Rumore 337 Febbraio 2020  [PDF]

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Zitiervorschau

N° 337 | MENSILE - FEBBRAIO 2020 | PRIMA IMMISSIONE 30/01/2020 | EURO 6,00

ALGIERS GIÖBIA PURR CARIBOU JOHNNY MARR GRIMES GIL SCOTT-HERON NON VOGLIO CHE CLARA FRANTI CABARET VOLTAIRE THE MOTORCYCLE BOY LEE RANALDO VS GREG DULLI: AUTARCHIA E MATURITÀ

RETROPOLIS: SPECIALE SHEFFIELD

OLTRE 300 RECENSIONI TRA DISCHI, LIBRI, FILM SERIE E FUMETTI

TAME IMPAL A I MILLE VOLTI DI KEVIN PARKER

TUTTA LA MUSICA DI CUI HAI BISOGNO POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1, COMM A 1, NO / TORINO - ISSN 1591-4062 - N.2 ANNO 2020

IL NUOVO ALBUM DEL FONDATORE DEGLI AIR

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GEORGIA Seeking Thrills Finalmente il nuovo album della formidabile sensazione inglese Dal vivo in italia: 27 Febbraio Milano Magnolia

YORKSTON / THORNE / KHAN Navarasa: Nine Emotions

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DAN DEACON Mystic Familiar Il Nuovo Album Dal 31 Gennaio

Il terzo album del collettivo di James Yorkston, Jon Thorne e Suhail Yusuf Khan. Dal 24 Gennaio

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EDI TOR I ALE

L’ETÀ DI MEZZO DI ROSSANO LO MELE

La freschezza degli esordi. Quel soffio che alita sugli artisti una volta sola nella vita. E mai più. Oppure la saggezza della fine, i venerati maestri, l’imperiosità di una carriera che volge con flemma verso il capolinea. Magari tutti ti hanno dimenticato fino all’altro ieri, ma poi arriva una serie come gli American Recordings e Johnny Cash torna a regnare. In mezzo però. Cosa capita nel mezzo? Nelle giornate infinite che diventano settimane, poi mesi, infine anni, spazi da colmare in una carriera quando sei risaputo per i più, ignorato e lontano nel tempo per gli altri, ma non ancora vecchio abbastanza per la targa di maestro. Alan Light è stato un grande giornalista per “Rolling Stone”, versione americana. Ha raggiunto anche lui l’età di mezzo, 54 anni. E qualche mese fa ha firmato per il mensile britannico “Mojo” un delicato ritratto di Leonard Cohen. Colto proprio nella sua età di mezzo. Light scrive del Cohen di metà carriera. Non il romanziere degli esordi, non quello dei primi magici album dei tardi anni 60. Al contrario accende l’abat jour sul periodo più oscuro dell’artista canadese. Quello che dalla fine dei ’70 sfocia nei pieni ‘80. Leonard pubblica nel ’79 Recent Songs. Trascorre il suo tempo meditando tra due monasteri zen, Los Angeles e Marsiglia. In quegli anni, con l’esplosione del punk, interrogato sulla materia, Bono Vox degli U2 avrebbe spiegato che “ascoltare Leonard Cohen sembrava un atto da fuorilegge”. Reduce da un disco non così redditizio, Cohen si mette al lavoro a New York al principio degli ’80 con il produttore John Lissauer. Quest’ultimo crede così tanto nel progetto da presentarsi alla CBS dicendo che “questo disco sarà importante, un album di rottura”. A quel punto Cohen ha 50 anni esatti. Reduce dai trionfi blasé del decennio precedente, ma elegantemente fuori moda. Il presidente della CBS, Walter Yernikoff, è fresco del successo di Thriller, uscito due anni prima. Avendo alle spalle le vendite sviluppate dal classico di Michael Jackson, Yernikoff ha più di un dubbio. Prende così in odio il disco, decidendo di non supportarlo negli Stati Uniti. La frase chiave fu: “Leonard, sappiamo tutti che sei un gigante, ma non sappiamo se hai ancora delle idee così buone”. Leonard prende e porta a casa. Nel periodo di maggiore boom economico mondiale per la discografia si trova a reagire così: “Talvolta il music business è ospitale, accoglie innovazione ed eccellenza, talvolta non lo è. Al momento non lo è per me: ora è stretto nella morsa del dollaro”.

Ripetiamo: 1984. Leonard Cohen. Accolto in questo modo. L’album si chiama Various Positions. 35 date live e poi più niente. Leonard torna al lavoro per il successivo I’m Your Man, ma le sessioni di registrazione s’interrompono quattro volte. L’autore si definisce “soffocato dalle parole”. Revisioni continue di testi e nel 1988 il disco esce. Cohen compone con una tastiera Casio portatile, nel disco ci sono capolavori come First We Take Manhattan, ma le sue sensazioni rimangono negative. Interrogato risponde: “Questi sono i giorni finali. Questo è il buio, questa è l’alluvione. Mi ha sempre colpito il modesto interesse suscitato dai miei lavori”. Il Cohen di fine anni 80 afferma di avvertire uno strano feeling: “Tutti i miei fan dei primi dischi sono morti, quando suono noto un pubblico di gente che non era neanche nata quando cominciai”. La musica di mezza età, un Cohen ormai 55 enne. Destinato non a scomparire, ma all’oblio di chi non ha una voce. Salvato tuttavia a quel punto, sorpresa, proprio dai ragazzi cresciuti col post punk. Gente come Morrissey, R.E.M., Pixies, Nick Cave comincia a reinterpretare le sue canzoni, dando loro lustro.

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Tra fine anni 80 e primi ‘90 Leonard assiste dalla finestra di casa ai moti di rivolta di Los Angeles. Nel frattempo crolla il Muro di Berlino e piazza Tiananmen porta la Cina dentro la cronaca di contestazione. Complice il cinema (la colonna sonora di Natural Born Killers), The Future (inclusa nell’album omonimo) diventa una sorta d’inno generazionale al pessimismo. Poco prima la rilettura che John Cale dà della sua Hallelujah (presente nell’album dimenticato Various Positions) riporta il brano a nuova vita. Oggi questa è una delle canzoni più riprese di tutta la storia della musica pop: contra oltre 300 registrazioni, fra cui quella ormai celeberrima di Jeff Buckley. Ricordiamoci sempre di ricordare: prima di diventare un padre fondatore, c’è stato per tutti un periodo indeterminato e stretto tra due parentesi in cui il mondo, invece di girarti le spalle, non ti ha proprio più visto passare. C’è una grandezza resiliente, nella carriera a metà corsa, che solo l’attenzione e la memoria possono nominare. Il 3 e 4 marzo esce in diversi cinema Marianne & Leonard: Parole D’Amore. Il docufilm dedicato al cantautore e alla sua donna/musa, quella di So Long, Marianne. Una storia degli anni 60, che arriva dopo la morte di Leonard. Sarà bellissimo, sicuro, ma mai duro e vero come l’età di mezzo.

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337 CO N T E N U T I

26 COV E R S TO R Y

TA ME I M PAL A 26

Tame Impala

D I M AU R O F E N O G L I O

34

Algiers

D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A

40

Lee Ranaldo / Greg Dulli

D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A

50

Giöbia

D I C L AU D I O S O R G E

90

Retropolis: Speciale Sheffield

DI DIEGO BALL ANI

NUMER O: 337 ANNO: 2 9 F EBBR AI O 2 02 0 DI R ET TOR E R ESPONS ABI LE Marco De Crescenzo DI R ET TOR E EDI TOR I ALE Rossano Lo Mele COOR DI NAMENTO R EDAZI ONAL E Alessandro Besselva Averame R E DA Z I O N E E WE B Nicholas David Altea, Letizia Bognanni

A LGIER S

CONSULENTI ALL A R EDAZI ONE Maurizio Blatto, Giona A. Nazzaro, Claudio Sorge, Giorgio Valletta

P. 3 4

R UBR I CH E Alessandro Baronciani, Carlo Bordone, Luca Doldi, Francesco Farabegoli, Luca Frazzi, Sergio Messina, Marco Pecorari, Andrea Pomini, Barbara Santi COLL ABOR ATOR I Davide Agazzi, Diego Ballani, Antonio Belmonte, Paolo Bogo, Claudia Bonadonna, Daniele Cianfriglia, Arturo Compagnoni, Stefano D'Elia, Stefano Fanti, Mauro Fenoglio, Paolo Ferrari, Daniele Ferriero, Manuel Graziani, Luca Gricinella, Stefano Morelli, Andrea Prevignano, Fernando Rennis, Mario Ruggeri, Gianluca Runza, Fabio Striani, Doriana Tozzi, Andrea Valentini, Simona Ventrella, Francesco Vignani DI R ET TOR E AR TI STI CO Stefano Manzi PR OG ET TO G R AF I CO E I MPAG I NAZI ONE Sericraft Lab snc

LEE R A N A LD O

F OTOG R AF I Stefano “Star Fooker” Brambilla, Francesca Sara Cauli, Luigi De Palma

P. 4 0

MAR KETI NG E PUBBLI CI TÀ Francesco Sassi - [email protected]

RUMOREMAG.COM

rumo remag

r u mo remag az i ne

ru m o re m a ga z i n e

AMMI NI S TR AZI ONE DI F F US I ONE E COR R I S PONDEN Z A HOMEWORK EDIZIONI Corso Einaudi 53, 10129 - Torino [email protected] DISTRIBUTORE ESCLUSIVO PER L’ITALIA MEPE Distribuzione Editoriale Via Ettore Bugatti 15 - 20142 Milano (MI)

CONTEN ITOR I

STAMPA Reggiani Print srl - Brezzo di Bedero (VA)

5 Editoriale

86 Flashback

8 News

87 Retropolis

14 Privé

100 Che fine hai fatto?

18 My Tunes

101 Gente Sola

20 Futura

(Ma Non Troppo)

57 Recensioni

102 Visioni

Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana

58 Disco Del Mese

106 Letture

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2020

74 Treecolore

110 Fumetti

76 Radici

111 Poster-i

78 In Italia

112 Dal Vivo

84 Singolare

114 Banda Larga

Pubblicità a carattere musicale direttamente presso l’editore Autorizzazione del tribunale di Torino n. 21 del 25/07/2013 ISCRIZIONE AL ROC N° 23733

KENDRICK LAMAR JOHNNY MARR BECK MIKE MILLS NEPTUNES

FEBBRAIO 2020

A CU RA DELL A RE DA Z I ONE

@ ru m o re m a ga z i n e

B E A S T I E B O Y S P E A R L J A M N E I L I N N E S B R I G H T E Y E S B R I T TA N Y H O W A R D INDICE: NEWS p. 08 — FACCIAMO I CONTI p.09 — SOCIAL p.10 — IN ARRIVO p.10

KENDRICK LAMAR GOES ROCK?

Incominciano a intensificarsi le voci sul prossimo album di Kendrick Lamar. A proposito del seguito di DAMN, album uscito ormai tre anni fa, le prime indiscrezioni parlano di un album “rock”, qualunque cosa possa significare. A solleticare la curiosità è stato in particolare un tweet del direttore editoriale di “Billboard”, Bill Werde, il quale ha scritto: “Vi interessa sapere che parecchi amici mi dicono che la registrazione del nuovo album potrebbe essere quasi completata? E che questa volta ci sta infilando dei suoni più rock?” RITORNANO I BRIGHT EYES?

Conor Oberst potrebbe stare per rispolverare i suoi Bright Eyes, sigla inattiva da quasi 10 anni (dal tour di The People's Key, uscito nel 2011). Nelle prime settimane di gennaio, infatti, i profili Twitter e Facebook legati alla band sono tornati attivi dopo molto tempo, segnalando la creazione di un nuovo profilo Instagram. L'hastag di accompagnamento era “#BrightEyes2020”, e anche il sito ufficiale della band è stato aggiornato. In tutti questi anni Oberst è stato

8 | RUMOREMAG.COM

I VINILI DEGLI ANNI 10 onsequence Of Sounds” ha rivelato i dati Nielsen sui vinili più venduti del decennio appena passato. La parte del leone la fanno i classici: Abbey Road dei Beatles – anche quarti con Sgt. Pepper's, settimo - ha toccato le 558mila copie, sopravanzando di circa 200mila unità un altro grande classico evergreen della vinilmania di ogni tempo, Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd. Colpisce la latitanza, nella Top 10, di titoli recenti: solo due album sono stati pubblicati

"C

originariamente tra il 2010 e il 2019: l'esordio di Lana Del Rey, Born To Die (decimo) e la compilation Guardians Of The Galaxy Awesome Mix Vol. 1 (terzo). L'unica pubblicazione successiva all'avvento del nuovo millennio è Back To Black di Amy Winehouse (quinto), le altre posizioni sono occupate da Bob Marley, Michael Jackson, Fleetwood Mac e Miles Davis. Nel solo 2019 è sempre Abbey Road a svettare con 426mila copie, seguito dall'esordio di Billie Eilish, When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, con 176mila unità.

FACCIAMO I CONTI

48 10 1 50 5 6 14 2

GRADI DI TEMPERATURA DURANTE L A R E G I S T R A Z I O N E D I U N V I D E O C L I P. U N A DELLE ESPERIENZE PIÙ IMPEGNATIVE DI SEMPRE PER ROB HALFORD DEI JUDAS PRIEST

parecchio attivo, pubblicando un consistente numero di dischi a proprio nome e riportando in vita il progetto punk Desaparecidos. L'ultima uscita del songwriter di Omaha è stata, esattamente un anno fa, Better Oblivion Community Center, album realizzato in tandem con la folksinger Phoebe Bridgers. IL RITORNO DEI NEPTUNES

LIBRI ALL A VOLTA: PROVA A LEGGERLI L I A S S A O U D I D E I FAT W H I T E FA M I LY

MILIONE DI STERLINE: I DANNI CAUSATI IN STUDIO A BERLINO DAI KILLING JOKE DURANTE LA REGISTRAZIONE DI LOVE LIKE BLOOD

ANNI PER BECK: CHE PERÒ SE LI SENTIVA ADDOSSO, PER SUA STESSA AMMISSIONE, GIÀ QUANDO NE AVEVA 22

L E O R E D I D I S C U S S I O N E T R A B R I T TA N Y HOWARD E GLI AL ABAMA SHAKES PER CAPIRE COSA FARE O MENO IN FUTURO

MESI DI L AVORO, TRE STUDI DI REGISTRAZIONE E DUE PRODUTTORI: IL BILANCIO DEL PRIMO DISCO DI LEONARD COHEN

ANNI: LI AVEVA JOAN AS POLICE WOMAN QUANDO VIDE DAL VIVO I BAD BRAINS

I LIBRI DI POESIA PUBBLICATI DA GRIAN CHAT TEN DEI FONTAINES D.C. AI TEMPI DELL'UNIVERSITÀ

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Altra “reunion” all'orizzonte, in questo caso ufficializzata dai diretti interessati: il 2020 è l'anno di un ritorno a tempo pieno della sigla Neptunes. Pharrell Williams e Chad Hugo non hanno mai smesso di collaborare sui rispettivi progetti solisti, ma per la prima volta dopo parecchio tempo il sodalizio ritorna ad avere una presenza visibile. Ne ha parlato lo stesso Hugo in una intervista concessa a “Clash” il mese scorso, dicendo che con il suo sodale sta lavorando, tra le altre cose, alla colonna sonora di un video game su cui mantiene al momento il più stretto riserbo. Come team produttivo i Neptunes avrebbero inoltre lavorato recentemente con un gran numero di nomi: Miley Cyrus, Jay-Z, Blink 182, Lil Nas X, Dua Lipa e KAYTRANADA. E per l'emergente star indie hip hop britannica Rex Orange Country, artista per il quale Hugo avrebbe prodotto una traccia “che poi ho girato a Goldlink e Pusha T per capire se possono giocarci un po'”. TRIBUTO TORINESE A DANIEL JOHNSTON

L'etichetta/collettivo torinese Dotto pubblica questo mese in digitale – con una tiratura ridottissima in formato cassetta, che comprende come bonus un breve racconto dello scrittore Pierpaolo Vettori – From Turin To Austin: A Tribute To The Late Great Daniel Johnston, dieci canzoni dell'autore texano riletti da gruppi e solisti della scena cittadina, tra cui i già

RUMOREMAG.COM | 9

N E W S! F E B B R AIO 2 02 0 noti New Adventures In Lo-fi, Foxhound e Heart Of Snake, side project dei Movie Star Junkies (gli ultimi due nomi riuniti in una cover di True Love Will Find You In The End), e, tra gli altri, Promises Worth Repeating, Smile, Starving Pets e Low Standards, High Fives. La scaletta si chiude con una versione collettiva, presenti tutti i partecipanti, di Devil's Town. MY NAME IS MARR, JOHNNY MARR

RUMORE PER IL SOCIAL SF O G H I, CO N FE S S IO N I E CA Z Z EGGI CAT TUR ATI IN RE TE

TRUMPY GOT A RAW DEAL

M I K E M I L L S @ M _ M I L L S E Y

We are aware that the President* @ realDonaldTrump continues to use our music at his rallies. We are exploring all legal avenues to prevent this, but if that’s not possible please know that we do not condone the use of our music by this fraud and con man. (Sappiamo che il Presidente* @realDonaldTrump continua a utilizzare la nostra musica ai suoi comizi. Stiamo eplorando tutte le vie legali per imperdirlo, ma se non sarà possibile evitarlo sappiate che non tolleriamo l'uso della nostra musica da parte di questo impostore e truffatore)

Johnny Marr è al lavoro con Hans Zimmer sulla colonna sonora del prossimo Bond movie, No Time To Die. Lo score, inizialmente assegnato a Dan Romer, è stato affidato a Zimmer ad appena tre mesi dall'uscita prevista nelle sale. Non è la prima volta che il compositore lavora col chitarrista britannico: Zimmer lo ha coinvolto in precedenza nelle colonne sonore di Inception e The Amazing Spider-Man 2, e in alcune occasioni Marr lo ha accompagnato dal vivo.

ru m o re m a g

ru m o re m a ga z i n e

MUSIC FOR HOTELS

Björk si è recentemente occupata di sonorizzare la lobby di un “hotel boutique” newyorchese, il Sister City. Il pezzo di musica generativa approntato dalla musicista islandese per l'occasione si intitola Kórsafan ed è stato realizzato con l'aiuto della tecnologia AI di Microsoft, che l'ha assistita nel lavoro di selezione e assemblaggio dei frammenti di cori, selezionati a partire dagli archivi sonori che l'artista ha accumulato negli ultimi 17 anni. ALTRI LUTTI

Altri lutti hanno funestato il mondo della musica in queste settimane: Chris Darrow, scomparso all'età di 75 anni, già fondatore dei californiani Kaleidoscope, al cui mix di psichedelia folk ed elementi etnici aveva contribuito in maniera determinante nei

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IN ARRIVO

PEARL JAM GIGATON

MONKEYWRENCH/REPUBLIC

Quasi sette anni separano l'ultimo album in studio dei Pearl Jam, Lighting Bolt, pubblicato nel 2013, da Gigaton. Album che per la copertina fa ricorso al particolare di una fotografia di Paul Nicklen intitolata Icy Waterfall, e la cui preparazione e registrazione il chitarrista Mike McCready ha definito “un lungo viaggio”. Viaggio che, continua McCready nel comunicato sull'uscita, “è stato a tratti emotivamente cupo e confuso, ma anche una eccitante e sperimentale mappa stradale per raggiungere la redenzione attraverso la musica. Collaborare con i miei bandmates a Gigaton […] mi ha donato una maggiore comprensione e consapevolezza di quanto siano necessarie le connessioni tra esseri umani di questi tempi”. Il disco è stato prodotto dalla band insieme a Josh Evans, e l'uscita coinciderà con un tour mondiale che a giugno toccherà Europa e Gran Bretagna. P EAR L JA M .CO M

MO NK E Y W RE NC H RE C O RD S .C O M

FUORI IL 27 MARZO 2020

IT'S A RAYMOND CHANDLER TWEET

R O B Y N HITCHCOCK @ROBYNHITCHCOCK

When I’m off Twitter I miss sharing with likeminded folk our profound sense of doom, our selfdisgust projected onto humanity at large, and our utter helplessness in the face of world events: so here I am again. (Quando sono fuori da Twitter mi manca il condividere con persone che la pensano come me questo nostro condiviso senso di catastrofe imminente, il disgusto per noi stessi proiettato sul resto dell'umanità, e la nostra assoluta impotenza di fronte agli eventi: e quindi eccomi di nuovo qui).

primi due album, Side Trips e A Beacon From Mars (e con loro aveva preso parte alle session del primo album di Leonard Cohen, Songs Of Leonard Cohen, nel 1967), diventando in seguito componente della Nitty Gritty Dirt Band e titolare di una solida carriera in ambito country rock; il belga Joel Vandroogenbroek, fondatore e architetto musicale dei Brainticket, negli anni 70 tra i protagonisti meno allineati e più sperimentali della scena prog europea (e ospite, tra le altre cose, dell'opera prog di Tito Schipa Jr., Orfeo n. 9); Steve Martin Caro, cantante principale dei newyorchesi Left Banke, capostipiti di culto del baroque pop di fine anni 60.

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I BEASTE BOYS E SPIKE JONZE due Beastie Boys superstiti, Mike D e Adam “Ad-Rock” Horovitz, insieme al regista Spike Jonze, hanno annunciato l'uscita di un documentario sulla band, in uscita in anteprima su IMAX il prossimo 3 aprile e poi in tutto il mondo attraverso la piattaforma Apple TV+. Beastie Boys Story, scritto dai tre, è in buona sostanza una costola del Beastie Boys Book pubblicato un paio di anni fa. Mike D e Ad-Rock hanno dichiarato: “ Ci sono amici con cui vai a

I

pranzo molte volte nel corso dell'anno, e Spike è uno di loro. E anche quando non trovi nulla di familiare sul menu, lui se ne esce con qualcosa che mette d'accordo tutti”. Lo stesso Jonze ha dichiarato: “Ho un sacco di debiti nei confronti dei Beastie Boys. Una volta mi tirarono fuori da una barca che stava andando a fuoco, un'altra volta mi diedero una mano a barare al mio esame di ingresso al college. E quindi è un gran privilegio per me reincontrarli e aiutarli a raccontare la loro storia”. Parallelamente, uscirà anche un libro fotografico curato dai tre, Beastie Boys.

L'ESPERIENZA DI RUMORE SI AMPLIFICA OGNI MESE UNA NUOVA PLAYLIST DEDICATA AL NUMERO IN USCITA PER VIVERE IL MAGAZINE IN MANIERA TUTTA NUOVA

ru m o re m a ga z ine

RUMOREMAG.COM | 11

N E W S! F E B B R AIO 2 02 0

NEIL INNES

ERRATA CORRIGE N. 336 Nel sommario per errore è rimasta la rubrica “Identità Di Genere”, sostituita proprio a partire dal numero 336 da “Gente Sola (Ma Non Troppo”. Rubrica “Flashback”, dedicata ai Pale Saints: nella frase “La ristampa con cui 4AD festeggia il trentennale del loro esordio (due CD che alla tracklist originaria a giungono demo e BBC sessions) cercano di dissipare”, a “cercano” va sostituito “cerca”. Nella recensione di TS Bluesone l'etichetta è D Cave anziché I Dischi Del Minollo/ Casetta/Brigante/Delphic/ Teschio Dischi Nello spazio dedicato ai Molchat Doma in “Futura”, a firma Luca Frazzi, la frase “Affascinati dall'architettura brutalista di regime e suonano un techno pop...“ va intesa così: “Affascinati dall'architettura brutalista di regime, suonano un techno pop...“

(19 44-2019)

NEIL PEART

Nella recensione della ristampa di Stanze dei Massimo Volume, è stata pubblicata per errore una foto che non corrisponde alla formazione dell'epoca del disco: nello scatto manca Egle Sommacal. Chiediamo scusa agli interessati. IN USCITA

(19 5 2-202 0)

CocoRosie Put The Shine On (6 marzo) Cornershop England Is A Garden (6 marzo) Mark Kozelek With Ben Boye And Jim White Mark Kozelek With Ben Boye And Jim White 2 (6 marzo) Peter Bjorn And John Endless Dream (13 marzo) Baxter Dury The Night Chancers (20 marzo) Basia Bulat Are You In Love? (27 marzo) The Orb Abolition Of The Royal Familia (27 marzo)

Neil Peart era entrato nei Rush nel 1974, contribuendo in maniera determinante all'evoluzione musicale della band di Toronto: dall'iniziale matrice zeppeliniana al peculiare prog rock in bilico tra potenza e raffinatezza della maturità. L'apporto di Peart, batterista inventivo e originale, andava oltre la musica: suoi erano infatti gran parte dei testi, e concept come quello del classico 2112 (1976). A fine anni 90 tragedie familiari – la morte di figlia e compagna - lo avevano allontanato dalla musica, ma con il nuovo millennio era tornato in piena attività, annunciando infine, nel 2015, il ritiro.

DAVE RILEY

(19 6 0-201 9)

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Neil Innes aveva fondato nei primi anni 60, insieme a Viv Stanshall e ad altri allievi del londinese Goldsmith College, la Bonzo Dog Doo-Dah Band, atipica formazione che intrecciava music hall, jazz anteguerra, pop psichedelico e humour surreale. Dopo l'esordio Gorilla (1967), i Bonzos erano saliti alla ribalta grazie a Magical Mistery Tour (al film TV dei Beatles partecipano con la loro Death Cab For Cutie, che molti anni dopo darà il nome all'omonima band) e alla trasmissione per bambini Do Not Adjust Your Set (insieme ai futuri Monty Python, con i quali Innes collaborerà nei '70 pure come autore). Il musicista incarnava il lato più pop e rock – è sua I'm The Urban Spaceman, unica vera hit del gruppo prodotta da Paul McCartney con lo pseudonimo Apollo C. Vermouth - di quelli che un documentario della BBC, anni dopo, avrebbe definito “i giullari di corte della controcultura”; chiusa l'esperienza Bonzos, Innes scriverà pezzi come How Sweet To Be An Idiot – gli Oasis si vedranno costretti ad accreditarlo come coautore di Whatever: la melodia è identica - e gran parte del repertorio dei Rutles, fictional band che parodiava i Beatles nel mockumentary del 1978 All You Need Is Cash.

Prima di entrare a far parte dei Big Black come bassista, nel 1984, Dave Riley aveva lavorato come tecnico del suono per George Clinton, sia per i Funkadelic che per i Parliament (è nei credits di The Electric Spanking Of War Babies dei primi e di Trombipulation dei secondi) e fatto parte del gruppo punk Savage Beliefs. Con Steve Albini e Santiago Durango, Riley inciderà i due album in studio dei Big Black, i classici Atomizer del 1986 e Songs About Fucking, pubblicato l'anno successivo, epocali ed esplosivi mix di post punk, noise, hc e industrial.

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PRIVÈ / PANZANE

IL PROGRESSO TECNOLOGICO NON HA UCCISO L’AMORE PER L A MUSICA

TESTO DI F RANCES CO FARAB EG O LI

Il progresso tecnologico non ha ucciso l’amore per la musica PANZANE

Il ragionamento è più o meno questo: 30 anni fa la musica era una cosa di reperibilità molto più difficile di adesso, e questo le dava un grosso valore. 40 anni fa dovevi volare a Londra per comprare Pink Flag, un disco che in Italia non si sapeva nemmeno che esistesse - figurarsi trovarlo in un negozio. La nuova classe di ascoltatori ha tutto a portata di scroll e può sentirsi l’ultimo disco degli Wire 30 secondi dopo la sua release ufficiale, e (per estensione) interromperlo 30 secondi prima che finisca la traccia 1. Altro che Pink Flag: neanche le basi del rispetto per il lavoro di un poveraccio. Triste a dirsi, questi ragionamenti hanno un fondo di verità: in quel modo di scambiare la musica c’erano delle cose che abbiamo perso, e che oggi probabilmente aiuterebbero la musica. È sempre così, però: il progresso ha un costo. E un

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guadagno, naturalmente. Ma cosa ci abbiamo guadagnato, in fondo? Mica tanto. Ok, oggi puoi registrare un disco di buon livello con un budget che una volta non bastava nemmeno a mettere insieme un demo. Ok, oggi chiunque può pubblicare una canzone dal suo computer ad Ascoli Piceno e farla ascoltare dieci minuti dopo a Città Del Capo. Ok, oggi puoi mettere in play le 50 nuove uscite della settimana mentre vai da casa al lavoro in metropolitana, suonandole su auricolari ultra HD prodotti da misconosciute aziende tech cinesi il cui stabilimento è la camera da letto di un 19enne. Ok, oggi puoi controllare quali locali organizzano concerti in serata nel raggio di 20 km da casa tua, e se suona qualcuno che non conosci puoi sentirti due pezzi su Bandcamp e decidere se accendere l’auto o guardarti l’ultima stagione di Fleabag. Ok, oggi puoi decidere di dare un briciolo del tuo interesse all’hip hop senegalese e avere una lista ragionata dei tuoi dieci rapper preferiti entro fine settimana. Ok, oggi puoi scrivere su FB a un musicista indie, chiedergli a cosa sta lavorando e ricevere entro un’ora il demo di un pezzo del suo prossimo disco. Ok, oggi puoi decidere di non comprare la prevendita di un gruppo dopo aver visto che fa schifo dal vivo, guardando

su YouTube alcuni concerti ripresi in mezzo al pubblico da telefonini di fascia bassa con audio di qualità tripla rispetto a quelli di una buona telecamera pro di 30 anni fa. Ok, oggi puoi discutere di liscio romagnolo per tre ore al giorno su Facebook scannandoti da pari a pari con alcuni dei massimi esperti viventi del genere, comprare edizioni perdute su Discogs, trattare via e-mail con un’etichetta l’acquisto del suo intero catalogo a prezzo di favore, comprare l’intera discografia di un gruppo dal bassista, concederti di pagare 50 euro una colonna sonora di fine ’60 ristampata recentemente in doppio vinile pesante. Ok, oggi puoi leggere 400 pareri sul nuovo disco dei Deerhunter, di cui almeno 50 assolutamente competenti approfonditi e pienamente argomentati, puoi litigare pubblicamente con l’editor di “NME” per qualcosa che ha scritto, fargli leggere quel che hai pubblicato sul tuo blog, diventarci amico, mandargli il tuo disco e stare in home sul “NME” la settimana dopo. Ok, probabilmente se nel ’95 ti avessero detto che un giorno avresti potuto fare tutte queste cose, e che comunque avresti rimpianto il poco che avevi allora, forse ti saresti cacato addosso dal ridere…

PRIVÈ / BLOG'N'ROLL

WHOSE SIDE ARE YOU ON?

TESTO DI CARLO B O RD ON E

Whose side are you on? BLOG'N'ROLL

Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai. E apparentemente sono sempre più decisive, nonostante vada di moda suonare le campane a morto per la democrazia rappresentativa. Il 2019 si è chiuso con il voto in Gran Bretagna, il 2020 finirà con quello americano per il quale si può cominciare a toccare tutti i ferri possibili fin da adesso. UK e USA sono peraltro anche le sedi centrali di quella multinazionale che è la pop culture contemporanea, nonché di un buon numero di brand che hanno a che fare con la distribuzione e la commercializzazione di quella stessa cultura pop. Degli ottimi punti di osservazione, insomma, per ragionare sul rapporto tra il potere di influenza dei marchi che hanno ascendenza in particolare su un target giovane (da Netflix a – ehm - Kanye West) e la loro volontà e/o capacità di prendere

una posizione politicamente netta e inequivocabile. Al netto dei vari green/pink/rainbow washing con la coda di paglia, ci si può legittimamente chiedere quanto ci sia di inquisitorio in questo o quanto invece si tratti della piattaforma minima per un sano rapporto fiduciario tra un brand e i suoi clienti. Il tema è stato trattato in un recente articolo su “The Quietus”, proprio durante il traumatico post elezioni britanniche. L’assunto di base è che la popolazione giovanile tende in questo momento a essere politicamente più progressista (se ne può discutere, ma prendiamolo per buono) e che, in quanto consumatori per eccellenza di prodotti pop, dalla musica alle serie TV, i giovani debbano pretendere – e in molti lo fanno - dalle pop star, così come dai servizi che veicolano quei prodotti, una dichiarazione di schieramento. Esattamente come è tradizionalmente richiesta – nella cultura anglosassone, almeno – ai grandi giornali. Il punto è esattamente questo: molti brand sono diventati conglomerati editoriali nel momento in cui oltre a distribuire contenuti li producono anche. Così come molti artisti hanno ormai un potere da influencer che va infinitamente al di là di qualunque grande firma del “Washington Post” o del “Times”.

E quindi: diteci come la pensate, come vi ponete sulle grandi questioni, e sì, anche cosa votate. La vaghezza superficialmente ammantata di buoni sentimenti non è più consentita, e viene punita duramente. Nel pezzo di “The Quietus” si fanno due esempi di fail al riguardo. Uno è il tweet di Charli XCX, che invitava i giovani a registrarsi per il voto, perché il cambiamento è importante e la partecipazione pure, aggiungendo tuttavia che “la mia posizione politica non si può esaurire in 140 caratteri”. Ah no? L’altro è quello di Boiler Room, servizio di streaming musicale che ha fatto un video in cui esortava anch’esso a votare con la postilla di una domanda sibillina: “pensate che le grandi imprese debbano pagare più tasse?”, che è un po’ come dire, “per chi votereste? E perché proprio per i Tories?” Seppelliti dalle critiche on line, hanno dovuto scrivere nero su bianco che, anche se non sembrava, loro sostengono il Labour. In effetti, visto come è andata, era meglio se stavano zitti.

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PRIVÈ / ZIGZAG

TESTO DI LU CA F RAZ Z I

MORTE AL NECROLOGIO

Morte al necrologio ZIGZAG

Perde i capelli, si piega a fatica, vive di Awards e rimpatriate: il rock così come l’abbiamo sempre inteso si porta sulle spalle 65 anni di onesto lavoro. È vecchio. E sempre più spesso qualche suo protagonista della prima o seconda ora muore (tò!), dando la stura a paginate di coccodrilli social tutti improntati sullo sconcerto. Frase più gettonata: “Nooooo… non è possibile...”. Possibilissimo, invece: succede che a un certo punto uno muoia, funziona così da tempo. Per un po' ci sono cascato anch’io: crepava un mio eroe e in un nanosecondo resettavo la lezione degli Stranglers postando foto con commento ad effetto. Questo ai tempi dei primi decessi celebri. Poi col tempo solo foto, oggi nemmeno più quella. Mi sono rotto i coglioni da solo. Su “Mojo” da qualche anno la rubrica sui trapassati celebri

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del mese, “Real Gone” (titolo genuinamente cattivo), si è allargata con prepotenza da semplice boxino a due/tre pagine riservate ai cadaveri ancora caldi. Altre testate come “Record Collector” e “Vive Le Rock” per non essere da meno rispondono rispettivamente con “Not Forgotten” e la macabra “R.I.P. Rock In Peace”. “Rumore” con le sue colonnine cimiteriali non si sottrae alla regola, al pari delle altre riviste musicali di casa nostra, nessuna esclusa. Funziona così, è una constatazione: l’età media dei lettori si è alzata, il rock su carta lo leggono gli over “enta” (se non “anta”), i giovanissimi ascoltano altro e leggono poco, bla bla bla. Discorsi coi quali, da anni, ci bombardano i maroni fini analisti con e senza barba (ma soprattutto con) terrorizzati dall'idea di passare per vecchi. Ok, bene, abbiamo capito. Stop. Stop anche ai necrologi, però. Noi che amiamo le chitarre e gli ampli abbiamo già un piede nella fossa ma non è bello che qualcuno ce lo sbatta in faccia così, con tanta crudeltà, come se avessimo già appeso le scarpe al chiodo. Non è bello per noi e non è bello per chi, ventenne, sceglie di guastare feste e pronostici usando quel linguaggio antiquato che a noi fa battere ancora forte il cuore. Morale della favola: nonostante la

lista sempre più lunga di necrologi, nonostante il passato sia da tempo il core business dell’editoria rock, nonostante la tristezza infinita degli “Anniversary Tour” e i 28 denti in totale tra Mick Jones e Paul Simonon, suvvia, diamolo un segnale di speranza ai giovani brufolosi cresciuti col mito di Darby Crash e Johnny Thunders (esistono, e non stanno allo zoo). Cominciamo dai necrologi: facciamoli sparire. Tanto a che servono? Sorprendentemente, il rock per qualcuno è ancora materia viva, non spezziamo il suo sogno. Faremmo un torto anche a noi, che da quel sogno non ci siamo mai svegliati del tutto. Tradotto: meno spazio ai morti. Certo, poi pensi a chi li ha rimpiazzati nel cuore dei sedicenni, giovani minacciosi tempestati di piercing e tatuaggi che sembra debbano rovesciare il mondo per poi sedersi di fianco a Mara Maionchi a pronunciare la frase “per me è un sì”. Be', a quel punto allora mano alle pale: che sarà mai dissotterrare qualche cadavere?

PRIVÈ / GLOBO

TESTO DI AN D REA PO M I N I

NEL CONTINENTE NERO

Nel continente nero GLOBO

In homepage oggi, fra le altre cose: - "Quando il cattivo giornalismo riflette ciò che vuole criticare - Un nuovo film su Kony 2012 è una lezione su come non combattere la semplificazione con ulteriore semplificazione". - "Crazy Rich Nigerians - La rabbia e la frustrazione dei nigeriani sono meritatamente dirette verso il loro governo. Ma pochi puntano il dito verso uno speciale tipo di nigeriani: i nigeriani straricchi". - "Il figlio nero risplende - Il primo album solista di Masauko Chipembere è un risultato straordinario, e un tempestivo promemoria musicale riguardo la natura circolare della consapevolezza pan-africanista". - "Ho occhi solo per Bobi Wine - Il concentrarsi dei media occidentali quasi esclusivamente sul personaggio dell'opposizione

ugandese Bobi Wine è di aiuto per il suo movimento?". - "Distorcendo la sessualità - L'uso del Cristianesimo Evangelico per contrastare politiche progressiste sull'educazione sessuale nelle scuole è un altro esempio della marcia verso destra del Ghana". - "Lagos in tutto il suo lurido splendore - Il filmmaker Akin Omotoso mostra la Lagos che spinge i sani alla follia, i mansueti al teppismo e i rispettosi della legge all'anarchia". - "Detriti della rivoluzione - Il romanzo Small Things di Nthikeng Mohlele replica a Disgrace di J. M. Coetzee, mostrando i difetti della transizione sudafricana dalla prospettiva di un uomo nero". - "I posti vuoti del generale Sisi Calcio e repressione neoliberale vanno a braccetto in Egitto". - "Viaggiare nel tempo - Il collettivo artistico Chimurenga esplora la rilevanza del FESTAC, un epico e quasi dimenticato festival di arti nere svoltosi in Nigeria a metà degli anni 70, per i nostri tempi". Di che si tratta? “Lotta Comunista” versione subsahariana? Non proprio. Fondato dal sudafricano Sean Jacobs nel 2007, nato come blog e come "mezzo per confutare la versione generalmente accettata dei media sull'Africa, da una prospettiva di sinistra, forte delle sue esperienze nei movimenti

di resistenza all'apartheid", allargatosi via via per dimensioni e temi trattati, “Africa Is A Country” (africasacountry.com) è oggi forse il principale luogo di approfondimento online su tutto ciò che riguarda il continente. Con un nome che da solo già spiega buona parte della faccenda. In un senso, la presa in giro di chi ancora vede l'Africa come una cosa sola, senza sostanziali differenze - anche culturali: quanto parliamo ancora noi, tutti, di "musica africana"? - fra popoli e stati, magari sorridendo come di fronte a un nonsense quando legge delle proteste in Sudafrica contro gli immigrati dello Zimbabwe, o della xenofobia verso i nigeriani in Ghana (d'altronde, con il loro celebre "modo di fare"... avrà ragione Ernesto Galli Della Loggia, a questo punto?), perché insomma: in fondo tutti neri sono. Nell'altro senso, la rivendicazione invece di un'unità, di una visione condivisa, di una necessità di fare gruppo di fronte alle ostilità manifeste o nascoste. Il sito è, inutile dirlo, fatto benissimo. Finanziato fra gli altri dalla Jacobin Foundation e dalla Ford Foundation. Diviso in alcune sezioni principali (politica, cultura, musica, calcio) e animato da alcune delle migliori menti e penne africane e della diaspora. Fatevi un giro.

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MY TUNES NO FUTURE FRANTI FEBBRAIO 2020

ll’inizio di ogni cosa e in anticipo sul capire, ci furono tre lezioni. La numero uno mi arrivò in una delle prime occasioni in cui andai allo stadio. Avevo dieci anni e con me, oltre a mio padre, c’era il geometra Pessinato, conoscente di famiglia con due uniche debolezze dichiarate: il formaggio taleggio appena stagionato e il Toro di Gigi Radice. La sua sobrietà assoluta veniva oltremodo esaltata da un ascetismo di taglio valligiano, ma quando un rigore evidente anche a chi era di schiena ci fu negato non si trattenne nemmeno lui. Si girò verso i presenti con le gote di un color (come avrebbe ribadito in altre occasioni) “pavonazzo”, portò le mani a megafono intorno alla bocca per urlare “Arbitro…”, e qui si bloccarono persino i tamburi della Curva Maratona, atterriti dal possibile epiteto, “Arbitro…”, ripeté con pausa da consumato mattatore “FASISTA!!!”. La S, la stessa che sull’onesto lavoro quotidiano da geometra riservava all’apertura di un fasicolo, fu di un piemontesismo deflagrante. Nonostante tutto i tamburi della Maratona ripresero e io imparai che un fasista non è una bella persona. La seconda lezione, in realtà, l’avevo ricevuta qualche mese prima,

A

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DI MAURIZIO BL AT TO

ma la capii dopo. A casa la ricezione della televisione svizzera non era buona e ci costringeva a seguire le partite dell’Hockey Club Ambrì-Piotta del Canton Ticino, di cui eravamo grandi tifosi, con un ronzio intollerabile. Chiamammo degli antennisti, due persone di assoluta competenza segnalatici dal vicino di pianerottolo. La cosa realmente pazzesca è che si chiamavano tutti e due Cosimo. Cosimo 2, posizionato sul tetto, recepiva indicazioni da mia madre, piazzata sul balcone, che a sua volta le otteneva da Cosimo 1, schierato di fronte allo schermo casalingo. “Più a destra Cosimo, più a destra”. Non funzionava nulla e noi ci avevamo messo del nostro, perché buttammo nell’impresa anche lo scandaloso desiderio di recepire Tele Capodistria. “Com’è Cosimo?”. “Niente, prova più a destra”. Cosimo 1 iniziava a sudare e io mi attendevo di vedere Cosimo 2 franare giù dal tetto, come i coppi con la neve. Si trattava di due secondolavoristi totali. Poi come d’incanto lo schermo si attivò. Stavano dando un’informazione. Era il 2 novembre 1975, il giorno dopo avrei compiuto dieci anni, ma la notizia del giorno era che avevano ammazzato Pier Paolo Pasolini. Mia madre disse esattamente quello: “Hanno ammazzato Pier Paolo Pasolini”. Cosimo 2 non capì. “Cosaa?”. Cosimo 1 allora si

spinse sul balcone e urlò, “niente, un ricchione in meno. Tutto a posto, non toccare più niente, si vede bene, scendi che andiamo”. E allora capii che a chi prova sempre più a destra non piacciono i poeti. La terza lezione fu più chiara e mi arrivò dritta e precisa sulla schiena. Frequentavo un corso di tennis al Parco della Tesoriera di Torino e lì, non avendo palestre a disposizione, ci allenavano facendoci correre intorno al giardino centrale. Lungo quel tragitto c’era un covo di gente renitente alla depilazione con una scritta che parlava di Circolo Del Proletariato Giovanile. Avevano donne magrissime e fumavano in continuazione. E, immancabilmente, ogni volta che passavamo di fronte a loro, logorati dalle nostre tute sportive sintetiche, ci tiravano delle pietre addosso. Sempre. Non con cattiveria, ma direi con una sorprendente continuità. Quindi imparai che non conta se sei bello o se sei brutto, ma se sei un piccolo borghese ti tirano le pietre. Forte di queste tre certezze mi presentai agli albori degli anni 80 nel Liceo Alessandro Volta di Torino dove quasi tutti gli studenti conoscevano a memoria, e per giunta in lingua madre, ogni edizione de “Il Notiziario Dei Lavora-

MY TUNES

TESTO DI MAU RIZIO B L AT TO

NO FUTURE FRANTI

tori Caucasici”, il periodico di cui Iosif Stalin divenne direttore nel 1905. Mi sentii vagamente inadatto. I capi politici studenteschi, avvolti in chilometri di kefiah palestinesi e accompagnati da donne che avevano ripudiato i canoni estetici di Audrey Hepburn in favore di quelli di Teresa De Sio, scrutavano me e miei simili sbarcati dal pullman della Linea 72 con un disprezzo riservato unicamente alla famiglia di Gui e Tanassi. Non sarebbe stato facile ambientarsi là dentro. Chi sapeva niente della Quarta Internazionale? O forse eravamo già alla Quinta? Per giunta avevo già maturato una devozione totale per la new wave inglese e temevo che, se scoperta, potesse essere considerata una debolezza pari all’emofilia di Nicola II. Ma tutto questo passava in secondo piano di fronte all’incubo del nucleare. Certo, saremo saltati per aria da lì a poco, non si parlava d’altro. Ne eravamo ossessionati. Un giorno, durante l’autogestione, l’intera scuola di radunò in palestra per vedere il film TV americano The Day After, arrivato chissà come da noi e tradotto al volo da un esponente del collettivo studentesco che aveva il padre di Manchester. La maggior parte dopo dieci minuti di apocalisse totale tentò di limonare al buio e nel corridoio si sentì nitidamente qualcuno che provava gli accordi de Il Gatto E La Volpe di Bennato. Il famoso trailer italiano del film: “Se questo giorno dovesse venire, sarebbe la fine di tutti i giorni”, abbinato a quelle note, mi rese più chiara la prospettiva in modo drammatico. Così una mattina, mentre in corridoio ci domandavamo se fosse sicuro come rifugio antiatomico la bocciofila di Mappano di cui un mio compagno di classe possedeva incomprensibilmente le chiavi, notammo in bacheca un volantino che chiamava tutti a una grande adunata: era un concerto rock e, per giunta, un concerto contro il nucleare. Tra le band spiccava il nome dei Franti, che avevo già sentito di notte sulle frequenze di una radio privata cittadina. Ci vado, pensai con risolutezza. Il cortile di Architettura, al Castello del Valentino, so dov’è. Per far colpo non so bene su chi, mi travestii imitando una foto che avevo visto su

“Rockerilla”, con una cravatta nera dimenticata da mio padre sul fondo del cassetto e una spilla dei Public Image Limited, regalo di un invidiatissimo amico che era andato a Londra con le vacanze studio EF. In pratica passai dal costume di Zorro a quello di imberbe post punk in una mossa sola. Non conoscevo nessuno e rimasi defilato provando un’emozione che in futuro non mi sarebbe toccata mai più: essere il più giovane al concerto. Vidi un manipolo di eroi politici del mio liceo, ma mi guardai bene dal salutarli. L’atmosfera era allegra e pericolosa al tempo stesso e quasi tutti parlavano con verbi all’infinito e sembravano gente che si portava dietro sempre e comunque dei casini. Forse per questo nascosi la cravatta con i P.I.L. sotto la giacca. Poi arrivarono i Franti e dopo poco non riuscii a resistere e andai, per quanto possibile, sotto il palco. Mi sembravano vecchi e nuovissimi al tempo stesso. Venivano da un mondo che si apprestava a scomparire, ma erano perfetti per quello in cui avevamo i piedi. Nessuno trasmetteva tensione e forza in quel modo e la loro determinazione mi appariva disperata. Obbligati a essere così, a mostrarcelo. Fu nettamente la cosa migliore. Amai da subito No Future, il suo nichilismo solcato dal sax mi parve più familiare del resto delle canzoni, più politiche e disperate. I Franti avevano tutti facce da terroristi appena arrestati, un misto di sfrontatezza e bellezza dissipata. Avrebbero fatto preoccupare mia madre ed erano uguali al loro pubblico. Anzi, erano la stessa cosa. Qualche giorno dopo, a scuola, fui interrogato di matematica. Poco prima che mi sistemassi alla lavagna, entrarono dei guerriglieri tupamaros ripetenti che credo vivessero intorno al termosifone del corridoio e bloccarono tutto. Succedeva. Presentavano la loro lista alle elezioni studentesche. Si chiamava Lista Banana, aveva il logo warholiano della banana del primo Velvet Underground e reclamava piscina sul tetto, maniglie d’oro alle porte, Frank Zappa come preside e campo da calcio regolamentare in cortile. Un’improvvisa svolta situazionista. Li ascoltammo impietriti e poi, mentre

mettevo mano ad algebra e gessetti, il loro leader urlò, “ferma prof. Lui non lo può interrogare! L’ho visto ai Franti, è uno dei nostri”. Mi avevano notato, contro ogni pronostico. L’incoronazione di Napoleone Bonaparte a Notre-Dame nel 1804 mi parve un atto del catasto di Orbassano in confronto. Non dovetti più ambientarmi, da lì in poi mi salutavano tutti e in poco tempo bruciai ogni tappa, arrivando persino a scrivere un articolo di undici righe sui Tuxedomoon per il giornale della scuola. Tenni un seminario di new wave, che a ripensarci sembrava un corso di formazione per monaci dei Cure, e duplicai un buon numero di cassette con i dischi dei Franti, che avevo ovviamente comprato. Home taping is killing business, fa tenerezza a pensarci. Mi avevano salvato la vita. Mi avevano introdotto nel branco. Mi avevano regalato, al presente, un passato che non possedevo. Quando i Franti divennero mille altre cose iniziai a seguirli ovunque. Imparai più da loro sulla Storia di questo Paese che da qualsiasi saggio politico. Erano scioperi, illusioni, lotte continue, opposizione, vene aperte della mia città. Mai facili, mai. Divenni amico di alcuni di loro. Una volta mi fregarono la macchina durante un loro concerto, così mi accompagnarono dai carabinieri per fare denuncia, ma mi lasciarono 200 metri prima e dovetti farmela a piedi. Credo che fisicamente non potessero davvero avvicinarsi troppo a un comando o a una caserma. Non mi giudicarono mai. Se ripenso a No Future credo che i nostri sogni fossero diversissimi e che il futuro ci abbia deluso in modo differente. Ma mi hanno insegnato molto. Che bisogna avere rispetto di ciò che si fa. Che ogni tanto è meglio portarsi dietro sempre e comunque dei casini piuttosto che stare zitto. Che il punk e i poeti possono stare insieme, alla faccia di Cosimo. E allora oggi, in questo mondo che mi sembra andare, come la mia vecchia antenna, sempre più a destra, fino ad essere inequivocabilmente fasista, vorrei ringraziarli. Per tutto. Ma principalmente per non avermi mai tirato le pietre addosso.

No Future compare per la prima volta sulla cassetta autoprodotta A/B del 1982 e poi su Luna Nera del 1985. I Franti erano Canterbury e quartieri di Torino, ma anche Dylan e i Sound. Prima ancora che la loro musica, sembravano voler autogestire le loro vite. Ferite e sogni esposti in egual misura. Quasi tutti quelli che li ascoltavano, prima o poi, sentivano l’impulso fortissimo di urlare insieme a loro. Per ciò che desideravano essere non penso esistesse un nome migliore di quello che si erano dati.

