, bensì rimangono reciprocamente dipendenti l'uno dall'altro, allora la rottura intacca di necessità il testo stesso. Mentre secondo ogni dottrina teologica genuina l'atto del significare e l'oggetto significato si riuniscono nella parola simbolica, per Kierkegaard nel testo il «senso» si distacca dalla cifra. Gli affetti, in quanto cifre, assorbono in sé tutta la pienezza dell'immanenza; il «senso» ne rimane fuori, come astratto desideratumzf «Io faccio questo per amore dell'idea, per amore del senso; perché non posso vivere senza l'idea; non posso sopportare che la mia vita non debba avere proprio alcun senso. Il nulla che io faccio le dà pur sempre un certo senso... ›› 13 Questo senso non deve essere originariamente estraneo all'uomo, bensì perduto in età storica: «così gli individui ora hanno orrore dell'esistenza perché essa è abbandonata da Dio, osano vivere solo in grandi comunità e si aggrappano in massa gli uni agli altri per poter essere almeno qualcosa ›› .14 Perciò la direzione retroversa della sua filosofia: «in una parola, il movimento nella mia attività di scrittore è un movimento ' all'indietro '; e benché il tutto venga da me enunciato senza ' autorità ', vi è tuttavia nel tono qualcosa dell'atteggiamento di un poliziotto che in un assembramento di folla gridi: 'indietro! ' ›› 15 La psicologia degli affetti vuole evocare, insieme al vero e proprio essere umano
78 eterno, anche il senso perduto storicamente. Ciò che Kierkegaard chiama la rottura con i rapporti fondamentali dell'esistenza umana corrisponde, nel linguaggio filosofico del suo tempo, a quel che oggi s'intende per alienazione di soggetto e oggetto. Da questa alienazione deve partire l'interpretazione critica di Kierkegaard. Non però come se essa pensasse, nell'« abbozzo ›› ontologico, la struttura dell'esistenza quale struttura di « soggetto ›› e « oggetto ››. Le stesse categorie di soggetto e oggetto sorgono storicamente. Ma proprio in esse l'interpretazione è in grado di impadronirsi della figura storica di Kierkegaard, che si dissolve nel generalmente umano là dove venga posta la domanda di un «abbozzo dell'esistenza ››. Se soggetto e oggetto sono concetti storici, essi costituiscono la premessa concreta alla dottrina kierkegaardiana dell'esistenza umana. Questa cela una antinomia
del suo pensiero, che diviene evidente nella relazione soggetto-oggetto alla quale si lascia ricondurre quell'« esser venuto a una rottura ››. E cioè una antinomia nel rapporto col « senso ›› ontologico. Kierkegaard concepisce quest'ultimo contemporaneamente in due modi contraddittori: come passato radicalmente all'Io, in pura immanenza nel soggetto, e come irraggiungibile trascendenza alla quale si è rinunciato. La libera soggettività agente è per Kierkegaard la portatrice di ogni realtà.
79 In giovinezza egli ha accettato la critica di Fichte a Kant e, benché in seguito non gli avvenga quasi mai di riformulare i problemi che pervadono la preistoria dell'idealismo fino a Hegel, non vi è alcun dubbio che la sua dissertazione di laurea dia espressione a quanto rimane tacitamente presupposto come sfondo di ogni ti comunicazione esistenziale ››; «Più l'Io, nel criticismo, si sprofondava nella contemplazione dell'10, più questo Io dimagriva e continuava a dimagrire, finché da ultimo divenne uno spettro, immortale come lo sposo di Aurora. Accadde all'Io come a quel corvo che, incantato dalle parole adulatrici della volpe, lasciò cadere l'osso che teneva nel becco. Poiché la riflessione non faceva che riflettere costantemente sulla riflessione, il pensiero aveva smarrito la giusta via e ogni passo avanti che faceva lo conduceva naturalmente sempre più lontano da ogni contenuto. Così qui si è rivelato ciò che si rivelerà in ogni tempo: che cioè, se si vuole speculare, la cosa più importante è avere il giusto punto di partenza. Il pensiero non si accorgeva affatto che quel che cercava era insito nel suo stesso cercare, e che se non veniva cercato colà non sarebbe stato possibile trovarlo in tutta l'eternità. Accadeva alla filosofia come a un uomo che va cercando gli occhiali mentre li ha già inforcati; egli infatti cerca qualcosa che gli sta davanti al naso, ma non cerca sul suo naso e per-
80 ciò non troverà mai nulla. Ma ciò che per la conoscenza era il mondo esteriore, che come un corpo duro urtava contro il conoscente, dopo di che per la forza prodotta dall'urto ciascuno se ne andava per la propria via, la cosa in sé, che persisteva con ostinatezza a tentare il soggetto conoscente (come una certa scuola nel Medioevo credeva che i segni tangibili dell'Ultima Cena vi fossero per indurre in tentazione la fede), questo mondo esteriore, questa cosa in sé costituì il punto debole del sistema kantiano. Anzi sorse il problema se l'Io stesso non fosse una cosa in sé. Fu Fichte a formulare questo problema e a darvi risposta. Egli eliminò la difficoltà di questo ' in sé ' trasportandolo entro il pensiero, rese l'Io infinito nell'Io-Io. L'Io producente è lo stesso dell'Io prodotto. L'Io-Io è l”identità astratta. Con questo egli concesse al pensiero infinita libertà››.1° A tutto ciò corrisponde ancora un passo della Postilla non scientifica, che si serve teologicamente di Fichte contro Hegel, ma che allo stesso tempo conferma la trasposizione di ogni « senso ›› in pura soggettività: « In luogo di dar ragione all'idealismo ma, beninteso, in maniera tale da respingere l'intero problema della realtà (di un in sé sottraentesi alla conoscenza) nel suo rapporto col pensiero come una contestazione la quale, pari a tutte le altre contestazioni, non può essere eliminata col cedere; in luogo di af-
81 frontare l'errore di Kant che mise la realtà in rapporto col pensiero; in luogo di assegnare la realtà al campo etico, Hegel procedette oltre, perché divenne fantastico e superò la scepsi dell'idealismo con l'aiuto del pensiero puro, il quale è una ipotesi e, se non si dichiara da solo come tale, è fantastico... ›› 17 Qui però si manifesta già apertamente la tendenza contraria. Il problema della cosa in sé non viene più risolto positivamente col principio dell'identità e con la soggettività assoluta, bensì respinto come « tentazione ››; e rimane insoluto. Per l'Io assoluto deve divenire problematica, insieme alla realtà delle cose in sé, anche quella del «senso ››; che pure dovrebbe essere insita nella spontaneità dell'Io. Anche questo riconoscimento si può ricostruire nelle opere precedenti, risalendo indietro fino alla dissertazione di laurea: ii Ma questa infinità del pensiero in Fichte è, così come ogni altra infinità in Fichte (la sua infinità morale è un continuo aspirare per amore di questo stesso aspirare; la sua infinità estetica è un continuo produrre per amore di questo stesso produrre; l'infinità di Dio è uno sviluppo continuo per amore dello sviluppo stesso), un'infinità negativa, un'infinità nella quale non è alcuna finitezza, un'infinità senza alcun contenuto. Fichte, rendendo infinito l'Io, affermò un idealismo in rapporto al quale si sbiadì l'intera realtà, un acosmismo in rapporto al
82 quale anche il suo idealismo divenne realtà sebbene fosse docetismo. In Fichte il pensiero divenne infinito, la soggettività divenne negatività infinita, assoluta, divenne infinita tensione e impulso. Per questo Fichte ha importanza per la scienza. La sua dottrina della scienza rese infinito il sapere. Ma egli lo rese infinito negativamente, e così raggiunse in luogo di verità certezza, infinità non positiva ma negativa nell'infinita identità dell'10 con se stesso; in luogo di positivo aspirare, cioè di beatitudine, egli raggiunse un aspirare negativo, cioè un dovere » .18 Insieme alla beatitudine, viene negato alla soggettività assoluta anche il « senso». L'idealista che pensava di assegnare « la realtà al campo etico», quindi alla soggettività, è al tempo stesso il nemico mortale di ogni affermazione di identità di interno ed esterno. Contro quest'ultima si rivolge il pathos della sua filosofia già con le prime parole della sua prima opera pseudonima: «Caro lettore, forse ti sono già venuti, di tanto in tanto, dei dubbi circa la verità del noto principio filosofico che l'esteriore è l'interiore, e l'interiore l'esteriore. Forse tu stesso nascondi in te un segreto, che nella sua voluttà o nel suo dolore è troppo caro al tuo animo perché tu possa iniziare ad esso degli estranei... Forse anche, nulla di tutto ciò si verifica in te e per la tua vita, e pur tuttavia quel dubbio non ti è del tutto sconosciuto: come
83 un'ombra esso, di quando in quando, ti ha sfiorato fugacemente ›› .19 Ogni nuova frase di Kierkegaard ribadisce questo pensiero. I momenti contraddittori nella disposizione kierkegaardiana di senso, soggetto e oggetto, non si separano tra loro, ma rimangono intrecciati gli uni agli altri. La loro figura si chiama interiorità. Come substanzialità del soggetto questa, nella Malattia mortale, viene fatta derivare direttamente dalla sua inadeguatezza all'esterno: « Qual è allora l'esteriorità corrispondente? Non ce n'è nessuna che 'corrisponde ', giacché un'esteriorità corrispondente, corrispondente a un intero chiuso, è una contraddizione in se stessa; perché se corrispondesse rivelerebbe. Qui (nella disperazione) l'esteriorità è del tutto indifferente, qui dove l'attitudine chiusa o, come si potrebbe anche chiamare, un'interiorità impazzita, è ciò che prevalentemente bisogna prendere in considerazione ›› .2° Se l'idealismo di Fichte nasce dal centro della spontaneità soggettiva, in Kierkegaard l'Io viene respinto su se stesso dalla strapotenza del non Io. Egli non è filosofo dell'identità, né riconosce un essere positivo, trascendente dalla coscienza. Il mondo delle cose non è per lui né proprio del soggetto né indipendente dal soggetto, ma piuttosto: esso scompare. Al soggetto non offre che il semplice «spunto» all'azione, la semplice resistenza per l'atto della fede. In
84 se stesso rimane casuale e del tutto indeterminato. Non gli compete alcuna partecipazione al «senso ››. In Kierkegaard non esistono né un soggetto-oggetto in senso hegeliano, né oggetti contenenti essere; esiste soltanto una soggettività isolata, racchiusa dall'oscuro non Io. E tuttavia solo superando questo abisso del non Io essa potrebbe trovare una partecipazione al « senso ›› che si rifiuta alla sua solitudine. Nella spinta verso l'ontologia trascendente, l'interiorità intraprende la «lotta con se stessa ››, della quale Kierkegaard tratta come « psicologo ››. Per spiegarla non occorre la psicologia; non occorre nemmeno l'ipotesi dell'inversione, tanto sull'opera quanto sull'uomo, nella quale sono concordi Schrempf, Przywara e Vetter. Il rimpianto quale affetto fondamentale in Kierkegaard si lascia dimostrare pragmaticamente nel nesso logico della sua filosofia. Benché non possano negarsi le condizioni psicologiche in conseguenza delle quali esso si afferma in Kierkegaard, è in sostanza una costellazione storica che vi si manifesta. Dal punto di vista della filosofia della storia Kierkegaard, come solitario psicologico, è meno che tutto solitario. Egli stesso è garante di una situazione della quale non si stanca di ripetere che ha perduto la realtà. Persino gli estremi del solipsismo rientrano nel suo panorama filosofico: « Ciò che dimora nell'uomo è l'unica realtà, la quale per il fatto che si
85 sa di essa non diviene una possibilità, e della quale non si può sapere soltanto pensandola, dal momento che essa è la realtà propria dell'uomo ›› .21 La soggettività salva soltanto ruderi dell'ente nell'immagine dell'uomo concreto. Nei suoi affetti dolorosi essa, in quanto interiorità priva di oggetto, rimpiange tanto le cose quanto il (( S€I1SO ››.
Il movimento che la soggettività compie per uscire da se stessa e riconquistare in sé il « senso», viene inteso da Kierkegaard col termine di dialettica. Questa non può esser pensata fin da principio come dialettica di soggetto oggetto, perché l'oggettività contenutistica non diviene mai commensurabile all'interiorità. Essa si verifica tra la soggettività e il suo « senso ››; che essa contiene in sé senza esaurirvisi e che a sua volta non si esaurisce nell'immanenza della « interiorità ››. Non è sfuggita a Kierkegaard l'affinità di tale dialettica con quella mistica. Da parte del personaggio Guglielmo, l'« etico», che nel piano dell'opera completa rappresenta il puro realista, Kierkegaard fa condurre la critica alla mistica, certamente anche per allontanare da se stesso il sospetto di misticismo. È vero che, similmente all'« etico ›› di perfetta interiorità, anche il mistico avrebbe « scelto se stesso in modo assoluto ››.” Ma mentre « quanto più si vive eticamente, tanto più la preghiera ha il carattere di proponimento ››,23 per il mistico la preghiera
86 sarebbe «tanto più significativa quanto p El è erotica ››, e diverrebbe « un po' invadente nella sua relazione con Dio ››.” Impaziente, il mistico disprczzerebbe « quell'esistenza, quella realtà in cui Dio l'ha posto ›› 25 e commetterebbe un « tradimento verso il mondo ››.” Ma con la negazione della realtà, anche l'intima sostanza della fede mistica diverrebbe precaria: « V”è sempre una certa incongruenza. Se il mistico non stima affatto la realtà, non si capisce perché non consideri con la stessa incredulità quel momento nella realtà in cui fu toccato dall'Altissimo ››.” Ciò potrebbe molto facilmente ritorcersi contro Kierkegaard stesso. Ma le sue argomentazioni non si combinano insieme. Il verdetto sul mistico non viene pronunciato secondo la misura della realtà, realtà che egli non riesce a cogliere, bensì secondo la misura della propriainteriorità: « L'errore del mistico è che egli nella scelta non diventa concreto per se stesso e nemmeno per Dio; sceglie se stesso astrattamente e perciò manca di trasparenza. ›› 28 Questa però viene determinata solo interiormente: e cioè dal pentimento.29 Perciò la concrezione etica rimane così astratta come l'atto mistico: un puro « scegliere dello scegliere ››. Questo scegliere costituisce lo schema di ogni dialettica kierkegaardiana. Non legata a nessun contenuto ontico positivo, trasformante ogni essere in uno «spunto ›› a se stessa, essa si sottrae alla definizione
87 materiale. È immanente e infinita nella sua immanenza. Kierkegaard ha sperato, è vero, di preservarla dalla cattiva infinità: « Dove... viene adoperata una mistificazione, un raddoppiamento dialettico al servizio della serietà, colà essa terrà sempre lontane soltanto la malcomprensione e la comprensione provvisoria, ma permetterà di trovare la vera spiegazione a colui che cerca onestamente ››.3° Oppure nell'atto della « scelta ›› : « L'Io che l'uomo sceglie scegliendo se stesso, deve essere già presente, affinché lo si possa scegliere; e così anche si può scegliere soltanto l'amata che si ama già. Scegliere l'amata significa soltanto accettarla ›› .31 Tuttavia la ragion d'essere della stessa dialettica immanente torna subito a rappresentarsi come funzionale: « O forse io soffro soltanto di mania di riflessione? Ho il diritto di rilasciarmi un attestato comprovante che questo non è il caso. Infatti io, nel grande andar su e giù e avanti e indietro della riflessione, ho soltanto l'unico grande pensiero che mi è chiaro come il giorno: che io faccio di tutto per svincolarla e mantenere me stesso sul vertice del desiderio ››.” Il mantenere se stesso sul vertice del desiderio non è nient'altro che movimento dialettico nella figura enigmatica irreale che gli conferisce la filosofia kierkegaardiana dell'immanenza. Qui è al suo posto la questione che Theodor Haecker solleva nel suo importante saggio sul
88 concetto della verità in Kierkegaard. Egli rimprovera a Kierkegaard che la sua dinamica soggettiva non presupponga come concesso all'uomo un essere che riposi in se stesso al di fuori della sua tensione; e vede il suo «potente errore ›› nel fatto che « il punto di partenza e in fondo l'elemento principale sia il 'come '; perché invece l'inizio, per l'uomo, è il ' che cosa ', il saldo, dogmatico 'che cosa ' della fede in un ' come ' ancora debole e quasi lontano, il sovrannaturale granello di senape, il contenuto che può essere soltanto uno e che solo corrisponde alla fede soprannaturale dell'uomo, e che nessuna passione umana, per quanto grande possa essere, riesce a strappare a forza ››.” Secondo lo Haecker, Kierkegaard sarebbe il «filosofo del divenire... in quanto spiritualista, quindi in quanto uno che secondo ogni aspettativa e secondo la natura sarebbe in fondo un filosofo dell'essere ››.” Se qui viene individuato nettamente lo schema filosofico, d'altra parte però si rende ben poco giustizia alla profondità storica dei suoi fondamenti. Kierkegaard non ha, alla
maniera neokantiana, ripensato l'essere in puro divenire. L'essere deve trovarsi insito in ogni divenire, come sua intima sostanza che però è resa inaccessibile all'uomo. È l'essere inaccessibile, il senso « cifrato ››, che produce movimento dialettico; e non il cieco impulso soggettivo. Proprio tutto ciò solleva Kierkegaard al di sopra
89 dei tentativi romantici di ricostruzione, che credono di poter ricostituire intatta, fenomenologicamente, l'ontologia. Egli preferisce lasciar errare la coscienza, senza punto di partenza e senza meta, nell'oscuro labirinto di se stessa e dei suoi passaggi comunicanti, attendendo senza speranza se in fondo al più remoto sotterraneo non debba forse spuntare, come lontano chiarore indicante un'uscita, la speranza, piuttosto che lasciarsi incantare dalla fata morgana dell'ontologia statica, le cui promesse alla ratio autonoma non si adempiono. Perciò la preponderanza del divenire sull'essere, nonostante la questione ontologica dell'origine. Nell'unità di un divenire immanente è trasferita la molteplicità qualitativa dell'essere delle idee. La tesi di Croce, che per Hegel «teoria dei distinti e teoria degli opposti diventarono... tutt'uno ››,35 colpisce anche Kierkegaard. La dialettica priva di oggetto subordina tutte le determinazioni qualitative alla categoria formale della « negazione ››. Nel senso della filosofia kierkegaardiana questa sarebbe da pensarsi come movimento della singola coscienza umana in contraddizioni. La sua struttura « intellettualistica ››, sostanzialmente razionale, non contraddice in verità alla sua intima essenza. Il Geismar, ricollegandosi allo Hirsch, ha mostrato che l'« intellettualismo ›› di Kierkegaard nella sua opera centrale, la dottrina del paradosso cristia-
90 no, è in rapporto «con l'energia con la quale Kierkegaard vuole isolare la rivelazione in Cristo da ogni altra religiosità ››.” Con la stessa evidenza l'« intellettualismo ›› può venir dedotto filosoficamente dallo stadio dell'interiorità priva di oggetto, al quale appartiene la stessa teologia del sacrificio. Dove la contemplazione delle cose viene respinta come tentazione, l'unico a dominare il campo è il pensiero, e il suo monologo si articola soltanto attraverso le contraddizioni che egli stesso produce. Solo nel decorso contraddittorio del monologo si imprime chiaramente la realtà: come storia. Anche lo scegliere dello scegliere viene pensato da Kierkegaard storicamente, e la sua storicità deve preservare dalla mistica: « In questo, infatti, sta l'eterna dignità dell'uomo, che egli può avere una storia; in ciò sta il divino in lui, che egli stesso, se vuole, può dare continuità a questa storia ››.” La concezione di una ci dialettica reale », che il moderno protestantesimo ricava da Kierkegaard quale opposto alla dialettica idealistica, è priva di fondamento. Kierkegaard non ha affatto « superato ›› il sistema hegeliano dell'identità; egli ha assimilato Hegel nel suo intimo, e raggiunge più facilmente che altrove la realtà, là dove si mantiene fedele alla dialettica storica di Hegel. È vero che egli stesso la concepisce soltanto nello schema dell'interiorità. Ma usan-
91 do questo schema egli viene messo a confronto con la vera storia. Come avversario della dottrina hegeliana dello spirito oggettivo, Kierkegaard non ha esposto una filosofia della storia. Con la categoria della « persona ›› e della sua storia interna egli vorrebbe escludere la storia esterna dall'ambito del suo pensiero. Ma la storia interna della persona si collega antropologicamente con quella esterna nell'unità della « specie ›› umana: «In ogni momento l'individuo è se stesso e la specie. Questa è la perfezione dell'uomo vista come stato. Nello stesso tempo questa è una contraddizione; una contraddizione, però, è sempre l'espressione di un compito; compito importa movimento, e un movimento che ha come termine, a cui è diretto, il medesimo compito che, appunto come medesimo, si trovava già a essere dato, è un movimento storico. Così l'individuo vive nella,storia; e se l'individuo appartiene alla storia vi appartiene anche la fspecie ›› .38 Specie e individuo debbono giustificarsi reciprocamente e senza tregua. La « persona ›› è concepita da Kierkegaard come la loro indifferenza. Essa deve contemporaneamente mantenere la chiusa compattezza della dialettica soggettiva e assegnarle il luogo adatto nella realtà. Ma l'indifferenza non si lascia stabilizzare. Un'interiorità priva di oggetto esclude categoricamente una storia oggettiva; la storia attira dentro di sé ine-
92 sorabilmente le enclavi dell'interiorità isolata. Perciò la costruzione kierkegaardiana dell'indifferenza diviene pura ambiguità. Ciò si può dimostrare in maniera decisiva col Concetto dell'angoscia, dove la determinazione del peccato originale come fenomeno primordiale, sia antropologico sia storico, deve far luce sull'essenza stessa della storicità. Kierkegaard esita a riconoscere il peccato originale quale fenomeno primordiale della storicità: « Secondo i concetti tradizionali la differenza che corre tra il primo peccato di Adamo e il primo peccato di ogni uomo è questa: dal primo peccato di Adamo risulta la peccaminosità come conseguenza, mentre il primo peccato degli altri presuppone la peccaminosità come condizione. Se questo fosse vero, Adamo si troverebbe effettivamente fuori del genere umano, il quale non comincerebbe con lui, ma avrebbe l'inizio fuori di se stesso, il che è in contraddizione con qualunque concetto ››.39 Il nuovo inizio di ogni individuo, che qui si esige affinché Adamo non stia « fuori del genere umano ››, nega però ogni vera e propria storia in quanto mutazione basilare dell'uomo. Contro ciò tuttavia compaiono dei dubbi: che importanza possa avere la « presenza della peccaminosità ››, quindi in ogni caso di quella ereditata, « in un uomo, la potenza dell'esempio e via dicendo... che importanza, del resto, queste determinazioni possano avere come momenti se-
93 condari nella storia del genere umano, come rincorsa per il salto, che però non può spiegare il salto, è un altro conto ››.*° Ma proprio l'« altro conto ›› è ciò di cui si sta discutendo. È l'indipendenza della persona dalla storia esteriore. Non appena Kierkegaard ammette questa, giunge alla tesi opposta a quella originaria: « Siccome la specie non comincia di nuovo con ogni individuo, la peccaminosità della specie acquista certamente una storia ›› .41 La contraddizione non è correggibile come se fosse una semplice inesattezza della forma logica di rappresentazione: essa si fonda su due concetti diversi della storia. Nella prima tesi infatti la storia viene pensata come « storicità ››, come possibilità astratta dell'esistenza nel tempo. Così essa fa parte della pura antropologia. Perciò viene esemplificata con l'aiuto di un fenomeno preistorico, ma in quanto preistorico anche extrastorico: Adamo. Da questi non deve « risultare la peccaminosità come conseguenza ›› perché egli altrimenti si troverebbe « fuori del genere umano ››, la qual cosa sarebbe in contraddizione col «concetto ››: addirittura col concetto generale dell'uomo storico. Esattamente ciò che costituisce la vera e propria storia: l'unicità irreversibile e irriducibile del factum storico viene respinta da Kierkegaard; secondo quanto egli afferma, è vero, soltanto perché proprio essa estrarrebbe di volta in volta dalla storia il fac-
94 tum in virtù della sua unicità, ma in effetti perché essa è contraria alla determinazione astorica generale del « genere umano ››; la determinazione dell'essere umano dotato della qualità naturale di una possibilità di storia. Ben cerca Kierkegaard di salvare il contenuto della reale unicità storica nelle categorie di salto e inizio. È bello quanto egli dice del « segreto del Primo ›› .42 E tuttavia, proprio in quanto « salto», la comparsa del Primo viene semplicemente sottratta alla continuità storica; e diviene puro mezzo all'inaugurazione di una nuova « sfera ››, per la cui natura non ha alcuna importanza il momento storico, il contenuto specifico del Primo che compare. La sua potenza storica si accenna ormai soltanto nell'atto della « presa di possesso ›› della nuova sfera. Ma il peccato originale stesso viene svuotato della sostanza storica: « Dire che esso, prima del primo peccato di Adamo, non esiste, è, quanto al peccato stesso, fare una riflessione affatto accidentale e inopportuna che non ha né valore né diritto sufficiente per rendere maggiore il peccato di Adamo o minore il primo peccato di qualunque altro uomo ››.'*3 Nella dottrina kierkegaardiana del peccato originale, la storia non è nient'altro che lo schema formale secondo il quale la dialettica soggettiva interna deve trasformarsi nella dialettica verso l'« assoluto ››. Tale dottrina pone un limite allaupura sogget-
95 tività, ma lascia il factum storico in oscura contingenza. Nella seconda tesi si afferma nella sua filosofia la storia reale. Persino l'Io privo di oggetto e la sua storia immanente sono legati alla obiettività storica. Di questo Kierkegaard si rende conto nei confronti del linguaggio: infatti, il linguaggio è contenutisticamente e qualitativamente dipendente dalla dialettica storica oggettiva ma al tempo stesso, secondo la dottrina kierkegaardiana, prestabilito ontologicamente. Egli testimonia questa ambivalenza. Dal punto di vista ontologico dice nel Concetto dell'angoscia: « Se qui si vuol fare l'obiezione che in tal modo la questione come il primo uomo imparò a parlare resta aperta, io dirò che questo è perfettamente vero ma, nello stesso tempo, che è fuori dei limiti di tutta questa indagine ››. Un'indagine di tipo «itinerario psicologico ››. « Ma qui non vorrei essere frainteso come se, secondo un'abitudine filosofica moderna, io volessi, colla mia risposta evasiva, darmi l'aria di potere rispondere alla domanda in un altro luogo. Però, sicuro è questo, che non è possibile sostenere che gli uomini abbiano inventato la lingua da sé. ›› 44 Invece gli Stadi nel cammino della vita presentano rudimenti di una teoria nominalistica del linguaggio, la quale scinde violentemente fra loro pensieri e parole e affida il linguaggio a qualcosa di « casuale ››; in ogni
96 caso però pertinente alla storia interna: « Secondo l'opinione corrente, ciò che rende impopolare una esposizione sono le espressioni artificiose della fraseologia scientifica. Questo è d'altronde un tipo di impopolarità del tutto casuale che l'erudito ha in comune, per esempio, col marinaio, il quale è anch'egli impopolare, non perché parli con la stessa profondità di pensiero, ma perché parla un gergo. Oltre a ciò, col tempo una terminologia filosofica può arrivare a esser compresa anche dall'uomo comune; e allora la rispettiva filosofia sarebbe divenuta popolare. No, non è l'espressione, è il pensiero che rende impopolare sostanzialmente una esposizione. Un artigiano sistematico può essere impopolare, senza tuttavia esserlo sostanzialmente: adoperando i suoi termini particolari egli non pensa poi un gran che... Socrate, al contrario, è l'uomo più impopolare della Grecia, proprio perché dice le stesse cose che dice l'uomo più semplice, ma vi nasconde un'infinita quantità di pensieri ››.” La paradossalità della concezione del linguaggio come qualcosa di storico e in pari tempo al di sopra della storia, ha però come conseguenza il fatto che il concetto del peccato il cui contenuto, per Kierkegaard, varia nella storia solo quantitativamente ma tuttavia è qualitativamente sovrastante a ogni storia, viene a determinarsi mediante il linguaggio anche in senso
97 qualitativo storico. Infatti 1'« innocenza ›› di ogni generazione posteriore, che secondo la sua teoria entra nella sfera del peccato solo mediante un « salto qualitativo », dispone in pari tempo, nel linguaggio, di un concetto del peccato che ha ereditato dalle generazioni precedenti. A questo dilemma Kierkegaard riesce a sottrarsi solo con l'affermazione inefficace psicologistica che, quando quella innocenza di epoche posteriori parla di peccato, in realtà non sa affatto che cosa veramente si intenda con tale parola: « Ma la sua angoscia non è angoscia del peccato, perché non c'è la differenza tra il bene e il male, che esiste soltanto mediante la realtà della libertà. Se questa differenza esiste, è soltanto come un'idea vagamente sentita la quale però, attraverso la storia della specie, può acquistare un significato maggiore o minore ›› 1"* Secondo tale affermazione, gli uomini che vivono dentro la storia sarebbero trasferiti in uno stadio di coscienza nel quale non si trovano neppure da bambini; innocenza e peccato costituirebbero, contro la sua intenzione, un continuum di diversi gradi di coscienza senza «salto qualitativo ››, e la genesi del linguaggio sarebbe relativata psicologicamente. Le aporie hanno probabilmente costretto Kierkegaard a lasciare sussistere la paradossalità fra linguaggio e storia. Anche nell'opera positivo-teologica Scuola di cristianesimo il linguaggio concreto è per lui con-
98 temporancamente un attestato di verità: « Credimi, è importante esprimersi con esattezza e verità; allora anche il pensiero è esatto e vero ››.” Ivi egli rende omaggio anche alle piaghe storiche nel corpo della creatura linguaggio, cioè le parole di origine straniera, per amore della loro funzione nella storia: « vivere in questo mondo, significa esser messo alla prova e, per usare un termine che, molto caratteristico nella sua precisione, richiama a ciascuno, con la sua estrema brevità e chiarezza, quel che occorre ricordare, la vita è un examen ››.” Se il linguaggio è la forma di comunicazione della pura soggettività e in pari tempo, paradossalmente, si rappresenta come storico-oggettivo, allora in esso l'interiorità priva di oggetto viene raggiunta dalla dialettica esteriore. Nonostante la tesi dell'astrattezza e della contingenza del mondo delle cose, l'interiorità non riesce a sottrarvisi completamente: esse vengono a brusco contatto nella ti espressione ›› e nella sua figurazione storica. L'interiorità cerca di placare l'incalzante mondo esterno scagliando l'anatema sulla storia stessa. Così sorge la lotta di Kierkegaard contro la storia, alla quale in pratica diedero lo spunto gli eventi del 1848. « In verità, solo la storia interna è la vera storia; e l'avversario con il quale deve combattere la vera storia è il principio vitale della storia, il tempo; e proprio perché la vera storia combatte col tem-
99 po anche il temporale, e quindi ogni breve momento, ha la sua realtà. ›› 4° In questa affermazione, che risale al 1843, l'eteronomia storica appare ancora come semplicemente indifferente e degna di essere trascurata. Più tardi invece l'immagine della storia diventa quella del male radicale, di cui Kierkegaard riconosce la potenza quando si infuria come segue: « Oh, se potessimo sbarazzarci dei diciotto secoli, come il pagano che bruciava le biblioteche; non potendolo, allora anche il cristianesimo è abolito. Oh, se potessimo far balzare agli occhi di tutti quegli oratori che provano la verità del cristianesimo coi diciotto secoli e che fanno seguaci, se potessimo far balzare ai loro occhi, e in tutto il suo orrore, che essi tradiscono, negano, aboliscono il cristianesimo; non potendolo, il cristianesimo è abolito ››.5° Dalla distruzione della realtà storica da parte dell'Io assoluto risulta quel motivo di «contemporaneità» nel quale la moderna teologia dialettica si illude di possedere proprio la chiave della realtà: « Di fronte all'assoluto non c'è infatti se non un tempo solo: il presente; per colui che non ne è contemporaneo l'assoluto non esiste nemmeno ››.51 Dinanzi alla « storia interna ›› scompare il mondo esteriore; quella però, in quanto « rapporto con l'assoluto ››, può esplicarsi solo come contemporaneità. Infatti, al suo tempo manca ogni fondata unità di misura;
100 essa è soltanto la forma immanente del movimento dialettico, irreale dinanzi all'« assoluto ››; così scompare la storia. Il giovane Kierkegaard ha tentato di giustificare ciò in campo gnoseologico in uno dei saggi dell'« Esteta A » il quale però in sostanza impersona la sua stessa dottrina. Questa è platonizzante, del tutto inadeguata allo schema dialettico complessivo, e perciò viene espressa subito in forma problematica: « Potrebbe venire uno e dire che il tragico è pur sempre il tragico. Contro tale affermazione non avrei molto da obiettare, in quanto uno sviluppo storico è compreso sempre dentro l'ambito dei suoi concetti; e se costui dicendo ciò che dice vuole veramente dire qualcosa, se ripetendo l'espressione 'il tragico ' non si limita soltanto a porre due lineette che racchiudono una parentesi priva di contenuto, allora non potrà effettivamente voler dire nient'altro se non che il contenuto del concetto non ha spezzato i limiti del concetto stesso, bensì lo ha ampliato e arricchito. D'altra parte però non dovrebbe essere sfuggito ad alcun attento osservatore... il fatto che fra la tragedia antica e quella moderna esiste una differenza sostanziale. Se ora un altro volesse affermare una differenza assoluta e insinuarsi, dapprima con astuzia e infine forse anche con violenza, fra il tragico antico e il tragico moderno, ciò sarebbe altrettanto assurdo; ché costui non farebbe con questo che segare il ra-
101 mo sul quale si regge, e dimostrerebbe proprio che ciò che egli voleva separare sta invece insieme » .52 Se qui la storia viene ancora dominata dalla «estensione del concetto» nel quale, secondo il modello hegeliano, si svolge la dialettica storica, più tardi invece essa si sottrae allo schema e si rappresenta ormai soltanto come minaccia all'interiorità. L'orrore dinanzi a ogni sostanza specifica storica si concreta finalmente come filosofia negativa della storia. Una tale filosofia si trova, a dispetto della «contemporaneità ››, ne L'ora, con singolare riferimento a dottrine neoplatoniche gnostiche: « In senso tutt'affatto opposto la storia è un processo. L'idea viene introdotta e si svolge così nel processo storico. Ma questo, purtroppo, non consiste in ciò che (ridicola pretesa!) l'idea venga più chiaramente esplicata, giacché essa non fu mai tanto pura come al suo primo apparire; no, consiste in ciò, che di grado in grado l'idea viene sempre più guastata, falsata, diluita a mera chiacchiera, così che avviene proprio il contrario di una filtrazione, giacché le si vengono aggiungendo gli elementi di impurità che originariamente mancavano, sino a che, alla fine, per l'opera ininterrotta di lunghe generazioni esaltantisi a vicenda, le cose giungono a tal punto che l'idea è svanita e il suo diretto opposto s'è elevato a 'idea ', che deve essere il risultato del processo
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storico in cui l'idea doveva essere rischiarata e nobilitata ››.53 Con ciò Kierkegaard accoglie, nella sua ultima polemica, tesi romantiche della sua giovinezza. Già in Aut aut Guglielmo sostiene: « La nostra epoca ricorda molto quella del disfacimento dello stato greco: tutto esiste ancora, solo che nessuno più vi crede. Il legame spirituale, invisibile, che conferisce diritto e appoggio a ciò che sussiste, è scomparso, e così la nostra epoca è al tempo stesso comica e tragica; tragica, perché tramonta, comica perché sussiste ››.5* Ciò conduce quasi fino al riconoscimento del fondamento storico dell'interiorità priva di oggetto: «Si è compreso che non importa nulla essere un uomo singolo pur così eccellente, perché nessuna differenza importa qualcosa. Dunque si è scelta una nuova differenza: essere nati nel diciannovesimo secolo n.55 Basterebbe ora soltanto il riconoscimento conseguente che veramente « nessuna differenza importerebbe qualcosa ›› , e dovrebbe stargli dinanzi agli occhi, come un'isola romantica, il suo concetto dell'interiorità assoluta dove l'uomo tenta di salvare il suo « senso ›› dall'irruente marea della storia. Ma qui egli si arresta e pensa di essere, sull'isola, protetto dai flutti. Molto caratteristica l'affermazione: « ammetto volentieri che la tendenza della nostra epoca fa spesso di un tale connubio ››; un connubio che « si è salvato dalla riflessione e dal
103 suo naufragio», «una triste necessità. Del resto non si deve dimenticare che ogni generazione, e ogni individuo dentro una generazione, cominciano la vita, fino a un certo grado, dal principio, e così a ciascun singolo è data la possibilità di salvarsi da questa fiumana... ››5° La marea della storia somiglia quindi alla fiumana distruggitrice; in questa però si afferma, libera, la persona. Solo puntualmente, per momenti, si toccano la persona e la storia. Ma nei punti di contatto si contrae, scemando sempre di più, la dimensione storica. Al concetto della « contemporaneità ›› per la rivelazione passata corrisponde, per il presente di Kierkegaard, il concetto della « situazione ››, che è stato staccato dalla continuità storica. È vero che esso contiene in sé momenti storico-reali, ma essi sono isolati e si subordinano alla persona. La situazione non è per Kierkegaard, come lo è per Hegel la storia oggettiva, afferrabile mediante una costruzione nel concetto, bensì soltanto con la decisione spontanea dell'uomo autonomo. Kierkegaard vi cerca, per parlare in termini idealistici, l'indifferenza di soggetto e oggetto. Egli riesce a farne a meno fintanto che l'interiorità si chiude ermeticamente in quanto priva di oggetto. La situazione diviene il rifugio del soggetto non appena questo èisopraffatto dall'oggettività. Perciò in lui non è contemplata direttamente la « situazione ›› stessa, bensì ne viene prima
104 prodotto dialetticamente il concetto; secondo lo schema nel quale egli rappresenta il movimento della pura interiorità, e che allo stesso tempo corrisponde grosso modo a quello hegeliano della filosofia della storia: sotto la categoria della « riflessione ››; «Sono certo cristiani, coloro ai quali egli si rivolge. Ma se sono cristiani, che cosa significa allora che egli vuole spingerli a divenire cristiani? Se invece secondo la sua opinione non sono cristiani, mentre da se stessi si dànno il nome di cristiani, ciò dimostra che la situazione può venir compresa soltanto con la riflessione. Noi dunque ci troviamo, tramite la situazione, nella sfera della riflessione; ma allora deve essere corrispondentemente riformata 1'intera tattica ››.” La stessa situazione che « pone tutto in riflessione» 58 è concepita in pari tempo come «sfera della riflessione». In ciò essa si rivela quale indifferenza soggettivo-oggettiva: in base alla sua origine oggettivo-storica essa offre lo spunto alla riflessione, ma contemporaneamente essa stessa ha le sue radici nel momento di una riflessività soggettiva che, secondo Kierkegaard, ha «annullato ogni immediatezza ››. È come riflessione che appare, nella « situazione» kierkegaardiana, la realtà storica. E cioè riflessa, rimandata indietro, nel senso letterale della parola. Più duramente la soggettività, respinta dal mondo esterno eteronomo, inqualificato o addirittura cattivo, ricade in se
105 stessa, e più chiaramente si imprime in essa, mediato, in quanto « riflesso ››, il mondo esterno. L'andamento di questo processo è affine a quello stesso dello sviluppo di Kierkegaard. Soltanto quando la sua dialettica immanente si stacca dalla realtà esteriore, quale viene ancora tollerata come immediatezza estetica e anche come « realtà mediana ›› dell'etica, la realtà agisce entro l'ambito della dialettica e questa riproduce plasticamente i contorni del mondo esterno. Il carattere polemico che pervade tutte le asserzioni di Kierkegaard circa la « situazione », non sorge dal pathos de11'« attacco profetico », che talvolta il suo tono usurpa. Nell'attacco la sua filosofia corrisponde alla dolorosa irruzione della realtà nell'interno privo di oggetto, irruzione marcata dall'indietreggiare dell'10. Di qui le opinioni di Kierkegaard in campo politico. Anche se esse perdono di vista le circostanze reali, ne vengono però conformate più profondamente di quanto non lascino supporre le sue tesi, per lo più apertamente reazionarie e provinciali-individualistiche, specialmente quelle dei Diari. La situazione è per il tardo Kierkegaard «il sussistente ››, il tradizionale. Ciò diviene, alla fine, apertamente evidente. Nella Scuola di cristianesimo e in Per una prova di se stesso, raccomandata ai contemporanei, si parla ancora del sussistente, con un rispetto che di buon grado vorrebbe dare a Cesare ciò che
106 è di Cesare, perché in verità un Cesare esiste per essa altrettanto poco quanto il possesso. Negli ultimi saggi invece, il concetto del sussistente acquista la sua vera forza, comprendendo in sé il vero e proprio stato di cose nella società: « D'altra parte, non è forse vero che ogni ragazzo, in questa nostra età così piena d'intelligenza, capisce facilmente che, nel volgere di poche generazioni, la fede che la luna sia una forma di cacio potrebbe divenire (almeno secondo la statistica) la religione dominante in Danimarca, se allo stato venisse l'idea di diffonderla come tale e a questo scopo decretasse di pagare mille stipendi per impiegati con famiglia e di assicurar loro rapida carriera, e se esso perseverasse in questo suo divisamento? ›› 5° Il rapporto tra Chiesa e Stato sta per lui in primo piano. Ma il suo attacco lo porta abbastanza lontano da fargli intravedere questo rapporto nel suo fondamento sociale economico: « Naturalmente ciò costa denaro, perché senza denaro non si ottiene nulla in questo mondo, neppure una garanzia per la vita eterna in un altro mondo; no, senza denaro non si ottiene nulla in questo mondo ››.°°
Affermazioni di questo genere, che fin troppo facilmente potrebbero spostarsi dai rappresentanti della religione alla religione stessa, si trovano in Georg Büchner. Il motivo economico della società viene formulato con la mas-
107 sima chiarezza nell'antitesi: « Se consideriamo gli ' eletti', i testimoni della verità che hanno sacrificato tutto per il cristianesimo, siamo costretti alla conclusione: il cristianesimo deve essere realtà. Se consideriamo il parroco, siamo costretti alla conclusione: il cristianesimo non è la verità, ma il profitto è la verità ›› .°1'Per Kierkegaard il mondo esterno diventa reale solo in quanto reietto. Perciò, nella « situazione ››, la sua dialettica esce fuori dal chiuso dell'immanenza. La situazione le oppone come proprio fondamento il presente reietto; in quanto protesta, essa è costretta alla «riflessione ››. Quando egli si appoggia volentieri ad autori materialisti della sinistra hegeliana come Börne e Feuerbach contro il Vacuo idealismo dell'identità, contro una cristianità nella quale egli presume una conoscenza minore dell'essenza del cristianesimo che non proprio in Feuerbachfiz è possibile che dietro 1'intenzione ironico-dialettica si nasconda una segreta affinità. In L'ora è accumulata sufficiente sostanza esplosiva materialistica, e l'aut aut dell'interiorità, una volta scosso dal peso dell'ente, deve capovolgersi altrettanto radicalmente nell'antitesi quanto Kierkegaard sostiene la tesi. Il motivo reale nel « sussistente ›› però, che viene liberato dalla « situazione », non è altro che il riconoscimento della reificazione della vita sociale, de1l'alienazione