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RUMOREMAGAZINE

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FEB B RA I O 2 02 0

DOVE:

QUANDO:

PURR

New York, USA

dal 2017

COSA:

La West Coast sognata dai loft di New York

IL DISCO:

ONLINE:

LIKE NEW

purrband.com

ANTI-, 2020

on proprio buona la prima, se i due amici d'infanzia di New York ci avevano già provato un lustro fa come Jack And Eliza, meteora (a voler essere gentili) locale durata il tempo di un debutto. Casalingo e acerbo, e quasi irriconoscibili sono le firme dietro Like New, titolo fra il didascalico e il buon auspicio del primo passo come Purr: “In realtà non abbiamo abbandonato quella sigla. I Purr per noi sono un progetto parallelo, probabilmente uscirà ancora altro come Jack And Eliza. Cambiare nome è stata una progressione naturale a livello sonoro ed emotivo, abbiamo solo assecondato gli eventi. Il titolo dell'album arriva invece da una canzone che non vi è entrata ma ci sembrava potesse funzionare perché è allo stesso tempo sincero e sottilmente ironico. Ci piaceva la buffa onestà di queste due parole, questo voler apparire come qualcosa che non sei. Se una cosa è come nuova allora qualcosa le è già successo, ha già avuto una vita che può essere raccontata”, premettono loro.

N

Come da raccontare è il microcosmo a prova di attualità dei due, governato dalle leggi dei '70 più radiofonici con qualche risalita fino a The Mamas And

The Papas: “È un paragone che fanno in tanti ma è un gruppo che adoriamo, non ci offende essere accostati a loro. La nostra musica è influenzata in modo naturale da quello che usciva fra la fine dei '60 e il decennio dopo, erano quelli i nostri ascolti d'infanzia: pensiamo ad artisti come John Lennon, Harry Nilsson, Linda Ronstadt, The Band o Brian Wilson. Ma non è che ci sediamo e decidiamo di scrivere un pezzo che suoni esattamente come i dischi nel periodo, è solo il nostro modo di comporre. Tutto parte dalla collaborazione fra di noi, a volte arriviamo con delle idee già pronte e a volte invece partiamo da zero insieme. Solitamente ci troviamo d'accordo anche se qualche battaglia c'è stata, però in genere servono anche quelle per migliorare e raffinare i pezzi. O almeno speriamo!”. Molta dell'innocenza del disco è dovuta anche al tema di fondo, ovvero il ritrovarsi ventenni e costretti a crescere: scelta consapevole o meno? “Abbiamo lavorato sulle canzoni all'inizio di un periodo di transizione e di incertezza nelle nostre vite. Ognuna ha la sua storia ma al momento di scriverle stavamo cercando di lavorare sulla tensione fra la dipendenza e l'indipendenza dalle persone che ami. Il resistere agli inevitabili cambiamenti nelle relazioni e nelle amicizie e a volte accettarli, il venire a patti con le

nostre aspettative, il tutto in un momento molto specifico e strano delle nostre vite”. Non così scontata l'etichetta alle spalle, una Anti- non solita a materiale tanto pop: “Ammiriamo tantissimi loro artisti e apprezziamo la loro filosofia. Li abbiamo incontrati e abbiamo trovato persone molto più interessate alla musica che al buttare fuori la prossima next big thing: non seguono le mode, gli interessa solo la qualità e il mettere gli artisti nelle condizioni di essere tali. Nel panorama odierno è una cosa rarissima. E poi... hanno Tom Waits!” Oltre a un budget tale da permettere loro il miglior produttore su piazza per il genere, quel Jonathan Rado che sta lasciando forse un impatto maggiore dietro al mixer (chiedere a Weyes Blood, per dirne una) che con i Foxygen: “Lo abbiamo incontrato due anni fa, era il nostro secondo concerto come Purr e abbiamo aperto per loro. Ha un modo di catturare una certa energia che è tutto suo, e ci sembrava che quell'energia potesse filtrare alla perfezione nel mondo che stavamo costruendo”.

TESTO DI Francesco Vignani

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DOVE:

QUANDO:

GEORGIA

Londra, UK

dal 2014

COSA:

La club culture che sa farsi pop

IL DISCO:

ONLINE:

SEEKING THRILLS

georgiauk.com

DOMINO, 2020

“L'influenza della house music e della prima techno è stata notevole su molti artisti e band britanniche fin dalla seconda metà degli anni 80, e mi è sembrato interessante provare a immaginare lo stile house originario con un'attitudine più alternativa, distante dal mainstream. Il suono della 909 e un certo utilizzo delle linee di basso sono ormai qualcosa di estremamente familiare per moltissimi, e credo che artisti come gli xx o Robyn siano stati esemplari nel comprendere che si tratta di una via percorribile per esprimersi in modo accessibile e originale”.

Questo lo spirito di Seeking Thrills, un secondo album che è come un nuovo inizio per l'artista britannica recentemente coinvolta anche nel progetto Africa Express, in un brano che la affiancava alle leggendarie Mahotella Queens. Elementi dancehall e hip hop si integrano perfettamente con le trame da dancefloor che ne attraversano l'intero svolgimento: “Il suono da club non è solo una scena musicale, ma rappresenta un movimento culturale. La musica dance ha sempre trasmesso un messaggio di libertà e diversità: ricordo

un'intervista a Marshall Jefferson che raccontava la scena house di Chicago agli albori, prima di allora non aveva mai visto bianchi, neri, ispanici, gay, etero ballare insieme”. Nel futuro di Georgia ci sono altre collaborazioni prestigiose, ad esempio con Wayne Coyne (“è un mentore per me, davvero una persona incredibile”) e The Black Madonna (“sto lavorando alla produzione del suo album. Marea è per me di grande ispirazione, per ciò che comunica al suo pubblico e per la sua profonda conoscenza musicale”).

TESTO DI Giorgio Valletta

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DOVE:

Vancouver, Canada

MILITARY GENIUS

QUANDO:

dal 2016

COSA:

Lo-fi, industrial, jazz, soul

IL DISCO:

ONLINE:

DEEP WEB

militarygeniusbandcamp.com

UNHEARD OF HOPE/TIN ANGEL, 2020

Componente dei Crack Cloud (“Il collettivo multimediale di Vancouver mescola Gang Of Four, Fela Kuti e l'hip hop ed è un meccanismo di sopravvivenza per componenti e fan”, dice di loro il “Guardian”), Bryce Cloghesy battezza l'alias Military Genius con Deep Web, uno degli esordi potenzialmente più interessanti di questo 2020. Progetto musicale che ha radici in una trasmissione radiofonica, What Passes For Truth, ideata da Cloghesy nell'ultimo quinquennio e trasmessa da due stazioni radio underground canadesi, N10.AS e NFR. “Il nome”, ci dice Cloughesy, “è

aperto a diverse interpretazioni. È una dichiarazione sarcastica ed esistenziale a tema 'chi siamo'. Ci siamo interrogati a lungo sulla natura dell'umanità e sulla moralità delle guerre che hanno definito la nostra civiltà (vedi la Bhagavad Gita o Cuore Di Tenebra). E tutti quanti viviamo i nostri personali conflitti”. Deep Web mescola jazz, industrial, soul, lo-fi e atmosfere da trasmissione radio pirata, ricordando molte cose e nessuna in particolare: “Ci immaginiamo molti più confini di quelli che esistono in realtà. Avendo fatto il produttore per

altri, costruire qualcosa di più personale era diventato una necessità. Imparare a suonare il sax ha permesso al progetto di evolversi”. E il titolo? “Mi piace pensare a questi tempi, tutti tossicità chimica e burocrazia insensata, come a una sorta di ragnatela in cui ci siamo avvolti noi stessi, intrappolandoci. Siamo parte di processi che non riusciamo a controllare. Un bellissimo caos in cui ciascuno ha i suoi anfratti bui. Alcuni dei miei li ho messi sul disco”.

TESTO DI Alessandro Besselva Averame

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HANDSHAKE

HMLTD

DOVE:

QUANDO:

DOVE:

QUANDO:

Firenze, Italia

dal 2015

Londra, UK

dal 2016

ONLINE:

facebook.com/band.handshakers

hmltd.org

COSA:

COSA:

Quando il rock spaziale tricolore fa proseliti oltremanica

Glam, industrial e provocazioni art pop

IL DISCO:

IL DISCO:

AN ICE CREAM MAN ON THE MOON

WEST OF EDEN

URTOVOX, 2020

Esordiscono con un album fresco di stampa dal titolo curioso. “Un gelataio sulla luna non può che sentirsi fuori posto, oltre che invisibile perché vestito del colore del suolo che calpesta”, spiega il giovane trio fiorentino. “Il disco parla di queste due sensazioni, applicate alla vita. Il mondo, apatico, è in balia delle sue leggere abitudini e le persone sembrano perlopiù non essere interessate al prossimo”. Sono Giulio alla voce e chitarra, Tom alla batteria e all’elettronica, e Lorenzo agli altri tamburi, synth e cori. Niente bassista. “Tutti suoniamo un po’ tutto. Poi abbiamo con noi l’amico e produttore Samuele Cangi, che è polistrumentista. Stiamo bene così, noi tre amici. E ad accompagnarci in tour ci sarà l’ottimo Olmo Giani al basso”. Un disco frutto del loro bagaglio musicale, partiti “come duo space/garage/psych/rock” ma innamorati della ricerca. “Ispiratori sono stati St. Vincent, Tame Impala, Pond, Arctic Monkeys, e i pilastri che hanno plasmato i nostri gusti dall’infanzia: Pink Floyd, Beatles e Radiohead”. Musiche e testi in inglese, che li hanno fatti approdare a Londra. “I contatti con l’Inghilterra si intensificano e dovremmo tornare a suonarci a giugno. Intanto c’è il tour italiano”.

TESTO DI Barbara Santi

24 | RUMOREMAG.COM

ONLINE:

LUCKY NUMBER, 2020

Falsa partenza. Anche da parte nostra, visto che parlammo di loro già due anni fa in un servizio sul glam. Un sacco di cose sono successe da allora, a cominciare da un improbabile contratto con la Sony. "All'inizio si fidavano di noi”, ricorda il cantante Henry Spychalski. “Poi hanno iniziato a dirci che sapevano come avremmo potuto diventare la band più grande del mondo. Ci portarono sei parka e ci dissero che avremmo dovuto avere più appeal sul nord dell’Inghilterra”. Sono seguiti mesi difficili, tensioni interne e rischi di scioglimento. Alla fine ne sono usciti con un componente in meno e un nuovo contratto con l’indipendente Lucky Number. “Nel recente singolo Loaded abbiamo ammesso di aver venduto l’anima al diavolo. Ora vogliamo diventare la voce degli outsider”. Sono queste le premesse del primo album West Of Eden, un titolo che suona come un richiamo al presente distopico, ma che a livello più personale va alla ricerca di una nuova idea di mascolinità. "Il che non significa debba necessariamente ricadere in ambito queer, ma deve essere diversa dalla versione tossica e patriarcale da cui siamo circondati. Abbiamo bisogno di costruirne una nuova, più gentile, più creativa, meno violenta".

TESTO DI Diego Ballani

JOHN MYRTLE

SUBMEET

DOVE:

QUANDO:

DOVE:

QUANDO:

Londra, UK

dal 2017

Mantova, Italia

dal 2017

ONLINE:

johnmyrtle.bandcamp.com

ONLINE:

facebook.com/submeet.band

COSA:

COSA:

Folk pop pastorale e dell’obliqua ispirazione psych

Sferragliante post punk metropolitano

IL DISCO:

IL DISCO:

HERE’S JOHN MYRTLE

TERMINAL

SAD CLUB/BINGO, 2019

Quella del giovane londinese John Myrtle è bedroom music, ma di un genere assai diverso dal fai da te digitale a cui siamo stati abituati negli ultimi anni: “Sono riuscito ad acquisire alcune vecchie apparecchiature, a malapena funzionanti, e ho iniziato a registrare le mie canzoni”, spiega. “L'attrezzatura mi è stata di grande aiuto per il suono particolare che stavo cercando, anche se a un certo punto è andata a fuoco”. Il che potrebbe rappresentare l'ideale introduzione a una musica dal fascino antico e dall'ispirazione obliqua. Un folk pop intimo e pastorale che fra storie di lumache antropomorfe e un romanticismo austero ed elegante ha fin qui coperto un immaginario sospeso fra fantasie bucoliche barrettiane e il cantautorato colto di Simon & Garfunkel. Entrato a far parte del circuito DIY londinese dal 2018, ha subito attirato le attenzioni della storica tape label Sad Club, la quale (insieme alla Bingo che ne ha curato la versione su vinile) ha da poco pubblicato il suo primo EP. Here's John Myrtle è un biglietto da visita di tutto rispetto, per un giovane cantautore ancora sospeso tra tentazioni jazzy e ipnotiche visioni psichedeliche, ma già dotato di una cura tutta speciale per le melodie e per le originali costruzioni pop.

TESTO DI Diego Ballani

LADY SOMETIMES, 2020

Da una parte il rumore snervante della nostra quotidianità, dall’altra quello tonificante della musica. È un po’ come se in appena due anni i Submeet avessero assimilato la formula per imparentare il “veleno” con le “vitamine”, grazie a quel loro post punk notturno e sferragliante, sempre meno legato allo shoegaze degli esordi e sempre più affezionato a certo rumorismo post industriale, tanto da ispirarsi per il debut album a uno dei luoghi più frastornanti in assoluto, il terminal di un aeroporto): “I brani parlano del rifiuto della condizione alienante imposta da una società frenetica e senza via d’uscita in cui non ci riconosciamo ma di cui parliamo lo stesso linguaggio fatto di rumori metallici, distorti e assordanti. Terminal come morte, in generale: dell’uomo, della coscienza, dell’intelletto, dell’autenticità e libertà di pensiero”. Quella babele di voci, grida e boati aerei assurge, dunque, a placenta di un’elettricità spasmodica e avvinghiata alla contemporaneità che, pur nel suo slancio di candida devozione a Preoccupations, A Place To Bury Strangers e Protomartyr, potrebbe indirizzare il trio mantovano verso gratificanti traguardi, prodighi di decibel corvini e scarnificanti.

TESTO DI Antonio Belmonte

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TAME IMPALA

LA PERFEZIONE DELLA SOLITUDINE UN GIRO NEL MONDO DI KEVIN PARKER T E S T O D I M AU R O F E N O G L I O FOTO DI NEIL KRUG

L

a solitudine è diventata oramai la condizione tipica e nefasta dell’uomo moderno. Cercata o subita, pare essere il destino a cui l’essere umano prima o poi approda. Tante sono state le letture sociologiche di un fenomeno diventato ormai di massa e, in qualche modo, transgenerazionale. In un mondo dove le vie d’accesso alle vite degli altri si moltiplicano, al ritmo di nuove continue opportunità di socializzazione digitale, contatti all’infinitesima distanza di un clic sulla tastiera e infinite possibilità di condivisione, l’individuo finisce per sentirsi sempre più solo con sé stesso. Che sia un adolescente in camera sua, il quale dà segni di vita solo attraverso il video illuminato

TAG: #solitudine #noburnout #autoimmersivo #vuoto #incendi

del suo cellulare sotto le lenzuola del letto da cui esce di rado, o l’adulto costretto a rifugiarsi nelle sue rinunce da una socialità competitiva che lo esclude. Il compianto Mark Fisher ha analizzato molto bene, nel suo Realismo Capitalista (2009), quanto la solitudine sfoci in incurabile senso d’inadeguatezza e possa far esplodere successivamente la malattia mentale. Diventando patologia sociale piuttosto che clinica, in una società tardocapitalista sempre più ottenebrata da impulsi di competizione spietata. La solitudine come morbo moderno, a volte autoimposto, a volte subito. Eppure, potrebbe esistere un’alternativa, per lo meno per alcuni eletti. Certamente per Kevin Parker. Nel mondo delle mille camerette a tenuta stagna isolate dal mondo cattivo, degli hikikomori che vivono in pigiama senza uscire mai di casa, dell’incapacità congenita di rapportarsi agli altri, degli invisibili per scelta o imposizione, l’uomo dietro la sigla Tame Impala trasforma le costrizioni della solitudine in vessillo. Motore creativo, cifra stilistica, strumento necessario al pari di una qualsiasi delle sue chitarre o macchine, vanto inconscio e (in qualche modo) droga. Potremmo provare a chiamarlo “edonismo della solitudine”, per buttare lì una definizione gustosa, e inquadrare l’intero percorso di Parker (e della sua creatura) dal

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TA M E I M PA L A

N E L M O N D O D E L L E M I L L E C A M E R E TT E A T E N U TA S TA G N A I S O L AT E D A L M O N D O C AT T I V O, D E G L I H I K I KO M ORI CHE VIVONO IN PIGIAMA SENZA U S C I R E M A I D I C A S A , D E L L’I N C A PA C ITÀ C O N G E N I TA D I R A P P O R TA R S I A G L I A LT R I, D E G L I I N V I S I B I L I P E R S C E LTA O I M P O S I Z I O N E , L’U O M O D I E T R O L A S I G L A TA M E I M PA L A T R A S F O R M A L E COSTRIZIONI DELLA SOLITUDINE IN V E S S I L LO. M OTO R E C R E AT I V O, C I F R A STILISTICA, STRUMENTO NECESSARIO AL PARI DI UNA QUALSIASI DELLE S U E C H I TA R R E O M A C C H I N E , VA N TO INCONSCIO E (IN QUALCHE MODO) DROGA

primo EP fino al nuovo album in uscita. L’elogio delle gioie e delle sofferenze dello stare da soli, comun denominatore dell’approccio progettuale e delle tematiche preferite dal songwriter di Perth (Australia). Ed è lui stesso a dettare i confini della sua narrativa in una delle sue prime interviste (per “The Vine” nel 2010) a valle dell’esordio Innerspeaker. “Tame Impala è solo un frammento della massa gigantesca di suoni che facciamo con il nostro giro di amici. Non mi sento male a registrare tutto da solo, perché non mi aspetto di avere lo stesso genere di ruolo nelle loro band. Per noi Tame Impala è il progetto di Kevin Parker e tutti ne hanno uno loro. Sarà sempre una iniziativa solista con due metà: quella in studio, che è molto calcolata e gestita, e l’altra dal vivo, dove suoniamo davanti al pubblico quanto abbiamo registrato”. Tutto chiaro sin dall’inizio. Come nell’inequivocabile strofa di Solitude Is Bliss, dallo stesso album: “c’è una festa nella mia testa e nessuno è invitato”. Quasi una premonizione della direzione che Parker avrebbe scelto per il suo progetto, seguendo esclusivamente il proprio cervello, fregandosene del resto. Da solo. Lo sa già allora, mentre eserciti di revivalisti incuranti di tanto dettaglio e progettualità si spellano le mani per l’improvviso ritorno della neopsichedelia sulla soglia degli anni 10, e per la nascita una nuova scena di psycho rocker australiani, votati tanto ai Cream quanto ai Led Zeppelin. Tutti resuscitati al primo ascolto (superficiale) di Innerspeaker.

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Lui ha già in mente (in realtà lo sta già scrivendo, mentre viene pubblicato l’esordio) il seguito. Dal titolo, appunto, programmatico. Lonerism (2012) è lo stadio nel quale si tiene un concerto rock, dove una moltitudine di solitudini incapaci di comunicare altrimenti trova inno e comunione impensabili. A suo modo, il manifesto di un decennio che canta l’individualismo come stato di grazia, nella gioia e nel dolore, ancora con gli occhi piantati sulle corde della chitarra ma con il cuore anelante un suono nuovo che non ha trovato (per ora) nome. Solitudine gioia e dolore, dicevamo, perché tutto ha comunque inizio e ragione. I genitori di Parker (il padre, un contabile dello Zimbabwe, e, la madre sudafricana) divorziano quando Parker ha tre anni. Lui va a vivere col padre e la matrigna all’età di 12. È il padre ad iniziarlo alla musica, quasi come antidoto. “Ho imparato a suonare la chitarra ritmica con gli Shadows (il gruppo preferito da mio padre). Lui suonava i riff principali e io facevo da sottofondo. Mio padre faceva cover di Beach Boys, Beatles e Supertramp. Da lì arriva il mio amore per la melodia”. Acquistata la prima chitarra, come dichiara a “Rollo&Grady” nel 2012, il passo è breve: “Mettevo di fronte due registratori. Prima registravo la ritmica e poi prendevo la cassetta, la infilavo nel secondo registratore e ci suonavo le tastiere sopra. E poi aggiungevo altri strumenti. Fino a quando mio padre mi comprò il mio primo otto piste”. La scorsa estate “Huck Magazine” ha intervistato Parker. Nel maggio precedente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l’esaurimento nervoso da lavoro (il cosiddetto burnout) come patologia. Parker è un interessante caso di sopravvivenza all’assedio dello stress cui l’individuo medio è esposto nel mondo moderno. Riscaldamento globale, economie fragili, dipendenza tecnologica. Cosi risponde alle ragioni del suo inarrivabile secondo album: “Quando avevo 15 anni un mattino mi stavo lavando i denti e sono scoppiato a piangere davanti allo specchio. Mi sentivo abbandonato. Io e mio fratello eravamo stati messi all’angolo. Mi sembrava di non avere nessuno. Quando hai 15 anni sono cose che capitano. Stare con la mia famiglia era una merda allora e l’unica cosa a cui potevo pensare, per scappare, era diventare una rockstar. La gente mi avrebbe rispettato ed amato. Cosi ho preso la chitarra e ho cominciato scrivere canzoni. A centinaia, venivano fuori naturalmente. Ne rimasi folgorato. Quando firmai il mio primo contratto, condividevo casa con un sacco di musicisti. Mi sentivo bene e condividevo una passione comune. Non avevo più bisogno di essere famoso. La musica sembrava più pura, perché non guardava ad ambizioni grandiose. Ho iniziato ad usare lo psych rock come veicolo per cantare la mia insicurezza. La musica psichedelica è introspettiva ed esplorativa per natura, ma non in quel modo. Cosi quando ho iniziato a cantare di come

sono diventato il solitario che sono oggi, e di come mi sentissi alienato dagli altri, mi sono sentito bene”. Insomma, Lonerism racchiude tutto il senso di rivincita del solitario per vocazione, senza pretendere onori o medaglie. Diventando punto d’approdo ineludibile. E sono solo grida al miracolo. La critica ha sempre adorato gli artisti che suggeriscono ambizione infinita, riuscendo a restare in magico equilibrio tra il legno e il sudore della tradizione rock e la comunicatività morbida e multicolore del pop. Quasi come se questi eroi fossero personaggi della saga di Guerre Stellari, chiamati a riportare equilibrio nella Forza. Parker, nel 2012, con quel modo di cantare che stuzzica il ricordo di John Lennon, e quel muro di chitarre e sintetizzatori amplificato da una vecchia volpe che la sa lunga come Dave Fridmann (Flaming Lips, Mercury Rev) in fase di missaggio, è già sul trampolino di lancio. Lonerism arriva dove si era spinto The Soft Bulletin dei Flaming Lips nel 1999, superando le speranze spese (e parzialmente ripagate) per l’esordio degli MGMT nel 2007. La psichedelia trova modo di uscire dalla sua nicchia per scoprirsi totale, senza rinunciare ai suoi principi

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KEVIN PARKER

di base. Certo, è l’illusione di un attimo, che non coglie il furore innovativo di Paker, il quale già alimenta sottotraccia Lonerism. Perché tre anni dopo è Currents a trovare la forma a quegli spunti già presenti nel disco precedente, dietro al mare

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psichedelico e le interpretazioni neotradizionaliste. I muscoli pompati di Elephant si sono già sciolti. Parker si occupa, in perfetta solitudine, di tutto, dagli strumenti al missaggio, in perfetto isolamento nel suo studio casalingo a Fremantle, in Australia. Il tema è la trasformazione personale (c’è chi dice che sia il risultato di una rottura sentimentale). Le chitarre retrocedono vistosamente fino a sparire, lasciando la scena a ritmi e sintetizzatori. La registrazione è febbrile e autoimmersiva. L’edonismo della solitudine raggiunge nuove vette, che richiedono anche aiuto chimico. Sempre su “Huck Magazine”, Parker ammette il valore di alcol e marijuana come coadiuvanti creativi: “Credo sia più un modo di scappare. L’alcol mi aiuta a dimenticare la pressione (che sento ogni volta che devo fare un disco nuovo). Il fumo mi aiuta a non elaborare eccessivamente. Non voglio sembrare uno che semplicemente vuole supportare la bellezza del fumo, ma c’è potenza nella musica quando sei fatto. Non so cosa sia. Ci saranno innumerevoli studi sulla cosa, ma è insindacabile. Non voglio influenzare i ragazzi in modo sbagliato. Non ho bisogno di fumo e alcol per scrivere musica. Let It Happen e Feels Like We Only Go Backwards le ho scritte da sobrio. Non è quindi una porta che apre una diversa percezione, ma è più un modo di rimuovere dal cervello tutta quella trafila di cose

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che lo portano ad operare razionalmente”. E ancora: “Mio padre mi beccò a fumare quando avevo 13 anni. E mi vietò di vedere tutti i miei amici. Telefonò ai loro genitori, dicendo che avevamo tutti fumato. Per la mia vita sociale, allora, fu catastrofico. Non mi permisero più di vederli, di frequentare le loro case e quindi dovetti farmi degli amici nuovi. Fu allora che persi un po’ della mia innocenza da adolescente per entrare in una fase più riflessiva e autoflagellante”. Currents completa la trasformazione di Parker in un nerd da studio di registrazione. I fan e i critici iniziano a interessarsi compulsivamente ai dettagli delle varie attrezzature in dotazione, di questa o di quella macchina, con la devozione quasi pedante nei confronti di nomi come Radiohead o (più indietro nel tempo) Pink Floyd. Ma, in parallelo, il mondo del pop mainstream si apre all’autore di The Less I Know The Better, e iniziano a fioccare collaborazioni di ogni genere, da Kanye West a Lady Gaga a Mark Ronson. Le regole della neopsichedelia sono state consapevolmente tradite: Parker gioca in una nuova Super Lega, con i pesi massimi. Ma sarebbe (molto) riduttivo incapsulare Currents in una pura concessione alle esigenze del mercato. Le sue strutture cristalline e morbidamente pulsanti di ritmi arrivano dove i conterranei Cut Copy avevano cercato di arrivare nel 2008 con In Ghost Colours

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e dove i francesi Phoenix hanno suggerito fosse possibile arrivare con Wolfgang Amadeus Phoenix. Psichedelia, sempre, che però abbandona la strada maestra delle chitarre, cambiando pelle per ritrovarsi nuova, fra le mille possibilità dei ritmi elettronici, del chill out e della reiterazione, concedendosi alle nuove generazioni. Parker diventa, quasi inconsciamente per sé e per chi lo ascolta, ecumenico e trasversale. Difficile pensare a cosa possa venire dopo. Per uno che ha fatto della solitudine un progetto creativo le secche dell’ispirazione possono essere letali. Ancora su “Huck Magazine”: “Per scrivere musica mi devo sentire inutile, non necessariamente per profonda depressione, ma semplicemente vuoto. Se le cose vanno troppo bene, non ho la stessa scintilla. È come quando ti senti arrivato al fondo e non hai nulla da perdere. L’unica via è in salita. Quando sei in cima, cerchi di trattenere il tutto. Diventa soffocante. Come se bastasse un passo falso per perdere tutto. Essere creativi significa non aver paura e fregarsene delle conseguenze. Aver solo la voglia di esprimersi”. Parker inizialmente pensa a pubblicare il nuovo album nel 2019. Dal 2016, dopo Currents, è salito 140 volte su un palco, e ha collaborato con mezzo mondo. Non proprio il modo migliore di sentirsi inutili per ripartire. La casa discografica ha fatto il grosso errore di non mettergli vincoli di tempo e le cose vanno troppo bene perché la scintilla s’accenda. A novembre del 2018 la casa che Parker ha affittato a Malibu va a fuoco (insieme ad altre centinaia durante il terribile inverno dei fuochi in California). Lui riesce a scappare all’ultimo momento, rifugiandosi in una spiaggia vicina, ma 40mila dollari di attrezzature finiscono in cenere. Come racconta a “Monster Children”, nel luglio del 2019: “Non sapevo quando dovessi evacuare. Mi sono collegato al computer, mentre vedevo tutto quel fumo, e mi sono detto che era ora. Credo stessi dormendo quando i pompieri sono venuti a bussarmi alla porta, perché ero rimasto alzato tutta la notte a registrare. In sostanza, non sapevo se avessi sei minuti o sei ore per evacuare. Alla fine sono uscito di casa con il laptop e il mio basso Hofner, due ore prima che bruciasse tutto”. Pubblica un primo pezzo (Patience) a inizio anno, il titolo quasi una premonizione, che lo lascia parzialmente insoddisfatto, e inizia programmare le date estive del nuovo tour americano. A febbraio si sposa con la compagna di sempre, Sophie Lawrence. The Slow Rush inizia davvero a germogliare poco dopo. Prima il vellutato funk di Borderline, e poi il bilancio postumo col padre (morto di cancro prima della pubblicazione di Innerspeaker) di Posthumous Forgiveness, una confessione agrodolce sulla difficile relazione col genitore (“Potevi immagazzinare oceani nei buchi fra le spiegazioni che mi davi / E quando avevi ancora tempo, quando avevi ancora una possibilità, hai

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KEVIN PARKER

deciso di portarti tutte le tue scuse nella tomba”). La solitudine prevede il fronteggiare il dolore, senza eluderlo ma anche senza fare sconti a nessuno. Il nuovo album ha come tema centrale lo scorrere del tempo e le sue conseguenze. Parker dichiara a “Rolling Stone”: “Cento Anni Di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez è stata un’enorme influenza per il nuovo album. Mi ha lasciato la sensazione che la Storia sia condannata a ripetersi”. Pur chiuso in solitaria nel suo studio, alieno a qualsiasi ingerenza esterna, Parker sembra progettare una resa dei conti con il tempo che gli scorre davanti. “Non c’è niente di male / Sono solo stanco / Di tutte quelle voci che sostengono / Che nulla duri per sempre”, recita grave It Might Be Time. La lievità di Currents è andata, la gloria di Lonerism un’eco lontana. Forse a 33 anni il peso della solitudine inizia a farsi sentire, proprio quando Parker ha iniziato a progettare un’idea di famiglia. Ancora su “Huck Magazine”, a proposito del rapporto con sua moglie durante le sue estenuanti sessioni creative: “Credo che mia moglie si preoccupi quando devo andare all’estremo nei periodi in cui scrivo e registro. Ma alla fine è quello che faccio. E cerco di mantenere la testa fuori dall’acqua, emotivamente e fisicamente. Questo rappresenta la musica per me. Mi mantiene in forma. Se non avessi brandelli di canzoni che mi rendono orgoglioso, alla fine di tutto, potrei essere preoccupato. Come tutti, ho i miei alti e bassi nella vita sentimentale. Ma fortunatamente sono un caso interessante, avendo la musica come valvola di sfogo. La musica è sempre stato il mio stabilizzatore. Quello che succede nella mia vita privata sparisce. La musica è il mio strumento d’espressione, per il dolore, per l’emozione. Qualsiasi cosa accada nella mia vita, a quel punto, non mi pesa più”. Solitude Is Bliss continua a riecheggiare, mantra dell’edonismo della solitudine: “C’è una festa nella mia testa e nessuno è invitato”.

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“ERAVAMO SOLO DIECI AMICI” “Non credo che ci sia una scena psichedelica australiana. Eravamo un gruppo di amici di Perth, fra i quali tutti i membri dei Pond. Abbiamo anche abitato insieme per un po’. Una cerchia di 10, 15 amici che facevano tutto insieme, nient’altro”. Questa la sintesi che Kevin Parker fornisce al “Guardian” nel 2015 per descrivere questa fantomatica scena psichedelica australiana, di cui tutti parlano dopo il successo di Innerspeaker. Un gruppo di amici che sicuramente ha aiutato Parker a dare sostanza alle sue idee, confrontandosi (in qualche modo) col mondo esterno. Da quando il nostro forma la sua prima band nel 2005, insieme a Dominic Simper: quei Dee Dee Dums che diventeranno Tame Impala due anni dopo. Ai quali si unisce il batterista Jay Watson, membro dei Pond di Nick Allbrook, psichedelico nucleo portante del gruppo di amici. Fra questi, il bassista Julien Barbagallo e l’altro batterista Cam Avery. Da cerchia di amici a scena vera e propria è un attimo, anche perché Parker suona la batteria con i Pond dal 2009 al 2011 e continua a produrne i dischi fino a oggi. Anche perché la saga di progetti paralleli che il gruppo di amici partorisce è da mal di testa. Quasi che l’individualismo spinto che contraddistingue il progetto principale di Parker vada compensato dalla condivisione spinta delle collaborazioni. Proviamo a fare un po’ d’ordine (cronologico). Nel 2007 Parker e Allbrook mettono insieme i Mink Mussel Creek, che suonano come un’estensione dei Pond. Fanno 100 date dal vivo e provano a registrare l’esordio. Va talmente male che lo studio si rifiuta di consegnare loro i nastri delle session. Riusciranno a pubblicare il risultato solo nel 2014 (Mink Mussel Manticore). I Melody’s Echo Chamber nel 2010 inaugurano i progetti franco-australiani di Parker (che ha vissuto per un periodo a Parigi). La cantautrice Melody Prochet contamina il suo delicato space pop

con i riverberi di Parker, per un promettente omonimo esordio nel 2012. Poi ci sono le uscite estemporanee dei vari membri dei Pond (“ogni membro della cerchia ha il suo progetto parallelo”, ha dichiarato spesso Parker). Avery con Allbrook, come Allbrook/Avery per un album (Big Art, nel 2011) e un tour con gli Horrors, e come bassista con The Growl, sorta di Black Keys deviati, per un EP e un album. Julien Barbagallo, oltre a fornire le bacchette ai Tahiti 80, pubblica a nome suo tre album fra il 2015 e il 2018 e collabora con i francesi Aquaserge, collettivo di Tolosa dedito a bizzarri concept album dedicati alla figura di Serge Gainsbourg (“sopravvissuto e saggio, che vaga per gli abissi a bordo del suo sottomarino a forma di sigaro”, qualsiasi cosa voglia dire…). E poi Jay Watson e il suo progetto GUM, con quattro album (l’ultimo, The Underdog, del 2018). Una via più pop alla psichedelia dei Pond, con infiltrazioni di funk ed electro. Se ancora non bastasse, ci sono poi le uscite più estemporanee di Parker con amici e conoscenti. I Kevin Spacey, formati da Parker alla batteria (e alla voce quando serve) e Avery al basso, messi su nel 2013 per ripagare l’auto rubata all’amica musicista di Perth, Felicity Groom, con una manciata di jam space funk da scaldare sul palco. Si esibiscono in almeno tre date, anche come The Golden Triangle Municipal Funk Band e come AAA Ardvark, per poi scomparire (forse). I più recenti (2018) Theo Impala, con Parker alle tastiere per il rapper newyorkese Theophilus London. Divertissement per improvvisazioni R&B e cover. Per finire con i misteriosi Space Lime Peacock, una sorta di collettivo ufficioso di membri di Tame Impala e Pond, nato nel 2008, con Parker che copre diversi ruoli. Si tratta di jam di funk psichedelico, di cui esiste un album di demo mai pubblicati e caricati su Soundcloud, Fra il marasma dei suoni si possono ascoltare le prime evoluzioni del suono chitarristico di

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Parker. Che si è anche occupato di produzione ufficiale, prima dell’esplosione mainstream di Currents. Quando si tratta di uscire dalla cerchia di amici, cerca progetti che non siano necessariamente affini al suo mondo d’origine. I Koi Child diventano una band dopo che Parker li vede dal vivo come due progetti separati. Produce il loro omonimo esordio del 2016, esperimento di rap percussivo e dai bassi profondi. Il duo elettronico Canyons, per cui Parker restituisce il favore (i Canyons avevano mixato molti pezzi dei Tame Impala) e regala l’ugola a due tracce del loro Keep Your Dreams del 2011. E poi i francesi, oggetto di fascinazione continua. A partire dai Relation Lounge Distance, messi su nel 2013 con l’amico Barbagallo e spariti nel nulla dopo poche uscite dal vivo in Francia, prima di pubblicare alcunché. Continuando con gli EP prodotti per gli elettronici Discodeine e per i Moodoid di Pablo Padovani (chitarrista live dei Melody’s Echo Chamber). Concludendo con il contributo alla colonna sonora di Tron: Legacy dei Daft Punk, con la traccia End Of Line. Ma l’incontro che alza la posta per Parker in chiave collaborativa è quello con Mark Ronson, dopo la pubblicazione di Currents. Col produttore inglese Parker collabora a tre tracce di Uptown Special del 2015 (Daffodils, Leaving Los Feliz e la splendida Summer Breaking), ma soprattutto instaura un’amicizia che va oltre le pure esigenze lavorative, influenzando il suo percorso dal 2015 in poi. Il resto è storia recente; percorso di un talento oramai scoperto dai pesi massimi del pop mondiale. Dal remix di Waves di Miguel, al lavoro, ancora con Ronson, per il singolo Perfect Illusion tratto da Joanne di Lady Gaga, o il suo contributo più riconoscibile a Tomorrow di Kali Uchis. Tutto nel 2016. Il suo tocco sognante sembra essere quell’elemento escapista che il pop da folle oceaniche cerca e agogna con urgenza. Per Parker si tratta di un’opportunità per sviluppare ulteriormente l’ampiezza delle possibilità del suono cercato in Currents. Nel biennio 2017–2018, arriva anche l’attenzione dell’hip hop che conta, con la produzione e i cori di Skeletons, contenuta in Astroworld di Travis Scott, e la collaborazione a Violent Crimes, apparsa su Ye di Kanye West. Alex Turner degli Arctic Monkeys ha espresso la sua voglia di lavorare insieme a Parker e si narra di inediti nei cassetti di SZA e Mark Ronson pronti per essere pubblicati, nonché di una possibile comparsata in studio con Kendrick Lamar. Probabilmente però la consacrazione definitiva arriva da Rihanna, che coverizza New Person, Same Old Mistakes per il suo Anti del 2016. Una versione che non osa modificare minimamente l’abito etereo dell’originale, quasi a voler certificare l’inimitabile gusto di Kevin Parker. Un gusto intoccabile, anche per le star internazionali. E dire che tutto era incominciato da una cerchia di amici.

TAME IMPALA THE SLOW RUSH 4AD

Ci sono voluti cinque anni, passati febbrilmente a confrontarsi con mondi musicali diversi, per tornare in solitudine e guardare oltre Currents. La leggiadria del pianoforte di It Might Be Time immerge i Supertramp in un’esplosione solare di big beat alla Chemical Brothers. “Qualcosa non è a posto”, recita Parker. Se il disco precedente anelava la perfezione, qui siamo nella terra del dubbio. E i riferimenti al pop sinfonico degli anni 70 non sono solo azzardo, ma rivendicazione di libertà totale. Il tema e lo scorrere del tempo, senza sconti sul futuro, con briciole per i rimpianti. La psichedelia è l’eco di uno sguardo di sbieco, l’elettronica non più un totem. Ritornano prepotenti le percussioni in primo piano. One More Year apre come una preghiera cosmica che vira in acido, le accoglienti Borderline e Lost In Yesterday sorvegliano il versante singoli acchiappa ascolti, con leggerezza. Parker approccia il suo smarrimento come i Daft Punk con Random Access Memories: brandelli di passato che invadono il presente, senza rigido copione o paura dell’errore. Posthumous Forgiveness parte fra le stanze dei palloncini di The Weeknd e tramonta nella quiete chill out di un’elegia generazionale. Breather Deeper ha il DNA del soul urbano di Hall & Oates, che si scioglie in un’epifania di tastiere italo. Parker è in controllo, per la prima volta forse, senza averlo programmato. Le aperture progressive che cuciono le melodie sono l’anima tormentata che Currents non aveva. Anima che vola, con la chitarra acustica che accarezza il crepuscolo balearico della sognante Tomorrow’s Dust. Sul sorprendente french touch dell’intensa On Track, che rifiuta qualsiasi Apocalisse. In un mondo ormai incapace di garantire certezze, Kevin Parker offre la sua insicurezza senza filtri, uscendone vincitore.

86/100

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ALGIERS

T E S T O D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A F O T O D I C H R I S T I A N H Ö G S T E DT

LA DOPPIA FARSA DELLA CONTEMPORANEITÀ (TUTTO SI RIPETE, MA FORSE È ARRIVATO IL MOMENTO DI REAGIRE)

È

un momento propizio per la musica di protesta, diciamo quella schierata e politicizzata. Sicuramente il tutto è un riflesso della situazione attuale, che non riguarda solamente le singole nazioni ma ha a che fare con una crisi contemporanea di valori che affligge globalmente, a ogni livello, la società. Gli Algiers sono partiti fin dall’inizio seguendo belli dritti la loro direzione, con un nome che evoca la battaglia di Algeri, vicenda di colonialismo e dolore. Originari del Sud degli Stati Uniti, Atlanta per la precisione,

storica sede della Coca Cola, emblema classico del capitalismo americano più spinto e consumistico. Un successivo trasferimento nella capitale britannica, nel 2012, ha battezzato la nascita della band. Pure in questo terzo disco, There Is No Year, uscito per Matador, gli Algiers portano avanti i loro valori fondanti, anche se è sempre più difficile, oggi, essere coerenti nei confronti della società e del mondo che ci circonda. Abbiamo incontrato il bassista e polistrumentista Ryan Mahan per parlarne, in una giornata molto particolare. Oggi è il 4 dicembre. Esattamente 50 anni fa Fred Hampton, attivista e rivoluzionario socialista, nonché cofondatore delle Pantere Nere, veniva ammazzato in un raid dalla polizia. Nel precedente album Walk Like A Panther era dedicata a lui. A distanza di 50 anni che cosa ha lasciato, e a che punto è la lotta? Abbiamo fatto dei passi avanti? “La lotta per noi è sempre la stessa, perché 'la storia si ripete sempre due volte', per usare una citazione di Karl Marx, 'la prima volta come tragedia, la seconda come farsa'. Quindi siamo effettivamente nella fase della farsa, o addirittura in una fase doppiamente

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ALGIERS

«L A LOT TA P E R N O I È S E M P R E L A S T E SSA, PERCHÉ 'L A STORIA SI RIPETE S E M P R E D U E V O LT E ', P E R U S A R E U N A C I TA Z I O N E D I K A R L M A R X, 'L A P R I M A V O LTA C O M E T R A G E D I A , L A S E C O N D A C O M E F A R S A '. Q U I N D I S I A M O E F F E T T I VA M E N T E N E L L A FA S E D E L L A FA R S A , O A D D I R I T T U R A I N U N A FA S E D O PPIAMENTE FARSESCA DELL A NOSTRA S TO R I A. S I A M O TO R N AT I A L P U N TO I N C U I I L M O N D O , D I F A T T O , S T A C R O LL ANDO. RIPENSO ANCHE AL MOMENTO IN CUI INIZIAMMO COME BAND, N E L B I E N N I O 2 0 1 2 -2 0 1 3 : S E N T I V A M O D I AV E R B I S O G N O D E L L A S O C I E TÀ M A NON DI TUTTE LE NARRAZIONI CHE LA R I G U A R D AVA N O, V O L E VA M O R I C O RDARE LO SPIRITO DI CERTE PERSONE E D I C E R T I FAT T I»

farsesca della nostra storia. Siamo tornati al punto in cui il mondo, di fatto, sta crollando. Ripenso anche al momento in cui iniziammo come band, nel biennio 2012-2013: sentivamo di aver bisogno della società ma non di tutte le narrazioni che la riguardavano, volevamo ricordare lo spirito di certe persone e di certi fatti. Fred Hampton è una di quelle figure ideologiche e spirituali, e andrebbe sostenuta. Si è trattato quasi di un percorso a ritroso nella Storia, ma non necessariamente di una ripetizione. Di certo gli Algiers si sono sempre sentiti coinvolti da questioni che riguardano la memoria, il ricordo, cercando però di sostituire alla nostalgia qualcosa di concreto: la rabbia e la forza. Purtroppo abbiamo ancora molta strada da percorrere, il mondo è molto frammentato”. E la situazione nella vostra città di origine com'è? “Siamo cresciuti nel fottuto Sud degli Stati Uniti. Io, Franklin e Lee proveniamo dalla parte cattiva dell’America: quella della schiavitù, controllata da una politica americana in rovina. Donald Trump mente quando parla al Sud, e da quelle parti è rappresentato da personaggi totalmente negativi.

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Perché abbiamo il capitalismo ma probabilmente non è lo stesso genere di capitalismo che riconosceremmo in qualsiasi altro momento della Storia. L'attivismo sindacale non sarebbe stato in grado di captarlo. Ora lì si sono create delle forme di associazionismo, il che è positivo, visto che in America non se ne vedevano da molto tempo. E poi c'è il discorso della tecnologia: invece che per produrre una reale forma di connessione, viene utilizzata per frammentare ulteriormente la società. Se ascolti il disco, si sente un po’ la mancanza di speranza, la disperazione: è un senso di stanchezza, ma in qualche modo soffice, attenuato. L’idea è di desiderare e sperare senza tener conto dell’arrivo del pessimismo e della delusione che prima o poi potrebbero sopraggiungere. Mi sembra di essere in un momento molto peggiore rispetto all'inizio del millennio però. Ora ci governa un liberismo, un neoliberismo che spezzetta ogni cosa”. Secondo te c’è qualche nuova figura di attivista, qualcuno che possegga degli ideali veramente forti? “Penso che ci sia soprattutto una serie di eventi, eventi che indicano qualcosa: le persone stanno rivendicando l'idea che alcune cose debbano essere abbandonate, e un pensiero possibile che vada al di là del capitalismo, riassumibile con termini come 'socialdemocrazia' e 'accesso ai servizi'. Ne hanno abbastanza delle briglie del capitalismo. Abbiamo visto che cosa è riuscito a fare il fascismo, sorretto dal carisma di chi ha fatto di tutto per mantenerlo in vita. Non abbiamo mai avuto un partito che ci rappresentasse. C'erano le pantere nere, che rappresentavano la loro comunità di riferimento, ma quel movimento si ricollegava anche a forme di lotta in ogni parte del mondo, e al concetto che sta dietro al nome Algiers”. Ho letto che alcuni festival hanno deciso di adottare il riconoscimento facciale per il pubblico, ad esempio quello organizzato da Amazon. Una forma di technorazzismo? “È chiaramente così. È palese ciò che sta accadendo con la tecnologia, e questo rende impossibile essere davvero ottimisti. La tecnologia è nelle mani di persone che conosciamo bene, gente che utilizza il razzismo, il fascismo e la paura per dividerci. Gruppi di artisti che si associano però posso fare qualcosa, ad esempio contro questo governo, quello americano, così fascista e influenzato dalle big companies”. Nel 7” di Walk Like A Panther c’era anche una piccola brochure con sopra i consigli su come comportarsi qualora un poliziotto si fosse presentato inaspettatamente alla porta, o ci si trovasse nella condizione di essere un rifugiato politico in USA. Qual è la situazione

degli abusi di potere negli ultimi anni? “Penso che il modo in cui il governo si occupa di immigrazione sia sempre stato problematico, anche se l'America di fatto è uno stato coloniale fondato in tutto e per tutto da stranieri, da immigrati. La mia più grande preoccupazione ha a che fare con il fatto che abbiamo la tecnologia per identificare i singoli individui, e con mezzi del genere è possibile creare campi di detenzione basati su criteri razziali o sulla nazionalità. Abbiamo questa tecnologia, ma non serve necessariamente per proteggerci, per fronteggiare la paura. Sappiamo che cosa vogliono ottenere, e sappiamo che cosa accade alle persone che si trovano al confine, conosciamo i metodi per identificare le persone con l'inganno. La situazione è caotica”. Can The Sub_Bass Speak? non l'avete inserita nell'ultimo album. Come mai? “Si trattava soprattutto di una collaborazione con Randall Dunn (Sunn O))), Earth) e Ben Greenberg (Zs, Uniform), anche se di fatto coinvolgeva le sei persone che hanno lavorato all'ultimo disco. Randall e Ben hanno le idee molto specifiche su quello che vogliono fare. Il primo disco era rappresentativo

del lavoro di tre persone, il secondo di quattro, l'ultimo di sei, e questo ci ha consentito di sfruttare determinate potenzialità”. Qual è stato il processo creativo che vi ha condotti a questo ultimo album? “Per ogni album il processo compositivo è stato differente. Per il primo io, Franky, Lee e il produttore Tom Morris abbiamo trascorso insieme ogni giornata in studio, creando esattamente ciò che avevamo in mente in un preciso momento. Nel secondo Frank e io avevamo i pezzi pronti e abbiamo trascorso due settimane in studio con con Adrian Utley (chitarrista dei Portishead, nda), però il lavoro è stato portato avanti separatamente. Questa volta abbiamo portato in studio 19 canzoni, da cui abbiamo selezionato le 11 che sono finite sul disco”. Nel testo di Can The Subaltern Speak? c’è il frammento di recensione – negativa – di “Pitchfork”, una recensione del vostro secondo album dove vi si definisce “esplosivi fino al punto di essere kitsch, anche se i problemi trattati sono una questione di vita o di morte”,

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«PENSO CHE IL MODO IN CUI IL GOV E R N O S I O C C U PA D I I M M I G R A Z I O N E S I A S E M P R E S TAT O P R O B L E M AT I C O, A N C H E S E L'A M E R I C A D I F AT T O È U N O S TAT O C O L O N I A L E F O N D AT O I N T U T T O E PER TUT TO DA STRANIERI, DA IMMIG R AT I . L A M I A P I Ù G R A N D E P R E O C C U PA Z I O N E H A A C H E F A R E C O N I L F AT T O CHE ABBIAMO L A TECNOLOGIA PER IDENTIFICARE I SINGOLI INDIVIDUI, E CON MEZZI DEL GENERE È POSSIBILE C R E A R E C A M P I D I D E T E N Z I O N E B A S AT I SU CRITERI RAZZIALI O SULL A NAZION A L I TÀ . A B B I A M O Q U E S TA T E C N O L O GIA, MA NON SERVE NECESSARIAMENTE PER PROTEGGERCI, PER FRONTEGGIARE L A PAURA»

e anche “esagerati a tal punto da diventare un melodramma politico”. Che cosa avete provato quando l’avete letta? “L’ideologia radicata così profondamente in una recensione del genere ci ha fatto capire proprio quanto fosse ideologica quella recensione. In Can The Subaltern Speak? parliamo di come distruggere il razzismo. È una questione politica, l’industria culturale è politica, la musica è politica. Lo urliamo con questo pezzo che è un po’ free jazz”. Hour Of The Furnaces, oltre che una canzone del disco, è il titolo di un film politico sul Sud America e sul colonialismo, diretto da Octavio Getino e Fernando Solanas, La Hora De Los Hornos. In questo momento la situazione è molto delicata in Cile e Bolivia, qual è il vostro punto di vista sulla questione sudamericana? “ll film è argentino, e quando è uscito, nel 1968, cercava di raccontare la situazione del capitalismo globale. Noi americani ci siamo comportati in modo violento con il Sud America, ma anche con l'America Centrale. Hanno subito l'oppressione statunitense, come è accaduto all'Algeria con la Francia. Abbiamo colonizzato in vari modi l’intero continente per circa 60, 70 anni, impadronendoci delle sue risorse. La resa dei conti è il rovescio della medaglia, e continua ad accadere, ad esempio in Bolivia. La solita merda,

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la storia si ripete. E poi c’è il Venezuela. Il film è in sintonia con quello che stiamo cercando di dire con gli Algiers e appartiene al cosiddetto third cinema, un filone cinematografico anticolonialista. Noi cerchiamo di fare in parallelo, a nostro modo, una sorta di ' terza musica', anticoloniale e anticapitalista. La gente si concentra su quello che accade negli Stati Uniti e in gran Bretagna, ma la domanda da farsi è: che cosa sta succedendo nel mondo? Il problema è globale”. È difficile oggi essere una band politicizzata e mantenere una certa coerenza? “Penso che siamo molto contraddittori, non siamo puramente coerenti né puramente ideologici, anche se cerchiamo di creare una sorta di voce unica, qualcosa che vada al di là della politica individuale, però le contraddizioni ci sono. Penso che le persone che hanno a che fare con la musica abbiano desideri e aspettative differenti, e credo che questo possa essere un problema per gli artisti. Vogliamo cose diverse, e questo disco ne contiene solo una parte, non è 'organico' da un cereto punto di vista. Noi quattro, come gruppo, abbiamo le competenze per cercare di ottenere davvero quello che vogliamo, ma non sappiamo quali reazioni potranno avere gli ascoltatori di fronte al nostro nuovo lavoro. Per me esiste sempre una sorta di divario tra il desiderio e la realtà dei fatti, ma quando in qualche modo lo superi ti assale una sensazione difficile da spiegare”. Pensavo ai Rage Against The Machine, che hanno annunciato la reunion e suoneranno al Coachella, un festival il cui fondatore ha supportato in passato organizzazioni anti LGBT e pro armi… “Anche noi abbiamo suonato al Coachella, così come i Downtown Boys i Priests e molte altre band in qualche modo a noi legate, politicizzate. Abbiamo suonato in festival sponsorizzati da produttori di birra, anche lì ci sono degli elementi problematici. Adesso non ci viene voglia di ritornarci, anche se usciamo per una etichetta molto grossa e tutto questo fa parte del gioco. È difficile vivere con un approccio diciamo anarchico. Ti si presentano quotidianamente delle contraddizioni, anche suonando in una band, cosa che ti fa sentire in qualche modo colpevole. Ma non serve sentirsi colpevoli, occorre sempre confrontarsi, cercare di capire”. Il vostro ultimo album è molto diverso dagli altri: pochissime chitarre distorte, suoni molto più profondi, meno ruvidi. Volevate raggiungere un pubblico più ampio? “No, non era nelle nostre intenzioni. La sfida era quella di avere un suono più complesso. Ma non abbiamo programmato di arrivare a più persone, non è affatto un tentativo di fare più soldi”.

LEE RANALDO GREG DULLI T E S T O D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A F O T O D I TO M B R O N O W S K I E M A C I E K J A S I K

UOMINI (QUASI) SOLI

E S CO N O I D U E D I S C H I I N S O L I TA R I A ( A VO L ER E S S ER E P I G N O L I , U N O E M E Z ZO) D I D U E S O L I S T I A N O M A L I A N C H E S E N O N D I P R I M O P ELO. EN T R A M B I R ED U C I DAG L I A N N I 9 0 D EL L' I N D I E C H E S I FA A D U LTO E S B A R C A S U M A J O R (CO N S O N I C YO U T H E A F G H A N W H I G S ) : L EE R A N A L D O, T I TO L A R E D I U N A L B U M R E A L I Z Z ATO I N TA N D E M CO N LO S PAG N O LO R AÜ L R EF R EE , S E M P R E P I Ù V I C I N O, P U R S EN Z A R I N U N C I A R E D EL T U T TO A L P R O P R I O D N A S P ER I M EN TA L E , A L L A C A N ZO N E ; E G R EG D U L L I , C H E P ER L A P R I M A VO LTA FA DAV V ER O, L E T T ER A L M EN T E , T U T TO DA S O LO.

LEE RANALDO E RAÜL REFREE VISIONI OLTRE IL PASSATO

T E S T O D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A F O T O D I TO M B R O N O W S K I

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e si pensa a Lee Ranaldo, si arriva immediatamente ai Sonic Youth. 30 anni di carriera e 15 album in studio, per una delle band più influenti di sempre, non si cancellano; e nemmeno lui vuole cancellarli, sia chiaro. Quello che colpisce è la sua capacità di agire in territori differenti, con approcci multipli. Abilità non casuali se si è fatto parte di una band non lineare insieme a Thurston Moore, Kim Gordon e Steve Shelley. Se poi si riesce a trovare un perfetto partner in crime come Raül Refree – produttore del primo album di Rosalía, Los Ángeles (2017), quest'anno appena uscito anche con una avveniristica rilettura del fado insieme alla portoghese Lina – può succedere

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davvero di tutto, come utilizzare meno chitarre e sfruttare suoni di batteria, porte che sbattono o persone che parlano trovati per caso da Lee in un vecchio registratore Struder e risalenti a circa 25 anni fa. C’è questo e molto altro dentro nel nuovo album collaborativo Name Of North End Women. La capacità di non rimanere aggrappati al presente rende Ranaldo un visionario, un esemplare di musicista curioso che non ne ha mai abbastanza, che non si annoia e non si adagia sui bei tempi andati. La forma mentis di uno dei chitarristi più illuminati di sempre è libera da costrizioni e al servizio della musica. Lo abbiamo incontrato per capire dove voglia ancora arrivare. Questa estate sei tornato in Puglia in vacanza, ho visto le foto sul tuo profilo Instagram. A questa regione hai anche dedicato anni fa una canzone dal titolo Lecce, Leaving. Come è nata la tua passione per quei luoghi? “È capitato per caso, quando sono stato invitato lì a lavorare con un gruppo di musicisti e artisti. Mi sono innamorato di quella parte dell’Italia. Non l’avevo esplorata a dovere al di sotto di Roma. Questo è stato il primo passo per poter comprendere il vero Sud Italia, Napoli, altre zone delle altre regioni. Adoro quei posti. Ho scritto Lecce, Leaving circa sei o sette

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«H O C A P I TO C H E L AV O R A R E D A S O LO N O N M I I N T E R E S S AVA M O LT O. M I P I A C E M O LT O L'A S P E T T O S O C I A L E D E L FARE MUSICA, E QUINDI DOPO I MIEI PRIMI DUE DISCHI SOLISTI HO INCONT R AT O I L M I O AT T U A L E PA R T N E R C R EAT I V O, R AÜ L R E F R E E. N O N P U O I M A I PREVEDERE IL MOMENTO IN CUI INC O N T R I Q U A L C U N O C O N C U I S I R I ESCE A CREARE UN'INTESA, QUALCUNO CHE CONDIVIDE OBBIETTIVI COMUNI»

anni fa, e quando ci sono ritornato quest'estate ho visto molti più turisti rispetto all’ultima volta. È una parte dell’Italia che ha una purezza unica nel suo stile di vita, poi il cibo è fantastico, è vicino al mare… È qualcosa di molto bello, e nei mesi estivi è perfetta”. Le tue radici italiane sono tra Avellino (Sant’Angelo dei Lombardi) e Benevento (Paduli). Ci sei mai stato? “Non sono mai stato ad Avellino. Penso di aver ancora

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qualcuno della famiglia da quelle parti, ma non ne sono certo. Il ramo della famiglia con cui sono in contatto e che ho conosciuto vive a Prato”. Tutti conoscono la tua carriera nei Sonic Youth, ma quanto è stata utile la carriera solista per la tua crescita musicale? “È stata molto importante. Nella seconda metà della carriera dei Sonic Youth tutti quanti sperimentavamo con i nostri progetti collaterali, ma non eravamo mai riusciti a dedicarci del tutto ad essi, la band era il nostro principale impegno. Quando i Sonic Youth si sono fermati, tutti noi abbiamo avuto più tempo per altro. Io ho avuto più tempo da dedicare all'arte visuale, allo scrivere, oltre che a comporre la mia musica. È stata una evoluzione davvero interessante perché il primo disco che ho fatto dopo i Sonic Youth era in un certo senso affine a quel suono: due chitarre, basso e batteria. Quando con i Sonic Youth abbiamo iniziato a pensare di dare vita a una band, a renderci funzionali e in prospettiva a permetterci di avere una carriera così lunga è stata la perfetta collaborazione instauratasi tra ciascuno di noi, Siamo diventati una vera e propria unità collaborativa”. In che modo sono proseguiti i tuoi progetti?

LEE RANALDO E RAÜL REFREE

“Ho capito che lavorare da solo non mi interessava molto. Mi piace molto l'aspetto sociale del fare musica, e quindi dopo i miei primi due dischi solisti ho incontrato il mio attuale partner creativo, Raül Refree. Non puoi mai prevedere il momento in cui incontri qualcuno con cui si riesce a creare un'intesa, qualcuno che condivide obbiettivi comuni. Questo è il secondo album vero e proprio che abbiamo realizzato insieme in studio, sperimentando il più possibile”. Quando sei entrato in contatto la prima volta con lui? “Il primo contatto è avvenuto nel 2014, attraverso la mia band, Dust, eravamo in Europa e avremmo dovuto suonare a un festival in Marocco, che poi però non si tenne, quindi avevamo una intera settimana libera. Abbiamo fatto dei concerti acustici, e il promoter spagnolo ci ha proposto di andare in studio a registrare un disco acustico con alcuni pezzi tratti dagli ultimi due album. L’ingegnere del suono e produttore era Raül. In poco tempo siamo diventati molto amici”. Parlando di sperimentazione, non possiamo dimenticare Glenn Branca. Che cosa hai imparato da lui? “Quando sono arrivato a New York era un momento fantastico, succedeva di tutto in quella scena musicale. Ho imparato molto da Glenn Branca: era sempre consapevole dell'elemento della teatralità nella musica, ovunque suonasse c'era sempre questa componente molto forte, che indossasse una semplice camicia di flanella, un completo o uno smoking. Glenn ha fatto un ottimo uso di quell'elemento teatrale e di tutto ciò di cui era a conoscenza. Ho imparato molto anche musicalmente, soprattutto sulle accordature alternative, che già utilizzavo prima di conoscerlo. Il modo in cui creava musica era molto ambizioso”. Vedo la tua carriera solista come qualcosa che mette insieme due grandi approcci musicali: da un lato la sperimentazione, dall'altra una affinità con la forma canzone. Ti riconosci in entrambe le concezioni di musica? “Penso di sì, perché i Sonic Youth si sono sempre mossi tra i due poli: da una parte la canzone, dall'altra forme astratte e ambienti sonori; c’è sempre stato questo contrasto tra canzoni e astrazione, tra suoni piacevoli e suoni rumorosi o dissonanti. All’epoca abbiamo registrato un sacco di musica improvvisata, senza alcun copione, e lavorato a musica altamente strutturata. Non abbiamo mai rinunciato a una cosa per abbracciare l'altra, entrambi gli approcci fanno parte della nostra natura”. E in questo disco quale approccio avete utilizzato?

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«I SONIC YOUTH SI SONO SEMPRE MOSSI TRA I DUE POLI: DA UNA PARTE L A C A N Z O N E , D A L L'A LT R A F O R M E A S T R AT T E E A M B I E N T I S O N O R I; C’È S E M P R E S TATO Q U E S TO C O N T R A S TO TRA CANZONI E ASTRAZIONE, TRA SUONI PIACEVOLI E SUONI RUMOROSI O D I S S O N A N T I. A L L’E P O C A A B B I A M O R E G I S T R ATO U N S A C C O D I M U S I C A I M P R O V V I S ATA, S E N Z A A LC U N C OP I O N E , E L AV O R AT O A M U S I C A A LTAM E N T E S T R U T T U R ATA. N O N A B B I A M O M A I R I N U N C I ATO A U N A C O S A P E R A B B R A C C I A R E L'A LT R A , E N T R A M B I G L I APPROCCI FANNO PARTE DELL A NOS T R A N AT U R A»

“Le session di questo disco erano legate alla forma canzone, anche se negli ultimi anni ho comunque sperimentato molto con suoni astratti e improvvisazione, come è accaduto qualche tempo fa con Jim Jarmush (nel disco a nome Jim Jarmusch/ Lee Ranaldo/Marc Urselli/Balazs Pandi, nda). Ora come ora mi piace molto di più suonare dal vivo che registrare musica però”. Ho controllato le strade del North End di Winnipeg su una mappa, e, appunto, le vie hanno solo nomi propri di donne. Ma il motivo lo hai capito? “Non so perché, davvero. Un inverno mi trovavo nella città natale di mia moglie, Winnipeg (Provincia del Manitoba, Canada, nda), nel North End. Stavo camminando e, strada dopo strada, vedevo questi nomi, Lydia Street, Karen Street, Ellen Street. Era curioso, c’erano solo i nomi propri e nessun cognome o menzione su chi fossero, questa cosa ha stimolato il mio interesse. Forse erano nomi di donne di Winnipeg, nella città ci sono problemi nei confronti delle popolazioni native, e in passato sono ci sono stati episodi orribili. Oppure, ho pensato, fosse un modo di rappresentare tutte le donne, qualcosa di universale. Non ho mai davvero capito le ragioni, ma la cosa mi ispirava. Leggendo quei nomi mi sembrava di viaggiare nel passato, pensavo a persone che avevo conosciuto o con cui avevo collaborato. Così in Lydia Street ho pensato a Lydia Lunch. Questi nomi li ho

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«PENSO CHE QUESTO SIA UN NUOVO PA S S O I N AVA N T I S I A P E R M E C H E P E R RAÜL, E MI PIACE SPINGERE L A MUSICA IN UNA DIREZIONE CHE NON SIA QUELL A DEL SOLITO SCHEMA CHITA R R A-B A S S O-B AT T E R I A. P E N S A N D O AL FUTURO, IMMAGINO CHE L A MIA MUSICA NON TORNERÀ PIÙ INDIETRO, M A S I S P I N G E R À P I Ù LO N TA N O»

LEE RANALDO & RAÜL REFREE NAMES OF NORTH END WOMEN MUTE/PIAS

Un anno fa esatto ho avuto la fortuna di intervistare sul palco Lee Ranaldo, dopo una sua intensa esibizione solista. Disponibilissimo, intelligente e curioso verso il pubblico, a un certo punto ha concesso ai presenti una piccola rivelazione che ha stupito non soltanto me: “Il gruppo che mi influenzato di più sono stati i Beatles”. Condivisibile, ma sorprendente per qualcuno che abitualmente associ a deflagrazioni di chitarre. Eppure, sappiamo tutti che i Fab Four sono stati pura avanguardia pop, esattamente come questo disco, che ha nella tessitura di melodie, incursioni ritmiche, nastri, strumenti “insoliti” (chitarre poco presenti) e campionamenti, il suo pregio più alto. Innovare nell’accessibile è molto più ostico che distruggere in eterno e il suono di una porta sfondata, a lungo, si tramuta in pura noia. In questa collaborazione tra Ranaldo e Refree (già chitarra flamenco per Rosalia), ogni composizione ha un che di inatteso, contiene un invito al ritorno, al riascolto che si rende necessario per una decifrazione corretta, ma tutto, ripetiamolo, in un ambito pop modernista. Valgano Humps, con dolcezza vocale (sì, McCartney) e tensione poliritmica (Peter Gabriel/Steve Lillywhite) e Words Out Of The Haze, titolo esemplificativo per i testi di Jonathan Lethem e gli scritti di Ranaldo stesso, che nasce quasi Suicide e si stempera in aria folk inglese. O l’Africa che si impone sul mondo digitale della title track, contrapposta al commiato sereno di At The Forks, ballata molto R.E.M., tra acustica e un mondo in dissolvenza elettronica. Uno spaesamento quasi geografico, tra nuovi luoghi sonori costruiti su tecnologia invecchiata precocemente e strumenti antichi resi moderni: una Nuova Traiettoria Cerebrale, come suggerisce il titolo numero tre, spoken lynchiano notturno. La diaspora sonica non è mai stata così luminosa. MAURIZIO BLATTO

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poi raggruppati in una poesia, da lì sono partito per scrivere i testi e strutturarli”. Nella title track ci sono dei cori gospel molto intensi… “E ci sono anche ritmiche 'afro', volevamo usare ritmi differenti, ci sono anche elementi di flamenco e fado, che abbiamo inserito nella musica”. Perché hai deciso di usare così poco la chitarra in questo album? “Non è stata una vera scelta, è stato più importante il processo del risultato finale. Quando registriamo un disco e lavoriamo in studio, ascoltiamo prima di tutto solo quello che esce dalle casse, non pensiamo al modo in cui suonerà in concerto. Ci siamo resi conto che non ci servivano molte chitarre. Di solito io sono uno di quelli che, se va in studio a registrare un album, come prima cosa porta a termine la registrazione delle chitarre perché sono il corpo del brano, ma in questo caso siamo partiti dai ritmi, dall'elettronica, dai campioni e dai suoni. Registravamo marimba, vibrafono, chitarra acustica ed elettrica, batteria, per poi riversare tutto nel computer e cantarci sopra. Non ci siamo preoccupati della mancanza di chitarre, non ci interessava ragionare in quel modo, ma le abbiamo utilizzate in un paio di casi in maniera assai decisa”. Come vedi la tua musica nel futuro? “Penso che questo sia un nuovo passo in avanti sia per me che per Raül, e mi piace spingere la musica in una direzione che non sia quella del solito schema chitarra-basso-batteria. Pensando al futuro, immagino che la mia musica non tornerà più indietro, ma si spingerà più lontano. In questo lavoro ci siamo concentrati ancora di più sulla voce, sui testi e sulle parole, e credo che in futuro mi concentrerò ancora di più sulla voce, sull'elemento cantato”.

GREG DULLI FARLO DA SOLO

T E S T O D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A FOTO DI M ACIEK JA SIK

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reg Dulli quando ti parla è molto tranquillo e rilassato. Lo abbiamo incontrato nella hall di un hotel che sembra una specie di enorme bottega d’antiquariato, con arazzi, poltrone in velluto, struzzi impagliati, modellini di due metri del Titanic e foto di James Dean. Gente ribelle ma con gusto, gentlemen d’altri tempi, proprio come Greg Dulli. Negli ultimi anni, dopo la reunion degli Afghan Whigs del 2011, il nostro Greg pare abbia trovato un equilibrio e una ispirazione musicale eccellente: Do To The Beast (2014) e In Spades (2017) lo confermano senza esitazione. A Dulli è sempre piaciuto suonare con un gruppo, ma poi ha fatto di necessità virtù e in un momento particolare

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è arrivato anche per lui il turno del disco solista, Random Desire (via Royal Cream/BMG). Il ragazzone dell’Ohio ci ha raccontato i come e i perché, ma soprattutto dell’inaspettato piacere di farlo da solo. La prima domanda che ti voglio fare, la cosa ha creato qualche dubbio anche ai tuoi fan, è: perché consideri questo il tuo primo album solista? “Perché Amber Headlights (2005) conteneva brani lasciati fuori da Blackberry Belle (2003), il secondo album dei Twilight Singers; la ragione per cui non c’è scritto solo Greg Dulli in copertina ma 'Greg Dully’s Amber Headlights' è che sono brani che appartengono a me. e non a voi. E credimi ho visto molti che... (fa un verso con la bocca, come a dire che molti hanno polemizzato e parlato, nda). Non avrei mai pensato di dovermi difendere da chi già mi apprezza (ride, nda), ma va bene così, tutto ok”. Perché ci hai messo così tanto tempo a pubblicare il tuo primo disco solista? “Non avevo mai avuto intenzione di fare un disco solista, perché mi piace stare in una band. Ma molta gente me lo ha chiesto in questi anni, e una persona in particolare: Mark Lanegan, uno vecchio amico, uno dei miei migliori amici, Mark mi diceva, 'Devi fare

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« N O N AV E V O M A I AV U T O I N T E N Z I O N E D I F A R E U N D I S C O S O L I S TA , P E R C H É M I P I A C E S TA R E I N U N A B A N D . M A M O LTA GENTE ME LO HA CHIESTO IN QUESTI ANNI, E UNA PERSONA IN PARTICOL ARE: MARK L ANEGAN, UNO VECCHIO A M I CO, U N O D E I M I E I M I G L I O R I A M I C I, M A R K M I D I C E VA , ' D E V I F A R E U N A L B U M D A S O L I S TA ’ , E I O R I S P O N D E V O , ‘ N O , M I P I A C E I L L AV O R O D I S Q U A D R A , MI PIACE ESSERE IN UNA BAND’»

un album da solista’, e io rispondevo, ‘no, mi piace il lavoro di squadra, mi piace essere in una band’. E questa volta i componenti del mio gruppo, gli Afghan Whigs, erano tutti impegnati. Tutti – letteralmente – avevano qualche cosa da fare: ‘Oh, no, non posso farlo…’. ‘Ok, capisco’, rispondevo. Così l'ho fatto tutto in solitaria e ho finito per apprezzare davvero il risultato finale”. Quando hai iniziato lavorarci?

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“Ho iniziato nel 2018 e sono andato avanti tutto l’anno. Non sapevo se ci sarebbero stati anche gli altri, e quando tutti mi hanno detto che erano impegnati altrove ho rallentato i ritmi. Tra febbraio e luglio 2019 ho completato la scrittura di tutte le canzoni, tranne una che ho finito ad agosto. Infine a settembre abbiamo registrato la batteria di Pantomima, il primo singolo, mentre il disco l’ho concluso a ottobre”. Ho letto che ti dichiari ispirato da molti artisti solisti, o comunque da molte one man bands, che definisci visionari. Che cos'è, secondo te, che rende un artista visionario? “Quando ero molto giovane ricordo di aver ascoltato Todd Rundgren, che suonava praticamente tutti gli strumenti nei suoi dischi. Per me era pazzesco. Come faceva? Non avevo idea di come ci riuscisse. Dopo mi sono appassionato a Prince, e quando l’ho ascoltato ho pensato che fosse meglio di quasi tutto quello che c’era in giro. Il livello era davvero alto, ma ora sono più consapevole dei miei mezzi. In fondo ho sempre suonato i pezzi di una one man band coinvolgendo artisti in grado di farlo meglio di me. In questo caso faccio del tutto affidamento sulle mie abilità: suono la batteria in oltre metà disco e quando riascolto una canzone, fondamentalmente, riconosco me stesso.

GREG DULLI

Finalmente sto riuscendo a fare qualcosa che quando ero bambino mi faceva impazzire, e mi piace l'idea di non dover spiegare a qualcuno che cosa io voglia ottenere, o come debba suonare”. Un nuovo processo e una nuova sfida... “Sì, lo è stato, ma è così che dovrebbe sempre essere: fare qualcosa di nuovo nella tua vita. Ad esempio ho utilizzato approcci vocali che non avevo mai sfruttato in precedenza, perché mi piace spingermi oltre”. Ci sono due stati d'animo in questo disco, e mi pare che nessuno dei due prevalga. Volutamente? “Sì, una scelta del tutto naturale. Dove invece ho fatto qualcosa per forzare il contrasto, è stato nell'ultima canzone che ho composto. Quando ho sentito il disco con le tracce in ordine, la quarta canzone non funzionava dove l'avevo inserita, pur piacendomi. Dovevo metterci qualcos'altro e ho scritto The Tide, non solo per il disco ma proprio per inserirla in quella posizione all'interno della scaletta”. In merito all’ordine delle tracce volevo chiederti, perché già in terza posizione c'è una ballata come Marry Me? “Perché non poteva stare da nessuna altra parte. Forse si poteva mettere alla fine, ma c'era già Slowpan, con quell'arpa, quella doveva stare ultima per forza. Non potevo metterla dopo Slowpan, dovevo distanziarle, così l'ho messa terza. Marry Me mi piace moltissimo, credo funzionerà anche dal vivo questa cosa, dopo le prime due, per spiazzare il pubblico che magari non se l'aspetta”. Sulla cover del disco c’è la foto di un'auto con del fuoco che brucia al suo interno e il ghiaccio all'esterno. È una metafora? “Anche a me era sembrato ghiaccio inizialmente, in realtà è l’effetto del fuoco sui vetri. La prima volta che ho visto quella foto mi ha spiazzato. In un certo senso sì, è una metafora, ma può anche significare che quando pensi di essere al posto di guida, forse non sei tu a guidare, ma qualcos'altro... (ride, nda)”. In Lockless citi il titolo del disco, Random Desire. Che cosa è esattamente per te un desiderio (o una voglia) casuale? “Ti faccio un esempio. Cammini per strada, vieni a trovarmi…" A Los Angeles? “Dove vuoi tu... sulla strada qualcosa ti attira ma vuoi vederlo da più vicino. Quindi vai lì e non vieni più da me, perché desideri qualcos'altro in cui ti sei imbattuto per caso. Non avevi intenzione di farlo, ma hai appena reagito a uno stimolo: ecco il desiderio casuale.

T E S T O D I N I C H O L A S D AV I D A LT E A

« Q U A N D O E R O M O LT O G I O V A N E R I C O R D O D I A V E R A S C O LT A T O T O D D R U N D G R E N, C H E S U O N AVA P R AT I C AMENTE TUTTI GLI STRUMENTI NEI SUOI D I S C H I. P E R M E E R A PA Z Z E S CO. CO M E FA C E VA ? N O N AV E V O I D E A D I C O M E CI RIUSCISSE. DOPO MI SONO APPASS I O N A T O A P R I N C E , E Q U A N D O L’ H O A S C O LT A T O H O P E N S A T O C H E F O S S E MEGLIO DI QUASI TUTTO QUELLO CHE C ’ E R A I N G I R O . I L L I V E L L O E R A D A V V ER O A LT O , M A O R A S O N O P I Ù C O N S A PEVOLE DEI MIEI MEZZI. IN FONDO HO S E M P R E S U O N ATO I P E Z Z I D I U N A O N E MAN BAND COINVOLGENDO ARTISTI IN GRADO DI FARLO MEGLIO DI ME. IN QUESTO CASO FACCIO DEL TUT TO AFF I D A M E N TO S U L L E M I E A B I L I TÀ »

Random Desire è la parte non pianificata della vita, qualcosa che non si può predire”. C’è una canzone con un titolo italiano, Sempre. Come mai? “Molto semplicemente, quando lavoro a una canzone l’ingegnere del suono vuole sapere il nome del brano. Io le chiamo con parole a caso, tipo ‘blah’, o versi che faccio con la bocca. Quella l’avevo chiamata anche se non pronuncio mai la parola ‘sempre’ nella canzone, però quando ho scoperto che 'sempre' significava ‘always’ l’ho voluta tenere, perché il brano ha un significato opposto, cioè ‘never’, 'mai'”. Lo incontri spesso Mark Lanegan? “Abitiamo nella stessa città, certo. Spesso ci messaggiamo, ma occasionalmente andiamo a pranzo o alle partite di NBA, qualche volta anche al cinema”. Per quale squadra della NBA tifi? “Los Angeles Clippers. I Lakers però mi stanno sorprendendo, anche se li odio”. Torniamo a Mark Lanegan… “Dal momento che entrambi stiamo lavorando molto, non riusciamo a vederci abbastanza. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato quando ho cantato su un brano del suo prossimo disco in uscita (Straight Songs Of

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«PENSO CHE QUESTO SIA UN NUOVO PA S S O I N AVA N T I S I A P E R M E C H E P E R RAÜL, E MI PIACE SPINGERE L A MUSICA IN UNA DIREZIONE CHE NON SIA QUELL A DEL SOLITO SCHEMA CHITA R R A-B A S S O-B AT T E R I A. P E N S A N D O AL FUTURO, IMMAGINO CHE L A MIA MUSICA NON TORNERÀ PIÙ INDIETRO, M A S I S P I N G E R À P I Ù LO N TA N O»

Sorrow); lo avevo già fatto in quello precedente. Quello in arrivo è un album che attendo molto, mi piace molto, mi ricorda alcuni dei suoi lavori più vecchi. C’è anche un libro in uscita, che è incredibile”.

GREG DULLI RANDOM DESIRE ROYAL CREAM / BMG

Alla terza canzone Mr. Afghan Whigs piazza una ballatona acustica intitolata Marry Me. Facile immaginarselo su una collina a guardare le luci notturne di Los Angeles, la sigaretta in bocca e il culo sul cofano ancora caldo della macchina. Quando partirà universalmente, le cinquantenni di oggi si sentiranno chiamate in causa e spereranno che l’invito sia rivolto a loro, quindi crolleranno in lacrime e i loro mariti malediranno, ma non troppo, questo motherfucker assoluto e la nostalgia canaglia degli anni 90. Sigillo di fabbrica inimitabile, quello di Dulli: i segni dei cazzotti come make up di verità, la Motown per palestra, il peccato di James Dean e l’assoluzione di Al Green. Iconografia grunge in glorificazione perpetua. Primo disco solista, tutti gli strumenti suonati da solo, registrazioni iniziate nella casa di Silver Lake e terminate a Joshua Tree. Greg Cuore Selvaggio ha la padronanza di una scrittura classica nel suo involucro soul e nella sicurezza che, prima o poi, tutto esploderà di saturazione romantica. Inevitabilmente. Perché Dulli è uno che soffre e in pubblico, sotterrando nel wall of sound da Grande Rock (un passo prima del mainstream amico dei Foo Fighters, talvolta) amori in pezzi e dolori fraterni come la perdita di Dave Rosser, chitarrista degli Afghan Whigs. Non grandi differenze rispetto alla casa madre, forse un filo di confidenza in più. Per il resto qualche spruzzo digitale (Lockless), sobbalzi emozionali (Black Moon, Pantomima), archi (Scorpio), venature latine (A Ghost), le spinte old school Sub Pop (The Tide, Sempre), persino l’arpa (Slow Pan). Ladies, ma anche Gentlemen. MAURIZIO BLATTO

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E con i Gutter Twins avete in mente di fare qualcosa? “Penso che un giorno faremo qualcosa di nuovo, ma ora siamo entrambi molto impegnati e Mark ha anche una band con sua moglie. Se rimettessi insieme i Gutter Twins, onestamente, vorrei un progetto molto spoglio, minimale, nudo: una chitarra, un pianoforte, due voci, facile da portare in tour. Succederà quando saremo vecchi. Più vecchi di quanto già non siamo (ride, nda)”. E invece con i Twilight Singers? “I Twilight Singers sono finiti. Ho intenzione di suonare un po’ di quei pezzi durante il nuovo tour. Li riformerei, se solo non avessi gli Afghan Whigs, li avevo messi assieme proprio perché non c'erano più gli Afghan Whigs. Le produzioni con i Twilight Singers sono le cose che più apprezzo della mia carriera, e sono molto eccitato alla prospettiva di risuonare quel materiale sul palco. Ci saranno anche un paio di canzoni dei Whigs, ma i pezzi degli AW preferisco suonarli con il gruppo”.

Quale disco degli Afghan Whigs è, secondo te, più vicino a Random Desire? “L'ultimo, In Spades, perché è stato concepito più o meno nello stesso periodo. Quello, insieme a Do To The Beast e Random Desire, è il mio album preferito tra quelli che ho fatto, da un bel po’ di tempo a questa parte. Adoro tutti i miei lavori ciascuno in modo diverso, ovviamente: Blackberry Belle l’ho amato come non mai, e anche Black Love. Ci sono stati momenti diversi nella mia vita ma In Spades è qualcosa di speciale: è la mia versione preferita della band, ci ha suonato un musicista che è scomparso tempo fa (Dave Rosser, nda), è stato l'ultimo album su cui ha suonato e per questo mi è molto caro”.

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GIÖBIA

TESTO DI CL AUDIO SORGE - FOTO DI MELISS A CREM A

P

IL GIOVEDÌ DELLE CENERI PSICHEDELICHE discografica relativa, perché nel frattempo è uscito il live all’Electric Valley e il singolo con la cover degli Hawkwind, Silver Machine, il nostro omaggio a Lemmy”. Nel frattempo è arrivato il contratto con Heavy Psych Sounds. B.: “Era da un po’ che Gabriele ci faceva il filo, era anche venuto a Roma a vederci. D’altra parte con la Sulatron non c’era nessun contratto, era tutto sulla parola e in quel momento non c’era nulla di pianificato, così abbiamo accettato l’offerta della HPS, che sta lavorando benissimo, in modo molto professionale”.

er i Giöbia il 2019 è stato un anno preparatorio per quello che si suppone dovrà essere un grande 2020. Incontro la band all’antivigilia dell’ultimo dell’anno a casa di Bazu e Melissa, tra tappeti rossi, picture discs e copertine psichedeliche: Bazu, Saffo, Betta, Detrji e Melissa (quinto membro virtuale della band) e un gatto. E mentre Bazu mette in sottofondo un introvabile disco folk psichedelico di Mark Fry, inizia la nostra chiacchierata.

Eravate una band in evoluzione? B.: “Stavamo migliorando. Stavamo facendo molti festival europei importanti. Sai, ogni volta c’era da mettersi in gioco con band molto più famose di noi, di qualità molto alta, ottimi musicisti. Dal punto di vista tecnico forse non eravamo all’altezza, ma sentivamo di avare qualcosa di diverso da dire, di portare qualcosa di più originale. È stata una bella sfida. Ad esempio al Freak Valley eravamo in ballottaggio con i Vidunder e gli Hypnos e alla fine hanno preso noi”.

Raccontatemi che cos’è successo in questi cinque anni, dall’uscita di Magnifier fino a Plasmatic Idol. Bazu: “Parlando di Magnifier, posso dire che è stato un album più apprezzato in Italia, ne sono state fatte tre ristampe, e solo successivamente ha cominciato ad essere conosciuto anche all’estero; a differenza del precedente Introducing Night Sound, che aveva avuto un andamento opposto. Magnifier è partito lento ma via via è esploso. Grazie a questo hanno cominciato a chiamarci in vari festival all’estero, ragion per cui abbiamo ritardato l’uscita di Plasmatic Idol fino a oggi. Comunque è stata un’assenza

Quando avete cominciato seriamente a ragionare su Plasmatic Idol? Quando sono nate le prime idee? B.: “Per quel che mi riguarda, subito dopo l’uscita di Magnifier stavo già pensando al disco successivo. Appena avevamo un minuto di tempo cercavamo di metter giù qualcosa. Non è stato agevole, perché avevamo sempre una quantità di live da fare e, siccome ciascuno di noi lavora, non era facile trovare dei momenti liberi. Quando stavamo per concludere un brano con idee in fermento, saltava sempre fuori un Sonic Blast in Portogallo o altro dove suonare”. Saffo: “In realtà il lavoro duro inizia quando tutto è già

TAG: #heavypsychsounds #hawkwind #lamortevienedallospazio #dayjobs #burzum

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GIÖBIA

T E S T O D I C L AU D I O S O R G E

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BAZU

stato registrato. Il lavoro di post produzione, mixaggio, ecc, che prende molto più tempo”. C’è un concetto che sottende Plasmatic Idol? B.: “Non è un concept album, ogni canzone ha un’idea sua, è un viaggio a parte”. Perché “Plasmatic Idol”? S.: “Ogni volta che si deve decidere il titolo di un album, si apre un periodo di ricerca e di proposte, che poi Bazu ‘cazzia’ per il novanta per cento (ride, nda)… È un po’ complesso spiegare da dove nasce. Faccio riferimento alla copertina che centra perfettamente il significato dell’album: l’ha disegnata Metastazis di Parigi. Un idolo, un’entità che potesse rappresentare… come dire, difficile spiegarlo… la coesistenza degli opposti della vita terrena. Nella creazione artistica gli opposti si saldano, c’è una coesistenza tra bene e male, o tra passato e presente, esterno (lo spazio) e interno di noi stessi. Anche nel lavoro grafico, ad esempio, i colori sono opposti ma coesistono. Sono ‘plasmati’ assieme, ma stanno anche separatamente, come in una dimensione onirica”. Specificamente, i testi di cosa parlano? Melissa: “In realtà non sono molto legati tra loro, ciascuno racconta una storia diversa, uno stato d’animo: qualcosa che succede dentro di noi. Questo 'plasmatic idol' non è qualcosa di fisico, ma di metafisico. Il filo conduttore, se si può dire, è qualcosa di oscuro, macabro, pesante. Non sono testi allegri. Riguardano anche il nostro vissuto, traumi esistenziali. Da questo punto di vista, Plasmatic è un album più

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dark rispetto ai precedenti”. S.: ”Credo che i testi siano belli proprio perché non capisci esattamente di cosa stanno parlando, sono metafore. È una ricerca continua. In questo senso, ogni nostro album è diverso”. La title track curiosamente è la più breve dell’album. B.: “È un tema, che riassume l’album, è stato registrato con synth anni 80”. Quali differenze ci sono rispetto a Magnifier? B.: “Forse Magnifier aveva un’oscurità, come dire, più facilmente dichiarata. Nel nuovo c’è un sentimento più sottile, come una pazzia sotterranea, devi ascoltarlo più volte per cogliere questa oscurità meno esplicita. Un altro aspetto è che nel nuovo c’è stato più un recupero del nostro passato legato ai 60’s, anche nel modo di suonare, dall’altro lato abbiamo messo più suoni e colori ‘anni 80’. Effetti che ad esempio usavano i Cure li abbiamo fatti funzionari su una strumentazione 60’s. Il Vox Continental di Saffo era l’organo di Ray Manzarek. Quindi abbiamo un po’ ‘sporcato’ gli anni 60 con un certo tipo di suono anni 80”. In passato avete fatto due cover significative come Magic Potion degli Open Mind e Silver Machine degli Hawkwind: che cosa rappresentano queste due canzoni nel pantheon delle vostre influenze? B.: “Gli Hawkwind rappresentano gran parte della nostra musica. Come i Pink Floyd. Sono l’essenza, il ‘la’ che ha dato inizio a questo progetto. Gli Open Mind sono più legati ai Sabbath, pur mantenendo un’attitudine freakbeat, e a me questo piace moltissimo, perché siamo molto legati ai 60’s. Un’influenza basilare per noi sono stati i Kaleidoskope, quelli americani. Sono stati folgoranti quando siamo partiti: l’uso degli strumenti etnici, la psichedelia. E poi i gruppi della Delirium Records, negli anni 90, sempre quando abbiamo iniziato. In quel momento la psichedelia che si proponeva era quella. Porcupine Tree, Ozric Tentacles, Ship Of Fools”. Betta: “Per quel che mi riguarda il prog italiano dei 70’s mi ha fatto vedere la musica in modo completamente diverso”. Tornando alle origini della band: nasce nel ’94... B.: “È nata senza pretese. Il primo demo è del ’97. Io arrivavo dal black metal. Dopo anni di militanza nell’heavy metal estremo avevo l’esigenza di formare una band che fosse più originale, che andasse oltre. In questo senso i Cure per me sono stati fondamentali. Quello che mi piaceva di loro era che avevano fatto dischi tutti diversi l’uno dall’altro e allo stesso tempo avevano uno stile perfettamente riconoscibile. Da Hard

Stories (2010) in poi, il nostro secondo disco, siamo sempre rimasti con questa formazione. Per anni la nostra è stata una band sotto traccia, la psichedelia non era molto popolare. Suonavamo alle Scimmie (storico club underground di Milano, nda) con un pubblico molto anziano”. Quando le cose hanno incominciato a cambiare? B.: “Direi verso il 2008/2009. Se dobbiamo fare dei nomi, quando sono usciti i Black Angels, che ci hanno dato una bella scossa. Abbiamo suonato con loro al festival di Ferrara ed è lì che abbiamo conosciuto anche il loro fonico, Brett Orrison (che ha lavorato anche con Jack White, nda), quello che ha masterizzato Plasmatic Idol ed altre cose che abbiamo fatto in passato. Fino a quel momento, pur avendo suonato anche in Inghilterra, eravamo una band sconosciuta ai più. All’epoca dividevamo la sala prove con le Vibrazioni. Sia loro sia DJ Henry ci hanno trovato molti concerti. Suonavamo tanto a Milano, e quasi

nulla all’estero. Adesso è il contrario. È stato dopo l’uscita di Introducing Night Sound per la Sulatron (2013) che abbiamo cominciato ad essere conosciuti fuori dall’Italia e a fare diversi concerti”. State già pensando al prossimo album… B.: “Qualche idea già ce l’ho. Attualmente sono in un periodo di grande trip per il folk”. Cosa sta ribollendo nel tuo “calderone”? B.: “È un periodo difficile. Sto anche preparando l’esordio europeo per l’altro mio progetto, La Morte Viene Dallo Spazio (nome tratto dal titolo di un film di fantascienza del 1958, nda), che ha un suono molto più heavy. Ci sono anche Melissa, voce e moog, Angelo, un flautista, io alla chitarra, una ragazza che suona il basso e un batterista. Potremmo vagamente definirli black psychedelia, un po’ alla Oranssi Pazuzu”. M.: “Abbiamo quasi finito le registrazioni di un album. Per ora stiamo ancora cercando un’etichetta che lo pubblichi. Non abbiamo fretta”.

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GIÖBIA

T E S T O D I C L AU D I O S O R G E

In questi ultimi anni il music business è cambiato. B.: “Sì, moltissimo…Il ruolo di YouTube, Spotify… Da quando siamo usciti con Magnifier, è cambiato totalmente il mercato della musica. Ci sono molte più band in giro rispetto a prima; dobbiamo affrontare, o scontrarci se vuoi, con una realtà completamente diversa. È cambiato anche il gusto delle persone, in questi anni”. S.: “Comunque non ragioniamo come un gruppo che deve fare uscire un album l’anno, ci prendiamo i nostri tempi, anche se da una parte sappiamo che questo può essere rischioso”. State per intraprendere un lungo tour europeo. Riuscite a conciliare tutto questo con i vostri day jobs? B: “Be', è molto faticoso. Tipo l’ultima volta, abbiamo finito di lavorare il venerdì e abbiamo suonato nel weekend in Germania, a Dresda e Berlino. E lunedì eravamo già al nostro posto di lavoro. La settimana prima abbiamo fatto la stessa cosa, suonando a Duisburg. Adesso con La Morte Viene Dallo Spazio suoniamo domenica a Avellino e il giorno dopo saremo al lavoro”. Quali sono le tue influenze come tastierista? S.: “Più di tutti i Pink Floyd. C’è da dire che prima di entrare nel gruppo suonavo violino e pianoforte. Mi sono

PLASMATIC IDOL HEAVY PSYCH SOUNDS

Il periodo flower power dei Seeds... B.: “A proposito di cover, ne abbiamo inciso una dei Soledad Brothers, che pensavamo di inserire come lato B in un 45 tratto da Plasmatic Idol. Un blues molto grezzo”. Tornando infine alle vostre primissime origini: come si lega questa idea della strega bruciata (l’ultimo giovedì di gennaio era tradizione bruciare il fantoccio di una strega, un vecchio rito popolare lombardo/piemontese, nda) con la vostra musica? B.: “Quando la band ha iniziato, era molto più legata al folk, alla musica etnica, e quindi anche il nome Giöbia era più congruo… Eravamo dei ragazzini che stazionavano in Piazza Vetra a Milano, e stavamo cercando il nome per la band, lì vicino c’era una libreria, dove abbiamo trovato questo libro, Entità Padane, e c’era la storia di questa Giöbia che mi aveva affascinato, anche perché legata al nostro territorio… Lì vicino poi c’era Zabriskie Point, dove compravamo i dischi, dove ho preso i dischi di Burzum, anche lui una grande influenza. Mi aveva folgorato, anche e soprattutto per l’aspetto garage e lo-fi. Ma ora sono coinvolto da tutt’altro”.

GIÖBIA

Nel corso degli anni, i Giöbia non solo hanno fatto dischi molto diversi l’uno dall’altro ma, per quanto mi riguarda, anche l'uno più bello dell’altro. Plasmatic Idol segna il culmine della loro creatività. Come leggerete poco sopra, la band nasce da una congerie di ispirazioni, anche, se si può dir così, contrapposte tra loro. Plasmatic Idol non è metaforicamente solo l’idolo delle coesistenze impossibili, ma la convergenza di tutte le loro influenze, che ha prodotto nel tempo uno stile unico. Una rivisitazione del passato che si espande e vibra in una eccitante nuova dimensione neoprogressiva. Parhelion è la porta d’ingresso di Plasmatic Idol: una horror movie soundtrack rivisitata; e va a introdurre la squillante In The Dawnlight, una marcia psichedelica che sembra davvero un mix tra gli Open Mind e gli Hawkwind, ma è “plasmata” in un modo molto originale. A questo punto siamo già nella stratosfera dei Giöbia, dove brillano strati di materia 54 | RUMOREMAG.COM

creata uno stile che non è prettamente da organista”. B.: “Le piacciono molto i Seeds, dei quali in realtà ci piacerebbe fare una cover, The Wind Blows Your Hair”.

psichedelica celeste. E allora ecco il jangle sound di Hardwar, fluttuante meteorite sonico che sembra essersi staccato da Their Satanic Majestic Request degli Stones, giungendo agli Hawkwind attraverso un’autostrada astral kraut. The Escape, a seguire, è un gelido e ipnotico space rock. Mentre Far Behind sprofonda nell’'interstellar dark’: vortici astrali post pinkfloydiani di bellezza e fascino barocchi, sirene galattiche e apparizioni aliene. Tra canti psichedelici a ritmo di valzer (Heart Of Stone) e la finale corsa nello spazio allucinata e maestosa di The Mirrors House termina (per ora) il viaggio dei Giöbia. Plasmatic Idol è una suite che non è una suite, ma è come se lo fosse. E lascia dietro di sé come un’eco, alla fine dei suoni, che continua a vibrare nell’atmosfera. Chiamatelo, se volete, freakbeat destrutturato.

85/100

IL NUOVO ALBUM DAL cb FEBBRAIO caca

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GIL SCOT T-HERON JEFF PARKER & THE NEW BREED DOZER THE CL ASH

CARI BOU 58 THE GONERS NADA SURF THE MOTORCYCLE BOY NENEH CHERRY

R E C E N S I O N I FEBBRAIO 2020

225 DISCH I TRAT TATI

GR IMES

60

ru m o re m a ga z i n e

NON VOGLI O CHE CL ARA

74

S Q U A R E P U S H E R TA L K Y N E R D S O V O K H R U A N G B I N & L E O N B R I D G E S S AT O R

DISCO DEL MESE FEBBRAIO 2020

CARIBOU MUSICA IMPROVVISA si potevano certo intuire le ulteriori evoluzioni in evidenza sull’atteso Suddenly. A far da biglietto da visita per il nuovo disco, qualche mese fa, è stata proprio Home. Cioè la traccia che è più vicina all’estetica sonora del progetto Daphni, in cui il musicista canadese - complice l’assistenza dell’amico di sempre Kieran Hebden, ovvero Four Tet - utilizza in maniera originale e funzionale un oscuro campione soul (l’omonimo brano cantato da Gloria Barnes nel 1971).

CARIBOU SUDDENLY CITY SLANG

L’ultimo segnale discografico per Caribou risale al 2014, quando usciva l’acclamato Our Love: a ragion veduta, uno degli album di musica elettronica più riusciti e importanti del decennio che si è appena concluso. Da allora, soltanto il secondo LP firmato come Daphni - l’alias che Dan Snaith riserva alle sue produzioni più esplicitamente rivolte al dancefloor -, il buon Joli Mai (2017), che in qualche modo influenza questo nuovo lavoro ma dal quale non

Anche il secondo brano scelto come singolo, You And I, si muove su coordinate riconoscibili, come la voce di Dan e il delicato gusto melodico, rendendosi però protagonista di imprevedibili cambiamenti e inserti. È come se la struttura stessa delle sue composizioni alludesse a un’instabilità - che dal personale si proietta nel sociale - sopravvenuta in questi anni. Così in Sunny’s Time, con l’improvvisa apparizione di un loop vocale rap (campionato, tagliato e ricucito a piacimento) a metà del suo svolgimento. Quest’ultimo è anche uno dei brani che utilizza un effetto pitch, capace di modificare e plasmare la tonalità con un risultato psichedelico, qui paradossalmente proprio su DI GIORGIO VALLETTA - FOTO DI THOMAS NEUKUM

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uno strumento tradizionale come il pianoforte. Come in apertura, in maniera più lieve, nell’intima conversazione di Sister. Per altri versi, le citazioni vintage riescono nell’intento di sottrarre a una precisa dimensione temporale il materiale del disco, come accade con il sorprendente ed emozionante finale di Lime. Altrove, come in Never Come Back, Dan Snaith ribadisce la sua abilità nel confezionare prototipi dance pop efficaci quanto distanti dalle banalità. Certo, la sua natura sonora resta fondamentalmente elettronica, ma gli elementi e riferimenti che Caribou inserisce in questo viaggio sono di natura diversissima e rendono il tutto di fruibilità universale, pur restando a marcata distanza dalle tendenze dominanti nella musica pop internazionale. E quando, dopo aver attraversato nella sezione finale la fragile e intimista melodia di Magpie, l’album arriva alla sua conclusione con una Cloud Song di magnifica vulnerabilità (in cui Dan canta “I’m broken, so tired of crying / can’t seem to find the way to you”), ci si ritrova definitivamente conquistati.

86/100

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

...AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD X: THE GODLESS VOID AND OTHER STORIES

AA.VV.

TRISTAN ARP

ÁSGEIR

MOSTAKELL

HUMAN PITCH

ONE LITTLE INDIAN/CAROLINE INTERNATIONAL

ELECTROSTEEN

SUGGESTED FORMS

BURY THE MOON

Promuovere una visione alternativa di una Palestina che “nell’ultimo mezzo secolo è stata vista quasi esclusivamente attraverso le lenti di guerra, occupazione e sofferenza”: missione semplice e legittima, quella del progetto Electrosteen. Realizzato tramite una residenza collettiva di produttori locali presso il Popular Art Centre di Ramallah, con accesso libero ai suoi archivi audio di musica tradizionale, e il compito di combinare quelle fonti con suoni urbani attuali. I nomi sono quelli di Sama’ (DJ di fama internazionale e direttrice artistica del tutto), Muqata’a, Bruno Cruz, Julmud, Nasser Halahlih, del rapper Shabjdeed (occhio al suo album Sindibad El Ward, del 2019). I suoni toccano trap e dub, house e grime, electro e dabke, riuscendo quasi sempre a evitare recuperi banali e soluzioni facili.

“A Detroit, Berlino e NY c’è molta musica da club dura, scura e con cassa dritta: mi ispira ad andare dalla parte opposta. Non perché non la rispetti, ma perché esiste già”. Fossero tutti così chiari e determinati nelle motivazioni, e così capaci di trasformarle in musica interessante come quella di Suggested Forms. Con quattro tracce attinte dai due EP di debutto, tre nuove e tre remix firmati Machine Woman, Beta Librae e Kelman Duran, il primo album del produttore newyorkese (ma nato e formatosi nella Detroit più techno) dice infatti proprio quello: restando in pista, e facendo ballare con musica intricata, scivolosa, piena di svolte inattese e rivelazioni. Molto percussiva e piena di dettagli anche minuscoli, giocosa e sincopata, che osa scrivendo pagine non scontate fra house e fremiti bass.