108 dell'uomo da una realtà che gli viene avvicinata ancora soltanto come merce. Ciò chiarisce lo spunto della relazione soggetto-oggetto in Kierkegaard. Nella sua filosofia il soggetto conoscente non può raggiungere il suo correlato oggettivo più di quanto, in una società dominata da valori di scambio, non siano accessibili agli uomini le cose nella loro « immediatezza ». Kierkegaard ha intuito le miserie di una società capitalistica ai suoi inizi. A esse si oppone in nome della perduta immediatezza che egli custodisce nella soggettività. Non analizza né la necessità e il diritto della reificazione, né la possibilità di correggerla. E tuttavia, pur essendo più estraneo allo studio dei rapporti sociali che qualsiasi altro dei pensatori idealistici, ha notato la relazione che intercorre tra reificazione e forma della merce in un paragone che basta prendere semplicemente alla lettera perché corrisponda a teorie marxistiche. In Scuola di cristianesimo dice, nel 1850: «Ma considerare può significare in un senso che si giunge vicinissimi all'oggetto da esaminare, e in un altro che se ne resta molto lontani, infinitamente lontani, personalmente lontani. Quando si mostra un quadro a qualcuno invitandolo a considerarlo o quando, nella vita ordinaria, si considera ad esempio la qualità di una stoffa, ci si avvicina all'oggetto; nel secondo caso, lo si prende addirittura in mano, lo si palpa, in breve ci
109 si avvicina a esso il più possibile; ma in un altro senso, proprio per questo movimento si esce 1nteramente da sé, ci si allontana da sé, ci si dimentica, e nulla rende l'uomo conscio di questo distacco, perché è l'uomo a considerare il quadro e la stoffa, e non viceversa. In altre parole, quando considero un oggetto, io entro in questo oggetto, divento oggettivo, ma esco e mi allontano da me, cesso di essere soggettivo ›› _” Ma il cristianesimo salva dalle miserie della reificazione: « perché, oserei dire, essa [la verità cristiana] ha occhi suoi per vedere ed è anzi tutt'occhi ››.°4 La verità non è reificabile. Essa è lo sguardo divino che, quale intellectus archetypus, si posa sulle cose alienate e le redime dal loro incantesimo. Colpiti dall'incantesimo sono, insieme alle cose, anche le relazioni umane e gli uomini stessi: «Qualche considerazione! Lo si vede bene dalla sua [del predicatore] fisonomia; il suo sguardo è assente; piuttosto che a un uomo egli assomiglia a una statua di pietra dallo sguardo vuoto... In tal modo la personalità del predicatore si è cancellata; egli non è più un Io, ma il problema, l'argomento considerato. Nello stesso tempo si cancella anche l'uditore, il ' Tu ', tu che siedi e ascolti, tu a cui si parla. E si arriverà presto al punto di pensare che rivolgersi agli altri in questa forma significhi ' far delle allusioni personali '. Con quest'espressione si intende un procedimento privo di cortesia e of-
110 fensivo; non conviene dunque parlare da persona a persona (io che parlo, tu che ascolti) ››.'-"5 L'interiorità attacca gli uomini reificati e infrange il suo stesso incantesimo: «Quando la porta dell'interiorità è stata per lungo tempo chiusa e viene finalmente spalancata, essa non si apre silenziosamente come un usciolo che giri sui cardini ››.'-"B Certo, la porta si apre solo per il momento. Infatti: « Ogni cosa del mondo visibile, asservito alla legge dell'indifferenza », la reificazione, « è nelle mani di chi possiede. A chi lo possiede obbedisce lo spirito dell'anello, ora Nureddin ora Aladino. E chi detiene i poteri del mondo ne è signore, qualunque sia il modo con il quale li abbia ottenuti. Non accade però la medesima cosa nel mondo dello spirito ››.°7 Così un piatto- idealismo si consola sulla « situazione ››; esso si suddivide comodamente i suoi oggetti secondo interno ed esterno, spirito e natura, libertà e necessità. L'appellativo adeguato alla « situazione ››, intesa come indifferenza impotente momentanea di soggetto e oggetto, non è il castello feudale col quale Kierkegaard paragona romanticamente l'interiorità. Non ha neppure bisogno di essere statuito sociologicamente in semplice «coordinazione» con Kierkegaard, bensì è già presente pragmaticamente nella sua opera. E cioè nella metaforica degli interni delle abitazioni, la quale si palesa, è vero, solo all'atto dell'inter-
ll1 pretazione, ma pur tuttavia provoca di per se stessa Finterpretazione con la sua evidentissima autonomia. È l'inté'rieur borghese del diciannovesimo secolo, di fronte alla cui composizione ogni discorrere di soggetto, oggetto, indifferenza, situazione, impallidisce in astratta metafora, benché in Kierkegaard l'immagine stessa dell'intérieur, in quanto pura metafora, garantisca la concatenazione dei concetti fondamentali. Il rapporto si rovescia non appena l'interpretazione rinuncia alla costrizione dell'identità, esercitata ancora dall'idea kierkegaardiana della situazione che compare unicamente come il luogo adatto a una decisione interiore. I critici filosoficamente informati non hanno fino a oggi mai degnato della loro attenzione l'z`ntérieur di Kierkegaard. Soltanto la modesta biografia di Monrad rivela in un passo d'essere a conoscenza del vero stato di cose: « E come si dispiegava, accompagnata dall'arte di rappresentare e di travisare, come germogliava rigogliosa la sua fantasia in quelle passeggiate dentro la stanza! Dentro la stanza! È innegabile che ovunque, in Kierkegaard, si sente qualcosa di rinchiuso; e che nella sua immane produzione ci spira incontro come un'aria di serra ››.“3 Il Geismar cita da un'opera giovanile di Kierkegaard una descrizione di quelle « passeggiate dentro la stanza», che getta una luce singolare sulla produzione del singolo isolato. Di un « Jo-
112 hannes Climacus ›› , lo pseudonimo che celerà in seguito il punto di vista personale di Kierkegaard, si narra ivi quanto segue: « Allorché Giovanni chiedeva il permesso di uscire, questo per lo più gli veniva rifiutato; e invece suo padre gli proponeva spesso, in cambio, di passeggiare su e giù per la stanza tenendolo per mano. A prima vista ciò costituiva un risarcimento ben misero, e tuttavia... vi si celava qualcosa di completamente diverso. La proposta veniva accettata, ed era in piena facoltà di Giovanni decidere dove volessero andare. Allora uscivano dal gran portone, s'incamminavano verso un vicino castello di diporto, 0 fuori verso la spiaggia, oppure se ne andavano in giro per le strade, proprio come voleva Giovanni; ché il padre poteva tutto. Mentre passeggiavano così per la stanza, il padre raccontava tutto ciò che vedevano; salutavano i passanti; le carrozze li sfioravano coprendo col loro rumore la voce del padre, e i frutti canditi della pasticcera erano più che mai allettanti... ›› 6” Così il ƒláneur va a passeggio nella sua stanza; la realtà gli appare soltanto riflessa dalla pura interiorità. Ma c'è di più: al centro delle costruzioni filosofiche del giovane Kierkegaard compaiono immagini di interni d'abitazione che sono, è vero, generate dalla filosofia, dallo strato della relazione soggetto-oggetto nell'opera stessa, ma che in virtù degli oggetti che esse trattengono oltrepassano i confini
ll3 della filosofia. Come nell'intérieur metaforico si intrecciano gli intenti della filosofia kierkegaardiana, così l'intérieu† è al tempo stesso l'ambiente reale che ne dimette da sé le categorie. Il motivo principale della riflessione appartiene all'inte'rieur. Il seduttore comincia così una sua annotazione: «Volete finirla una buona volta? Che avete combinato tutta la mattinata? Avete tirato la mia tenda, avete smosso il mio specchio riflettore, avete giocato con la corda del campanello del terzo piano, bussato ai vetri delle finestre, insomma vi siete fatti notare con ogni genere di schiamazzi ››."° Può anche darsi che lo « specchio riflettore ›› sia stato introdotto da Kierkegaard ancora con intenzionata casualità, come « simbolo ›› per il seduttore riflesso. Ma con la sua presenza è stata fissata un'immagine nella quale, contro la volontà di Kierkegaard, si condensavano elementi sociali e storici. Lo specchio riflettore è un caratteristico arredamento delle spaziose abitazioni d'affìtto dell'ottocento (che si tratti di case non padronali è deducibile dall'accenno al « campanello del terzo piano» che deve essere abitato da altri inquilini se è fornito di campanello proprio). La sua funzione è di proiettare nell'interno circoscritto di un appartamento borghese la strada con la sua fila infinita di casamenti analoghi, sottomettendola all'appartamento e al tempo stesso delimitando questo mediante la strada,
l 14 come nella filosofia di Kierkegaard la « situazione ›› è sottomessa alla soggettività e tuttavia la delimita. All'epoca di tale filosofia, ossia nell'ottocento, gli specchi riflettori venivano chiamati generalmente « spioni ››; e così Kierkegaard chiama se stesso ancora nel suo ultimo resoconto: « che io infatti sono per così dire uno spione al servizio di qualcosa di più alto, al servizio dell'idea, e come tale ho il compito di guardarmi intorno nel campo dell'intellettualità e della religiosità e di spiare come l' ' esistere ' si accordi col conoscere e la ' cristianità ' col cristianesimo ›› .71 Ma colui che sta a guardare nello specchio-spia è l'uomo che fa vita privata, l'inattivo, escluso dal processo di produzione de1l'economia. Lo specchio testimonia la mancanza di oggetto (esso porta nella stanza solo la parvenza delle cose) e l'isolamento del privato. Perciò specchio e rimpianto vanno insieme. Cosi Kierkegaard ha applicato il paragone dello specchio negli stessi Stadi: « C'era una volta un padre e un figlio. Un figlio è per così dire uno specchio nel quale il padre si vede; e viceversa il padre è per il figlio, per così dire, uno specchio nel quale questi vede se stesso come diverrà un giorno. E tuttavia raramente costoro si osservavano formulando tali pensieri; generalmente essi si intrattenevano in conversari pieni di buonumore e di vivacità. Ma pure talvolta il padre restava silenzioso al cospetto del figlio, lo
115 osservava con espressione rattrístata e gli diceva: ' Povero ragazzo mio, tu vivi in una tacita disperazione ' » ."2 Nel simbolo dello specchio, in quello arcaico come in quello moderno, la malinconia compare come prigionia del puro spirito in se stesso. Questa prigionia è però in pari tempo una prigionia nel rapporto di natura: nell'ambiguo legame tra padre e figlio. L'immagine dell'inte'/rieur attrae dentro la sua prospettiva tutta la filosofia di Kierkegaard, proprio perché in essa i momenti di natura antichissima e costante della sua dottrina si rappresentano con immediatezza, come momenti della costellazione storica sotto il cui segno egli vive. Così possiamo a buon diritto cercare in un passo del Diario del seduttore la chiave di tutta la sua opera: « Le cose circostanti e la cornice di un quadro sono di grande importanza, perché si imprimono nella memoria e in tutta 1'anima profondamente e fermamente come il quadro stesso, e vi rimangono indimenticabili. Per quanto m'inoltrerò negli anni, mai mi potrò raffigurare Cordelia altrove che in questa piccola stanza. Quando vado a farle visita, ella già mi viene incontro dalla sua camera mentre io apro la porta della sala; così i nostri sguardi s'incontrano, prima ancora ch'io abbia varcato la soglia. Quella stanza è un po' piccola, ma molto simpatica. Io e Cordelia sediamo sul sofà: di lì più che da altri punti
116 mi piace osservare l'ambiente. Davanti a noi sta la tavola da tè, coperta di un bel drappo che discende in ricche pieghe fino al suolo. Sopra la tavola c'è una lampada a forma di fiore, un fiore che apre la sua corolla piena e gagliarda; intorno a essa pende un finissimo velo trapunto che continuamente si muove, tanto è leggero. La forma della lampada mi ricorda la flora dell'Oriente, e il movimento del velo l'aura dolce di quei paesi. Qualche volta la lampada diviene quasi il leit-motiv dei miei sogni; e mi sembra di esser laggiù con Cordelia, seduto sotto un fiore luminoso. Qualche altra volta mi muove a fantasticare il tappeto, tessuto di una strana specie di giunchi. Penso alla piccola cabina di una nave: e io e Cordelia veleggiamo nell'oceano immenso. E poiché sediamo lontani dalla finestra, possiamo guardare direttamente nel cielo ampio e vuoto... Dove Cordelia vive, la prospettiva non deve avere dei limiti: con colei solo si armonizza l'ardita immensità dei cieli. Ella non deve sentirsi attaccata alla terra, ma librarsi nell'aere, non camminare, ma muoversi a volo, e non distratta in qua e in là, ma sempre avanti a sé, nell'infinito ››.” Con la descrizione, l'intento filosofico di Kierkegaard incontra, senza che egli vi cooperi, gli elementi obiettivo-storici contenuti nell'intérieur. La « illustrazione ›› comincia allora a vivere la sua vita propria, che si accende al testo
117 dei suoi pensieri per consumarlo con le proprie figure. A lui interessava creare un vago «stato d'animo ›› erotico, che di per se stesso si chiarisce solo dopo che è stato creato il contorno de11'illustrazione; e la categoria dell'infinito che lega, per contrasto, la dialettica del seduttore all'intimità del personale-privato. Ma la potenza delle cose si estende ben oltre l'intento metaforico. L'intérieur si accentua contro l'orizz`onte non solo come Io finito contro la pretesa infinità erotico-estetica, bensì come interno privo di oggetto contro lo spazio. Lo spazio non rientra nel1'intérieur: ne è solo il limite. A1 limite dello spazio, viene collocato polemicamente1'intérieu1' come unico essere determinato; polemicamente uguale al «pensatore soggettivo ›› di Kierkegaard. Come la storia esterna è «riflessa» in quella interna, così nell'intérieur lo spazio è apparenza. Come Kierkegaard non ha riconosciuto l'apparenza in ogni realtà soggettiva interna puramente riflessa e riflettente, così non ha intuito l'apparenza dello spaziale nell'immagine dell'intérieur. Ma qui le cose lo tradiscono. Non a caso egli ama paragonare l'interiorità col castello feudale. Sotto il segno del castello, qualcosa di esistito in tempi antichissimi, e de1l'inte'†'ieur, qualcosa di incommensurabilmente lontano, entrambi impressi in quel che è presente e vicino, 1'apparenza acquisisce la sua potenza. Tutte le figure racchiuse nel-
118 1'ambiente dell'intérieur sono pura e semplice decorazione; estranee allo scopo che esse rappresentano, prive di un proprio valore d'uso, generate soltanto dalla dimora isolata che a sua volta riceve forma soltanto dalla loro presenza e dalla loro disposizione. La « lampada a forma di fiore ››, l'Oriente di sogno creato dall'insieme del velo trapunto sulla lampada e dal tappeto intessuto di giunchi; la stanza come cabina di una nave, piena di preziose suppellettili raccolte alla rinfusa al di là de1l'oceano; la perfetta fata morgana di ornamenti decadenti, ricevono il loro significato non dal materiale del quale sono costituiti bensì dall'inté'rieur che riunisce come in una natura morta la fallacia delle cose. Qui vengono evocati nella rappresentazione oggetti perduti. L'Io viene colto nel proprio ambito da merci e dalla loro sostanza storica. Il loro carattere apparente è prodotto storicamente ed economicamente dall'alienazione di cosa e valore d'uso. Ma nellfintérieufr le cose non persistono estranee. Esso strappa loro un significato. Nelle cose alienate l'estraneità si trasforma proprio in espressione, le cose mute parlano come «simboli ››. La disposizione degli oggetti nell'abita-
zione si chiama arredamento. Oggetti che hanno una loro parvenza storica vi vengono arredati come apparenza della natura immutabile. Si schiudono nell'intérieu'r immagini arcaiche: quella del fiore come immagine della vita orga-
119 nica, quella dell'Oriente come della patria nominale della nostalgia, quella del mare come dell'eternità stessa. Perché l'apparenza alla quale le cose sono condannate dal loro momento storico è eterna. Il creato abbandonato da Dio si rappresenta con l'ambiguità dell'apparenza, finché la realtà del giudizio non la dissolve. La parvenza della sua eternità, nell'immagine del1'intérieur, è 1'eternità della fugacità di ogni apparenza. Soltanto tutto questo conferisce al concetto della «situazione» come indifferenza il suo significato concreto. Non è soltanto, come dice la filosofia di Kierkegaard, l'indifferenza del soggettivo e dell'oggettivo, bensì quella dello storico e del naturale. L'inte'rieur è la imago corporea del « punto ›› filosofico kierkegaardiano: tutto l'esterno reale si è contratto nel punto. La stessa mancanza di spazialità può constatarsi nella struttura della sua filosofia. Questa non è sviluppata in una successione, bensì è una perfetta contemporaneità di tutti i momenti che coincidono in un punto, quello de1l'« esistere». Da ciò deriva la particolare difficoltà di ogni esposizione del pensiero di Kierkegaard, la quale deve faticosamente scindere l'attimo spaziale e temporale del suo pensiero in una vicinanza e successione. Egli stesso vi accenna nell'ironico poscritto agli Stadi: « Un pensiero mi ha talmente incatenato che non sono più riuscito ad allontanarmene ›› .74
120 Nel punto, però, la realtà non può estendersi, bensì soltanto apparire come nell'illusione ottica di uno spioncino. E tuttavia, con l'apparenza, la realtà storica si presenta come natura. Che la « situazione », quella della cristianità. e l'abitazione « moderna» siano per Kierkegaard legate insieme, è rivelato da un passo dello scritto polemico preparatorio Per una prova di se stesso, raccomandata ai contemporanei: « No; come in una casa ben costruita non c'è bisogno di scendere le scale per andare a cercar l'acqua che la pressione fa salire appena si gira il rubinetto, così vero oratore religioso è colui che, imbevuto di vita cristiana, dispone in ogni momento della vera eloquenza che preme alle sue labbra ››."5 Per indicare l'eterna prontezza della vita cristiana egli adopera un paragone tratto dal mondo della tecnica in quanto vita temporale attuale, e nella «casa ›› si fondono eternità e storia. È estremamente sorprendente il fatto che le immagini dell'ostinatezza demoniaca e legata alla natura, nella Malattia mortale, derivano dal campo della tecnica, sebbene la malattia debba ovviamente esser propria dell'uomo in quanto creatura e non in quanto individuo storico. Esse intrecciano il motivo storico della reificazione con un motivo arcaico che vi viene evocato: « No, quella sbuffata e la spinta in avanti che ne risulta non sono ciò che importa, ma la corsa
121 regolare nella quale cammina la locomotiva e che deriva da quella spinta. Lo stesso vale per il peccato ››.” Altrove Kierkegaard riunisce insieme la magia e la macchina, rivelando involontariamente il carattere demoniaco di un'esistenza soggettivo-autonoma più mediante l'immagine che non mediante il pensiero: « La minima incoerenza è una perdita immensa perché gli ›› (a una «esistenza determinata dallo spirito ››) « fa perdere la coerenza; nello stesso attimo, forse, è sciolto 1'incantesimo, la potenza misteriosa che collegava armoniosamente tutte le sue forze si affievolisce, la molla si allenta, tutto, forse, diventa un caos nel quale le singole forze si ribellano e si combattono fra di loro, con grande patimento dell'Io, nel quale però non c'è più nessuna concordia con se stesso, nessun movimento, nessun impeto. Il meccanismo enorme che nella coerenza era così pieghevole con tutta la sua durezza ferrea, così duttile in tutta la sua forza, è in disordine... ›› '” Oppure addirittura, col «segreto del Primo», l'immagine più bizzarra della tecnica dei suoi tempi: « Come colui che sale in aerostato sale buttando via cose pesanti, così il disperato cade buttando via sempre più decisamente tutto il bene ››.” Vividissimo come un lampo di magnesio, vera metafisica ammaliatrice nel senso generalmente rifiutato da Kierkegaard, sfavilla l'ultimo paragone con la ferrovia: « Al colpevole
122 che sta viaggiando attraverso la vita verso l'eternità, succede quanto è successo a quell'assassino che per ferrovia, con la massima velocità, fuggiva dal luogo del delitto e dal suo delitto; ah, proprio sotto il vagone in cui sedeva correva il telegrafo elettrico con i suoi connotati e coll'ordine di arresto alla prossima stazione. Quando arrivò alla stazione e scese dal vagone era già arrestato; egli, per così dire, aveva portato con sé la denuncia ››.” Con questo, Kierkegaard stesso ci consegna la chiave di tutti i suoi paragoni col mondo della civilizzazione. È il postulato della realtà del giudizio, nel quale tramonta e in pari tempo si adempie la parvenza delle improvvise figurazioni storiche. Queste si aggirano intorno alla dimora borghese in quanto essa è il luogo della loro realizzazione sociale e il loro potente cifrario. Così si comprende il brano più memorabile che Kierkegaard abbia dedicato alla descrizione di un intérieur: nell'opera che per molti riguardi è particolarmente importante, la Ripetizione: « Si sale al primo piano di una casa illuminata a gas, si apre una porticina: è 1'ingresso. A sinistra una porta a vetri dà in uno
stanzino. Andando diritti, si arriva in un'anticamera che dà accesso a due stanze, assolutamente uguali, identiche nella mobilia, come quando si vede una stanza riflessa in uno specchio. Quella in fondo è illuminata con gusto. Un cande-
123 labro è posto sulla tavola davanti alla quale si trova una poltrona di stile elegante, coperta di velluto rosso. La stanza anteriore non è illuminata. Il pallido chiarore della luna vi si mescola insieme alla luce più viva de1l'a1tra stanza. Si prende una seggiola, ci si siede vicino alla finestra, guardando la piazza immensa, con le ombre dei passanti che sfilano rapidamente sui muri: tutto si trasforma in una decorazione scenica. L'anima è immersa nella confusa chiarità di una realtà di sogno... Fumato un sigaro, si passa nella seconda stanza e ci si mette al lavoro. È mezzanotte passata. Si spegne la luce, si accende la veilleuse. Il chiaro di luna brilla da solo. Appare un'ombra ancora più nera, un rumore di passi mette più tempo a dileguare. Il firmamento senza nuvole è pieno di una malinconia sognante e meditativa, come se la fine del mondo fosse avvenuta e il cielo immobile assorto in se stesso ››.8° Nell'immagine della fine del mondo echeggia pianamente l'idea del giudizio, che appartiene all'aldilà, come tutto lo scenario illuminato dalla luna sta al di là dell'inte'rieur e della pura interiorità. Illuminazione a gas e poltrona di velluto rosso vi rappresentano le tracce storiche; colla falsa consolazione della fiamma che ardendo manda un suono, con la sua luce diffusa, con la meschina imitazione della porpora, esse sono al tempo stesso il rifugio dell'apparenza. Dinanzi alla luna, la luce
124 del gas fugge a ritirarsi in se stessa, come la stanza di Cordelia di fronte all'orizzonte aperto, e sopporta la strada solo come un riflesso: « l'anima è immersa nella confusa chiarità di una realtà di sogno». Incomprensibile il perché delle due stanze, il raddoppiamento che sembra riflesso in uno specchio senza invece esserlo: forse, come queste stanze, così ogni parvenza è uguale a se stessa nella storia, fintanto che quest'ultima, assoggettata alla natura, persiste nell'apparenza. Con la parola decorazione 1'apparenza della casa chiama se stessa per nome come se volesse ridestarsi. Ma nell'inte'rieur continua a sognare 1'aƒƒectus della mestizia; «come se la fine del mondo fosse avvenuta ›› essa compare e rimane nella stanza. Ancora una volta, in seguito, Kierkegaard ha riunito nel pensiero illuminazione e mestizia, quella obiettiva, che non gli si rivela come tale: « Silenzio! Silenzio! Silenzio! Non è nulla di preciso, perché non è la bocca chiusa; è la dolce luce che illumina la dimora e la sorridente accoglienza di una stanza modesta ›› ,81 dell'z`rttérieur come cellula prototipa di un'interiorità abbandonata. Anche la consolazione che può dare questa luce è apparenza, «questa pace e questo riposo più benefici per l'anima di quello che sono gli ultimi raggi di un tranquillo pomeriggio per gli occhi stanchi ››.” Dal baluginare di tale malinconia emergono i contorni dell'« amore del focolare
125 domestico» che per Kierkegaard costituisce il centro dell'esistenza.83 Ma insieme anche i contorni della sua stessa dottrina dell'esistenza. lnteriorità e malinconia, apparenza di natura e realtà del giudizio; il suo ideale di singola vita umana concreta e il suo sogno dell'inferno, che il disperato abita mentre è ancora in vita, come fosse una casa; i modelli di tutti i suoi concetti sono congiurati nella luce ingannevole di stanze future, a creare un silenzioso tableau, dal quale è necessario estrarli se si vuole sceverare ciò che in essi è vero e ciò che è fallace. Nell'imtérieur di Kierkegaard dialettica storica e eterna potenza della natura presentano la loro singolare, enigmatica immagine. È questa che deve venire risolta da una critica filosofica che cerchi di cogliere il fondamento reale della sua interiorità idealistica, nell'elemento storico come in quello preistorico.
III
PER esplicare storicamente l'immagine dell'intérieur sarebbe necessaria una sociologia dell'interiorità. L'idea di una tale sociologia è solo apparentemente un paradosso. Infatti l'interiorità, in quanto restrizione dell'esistenza umana, si colloca in una sfera privata che dovrebbe essere sottratta alla potenza della reificazione; ma in quanto sfera privata anch'essa fa parte, se pur soltanto polemicamente, della struttura sociale. In certi momenti Kierkegaard, con tono ironico modesto ma sufficientemente altezzoso, pretende per sé l'appellativo di « privato ›› : « Un pensatore di poca importanza ritiratosi a vita privata, un almanaccatore di fantasie speculative, che da inquilino povero abita una soffitta lassù, in cima a un immenso casamento, se ne sta seduto nel suo stambugio, prigioniero di pensieri che gli paiono difficili ››.1 Egli ci rivela anche, in parte, di che genere siano i rapporti sociali intercorrenti tra il mondo esterno e il pensatore che mena vita privata: « Una individualità etica veramente grande condurrebbe così la sua vita: svilupperebbe se stessa con tutte le sue forze e ciò facendo eserciterebbe forse un grande influsso all'esterno, ma questo non l'interesserebbe affatto, perché tale individualità sa bene che 1'esterno non è in suo potere e che perciò non
127 ha da significare nulla, né pro né contro n.2 Ma come dovrebbe comportarsi la persona morale, se l'esterno fosse in suo potere o se essa potesse impossessarsi di tale potere? Il mondo esterno non è stato forse riconosciuto da Kierkegaard come diverso da quello interno e come materiale dell'atteggiamento morale? E quindi la moralità stessa non sarebbe dipendente dalle condizioni storiche di tale materiale, in quanto esso è suo oggetto? Negando il problema sociale, Kierkegaard si arrende alla sua condizione sociale personale: che è quella dell'uomo privato nella prima metà dell'Ottocento. Costui è entro vasti limiti economicamente indipendente, più indipendente del proprietario di un patrimonio equivalente nell'epoca capitalistica, nella quale un patrimonio di corrispondente entità ha perso ogni autonomia in seguito alla concentrazione del capitale finanziario e al sistema della partecipazione azionistica. Allo stesso tempo però è solo « uno che vive di rendita», escluso cioè dalla produzione economica; non accumula nulla o in ogni caso infinitamente meno che un industriale fornito di un uguale patrimonio base; e non può nemmeno rendere economicamente redditizio il lavoro intellettuale che per lui è «occupazione letteraria ›› isolata, come infatti Kierkegaard nella Prima e ultima dichiarazione afferma che «perlomeno l'onorario era abbastanza socrati-
128 co ››.3 È un tipo di uomo al quale il progredire della lotta della concorrenza non lascerà in breve più alcun posto, e quindi a questa egli si oppone. Solo un paese agricolo, rimasto indietro nello sviluppo economico, gli garantisce per un certo tempo la sua sicurezza e rende possibile il suo particolare tenore di vita: secondo il Geismar, Kierkegaard, per scrupolo religioso, sdegnava di investire a frutto il suo piccolo patrimonio e lo consumava ratealmente. Nel1'antitesi moderna di ricca e piccola borghesia, il privato è altrettanto poco concepibile quanto il suo antagonista, il cosiddetto « borghesuccio ›› sempre osteggiato da Kierkegaard. Non dipendente da capitale altrui, non costretto a vendere la propria forza lavorativa, colui che mena vita privata si riserva lo « sguardo aperto ››. La sua conoscenza oltrepassa la pura immediatezza del suo milieu alla quale rimarrebbe legato il « borghesuccio ››; il disagio della propria situazione sociale non gli impedisce di abbracciare con lo sguardo l'insieme e l'« essenziale ›› ; perciò la vanitosa autoironia del tono col quale egli chiama se stesso un singolo che vive semplicemente da privato, mentre invece proprio tale condizione gli garantisce quella totalità della quale l'idealismo classico tedesco si valeva con meno complicazioni. Con l'essere escluso dalla produzione economica, ai cui «casi» egli in fondo rimane pur tuttavia esposto, concordano in Kierkegaard
129 quei tratti di carattere che dal punto di vista odierno possono dirsi «piccolo borghesi». E cioè l'odio impotente contro la reificazione, nella quale solo chi è capitalisticamente potente si sente, per parlare con Carlo Marx, « a suo agio e confermato ››, perché concepisce l'« alienazione» come sua «potenza propria ›› e possiede « in essa la parvenza di una esistenza umana ›› 4 che essa elargisce al privato soltanto revocabilmente. Anche a un'interpretazione prudente, la quale non faccia derivare direttamente le dottrine filosofiche dalla situazione economica del filosofo stesso, deve apparire evidente come conferma della kierkegaardiana « impotenza nell'esteriore ›› il fatto che egli, nelle oscillazioni della situazione politico-economica degli anni rivoluzionari, perdette somme considerevoli e di conseguenza credette di trovarsi nell'assoluta necessità di cercare un impiego. L'influsso che la sua domanda di essere assunto da Mynster ebbe sulla sua condotta posteriore nei riguardi del vescovo, va tenuto in non minore considerazione di quello che poteva avervi il sentimento di reverenza verso il « confessore di suo padre ›› : egli infatti non poteva attaccare come rappresentante di una chiesa di testimoni pagati della verità, finché era in vita, lo stesso uomo presso il quale a suo tempo aveva cercato di ottenere per sé un posto retribuito al seminario della Chiesa nazionale. Per quanto in genere non sia
130 lecito alla critica filosofica trarre i suoi argomenti da simili circostanze, bisogna convenire che dinanzi alla pretesa kierkegaardiana di identità di persona e verità esse non possono venir trascurate. Ciò nonostante, qualunque sia il rapporto tra esistenza privata e pensiero teorico, la sua stessa filosofia non può negare alcuni tratti caratteristici dell'uomo alieno da ogni forma di vita pubblica. La mancanza di qualsiasi concetto esposto di prassi (come invece lo possedeva la filosofia idealistica, da Kant e Fichte in poi) e la posizione polemica retrospettiva nei confronti dello strapotente mondo esterno sono, nella loro intima sostanza, di carattere privato. Perciò il mondo esterno, che comunque lascia alla persona diritti di riserva, cade sì in generale sotto il verdetto in quanto «mondo esterno ››, ma non in quanto specificamente capitalistico. Il rapporto diviene evidente là dove interiorità priva di oggetto deve comprendere se stessa in un'esistenza sociale: nell'etica di Kierkegaard. Il suo rigorismo morale deriva dall'esigenza assoluta della persona isolata. Egli critica ogni eudemonismo come eteronomo dinanzi al1'Io privo di oggetto: « Ma chi scorge nel godimento il senso e lo scopo della vita, sottopone sempre la sua vita a una condizione che, o sta al di fuori dell'individuo, o è nell'individuo ma in modo da non essere posta per opera dell'individuo stesso ››.5
131 L'etica autonoma della persona assoluta testimonia tuttavia nella sua sostanza oggettiva la relatività di tale persona nella società borghese basata sulle classi sociali. L'Io concreto è per Kierkegaard identico a1l'Io borghese: «non è soltanto un io personale, ma un io sociale e civile ››.6 Tuttavia con ciò egli formula proprio quelle « determinazioni di differenze ›› che l'universalità della legge morale dovrebbe escludere. Il loro fondamento è la coscienza di classe. L'universa1ità etica ha per Kierkegaard il suo limite nei negri e nelle cantanti. Negli Stadi vien detto di Otello: « Perché un moro... il quale non può esser preso per il rappresentante dello spirito... ›› 7 In una lettera a Boesen, citata a buon diritto dallo Schrempf: « In generale non c'è molto da perdere in una cantante ››.* In Timore e tremore egli si mette a un certo punto a difendere la più crassa amoralità e la stoltezza sociale, con l'ingenuità ostinata di un punto di vista di classe che non vuole intuire i rapporti sociali-economici: «Una volta, essendo troppo diminuito in Olanda il prezzo delle spezie, i mercanti per rialzarlo fecero gettare in mare alcuni carichi. Si trattava di un imbroglio perdonabile e forse giustificato ››.” E per di più, quando l'« etico ›› viene a parlare dei conflitti che possono presentarsi fra l'interiorità, rappresentata dalla vita coniugale, e la situazione materiale, la povertà, egli giustifica l'interiorità col
132 tranquillo cinismo di un individuo che viverdi modeste rendite: « Se per esempio presentiamo la povertà come una delle difficoltà contro le quali ha da combattere l'amore coniugale, io direi: ' Lavorare, e allora tutto si accomoderàl' A te invece, poiché noi dipendiamo dalla nostra fantasia, piace fare uso della licenza poetica e ribattere: ' Essi non trovano lavoro; commercio e traffici sono assai ridotti, cosicché molta gente è rimasta senza pane '. Tu ammetti un po' di lavoro, ma esso non basta a nutrirli. Io penso che potrebbero risparmiare e trarsi così dalle angustie ›› .1-° La logica dell'argomentazione testimonia contro se stessa; eppure anch'essa, per Kierkegaard, esagera. Pur riconoscendo persino l'influsso delle circostanze politico-economiche sulla possibilità di fare risparmi, egli considera l'intera crisi una « possibilità poetica tratta arbitrariamente ›› 11 da una realtà nella quale, al tempo della stesura di Aut aut, si verificava il più spaventoso impoverimento del proletariato industriale inglese. Se altrove 1'etica dell'interiorità assoluta non propugna mai abbastanza inesorabilmente le sue esigenze puritane, qui se la cava con facilità: «Sulla questione delle difficoltà esteriori voglio tuttavia citare ancora un passo di Lutero: in una delle sue prediche, parlando di povertà e di bisogno egli dice: ' Non si è ancora mai udito che un cristiano sia morto di fame ';
133 con ciò Lutero ha sbrigato la faccenda e crede certo di averne parlato con tono mellifluo e veramente edificante. E in fondo mi pare che abbia ragione ››.12 Senza critica il singolo si conforma alla tradizione della Chiesa. L'agire morale riguarda per Kierkegaard solo il «prossimo ››. Dell'effetto intenzionato della sua apologia del matrimonio egli dice: «Tramite lei ›› (la moglie) «io sono un uomo; non a torto il marito si chiama anche semplicemente ' l'uomo ' di una donna; ogni altro appellativo è, misurato a questo, un nulla, e in realtà lo presuppone. Tramite lei io sono padre: ogni altra dignità è soltanto un'invenzione umana e una trovata meschina che fra cento anni sarà dimenticata. Tramite lei io sono il capo della famiglia, il rappresentante della casata, il nutritore e il protettore dei figli. Quando si hanno tante dignità non si diviene scrittori per acquistarne una nuova. E non mi attira neppure quello che non posso pretendere. Se tuttavia io scrivo, lo faccio soltanto con l'intenzione che chi è felice come me, leggendo questo si ricordi della sua felicità; e chi ha dei dubbi, leggendo questo venga guadagnato a tale felicità. Potessi guadagnare anche un solo uomo, ciò basterebbe a rendermi contento ›› ,13 Limitandosi al prossimo, un'allocuzione etica del genere si crede anche sottratta a ogni critica oggettiva; Guglielmo «si augura che il lettore
134 non si lasci amareggiare l'eventua1e guadagno dalla manchevolezza della forma, e prega di astenersi da qualsiasi critica. Un marito che scrive sulla vita coniugale desidera meno d'ogni altro di essere criticato » .14 Ma il pathos del1'evocazione non è in grado di tener lontana la critica. Infatti il concetto del prossimo, che sta alla base dell'etica kierkegaardiana, è fittizio. Esso è valido per una situazione sociale di rapporti umani immediati, situazione che egli sa benissimo essere ormai perduta. Fuggendo dinanzi alla reificazione egli si ritira nella «interiorità ». Qui però si atteggia come se all'esterno esistesse ancora quella immediatezza il cui surrogato è l'interiorità stessa. Che uno che agisce irreprensibilmente nel senso dell'etica privata possa nondimeno agire in maniera riprovevole dal punto di vista della sua funzione oggettiva, non riducibile a interiorità, nella società, è un riconoscimento a cui Kierkegaard non giunge. Effettivamente esiste ancora, nell'ambito di un comune interesse di classe, quell'immediatezza, ovvero la parvenza di essa; la rottura de11'immediatezza è identica a quella fra le classi. Perciò 1'etica kierkegaardiana della vita concreta sensata è iniqua e ingannevole morale di classe. Teologicamente egli dà la seguente formulazione: « E che si onori ogni singolo uomo, assolutamente ogni uomo, questa è la verità ed è timor di Dio e amore del prossimo. Se però etico-
135 religiosamente si riconosce la ' massa ' » (per Kierkegaard essa è, in quanto prodotto della reificazione, l'opposto del concreto « prossimo ») « come istanza per la ' verità ', si viene con questo a negare Dio e quindi certamente non ad amare il 'prossimo '. Il 'prossimo': questa è l'espressione vera e assoluta per l'uguaglianza degli uomini; se in verità ciascuno amasse il prossimo suo come se stesso, l'uguaglianza tra gli uomini sarebbe assolutamente e pienamente raggiunta ›› .15 Ma essa non lo è là dove, sotto il dominio del valore di scambio, della divisione del lavoro e del carattere di merce del lavoro, i rapporti umani sono talmente prestabiliti che né il prossimo può comportarsi con immediatezza verso il prossimo più a lungo che per 1'attimo, né la bontà del singolo è sufficiente ad aiutarlo o tanto meno a esercitare un'influenza sulla struttura sociale. Con ciò l'etica di Kierkegaard è priva di oggetto. Essa sorge nel suo concetto della libertà. Questo non resta, come quello kantiano, nel campo dell'intelligibile, per lasciare il campo empirico in balia della necessità. Per Kierkegaard, esso stesso si costituisce nell'ambito empirico, e il mondo empirico viene tollerato solo in quanto luogo di libertà. La società si riduce allora alla cerchia di liberi « prossimi ››, e proprio le sue necessità vengono bandite come «casuali» dalle porte della filosofia. Come decide della società, così la libertà decide
136 anche dell'10, che Kierkegaard pensa solo nella sua libertà. Se in nome di questa viene negato il bisogno vitale materiale della società, allora secondo lo stesso schema si eliminano nell'Io realtà e bisogno degli istinti. L'Io assoluto di Kierkegaard è mero spirito. Il singolo non è un essere unico che si dispiega attraverso i suoi sensi, e non gli viene più concessa alcuna proprietà che non sia quella del ristretto bisogno. L'interiorità non consiste nella sua pienezza. Su di essa impera uno spiritualismo ascetico. La tesi di questo spiritualismo viene condotta alla formulazione estrema nelle Briciole filosofiche. Il rapporto tra verità e non verità viene uguagliato a quello tra essere e non essere. Dello « scolaro ››, dell'uomo su cui pesa il peccato originale e che deve essere risvegliato da Cristo si dice ivi: « In quanto egli si trovava nella non verità, e ora riceve sotto condizione la verità, si produce in lui un mutamento che è uguale al movimento del non essere verso l'essere ›› .1° La « rinascita ›› solamente spirituale che Kierkegaard vede nel fatto che « si riceve sotto condizione la verità ›› viene, in quanto trapasso dal non essere all'essere, paragonata alla nascita corporea, e con ciò la nascita stessa viene spiritualizzata: « Se ora il nato si pensa come nato, egli pensa dunque questo trapasso dal non essere all'essere. Così evidentemente deve accadere anche con la rinascita ››." È vero che Kierkegaard
137 stesso solleva fugacemente l'obiezione dello spiritualismo: «Oppure renderebbe più difficile la cosa il fatto che il non-essere precedente alla rinascita ›› (e dunque 1'essere naturale, che qui viene addirittura chiamato col nome di non-essere) « contiene più essere che non il non-essere precedente alla nascita corporea? ›› 18 Ma l'obiezione viene subito demolita con la casuistica. La tesi spiritualistica delle Briciole filosofiche vale per tutta la sua opera. Come 1'Io naturale, così per lui anche « la massa è la non verità ››.” Uomini viventi compaiono dappertutto come allegorie per la verità e la non-verità. Solo a questo punto si comprende l'insufficienza artistica: ogni substrato corporeo della contemplazione viene cancellato dalla sua filosofia e tollerato solo laddove rappresenti verità o non-verità. Molto ci illumina il fatto che Kierkegaard non riuscì a dare una produzione estetica veramente valida se non quando rappresentò i turbamenti del puro spirito stesso; cioè là dove lo spiritualismo non impedisce più la raffigurazione poetica, perché viene da essa afferrato come suo oggetto, come accade nella novella Una possibilità, contenuta negli Stadi. Dalla psicologia erotica è escluso ogni elemento sessuale; persino in indicazioni di argomenti esso viene contegnosaniente evitato.2° Se lo spiritualismo domina già sul fondo degli istinti, esso si afferma per di più con la dialettica filosofica, che
138 persino nella Malattia mortale non viene interpretata come dialettica di spirito e natura: qui lo spirito stesso si è scisso in libertà e demonìa. È chiaro che ciò apre la via al rovesciamento decisivo. Se il corpo compare solo sotto il segno del «significato» di verità e non verità dello spirito, allora in cambio lo spirito, per Kierkegaard, rimane incatenato a figure corporee in quanto esse sono la sua espressione: ivi confinato come nella parvenza dell'inte'rieur. La natura stessa, esclusa tramite la storia dal1'interno privo di oggetto, prorompe attraverso questo, e lo spiritualismo storico si costruisce una teoria naturale-antropologica degli organi. Le immagini del puro spirito che Kierkegaard adopera, sono sempre immagini della vita umana. « La mia anima è così greve che non v'è più pensiero che possa portarla, né battito d'ali sollevarla alta nell'etere ›› ,21 dice il malinconico di Aut aut, la più spirituale di tutte le maschere di Kierkegaard. Lo spirito incorporeo gli diviene pesantezza che trascina alla disperazione. L'antica dottrina somatica dei temperamenti torna stranamente nello spiritualismo idealistico. Essa :concorda bene con la psicologia kierkegaardiana degli affetti. Là dove ogni moto dell'anima, privo di diritto autonomo, non è che cifrario della verità divenuta inaccessibile, che in esso « appare ››, quivi anche il moto stesso deve essere apparizione, e come tale contempla-
139 bile paradossalmente. Quando le funzioni dell'occhio e del1'orecchio vengono scisse non tanto secondo la loro funzione nel mondo dello spazio, quanto secondo quella che hanno per l'interiore spirituale, allora l'interiore stesso viene in pari tempo suddiviso a sua volta secondo le immagini degli organi naturali. « Qui voglio interrompere questa ricerca. Forse non ti soddisferà, il tuo occhio avido se ne impossesserà senza saziarti, ma questo accade perché 1'occhio è quello che viene appagato per ultimo, se non si è affamati, come so che tu non sei, ma si smania solo per un piacere del1'occhio che non può venir soddisfatto. ››22 Di conseguenza l'occhio è l'organo della « immediatezza ›› estetica e di quell'apparenza sotto la cui specie l'immediatezza presenta unicamente all'interiorità le immagini delle cose. È possibile che a questa concezione contribuisca la distinzione tradizionale dei sensi umani in «interni» ed « esterni ››, di forma di percezione temporale e spaziale. Ma Kierkegaard, che considerava la musica del Don Giovanni come l'espressione più perfetta della « genialità sensuale ››, era 1'ultima persona a cui sarebbe potuto sfuggire il fatto che, come il senso della vista, così anche quello dell'udito conferisce qualità sensuali. E tuttavia, d'improvviso, l'orecchio gli diviene l'organo dell'interiorità stessa, il rappresentante corporeo di ciò che è incorporeo per antonomasia.