ANDREA POMINI

ANDREA POMINI

DORIANA TOZZI

BEAT CITY TUBEWORKS

BLACKBERRY SMOKE

BLOOD INCANTATION

ALICE BOMAN

THE SIGN

EARACHE

INSIDE OUT

Era facile associare Trail Of Dead e At The Drive-In, a fine ‘90: texani, post hardcore evoluto, tecnica invidiabile e tentazioni progressive. Quando gli ATDI han generato i Mars Volta, i Trail Of Dead hanno sentito forse di dover fare la stessa cosa, sacrificare il songwriting e dedicarsi full time alle poderose seghe mentali che li han resi inascoltabili nel giro di un disco. Va dato loro atto di non aver negoziato sulla loro visione: sono l’unico gruppo felice d’essersi tramutato in piena coscienza nell’imitazione cinese di se stesso, e oggi sfoggiano i risultati della mutazione con un orgoglio invidiabile. Viene quasi naturale fare il tifo per loro. Peccato per la musica. FRANCESCO FARABEGOLI

46/100

79/100

TOP ROCK

A stretto giro esce il secondo album di questa bella promessa svedese, che guarda al r’n’r degli anni 90 di Hellacopters e Backyard Babies (e, volendo, mettiamoci anche Hardcore Superstar). Rispetto all’esordio, cambia poco o nulla. In ogni brano dei BCT c’è sempre almeno un riff di Chuck Berry. Fatto funzionare in modo frenetico. Sembra di ascoltare una versione sleazy pub rock di Eddie And The Hot Rods (vedi Roadrunner, che no, non è quella di Bo Diddley), oppure, al servizio di ballate spedite e anthemiche tipo Fading To Grey, proprio gli Hellacopters. Se devo essere sincero però, dal loro secondo album mi sarei aspettato, come dire, un po’ più di originalità, un piccolo scatto in avanti. A cominciare dal titolo del disco… CLAUDIO SORGE

68/100

HOMECOMING – LIVE IN ATLANTA

È anche una questione di… etichetta. Con il triplo album dei Blackberry Smoke, che raccoglie le loro più belle canzoni in un caldo live di ritorno al Tabernacle Theatre di Atlanta, la Earache celebra il suo definitivo e trionfante abbraccio con la musica americana. Diciamo pure con il rock americano classico. La stessa Earache che scopri i Napalm Death, i Carcass, gli Entombed e ha ora come gruppi di punta i Rival Sons e i Blackberry Smoke. I Blackberry sono puro rock americano a 360 gradi. Fondamentalmente una country southern rock band eclettica, che riverbera stili diversi: dagli Skynyrd, ai Black Crowes, a Tom Petty e Chuck Berry. Homecoming è da ascoltare rapiti dall’inizio alla fine, per sentire (anche) quant’è bravo Charlie Starr, cantante, chitarrista e motore inesauribile del gruppo. CLAUDIO SORGE

80/100

81/100

HIDDEN HISTORY OF THE HUMAN RACE DARK DESCEND

C’era grandissima attesa per il secondo disco del gruppo di Denver: dopo il notevole Starspawn di quattro anni fa e una manciata di demo, EP e split si attendeva la consacrazione nei grandi nomi del death metal contemporaneo. Ebbene, la consacrazione c’è stata: le quattro tracce di Hidden History Of The Human Race sono un esempio estremamente funzionale di sintesi tra passato (Morbid Angel e Death, in particolare post Human) e futuro fantascientifico. Accostabili senza timore a pezzi grossi come Demilich e Timeghoul, i nostri imbastiscono un viaggio nello spazio remoto alle origini dell’uomo, sonorizzato da un riffing costante e ficcante, un growl allo stato dell’arte e una varietà di soluzione compositive – e tecniche – invidiabile. STEFANO FANTI

85/100

Il cantautore islandese scolpisce nel ghiaccio 11 nuovi brani come statue sonore dai profili artici ammorbiditi dai più delicati tratti somatici delle melodie calde ed eteree che scorrono liquide lungo questo suo terzo LP. Anticipato dalla travolgente Young e dal più recente Lazy Giants, il nuovo lavoro di Ásgeir vede ancora una volta l’artista collaborare con suo padre, il poeta Einar Georg Einarsson, per la stesura dei testi. Non ci si discosta troppo dall’intimità di In The Silence e dalle linee elettroniche innevate che, come accadeva anche in Afterglow, scendono delicatamente sull’elegante folk pop delle composizioni, con qualche traccia di R&B, ma Bury The Moon (Sátt’ in islandese) mostra un artista più maturo che comincia a fare i conti con il proprio io e con il mondo che lo circonda.

80/100

DREAM ON PIAS

Primo album per la cantautrice svedese che si era fatta conoscere nel 2013 con l’EP Skisser, i cui brani erano nati nell’intimità della sua camera, come versioni demo da riregistrare in studio, e invece il loro tocco spontaneo e morbido convinse l’etichetta a pubblicarli in quella stessa forma, con quelle stesse imperfette quanto sublimi registrazioni domestiche. Sin dall’inizio era evidente che il talento dell’artista di Malmö risiedeva nelle sue melodie sinuose e intime e nella voce sospirante che danza in punta di piedi nel castello di cristallo in cui abitano i brani, un posto magico dove non c’è bisogno di pareti di sovraincisioni o di suppellettili ornamentali. In questo LP i suoni si fanno più puliti ma il folk malinconico è sempre intimo, impalpabile e illuminato da una tenue luce di speranza. DORIANA TOZZI

75/100

RUMOREMAG.COM | 59

ISOBEL CAMPBELL

CITY AND COLOUR

COOKING VINYL

STILL

THERE IS NO OTHER

GRIMES MISS ANTHROPOCENE 4AD

Arrivano i ruggenti anni 20, con l’eco del decennio precedente ancora in testa. Quanti dischi rimarranno, oltre le sirene immediate dell’hype? Il rock (?) potrà cantare le nuove migrazioni climatiche? Mentre le opposte fazioni affilano le armi, pronte a bruciare Babilonia o a incoronare nuovi effimeri idoli, qualcuno dovrà pur raccontarla quest’epoca d’incerta fluidità. Claire Boucher è andata oltre: ha deciso di impersonarla. Attraverso un’evoluzione, appetibile tanto a Katy Perry quanto alla PC music. Accettando l’abbraccio perverso del neo capitalismo “illuminato” (Elon Musk, il boss di Tesla, è il suo fidanzato) o trasformandosi in gioco elettronico (il nuovo Cyberpunk 2077). L’autrice del Visions è una delle poche plausibili sintesi alle mille e uno ipotesi di futuro musicale (e non). Pronta a cogliere tutta l’angoscia di un mondo, che s’infiamma (letteralmente). L’esplosione pop del precedente Art Angels si rabbuia in uno scuro groviglio tecnologico. Tornano il cyberpunk, il processamento estremo della voce e l’elettronica plumbea. Grimes è la dea del riscaldamento globale, in un mondo dove l’umano si trasforma, aggrappandosi a pochi ricordi. Delete Forever è un sospiro acustico, senza la solarità di California, Violence una fucina aliena e 4ÆM vive fra sudori tropicali e accelerazionismo cosmico. “Io prego, ma il mondo brucia”, invoca la versione manga di Kate Bush in New Gods. Non rimane che illudersi sul baratro, fra le chitarre nu metal di My Name Is Dark o sfidare Charli XCX con la gommosità perversa di You’ll Miss Me When I Am Not Around. “Voglio giocare, anche se perderemo” conclude l’elegia digitale di IDORU. Serenità terminale. Grimes sfida il panico da estinzione, accettando il mistero della post umanità, provando a giocarci piuttosto che spiegarlo. Il nuovo decennio l’attende. MAURO FENOGLIO

85/100

60 | RUMOREMAG.COM

Cinque saranno anche passati in guai legali dopo il fallimento di un’altra etichetta, ma non sono pochi i 14 anni (scorporando i discreti lavori in coppia con Mark Lanegan) dall’ultimo disco in solo dell’ex B&S. Un matrimonio, un trasloco a Los Angeles e la scoperta dei benefici della meditazione, il consuntivo privato del periodo. E il senso di un talento fuori allenamento o trascurato, se TINO inciampa sempre un attimo dopo aver preso ritmo: notevole il codazzo soul di Hey World messo a metà disco a mo’ di sveglia, un po’ come l’elegantissima e adatta al nuovo domicilio The Heart Of It All. Sono più i guai però, con la Campbell un po’ a vivere di rendita (a dir poco ridondante Runnin’ Down A Dream) e un po’ a sperare che il fumoso diventi per intervento divino fascino sfuggente (Boulevard). FRANCESCO VIGNANI

63/100

A PILL FOR LONELYNESS

Una pillola per la solitudine, ma non tanto per combatterla quanto per accoccolarcisi dentro, lasciando fluire pensieri, ricordi ed emozioni. È questa la ricetta di Dallas Green, che torna a consolarci e accarezzarci le ferite con il sesto lavoro a nome City And Colour: un album denso di delicatezza e intensità come solo il musicista canadese e non tantissimi altri sanno fare, addentrandosi con le orchestrazioni epiche e malinconiche dell’emo primordiale nei nostri spazi più vulnerabili. Difficult Love, Mountain Of Madness, Song Of Unrest, The War Years, anche solo i titoli raccontano storie che appartengono a tutti, così come a tutti appartengono le indiscutibili bellezza e sincerità di questi brani, davvero 11 pillole di ricostituente per l’anima. LETIZIA BOGNANNI

75/100

DAN DEACON

DIRTY PROJECTORS

DOMINO

DOMINO

MYSTIC FAMILIAR

SING THE MELODY

Il compositore elettronico Dan Deacon (Baltimore, MD) sta da ultimo cercando di accreditarsi come compositore colto? Andrebbero in questo senso i suoi studi accademici e le ultime mosse: la scrittura per balletto in collaborazione con Justin Peck, le recenti colonne sonore, i concerti con la Baltimore Symphony Orchestra. Senza contare che la copertina di Mystic Familiar richiama un font (ITC Avant Garde) usatissimo nella grafica dell’elettronica del Novecento. Deacon in Mystic Familiar gioca a fare il verso a Philip Glass (Weeping Birch), guarda alle composizioni cosmiche europee (Hypnagogic), riesuma Eno (Become A Mountain) ma non rinuncia a picchiare duro lanciando drum machine, sintetizzatori e arpeggiatori a schiantarsi contro il muro del suono. (Arp II: Float Away, Arp IV: Any Moment).

Terzo capitolo della serie Domino Documents. Tocca alla creatura guidata dal vulcanico David Longstreth. Fotografata dal vivo ai Power Station Studios di New York, nel 2018, con la formazione del tour di Lamp Lit Prose. Le collaudate voci eteree di Felicia Douglass, Maia Friedman e Kristin Slipp, con Nat Baldwin e Mike Johnson alla sezione ritmica, a coadiuvare i cubismi melodici del leader. Originali che non subiscono stravolgimenti, ma acquistano volume proprio nel dosaggio degli orpelli d’arrangiamento. Cosi What Is The Time rivela la sua gioia R&B e That’s A Lifetime una complessità che non si specchia. E c’è spazio per il medley del tormentone FourFiveSeconds (di cui Longstreth è coautore con Kanye West e Paul McCartney) e Knotty Pine, scritta con David Byrne. Si respira divertimento.

ANDREA PREVIGNANO

MAURO FENOGLIO

60/100

73/100

PSYCH DISASTROID

DUSTER

HEAVY PSYCH SOUNDS

MUDDGUTS

MORTAL FOOLS

DUSTER

Giungono al terzo album i veterani di San Francisco Disastroid e, a giudicare da quello che sentiamo, rimpiangiamo di non averli conosciuti prima. Ci pensa la HPS a dar loro una nuova opportunità. Mortal Fools è una collezione di canzoni dal taglio super heavy molto originale. C’è molto dell’alternative heavy di questi ultimi anni nella loro musica. Che non è facilmente definibile. Sludge stoner rock sfregiato da acide dissonanze e molto dark. E con un bassista che nel suo muoversi come un bulldozer ricorda il Mike Watt dei Minutemen. C’è una radice postcore nel loro suono, infatti. Ma è a supporto di una più allargata visione post grunge. Per dire, la title track pare un cupo, misterioso grunge sfuggito di mano a Kim Thayil. E Bilge ricorda i Nirvana. Brutalità e melodie inquiete. Da sentire.

Pochi mesi dopo la retrospettiva targata Numero Group che inseriva i Duster in una posizione privilegiata della gerarchia post rock, il gruppo torna con un album che upgrada le intuizioni originarie. Duster è un sogno per chi ha amato quella galassia di suoni che proliferava fra le pieghe delle college radio, fatta di melodie pigre, chitarre stralunate e voci catatoniche. Le architetture precarie del gruppo non si sono spostate da quell’immaginario, ma se possibile il loro songwriting ha acquistato una maggior profondità per via di melodie solennemente malinconiche, di un rumorismo crepitante e di un afflato minimalista. Brani come Copernicus Crater e Chocolate And Mint sono accorate esplorazioni chitarristiche che incantano e testimoniano l’inattesa vitalità di un’estetica che si credeva superata.

CLAUDIO SORGE

DIEGO BALLANI

ELEPHANT STONE

ELKHORN

FUZZ CLUB/ELEPHANTS ON PARADE

BEYOND BEYOND IS BEYOND

76/100

HOLLOW

80/100

THE STORM SESSIONS

Grazie al cielo in tempi di innocue canzoncine liquide da centro commerciale qualcuno continua a pubblicare concept album pensanti, persino costruendo due capitoli a sé stanti (i due lati del vinile): The Beginning, ovvero la distruzione della terra. E The Ending, la fine di tutto sempre a causa dell’incuria e brama di potere dell’uomo. So che detta così potrebbe prefigurarsi una discreta rottura di coglioni. Invece il gruppo di Montreal guidato da Rishi Dhir è abile a non esagerare, ad esempio nell’uso del sitar (strumento d’elezione del nostro che l’ha suonato con Beck e Brian Jonestown Massacre). Nella sua distopia fantasy, Hollow mette in scena una dolce leggerezza, un fanciullesco disincanto psych pop, come un’ipotetica colonna sonora di uno spettacolo per bambini scritta da Zachary Cole Smith.

Immaginate di cancellare un concerto causa nevicata, e di occupare la serata chiudendovi nello studio di un amico a improvvisare. The Storm Sessions, sesto album in cinque anni del duo newyorkese, è la registrazione del risultato: due lunghi brani, uno per facciata, divisi in tre parti ciascuno e intitolati semplicemente Electric One e Electric Two. Viaggi strumentali in cui la 12 corde acustica di Jesse Sheppard e la sei corde elettrica di Drew Gardner (con l’amico di cui sopra, Turner Williams, al bouzouki e allo shahi baaja) si intrecciano, una più ritmica e l’altra lanciata in solismi acidi, creando un’armosfera magica e sottilmente tesa fra folk, psichedelia e spiritualità. E scrivendo una nuova pagina nella grande tradizione del suono chitarristico primitivista americano.

MANUEL GRAZIANI

ANDREA POMINI

74/100

78/100

CB3

AEONS

THE SIGN

Nel puro e semplice formato basso/chitarra/batteria (con aggiunta di effetti space) gli svedesi di Malmö CB3 (Charlottas Burnin’ Trio) riescono a costruire, sulla base di influenze varie e sorprendenti (si va dai King Crimson duri e inflessibili di Red alla Mahavishnu Orchestra) strutture e percorsi tanto essenziali quanto inusitati e interessanti. Ai loro excursus strumentali, che sono sostanzialmente delle jam, i CB3 imprimono una disciplina ferrea, non disgiunta da una furiosa convulsione space rock, che in pezzi come Warrior Queen potremmo anche definire neo progressive (ma sempre super heavy) e nell’ipnotica Zodiac, semplicemente, heavy krautrock. Mentre nella conclusiva Apocalypse spuntano mellotron e sax dei King Crimson. Puro heavy space prog reinventato.

80/100

A CURA DI CLAUDIO SORGE

SOLACE

COLOUR HAZE

BLUES FUNERAL

ELEKTROHASCH

THE BRINK

WE ARE

Si formano nel New Jersey, nel 1996, e a tutt’oggi non sembrano aver perso la loro primitiva energia stoner/ metal. Le loro influenze arrivano dall’hard rock ’70 e da certa NWOBHM, ma non sono mai riusciti ad esprimerle compiutamente. Questo è il loro nuovo album. Un opus potente, monumentale, ma non illuminato da molta fantasia. Gragnuole di riff, organo Hammond, un drive monolitico e poco variato che non cambia mai.

25esimo anniversario per i Colour Haze del chitarrista Stefan Kogler (Josiah, Cherry Choke, nonchè patron della Elektrohasch): We Are è l’ennesimo viaggio prog psichedelico. Caldi desert riff e fughe electric jazz ’70; potenza heavy e giostre e ricami prog. Sulla scia di certi Motorpsycho, Kyuss, Grateful Dead, Ozric Tentacles. Tutti gruppi questi - tranne i Kyuss - che hanno peccato nella loro carriera di una certa prolissità…

SURYA

DEAF PROOF

AUTOPRODUZIONE

CLOSTRIDIUM

63/100

OVERTHROWN

I Surya hanno una visione ampia delle “cose psichedeliche”. Un sound tra heavy e prog, ricco di aperture e ipnotico. Come quando i Byrds dilatano Eight Miles High; ma immaginateli da una prospettiva heavy psych americaneggiante. Fantasia che corre a briglia sciolta, paesaggi desertici, pioggia acida, temperatura in ebollizione. Non siamo ancora all’eccellenza stoner, ma poco ci manca.

75/100

68/100

BRAIN UTOPIA

Teutonici bombardieri stoner, i Deaf Proof fanno esplodere uno space fuzz, le cui basi psichedeliche stanno originariamente nei Kyuss; che loro, come avrete immaginato, dilatano fino al parossismo. La title track di oltre 14 minuti è un’odissea fuzz, con interminabili assoli ragablues e un oscuro martellamento che ne sottolinea l’estenuante corsa. Per certi versi riecheggiano anche i (primi) Samsara Blues Experiment.

78/100

RUMOREMAG.COM | 61

PSYCH

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

HIP HOP

HIP HOP EMINEM

REBECCA FOON

INTERSCOPE

CONSTELLATION

MUSIC TO BE MURDERED BY

LIL DARKIE

THIS DOES NOT EXIST LIL DARKIE

Lil Darkie, classe 1998, si è fatto notare grazie alla scena Soundcloud, è membro fondatore della Spider Gang e, fino al 2016, si firmava Brahman. Ironico, satirico, irriverente, con uno stile che ha come riferimento principale il rap underground lo-fi e rumoroso, l’artista californiano di base a Los Angeles passa da sfoghi urlati a introspezioni, si concede incisi punk hardcore ma anche un pezzo voce e chitarra, dimostrando in tutte le 13 tracce di avere un’attitudine davvero indipendente. Questo esordio ufficiale arriva dopo vari singoli ed EP in cui, per esempio, cita Steinbeck, Melville e fa metafore provocatorie in cui tira in ballo addirittura l’olocausto. Nell’era degli exploit fulminei, il mercato darà modo a Lil Darkie di crescere?

77/100

A CURA DI LUCA GRICINELLA

MAD MOON

CURRENṨY

BREAK ALL

JET LIFE

MAD SPACE

Akai Solo si rifà vivo a stretto giro rappando sulle basi di iblss e non di Pink Siifu. Anche in questo caso, complici i suoni per lo più dilatati, lo stile è sognante. Solo ha la capacità di far concentrare l’ascoltatore sulla sua voce e, di conseguenza, sui testi intimo/ filosofici con cui si sta facendo apprezzare. I due artisti fanno parte di una scena underground newyorchese che si sta animando.

73/100

BACK AT BURNIE’S

Il rapper di New Orleans, super prolifico (impossibile stare dietro ai suoi mixtape e agli album collaborativi), pubblica con quasi due anni di ritardo il nuovo album ufficiale. Sequel del successo del 2011, Weekend At Burnie’s, quest’ultimo capitolo solista funziona quando si sintonizza sulla frequenza dopata e notturna, specialmente nella seconda parte in cui il picco è il duetto con Rick Ross.

64/100

KOOL KEITH

MEDHANE

VOLUNTEER MEDIA

GRAND CLOSING

SAKS 5TH AVE

L’underground, per sopravvivere, pare costretto a produrre dischi senza soste e Keith (1963) da anni ha precorso questa tendenza. Nel suo terzo album da luglio a oggi, le basi sono di Landon Price Beats e il flow è buono (il talento resiste). Titoli e testi attingono da esperienze personali ma soprattutto dal mondo della moda: una sorta di concept album che prende il nome da un noto grande magazzino.

67/100

OWN PACE

22enne di Brooklyn, già accostato al chiacchierato collettivo sLUms, Medhane ha collaborato, tra gli altri, con Earl Sweatshirt e MIKE (presente anche in questo disco). Attitudine introspettiva, testi che parlano di depressione e atmosfere oscure e fumose con qualche tocco di soul a illuminare. Alla fine, il risultato è costituito da 12 canzoni distensive, niente di pesante o “contagioso”.

73/100

Eminem apre l’11esimo album - uscito ancora a sorpresa - ribattendo alle tante critiche ricevute dal precedente Kamikaze. Qui il livello sembra superiore già dagli ospiti: basterebbero Anderson .Paak, Black Thought e Q-Tip (loro due nello stesso brano) ma i più “strillati” sono Ed Sheeran, Young M.A. e lo scomparso Juice WRLD (con una bella melodia dal sapore trap). Darkness suona come il grido d’aiuto dell’America degli abusi, psicofarmaci dipendente, che può diventare così violenta da fare stragi come a Las Vegas nel 2017 (vicenda da cui prende spunto il testo). La violenza torna in Stepdad ma, in generale, l’album spazia tra stili, toni e temi, spesso autobiografici, per quanto su Eminem non ci sia più molto da scoprire, assunto che sembra anche l’approccio migliore per continuare ad ascoltarlo.

Già componente di Silver Mt. Zion, Esmerine e Set Fire To Flames, la violoncellista canadese ha intrapreso da qualche anno un percorso solista che inizialmente si è manifestato attraverso la sigla Saltland, incentrata sui loop e la manipolazione delle fonti sonore. Ora la Foon ci mette il nome, per una serie di canzoni minimali imbastite principalmente su un filo di voce – ricco di sfumature, però - e sul piano, che scandisce il trascorrere di un tempo sospeso. Talvolta con l’aiuto di un contrabbasso (Richard Reed Parry degli Arcade Fire), di chitarra e organo (Jace Lasek, anche coproduttore) e di occasionali ospiti, lambendo con slancio ritmico, in Wide Open Eyes, un pop epico ma sempre originale. Una luna crescente – la Waxing Moon del titolo – screziata di cameristiche luminescenze dream pop.

LUCA GRICINELLA

ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

MARGARET GARRETT

KATIE GATELY

68/100

LIVE AT THE CHARLES RIVER MUSEUM OF INDUSTRY SFTRI

Qualcuno si arrabbierà per la genericità della definizione, ma non sono un esperto di musica africana. O che arriva dall’Africa. So che Margaret Garrett del duo di blues puro Mr. Airplane Man da tempo ha cominciato a collaborare con musicisti africani, contaminando (be’, forse non è la parola esatta) il Delta blues urbano garage degli Airplane Man, ispirato a John Lee Hooker e Elmore James, con nenie e melodie africane dei Tuareg e dei Gnawa. E quest’album, che incide da sola, è un tentativo che va in quella direzione. In realtà non è da proprio da sola, ma aiutata da Grem Porter (batteria) e Djim Rynolds (basso). Probabilmente questa è una formazione destinata a rimanere, perché i Mr. Airplane Man sembrano essere entrati in una fase di stallo. CLAUDIO SORGE

80/100

62 | RUMOREMAG.COM

WAXING MOON

75/100

LOOM

HOUNDSTOOTH

È dedicato alla madre scomparsa a causa di un tumore nel 2018 il secondo album dell’artista sperimentale losangelina, che arriva a più di tre anni dall’acclamato Color. Ecco perché, in netto contrasto con gli accesi colori del precedente, Loom si apre con la plumbea Ritual. Le armonie vocali stratificate della successiva Allay danno il la a una sequenza di umore sempre più minaccioso - come suggerisce il titolo stesso dell’album -, che raggiunge un primo culmine nella lunga Bracer, densa di disarmonie e rumori campionati. Katie si immedesima nella medicina sull’andamento tristemente marziale di Tower e nella madre quando in Flow la sua voce armonizza su melodie dal sapore sacro, ma riesce a rendere l’intero album accessibile ed emozionante grazie a una virtuosa, impeccabile cura sonora. GIORGIO VALLETTA

79/100

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

GLOW KIT

GODSTICKS

ALIEN SNATCH!/KANEL

KSCOPE

NAÏVE ANTLERS

INESCAPABLE

Jay Reatard ha portato il weird garage nell’alveo del pop. A dieci anni dalla morte dobbiamo essergliene ancora grati: giornalisti, appassionati di certi suoni e band sparse nei quattro angoli del pianeta. Tipo il duo danese che ha esordito proprio nel 2010 con la P. Trash dell’indimenticato Peter Eichhorn. Invero qui siamo più dalle parti del college rock: il pezzo d’apertura See Your Friends About It è pura melodia ma a una certa le chitarrine miagolano come gattini acciaccati dal tram. È l’inizio di un gran disco weird alt pop che prosegue nella media fedeltà di Tripping Away, nelle melodie beatlesiane coperte da lava sonica di All I Could…, nella brina acustica di Let Your Hair Down. Meravigliosamente ingenui e felici, come cantano in Naive, che pare una ghost track di un best postumo dei PUSA.

Il duro percorso verso la consapevolezza dei propri limiti ha condotto Darren Charles e soci a doversi confrontare con i lati più oscuri della propria realtà interiore. Da questa presa di coscienza sono nate le nove nuove composizioni della band gallese, dalle quali traspare infatti un maggior trasporto emotivo rispetto ai lavori precedenti. Sul loro crossover, nei fatti più alt metal che prog, soffiano qui brezze melodiche intime ed efficaci e i tempi dispari affilati e gli intarsi strumentali articolati – che sono da sempre il punto di forza della band – per la prima volta trovano sostegno e conforto nelle ammalianti linee vocali, più incisive rispetto alle prove del passato, dando a questo disco sonorità più piene e una cubatura emotiva più profonda in grado di portare alla luce paesaggi nascosti.

MANUEL GRAZIANI

DORIANA TOZZI

76/100

68/100

LUKE HAINES & PETER BUCK

BEAT POETRY FOR SURVIVALISTS CHERRY RED

EXIT GHOST

ARTIFICIAL INSTINCT

L’incontro fra due laterali assoluti del rock (uno per la troppa complessità, l’altro per decisione propria, dopo aver assaporato il miele dell’Olimpo) non poteva che essere bizzarro. In sostanza, Buck acquista uno dei ritratti di Lou Reed dipinti da Haines al prezzo di 99 sterline. Non si sono mai visti prima, ma decidono che è ora di fare un disco insieme. Sembra una barzelletta. La cosa buffa è che viene fuori una collezione di bozzetti, che tira fuori Haines dalle recenti secche d’ispirazione e riaffaccia la chitarra di Buck in modo sorprendente. Occultisti famosi (Jack Parsons), una radio che trasmette solo canzoni di Donovan (Apocalypse Beach), Bigfoot e Pol Pot. La svagatezza resuscitata degli Auteurs e le sinusoidi chitarristiche dell’ex R.E.M. E Ambulance qualche brivido lo fa venire.

Componente dei Tangerine Dream tra ‘80 e ‘90, poi compositore per cinema e TV (Halt & Catch Fire), il musicista austriaco inaugura il catalogo Artificial Instinct (sottoetichetta modern classical di Fire) con un lavoro che fa ricorso all’elettronica per avvolgere le partiture in un sottile foschia a base di elettricità statica e field recordings appena percettibili, ma che per il resto si affida a pianoforte e archi sparsi, strumenti che disegnano minime melodie tenui e malinconiche, galleggianti sulla radiazione di fondo. L’innesco lo offre Guglielmo Marconi: le onde sonore non scompaiono mai del tutto, ma si affievoliscono dissolvendosi nel background noise del mondo. Suggestione che l’autore sembra voler applicare ai propri personali ricordi e fantasmi, riuscendo a toccare anche le nostre corde.

MAURO FENOGLIO

ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

77/100

THE GONERS Mentre aspettavo un nuovo album dei Salem’s Pot, nel frattempo sono arrivate due notizie: una buona e una cattiva. La cattiva era che i Salem’s Pot si erano sciolti; quella buona che il loro mastermind, Nate Gone, aveva formato un altro gruppo con fuoriusciti dagli Yvonne, i Goners. Il cui album d’esordio si è subito materializzato. A pubblicarlo non poteva essere che la Riding Easy, già casa dei Salem’s Pot, dei quali i Goners diventano a questo punto la continuazione. Cosa cambia rispetto ai Salem’s? Nulla, o quasi nulla. Ma dentro questo “quasi” non ci sono cose trascurabili. Soprattutto una dinamica, una freschezza e direi anche un’energia maggiori. E un appeal più garage punk rock. Se Alice Cooper e Roky Erickson erano i numi tutelari del teatrale dark’n’roll dei Salem’s Pot, che amavano suonare travestiti da strani uccelli/ vampiri, il sound dei Goners si libera di certi orpelli, diventa più crudo e diretto, ingloba riverberi di instrumental surf e riff para

PAUL HASLINGER

78/100

GOOD MOURNING RIDING EASY

stoogesiani, e mostra i ragazzi non più “travestiti”, ma esattamente per quello che sono: punk rockers del 2000. Sostanzialmente i Goners sono una band rock’n’roll, ma eclettica, a suo modo malevola e nostalgica dell’epoca d’oro glam punk. L’album si apre e chiude allo stesso modo: con una svisata surf che va a sfociare in torridi ritmi punk. In mezzo sta un sacco di r’n’r super eccitante. Ad esempio la degenerazione alicecooperiana di High, Low And Never In Between, il garage punk come fosse un malsano mix di Kinks e Kiss di World Of Decay (e cosa se no?), la ballata decadente con riverberi da Bowie di Aladdin Sane di Good Death, il brumoso r’n’r dai riflessi optical psichedelici di Down Out. Quanto basta non solo per non rimpiangere i Salem’s Pot, ma per dire che una nuova stella r’n’r lassù al Nord si è accesa. CLAUDIO SORGE

80/100

RUMOREMAG.COM | 63

HUMANS ETCETERA A NORMAL TEMPORARY REACTION TO LIFE EVENTS NEFARIOUS INDUSTRIES

GIL SCOTT-HERON WE’RE NEW AGAIN: A REIMAGINING BY MAKAYA MCCRAVEN XL

GIORGIO VALLETTA

89/100

64 | RUMOREMAG.COM

WE ARE NOT REALLY HERE ELAB

Potremmo definirlo sommariamente uno sperimentatore rock. Chistopher Henry è un nerd americano che ha passato metà della sua vita in Cina, dove ha collaborato con band come Fuck Your Birthday e Polyphozia. E ora guida questa sua congrega di indie lunatici chiamata Humans Etcetera. Questo è il loro decimo album. Solipsista eclettico di ciò che con varie definizioni - nessuno può dire di avere quella “giusta” - chiamiamo psichedelia, Henry ha spesso descritto alcuni suoi lavori come grunge rock acustico e noise/ambient music. Frammentate composizioni che mettono assieme ritagli e scorie punk rock e visioni lo-fi psichedeliche distorte, che sembrano in alcuni momenti perdere la cognizione del tempo e dello spazio. E lontana rimbalza un’eco dei Radiohead…

La movenza è sinuosa, circolare, ma al contempo inquieta e reduce da un minuzioso ricavo espressionistico. Il secondo atto del progetto concepito da Dean Garcia dei Curve e Mark Wallbridge insiste nell’estremizzazione della portata goth shoegaze tipica del progetto madre, si veda Cuckoo, e riadatta con stile la voce minimalista e ovattata del trip hop. In questo flusso minimal electro noise, dove non mancano cenni verso il supporto cinematico (Saphirr Bomb), le voci di Rose Berlin e Preston Maddox (Say Goodbye To You) contribuiscono a rinforzare la coloritura astratta e al tempo stesso a mediare la distorsione onirico/cerebrale; come in un quadro dei Cocteau Twins originari mediati dal nero di Nine Inch Nails e Depeche Mode (Husk e The Night Growls ne sono validi esempi).

CLAUDIO SORGE

STEFANO MORELLI

KAYTRANADA

THOMAS KÖNER

RCA

MILLE PLATEAUX

77/100

Il testamento sonoro di Gil Scott-Heron viene rigenerato (“reimmaginato”) in un’ulteriore versione, dopo quella realizzata da Jamie xx nel 2011, pubblicata pochi mesi prima della scomparsa dello stesso musicista americano. Prodotto e voluto da Richard Russell per la sua XL, I’m New Here arrivava dopo 16 anni di silenzio discografico e accostava l’asprezza della sua poesia a strutture elettroniche minimali. Qui le sue riflessioni ritrovano un panorama sonoro affine al suo percorso musicale storico, che lo ha visto muoversi - soprattutto negli anni 70, complice l’intensa collaborazione con Brian Jackson - attorno a funk, soul e jazz. Merito di uno degli artisti più importanti della nuova e appassionante scena jazz di Chicago, il batterista, tastierista e produttore Makaya McCraven, artista di punta nel catalogo dell’etichetta International Anthem, a cimentarsi nell’impresa di dare una nuova veste a questi brani.Ad accompagnarlo, musicisti che abbiamo già notato al suo fianco in dischi come il più recente Universal Beings: fra questi, Jeff Parker, Brandee Younger e Junius Paul, in evidenza già dalle prime battute dell’album. Fra le trasformazioni più radicali, quella dell’originariamente percussiva e scheletrica New York Is Killing Me, che qui diviene una calda jam in grado di evidenziare le capacità della band di McCraven, mentre People Of The Light riambienta su un groove metropolitano il suo poema The Vulture. Altrove, The Crutch è ridipinta di ossessivo funk, e un incantevole flauto (campionato da un vecchio disco del padre, Stephen McCraven) volteggia su Where Did The Night Go. Tutt’altro che un’operazione superflua, l’album è ricco di immaginazione e profondità, e rende ulteriore giustizia a uno degli artisti più importanti e sottovalutati degli ultimi decenni.

INKRÄKTARE

BUBBA

78/100

MOTUS

Uscito a sorpresa sul finire del 2019, il secondo album del produttore di Montréal si muove in maniera coerente rispetto al debutto 99,9% nonostante il passaggio a una major. Semmai Bubba guadagna sia nella disinvoltura con cui si muove nell’area di confine fra R&B e ritmi dance, e nell’agilità del flusso con cui i suoi 17 brani sono messi in sequenza, come in un’ideale e ultra dinamico DJ set. I numerosi ospiti vocali del disco sono la ciliegina sulla torta: dalle vellutate voci del duo VanJess nell’elegante Taste all’infallibile Kali Uchis nel singolo 10%, passando per la splendida Charlotte Day Wilson (già con i BadBadNotGood) in What You Need. Ma Kaytranada sembra voler dimostrare ancora una volta di saper brillare anche negli episodi strumentali, come la daftpunkiana Scared To Death.

Quale società potrà mai accogliere nei propri dancefloor musica da ballare priva di pulsazione ritmica? In bocca a Thomas Köner la domanda non ha nessuna parvenza retorica. È da un sogno, una visione del compositore tedesco che nasce il concetto sotteso a Motus, una musica priva di progressioni armoniche, di melodie nonché di appigli ritmici, che sia in grado di produrre una pulsazione intrinseca: ritmo senza ritmo. L’album è un magma ribollente di vibrazioni subsoniche, un mantice che si espande e si comprime senza sosta, cortine di suono che affiorano e scompaiono, sinusoidi sonore, oscillazioni elettroniche. E propone la personale visione di danza e movimento liberi dalla scansione temporale, dal groove e dal ritmo, non a caso sincronizzata con la filosofia glitch della Mille Plateaux.

GIORGIO VALLETTA

ANDREA PREVIGNANO

82/100

80/100

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

LANTERNS ON THE LAKE SPOOK THE HERD BELLA UNION

ZOË MC PHERSON STATES OF FUGUE SFX

Tempi oscuri chiamano dischi oscuri. Questa la dichiarazione nascosta nel quarto lavoro del quintetto di Newcastle, capitanato dalla cantante e autrice Hazel Wilde. Il loro è un dream pop che si alimenta di epica orchestrale e brume umorali, secondo una formula quasi programmatica. Il singolo Every Atom (dedicato all’elaborazione di un lutto) con le sue sincopi percussive, i suoi pieni vuoti e il suo crescendo passionale, offre più di un’indicazione per il resto. Registrato per la prima volta lontano da casa, nello Yorkshire. Diario d’ansie private, per un mondo in crisi. Blue Screen Beans richiama le ugge dei National, Before They Excavate riflette sul riscaldamento globale. Scrittura e produzione (un po’ troppo) pulite e lineari, un attimo prima che l’intensità diventi barocchismo.

Il suo primo album, String Figures, era parte di un progetto crossmediale sugli Inuit, il cui canto veniva inserito in un misto di techno analogica di confine, sperimentazioni digitali e field recordings. State Of Fugue, prima uscita dell’etichetta che Mc Pherson ha fondato con l’artista Alessandra Leone, prosegue su quella strada avventurosa, con risultati pari a quelli di tanti colleghi più celebrati. Il suono delle dieci tracce è aggressivo e complesso, fonde l’organico e il robotico spinto con naturalezza sorprendente, tocca tanto il (quasi) ballabile quanto l’assenza di strutture convenzionali, trova sponde ideali nelle collaborazioni con Elvin Brandi (vedi Villaelvin su questo stesso numero) e l’improvvisatrice vocale Greetje Bijma. Avvolgendo l’ascoltatore con intensità e chiarezza di visione rare.

MAURO FENOGLIO

ANDREA POMINI

THE MEN

MIDNITE SNAXXX

SACRED BONES

SLOVENLY

63/100

MERCY

Non che si sia persa la mano, se Breeze, messa quasi controvoglia verso la coda, mostra che il senso dei newyorkesi per il garage punk resta quello lucido e adrenalinico degli esordi. E non che si pretenda un’adesione fideistica, ramonesiana quasi, a un certo suono e guai a evolversi. Si tratta semmai di mettere a sistema il contorno, visto che nel piatto nuotano ballate fra il folk (ottima peraltro Cool Water) e il country di area indie, un abbozzo della più danzereccia wave di NY e 11 minuti di jam blues che perdono fiato ben prima della metà. La versione isterica di un disco già eterogeneo come Drift del 2018, volendo. Solo con più dubbi su dove si voglia arrivare con un lavoro così: faticoso (ma possibile) rinunciare a un filo logico, presuntuoso il farlo con materiale tanto altalenante. FRANCESCO VIGNANI

61/100

80/100

MUSIC INSIDE

Dulcinea Gonzalez era la carismatica frontwoman dei Loudmouths, una delle più autentiche band punk californiane dei ’90. Da una decina d’anni guida i Midnite Snaxxx di Oakland, arrivati zitti zitti al terzo album. Da vecchie volpi quali sono sanno che la partenza è fondamentale. Ecco allora che scaricano subito due proiettili power pop: la title track, molto Muffs, e lo speculare mid tempo Baby. Via via il songwriting s’irrigidisce fino a lambire il post punk inglese delle Slits (She Don’t Want That, Gold Chains) con la voce di Dulcinea furiosa (Cyborg), squillante ma sempre abbarbicata alla melodia (I Just Need Myself). Prima di chiudere col power pop mieloso di Phased Out e più arrembante di Not Normal arriva il colpo di coda: Out Of Control che richiama dichiaratamente il classico L.A. punk.

JEFF PARKER & THE NEW BREED SUITE FOR MAX BROWN INTERNATIONAL ANTHEM/NONESUCH

Comincia tutto da John Coltrane, e da una di quelle sere in cui metti dischi e tutto sembra funzionare particolarmente bene. Riesci a sincronizzare per dieci minuti, ad esempio, un vinile di Nobukazu Takemura e uno di A Love Supreme, e la giustapposizione di beat programmati e free jazz astratto ti piace più del previsto. Fino a farti venire di voglia di creare tu stesso qualcosa di simile. Così nasce Suite For Max Brown, ultima fatica solista del compositore e polistrumentista statunitense, membro dei Tortoise e di vari altri progetti chicagoani fra jazz, post rock e avanguardia. E se anche il presupposto pare banale - legittimo, ché di pasticci se ne sono visti tanti - fidatevi di Jeff e della sua storia. Un filo che lega l’album al precedente The New Breed c’è, ma laddove quello aggiungeva improvvisazioni su un intenso lavoro di campionamento e messa in loop secondo tecniche quasi hip hop, le fondamenta di questo sono posate da Parker sia con ritmi e campioni, sia soprattutto suonando diversi strumenti. Stendendo strutture sulle quali chiamare amici a improvvisare, uno per volta, per poi assemblare e dare forma al tutto. Amici come Paul Bryan e Makaya McCraven, Nate Walcott dei Bright Eyes (tromba nella conclusiva, splendida Max Brown) e Rob Mazurek. E un po’ di famiglia: la giovane figlia Ruby che canta nell’iniziale e molto spirituale Build A Nest, la mamma Maxine a cui l’opera è dedicata. Forse sono anche loro a contribuire all’umore così caloroso e umano di questi 40 minuti, alla loro sintesi così originale di passato, presente e futuro. Ben rappresentata fra i pregevoli originali da ricorrenti atmosfere jazz d’annata, e dalle interpretazioni di classici quali Black Narcissus (ribattezzata Gnarciss) di Joe Henderson, e After The Rain di Coltrane, appunto. ANDREA POMINI

82/100

MANUEL GRAZIANI

72/100

RUMOREMAG.COM | 65

GOTICA

GOTICA MIGHTY OAKS

MILITARY GENIUS

BMG

UNHEARD OF HOPE/TIN ANGEL

ALL THINGS GO

DARK MATTER

NEBULA TO BLACK HOLE MY KINGDOM MUSIC

A dispetto del titolo, in questi solchi rintraccerete molta luce. Un bagliore donato anzitutto dall’intenzione collettiva del progetto, composto dalla cooperazione di ben 17 artisti tra cui Daniel Cavanagh degli Anathema, Thomas Helm degli Empyrium e Fab Regmann degli Antimatter. A dirigerne il canto è l’artista israeliano Aria Moghaddam, coadiuvato dal chitarrista Mehdi 14CH, abilissimo nel promuovere una singolare convergenza estetica tra le coloriture romantiche del death doom sinfonico (in primis 3rd And The Mortal e Anathema), e quelle tragiche del thrash, col rock d’avanguardia e le istanze da requiem neo classico. Si consideri ad esempio il prologo di Except Love, situata nel calco intimista del solco bowiano, o il capolavoro di Earthless Child (che fa il tandem con Void World), dove il portamento lirico del canto di Anaé si erge come fiamma ligetiana.

87/100

A CURA DI STEFANO MORELLI

DROWN

MAYHEM

PROPHECY

CENTURY MEDIA

SUBAQUEOUS

Markov Soroka raggiunge la seconda vetta del suo sentiero “doom acquatico”, che nel suo caleidoscopico riflesso lovecraftiano molto deve a Evoken, ai Cure, e alle pose gothic rock dei Fields Of The Nephilim (specie quelli nella fase neo floydiana). Sono due tracce a definire il viaggio di Subaqueous, Mother Cetacean e Father Subaqueous, e la procedura risulta vincente poiché si caratterizza in un credibile ed evocativo quadro sonoro espressionista.

84/100

DAEMON

Il tentativo, ben riuscito tra l’altro, è quello di sintetizzare le pose più disturbanti dei Mayhem recenti e csihariani, sospinti quindi verso il post black industriale, con quelli tradizionali del ctonio De Mysteriis Dom Sathanas. Anzi, la volontà principale è proprio quella di aggiornarne il volto classico e algido, riabilitando all’occorrenza pure l’originaria matrice thrash crust. L’opera più naturale e sentita all’indomani del radicale Ordo Ad Chao.

80/100

NORDVARGR

SOLO ANSAMBLIS

CYCLIC LAW

ARTOFFACT

DAATH

Si denota un singolare allineamento estetico tra quest’ulteriore sentiero del Nordvargr solista e il suo percorso più recente con gli MZ.412, una corrispondenza rintracciabile nell’urgenza formale di un suono più che mai radicato in una riattivazione pagana e rituale dell’algido quadro industriale. Per intenderci, l’ambient funereo e marziale post CMI si riattiva in una forma che accoglie l’archeofuturismo alla Z’EV.

90/100

66 | RUMOREMAG.COM

OLOS

A quattro anni dall’esordio di Roboxai, il quartetto lituano si ripresenta con una rinnovata veste post kraftwerkiana/DAFiana. Se il minimalismo quadrato e sintetico dell’elettronica ha un’evidente rilevanza nel loro procedere (tra i vertici: Bydermejeris e Netildai), Olos non manca di rileggere con personalità gli accenti synth wave e neo dark in funzione cureiana e numaniana. Similitudini a parte, una via alternativa ai She Past Away.

80/100

Più underground dei Lumineers, meno introspettivi dei Daughter; i Mighty Oaks tornano con il loro folk ibrido e mostrano ancora una volta come unire melodie (Forget Tomorrow) e atmosfere (Lost Again) in un’ottima miscela pop sia cosa piuttosto facile per il trio. All Things Go svetta rispetto a Dreamers anche per un interesse ritrovato nel ritmo (What You Go) e un songwriting davvero ispirato (Crazy). Niente male per un gruppo che è rimasto per un po’ di tempo con la classica spada di Damocle del “studia ma non s’impegna”, sollevando qualche dubbio sulla quadratura del cerchio di un sound non particolarmente personale. Questa volta, però, è tutto a fuoco, tanto per dimostrare che se il secondo album è quello più difficile, il terzo è quello della maturità e della consacrazione (meritata). FERNANDO RENNIS

70/100

DEEP WEB

Jazz notturno e un poco sbavato, sfumature - e fantasmatiche presenze - industrial dalle tinte noir, echi di pop appena distorto dalla patina di un nastro su cui si è registrato troppe volte (chi si ricorda il primissimo Ariel Pink?). Ma anche la psichedelia da futuro vittoriano di Nick Nicely, i Suicide che si danno, a modo loro, al jazz (When I Close My Eyes è più che esplicita in tal senso, risucchiata sul finale in un gorgo di organo quasi gotico), ma anche l’ultimissimo Bowie di Black Star, radiazione di fondo da supernova più che richiamo esplicito. Tutti colori che queste otto canzoni prodotte tra il 2016 e il 2019 da Bryce Hildebrand Cloghesy dei Crack Cloud rifrangono attraverso un prisma che ha ottime possibilità di diventare uno dei più affascinanti enigmi del 2020. ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

80/100

MONDO GENERATOR

ANNE MÜLLER

HEAVY PSYCH SOUNDS

ERASED TAPES

FUCK IT/SHOOTERS BIBLE

HELIOPAUSE

Il mondo che appartiene a Nick Oliveri è da sempre quello dell’HC americano. E viene fuori ancora una volta in questo ultimo disco, a otto anni di distanza da Hell Come To Your Heart. Fuck It viene pubblicato in contemporanea a Shooters Bible (del 2010), che però non vide mai la luce. Roba da California hardcore punk ‘80, come rigenerante corrente di energia, che fa da base per canzoni che evolvono verso una cupa e contorta dimensione stoner core (roba tossica come Silver Tequila). Un mondo di follia, paranoia e reazioni psicotiche indotte da uno smodato uso di stimolatori chimici. Ritmi velocissimi alla Slayer (Up Against The Void); i Circle Jerks depravati di Turboner; persino una specie di Psychotic Reaction in versione dark core come Death Van Trip.

Dopo aver lavorato con buona parte del who’s who di area modern classical e dintorni, da Nils Frahm a Lubomyr Melnyk passando per Agnes Obel, la violoncellista berlinese esordisce in proprio per l’etichetta di punta del genere, Erased Tapes. Lo fa con un lavoro essenziale, di aggraziate geometrie e ammirevole sobrietà, rinunciando a facili trucchi e automatismi emotivi che di tanto in tanto rischiano di sviare chi frequenta territori cameristici, pure i meglio intenzionati. Nummer 2, con severi fraseggi scanditi da sparuti beat, una Aarhus/Reminiscences che lascia ampio spazio al piano e soprattutto Drifting Circles, dialogo in crescendo archi e voci celestiali che sembra evocare il tema cosmico del titolo, rappresentano i frutti più evidenti della sua meticolosa attitudine alla sottrazione.

CLAUDIO SORGE

ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

77/100

75/100

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

MURA MASA

NYX NOTT

OF MONTREAL

OLD TIME RELIJUN

POLYDOR

MELODIC

POLYVINYL

K

R.Y.C.

AUX PIEDS DE LA NUIT

UR FUN

SEE NOW AND KNOW

È singolare la trasformazione a cui si sottopone il 23enne Alex Crossan, già affermato musicista elettronico, sulla scia del fresco e innovativo album di debutto del 2017. Sin dalla traccia inaugurale Raw Youth Collage, Mura Masa tenta una strana sintesi fra certo emo pop punk annacquato degli ultimi decenni e suoni digitali, nell’intento di riflettere le inquietudini di quella che qui viene definita la No Hope Generation. L’ibrido però non sembra particolarmente riuscito, e ci si trova a rimpiangere i Basement Jaxx più vitriolici ascoltando I Don’t Think I Can Do This Again. Mentre gli episodi migliori in scaletta sono la collaborazione con Georgia sulla house di Live Like We’re Dancing e quella con Slowthai (Deal Wiv It): due artisti che ora hanno sicuramente le idee più chiare.

Il percorso del tenebroso Aidan Moffat (ex Arab Strap), come compositore strumentale non è che sia stato clamoroso fino a qui. I suoi album come Lucky Pierre, spesso bizzarri esperimenti tutto sommato prescindibili. Qui lascia di nuovo da parte il suo innegabile talento lirico, per mettere in scena una collezione di temi dedicati alla notte. Composti nella quiete delle ore piccole, a casa, mentre la famiglia dormiva. Partendo da linee percussive, arricchite via via con tastiere, sapori jazz e ammennicoli vari (come un Micky Mouse giocattolo, comprato in Giappone). Il risultato in qualche modo ammalia. Fra velluti lynchiani (The Prairie), fughe da mille e una notte (Damascene Slap) e omaggi orrifici a Edgar Allan Poe (Long Intervals Of Horrible Sanity). Tenera e agghiacciante è la notte.

Le note biografiche ne parlano come del primo disco realizzato in totale autonomia da Kevin Barnes da parecchi anni a questa parte, senza l’ausilio di alcun collaboratore esterno. La cosa non viene rispecchiata necessariamente nella cervellocità della musica: se volessimo dividere l’ormai monumentale discografia d(egl)i Of Montreal in due parti, UR FUN sarebbe incluso nel gruppo dei più piacioni, ascoltabili e privi di asperità. Il sospetto, generato dall’ultima tripletta di dischi, è che Barnes abbia superato i momenti più dolorosi e riesca ormai a viversi la fase autoanalitica della sua musica con quel briciolo di sincero buonumore che serve a fare la differenza tra un disco d(egl) i Of Montreal e un bel disco d(egl)i Of Montreal. Il pubblico annuisce e ringrazia.

Gli Old Time Relijun sono un nuovo gruppo di estrazione post punk, quelli che andavano di moda a metà anni Zero - casse dritte batterie scheletriche chitarre appuntite parti vocali ultraeccitate. Un disco un po’ fuori tempo massimo. Si distinguono dalla concorrenza per i testi e l’interpretazione del cantante, un vero invasato, che rende See Now And Know un disco quantomeno degno d’essere ascoltato. Qualora decidiate di farlo vi consiglio di pensare che tutto quello che ho scritto finora sia vero, e non rovinarvi il fegato obiettando che in realtà gli Old Time Relijun sono gli Old Time Relijun, che hanno in catalogo due o tre dischi da isola deserta e che Arrington De Dionyso sembra aver riesumato il progetto per la gag. Uscito nel 2019, in via di release europea per il tour di aprile.

GIORGIO VALLETTA

MAURO FENOGLIO

FRANCESCO FARABEGOLI

FRANCESCO FARABEGOLI

57/100

72/100

69/100

NEVER NOT TOGETHER

NADA SURF La vita è fatta anche di comfort zone. Spazi sicuri dove rifugiarsi, dove la certezza di non venire traditi è l’unica cosa che rende questo gesto reiterato, l’azione giusta da fare. Quando parte So Much Love capisci che sei nel posto giusto, pur ascoltandola per la prima volta. I Nada Surf sono artigiani dell’indie rock gentile e hanno dalla loro l’empatia, citata anche dal cantante e chitarrista Matthew Caws nel brano Something I Should Do. Emerge perfino il concetto di “holy math” che ha ispirato lo stesso Caws, fulminato dall’ascolto di Bon Iver mentre raccontava al podcast Song Exploder la sua idea di unità e interconnessione umana. Something I Should Do, oltre ad avere il classico andamento spinto della band, riprende nel testo tutto il senso del disco con due spoken words che si innestano nel cantato, concludendo con “Empathy is good / Lack of empathy is bad / Holy math says we’re never not together”. Qualche piccolo tradimento la band di New York lo ha commesso, ma le

57/100

CITY SLANG

chiameremmo distrazioni: non sempre si centra tutto, non sempre puoi essere perfettamente allineato e a fuoco, e You Know Who You Are (2016) peccava di qualche distrazione di troppo. In questo nono album permane l’essenza umana del gruppo (Live Learn and Forget). Spunta il momento mid tempo più intimo, dolcemente nostalgico e dedicato alla gioventù (Just Wait) che inevitabilmente obbliga a fermarci, almeno un attimo. Looking For You ha un’impostazione più maestosa e grandiosa ma è Crowded Star a fermare di nuovo il tempo e i Death Cab For Cutie non sono mai stati così vicini. O forse è il contrario. Poco importa. La costanza e l’umiltà dei Nada Surf sono un bene prezioso, custodirlo e amarlo è un piacere, ma anche un dovere. La salvaguardia di entità musicali così vere è una delle nostre missioni. NICHOLAS DAVID ALTEA

75/100

RUMOREMAG.COM | 67

METAL

METAL KASSA OVERALL

NIKLAS PASCHBURG

BROWNSWOOD

7K!/K7!

I THINK I’M GOOD

SEPULTURA QUADRA

NUCLEAR BLAST

Sembrerà una banalità, ma il thrash “alla vecchia” lo fa bene solo la vecchia scuola, a dispetto degli anni sul groppone, delle criniere che si diradano e delle panze che tendono a dilatarsi. I Sepultura – dopo vicissitudini da telenovela, a livello di formazione – si sono ormai assestati, e anche molto bene, superando egregiamente gli abbandoni dei due Cavalera. E questo terzo disco della line-up Kisser/Pinto/Green/Casagrande è una notevole mazzata di sound alla Sepultura, con una generosa strizzata d’occhio al thrash crudo di Arise e Beneath The Remains – forse gli apici creativi della band nella sua incarnazione classica. Il tutto con sguardo rivolto alla contemporaneità, ma non troppo: perché la sensazione old school è ciò che rende vincenti questi pezzi.

84/100

A CURA DI ANDREA VALENTINI

KREATOR

LONDON APOCALYPTICON – LIVE AT THE ROUNDHOUSE

TOMBS

Mille Petrozza non molla di un millimetro. E con un ululato sempre più vicino al Tom Araya del tempo che fu traghetta i suoi Kreator verso il traguardo del terzo album live, con l’aiuto del compare Ventor (sono gli unici due originali rimasti). Sarà “solo” un live, ma questo disco di cattivissimo teutonic thrash senza compromessi, suonato da vecchi leoni del genere, è un guilty pleasure (to kill).

Mike Hill, anima dei Tombs, è un impenitente workaholic: si occupa di caffè (è CEO di Savage Gold Coffee), di podcast, di giornalismo musicale e di suonare. Questo EP (35’ circa) fotografa i Tombs nella loro più recente incarnazione, con un sound che poggia su basi black, meticciato con un’attitudine melodica e gotica alla Type O Negative e tardi Sisters Of Mercy. Il bello è che la band è perfettamente a proprio agio in entrambi gli scenari.

NUCLEAR BLAST

75/100

MONARCHY OF SHADOWS SEASON OF MIST

82/100

AVATARIUM

VERIKALPA

NUCLEAR BLAST

SCARLET

THE FIRE I LONG FOR

Continua il percorso fatto di rock esoterico con sapori vintage anche nel quarto album di questo progetto nato da una costola dei doom metallers Candlemass. Fra Black Sabbath, Black Widow e Coven, con voce femminile e parentesi molto melodiche. Non c’è una nota al posto sbagliato, per la cronaca. Anzi, forse è tutto troppo perfetto formalmente: se vogliamo trovare un difetto, manca una buona dose di lordura allo zolfo.

79/100

68 | RUMOREMAG.COM

TUOPPITANSSI

L’heavy contaminato con la tradizione folk diviene delle due l’una: colonna sonora da rievocazione storica per metallari ben carburati oppure viaggio nelle viscere di leggende oscure. Il 90% del traffico però finisce sulla prima via – e i Verikalpa non si sottraggono al trend. Questo secondo album esplora miti e sonorità del folk finlandese, diverte, ma finisce per creare l’effetto fiera paesana alla periferia di Tampere.

65/100

SVALBARD

Batterista, alchimista digitale, MC e compositore cresciuto in area squisitamente jazz, il quarantenne di Seattle residente a Brooklyn ci prende per mano e ci porta dentro incubi e fantasmi che gli popolano la mente. Disagio psichico, penitenziari, ricoveri coatti sono esorcizzati dalla trasformazione in arte sonora raffinata e intensa. Un viaggio che inizia con una Visible Walls spiazzante, senza batteria per concentrare l’attenzione sulla ricchezza delle soluzioni armoniche. Nella galleria di emozioni spiccano due profili femminili: Angela Davis interviene nel finale di Show Me A Prison, scelta come singolo, mentre Was She Happy è dedicata alla pianista Geri Allen, sua compagna d’avventura per sette anni scomparsa nel 2017. Un consiglio: ascoltate i sei minuti di Darkness In Mind davvero al buio.

Il viaggio a vele spiegate del compositore e produttore tedesco, inauguratosi con gli scenari postapocalittici di Tuur Mang Weltin – che guardando oltre le macerie ripartiva dalla natura – e giunto poi sulle rive di Oceanic, prosegue ora visitando il Polo Nord. In questo nuovo capitolo del suo “diario di bordo” l’artista affronta i campi innevati e le bufere (anche letteralmente, come in Cyan, scritto dopo esser stato travolto da un vento gelido che gli aveva bloccato ogni movimento) cercando nelle melodie minimali e malinconiche il calore per proteggersi dall’assideramento. L’ammiraglio degli 88 tasti traduce così in musica le sue esperienze, con linguaggio neoclassico sublimato dall’elettronica, raccontando con le note i diversi aspetti della natura incontaminata che incontra durante i viaggi.

PAOLO FERRARI

DORIANA TOZZI

PICTISH TRAIL

PURR

FIRE

ANTI-

80/100

THUMB WORLD

71/100

LIKE NEW

Socio di King Creosote nell’avventura Fence Records, fondatore di quella Lost Map che ne raccoglie l’eredità, presente sul palco di ogni edizione del Green Man: Johnny Lynch è un’istituzione del cantautorato indie scozzese. Quello più obliquo e psichedelico, imparentato con elettronica da camera e slackerismo americano più che con il canone folk britannico. Uso a lavorare da solo sulla minuscola isola di Eigg, Lynch apre ad alcune collaborazioni, prima fra tutte quella con l’artista Swatpaz: create sentendo una prima versione del disco, sono le sue illustrazioni da videogiochi anni 80 a ispirarne atmosfere e immaginario definitivi. Non tutto è all’altezza di ballate gioiello come Slow Memories e Fear Anchor, o di chicche kraut pop come Double Sided, ma Thumb World resta una prova matura e intrigante.

Eliza Calahan e Jack Staffen hanno iniziato a lavorare al nuovo progetto dei Purr nel 2017. Rispetto al duo Jack & Eliza, semplicemente ora sono una band, più completa e con un suono più avvolgente. A produrli c’è il fighissimo Jonathan Rado e già da questo si può capire come suonino. Hard To Realize, ad esempio. ha riferimenti subliminali a Leader Of The Pack delle Shagri-Las (1965): shoegaze white soul pop! Influenze glam dei Foxygen sono d’ordinanza (con inflessioni inevitabili di Beatles & Beach Boys). E per sovrammercato mettiamoci un certo sapore synth dolciastro alla Ariel Pink (Refuse). Ballate pop angeliche gonfie di rarefatti sentimenti e una ciliegina come Cherries, che riecheggia la sensazione ultima e dolcissima di Shagri-Las in collaborazione con i Beach Boys. Delizia.

ANDREA POMINI

CLAUDIO SORGE

78/100

79/100

INDIE RITUAL KING

THE ROUTES

RIPPLE MUSIC

GROOVIES

RITUAL KING

TUNE OUT, SWITCH OFF, DROP IT

Fiammate hendrixiane illuminano questo lungo flusso tribal psichedelico electric heavy dei Ritual King, Che stenta però a delinearsi in vere e proprie canzoni. I mancuniani hanno i pregi e i difetti di una band come gli Elder. Entrambi, due gruppi che tendono costantemente alla jam, senza da una parte avventurarsi decisamente in territori inesplorati, ma neppure, come dire, “solidificarsi” dall’altra in composizioni riconoscibili. Bisogna arrivare alla quinta traccia di questo comunque buon esordio, Dead Roads, per sentire qualcosa di compiuto: una canzone basata su un riff travolgente e struggente, che poi diventa cavalcata inarrestabile. E per la verità anche Restrain sprigiona la potenza dei più ispirati Graveyard. Buona la prima, dunque, ma occhio a un’eccessiva autoindulgenza.

I Routes scrivono canzoni proto ‘60 punk. Nei ferrei riferimenti al selvaggio ‘60 punk tutto fuzz e jangle, che da sempre costituisce la base della loro musica, inseriscono elementi che non ne alterano sostanzialmente lo spirito, ma ne sfondano i confini. Trovando nuove e inaspettate vie di evoluzione. Proto ‘60 punk, appunto. Tutto ruota al solito attorno al cantante chitarrista Chris Jack. Si comincia con il drone ‘60 psych The Ricochet, e si procede tra le selvagge e pure deiezioni ‘60 garage di The King Of Loose Ends e Split Personality. E se Up And Down echeggia uno shoegaze punk dolcissimo, Just How It Feels si spinge quasi al limite di un’ipnotica, indianeggiante heavy psych. Heavy nel senso di vintage heavy fuzz. Decisamente una (‘60s) band in piena evoluzione.

CLAUDIO SORGE

CLAUDIO SORGE

THE SAXOPHONES

MARJANA SEMKINA

FULL TIME HOBBY

KSCOPE

73/100

ETERNITY BAY

Il loro esordio del 2018 è stato una delle migliori sorprese degli ultimi cinque anni. Una voce alla Stuart Staples dei Tindersticks, atmosfere oscillanti tra jazz anni 50, minimalismo pop e una sorta di exotica indie, pigra e dolcissima. Marito e moglie, una manciata di canzoni registrate nella barca dove vivevano e ora un nuovo figlio. Cartoline da un paradiso melodico qui confermato, ma senza l’effetto sorpresa e una caratterizzazione leggermente meno incisiva delle canzoni. Sempre seducenti (You Fool, New Taboo) e onirici (Living In Myth, Lampligher), con chitarra sfiorata, fiati distanti e percussioni lievi. Tramonto sulla spiaggia, con Martin Denny e Jonathan Richman a servire i cocktail. Ammirazione e un pizzico di invidia: storie da un matrimonio pop. MAURIZIO BLATTO

74/100

78/100

SLEEPWALKING

Con un artwork che ricorda la celebre Ophelia dipinta da Millais (ma in realtà ispirato alla Vanitas e alle sue riflessioni sulla caducità della vita), la voce degli Iamthemorning dà alle stampe il suo primo lavoro solista, intima panacea composta dalla cantautrice per superare alcuni momenti difficili e per questo pubblicato solo a suo nome. Musicalmente non troppo distante dalle produzioni con la band, questo primo album senza Kolyadin (l’altra metà degli Iamthemorning) è un sofferto percorso che nasce nell’oscurità per risalire verso la luce, alla ricerca del senso della vita nonostante l’ineluttabilità della morte. Con collaboratori d’eccezione (tra cui Jordan Rudess dei Dream Theater), l’artista dà forma ad un elegante alt folk visionario impreziosito da testi dall’afflato poetico. DORIANA TOZZI

77/100

ITCHY BUGGER DOUBLE BUGGER LOW COMPANY

Gli Itchy Bugger arrivano da un’ epoca lontana, un anno qualunque tra l’89 e il ‘95, e da un posto imprecisato, piazzato nel bel mezzo di un poligono che congiunge Glasgow a Dunedin e Olympia. Una sorta di triangolo delle Bermuda dell’indie rock da cui sono affiorati musicisti i quali hanno trovato la propria ragione di essere in suoni che, attraverso un processo di semplificazione tanto della struttura armonica che della strumentazione adottata per crearla, hanno saputo trovare la strada giusta per rapire cuori e catturare anime. Le loro carte d’identità in realtà denunciano il fatto che a inizio anni 90 i ragazzi non erano ancora venuti al mondo, mentre la loro attuale localizzazione geografica si colloca a Berlino via Australia.

76/100

A CURA DI ARTURO COMPAGNONI

THE GONKS

FIVE THINGS YOU DIDN’T KNOW ABOUT THE GONKS

PROGRAM

Esattamente dalla stessa area geografica e medesima era ideali degli Itchy Bugger arrivano i californiani Gonks. Nel loro caso è l’ombra dei Beat Happening quella che si allunga praticamente su ogni canzone, mentre l’inflessione vocale femminile avvicina le loro canzoni ai Vaselines e il cipiglio a tratti aggressivo, irrobustito da uno sporadico utilizzo del sax, restituisce echi post punk (Kleenex).

La Anti Fade è una di quelle etichette da tenere marcata stretta. Tra le uscite eccellenti degli ultimi mesi si cataloga il disco dei Program, formazione del giro Stroppies, band il cui ultimo lavoro venne incensato a dovere in questa rubrica. Show Me è a sua volta un brillante esempio di come ancora oggi si possa centrare il punto agganciando la propria attualità alle memorie di Pavement e Feelies.

THE ROSALYNS

MORE KICKS

PIG BABY

BELUGA

ROCKS IN YOUR HEAD

75/100

OUTTA REACH

Da San Diego arriva come un fuoco d’artificio di un tardivo capodanno l’all girl garage pop delle Rosalyns. Il quintetto che immaginiamo alle prese con live set devastanti, pescando a piene mani dal repertorio ‘60 garage alla maniera dei Detroit Cobras, mette assieme una collezione di cover che oscillano tra il riuscito e il molto riuscito, con menzione speciale per la doppietta finale (He Cracked/ Search And Destroy).

67/100

SHOW ME ANTI FADE

76/100

MORE KICKS

La Swinging London degli anni 60 visitata con gli occhi, le orecchie e lo spirito di un trio di ragazzi della Londra di oggi. Questo è l’album di debutto dei More Kicks, registrato in un paio di giorni di studio, in presa diretta senza ricorrere a sovraincisioni. Necessità di economia e di spirito che portano al raggiungimento di un risultato decisamente buono: power pop tra il passato remoto dei Buzzcocks e quello prossimo dei Supergrass.

71/100

RUMOREMAG.COM | 69

INDIE

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

BEATS

BEATS SIX ORGANS OF ADMITTANCE COMPANION RISES

MEN WITH SECRETS

DRAG CITY

PSYCHO ROMANCE & OTHER SPOOKY BALLADS THE BUNKER NEW YORK

Ormai veterani della nostra scena musicale elettronica, Donato Dozzy e i Retina.it avevano già lavorato insieme a un EP techno (Officine Di Efesto) nel 2015, ma in questa circostanza è la comune passione per il più scuro suono post punk digitale ad aver offerto loro lo spunto per un album intero. Firmato con uno pseudonimo ispirato dall’omonimo brano di Richard Bone - personaggio di culto dell’underground newyorkese negli anni 80 -, il disco non è una mera operazione revivalistica, pur contenendo riferimenti al mondo di Cabaret Voltaire e dei primi New Order. È invece notevole la cura nella composizione, come provano la contagiosa The Misfortunes Of Virtues, il cinico incedere di Dramatic o ancora la relativa luminosità melodica di Aletheia.

82/100

A CURA DI GIORGIO VALLETTA

AA.VV.

AA.VV.

HYPERDUB

NERVOUS HORIZON

HYPERSWIM

Cioè 19 inediti siglati dalla collaborazione fra il contenitore televisivo Adult Swim e l’etichetta di Kode9. A riflettere la visione - geografica e sonora - sempre più globale di quest’ultima, testimoniata da incisive presenze come quella della sudafricana Angel-Ho, dell’angolano Nazar e del torinese Mana. E anche qui Burial regala otto minuti straordinari, con il surreale retrogusto ‘80 di Old Tape.

79/100

NERVOUS HORIZON VOL. 3

L’etichetta fondata a Londra dagli italiani TSVI e Wallwork sta assumendo un ruolo sempre più importante nel panorama del suono da club più astratto e innovativo. A confermarlo, la qualità e l’originale visione di queste dieci tracce, in grado di esplorare techno, Gqom, grime, footwork e oltre, e di valorizzare talenti come l’australiano DJ Plead (strepitosa la sua Ambush) e l’italo/ivoriano Ehua.

81/100

QUIRKE

SPECIAL REQUEST

WHITIES

SPECIAL REQUEST

STEAL A GOLDEN HAIL

Nel suo primo album (preceduto da alcuni promettenti 12”) il produttore britannico elabora un’interpretazione spettrale e talvolta claustrofobica del suono definito da Simon Reynolds come hardcore continuum. Cioè l’ennesima mutazione della hardcore techno, dove però gli accenni trance sono sepolti da beat industriali (Se Seven 7S) e il piano ambient di Fluorescent Phlegm affoga in un mare di rumore.

82/100

70 | RUMOREMAG.COM

ZERO FUCKS

Proprio sul finire dell’anno Paul Woolford ha messo in rete e in download libero l’album che chiude la sua quadrilogia del 2019. Al collaudato repertorio sonoro a cui ci ha abituati, qui aggiunge l’inusitata citazione di Travis Scott, in una Double Sicko che ne sovrappone le rime a un tempo jungle. Mentre la conclusiva Quiet Storm affascina di contrasti fra i vorticosi ritmi e gli elementi melodici.

80/100

Ben Chasny (ex Comets Of Fire), grande interprete di culto del folk deviante americano, tra american primitive e avanguardie europee, è un esempio di coerenza stilistica. In 22 anni e 15 album in proprio ha variamente declinato la sua ricetta a base di fingerpicking, psichedelia, folk, kraut rock, post rock, facendo sensibilmente emergere di volta in volta gli elementi della sua formula. In Companion Rises alla sua 12 corde e alla sua chitarra elettrica ha aggiunto contributi digitali sotto forma di sheet elettronici di sintetizzatori, per lo più trovate testurali a dare profondità alla sua scrittura. Nessuno stravolgimento del canone per cui Chasny è conosciuto (c’è il folk ipnotico della title track e l’assalto sonico di The 101), piuttosto una vigorosa riverniciatura. ANDREA PREVIGNANO

70/100

SQUAREPUSHER BE UP A HELLO WARP

Dopo le recenti escursioni in territori jazz, ambient e classici, Tom Jenkinson rispolvera finalmente le macchine da lui utilizzate nella prima parte degli anni 90 - synth analogici, effetti vintage e persino un vetusto Commodore Vic20 - per rievocare il suono con il quale aveva acquisito notorietà in quel decennio. Così nei singoli Nervelevers e Oberlove, brani guidati da breakbeat ipercinetici e travolgenti, per arrivare all’esilarante parossismo di Speedcrank. Se Hitsonu allude al mondo delle musiche per videogame, Vortrack esplora il lato oscuro di quello che da alcuni fu definito drill ‘n’ bass. Il 15esimo album firmato Squarepusher è una doverosa e piacevole celebrazione - fra le molte di quest’ultimo periodo - di quell’era del rave del cui spirito oggi si avverte sempre più la mancanza. GIORGIO VALLETTA

80/100

SON LITTLE ALOHA ANTI-

Collaboratore di Mavis Staples e dei Roots, il cantautore di Filadelfia è, insieme a Gary Clark JR e Charles Bradley, uno degli animatori del nuovo tradizionalismo R&B americano. Autori che pescano fra le sicurezze della tradizione, provando a dotarle di sapori contemporanei. Aiutati da capacità vocali generalmente notevoli (in questo caso una seducente ruvidezza), rappresentano un’alternativa conciliante, con annesso intenso profumo di Grammy. Il problema, come in questo suo quarto album, è che la riproposizione dei temi tipici della musica black s’accontenta di una comoda didascalia, senza mai osare. Salvo episodi sparsi (la riflessione su dipendenza e suicidio della morbida Suffer o la preghiera spiritual di O Clever One), la sensazione è quella del viaggio sicuro col pilota automatico. MAURO FENOGLIO

59/100

CHRISTOPHER PAUL STELLING BEST OF LUCK ANTI-

Il quinto album del folksinger americano, prodotto da Ben Harper, sembra nascere nel tepore casalingo mostrato nel videoclip che accompagna il singolo Have To Do For Now, con Stelling che accarezza la fedele “Brownie” (la sua inseparabile chitarra) con il trasporto appassionato di un amante, componendo così le sue canzoni seduto al tavolo, sotto lo sguardo vigile della sigaretta che fuma solitaria mentre il nostro cerca la melodia giusta. Il bruciante folk a stelle e strisce di Stelling si anima della passione narrativa di Bob Dylan e alterna intime ballate acustiche a poderosi fremiti folk’n’roll che spesso evadono nei vicini territori del blues. Il valore aggiunto è sempre il virtuoso fingerpicking di Stelling che trova la sua piena realizzazione in Blue Bed, monologo della sei corde. DORIANA TOZZI

75/100

AVA N T THELMA AND THE SLEAZE FUCK, MARRY, KILL TO WHAT OF WHOM

Queer sguaiate, puramente american kitsch, Thelma And The Sleaze sono il segreto più sporco e mal custodito di Nashville, nonché una band rock’n’roll provocatoria e intrigante. Esistono dal 2010 e hanno inciso un sacco di roba, tra singoli e cassette, per la rinomata cucina americana della Burger. E questo è il loro nuovo album, tappezzato di simboli femminili trash stereotipati, a ribaltare la propria condizione di schiave dell’immaginario femminile tradizionale. TATS ci sputano in faccia tutta la loro aggressività e feroce ironia, e lo fanno attraverso canzoni che spaziano dal thrash metal più r’n’r e riottoso al punk rock e a sciatte e sdolcinate ballate semi country. E il tutto funziona, corrosivamente. CLAUDIO SORGE

70/100

TORRES

SILVER TONGUE MERGE

Spiega tutto la copertina, in pratica, con Torres a stringere fiori dello stesso colore di quei Few Blue Flowers che la persona amata le regala prima di lasciarla da sola a casa nel momento più indifeso del disco. E alle sue spalle un UFO, chissà quanto consapevolmente riflesso della carriera dell’americana. Visto che Torres – dopo il suicidio commerciale (e non artistico) di Three Futures del 2017 – pare continuare un percorso autoriale tutto suo, anche nel raccontare come qua gli alti e bassi di un nuovo amore. Valgono i dettagli: la paura di Good Scare (o come rendere cerebrale l’ultimissima Van Etten), i ricordi di Records Of Your Tenderness poggiati su un madrigale distorto o una cameristica e luminosa Gracious Day, ad esempio. Mai scontati soprattutto, ma a quello siamo già (ben) abituati. FRANCESCO VIGNANI

78/100

MICK TROUBLE

VILLAELVIN

EMOTIONAL RESPONSE

HAKUNA KULALA

…HERE’S THE MICK TROUBLE LP

HEADROOF

Può la nostalgia essere fresca e spensierata? Mick Trouble ci dice di sì. La storia è curiosa: più o meno cinque anni fa il newyorkese Jed Smith, già nei My Teenage Stride e ora nel duo Jeanines, s’inventò singoli di artisti inglesi fittizi dei primi ’80 e iniziò a spargerli sul web. Una burla, per un po’ alimentata anche da Everett True, ma di quelle ben riuscite al punto che di quei fake Mick Trouble è diventato realtà. All’EP del 2017 ha fatto seguito un vero album che ci porta a spasso nella Londra uggiosa di fine ’70, quella dei Part Time Punks che sapevano ghignare con una melodia traballante in sottofondo. È indie pop? Certo che sì. E pure al massimo della forma. Tipo Housemartins accasati alla Rough Trade (End Of The Lion) o Wedding Present in Erasmus all’Università di Dunedin (Not ‘Alf Bad).

Dopo il debutto di MC Yallah e Debmaster, ancora ottime nuove dall’Uganda e dalla scena nata intorno al giro Nyege Nyege. A firmare il primo vinile della Hakuna Kulala, dopo diverse uscite digitali, è la sound artist gallese Elvin Brandhi in collaborazione con vari nomi locali fra musicisti, rapper e produttori, e il misto è di quelli che danno alla testa. Ci sono elettronica e improvvisazione, ritmi dance globali e suoni campionati in giro per Kampala, voci trattate in arrivo da chissà dove e interventi degli MC, tutto confezionato con attitudine molto spontanea fra bassi e glitch. Passando in un istante da ipotesi grime (Ghott Zillah, Etiquette Stomp) alla dancehall più storta e sperimentale (i nove minuti di Kaloli), in mezzo a cose più astratte e nervose, fino all’umore notturno della conclusiva Rey.

MANUEL GRAZIANI

ANDREA POMINI

76/100

79/100

JAN ST. WERNER

MOLOCULAR MEDITATION EDITIONS MEGO

Jan Stephan Werner (Mouse On Mars, Microstoria), dal 2013 accasato su Thrill Jockey, sceglie Editions Mego per pubblicare, rieditata, una composizione del 2014, anno in cui collabora per l’ultima volta con Mark E. Smith, cantante dei Fall e icona culturale britannica da sempre fuori dal coro (i due si erano incontrati nel 2007 in occasione del progetto Von Südenfed). Molocular Meditation è un reading di Smith (osservazioni politiche e di costume sulla Gran Bretagna di oggi) sulle elucubrazioni elettroniche/elettroacustiche frattali di Werner. Con la stessa tecnica Werner sonorizza On The Infinite Of Universe And Worlds, su testi di Giordano Bruno recitati da Giuseppe Zevola, VS Cancelled (risalente al periodo Von Südenfed) e Back To Animals.

75/100

A CURA DI ANDREA PREVIGNANO

MASSIMO TONIUTTI VARIATION SÉCULAIRE GÉOMAGNÉTIQUE

JEJAWEDA

Variation Séculaire Géomagnétique è una versione ampliata di Antidocument/ Groundwork (2016), che il compositore elettronico Massimo Toniutti, tornando sulle scene dopo 18 anni, ha pubblicato sulla newyorkese Vitrine, e che Klanggalerie meritoriamente ripropone. La musica per nastro magnetico e suoni concreti di questa riedizione è un’autentica gioia per i più ardimentosi fan delle avanguardie nostrane.

Usciti contemporaneamente a fine 2019, i due volumi di Pioneer Works vedono quattro mostri sacri dell’impro radicale (Damon Smith: contrabbasso; Weasel Walter: batteria; Jeb Bishop: trombone, electronics; Jaap Blonk: voce, electronics) sfidarsi in studio. Blonk e la sua sound poetry estrema affrontano sul ring le intemperanze di Walter e Smith, e uno stellare, sornione e sdrammatizzante Bishop.

RACINE

SAMUEL ROHRER

DANSE NOIRE

ARJUNAMUSIC

KLANGGALERIE

75/100

QUELQUE CHOSE TOMBE

Julien Racine, giovane musicista anche noto come Rabieto e come membro del duo pop vaporwave canadese Dolphin Dream Pyramids, pubblica un album informato dalle inquietudini della società postmoderna alle prese con i mutamenti del fattori produttivi e la disgregazione dei percorsi identitari e sociali. Tutto si traduce in una dark electronics rumorosa, epica, dolorosa, commentario di tempi difficili.

65/100

PIONEER WORKS VOL. 1-2 BALANCE POINT ACOUSTICS

70/100

CONTINUAL DECENTERING

Il batterista svizzero Samuel Rohrer è da ormai più di 20 anni interessato all’interazione tra drum kit ed elettronica. Qui tecniche di triggering su percussioni innescano processi di sintesi modulare che Rohrer cerca di governare (quasi interamente il lavoro è stato ripreso dal vivo, minime sono le sovraincisioni). Il risultato: un ibrido tra i Boards Of Canada e degli Autechre in versione noir.

65/100

RUMOREMAG.COM | 71

AVA N T

RECENSIONI GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

WEIRD RNR

WEIRD RNR HALLELUJAH! WANNA DANCE MAPLE DEATH

Una frustata sul costato inferta da David Yow che brandisce maleodoranti calzini rosa razziati nel camerino dei N.W.A. Penso a questo mentre la puntina solca il primo pezzo Pink Socks. Ferocia e ritmo alla massima potenza tuonano nella successiva Champagne per arrestarsi nell’omaggio a capriola electro di (I Wanna Be) Your Duck e diluirsi nei Suicide in orbita spaziale di Minipony. Il lato B si apre nell’irruenza noise di Scream, ci fa ballare storditi per due minuti con Wanna Dance e ci schianta a terra con Burka For Everyone. In Alter Ego siamo dentro la Risonanza Magnetica Nucleare ad alto campo tre Tesla. Nessuna chitarra, solo un vecchio Korg MS20, un microfono a contatto, basso, batteria e drum machine. Per ora disco italiano dell’anno.

83/100

ANDRAS

CERRONE

BEATS IN SPACE

BECAUSE

JOYFUL

Al primo album per l’etichetta di Tim Sweeney (DFA), quarto in totale, l’australiano Andrew Wilson firma 36’ di house sognante ed euforica. Che prendono forma da un’intuizione non scontata: fondere gli arpeggi acidi e le pulsazioni della dance anni 90 con il folk anni 70, sotto forma di voci, campioni e melodie. Nulla di troppo esplicito nei fatti, ma l’aria estiva e vibrante che ne risulta è irresistibile.

Ispirato in buona parte dai cambiamenti tecnologici e climatici, il 27esimo album dell’ultraveterano della disco francese si ricollega sia tematicamente che dal punto di vista sonoro al suo capolavoro Supernature. Vedi la title track o la protoelectro di Air Dreaming, fra gli episodi più riusciti di questo lavoro interamente strumentale. Nulla di sconvolgente, ma niente male per un batterista 67enne.

ANDREA POMINI

GIORGIO VALLETTA

CULT WITH NO NAME

DAKOTA SUITE & QUENTIN SIRJACQ

80/100

MEDIABURN A CURA DI MANUEL GRAZIANI

PAT AND THE PISSERS

POTTERY

DRUDGY

PARTISAN/ROYAL MOUNTAIN

AMERICA’S DREAM

La title track è una litania deragliante e post punk, poi Alex Beckmen ci trasporta nella tormenta noise hc di Freaks e So Thick mentre in Hello e Operator i soci accendono la miccia del groove. Con Don’t Come In My House si torna a riflettere per abbandonarsi infine al tepore della struggente ballata lo-fi Debris. Un album indefinibile, che scuote e fa riflettere, di una band dell’Indiana da tenere d’occhio.

77/100

NO. 1

È uscito da un po’ ma è d’obbligo recuperare l’esordio della band di Montréal guidata da Austin Boylan, in cui milita Paul Jacobs. Un portentoso amalgama di post punk e pop deviato, con scintille dance, velluti damascati (Worked Up) e cavalcate prog. Per innamorarsene basta ascoltare la melodia contagiosa e British del primo singolo Hank Williams o di Lady Solinas, dedicata all’attentatrice di Warhol.

78/100

R.M.F.C./SET-TOP BOX

THE SHITDELS

GOODBYE BOOZY

WHAT’S FOR BREAKFAST?

SPLIT

In occasione del tour estivo a Melbourne hanno pubblicato una cassetta con due pezzi a testa: R.M.F.C. coverizzava Worker di SetTop Box e quest’ultimo Television della creatura di Buzz Clatworthy. La GB sversa tutto su vinile con l’aggiunta di due pezzi. Stiamo parlando di autentico weird punk australiano fatto con chitarre scordate, elettronica da videogiochi anni 80, voci cupe ed effettate: uno sballo!

74/100

72 | RUMOREMAG.COM

SHAPE-SHIFT FACES

Queste quattro righe sul misconosciuto gruppo di Nashville sono indirizzate a chi è aduso a setacciare i bassifondi del garage riverberato e ultra lo-fi, esaltandosi al ritmo di “boogie woogie per scheletri animati”. Sono certo che i crampsiani di tutte le età e i fan del budget rock s’invaghiranno del caos dalla melodia informe di Status 6 e Mirror Man, il surf maleodorante di Shitsurf e roba così.

70/100

DNA

CWNNN MUSIC

Per la loro nona fatica sulla lunga distanza, Erik Stein e Jon Boux, in compagnia di Kelli Ali e di Steven Brown e Blaine L. Reininger dei Tuxedomoon, fanno un salto nel vuoto di valori e ideali che sta divorando la nostra società aggrappati alle loro tenebrose trame elettroniche dall’appeal acustico, ricavandone 13 nuovi eleganti brani dai ritmi electro wave, i fiati jazz e un’eterea anima synth pop. DORIANA TOZZI

65/100

65/100

THE INDESTRUCTIBILITY OF THE ALREADY FELLED SCHOLE

Molta è farina del sacco di Chris Hooson aka Dakota Suite, uno mai sfiorato dalla fortuna oltre che perseguitato dai paragoni con Kozelek. Suo il sussurro di voce ad accompagnare il pianoforte felpato e imbevuto di ambient del francese Sirjacq, e suoi i tempi di un lavoro idealmente (e poco più) dedicato alla cultura giapponese: album notturno per vocazione e raffinatissimo per sviluppo. FRANCESCO VIGNANI

75/100

DEN

ECCO2K

CORPSE FLOWER

YEAR0001

IRON DESERT

Questo di Chicago è un trio ben strano. “Deserto d’acciaio” è la “formula” con cui vorrebbero descrivere la loro musica. Immaginate un grezzo fuzz noise sound caricato di death metal, che si liquefa in digressioni astral psichedeliche, ma più spesso sembra sbattere monotonamente contro un muro di ferro. Eppure ci sono alcuni passaggi molto interessanti. Sentite l’(im)puro death psichedelico Svalbard. CLAUDIO SORGE

75/100

E

Drain Gang è un collettivo svedese in orbita cloud rap, un microgenere dell’hip hop con beat sognanti e un flow decisamente lento. Arriva da qui Ecco2k (Zak Arogundade) che a differenza dei compagni sceglie strade alternative vicine a un R&B destrutturato, a una nuova visione dello urban pop (Sugar & Diesel). Un pathos esistenziale che avvolge lentamente tutto (Fragile). La resa è super contemporanea e piena di spunti interessanti. NICHOLAS DAVID ALTEA

78/100

SUONA ANCORA

RECENSIONI IN BREVE FEBBRAIO 2020

IL MEGLIO DEI MESI PASSATI

FREE NATIONALS

HELVETIA

THE JAZZ DEFENDERS

EMPIRE

AUTOPRODUZIONE

HAGGIS

FREE NATIONALS

FANTASTIC LIFE

SCHEMING

Impeccabile al fianco di Anderson .Paak, la band guidata dal chitarrista Jose Rios viaggia senza una direzione precisa nell’album con cui si cimenta in proprio. Incostante e dipendente dalla personalità degli ospiti di volta in volta coinvolti. Non a caso qui gli episodi migliori sono quelli che coinvolgono stelle dell’R&B contemporaneo come Syd, Kadhja Bonet e Kali Uchis, oltre al giamaicano Chronixx.

C’è Jason Albertini dietro gli Helvetia, la band di Portland che da circa 15 anni pratica la religione del lo-fi sperimentale. Il gruppo era nato dopo lo scioglimento nel 2001 dei Duster, nei quali Jason suonava la batteria. Duster che peraltro sono ritornati nel 2019 con un nuovo lavoro. Gli Helvetia sono degli slacker psichedelici e con i Pavement nel cuore, portano avanti la bandiera della loro sgangherata bassa fedeltà. Puri.

GIORGIO VALLETTA

NICHOLAS DAVID ALTEA

ANDREA POMINI

KID FRANCESCOLI

FRANZISKA LANTZ

THE LONE MADMAN

YOTANKA/PIAS

GLOBAL WARMING

SATURNAL

61/100

LOVERS

77/100

FORMING TROPICAL CYCLONE

Mathieu Hocine festeggia il 18esimo compleanno del suo Kid Francescoli con questo nuovo sensuale LP electro dream pop dal consueto profumo francese. Sulle ali delle basi sognanti e ipnotiche dell’artista marsigliese volano leggere e quasi sussurrate le voci di Samantha, Sarah Rebecca, Nassee e Alizée aka iOni, muse di queste passionali storie d’amore dai testi in francese, inglese e portoghese.

L’artista anglosvizzera, a due anni dal primo album Arid Zones, prosegue in un percorso tematico piuttosto coerente anche dal punto di vista musicale. Questi 20 episodi sono fortemente caratterizzati da un suono techno distorto e visionario, sottolineato dall’occasionale emergere di suggestive melodie, come in Raaa: consigliato ai seguaci di Ron Morelli e dell’elettronica rave sperimentale.

DORIANA TOZZI

GIORGIO VALLETTA

NATHANIEL RATELIFF

SHADOW WITCH

CAROLINE INTERNATIONAL

ARGONAUTA

Una storia d’amore che finisce, un amico fraterno che viene a mancare troppo presto e la serenità che presenta il conto. È in queste circostanze che nasce il primo LP solista del frontman dei Night Sweats, che esorcizza il dolore attraverso dieci canzoni acustiche e intime. Con la voce e la chitarra sempre in primo piano, Rateliff alterna country, folk e blues per un viaggio introspettivo verso la speranza.

Una buona band, esperta, con membri che arrivano da vari gruppi del sottobosco metal newyorkese (Murphy’s Law, Voodelic, Cold War Survivor). Il loro terzo album per la valente Argonauta mette assieme vecchio e nuovo: heavy metal storico, hardcore e grunge, arrivando a una sorta di sound “progressivo” che può anche rievocare i Mastodon. Il tutto interpretato con una potenza e un’energia da band hardcore esordiente.

70/100

AND IT’S STILL ALRIGHT

DORIANA TOZZI

63/100

66/100

UNDER THE SHADOW OF A WITCH

CLAUDIO SORGE

70/100

Non si nascondono certo dietro un dito, i cinque britannici capitanati dal pianista e organista George Cooper: il nome va preso alla lettera, e il jazz che intendono difendere è quello ultraclassico degli anni 60. Hard bop di rigorosa osservanza Blue Note, dunque, rivisto con intenzione più marcatamente soul jazz e ballabile, e piglio da band affiatata e moderna. Non male, ma nostalgia pura.

LITURGY H.A.Q.Q. YLYLCYN

Il quarto album dei Liturgy è come sempre un affare esplosivo, neuronico: burst beats, contratte abrasioni elettroniche, strumenti etnici, piano, arpa.

68/100

LET THE NIGHT COME

I Lone Madman di Helsinki ti sotterrano sotto una coltre di chitarre heavy “chiuse” in una compatta atmosfera gravemente doom, e ti introducono a un canto/litania folk da antica Inghilterra. Immaginate, pur con le dovute proporzioni e una tendenza a un’epicità a volte anche eccessiva, un dolente e fuori dal tempo mix tra i Candlemass e i Fairport Convention. CLAUDIO SORGE

SAULT 7

FOREVER LIVING ORIGINALS

Nell’attesa di un segnale che li faccia finalmente uscire dall’ombra, 7 conferma le formidabili qualità e la visionaria versatilità dei Sault.

70/100

UNCOMMON EVOLUTION ALGID

ARGONAUTA

Southern sludge blues dai toni cavernosi e forse un po’ grevi (il cantante sembra un Phil Anselmo in crisi di asma). Siamo in ambito NOLA, se non si fosse capito (Corrosion, Down), benché la band con tutta la sua aspra grezzezza provenga in realtà dal Montana. C’è in loro anche qualcosa dei Black Oak Arkansas di Jim Dandy (Harder Than Hickery), riconvertito però in chiave heavy. Buone basi, attendiamo sviluppi.

ALGIERS

THERE IS NO YEAR MATADOR

Gli Algiers sono andati molto oltre, anche se probabilmente ci vorrà del tempo per accorgersene.

CLAUDIO SORGE

74/100

RUMOREMAG.COM | 73

TREECOLORE DISCO DEL MESE

NON VOGLIO CHE CL ARA BENTORNATO SPLEEN POP

NON VOGLIO CHE CLARA SUPERSPLEEN VOL. 1 DISCHI SOTTERRANEI

Se il risultato è questo, è valsa la pena aspettare cinque anni per ascoltare il nuovo lavoro di Fabio De Min, Marcello Batelli, Martino Cuman e Igor De Paoli. Del resto, senza ricamarci troppo intorno, la qualità ha bisogno di tempo. L’esito è una scaletta misurata e necessaria. Dieci canzoni in tutto che si fanno amare subito, anche se chiedono di essere riascoltate, approfondite,

scandagliate, perché giro dopo giro è facile che assumano tonalità diverse, che suggeriscano nuovi spunti. Altrettanto misurato e sempre discreto è l’approccio. Ancora una volta è un pop di sapore rétro, romantico, che parte dal pianerottolo per declinare l’Universo, sia in termini di note sia di parole. È divertente perdercisi, decifrare il messaggio che sta dietro ai personaggi, agli oggetti e ai luoghi egregiamente ritratti dal quartetto bellunese. Il pensiero che sta dietro alla narrazione. È uno sguardo poetico che dall’ironico sa farsi caustico, cinico; a stanare i mostri di oggi, che ciclicamente si ripropongono assumendo forme diverse, insiti nella natura umana. “Quanto all’amore l’ho sepolto giù in cortile insieme col giardiniere. Ci fosse amore fra le mie rose nelle aiuole lo scopriresti dall’odore. Chi si è scordato i figli dentro l’auto sotto il sole, chi la lama del coltello appena sotto il cuore e chi la dignità sul sedile di un Range Rover”, cantano ne Il Miracolo, per capirsi. Tuttavia quel loro pop d’autore introverso oggi si tinge di nuove sfumature e si fa più immediato, diretto, forse anche più consapevole, disteso, meno cerebrale, anche meno cupo, ma pur sempre riflessivo e intenso, beninteso. DI BARBARA SANTI

74 | RUMOREMAG.COM

Spleen sì, ma pop. Malinconico ma mai annoiato. Colto ma fruibile. Elegantissimo. La consapevolezza e la naturalezza poi non sono maturate solo in termini musicali, di arrangiamento e produzione, ma pure di voce; non è un segreto che quella di De Min sia personale, ma ha guadagnato in sicurezza e definizione. Il suono è più lieve, arioso, contagioso; si pensi per esempio al primo singolo, La Croazia, che dice molto anche di quel sottile e contrariato sarcasmo che contraddistingue la scrittura dei nostri e di certo gusto per ciò che è sintetico. Ma anche per dire per il funk e la disco, basti ascoltare Epica Omerica o La Streisand per crederci. Senza dimenticarsi del rock, e di far suonare corde piene o riverberate, secondo il clima. O di sondare territori esotici e sperimentare percussioni sudamericane applicate al pop. Tra la tradizione e il mondo. Lasciando che l’ascoltatore possa affidarsi a un arpeggio, al suono rassicurante di un pianoforte, ma anche che si alzi in piedi per ballare su una cassa disco o su un synth, o che semplicemente resti seduto a meditare.

85/100

TREECOLORE GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

AA.VV.

AA.VV.

O’LIVE

LACERBA

A FRAGILE TRIBUTE

EXTRASUSSURRANTE

Festeggiare un anniversario celebrandone un altro: è quello che ha scelto di fare la O’live produzioni, che in occasione del suo decennale chiama a raccolta amici e artisti del suo roster per reinterpretare The Fragile, l’album dei Nine Inch Nails che di anni ne compie 25. Come in tutte le operazioni di questo genere, c’è chi sceglie di restare più fedele al sound originale e chi preferisce vestire i brani di atmosfere congeniali. Il cast è decisamente eterogeneo, ma dall’iniziale Somewhat Damaged del duo tedesco Floor 5, uno dei più affini per ispirazione ai NIN, a una title track che cambia lingua e nelle mani di Nevica e Dagger Moth diventa una specie di incontro ideale fra Trent Reznor e Cristiano Godano, al folk blues in cui Enzo Moretto degli A Toys Orchestra converte The Great Below, la costante è il rispetto per un disco e una band fondamentali.

Magari di architettura non si potrà ballare, ma si può suonare: lo dimostrò nel 1983 Alessandro Mendini con Architettura Sussurrante: un esperimento musicale, pubblicato in sole 2000 copie (di cui una è conservata al MoMa di New York), che si proponeva di “essere la componente sonora di esperienze architettoniche complesse”. In seguito alla scomparsa di Mendini, avvenuta praticamente in contemporanea con la riedizione da parte di Lacerba, il progetto Extrasussurrante, già in cantiere, diventa un tributo all’autore oltre che all’opera, che viene ricostruita da artisti coinvolti nell’originale fra cui Mauro Sabbione e Maurizio Marsico, mantenendone intatte le fondamenta ideologiche ed espandendo, restaurando, innovando, come a ricordare che pietra e cemento possono essere materiali vivi e plasmabili al pari del suono.

LETIZIA BOGNANNI

LETIZIA BOGNANNI

71/100

78/100

AIRPORTMAN/ FABIO ANGELI

ASP 126 X UGO BORGHETTI

LIZARD

BOMBA DISCHI

IL PAESE NON DORME MAI

SENZA GHIACCIO

Ogni album degli Airportman fa storia a sé. In quasi 20 anni di attività la band di Centallo (CN) ha scelto spesso di raccontare storie solo con i suoni, lasciando fuori le parole. O, meglio, inserendole nelle pagine dei booklet, poetiche didascalie e controcanto mentale affidato all’ascoltatore. Di tanto in tanto, però, la formazione ha intrecciato il proprio percorso con delle voci: in questo caso Fabio Angeli degli Esterina, che declama e poi canta nelle due parti della title track e rende incantevole una cover struggente, devastante nel suo imploso intimismo, di Life In Vain di Daniel Johnston. Per il resto, con un collante emotivo/tematico che parla di padri e ciclicità del tempo, prevalgono acustiche chitarre circolari e ritmi appena accennati. Poche note ma, come sempre, quelle giuste.

La ormai celebre Lovegang non è mai stata facile da inquadrare e questo disco, uno dei più autentici dell’anno appena concluso, ne è stato un ulteriore testimone. Complici un modo di rappare unico e dei beat semplici ed efficaci, Ugo e Asp hanno messo la malinconia di una certa Roma in musica, colmi di una genuinità musicale necessaria. Senza Ghiaccio profuma di quella che i portoghesi chiamerebbero saudade, quel tipo di nostalgia difficile da spiegare a parole, ma decisamente sentita. La voce spezzata di Ugo Borghetti in Campare Di Campari sarà lontana dalla perfezione stilistica di chi raggiunge i dischi d’oro in una settimana ma ci ricorda che la musica, spesso, è anche terapia. Nell’immensa offerta musicale che offre il rap oggi, questi due ragazzi si sono differenziati nel modo più sincero possibile.

ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

MATTEO DA FERMO

75/100

79/100

MARTINA BERTONI

BIG MOUNTAIN COUNTY

BRUNORI SAS

COUNTRY FEEDBACK

FALK

PORTO

ISLAND

MIACAMERETTA

ALL THE GHOSTS ARE GONE

Musicista friulana di base a Berlino, Martina Bertoni è stata per molti anni collaboratrice di fiducia di Teho Teardo prima di trasferirsi in Germania e intraprendere la carriera solista. Dopo due EP giunge finalmente all’esordio di lunga durata per l’etichetta islandese con un album che parte dal suo strumento d’elezione, il violoncello, per esplorare territori sonori all’insegna di un’elettronica algida e scintillante. Un po’ sulla scia della recente tradizione di violoncellisti come Oliver Coates e Hildur Guðnadóttir, anche Martina approccia il proprio strumento per indagarne tutte le potenzialità in senso compositivo più ampio e libero. Ne risultano brani dall’alto tasso cinematico, costruiti su strati di suono spesso ma non privo di raffinatezza. LUIGI MUTARELLI

75/100

SOMEWHERE ELSE

Due tizi buttano giù il terzo bicchiere consecutivo, il passaggio dalle droghe ai liquori è fisiologico all’avvicinarsi della mezz’età. Il primo attacca dicendo che la pallosissima Italian Occult Psychedelia sta facendo la fine del Mago Do Nascimento e aggiunge: in ambito psychgaze non male New Candys e Sonic Jesus ma troppo nella parte. Il secondo filosofeggia in rima: per fare psichedelia ci vogliono soul ed empatia, il nuovo dei BMC è nebbia (Lost Summer) con chitarre affetta nostalgia (Dust, Just The Same) e ritmiche che fanno dimenare come i bersaglieri di Porta Pia (Dancing Beam, Just A Boy). Ah: ci vuole pure un tocco d’eleganza, nonché d’elegia, e la presenza di Andrea (Persian Pelican) e Paola (Honeybird & The Birdies) di Canarie, mi pare proprio lo dia. MANUEL GRAZIANI

81/100

CIP!

“Il bello della vita è rientrare in partita”. Dario Brunori ritorna a scuotere il cantautorato italiano con la sua peculiare poetica degli opposti, della velata malinconia e quel pizzico di ironia che mescolano le carte tra il bene e il male, dando voce ai pensieri di una generazione ricolma di rimpianti, ma che spera ancora nel riscatto del futuro. Cip! è il ritratto di un ingenuo, mistico, consapevole, democristiano, capace di raggiungere con apparente e affilata semplicità anche i cuori più induriti. L’ordinarietà e la cantabilità di testi e melodie avvezze al pop, ma elegantemente rivestite di De Gregoriana luce, riducono la distanza tre pensieri e parole, richiamando un senso di empatia corale. SIMONA VENTRELLA

72/100

SEASON PREMIERE

Country Feedback è lo pseudonimo scelto da Antonio Tortorello, già leader dei frusinati 7 Training Days, per mettere in piazza educazioni sentimentali e ascolti sedimentati negli anni. Se è legittimo circoscriverne le composizioni a una formula indie rock chitarristica comme il faut (Love Usually Leads To Trouble), in un panorama affollato di pur volenterosi manieristi non possiamo che accogliere entusiasti la spericolatezza di certe soluzioni: solide iniezioni post punk a base di bassi schiacciasassi e accenti ritmici extraoccidentali sparsi un po’ ovunque, un uso assai originale dei fiati (qualche disco degli Ex sul piatto ci è passato), il tutto miscelato con eccellenti risultati, ad esempio, in un pezzo come Bad Habits Die Hard. ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

75/100

RUMOREMAG.COM | 75

RADICI FEBBRAIO 2020 / GIOVANNI TRUPPI

10 CANZONI PER

GIOVANNI TRUPPI 5, il suo nuovo EP in uscita ora, è l’occasione giusta per scavare nelle radici del Nostro. “La lavorazione di Poesia E Civiltà è stata lunga, complessa e faticosa”, spiega. “Avevamo canzoni in esubero; alcune accantonate perché inadatte all’insieme, altre (Procreare e Il Tuo Numero Di Telefono) perché non saremmo riusciti a finirle bene e per tempo. 5 è un modo per far uscire queste tracce, e per lavorare con alcuni colleghi che desideravo incontrare ‘artisticamente’. Inoltre volevo coinvolgere artisti visivi in un progetto che riguardasse canzoni, e le cose si sono fuse in quest’esperienza: un piccolo disco e un libro, dove cinque disegnatori/fumettisti hanno scelto un pezzo ciascuno e l’hanno raccontato in una storia. Cantano con me Calcutta, Brunori, Fabi e Veronica Lucchesi, mentre gli artisti coinvolti nel libro sono Antonio Pronostico e Fulvio Risuleo, Cristina Portolano (già autrice della copertina del mio scorso disco), Pietro Scarnera, Mara Cerri e Zuzu”.