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All'inizio di Aut aut si dice in uno dei passi più marcati: « Infatti, come la voce è la rivelazione di un'interiorità che non sta in alcun rapporto commensurabile con l'esterno, così 1'orecchio è lo strumento col quale questa inte-
riorità viene percepita, e l'udito è il senso col quale essa viene appropriata ››.” Tale concetto non viene soltanto attribuito alla maschera del1'« Esteta A». Anche la Malattia mortale ribadisce lo stesso pensiero: « Così stranamente è costruita l'esistenza dello spirito dal punto di vista acustico; così strane sono le relazioni fra le distanze ››,” quando viene discussa la necessità dialettica della lontananza di Dio. Lo spiritualismo di Kierkegaard è soprattutto ostilità verso la natura. Lo spirito si pone libero e autonomo contro la natura, perché la riconosce come demoniaca: come nella realtà esterna, così anche in se stessa. Ma apparendo lo spirito autonomo come corporeo, la natura prende possesso dello spirito là dove esso si presenta con carattere più storico: nel1'interiore privo di oggetto. Di quest'ultimo bisogna cercare l'intima sostanza naturale, se si vuol procedere all'interpretazione dell'essere della soggettività stessa in Kierkegaard. La sostanza naturale del puro spirito, in se stesso « storico ››, potrà chiamarsi mitica. Kierkegaard ha introdotto il concetto di mitico, come concetto opposto al movimento sto-
141 rico e in unità con esso, nella sua dissertazione di laurea e precisamente trattando dei miti platonici. Ciò che vien detto di questi conduce alla sua stessa essenza mitica, sepolta entro la sua filosofia dell'età matura. Il suo excursus sull'Elemento mitico nei primi Dialoghi platonici prende le mosse da una « discrepanza fra il dialettico e il mitico ››,25 quale si rivelerebbe in Platone tra forma di rappresentazione concettuale e figurativa. Kierkegaard si pone il compito di far derivare tale divergenza, come necessaria, dall'oggetto e dalla sua unità. Infatti, il mitico non sarebbe libera creazione de1l'artista. Esso « ha qui un significato molto più profondo, di cui ci si convincerà anche quando si osservi che il mitico ha in Platone una storia ››.” Storia non soltanto nello sviluppo dell'opera platonica ma anche in se stesso. Già nei primi Dialoghi « lo si trova infatti in collegamento col suo opposto, la dialettica astratta ››,” che significa: concettuale. Quando Stallbaum e Ferdinand Christian Baur pongono i miti platonici «in rapporto con la coscienza del popolo ››, oppure mettono in risalto «nel mitico l'elemento tradizionale ››,2S essi individuano sì l'elemento storico nel mito, ma si fermano alla distinzione esteriore senza comprendere la forma di rappresentazione dialettica e quella mitica dal loro fondamento comune. A essi Kierkegaard contrappone l'idea di una «storia interna del mi-
142 tico ››.” Con questa egli tende alla figurazione storica del mitico nella propria opera: quella della perfetta immanenza, di cui l'inte'rieur gli diveniva l'immagine. Quale immagine egli riconosce l'unità del dialettico e del mitico in Platone: infatti il mitico, mentre « nei primi Dialoghi compare come opposto al dialettico, in quanto si lascia udire, o per dir meglio vedere, allorché il dialettico ammutolisce, nei Dialoghi tardi invece sta in un rapporto più cordiale col dialettico, vale a dire che Platone lo ha domato; e ciò significa che il mitico si trasforma in elemento figurativo ››.3° Prodotto nell'immanenza del pensiero e della sua «storia interna ››, il « mitico ›› è allo stesso tempo, in quanto immagine, visibile corporeamente, così come lo spiritualismo di Kierkegaard ne ha bisogno nella sua dialettica delle immagini corporee organiche. Organico-naturale è la produzione di questa unità nella quale i caratteri di fatticità storica e di verità ontologica, riuniti, si dissolvono: « La rappresentazione mitica dell'esistenza dell'anima dopo la morte non viene posta in rapporto né con la riflessione storica se le cose stiano effettivamente così, se Eaco, Minosse e Radamanto siano ancora i giudici dell'oltretomba, né con la riflessione filosofica sull'essere 0 meno verità. Se la dialettica che corrisponde al mitico può essere definita desiderio, brama, se può esser definita lo sguardo che si posa sull'idea per bra-
143 marla, allora il mitico è il fecondo amplesso dell'idea ›› .31 Ma che il parlare di desiderio, brama, fecondo amplesso, non manifesti, come Kierkegaard certamente intendeva, in quanto metafora separabile, la produttività del mero spirito; che invece sia piuttosto la spiritualità stessa a esservi qualificata come « mitica» e la produttività dello spirito come una produttività di natura, lo dimostra un passo con i cui elementi pragmatici la filosofia di Kierkegaard si avvicina alla consapevolezza di se stessa, più che non in qualsiasi altro punto della sua opera: «A una simile considerazione del mitico si può giungere anche partendo dall'elemento figurativo. Quando infatti in un'epoca riflettente, in una rappresentazione riflettente, si vede comparire il figurativo con molta parsimonia e in maniera tale da sfuggire facilmente, lo si vede, pari a un fossile antidiluviano, richiamare alla memoria un'altra forma di esistenza che trascinò via il dubbio, allora forse ci si meraviglierà del fatto che il figurativo abbia mai potuto avere una parte così importante ››.” Il ci meravigliarsi ›› viene respinto da Kierkegaard con ciò che segue. E tuttavia esso rivela la più profonda comprensione del rapporto tra dialettica, mito e immagine. Infatti, la natura si afferma nella dialettica non come una natura sempre viva e presente. La dialettica si arresta nell'immagine ed evoca nell'immediato presen-
144 te storico il mitico, in quanto è il passato più lontano: la natura in quanto preistoria. Perciò le immagini che, come quella dell'inte'rieur, portano dialettica e mito al1'indifferenza, sono veramente « fossili antidiluviani ››. Esse possono chiamarsi immagini dialettiche usando una espressione del Benjamin, la cui calzante definizione de1l'al1egoria vale anche per l'intento allegorico di Kierkegaard in quanto figurazione di dialettica storica e natura mitica. Secondo tale definizione « nel1'allegoria si presenta dinanzi agli occhi dell'osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio primordiale ››.” Mitica è in Kierkegaard la natura in quanto preistoria, evocata nell'immagine e nel concetto del suo presente storico. In questo senso egli ha usato molto chiaramente tale espressione ne1l'unico passo in cui, dopo la dissertazione di laurea, essa si ritrova ancora una volta accentuata: nell'interpretazione del Figaro di Mozart. Colà egli chiama il paggio una « figura mitica ››.34 Il costume storico del paggio è in pari tempo un travestimento della stessa ambigua creatura naturale; nella sua profondità indeterminata ed enigmatica vicinissimo a quel-
lo del puro spirito, di cui non si può negare il carattere mitico: « Benché il desiderio, in questo stadio, non sia determinato come desiderio, benché questo desiderio presentito sia assolutamente indeterminato riguardo al suo oggetto,
145 esso ha pure una determinazione: è infinitamente profondo... Il suo suggere non determina un suo rapporto co1l'oggetto, ma è identico al suo sospiro, che è infinitamente profondo. In armonia con la descrizione che abbiamo fatto... si capirà che è molto importante che la parte del paggio sia musicata in modo da essere adattata a una voce femminile. L'elemento contraddittorio di questo stadio è, in certo qual modo, accennato in questa contraddizione: il desiderio è tanto indeterminato, l'oggetto tanto poco distinto, che il desiderato riposa androginamente nel desiderio, come nella vita delle piante il maschio e la femmina abitano in un solo fiore. Il desiderio e il desiderato formano un'unità in cui entrambe le parti sono neutrius generis ››.* Col costume dell'androgino è presente il momento dell'apparenza, che è proprio di tutte le cose nell'intérieur; che Kierkegaard, nella dissertazione, intuì nei miti platonici e descrisse con parole che ricordano chiaramente il desiderio chiuso nel presentimento del paggio: « Infatti, non appena entra in funzione la coscienza, diviene chiaro che queste apparizioni fatte d'aria ›› (i miti) «non erano ancora l'idea. Se ora a sua volta la fantasia, dopo che è stata risvegliata la coscienza, brama di tornare indietro a quei sogni, il mitico compare sotto un nuovo aspetto, e cioè come immagine... Perciò il mitico può benissimo avere in sé qualcosa di tra-
146 dizionale. L'elemento tradizionale è per così dire la ninna nanna che costituisce anch'essa un momento del sognare; ma esso è tuttavia mitico, nel vero senso della parola, proprio nel momento» 3° e cioè, non come suppone spiritualisticamente Kierkegaard « là dove lo spirito si reca e nessuno sa di dove viene e dove si reca ›› ,37 bensì là dove l'immagine al suo apparire stana il passato dalle caverne della preistoria. Ma poiché ne11'immagine mitica del paggio « il desiderato riposa androginamente nel desiderio ››, anche l'immagine rimane immanente-spirituale. La spiritualità immanente stessa è mitica. In quanto mitica, diviene corporea. Perciò la drastica similitudine del seduttore: « Non voglio essere poeta per altri; mòstrati e io sarò il tuo poeta; poi mi pascerò della mia propria poesia e questo sarà il mio nutrimento ››.” Così l'artista, puro spirito, viene miticamente fissato al firmamento ne1l'immagine di Saturno che divora i propri figli. Perciò nella filosofia di Kierkegaard il puro spirito trascende nello spettrale, in quanto questo è il suo archetipo preistorico. Di una figura «tragica moderna ››, certamente Regine, egli dice: « La sua vita non si dispiega come quella della greca Antigone; il moto dello sviluppo è diretto verso l'interno, non verso l'esterno, la scena è al1'interno, non a1l'esterno, ed è una scena di spiriti ››.” E il seduttore, infinitamente riflesso, compare senza
147 lasciar traccia dei suoi passi, come uno spettro: « Nello stesso tempo che si sarebbe potuto dire che egli percorreva, senza lasciar tracce, il sentiero della vita (infatti i suoi piedi erano così fatti che portavano via con sé le loro tracce: questo è per me il modo migliore di rappresentarmi la sua infinita riflessità in se stesso), così non lasciava neppure, materialmente, delle vittime... ›› 4° Quando Kierkegaard intuisce il carattere mitico del puro spirito, chiama quest'ultimo demoniaco. Così soprattutto nel Concetto dell'angoscia. Qui viene interpretata storicamente l'immigrazione di natura mitica in interiorità spirituale: «Non giova molto se si fa del demoniaco uno spauracchio che si aborrisce e poi si ignora, essendo già passati tanti secoli da che si fece vedere nel mondo. Questa opinione è una grande stupidaggine; infatti, il demoniaco non è forse mai stato tanto diffuso come nei tempi nostri, solo che adesso si mostra soprattutto nelle sfere spirituali ›› .'*1 Il demoniaco, definito come « quello che è chiuso e quello che involontariamente si manifesta ››,” scaturisce dal1'accecamento col quale lo spirito autonomo si pensa assoluto: « Il demoniaco non si rinchiude insieme a qualche altra cosa, ma si chiude in se stesso; e questo è, nell'esistenza, un fatto di senso profondo, che la non libertà renda prigioniera se stessa ››.” In quanto mitica, la demonìa spezza i limiti della soggettività e diviene una non-
148 verità ontologica contro la verità ontologica di Dio: « più consapevolezza, più disperazione. Questo si vede dappertutto; ma più chiaramente nel massimo e nel minimo della disperazione più intensiva, perché il diavolo è puro spirito e per questo assoluta consapevolezza e trasparenza. Nel diavolo non c'è nessuna oscurità che potrebbe servire come attenuante; perciò la sua disperazione è l'ostinazione più assoluta ».“ Ciò si potrebbe dire altrettanto bene di una interiorità priva di oggetto, come qui vien detto dell'Io reietto, disiizzato, della pura demonìa. Infatti, a uscire dalla demonìa aiuta solo il linguaggio, che anch'esso è negato a un'interiorità la quale non sappia a priori « se esistano anche altri uomini ›› al mondo:45 « Quello che è chiuso è muto; la lingua, la parola è quello che salva, che salva dalla vuota astrazione del chiuso. Se il demoniaco è un individuo chiuso X e la libertà, da fuori, si mette in rapporto con questo X, la legge per la manifestazione del demoniaco è che esso, a malincuore, mette fuori le parole. La lingua, infatti, è la comunicazione ›› 46 con un mondo esterno che è esplicitamente bandito dall'interiorità in quanto contingente. È vero che egli rifiuta di equiparare il demoniaco al mitico naturale; e ammonisce a « non dimenticare che la non libertà ›› (come tale infatti egli pensa la demonìa) «è un fenomeno della libertà e non si può spiegare con
149 le categorie della natura ››." L'interpretazione mitica del demoniaco viene da lui affidata a una considerazione « estetico-metafisica ›› : « allora il fenomeno si presenta sotto la categoria della sventura, del destino eccetera e può essere trattato come il caso di un uomo nato deficiente 0 simili ››.” Ma egli riesce a scindere le idee di demoniaco e di destino, strettamente congiunte da tempi immemorabili, solo mediante la violenta obiezione di una teologia per la quale il demoniaco è « libero», perché essa considera lo stesso evento preistorico del peccato originale come un atto della libertà, e che si sottrae con il « salto ›› all'incatenamento nel destino. E tuttavia l'obiezione teologica non è sufficiente a separare in altro modo che con la semplice affermazione la demonìa dalla natura, la pura interiorità dal « mitico ››. Con ciò il carattere del mitico, formulato in concetti, viene attribuito, come all'interiorità assoluta di Kierkegaard, così a ogni idealismo dello spirito assoluto. Nell'idealismo radicale l'immagine mitico-storica dell'inte'rieur si esplica attraverso 1'autocoscienza filosofica. Così la concezione corrente della mitologia hegeliana della storia è in grado di giustificarsi più profondamente di quanto non creda: non come trascrizione poetica metafisica della realtà, bensì partendo dalla stessa intima sostanza mitica. «Questo è il punto nel
150 quale la filosofia di Hegel viene spinta con necessità metodica nella mitologia. ››49 Ciò è sicuro invece per quella di Baader e di Schelling. Essi non hanno soltanto accolto come «materiale» nella struttura filosofica « elementi ›› mitici. Bensì è mitico anche il fondamento di essa: l'orgoglio dello spirito, dello spirito creato che si pone in trono come creatore e sprofonda tanto più in basso nella natura quanto più crede di sfuggirle sollevandosi verso l'a1to. Nelle ultime produzioni dello spirito idealistico, soltanto la sostanza mitica penetra attraverso le cellule del concetto sviluppato sistematicamente, nel quale l'aveva confinata la critica filosofica, e prende possesso delle antiche immagini. Ma insieme al sostegno del sistema essa distrugge anche se stessa: il puro spirito, chiamato per nome, perde la sua potenza. Kierkegaard si trova allo stesso punto di rivolgimento storico dei filosofi del tardo idealismo. Come in costoro, così in lui si compie la crisi dello spirito sovrano quale emancipazione della sostanza mitica. Ma Kierkegaard non viene condotto da tale capovolgimento alla metafisica mitologica e alla filosofia « positiva ››. La sostanza mitica persevera fedele nella dialettica immanente e viene da lui bandita solo con la completa eliminazione della soggettività. Soltanto sotto la categoria del mitico si può spiegare il rapporto tra l'interiorità priva di oggetto e l'onto1ogia sbarrata, inaccessibile, alla
151 quale, in quanto verità, è rivolta la domanda di Kierkegaard. Una soggettività miticamente chiusa in se stessa si accinge a salvare, mediante l'evocazione, i « rapporti umani fondamentali ›› e il loro senso: l°ontologia. Già il seduttore si dà a conoscere come mago in un'immagine mitica: « Ma tu non puoi neppure immaginare quale sia il mio regno. Io governo le tempeste delle sensazioni. Come Eolo... ›› 5° E 1'evocazione non rimane limitata alla « sfera estetica ›› , come non rimane limitata al paragone poetizzante. È l'interiorità stessa che evoca. «Nella concezione morale della vita l'individuo deve, insomma, spogliarsi della sua interiorità per esprimerla in qualcosa di esterno. ›› 51 Così per essa l'interno è un apparato magico che, in quanto « espressione ››, evoca un intimo contenuto recondito. Il contenuto evocato però, per quanto sia interiore, non è tuttavia l'interiorità stessa: « Il paradosso della fede consiste nel fatto che c'è una interiorità incommensurabile all'esteriorità, una interiorità (si badi bene) che non è identica a quella precedente, ma è una nuova interiorità ››.” Ma questa seconda interiorità, alla quale è destinata tutta la dialettica di Kierkegaard, è la verità
evocata. L'intenzione dell'evocazione non viene da Kierkegaard elevata a concetto. La sua demonìa comprometterebbe allora la pretesa di verità dell'interiorità dialettica. Ma essa diviene evidente nella forma del suo linguaggio, più an-
152 cora che nei paragoni evocatori, contenuti negli scritti estetici, in tutta la loro prolissità. È stata spesso notata dalla critica, ma di rado dedotta nella sua necessità dall'intima essenza filosofica stessa. Non basta il noto accenno di Kierkegaard alla « vastità del dispiacere ››, la cattiva infinità nel monologo e nella dialettica del dolore. Anche la motivazione in un flusso di oratoria socratica rivela solo la sua intenzione, non l'origine; e così pure la repulsione per una succinta formulazione nel sistema, della quale testimonia per via negativa, con il suo elogio, il Ringraziamento rivolto a Lessing: « Questa spensieratezza stilistica che cesella un paragone fino nel minimo dettaglio, come se la raffigurazione avesse di per se stessa un valore, come se vi fosse pace e sicurezza, e tutto questo mentre forse il garzone del tipografo e la storia universale, anzi l'umanità intera, stava aspettando che egli avesse finito di scrivere ››.” Tutto ciò non può spiegare perché una filosofia, che diversamente da Hegel, ma anche dallo stesso Lessing, fa a meno di tutte le nozioni positive e deve sviluppare tutte le sue determinazioni dal semplice « punto» della persona, ha ciò nonostante bisogno della massima estensione spaziale della sua forma di rappresentazione. La sua legge è la ripetizione: ripetizione di formule evocatrici. La verità immutabile e inaccessibile viene invocata, in quanto è ciò che rimane sempre uguale, con
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parole sempre uguali, per l'incapacità di porre positivamente la sua sostanza o di dedurla continuamente, ma anche per la speranza che essa forse compaia quando si sia adempiuto l'esatto numero delle invocazioni. Alle ripetizioni mitiche dell'insieme corrisponde esattamente la brevità da formula del singolo particolare; alle interminabili parafrasi della Storia di sofierenze e della Postilla conclusiva non scientifica corrispondono i periodi serrati e concisi, oracoleggianti, del Concetto dell'angoscia e soprattutto de1l'esposizione dei fondamenti della filosofia esistenzialistica all'inizio della Malattia mortale. Ma l'ontologia, evocata da una volontà mitica autonoma, obbedisce al richiamo soltanto come fantasmagoria. Destino, felicità, infelicità, sono le mitiche stelle che fanno da guida a un viaggio dialettico, il quale procede ambiguamente perché « sull'oceano delle possibilità ›› del puro Io «anche la bussola è dialettica ››.54 Ambigua deve esser chiamata, in senso più stretto, la dialettica di Kierkegaard: perché, in quanto movimento di una singola coscienza umana sciolta da ogni ceppo, la quale sorge anch'essa miticamente e anche nel suo moto rimane entro l'ambito mitico, tale dialettica ha due significati. Questi vanno distinti secondo i modi dell'apparizione che assume in loro la sostanza mitica. Nel primo caso la pura natura, la parvenza mitica, viene pensata da Kier-
154 kegaard come minaccia per l'uomo che in quanto creatura peccaminosa le appartiene, ma che si eleva al di sopra di essa mediante la « libertà ››. Qui la dialettica è un processo di spiritualizzazione ovvero, nel linguaggio kierkegaardiano, di « rendere trasparente ››, che l'Io inaugura in virtù del suo spirito libero. Questa dialettica gioca fra natura e spirito, fra essenza mitica e coscienza in quanto potenze qualitativamente diverse, in tutto e per tutto contrarie; essa deve render libero 1'accesso alla riconciliazione, perché dinanzi alla lucidità pneumatica tramonta 1'apparenza mitica. Essa domina in modo assoluto nell'esplicita dottrina kierkegaardiana secondo la quale dalla smascherata irrealtà di una natura affermante se stessa sorge il vero Io, la «libertà» dell'uomo. Ma questa dialettica offre solo la facciata di un secondo, più profondo concetto di dialettica che, senza essere sviluppato teoricamente nell'opera kierkegaardiana, vi si lascia però rintracciare oggettivamente. È quello di una dialettica dentro lo stesso fondamento mitico della natura. Esso viene a collocarsi di necessità al centro di un'interpretazione che riveli criticamente il carattere mitico di ciò che in Kierkegaard compare sopra un piano soprannaturale come spirito e libertà: l'interiorità priva di oggetto. L'essenza soprannaturale dello « spirito ›› viene da Kierkegaard stesso messa in dubbio nelle
155 Briciole filosofiche con la dottrina teologica dell'assoluta trascendenza di Dio, la quale infrange ogni pretesa di libertà spirituale nell'uomo: «meno ancora egli potrà, con le proprie forze, ricondurre nuovamente Dio dalla sua parte ››.55 Ma allora l'uomo non si divide in natura e soprannaturale, due forze che disputino la loro lotta; il suo essere naturale è dialettico in se stesso, e ciò che ne11'uomo contribuisce a salvarlo fa parte della sua natura allo stesso modo di ciò che vuole perderlo. Uno schema di dialettica della natura s'intravede nel tentativo kierkegaardiano di staccare tra loro natura e demonìa; un tentativo che certamente non può riuscire nel primo piano dello spiritualismo dominante. Più chiaramente invece esso si rivela in una metaforica la quale descrive come svolgimento naturale quello stesso processo del divenir trasparente, che la coscienza deve compiere sulla natura recalcitrante: « Il mio essere era trasparente come il profondo abisso dei flutti, come il silenzio della notte, come la calma senza eco del meriggio››.5“ Se Kierkegaard spiritualisticamente osa affermare che « ognuno che nasce è per la sua nascita stessa un peccatore ››,” egli tuttavia, contrariamente a tale asserzione, accoglie nella dialettica della natura la possibilità della salvazione con la domanda posta nella 11/Ialattia mortale: «Fino a che punto la perfetta chiarezza riguardo a se
156 stesso, la chiarezza di essere disperato, si possa conciliare con l'essere disperato, cioè se la chiarezza di questa intuizione e autointuizione non dovrebbe liberare un uomo dalla disperazione, dovrebbe renderlo così spaventato di se stesso che cessasse di essere disperato... ›› 58 La chiarezza del disperato, che in quanto spirito si irretisce nella pura natura di se stesso, è però una chiarezza che produce in se stessa la dialettica mitica. Nella prigionia di perfetta immanenza, la natura mitico-ambigua viene scissa, perché essa non persiste sordamente, bensì si muove dialetticamente e questo suo moto dialettico afferra la natura dalla profondità dalla quale essa sorge, per trarla in alto salvandola. Questo moto è raffigurato nella psicologia degli affetti di Kierkegaard come il moto della malinconia. Esso appartiene all'inte'rieur, al quale lo lega lo « stato d'animo ››; la costellazione dei contenuti positivi. Come lì l'immagine storica si presenta quale mitica, così qui la pura natura, il temperamento malinconico, si rappresenta come storico, e di conseguenza però come dialettico e come «possibilità» di riconciliazione. La storia interna della malinconia è posta da Kierkegaard, come quella della soggettività in generale, in stato di indifferenza verso la storia esterna: « io intendo dire la malinconia egoistica o simpatetica. Si è già parlato tanto della sventatezza della nostra epoca; a me sem-
157 bra che avremmo motivo di parlare una buona volta anche della sua malinconia, e credo quasi che ciò potrebbe servire a risolvere diversi problemi. Malinconia, questa è la malattia della nostra epoca, ed echeggia anche nel suo fatuo riso; essa ci ha rubato il coraggio di comandare e di obbedire, la forza di agire, la fede, la speranza ››.5° Essendo «malattia dell'epoca ›› essa non è generale e priva di fondamento, bensì l'interiorità diviene malinconica in seguito al determinato conflitto con le realtà positive storiche, conflitto che il vasto paragone di Kierkegaard delinea con sufficiente chiarezza: « Ma alle bizzarre idee della mia malinconia io non rinuncio. Perché questi grilli, come forse li chiamerebbe un estraneo, questi brutti sogni, come forse li chiamerebbe lei piena di compassione, mi guidano a1l'eterna certezza dell'infinito, basta ch'io li segua senza lasciarmi atterrire. Perciò queste idee mi sono care nella mia solitudine, benché mi spaventino. Devo a loro un insegnamento della massima importanza: che io non debba, come altri fanno, congratularmi con me stesso per incomparabili scoperte in campo religioso e render felice con le mie scoperte 1'umanità, bensì che per umiliarmi debbo, per così dire, riscoprire soltanto ciò che vi è di più semplice e accontentarmi, in infinito appagamento, del più semplice... Per quale ragione in contrade remote, là dove fra una capanna e l'a1tra corre
158 mezzo miglio di strada, vi è più timor di Dio che nel frastuono delle città? Perché il marinaio ha più timor di Dio del solido cittadino? Non è forse perché nella brughiera solitaria, sul mare selvaggio, si vive veramente un'esperienza? E la si vive in modo tale che bisogna avere coraggio e fermezza? Quando la bufera notturna imperversa e il lupo affamato vi confonde il suo ululato; quando in un naufragio ci si è salvati su un'asse di legno e su di essa si va alla deriva sui flutti infuriati; quando ci si può risparmiare di gridare, perché tanto non si raggiungerebbe alcun orecchio uinano: allora si impara ad aver fiducia in qua1cos'altro che non siano guardiani notturni e gendarmi, pompieri o barche di salvataggio. Nella grande città persone e case sono fin troppo vicine e ammucchiate. Per ricevere un'impressione primitiva bisogna o che un qualche avvenimento ci raggiunga, o che si abbia un'altra strada, come io l'ho nella mia malinconia ›› .°° Le due vie, alle quali Kierkegaard qui accenna, si incontrano nella sua psicologia della malinconia e costituiscono il crocevia che secondo 1'antica credenza è il luogo più favorevole a una evocazione. L'intento del paragone è quello ontologico: l'« impressione primitiva ›› è quella che lascia nell'uomo conoscente il « testo originale dell'esistenza umana ››. Nel mondo reificato delle grandi città, i cui abitanti stessi, in
159 quanto gendarmi e guardiani notturni, «funzionari ›› de11'ordine, non sono che cose e caricature, l'intima sostanza di verità del testo è perduta storicamente, perché l'oggettività delle forme sociali non permette più l'« impressione primitiva ››. Ormai soltanto la natura preistorica del navigante, de11'abitatore di capanne deve, al
di là della reificazione, porre dinanzi agli occhi degli uomini, col mare e con la brughiera, il « testo originale ›› . Dentro il mondo reificato invece, la natura mitica viene riflessa dalla storia del mondo nel1'interiorità dell'uomo. L'interiorità è la prigione storica della creatura umana preistorica. L'aƒƒectus del prigioniero è la malinconia. Nella malinconia si rappresenta la verità, e il moto della malinconia è quello volto a salvare il «senso» perduto. E questo è proprio un vero movimento dialettico. Infatti, quando nella malinconia si rappresenta la verità, essa si rappresenta alla pura interiorità unicamente come parvenza. La verità è in essa pura immaginazione, pari al godimento del malinconico: « Il godimento non è propriamente nel godimento stesso, bensì nell'idea che ci se ne fa ›› .'11 In quanto immaginazione, la malinconia è congiunta alla follia; in follia essa viene magicamente trasformata nella novella Una possibilità. Al centro di questa sta un intérieur dell'evocazione: «Questo si poteva vedere per la strada; ma chi penetrava nella sua stanza vedeva
160 cosc molto più singolari. Infatti non è raro che di un uomo si riceva un'impressione molto diversa quando lo si vede nella sua dimora e quando lo si vede fuori. Nei maghi, negli alchimisti c negli astrologi ›› (dunque figure che hanno un legame mitico), «ciò fa parte per così dire del concetto della loro persona; come il famoso Dapsul di Zabelthau: quando era tra la gente aveva lo stesso aspetto degli altri, e invece nel suo osservatorio portava un cappello alto a punta, si avvolgeva in un mantello di calamandra, aveva una lunga barba bianca e parlava con voce alterata, cosicché sua figlia stessa non lo riconosceva e lo prendeva per il servo Ruprecht ›› .'12 Un intérieur del genere è la follia del contabile che mediante il ricordo tenta di evocare magicamente dal passato « la possibilità » che un suo figlio sia vivo. Ma con l'evocazione si scindono tra loro la realtà contingente e l'interiorità: « l'impallidire al1'esterno è quasi un saluto d'addio dell'interno; e il fuggiasco viene inseguito dal pensiero e dalla fantasia che vogliono scovarlo nel suo nascondiglio ››.” Questa pallida luce è la luce de1l'apparenza che trae il malinconico, segregatosi dal mondo, verso il fondo mitico. Così Kierkegaard riunisce insieme segregazione dell'interiore umano, pura natura e apparenza, nel paragone dell'eco: « Se ti trovi di fronte al nulla, la tua anima si acquieta; anzi, essa può di-
161 venir malinconica se dal nulla ti viene incontro musicalmente l'eco della tua passione, poiché l'eco risuona solo nel vuoto ››.” E il carattere di apparenza della malinconia non rimane nella sua opera puramente metaforico. Esso è testimoniato dalla teoria stessa con l'asserzione: « Perciò è insito anche nella natura della malinconia il fatto che essa non è mai del tutto vera ››.” Ma in quanto apparenza, la malinconia mitica non è reietta, bensì dialettica in se stessa. In essa si cela la « provvidenza ››. Que-st'u1tima «fornisce di forze straordinarie l'individualità per il rapporto con la realtà. ' Tuttavia ', pensa poi, ' perché costui non cagioni troppo danno, involgo questa forza di malinconia, celandola così ai suoi stessi occhi ' ››, così come in Kierkegaard la «verità» è celata all'interiorità stessa. « Giammai dovrà sapere di che cosa egli è capace; ma io voglio adoperarlo. Mai realtà alcuna dovrà umiliarlo; in questo si troverà meglio di altri uomini; ma in se stesso dovrà sentirsi annientato come mai altro uomo si sente annientato. Non prima d'allora, e unicamente allora, dovrà comprendermi; ma che allora sia anche sicuro di avermi compreso. ›› '16 Così la verità si offre all'apparenza malinconica, tramite la dialettica propria di quest'ultima. Nella sua apparenza la malinconia è, dialetticamente, l'immagine di qualcosa d'altro. Ciò giustifica esattamente il carattere allegorico della malinconia
162 kierkegaardiana. Allegorico diviene dinanzi alla malinconia 1'essere naturale: « Chi, se non ha perso il senno, può vedere una giovane fanciulla senza provare una certa tristezza? Senza che la leggiadria di lei gli richiami alla mente proprio nella maniera più intensa la fugacità della vita terrena? ›› 6" chiede 1'assessore Guglielmo, forse con consapevole riferimento al1'allegoria della morte e della fanciulla in Matthias Claudius. L'immagine della fanciulla significa, nella sua giovinezza, proprio fugacità. Tuttavia la malinconia stessa è lo spirito storico nella propria profondità naturale e perciò, nelle immagini in cui prende corpo, è l'a1legoria centrale. Colui che si è rinchiuso ne11'interiorità, deve essere stato «condotto attraverso gli stadi preliminari dalla malinconia ››,” simile a una figura dell'Ermes che accompagna i morti col caduceo. E l'origine saturnea della malinconia viene evocata dal passo: « Quale è la mia malattia? Malinconia. Dove risiede questa malattia? Nell'immaginazione; e il suo nutrimento è la possibilità ››.” Se la filosofia di Kierkegaard con la sua linea di frattura, lo iato completo fra interiore ed esteriore che si chiude unicamente nella profondità corporea degli affetti, ricorda quella di Cartesio, l'intenzione allegorica rivela in più un'affinità oggettiva col barocco; la quale dovrebbe fissare anche le coincidenze fra Kierkegaard e Pascal più esattamente che non quel
163 pensiero filosofico che crede di potere spiare attraverso i secoli un dialogo fra sant'Agostino, il cattolico giansenista, e il nostro protestante idealistico come dialogo di credenti solitari. Kierkegaard ha chiamato se stesso una volta «il pensatore barocco ››,*° alludendo evidentemente a quanto aveva asserito di lui un conteniporaneo, senza sapere fino a qual punto i suoi motivi pragmatici corrispondano effettivamente a quelli del barocco letterario. Con questo egli ha in comune sia la chiusa immanenza "1 sia l'evocazione, mediante allegoria, di sommerse sostanze del1'essere. Come relitti di mare su una isola, vengono trascinati dalla risacca sul suo paesaggio filosofico resti, figure da lungo trascorse del dramma barocco, dei cui modelli soltanto Shakespeare, se lo si vuole comprendere nel barocco, doveva essergli familiare. Gli elementi costitutivi del dramma barocco, che Benjamin ha documentato nel suo saggio Origine della tragedia tedesca ricollegandoli alla sua idea centrale, compaiono riuniti al completo nella caverna della sua filosofia. Il tiranno vi ricorre come personaggio mitico-storico e viene chiamato ora Nerone,"2 ora Periandro,"3 ora Nabuccodonosor;'“ quest'ultimo introdotto con un motivo molto remoto, appartenente all'allegoria del malinconico: il motivo della figura animalesca, già usato dal drammaturgo barocco tedesco Hunold.'“1 Con il martire, controfigura
164 dialettica del tiranno, Kierkegaard si è addirittura identificato; e tale concetto domina talmente la sua teologia de1l'età tarda, che ne11'u1tima polemica Martensen gli poté rimproverare a buon diritto di equiparare senz'a1tro il « testimonio della verità ›› al « testimonio del sangue ››, al martire. Un intrigo barocco è non solo la storia del seduttore ma anche il distacco dall'amata di Quidam, il quale, simile ad Amleto, finge presso di lei di essere pazzo. Nelle esposizioni del « metodo indiretto ››, nella Postilla non scientifica e nel Punto di vista per la mia attività di scrittore, la dialettica della malinconia conduce a una completa casuistica e all'apologia dell'intrigo. Come nel barocco, malinconia e simulazione sono della stessa natura: « ma la proporzione precisa fra la malinconia e l'arte della simulazione indicava che io non potevo contare che su me stesso e sul rapporto con Dio ›› ,16 allo stesso tempo l'isolamento dell'interiorità priva di oggetto ricorda qui la solitudine barocca della creatura nell'immanenza dell'a1diquà. La filosofia di Kierkegaard si riveste persino delle temute insegne dello spirito barocco, ampollosità e crudeltà. Si accumulano le immagini allegoriche: «Ogni raggio di femminilità riluce di una sua particolare bellezza e racchiude in sé una proprietà sua essenziale; e lieti sorrisi, sguardi maliziosi, occhi scrutatori, capo reclinato, leggerezza sfrenata, quieta mestizia ›› (al cen-
165 tro delle immagini) « profondi presentimenti, terrestre nostalgia, ciglia minaccianti... ›› '” Così si continua ancora a lungo con variazioni sempre nuove. Della crudeltà barocca Kierkegaard si appropria nei Diapsalmata del mago Vigilio e del forno di Falaride, nella rappresentazione dello schizofrenico Periandro, ma anche nel carattere della Storia di sofferenze, il cui nome non per nulla ricorda la passione; qui la malinconia, in quanto corpo spirituale dell'Io, viene tormentosamente suddivisa nei suoi vari moti affettivi, le sue membra. L'unico scenario che la filosofia di Kierkegaard accetta, oltre a quello dell'inte'rieur (la strada del ƒlâneur si accorcia nello specchio fino a essere irriconoscibile), è il cimitero barocco. «Tutto dorme; solo i morti ora salgono dalle loro tombe e tornano in vita. Ma io, io non sono morto, e dunque non posso tornare in vita; e se fossi morto, anche allora non potrei tornare in vita; sì, io non ho mai vissuto... ›› 18 O addirittura come l'inizio di un atto del dramma barocco, possibilmente una voluta copia stilistica, fin nei minimi dettagli, della forma linguistica: « Il monologo del lebbroso. Un cimitero; albeggia; Simon Leprosus siede su una pietra tombale; si è assopito, si riscuote e chiama: Simonel... ' Sì! ' Simonel... ' Sì, chi mi chiama? '... Dove sei, Simone?... ' Qui; con chi parli tu dunque? '... Con te, Simone! Carogna! Peste maledetta! Schifoso! Al-
166 lontanati da me! Vattene dov'è il tuo posto, dai mortil... Perché io sono l'unico che non può parlare così con me? ›› 7° Tutti questi tratti, alla cui continuità si è veramente prestata poca attenzione, circondano l'immagine della malinconia, la figura dei sommersi e dell'accompagnatrice. Dimostrare la dipendenza da modelli letterari non approda a molto. Di Lohenstein e di Gryphius, Kierkegaard certamente non sapeva nulla, e c'è anche da dubitare che conoscesse Calderon, perché altrimenti, data l'affinità delle intenzioni, nel suo entusiasmo, anch'esso barocco, per il materiale di cultura letteraria, Kierkegaard indiscutibilmente si sarebbe riferito a lui. Inoltre, Kierkegaard si è appropriata 1'argomentazione convenzionale contro l'a1legoria. Cio è rivelato da un excursus critico sul testo del Flauto magico: « Le parole che si devono a Schikaneder o al traduttore danese sono in genere tanto stupide e senza senno, che è quasi incomprensibile che Mozart sia riuscito a cavarne ciò che ne ha cavato. Permettere che Papageno dica di se stesso: io sono un uomo della natura, diventando così in quell'istante un bugiardo, si può addurre come un esempio instar omnium ››.” Ma Papageno che Kierkegaard chiama, come anche il paggio del Figaro, un essere « mitico ››, è una figura allegorica per il concetto di natura incontaminata nel senso illuministico, e la frase incriminata
167 non è tanto l'espressione mal riuscita di un'anima individuale, quanto piuttosto il sottotitolo, con funzione chiarificatrice, posto sotto l'immagine dell'ucce11atore ornato di piume, come esso si è conservato in rudimento nel1'aria di apertura delle operette fino al tempo presente. Kierkegaard non ha riflettuto teoricamente sulla profondità de11'allegoria. Tanto maggiormente va valutata la sua potenza in un'opera la quale dai più reconditi impulsi rivela sempre quella stessa intenzione che, secondo le categorie dell'estetica idealistica che di tale opera costituiscono la manifesta dottrina, dovrebbe invece condannare. Questa potenza deve dimorare al centro della filosofia kierkegaardiana. Se essa, senza avere un piano prestabilito e senza una cognizione più profonda della relativa letteratura, produce non soltanto forme di significato allegorico bensì anche reali contenuti allegorici fin giù alla concrezione dei nomi di persona, ciò potrebbe dimostrare che i veri rapporti tra le filosofie che compaiono nel corso della storia non sono mai fondati da «strutture di pensiero ›› e da categorie, bensì sempre da elementi pragmatici, i quali come prototipi servono da fondamento alle formulazioni concettuali e si ripresentano di colpo non appena li attrae nella sua orbita la costellazione oggettiva del pensiero, sia ciò insito o no nell'intenzione filosofica. Il barocco
168 di Kierkegaard è anacronistico dal punto di vista della genesi culturale, ma storicamente è sotto la legge dell'interiorità mitica, di cui il « singolo ›› percorre il labirinto e che è inseparabilmente connessa alle sue immagini storico-naturali. Questa legge evoca, mediante la malinconia, la parvenza della verità, finché essa stessa, trasparente in quanto parvenza, viene in pari tempo annientata e salvata; essa evoca immagini, e queste sono già pronte come figure enigmatiche nella storia. Non invano tali immagini appartengono tutte alla regione di un passato mondo figurativo-estetico. Alla loro topografia però, in quanto loro unità, mirano tutte le disparate determinazioni che Kierkegaard comprende nel termine di estetico. « Il mio dolore è la mia rocca; come un nido d'aquila sta sulla cima di un monte e si erge alta fra le nuvole. Nessuno può prenderla d'assalto. Da questa dimora io volo giù nella realtà e afferro la mia preda. Ma laggiù non mi trattengo: me la porto a casa nel mio castello. Ciò che io vo predando sono immagini; le intesso in un arazzo e ne rícopro le pareti delle mie stanze. Così vivo come un segregato dal mondo. Su ogni avvenimento celebro il battesimo dell'oblio e lo consacro all'eternità del ricordo. Tutto ciò ch'è finito e caduco viene cancellato e dimenticato. Qui me ne sto seduto, pensieroso, e spiego con voce sommessa, quasi in un sus-
169 surro, un'immagine dopo l'altra; e accanto a me siede un fanciullo e tende l'orecchio alle mie parole, pur sapendo già da tanto tempo tutto quello che ho da raccontare. ›› 81 Se questa definizione dell'elemento estetico, essa stessa figurativa e tuttavia la più precisa che Kierkegaard ci abbia dato, vuole far derivare la sostanza figurativa mitica della sua filosofia da una concezione estetica del mondo, allora l'origine di ciò che per lui si chiama estetico dovrebbe essere piuttosto ricercata nel fondo del mito. È vero che l'interiorità evoca immagini, ma queste non si dischiudono in essa, e nulla tradisce meglio l'essenza mitica della sua spiritualità assoluta quanto il carattere figurativo della sua « preda ››. Ciò che Kierkegaard ha intuito nella sua critica alle interpretazioni moderne dell'idea del tragico, vale per il suo personale concetto di interiorità estetica: «Se perciò la nostra epoca mira, nella tragedia, a transustanziare in individualità e soggettività tutto ciò che è gravido di destino, essa ha certamente frainteso l'essenza del tragico ››." Non diversamente la dottrina kierkegaardiana dell'atteggiamento estetico soggettivo ne fraintende la sostanza mitica. Secondo la sua concezione, la tragicità, in quanto categoria estetica, viene determinata dal destino e produce l'opposto di ogni dinamica soggettiva. Così però accade proprio anche con gli oggetti compresi nel suo concetto dell'este-
170 tica. Perciò Fatteggiamento estetico viene da lui definito come quello dello spettatore, a maggior diritto che non nella sua visione «etica» dell'estetico: «E ora veniamo alla tua vita. Ha essa la sua teleologia in sé? Non voglio decidere se l'uomo abbia il diritto di condurre una vita come la tua, da spettatore. Ma supponiamo che il significato della tua vita sia quello di osservare il mondo intorno a te; avresti pur sempre la tua teleologia al di fuori di te. Solo quando ogni singola persona è momento, e nello stesso tempo totalità, solo allora tu la consideri secondo la sua bellezza; ma non appena la consideri in questo modo, la consideri eticamente; e quando la consideri eticamente, la consideri secondo la sua libertà ››.” Infatti, l'interiorità priva di oggetto ha di fronte a sé, come fosse uno « spettatore ››, la verità, simile a uno spettacolo estraneo ed enigmatico, per quanto lo spettatore cerchi di accertarsene mediante l'introspezione. La frattura che separa la verità dall'interiorità, alla quale la verità appare solo come parvenza, contrassegna anche la sua stessa figura. Perciò la fragile ambiguità del termine « estetico ›› in Kierkegaard, perciò la discontinuità dell'estetico stesso, che egli percepisce sotto l'aspetto « etico ››; « Infatti, mentre manderei chiunque desiderasse vivere esteticamente da te, come alla guida più fidata, non te lo manderei se desiderasse
171 comprendere, in senso più elevato, cosa sia il vivere estetico, poiché su ciò non saresti in grado di illuminarlo, proprio perché tu stesso sei parte in causa. Questo glielo può spiegare solo chi sta su di un gradino più elevato, chi vive eticamente... Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre soltanto nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di se stesso... Eppure l'esteta non possiede liberamente il suo ' spirito ': manca di limpidezza... Tu vivi sempre solo nel momento, la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa spiegarla ››.” Col salto storico fra interiore ed esteriore, col disfacimento della « totalità ›› si esprime però contemporaneamente, in quanto discontinuità, l'essenza mitica delle immagini estetiche. Il loro ambito è ambiguo e conosce altrettanto poco il netto risalto del singolo particolare quanto la connessione dell'insieme. Esso è votato alla natura, senza fedeltà, e tuttavia attira entro di sé colui che incontra: « L'estetica è la più infedele delle scienze. Chiunque l'abbia veramente amata, diventa in un certo senso un infelice; ma colui che non
ne è mai stato attirato è, e rimane, un pecus ››.” Ciò costituisce anche il sorprendente pericolo del « poeta ›› in L'om: « Il poeta, dal punto di vista spirituale, è il più pericoloso, perché l'uomo ama soprattutto il poeta. E l'uomo ama so-
172 prattutto il poeta, perché esso è per lui ciò che vi è di più pericoloso. Infatti spesso, durante una malattia, il malato desidera specialmente quelle cose che gli sono più dannose. Considerato dal punto di vista spirituale, l'uomo, nel suo essere naturale, è un malato; esso è chiuso in un errore, in un'illusione, ama soprattutto di essere ingannato non solo per rimanere nell'errore, ma per potersi sentire soddisfatto nella sua illusione ››.” Il poeta, in quanto l'uomo puramente naturale: così lo spiritualismo assoluto riconosce la sua origine mitica. La paradossalità si rivela chiaramente nell'abbozzo kierkegaardiano dello stadio estetico; è vero che l'« estetico ›› è la sfera della pura immediatezza, ma deve essere dialettico in se stesso e condurre proprio a quella decisione che viene negata alla vita puramente estetica: « L'estetica, dicemmo, è nell'uomo ciò per cui egli spontaneamente è quello che è, l'etica è quello per cui l'uomo diventa quello che diventa... Se egli ha quello di cui tu parli tanto spesso, della serietà estetica e un po' di conoscenza della vita, vedrà che è impossibile che tutto si sviluppi in modo uguale; allora sceglierà, e quello che determina la scelta sarà un più o un meno, cioè una differenza relativa ››.” La dialettica che da qui scaturisce è stata adoperata da Kierkegaard anche come schema dell'intero piano della sua opera di scrittore:
173 «Questo movimento che conduce dal ' poeta ' all'esistenza religiosa, è in fondo il movimento in tutta l'attività letteraria considerata come totalità; si confronti in Opere dell'amore l'uso che vi vien fatto del poeta: egli è terminus a quo per l'esistenza cristiano-religiosa. Il movimento che parte dal filosofico, dal sistematico, per andare verso il semplice, cioè verso l'esistenziale, è, quale viene descritto in una serie di scritti, sostanzialmente lo stesso di quello che va dal poeta all'esistenza religiosa; soltanto è concepito in un altro senso ››.” Con questo, però, il concetto dell'estetico in quanto « stadio ›› dialettico viene spinto in un determinato contrasto con l'« esistenza». Estetiche sono per Kierkegaard le immagini oggettive e gli atteggiamenti soggettivi il cui mitico carattere di apparenza è svelato nello stesso abbozzo della sua filosofia. Ma la conoscenza dell'origine mitica non vale nella sua filosofia per la figura dell'interiorità oggettiva stessa. Perciò la scomunica dell'« estetico ›› colpisce in lui i ruderi del mondo esterno immediato, che in quanto casuale si è distaccato dall'interiorità; colpisce anche i ruderi di un « senso ›› trans-soggettivo che egli respinge come inganno romantico della metafisica; ma non colpisce i movimenti dell'interiorità apparente, che infatti anche nella Storia di sofferenze vengono considerati senza frattura, come movimenti in direzione della religiosità positiva. Ciò mette a
174 nudo l'antinomia centrale nel suo concetto dell'estetico. Dove la sua filosofia, nell'autocoscienza della sua parvenza mitica, pone determinazioni «estetiche ››, essa si avvicina maggiormente alla realtà: sia alla propria realtà della condizione di interiorità priva di oggetto, sia a quella delle cose estranee che ha dinanzi. In nessun altro momento la realtà sociale è stata vista in linee più nitide che in un diapsalma « estetico ›› che egli misura, invece che secondo gli oggetti da esso presentati, secondo l'« atteggiamento ›› e che perciò, condannandolo, annovera tra i frammenti dell'apparenza, mentre esso non sorge da una coscienza indecisa, ma piuttosto contiene l'apparenza della condizione stessa: «Quale è poi in sostanza il significato di questa vita? Gli uomini si dividono in due grandi classi: gli uni devono lavorare per vivere, gli altri non ne hanno bisogno. Ma il significato della vita non può stare nel fatto che si lavora per vivere. Questa sarebbe una contraddizione, perché significherebbe che la produzione delle condizioni deve essere la risposta alla domanda del significato del condizionato. La vita degli altri non ha alcun altro significato che questo: consumare le condizioni. Se si dice che nel morire sta il significato della vita, questa sembra essere ancora una contraddizione ››.89 Ma dove la sua filosofia, in nome dell'esistenza, intende lo stadio dell'interiorità priva di oggetto e dell'evocazione mitica quale
175 realtà sostanziale, cade in preda a quell'apparenza che essa nega nella profondità della sommersione. L'apparenza, che nella lontananza delle immagini risplende al pensiero come astro della riconciliazione, brucia invece come fuoco distruttore nell'abisso dell'interiorità. Qui la si dovrebbe cercare e denominare, se là non deve andar persa alla conoscenza la sua speranza.