TAG S: #GIOVANNITRUPPI #5

NINA SIMONE

PLAYLIST

WHO AM I

“Da un po’ di anni è la mia canzone preferita, senza discussione: per me sia la musica sia le parole (sia, nella versione di Nina Simone, l’interpretazione) rapprese”.

DA NINA SIMONE AND PIANO!

SUN KIL MOON JIM WISE

ROBERTO MUROLO

ONLINE: GIOVANNITRUPPI.COM

NAT KING COLE

PAOLO CONTE

THE BEATLES

“La canzone moderna, per come la vivo e la sento, ha un piede nella canzone napoletana e l’altro negli standard americani. Per un periodo la mia routine di studio (di canto) iniziava ogni giorno eseguendo questa canzone”.

“È ancora incredibile, per me, quanto possa essere varia la gamma di cose che una canzone è in grado di descrivere e quanto si possa essere specifici nel racconto. Questo è un esempio formidabile”.

“Una preghiera dolce, crudele, leggera e onesta all’amore e alla vita. Il modo in cui è registrata la rende ancora più impalpabile: la conosco da quando ero ragazzo ma ci ho messo molto tempo a comprenderla”.

DA NAPOLETANA – VOL. 6

DA THE NAT KING COLE STORY – VOL. 1

DA PAOLO CONTE

DA RUBBER SOUL

MORPHINE

SUFJAN STEVENS

FABRIZIO DE ANDRÉ

LUCIO DALLA

STARDUST

‘MMIEZ O GRANO

“La versione di questo brano incisa da Murolo è la mia traccia preferita di Napoletana, una serie di dischi voce e chitarra da lui incisi a metà degli anni 60 del ‘900 sulla storia della canzone napoletana. Qui ci sono le mie origini, da ogni punto di vista”.

HONEY WHITE

COME ON! FEEL THE ILLINOISE!

“Ho scoperto Mark Kozelek molto tardi e in un momento in cui non credevo più molto nel cantautorato contemporaneo. Questa canzone – e dietro di lei Benji e tutta l’opera di Sun Kil Moon - mi ha sconvolto”.

“La musica che scrivo non sarebbe la stessa senza il rock. È difficile dare una definizione di questa parola, che mi sembra ormai più un’attitudine che un genere. Questo brano per me ci riesce benissimo”.

DA BENJI

DA YES

“Un capolavoro assoluto. Ho conosciuto Sufjan Stevens partendo da questa canzone e, anche se non è tra i suoi brani che mi emozionano di più, ogni volta che la sento mi impressiona quello che riesce a costruire nei 6’46’’ della sua durata”. DA ILLINOIS

LA RAGAZZA FISARMONICA

NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ

“Per un certo periodo della mia vita De André ha rappresentato una figura quasi paterna ed è difficile scegliere tra le sue canzoni e le sue cangianti manifestazioni discografiche. Scelgo questa perché credo che l’avrei scelta da giovanissimo”. DA STORIA DI UN IMPIEGATO

A CURA DI BARBARA SANTI - FOTO DI GIUSEPPE TRUPPI 76 | RUMOREMAG.COM

IN MY LIFE

CARA

“Cara è sexy, elegante, dolce, complessa e semplice. Tutto quello che una canzone d’amore può essere è contenuto qui, e più passa il tempo e più mi sembra semplicemente bellissima”.

DA DALLA

TREECOLORE GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

DARDUST

DRIEU

GOTHIC STONE

HUMPTY DUMPTY

SONY MASTERWORKS

AUTOPRODUZIONE

BLACK WIDOW

SUB TERRA LABEL

S.A.D. STORM AND DRUGS

Dopo un 2019 che l’ha visto imprevedibilmente trionfare a Sanremo (come coproduttore e coautore della Soldi di Mahmood), è impossibile non pensare a Dario Faini - da anni iperattivo dietro le quinte - come a uno dei protagonisti dell’attuale rinnovamento del pop italiano. Il suo terzo album come Dardust prosegue nell’esplorazione della linea di confine fra neoclassico ed elettronica di stampo europeo, a partire dalla spettacolare sintesi dell’inaugurale e tempestosa Sublime. Se l’utilizzo di un cantato blues filtrato in Prisma fa pensare al più celebrato Moby, S.A.D. applica campioni vocali di gusto R&B a un pianoforte malinconico. Forse in questo disco non c’è nulla di radicalmente nuovo, ma il tutto suona avvincente ed emozionante: in fondo è da anche da questo che si capisce la sua bravura.

LA DISTRUZIONE

HAERETICUS EMPYREUM

LA VITA ODIA LA VITA

Scende la puntina sull’esordio dei Drieu e scompaiono i sorrisi. Il gruppo (con ex membri di Crash Box, Erode, Burning Defeat) ha la mano pesante. Con cattiveria chirurgica, i sei episodi di La Distruzione ti martellano ai fianchi e trasudano disagio. Il suono passa in secondo piano, rispetto alla tensione che genera. Ci trovo qualcosa dei Fugazi, dei Massimo Volume di Stanze, degli Wire più cinici. Zero sorrisi, dicevamo. Meglio così, di coglioni che ridono di default in giro ce ne sono già troppi. I Drieu sono una spina nel fianco dell’underground italiano 2020: disturbanti, nel modo di far musica e in quello che raccontano, in antitesi a un certo imperante buonismo punk. Potrà non piacere, il loro post hardcore, ma la ferita che provoca è profonda. Se alla musica indipendente chiedete conferme, cercate altrove.

Grevi e ampollosi, i freaks palermitani Gothic Stone hanno però un carisma e una fantasia nelle loro elucubrazioni gothic doom da lasciare affascinati. Dopo 25 anni dalla loro formazione incidono finalmente un album. Ed è qualcosa di sorprendente. Perché ricco di influenze heavy dark prog, rock ‘70, NWOBHM, che vanno a comporsi in un’opera dai tratti magniloquenti e barocchi. Una “recitazione” heavy metal portata all’estremo, in brani da chiesa sconsacrata come Caeneris Mundus The Necromancer, dove coniugano i Judas Priest con la musica sacra; mentre in TheTime Lord gli stessi Judas diventano liturgicamente psichedelici, con punte di vero e proprio delirio. Certo non è la sobrietà la virtù dei Gothic Stone, al contrario, li apprezzi proprio per questo gusto sfrenato dell’eccesso.

LUCA FRAZZI

CLAUDIO SORGE

KETAMA 126

LA COSA

LORD WOLAND

M!R!M

SONY

ADAPTOR RECORDINGS

RETRO VOX

AVANT!

Personaggi eccentrici che frequentano le notti dei grandi centri urbani hanno spesso ispirato la musica di numerosi artisti, è il caso di questo disco, che prende il titolo da tale Donald Sinclair, uno scapestrato aristocratico britannico che ha animato con la sua vivacità il centro storico genovese per alcuni anni. Con simili premesse non poteva che venire alla luce un party album festoso e godereccio, che affonda le sue radici nella migliore tradizione funk e house, con alcune incursioni in territori italo disco (What We Offer You), finendo per lambire anche moderne atmosfere in stile DFA (Hey Tonight). Un lavoro ricco di groove esplosivi, in cui i Daft Punk di RAM amoreggiano con il soul (Fooling You), e in cui la cover di Wicked Game risulta il brano meno interessante del lotto.

Trio hard rock che arriva dal Lago di Bolsena. Iniziano cantando in inglese e solo dopo il cambio di formazione del 2017 provano a fare nuovi pezzi in italiano. Ma il sound rimane lo stesso; ispirato al rock blues classico degli anni 60/70, che mettono a punto in una serie di concerti di apertura a band come Duel, Gorilla Pulp, Datcha Mandala. E si arriva a Litania, il loro nuovo album. Un ottimo album, dove a me è parso di ascoltare persino antiche cose del Balletto Di Bronzo, il primo Balletto, quello hard influenzato dai Led Zeppelin. Ampie melodie italprog e squarcianti riff e accordi di chitarra, che in alcuni tratti diventano quasi deflagranti. Soprattutto, alimentati da una fantasia e creatività simili a quelle del Balletto.

GIORGIO VALLETTA

74/100

KETY

Al giorno d’oggi si parla così tanto di trap da far credere ad alcune persone che tutti siano capaci di farla, come fosse la cosa più semplice del mondo: basta aprire i social per rendersene conto. Come spesso accade, tuttavia, non è tutto come sembra e oltre ad avere un certo talento per il genere bisogna avere anche una credibilità, la quale spesso latita. Ketama126 con questo disco ha dimostrato definitivamente di avere entrambe, pubblicando un album solido e credibile, addentrandosi anche in terreni particolari, come accaduto in Cos’è L’Amore, brano in collaborazione con Franco Califano (sì, proprio lui) e Franco126. In Denti D’Oro il rapper canta: “Ho una sola possibilità e non posso sbagliare”: a qualche mese dall’uscita possiamo dire che questa chance sia stata utilizzata più che bene. MATTEO DA FERMO

77/100

80/100

THE DONALD SINCLAIR SESSIONS

STEFANO D’ELIA

72/100

78/100

LITANIA

CLAUDIO SORGE

80/100

Fra i 19 album all’attivo del messinese Alessandro Calzavara (tutti scaricabili gratuitamente dal suo Bandcamp) quest’ultimo suona come il frutto di un’ambizione per troppo tempo sopita. Humpty Dumpty è da sempre il punto di incontro di alcune delle esperienze artistiche più oblique dello spettro pop. Un crogiuolo sonoro in cui la new wave italiana si lega inestricabilmente al post punk britannico più geometrico e ai neo barrettismi di Robyn Hitchcock e Julian Cope. Questa volta le consuete riflessioni esistenziali vengono assestate su complesse partiture DIY. Quelle di Dal Confine e Anni Luce sono epiche di psichedelia urbana, sketch di un romanticismo distaccato e decadente che grazie al carisma del suo autore si fanno esperienza appagante dal punto di vista estetico e da quello narrativo. DIEGO BALLANI

80/100

THE VISIONARY

Il suono del progetto M!R!M non è mai restato uguale. L’unica parte immutabile è Jack Milwaukee, italiano e ormai londinese d’adozione da svariati anni, nonché mente e anima di questa creatura. Tra singoli ed EP, il terzo disco è una realtà solida, dove il marcato abbandono della cold wave dritta e marziale di Iuvenis (2017) è a favore di un’evoluzione decisa in tutte le sue parti: suoni, arrangiamenti e strutture. Survive è una droga liquida che scivola tra gli anfratti synth pop ‘80. Another Life Another Time con Kat Day dei KVB viaggia dritta sulla pop wave, mentre la voce iper filtrata e i sax portano a compimento Testament. Crucifix And Roses è la miglior declinazione dream pop wave dei Pains Of Being Pure At Heart, capace di toccare valvole emotive impolverate. È quasi magia, Jack. NICHOLAS DAVID ALTEA

83/100

RUMOREMAG.COM | 77

IN ITALIA I STREAM, YOU STREAM, WE ALL STREAM FOR AN ICE STREAM rovato un titolo brillante dopo 60 minuti di blocco creativo, ora fatta In Italia bisogna fare gli in italiani: sovranismo o barbarie? 12-5-87 aprite i vostri occhi o 17 re? Ius soli, ius sanguinis o ius culturae? Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? La risposta come diceva quelo è uno streaming of consciousness, ma è quella sbagliata: dentro il nostro carrello Amazon® in attesa di un friday bloody friday che mai arriverà, nella nostra chiave USB persa sotto il sedile della macchina o dentro

T

STRANACREMA STRANACREMA

SOUNDCLOUD.COM/STRANACREMA

Gli esordi del romagnolo Giuseppe Coluccelli li possiamo ascoltare su MySpace, alla pagina ancora esistente dei post rockers Venezia. Era il 2008 e Giuseppe aveva 19 anni. Poi vennero i Raein. Qualche anno di silenzio e lo ritroviamo in 47100, l’ottimo debutto solista dell’amico Matteo Vallicelli, uscito per Captured Tracks. Il progetto Stranacrema da lì riparte: estetica e titoli di canzoni che rimandano ad un immaginario “post” virato verso l’elettronica (anche se chitarra e voce fanno capolino ogni tanto), suggestioni liquide e atmosfere dilatate ed eteree ma meno gelide di quelle delineate dall’amico emigrato a Berlino. Il debutto solista di Coluccelli in un certo senso segue la rotta adriatica, e, visto Giuseppe nella vita fa lo skipper, direi c’è da fidarsi.

74/100

il nostro account Spotify® (che cito nella speranza di vedermi regalato un abbonamento premium a vita mentre vivo sperando che torni presto l’era del vinile bianco). In attesa della nuova onda affidiamoci a dischi che fungano da beni rifugio a scopo non speculativo, che ci proteggano da questo periodo di crisi e di forte instabilità. Visto che in questo momento storico il ruock e il cantautorato sono populisti e noi non vogliamo fare il loro gioco iniziamo coi generi che colgono lo spirito di questi tempi, ossia la trap e l’hip hop (ho letto che è trap nell’Internet). Essendo noi boomer scegliamo Dellamorte Dellemone, disco che come al solito esce solo in formato digitale e come al solito è scaricabile gratuitamente, che celebra il ventennale del progetto Aggettivo Sette (mortecattiva. bandcamp.com), nato nel 1999 da Mortecattiva e DJ Panino dopo aver ascoltato su Geocities un gruppo di rapper sfigati di Bolzano. Il Soavi (inteso come il regista Michele) titolo è un manifesto programmatico del pensiero e della musica del rapper trentino, per il resto ha già detto tutto la conclusione della recensione comparsa in rete l’11 novembre 2019: la sensazione è che ci sia più hip hop in questo che in tantissimi dischi recenti di pseudo rap da classifica. In moto avverso e contrario rispetto a quello che fecero Neffa&soci negli anni 90 A CURA DI MARCO PECORARI

78 | RUMOREMAG.COM

arrocchiamoci in dischi rifugio passando dalla doppia h all’hc, in attesa che il cielo su Roma volga al sereno: i Greve (greve. bandcamp.com) sono nati come gruppo per accompagnare Michele Barox nelle date di presentazione della ristampa del 7” Tutti Pazzi dei Negazione (di cui Barox è stato primo batterista: e tutto torna, visto che non perdiamo occasione di ricordare che invece l’ultimo batterista del gruppo è stato Neffa e che ora alla batteria nei Greve c’è un noto rapper). Nel loro 7” di debutto Allo Specchio riflettono di luce propria: sei pezzi originali per poco più di otto minuti di durata, pochi fronzoli, no bullshit, testi introspettivi e rabbiosi impreziositi dall’artwork a cura di Nicola Peressoni anche conosciuto come Speaker Deemo, quello di Sfida Il Buio e Questione Di Stile che al momento su Discogs viaggia solo a 120€. Visto che oramai è noto che questa rubrica è finanziata da Soros e dal piano Kalergi prendiamo un Flixbus® in partenza da Torino stazione Commando Vanessa (commandovanessa.bandcamp. com) ed esuliamo in Belgio in compagnia dell’italianissimo Christophe Clébard. SSS è l’ultimo disco che uscirà sotto questo nom de plume: un epitaffio synth punk su ritmi turbolenti cantando seminudo di amore, odio e morte, accompagnandosi a un synth arrugginito. Il segreto meglio custodito della stazione di Bruxelles?

TREECOLORE GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

NO STRANGE

OVO

VALENTINA POLINORI

RAMROD

AREA PIRATA

ARTOFFACT

AUTOPRODUZIONE

BLACK WIDOW

MUTTER DER ERDE

Sin dai primi anni 80, i torinesi No Strange costituiscono un corpo estraneo all’interno del panorama italiano. Il loro è un percorso coerente che li ha portati fino a qui imboccando le strade poco battute della kosmische musik, del prog europeo più esoterico e di esplorazioni etnomusicali come quelle di Third Ear Band e Aktuala. Oggi si servono proprio di quest’ultime per porgere il loro omaggio alla scomparsa Jutta Taylor-Nienhaus degli Analogy. Grazie a un sound espansivo e stratificato e alle numerose collaborazioni, Mutter Der Erde si presenta come un saggio di misticismo in forma sonora. Un album ricco di elementi e richiami a un universo culturale che può suonare ostico ai non iniziati, ma che nondimeno sprigiona un fascino fuori dal tempo, che va oltre il mero piacere epidermico. DIEGO BALLANI

77/100

MARA REDEGHIERI

RECIDIVA+ LULLABIT

MIASMA

Mi sono veramente rotto le palle di scrivere degli OvO. Hanno iniziato a suonare più o meno quando ho iniziato a scrivere, e per questioni di affinità ne ho sempre scritto - tutti i dischi, un mare di concerti, gli innumerevoli progetti a lato di Bruno e Stefania. Da una realtà come gli OvO si suppone un ciclo di vita di quattro/cinque anni, uno o due dischi e poi il dimenticatoio; loro continuano da 20 anni, si presentano a intervalli regolari, ogni disco è meglio di quello prima, ogni concerto è meglio di quello prima. Miasma, anno 2020, è ancora il disco di un gruppo in piena parabola ascendente: soluzioni inesplorate, un mare di guest inaspettati, eccitazione a mille. Mi sono veramente rotto le palle di scrivere degli OvO, ma mica posso smettere prima che smettano loro.

Del secondo disco della cantautrice romana colpisce l’interpretazione. La voce è naturale, espressiva, nonostante sia intonata, precisa e munita di estensione. “Nonostante” perché di solito laddove si privilegia il canto si trascura il pathos e viceversa. Il suo fiato sa essere lieve, elegante; profondi e poetici i versi. Melodie eteree incontrano rime surreali, in una scrittura avara di parole ma prodiga di immagini. Canzoni d’amore sottendono metafore d’attualità e insinuano dubbi esistenziali. Musicalmente siamo tra Cristina Donà, Raffaella Destefano e Carmen Consoli, nell’ideale incontro tra modernità e passato. Un sapiente e misurato uso dell’elettronica, adagiato sulla formazione classica chitarre/basso/ batteria dei sodali Alessandro Di Sciullo, Stefano Rossi e Federico Santoni. Da tenere d’occhio.

FRANCESCO FARABEGOLI

BARBARA SANTI

84/100

SCOSSE ELETTRICHE SCOSSE ELETTRICHE ADN

È un disco perlopiù di duetti che esce a due anni dal suo esordio individuale. Sono le riletture di nove tracce proprio di Recidiva, e i remix di tre di queste, a cura di Beatrice Antolini, Lele Battista e di Raiz e Pierpaolo Polcari. Le voci che l’hanno affiancata hanno saputo entrare in piena sintonia con l’umore delle canzoni, nonostante apparentemente abbiano poco in comune sia tra di loro sia con la Nostra. La prima a fare capolino è quella di Gianna Nannini, naturalmente riconoscibile e sorprendentemente a fuoco in Anni Luce. Poi, nell’ordine di scaletta, ci sono Luca Carboni, Orietta Berti, Rachele Bastreghi, Mauro Ermanno Giovanardi e Antonella Ruggiero. Be’, tutti loro sono riusciti a calarsi nella parte completamente e forse è questa la qualità che li lega, certamente la professionalità.

Due avventurieri psichedelici di generazioni diverse, e un’unione che dà subito ottimi frutti. I sintetizzatori, il piano e il flauto di Riccardo Sinigaglia (Futuro Antico, Correnti Magnetiche, Doubling Riders) e la batteria di Davide Zolli (Squadra Omega), protagonisti di tre lunghe tracce improvvisate in cui si amalgamano le esperienze e le peculiarità di entrambi. I fraseggi solenni fra prog, kraut e ambient del primo, la pulsazione tanto disciplinata quanto creativa del secondo, elementi su cui si sviluppa il suono cosmico trascinante dell’album. Uno apre il disco con circospezione, ingrossandosi strada facendo fra tasti elettrici e toni cupi, senza mai esplodere. Lo fa invece Due, potente come una danza rituale e apice rock del disco, prima che la rarefatta e jazzata Tre accompagni all’uscita.

BARBARA SANTI

ANDREA POMINI

72/100

TRASPARENTI

81/100

75/100

SIBERIA

TUTTI AMIAMO SENZA FINE SUGAR/MACISTE DISCHI

L’anima wave che pervadeva l’alba della formazione labronica è sempre viva e dichiarata (vedi Ian Curtis, per dire) ma ha lasciato spazio a un pop di deriva decisamente bohémien, in debito sempre di più con i Baustelle, sia nelle intenzioni della voce, sia nei testi, sia melodicamente. Ma anche questo è un amore dichiarato, digerito, metabolizzato. Insomma, certo Sournia e sodali non ne hanno mai fatto segreto, e Tutti Amiamo Senza Fine scorre via gradevolmente, tra episodi più leggeri e ammiccanti che sanno di ‘80 italiani e ballate più intense. La formula della profondità delle parole coniugata alla leggerezza del pop non sempre è equilibrata, e quando predomina la seconda cominciano i problemi, ma sono solo un paio le tracce incriminate, le altre rispettano le giuste proporzioni. BARBARA SANTI

64/100

JET BLACK

Per una volta parliamo di rock. Questa negletta parola che sembra non piacere più a nessuno (tra i Kritici). Invece ci sono in giro tante band che vale la pena di ascoltare e che fanno semplicemente una musica dove soul, blues e hard rock formano una miscela irresistibile. Una di queste sono i Ramrod, dove canta la brava Martina Picaro. È un rock moderatamente hard, avvicinabile a ciò che stanno facendo band come Blues Pills o Riven, sempre per parlare di gruppi con una cantante femminile. I Ramrod sembrano ancora più “americani” dei modelli sopracitati, per le loro cadenze blues; mentre in brani come In Ares Call si coglie una chiara influenza dei Deep Purple (organo Hammond). Si dirà che non è nulla di nuovo ed è vero, ma loro lo fanno davvero molto bene. E non è poco. CLAUDIO SORGE

75/100

TALKY NERDS

DUNGEONS AND DRUGS

POUET! SCHALLPLATTEN/JACOB

Scorri la formazione e trovi membri di Lame, Movie Star Junkies, Rippers e Love Boat. Da gente così ti aspetti blues torcibudella e garage al vetriolo, poi piazzi il disco sul piatto e scopri di essere parecchio fuori strada. Nei nove episodi di Dungeons And Drugs infatti emerge una vena pop dai risvolti quasi “barocchi” (nell’accezione più nobile del termine), come se il demone del freakbeat si fosse impossessato di musicisti che conosciamo per tutt’altro. Le voci incastonate in un muro di fuzz gotico massimalista e gli arrangiamenti ben poco lo-fi, fanno di questo disco un’anomalia che lascia il segno. Poi ci sono i pezzi, tutti di qualità medio alta (uno su tutti: Dragon Stones, notevolissimo). Difficile, credo, replicare dal vivo sonorità così ricche, ma intanto godiamoci i Talky Nerds in studio. Ottima prova. LUCA FRAZZI

80/100

RUMOREMAG.COM | 79

C O L O R C L A S S I C B L U E 1 9 - 4 0 5 2

20

TREECOLORE GLI ALBUM FEBBRAIO 2020

TUM

TUTTI FENOMENI

MOQUETTE

42

TAKE OFF & LANDING

MERCE FUNEBRE

Come lascia intuire il titolo, il primo album solista di Tum, al secolo Tommaso Vecchio, è stato scritto in gran parte in viaggio, su voli per India, Thailandia, Lapponia, Giappone, Marocco e... Verano Brianza.Di tutto questo andare su e giù, i dieci brani del disco conservano lo spirito DIY di chi è abituato a viaggiare leggero e lo sguardo curioso di chi non ne ha mai abbastanza di stare on the road. La meta ultima ideale però resta sempre lei l’America: suona piuttosto evidente che Tum sia uno che a colazione mangia pane, indie folk e immaginario lo-fi, visto come ha imparato (bene) l’arte della canzone in equilibrio (precario) sulla linea di frontiera fra spazio sconfinato e cameretta, che ci porta dritto nel nostro personale Idaho (o Minnesota, Oregon, fate voi) anche se viviamo a Verano Brianza.

Quanti altri dischi tutti uguali dovremo ascoltare prima che chi di dovere si convinca che l’ondata Itpop si è ritirata, lasciando spesso sul bagnasciuga solo mucillagine, e che è inutile inondare ulteriormente il mercato dell’ennesima copia di mille riassunti? Prodotto da Niccolò Contessa, MF è un disco che, reiterando gli stilemi di un giovanilismo ormai con il fiato corto, dimostra che il problema di questo genere non è costituito da chi ha dimostrato per primo di saperlo impersonare con carattere, ma dagli epigoni interessati a inserirsi nei solchi di un successo facile da inseguire. Giorgio Quarzo Guarascio interpreta alla perfezione un copione scritto precedentemente da altri, fatto di un pop che vuole essere arguto e ironico, ma che risulta bolso e, in fin dei conti, inconsistente.

LETIZIA BOGNANNI

STEFANO D’ELIA

CLAUDIO VIGNALI

ZOLFO

AUAND BEATS

SPIKEROT

76/100

RACH MODE ON

58/100

DELUSION OF NEGATION

Basato prevalentemente sulla tecnica del campionamento in tempo reale, il disco del pianista Claudio Vignali, cui prendono parte Daniele Principato (elettronica, real time loop remix - per l’appunto – e chitarra) e Rob Mazurek (tromba, elettronica), uscito esclusivamente in digitale per la divisione Beats di Auand, utilizza l’espediente senza lasciarsene imprigionare. Le potenzialmente illimitate – e proprio per questo potenzialmente fuorvianti – possibilità offerte da tale metodo compositivo vengono gestite al meglio, alternando movimentate, incalzanti interazioni tra beat e strumenti riprocessati (gli archi e cori della title track) e momenti come A Ship In The Abyss, con il piano che dialoga con la tromba tra silenzi e misurate interferenze, valorizzando sfumature e chiaroscuri.

Per il suo cadenzato e ferale andamento - un’eruzione di lavica potenza metallica - gli Zolfo sembrano molto death metal. Mettete in fila i due brani iniziali, Neural Worm e la successiva Inner Freeze, ci troverete però molto altro. Una cavernosa, magniloquente esplosione doom latina. La terra che si sbriciola sotto i piedi e ti inghiotte in un sommovimento di fuoco e fiamme e una voce tonante che ti accompagna dentro questo inferno. Da cui si va avanti per sentieri cavernosi e impervi, in scenari di follia e perdizione. Certamente non solo metal, o death metal, o doom, ma una congerie di suggestioni che si aggrumano in un terrificante e gigantesco teatro del disastro. Una musica che cresce lentamente e poi esplode incontenibile, alimentata da una tensione spasmodica implacabile.

ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

CLAUDIO SORGE

70/100

80/100

YURI BERETTA CARA PACE, AUTOPRODUZIONE

Appena il tempo di leggere il suo Leucemia Adventure, e arriva il quarto album. Parliamo di uno di quei rari artisti capaci di scrivere canzoni che si lasciano ricordare, che se trovassero l’adeguato spazio potrebbero entrare nella memoria collettiva, e questo suo lavoro ne è nell’insieme la conferma, nessuna traccia esclusa. Perché Beretta sa comunicare. Sa arrivare all’anima. Probabilmente per la mole di esperienze dolorose che ha dovuto affrontare nel corso della sua ancora giovane vita, ma arriva dritto, e in questo disco le esorcizza. Sembra rinato. La voce è sicura. Rasserenante. Colpisce per il taglio poetico dei versi, per l’intensità, la fantasia e la dolcezza lieve con cui li declina. Questa volta il suo è uno sguardo sollevato, sì, ma pur sempre critico: basti ascoltare Diversamente Umani per capirlo. Siamo in zona pop d’autore colto e intelligente, beninteso, che merita approfondimento e attenzione, ma potrebbe arrivare a una più ampia fetta di pubblico. Fare altri proseliti. A tal proposito si sente il tocco del sodale Lele Battista (tastiere e cori), e del suo complice Giorgio Mastrocola (chitarre e bassi), che insieme lo hanno ottimamente prodotto. Si sentono quel sapore rétro, quell’eleganza contagiosa che li accomuna. Si sente pure un’inedita coralità di suono, una rotondità che forse mancava: insieme ai tre hanno suonato diversi musicisti, tra chitarre, tastiere, bassi, batterie, archi. Pop d’oltremanica che sa di Smiths, indie folk d’oltreoceano, jangle, wave, intarsi sintetici, psichedelia, umori post punk, senza dimenticarsi delle nostre radici, quelle che vanno da Tenco a Endrigo a De Andrè a Gaber, per capirsi. Il perfetto equilibrio tra pathos e fruibilità. Spiace che ancora una volta esca in sordina. Spiace perché vale tanto. BARBARA SANTI

88/100

RUMOREMAG.COM | 81

TREECOLORE IN BREVE FEBBRAIO 2020

‘A67

NAPLES CALLING FULL HEADS

È un richiamo abbastanza retorico quello che gli ‘A67 vorrebbero diffondere nei vicoli di Napoli, un appello che ingloba hip hop, elettronica e pop, il tutto infarcito di messaggi politici spesso fuori tempo massimo (Bluemoon). A livello di sound Naples Calling rappresenta un netto passo indietro rispetto alla proposta della Nuova Napoli evocata da tanti recenti progetti come Nu Guinea e La Niña. STEFANO D’ELIA

58/100

COSIMO BIANCIARDI & INTIMA PSICOTENSIONE I.P.T.

SUBURBANSKY/RED CAT

COME FANNO GLI ANIMALI AUTOPRODUZIONE

In un mercato ormai saturo fino all’inverosimile come è quello del cosiddetto cantautorato itpop, cercare di risaltare è ormai un’impresa improba, soprattutto quando non si hanno particolari doti capaci di far spiccare la propria arte. Dazio, pur avendo qualche buona freccia al proprio arco (Termosifoni, Satellite) non sfugge alla regola, risultando uno dei tantissimi epigoni di Calcutta & Co. STEFANO D’ELIA

52/100

BLACK TAIL

INRI/SANGUE DISKEN

MIA CAMERETTA/LADY SOMETIMES

SKIN DEEP

YOU CAN DREAM IT IN REVERSE

Con BJRG (ex Berg) ci tuffiamo proprio nel minimalismo sonoro. A lui bastano due microfoni, una loop station, due pedali delay e, ovviamente, la sua voce. No elettronica, no strumenti musicali. Gira tutto attorno a un concept sulla pelle. Tra trip hop e R&B contaminato, è un fluire continuo di pulsazioni che sanno andare in profondità, ricordando alcune sfumature di Anohni. Groove caldi per anime fragili.

Placidi arpeggi di chitarra disegnano suadenti cornici elettroacustiche che circondano una voce malinconicamente indolente, contrappunto sonoro dei pensieri di un animale selvatico che scruta rapito le luci della città all’alba, fermo sul limitare del bosco. Attitudine slacker, mista a un raffinato gusto per la melodia che avvicina i BT al pop cameristico dei Pernice Brothers: un disco prezioso.

NICHOLAS DAVID ALTEA

STEFANO D’ELIA

THE DELAY IN THE UNIVERSAL LOOP

BEPPE DETTORI & RAOUL MORETTI

HIBOU MOYEN

BULBLESS

AUTOPRODUZIONE

L’autoanalisi condotta attraverso la scrittura di canzoni costituisce un nutrito sottogenere musicale, dischi che però spesso risultano noiosamente autoreferenziali. A questo stato di cose sfugge I.P.T.: un eterogeneo album rock attraversato da sottili venature prog e jazz, composto da brani solidi e schietti, in cui Bianciardi si libera dei propri demoni privati, prendendoli gioiosamente in giro. STEFANO D’ELIA

65/100

DAZIO

BJRG

INNER CAPITALISM

Dylan Iuliano non ha paura del capitalismo in sé ma del capitalismo dentro di sé. Per “esorcizzare tutta l’ansia e l’impotenza che la mia generazione sente nei confronti di quest’epoca surreale” sceglie la fuga attiva in un universo dove le pulsazioni electro, gli inaspettati sprazzi di melodia quasi pop, le nebulose industriali, convivono in un panorama sonoro che cura e insieme nutre le nostre inquietudini. LETIZIA BOGNANNI

73/100

71/100

S’INCANTU E SAS CORDAS

73/100

LUMEN

PRIVATE STANZE

Mondi che si incontrano, lingue, suoni e suggestioni che confluiscono in un evocativo meticciato sonoro all’insegna del viaggio e della scoperta. Universi apparentemente lontanissimi come la musica tradizionale sarda e i repertori classici mediterranei (S’Incantu I & II), celtici e sudamericani trovano il loro comune denominatore nell’arpa di Raoul Moretti e nella chitarra di Beppe Dettori.

Lumen è un sentito diario intimo composto da 11 brani raffinati ed evocativi, i quali attraverso delicate trame acustiche rivelano tutta la sensibilità di un autore in grado di districarsi con scioltezza tra sonorità sixties e cantautorato classico (Martha). Folk lunare tendente alla psichedelia (Avaria), ammantato di una sottile sensualità, che ascolto dopo ascolto ammalia e seduce l’ascoltatore.

STEFANO D’ELIA

STEFANO D’ELIA

68/100

72/100

SUONA ANCORA IL MEGLIO DEI MESI PASSATI

HUGE MOLASSES TANK EXPLODES

FRANCESCO INCANDELA

RETRO VOX

TIP OFF

II

Divertente il fatto che abbiano preso il loro nome dal cosiddetto “Disastro Della Melassa”, avvenuto a Boston nel 1917, quando esplose una cisterna che inondò – be’, esagero – mezza Boston di melassa. Partiti come duo, sono ora una realtà più numerosa, complessa e allo stesso tempo compatta, producendo un suono grandioso, dove shoegaze e kraut psychedelia si compenetrano in cascate di suoni (a volte anche un po’ ridondanti). CLAUDIO SORGE

72/100

FLOW VOL. 1

No folk celtico. No tziganate. No accademia. Si muove al di fuori di ogni convenzione di genere il violino di Francesco Incandela, in quel suo continuo divenire melodico (e atmosferico) assecondato da synth, chitarra, basso e batteria: cinque narrazioni strumentali per ripartire una sana voglia di sperimentazione tra registri prog cinematografici (Oversound) e modernissimo neoclassicismo (Dream 70). ANTONIO BELMONTE

73/100

KETTLE OF KITES

NADJA ПРОEKT

AUTOPRODUZIONE

AUTOPRODUZIONE

Difficile trovare punti in comune tra la Scozia e la Liguria, ma la band italiana, capitanata dal madrelingua scozzese Tom Stearn non ha molto da invidiare a una qualsiasi band alt folk d’Oltremanica. L’intensità dei Grizzly Bears e le delicatezze dei Fleet Foxes assemblate naturalmente. Lontanissimi rimandi agli Alt-J depurati delle parti sintetiche. Con Lights Go Out toccano il punto più alto. Very good.

Atto V è l’album con cui i Nadja aggiornano quanto di buono mostrato nel precedente lavoro. Un precipitato sonoro fatto di sonorità concrete, frammenti cameristici e interpolazioni folk che recuperano le radici esoteriche della loro terra. Ancora due lunghe suite, fra recitazione e minimalismo acustico, per una ricerca poetica alla cui base c’è l’auspicio di un rapporto sostenibile fra l’uomo e il suo mondo.

NICHOLAS DAVID ALTEA

DIEGO BALLANI

ARROWS

68/100

BRUNO ROMANI ORGANIC CROSSOVER GROUP VERSILIA AFTER DARK

THE COTTON CLUB/FONOARTE

L’ex leader dei Detonazione, armato di flauto e sax, prosegue la sua pluridecennale esplorazione dei dialetti jazz. Accanto, dieci musicisti che ne assecondano spinte centripete e centrifughe, spingendo il pedale con estrema naturalezza sull’eclettismo. Fin dalle prime note di Cocaine Dealers At Dawn, che oscilla tra jazz da camera mantleriano e sporcizia funk senza batter ciglio. ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

75/100

ATTO V

77/100

JESTO

INDIEJESTO

AUTOPRODUZIONE

La nuova moda per molti rapper nostrani pare essere quella di convertirsi in cantanti pop, il tutto spesso con risultati abbastanza altalenanti. Non sfugge alla regola Jesto con il suo nuovo lavoro, 11 canzoni in cui più che a Coez e Carl Brave & Franco 126 questo ragazzo romano finisce per somigliare a una versione hipster di Mannarino (Astemio), e questo sì che risulta davvero indigesto.

Un artigianato elegante della composizione misurata, che ha poco a che fare con l’ossessione per il superlativo di molto pop italiano recente.

PIT

DIGIBORG DREAMS ABOUT NATURE CELLDEATH

Esce per un’oscura etichetta di Chicago (una quarantina di uscite in cassetta all’attivo) il mini album del produttore italiano. Il concept - l’acquisizione e traduzione della natura da parte di un organismo digitale - percorre otto brani di ispirazione ambient e vaporwave. I titoli finiscono con sigle quali .zip e .exe, quasi a interpretare la materia sonora qui compresa come un surreale insieme di file.

LUCIO CORSI

COSA FAREMO DA GRANDI SUGAR

Una voce profonda e leggera. Una pronuncia che tradisce le origini e un timbro che rivela l’età, con tutte le sue preziose imprecisioni.

GIORGIO VALLETTA

73/100

HOPEFUL MONSTERS

AREA PIRATA/ORFAN

Siete pronti per partire con gli Stash Raiders e accompagnarli nel loro fantastico viaggio interplanetario? Obiettivo: salvare la galassia a cavallo del loro furgone spaziale, una missione con una fantasmagorica colonna sonora, fatta di rock psichedelico, sperimentazioni zappiane e sci fi funk. Una sfavillante space opera, ricca di gustosi riferimenti nerd che impreziosiscono un’opera ambiziosa.

Esagitati lo erano 15 anni fa e lo sono tutt’oggi, di nuovo in pista con il primo album di devastante high r’n’r, alla Turbonegro, con reminiscenze del Granducato HC e testi che mischiano greve ironia toscana (Donnaiolo, Saltai Su Di Lei) e antimilitarismo (La Guerra Per Il Kebab). I pisani c’hanno in canna pure due hit: Tappeto cantata da Appino e Urlo Disperato, dal patrimonio dell’Unesco Ico Gattai.

70/100

SCHEMA

52/100

TONI CRIMINE

STEFANO D’ELIA

ART IS A CAT

STEFANO D’ELIA

THE STASH RAIDERS  SAVING PANDORA

THE DINING ROOMS

TONI CRIMINE

MANUEL GRAZIANI

MARIPOSA LISCIO GELLI SANTERIA

Una operazione fuori da ogni logica e contemporaneamente lucidissima che poteva riuscire solo a uno dei gruppi italiani più spiazzanti e sguscianti.

72/100

RUMOREMAG.COM | 83

DEENA ABDELWAHED

ARCANA 13

INFINÉ

AURAL

DHAKAR

KHRUANGBIN & LEON BRIDGES TEXAS SUN

Dopo l’eco suscitata dall’album Khonnar, la DJ e produttrice elettronica tunisina intitola il nuovo EP alla mascolinità (questo il significato del titolo, tradotto dalla lingua araba) e ai suoi aspetti più controversi. La voce della stessa Deena è modificata col pitch nella scatenata Lila Fi Tounes, che introduce una sequenza in cui si fanno spazio anche le melodie di derivazione folk di Insaniyti. GIORGIO VALLETTA

77/100

AVEY TARE

DEAD OCEANS

CONFERENCE OF BIRDS/ BIRDS IN DISGUISE

Una combinazione strana, ma che funziona perfettamente dal punto di vista musicale. Il quotato cantante retrosoul e il sempre più popolare trio che ha fatto del funk R&B psichedelico e strumentale la propria insolita cifra stilistica non hanno in comune solo le origini geografiche, dichiarate nel titolo di questo EP. C’è un elemento contemplativo e piacevolmente fuori dal tempo a caratterizzare questi quattro brani, nati durante il tour nordamericano che hanno condiviso lo scorso anno, e sempre pronti a spiazzare sottilmente l’ascoltatore. Dal retrogusto country della title track alla gustosa combinazione armonica fra la voce di Leon e le rarefatte tessiture sonore dei Khruangbin in Midnight. Fino ai quasi sette minuti di struggente meraviglia di una Conversion che si candida a restare fra i loro brani più memorabili. GIORGIO VALLETTA

87/100

DOMINO

2019

MATADOR

Ben venga, visto il livello, questo sunto di quanto buttato in rete nell’anno dall’americana, con sottolineatura per inediti quali Fool’s Gold e il suo fuoco sotto la cenere e la delicatezza acustica e autobiografica di Mother & I. E attenzione alle cover, dal Phil Collins alla 4AD di In The Air Tonight (!), una pleonastica ma irresistibile Dancing In The Dark a una Last Christmas su ritmi punk. FRANCESCO VIGNANI

78/100

84 | RUMOREMAG.COM

CHRIS DE WISE SHEPHERD

NERA WO’O SOKE/ATUNE ANYA’ALIMA LOKALOPHON

Nuovo marchio della Philophon di Max Weissenfeldt, Lokalophon esordisce con due singoli dal Ghana: quello delle Ahemaa Nwomkro e questo, del cantante di Bolgatanga, terra del popolo Frafra. Nelle due tracce, il gospel rurale del nord si fonde con i ritmi elettronici urbani e nervosi di Accra: il primo prevale nella martellante Atune Anya’Alima, i secondi nei botta e risposta electro di Nera Wo’o Soke. ANDREA POMINI

75/100

Il loro climax trasuda puro horror italian soundtrack, segnatamente la musica di Claudio Simonetti, che ha avuto in passato una collaborazione con loro. In questo nuovo mini, gli Arcana 13 proseguono il loro viaggio occulto che sembra avere un’impronta più doom da una parte, e dall’altra qualche antica influenza di band come Mercyful Fate. C’è anche una cover di Wratchild degli Iron Maiden, in versione occult. CLAUDIO SORGE

69/100

BROWER

LIL’ BIT OF LIVERPOOL DISCOS METEORO

Cows On Hourglass Pond, uscito un paio di mesi fa, è andato piuttosto bene a livello critico. Avey Tare torna con una specie di EP lungo (stampa in 12”, quasi mezz’ora di musica) con una manciata di pezzi che aveva suonato live negli ultimi mesi e che boh, così a occhio avrebbero rovinato l’aroma rusty/sfascione/bucolico dell’ultimo disco. Non male, ma per completisti. Per completisti, ma non male.

Il funambolo newyorkese Nat Brower torna con un 45 di cover Merseybeat tempestate di glitter. Nulla di più fuori moda eppure senza tempo, da Little Child dei Beatles a How Do You Do It? di Gerry & The Pacemakers, fino a Oh Carol, I’m So Sad dei Rockin’ Horse di Jimmy Campbell (Kirkbys) e Billy Kinsley (Merseybeats) dove la chitarra solista è carezzata dalla drag queen Josephine, fresca dell’album emolliente Music Is Easy.

FRANCESCO FARABEGOLI

MANUEL GRAZIANI

EGGS

ELLI DE MON & DAILY THOMPSON

62/100

LUCY DACUS

BLACK DEATH

A CERTAIN SMILE

HOWLIN’ BANANA/HELLZAPOPPIN/PERMANENT FREAK

Un 45 giri con buco grande, centrino e copertina bianche. Tutto molto semplice. Come semplici sono le melodie che s’insinuano tra chitarrine jangle pop e il ticchettio delle bacchette su charly e ride. Il giovane quartetto parigino tira fuori dal cilindro due ballate in dissolvenza che scalderanno il cuore a chi è legato affettivamente alla Sarah e alla Creation degli ’80. Il video footage di Picture Book è tutto dire. MANUEL GRAZIANI

73/100

71/100

ELLI DE MON & DAILY THOMPSON AMMONIA

Non è facile specie in Italia essere una one girl band come Elisa De Munari. Curiosa, profonda, colta e sanguigna, come conferma lo split coi tedeschi Daily Thompson. Alle primitive Vampire Blues e You segue la rarefazione cerebrale di Sea Of Blood e Confession. I crucchi alzano i volumi e la buttano sullo stoner grunge. Chi ama certi suoni troverà pane per i suoi denti, ma per me Eddie Vedder spaccava la minchia già nei Temple Of The Dog. MANUEL GRAZIANI

70/100

SINGOLARE LA LUNGHEZZA NON È TUTTO FEBBRAIO 2020

IRREVERSIBLE ENTANGLEMENTS HOMELESS/GLOBAL

INTERNATIONAL ANTHEM

Un gran primo album nel 2017, e ora un singolo che anticipa il secondo, previsto in primavera. Una traccia di 23 minuti che conferma le qualità musicali e liriche del quintetto statunitense: tutta improvvisata con batteria, contrabbasso, sax alto e tromba, fra esplosioni free e groove più rilassati e ipnotici, mentre le parole della MC/poetessa Camae Ayewa (Moor Mother) raccontano di migrazioni e confini con piglio militante.

LAIBACH

LUCY AND THE RATS

MEMORIE CLUSTER

MUTE

STARDUMB/SURFIN’KI

BLACK RIOT

PARTY SONGS

Un EP di brani inediti relativi all’esperienza in Corea del Nord, la dice lunga su quanto tale viaggio abbia influito nella definizione di un nuovo immaginario lirico. Se si tralasciano gli episodi dal vivo presentati alla Scuola di Musica di Pyongyang, momenti come Honourable o Dead Or Alive, hanno l’insolita capacità di sintetizzare tradizione e avanguardia, come in un ibrido estetico tra Volk e Spectre (senza disdegnare però un tema pop che riconduce a Gackt). STEFANO MORELLI

78/100

ANDREA POMINI

80/100

STICK TO YOU

DROP THE B

Sono di Londra ma non lo diresti. E non sono nemmeno spudoratamente ramonesiani, nonostante il look. Suonano come delle New York Dolls più pop, sono stupidi il giusto e volutamente basici. Certo, i Ramones ce li hanno nel DNA, ma li filtrano con risultati più che dignitosi. Stick To You, per capirci, è un signor pezzo che si regge da solo, senza per forza dover rispolverare cadaveri eccellenti. Non male.

Secondo EP per l’etichetta londinese a esser firmato dal duo formato dai produttori Ettore Sorrentino e Giacomo Virzì. Se Space Cake e Drop The B si rifanno piacevolmente a stilemi dance anni 90 fra breakbeat e ipnotiche percussioni, a trasformare Never Give Up in un prototipo esplosivo di funky house ci pensa l’esperto Severino, già agitatore nel collettivo angloitaliano Horse Meat Disco.

LUCA FRAZZI

GIORGIO VALLETTA

70/100

72/100

PROTRUDERS

RADIOACTIVITY

THE RITUAL SPHINX

SATOR

GOODBYE BOOZY

WILD HONEY

EVES

ARGONAUTA

NO MORE

ERASED

VEINS

Ma quanti prefissi abbiamo attaccato al punk? Mi scuso, quindi, se tiro in ballo art e proto ma facendo girare più volte sul piatto No More sono i Rocket From The Tombs l’unico termine di paragone che mi rimbalza in testa. Non è facile inquadrare i ragazzi di Montréal, anche per via delle dissonanze no wave del sax. E infatti per chiudere il singolo buttano lì It’s Not Easy degli Stones in una versione a dir poco comatosa.

Jeff Burke resta un piccolo grande genio dell’ultima generazione underground garage americana. Nell’ombra, defilato, assesta colpi che vanno quasi sempre a segno. Questo Erased ce lo conferma: due brani maturi, melodie piene, accordi aperti, college punk come collante. In Fear sembra di sentire i Big Star col piede sull’acceleratore, descrizione orrenda che però forse rende l’idea. Mai banali, i Radioactivity.

MANUEL GRAZIANI

LUCA FRAZZI

TIGER MOSQUITO

GIOVANNI TRUPPI

VIBRAVOID

PAUL WELLER

AIGUAMOLL

VIRGIN

STONED KARMA

GHOST BOX

74/100

FUNNY MEAL

Gli spagnoli hanno gran familiarità con il garage rock. A voler esser pignoli si può rimproverare loro di essere un po’ troppo filologici e didascalici. I ragazzi di Barcellona non sfuggono ai cliché, ma quantomeno rivelano coraggio nel passare dall’aggressione garage punk in stile Morlocks di Steak Tartar agli oltre dieci minuti di psichedelia desertica e notturna di Tuna Salad. Chiude il numero l’agrodolce Ice Cream Headache. MANUEL GRAZIANI

72/100

75/100

5

Il genovese Alessandro Bartolena esplora l’universo dei droni e rumori digitali in un EP di debutto pubblicato dall’etichetta di Cesare Bignotti (Useless Idea). Strutture complesse e astratte, e umori prevalentemente glaciali per cinque brani fra cui si fanno notare per veemenza sonora mArrow e l’apocalittica DisSolution, prima di giungere all’inquietante finale industrial di Heart Spiral Ascent.

SCORCHING SUNLIGHT

GIORGIO VALLETTA

74/100

TIMEMAZINE WOMAN

Nei 30 minuti del brano che da solo costituisce questo maxi EP, i Sator dispiegano tutta la loro forza visionaria, formulando una previsione che li accomuna a Greta Thunberg: l’estinzione dell’uomo. Nei panorami cripto psichedelici e di turbinosa desolazione evocati dalla loro musica, si coglie l’influenza dei più terribili Neurosis, ma sotto questo roccioso e cavernoso sound filtrano liquide sorgenti pinkfloydiane. Un capolavoro. CLAUDIO SORGE

82/100

IN ANOTHER ROOM

Tre riletture di altrettanti pezzi dell’ultimo suo Poesia E Civiltà e due inediti, scritti durante la stesura dello stesso e poi accantonati. Ad accompagnarlo in duetto in questo EP ci sono i colleghi Calcutta, Veronica Lucchesi, Niccolò Fabi (Mia, Due Segreti e Conoscersi… ), mentre in Procreare è con Brunori e ne Il Tuo Numero Di Telefono da solo. Ma 5 è anche un libro di storie illustrate che raccontano le canzoni.

“The first kinetic op art vinyl record in the world” è l’appropriato claim con cui viene presentato questo 7” dei prolificissimi Vibravoid. In effetti i paladini della neopsichedelia in salsa kraut sfornano un 7” con effetto optical cangiante, in pratica un trip visivo che offre un’esperienza non solo audio. La musica? Una cover di Gary Walker & The Rain e un remix del brano Echoes Of Time. Per superfan.

Incontro sorprendente, quello tra il modfather e l’etichetta hauntologica per eccellenza. Per ora ci si limita a uno stuzzichino composto da quattro frammenti in cui tutti i topoi sono messi in fila: field recordings, aperture ambient, nastri manipolati, un piano che strimpella e un fringuello che cinguetta. A mancare è proprio Paul Weller. Tanto di cappello alla curiosità dell’artista, ma sfugge il senso.

BARBARA SANTI

ANDREA VALENTINI

CARLO BORDONE

75/100

79/100

60/100

RUMOREMAG.COM | 85

FLASHBACK THE MOTORCYCLE BOY

THE MOTORCYCLE BOY

INDIE POP: MANUALE PER L’USO

THE MOTORCYCLE BOY SCARLET

FORGOTTEN ASTRONAUT

Nel Regno Unito del 1987 uscivano i debutti a 33 giri di Wedding Present, Pastels, Primal Scream, Close Lobsters, Wolfhounds e McCarthy, nonché i primi due formidabili singoli degli House Of Love. Si era in piena botta col miglior periodo che l’indie rock inglese abbia mai conosciuto (C86, ça va sans dire) e in quel contesto lo sbucar fuori dei Motorcycle Boy pareva la realizzazione

del miglior sogno fatto la notte prima. Alex Taylor, australiana traslocata a Edimburgo, la biondina rubacuori che cantava con adorabile indolenza nelle favolose Shop Assistants a far baldoria con tre quarti dei Meat Whiplash, leggenda scozzese fondata su di un unico 45 giri e la partecipazione al concerto più irrequieto del decennio (marzo ‘85, di spalla ai Jesus And Mary Chain al North London Polytechnic). Ciliegina sulla torta una ragione sociale che rubava nome e immaginario al Coppola doc di Rumble Fish. Ce n’era abbastanza da farci perdere il sonno, a noi che ai tempi avevamo nell’Inghilterra la nostra unica patria ed eravamo – com’è logico fosse – young and stupid, esattamente come il titolo della raccolta dei Josef K che usciva proprio quell’anno e che girava senza sosta sul mio stereo. Il singolo con cui i Motorcycle Boy inchiodarono il proprio nome ai piani alti delle classifiche indie e in cima alle preferenze del maestro John Peel pareva la versione giusta di quella canzone dei Sigue Sigue Sputnik che un po’ tutti noi ci vergognavamo ammettere di apprezzare, con le chitarre piazzate a mezza strada tra Ramones e Phil Spector, la batteria che incalza e una voce tutta miele e pan di spagna: looking for the big DI ARTURO COMPAGNONI

86 | RUMOREMAG.COM

rock candy mountain, rolling down the hillside in the sun. Copertina dell’“NME” prenotata e band spedita in studio con Pat Collier, già bassista nei Vibrators e all’epoca miglior produttore sulla piazza per un certo tipo di suoni. Disco pronto con tanto di promo spediti alla stampa, ma proprio sul più bello qualcosa va storto: dissapori interni mai chiariti dalle cronache portarono al congedo di chitarra e batteria e nell’incertezza che ne seguì la Chrysalis pensò bene di infilare in un armadio il disco appena registrato (promo su nastro reperibile via Discogs) scoraggiando i tentativi di una seconda vita per la band, tentativo che si consumò in un altro paio di singoli prima della dichiarazione di definitivo decesso. La caparbietà nella ricerca dei master di quel demo a 30 e passa anni di distanza, proprio da parte dei due fuoriusciti, porta oggi alla pubblicazione del disco. Zero budget e zero extra, l’album esce esattamente come sarebbe dovuto uscire nell’88: una brillante collezione di canzoni la cui mescola è forgiata col miglior pop d’Albione, 60s wall of sound e una sana spolverata di irruenza punk. Basta e avanza.

82/100 DISCO ZERO EXTRA

RETROPOLIS FEBBRAIO 2020

AA.VV.

A SLIGHT DISTURBANCE IN MY MIND CHERRY RED

“Signore, se è una disgrazia, mandamene una al giorno”, dicevano i vecchi dalle mie parti per sottolineare qualcosa di bello e positivo che accadeva. Ed è più o meno la reazione che si ha di fronte a queste 84 tracce (in tre CD), dedicate all’ondata protopsichedelica inglese del 1966 – quando il pop inizia a farsi meno leggero, le sonorità si tingono di lisergia e fa capolino ciò che sarà il freakbeat. Per intenderci, è una sorta di compendio al bellissimo Nuggets II (che Rhino pubblicò quasi 20 anni fa), ma incentrato sui grandi nomi (Creation, Kinks, Animals, Yardbirds, Bowie, Bolan, Pretty Things, Misunderstood, Renegades…), anche se non mancano alcune gemme minori. Come bonus, poi, c’è un booklet di oltre 50 pagine pieno di foto e info. ANDREA VALENTINI

78/100 DISCO ZERO EXTRA

AA.VV. C90

CHERRY RED

L’Inghilterra del 1990 era l’esatto opposto di quella odierna. Il thatcherismo ormai al lumicino e la fine della guerra fredda avevano determinato un ottimismo generalizzato. A risentirne fu perfino il pop, che lasciatosi alle spalle le asperità new wave si abbandonava a coloratissime sonorità psichedeliche. Fidatevi di un appassionato di indie rock britannico: il ’90 è stata una delle annate più appassionanti. Ricca di tesori sepolti che ora Cherry Red si appresta a svelare. È l’anno di Madchester, della breve fiammata shoegaze e di una serie di band dall’identità indefinita pronte a imbracciare a loro modo ritmi dance, chitarre noise e melodie sognanti. Una sequenza di meravigliosi outsider (e una manciata di nomi noti), ognuno dotato della sua piccola specificità da scoprire e adorare. DIEGO BALLANI

78/100 DISCO ZERO EXTRA

THE CLASH

DISCIPLINATHA

COLUMBIA

CONTEMPO

LONDON CALLING

750 battute per recensire London Calling nell’edizione del 40ennale? Facile: al netto dei doppiopetti gessati di Mick Jones, delle cattive compagnie di Paul Simonon, dei pentimenti dell’ex drogatissimo Topper Headon, dei santini di Joe Strummer che (ahimè) piacciono anche ai fans dei Modena City Ramblers e della retorica clashiana in toto, uno dei dischi più grandi e influenti nella storia del Creato. Mi sbilancio: il più grande. E partite pure coi distinguo, tanto non vi sento. Per l’anniversario, London Calling esce in varie edizioni speciali, superba quella in CD più diario della lavorazione dell’album con appunti, note a biro, scarabocchi, correzioni e quant’altro. Nessuna bonus track, per fortuna: perfetto così. Uno splendido quarantenne. LUCA FRAZZI

100/100 DISCO ZERO EXTRA

TESORI DELLA PATRIA

La partnership con la Contempo di Firenze sigla il confine ultimo dell’epica che definì lo spirito propulsivo, situazionista e provocatorio del nome Disciplinatha. Lo diciamo con cognizione di causa, considerando come ancora siano vive certe contraddizioni nei loro confronti e come quell’esplosione sia ancora strumento di critica sul/ del presente. La rivisitazione in vinile della compilazione del 2012 ospita un’accurata rimasterizzazione dei singoli episodi da parte di Santini ma anche, fatto importante visto i ricorsi storici (i 40 dei Joy Division, nonché il loro focus sul ruolo fondante di Battiato nella cultura musicale italiana), l’aggiunta di un 7” esclusivo di New Dawn Fades. Sette vinili quindi, con l’artwork ulteriormente ampliato e riassestato da Simone Poletti. STEFANO MORELLI

95/100 DISCO 90/100 EXTRA

AA.VV.

FURTHER PERSPECTIVES & DISTORTIONS: AN ENCYCLOPEDIA OF BRITISH EXPERIMENTAL AND AVANT-GARDE MUSIC 1976 - 1984 CHERRY RED

Riprendendo il titolo di una famosa compilation pubblicata nel 1981, Cherry Red fornisce un’istantanea chiarificatrice sul panorama avant garde britannico fra ‘70 e ‘80. Far sfilare in ordine alfabetico terroristi sonici come Nurse With Wound e Psychic TV, accanto a pionieri della sperimentazione meno compromessa con il progressive tout court (ad esempio Soft Machine e Henry Cow) significa svelare il fil rouge che unisce le sensibilità artistiche pre e post punk che avevano scelto di muoversi fuori da ogni schema. Fra spoken word, esercizi di musica concreta, quadretti free jazz, manipolazione di nastri e composizioni seriali, la raccolta rappresenta un excursus affascinante. DIEGO BALLANI

78/100 DISCO ZERO EXTRA

DON DIEGOH & MACRO MARCO DISORDINATA ARMONIA XL EDITION MACRO BEATS

NENEH CHERRY RAW LIKE SUSHI 30TH ANNIVERSARY UNIVERSAL

Abbiamo appena finito di scolare birra per i 40 anni di London Calling e la capitale britannica torna a scalciare la porta in versione 1989 con un altro snodo importante della sua storia musicale e attitudinale. Rispetto a dieci anni prima ha preso piede in città l’hip hop, e l’allora venticinquenne di nazionalità svedese c’è dentro fino al collo, tant’è che il singolo capolavoro Buffalo Stance campiona Malcolm McLaren e la Rock Steady Crew. A Inna City Mama, a Phone Lady e alle altre perle dell’originale si aggiunge un diluvio di extra che porta il pallottoliere a 31 tracce. Sono remix dei brani più famosi del disco: tra le perle, Manchild versione Massive Attack e Kisses On The Wind riletta da David Morales. PAOLO FERRARI

85/100 DISCO 65/100 EXTRA

DOZER

IN THE TAIL OF A COMET/MADRE DE DIOS/CALL IT CONSPIRACY HEAVY PSYCH SOUNDS

Quello di Don Diegoh è un rap adulto, malinconico ma mai davvero triste. In questo disco, al quale sono stati aggiunti sette inediti rispetto all’omonima pubblicazione di un anno fa, il rapper calabrese cerca con tutte le sue forze di mettere il cuore in rima, anche a costo di sembrare ridondante. In verità ogni brano ha un suo senso di esistere e i beat di Macro Marco danno ulteriore unicità all’album, rendendolo scorrevole e davvero profondo. Ci sono periodi ed età nella vita di ognuno di noi in cui si tirano le somme in una maniera quasi esasperata e Disordinata Armonia potrebbe tranquillamente essere la colonna sonora di quest’ultimi, tra una notte insonne e un autobus perso sotto la pioggia.

Caratterizzati da un incessante groove turbo fuzz che alimenta la loro musica dall’inizio alla fine, i nordsvedesi Dozer sono stati da una parte una delle band più energiche e vitali della prima ondata stoner, a cavallo tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni Zero, e allo stesso tempo quanto di più vicino a un compatto mix tra Fu Manchu e Kyuss si potesse ascoltare in quel momento. E lo sono probabilmente ancora oggi. Hanno inciso album per le più carismatiche etichette stoner: Man’s Ruin, Small Stone, Molten. E ora la magnifica Heavy Psych Sounds ristampa i loro primi tre album, a cominciare dall’esordio su Man’s Ruin, In The Tail Of A Comet (2000). Un’esplosione stoner i cui effetti sentiamo ancora oggi.

MATTEO DA FERMO

CLAUDIO SORGE

81/100 DISCO 80/100 EXTRA

78-80-76/100 DISCHI ZERO EXTRA RUMOREMAG.COM | 87

RETROPOLIS FEBBRAIO 2020

ELECTRONIC

GIANT SAND

RHINO

FIRE

ELECTRONIC

ERIC BURDON AND THE ANIMALS WHEN I WAS YOUNG - THE MGM RECORDINGS 1967-1968 ESOTERIC

Il piccolo bluesman bianco di Newcastle che con gli Animals nel 1965/66 guidò la beat explosion inglese (che arrivò come un tornado anche in America) alla fine del 1966 si ferma come stupito alle prime avvisaglie psichedeliche. Dal R&B innervato di J.L. Hooker e Willie Dixon comincia ad allargare la sua visione musicale, sposandosi a culture native americane e altre musiche folk dal mondo. Winds Of Change è il primo album del “nuovo” Burdon, pubblicato nel 1967 per la MGM americana. Il prezioso box allestito dalla Cherry Red inglese, oltre a Winds Of Change, contiene altri tre album: The Twain Shall Meet, Every One Of Us e Love Is (tutti rimasterizzati). Tra il ‘67 e il ‘68 è un periodo sulfureo e innovativo per Eric Burdon e i nuovi Animals. I “venti di cambiamento” lo portano a nuove sperimentazioni, passando per sentieri dylaniani e poemi hipster recitati su nenie psychedelic folk. San Franciscan Nights è uno dei pezzi che testimonia di questa nuova febbre di libertà creativa che si vive in quel momento. Da Newcastle a San Francisco. Nuove porte che si aprono, nuove aggregazioni, nuove comunicazioni. Yes I’m Experienced – risponde Burdon a Jimi Hendrix. È una nuova ricerca ethnic pop quella di Burdon, accompagnata da testi non di rado recitati. Nella formazione che lo accompagna entrano anche l’ex chitarrista dei Dantalian Chariots, Andy Summers, che dieci anni dopo si farà conoscere con i Police, e Zoot Money, prime mover del blues revival inglese dei primi ‘60. E certamente Burdon grida ancora il suo selvaggio R&B, quando rifà River Deep Mountain High, o quando riecheggia Johnny Cash in Ring Of Fire, o nella freakbeat Gemini (la rifecero anche i Quatermass), o nella fantasmagorica When I Was Young. Senza dubbio fu questo il suo periodo più creativo e irripetibile. CLAUDIO SORGE

85/100 DISCO 82/100 EXTRA

88 | RUMOREMAG.COM

L’esordio degli Electronic arrivava a due anni a Getting Away With It, il singolo pubblicato all’apice della “Second Summer Of Love” e il cui successo aveva convinto due grandi del pop britannico a confrontarsi con la follia baggy. Per Sumner era una naturale evoluzione del discorso intrapreso con i New Order (arrivati temporaneamente al capolinea); per Marr l’ennesimo capitolo del peregrinare post smithsiano. Il risultato era un album che fra tentazioni italo disco, accenni house ed esotismi balearici distillava il talento pop dei due sulle coordinate dance dell’epoca. L’odierna ristampa colma uno storico gap, visto che l’album non era mai stato pubblicato in vinile. Purtroppo mancano fortunati singoli come Disappointed, ma restituisce ancora tutto l’ingenuo ottimismo di quella stagione. DIEGO BALLANI

75/100 DISCO ZERO EXTRA

GLUM

Registrato a New Orleans da Malcolm Burn, già collaboratore di Daniel Lanois, il decimo album dei Giant Sand, nel 1994, è il primo ad avere un budget considerevole (esce per l’ambiziosa indie Imago), e rappresenta una sorta di punto di svolta. La presenza dell’asse ritmico Burns/ Convertino e di una miriade di ospiti e amici prefigurano una maturità di culto poi canonizzata in Chore Of Enchantment, consegnandoci la quadratura (im) perfetta su cui si regge ancora oggi la band: una ricercata trascuratezza sospesa tra tradizioni e sporcizia sonora, illuminata dai fuochi di un ammaccato classicismo (una Faithful immaginata per Marianne). La ristampa del 25ennale aggiunge estratti da una session radiofonica per KCRW, sessione integrale nella versione doppio vinile. ALESSANDRO BESSELVA AVERAME

78/100 DISCO 75/100 EXTRA

RANDY HOLDEN

HOT CHOCOLATE

RIDING EASY

CHERRY POP

POPULATION II

Ristampato e bootlegato più volte, è finalmente disponibile nella versione “legale” approvata dallo stesso Randy Holden, Population II, uno dei capisaldi dell’heavy psychedelia. Inciso dall’ex chitarrista dei Blue Cheer nel 1969, quando militava ancora nel gruppo, all’epoca di New! Improved!, Population II a detta dello stesso Holden “fu qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima”. Per i suoni, l’atmosfera ieratica e la superamplificazione è stato definito il primo disco doom della storia. In questi giorni per la cronaca Randy Holden suona, insieme ai Loons di Mike Stax e al batterista degli Earthless Mario Rubalcaba, una serie di concerti che rievocano la sua intera storia musicale: dai Sons Of Adam agli Other Half ai Blue Cheer e, naturalmente, ai brani di Population II. CLAUDIO SORGE

85/100 DISCO ZERO EXTRA

REMIXES & RARITIES

Remix à gogo per questo box da tre CD griffati Hot Chocolate – una band spesso sinonimo di funky disco scopereccia e trapanante alla You Sexy Thing, ma che ha sfornato anche un capolavoro come Emma, poi coverizzata dagli immensi Urge Overkill (chi non la conosce provveda!). Questi 36 pezzi con ricco booklet allegato sono indirizzati a chi già ben conosce la band o a DJ e affini in cerca di versioni bizzarre all’insegna del remix selvaggio (ci sono sette You Sexy Thing, quattro Every 1’s A Winner, tre So You Win Again e avanti così…), ma sono anche lo specchio di un lavoro encomiabile da parte di Cherry Red – col sottomarchio Cherry Pop – nel recupero di ogni sfumatura della musica made in Great Britain. Dunque sotto col basso che pompa e via le inibizioni… ANDREA VALENTINI

70/100 DISCO ZERO EXTRA

SUONA ANCORA IL MEGLIO DEI MESI PASSATI

IL SEGNO DEL COMANDO

IL SEGNO DEL COMANDO BLACK WIDOW

MERCURY REV

THE POOH STICKS

CHERRY RED

OPTIC NERVE

ALL IS DREAM

Nel 1996 sei ragazzi malsanamente innamorati del prog italiano dei primi ’70 incisero un album che ne riprendeva tutti gli stilemi più interessanti. In più ambientando quanto appreso in un denso clima dark, assomigliando in questo ad altri che già avevano tentato questa strada, come Il Biglietto Per L’Inferno. Questo incredibile gruppo si chiama(va) Il Segno Del Comando (da una serie televisiva occult della RAI). Intervallato da interludi liturgici con tanto di organo a canne, il loro primo album è qualcosa di irriducibilmente italiano, nelle melodie e nel climax mélo; a tratti hard jazz, vedi brani come Ritratto Di Donna Velata (Lord Byron’s Night Promenade), o nella misterica mobilissima Missa Nigra.

Dopo che Deserter’s Songs aveva portato le visioni del gruppo in un contesto orchestrale e cinematico, i Mercury Rev preparavano il loro lavoro più ambizioso. Forse troppo ambizioso, vista l’opulenza di All Is Dream, che si apriva con l’ouverture hollywoodiana di The Dark Is Rising e proseguiva con epiche barocche di inusitata intensità. All’epoca l’album venne accolto con uno scetticismo che finì per ridimensionare il profilo del gruppo. Un errore parzialmente corretto da questa ristampa grazie alla quale si può apprezzare la compattezza del materiale e il tentativo di espandere a dismisura i confini del pop. Una sensazione confortata dalle outtakes, con cui i Mercury Rev arrivano a omaggiare Chopin e Satie, e dalle tracce live in cui si apprezza ancora la concretezza del gruppo rock.

CLAUDIO SORGE

DIEGO BALLANI

80/100 DISCO 79/100 EXTRA

75/100 DISCO 90/100 EXTRA

THE POOH STICKS

Emersi dal sottobosco di band che orbitavano in area C86 (vedi il Flashback di questo numero), i gallesi Pooh Sticks guadagnarono subito la stima della scena con canzoni fulminanti e irresistibilmente sgangherate dai titoli come I Know Someone Who Knows Someone Who Knows Alan McGee Quite Well e Indiepop Ain’t Noise Pollution. Stephen Pastel se ne innamorò, tanto da trafugare i nastri di un loro concerto casalingo per farli uscire in formato album sulla sua 53rd & 3rd. La brillante Optic Nerve ristampa oggi la loro prima uscita, un album con cinque canzoni sul lato A e il vuoto sul B, in un box di cinque 7’’ colorati con altrettanti inediti piazzati sul retro. Poco meno che imprescindibile.

PALE SAINTS

THE COMFORTS OF MADNESS 4AD

La magia dei Pale Saints la si deve soprattutto al songwriting astratto di Ian Masters, alla sua voce diafana, al suo gestire gli spazi servendosi della penombra.

ARTURO COMPAGNONI

78/100 DISCO 85/100 EXTRA

AA.VV.

TARANTISMO: ODISSEA DI UN RITUALE ITALIANO FLEE

SUPERGRASS

WILDFIRE

ZAP MAMA

BMG

OUT-SIDER

CRAMMED

THE STRANGE ONES: 1994 – 2008

SMOKIN’

Mi piace l’idea di una scaletta che procede a ritroso, partendo dal rock angolare dell’ultimo album per concludere con l’inno neo mod Caught By The Fuzz. Ora siamo in fase di riscoperta del combo di Oxford a uso e consumo di chi mancava nel ‘95, quando i tre marchiavano a fuoco il Britpop con uno dei suoi un album più significativi. Quasi da subito però i Supergrass sono stati altro. Custodi di una tradizione che interpretavano senza remore e senza il condizionamento dell’hype, finendo per comporre canzoni fuori dal tempo come quelle dell’elettroacustico Road To Rouen. In questo senso The Strange Ones ce li restituisce sinceri e spigliati, in grado di far tesoro della lezione di Lennon, Bolan e Madness, tanto ad arrivare, in qualche caso, a confrontarsi direttamente con loro.

Nuova ristampa per uno dei gioielli nascosti del primo hard rock americano. Un disco uscito come private pressing nel 1970, le cui copie originali sono praticamente impossibili da trovare. Sulla scia di fuoco di Hendrix, Cream, Mountain e Grand Funk, i Wildfire erano una band americana al 100%, il cui punto di forza era la potenza melodica che riuscivano a imprimere in un sound dominato dall’eclettica chitarra di Randy Love (cugino di Mike Love dei Beach Boys), che fondeva funk, soul e blues in un nuovo formato heavy. Peraltro, nulla che Hendrix non avesse già inventato. Ma con questo imprinting melodico particolare. Nati in California, i Wildfire furono scoperti da un promoter texano che li fece poi diventare una grandissima attrazione ad Austin, nel 1971.

DIEGO BALLANI

CLAUDIO SORGE

79/100 DISCO ZERO EXTRA

74/100 DISCO ZERO EXTRA

ADVENTURES IN AFROPEA

Uscito omonimo per Crammed nel 1991, e quindi rilanciato due anni dopo da Luaka Bop come Adventures In Afropea 1, il debutto delle Zap Mama esce per la prima volta in vinile, ed è un’ottima occasione per riapprezzarne le intuizioni. Prima fra tutte, quella di mescolare identità e radici in maniera paritaria e naturale: le Zap Mama sono cinque ragazze di Bruxelles con origini africane, soprattutto congolesi, che usano solo le loro voci (più qualche percussione ogni tanto) per dare vita a un intreccio a cappella di canti pigmei, cori polifonici europei, reggae, hip hop, scat, gospel, canzone mediorientale e pop di varia ispirazione. Le loro canzoni suonano fresche e avvolgenti, gioiose e creative, curate al dettaglio eppure spontanee. Difficile scordarle.

Un progetto che racconta taranta, pizzica e manifestazioni culturali annesse al di fuori di ogni istituzionalizzazione mainstream.

MASSIMO VOLUME STANZE 42

L’impatto alieno e devastante che il disco ebbe alla fine del 1993 pare intatto: un bruciare puro, violento, commovente.

ANDREA POMINI

80/100 DISCO ZERO EXTRA RUMOREMAG.COM | 89

SHEF TESTO DI DIEGO BALL ANI

SOGNANDO IL FUTURO

FFIELD

E L’ESPLOSIONE POST PUNK

C

RETROPOLIS SHEFFIELD E L’ESPLOSIONE POST PUNK

i sono elementi che assimilano la Sheffield della metà degli anni 70 alla Manchester dei Warsaw/ Joy Division. Un passato industriale glorioso e un presente decadente, un paesaggio fatto di edifici fatiscenti e la colonna sonora delle officine. Alla metà degli anni 70 la vocazione socialista di quella che veniva descritta come la capitale della “Repubblica Democratica dello Yorkshire del Sud”, non era sufficiente a salvarla dal preoccupante livello di disoccupazione e da un panorama distopico dominato dai fumi degli altoforni. Nondimeno, per dirla con Jarvis Cocker, “guardando a Sheffield nel ’77 si aveva la lieve sensazione di vivere nella città del futuro”. Un sentimento che la sua gioventù coltivava di pari passo con un fiero spirito avveniristico che le consentì di guardare al punk con un certo distacco. Un fenomeno tutto sommato "londinese" di recupero delle radici, a cui era preferibile il cabaret tecnologico di certo glam

« A L L’ I N T E R N O D E I R O X Y M U S I C , E N O E R A L’ U N I C O C H E S E M B R A VA S U O N A RE UNO STRUMENTO IN MODO NON C O N V E N Z I O N A L E . A V E VA S O L O S T R A N E T A S T I E R E E S E M B R A VA I N T E N T O A PROGRAMMARE PIÙ CHE A SUONARE. Q U E S TO E R A I M P O R TA N T E P E R I R AG A Z Z I P E R C H É I N S E G N A VA L O R O C H E NON DOVEVI ESSERE RORY GALL AGHER O RITCHIE BL ACKMORE PER FAR PARTE DI UN GRUPPO»

MARTIN L ACEY

TESTO DI DIEGO BALL ANI

rock e le moderne sonorità dei sintetizzatori. Il mito della Sheffield post punk ha radici remote. Una storia che oggi viene ripercorsa grazie a due pubblicazioni discografiche. La prima (Methodology ’74/’78: The Attic Tapes) è la ristampa di una storica raccolta delle prime registrazioni targate Cabaret Voltaire: i frammenti più sperimentali in grado di gettare le fondamenta estetiche e concettuali su cui avrebbero costruito le band cittadine. La seconda è costituita dal box Dreams To Fill The Vacuum, appena pubblicato da Cherry Red. Un titolo significativo (ripreso da un brano degli I’m The Hollow) per quella che fra la fine degli anni 70 e l’inizio degli '80 ha rappresentato l’avanguardia del pop albionico, con il suo blend fra visioni fantascientifiche, conflittualità artistica e cinismo populista. Alle note di quest’ultimo hanno contribuito Roger Quail (batterista dei primi Clock DVA, poi passato ai Books e per un breve periodo anche nelle file dei Cabaret Voltaire) e Martin Lacey, aka Martin X Russian, fondatore della cult band They Must Be Russians. Con loro abbiamo provato ad approfondire alcuni temi di quella eccitante stagione che, fra le altre cose, ha settato le coordinate estetiche per il pop degli anni 80.

DAL GLAM AL POST PUNK Per comprendere quanto accadde a Sheffield alla fine degli anni 70, bisogna fare un passo indietro, agli inizi dello stesso decennio. “Molti dei gruppi dell’epoca”, ricorda Roger Quail, “erano cover band e suonavano nel circuito dei cabaret. Gli unici a fare musica originale erano gli Extras, la resident band di un locale chiamato Broadfield. Una specie di versione cittadina dei Roxy Music”. Anche gli Extras si cimentavano con le cover, ma nel loro caso si trattava di pezzi di Leonard Cohen e Velvet Underground, qualcosa di ben diverso dalle hit del momento riarrangiate dalle altre band. Andare ai loro concerti significava entrare nell’orbita di giovani dandy che nutrivano lo stesso amore per Bowie,

TAG: #sheffield #synthpop #dada #sci-fi #cabaretvoltaire

92 | RUMOREMAG.COM

C A B A R E T V O LTA I R E

Roxy Music e Lou Reed. “A Sheffield”, ricorda Lacey, “c’era una sproporzione di amanti del glam rispetto al resto del Paese”. Il glam rispondeva al desiderio di anticonformismo della gioventù cittadina. Un sentimento alimentato dalla presenza di università, scuole d’arte e da istituzioni ricettive e lungimiranti. Fra le band glam, i Roxy Music erano quelli destinati a colpire maggiormente l’immaginario degli studenti, grazie al look retrofuturista e alle sonorità protoelettroniche di Brian Eno. “All’interno dei Roxy Music, Eno era l’unico che sembrava suonare uno strumento in modo non convenzionale. Aveva solo strane tastiere e sembrava intento a programmare più che a suonare. Questo era importante per i ragazzi perché insegnava loro che non dovevi essere Rory Gallagher o Ritchie Blackmore per far parte di un gruppo”. Fra i seguaci di Eno e dell’idea che per fare musica bastassero sintetizzatori e nastri registrati c’erano Stephen Mallinder, Richard H. Kirk e Chris Watson. “I Cabaret Voltaire hanno iniziato nel ’74”, continua Lacey, “ma non pensavano a loro stessi come a un gruppo pop. Sperimentavano piuttosto con i suoni”. Riprendendo le teorie di Eno, i Cabs organizzavano le loro composizioni come performance sonore, collage astratti ispirati alla tecnica del cut up burroghsiano e all'immaginario distopico di Ballard e Dick.

«V O L E V A M O S U O N A R E C O M E I R A M O N E S M A N O N T R O V A VA M O U N B A T T ER I S T A D E C E N T E . P O I S E N T I M M O P A RL ARE DEI CABS. RIMANEMMO AFFAS C I N AT I D A L FAT TO C H E FA C E S S E R O M U S I C A S E N Z A U N A B AT T E R I A , S O LO C O N N A S T R I E V O C I P R O C E S S AT E . P E R N O I F U U N A S V O LT A , E A V V E N N E A N CORA PRIMA DI SENTIRLI SUONARE» MARTIN L ACEY

Con un nome preso in prestito dal famoso cafè di Zurigo dove Tristan Tzara e Hugo Ball declamavano le loro poesie, i primi Cabaret Voltaire si adoperavano per destrutturare la canzone pop grazie all’ausilio delle tecnologie. Nella loro prima incarnazione non solo non avevano la batteria, ma non possedevano neppure un sintetizzatore. Gli unici strumenti di cui erano dotati erano dei registratori a bobina e un oscillatore costruito da Watson. “All’inizio i Cabs lavoravano in un ambito della musica molto

RUMOREMAG.COM | 93

C LO C K D VA

sperimentale, che aveva a che fare con il movimento Dada. Erano anche influenzati da Stockhausen e dai Can. Prima dell’avvento del punk fecero un paio di disastrose apparizioni live, ma vennero accolte così male da confermare loro solo l'idea di non essere una band pop”. Le cronache del primo concerto sono impietose. Si tenne il 13 maggio del ’75 all’interno di una rassegna organizzata dall’associazione studentesca Science For The People. Il collettivo era stato pubblicizzato come gruppo rock, ma si presentò con un set che al posto delle percussioni prevedeva un nastro con la registrazione di un martello a vapore. Kirk suonava il clarinetto e vestiva una giacca gommata coperta da luci intermittenti, e il tutto si concluse con un’invasione di palco da parte del pubblico nella quale ad avere la peggio fu Mallinder, finito in ospedale con una frattura. Poi, per fortuna, arrivò il punk. Fra il ’76 e il ’77, infatti, i venti del punk soffiarono anche dalle parti di Sheffield, ma a differenza della

maggior parte della grandi città inglesi, il genere non vi si sedimentò. Quail ricorda che “da Sheffield passarono gruppi come Clash, Stranglers e Sex Pistols, ma tutte le band cittadine che nacquero in quel periodo avevano una drum machine. Penso ai primi Clock DVA, agli Human League, ai Graph, ai Vice Versa e ai They Must Be Russians. C’erano cittadine vicine come Barnsley e Doncaster che avevano scene punk più radicate. Da noi l’unico gruppo punk erano i 2.3 di Paul Bowers, che per tutto il '77, insieme a Adi Newton, pubblicò la fanzine 'Gun Rubber'”. Se nel resto del paese il punk offriva l’idea allettante di una musica in cui tecnica e virtuosismo erano banditi e in cui era l’attitudine a fare la differenza, Sheffield poteva già contare sull’esempio dei Cabaret Voltaire, il cui stile si protendeva decisamente verso il futuro piuttosto che restaurare i legami con lo spirito primigenio del rock. “Quando mi trasferii da Londra

10 SHEFFIELD CL ASSICS

THE HUMAN LEAGUE

REPRODUCTION (VIRGIN, 1979)

94 | RUMOREMAG.COM

BRITISH ELECTRONIC FOUNDATION

MUSIC FOR STOWAWAYS (VIRGIN, 1981)

CLOCK DVA THIRST (FETISH, 1981)

CABARET VOLTAIRE

RED MECCA (ROUGH TRADE, 1981)

HEAVEN 17 PENTHOUSE AND PAVEMENT (VIRGIN, 1981)

RETROPOLIS SHEFFIELD E L’ESPLOSIONE POST PUNK

e iniziai col gruppo”, ricorda Lacey, a proposito degli esordi con i They Must Be Russians, “volevamo suonare come i Ramones ma non trovavamo un batterista decente. Poi sentimmo parlare dei Cabs. Rimanemmo affascinati dal fatto che facessero musica senza una batteria, solo con nastri e voci processate. Per noi fu una svolta, e avvenne ancora prima di sentirli suonare”. In breve, l’approccio primitivo inaugurato da Mallinder e soci divenne il marchio della Sheffield di fine '70. Secondo Quail, infatti, “era una cosa molto tipica nella Sheffield dell’epoca. Nei Clock DVA Adi suonava clarinetto, il violino e una qualche forma primitiva di chitarra. Lo faceva a modo suo, cercando di trovare un suono originale, fornendo sempre un contributo inedito al sound del gruppo. Al contrario il nostro sassofonista era un musicista straordinario, ma era proprio questa amalgama di esperienza e primitivismo a creare una tensione creativa unica”. Il punk resta l’elemento detonatore. La condizione senza la quale un gruppo come i Cabaret Voltaire non avrebbe mai scoperto di avere un pubblico. La sua esplosione avrebbe cambiato le aspettative generali riguardo alla fisionomia di un gruppo rock, mostrando che esistevano spazi in cui un collettivo sperimentale come i Cabaret Voltaire avrebbe potuto lavorare. Allo stesso tempo, dai collage sonori iniziali, le loro divennero vere e proprie composizioni, che portavano l’ethos del punk in territori assolutamente originali. Nel ’78, dopo la pubblicazione del primo EP per Rough Trade, per loro divenne più facile suonare dal vivo, sebbene le performance continuassero a opporsi in maniera audace alle antiche tradizioni del rock. Quail ricorda la prima volta che vide suonare la band al Limit Club, nel ’79: “Eseguirono una pièce molto sperimentale, senza inizio e senza fine, di circa 25 minuti. Dopodiché, mentre veniva proiettato un video e gli strumenti stavano ancora andando in loop, scesero dal palco, presero una birra al bar e vennero in platea ad osservare lo spettacolo. Pensai che fosse la cosa più incredibile che avessi mai visto fino a quel momento”.

I’M SO HOLLOW EMOTION/SOUND/ MOTION (CHERRY RED, 1981)

THOMPSON TWINS A PRODUCT OF… (T, 1981)

ABC

TESTO DI DIEGO BALL ANI

« E S E G U I R O N O U N A P I È C E M O LT O S P ER I M E N TA L E , S E N Z A I N I Z I O E S E N Z A FINE, DI CIRCA 25 MINUTI. DOPODIC H É , M E N T R E V E N I VA P R O I E T TATO U N V I D E O E G L I S T R U M E N T I S T A VA N O A N C O R A A N D A N D O I N L O O P, S C E S ER O DA L PA LCO, P R E S E R O U N A B I R R A A L B A R E V E N N E R O I N P L AT E A A D O SS E R VA R E L O S P E T T A C O L O . P E N S A I C H E FOSSE LA COSA PIÙ INCREDIBILE CHE AV E S S I M A I V I S TO F I N O A Q U E L M OMENTO»

ROGER QUAIL

GENERAZIONE MEATWHISTLE C’è un altro elemento che rese unica la scena di Shieffield, e può essere riassunto nella tradizione progressista e lungimirante delle sue istituzioni. Il punk infatti non era neppure un'ipotesi quando, nel ’72, venne inaugurato il Meatwhistle. “Era uno spazio aperto dallo Sheffield City Council e gestito

THE LEXICON OF LOVE (MERCURY, 1982)

ARTERY

OCEANS (RED FLAME, 1982)

THEY MUST BE RUSSIANS THEY MUST BE RUSSIANS (FIRST FLOOR, 1983)

RUMOREMAG.COM | 95

RETROPOLIS SHEFFIELD E L’ESPLOSIONE POST PUNK

«B A N A L M E N T E , L A M U S I C A P R E F E R I TA D A C H I L A V O R A VA N E L L’ I N D U S T R I A D E L L’ A C C I A I O E R A L’ H E A V Y M E T A L , N O N A C A S O L’ A LT R A S C E N A C H E D O M I N Ò S H E F F I E L D I N Q U E L P E R I O D O. I S I N T E T I Z Z ATO R I E L E D R U M M A C H I N E E R A N O P E R LO P I Ù S U O N AT E D A G L I STUDENTI DELLE SCUOLE D’ARTE. PER LO R O, A B I T U AT I A L AV O R A R E N E L L E C A M E R E T T E O N E I D O R M I T O R I D E L L’ U N I V E R S I TÀ , E R A P I Ù FA C I L E S U O N A R E CON DRUM MACHINE CHE CON VERE B A T T E R I E . È Q U E L L O C H E A L L’ I N I Z I O ACCOMUNÒ LE BAND DI SHEFFIELD: I RITMI ELET TRONICI E PROTO ELET TRONICI»

ROGER QUAIL

da Chris Wilkinson e sua moglie Veronica. Erano loro ad aver avuto l’idea di dar vita a un gruppo teatrale giovanile, in cui i ragazzi potessero venire e sperimentare in qualsiasi modalità”. Il Meatwhistle fu costituito attorno al Crucible Thatre ma si trasformò ben presto in uno spazio creativo in cui era possibile sperimentare soluzioni innovative sia dal punto di vista visuale che musicale. Un terreno fertile per gran parte dei giovani di talento di Sheffield. Per Quail “la cosa incredibile è il fatto che fosse un progetto del City Council. In pratica il comune pagava affinché i ragazzi potessero essere ‘strani’ e seguissero le proprie inclinazioni artistiche. Penso che sia questo lo spirito che ha reso Sheffield diversa dalle altre città. Il fatto che qui le persone venivano incoraggiate a essere loro stesse e a pensare che in fondo non era sbagliato essere un po’ strani”. Il primo collettivo musicale a emergere dal Meatwhistle furono i Musical Vomit, il duo art rock inizialmente formato dal cantante Mark Civico e da Ian Craig Marsh e nel quale, fino al ’76, si alternarono Martyn Ware, Paul Bowers e Glenn Gregory. A quel punto il loro era un rock dalla forte impronta teatrale, con testi che trattavano di masturbazione e necrofilia. Anche in questo caso la svolta arrivò nel ’77. Quello che per molti è l’anno del punk, dalle parti di Sheffield decretò il momento in cui le chitarre iniziarono a perdere il loro appeal. Per Ware e Marsh gli eventi che segnarono la svolta furono la pubblicazione di Trans Europe Express dei Kraftwerk (e in misura minore il successo di I Feel Love di Donna Summer) e l’acquisto

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TESTO DI DIEGO BALL ANI

da parte di Marsh di un kit per la costruzione di un sintetizzatore. A quel punto, dopo aver reclutato l’amico Adi Newton, ribattezzarono il gruppo The Future. I Future durarono solo fino al ’78, quando Adi partì per formare gli Clock DVA. Ware si ricordò del compagno di scuola Phil Oakey, il cui elemento più rivoluzionario, oltre al fatto di saper a malapena cantare, era il taglio di capelli asimmetrico. Con il suo ingresso la band cambiò nome in The Human League. Fu proprio in quel momento che le cose iniziarono ad accadere. “La Now Society”, ricorda Lacey, “era una organizzazione di intrattenimento alternativo che faceva capo all’Università di Sheffield e che organizzò diversi concerti, fra cui una famosa esibizione dei Cabaret Voltaire nel ’78. Allo Sheffield Art College gli Human League suonarono il loro primo concerto. Sono questi i posti che hanno dato un contesto alla prima musica originale che veniva suonata in città. La loro importanza consistette anche nel portare band come Throbbing Gristle, Teardrop Explodes e Mighty Wah!, permettendo ai gruppi locali di aprire i concerti”. Quail ricorda la nascita di alcuni storici club: “Il Limit era il primo posto dove potevi andare in jeans e scarpe da ginnastica. Per questo divenne molto popolare, non solo negli ambienti post punk. Ricordo una serata storica nel ’79, in cui sullo stesso palco si esibirono Human League e Def Leppard. Nel 1980 aprì il Blitz. Era soltanto un appartamento al primo piano di un palazzo. Fu aperto da un tipo che si faceva chiamare Disco John e non poteva contenere più di 200 persone, ma divenne subito molto popolare, dal momento che il Limit stava diventando un locale più trendy e Disco John voleva un club in cui la gente potesse ascoltare roba tipo James Chance e i Suicide. Poi c’erano il Crazy Daisy e il Leadmill. Quest’ultimo è attivo ancora adesso e ha una lunga storia di successi. Anch’esso aprì grazie a un contributo dal comune e nel 1980 fu teatro di un famoso concerto dei Dead Kennedys”. Contestualmente la scena si stava affollando di band che sulla scia di Cabaret Voltaire e Human League perseguivano l’idea di una musica innovativa, animata da uno spirito creativo e un’intensità che talvolta sfociava in violenza. Le cronache raccontano che gli Artery erano autori di show tanto terrificanti quanto elettrizzanti. I Clock DVA vennero banditi da alcuni locali dopo il loro primo concerto, mentre durante una loro performance gli I’m So Hollow vennero cacciati dal palco dopo solo due canzoni. Persino gli Human League dovettero iniziare ad esibirsi dietro uno scudo di perspex per evitare che gli skinhead presenti ai loro concerti distruggessero i sintetizzatori. “C’era una band chiamata Molodoy”, ricorda Quail, “il cui look era ispirato a quello dei drughi di Arancia

HUM AN EL AGUE

Meccanica. Musicalmente sembravano i Banshees senza Siouxie, ma avevano un seguito composto principalmente da skin e ai loro concerti c’era sempre la sensazione che potessero esserci problemi”. I più autodistruttivi, a detta di molti, erono i Salon Graph (poi ribattezzati semplicemente Graph), di cui faceva parte Ian Burden, che più tardi sarebbe entrato negli Human League. “Erano fantastici”, ricorda Lacey, “avrebbero potuto avere successo se solo lo avessero voluto. Ma era un gruppo con cui era estremamente difficile lavorare. Il loro unico singolo fu pubblicato per la Fast Product di Bob Last. Quando tutti li consideravano pronti a fare il salto di qualità, si misero in testa di fare musica improvvisativa e scelsero consapevolmente di distruggere tutto quello che avevano ottenuto fino a quel momento”. Fra il ’79 e l’81 la città fu colta da un momento di euforia creativa che l'avrebbe portata spesso sulle prime pagine delle riviste musicali. Gli anni in cui i Cabs pubblicarono i primi tre, fondamentali album, in cui gli Human League istituirono le basi del synth pop con dischi come Reproduction e Travelogue, e in cui i Clock DVA diedero alle stampe il capolavoro Thirst. Sull’onda dell’interesse crescente per le sue band simbolo, Sheffield si ritagliò un profilo futuristico e tecnofilo spesso frettolosamente associato alla sua storia industriale. “L’industria dell’acciaio è una parte importante della città”, ci tiene a precisare Quail, “ma Sheffield è anche una delle città più verdi dell’Inghilterra. Il Peak District, la zona in cui Sheffield incontra la contea del Derbyshire, è un luogo incantevole. Banalmente, la musica preferita

da chi lavorava nell’industria dell’acciaio era l’heavy metal, non a caso l’altra scena che dominò Sheffield in quel periodo. I sintetizzatori e le drum machine erano per lo più suonati dagli studenti delle scuole d’arte. Per loro, abituati a lavorare nelle camerette o nei dormitori dell’università, era più facile suonare con drum machine che con vere batterie. È quello che all’inizio accomunò le band di Sheffield: i ritmi elettronici e proto elettronici”.

UN NUOVO MAINSTREAM Il 1981 fu anche l’anno in cui, a causa del disaccordo sulla direzione da prendere per l’album successivo, Martyn Ware e Ian Craig Marsh abbandonarono gli Human League per formare la British Electronic Foundation. Più che un gruppo, la B.E.F. era una vera e propria casa di produzione, che con il progetto Heaven 17 avrebbe riconvertito le istanze sperimentali in chiave “new pop”. Esattamente quello che stava per accadere agli Human League guidati da Phil

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RETROPOLIS SHEFFIELD E L’ESPLOSIONE POST PUNK

«Q U A N D O G L I H U M A N L E A G U E C A MBIARONO ORGANICO E PASSARONO D A U N A L B U M S P E R I M E N TA L E C O M E TRAVELOGUE A UN DISCO COME DARE, C ’E R A A N C O R A U N S E N S O D I N O V I TÀ . P O R TA R E I N C L A S S I F I C A U N A L B U M I NTERAMENTE ELET TRONICO ERA ANCOR A Q UA LCO S A D I I N U S UA L E A L T E M P O. MA POI SI TRASFORMÒ NEL PARADIGM A P E R D E C I N E D I B A N D C H E N E S EG U I R O N O L’ E S E M P I O »

MARTIN L ACEY

Oakey. Quest’ultimo, una volta assunto in formazione il bassista dei Graph, Ian Burden, reclutò le coriste Joanne Catherall e Susanne Sulley dopo averle viste ballare al Crazy Daisy. Ricorda divertito Quail: “Nessuno sapeva cosa avesse in mente Phil Oakey quando assunse le due ragazze del Crazy Daisy. A parte questo, quando gli Human League pubblicarono Dare, nessuna delle ragazze di Sheffield si capacitava

METHODOLOGY '74-'78. ATTIC TAPES MUTE/PIAS

di non essere stata scelta. Penso che alla fine la sua fu una decisione brillante perché quelle erano due ragazze in cui tutte le teenager inglesi si potevano identificare”. Secondo Lacey, “quando gli Human League cambiarono organico e passarono da un album sperimentale come Travelogue a un disco come Dare, c’era ancora un senso di novità. Portare in classifica un album interamente elettronico era ancora qualcosa di inusuale al tempo. Ma poi si trasformò nel paradigma per decine di band che ne seguirono l’esempio”. Nel caso dei Vice Versa, la band di Martin Fry che nel giro di pochi mesi passò da un electro post punk ad un funk pop estremamente sgargiante, il cambiamento fu più traumatico. “Eravamo di ritorno da un concerto a Londra con i Vice Versa”, prosegue Quail, “quando, durante una pausa del viaggio, Martin Fry ci disse che avrebbero cambiato nome in ABC, avrebbero indossato abiti eleganti e avrebbero suonato come Smokey Robinson & The Miracles. Gli rispondemmo increduli, ‘certo, ora tornate nel van che andiamo a casa’. Nel giro di un anno avevano pubblicato The Lexicon Of Love ed erano diventati delle rockstar”. Fu un cambio di sensibilità repentino a cui non tutte le band riuscirono o vollero uniformarsi. Per le restanti si trattò di fare i conti con una generalizzata disillusione alimentata dalla frammentazione della

CABARET VOLTAIRE

Pubblicata per la prima volta nel 2003 e ristampata oggi su vinile, Methodology rappresenta esattamente quello che suggerisce il titolo: una serie di sketch sonori con cui l'ensemble britannico costruiva il proprio universo espressivo, fatto di manipolazioni di nastri, interpolazioni elettroniche, studi sui timbri, modulazioni e pattern ritmici. In epoca pre punk Kirk, Mallinder e Watson sviluppavano un fiero approccio antimusicale e antirock, facendosi portavoce delle intuizioni di Brian Eno, prosecutori della sperimentazione tedesca e delle teorie Dada applicate alla musica. In un solaio adibito a laboratorio sonoro il gruppo fissava su nastro il risultato di quei primi esperimenti dando vita a qualcosa che stava fra la musica concreta e le più estreme sonorizzazioni della BBC. Materiale che avrebbe utilizzato all'interno dei primi e intransigenti show, generando sgomento presso un pubblico ancora impreparato al loro approccio. I primi cinque di questi sette dischi costituiscono un percorso 98 | RUMOREMAG.COM

TESTO DI DIEGO BALL ANI

a ostacoli di non facile assimilazione ma di indubbio fascino. Il collettivo si poneva sulla lunghezza d'onda dei grandi compositori d'avanguardia con quella che sembrava ambient music per distopie fantascientifiche in cui le macchine dominano sull’uomo. Il valore dell’opera sta tutto nell’allucinato primitivismo digitale di frammenti come Exhaust, Jet Passing Over e Jack Stereo Unit, con cui il gruppo sviluppava gli strumenti artistici che avrebbe utilizzato per le composizioni della maturità. Negli ultimi due vinili il brodo techno primordiale finisce per coagularsi nelle prime composizioni sonore. Appaiono così le prime versioni di classici come Nag Nag Nag, Baader Meinhof e Do The Mussolini (Headkick), più grezze e ruspanti di quelle che verranno poi reincise, con altri mezzi, per Rough Trade.

90/100 DISCO ZERO EXTRA

«A S H E F F I E L D È M A N C ATA U N A F I G U R A COME TONY WILSON. L A SUA IDEA DI FONDARE L A FACTORY RECORDS E L A P O S S I B I L I T À D I A V E R E U N O S P A Z I O T EL E V I S I V O È S TATA U N A G R A N D E P U BB L I C I T À P E R L A M U S I C A D I M A N C H ES T E R , H A C O N T R I B U I T O A D A R L E C O ESIONE. QUESTO A SHEFFIELD NON C’È M A I S T A T O , N O N A V E VA M O U N A T E L EVISIONE LOCALE O UNA RADIO CHE P R O M U O V E S S E R O L A M U S I C A C H E V EN I VA P R O D O T T A Q U I »

MARTIN L ACEY

AAVV scena. Il londinese Lacey prova a spiegare il fenomeno da esterno: “Credo che sia dovuto al fatto che il punk non ha mai sfondato a Sheffield. In molti erano ancora legati a quello che c’era prima: il glam e il funk. Non si sentivano vincolati ad alcuna regola e non ebbero problema a riprendere alcune di quelle sonorità in chiave più moderna. Io ero avevo vissuto il punk e feci molta fatica ad accettare la cosa. Di fatto fra il 1981 e il 1982 la musica cambiò e tutto diventò più mainstream”. Secondo Quail, “all’inizio c’era l’idea che si potesse essere sovversivi anche nel mainstream e che si potessero in qualche modo cambiare le cose dall’interno. Perfino i Cabs finirono per firmare per la Virgin, dimostrando che in fondo si potevano mantenere le proprie peculiarità”. Col senno di poi, conclude Lacey, “a Sheffield è mancata una figura come Tony Wilson. La sua idea di fondare la Factory Records e la possibilità di avere uno spazio televisivo è stata una grande pubblicità per la musica di Manchester, ha contribuito a darle coesione. Questo a Sheffield non c’è mai stato, non avevamo una televisione locale o una radio che promuovessero la musica che veniva prodotta qui. D’altra parte non avevamo neanche un’etichetta cittadina, a parte la Limited Edition, che pubblicò il primo album degli Artery e forse quello di una o due altre band”. “Però abbiamo avuto i Cabaret Voltaire”, ricorda Quail, “non dirò mai abbastanza su quanto quei ragazzi hanno fatto per le band della città, ispirando musicisti, producendo i dischi di Clock DVA, I’m So Hollow e They Must Be Russians e collaborando con tutti in maniera aperta e amichevole. In pratica dando unità a una scena che nessuno a Sheffield avrebbe mai ammesso esistesse”.