IV
DI tutti i concetti di Kierkegaard, il più efficace ai nostri giorni è quello dell'esistere. Se la sua contesa col «cristianesimo ufficiale ›› ha perduto ogni bruciante attualità in una situazione spirituale per la quale l'istituzione della Chiesa nazionale e la vita dell'individuo sono ormai da lungo tempo uscite dalla dialettica che al tempo di Kierkegaard le teneva, seppure come potenze nemiche, ancora collegate; se la trascendenza astratta dell'idea di Dio, che la teologia dialettica derivò da Timore e tremare e dalle Briciole filosoƒiche, si rappresenta come troppo legata alla dogmatica positiva e in pari tempo come troppo scevra di contenuti impegnativi, per interessare durevolmente anche un'epoca che ha ormai superato la controversia interna del protestantesimo; allora la domanda kierkegaardiana della verità appare più rigorosa là dove, senza tesi dogmatica e senza antitesi speculativa, essa viene rivolta all'esistenza così come questa circoscrive l'ambito della sua esperienza filosofica: all'esistenza umana singola. La questione ontologica in quanto questione del « senso dell'essere ›› viene oggigiorno derivata soprattutto dai suoi scritti.1 Certo che parlare di « senso ›› è espressione equivoca all'origine. In Kierkegaard l'esistenza non vuol essere intesa come
177 un modo di essere, fosse pure anche un modo che è « reso accessibile ›› a se stesso. A lui non interessa una «ontologia fondamentale» che «deve essere cercata nell'analitica esistenziale dell'esserci ››.2 La questione del « senso ›› dell'esistenza non è per lui la questione di ciò che l'esistenza sia veramente, ma piuttosto questo: che cosa dia un senso all'esistenza, che di per se stessa è priva di senso. Non l'essere dell'ente, ma le idee sono l'og-
getto della sua filosofia, così come esse emergono nel movimento dell'esistenza senza rimanere in essa. Mediante il « senso ››, non si interpreta l'esistenza stessa: essa si separa dal privo di senso, dalla contingenza. Ciò viene formulato nettamente non soltanto dall'« Esteta A ››, ma anche, e più direttamente legato al pensiero di Kierkegaard stesso, dall'« amico anonimo ›› della Ripetizione: « Come si infila il dito dentro la terra per riconoscere il paese in cui si è, così io tasto il mondo: non odora di nulla. Dove sono? Che cosa vuol dire questa parola: il mondo? E che significa questa parola? Chi mi ha fatto il brutto scherzo di mettermici e di lasciarmici? Chi sono io? Come sono entrato nel mondo? Perché non sono stato interpellato? Perché non mi hanno messo al corrente dei suoi usi e costumi, ma incorporato nei ranghi come se fossi stato comperato da un reclutatore? A quale titolo sono interessato in questa impresa chia-
178 mata realtà? Perché devo esservi interessato? Non è un affare libero? E se devo esserlo, dov'è il direttore al quale si possa fare un'osservazione? Non c'è un direttore? Da chi posso andare a reclamare? ›› 3 Kierkegaard stesso ha adoperato il termine ontologia unicamente in senso polemico, con lo stesso significato di metafisicaf* Se lo si applica alla verità, di cui la sua filosofia vorrebbe creare la figura, allora secondo la sua intenzione l'esistenza non dovrebbe chiamarsi ontologica. « La caratteristica ontica dell'esserci consiste nel suo essere-ontologico ›› 15 questa asserzione di Heidegger rimane inconciliabile con la volontà di Kierkegaard. È vero che anche per lui l'ontologia è incatenata all'esistenza della creatura, dalla quale non deve essere avulsa se non vuole impallidire nell'incertezza della speculazione: «Ogni pensiero essenziale concerne l'esistenza; ovvero solo quel conoscere che si mette in rapporto essenziale con l'esistenza è un conoscere essenziale. Quel conoscere che non concerne l'esistenza verso l'interno, nella riflessione dell'interiorità è, considerato essenzialmente, un conoscere casuale, il suo grado e il suo ambito sono, osservati essenzialmente, indifferenti ››.° Ma se l'ontologia viene cercata nell'ambito dell'esistenza, non per questo l'esistenza è la risposta a una « domanda ›› ontologica, e il « senso ›› è molto di più che la struttura stessa della possibilità dell'esistenza. Ciò intende
179 la distinzione kierkegaardiana: «Soltanto per momenti il singolo individuo esistendo può trovarsi in un'unità di infinità e di finitezza che oltrepassa i limiti dell'esistere ››." Il «senso» viene con ciò denominato non tanto quale intenzione di una questione d'interpretazione ontologica quanto quale « infinità ›› imperscrutabile e trascendente l'esistenza. Ma esso viene evocato nell'esistenza: la trascendenza viene cercata nell'immanenza; e il movimento della singola coscienza umana offre, in quanto « approfondimento ››, lo schema dell'evocazione. Il concetto kierkegaardiano dell'esistenza non intende soltanto l'esistenza pura e semplice, bensì un'esistenza che, mossa in se stessa, si impadronisce di un senso trascendente che deve essere qualitativamente diverso dall'esistenza. Con ciò la questione dell'esistenza non si pone come questione dell'esistenza in sé e per sé, ma di un'esistenza storica. Infatti, la paradossalità di un « senso ›› che non viene posto in identità dal soggetto quale « unità di infinità e di finitezza ››, ma che tuttavia deve essere insito solo nella « riflessione dell'interiorità ››, questa paradossalità non è nient'altro che la legge della stessa kierkegaardiana interiorità priva di oggetto, la quale ha il suo momento storico. L'incessante polemica di Kierkegaard contro Hegel e contro la metafisica speculativa non vorrebbe, come la moderna filosofia esistenzialistica, tener lontano
180 dal1'interpretazione dell'esistenza un senso trascendente del quale Kierkegaard stesso si crede più sicuro di quanto non lo fosse mai Hegel. Piuttosto egli vorrebbe conservare, come campo d'azione al senso trascendente che compare, una coscienza immanente, mentre in Hegel il senso deve essere immanente all'ente trascendente: « tutto ciò che è reale è razionale ››. Questo rende possibile d'illudersi che il problema kierkegaardiano sia di « ontologia esistenziale ››, nella sua restrizione all'esistenza soggettiva, mentre la sua dialettica dell'approfondimento si limita ad agganciare insieme esistenza e ontologia, per scinderle poi nell'ultimo giudizio. Il problema dell'interpretazione ontologica cade sotto il suo verdetto in quanto « oggettivo ››; « La via della riflessione oggettiva fa del soggetto qualcosa di casuale e con ciò dell'esistenza qualcosa di indifferente, di scomparente. Allontanandosi dal soggetto, la via va verso la verità oggettiva, e mentre il soggetto e la soggettività divengono indifferenti, lo diviene anche la verità, e proprio questa è la sua validità oggettiva, perché l'interesse è, come la decisione, la soggettività. La via della riflessione oggettiva conduce al pensiero astratto, alla matematica, al sapere storico di vario genere; essa si allontana costantemente dal soggetto, il cui essere o non essere, oggettivamente giustissimo, è infinitamente indifferente, giustissimo, per-
181 ché essere e non essere hanno, come dice Amleto, solo un significato soggettivo. Nella sua perfezione questa via condurrà a una contraddizione, e in quanto il soggetto non diviene completamente indifferente a se stesso, ciò è soltanto un segno del fatto che la sua aspirazione oggettiva non è abbastanza oggettiva; nella sua perfezione questa via condurrà alla contraddizione del fatto che solo l'oggettività è sorta mentre la soggettività si è esaurita, vale a dire la soggettività esistente, che ha fatto un tentativo di divenire ciò che in senso astratto si chiama la soggettività, la forma astratta dell'astratta soggettività. E tuttavia l'oggettività che è sorta è, considerata soggettivamente, nella sua perfezione, o un'ipotesi o un'approssimazione, perché ogni decisione eterna è insita proprio nella soggettività ››.8 Ciò deve colpire criticamente non soltanto la conoscenza scientifica del mondo degli oggetti, bensì anche già quella interpretazione « oggettivante ›› della soggettività e con ciò, a priori, la possibilità di una «analitica esistenziale dell'esistenza ››. L'Io-Io di Fichte, il soggetto-oggetto di Hegel, sono per Kierkegaard oggettivazioni nel segno dell'identità e vengono negati proprio in quanto rappresentano il puro essere de1l'esistenza di fronte all'« individuo singolo ›› esistente: « così subito, con l'aiuto della speculazione, penetriamo nel fantastico Io-Io, che il moderno pensiero speculativo ha adope-
182 rato senza però spiegare come si rapporti a esso il singolo individuo, e in verità nessun uomo è in fondo più che un singolo individuo. Se l'individuo esistente potesse essere realmente al di fuori di se stesso, la verità sarebbe per lui qualcosa di conchiuso, ma dove è questo punto? L'IoIo è un punto matematico che non c'è affatto, e di conseguenza chiunque può occupare questo punto, nessuno può ostacolare la via all'altro ››.9 Analogamente contro Hegel: «O forse lo spirito esistente è esso stesso il soggetto-oggetto? In questo caso vorrei chiedere dove si trovi un simile uomo esistente, che sia allo stesso tempo soggetto-oggetto ›› .1° Subentrando in tal modo l'esistente all'esistenza, l'ontologia viene relegata tanto più lontano dall'esistenza, quanto più la questione si rivolge da vicino all'esistente: al singolo uomo esistente. Per Kierkegaard la singola esistenza umana è teatro dell'ontologia solo perché essa stessa non è ontologica. Perciò l'esistenza della persona significa per lui un divenire che si prende gioco di ogni oggettivazione; perciò, verso il lato della costituzione filosofica interna, la spiritualità assoluta è per lui dinamico-dialettica. Essa non è l'essere, il cui senso dovrebbe essere dischiuso ontologicamente, bensì funzione che racchiude in sé il senso. In quanto tale essa si chiama, con una parola che non a caso ricorda l'elemento demoniaco della natura, pas-
183 sione. Mediante la passione la persona esistente deve divenir partecipe della verità senza essere ontologizzata; ma anche senza che la verità, oggettivata, le si sottragga: « La passione della infinità è ciò che decide, non il suo contenuto, giacché il suo contenuto è per l'appunto essa stessa. Dunque la soggettività, e il proprio modo di essa, il ' come ' di essa, è la verità ›› ,11 e cioè, così intende Kierkegaard, in quanto essa non lo è ma lo diviene nell'infinita negazione di se stessa. Sotto la categoria della negatività, della « incertezza», la soggettività viene scissa da qualsiasi abbozzo ontologico della persona, alla quale l'ontologia appartiene solo paradossalmente: « L'incertezza oggettiva, trattenuta nell'appropriazione dell'interiorità più appassionata: questa è la verità, la verità più alta che vi sia per un individuo esistente ›› .12 L'idea kierkegaardiana della verità si distingue da quella puramente soggettivistica per il postulato della « infinità ›› alla quale l'Io finito è assolutamente inadeguato; si distingue però anche da ogni oggettività, comunque essa sia, per il rifiuto di ogni criterio positivo trans-soggettivo: «Quando si domanda oggettivamente della verità, si riflette oggettivamente sulla verità come su un oggetto col quale si mette in rapporto l'individuo conoscente. Non si riflette sul rapporto, bensì sul fatto che è la verità, il vero, ciò con cui l'individuo si mette in rap-
184 porto. Se ciò con cui egli si mette in rapporto è soltanto la verità, il vero, allora il soggetto è nella verità. Quando si domanda soggettivamente della verità, si riflette soggettivamente sul rapporto dell'individuo; quando solo il ' come ' di questo rapporto è nella verità, allora l'individuo è nella verità, anche quando egli si mette così in rapporto con la non verità ».13 Fra immanenza e trascendenza della verità, però, in tal modo non vi è « mediazione», in quanto le « partecipazioni ›› soggettive e oggettive alla verità vengono ipostatizzate. Il porle come predicati significherebbe già, come accade 'con ogni predicazione contenutistica, « oggettivare » l'idea della verità, e perciò non viene ammesso da Kierkegaard. La trascendenza della verità viene piuttosto prodotta dalla negazione della soggettività immanente, dall'infinita contraddizione. Soggettività e verità compaiono insieme nella paradossalità: « Il vertice dell'interiorità di un soggetto esistente è la passione; a essa corrisponde la verità in quanto è un paradosso ›› .1'* Così l'idea kierkegaardiana del paradosso ha, al di qua di ogni paradossalità teologica del simbolo, la sua genesi filosofica nel rapporto tra interiorità priva di oggetto e ontologia. La paradossalità si eleva in Kierkegaard al rango di suprema potenza dell'evocazione; in quanto potenza che rinuncia a1l'apparenza estetica, cioè potenza senza immagini. Su di essa, e non sul senso del1'es-
185 sere de1l'esistenza, nell'abbozzo di Kierkegaard decide la critica del suo concetto dell'esistenza. Il movimento dell'esistere è per lui un movimento che deve condurre l'interiorità priva di oggetto dal suo irretimento mitico alla « libertà ›› e alla presenza della verità stessa. Che questa verità distrugga nella paradossalità l'apparenza, non viene notato esplicitamente da Kierkegaard: per lui l'apparenza non è legata all'intima sostanza mitica, bensì all'atteggiamento soggettivo e perciò non può fornire l'idea contraria a quella dell'esistenza. Ma la concezione della verità paradossale come verità senza immagini si solidifica nella sua terminologia. Per lui verità significa « trasparenza » , e lo sguardo profondo, che penetra senza incontrare resistenza attraverso il trasparente, sembra il perfetto opposto di quello che riposa nelle immagini mitiche e in esse si sazia trovandovi però il suo compatto limite. La posizione centrale che la categoria della trasparenza assume nella teoria kierkegaardiana dell'esistenza è stata riconosciuta dal Guardini: « Trasparente a se stesso. Questa parola ha per Kierkegaard significato decisivo. Significa genuinità leale, manifesta, libera da ogni oscurità ››.15 È vero che Guardini interpreta la « trasparenza» di Kierkegaard dal punto di vista cattolico: la natura è considerata da lui come redenta dalla morte di Cristo, mentre per il protestante Kierkegaard essa, peccaminosa e ambi-
186 gua, ha in ogni momento nuovamente bisogno di salvazione. Guardini la considera come « semplicità di spirito» nel senso cristiano della parola: « Là dove Kierkegaard rivolge uno sguardo retrospettivo alla sua produzione, in Punto di vista per la mia attività di scrittore, egli nomina come massimo valore di perfezione cristiana la ' semplicità ', vedi le parole di Cristo: 'Se non diventerete come i fanciulli non potrete entrare nel regno dei cieli ' (Matteo, 18, 3); semplicità e trasparenza vanno insieme ››.” Ma con ciò viene travisato il carattere dialettico che in Kierkegaard si mantiene persino nell'idea della trasparenza. Semplicità, lo stadio concreto della trasparenza, non è per lui identica alla vita semplice e giusta, alla vita « etica». In quanto meta di un movimento infinito e «negativo ›› essa rimane virtuale; infatti « l'ultimo valore della perfezione cristiana ›› non è tanto nella vita quanto nella perfetta contraddizione della vita: nel sacrificio. A valutare adeguatamente ciò non basta ammettere che «Kierkegaard era forse l'uomo più complicato che abbia mai scritto su argomenti religiosi ››." Infatti la concezione dialettica della trasparenza non si può comprendere pienamente dal punto di vista psicologico, bensì dalla figura che assume in Kierkegaard l'idea stessa della verità. È chiaro che la trasparenza è progettata ontologicamente: « Avrei potuto chiamare il bene
187 anche trasparenza » ,18 Ma la trasparenza è, nel concetto della conoscenza, non un acquisito stadio dell°essere ma piuttosto essa stessa dinamica: « L'individuo etico conosce se stesso, ma questa conoscenza non è soltanto una contemplazione (così l'individuo si comprenderebbe solo secondo la sua necessità), è piuttosto un suo meditare su se stesso, e questa è un'azione; ragione per cui con intenzione non ho parlato di un conoscere se stessi, bensì di uno scegliere se stessi ›› .19 Ma con ciò la trasparenza non è più verità paradossale, bensì ambigua. La verità priva di apparenza, nella quale deve paradossalmente sfogare, negando se stesso, il movimento della singola coscienza umana, viene anch'essa attratta dentro il movimento stesso, senza possibilità di distinzione: il bene ontologico è l'esistenza ontica nell'atto dello « scegliere ››, e l'ontologia, già sottratta all'immanenza soggettiva in virtù della « infinità ››, minaccia di risprofondarvi ancora una volta, non appena l'idea della verità stessa, in quanto « trasparenza», viene sottomessa alla dialettica. Questa ambiguità dell'idea kierkegaardiana della verità deve essere rigorosamente distinta dal paradosso. La verità appare paradossale nella dialettica soggettiva, e non soltanto soggettiva, che in essa si spegne; diviene invece ambigua in quanto quintessenza di un movimento dialettico senza la misura di esso. È facile presumere, ed è stato anche affer-
188 mato spesso, che la dialettica di Kierkegaard raggiunga il suo vertice in quanto lo spirito deve risultare puro e inalterato dalla dialettica, per poi giungere, quale semplicità, ad annullarsi. Può darsi che qualcosa di simile accada con la cristologia kierkegaardiana; ma per la dottrina della verità e per la relativa dialettica dell'esistenza questo schema non è valido. Infatti la verità non assorbe, come fosse trasformata in un frutto, le linfe vitali ascendenti della dialettica: bensì viene infine accordata al crescere senza meta dell'a1bero. Il « senso ›› ontologico non è per Kierkegaard un senso nel quale l'esistenza, interpretando se stessa, potrebbe riconoscere il proprio essere; l'esistenza deve evocare il senso; lo evoca senza immagini, per impadronirsene in pura spiritualità priva di apparenza; l'evocato le si concede ambiguamente e si confonde con la pura esistenza stessa: ciò riporta la critica dell'idea kierkegaardiana della verità alla struttura del suo concetto dell'esistenza in quanto fondamento primo dell'ambiguità. Per comprenderlo ci sia lecito rammentare la soluzione kantiana che prepara il terreno, come ai sistemi di Fichte e di Hegel, così anche alla dottrina de1l'esistenza in Kierkegaard. Critica della ragion pura si chiamò la critica all'ontologia razionale, in termini storici a quella del Wolff. Questa viene sottoposta alla sua prova più difficile, cioè alla prova da
189 parte della contingenza del materiale della contemplazione non derivabile per categorie. Non potendo essere salvata come contenuto dell'esperienza, viene salvata come sua forma. Così si riduce al giudizio sintetico a priori, ove non venga bandita nella sicura e impotente trascendenza dei postulati. Nel sistema dei princìpi, il salto fra l'interno e l'esterno viene ancora dominato: prodotti soggettivamente in virtù dell'unità sintetica dell'appercezione, i princìpi appartengono all'immanenza della coscienza; in quanto condizioni costitutive di ogni conoscenza oggettiva essi hanno il carattere di oggettività. Nel loro doppio senso si regge l'ontologia: protetta contro la contingenza dalla forza sistematica del centro spontaneo, e contro l'inganno speculativo dalla validità nell'esperienza. In cambio, pagano con la loro astrattezza: i princìpi sono « necessari ›› unicamente in quanto sono « universali ». I sistemi idealistici si sono assunti il compito di restaurare i contenuti perduti dell'ontologia, eliminando la contingenza del « materiale » che è anch'esso derivato dall'unità sintetica dell'appercezione, in quanto « contenuto ›› può essere sviluppato dalle forme soggettive e dedotto dalla « ontologia ›› e che, mediante « sviluppo ››, viene posto identico alla soggettività. Ciò offre lo schema all'innestarsi di Kierkegaard nella storia della filosofia. Come per Hegel, così anche per lui l'ontologia kan-
190 tiana immanente al soggetto è impotente per la sua stessa astrattezza. Ma in pari tempo egli riconosce l'ontologia materiale per lo meno delle parti del sistema hegeliano sviluppate più tardi, ovvero la costruzione hegeliana del mondo esistente come mondo sensato, nel suo inganno: riconosce che l'identità del reale e del razionale fa svanire l'ontologia, in quanto la estende oltre l'insieme dell'esistenza, e con ciò si priva di ogni valida misura non soltanto per l'esistenza elevata ma anche per un « senso ›› il cui essereovunque minaccia di capovolgersi in un essere in nessun luogo. Lo schema di Kierkegaard è l'esatta antitesi tanto della tesi kantiana quanto della sintesi hegeliana. Contro Kant egli segue l'abbozzo di un'ontologia concreta; contro Hegel, di un'ontologiaiche non soggiace al puro ente poiché lo accoglie in sé. Perciò egli rivede il processo dell'idealismo postkantiano: egli rinuncia alla pretesa dell'identità. Quel che gli rimane però non è il paesaggio kantiano di un soggetto trascendentale, le cui forme di contemplazione e i cui concetti dell'ordine oggettivano in «esperienza ›› la varietà dei dati sensoriali. Con l'identità hegeliana egli sacrifica l'oggettività trascendentale di Kant. Se in Kant, al di qua della frattura, la « coscienza in generale ›› insiste come garante dell'ontologia, Kierkegaard allora rinuncia alla validità scientifica di «risultati» e
191 oppone alla casualità dell'esperienza esteriore, la coscienza particolare dell'uomo singolo come concreta. Questi diviene per lui il portatore di un senso materiale che la filosofia dell'identità non poteva realizzare nel materiale sensoriale contingente, mentre l'astratto « io penso» di Kant non era sufficiente a confermare come sensata l'esistenza vinta. Hegel è rielaborato nell'intimo: ciò che per lui è la storia universale, è per Kierkegaard il singolo uomo. Ma il tributo kantiano alla contingenza non risparmiato neppure a Kierkegaard. Infatti fß'fb, contingente, come lo sono soltanto i dati sensoriali, anche l'esistenza e l'essere così [Sosein] della persona, che non può essere capito partendo da nessun « senso ››. Affinché alla sua contingenza non vada perduto il « senso ››, l'uomo singolo concreto viene sottoposto a una procedura che però pur garantendogli, in quanto « idea ›› nel significato kantiano della parola, un senso concreto, rende però lui stesso astratto e scalza le determinazioni ontologiche che in lui vengono cercate; sia che esse, come le parole senso, libertà, idea, non la cedano in nulla all'astrattezza delle categorie kantiane, sia che, restando concrete, proprio con ciò vengano raggiunte, in quanto determinazioni di pura fatticità, dalla stessa contingenza dalla quale dovrebbe proteggerle la restrizione nell'interiorità. Ciò delinea esattamente l'ambivalenza del
192 senso ontologico in Kierkegaard. Il suo fondamento è l'Io astratto. L'astrattezza di questo costituisce il polo opposto dell'astrattezza del generale. È l'astrattezza del particolare. Essa sta di contro alla trasparenza, alla quale invece mira l'abbozzo di Kierkegaard. Pur essendo senza immagini, la sua massima vicinanza rimane tuttavia impenetrabile come soltanto le immagini della estrema lontananza. Kierkegaard ne fornisce una testimonianza in un passo del Concetto delfangoscia che, pur servendosi come esempio di un « egoista ››, non si può tuttavia scindere con criterio evidente dalla sua rappresentazione positiva dell'esistenza: « Egoismo, infatti, vale isolamento, e che cosa significhi questo lo può sapere soltanto il singolo come singolo, poiché visto sotto categorie generali esso può significare tutto, e a tal punto che codesto tutto finisce col non significare niente... Ma ' ego ' significa proprio la contraddizione, che l'universale sia posto come particolare. Soltanto quando è dato il concetto del particolare, del singolo, soltanto allora si può parlare di egoismo; ma benché siano vissuti innumerevoli milioni di tali ' ego ', nessuna scienza può dire che cosa sia questo, senza dirlo in un modo completamente generico ››.2° L'ego, ricettacolo di ogni concrezione, si ritira talmente nella sua unicità, che non si può più porre di lui alcun predicato; esso sicapovolge nella massima astrattezza; dire che solo il singolo sa
193 cos'è il singolo è semplicemente una parafrasi per dire che non lo si può assolutamente sapere; e così l'Io più determinato rimane il più indeterminato. Alla nuova logica non è sfuggita Findeterminatezza del puro substrato di qualsiasi determinazione categoriale. Nell'analisi del «senso ›› noematico, compiuta da Husserl nelle Idee per una fenomenologia pura, si trova una descrizione che coglie esattamente lo stato di cose dell'ego kierkegaardiano: « Si separano come momento centrale noematico: la 'cosa ', 1' ' oggetto ', 1' ' identico ', il ' soggetto determinabile dei suoi possibili predicati ', il puro X in astrazione da tutti i predicati ›› .21 Come in tutte le espressioni sinonimiche di Husserl, così anche nell'Io di Kierkegaard, il centro logico di quest'lo, l'oggetto di tutte le possibili predicazioni e quindi il vero e proprio « concreto ›› , diviene qualcosa di indeterminato, di indeterminabile, di astratto. La sua astrattezza è il riflesso di quella delle supreme universalità alle quali l'Io viene subordinato: dell'idea, della decisione, dello spirito. Ma che in verità questa astrattezza non tocchi solo all'Io « egoistico ››, bensì anche all'Io « esistenziale ››, lo si può dedurre
interpretando un excursus della Postilla conclusiva non scientifica: « Ma che cosa significa in sostanza spiegare qualcosa? Significa forse mostrare che l'oscuro quid di cui si discute non è questo ma invece qualcos'altro? Questa sarebbe
194 una spiegazione un po' strana; credevo che mediante la spiegazione divenisse chiaro appunto che il quid in questione era questa determinata cosa, cosicché la spiegazione portasse via non ciò che si è chiesto, bensì l'oscurità. Altrimenti la spiegazione non è una spiegazione ma piuttosto una correzione ››.” Il tipo di « spiegazione ›› che qui Kierkegaard esige, sarebbe possibile solo nell'immagine e nel nome, e proprio essa viene esclusa dall'esigenza della « trasparenza ››. Inoltre, viene negata in senso generale dalla teoria del linguaggio soggettivistico-nominalistica di Kierkegaard, così come essa costituisce il fondamento della sua dottrina della « comunicazione». Ma diversamente dimora in essa la rassegnazione della conoscenza, che continua a starsene perplessa dinanzi al suo oggetto quale cieco, irrischiarabile, ermeticamente chiuso. Tale oggetto resiste a ogni trasparenza. Ciò si rivela nel rapporto tra la categoria trasparenza e quella del paradossale: « La spiegazione del paradosso rende chiaro ciò che è il paradosso e porta via l'oscurità ››.” Se qui la trasparenza, in quanto appellativo per l'ontologia, è il concetto superiore del paradosso la cui oscurità deve essere « portata via ››, come può farlo se il paradosso stesso rimane invece oscuro, indeterminato e astratto? Infatti, a ogni rischiaramento è posto un limite con lo stato dell'esistenza condizionata. Il vero rischiaramen-
195 to non farà mai svanire gnosticamente l'esistenza in un sistema di « significati ››. Ma nemmeno potrà mai chiamarsi rischiaramento la pura constatazione dell'oscuro; se la conoscenza non è in grado di risolvere il suo materiale, potrebbe però inserirlo in figure dell'ente nelle quali esso, per quanto oscuro e povero di significato sia in se stesso, aiuta tuttavia funzionalmente a contribuire al rischiaramento. Il vuoto e cieco X diviene verità solo per una dialettica apparente per la quale rischiaramento è lo stesso che classificazione sotto concetti generali, e che celebra i suoi trionfi là dove tale classificazione non vuole più riuscire, in quanto considera la negazione, l'annullamento e la distruzione del concetto come il massimo rendimento del concetto stesso, mentre essa sola dimostra l'inadeguatezza delle sue categorie sui suoi oggetti filosofico-storici. Su questo punto Kierkegaard poté illudersi in virtù della sua opposizione contro Kant. Egli crede di aver respinto l'astrattezza come il kantiano soggetto trascendentale, senza accorgersi che essa ritorna nella limitazione della concrezione al puro « questo qui ›› [Dies da]. Dove egli vedeva il pericolo si è difeso strappando la concrezione dalla conoscenza: « La certezza e l'interiorità sono certamente la soggettività, ma non in un senso completamente astratto. Questo è il male in tutta la scienza recentissima, che tutto è diventato così spaventosamente grandioso. La
196 soggettività astratta è altrettanto incerta e manca di interiorità nello stesso grado che l'oggettività astratta ››.” Ma se _la soggettività concreta fosse riservata unicamente alla prassi, questa stessa sarebbe senza orientamento, e la conoscenza avrebbe abdicato. Perciò Kierkegaard deve preoccuparsi incessantemente della formulazione teorica della soggettività concreta: della persona in quanto portatore di « senso». Ma tale formulazione si impiglia di necessità in una tautologia: « Il contenuto più concreto che la coscienza possa avere è la coscienza di se stessa, dell'individuo stesso, non la pura autocoscienza che è così concreta che nessun autore, nemmeno quello più ricco di parole né quello più forte nella rappresentazione, è mai stato capace di descrivere una sola coscienza di questo genere, mentre ogni singolo uomo ha una tale coscienza. Questa coscienza di se stesso non è contemplazione; infatti, chi crede questo non ha compreso se stesso, poiché dovrebbe vedere che egli, nello stesso tempo, sta sviluppandosi, cosicché non può essere qualcosa di compiuto, di adatto per la contemplazione. Questa coscienza di se stesso, perciò, è azione... ›› 25 L'uscita dalla tautologia è segnata solo dalla svolta fichtiana dell'« azione ›› come unità di teoria e di prassi; se Kierkegaard insistesse su tale unità sarebbe ormai consegnato alla filosofia dell'identità. Così la dottrina dell'esistenza
197 incontra ovunque delle aporie. Ora il suo centro, l'« Io ››, è astratto e definibile solo tautologicamente; ora spetta a una prassi che invece dovrebbe prima ricevere da esso la sua regola; ora infine la concezione dell'10 conduce a indistinte postulazioni di identità. Astratto si rivela l'Io, a dispetto di tutte le costruzioni, massimamente là dove dovrebbe venire interpretato il suo contenuto: nella « psicologia ››; « Io posso perdere la mia ricchezza, il mio onore, agli occhi degli altri, la forza del mio spirito, eppure la mia anima può non soffrirne; posso conquistare tutto eppure soffrirne. Cosa è dunque la mia anima, che cosa è dunque questo mio essere più intimo, che può rimanere inattaccato da questa perdita e soffrire per questa conquista? A chi dispera, questo astratto in apparenza insussistente si rivela essere un qualcosa ››.” Si parla qui di un astratto insussistente; ma il « qualcosa ››, che ne dovrebbe essere il correttivo, rimane altrettanto astratto. Se si volesse, con un metodo discutibile, cercare il fondamento logico del concetto kierkegaardiano dell'esistenza nella prassi, le tesi morali, esso non si concreterebbe in maniera sufficiente. Organo dell'« azione ›› morale è per Kierkegaard la « serietà ›› del decidersi. Attraverso quest'ultima dovrebbero trovare il loro contenuto gli schemi antropologici dell'10 e dell'esistere. Ma non potendo trarre le sue determinazioni dal mondo
198 degli oggetti, la serietà viene definita partendo dalla stessa «interiorità» alla quale essa dovrebbe conferire il « senso ››, e perciò ancora una volta con una tautologia: « Ma questa medesima cosa, alla quale la serietà deve tornare coll'uguale serietà, non può essere altro che la serietà stessa ››.” Come la serietà rimane tautologica, così il soggetto rimane il suo proprio oggetto: « L'espressione ' che cosa l'ha reso serio nella vita ' si deve riferire naturalmente, per eccellenza, a quel fatto dal quale l'individualità, nel senso più profondo, deriva la sua serietà; infatti, chi si è fatto serio, in verità, per quello che è l'oggetto della serietà, può benissimo trattare diverse cose, se si vuol dire così, 'seriamente ', ma si tratta della questione se per la prima volta si fece serio per l'oggetto della serietà. Questo oggetto lo ha ogni uomo, perché l'oggetto è lui stesso n.28 Infine l'Io, che in quanto esistenza è la categoria teorico-antropologica, e la serietà, la categoria pratica, vengono direttamente identificati: « L'interiorità, la coscienza è serietà ››.” Contro di ciò si rivolge il riconoscimento che « questo sembra un po' meschino ›› .'30 Ma esso viene subito piegato in un'ironia in suo favore, che crede di aver ragione dell'idealismo trascendentale: « Se avessi almeno detto che [la serietà] è la soggettività, la pura soggettività, ' die übergreifende Subjektivität', allora avrei detto qualcosa che certamente avreb-
199 be reso seri parecchi. Ma io posso esprimere la serietà anche in un altro modo. Appena manchi l'interiorità lo spirito è reso finito. Perciò l'interiorità è l'eternità, o la determinazione dell'eterno nell'uomo ›› .31 Così all'astrattezza nel microcosmo, l'astrattezza dell'10, subentra alternativamente quella del macrocosmo, dei concetti universali di eternità, spirito, infinitudine, quando diviene evidente la « meschinità ››. Ciò si rivela drasticamente nella definizione centrale dell'10 nella Postilla non scientifica: « La negatività che è insita nell'esistenza, o per meglio dire la negatività del soggetto esistente (la quale deve rappresentare il suo pensiero in forma fondamentalmente adeguata), è basata sulla sintesi del soggetto che esso sia uno spirito esistente infinito. L'infinito, l'eterno, è l'unica certezza, ma essendo soggetto è nell'esistenza, e la prima espressione ne è l'inganno e quest'immane contraddizione: che cioè l'eterno diviene, che l'eterno sorge ››.” Simili concetti tessono come una rete intorno al substrato etico senza dischiuderlo. In quanto Io, esso rimane privo di determinazione; in quanto punto d'intersezione delle linee concettuali non viene conosciuto come questo Io. «Siccome l'etica giace nel più profondo dell'anima, non è sempre manifesta ››;33 assolutamente priva di trasparenza. L'ostilità alle immagini da parte dello spirito sottratto alla natura si rivela quale astrattezza
200 nel concetto dell'10, ed è il motivo sia per l'impotenza dell'evocazione sia per l'ambiguità dell'evocato. Ma essa è in pari tempo espressione. Astrattezza, in quanto mancanza di trasparenza, rimanda alla pura natura, nella quale tutte le volte si converte lo spiritualismo kierkegaardiano. Come i grandi concetti universali, così anche il puro «questo qui ›› nella dottrina dell'esistenza di Kierkegaard è astratto. In ciò si esprime la stessa intima sostanza del concetto di esistenza. Si può dire a buon diritto che l'astrattezza è il sigillo del pensiero mitico. L'ambiguità del colpevole legame di natura, nel quale tutto comunica con tutto senza distinzione, non conosce una vera concrezione. Qui i nomi delle cose create sono confusi, e in luogo di essi rimane la cieca materia o il segno vuoto. La diffusa abitudine di attribuire al pensiero mitico, arcaico, la massima concretezza grazie alla contemplazione diretta, non mediata da concetti, del «questo qui ››, conduce in errore. La contemplazione muta dell'uomo primitivo non riesce a tenere nessuno dei suoi oggetti entro limiti costanti; quando però essa pensa tutto l'individuale con parole sue proprie, questo s'irrigidisce sotto il suo sguardo divenendo un feticcio che tanto più profondamente si rinchiude nella sua esistenza. Tuttavia i concetti universali, detratti dagli oggetti contemplati come unità delle loro caratteristiche, devono, parimenti a questi,
201 ricorrere per realizzarsi sempre alla muta contemplazione. Il concreto, nei secondi già perduto e nei primi ancora celato, non è la sicura metà fra i due; è la scintilla che nel nome guizza dall'estremo concetto universale alla materia del determinato « questo qui ›› e accende. Asserzioni materiali circa l'esistere, le quali contengano più che non la sola proclamazione della pura quiità [Daheit] dell'10, ovvero il tentativo di localizzarlo mediante concetti universali raggruppati, si incontrano in Kierkegaard assai di rado e formulate con estrema brevità. Con l'ammettere la « occultezza ›› del fondamento esistenziale stesso e l'insufficienza della ratio a fornire un «sistema dell'esistenza ›› Kierkegaard, sotto gli pseudonimi di Johannes de Silentio e di Frater Taciturnus, si può dire abbia giustificato il suo silenzio. Senza apparati ausiliari, il concetto dell'esistenza è spiegato positivamente soltanto nelle poche pagine iniziali della Malattia mortale; un commentario attenuante di esse ci è offerto unicamente da due passi della Scuola di cristianesimo i quali, senza far riferimento alla Malattia mortale, si riallacciano innegabilmente alla terminologia di quella. Da
questi frammenti deve partire una critica contenutistica ove non voglia contentarsi di intendere banalmente, dal contrasto col pensiero sistematico, il pensiero esistenziale come pensiero riferentesi all'essere, senza occuparsi dell'idea
202 specifica dell'essere, alla quale mira il concetto kierkegaardiano dell'esistenza al di là di ogni pura c semplice « relatività dell'esserci ››. 1.11 Malattia mortale si apre con la tesi dello spiritualismo: la determinazione dell'esistere in quanto spirito. 11 Guardini ha nettamente delineato il pericolo che ivi si cela: «Kierkegaard... spinge l'esigenza unilateralmente verso un unico polo: infatti essa deve essere difficile, talmente difficile che diviene catastrofale nel... senso che si trasforma nell'impossibilità funzionalmente sensata. Così egli dice che 'Dio' è identico a ' Io ', una tesi le cui conseguenze demolitrici non è qui il luogo di esporre ››.” La creazione è nell'Io ridotta a spirito, l'Io va salvato dalla schiavitù sotto la natura colpevole. Poiché però l'uomo come creatura (proprio così come Kierkegaard in quanto « esistente ›› lo pone contro l'idealismo speculativo) non si risolve in spirito, la natura lo sopraffà là dove egli crede assicurato più saldamente il sovrannaturale: cioè nell'Io, appunto in quanto qualcosa di assolutamente spirituale. « L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è l'1o. ›› 35 Così l'assioma di Kierkegaard. Ma è l'Io spirito? E allora lo spirito, reso tutt'uno con la creatura, non è divenuto una determinazione mitica? A ciò Kierkegaard cerca di sfuggire mediante la sua idea dominante della dialettica, di quella dialettica « fra natura e spirito, fra essenza mitica
203 e coscienza in quanto potenze qualitativamente diverse, in tutto e per tutto contrarie ››.” Nella Malattia mortale tale dialettica viene riportata alla formula base e connessa con la determinazione dell'10 come spirito: « Ma che c0s'è l'Io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso ››.3" L'10, essendo interpretato da Kierkegaard funzionalmente non come statico-esistente, bensì come spirito, deve trascendere il legame della natura al quale nella « mancanza di trasparenza ›› apparterrebbe di necessità il suo substrato. Il commento nella Scuola di cristianesimo rende evidente il carattere funzionale della dottrina del «rapporto ››; «E che cosa vuol dire essere un 10? Consiste nell'essere un raddoppiamento. Così, il termine di attrarre veramente a sé assume a questo punto un duplice aspetto. La calamita attira il ferro, ma il ferro non è un Io; così, in questo caso, il fatto di attirare è semplice. Ma un Io è un raddoppiamento, è libertà; in questo caso, attrarre veramente a sé equivale dunque a porre una scelta. Per il ferro che è attirato non c'è e non può esserci questione di scelta. Ma un 10 non può veramente attrarre un altro Io se non mediante una scelta, di moclo
che attrarre a sé in verità rappresenta un atto composto ›› .38 Questa concezione dell'10 come un « rapporto» ne mette a nudo il carattere mitico. Il « mettersi in rapporto con se stesso del rappor-
204 to ›› non dà un senso sicuro, a meno che non si ammetta appunto quella X come substrato del rapporto. Le definizioni della Malattia mortale tuttavia vogliono, in contrapposto a quelle della Postilla non scientifica, sceverare proprio il substrato «non trasparente ››, mediante l'introduzione di pure funzioni. Ora però il concetto del rapporto non dice altro se non che i suoi membri si mettono in rapporto tra loro; non che il loro rapporto stia in rapporto col « tutto ››. Il « mettersi in rapporto con se stesso del rapporto ›› perciò non può, senza « substrato ››, essere in un primo momento inteso riflessivamente. Ma se il mettersi in rapporto con se stesso del rapporto non è né il riferimento a un substrato, né una riflessione del rapporto su se stesso, che ovviamente sarebbe già un'0ggettivazione, allora con la locuzione riflessiva di Kierkegaard non dovrebbe intendersi null'altr0 se non una struttura del rapporto stesso, sulla quale poi si potrebbe riflettere. Bisogna domandare: in che cosa un «rapporto» si distingue da un « rapporto che si mette in rapporto con se stesso ››? La sola risposta possibile è: il secondo, in quanto unità, produce, traendoli da se stesso, i momenti che si pongono in rapporto tra loro, come per il giovane Hegel la «vita» è unità del disunentesi; mentre il primo, il puro e semplice «rapporto» poneva in relazione tra loro momenti divergenti. Il mettersi in rapporto con se
205 stesso è una denominazione metaforica per l'originaria unità produttiva che « pone ›› e riunisce al tempo stesso gli opposti. Così nel microcosmo dell'10 di Kierkegaard si cela non soltanto la sintesi trascendentale kantiana, ma persino il macrocosmo della hegeliana « totalità ›› infinita e produttiva. L'Io di Kierkegaard è il sistema contratto, senza dimensioni, nel « punto». Che l'abb0zzo dell'10 sia realmente sostenuto da quello della totalità è rivelato da un passo del Concetto dell'angoscia: « Così egli deve portare nella sua anima anche un po' di originalità poetica per poter subito formare il tutto e la regola da quello che nell'individuo si presenta sempre soltanto parzialmente e irregolarmente ›› .S9 Nella configurazione di totalità e originarietà è facile sospettare la sintesi trascendentale. È innegabile che questo Io, posto e ponente in maniera totale nell'originarietà è uguale, in quanto « intatto ››, all'1o organico: a quello puramente naturale. Infatti la creatura, discorde fra natura e soprannaturale, producendo spontaneamente dal suo interno (in quanto Io, in quanto « rapporto che si mette in rapporto con se stesso ›› e originaria unità produttiva) la dualità di natura e soprannaturale, si è improvvisamente eretta a creatore. Ma con ciò ha abbassato a sé e ritrasformato in natura lo « spirito ›› che essa pretende per sé. In quanto mitica e autodeterminatasi, essa persevera nell'indistinto
206 legame di natura, e misura il concetto più elevato di se stessa su quello della vita organica. Trasparente potrebbe diventare solo per la trascendenza. Per se stessa rimane costantemente oscura. Qui ha la sua origine il controsenso della proposizione kierkegaardiana del «rapporto che si mette in rapporto ››. Egli tenta di salvare alla trasparenza l'10 oscuro, spontaneo e autopostosi, secondo il postulato: « Mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'Io si fonda, trasparente, sulla potenza che l'ha posto ››.“*° Ma in quanto «rapporto che si mette in rapporto con se stesso ››, l'10 è anche la « potenza che l'ha posto ››, e così la sua trasparenza è un rispecchiamento come nelle immagini dell'intérieur, ma come tale è apparenza. L'1o di Kierkegaard rimane mitico-ambiguo fra l'autonomia, quale immanente produzione di senso, e una riflessione che percepisce se stessa nell'apparenza di ontologia. Nella definizione della disperazione è accentuato il momento riflessivo: « La disperazione è il rapporto falso in un rapporto di sintesi che si mette in rapporto con se stesso. Ma il rapporto falso non è la sintesi. Esso è soltanto la possibilità, oppure la sintesi implica la possibilità del rapporto falso. Se la sintesi fosse essa stessa il rapporto falso, la disperazione non esisterebbe affatto; essa sarebbe uno stato inerente alla natura umana come tale, vale
207 a dire: non sarebbe disperazione ›› .41 Il rapporto falso di fronte al rapporto sintetico può, in quanto disperazione, essere dato solo nella riflessione; in un rapporto non vi è alcun « rapporto falso ›› irriflesso, perché questo può essere misurato solo alla stregua di un terzo, riflesso. A ciò corrisponde la riluttanza di Kierkegaard a fare della disperazione una categoria naturale nell'immediatezza del « rapporto ››. Ma la caratteristica che Kierkegaard assegnerebbe alla disperazione se questa fosse identica alla « sintesi ›› quale pura immediatezza, è da applicarsi letteralmente alla stessa definizione del rapporto che si mette in rapporto. Questo diviene un « raddoppiamento ›› soltanto perché la contraddizione fra trasparenza ontologica e autodeterminazione mitica non si lascerebbe mitigare altrimenti che nell'apparenza riflessiva. L'i1nità producente del rapporto ritrascina l'Io di Kierke-
gaard dentro la stessa natura dalla quale la trasparenza alla potenza che l'ha posto lo doveva purificare. La dialettica di natura e soprannaturale risulta dallo spirito naturale in quanto esso è unità di entrambi; la trasparenza non le è concessa, ed essa deve ricominciare sempre da principio. Perciò il ruolo dominante che hanno « raddoppiamento ›› e « ripetizione ›› : quest'ultima parola non fornisce soltanto il titolo di uno scritto, ma costituisce anche sostanzialmente l'immagine dell'inte'rieur. Racchiusa nell'am-
208 bito della vita naturale, essa rimane mitica e rimane evocazione persino là dove Kierkegaard se ne serve come di forma « esistenziale ›› della vita giusta. La ripetizione gira nel centro mitico della sua filosofia: nel «rapporto col rapporto ››, quale viene da lui determinato l'10. Se mai Kierkegaard comunica con Nietzsche più profondamente di quanto non lo riferiscano vuote frasi, è proprio qui; la « immagine di una eternità imitata da infinita ripetizione ›› 42 che Bloch dimostra costituire l'« eterno ritorno ›› di Nietzsche, è anche l'immagine di quell'eterno nell'uomo, intorno al quale si radunano invano i concetti della dottrina kierkegaardiana dell'esistenza. L'essenza mitica dell'esistere prorompe nella dottrina della disperazione. Questa anticipa la critica del concetto dell'esistenza: « Per voler essere disperatamente se stessi ci deve essere consapevolezza di un Io infinito. Quest'Io infinito, però, è soltanto la forma più astratta, la possibilità più astratta dell'10. Ed è questo l'10 che l'uomo disperatamente vuol essere, staccando l'Io da ogni rapporto con una potenza che l'ha posto, o staccandolo dall'idea che una tale potenza esiste. Per mezzo di questa forma infinita l'Io vuole disperatamente disporre di se stesso, o creare se stesso ››.” L'intuizione centrale gli si trasforma in accecamento là dove essa dovrebbe divenire feconda per l'interpretazione dell'10;
209 perché, se l'10 sacrifica la sua pretesa di autonomia, cade in preda a cieca rassegnazione al suo fatale essere così, che invece prima egli stesso aveva prodotto in cieca caparbietà; solo il disperato infatti, in Kierkegaard, si assume il compito-di « trasformare tutto l'10 concreto per poi cavarne fuori un lo come lo desidera, prodotto per mezzo della forma infinita dell'10 negativo; e così vuol essere se stesso ››.“ All'« esistenza 1» non vien lasciata alcuna via d'uscita dalla confusione dei concetti che la delimitano intorno. Tutto il kierkegaardiano esistere è in verità disperazione, e solo da ciò traggono la loro forza le pagine della Malattia mortale. La speranza non ha posto nell'esistenza, e il paradosso cristiano non viene donato come miracolo della grazia a una «religiosità A» generale, esistenziale, bensì da essa disperatamente richiesto. Nessuna teologia ha mai abbozzato l'idea della speranza per un « rapporto ›› o per il substrato indeterminato di esso, bensì sempre soltanto per la creatura mortale: l'esplicazione che Kierkegaard dà dell'esistere, scinde invece la creatura con l'innalzarla fallacemente in trascendenza in quanto « spirito ››. L'apersonalità dell'« esistere ›› viene fatta comprendere da Kierkegaard in quella della disperazione. È vero che la disperazione deve fornire il concetto opposto a quello dell'esistere. Ma il fondamento della distinzione non è per lui l'apersonalità del disperare,
210 bensì il rifiuto del «rapporto» di esserlo. L'apersonalità di questo è allontanata unicamente dal substrato indeterminato dell'10. Se la « riflessione ››, che in quanto trasparenza doveva svelare al «senso» il rapporto esistenziale, era apparenza, allora una tale apparenza scompare nella dottrina della disperazione e nulla ha il potere di trattenere ormai il crollo dell'esistenza. Perché la disperazione è per lui oggettiva e indipendente da ogni consapevolezza di se stessi. Kierkegaard accetta come certo « che è proprio una forma di disperazione quella di non essere disperato, di non essere consapevole di esserlo ››.'*5 Con ciò l'10 viene consegnato alla completa demonìa della natura; ogni rischiaramento ha perso il suo diritto su di esso, e non rimane null'altro che il « rapporto ›› apersonale al quale è sottratta la consolazione dello specchio, il «mettersi in rapporto con se stesso ››. L'ultima parola della dialettica esistenziale è la morte, e a buon diritto Heidegger ha interpretato l'esistere di Kierkegaard come un essere per la morte, per quanto Kierkegaard respinga sempre un simile essere in quanto disperazione. « Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte, e la morte sarebbe la fine. E questa è, per l'appunto, la disperazione. ›› 4° Ma anche l'« esistenza ››.
211 Se però la morte è l'ultima parola dell'evocazione senza immagini, essa è al tempo stesso anche la sua prima immagine. Nella disperazione compaiono sfavillando demonicamente le figure primordiali della ripetizione esistenziale: Sisifo e Tantalo come personificatori di miti di ripetizione. Sotto la morte si schiude, muto, un regno di immagini: quello dell'assenza di ogni speranza, fuori del tempo, nel reietto infinito di una natura precipitata. È il non poter morire considerato come eternità negativa: « Al contrario, il tormento della disperazione è proprio non poter morire. Perciò somiglia più allo stato del moribondo quando si torce nella lotta con la morte e non può morire. Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l'assenza di ogni speranza significa qui che non c'è nemmeno l'ultima speranza, quella della morte. Quando il maggiore pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte ››.*" Nell'abisso più profondo della dialettica esistenziale: nell'apersonalità della disperazione, nella quale il puro spirito dell'esistente, trasci-
nato dai gorghi di una ripetizione vorticosa, viene infine sommerso, tocca il suo fondo il soggettivismo di Kierkegaard. Ma proprio là dove egli meno lo presumeva: non nel « senso ›› ontologico, bensì nell'assurdità eternata. È l'onto-
212 logia dell'inferno, quella che la dottrina kierkegaardiana dell'esistenza nasconde, simile a uno strato sottile e fallace: « In quest'ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia dell'10 di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provare vivendo il morire; e poter vivere in questo stato per un solo momento vuol dire dover vivere in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l'eterno in lui, l'10, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia. Ma questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. 11 disperato non può morire; ' come il pugnale non può uccidere i pensieri ', così la disperazione non può distruggere l'eterno, l'Io che sta a base della disperazione, ' il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne' ››." Così l'esplicita descrizione delle pene dell'inferno, della cui eternità egli parla assentendof” viene sviluppata senza frattura non dalla dogmatica cristiana, ma dalla filosofia dell'esistenza e dal suo centro idealistico. Tuttavia, unicamente l'immagine dell'inferno strappa qui l'uomo dall'incantesimo della sua inguaribile immanenza, distruggendolo. «Ma per raggiungere la verità bisogna pas-
213 sare attraverso tutte le negazioni, perché qui vale ciò che racconta la leggenda popolare dello scioglimento di un certo incantesimo: bisogna suonare tutto il pezzo dalla fine tornando indietro, altrimenti 1'incantesimo non si scioglie. ›› 5° Se l'10, unità produttiva del «rapporto che si mette in rapporto con se stesso», si è ostinato contro la trasparenza in apparente riflessione e vorticosa ripetizione, la sua potenza svanisce dinanzi alle evidenti immagini della demonìa. Essa annulla l'autonomia dell'10 insieme alla sua figura dinamica. Questa si rivela in ultima istanza come qualcosa di più che non pura ostinatezza mitica contro l'essere trasparente: e cioè come disperata difesa della natura contro il suo disfacimento e il suo smembramento. In quanto «rapporto ››, l'10 deve essere al sicuro dalla follia che minaccia sempre e sempre i suoi disparati momenti. Così il doppio senso dialettico dell'astratto scegliere se stessi: si pretende che la creatura umana prigioniera nell'immanenza non sia destinata anche alla dissociazione mitica, dalla quale in ultimo pur la protegge l'atto autonomo: « O puoi pensare qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri, divenga una legione come gli infelici esseri demoniaci, e che così tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell'uomo, il potere che lega insieme la personalità? ›› 51 Sotto
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tale aspetto appare la regione infernale al soggetto che viene trascinato giù nei suoi abissi; esso può emergerne, purché l'apparenza del suo essere particolare autopostosi si dilegui dinanzi alla realtà di quell'essere che sorge nel tramonto della sua falsa, immanente unità. L'1o che si avvicina a un tale fondo è ancora mitico. La sua fede rimane nel profondo prigioniera della « volontà » in quanto figura mitica dell'idealismo. Nella definizione che Kierkegaard dà del « cristiano ›› e del « socratico ››, sono collegate tra loro peccaminosità e volontà: «Ma allora dov'è l'inconveniente? L'inconveniente sta nel fatto (di cui il pensiero socratico stesso, ma soltanto fino a un certo punto, si accorge, e a cui cerca di rimediare) che manca una determinazione dialettica riguardo al passaggio dall'aver compreso al fare. Qui comincia il cristianesimo; e procedendo per questa via arriva a dimostrare che il peccato sta nella volontà, arriva al concetto dell'ostinazione; e per fissare poi il punto di partenza aggiunge il dogma del peccato originale ››.52 Ma se la volontà ha attirato il peccato, essa non è in grado di cancellarlo: come nella fiaba, in quanto trasformazione di miti, desideri espressi non si possono più revocare a proprio piacimento. Il peccato, venuto su dalla volontà autonoma, non può per Kierkegaard essere allontanato col desiderio dalla stessa vo-
215 lontà: « Chi poi desidera addirittura allontanare il peccato dal mondo ››, e secondo la Malattia mortale il peccato è appunto la disperazione, « riduce l'uomo a qualcosa di più imperfetto: l'individuo, piegandosi in umiltà sotto la peccaminosità, viene a trovarsi più in alto che prima ››.” Mentre in tal modo, nella libertà del peccato, l'10 si trincera nella sua immanenza, per sottrarsi alla dissociazione mitica, non fa invece che andarle incontro: nello stadio della disperazione in quanto .stadio della completa peccaminosità. La disperazione lo dissocia e i ruderi dell'10 disgregantesi sono i segni caratteristici della speranza. Questa rimane nell'opera di Kierkegaard la verità dialettica più profonda, e perciò nascosta a lui stesso e in grado di rivelarsi soltanto nella storia postuma dell'opera sua. Essa giustifica l'enigmatico passo, mai spiegato nel corso del volume, della premessa alla Malattia mortale, secondo il quale «la disperazione, in tutto questo scritto, è intesa, come dice il titolo, quale malattia, non quale mezzo di guarigione. Così dialettica, infatti, è la disperazione ››,54 capovolgendosi in rimedio per aiutare il corpo spirituale, non appena essa spezza la « continuità del peccato ›› 55 che è quella della sua volontà autonoma. In disperazione oggettiva, ne1l'ontologia dell'inferno, risorge alla filosofia di Kierkegaard, infranta, discissa, condannata, la vera immagine dell'uo-
216 mo. Non più a lungo ormai nel crepuscolo di libertà e natura: ma nel nome di giudizio e di grazia. Dall'idea del giudizio, non da quella dell'autonomia dello spirito umano, vien salvato il concetto kierkegaardiano del singolo, che non giudicato cadrebbe in preda alla mitologia: « Un giudizio! Noi uomini abbiamo imparato, e ce lo insegna l'esperienza, che quando su una nave 0 in un esercito c'è un ammutinamento, i colpevoli sono tanti che bisogna rinunciare alla punizione; e quando si tratta del pubblico, dell'onoratissimo pubblico colto 0 del popolo, allora non solo la ribellione non è un delitto, ma, secondo il giornale di cui ci si può fidare come del vangelo 0 della rivelazione, è la volontà di Dio. Come si spiega ciò? Si spiega per il fatto che il concetto di giudizio corrisponde al singolo; perché non si può giudicare en masse; si può ammazzare la gente en masse, farle prendere l'acqua en masse, lusingarla en masse, insomma, trattare in diversi modi la gente come il bestiame; ma non giudicare gli uomini come il bestiame, perché non si può giudicare il bestiame; per quanto sia grande il numero di coloro che si giudicano, se si deve giudicare con serietà e verità si giudica ogni singolo uomo. Ecco perché Dio è il ' giudice ': perché davanti a lui non esiste la massa, ma soltanto i singoli... L'essenziale è che siamo molti, proprio molti, ad andare d'accordo; se riusciamo in questo,
217 siamo sicuri del giudizio dell'eternità. Ma davanti a Dio erano e sono sempre dei singoli ».5° Nella luce del giudizio universale avrebbe il suo luogo e la sua ora la « trasparenza ›› di Kierkegaard. La natura, che si estingue come esistente, come disperata: qui si chiarirebbe secondo dannazione e redenzione. Nel mondo de1l'esperienza però è concreto tutto ciò su cui cade una traccia di questa luce. Descrivere la via che la concrezione percorre attraverso il regno miticoastratto di Kierkegaard, significa porsi il problema di rimisurare la compagine estensiva di un pensiero che in quanto esistenza si intrecciava in senso intensivo.
V
LA dottrina kierkegaardiana de1l'esistere si potrebbe chiamare realismo senza realtà. Essa contesta l'identità di pensiero e di essere, senza tuttavia ricercare l'essere altrove se non nell'ambito del pensiero stesso. Ma proprio qui esso gli si rifiuta come risposta: l'essere dell'10 viene determinato funzionalmente, come «rapporto ›› i cui movimenti devono evocare un «senso» ontologico, senza che con ciò divenga trasparente l'esistenza stessa. Di conseguenza, come il senso ontologico e il substrato dell'10, così anche ciò che dell'10 viene predicato: la compagine delle qualità dell'interiorità in quanto loro « realtà ››, viene a presentare un'antinomia centrale. La filosofia dell'esistenza esposta da Kierkegaard non è altro che il tentativo sia di padroneggiare l'antinomia dell'esistenza nel pensiero, sia di giustificarla come sostanza di verità. E cioè in forma sistematica. Per quanto egli possa parlare con disprezzo del « sistema dell'esistenza ›› di Hegel, tuttavia, contraendosi per lui l'esistenza nella coscienza, divenendo l'atto spontaneo della libertà la più intima determinazione della soggettività, e subordinandosi la sua immagine dell'uomo, in quanto « totale ››, a pure determinazioni di pensiero, egli soggiace alla costrizione idealistica del sistema. Nello stesso
219 tempo però deve tentare di esprimere in forma di sistema tutto ciò che nel suo abbozzo si oppone alla sistematica: l'essere che porta il pensiero; il senso ontologico che non si risolve in pensiero; le fratture che non si lasciano chiudere dalla continuità della deduzione; tutti elementi, questi, che pure hanno la loro sede in quella spiritualità la quale agisce come potenza creatrice di sistemi. Il sistema paradossale dell'esistenza è stato esposto da Kierkegaard nella teoria delle «sfere ›› dell'esistenza. Pur avendo accuratamente evitato per tale teoria la denominazione di « sistema», egli stesso poi ne ha tradito il carattere di sistema con la parola « schema ›› che non invano ricorda Kant: « Secondo questo schema ci si potrà orientare e, senza esserne disturbati, quando qualcuno trattando di estetica adopera il nome di Cristo e tutta una terminologia cristiana, tener presenti solo le categorie ››.1 Questo «schema» è enunciato due volte. Più particolareggiatamente negli Stadi: «Vi sono tre sfere dell'esistenza: quella estetica, quella etica e quella religiosa. Il campo metafisico è l'astrazione: non v'è alcun uomo che viva metafisicamente. Il metafisico (l'ontologico) è, ma non esiste. Se esiste, esso è nell'estetico, nell'etico, nel religioso; se è, esso è l'astrazione dell'estetico, dell'etico, del religioso, ovvero è un prius avanti a questi. La sfera etica è solo una sfera
220 di transizione; perciò la sua espressione più alta è un agire negativo: il pentimento. La sfera estetica è quella dell'immediatezza; la sfera etica è quella dell'esigenza (e questa esigenza è così infinitamente grande che l'individuo regolarmente vi fa fallimento); la sfera religiosa è quella dell'adempimento ››.? Ciò viene ripetuto in maniera più concisa e integrato nel secondo volume della Postilla non scientifica: «Vi sono tre sfere dell'esistenza: l'estetica, l'etica e la religiosa. A esse corrispondono due stadi di confine: l'ir0nia è il confine fra l'estetico e l'etico, l'um0re il confine fra l'etico e il religioso ››.* Questo schema delle sfere non viene dedotto: simili alle « idee ›› platoniche, le sfere sono poste l'una accanto all'altra assiomaticamente. ll processo di pensiero che si impadronisce di loro è quello della distinzione; costituisce il concetto opposto di ogni « mediazione ›› dialettica e viene formulato da Kierkegaard polemicamente: « Nella nostra epoca si mischia tutto insieme, si risponde all'estetico eticamente, alla fede con l'intelletto eccetera. Si riesce a risolvere tutto, è vero, eppure non si bada affatto in quale sfera ciascuna domanda abbia la sua risposta. Nel mondo dello spirito ciò causa una confusione ancora maggiore che se nel mondo borghese, ad esempio, un quesito su argomenti religiosi venisse sbrigato dalla commissione per la pavimentazione stradale ››.* Se con ciò si tiene lon-
221 tana dal metodo una comunicazione attraverso la « mediazione ››, anche l'intima sostanza delle sfere stesse, la soggettività, viene sottratta appunto a quella dialettica che, secondo la dottrina dell'esistere, costituiva, in quanto rapporto clie si mette in rapporto, proprio la soggettività: «Se l'individuo in sé è adialettico e ha la sua dialettica all'infuori di sé: in questo caso abbiamo le concezioni estetiche. Se l'individuo è dialettico verso l'interno, in se stesso, in autoaffermazione, cosicché l'ultimo fondamento non diviene dialettico in sé, perché l'10 che è alla base viene adoperato per superare e affermare se stesso: in questo caso abbiamo la concezione etica ››.5 Di conseguenza all'1o, che nelle definizioni della Malattia mortale è sottomesso a unadialettica tanto completa da esser destinato, sotto la categoria disperazione, alla dissociazione, viene semplicemente attribuito un substrato ontico: un « ultimo fondamento che non diviene dialettico in sé ››. Anche se per il Kierkegaard della Postilla il concetto di esistenza non era ancora così sviluppato come per il Kierkegaard della Malattia mortale, la contraddizione fra la gerarchia delle sfere e la dottrina dell'esistenza non è senza importanza oggettiva. Se nel punto esistenziale l'essere e il divenire si fondono privi di differenza, essi devono però scindersi per tutte le determinazioni della vita vissuta. Perciò le sfere
222 costituiscono un « sistema ›› dalle cui oggettivazioni la pura attualità del «rapporto» doveva forse distanziarsi; ma anche perciò le sfere si delimitano tra loro con caratteri di essere che il vortice esistenziale aveva annientato. Così la teoria delle sfere è qualcosa di meno e qualcosa di più che una esposizione materiale dell'« abbozzo ›› dell'esistenza. Di meno, perché non si mantiene nella pura attualità, ma testimonia la costrizione alla oggettivazione proprio là dove Kierkegaard crede di averla eliminata. Di più, perché la soggettività, costretta a interpretare una volta se stessa materialmente e non soltanto a immergersi in se stessa come nell'unità produttiva, giunge ad asserzioni sull'ente quali alla dottrina kierkegaardiana dell'esistenza, nella profondità della sua concentrazione, non è dato altrove di esprimere. Il carattere sistematico della gerarchia delle sfere viene confermato dalla sua origine storica. In quanto categorie dell'esistenza umana singola, i concetti dell'estetico, dell'etico e del religioso ne articolano lo sviluppo nel tempo. Perciò esse si chiamano, alternativamente, ora sfere, ora stadi. Gli stadi, gradini dialettici del processo dell'esistenza, sono però ricavati in strettissimo contatto con la sistemazione hegeliana. Ciò è evidente nell'abbozzo del concetto: nella costruzione degli «stadi dell'erotico immediato ››, nel primo volume di Aut aut, che
223 rimane fedele a Hegel fin nella forma linguistica: « La contraddizione del primo stadio consiste nel fatto che il desiderio non ha nessun oggetto, però esso, senza aver desiderato, possiede il suo oggetto e perciò non può desiderare. Nel secondo stadio l'oggetto appare nella sua molteplicità; ma mentre il desiderio cerca il suo oggetto in questa molteplicità, esso, in senso più profondo, non ha nessun oggetto e non è ancora determinato come desiderio. Nel Don Giovanni invece ›› (nel terzo stadio) « il desiderio è completamente determinato come desiderio; esso, in senso intensivo ed estensivo, costituisce l'immediata unità dei due stadi precedenti. Il primo stadio desiderava idealmente l'uno; l'altro stadio desiderava il singolo sotto la determinazione del molteplice, il terzo stadio rappresenta l'unità`di entrambi ››.“ Secondo il ritmo hegeliano il passo successivo sarebbe il capovolgimento della quantità nella qualità: dalle determinazioni dell'immediatezza in quelle della riflessione. E la coincidenza strutturale arriva effettivamente fino a questo: la fresca qualità della « riflessione ›› erotica viene rappresentata dal Diario del seduttore. Quando con la « mediazione ›› da parte della riflessione compare finalmente di fronte alla «immediatezza» estetica la « libertà » etica come nuovo gradino dello spirito, l'esposizione di Kierkegaard mantiene fino alla lettera il ricordo di Hegel, la cui «speculazio-
224 ne ›› dovrebbe pur essere superata dalla « decisione ››: « Il matrimonio è libertà e necessità, ma allo stesso tempo qualcosa di più; infatti la libertà del primo amore è propriamente libertà dell'anima: l'individualità non è ancora uscita dalla necessità della natura per chiarirsi in consapevolezza ››.' Il Kierkegaard delle opere posteriori sembra aver eliminato tali rudimenti dell'architettura hegeliana del sistema mediante la sua brusca svolta contro la filosofia dell'identità. Ma con lo schema dialettico si è mantenuta anche la ritmica hegeliana. Le obiezioni contro Hegel non colpiscono il movimentato essere dell'« idea ››, bensì soltanto il teatro di essa nella mera esistenza, dove per Kierkegaard l'idea si trasforma in apparenza, mentre l'esistenza trasfigurata si irrigidisce divenendo una cosa. Il motivo della distinzione però, che egli contrappone a ciò, non vuole contestare l'« idea ›› hegeliana, ma porla in salvo da Hegel stesso. E anzi con i mezzi propri di Hegel. Tutte le indagini antisistematiche, « psicologiche ›› di Kierkegaard, che mirano alla distinzione delle sfere, operano con la stessa forma della contraddizione che in Hegel mette in relazione tra loro i singoli momenti. Persino là dove, avulse dal « processo», le singole idee poste le une accanto alle altre occupano il paesaggio filosofico, la loro apparente vicinanza rimane un'opposizione contraddittoria. Drastico
225 è il passo nel Concetto dell'angoscia: «Incredulità/ superstizione. Si corrispondono perfettamente; ambedue mancano dell'interiorità, solo che l'incredulità è passiva attraverso un'attività e la superstizione attiva attraverso una passività... Ipocrisia/scandalo: questi atteggiamenti si corrispondono. L'ipocrisia comincia attraverso un'attività, lo scandalo attraverso una passività... Orgoglio / viltà: l'orgoglio comincia attraverso un'attività, la viltà attraverso una passività; per il resto sono identici ››.8 Come qui i concetti costituiscono contraddizioni parziali, così le «sfere ›› delimitano l'ambito fra gli uomini mediante una contraddizione totale. Diversamente da Hegel, la contraddizione non viene più elimínata nel concetto, ma rimane come segno della frammentarietà di un'esistenza alla quale è sbarrato il senso ontologico. La contraddizione totale si chiama « salto ››; «Perciò è una superstizione quella della logica di credere che, continuando le determinazioni quantitative, venga fuori una qualità nuova; ed è una reticenza inammissibile quella per la quale, pur non tacendo che ciò non avviene proprio così, se ne nascondano poi le conseguenze per tutta l'immanenza` logica, inserendo questo processo nel movimento logico, come fa Hegel. La nuova qualità nasce col ' primo ', col salto, con la subitaneità del1'enigmatico ››.” Questa affermazione resta altrettanto dipendente da Hegel, quan-
226 to polemica contro di lui e contro il « sistema ›› è la sua formulazione. Se Kierkegaard non ha taciuto 1'origine del termine « salto», l'ha per lo meno resa oscura con l'uso aggressivo che ne fa. Esso si trova già esplicito nella Fenomenologia dello spirito: « Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro, in un salto qualitativo, interrompe quel lento processo di solo accrescimento, e il bambino è nato; così lo spirito creatore matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l'edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che già sussiste, l'indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell'intero, viene interrotto dal rivolgimento che, come un lampo, riplasma il nuovo mondo ››.1° Kierkegaard ammette, è vero, che « Hegel stabilì il salto, ma lo stabilì nella logica ›› ,11 e tuttavia continua così: « Ma la sfortuna di Hegel è appunto che egli vuole far valere la nuova qualità, eppure non lo vuole, perché lo vuol fare nella logica la quale, appena si riconosca questo, deve acquistare un'altra coscienza di se stessa e del suo significato ››.” L'argomentazione deboluccia testimonia contro se stessa. Essa non
227 fornisce alcun altro criterio per distinguere il « salto» di Kierkegaard dal capovolgimento della quantità nella qualità, fuorché la differenza tra sfera «logica» (per Kierkegaard speculativa, pertinente allo spettatore), e sfera «etica ››, la quale è fondata proprio nell'atto del « salto ››; tale argomentazione quindi ha la forma di un circolo vizioso. Ma anche come pura e semplice esplicazione non potrebbe reggersi. Proprio nella pagina precedente Kierkegaard aveva rimproverato a Hegel, nella logica, di «credere che, continuando le determinazioni quantitative, venga fuori una qualità nuova ››; ora contesta l'introduzione del « salto» in una logica nella quale egli stesso lo ha richiesto come correttivo. La sua proposizione che « la nuova qualità nasce col 'primo ', col salto ››; e il suo « segreto del ' primo ' ››, sono in senso hegeliano anche determinazioni logiche. La vera differenza con Hegel non sta tanto nel « salto ››, quanto piuttosto nel fatto che le «sfere» si sottraggono alla sintesi; ma anche qui resta indeciso se non sia stato proprio lo schema hegeliano di logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito a dargliene il modello, tanto più che il «salto» nell'introduzione alla filosofia della natura non rimase inosservato nella discussione dei contemporanei intorno a Hegel. Con ciò è fuori questione l'origine idealistica delle « sfere ››. Esse sono i momenti antitetici di quel
228 processo dialettico che l'« Io ›› inaugura per ricostruire il senso ontologico in se stesso. Come tali, le sfere costituiscono «stadi nel cammino della vita ›› : si capovolgono l'una nell'altra. Ma poiché alla continuità del processo non è concesso il « senso ››; poiché l'Io persevera in una ripetizione rotatoria, non trasparente alla verità sbarrata e incapace di porla partendo da se stesso, la totalità delle sfere, per quanto prodotta sinteticamente dall'unità dell'10, non combacia insieme ad arrotondare il sistema. È una totalità costituita da strati di rovine, e nella profondità dell'abisso che le separa spumeggia la dialettica che non è una corrente tranquilla che trasporti dall'una all'altra. Le sfere staccate tra loro, come da una catastrofe naturale, da quella dialettica di Kierkegaard che poco prima le aveva create come stadi, si rendono autonome in qualità di «idee» e dominano sull'esistenza dalla quale esse, movimenti articolatori della sua unità, erano prima risultate. Questo dominio è però mitico. Nella distinzione delle sfere la soggettività si erige a giudice di se stessa, e il giudizio della sua limitatezza è così apparente come è invano il processo infinito col quale essa, in quanto « esistenza», tentò di appropriarsi la grazia. Se la soggettività si rinchiuse qui nell'oscurità senza fondo e senza nome della sua completa vicinanza, ivi le brillano di luce ambigua le stelle fisse che
229 dal suo abisso si sollevano a una rigida, lontana eternità. Le loro immagini sono le sfere. Tutta la loro nomenclatura è astrale e, come nelle figure terminologiche di una filosofia si condensano sempre le sue esperienze più segrete, la parola sfera non richiama invano alla memoria la mitica armonia dei pitagorici. Quella formula kantiana del cielo stellato sopra di noi e della legge morale in noi, ricompare con le « sfere» di Kierkegaard come in uno scorcio barocco; il cielo stellato è crollato nel cieco Io, e la legge della sua libertà si è trasformata in quella di necessità naturale. La vita morale stessa si ordina secondo categorie della natura. Cioè secondo categorie non di causalità ma astrologiche. Esse ritornano in Kierkegaard continuamente. Non soltanto perché egli ama «riunire ›› i concetti invece di svilupparli, come gli idealisti, gli uni dagli altri: « nel riunire consiste ogni approfondirsi dell'esistenza ›› .13 Apertamente astrologica è l'espressione della Malattia mortale: « Una tale esistenza di poeta, come si vede dalla congiunzione e dalla posizione delle categorie, sarà l'esistenza di poeta nel senso più eminente ›› ,14 e più che mai lo è la proposizione della Postilla: « Se mai la posizione delle stelle in cielo ha indicato spavento, anche la posizione delle categorie qui non indica riso né sollazzo n.15 Ma spavento è l'espressione di tutte le « sfere ›› di Kierkegaard. Esso è insito
230 nella grandezza del loro ambito di concetti universali. Nel vuoto di tale ambito si rivela, così come nel microcosmo, nel cieco « questo qui ›› dell'esistenza, la mitica essenza de1l'astrattezza. Le costellazioni delle sfere sono sempre segni evocatori, tutti allegorici. Perciò le continue invocazioni dell'estetico, etico, religioso, il cui carattere di oggettività non vuole affatto accordarsi con la pretesa di essere un « pensatore soggettivo ›› ; perciò formulazioni assurde come questa: « Per rimanere nel mio campo, nel religioso ›› .1“ Perciò anche le goffe riflessioni metodologiche di Kierkegaard; per esempio la domanda, completamente disconosciuta dallo Schrempf,1" che viene posta da Kierkegaard nel titolo della sua introduzione al Concetto dell'angoscia: « In che senso l'oggetto della riflessione è un compito che interessa la psicologia, e in che senso, dopo aver costituito il compito e l'interesse della psicologia, indica la via alla dogmatica ››.” I supremi concetti universali, posti dalla coscienza per dare un ordine alla sua varietà, le si mettono di fronte, alienati, come potenze interpretatrici che descrivono la propria orbita; ed esse guidano il destino del singolo tanto più completamente quanto più estranee gli sono divenute, quanto più recondita è la loro origine umana interna: quanto più dunque è avanzato in loro il processo dell'astrazione. I loro disparati contorni, nude linee di de-
231 marcazione che il razionale processo deduttivo di Kierkegaard tira contro la sua stessa pretesa alla totalità, si trasformano, in virtù della loro astrattezza, proprio nella costellazione della mitologia minacciante da lontano. Frutto delle sue deduzioni idealistiche è un arcaico realismo di concetti. E certo non soltanto questo. Infatti, per quanto le sfere possano dominare come demoniaci abstracta, l'astrologia che le « riunisce ›› in una figura è una testimonianza di quanto il « senso ›› del concreto sia lontano dal puro concetto universale, nel cui ambito rientra l'oggetto in questione, e perciò essa cerca di assicurarsi il detto oggetto in un'altra maniera. La singola esistenza umana viene interpretata sotto costellazioni, per evitare definizioni. Ciò che rimane oscuro alla pura contemplazione, ciò che in quanto sostanza intima sfugge alla trasparente forma categoriale: questo quid essenziale il pensiero vuole ricavarlo dalle figure che sono tracciate intorno all'oggetto dall'insieme dei concetti a esso pertinenti; tuttavia, trovandosi l'oggetto al fuoco, esso può ben dettare alla figura la sua legge, ma non viene poi a trovarsi su una delle curve. Diversamente dalla matematica, la dialettica non è in grado di formulare in maniera concisa le leggi di figura e di fuoco. Costellazioni e figure sono per la dialettica un cifrario, e il suo « senso ››, sommerso nella storia, non può calcolarsi a piacimento. In
232 quanto dottrina cifrata, il metodo kierkegaardiano della costellazione riporta indietro al modo del1'apparizione dell'ontologia nel suo pensiero. Le sfere, sorgenti idealisticamente, poi mitiche potenze del destino, non sono prive di importanza ontologica. Infatti, per la loro distinzione, Kierkegaard costringe proprio la conoscenza a penetrare nell'inaccessibilità dell'ontologia. Il fatto che la verità sia sbarrata, fa della continuità di sviluppi ininterrotti dall'« idea ›› una finzione che si infrange nelle fratture esistenti fra le sfere. La totalità dell'infinito è negata alla condizionata coscienza umana; nel finito invece è necessario distinguere. Ciò intende la critica di Kierkegaard alla dottrina hegeliana dell'infinità positiva: « L'individuo positivo ha, come l'organetto positivo, una ' infinità positiva'. Questo è giustissimo: un organetto positivo è qualcosa di pronto, e quando lo si è udito suonare una volta, si è anche noi bell'e pronti. Qui c'è risultato in abbondanza. Così accade nell'organetto positivo e nell'individuo positivo. Se si domanda a maestro Hegel che cosa si debba intendere per infinità positiva, vi si trova molto da leggere; è parecchio faticoso, ma tuttavia alla fine lo si capisce. Rimane soltanto una cosa che un ritardatario così greve come me non riesce a capire: e cioè come un uomo vivente, ovvero un uomo in carne e ossa, divenga un essere tale da riu-
233 scire ad aver pace in questa infinità ' positiva ' che altrimenti è riservata alla divinità 0 ai defunti. Dunque ci manca ancora qualcosa (non posso intenderlo diversamente), un risultato che noi negativi, noi imperfetti, attendiamo; e del resto, en passant, lo facciamo volentieri: se, dopo che il sistema è ormai già da tanto compiuto, l'astrologia non avrà finalmente la fortuna di scoprire su una qualsiasi cometa 0 nebulosa quegli esseri superiori ai quali questo sistema potrebbe anche far comodo. Il resto sia pure lasciato a quegli esseri superiori: gli uomini, al contrario, dovrebbero guardarsi bene dal divenire troppo 'positivi ', perché il solo risultato è quello che si vien beffati dall'esistenza. L'esistenza è maligna e ha pronti vari trucchi per imprigionare l'avventuroso; ma chi vi si lascia prendere viene tutt'altro che trasformato in un essere superiore ››.” Kierkegaard non si è accorto come la sua dottrina delle sfere si avvicini a una «astrologia» di cui egli adopera le espressioni; anche la concezione di una «esistenza maligna ›› che egli contrappone a Hegel, porta i tratti caratteristici dell'inganno mitico. E tuttavia i confini delle sfere sono qualcosa di più che non i contorni di concetti universali magicamente ipostatizzati. Essi marcano la distanza fra la creatura e l'ontologia. Questa è la vera intenzione insita nella polemica di Kierkegaard contro la «mediazio-
234 ne ›› hegeliana. Infruttuosa è la polemica come tentativo di statuire, al di là della dinamica soggettiva, l'ontologia nel regno ideale delle «sfere ›› che in qualità di abstracta dominano l'esistenza sia senza rigore, sia minacciando caparbie. Ma legittimamente tale polemica demolisce la pretesa, da parte della soggettività, di porre l'ontologia traendola da se stessa in virtù del principio dell'identità. Perciò la discussione fra Hegel e Kierkegaard non può essere condotta a termine su terreno idealistico. Di fronte a Hegel, Kierkegaard ha fallito la concrezione storica, l'unica vera; l'ha tratta dentro il cieco Io, l'ha fatta dileguare nelle vuote sfere: ma con ciò ha rinunciato a1l'esigenza centrale di verità della filosofia, quella dell'interpretazione della realtà, e ha chiamato in aiuto una teologia a.lla quale però la sua filosofia succhiava tutto il sangue. Hegel ha posto la questione della concrezione più energicamente di quanto l'abbia mai fatto qualsiasi filosofia prima di lui, ma nel porla egli soggiace alla realtà credendo di produrla: una realtà che non è razionale dinanzi a un «senso» che è evaso dalla realtà. Idealistici, lo rimangono entrambi: Hegel con la sua definizione conclusiva dell'esistenza come sensata, « razionale ››; Kierkegaard con la negazione di essa, negazione che, partendo dal puro pensiero, distacca il «senso» dall'esistenza altrettanto completamente come Hegel li costrin-
235 ge insieme. Elementi ontologici e idealistici si sovrappongono in Kierkegaard, e il loro intrecciarsi rende così impenetrabile la sua filosofia. La pretesa di uno spirito « assoluto ›› domina nella rinuncia del mondo, in quanto completamente insensato, non altrimenti che nella trasfigurazione del medesimo operata dal sistema della ragione. Che la soggettività conceda alla realtà un « senso ›› 0 che glielo neghi, in ambedue i casi essa si erge come istanza che ha il compito di giudicare circa il « senso ››, perché questo è insito in essa stessa. Che perciò il realismo concettuale delle sfere raggiunga la realtà delle cose altrettanto poco quanto la raggiunge l'ermeticità esistenziale, lo si può dimostrare logicamente servendosi della definizione kierkegaardiana dell'umore. Questa infatti ha le sue radici nell'affermazione di una radicale contingenza del mondo esterno; ed è appunto con questa che 1'umore non si può sufficientemente definire, come invece tenta Kierkegaard: « Se un umorista ad esempio dice: ' Se mi fosse dato di vedere il giorno in cui il mio padrone di casa facesse installare un nuovo campanello nella casa dove abito, cosicché fosse chiaro e rapido a decidersi per chi è quando si sente suonare la sera, allora mi reputerei un uomo felice'. Chiunque ha un'idea di cosa sia una replica nota subito, udendone una come questa, che colui che parla ha annullato la distinzione tra fe-
236 licità e infelicità in una superiore assurdità, perché tutti sono sofferenti. L'umorista afferra il senso profondo, ma nello stesso istante gli viene in mente che non vale proprio la pena di impegnarsi nella sua spiegazione. In questa ritrattazione consiste lo scherzo ».2° Per quanto plausibile sia la soluzione del fenomeno nel commento di Kierkegaard, egli tuttavia non raggiunge affatto la sorgente luminosa alla quale tale fenomeno deve il tono di colore scialbo ma insolubile di umorismo. Non la pura negazione, la « superiore assurdità ›› come contingenza di un'esistenza esteriore, è questa sorgente luminosa; non l'annullan1ento delle differenze concrete tra felicità e infelicità in una sofferenza astratta, universale, sotto il peso della realtà contingente; bensì la sofferenza si rappresenta, in un simile spunto contingente, con l'assurda promessa di beatitudine. Che forse basterebbe realmente soltanto il nuovo campanello, che pure nessuno installerà mai: è questo, e non la torbida indifferenza di un qualcosa di così « esteriore ››, l'umorismo insito nel passo; è la speranza nel controsenso, come Nasreddin, secondo quanto narra la fiaba orientale, dà a intendere ai concittadini che sulla spiaggia le onde hanno risputato un'immensa balena e quando tutti, affrettatisi per andare a vedere, tornano già indietro incolleriti, va loro incontro per vedere se la balena non ci sia poi per
237 davvero. Da ciò che è sfuggito a Kierkegaard nella replica dell'« umorista ›› si rivela per lo meno sfiorata la sua determinazione estetica dello « spunto ›› quale unica comunicazione fra interiorità priva di oggetto e mondo contingente delle cose: « Lo spunto è al tempo stesso la cosa più significativa e la più insignificante, la più importante e la meno importante, la suprema e l'infima. Senza uno spunto non accade, in realtà, assolutamente nulla, e tuttavia lo spunto non ha alcuna parte in ciò che accade. Lo spunto è l'ultima categoria, la vera e propria categoria per il passaggio della sfera dell'idea alla realtà. La logica dovrebbe tenerlo presente. Per quanto essa si approfondisca nel pensiero immanente e si precipiti dal nulla nella forma più concreta, non raggiunge mai lo spunto, e quindi nemmeno la realtà. Nell'idea può esservi, pronta, l'intera realtà, ma senza uno spunto essa non diviene mai reale; lo spunto è una categoria del finito, e perciò è impossibile al pensiero immanente afferrarlo, essendo esso troppo paradossale per venire afferrato ›› .21 L'ironia del passo, che forse è abbozzato da Kierkegaard come una caricatura estetica della paradossalità teologica, non può sfuggire. Tuttavia esso non contiene soltanto la sua obiezione fondamentale contro Hegel, bensi anche una correzione della propria dottrina. Anche se a Kierkegaard stesso lo spunto, in quanto impul-
238 so di una pura contingenza estranea al soggetto, appare un perfetto controsenso: ma essendo necessario lo spunto a liberare la dialettica dell'interiorità, il presunto « senso ›› ontologico immanente a questa viene reso dipendente dallo spunto, e al di là della soggettività si cela un senso anche nel controsenso dello spunto. « Si elevi ad assoluto, e quindi a oggetto di interesse assoluto, qualcosa di completamente casuale; ciò ha un effetto eccellente soprattutto su animi eccitati ›› :22 questa proposizione dalla Rotazione delle culture rimane ironica fintanto che il mondo esterno, segregato, resta oscuro e privo di ogni verità; ma il raggio che ricade su di esso non appena la dialettica, sulla via della verità, viene indirizzata verso lo spunto, è sufficiente a ristabilire in qualcosa il diritto del mondo esterno detronizzato. Così le distinzioni astratte fra le sfere sono ambivalenti: sono al tempo stesso determinazioni di quel realismo che Kierkegaard non può, a causa della pura interiorità, privare di tutto il materiale. Infatti lo «spunto ›› stesso è una categoria di logica delle sfere; è il limite esteriore della compagine delle sfere. Simili determinazioni di limite e la loro funzione ambivalente, fanno però parte anche della struttura delle sfere in sé e per sé. Quivi esse sono esplicitamente formulate nella teoria dei « confini ››. Questa è sviluppata in un sistema di paragoni allegorici. Il sistema delle sfere vie-
239 ne delimitato torno torno da una irraggiungibile oggettività: ai lati, dal contingente mondo delle cose, ai contrappunti verticali, da eternità e dannazione. Nel mezzo è disposta in strati l'esistenza soggettiva. La sua sfera più bassa, quella « estetica ››, si capovolge, in quanto decisa disperazione, nello stadio di dannazione oggettiva; il suo confine superiore si chiama « ironia». La regione mediana, quella « etica ››, è delimitata contro quella superiore, la « religiosa ››, dall'« umore ››. Quanto alla sfera religiosa stessa, essa sarebbe limitata dall'idea della vita santa, apostolica, come Kierkegaard voleva fissarla, marcando il limite, nel libro contro Adler, i Due saggi minori etico-religiosi. Ma l'abbozzo kierkegaardiano delle sfere non si esaurisce affatto in uno schema grossolano, statico-adialettico. In una critica letteraria si parla occasionalmente di un confinium fra l'estetico e il reli-
gioso. Di questo confine Kierkegaard si impadronisce per sé nel Punto di vista, anche se esso non è riportato nella topografia figurata delle sfere. Come puro « stadio di transizione ››, l'etico stesso compare talvolta tutto insieme sotto la categoria del confinium. Ma c'è di più: i confini variano di contenuto. Non solo l'ironia, anche l'« interessante» viene definito come confine tra la sfera estetica e quella etica, senza che ne venga spiegato il rapporto con l'ironia: « D'altronde l'interessante è una categoria limi-
240 te, ai confini dell'estetica e dell'etica. Perciò l'esame deve sempre compiere qualche incursione sul terreno morale, mentre, al tempo stesso (per essere significativo), deve afferrare il problema con un intimo fervore e una concupiscenza propriamente estetiche ››.” Tali modificazioni fanno pensare alla probabilità che i «confini» non vengano tanto stabiliti basandosi sull'interpretazione dei fenomeni in questione, quanto piuttosto dedotti, senza riguardo ai loro contenuti, dallo schema stesso delle sfere. Ciò è confermato dalle definizioni dei singoli confini. Qui è difficile tener distinti ironia e umore: «Ironia è l'unità di passione etica, che nell'interiorità il proprio Io accentua infinitamente nel rapporto con l'esigenza etica, e di educazione, che all'esterno astrae infinitamente dal proprio Io in quanto è qualcosa di finito frammezzo a tutte le altre finitudini e particolarità... Ironia è l'educazione dello spirito ed è quindi la prima a seguire l'immediatezza; poi viene l'individuo etico, poi l'umorista e infine il religioso ››.” Ma la corrispondente definizione di umore suona in questo modo: « Così accade anche con l'umorista e col religioso, poiché... la dialettica propria del religioso proibisce l'espressione diretta, la diversità riconoscibile, protesta contro la commensurabilità dell'esterno... L'umorista riunisce costantemente... l'immagine di Dio con qualcosa d'a1tro e
241 crea la contraddizione, ma egli stesso non si mette in rapporto con Dio in passione religiosa (stricte sic dictus); egli trasforma se stesso in una scherzosa e profonda stazione di transito per tutto questo smercio, ma non si mette in rapporto diretto con Dio... Religiosità in incognito è... unità di passione religiosa assoluta (cioè interiorizzata dialetticamente) e di maturità di spirito, la quale richiama nell'interiorità la religiosità ritirandola da ogni esteriorità, e con questo ridiviene la passione religiosa assoluta ».25
L'ironia e l'uinore, in quanto confini, non sono definiti da nient'altro che dalle stesse sfere delle quali essi devono costituire i confini, e dalla forma della contraddizione sotto la quale essi riuniscono di volta in volta in sé le determinazioni di due sfere. Nell'umore, questa forma di contraddizione viene esplicitamente accolta nella definizione: « Il contrasto ha un effetto comico attraverso la contraddizione, sia che il rapporto consista nel fatto che il ridicolo in sé e per sé viene adoperato per rendere ridicolo il ridicolo, sia nel fatto che il ridicolo rende ridicolo il non ridicolo in sé e per sé, oppure che il ridicolo e il ridicolo si rendono reciprocamente ridicoli, oppure che il non ridicolo in sé e per sé diviene ridicolo attraverso il rapporto ››.2° Un contrasto del genere però si adatta tanto al1'umore quanto all'ironia: è il con-
242 trasto fra la posizione nella forma della comunicazione e la negazione di questa da parte dello stesso oggetto comunicato. Così i confini, nonostante la loro incommensurabilità tra loro, rimangono forme di mediazione puramente dedotte, il cui compito può essere esplicato da fenomeni di volta in volta permutabili. Questo compito è la distinzione delle sfere. Nella contraddizione dei « confini ›› esse cozzano una sul1'altra; ma l'abisso che le separa e il movimento che varca questo abisso è il « salto qualitativo ››. L'equivocazione « salto ›› non è una qualsiasi dell'espressione. Essa è fondata oggettivamente nell'ambivalenza dello stesso abbozzo di logica delle sfere e in una filosofia la cui totalità viene ugualmente posta e infranta da una contraddizione totale. Infranta dalla distinzione: Kierkegaard astrae le « sfere ›› dai fenomeni e le astrae l'una dall'altra, per ipostatizzarle come idee: il
« salto ›› si spalanca tra di esse come « abisso del senso ››, non diversamente che tra l'1o e il mondo esterno contingente. Nello schema topologico delle sfere i salti sono spazi vuoti che non vengono riempiti da alcuna « mediazione ››. Ma non ci si ferma a tale
topologia: l'abbozzo delle sfere è dinamico. Per la sua dinamica tuttavia il «salto» significa la misura suprema del movimento dialettico stesso. Se l'ontologia viene ricercata da Kierkegaard esclusivamente nella dialettica della soggettivi-
243 tà, essa non può essere raffigurata pienamente nella statica fragile di quella gerarchia di sfere. Le sue fratture sono allora soltanto i segni lasciati da un movimento che la gerarchia stessa compie. Essendo anch'essa in movimento, la totalità delle sfere trasforma una sfera nell'altra. Non il soggetto e la sua concreta vita umana singola funge da mediatore tra esse: nel soggetto, teatro della loro azione, passano sfere e altre se ne dischiudono. In tal modo la dialettica di Kierkegaard trascende, come nell'origine così nella sua forma sviluppata, la persona umana per la quale era stata abbozzata, e nell'oggettività delle sfere, oggettività mitica, ambigua, si smentisce la pretesa di dominio dell'10 autonomo. Fin dove le sfere, nel « salto ››, vengono pensate in movimento, non si tratta di un movimento di fenomeni immanenti alle sfere, fenomeni che, in quanto « ironia ››, in quanto « umore ››, modificavano la loro figura concreta. Si muta solo la sfera nel suo insieme: il salto significa il capovolgimento della sfera estetica in quella etica, della sfera etica in quella religiosa, ma non una trasposizione della loro sostanza individuale: il carattere. Ciò diviene evi-
dente al massimo in un'opera la cui intenzione superficiale non mira affatto alla totalità e alla sistematica: in Timore e tremore. Abramo in quanto soggetto di una «lirica dialettica ››, è un nome allegorico per la dinamica oggettiva e
244 si potrebbe quasi dire fisica delle sfere. Definite da formule, le sfere stanno l'una dinanzi all'altra, si attraggono, si respingono: qui la sfera del « generale», dell'immanenza umana, dell'etica; lì quella dell'« eccezione ››, del comandamento trascendente, della fede. È vero che ambedue si toccano mediante il « salto». Ma l'una subentra al posto dell'a1tra, senza che si ricerchi l'essenza specifica di un'esperienza individuale di fede nella quale il sacrificio mitico e il suo riscatto redimente si intreccino. Si rimane al concetto di una «sospensione teleologica ›› del comandamento etico, che viene illustrata con l'esempio di Abramo ma non diviene evidente nella sua effettuazione, e le sfere urtano insieme senza dispensare dalla parola data l'uomo che hanno scelto come loro campo d'azione. « Un conflitto poetico risulta ironicamente dall'urto di una passione contro un'altra, non già nel baccano dei particolari all'interno di una medesima passione ›› ,21 esige Kierkegaard. La concatenazione dei « conflitti ›› di sfere totali fornisce lo schema alla sua dialettica delle sfere. Questa domina nella compagine della gerarchia delle sfere e il suo modello è già la dottrina della « serietà estetica ›› quale medicamento dialettico: « Perfino la serietà estetica è, come ogni serietà, utile all'uomo, ma non lo potrà mai salvare pienamente. Credo che fino a un certo punto questo sia accaduto anche a te; il
245 tuo idealismo estetico ti ha certamente nociuto ma ti ha anche servito. Nel rivolgerti all'ideale del bene ti sei accecato, ma il fatto che hai dovuto anche formarti un ideale del male, ti ha salvato dalla volgarità. Naturalmente la serietà estetica non ti può guarire; giungerai, al massimo, ad abbandonare il male, perché nemmeno questo si lascia tradurre in realtà idealmente ›› .28 La «serietà estetica ›› è dialettica in sé perché « nuoce e serve ››; in virtù dell'« ideale ›› essa si ricongiunge insieme a costituire la totalità, e nel « salto ›› della decisione la totalità inaugura la nuova sfera. Certo che qui è contenuto implicitamente un doppio abbozzo di dialettica: per Kierkegaard esiste una dialettica immanente alle sfere e una fra le sfere. Con ciò Kierkegaard si distacca non solo formalmente da Hegel, al cui schema corrisponderebbe la dialettica « immanente alle sfere ››, mentre quella del «salto ›› fra le sfere gli sarebbe sfuggita. Nella duplicità dell'abbozz0 si esprime l'aporia stessa della dialettica delle sfere. Essa si lascia ben comprendere nella teoria dei «miracoli» che Kierkegaard espone in Scuola di cristianesimo.2” Secondo i concetti di logica delle sfere, che qui non sono applicati esplicitamente, i miracoli sarebbero « confini ›› tra la socratica, negativa « religiosità A ›› e la paradossale «religiosità B ››; in quanto confini, situati ancora nell'ambito della «religiosità A ››. Infatti, i miracoli
246 non sono per lui « prove ›› della fede che secondo la sua tesi è proprio indimostrabile ed è soltanto raggiungibile mediante il « salto ››. Essi servono alla fede: « il miracolo può rendere attenti ››.3° In questo senso essi sono situati al di fuori della fede e sottostanno alla critica da parte della ratio. In quanto articoli di fede essi significano per Kierkegaard assolutizzazioni di reali fatti storici, che secondo le Briciole filosofiche non dovrebbero essere permesse; anche il tempo compare nel paradosso di Kierkegaard solo come astratto.31 n Di conseguenza sussistono due possibilità di una relazione tra fede e miracolo. Primo: il miracolo vuole «rendere attento» lo « scolaro ›› in quanto è un miscredente. Allora costui ha il diritto di domandare. Se egli paragona per esempio le storie dei miracoli cristiani con quelle equivalenti in altre dottrine e trae dal confronto l'incertezza di quale propriamente lo ci renda attento ››, allora gli è lecito e legittimo rifiutare la fede alla quale il miracolo doveva indirizzarlo. Secondo: il miracolo è solo per il credente. Allora il cristianesimo esce dal « punto», dalla fede nel paradosso e dalla dialettica soggettiva: esso si oggettivizza. Al tempo stesso si impone una domanda semplicissima: come debbano arrivare alla « fede ›› i « miscredenti ›› che il miracolo vuole « rendere attenti ››, se esso miracolo è riservato solo ai « credenti ››. Dietro le
247 sofisticherie teologiche sta la questione dialettica della «mediazione» tra religiosità A e religiosità B. Kierkegaard ha voluto eliminare la mediazione fra le sfere come mediazione pura e semplice, ponendo al suo posto la «dialettica qualitativa ››; « L'importante è tenere sempre rigidamente separate tra loro le sfere mediante la dialettica qualitativa, affinché non divenga tutto la stessa cosa, ma il poeta diventi un imbrattacarte quando vuole avere in sé qualcosa del campo religioso, e l'oratore religioso un impostore quando fa perder tempo ai suoi ascoltatori acciarpando nell'estetica ››.” Ma si rende evidente che senza «mediazione» nella dialettica kierkegaardiana, premesse ed esigenze rimangono discordi. O il paradosso, escluso qualsiasi « riferimento ››, diviene in realtà lo « assolutamente diverso ››, formulato come pura negazione della sfera totale che compie il movimento dialettico, ma in nessun modo intelligibile, per quanto riguarda il suo contenuto, dall'uomo «credente ››. Allora il paradosso è pura determinazione di limite, e cade la possibilità di una religione positiva che Kierkegaard invece vuole salvare proprio nella distinzione radicale delle sfere; l'intera «storia sacra ››, al cui concetto egli cristianamente si mantiene fedele, viene a trovarsi allora, essendo essa il semplice « riferimento ›› al paradosso, al di sotto di una argomentazione dalla quale Kierkegaard nella
248 prima parte della Postilla non scientifica vorrebbe preservarla in quanto ispirataßs Essa si estingue, e non ne rimane che l'idea del paradosso senza nome: « Chiamiamo dunque Dio questo quid sconosciuto. Con ciò non facciamo che dargli un nome ›› :34 persino il nome di Cristo dovrebbe scomparire, in una teologia seriamente « dialettica ››. Oppure: esiste nonostante tutto una « mediazione ››. Allora i miracoli sono mediatori e come tali ambivalenti: al credente essi rischiarano il paesaggio della sua fede, e al miscredente fanno luce sulla via che vi conduce. In tale ambivalenza però essi sono simboli della « metafisica ›› odiata da Kierkegaard, ed egli viene a ritrovarsi là dove schernisce altri: « davanti al1'albero di Natale n.35 Tenendo presente tutto ciò si può dare un giudizio sulla dialettica delle sfere. Là dove la loro concezione viene mantenuta fino in fondo sotto le categorie del salto, dell'assolutamente diverso, del paradossale, non rimane più posto per una dialettica vera e propria. Il «salto» come movimento non è più commensurabile a nessun movimento immanente alle sfere, e non è più dimostrabile in nessun atto della coscienza. In se stesso paradossale e pertinente all'aldilà, esso si rivela come un atto della predestinazione, compimento di un irrazionalismo predestinaziano clie probabilmente è il vero e proprio spunto al «barocco» di Kierkegaard. Di-
249 nanzi a tale severità dovrebbe scomparire l'immagine della soggettività « libera » che si mette in rapporto dialettico, la quale, personificando l'idealismo di Kierkegaard, rende anzitutto possibile la costituzione e la contrapposizione delle sfere. Perciò alla sua dialettica delle sfere vien tracciato già nella legge della sua origine il carattere dell'inconseguenza. «Dialettica qualitativa ›› : non è soltanto una dialettica fra le sfere che si capovolgono. Ma anche una dialettica nella quale agisce la qualità stessa del fenomeno capovolgentesi, che viene salvato oltre l'abisso dell'irrazionalità teologica: così proprio la mediazione hegeliana viene in aiuto ai tentativi kierkegaardiani di raggiungere il diversamente concreto. Questo tipo di dialettica non è sufficientemente determinato dalla forma logica della contraddizione, del capovolgimento. A essa non appartengono solamente parti delle descrizioni di malinconia, di sofferenza, di pentimento e infine di disperazione. Essa viene postulata generalmente: «Del resto sarebbe molto desiderabile che una volta un pensatore sobrio mettesse in chiaro fino a che punto il momento puramente logico, che fa pensare al rapporto originario della logica con la grammatica (due negazioni affermano) e alla matematica, fino a che punto questo momento logico possa avere validità nel mondo della realtà, della qualità; se la dialettica delle qualità non è tutt'altro, se il
250 ' passaggio ' qui non ha un altro significato ››. 36 Nulla distingue meglio questa dialettica da quella totale tra le sfere, quanto l'asserzione che essa si muove sul posto. L'intera Storia di sofferenze non è che la sua allegoria. Proprio quivi essa è spiegata con un aneddoto: «Nei tempi antichi era in uso nella vita militare una punizione molto severa: la tortura del cavallo. Il povero peccatore, seduto su un cavallo di legno il cui dorso era tagliente come una lama, vi veniva compresso da ingenti pesi. Una volta che era stata somministrata tale punizione e che il delinquente si torceva dal dolore, passò per caso sul bastione un contadino e si fermò per osservare lo spettacolo. Fuori di sé dal dolore, e irritato per di più dalla vista di quel curioso fannullone, l'infelice gli gridò: 'Che mi stai lì a guardare a bocca aperta? ' Ma il contadino gli rispose: ' Se non puoi tollerare che ti guardino, vattene a cavalcare da un'altra parte! ' ›› 37 In campo teorico ciò diviene una tesi nella Malattia mortale: «Diventare è un movimento via dal posto, ma diventare se stesso è un movimento sul posto ››.” Con questo sembra indiziato in primo luogo solo lo stadio dell'interiorità oggettiva: la figura fuori del tempo e dello spazio della filosofia kierkegaardiana. Al tempo stesso, il muoversi sul posto significa un rimanere nella sfera da parte del pensiero mosso dialetticamente, il quale viene trascinato oltre solo dal
251 movimento della sfera totale, dal « salto ››. Ma ciò non basta. Con ogni sfera la dialettica ricomincia di nuovo: la sua continuità è interrotta. La discontinuità del movimento in generale viene però testimoniata dal «sul posto ›› del movimento psicologico dell'uomo singolo, e l'abbozzo di una dialettica « intermittente ››, il cui vero momento non è l'andare oltre bensì l'arrestarsi, non il processo bensì la cesura, si oppone, al centro della filosofia kierkegaardiana dell'esistenza, in quanto obiezione di una verità trans-soggettiva, al mitico dominio universale del soggetto spontaneo. L'antinomia fra il «distinguere» di idee e il « processo ›› di soggettività cerca la sua espressione più peculiare in uno spazio vuoto dialettico, là dove il diveniente si rappresenta eterno e l'eternità in movimento. Così l'abbozzo della dialettica « sul posto ›› corrisponde perfettamente all'immagine dell'inte'rieur, nel quale persino la dialettica si arresta. Come critica alla continuità idealistica essa viene formulata da Kierkegaard esplicitamente: « Se l'esistere non si lascia pensare e l'individuo esistente invece è pensante, che significherà ciò? Ciò significa che egli pensa per momenti, egli pensa in anticipo e pensa a posteriori. Il suo pensare non ha una continuità assoluta. Un individuo esistente può essere solo in maniera fantastica costantemente sub specie aeterni ››.” All'intima sostanza posi-
252 tiva della dialettica intermittente mira un paragone organico che ritorna di frequente, quello della respirazione: «La personalità è una sintesi di possibilità e di necessità: perciò la sua esistenza somiglia alla respirazione che consiste nel tirare e nel lasciare andare il fiato. L'io del determinista non può respirare, perché è impossibile respirare esclusivamente la necessità la quale, quando è nuda e pura, soffoca l'io dell'uomo... Pregare è pure respirare; e la possibilità è per l'io ciò che l'ossigeno è per la respirazione ››.4° In senso teologico il paragone è evidente nel discorso Cristo è la via contenuto in Per una prova di se stesso: « 'Razza incredula e perversa, lino a quando sarò con voi, fino a quando vi sopporterò?' (Matteo, XVII, 17). È un sospiro. Così, abbandonata ogni speranza, il malato nel suo letto di morte si raddrizza un poco, solleva la testa e chiede che ora è. La morte è certa, non è più che una questione di tempo... Presto: la peggiore situazione è meno crudele. Presto! Il sospiro si esala lentamente, profondamente: presto! ›› 41 Ciò che qui si dice delle sofferenze di Cristo si riferisce, grazie all'« imitazione», altrettanto bene all'uomo e quindi alla dialettica interna umana. In luogo della « mediazione ›› hegeliana fra libertà e necessità, è subentrata l'intermittenza come un respiro che si arresta, si contrae e ricomincia di nuovo; mosso sul posto, non in
253 proseguimento e continuità. La metafora della respirazione è da prendersi alla lettera, cioè come reintegrazione del corpo nel ritmo di una spiritualità assoluta. Il capovolgimento dello spiritualismo in dottrina fisica degli organi ha trovato qui il suo luogo adatto nello schema del movimento dialettico stesso. Infatti il momento della pausa, quando la dialettica si arresta, è lo stesso nel quale il suo fondamento mitico, la natura, echeggia nella profondità del batter dell'ora. La sua comparsa fa comprendere all'uomo la propria fugacità, come le cesure dello scorrere del tempo al moribondo. E tuttavia la sua figura vuota, il ritmo del puro tempo, senza altra espressione che quella di se stesso, significa il muto intervento della riconciliazione. Le cifre che segnano le ore, ripetute all'infinito, contengono paradossalmente l'incerta certezza della fine. La natura, che in quanto temporale
è dialettica in se stessa, non è perduta: «Qui appare anche che io ›› (diversamente da quanto si dice nella Malattia mortale) « non presumo un male ideale, poiché stabilisco la realtà del pentimento. Il pentimento è una espressione di conciliazione, ma è anche una espressione assolutamente irriconciliante ››.” Questo primieramente conferma il grandioso doppio senso della teoria kierkegaardiana degli affetti. Nei suoi affetti si muove dialetticamente la soggettività; ma in loro si dà a riconoscere, cifrata, la stessa
254 verità resa inaccessibile. È ovvio che ciò non accade nel processo della dialettica, bensì là dove essa si arresta. La soggettività sparisce, riconoscendo come sua essenza la caducità. Perciò il pentimento è qualcosa di più che mera categoria dialettica di preparazione che conduce al « salto ›› ; e ha le sue buone ragioni il fatto che l'opposizione di Kierkegaard al sistema fichtiano si inserisca proprio trattando del pentimento, che appare come discontinuità. Mediante l'intermittenza si imprime nella filosofia di Kierkegaard l'intervento della potenza divina nel movimento immanente; la coscienza è in grado di « tirare il fiato ›› perché viene trapassata l'atmosfera dell'interiorità priva di oggetto. L'intermittenza immette spazi vuoti nella continuità della dialettica delle sfere. Benché costituita sistematicamente, questa non forma un'unità. Non determina univocamente la sede
dei fenomeni che comprende, i quali qui, nel « salto», vengono avulsi l'uno da1l'altro e colà possono ripetersi. Kierkegaard ha cercato di metter d'accordo tutto ciò con l'abbozzo di logica delle sfere, e ha sviluppato una tecnica che collega insieme la ripetizione dei fenomeni ri-
belli e lo schema delle sfere. Le sfere, in quanto sistema, devono raffigurare ciò che in quanto realtà si sottrae alla costrizione del sistema. Raffigurare mediante « proiezione». Fenomeni ai quali il sistema ha assegnato il loro posto in una
255 sfera, vengono rappresentati in prospettiva in un'altra. Nella sfera «estetica ››, ad esempio, ogni dialettica, anche quella di intento «religioso ››, appare cattiva infinità; la « fine ›› della dialettica nella « decisione ›› acquista in detta sfera l'espressione del comico: «Se talvolta si arriva al punto che Marie Beaumarchais si prefigge di farla finita, di liberarsi, si tratta ancora una volta soltanto di uno stato d'animo, di una passione momentanea, e la riflessione torna a dominare come prima il campo. Una ' mediazione ' è impossibile. Se essa tenta di adoperare un qualsiasi risultato della riflessione come punto di partenza per cominciare qualcosa di nuovo, nello stesso momento è ritrascinata nella situazione di prima. La volontà dovrebbe atteggiarsi in maniera del tutto indifferente, dovrebbe cominciare in forza del suo proprio volere; è questo per essa l'unico modo per incominciare. Se ciò avviene, allora Marie può ben cominciare qualcosa di nuovo, ma con questo perde per noi qualsiasi interesse; a tale punto noi la affidiamo con piacere ai moralisti, ovvero a chi altrimenti voglia occuparsi di lei; le auguriamo un marito onesto e ci impegniamo a ballare il
giorno delle sue nozze; il suo nuovo nome di maritata ci farà per fortuna dimenticare che è la Marie Beaumarchais della quale abbiamo parlato ››.” Oppure: della « universalità» della sfera « etica ››, quella estetica ci fornisce solo la
256 parodia: universalità come annientamento della vita individuale, come l'annullarsi della immediatezza visto dall'aspetto stesso dell'immediato: « La morte è la felicità comune a tutti gli uomini, e bisogna cercarla con questa esclusione, perché il più infelice non è stato ancora trovato ››.“ Se ciò è ancora costruito rigorosamente in base allo schema, le proiezioni di tesi teologiche nella sfera estetica sono più che puri e semplici mezzi per rappresentare l'abbozzo di logica delle sfere. Qui si esprimono le essenze stesse nella loro figura storica secolarizzata. È sorprendente l'immagine erotica dell'attimo: « L'attimo è tutto e nell'attimo la donna è tutto: io non capisco perché si vadano a cercare delle conseguenze! Ci si preoccupa persino della conseguenza se nasceranno 0 no figli! Io m'immagino di essere un pensatore abbastanza conseguente, ma delle conseguenze non potrei mai rispondere anche se mi mettessi a riflettere fino a diventar pazzo: io non le capisco: sono cose che può capire solo un uomo ammogliato››.'“ In senso « estetico ››, l'« attimo ›› appare come semplicemente fuori del tempo, e con questo cade in esso il carattere del divenire, la « conseguenza ››. Con ciò l'attimo paradossale è deformato, appiattito nella determinazione empirico-univoca, mentre nella teologia di Kierkegaard è proprio l'attimo che, punto di contatto fra tem-
257 po ed eternità, costringe insieme il diveniente con l'essere incommensurabile; la «conseguenza ›› (per Kierkegaard: l'imitazione di Cristo nella sofferenza) deve decidere qui proprio della genuinità dell'« attimo ››. Persino il famoso passo sul1'incomprensibilità di uno scritto per gli eretici non si può interpretare a sufficienza partendo dall'intento di una finzione, ma soltanto tenendo presente la raffigurazione nella prospettiva delle sfere che a quello è associata: « Questa deplorevole condizione di cose ha naturalmente la sua ripercussione sopra un autore che, secondo me, fa molto bene a imitare Clemente Alessandrino scrivendo in modo da rendersi incomprensibile agli eretici ››.4°' L'intrigo è la rappresentazione proiettiva di un movimento dialettico fra le sfere, dentro una singola sfera. È vero che nella tesi della « incomprensibilità ›› è insito un contenuto più determinato. Sfere « superiori » non si lasciano raffigurare a piacere, per Kierkegaard, in sfere « inferiori ››; il « salto ›› impedisce la proiezione adeguata, e nella necessità di deformazioni il sistema delle sfere si manifesta come una totalità in frantumi. La proiezione di un fenomeno di sfera superiore in una sfera inferiore significa falsificazione, e tutte le asserzioni della sfera « religiosa ›› rimangono perciò incomprensibili per la sfera estetica, perché vengono falsificate già dalla semplice raffigurazione.
258 Con questo però i fenomeni non sono più deducibili dall'unità formale del sistema in quanto tale. Essi sono piuttosto subordinati al suo supremo « senso ›› materiale, alle verità teologiche che Kierkegaard raduna nella sfera « religiosa ››. Le relazioni fra le sfere non si possono calcolare come raffigurazioni dalle definizioni prestabilite delle sfere, bensì soltanto porre in atto come « trascendimenti ›› nei quali si rivelano quelle verità. Ma ciò significa che i fenomeni non fungono da mediatori in quanto « confini ››, né raffigurano, deformandoli, fenomeni da un'altra « sfera ››; bensì che lo stesso fenomeno, privo di ogni mediazione, appartiene a sfere disparate. Cioè a quelle della « eccezione ››; alla sfera « religiosa ›› e a quella « estetica ››. A ciò corrisponde l'abbozzo materiale di queste sfere. Ambedue sono sottratte all'autonomia umana interna: la sfera « estetica ›› perché situata al di qua della « decisione ››, la « religiosa ›› perché la sua autonomia viene annientata nel «salto» in quanto diversità assoluta. Col trascendimento delle due sfere estreme ridiviene attiva nella gerarchia delle sfere la questione ontologica, che era stata apparentemente risolta con le « distinzioni ›› delle sfere e tagliata fuori col sistema. Di senso ontologico è quella definizione che ammette la sfera estetica e la religiosa soltanto come vere e proprie sfere, mentre fa invece dell'etica, in quanto sfera del-
259 l'autonomia umana interna, uno « stadio di transizione ›› e quindi la relativizza. A capo dell'uomo la verità teologica crolla in un'apparenza estetica, e sorge quest'u1tima come segno di speranza. Perciò la figura estetica del « poeta ›› è « terminus a quo per l'esistenza cristiano-religiosa ›› 1*" «Uno scrittore religioso che voglia combattere quella illusione dei sensi ››, quella cioè che considera « religiosità e cristianesimo qualcosa in cui ci si rifugia soltanto in età avanzata ››,” « deve scendere in lizza quasi d'un colpo come scrittore estetico e religioso allo stesso tempo. Una cosa però egli non deve per nulla al mondo dimenticare: l'intenzione, ciò di cui propriamente si tratta; che cioè l'elemento religioso venga fatto valere come il fatto decisivo. In tal modo l'attività estetica diviene un mezzo della comunicazione... ›› 49 mediante il trascendimento. Colui nel quale si effettua tale comunicazione è l'« eccezione». Nell'« eccezione » l'« estetico ›› trascende al « religioso ››. Essa però non è null'altro che l'incarnazione della stessa interiorità priva di oggetto e non è soltanto importante psicologicamente, bensì come punto centrale della logica del sistema. Modello storico di Kierkegaard, rappresentante del compimento ontologico, è proprio l'« eccezione ›› che nella gerarchia delle sfere svaluta l'etica. Guardini ha giustamente osservato che «il tentativo di concepire il matrimonio come tota-
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lità morale, promovente lo sviluppo del singolo ›› fallisce, perché « si impone la conseguenza ›› :5° conseguenza di uno stadio di coscienza per il quale il singolo privo di oggetto e il « senso ›› cifrato appartengono insieme per la vita e per la morte. Si potrebbe quasi affermare che in Kierkegaard l'immagine dell'uomo sia identica a quella dell'« eccezione ››; per lui l'uomo esiste umanamente soltanto in quanto diviene eccezione, si emancipa dalla contingenza, dalla anonimità, dalla generalità reificata. « Eccezioni ›› sono per lui l'esistenza «geniale» estetica e quella « religiosa ››. Egli ha attribuito infine alla reificazione l'universalità etica persino del matrimonio, ha interpretato il cristianesimo come dichiaratamente ostile al matrimonio e schernito irosamente, in una novella de L'ora, il tenore di vita già tanto lodato dall'assessore Guglielmo. La maggior parte dei critici spiegano questo fatto col suo destino privato. Ma con ciò si toglie alla sua polemica l'arma migliore e più pungente: il suo accento contro la vita mediocre, stabile. Bisognerebbe domandarsi piuttosto se in nome del trascendimento, ostile alla persona, delle sfere estreme, l'etica in generale e anche que1l'etica privata borghese che rappresentano i suoi scritti «etici» non stiano sotto il verdetto e l'ironia dell'« eccezione ››. La dottrina dei suoi scritti tardi, che il «senso» dell'esi-
261 stenza sia la sofferenza, e che soltanto nel negativo della sofferenza si rappresenti il senso positivo, è solo la designazione teologica di una categoria che « psicologicamente » si chiama eccezione. Se la sofferenza è il segno di un incatenamento alla natura, allora la vita di natura trascende se stessa, in estrema contraddizione con l'intenzione superficiale spiritualistica. Una volta Kierkegaard ne confessa la possibilità: « La donna è, nella sua immediatezza, sostanzialmente estetica. Ma proprio per questo esiste per lei un passaggio diretto al religioso. Il romanticismo femminile è nel momento successivo il mondo religioso n.51 Solo trascendendo, i fenomeni vengono liberati dai significati che aveva assegnati loro la logica delle sfere come schema di movimento autonomo; essi divengono incommensurabili e concreti. Ma impedire loro una tale concrezione era la suprema aspirazione dell'« etica ›› dell'universale e di quella del sistema di logica delle sfere: «Mi amputo da me stesso, butto via tutto l'incommensurabile per ridurmi alla misura comune ››.” Così finalmente il sistema delle sfere si disgrega, tentando di risolvere la questione della concrezione che esso in origine contrapponeva alla sistematica universalità hegeliana. Tortuosa come un labirinto, la dialettica delle sfere, con le sue cesure intermittenti, con i lucernari di concreto rischiaramento, lascia sem-
262 pre e sempre adito all'ingresso della concrezione. Ma la figura che essa costituisce nel suo insieme significa, in quanto segno cifrato, la massima contraddizione: il suo stesso tramonto. Lo spirito autonomo, in infinito movimento e senza via d'uscita, può secondo Kierkegaard essere veramente salvato solo nella morte. Se i rapporti che, contro il sistema, sussistono tra le sfere di questo, sono paradossali, allora è più che mai paradossale la totalità del sistema: essa è volta ad annullarlo. Perciò l'interpretazione tradizionale, teologica, di Kierkegaard, ha ragione contro quella informata psicologicamente, quando si pone come tema supremo la paradossalità e non l'immanenza di una « vita dell'anima», la cui unità sistematica si lascia sfuggire con l'ultima paradossalità le cellule della concrezione. Ma essa si trova in servile dipendenza da Kierkegaard se gli concede senza scrupoli la paradossalità come risposta teologica. Il compito che bisogna porsi è piuttosto quello di mettere a nudo l'abbozzo stesso della paradossalità quale dialettico-sistematico, e al tempo stesso di ricostruirne la sostanza vera e propria. Quest'ultima si legittima non tanto nel concetto del simbolo della teologia, quanto piuttosto nel sacrificio mitico, così come questo si rappresenta col capovolgimento e col-tramonto dell'idealismo kierkegaardiano.
VI
CARATTERISTICA delle filosofie tarde, nelle quali la coscienza dell'idealismo, prigioniera di se stessa, riconosce il proprio stato di prigionia e tenta di sfuggire alla sua immanenza, è quella di elaborare di volta in volta una categoria singolare, un'intenzione permanente, un tratto marcante il quale sotto il dominio dell'idea della totalità, che tutte queste filosofie riconoscono ancora, deve allentarne la rigorosità, ma che alla fine allenta la costruzione idealistica stessa, portandola a dissolversi nelle sue antinomie. Così Hegel, massimo esponente dell'idea della totalità e in apparenza tutt'altro fuorché critico dell'idealismo, ha imposto il procedimento dialettico, il quale impiega l'esigenza della totalità in maniera tanto dinamica che mai dall'astratto, sistematico concetto superiore risultano fenomeni singoli, bensì il sistema, dal quale per lui susseguirebbe veramente la realtà, sarebbe equivalente alla quintessenza della stessa realtà attuata. Kierkegaard non si è mai stancato di deridere Hegel, perché gli sembrava che egli rinviasse a una immaginaria fine del sistema ogni asserzione impegnativa per l'esistenza presente. Ma proprio in questo egli è più vicino a Hegel di quanto non abbia mai pensato. Infatti è con un simile rinvio del tutto che il singolo presen-
264 te, e certo ancora di più il passato, acquisisce una pienezza concreta che le stesse ripetizioni di Kierkegaard tentano invece invano di afferrare. Così, andando avanti, Feuerbach, come correttivo, ha spostato al centro filosofico il suo concetto illuministico dell'uomo, che non può più venir circoscritto dallo spirito autonomo. Così infine Marx ha sviluppato in preponderanza la categoria del valore di scambio della merce. È vero che anche questa, in quanto incarnazione del completo insieme di tutti i fenomeni della società capitalistica, mantiene il ricordo della totalità. Tuttavia essa sposta gli accenti della spiegazione talmente sul lato « materiale » e non proprio della coscienza, che l'unità di un'« idea ›› della società capitalistica viene distrutta da contenuti che non risultano con continuità da nessuna idea, perché mettono in dubbio la realtà dell'idea stessa. Anche se queste categorie sorgono nella limitata infinità dei sistemi, esse attraggono però dentro di sé, come in un vortice, le totalità sistematiche per farle scomparire. Non diversamente accade a Kierkegaard. Statuendosi la coscienza dell'esistenza condizionata, non sufficientemente deducibile da se stessa, come suprema contraddizione del suo idealismo, egli diviene il critico del sistema. Dalla totalità di quest'ultimo, estensiva ma tuttavia prodotta in un punto, il suo pensiero si ritira indietro in que-
265 sto punto, per ottenervi l'unica categoria che lo metta in grado di infrangere la potenza del sistema e restaurare l'ontologia. Il punto che egli attacca e che al tempo stesso è la sua sede, può essere definito semplicemente come il principio di Archimede de11'idea1ismo sistematico: il diritto del pensiero a fondare la realtà, in quanto legge di se stesso. Ma la categoria che qui sorge dialetticamente.__è quella del sacrificio paradossale. Mai la pretesa legale della coscienza viene spinta più oltre, mai viene negata più completamente come nel sacrificio della coscienza, in quanto attuazione della riconciliazione ontologica. Con un'ampiezza veramente pascaliana, la dialettica di Kierkegaard oscilla fra la negazione della coscienza e il suo supremo diritto. Il suo spiritualismo, figura storica dell'interiorità priva di oggetto, va compreso in logica immanente dalla crisi dell'idealismo. Per lui la coscienza deve essersi strappata da ogni essere esteriore nel movimento di « infinita rassegnazione», e nella libertà di ,scelta e di decisione deve aver posto, traendoli da se stessa, tutti i contenuti, per potere finalmente, dinanzi all'apparenza della propria onnipotenza, rinunciare a quest'ultima e, soccombendo, purificarsi della colpa che si era addossata credendo di sussistere in autonomia. Ma il sacrificio della coscienza è il modello più intimo di qualsiasi altro sacrificio nella sua filosofia. Ciò costituisce il nesso centrale tra
266 1'elemento mitico e quello storico interno, nella sua struttura delle categorie. Infatti, il sacrificio vuole una volta per sempre purificare la natura, e la natura ha, nell'ora storica di Kierkegaard e persino per la sua conoscenza, una propria potenza determinante nello spirito dell'uomo isolato. Come lo spirito del singolo rimane per lui non soltanto prototipo di ogni spirito, ma anche natura stessa che non compare altrimenti che nello « spirito ››, così anche il sacrificio, l'ultima categoria della natura alla quale egli si solleva e al tempo stesso categoria dell'annientamento del naturale, è per lui sacrificio dello spirito. Con la massima tensione della quale era ancora capace l'idealismo creatore di sistemi, egli ha consumato questo sacrificio, come per la totalità sistematica, così per tutti i fenomeni che ricadono dentro il sistema. La categoria del sacrificio, in virtù della quale il sistema annulla se stesso, è al tempo stesso quella che, in perfetto controsenso in quanto unità soverchiante, mediante un'astrazione sacrificante di tutti i fenomeni ricorrenti, regge insieme sistematicamente la filosofia di Kierkegaard. Nel sacrificio intellettuale si rivela con la massima purezza il
suo fondamento mitico e con la taneità la sua funzione storica; paiono insieme sul palcoscenico recitano in dialogo l'idealismo storica del pensiero mitico. Esso
massima sponambedue comdello spirito e come tragedia però, alla fine,
267 si rivela mitico in quanto pur annullando se stesso non può tuttavia adempiere in immanenza all'esigenza di riconciliazione che annuncia. In esso la natura, riflessa sullo spirito umano, si è irrigidita e ha usurpato la potenza dell'origine. Il tramonto che l'idealismo prepara a se stesso, riesce perciò a liberarlo dell'apparenza di autonomia; ma una riconciliazione sotto forma di catarsi non gli è concessa nel suo completo soccombere. Di tutti i critici, è ancora il solo Monrad a rivelare una certa comprensione del rapporto che intercorre fra il sacrificio di Kierkegaard e il momento mitico. Per caratterizzarlo egli cita un passo dalla mitologia nordica, e cioè dallo Havamal: « Odino dice: Io lo so, che per nove lunghe notti sono rimasto sospeso all'albero scosso dal vento, ferito dalla lancia, consacrato a Odino, io stesso a me stesso ›› .1 Monrad pone in rilievo le parole « consacrato a Odino, io stesso a me stesso ››, che effettivamente potrebbero costituire il motto di una teologia del sacrificio, nella quale l'uomo deve « estinguersi ›› per divenire l'Io. Poco importa a questo proposito che si mettano in risalto, come hanno fatto alcuni recenti autori danesi, i « tratti genuini nordici ›› di Kierkegaard? Il rapporto è oggettivamente evidente. Il dio sacrifica se stesso: dunque autonomo; per se stesso: dunque rimanendo nell'ambito del suo dominio naturale; infine il sa-
268 crificio avviene, come risulta dalla continuazione del passo citato, riportata da Monrad, perché il dio « desidera procacciarsi un più alto sapere raccogliendo delle rune ›› :3 e così anche l'intenzione filosofica kierkegaardiana della «traspa-
renza ››, e persino il modello del cifrario sono racchiusi nel passo dell'Edda. In effetti, Kierkegaard stesso ha riunito insieme il concetto della filosofia con quello della mitologia: « Nessuna filosofia... nessuna mitologia... ha mai avuto questa trovata ››.* Ma la trovata che deve oltrepassare la filosofia e l'ambito del puramente naturale è quella del paradosso. Che il sacrificio sia mitico, egli stesso l'ha intuito nel campo estetico, nell'Ifigenia in Aulide di Euripide: « Agamennone deve sacrificare sua figlia. L'estetica esige da lui il silenzio, perché sarebbe indegno di un eroe andar chiedendo consolazione. Non solo; ma, per sollecitudine verso le donne, egli deve nascondere il più a lungo possibile il proprio progetto. D'altronde, per meritare il suo nome, l'eroe deve tuttavia passare attraverso una terribile crisi, nella quale lo precipiteranno le lacrime di Clitennestra e di Ifigenia. Che cosa fa allora l'estetica? Offre un espediente, e fa intervenire un vecchio servitore che riveli ogni cosa a Clitennestra. Così ogni cosa è in ordine ››.5 Ciò che qui viene indicato come determinazione estetica del sacrificio, è in verità la determinazione mitica: il silenzio della tacita
269 sottomissione al destino, la muta lotta che consegna l'eroe nelle mani del destino, in quanto egli soggiace e soggiacendo introduce una cesura nel circolo fatale; ma la parola del servitore non è affatto un «espediente» estetico, la sua voce irreale è l'eco del destino stesso che, compiendosi, si manifesta all'eroe che tace. Ma anche il paradosso consuma un sacrificio simile a quello del muto eroe, e perciò diviene preda di quella mitologia che Kierkegaard pretende non abbia mai «avuto questa trovata». Infatti, come l'eroe privo di ogni speranza viene abbandonato, per l'espiazione, alla cieca esigenza della natura, così la paradossalità immola allo spirito, per espiare, la speranza in quanto figlia più cara allo spirito stesso. In tal modo Kierkegaard stesso ha bandito « esteticamente ›› la paradossalità alla quale egli soggiace « religiosamente ››; nell'essenza mitica del ricordo. Il ricordo, in quanto puro spirito privo di immagini, annienta la figura-immagine della speranza: « Io abbozzo un'immagine della speranza, così vivente che chiunque speri vi si ritrova; e tuttavia essa è un inganno: mentre disegno la speranza mi sta dinanzi agli occhi il ricordo ››.“ Ciò allude già, in virtù di un « trascendimento di sfere ››, alla cristologia di Kierkegaard: come qui la speranza è votata al ricordo, il quale è mitico in quanto memoria di qualcosa già stata in tempo lontanissimo, così
270 lì ogni esistenza nel mondo viene infine consacrata al semplicemente « diverso ››, che prende da essa l'« inganno ›› senza in cambio redimere. L'essenza mitica del puro spirito sale su dalle caverne del ricordo: «Nessuna potenza nel dramma, nessuna potenza al mondo è stata in grado di aver la meglio su Don Giovanni; solo uno spirito, solo un fantasma dell'altro mondo lo può. Se si comprende bene questo, si illuminerà di luce nuova la concezione del Don Giovanni. Uno spirito, un fantasma sono riproduzione; questo è il segreto che risiede nel ' ritorno '; Don Giovanni può tutto, può resistere a tutto fuorché alla riproduzione della vita, proprio perché egli è vita immediatamente sensuale la cui negazione è lo spirito ›› :7 così la potenza sulla vita naturale rimane conferita solo all'annientamento di questa nello spirito e non alla redenzione. L'annientamento della vita naturale, che parte dall'immagine del Convitato di Pietra, è però inteso veramente come spettrale. Infatti qui non viene soltanto annientata dallo spirito la vita naturale: lo spirito stesso è vita naturale annientata, è prigioniero della mitologia. Perciò egli non conosce speranza e la paradossalità deforma, persino nella dottrina religiosa di Kierkegaard, la speranza in puro annientamento della natura attraverso lo spirito: « Lo spirito porta poi la speranza nel più stretto senso cristiano, la speranza contro ogni
27 l speranza. C'è infatti in ogni uomo una speranza immediata più o meno viva secondo le persone, ma nella morte (a te stesso) ogni speranza di questo genere si spegne e si cambia in disperazione. In questa notte della disperazione la morte che descriviamo) lo spirito che vivifica viene a portare la speranza, quella dell'eternità. Essa è contro ogni speranza, poiché non c'è più nulla da aspettare per la speranza semplicemente naturale; è dunque una speranza contraria alla speranza ››.8 Quest'immagine della speranza non è, nonostante tutta la sua forza, un'immagine genuina. Non vi si schiude una speranza nel controsenso della vita naturale, soggiacente alla natura, ma nonostante tutto sempre vita creata. Invece il controsenso si rivolge contro la speranza stessa; annientando la natura, essa perisce nel suo ciclo; essendo sorta essa stessa nella natura, sarebbe veramente in grado di superarla solo conservando la sua traccia. La luce ambigua della speranza kierkegaardiana è tuttavia quella scialba del crepuscolo degli dèi, che annuncia la futile fine di una vecchia èra o l'inizio senza meta di una nuova, ma non la redenzione. Così, nella dialettica della speranza, la paradossalità di Kierkegaard si rivela come incatenata alla natura a causa della sua spiritualità ostile alla natura. La sua polemica contro la speranza mitica si capovolge in mitica assenza di speranza: così come il
272 movimento dell'« esistere ›› si capovolge in quella disperazione dinanzi alla quale esso fuggiva a rifugiarsi nel labirinto. A considerare l'intenzione superficiale, la sua concezione del cristianesimo è esattamente l'opposto di una concezione mitologica. Egli ne vuole inesorabilmente escluso ogni contenuto mitico, come esso si fissa in rappresentazioni figurative; alla fine della Postilla, critica nel modo più aspro la « religiosità infantile ›› ° in quanto « immediata ››; rifiuta ugualmente sia il battesimo dei neonati sia l'anabattismo perché « esteriori ››, e quindi a causa della stessa figura teologica di simbolo che egli attribuisce al mito. Ma nel suo abbagliamento gli è sfuggito il fatto che è mitica anche l'immagine del sacrificio che costituisce la cellula più intima del suo pensiero, raggiungibile attraverso gli accessi della sua filosofia e della sua teologia. Ivi il sacrificio di Cristo e quello « imitante ›› della ragione non possono distinguersi con sicurezza. L'affermazione che « Cristo è venuto al mondo per soffrire ›› ,10 paradossale e tuttavia fin troppo succinta, trasforma anche la dottrina cristiana della redenzione nel mitico. Pur adoperandosi con ostinazione a estirpare mediante la dialettica le radici mitiche del sacrificio, appoggiato in ciò efficacemente dalla sua ambiguità, egli tradisce però involontariamente in proposizioni meno appariscenti l'essenza mitica della sua teologia: « Se un tempo
273 il cristianesimo ha mutato le sembianze del mondo, vincendo le rozze passioni dell'immediatezza e nobilitando nazioni, esso incontrerà però nella civiltà una resistenza altrettanto pericolosa ›› .11 Secondo tale passo quindi l'assoggettament0 dialettico della demonìa di natura, delle « rozze passioni dell'immediatezza ››, deve divenire un pericolo per lo stesso cristianesimo che le ha vinte, col che però il cristianesimo stesso ricade nella demonìa della natura. Il fatto che Kierkegaard, per una dialettica conciliatrice che deriva dalla natura per ammansirla, tenti di interpolare il concetto problematico e reificato della civiltà, non cambia nulla in questo stato di cose. Tale stato di cose è dunque una mitologizzazione del cristianesimo in ultima istanza, mentre in tutte le istanze precedenti la natura veniva cacciata fuori del cristianesimo. Anche la morte di Cristo è per Kierkegaard non tanto un'azione redentrice quanto un sacrificio espiatorio. Benché la Scuola di cristianesimo adoperi l'espressione «morte redentrice ›› ,12 la dottrina della «redenzione» è tuttavia definita esplicitamente mediante l'espiazione: « Qui si dice che Cristo ha espiato il peccato originale ››.": Invano Kierkegaard rinnega ciò che per lui designa come « eccezione ›› sia il Cristo sia l'uomo: oltrepassando i termini del « generale ››, Abramo « non agisce... per placare gli dèi irritati ›› .1* Ma perché allora? Infatti espiazione è per Kier-
274 kegaard ogni vero esistere; in L'ora si esige che i cristiani debbano « vivere come martiri in questo falso e triste mondo ››.” Con ciò essi oltrepassano tutti il « generale ››. Esigenze morali vengono giustamente poste solo a una vita che continua a esistere sotto la possibilità della redenzione; se la vita viene sacrificata, anche la moralità scompare insieme a essa nell'abisso del naturale. La distinzione di bene e di male non vale sotto il dominio della morte. Perciò in Kierkegaard l'etica costituisce uno «stadio di transizione ›› ; non le è concessa, per cimentarsi, alcuna vita. Nel piano sistematico, il sacrificio è il punto nel quale la tangente di un « senso » astratto e irraggiungibile tocca il cerchio chiuso della vita, e la sua dottrina insiste su questo « punto», senza continuare il suo movimento sulla linea circolare; se solo qui, sotto il paradosso, egli riesce a raggiungere una partecipazione al « senso ››, deve però in cambio pagare con la perdita del vivente, secondo un calcolo mitico che non conosce grazia. Nella sua etica l'impotente vita umana si mette sulle difese contro l'annientamento immolante. Col sacrificio sparisce la differenza fra Cristo e uomo. Se Cristo in quanto vittima del sacrificio ricade nel naturale, l'uomo immolando si eleva a suo imitatore. Di Cristo si dice: « Quella storia, la storia cioè di quell'incessante persecuzione che finisce solo con la morte, quel-
275 la storia 0 quella passione è la storia della sua vita. Si può raccontarla in parecchi modi: in due parole, anche in una parola, dicendo che essa fu la storia della sofferenza ›› .1“ Così essa miticamente si riduce a un sacrificio, e sistematicamente a un punto, come accade infine nella fosca tesi: « Cristo destinato al sacrificio,_ poiché ogni giorno della sua vita è, in un certo senso, il giorno della sua sepoltura ››." Non diversamente però anche la vita dell'uomo viene «abbassata» dal sacrificio: « Se per lui ora un'eterna beatitudine è il massimo bene, ciò significa che i momenti del finito sono abbassati una volta per sempre dall'azione a qualcosa a cui si deve rinunciare dinanzi all'eterna beatitudine ››.” Rinunciare in virtù della « imitazione ››: al cristiano egli dice: « Tu devi rappresentarti il modello per eccellenza, in modo che tu ne soffra come se lo riconoscessi vivo e presente a te. Tutto il darsi da fare attorno a lui, tutto lo splendore di altari e di monumenti non è, secondo Gesù Cristo, che imbroglio e colpa mortale, come quella dei suoi uccisori. Questa è l'esigenza cristiana. La sua forma più attenuata è quella da me esposta nell'Introduzione al cristianesimo, cioè il semplice riconoscimento che questa è l'esigenza essenziale e che in tal modo tu ti elevi alla grazia ›› ,19 una grazia per la quale Kierkegaard non conosce altro criterio che quello del soffrire.
276 L'essenza mitica della sofferenza viene a malapena padroneggiata dalla cristologia e dalla dottrina dell'imitazione di Cristo; talvolta prorompe autonoma, e allora il sacrificio si presenta nella sua vera figura naturale: come espiazione, compiuta in favore della comunità colpevole della « generazione ››: « Molto lontano nel passato si addentra nel mio ricordo il pensiero che in ogni generazione sono due o tre esseri umani che vengono immolati agli altri per scoprire con sofferenze orribili ciò che torna a profitto degli altri. Così malinconicamente ho compreso me stesso: che questo è anche il mio destino ››.2° L'emancipazi0ne dal prototipo cristiano; lo svincolamento del sacrificio dal nome e dall'azione di Gesù; l'autonomia feticistica del sacrificio in sé, non sono qui espressioni casuali di uno stile metaforico. La sua filosofia sviluppa effettivamente con tale perseveranza il culto del sacrificio, finché esso trapassa in una gnosi alla quale il protestante Kierkegaard altrimenti si oppone con ardore. Nel tardo idealismo la gnosi si fa breccia là dove, attraverso lo spiritualismo, il pensiero mitico acquista potere su quello cristiano e nonostante tutto il parlare di grazia trascina il cristianesimo nell'inesorabile compattezza del corso della natura. Le dottrine gnostiche di Kierkegaard vengono presentate quali « opere poetiche ›› e finzioni della fantasia; forse non soltanto per i motivi oggettivi, come sono
277 insiti nel senso della Postilla, ma anche per nascondere il loro carattere eterodosso di cui Kierkegaard doveva essere cosciente. Ma esse ritornano con tale conseguenzialità, costituiscono un nesso di motivi talmente compatto, e continuano così spiccatamente in trascendenza le linee del sistema delle sfere, che la critica della sostanza mitica di Kierkegaard acquista in esse il suo vero e proprio fondamento. Il carattere mitico del sacrificio diviene chiaro nella fatale necessità dello «scandalo» contro il quale per Kierkegaard Dio non può nulla: «Questo per l'appunto è il dolore di Cristo: non ne può fare a meno; egli può abbassare se stesso, assumere la forma di servo, soffrire, morire per gli uomini, invitare tutti a venire a lui, offrire ogni giorno della sua vita e ogni ora del giorno, può offrire la vita, ma la possibilità dello scandalo non la può togliere. Ah, che atto singolare di amore, che dolore impenetrabile dell'amore, che Dio stesso non possa (il che, in un altro senso, egli non vuole neanche, non può volere; ma anche se volesse non lo potrebbe), non possa rendere impossibile che quest'atto di amore diventi per un uomo proprio il contrario, la miseria estrema! Infatti, la più grande miseria umana che ci sia, più grande ancora del peccato, è scandalizzarsi di Cristo e rimanere nello scandalo. E questo, Cristo non può rendere impossibile, l'« amore ›› non lo può
278 rendere impossibile. Ecco perché egli dice: ' Beato chi non si scandalizza di me '. Di più egli non può fare ›› .21 Non il sacrificio stesso, ma la sua accettazione da parte della creatura viene sottratta all'ambito del potere divino; come nell'astrologia delle sfere, così nello «scandalo» demoniaco domina la necessità. A ciò risponde gnosticamente, come ultima parola della teologia di Kierkegaard, il rimpianto di Dio per l'uomo irraggiungibile, l'uomo « perduto ››; in un'ambigua riconciliazione lo stesso amore divino rimpiange: «Ecco perché egli non poté compiere il suo atto d'amore, il suo sacrificio (del quale, riguardo a se stesso, egli giubilava) senza lacrime: sopra quella che chiamerei la sua epopea interna pendeva, come una nube oscura, quella possibilità. Eppure, se non ci fosse stata quella, la sua azione non sarebbe stata di vero amore ››.” Così l'« immagine storica dell'interiorità ›› in quanto prototipo teologico di ogni malinconia, il rimpianto di Dio per l'uomo, è anch'essa mitica. Nell'immagine del rimpianto di Dio però tramonta il creatore e diviene impotente, sopraffatto dalla natura nel sacrificio. Ciò è affermato come eterodossia aperta e gnostica nella dottrina kierkegaardiana della prigionia di Dio nel proprio « incognito», come essa gli risulta razionalmente dal paradosso in quanto unità non mediata di natura divina e umana: « E ora
279 l'Uomo Dio! Egli è Dio, ma elesse di diventare l'uomo particolare. Abbiamo detto che questo è l'incognito più profondo; il più impenetrabile, perché la contraddizione fra lo stato divino e quello umano è la più grande possibile, la contraddizione qualitativa infinita. Ma quest'incognito risulta dalla sua volontà, dalla sua libera risoluzione ed è quindi osservato con tutto il suo potere. In un certo senso, accettando di nascere, egli si è impegnato una volta per tutte; il suo incognito è osservato con tale onnipotenza da mettere lui stesso in certo qual modo alla mercè di quest'incognito, cosa che costituisce propriamente la realtà della sua sofferenza puramente umana: di modo che questa realtà non è una semplice apparenza, ma, in un certo senso, il dominio esercitato su di lui dall'incognito che egli ha rivestito ››.” Se a una teologia dell'« assolutamente diverso ›› è vietata già qualsiasi asserzione sul « rimpianto di Dio ››, essa si intrica poi completamente col negare la libertà di Dio e col subordinare il Dio fattosi uomo a una necessità dalla quale egli non può «riprendersi indietro ››. A questo intrico però la teologia di Kierkegaard non può sfuggire, perché la concezione della paradossalità e dell'assoluta diversità di Dio è essa stessa legata allo spirito autonomo (in quanto sua negazione sistematica), il quale infine elimina la trascendenza divina costruendo Dio dialetticamente da se stesso e dalla
280 sua necessità. Come nella profondità della dannazione la dialettica del puro spirito si rivolge verso la salvezza, così essa nell'altezza del sacrificio precipita giù in una mitologia che costringe il suo Dio sotto il destino astratto: « Ma l'incognito dell'Uomo Dio è mantenuto con onnipotenza, e la serietà divina consiste proprio nel conservarlo fino al punto che l'Uomo Dio vi patisce la sofferenza puramente umana ››.” Se Haecker dice contro lo spiritualismo kierkegaardiano: « L'uomo deve divenire lo spirito che è destinato a essere, se possibile puro spirito, un errore quasi gnostico di Kierkegaard ›› 125 allora la gnosi della determinazione dell'uomo come uomo puramente spirituale si continua in una teologia che inserisce Dio nelle categorie del puro spirito che l'uomo gli appare essere; ma che con ciò dissolve Dio in quella natura che in realtà è proprio l'assoluta spiritualità dell'uomo. La dialettica mitica divora il Dio di Kierkegaard come Cronos i suoi figli. Il sacrificio mitico stesso viene per lui consumato dallo spiritualismo in quanto questo è la figura storica che assume nel suo pensiero la natura. È il sacrificio del mero spirito nel quale si è mutata ogni realtà. Il modello di questo sacrificio è la paradossalità: un movimento di pensiero, compiuto per puro pensiero, che in esso viene negato come totalità, per attirare, una volta immolato, la sua perfetta contraddizione,
281 ossia l'« assolutamente diverso ››. Ciò che in Kierkegaard caratterizza la demonìa e la disperazione della Malattia mortale, l'impulso alla distruzione dell'10 e all'annientamento, ritorna nella « coscienza al suo massimo culmine ›› : nella spiritualità assoluta. « E tuttavia non si deve sottovalutare il paradosso; perché il paradosso è la passione del pensiero, e il pensatore senza paradosso è come l'amante senza passione; un padrone mediocre. Ma la suprema potenza di ogni passione è quella di volere la propria rovina; e così anche la suprema passione dell'intelletto è quella di volere l'urto, sebbene questo debba divenire in un modo o nell'altro la sua rovina. Questo è dunque il massimo paradosso del pensiero: scoprire qualcosa che esso stesso non può pensare. ›› 26 Il carattere paradossale del sacrificio viene delineato dalla determinazione del peccato originale il quale, anch'esso di essenza esclusivamente spirituale, deve venir espiato col sacrificio: « Il peccato è: davanti a Dio disperatamente non voler essere se stesso, o davanti a Dio disperatamente voler essere se stesso. Ma questa definizione, anche se si ammette che sotto altri rispetti abbia i suoi vantaggi (fra i quali il più importante è di essere l'unica che corrisponda alla Scrittura, perché la Scrittura definisce sempre il peccato come disubbidienza), questa definizione non è troppo spirituale? A una tale domanda bisogna rispon-
282 dere in primo luogo: una definizione del peccato non può mai essere troppo spirituale (a meno che non divenga tanto spirituale da abolire il peccato); perché il peccato è per l'appunto una determinazione dello spirito ››.” Ma se il peccato della creatura viene definito dallo spirito, allora la sua espiazione appare altrettanto posta dallo spirito quanto contraddizione dello spirito stesso, e perciò paradossale: « Ma lo stadio religioso consiste appunto nel fatto che ci si preoccupa infinitamente di se stessi e non di visioni; che ci si preoccupa infinitamente di se stessi e non di uno scopo positivo che propriamente è negativo e finito, poiché l'unica forma adeguata per l'infinito è l'infinitamente negativo ›› .23 Il sacrificio della coscienza viene consumato con la categoria propria della coscienza: razionalmente. Non a caso Kierkegaard, nella dottrina del paradosso cristiano, si serve volentieri di paragoni matematici: « Simile alla linea retta che tocca il cerchio in un solo punto, così egli era nel mondo e tuttavia fuori del mondo, servendo a un solo signore ››.” Con ciò la paradossalità di Kierkegaard è messa in rapporto con quella matematico-razionale del punto che « non ha alcuna estensione ››; come infatti il punto fornisce effettivamente il modello di tutti i paradossi kierkegaardiani, dal Diario del seduttore in poi. Ma l'idea del punto, non puramente
283 rappresentabile in maniera evidente, rimanda alla ratio autonoma quale sua origine. Il « centro spontaneo ›› dell'idealismo, l'unità trascendentale astratta de"ll'appercezione, il «principio» kantiano, è un punto. Che il paradosso di Kierkegaard debba essere compreso come tale punto di produzione spontanea lo si può dedurre dal contesto delle Briciole filosofiche: «La conclusione della fede non è una conclusione ma una decisione, e perciò vi è escluso il dubbio ››.3° La categoria della decisione, denominata da Kierkegaard esplicitamente «etica» e quindi assegnata alla « libertà ›› e all'autonomia, deve però essere, paradossalmente, il « punto di partenza religioso ›› : « La decisione non è il coraggio dell'uomo e non è la saggezza dell'uomo (tutte queste sono soltanto determinazioni immediate, che appartengono alla stessa sfera dell'amore immediato, e che uindi non possono corrisponderle come una niiova immediatezza): essa è un punto di partenza religioso ›› ,31 Così la paradossalità « religiosa ›› viene legittimata in Kierkegaard da un atto spontaneo della coscienza. Ciò ha come conseguenza il fatto che tutti i sacrifici entro la sua cerchia assumono la forma della paradossalità. Non la consumazione simbolico-oggettiva del sacrificio è per lui decisiva, bensi il fatto che in ogni sacrificio l'autonomia del pensiero viene piegata da determinazioni di pensiero.
284 Contro di ciò si presenta spontanea l'obiezione corrente di una « intellettualizzazione ›› di Kierkegaard, il quale avrebbe fatto alcune qualsiasi esperienze religiose primordiali, ma le avrebbe rappresentate in una paradossalità razionale che costituirebbe il tributo del suo pensiero al « suo tempo ››. L'obiezione separa involontariamente pensiero e tempo, che in lui si intrecciano in maniera tale che la sede dell'arcaico è l'età moderna, mentre l'età arcaica si volatilizza come irreale non appena la si ricerca direttamente. Kierkegaard non ha rappresentato esperienze religiose primordiali in paradossalità razionale; sede del sacrificio mitico è in lui la figura storica della coscienza: l'interiorità priva di oggetto. L'interiorità non conduce il suo dialogo fuori del tempo con Dio; liberandosi essa dal mondo esteriore in virtù della sua situazione storica, e stabilendosi in incessante dialettica come quintessenza della creazione e insieme come garante del senso di questa, il presunto dialogo nel timore e tremore non è altro che l'eco fallace che dal nulla risponde alla spiritualità rinchiusa. Il sacrificio razionale non raffigura semplicemente un sacrificio ontico: lo spirito assoluto non è capace di nessun altro sacrificio se non di quello di se stesso. La « profondità» di Kierkegaard, se si vuol mantenere il concetto di cui si è abusato, non significa affatto che egli, sotto il manto di forme di pen-
285 siero idealistiche, abbia ristabilito un primordiale senso religioso assoluto. Nel tramonto storico dell'idealismo egli ha fatto sorgere come «senso primordiale» dell'idealismo stesso la sostanza mitica in quanto allo stesso tempo sostanza storica. Il primato della paradossalità razionale nell'ambito kierkegaardiano del sacrificio si lascia verificare immanentemente nel fatto che il carattere di paradossalità non si limita alla cristologia spirituale e non coincide con la paradossalità tradizionale del simbolo teologico. Se la struttura dialettica dell'intera sua opera è quella del sacrificio; se per lui salto e negazione compiono una volta per sempre la rinuncia della «sfera» dalla quale risultano, allora la paradossalità è associata dappertutto ai sacrifici, come se fosse una specie di sistematico sigillo di autenticità. Non si può spiegare diversamente il sorprendente catalogo dei paradossi che si incontra in un passo della Postilla non scientifica: « Il lettore si ricordi: la rivelazione è riconoscibile dal segreto, la beatitudine dal dolore, la certezza della fede dall'incertezza, la facilità dalla difficoltà, la verità dall'assurdità››.32 Ciò che sareb-
be blasfemico dinanzi al simbolo unico folgorante, si subordina senza resistenza, come conseguenza di «applicazioni ››, alla forma di una legalità razionale generale, fosse anche una legalità che imprime di volta in volta ai « casi ››,
286 come contenuto, la paradossalità e che contenutisticamente la rivolge contro la ratio. 11 paradosso è la forma categoriale fondamentale di Kierkegaard; paradossalmente egli intraprende la sintesi del molteplice, e nell'unità e nella totalità categoriale si mantiene appunto quell'origine razionale che le determinate paradossalità di volta in volta rinnegano. Perciò tali paradossi esistono ugualmente in tutte le « sfere ››. Il coincidere di tempo ed eternità è già concepito « esteticamente ››; non soltanto nella parodia della seduzione, bensì in senso positivo nelle sue teorie sull'arte: ci Col suo Don Giovanni egli [Mozart] entra in quella eternità che non sta al di fuori del tempo, ma proprio nel mezzo di esso, non nascosta da nessun velo agli occhi degli uomini; quell'eternità nella quale gli immortali non entrano una volta per tutte, ma vengono continuamente accolti, perché a mano a mano che una generazione passa, volge gli sguardi verso di loro, gode della loro contemplazione e scende nella tomba; la generazione seguente passa pure davanti a loro, e s'illumina nella loro contemplazione n.33 Anche lo stadio « etico ›› è costruito mediante paradossalità: « L'espressione più alta dell'amore immediato è che l'amante si sente un nulla di fronte all'amata e questa si sente un nulla di fronte a lui; è in contraddizione con l'am0re sentirsi qualcosa l'uno dinanzi all'al-
287 tra ››.” Con ciò l'amore si definisce mediante la pura negazione di quell'1o nel quale è pure insita, secondo la dottrina di Kierkegaard, tutta la sostanza dell'amore. Alla paradossalità dell'affetto corrisponde quella dello stesso imperativo morale: « Questo dimostra appunto che l'individuo è insieme l'universale e il particolare. Il dovere è l'universale che si esige da me; se quindi io non sono l'universale, non posso nemmeno fare il dovere. D'altra parte il mio dovere è il particolare, qualche cosa per me solo; eppure è il dovere e quindi l'universa1e ›› .*°'° Paradossale è infine anche la non cristiana « religiosità A ››; in un senso così preciso che diviene impossibile delimitarla dalla cristiana e che quindi la paradossalità fornisce il concetto superiore riassuntivo per la teologia positiva di Kierkegaard: «Giobbe ha avuto torto? Sì! assolutamente, perché non poteva rivolgersi più in alto del tribunale che lo giudicò. Giobbe ha avuto ragione? Sì! assolutamente in quanto ha avuto torto davanti a Dio ››.3° La funzione totale della paradossalità diviene possibile per la sua astrattezza: per il fatto che essa, in quanto forma categoriale, include tutti i contenuti specifici. Ma questa astrattezza è fondata a sua volta nel sacrificio quale intima sostanza della paradossalità stessa, e perciò non può essere riempita e corretta dalla molteplicità dei contenuti. La connessione di ciò che è vivente, per Kier-
288 kegaard la « realtà ›› dell'10, è immolata nel paradosso: « Se la religiosità viene ottenuta direttamente dalla realtà, essa è di tipo dubbio; in questo caso si ha forse bisogno solo di categorie estetiche 0 ci si aiuta con un poco di saggezza di vita; ma se l'individuo, che non poté essere piegato dalla realtà, crolla sotto il peso di se stesso, allora si imprimerà in maniera chiara ed evidente l'e1emento religioso ››.” Il crollo dell'individuo è però concretamente l'annientamento del tempo e quindi la rinuncia alla stessa connessione immanente della vita. Mediante il tempo si delimita in Kierkegaard l'ambito dell'esistenza umana da quello della pura natura caduta: « Il dato storico è però il passato (infatti il presente, al confine col futuro, non è ancora divenuto storico); come si può dire dunque che la natura, benché immediatamente presente, sia storica? La difficoltà deriva dal fatto che la natura è troppo astratta per essere in senso più stretto dialettica in relazione al tempo. Questa è l'imperfezione della natura: non avere essa storia in un altro senso ››.” Ma la storicità di Cristo nel paradosso rimane in Kierkegaard altrettanto astratta come egli lo percepisce nel divenire della pura natura, perché il sacrificio kierkegaardiano non è nient'altro che un sacrificio della pura natura: « Se la generazione contemporanea a Cristo non avesse lasciato in eredità null'altro che le parole: ' noi abbiamo cre-
289 duto che nell'anno tale e tale Dio si è mostrato in umile figura di servo, ha vissuto e insegnato tra noi e dopo di ciò è morto ', ciò sarebbe più che sufficiente. La generazione contemporanea ha compiuto quanto era necessario; perché questa piccola avvertenza, questo 'notabene' storico, è sufficiente a divenire un'occasione per i posteri; e anche il resoconto più particolareggiato non può, nemmeno in tutta l'eternità, divenire per i posteri qualcosa di più ››.” Basta riflettere che in una simile costruzione della paradossalità la comparsa di Gesù sarebbe permutabile a piacere nel tempo, perché come si è visto il tempo nel paradosso si presenta unicamente come un astratto notabene, privo di contenuto, per mostrare quanto radicalmente la dottrina kierkegaardiana del paradosso quale unità di tempo ed eternità si rivolga contro la sua stessa tesi fondamentale, la quale dice che « il fatto storico che Dio abbia avuto un'esistenza in sembianze umane è la cosa principale. ›› 4° Effettivamente, dal paradosso di Kierkegaard è eliminato ogni tempo concreto, che invece dovrebbe essere conservato proprio in esso, e compare come pura contestazione: « Nella contemporaneità immediata ››, in quanto esperienza della vita di Cristo concreta nel tempo, « vi è un'irrequietudine che si placa solo alle parole ' consummatum est ', senza che tuttavia la calma debba nuovamente scacciar via il dato storico,
290 ché altrimenti tutto è socratico ››;41 oppure la « contemporaneità ›› vien detta « uno stadio intermedio... che ha certamente la sua importanza, che non può venir omesso senza che si... ritorni al socratico, ma che pur tuttavia per il contemporaneo non ha alcuna importanza asso-
luta ››.” Come però nel «punto» mediante il sacrificio della paradossalità tramonta il tempo concreto, così anche l'immagine del1'eternità stessa impallidisce fino all'estrema astrattezza; la vita naturale viene immolata, e il sacrificio che avviene, sia pure un sacrificio spirituale, rimane tuttavia incatenato alla vita naturale, incapace di porre una trascendenza determinata: « Non è neanche vero che il vékog assoluto divenga concreto nel relativo, perché la distinzione assoluta che fa la rassegnazione metterà al sicuro in ogni momento il 1-élo; assoluto da ogni fraternizzare ››.” Ma divenendo incomparabile, esso diviene indeterminato; troncando ogni mitologia figurativa sprofonda in quella, priva di immagini, della pura negazione. Ciò che Kierkegaard come cristiano non osava esprimere, diviene manifesto nella dottrina del paradosso nella «religiosità A ››, a proposito di Giobbe: « È un errore nella struttura del Libro di Giobbe il fatto che Dio si presenti incontro a Giobbe nelle nuvole e lo superi in una discussione dialettica. Infatti, appunto con ciò Dio diviene quel terribile dialettico che è, che per così dire te lo
291 senti vicino in ben altro modo; allora il mormorio più sommesso è più beato e il mormorio più sommesso è più terribile che non quel sentirlo tuonare sulla terra dall'alto del suo trono di nubi. Perciò non si può dialettizzare con lui: ché Dio adopera la forza dialettica nel1'uomo contro l'uomo stesso ››.“ Se la dialettica di Kierkegaard in simili proposizioni crede di elevarsi al di sopra di ogni mitologia, qui vi ricade nella maniera più completa. Infatti è vero che le immagini mitiche della trascendenza sono distrutte nel momento della « fede ›› ; ma in questo la coscienza umana stessa usurpa la potenza dell'incondizionato mediante la paradossalità che essa pone. « La soggettività è la verità ››: ciò rivela nel paradosso i tratti raccapriccianti della maschera del sacrificio. Nel sacrificio demoniaco della coscienza l'uomo rimane signore del creato peccaminoso, mediante il sacrificio egli afferma la sua signoria, e alla sua demonìa soggiace il nome della divinità. Qui la critica filosofica a Kierkegaard converge con la domanda psicologica che gli studiosi di oggi amano porre come punto di partenza, ma alla quale si può rispondere fondatamente soltanto con la conoscenza della sua in-tima sostanza filosofica stessa: se Kierkegaard fosse un cristiano credente. Sollevare la questione per quanto riguarda l'uomo Kierkegaard non è cosa né legittima né possibile; già il testo degli
292 ultimi colloqui con Boesen dovrebbe bastare a impedirne la succinta risposta affermativa. In campo filosofico essa può essere decisa negativamente in vista dell'essenza mitica della paradossalità di Kierkegaard. E cioè con molta evidenza considerando il concetto della « imitazione ›› di Cristo, che alla fine diviene garante della sostanza teologica stessa, ma con ciò la secolarizza nel paradosso: «Tali furono coloro la cui vita ha il marchio dell'imitazione... Tutte le sofferenze, i tormenti... tutto ciò fu un martirio che, simile all'Ascensione che spezza e contrasta le leggi della natura (che sono l'obiezione del dubbio), fa saltare in aria i motivi di consolazione umana (e come potrebbero consolare quando si soffre perché si fa il bene), cercandone di altra specie, e ricorre all'Ascensione del maestro e signore e per mezzo della fede trova la via dei cieli. È sempre così per quel che riguarda il bisogno nell'uomo; da colui che mangia proviene quel che si mangia; là dove sta, il bisogno produce per così dire da se stesso quello di cui ha bisogno. E gli imitatori ebbero in verità bisogno dell'Ascensione del maestro per sopportare la vita che condussero; e per questo essa è Certa ››.45
Per quanto ciò venga formulato con cautela, forse persino con ambiguità: costituendo il sacrificio di colui che imita, nella «incertezza» della fede, l'unico criterio di verità, questa viene
293 affidata a un pragmatismo che si cela sì ancora nel punto, ma che sarebbe afferrabile nelle sue conseguenze se Kierkegaard avesse una volta abbandonato il « punto ››. La teologia di Kierkegaard dovrebbe dissolversi, ammesso che si arrivasse a una teologia. L'immanenza oltrepassa se stessa nel sacrificio, per precipitarsi nel cieco rapporto di natura che non conosce grazia, al quale la garanzia per 1'Ascensione trascendente stabilisce l'imitazione immanente invece che viceversa. La teologia che il sacrificio evoca è sottoposta a categorie di questo mondo a meno che, occasionalisticamente, non torni sempre e continuamente a intervenire, come un deus ex machina, il sacrificio, e sommerga l'immanenza soggettiva nel vuoto di una negazione astratta. La tesi del Lukàcs che il «salto» di Kierkegaard sia solo una fuga impotente dallo stadio di pura estraneità al senso, è giustificata insieme alla sua interpretazione che fa di lui un « nihilistan; e la critica, se può contraddire dal punto di vista metodico il ragionamento filosofico-culturale di Ludwig Marcuse, non può contraddirne i risultati quando Marcuse assegna Kierkegaard al «romanticismo» e giunge alla conclusione che « l'idealedi fede che 'egli delinea è in fondo una fantasia di romantico non un'immagine dell'esistenza ››," oppure quando dà il suo giudizio sul paradosso: « Questo credo quia absurdum di tipo romantico non
294 è certezza interna, nonostante tutte le aporie dell'intelletto, bensì sono le aporie dell'intelletto che devono dare la certezza ›› 47 nel sacrificio mitico della ragione. La ragione, che in Hegel in quanto infinita produceva da se stessa ogni realtà, è in Kierkegaard, in quanto infinita, la negazione di ogni conoscenza finita; mentre in Hegel era mitica la sua sovranità universale, in Kierkegaard è mitico il suo annientamento universale. Le ripetute assicurazioni di Kierkegaard di non essere egli un credente vanno pertanto considerate non come espressione di umiltà cristiana, bensì come conferma di un reale stato di cose. Esse ritornano troppo stereotipiche, formule evocatrici come le parole scritto e paradosso, per poter testimoniare il rinnovarsi di un sentimento di umiltà; ostinate, tengono lontano non dalla religione l'inganno bensì dalla cerchia mitica la parola redentrice che dovrebbe infrangerla. Nell'affermazione dell'esser « senza autorità ›› si ostina la profonda consapevolezza della non cristianità proprio di quella paradossalità che Kierkegaard statuisce come misura dell'elemento cristiano. Perciò la cura zelante del « confine ›› che anima particolarmente il libro contro Adler; essa vuole salvaguardare con attitudine sacerdotale piuttosto l'uso rituale del culto del sacrificio che non un cristianesimo che, se fosse presente, anche nella depravazione e nella de-
295 formazione si saprebbe fuor di pericolo in quanto verità rivelata, mentre quel culto del sacrificio è minacciato da demoni perché esso stesso è di demoni. Ciò conferisce a un passo di Per una prova di se stesso, raccomandata ai contemporanei, quel timbro mitico: «Se ora uno tra noi, credendosi l'uomo adatto, si arrischia ad assumere e a sostenere eticamente quanto qui si è accennato, appellandosi, quale singolo, a un rapporto immediato con Dio ›› (come Adler, al quale qui certamente si allude), « in quel momento io (così capisco me stesso in questo momento; ma non posso sapere se nel momento prossimo non mi sarà negata la possibilità di farlo, nel momento prossimo, forse prima ancora che io possa pubblicare questo scritto), in quel momento io sarò pronto al servizio, ad assumere quel che dinanzi a Dio io considero essere il mio compito. Questo mio compito consisterà nell'accompagnare io costui, il riformatore, passo per passo senza mai desistere, per vedere se egli passo per passo rimane nel carattere che ha assunto e che è lo straordinario ››.” Atteggiamento di guardia dei confini, inattaccabile severità, potenza del fascino: Kierkegaard non li deve, come pretende nel suo abbaglio, alla purezza del suo concetto dottrinario cristiano, bensì primieramente alla mitica reinterpretazione di questo nel paradosso. Senza pietà viene qui punita ogni inadeguatezza del reale
296 creato al sistema prodotto. Per il sacrificio della ragione, diventa sua preda tutto ciò che viene a capitare nel suo ambito. La ragione immolata domina quale semidio. Il suo dominio imita,'nella filosofia di Kierkegaard, la passione. Insieme con la malinconia, l'angoscia, la disperazione, la passione per lui fa parte degli affetti che subentrano come cifre alla verità sbarrata, ma che al tempo stesso appartengono alla pura soggettività mossa. Essa mira al sacrificio dell'10; la passione di quest'ultimo è quella dell'annientament0 di se stesso: « Se l'individuo, nell'annientamento di se stesso dinanzi a Dio, è determinato dialetticamente verso l'interno, abbiamo allora la religiosità A ››.” Essa è categoria soggettiva: è l'impulso naturale dello spirito, plasmato da Kierkegaard sempre secondo il modello dell'inclinazione erotica. Persino del contenuto trascendente della fede,
Kierkegaard pensa di impossessarsi in quello psicologico della passione: « Ma la più alta passione dell'uomo è la fede ›› :5° così lo stesso doppio senso del suo concetto della passione incoraggia le false interpretazioni, il cui esempio più drastico è forse il titolo del saggio del Vetter: Religiosità come passione. Ma questo di Kierkegaard è un doppio senso dialettico. È il vecchio doppio senso della passione, così come essa, secondo la formulazione datane dal Benjamin, costituisce il «culmine del passo della
297 mitologia ››; passione e sofferenza sacrificante. Non per nulla la passione «etica» di Kierkegaard, dalla quale egli pure crede che sia « tagliato via ogni incommensurabile ››, che sia espulsa la natura, ha bisogno di una determinazione così poco trasparente e ambigua come quella della simpatia: « È essenziale per l'uomo di avere simpatia; una decisione nella quale la simpatia non ha i suoi diritti e non trova la sua espressione adeguata, non dà alcuna idealità di grandissimo stile ›› .51 L'ambiguità della simpatia è quella mitica. Nella sfera «etica» di Kierkegaard essa viene espressa da una passione che anche come passione del1'intelletto mantiene il suo carattere naturale di istinto. Questo è in grado di articolarsi in movimento. Così la sua dialettica appare in Kierkegaard legata alla totalità di una « esistenza ›› che essa purifica come intera mediante l'annientamento. Ma la sua pretesa di totalità è insita nella pretesa di sovranità dello spirito assoluto. Se questo scompare, allora alla passione è conferita una figura dialettica diversa da quella di espiazione e di annientamento nel tutto. Allora essa, nei suoi moti affettivi, può adem-
piersi secondo il ritmo nel quale essi accadono come singoli, e senza ubbidire al rigido concetto superiore, e i passi dell'adempimento si trasformano in passi della redenzione. È il secondo abbozzo kierkegaardiano di una dialettica, della
298 dialettica dello stesso elemento mitico; esso si risveglia nell'intimo della sua filosofia e si volge contro una mitologia del sacrificio che poteva « tagliarlo via ››, ma non accoglierlo nelle sue paradossalità. Se la passione in quanto onnipotente, infinita, insaziabile potenza naturale, conosce solo la sua stessa rovina, allora dovunque essa si placa nel finito, la disperazione, che prima era la sua totalità demoniaca, perde ogni suo potere sulla passione, e la dialettica malattia che conduce alla morte viene trasposta nella forza che conduce a una vita redenta storica. Non è, come presume la dottrina kierkegaardiana di peccato totale e di sacrificio espiatorio totale, una «considerazione superficiale» quella che afferma che « la differenza qualitativa tra il paganesimo e il cristianesimo sia la dottrina della riconciliazione ›› .52 La riconciliazione è il gesto impercettibile nel quale la natura colpevole si rinnova storicamente come creata; finché è irriconciliata, essa rimane in stato di caduta anche nel suo gesto più grande, quello del sacrificio. Il cristianesimo si distingue dalla semplice religione naturale nel nome della redenzione
non nell'anonima attuazione del paradosso. C) ›-I O'¢'b che Kierkegaard, miticamente, si lascia sfuggire nel cristianesimo, egli lo intuisce, più cristianamente in verità, nel mito stesso, nella nordica « saga di Agnese e del tritone ›› che egli in Ti-
299 more e tremore narra, trasforma e commenta. Infatti, qui il trapasso dialettico di passione in redenzione viene compreso, anche se non come adempiuto, però almeno senza sacrificio: « Il tritone è un seduttore che sorge da1l'abisso dove ha la sua dimora. Nel furore del desiderio, egli afferra e spezza il fiore innocente che sedeva leggiadro sulla riva e piegava, fantasticando, la fronte verso il murmure delle onde. Tale è stato finora il tema del poeta; ma cerchiamo di modificare i dati. Il tritone è stato un seduttore; egli ha chiamato Agnese; le sue belle parole hanno risvegliato in lei sconosciuti sentimenti; essa ha trovato in lui ciò che cercava, ciò che il suo sguardo chiedeva alle onde profonde. È pronta a seguirlo; il tritone la prende nelle braccia, essa si afferra al suo collo; piena di fiducia, si abbandona con tutta l'anima all'essere più forte; e già egli è sulla riva, si curva sopra i flutti per precipitarsi laggiù con la sua preda; quando Agnese lo guarda ancora una volta senza timore, senza esitazione, senza orgoglio della sua felicità, senza ebbrezza di desiderio, ma con intera fiducia e con tutta l'umiltà di un fiore, quale essa sembra agli occhi di lui. -_ E, meraviglia! il mare non muggisce più; tace la sua voce selvaggia; l'appassionata natura che fa la forza del tritone l'abbandona improvvisamente, cade una calma completa, e Agnese intanto lo guarda, sempre, col medesimo sguardo ››.”
300 La « modificazione ›› che Kierkegaard intraprende è così piccola e così completa come mai fu subita dalle leggende dell'antichità da parte dei poeti tragici attici: il passo enigmatico che conduce fuori della pura natura, pur rimanendo in essa; il riscatto redentore del sacrificio. Questo scompare, e al suo posto la dialettica trattiene il fiato per un attimo; una cesura interrompe la sua continuità, resa graficamente dalla lineetta di sospensione prima delle parole ti E, meraviglia! ›› È vero che dinanzi allo sguardo del Kierkegaard esistenziale la riconciliazione qui passa soltanto allontanandosi, come una meteora luminosa che non raggiunge la terra; poi il sacrificio, sotto forma di rinuncia, irrompe nuovamente nella scena pervasa fugacemente dalla redenzione: «Allora il tritone cede; non può far fronte alla potenza dell'innocenza, il suo elemento gli diviene infedele, non può più sedurre Agnese. La riconduce al suo mondo, le spiega che voleva soltanto mostrarle lo splendore dell'oceano quando è tranquillo; e Agnese lo crede. Poi egli ritorna, solo; il mare si scatena, ma ancora di più tempesta la disperazione nel cuore suo. Egli può sedurre Agnese, cento Agnesi, può affascinare ogni fanciulla, ma Agnese ha vinto ed è perduta per lui. Essa può appartenergli soltanto come una preda; lui non può più darsi con fedeltà a nessuna fanciulla; perché non è altro che un tritone ››.” Egli lo
301 rimane in quanto rinuncia: il sacrificio lo rigetta nell'elemento mitico, nella « passione della natura ›› che per l'attimo della riconciliazione lo « aveva soppiantato ››, gli era stata tolta col gesto esaudiente della fanciulla che era rimasta fedele alla natura sino alla fine. Ma nel sacrificio della rinuncia il tritone diviene « demoniaco ››; egli tace. Il suo silenzio lo incatena alla mera natura. Così lo ha interpretato Kierkegaard stesso: « Accordiamo ora al tritone una coscienza umana; e, con la sua condizione di tritone, intendiamo dire una preesistenza umana in seguito alla quale la sua vita è stata ostacolata. Nulla vieta che egli divenga un eroe, perché l'azione che adesso egli compie lo riscatta. Egli è salvato da Agnese, il seduttore è vinto; si è inginocchiato sotto la potenza dell'innocenza e non sedurrà mai più. Ma nel medesimo istante due potenze se lo disputano, il pentimento e Agnese insieme al pentimento. Se il pentimento soltanto lo afferra, egli è nascosto; ma se si tratta di Agnese e del pentimento, egli È rI1anif€St0 ››.55
È raro che altrove l'idealismo kierkegaardiano dell'interiorità priva di oggetto riveli più
chiaramente il suo carattere mitico di quanto non accade qui, dove egli stesso gli tiene dinanzi l'immagine della riconciliazione. L'interiorità priva di oggetto deve perseverare in silenzio, pari al caparbio demone della natura. Ma or-
302 gano della riconciliazione è unicamente la parola. «Tuttavia non c'è dubbio che il tritone possa parlare ›› :5“ questo parlare, in quanto «ciò che è manifesto» lo trarrebbe fuori della mitologia nella quale lo confina il suo silenzio: il silenzio arcaico della sua immediata esistenza naturale, come pure quello dialettico di un « pentimento ›› che rimane in sé e si annienta nel sacrificio, senza trovare la parola riconciliatrice. Il « tritone ›› è veramente la « preesistenza ›› dell'interiorità kierkegaardiana: nel silenzio, il sacrificio di questa si rivela quale arcaico. Ciò conferma il suo idealismo come figura storica del mitico. Ma là dove la natura, non conoscendo rinuncia, resiste come potenza bramosa dell'istinto e come coscienza dotata di parola, essa è in grado di sussistere, mentre sacrificando soggiace a se stessa: la natura, che veramente expellas furca, tamen usque recurret, fino a che il genio non si riconcilia con essa.
vir
« CoME l'uomo naturalmente desidera ciò che gli garantisce e gli accresce la felicità, chi desidera vivere per l'eternità ha bisogno di una dose di pessimismo, affinché si stacchi da questo mondo e provi anzi verso di esso un senso di antipatia, di nausea, di fastidio, considerandone la stoltezza e la corruzione. ›› 1 Ciò che in L'ora viene stilizzato in maniera così puritana da sembrare la citazione da una predica di quaresima a1l'antica, nasconde invece soltanto come tesi concisa la dialettica più ricca e la nega dialetticamente. Passione e sacrificio nella dialettica di Kierkegaard scaturiscono dalla malinconia, in quanto loro fondamento naturale, per distruggere in essa come in un corpo spirituale la malinconia stessa. Ma la natura non si risolve nella passione del suo annientamento; la malinconia accompagna Kierkegaard, « fungendo da mediatrice ››, attraverso tutti gli stadi, prima di sacrificarsi nel punto. Perciò la si incontra ancora negli scritti della sua età tarda, dove invece dovrebbe essere vinta dal cristianesimo polemico-paradossale. Scissa, essa è per cosi dire sopravvissuta allo sfacelo che prima, in quanto qualcosa di totale, preparava alla sua totalità. Ma la superstite è divisa similmente a quella disperazione che nella caduta della Malattia mortale
304 trapassa il terreno della soggettività per polarizzarsi oggettivamente secondo il giudizio e la grazia. La mitica autoaffermazione di malinconia tocca alla dannazione: «E perché, o forze selvagge, perché non andate imperversando più violente? Perché non ponete una fine alla vita e al mondo? E insieme anche a questo meschino discorso, che in confronto ad altre cose ha per lo meno il pregio di avvicinarsi ormai alla fine? Sì, potesse quel turbine che costituisce l'intimo principio del mondo, prorompere dalle profondità del creato e, mentre gli uomini ignari mangiano e bevono, vanno a nozze e si moltiplicano in spensierata industriosità, potesse prorompere per abbattere nella sua collera le montagne, sfracellare gli stati, le conquiste della civiltà, tutti i saggi progetti dell'uomo; potesse far sentire il suo urlo raccapricciante, che più sicuro ancora delle trombe del giudizio annuncia lo sfacelo dell'universo, e spazzar via col suo alito possente, come una piuma al vento, il nudo scoglio al quale ci aggrappiamo ››.2 Così la malinconia si concentra nell'immagine della catastrofe in quanto estrema immagine a essa possibile: « Qui sta anche il significato della malinconia. La sua essenza è: il consolidamento della possibilità ››,3 e « l'irrisione più completa dovrebbe avvenire in serietà ›› 4 alla vista di questa immagine. Nessun sacrificio vi può far nulla, bensì la malinconia si separa solo dinanzi alla realtà
305 del giudizio: « A me pare che vi sia qualcosa di assai sconsolato in un isolamento come questo, e non posso fare a meno di pensare quanto sarà terribile per un uomo che ha vissuto così risvegliarsi in un'altra vita, nel giorno del giudizio, e là trovarsi di nuovo completamente
solo ››.* Ma la possibilità demoniaca è quella dell'autoaffermazione totale nell'ostinazione. Completamente diverso è il significato della malinconia infranta. I suoi ruderi sono i segni cifrati sui quali Kierkegaard riflette, e al controsenso dei suoi desideri si accompagna la speranza. L'ordine delle sfere si rovescia. Dove Kierkegaard non presuppone che discontinuità e contingenza della completa malinconia, là l'impulso naturale, se gli è negata soddisfazione diretta, si aggancia ai nomi dei suoi oggetti, e mai nella sua filosofia la speranza insiste più ostinata che nei Diapsalmata estetici, la cui sporadicità; secondo il suo schema delle sfere, proviene ben dal fatto che all'estetico non può riuscire la continuità. Così nel malinconico ricordo di un fanciullo di nome Lodovico: « Come rimane sempre uguale a se stessa la natura dell'uomo! Con quale innata genialità un fanciulletto ci dà spesso l'immagine di situazioni maggiori. Oggi mi sono divertito a osservare il piccolo Lodovico. Se ne stava seduto sulla sua seggiolina, guardandosi intorno con visibile soddisfazione. In quel mo-
306 mento entrò nella stanza Maren, la domestica. ' Maren! ' chiamò lui; ' Sì, piccino ', rispose lei col solito tono affettuoso. Ma Lodovico inclinò da un lato il suo testone, la guardò furbescamente con i suoi grandi occhi infantili e disse poi con la massima flemma: 'Non questa Maren qui, un'altra Maren! ' Che facciamo noi adulti? Chiamiamo a noi tutto il mondo, e quando ci viene incontro amichevolmente diciamo anche noi: ' Non questa Maren! ' ›› 6 Il commento di Kierkegaard si allontana impotente dal proprio racconto. Non è l'assenza di speranza nel desiderio autonomo-infinito che vi viene descritta, bensì la speranza nel finito, che fallisce contro il mondo delle cose, contro il « milieu ›› che ha solo questa ragazza e non un'altra, per tener stretto tuttavia di nome utopisticamente e concretamente ciò che le viene negato da oggetti alienati. Perciò il fanciullo non subentra come immagine ironico-banale di « situazioni maggiori » nel vano scorcio di un ricordo malinconico, bensì è malinconica la forza istintiva della propria impazienza, che non dovrebbe essere sacrificata realisticamente da una « decisione», ma esser nutrita dialetticamente per potersi adempiere. Anche se i motivi del desiderio nei Diapsalmata sono derivati in senso storico-letterario dal romanticismo, essi se ne distinguono sia per la loro determinatezza sia per la loro precisa inadempibilità, la cui figura costituisce ap-
307 punto lo schema della speranza in Kierkegaard. Così si volge di nome alla fedeltà del desiderio finito e tuttavia sbarrato anche un'osservazione il cui inizio è del tutto alla maniera romantica: « Ciò che mostra l'immensa forza poetica della letteratura popolare è questo, che essa ha un potere di concupire, in confronto al quale la concupiscenza dei nostri giorni è peccaminosa a un tempo e noiosa, perché essa desidera quello che appartiene al prossimo. Quella sa benissimo che il prossimo, al pari di lei, non possiede quel che essa cerca. E ove bisogni bramare in modo peccaminoso lo fa in maniera tanto ributtante da far tremare l'uomo. Le fredde conclusioni di probabilità di una ragione sobria non arrivano a cavillare con essa. Ancora oggi Don Giovanni attraversa la scena con le sue milletré amanti. Nessuno osa sorridere, venerando ognuno la vetustà della tradizione. Se un poeta al giorno d'oggi ne avesse avuto il coraggio, sarebbe stato deriso ››.7 Per ciò che qui oltrepassa l'impulso alla restaurazione della perduta immediatezza e pienezza di vita, Kierkegaard ha trovato la seguente formula: « La mia anima ha perduto la possibilità. Se mi fosse lecito desiderare qualcosa, io bramerei per me non la ricchezza né la potenza, bensì la passione della possibilità; io bramerei d'avere un occhio che, eternamente giovane, bruciasse eternamente dal desiderio di vedere la possibilità ››.” Una simile « possibili-
308 tà» non è tanto fallace immagine del perduto quanto piuttosto schema inadempiuto, debole, anticipante e tuttavia preciso di ciò che deve accadere. Ma è lo schema di quella verità alla quale si riferisce la domanda originaria di Kierkegaard: la verità cifrata e sbarrata che non sa creare la soggettività autonoma, ma che sa leggere la soggettività malinconica; in questo schema la malinconia porta al riparo ciò che l'esistenza aveva distrutto. Contro l'intenzione superficiale del complesso del suo sistema, i Diapsalmata si richiamano al « testo originale dell'esistenza umana ››, e mai i paragoni con esso sono più possenti che qui: « Io sono sommesso come uno schwa [una vocale dal suono indefinito], un'esistenza debole e vuota come un dagesch lene; mi sento come una lettera de1l'alfabeto stampata a rovescio nella riga; e tuttavia sono esigente come un pascià di tre code di cavallo, geloso di me e dei miei pensieri come una banca delle sue banconote, e in generale riflesso su me stesso come un pronome riflessivo. Sì, se con l'infelicità e la preoccupazione accadesse come col premio delle buone azioni che, come è noto, si perde quando lo si prende in anticipo nel proprio pensiero, allora io sarei l'uomo più felice del mondo! Ma no! Io mi prendo in anticipo tutte le preoccupazioni, eppure mi rimangono tutte, tutte ››.” Non a caso forse il paragone sceglie lettere del-
309 l'alfabeto ebraico, come simbolo di una lingua che teologicamente si arroga la pretesa di essere quella vera. Ma la verità teologica (e qui bisogna presumere, al di là del sacrificio paradossale, il vero e proprio punto di partenza ontologico di Kierkegaard) viene garantita proprio dal suo essere cifrata e resa inaccessibile, e la «rottura» con i rapporti umani fondamentali si rivela come storia della verità stessa. Così si presentano le cose, del tutto contro il volere di Kierkegaard e appunto perciò convincenti, in un passo del saggio su Marie Beaumarchais, nel quale lo scritto compare come modello di disperazione per poi trasformarsi sommessamente nel modello della speranza. « Così passa per lei il tempo, finché ella ha consumato l'oggetto del suo dolore, il quale non è tanto la causa del suo dolore quanto piuttosto l'occasione al fatto che ella si affligge, lei stessa non sa di che cosa. Immaginati che un uomo sia in possesso di una lettera che, come egli sa 0 crede di sapere, potrebbe dargli la spiegazione dalla quale dipende tutta la felicità della sua vita (0 ciò che egli giudica tale); ma che le pagine siano consumate e ingiallite e la calligrafia pressoché illeggibile; costui, pieno d'angoscia e d'inquietudine, leggerà e- rileggerà con passione, ricavandone ora un senso ora un altro, e quando crede di aver decifrato giustamente una parola, l'adopera come chiave per interpretare il testo intero; ma la fine
310 non è che un nuovo principio, l'incertezza. Con angoscia crescente egli fissa quelle pagine; più affatica l'occhio e meno vede; di tanto in tanto gli occhi gli si riempiono di lacrime; più questo succede e meno egli vede; con lo scorrere del tempo la scrittura impallidisce e si fa sempre meno chiara, finché la carta marcisce e a lui non resta che il suo occhio accecato dalle lacrime. ›› 1° L'eterna, vana lettura deve rappresentare la riflessione cattiva infinita dell'uomo « estetico ›› (qui: dell'uomo che ama in immediatezza), la quale secondo la dottrina del sistema delle sfere viene superata solo dalla « decisione ››. Ma non si potrebbe pensare un'immagine più fedele della speranza che non questa degli autentici segni cifrati, leggibili solo nelle tracce e impallidenti nella storia, che svaniscono all'occhio inondato di lacrime nel cui pianto tuttavia si confermano; nel pianto della disperazione, nel quale appaiono dialetticamente, in quanto commozione, il conforto e la speranza, corporei, in figure luminose. La malinconia dialettica non rimpiange la gioia che è passata; essa sa della sua irraggiungibilità ma anche della promessa che la irraggiungibile ha associato al desiderio proprio nell'origine: «Mai io sono stato lieto; eppure mi parve sempre che la gioia mi fosse fedele compagna, che in danza vivace mi ondeggiassero d'intorno i suoi geni alati, invisibili agli altri ma non a me, il cui occhio irraggia in estasi ››.11
31 1 Da ogni inganno mitico, da ciò che è stato, respinge col suo « mai ›› una simile speranza: essa viene promessa come irraggiungibile, mentre se fosse una volta affermata immediatamente come reale, ricadrebbe in mitologia e in fantasmagoria e si darebbe in balia al perduto, al passato. Perché il vero desiderio della malinconia è nutrito dall'idea di una beatitudine eterna libera da sacrificio, che il desiderio tuttavia non sarebbe mai in grado di significare adeguatamente come suo oggetto. Se è inadempibile e pieno di speranza il desiderio che ivi si dirige, esso però al tempo stesso ne proviene e, come ruota intorno alla beatitudine, così ruota, adempiuto, il desiderio entro la beatitudine stessa. Perciò in Kierkegaard al desiderio sbarrato-utopistico risponde dalla beatitudine la nostalgia quale salvezza escatologica della sua gnosi: « Il difficile sarebbe, essendo a casa, di sentire la nostalgia. Per questo ci vuole un'abilità di illusione ›› ,12 illusione nella figura irraggiungibile della speranza come nella nostalgia dell'essere a casa. Essa però, in quanto desiderio di beatitudine, ha la sua essenza non nell'infinito, bensì in una finitezza che, essendo essa stessa come un muro che sbarra la via, salva il corpo e il nome meglio che non l'orizzonte aperto del pensiero nel quale essi si dileguano. Così, in un diapsalma, la prammatica dell'arrosto è di più vasta portata di quanto non le
312 vorrebbe concedere l'ironia romantica di Kierkegaard: «Bisogna essere proprio molto ingenui per credere che col chiamare e il gridare si approdi a qualcosa in questo mondo. Come se il destino se ne lasciasse influenzare anche in minima parte! Si accetti invece quello che porta e ci si astenga da complicazioni! Quando in gioventù andavo in un ristorante, dicevo sempre al cameriere: 'Un buon pezzo di arrosto, ma che sia proprio buono, dalla schiena, e non trop-
po grasso! ' Difficile che il cameriere mi avesse anche soltanto udito, non parliamo poi che prestasse attenzione a quello che dicevo, 0 che addirittura la mia voce arrivasse fino in cucina e facesse una qualsiasi impressione alla dispensiera; e anche se per caso tutto ciò si verificava, non v'era forse in tutto l'arrosto nemmeno un unico pezzo buono. Ora non grido più ›› ,13 Perché così sarebbe la beatitudine, come il sapore di quell'unico pezzo d'arrosto esattamente descritto; così irraggiungibile essa è nella gerarchia dei significati, come l'arrosto buono in quella della scadente trattoria; altrettanto ostile è a essa la reificazione come a quello la cattiva organizzazione, e con altrettanta sicurezza essa è promessa come l'arrosto nel suo profumo. Nella malinconia comunicano la natura e la redenzione; da essa si solleva dialetticamente il « desiderio ››, e l'illusione di questo è il riflesso della speranza. Illusione: perché al desiderio
313 non è concessa la beatitudine ma soltanto delle immagini, e in esse si consuma il desiderio che pure al tempo stesso vive di loro, perché secondo le parole di Kierkegaard il suo organo, l'occhio «è quello che viene appagato per ultimo ›› .14 L'inappagabilità dell'occhio è però quella estetica. Ciò che dinanzi alla pretesa di dominio del suo idealismo sistematico, essendo irriducibile al centro spontaneo della soggettività, si sbriciola in determinazioni disparate dello stadio estetico, non paragonabili tra di loro, si compone invece insieme dinanzi allo sguardo della malinconia, in maniera irregolare sì, ma sensata. Il regno dell'estetico, che Kierkegaard con le categorie prestabilite del suo paradossale sistema dell'esistenza suddivide in dottrina tradizionale dell'arte, pura immediatezza contemplante dell'esistenza, fallacia speculativa della metafisica oggettiva e soggettivo modo (il «come ») della comunicazione, per poi dopo condannarlo come discontinuo: questo regno, dolorosamente solcato dalla soggettività che vi lascia le sue tracce senza mai riuscire a dominarlo, riceve la sua struttura dalle immagini che appaiono al desiderio ma che non sono da esso prodotte, perché il desiderio stesso scaturisce da loro. Questo regno delle immagini costituisce il perfetto opposto di quello tradizionale platonico. Non è eterno, ma storico-dialettico; non è situato in chiara trascendenza al di sopra della
314 natura, ma si dissolve oscuramente in essa; non è verità priva di apparenza, ma promette assurdamente la verità irraggiungibile nell'opposizione della di lei apparenza; non si dischiude all'eros, ma irraggia nel disfacimento. Nel disfacimento storico dell'unità mitica dell'esistenza immediata; nella dissociazione mitica dello storicamente esistente. Le figure che qui si radunano portano i segni del soffocamento dell'interiorità priva di oggetto; che la loro luce sia quella mitica della putrefazione, su questo Kierkegaard stesso non ha lasciato alcun dubbio, e spesso esse rimangono superstiti come ricordi di una natura estinta e alienata. Ma come rimangono superstiti, precedono allo stesso tempo tutto ciò che è vivente. Su questo punto Kierkegaard come «psicologo» è meglio informato che come sistematico dell'esistenza: «Ciascun uomo ha una determinata capacità di conoscere; e ciascun uomo, il più colto come il più limitato, è di molto superiore, col suo conoscere, a ciò che egli è nella sua vita ovvero a ciò che la sua vita esprime ››.15 Con un simile vantaggio del sapere sull'esistenza, il conoscente ha nell'apparenza una partecipazione alla verità che l'esistenza priva d'apparenza non raggiunse giammai nella sua vuota profondità. Infatti, la traccia della verità si concede al desiderio che persevera dinanzi al puro ente; se l'ente fosse negato in quanto contin-
315 gente, l'esistenza dell'interiorità non offrirebbe quella traccia, perché l'interiorità non conosce altra verità che la sua stessa esistenza. Ma dinanzi alla traccia della verità svanisce la pura esistenza. Ciò che Kierkegaard dice polemicamente della ragione speculativa, che usurpa l'intellectus archetypus, caratterizza positivamente quell'atteggiament0 « estetico ›› che si afferma a dispetto della sua dottrina dell'esistenza: « Ma per il pensatore speculativo, la questione della sua beatitudine esterna personale non può presentarsi affatto, proprio perché il suo compito consiste ne11'allontanarsi sempre più da se stesso e divenire oggettivo, fino a scomparire dinanzi a se stesso e divenire la forza contemplativa della speculazione ›› .1° Così l'I0 autonomo dovrebbe « scomparire ›› nella verità, dalla cui traccia esso viene raggiunto con l'apparenza estetica, contro le effimere immagini della quale la sua potente spontaneità rimbalza senza alcun potere. Se l'Io espansivo nella sua espansione totale viene sfondato dal sacrificio, in quanto scomparente viene salvato dal rimpicciolimento. All'astrazione etica di Kierkegaard, al « tagliar via l'incommensurabile ››, è forse insita una consapevolezza di tutto ciò che trascende il mero sacrificio. È la consapevolezza della poca appariscenza, come la conserva ancora la nostalgia dei romantici per lo « spirito borghese ››; « Ma quelli che portano il tesoro della fede in-
316 gannano facilmente, perché il loro aspetto esterno offre un'inipressionante somiglianza con quanto è profondamente disprezzato sia dalla infinita rassegnazione sia dalla fede: vogliamo dire, con lo spirito borghese ›› .17 Il credente, che somiglia al piccolo borghese, non viene commentato da Kierkegaard come colui che vive giustamente con immediatezza nel microcosmo, bensì come colui che scompare senza appariscenza: « Ma nel medesimo momento che io lo considero, ecco che mi tiro indietro, giungo le mani e dico a mezza voce: ' Gran Dio! È quest'uomo qui, è proprio lui? Ha tutta l'aria di un agente delle imposte '. Eppure, è proprio lui. Mi avvicino un poco, sorveglio ogni suo minimo movimento per cercar di sorprendere qualcosa di un'altra natura, un minuscolo segno telegrafico trasmesso dall'infinito, uno sguardo, un'espressione della fisonomía, un gesto, un'aria malinconica, un sorriso che riveli l'infinito nella sua irriducibilità rispetto al finito. Macché! Nulla. Lo esamino dalla testa ai piedi, cercando la fessura attraverso la quale si riveli l'infinito. Nulla! È solido in ogni punto ››.” Questo non è colui che vive quale sacrificato, e nemmeno il borghese «etico» di una realtà mediocre fatta di dovere, vita coniugale e regolare agire. Il suo prototipo si lascerebbe piuttosto ricercare in tradizioni mistiche: in quelle del savio misconosciuto, ignoto anche a se stesso, 0 del santo al
317 quale scompare inosservata la sua spoglia mortale; il « segno telegrafico trasmesso da1l'infinito», nella Malattia mortale aperto messaggio del giudizio, è per lui quello segreto della grazia. « Esprimere lo slancio sublime nella più comune andatura... ecco il prodigio unico ›› 1° e a lui riuscito. Su questo, nulla può l'astrologia soggettiva delle sfere, nulla l'Io con la sua scelta e nulla il suo sacrificio mediante il paradosso. Nel sedimento residuo dell'estetico giace, tenuto in poco conto, scartato, eppure impossibile a perdersi, ciò che il pathos della soggettività totale aveva invano evocato: «Allora io venivo a stendermi al tuo fianco e fuggivo me stesso nell'immensità del cielo sopra di me, e dimenticavo me stesso ascoltando il tuo mormorio lene. O felicità di me stesso, vita fuggitiva del ruscello trascorrente davanti la casa di mio padre dove sono disteso, forma simile al bastone che il pellegrino ha posato in terra, io trovo nel tuo mormorio la liberazione e la salvezza. Così io stavo nel mio palco... ›› 2° Questa immagine speculativa di scomparsa e di salvezza si cela, per così dire senz'esserne responsabile, dietro la teoria della farsa nella Ripetizione, alla quale segue dopo poche pagine; una teoria in cui si dissolve non soltanto la concezione kierkegaardiana dell'arte, ma anche la stessa sistematica del concetto dell'esistenza: « Qualsiasi definizione estetica della farsa è con-
318 dannata all'insuccesso; non saprebbe infatti raccogliere 1'approvazi0ne del pubblico colto; poiché l'effetto della farsa dipende in larga misura dalla parte di attività creatrice che vi ha lo spettatore; ognuno vi trova il fatto suo nella maniera più differente, e tanto più che nel divertimento si è completamente liberi da tutte le regole estetiche tradizionali ~.dell'ammirazione, del riso, dell'emozione. Per un uomo colto, la rappresentazione della farsa è come una lotteria, con in meno l'inconveniente di vincere denaro. Ma il consueto pubblico dei teatri non ama tentare la fortuna, trascura quindi la farsa, a meno che non la disprezzi, per sua disgrazia; in generale possiede una serietà limitata, domanda al teatro di nobilitare 0 di coltivare il suo spirito, 0 almeno ci tiene a crederlo; vuol poter dire di aver provato un raro godimento artistico, o almeno immaginarsi di averlo provato; pretende di sapere come si svolgerà lo spettacolo solo per aver letto il cartellone. La farsa è ribelle a tali convenzioni, può infatti produrre le impressioni più diverse e offrire il paradossale risultato di essere meno avvincente quanto meglio è recitata... I reciproci riguardi, così rassicuranti del resto, che hanno gli uni per gli altri gli spettatori non sono più osservati; si può essere trascinati al sentimento più imprevisto e quindi non sapere esattamente se a teatro ci siamo comportati da persona della buona società che ha riso
319 0 ha pianto al momento giusto. Non si possono ammirare, quale coscienzioso spettatore, le finezze richieste dal dramma; i personaggi della farsa sono di fatto disegnati sulla misura astratta del ' generale '. Situazioni, intrighi, battute, tutto è su questa scala. In modo che si può egualmente esser trasportati alla tristezza 0 trascinati al riso ›› .21 L'intervento spontaneo dello spettatore, che secondo quanto qui è detto definisce la forma della farsa, deriva solo apparentemente dal principio del soggettivismo sovrano. Infatti, esso si rivolge contro l'unità della forma creata, la quale testimonia appunto l'unità della sintesi soggettiva; e si effettua in sentimenti momentanei che rimangono altrettanto incommensurabili tra loro come il riso e la tristezza dinanzi alla farsa: sono le risposte al variare delle immagini, « situazioni ››, nel cui « generale ›› scompare tanto l'essere dei personaggi drammatici quanto quello della persona esistente. Ciò che Kierkegaard si è preso licenza di asserire sull'anarchia della farsa potrebbe divenire pericoloso alla stessa gerarchia delle sfere e la raggiunge, anche se solo « esteticamente ›› nella critica del tragico: « forse che il comico, armato com'è di armi leggere, si affretta, sfiorando appena l'etico, verso la spensieratezza del metafisico? Lascia entrare la contraddizione solo per destare il riso? E invece il tragico, con le sue armi pesanti, si incaglia nella difficoltà etica
320 che l'idea debba sì vincere, ma l'eroe soccombere? Per la qual cosa lo spettatore viene evidentemente a trovarsi in una situazione imbarazzante: se anch'egli vuole essere eroe, deve soccombere senza pietà; e se non ha da temere per la sua vita perché solo gli eroi devono morire, anche questo è assai amaro ››.” Ma la tragicità è una volta per sempre la rappresentazione di un sacrificio, e la critica kierkegaardiana al soccombere dell'eroe non avrebbe bisogno di ammutolire dinanzi al sacrificio stesso. Perciò talvolta egli difende l'« estetico ›› contro il « religioso ›› di una serietà che pure da sola trae la conseguenza da una paradossalità sacrificante: « Nella prassi però non vi è nulla di più ridicolo di quando in profonda, sciocca serietà vengono applicate categorie religiose là dove sarebbero adeguati un buon umore scherzoso e delle categorie estetiche ››.” La restrizione della « serietà ›› esistenziale, religiosa, fa posto a quelle simpatie per autori materialistici a giustificare le quali non basta la sola ostilità verso Hegel e nemmeno la struttura generale del pensiero « dialettico ›› di Kierkegaard, poiché per il loro contenuto esse sono opposte a1l'intenzione dominante del suo pensiero e riescono a inserirsi soltanto nei punti di frattura della dottrina esistenziale: « In generale Börne, Heine, Feuerbach e simili scrittori hanno un grande interesse per colui che sperimenta. Spesso essi sanno benissimo il fatto
321 loro in cose di religione; ciò significa che sanno con certezza di non volere averci nulla a che fare. Con questo si distinguono, a loro grande vantaggio, dai sistematici che senza aver comprensione per l'elemento religioso si danno da fare per spiegarlo, ora sottomessi, ora arroganti, ma sempre in maniera infelice. Un innamorato infelice, un geloso, possono esser pratici di questioni erotiche altrettanto quanto un amante felice; e così anche un uomo che si è scandalizzato della religione può intendersene altrettanto bene quanto il credente. Poiché una fede di grande stile è molto rara ai nostri tempi, bisogna essere già contenti che vi siano delle persone che si sono irritate a fondo con la religione ››.24 Irritati per il desiderio che non si rassegna al sacrificio e che emerge nella dissoluzione dell'esistenza, fosforeggiando alla scomparente: « Se non hai da dire null'altro se non che questo non si può sopportare, allora devi andare in cerca di un mondo migliore ››.25 Ciò che con tanto scherno l'« etico ›› rimprovera all'« esteta ›› come hybris di grandezza, è tuttavia in piccolo il suo migliore retaggio in quanto cellula di un materialismo che va in cerca di « un mondo migliore ››, non per dimenticare sognando quello presente, ma per modificarlo partendo dalla forza di un'immagine che nel suo insieme potrà ben essere «disegnata sulla misura astratta del generale», ma i cui contorni tuttavia si realiz-
322 zano corporei e univoci in ogni singolo momento dialettico. La quintessenza di tali immagini è la «sfera estetica» kierkegaardiana. La sua unità si fonda nei suoi contenuti e non nel modo della loro costituzione soggettiva. È la regione dell'apparenza dialettica, nella quale la verità si promette storicamente, con la dissoluzione dell'esistenza: mentre la sfera «etica» e quella « religiosa ›› rimangono le sfere de1l'evocazione soggettivo-immolante, che insieme all'apparenza perde anche la speranza. Nelle ultime pagine di In vino veritas Kierkegaard dà un paragone della sfera estetica che la coglie con maggior precisione di quanto sia mai riuscito agli sforzi concettuali del personaggio Guglielmo, perché afferra nell'immagine la regione stessa delle immagini. Dopo il banchetto «Costantino prese congedo come ospite, informandoli che vi erano cinque carrozze a loro disposizione, e ognuno poteva seguire la propria volontà e andare dove voleva solo 0, se desiderava, in compagnia, con chi gli piacesse ››.2° A ciò segue immediatamente questa espressione: « Così un razzo, per la forza della polvere, monta in un solo schizzo, sta fermo un momento raccolto, intero, poi scoppia disperdendosi a tutti i venti ››.” Non diversamente l'idea della sfera estetica: messa in libertà dalla dialettica soggettiva e largamente irraggiandola, sospesa nell'eternità del
323 momento quale totalità apparente, disintegrando la luce della speranza sulle cose alle quali appartiene, come il razzo appartiene alla moderna antichità della pirotecnica. Che la figura dello stadio estetico, in quanto storico-preist0rica, sia molto simile a quella sotto il cui aspetto si rappresenta a1l'osservatore contemporaneo la cellula della filosofia kierkegaardiana, l'interieur, si rivela inconfutabilmente nella continuazione del brano testé citato: « mentre le loro figure e il gruppo che formavano mi facevano un'impressione fantastica. Nel fatto che il sole della mattina rischiari coi suoi raggi i campi e i prati e ogni creatura che nella notte trovò riposo e forza per alzarsi esultante con lui, vi è una mutua intelligenza salutare; ma una compagnia notturna, vista alla luce della mattina in una natura sorridente, fa un effetto quasi sinistro. Ci si rappresenta degli spettri sorpresi dall'alba; degli spiriti infernali che non hanno potuto trovare la fessura per la quale sparire, perché essa non è visibile che nell'oscurità; degli infelici per i quali la differenza tra il giorno e la notte è sparita nella uniformità del dolore ›› .28 Kierkegaard osserva questo quadro con maggior penetrazione che non in base alla facile antitesi di originarietà e corruzione. I signori in marsina non deturpano la purezza della natura mattutina; dinanzi a questa purezza essi si
324 trasformano in spiriti naturali proprio in virtù dei loro abiti che sono ciò che essi hanno di più caduco, per modo che l'eternità stessa traspare come sostanza intima della loro caducità. La speranza insita nell'estetico è quella della trasparenza di figure decadenti. Teologicamente ciò viene espresso più tardi nella rappresentazione kierkegaardiana della « storia sacra ›› : « È vero che la magnificenza traspare in certo qual modo anche qui ››.” Infatti, come il verdetto di Kierkegaard sulla sfera estetica non ne colpisce tutti i contenuti, così le immagini di essa non sono limitate all'ambito che la sua dottrina dell'esistenza prescrive loro. Se il paradosso rimane votato alla natura, non per questo esso ha anche un potere su tutte le immagini mitiche, e l'ultima dinanzi alla quale si arresta, il « notabene ›› della passione, è la prima ricca di promesse dell'apparenza estetica. Come decisivo tratto barocco di Kierkegaard va ricordato il significato che la sua filosofia attribuisce alla figura esteriore del Crocifisso: « Tu stai dunque in compagnia di un bambino; mostragli per divertirlo qualcuna di quelle figurine che si comprano dal droghiere, senza valore artistico, ma così attraenti a quell'età. Quell'uomo sul suo focoso destriero, col pennacchio al vento, come un sovrano alla testa di migliaia di soldati che non si vedono, col braccio teso per ordinare ' avanti! ', avanti verso le cime che vedi dinanzi
325 a te, avanti verso la vittoria: è l'imperatore per antonomasia, Napoleone; discorri un po' di lui al bambino. Quest'altro indossa un costume da cacciatore, si appoggia al suo arco, fissa davanti a sé uno sguardo penetrante, pieno di sicurezza, e tuttavia carico di mestizia. È Guglielmo Tell; discorri un po' di lui e di quello strano sguardo; digli che quello sguardo si rivolge insieme sul figlio diletto per non colpirlo con la freccia, e sulla mela posta sulla sua testa per colpirla. E, a immensa gioia del bambino, mostragli così parecchie immagini; poi se ne presenta una che tu hai mischiato a bella posta con le altre e che rappresenta una crocifissione. Il bambino non comprenderà di colpo né senza spiegazioni. Egli domanderà il significato di quella scena, perché quell'uomo è appeso a un legno. Tu allora gli spieghi che si tratta di una croce, che esservi appeso significa esser crocifisso e che la crocifissione era, in quel paese, la pena di morte più crudele e più ignominiosa riservata solo ai più terribili criminali ››.3° Di tutte le immagini è rimasta, dialetticamente, solo questa: « Come a onta dei giudei fu scritto su quella croce: ' re dei giudei ', così anche quell'immagine, che torna ogni anno, impone alla generazione presente, suo malgrado, un ricordo di cui essa non può né deve mai sbarazzarsi, e quell'u0mo non dev`essere rappresentato diversamente; e la generazione presente deve pensare che l'ha crocifisso
326 anch'essa, quando mostra per la prima volta quell'immagine al bambino della nuova generazione e gli spiega per la prima volta come ciò è avvenuto nel mondo; e la prima volta che sente quel racconto, il bambino deve provare un sentimento di paura e di angoscia di fronte alle persone grandi, davanti al mondo e a se stesso; e le altre immagini dovrebbero battere in ritirata, tanto questa differisce da esse ›› .31 L'esperienza originaria del cristianesimo rimane di conseguenza per Kierkegaard legata all'immagine; l'idea di Cristo viene tramandata da una generazione all'altra nell'immagine; come il suo nome, così anche la sua immagine sussiste come resto mitico irriducibile. Ma dialetticamente: riscatto allo stesso tempo della demonìa della natura; l'ultima immagine come l'ultimo sacrificio; le altre immagini devono « battere in ritirata ›› dinanzi a quella di Gesù. Questa elimina ogni arte, è « senza valore artistico ››, e tuttavia essa stessa un'immagine; così salva l'estetico nel suo tramonto, e ancora la paradossalità si offre alla riconciliazione nell'immagine. Perciò varie metafore della Malattia mortale conoscono alcuni grandi motivi dei
Diapsalmata e della «sfera estetica» che non poterono mai inserirsi nella logica dell'esistenza, condotta rigorosamente: « È, per illustrarlo con un'immagine, come se a uno scrittore fosse sfuggito un errore e poi egli se ne accorgesse (forse
327 non era proprio un errore ma, in un senso molto più alto, un elemento essenziale per tutta la rappresentazione), è come se ora questo errore si ribellasse contro l'autore e per odio contro di lui gli impedisse di rettificarlo dicendogli, con ostinazione pazza: ' no, non voglio essere cancellato, voglio restare, come testimonio contro di te, come testimonio che tu sei uno scrittore mediocre ' ››.” Come la lettera dell'alfabeto isolata, simile a un segno cifrato, non si sottomette a1l'espressione totale, « esistenziale ››, dello scrittore, così ancora nella teologia di Kierkegaard immagini cifrate stanno contro il sacrificio esistenziale e, in mezzo all'annientamento astraente, accordano il conforto della loro concrezione. Ciò che nella sfera «estetica» si erige contro l'idealismo soggettivo (il carattere ontologico di un « testo ››, per la cui verità l'uomo subentra come puro segno; la depersonalizzazione dell'10 dal quale si emancipa una importante lettera dell'alfabeto), occupa lo scenario teologico di Kierkegaard nella dottrina della disperazione oggettiva; ma la possibilità parentetica che alla fine proprio l'« errore di stampa» si riveli come sensato, è l'assurda cesura che la speranza introduce nell'esistenza con la dissoluzione della medesima. Esistenza, disperazione, speranza: alla stregua di questo ritmo, e non di quello monotono di Io totale e di sacrificio totale si misura l'ontologia di Kierkegaard, ed essa ap-
328 pare nelle disparate immagini nelle quali si scinde dialetticamente l'unità astratta « esiStenla ›› .
In queste immagini la sfera estetica e quella religiosa trascendono l'una nell'altra, e non solo, come presume sistematicamente Kierkegaard, in una « eccezione ›› che non ha alcuna partecipazione alla vita; ma piuttosto in una depersonalizzazione del vivente nella quale la vita, scomparendo, respira tuttavia libera da sacrificio e si arresta. Il suo simbolo è il sonno. Con esso Kierkegaard caratterizza allo stesso modo le sfere estreme. Nei Diapsalmata « estetici ›› dice: « Io suddivido così il mio tempo: una metà la passo dormendo e l'altra sognando. Quando dormo non sogno mai. Questo sarebbe un peccare. Dormirelè la massima genialità ›› ; 33 nella Scuola di cristianesimo invece dice del credente: « beato colui che dice (come il bambino assonnato che impara a recitare delle parole per addormentarsi): 'io credo in Lui', e s'addormenta; in verità, egli è felice; non è morto, ma dorme ››.34 Un simile sonno è il doppio senso dialettico della passione: « Io devo anche avere il mio sonno, per poter trattenere la passione per tutta la lunghezza del tempo ››.” Infatti col sonno la passione obbedisce alla natura, e riceve tuttavia la promessa di un beato risveglio. Nel dormiente si acquieta la spontaneità dell'Io senza che questo sia annientato. Se le im-
329 magini estetiche che lo circondano sono, in quanto apparenza ontologica, sottratte all'autonomia soggettiva, allora la teoria kierkegaardiana del « come ›› soggettivo e il suo correlato negativo, il verdetto sulla « sfera estetica ››, perdono l'ultima legittimazione. Infatti, la conoscenza del pensatore soggettivo e ogni arte rimangono per Kierkegaard sempre «comunicazione ››: « Il pensiero oggettivo è... attento solo a se stesso, e perciò non è una comunicazione, per lo meno non una comunicazione artistica, in quanto si esigerebbe sempre che si pensasse al destinatario e quindi in vista di un suo eventuale non comprendere si badasse alla forma della comunicazione ››.” Ma la comunicazione è legata all'autonomia: a quella del comunicante, che imprime la forma a un « contenuto ››, e a quella del fittizio e astratto destinatario, secondo la quale detta forma si regola perché costui possa « comprendere ›› ; la legge insita nella produzione stessa è svalutata dalla comunicazione. «Quanto più arte, tanto più interiorità » zi" questa è la regola per la «comunicazione ›› di Kierkegaard, ma non è una legge per l'arte. Benché tale comunicazione si atteggi in maniera molto conciliante al servizio di relazioni tra gli uomini, essa appartiene tuttavia unicamente allo stadio dell'interiorità priva di oggetto. Soltanto sostanze alienate, ammutolite, possono venire trasformate, rivestite, « comuni-
330 cate ›› quale « contenuto ››, secondo una volontà soggettiva; soltanto là dove manchi loro una validità impegnativa, questa viene loro rivendicata dalla singola esistenza umana. Il « come ›› della comunicazione rimane surrogato soggettivo per il forzato modo di apparizione dell'ontologia che minaccia di soccombere nell'astrattezza. Perciò la dottrina kierkegaardiana della comunicazione si preoccupa contraddittoriamente di un prossimo che la sua soggettività assoluta ha perduto ormai da lungo tempo. Secondo questo prossimo, il contingente, lo sconosciuto, essa deve orientarsi, perché essendo essa stessa completamente astratta non le deriva alcuna legge formale dalla concretezza dei suoi contenuti. Impotente, essa la evoca nelle ripetizioni della « doppia riflessione ››. Eloquenti sono le opere, in virtù della loro legge formale, nella rappresentazione inesorabile della verità attraverso la sua apparenza. La comunicazione « esistenziale ›› di Kierkegaard, priva di apparenza, rimane monologica proprio perché tiene conto di un prossimo che per essa non esiste. Il suo « come soggettivo ›› rispecchia, deformandola, la potenza della verità sul modo del suo apparire, il quale non può essere mai staccato a piacere da essa come se fosse soltanto il suo simbolo, perché la verità stessa ha il suo essere soltanto nella dialettica nella quale essa « appare ››. Al «come» spetta il suo diritto filosofico, scoperto da Kier-
331 kegaard contro il comune dualismo di forma e contenuto, in quanto è l'espressione per una legalità oggettiva nell'apparire della verità. Ma la sua dottrina indebolisce allo stesso tempo questo diritto, in quanto lo affida alla soggettività la quale reduplicando aggiunge alle cose la verità come un che di nuovo; in quanto separa tra loro la verità e le cose nelle quali essa appare; e in quanto assegna all'esistenza la verità e le cose al caso. Per quanto feconde di materiale si rivelino di volta in volta le norme di critica del linguaggio che Kierkegaard col suo « come soggettivo ›› stabilì a una filosofia che minacciava di soggiacere alla contaminazione con la scienza, la motivazione teorica di tali norme dalla soggettività totale si lascia sfuggire sia le esigenze della filosofia sia quelle dell'arte. Perciò l'anatema di Kierkegaard contro la « sfera estetica ›› e infine contro tutta 1'arte. Esso viene formulato dal teologo in maniera più stringente che dal filosofo esistenziale; non col concetto di decisione soggettiva, bensì con l'esigenza dell'imitazione di Cristo, ricordando la proibizione delle effigie sacre contenuta nel Decalogo: « Solo 'l'imitatore' è il vero cristiano. L'atteggiamento dell' ' ammiratore ' di fronte al cristianesimo è né più né meno quello di un pagano, ed ecco anche perché l'ammirazione ha fatto sorgere, in pieno cristianesimo, un nuovo paganesimo: l'arte cristiana. Io non vo-
332 glio giudicare nessuno, in nessun modo, ma considero mio dovere esprimere il mio modo di sentire. Come potrei decidermi, lasciarmi andare a prendere il pennello per rappresentare Cristo sulla tela, o lo scalpello per ricavare la sua statua nella pietra? Poco importa a questo riguardo che io sia o non sia artista; chiedo semplicemente in quale misura mi sarebbe possibile far questo se ne avessi il talento necessario. E rispondo: no, non lo potrei assolutamente. E anche cosi non credo di avere espresso per intero il mio sentimento; perché ai miei occhi l'impossibilità sarebbe tale che non posso concepire come la cosa è stata possibile a qualcuno. ' Non riesco a comprendere ', si sente dire, 'la calma dell'assassino che affila il coltello col quale sta per colpire la sua vittima ', e nemmeno io lo comprendo. Ma, in verità, mi domando altrettanto invano dove l'artista abbia attinto la calma, per me incomprensibile, con cui si è dedicato per anni interi a dipingere Cristo senza domandarsi se Cristo ha desiderato che un pennello d'artista facesse il suo ritratto, per quanto idealizzato. Non riesco a concepire come l'artista abbia conservato la sua calma, come non abbia visto il dispiacere di Cristo e non abbia gettato via d'un tratto colori e pennelli come Giuda gettò lontano i trenta denari, perché comprese improvvisamente che colui il quale visse quaggiù in umiliazione e in povertà senza
333 aver un luogo ove posare il capo, visse così non per caso, non per l'implacabilità del destino e desiderando una condizione diversa, ma per una libera scelta in virtù di una risoluzione eterna; e non ha neppure desiderato, non desidera affatto che dopo la sua morte un uomo perda il proprio tempo, fors'anche la propria beatitudine, a fare il suo ritratto. Io non capisco: nel momento stesso di cominciare, il pennello mi sarebbe caduto di mano, non sarei mai diventato un uomo ››.” Quale immagine di ciò che è vivente, l'arte viene sacrificata all'imitazione nella morte: « La questione di come stia un uomo in questo mondo sarà forse nelle novelle e nei romanzi e in altri passatempi del genere, frutto dell'invenzione, una questione vitale; ma il Vangelo non vi perde sopra un solo minuto. Perché dinanzi al Vangelo settanta anni non sono che un attimo, e le sue parole si dirigono rapidamente verso la decisione dell'eternità ››.” Ma l'ostilità del tardo Kierkegaard verso l'arte non deve essere ridotta senz'altro alla categoria del sacrificio. In essa si manifesta, come ultima risposta della dialettica dell'apparenza, la nostalgia del-
lo stesso presente privo di apparenza. Già l'estetica kierkegaardiana del contenuto richiama il concetto teologico del simbolo in quanto idea dell'autorappresentazione inapparente della verità; perciò egli eccettua dal verdetto contro
334 l'arte l'illustrazione del Crocifisso a uso dei fanciulli, che non conosce l'apparenza estetica come non conosce una legge formale; e la non appariscenza kierkegaardiana significa non soltanto Fannientamento dell'apparenza nella morte, bensì il suo estinguersi, alla fine, nella verità che, una volta presente corporalmente, farebbe sparire le immagini nelle quali essa invece ha la sua vita storica. A ciò allude un passo memorabile della seconda parte di Aut aut, che difende proprio il « diritto estetico ›› dell'esistenza non appariscente, modesta, ma che tuttavia, nell'apologia, specifica il limite delle immagini con più precisione di quanto non possa riuscire nell'astrazione mitica dell'Io: « Qui lo spazio di tempo non può venir concentrato, perché la pointe di questa storia è il tempo nella sua estensione; e perciò né la poesia né l'arte possono rappresentare il vero coniuge. Dopo quindici anni egli è apparentemente al punto di prima, ma ha vissuto esteticamente. Ha conquistato e affermato ciò che possedeva già; egli ha combattuto non contro mostri e folletti, bensì contro il nemico più pericoloso che esista: contro il tempo. E ora l'eternità non viene a posteriori, come per il cavaliere; egli ha l'eternità già nel tempo, la conserva nel tempo. In verità egli ha vinto il tempo; il cavaliere l'ha soltanto ammazzato, così come si ammazza il tempo, perché esso non ha per noi alcuna realtà; ma que-
335 sta non è una vittoria. Così il coniuge vive in maniera veramente poetica e risolve il grande enigma: egli vive nell'eternità e tuttavia sente battere le ore, e quel battere non abbrevia la sua eternità ma la prolunga: un paradosso meraviglioso... Non v'è bisogno di rimpiangere che ciò non si possa rappresentare artisticamente: è bello invece che non si possa né leggere, né udire, né vedere proprio ciò che vi è di più alto, che si possa soltanto viverlo. L'amore coniugale è dunque più estetico di quello romantico, proprio perché artisticamente non si lascia rappresentare così facilmente come quello ››.'*° Se la beatitudine stessa, intorno alla quale si radunano il desiderio e la cifra di tutte le immagini, non conosce immagini, allora si salva la concezione kierkegaardiana di un « peso della speranza ››“ che le sue immagini, apparenti e feconde, hanno imposto alla beatitudine. Certo l'idea di una simile verità si confonde in Kierkegaard con la pura e semplice iconoclastia dell'astrazione soggettiva, ed egli condanna l'apparenza estetica senza seguire sino alla fine la pista dialettica che rende visibile la trasparenza dell'apparenza in questa stessa. Non dialettiche, le immagini sono per lui beni temporali che sbarrano l'accesso a quello eterno della beatitudine; secondo la dottrina della Postilla non scientifica, la « beatitudine eterna, essendo il bene assoluto, ha la caratteristica di lasciarsi definire unica-
336 mente dal modo con cui viene acquistata, mentre altri beni, proprio perché il modo con cui vengono acquistati è casuale oppure relativamente dialettico, devono venir definiti dal bene stesso ››.” Ma come la beatitudine non si lascia definire dal « modo con cui viene acquistata ››, così i « beni ›› non possono essere definiti da « sé ›› nella loro finitezza di cose, bensì soltanto nella realizzazione della prospettiva nella quale essi, in maniera storico-dialettica appaiono sì al desiderio come finiti, ma tuttavia come irraggiungibili. Kierkegaard invece scambia il vuoto del concetto astrattizzato con la stessa beatitudine priva di apparenza, e perciò la dialettica di immagini in pari tempo finite, irraggiungibili e promettenti in trasparenza, gli diviene il mero inganno mitico, e il loro schema dialettico l'ambiguità della contingenza: « Quando si sentono i filosofi parlare della realtà, ciò è spesso altrettanto sconcertante che se per esempio si leggessero nella vetrina di un rigattiere, su di un'insegna, le parole: ' qui si mangana '. Ma se uno volesse portarvi la sua biancheria per farla manganare prenderebbe un grosso abbaglio: l'insegna è appesa lì solo perché è in vendita ›› .43 Una simile critica si lascia sfuggire, non altrimenti che nell'arte, anche nella filosofia la migliore verità dialettica: quella che si concede nell'apparenza. Effettivamente Kierkegaard non
337 ha mai descritto meglio la figura riconciliante nella quale la sua filosofia ordina natura e storia, di quanto non l'abbia fatto in un passo contro Hegel in cui egli vorrebbe distruggere proprio questa figura, in quanto apparenza, mentre è pur la sua apparenza, conosciuta e trattenuta, a servire alla verità come suo più fedele contrapposto: « Si trascina l'eternità nel tempo come spettacolo per la fantasia. Rappresentata così esercita un effetto affascinante; non si sa se è sogno o verità; l'eternità guarda nel tempo cogli occhi malinconici, pensierosi, sognanti, birichini, come il raggio della luna entra tremolando in un boschetto o in un salone illuminato ››.” Ciò che qui, riprovato da Kierkegaard, concepisce l'apparenza, è la fantasia in quanto organo di ininterrotto trapasso del mitico-storico in redenzione, dove solo la sua dottrina riconosce l'Io e il salto. «In senso speculativo fantastico ed estetico fantastico, si ha nel sistema e nel quinto atto del dramma una conclusione positiva, ma una simile conclusione esiste solo per esseri fantastici. ››45 Ciò nonostante Kierkegaard, come avversario, rivela la più profonda intuizione dell'essenza della fantasia, e cosi infatti anche il metodo dei Diapsalmata si legittima come metodo della fantasia esatta: « Perché, in se stessa, l'immaginazione è più perfetta che la sofferenza della realtà; essa è libera da ogni determinazione di tempo, è al di sopra della realtà
338 della sofferenza, può rendere a meraviglia la perfezione e dispone, per dipingerla, di una gamma ricchissima di magnifici colori; viceversa, essa non può rappresentare la sofferenza se non in un quadro conforme alla sua perfezione o idealizzato, cioè raddolcito, sfumato, ridotto. Perché Fimmaginazione dell'immaginazione, la immagine serbata o espressa da questa facoltà è in un certo senso l'irreale; per quanto riguarda le difficoltà e le sofferenze, le manca la realtà del tempo, della temporalità e della vita terrena... Se, contrariamente alle regole generali della scena, i cenci in cui deve apparire un attore fossero veramente dei cenci, quest'illusione di un'ora è sempre una cosa ben diversa dall'essere nella vita reale e quotidiana un mendicante vestito di stracci. No, la fantasia ha un bel darsi da fare, ma non può mai dar forza di realtà all'immagine che essa presenta ››.” Ma se la fantasia non è in grado di afferrare concretamente l'ultima immagine della disperazione (così come nel racconto di Poe della fossa e del pendolo il più raccapricciante segreto della fossa non viene mai esposto), allora la sua incapacità non è debolezza, bensì forza; la parte di riconciliazione che appare nella fantasia scomparendo, è sufficiente a dissolvere la disperazione nell'insussistente, mentre l'esistenza le si precipita incontro senza tregua. L'irrappresentabilità della disperazione da parte della fan-
339 tasia è la garanzia che questa dà per la speranza. Nella fantasia, la natura oltrepassa se stessa; la natura, dal cui impulso la fantasia proviene; la natura, che in essa si contempla; la natura, che nella minima trasposizione da parte della fantasia si offre come salvata. Trasposizione: perché la fantasia non è contemplazione che lascia intatto l'ente; contemplando, essa interviene inosservata nell'ente stesso in quanto ne attua la disposizione nell'immagine. Il modello di questa attuazione da parte della fantasia Kierkegaard l'ha intuito, al di sotto di ogni « figura ›› estetica autonoma, nell'atteggiamento del fanciullo che ritaglia illustrazioni: « Si vedono per esempio degli spiriti formati, nutriti del sostanzioso alimento della realtà, rimaner freddi di fronte a una pittura d'arte perfetta. Invece un uomo di questa categoria può sentirsi commosso davanti a un panorama di Norimberga, di quelli che stavano alla borsa, ancora non molto tempo fa, che rappresentavano un paesaggio 'in generale '. È questa un'astrazione che l'arte è impotente a rendere. L'impressione di generalità è dunque ottenuta dal contrario, cioè per mezzo di un soggetto concreto ' qualunque '. Tuttavia io domando se un simile quadro non gli dia l'impressione di un paesaggio ' in generale ' e se non gli è rimasto, dai tempi della sua infanzia, un resto di questa categoria, dal tempo dell'infanzia quando si possedevano catego-
340 rie così prodigiose che vengono le vertigini a pensarci, quando si intagliavano in un foglio di carta un uomo e una donna che erano uomo e donna in generale, ancora più strettamente di Adamo ed Eva ››.” Questo « in generale» del panorama di Norimberga somiglia a quello della farsa, ma viene descritto da Kierkegaard con più precisione, perciò maggiormente avvicinato all'interpretazione di quanto non lo fosse nella teoria esposta sulla farsa. Non è il «generale» astratto e grande del concetto, bensì quello piccolo e concreto di un modello (in una varietà di questa specie. rientra anche il comune «cartoncino da costruzioni ›› dei fanciulli), nel quale scompaiono le differenze individuali dell'esistenza per risorgere, salvate ontologicamente, come caratteri prototipi della figura che vi appare. Similmente ai nomi delle cose, il cartoncino da costruzioni lega la contingenza in quanto « soggetto concreto qualunque ›› al concetto più generale, e di più: al prototipo naturale storico, Adamo ed Eva, dei quali l'anamnesi si accerta per l'attimo e per sempre, traendo fuori il loro abbozzo dal caos del foglio illustrato come dalla loro « seconda natura ››.” Attraverso la fantasia il genio, ricordando, ripristina ogni volta la creazione originaria; non come creatore della sua realtà, ma reintegrando in immagine i suoi elementi dati. Gli attimi della fantasia sono i
341 giorni festivi della storia. Come tali, essi appartengono all'epoca libera, liberata, della fanciullezza, e il loro materiale è storico come soltanto quello delle illustrazioni stesse. Come nel fanciullo si riproduce il creato rimpicciolito, così la fantasia lo imita riducendone le dimensioni: « Tale è l'umore sofistico dell'immaginazione; le piace racchiudere il mondo in un guscio di noce più grande dell'universo, ma non troppo grande che l'Io non possa riempirlo ››.” Ma non il suo umore sofistico, bensì semplicemente l'idea secondo la quale la fantasia procede. Solo nel guscio di noce le riesce il trapasso, nel guscio di noce, che pure è « più grande dell'universo ›› del puro ente, perché lo eccede di un minimo impercettibile. Perciò non l'Io totale con la sua produzione totale, bensì soltanto il frammento dell'esistenza dissolventesi, privo di ogni «senso» soggettivo, è il segno della speranza, e le sue linee di frattura sono le vere cifre, storiche e ontologiche insieme. In tono di lamento un diapsalmo ricollega l'immagine dell'uomo discontinuo, frammentario, a quella del testo enigmatico e disparato: «Non v'è alcun senso nella mia vita. Quando considero le sue diverse epoche mi accade come con l'antica parola ' snor ' nel vocabolario, che anzitutto significa ' cordone ' e poi anche ' nuora '. Ci mancherebbe soltanto che avesse come terzo significato ' cammello ' e come quarto ' ma-
342 nico di scopa ' ››.5° Ma più profondamente che non la lagnanza del sistematico rassegnantesi, ci aiuta a entrare nello stato di cose da essa descritto la constatazione che si incontra nella Malattia mortale: « Il terrestre e il temporale come tale è proprio ciò che si dissolve nel qualcosa, nel particolare. È impossibile perdere tutto il terrestre o esserne privato realmente, perché la determinazione della totalità è una determinazione del pensiero ›› ,51 Attraverso il ricordo, la fantasia commuta le tracce del disgregamento del creato peccaminoso in segni della speranza per il creato integro, libero da peccato, la cui immagine essa prepara nell'apparenza dalle rovine: « Un'opera elaborata e rifinita in tutti i particolari non ci mette in rapporto alcuno con la personalità dell'autore; scritti postumi invece, per ciò che hanno in sé di abrupto, di desultorio, destano in noi l'impulso di contribuire a creare poeticamente la personalità. Scritti postumi sono come dei ruderi, e i ruderi sono adeguata dimora ai segregati. Ciò che creiamo noi segregati deve, con un po' di abilità, fare l'effetto di scritti postumi. L'abilità consiste nell'imitare lo stile noncurante, casuale, procedente in pensieri anacoluti, di simili produzioni; l'abilità consiste nel creare un godimento che non diviene mai appartenente al presente, ma contiene sempre un momento del passato, di cui quindi si diviene propriamente consapevoli
343 solo come di un passato: il che infatti è già compreso nella parola ' postumo ' ››.” Se la storia della natura colpevole è quella del disgregamento della sua unità, allora essa, disgregandosi, si dirige verso la riconciliazione, e i suoi frammenti portano gli squarci del disfacimento quali cifre ricche di promesse. Perciò si convalida la concezione kierkegaardiana che mediante il peccato l'uomo venga a trovarsi più in alto di prima; perciò la sua dottrina dell'ambivalenza dell'angoscia, della malattia mortale come rimedio salutare. Con la sua filosofia negativa della storia in quanto espressione di pura « esistenza ›› si offre, senza la sua cooperazione, allo sguardo rimpiangente dell'idealista, nell'inversione, una filosofia positiva-escatologica. L'« abbozzo » di una ontologia che la critica cristallizza dalla filosofia kierkegaardiana, in contraddizione con i suoi intenti dominanti, alla superficie della compagine sistematica, non ha nulla in comune con la totalità della sua sfera « religiosa ››, ma tutt'al più forse con quella «fede» che egli respinge in Timore e tremore: una fede « che intuisce il suo oggetto al più lontano orizzonte ››.” Questa «più lontana possibilità ›› 54 della fede è la legge secondo la quale si misura la profondità del bello. Così accade nell'unico paragone nel quale Kierkegaard stesso testimonia concretamente l'idea della redenzione: il tritone, potenza naturale re-
344 denta nel suo amore per Agnese, vien detto « affascinante come un angelo redentore ››.* Il percorso di ogni figura estetica è diretto verso la verità e scompare nel suo orizzonte. Non per nulla Kierkegaard ha messo in relazione con un movimento di atterraggio il decorso della musica: «quando nella ouverture si scende da quelle alte regioni, ci si chiede in quale luogo dell'opera si atterri meglio, o come si faccia a cominciare l'opera ».56 Ma parlando di un'altra opera ancora, del Flauto magico, egli paragona il momento di passaggio all'arrivo, conformemente alla dialettica del sonno, con « l'istante in cui ci si desta ››.” Se, con le sue parole, « il desiderio da solo non basta per liberare l'uomo ››,” tuttavia al desiderio toccano immanenti le immagini del bello attraverso le quali conduce, scomparendo, la via della salvezza, se mai esso debba accompagnare a un atterraggio e a un risveglio, e se con ciò esso è substrato dialettico di un « problema della redenzione ››,” che la teologia kierkegaardiana del sacrificio vorrebbe da esso emancipare. Il desiderio non termina nelle immagini ma continua a vivere in esse, così come da esse proviene. In virtù dell'immanenza della loro sostanza intima si attua la trascendenza del desiderio. La sua poca appariscenza è destinata ai poco appariscenti, agli umili, e infine esso augura nutrimento a coloro che ne sono privi. Così è le-
345 cito interpretare la coincidenza dell'« estetico » e del «religioso» nella povertà, che insegna la dottrina di Kierkegaard: «Ti meravigli forse ch'io cerchi l'estetico nei poveri e nei sofferenti? Allora fai parte anche tu di coloro che si abbassano a riconoscere ai nobili, ai potenti, ai ricchi, ai colti l'estetico, e ai poveri invece tutt'al più il religioso! Ebbene, a me sembra che anche con questa spartizione essi non ci scapiterebbero; ma del resto, non vedi che i poveri insieme a.l religioso hanno anche l'estetico, e che i ricchi senza il religioso non hanno neppure l'estetico ››.'="° Infatti l'elemento « estetico ›› vive per i poveri non nelle figure dell'arte, ma nelle immagini concrete del loro desiderio, e a loro si schiudono le immagini nell'adempimento senza sacrificio del desiderio. Perciò, in un passo, Kierkegaard collega la felicità alla povertà che sarebbe garante della felicità: «Quale è l'esistenza più felice? È quella di una fanciulla sedicenne quando, pura e innocente, non ha nulla al mondo a sua disposizione, non ha una sua stanzetta né un armadio per sé; e il vestito della comunione e il libro dei canti sacri, tutta la sua ricchezza, sono conservati nel cassettone della madre ›› ,61 In simili proposizioni, la cui semplicità si espone oltre l'abisso dell'ideologia, la povertà e la solitudine stesse attirano nondimeno dialetticamente a sé conforto e redenzione, come in uno dei suoi abbozzi Kierkegaard
346 dice della sua amata: «Nella mia malinconia ho avuto l'unico desiderio di renderla felice; qui ora ciò mi è negato; qui cammino al suo fianco; simile a un gran cerimoniere la conduco nel trionfo e dico: per cortesia fate posto per lei, per ' la nostra carissima, piccola Regine ' ›› .'52 Dinanzi alla modesta speranza di questa immagine cede il passo persino la potente immagine della morte: «Che cos'è la morte? Solo una breve sosta sulla via una volta percorsa ››.” Sublime è la banalità della riconciliazione: « Così sta la cosa nel tempo. Per quanto riguarda l'eternità, io spero che là ci comprenderemo a vicenda e che ella mi perdonerà ››.” Perché il passo dal dolore al conforto non è il più lungo, ma il più breve.
AVVERTENZA DELL'AUTORE
Le citazioni dagli scritti di Kierkegaard sono tratte dall'edizione tedesca delle opere, pubblicata presso Eugen Diederichs, jena (1909-23); di essa si indica di volta in volta nelle note soltanto il numero del volume in cifra romana, seguito dal numero della
pagina.
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I singoli volumi di tale edizione contengono le seguenti opere: 1 Entweder-Oder, Erster Teil (A.'s Papiere). Mit Nachwort von Christoph Schrempf. Ubersetzt von Wolfgang Pfleiderer und Christoph Schrempf (1911). [Aut aut, Parte prima (Carte di A). Introduzione di Chr. Schrempf. Traduzione di W. Pfleiderer e Chr. Schrempf.