DRESS TO FILL THE VACUUM: THE SOUND OF SHEFFIELD 1978-1988 CHERRY RED

Quella della Sheffield post punk, in cui il declino della vocazione industriale trovava sfogo in una musica futuristica e provocatoria, è solo una delle possibili storie. Certamente la principale, ma non l'unica. Ancora una volta Cherry Red mette mano agli archivi aiutando a far chiarezza sulle tendenze che portarono la città a essere uno dei più interessanti laboratori culturali fra '70 e '80. Ne emerge la mappa musicale coerente ma frastagliata di una città colta nel passaggio fra avanguardia artistica e innovazione mainstream. Un osservatorio privilegiato, visto che sotto l'egida dei Cabaret Voltaire (assenti dalla scaletta, ma la cui ombra si estende su buona parte di questi 83 brani) una generazione di musicisti imbracciò sintetizzatori e drum machine con spirito laico e avventuroso, finendo per portare in classifica un po’ di quelle visioni avveniristiche. I primi due CD documentano il cuore della rivoluzione post punk di Sheffield e la sua repentina riconversione a fenomeno new pop. Human League, Heaven 17, Clock DVA e ABC sono le tessere più pregiate di un puzzle che acquista senso solo se osservato nella sua interezza. Graph, Molodoy, Artery e I’m So Hollow sono invece gli outsider di lusso, artisti esuberanti che contribuirono a corroborare la leggenda cittadina. I CD 3 e 4 mostrano un lato meno conosciuto, ma non meno interessante. A metà anni 80 Sheffield divenne teatro di una compatta scena goth che, grazie a gruppi come Danse Society, In The Nursery e Dachau Choir, era in grado di rivaleggiare con quella di Leeds. A valle l’underground cittadino si era frammentato fra sgargianti sonorità jangle pop (One Thousand Violins), electro funk (Chakk) e art pop (i primi Pulp), a dimostrazione di una complessità artistica che merita di essere riscoperta.

80/100 DISCO ZERO EXTRA

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CHE FINE HAI FATTO? MAOLO TORREGGIANI

MAOLO TORREGGIANI IERI (2006 AL 2012)

OGGI (DAL 2013)

“Avevo 20 anni, ero in piena tracotanza postadolescenziale e, come si dice qui a Bologna, carico di un'immotivata ‘fotta’ per cui avrei potuto spaccare il mondo. Allora la scena indipendente era fiorente e in fermento. Da adolescente mi chiamavano ‘fratellino dei Settlefish’ e il legame fraterno con Emilio (loro chitarrista) è stato il motore propulsivo per iniziare a concepire quella musica. Vederlo suonare tanto e ovunque mi ha spronato. Dal 2006 al 2008 ho fatto quasi 400 date in giro per Italia ed Europa, cosa che ci aiutò ad autodefinirci e modellarci. Da collettivo aperto, diventammo una formazione a cinque. Io, Scaglia, Mancio, Suri e Fede incidemmo il secondo album, edito da 42. Non smettemmo mai di suonare, e forse fu la mole concertistica a logorarci. Dai 20 anni passi ai 25 senza accorgertene, e poi inizi a chiederti ‘cosa fare da grandi’, domanda cui la band non poteva assolvere. Pur essendo sulla bocca di tutti non riuscivamo a sostentarci, e molti di noi sfruttarono quella passione suonando come turnisti. Io in parallelo, sin dai 16 anni, coltivavo un attaccamento all'arte culinaria. Per arrotondare iniziai a lavorare, prima facendo catering per locali bolognesi, poi come aiuto cuoco all'Hana-Bi di Marina di Ravenna. L'inizio del ‘lavoro da grandi’ coincise con la fine dei My Awesome, e fu naturale e umano. Ci furono anche Quakers & Mormons e sin/cos, ma sentivo che una parte di me mi spingeva verso la cucina. Morì mio padre, e la cosa mi sconvolse. Mi buttai a capofitto nella ristorazione”.

DOPO L’AVVENTURA LICEALE DEI NON COMPLIANT CARDIA, NEL 2006 FONDA I MY AWESOME MIXTAPE, CON I QUALI PUBBLICA TRE EP E DUE ALBUM: MY LONELY AND SAD WATERLOO E HOW COULD A VILLAGE TURN INTO A TOWN. NEL 2012 LA BAND SI SCIOGLIE E, DOPO LE ESPERIENZE DI QUAKERS & MORMONS E SIN/COS, MAOLO DECIDE DI VOTARSI ALLA CUCINA.

“Quella ‘fotta’ che da giovane mi aveva fatto realizzare nella musica, ora mi stava portando a perseguire obiettivi diversi. Dall'HanaBi, dopo due stagioni, tornai a Bologna. La cucina, la gastronomia sono cose che mi hanno sempre accompagnato, e sperimentai di tutto in città. Lavorai in ristoranti creativi, cucine tradizionali, bistrot di gusto anglosassone, botteghe con gastronomie annesse, bar con fantomatiche licenze di manipolazione, hamburgherie gourmet, bakery dal respiro nordico, fino a ciò che ha condizionato il mio lavoro soprattutto negli ultimi tempi: volevo coniugare la cultura del panificato a quella della semplice ristorazione. Il sogno era aprire un locale mio dove coniugarle. Nel frattempo nel 2014 conobbi Chiara, ci innamorammo e sposammo. E proprio lei e io nel 2016 decidemmo di aprire Olmo, un piccolo ristorante-panificio. Nel 2017 poi è arrivata nostra figlia Ottavia. Diventare padre mi ha di nuovo spinto a riconsiderare le priorità: la mia era diventata lei, volevo essere presente e non distrutto dal lavoro. Fu chiaro che non potevo più lavorare 13-14 ore al giorno come facevo da Olmo, non era giusto né per Ottavia né per mia moglie. Decisi di vendere e farmi assumere da Zoo, un locale di Bologna che tuttora mi consente di lavorare le giuste ore e sviluppare la mia passione per i panificati. Di cose ne ho fatte e se mi guardo adesso sono pienamente soddisfatto di tutto il mio percorso. Certo, ci sono stati alti e bassi ma posso ritenermi una persona felice”.

DI BARBARA SANTI - FOTO DI SIMONE CARGNONI 100 | RUMOREMAG.COM

GENTE SOL A (MA NON TROPPO) STORIA MINIMA DEI DISCHI DEFIL ATI

DUNCAN BROWNE Duncan Browne (RAK, 1973) Ho sempre pensato che i dischi solisti inglesi esprimessero tristezza. Quelli americani, solitudine. Istintivamente scelgo i primi, forse perché puoi essere triste anche insieme a qualcuno che ami. La tristezza non è così male, ha un che di intimo. Mentre la solitudine può avere una coda di rifiuto, è quasi violenta. Tutta la discografia appartata britannica non può prescindere dall’ombra tra le spalle chiuse di Nick Drake, ma in questo secondo disco di Duncan Browne ci sono anche il primissimo Al Stewart, Bert Jansch e Roy Harper, persino qualcosa della futura scrittura di Stuart Murdoch e Nicholas John Talbot (aka Gravenhurst). Certo, anche un eco delle visioni di Tim Buckley. Non aveva mai desiderato diventare una pop star, Duncan Browne (anche lui forse limitrofo alla sindrome da isolazionismo alla Mike Oldfield), ma per poco non gli toccò in un paio di occasioni. Una fu il singolo Journey, estratto proprio da questo disco, che arrivò al numero 23 delle classifiche inglesi e lo portò a Top Of The Pops. La seconda arrivò invece grazie ai Metro, band che formò insieme a Peter Godwin e Sean Lyons e con i quali incise nel 1977 Criminal World, destinata a finire poi nientemeno che in Let’s Dance di David Bowie. Un brano clamoroso di post glam e pre new wave, censurato dalla BBC per il suo sottotesto “sexual”. Troppo per uno schivo come Duncan, che nelle note scritte proprio da Sean Lyons per l’edizione in CD della EMI del 2002 viene descritto come un gentiluomo impalpabile, in una casa piena di piante e tessuti indiani, coperta dal profumo del tè Earl Grey e dal fumo delle Gitanes. I due discutono di musica, ma anche del modo migliore di cucinare le uova strapazzate. Tutto molto inglese, come le corde pizzicate per se stessi di My Old Friends (in fondo non così dissimile da Old Friends di Simon & Garfunkel),

l’apertura aulica di Ragged Rain Life, che spinge come certo folk rock britannico 70’s di area Pentangle e Fairport Convention. La dolcezza piena, note e testo, di My Only Son va accompagnata dai video della sua apparizione all’epoca, all’immancabile Old Grey Whistle Test, con camicia di seta viola e capelli lunghi da cui spuntano orecchie a punta e naso affilato da elfo della Compagnia dell’Anello. E come non scovare il primo Momus nei pastelli pop di Babe Rainbow? O l’eleganza decadente smoking e glitter di Roxy Music e mondo post Bolan del singolo Send Me The Bill For Your Friendship (che titolo…), classico hit mancato per cui chiunque oggi ipotecherebbe l’anima? Nonostante la produzione del Re Mida del pop britannico Mickie Most (dagli Animals ai Vibrators), Duncan Browne non ottenne il successo che meritava. Quindi vennero i Metro, una carriera solista più sbilanciata verso una forma di new wave melodica e, infine, le colonne sonore per la televisione inglese. Una volta aprì, quasi nel disinteresse più totale, per Lou Reed, pallido e abbandonato prima di Mr. Velvet all’apice della sua tensione elettrica. Nel 1989 gli fu diagnosticato il cancro, al quale si arrese nel 1993, all’età di 46 anni. Il suo album postumo, Songs Of Love & War, fu terminato grazie al contributo di amici musicisti, ma il suo lascito migliore al “nostro” mondo rimane proprio il secondo e omonimo album del 1973. Una di quelle opere che apparentemente non lasciano ombra, come la canzone numero sette per piano e voce, Cast No Shadow, almeno fino a quando non hai la fortuna di sfiorarla tra i tuoi ascolti. E, mi raccomando, se fate le uova strapazzate, ricordatevi sempre di non aggiungere latte e mescolare costantemente. È un suggerimento di Duncan.

DI MAURIZIO BLATTO RUMOREMAG.COM | 101

VISIONI FEBBRAIO 2020

“Orgoglio e pregiudizio” HAMMAMET

REGIA DI GIANNI AMELIO ITALIA, 2020

Un film enorme che osa porre il primato del cinema e dello sguardo (quindi del pensiero) nelle sacche della rimozione collettiva. Nel mettere in scena gli ultimi bagliori del crepuscolo di Bettino Craxi a Hammamet, Gianni Amelio sceglie di non percorrere la strada del cosiddetto cinema civile – ossia privilegiare l’invettiva e l’accusa, predicare ai convertiti colpevolisti a tutti costi – ma osa parlare e agire da poeta. Osa rivendicare il privilegio del pensiero, e dunque della critica. Hammamet non è un film che assolve Craxi o accusa Mani Pulite. Hammamet è un’occasione di parola presa e quindi offerta da un regista – all’apice della sua forza poetica – che (ir) rompe sulla scena di una rimozione. Craxi – il Presidente – è in Tunisia. L’Italia è un’eco lontana, al di là del mare. Amelio coglie

il dolore sordo di un uomo che ha avuto tutto, e che ormai vive circondato dalla famiglia e dai fantasmi di una vita. Rimpianti, sensi di colpa, rabbia, rancore, tristezza, furori. Nel chiuso del giardino si consuma un assedio che Amelio trasforma in un conflitto tutto interiore, rischiarato solo dagli echi di un cinema lontano (che intuizione il trittico Mann, Tourneur, Sirk!). Il ritratto di famiglia in un interno di Amelio è struggente perché ci mostra un uomo, il suo venire meno a sé stesso, il suo sparire. E, in questo bagliore irresistibile della fine, balugina la seduzione di una possibile paternità, invocata e rifiutata, nei confronti di Fausto, figlio di un compagno di partito che forse si è suicidato o forse no. Amelio, senza paura, tesse il più umano dei ritratti del più odiato fra gli uomini politici italiani cui Favino, in autentico stato di grazia, conferisce un grado di verità, anche nei gesti e negli accenti più segreti, che vibra di commozione inaudita. GIONA A. NAZZARO

100/100

A CURA DI GIONA A. NAZZARO

@GIONANAZZARO

LA VITA NASCOSTA

IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE

REGIA DI TERRENCE MALICK

REGIA DI DIAO YINAN

GERMANIA, USA, 2019

CINA, FRANCIA, 2019

Che gli ultimi anni della produzione di Terrence Malick siano stati fraintesi è a dir poco un eufemismo. In questo senso La Vita Nascosta non cambierà probabilmente molto il modo in cui il cinema del regista statunitense viene considerato. Ed è un vero peccato, visto che il film si può annoverare senza problema alcuno fra gli esiti maggiori di una ricerca formale e filosofica che non ha eguali nel cinema contemporaneo. Nel mettere in scena la vicenda di un obiettore di coscienza all’epoca del nazismo, Malick interroga il senso del dovere e della fedeltà, il rispetto nei confronti delle proprie idee e l’amore per i precetti del cristianesimo. Sino a che punto è giusto sacrificarsi? O meglio rinunciare ai propri principi per salvarsi la vita? Malick, ovviamente, non osa rispondere a questi interrogativi, creando una vera e propria sinfonia visiva in cui il dialogo interiore del protagonista risuona nelle voci del Creato, intrecciandosi con quelle delle persone amate. Il talento di Malick è tale che non bisogna essere religiosi per commuoversi di fronte a questo elogio del sacrificio. Tutto vive nello sguardo e nei movimenti della macchina da presa di un regista in stato di grazia assoluto.

Presentato a Cannes, il film di Diao Yinan è stato il titolo che maggiormente ha preso alla sprovvista gli habitué del festival. Complice anche un’apparizione di Tarantino alla proiezione ufficiale. Noir ultrastilizzato in ambiente proletario – nulla a che vedere con i corrispettivi di Hong Kong degli anni 80 e 90 – il film si presenta come un periplo notturno nel quale un gangster di piccola taglia tenta di sfuggire alla cattura dopo avere ucciso un poliziotto. I riferimenti a Fino All’Ultimo Respiro sono sussurrati ma evidenti anche se risultano più interessanti le strategie attraverso cui il regista decostruisce lo spazio e il tempo, creando così un vero e proprio film cervello. Tutto sembra assolutamente immobile mentre in realtà il fato tesse implacabile la sua tela. L’aspetto più interessante de Il Lago Delle Oche Selvatiche coincide con le strategie attraverso cui il regista riesce ad aggirare le limitazioni della censura cinese – sempre più aggressiva e pervasiva – dando corpo a un film astratto e rarefatto. Uno di quei rari film che riesce ad evitare il realismo obbligato della produzione cinese contemporanea, optando per una scelta stilistica convincente e controcorrente.

GIONA A. NAZZARO

GIONA A. NAZZARO

100/100

102 | RUMOREMAG.COM

75/100

PINOCCHIO

6 UNDERGROUND

ITALIA, FRANCIA, UK, 2020

USA, 2019

REGIA DI MATTEO GARRONE

REGIA DI MICHAEL BAY

Non è certo l’ambizione che difetta a Matteo Garrone. Avendo ristabilito le sue credenziali dopo l’infortunio dell’ambizioso Il Racconto Dei Racconti con Dogman, il regista corona finalmente il suo sogno collodiano. Garrone mostra mano ferma nella gestione del racconto, che struttura come una serie di tableaux vivants attraverso alcuni dei capitoli più noti del libro, evocando una narrazione dolcemente onirica, come un’allucinazione da dormiveglia. Le asperità più nere del libro ne soffrono un po’, anche se l’impiccagione del burattino e la sua trasformazione in ciuchino risultano piuttosto disturbanti. In linea con la sua poetica, il regista reinventa il bestiario di Collodi in una processione di creature quasi cittiane, governate dai loro appetiti. Probabilmente il momento più alto è il capitolo del pescecane. con Geppetto che addirittura ipotizza di potere vivere nel ventre del mostro. Così, fra set naturali e riferimenti addirittura mélièsiani, il film riesce ad affermare il proprio universo visivo e simbolico. Riuscito, dunque, e assolutamente non banale il Pinocchio secondo Garrone, autore sempre pronto a rimettersi in gioco e a rischiare. GIONA A. NAZZARO

72/100

E se il sistema Michael Bay si fosse esaurito? Già l’ultimo capitolo della saga dei Transformers – con la sua paradossale ambizione a fare “cinema” – risultava straordinariamente statico. Con 6 Underground, verrebbe voglia di dire “un film di transizione”, Bay torna a essere quello sbarazzino del primo Bad Boys, ma ritiene tutta la sua muscolarità “militare”. Come un action movie degli anni 70, il film si svolge in tutto il “mondo” ridotto a segnaletica “Google” (la vocazione turistico/totalitaria di Bay) perdendo però la leggerezza immateriale del gioco fra hardware e pixel. 6 Underground teorizza guerre asimmetriche come sport estremi per geniali milionari annoiati, ma la frammentazione applicata al mondo – intuizione non banale – si traduce solo in una raccolta non differenziata di set pieces complessi ma privi di quella stupefatta ironia che è il cinema di Bay al suo meglio. Certo, Bay (re)introduce l’elemento slapstick, sinora visto solo in Pain & Gain, ma tutto sembra essere una ripetizione di cose già note e – soprattutto – fatte. Michael Bay continua a essere un regista complesso e contraddittorio, interessante dunque, peccato che questo 6 Underground ne riveli più i limiti che il valore. GIONA A. NAZZARO

Extravisioni

65/100

GLI ALTRI FILM DA NON PERDERE

JUDY

REGIA DI RUPER GOOLD USA, 2019

BAD BOYS FOR LIFE

L’HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI

USA, 2020

FRANCIA, 2019

REGIA DI ADIL EL ARBI, BILALL FALLAH

RICHARD JEWELL

STAR WARS: L’ASCESA DI SKYWALKER

REGIA DI CLINT EASTWOOD

REGIA DI J.J. ABRAMS

USA, 2019

Clint Eastwood continua a interrogare cosa significhi essere “americani” oggi, in quello che senz’altro può essere considerato uno dei momenti più bui della storia degli Stati Uniti. Richard Jewell, però, non è solo il nuovo capitolo di un ideale pantheon dell’eroe americano. Eastwood, come sempre, mette in campo una straordinaria macchina delle ambiguità. L’eroe è il frutto di una narrazione, di uno sguardo. E la sua immagine è il risultato di un conflitto da affrontare sia nel cuore dei suoi valori che come racconto alternativo al discorso ufficiale. L’eroe secondo Eastwood è una discontinuità. Una frattura. Non è un caso che da American Sniper in poi il regista abbia anche offerto un punto di vista molto preciso sull’apparato della comunicazione e dei mass media. Ancora una volta un film dalla nettezza implacabile, il quale evoca sia le tribolazioni dell’ingenuo eroe americano di Frank Capra che la lucidità politica del Pollack di Diritto Di Cronaca. Eastwood sembra addirittura invocare il magistero di William Wyler per come riesce a cancellare (apparentemente) i segni della sua presenza autoriale dando vita a una tragedia americana che esplode silenziosa in dettagli e note a margine. GIONA A. NAZZARO

100/100

REGIA DI CHRISTOPHE HONORÉ

USA, 2019

Padri, figli, nipoti. Morte, vita, ciclicità, eterno ritorno. Saga, mito, cosmogonia. Il nono film di Star Wars, quello che dovrebbe chiudere il discorso inaugurato da Lucas più di 40 anni fa e dal 2015 finito nelle mani della Disney, più che un film è un season finale. Niente di scandaloso, vista la provenienza di JJ Abrams e il lavoro del co-sceneggiatore Chris Terrio con i franchise della DC Comics: i due hanno trattato una materia amplissima come accumulo di personaggi, eventi e risposte da dare. L’impaginazione orizzontale del racconto procede a tappe forzate, svelamento dopo svelamento, all’interno però di un blocco di film – gli ultimi tre – pensati in senso verticale, con Il Risveglio Della Forza chiamato a riallacciare i fili del tempo e Gli Ultimi Jedi relegato a episodio a sé, troppo audace, forse, nel tentativo di togliere la saga dalla sua stessa ombra. La pervasività del modello seriale ha dunque raggiunto anche Star Wars. Giusto così, probabilmente, come modo per chiudere coerentemente una storia che per nascita appartiene al ’900, che lo stesso Lucas aveva cercato di proiettare nel futuro con la seconda trilogia e che ora la Disney fa di tutto per ancorare al presente. ROBERTO MANASSERO

72/100

RUMOREMAG.COM | 103

VISIONI SERIE TV

“E la fine del mondo ma io sto bene” WAR OF THE WORLDS

PRODUZIONE: PRODUZIONE CANAL+, FOX NETWORKS GROUP EUROPE & AFRICA PIATTAFORMA: FOX

Davanti a un’imminente apocalisse qual è la forza propulsiva che spinge ad affrontare le difficoltà, le paure e la possibilità di morire? L’amore, in tutte le sue declinazioni: per la famiglia, per i figli, il recupero di affetti perduti rincorrendo vane chimere. In linea con una corsa al particolare e al privato che accompagna questi anni di ritorni di sistemi di pensiero autoritari. War Of The Worlds, serie in otto episodi basata sul romanzo di H. G. Wells, caposaldo della letteratura fantascientifica, è il racconto corale di un’umanità sempre più cinica ed egoista in cerca di riscatto dinanzi a una fine ormai prossima. Tutto ha inizio quando dallo spazio profondo giungono segnali di vita; dopo poco appare chiara la minaccia di una guerra aliena, molteplici attacchi e spaventose

creature approdano sulla Terra. La diffidenza verso gli altri esseri umani viene alimentata dalla necessità di proteggere sé stessi e i propri cari, dall’urgenza di ricongiungersi a loro nell’apocalisse imminente, ma cresce in parallelo la solidarietà e l’istinto di protezione verso i propri simili: questi i principali binari su cui si muove la serie. Allontanandosi dall’idea originale del romanzo, si racconta l’umanità, lasciando sul fondo l’invasione extraterrestre. Nel cast brillano in particolar modo Gabriel Byrne, nel ruolo di Bill, professore di neurobiologia ossessionato dalla sua ex moglie (Elizabeth McGovern) a cui è concesso il ruolo più approfondito, e Catherine Durand (Léa Drucker), scienziata che raccoglie le prime tracce di origine extraterrestre. La serie non risparmia colpi di scena ed emozioni forti. Un prodotto di intrattenimento non disprezzabile ma che forse banalizza un po' le intuizioni spielberghiane, nerissime, per privilegiare un approccio ideologico e politico più rassicurante. MARIANGELA SANSONE

74/100

LE TERRIFICANTI AVVENTURE DI SABRINA

CARNIVAL ROW

PRODUZIONE: LEGENDARY PICTURES, AMAZON STUDIOS PIATTAFORMA: AMAZON PRIME VIDEO

Nella pacifica e operosa città di Burgue (una Londra steampunk piena di fumi industriali e corsetti vittoriani) sciamano gli esseri fatati in fuga da Faerie, regno al di là delle montagne caduto in mano alla forza misteriosa e vagamente nazista chiamata Il Patto. La convivenza si fa subito brutale: stipati nella zona più malfamata della metropoli (la Carnival Row del titolo), i gruppi sempre più numerosi di fatine con le ali da libellula, lupi mannari e satiri dai piedi caprini subiscono, come tutti i rifugiati, la paura, il disprezzo e il razzismo degli umani. Tranne alcuni. Il tormentato ispettore Rycroft Philostrate (Orlando Bloom, copia esplicita del Johnny Depp di From Hell) si batte per far luce sugli efferati omicidi che flagellano la comunità fatata e per riconquistare l'amore perduto della fatina Vignette (la supermodella Cara Delevingne, che dà un nuovo significato recitativo al termine "statuario"). Sorprende per sontuosità e accuratezza, l'ambientazione della serie ad altissimo budget scritta dal neofita Travis Beacham e dal veterano René Echevarria. Peccato che lo sforzo creativo si sia arenato dentro una pozzanghera di psicologie da strapazzo e di prevedibilissime svolte. CLAUDIA BONADONNA

59/100

104 | RUMOREMAG.COM

PRODUZIONE: WARNER BROS. TELEVISION, ARCHIE COMICS, BERLANTI PRODUCTIONS PIATTAFORMA: NETFLIX

Le Terrificanti Avventure Di Sabrina si discosta dalle atmosfere leggere e ironiche della serie televisiva anni 90, cedendo il passo al lato oscuro, ai riti satanici e alle formule demoniache in latino, una vera e propria declinazione horror rispetto alla sitcom di qualche decennio fa, Sabrina, Vita Da Strega. Ispirata alla creatura degli Archie Comics, la storia ha molti punti in comune con la serie originale, come la presenza delle due zie, Zelda e Hilda, il fidanzato Harvey e il gatto “famiglio” Salem, ma la sedicenne, metà strega e metà umana, deve scegliere se continuare la propria vita come una qualsiasi adolescente o dedicare la propria esistenza a Satana. La ragazza non vuole rinunciare a nessuna delle due strade, da un lato la normalità del quotidiano con i brividi e la libertà dell’adolescenza, dall’altra la magia e il fascino del potere delle tenebre. Non si tratta solamente di una serie con fantastico e horror come matrici fondamentali, ma anche del ritratto di una giovane ragazza che lotta per essere sé stessa e per affermare la propria personalità individuale, fuggendo dagli stereotipi e ribellandosi a imposizioni e divieti ciecamente dettati dalla morale comune. MARIANGELA SANSONE

72/100

Musica

VISIONI ESPANSE

per gli occhi

Cineobituary

ANNA KARINA 19 40 – 2019

REGIA: SIMONE BOZZELLI LABEL: UMG

Mark Gatiss e Steven Moffat ci riprovano. Dopo Sherlock Holmes (e Sir Arthur Conan Doyle), tocca a Dracula (e a Bram Stoker) ricevere il trattamento di rilettura attento, affettuoso e perversamente di secondo grado diventato ormai il marchio di fabbrica del loro lavoro, e del successo che ne è conseguito. Interpretato da Claes Bang (The Square), Dracula si presenta con i crismi delle migliori produzioni BBC degli ultimi anni. Per il momento più una miniserie che una vera e propria serie televisiva, si tiene in equilibrio fra filologia e innovazione secondo la collaudata ricetta di Gatiss e Moffat. Chi per i vampiri ha sempre avuto un debole ovviamente aspetterà il duo al varco. Il resto del pubblico, invece, confiderà nell’effetto Sherlock. Il minimo sindacale in termini di qualità è in ogni caso garantito dalla BBC e il box blu-ray è un oggetto da collezione degno della spesa. Un lavoro di notevole qualità, dunque, in una confezione all’altezza delle aspettative. Quindi: che sarà mai qualche goccia di sangue per vivere un’avventura ai confini della notte?

Simone Bozzelli è uno dei nomi da tenere maggiormente d’occhio fra i giovanissimi registi italiani che ancora devono esordire sulla lunga distanza. Diplomato alla NABA e allievo di Gianni Amelio al Centro Sperimentale di Roma, Bozzelli ha presentato nel 2019 in concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia il suo primo cortometraggio, Amateur, lavoro di raro acume formale e di straordinaria intelligenza poetica. Dotato di un talento visivo notevolissimo e di un’intuizione naturale per la composizione, ritroviamo Bozzelli alla regia di HIT, singolo di Santa Manu. Il video, contemporaneamente un omaggio e una parodia dell’estetica delle televendite delle televisioni private dagli anni 80 in su, caratterizzato da colori caldi e una levigatezza addirittura disturbante, rielabora in forme contemporanee il sincretismo del primo Almodovar. In tre minuti esatti, Bozzelli riesce a dare corpo all’insofferenza di Santa Manu, al suo disprezzo per le richieste che le vengono poste, restando nell’ambito delle forme di una televendita che assume i caratteri di una messa con tanto di comunione. La reificazione dei corpi e delle idee diventa così un circo cinico di mortifera eleganza, che nelle parole del brano si presenta sardonico e minaccioso. Bozzelli dimostra anche in un lavoro su commissione di pensare in termini visivi assolutamente personali, senza cedere mai al naturalismo dominante. Il suo approccio gender fluid riprende la domanda di fondo di Amateur, ossia cosa si è disposti a fare per essere amati e amare, e la trasforma in una questione di economia dell’immagine. Politica del desiderio, insomma. In attesa di vedere i prossimi lavori di Bozzelli, non possiamo che apprezzare i risultati – già così compiuti – di un giovane talento che esplora senza paura il perimetro della sua vocazione di artista.

GIONA A. NAZZARO

GIONA A. NAZZARO

All’anagrafe era stata registrata come Hanna Karin Blarke Bayer. Il cinema – e il mondo – la ricorderanno per sempre con il nome di Anna Karina. Nell’arco di sette film e mezzo, diretta da Jean-Luc Godard, l’attrice diventa il segno di un’epoca irripetibile. La Nouvelle Vague e i prodromi del ’68. Dopo, nulla sarà più come prima. Il suo volto, il suo accento, la sua presenza sono assurti a simbolo di tutto ciò che il cinema può ancora essere. Eppure, nonostante l’ombra di Godard, ha saputo emanciparsi da un amore difficile e andare avanti. Fra gli altri registi con cui ha lavorato impossibile non citare Fassbinder, Rivette, Schlöndorff, Cukor, Visconti, Demme e altri ancora come Guy Greene e Franco Brusati per Pane E Cioccolata. Restia a offrirsi come musa o simbolo, ha vissuto con leggerezza il suo ruolo di icona di una certa idea della Nouvelle Vague. Nel 2000, con la collaborazione di Philippe Katerine e altri musicisti, incide il disco Une Histoire D’Amour, una magnifica raccolta di chansons che la sua voce inconfondibile indossa con straordinaria naturalezza. Anna Karina sarà per sempre l’immagine di un cinema che ha permesso di immaginare un altro modo di essere nel cinema, per il cinema. Non ci sarà mai più un’altra attrice come lei. Anna Karina è tutto il cinema del mondo. GIONA A. NAZZARO

D E L ME S E

SANTA MANU HIT

DRACULA BBC

RUMOREMAG.COM | 105

LETTURE FEBBRAIO 2020

AA.VV.

1000 DISCHI ROCK FONDAMENTALI + CENTO DISCHI DI CULTO GIUNTI

Difficile rendere ancora più completa una guida dal valore già di per sé enciclopedico, ma i tempi cambiano: risulta quindi necessario procedere a delle nuove integrazioni, così come alle inevitabili conseguenti esclusioni. Escono alcuni titoli, la cui rilevanza è stata ridimensionata dal mutare delle prospettive storiche; altri scivolano nei Cento Culti, sezione nuova di zecca, che accoglie anche lavori precedentemente lasciati fuori come Happy Nightmare Baby degli Opal o Today dei Galaxie 500. Viene finalmente sanata la sanguinosa assenza dell'album omonimo di Mark Hollis, allo stesso modo vengono aggiunti titoli essenziali usciti dopo la precedente edizione (Blackstar di David Bowie e Black Messiah di D'Angelo, che qui prende il posto di Voodoo). Risulta nutrita la pattuglia degli anni 10, la quale vede l'ingresso trionfale di numerosi dischi: nomi come Kurt Vile, Tame Impala e Courtney Barnett conquistano il loro meritato posto al sole. Un volume che si conferma, anche in questa nuova veste riveduta e corretta, una guida irrinunciabile per ogni vero appassionato di musica rock. STEFANO D'ELIA

90/100

HUGUES BAZIN

LA CULTURA HIP HOP BESA/MUCI

BUGO

LA FESTA DEL NULLA RIZZOLI

Cris, diminutivo di Crisante (ma a ben vedere anche di Cristian, pensando al Bugatti), è un liceale senza una lira bucata in tasca che sta stretto nel piccolo e brumoso paese della provincia di Novara in cui vive ed è nato, Cerano. Come ogni adolescente dei primi '90 che si rispetti naturalmente suona. E scalpita. Ha una band, i Provincia Bastarda. È “un rocker col cuore di panna”, innamorato di Vasco Rossi, ma anche di Battisti. Curioso che lo sia del Battisti meno ovvio, quello di Anima Latina. Comunque ama anche i Cramps. Bowie. I gusti musicali forse non coincidono del tutto, ma i luoghi in cui si svolge l’azione sì, e quella Novara e dintorni in cui è cresciuto Bugo torna prepotentemente in questo suo romanzo d’esordio. Eppure di romanzo si tratta perché, nonostante le assonanze tra l’autore e il protagonista, la trama è frutto della fantasia. Così come il viaggio verso quella Londra in cui Cris approda insieme ai suoi tre sodali di band, in cerca di opportunità musicali e della sua Barbara, fanciulla di buona famiglia che ha appena fatto armi e bagagli per trasferircisi a studiare. Il viaggio è al centro, metafora di vita. Il racconto è veloce. Scorre liscio e cadenzato. Ha ritmo. L’argomento in sé certo non è inedito, ma la scrittura è piacevole e personale. Perché scrivere canzoni e romanzi non è la stessa cosa, chiaro, ma se si ha carattere nella stesura dei versi spesso lo si ha anche in prosa, o perlomeno questo è il caso del nostro. Funziona la descrizione dei personaggi, pare di averli conosciuti in quegli anni di fine del secolo scorso. Ragazzi di provincia che sperano di aprire i propri orizzonti, che desiderano altro per il futuro e che associano quest’altro al sogno di una vita da rockstar. Funziona anche il flusso tra i pensieri del protagonista e i dialoghi. Un buon esordio. E in attesa del nuovo album, gli si augura il meglio per l’avventura al Festival. BARBARA SANTI

76/100

106 | RUMOREMAG.COM

La ristampa dell’imprescindibile saggio di Bazin offre l’opportunità di una riflessione sullo stato dell’arte odierno, ma anche un doveroso riguardare quanto di solido è passato nella cultura urbana globale. Se oggi esiste una sedimentata tradizione di luoghi riconvertiti alle nuove realtà giovanili, ciò è dovuto alla rivoluzione di usi e costumi avvenuta nei tardi anni 80 e primi '90: e l’hip hop ne è principale artefice. La prospettiva di Bazin è in particolare quella francese, che parte dalle esperienze di Radio 7 attraverso gruppi come Suprême NTM o Iam per giungere alla deriva più “popolare” di MC Solaar o Alliance Ethnik. Vero è che le istanze programmatiche della cultura hip hop sono state sempre contrassegnate dal superamento dei confini nazionali. Per cui spazi, arti grafiche, danza e parole musicate si configurano come espressioni comunitarie, che hanno come obiettivo la trasformazione di un contesto. Le banlieues di Parigi diventano archetipo di ogni periferia, e ciò che è valso alla generazione di La Haine oggi indica la direzione anche per i ragazzi di Baggio o Torpigna. FABIO STRIANI

85/100

JANE BIRKIN MUNKEY DIARIES CLICHY

Facile presentare in TV Jane Birkin come icona trasgressiva e fascinosa. Nei fatti Birkin ha tutto per essere considerata star internazionale appena sfiorata dal disagio di esistere. Il diario è però da sempre un cancello ben chiuso, e quindi condividere svariati dettagli di vita familiare è già di per sé meritorio, tanto più che JB svela fotografie nient’affatto frivole, disseminate nel bilancio quotidiano tra viaggi, incontri, affetti e prime esperienze artistiche. Il successo ha motivazioni ampiamente dispiegate: pur nell’eleganza formale delle relazioni familiari, la giovane Jane mette a repertorio tutta una serie di gentili quanto inesorabili coercizioni genitoriali che saranno decisive nelle successive scelte artistiche. Esempio: “Pa aveva deciso di mandarmi in Francia presso Madame P., a causa del suo debole per i francesi”. Una linea educativa condizionante può produrre una reazione a catena se avvicinata ad un moltiplicatore di rilievo (nel caso di Jane: una capacità di fascinazione oltre norma). Non a caso, tiene a sottolineare la volontà di mantenere il proprio cognome davanti ai riflettori, una tangibile seppur raffinata espressione di rivalsa. FABIO STRIANI

73/100

LETTURE FEBBRAIO 2020

FRANCO CAPACCHIONE PAROLE INTONATE

FRANCO CESATI EDITORE

“La sfida di questo libretto è sottolineare il legame, palese o sommerso, tra un’opera di narrativa, o poesia, o saggistica e un disco di musica rock o pop. Considerandoli alla pari, senza distinzioni tra alto e basso”. Fa bene l’autore a mettere le mani avanti e tenere un profilo basso, ché la materia è facile preda dei cliché. I 20 Abbinamenti Tra Letteratura E Musica Pop, come da sottotitolo, sono esempi più o meno interessanti di affinità elettive tra un libro e un disco. Alcuni tirati per i capelli, come Bukowski e la Bertè, il Pirsing di Lo Zen… e il Vasco Rossi di Bollicine. Altri decisamente più centrati, come il concept Histoire De Melody Nelson di Gainsbourg ispirato da Lolita di Nabokov e a sua volta fonte d’ispirazione per molti artisti, oppure il binomio Burroughs/Nirvana. Parole Intonate pare un catalogo d’arte impaginato a mo’ di rivista patinata, con foto e font grafici per ipovedenti: un po’ guida, un po’ saggio divulgativo per neofiti. Detto questo, è ben scritto (particolarmente interessante la parte letteraria, vedi Tondelli) e curato altrettanto bene a livello editoriale. MANUEL GRAZIANI

71/100

LUCA D’AMBROSIO

EPÌSCH PORZIONI

MUSICA MIGRANTE – DALL’AFRICA ALL’ITALIA PASSANDO PER IL MEDITERRANEO

KURT COBAIN DOSSIER: INDAGINE SU UN SUICIDIO SOSPETTO CHINASKI

“Qualcuno sa dirmi che fine abbia fatto la verità?”. Questa domanda, che si trova tra le pagine del libro, verso la fine, riassume perfettamente il clima di dubbi, presunti o veri depistaggi, affermazioni, smentite e documenti distrutti, forse mai esistiti o smarriti negli anni, che circondano con una spessa coltre di mistero la morte di Kurt Cobain e che Porzioni raccoglie con meticolosità e descrive con linguaggio spudorato e diretto raccontando i fatti dalle diverse angolazioni (allucinate o meno) di chi li ha vissuti. Già nel 2008 l’autore pubblicò Il Caso Cobain, sempre per Chinaski, che conteneva solo i primi due dei cinque capitoli qui presenti e godeva di una breve prefazione di Ken Paisli, che ci avvertiva: “Un’indagine seria fatta da un tipo poco serio, ecco cos’è Il Caso Cobain”. Qui l’autore, sempre con l’accuratezza di contenuti presentati tramite il suo gonzo style, rincara la dose con nuove testimonianze (allucinate? Interessate? Reali?) e ulteriori prove (create a tavolino? Manipolate? Reali?) che non riguardano solo l’eccentrica vedova Courtney Love ma anche la polizia di Seattle, la CIA e una serie di altri attori secondari (ma non troppo), cercando di tirare le somme. Se i primi due capitoli (quelli contenuti anche ne Il Caso Cobain) ricostruiscono l’infanzia, l’adolescenza e la carriera di Cobain fino alla sua scomparsa, facendo luce anche su vicende che se collegate alla morte di Kurt porrebbero effettivamente qualche dubbio sul suo suicidio, dalla terza parte in poi conosceremo meglio l’infanzia, l’adolescenza e l’era “post Kurt” di Courtney, una donna che sembra uscita da un romanzo di Irvine Welsh, e incontreremo anche Frances Bean Cobain e il suo ex marito. Porzioni non risparmia proprio nessuno per offrire un quadro completo di quelli che sono i fatti concreti che si celano dietro questo “suicidio sospetto”. Ma alla fine chi sa dire “che fine abbia fatto la verità”? DORIANA TOZZI

77/100

ARCANA

Siamo abituati a scindere emotivamente e operativamente la musica dell’Africa dagli incontri che ogni giorno viviamo con le persone provenienti dal quel continente. Tutto bene se in cuffia pompano suoni subsahariani suggeriti da David Byrne o Peter Gabriel, oppure techno Maghreb intercettata all’università. Però sul fronte del contatto diretto siamo carenti. Il lavoro dell’autore s’infila in questo varco per un viaggio in due tranche: le storie arrivano da Burkina Faso, Mali, Niger, Ghana, Tunisia e via dicendo; la musica, che inevitabilmente punteggia i racconti, è in seguito illustrata con portamento storico e critico. Il punto di forza dell’operazione risiede proprio nei passaggi in cui i due vasi comunicano con maggiore immediatezza. Un ragazzo del Burkina svela i suoi idoli engagé, un profugo della Sierra Leone passa gli auricolari all’uomo europeo, suoni e baby gang s’intrecciano nei racconti della Costa d’Avorio. E così via, con la forza delle storie di prima mano raccolte sul campo in Africa e con importanti riferimenti a fede religiosa ed etnia di ciascun interlocutore. PAOLO FERRARI

73/100

DON JOE

IL TOCCO DI MIDA MONDADORI

Re Mida, il sovrano capace di trasformare in oro ogni cosa finita in suo possesso: è questo il paragone che Don Joe, storico produttore della crew milanese Club Dogo, sceglie per raccontare la propria storia. Che è una storia di successo, l'avventura del ragazzino che ce l'ha fatta, trasformando la propria passione in un lavoro. Joe è ottimo testimone del prima e del dopo di questa musica in Italia, oltre a essere stato protagonista di quella stagione spartiacque, l'anno 2006 con la rinascita mediatica e commerciale del genere nel nostro paese proprio grazie al successo di Fabri Fibra e dei Dogo. La differenza fondamentale fra i due momenti, la presenza e l'assenza di denaro, è ben descritta nelle circa 130 pagine che costituiscono questo libro e che ripercorrono la carriera del producer meneghino, dai primi passi come appassionato della cultura al successo nazionale, passando per la resurrezione artistica come Club Dogo dopo lo scioglimento del progetto Sacre Scuole in un momento morto per la scena, quei primi anni Zero dove le rime erano scomparse dai radar mainstream. Godibile. DAVIDE 'DEIV' AGAZZI

60/100

RUMOREMAG.COM | 107

LETTURE FEBBRAIO 2020

KRISTIN HERSH

NON FARE STRONZATE, NON MORIRE JIMENEZ

"A volte vogliamo morire. E a volte ci guardiamo a vicenda mentre percepiamo questa emozione". Due danneggiati dal mondo (Kristin Hersh delle Throwing Muses, in lotta dall'adolescenza con la depressione bipolare, e Vic Chesnutt, tetraplegico dall'età di 18 anni dopo un violento incidente automobilistico) si incontrano nella vita e nella musica. Lei è già una stella alternativa avviata alla carriera solista, lui un chitarrista che può muovere solo due dita, ma capace di strimpellare "canzoni sgualcite dentro cui riuscivamo tutti a sentirci a casa". Per buona parte degli anni 90 saranno in tour insieme. Quasi feroce l'una, nell'imporre a lui di accogliere "la tremenda dolcezza dell’esistenza" (ma Chesnutt si ucciderà comunque, la vigilia di Natale del 2009), caustico e dissacrante l'altro nel trattare i demoni di lei. Il racconto di quegli anni diventa nella poetica cruda di Hersh l'incontro dentro uno stesso disagio: l'impulso "incrinato e brutalmente profondo" a condividere il proprio smarrimento. Un Addio A Vic Chesnutt, recita il sottotitolo. Il ricordo accorato e sfrontatamente privo di pietismo di una vita in fiamme. CLAUDIA BONADONNA

82/100

MATTEO TORCINOVICH

PUNKOUTURE - CUCIRE UNA RIVOLTA 1976-1986

LUIGI LUPO

NOMOS

Che sia un fine esteta e storico pop Torcinovich ce l’ha dimostrato con Pics Off! sulle copertine fotografiche dei dischi new wave. Nel secondo capitolo, sempre stampato dai tipi di Nomos in un’elegante edizione cartonata 20x25, si supera analizzando la moda punk che fece diventare glamour il kitsch più esasperato attraverso il riuso, il fai da te e le combinazioni più assurde innalzati a forma d’arte individuale. Il punk è stato un movimento artistico di protesta ma anche di costume, l’antimoda che per paradosso diventa moda al punto che nei tardi ’70 pure le riviste italiane, tedesche, finlandesi, della ex Jugoslavia pubblicavano articoli su come vestirsi punk. Il tutto spinto da fanzine fotocopiate dove a partire dal 1976 appaiono disegni, bozzetti e pubblicità DIY dei negozi che vendevano le divise per punk e diramazioni varie come new romantics, rockabillies e mods. Non solo vestiti, accessori e scarpe (Doc Martens e Brothel Creepers), in Punkouture troviamo racconti e foto delle acconciature punk come la moicana di Richie Stotts dei Plasmatics o i make up sovversivi di Dave Vanian dei Damned. Nonché le fantastiche storie dei punk russi, fotografate da Igor Moukhin, e quelle delle boutique alternative dell’epoca: Seditionaries, Kitsch-22 e Boy a Londra (con le creazioni della Westwood e la t-shirt “Gary Gilmore Lives” di Genesis P-Orridge), Poseur a Los Angeles, a NY Revenge e Manic Panic delle sorelle Bellomo, fugaci coriste dei Blondie. Torcinovich non scrive libri, ché sono buoni tutti a farlo, piuttosto idea e compone curatissimi progetti editoriali wave punk con al centro le immagini (foto, flyer, grafica) e testi tanto essenziali quanto preziosi: non quei boxini divulgativi Wikipedia style per i figli alternativi delle casalinghe di Voghera. Applausi e sputi punk à gogo. MANUEL GRAZIANI

88/100

PODCASTING. LA RADIO DI CONTENUTO RITORNA SUL WEB MELTEMI

È impossibile che non vi siate resi conto di quanto il podcast si sia diffuso negli ultimi anni. Ecco, quindi, un libro fondamentale per comprendere come le pionieristiche web radio abbiano svolto un primo passo importante verso lo sbarco dei grandi network sul web e da qui si sia passati in breve tempo alla definizione del formato podcast, molto seguito all’estero e ultimamente anche in Italia. Lupo si mostra grande conoscitore e frequentatore di entrambe le realtà: quella della radio, filtrata anche attraverso le riflessioni personali scaturite dall’ascolto di alcuni programmi, e quella dei podcast, termine coniato da Ben Hammersley del “Guardian” che ha fuso i termini pod (in riferimento al “walkman del terzo millennio” della Apple) e broadcasting. Nonostante la materia trattata sia piuttosto specifica, Podcasting è un libro che può risultare interessante e facile a tutti, lo testimoniano i grafici esemplificativi, indispensabili nel capitolo in cui si racconta del boom del podcast. Un libro utilissimo per capire come e perché questo formato sia diventato così popolare negli ultimi anni. FERNANDO RENNIS

75/100

MAURIZIO STEFANINI, MARCO ZOPPAS DA OMERO AL ROCK IL PALINDROMO

Esiste ancora un pubblico che considera la scrittura “contaminata” dall’immagine o dalla musica come scarsamente degna di essere valorizzata quale opera letteraria. Stefanini e Zoppas risalgono alla letteratura non scritta per ricordare che, invece, tutto iniziò proprio a voce (con Omero). E la parola veniva frequentemente musicata, come nel caso degli aedi greci, passando per i guiriot fino ai cantastorie. Un esempio? Il ritornello: la reiterazione delle formule funge da “ripasso” per esercitare la memoria del cantore, oltre che come valore iconico stabile per l’ascoltatore. E dunque ritroviamo il piè veloce Achille come il “solco lungo il viso” del pescatore. Una materia di vastissimo respiro che gli autori elaborano nei particolari storico geografici, privilegiando il contesto italiano. Menzione d’onore è però fatta per il caso Dylan, a più riprese trattato nella bibliografia contemporanea dopo l’assegnazione del Nobel. Non tutti, affermano gli autori, hanno saputo definirne propriamente il percorso artistico: la crucialità di quell’attestazione sta nell’aver elevato la parola scritta e cantata a sublime letterario riconosciuto. FABIO STRIANI

80/100

108 | RUMOREMAG.COM

LETTURE EXTRA FEBBRAIO 2020

ÈVELYNE BLOCH-DANO LE CASE DEI MIEI SCRITTORI ADD

Da sempre, “il luogo della creazione” è fonte di curiosità. Recentemente siamo stati A Casa Delle Rockstar (Hoepli), ma nel caso della recherche domestica compiuta dalla scrittrice francese Bloch-Dano, l’immersione tra le mura dove molte delle parole che amiamo hanno trovato forme e contorni, è ancora più precisa e “devota”. Assecondando le curiosità personali, spiccano la colossale dimora svizzera di Simenon, corredata da un’infermeria attrezzatissima, 25 camere e piscina, soprannominata “il bunker”, ma anche i meravigliosi dettagli vittoriani della casa londinese di Charles Dickens al 48 di Doughty Street. E poi Jean Cocteau a Milly-la-Forét (“ogni oggetto, ogni pianta, sono stati messi lì per amore”), Nietzsche in Engadina, la villetta cubica di Samuel Beckett e la fattoria vicino a Nairobi di Karen Blixen. Verlaine e Rimbaud a Londra, Il Muro di André Breton, Casa Malaparte sulla sommità di Capo Massullo, a Capri, e il New England borghese di Edith Wharton. Cortili, soprammobili, vetrate, scale, librerie e guardaroba: prego, accomodatevi. MAURIZIO BLATTO

78/100

MASSIMILIANO NUZZOLO LA VERITÀ DEI TOPI LES FLÀNEURS

JILL DAWSON

UN INUTILE DELITTO CARBONIO

"Una ragazza gentile, tutti la descrivevano così. Niente avrebbe potuto prepararla a ciò che seguì. Quando arrivò il secondo colpo, sferrato alle spalle, e il dolore raggiunse la sua coscienza, le sue ginocchia cedettero e tutto si fece nero… Questa è la mia fine e il mio principio". La sera del 7 novembre 1974 Richard Bingham, settimo conte di Lucan, uomo affascinate e noto alle cronache mondane, giocatore professionista, più volte preso in considerazione per il ruolo di James Bond negli adattamenti cinematografici dei romanzi di Ian Fleming, uccise brutalmente, scambiandola per la moglie, la giovane bambinaia di casa, Sandra Rivett, una ragazza di provincia che cercava a Londra il riscatto da un passato difficile. Ci sono delitti destinati a segnare epoche, immaginari e identità nazionali, raccontando più e meglio di qualsiasi trattato sociologico i rapporti tra classi. A versare in prosa le molte ipotesi su "Lord Lucan, il fortunato", scomparso dopo l’assassinio e condannato in contumacia, ci aveva già pensato Muriel Spark nel romanzo del 2000 Aiding And Abetting. La "scrittrice storiografica" Jill Dawson sceglie invece il punto di vista della vittima e porta in scena il personaggio simbolico di Mandy, ragazza au pair audace e spensierata, al servizio dell'aristocratica famiglia Morven. Un figlio dato in adozione, la frenesia di vivere, Mandy è tanto libera quanto i Morven sono irreggimentati nell'educazione sociale del loro rango. Due mondi che si attraggono e si oppongono: la modernità lieve e persino timorosa di lei, la polverosa memoria dell'Impero che si sbriciola tra le mani della nobile coppia, il buco nero del delitto finale. Un racconto che si inanella tra le pagine in una spirale discendente di oscuro presagio. Che dipinge un'Inghilterra sempre in conflitto tra avanguardia e deleteria nostalgia. Allora come ora. CLAUDIA BONADONNA

Storie dentro altre storie, vicende che corrono veloci e febbrili, come dei topi che attraversano silenziosi le tubature delle città, senza una meta precisa o uno scopo ben definito. Allo stesso modo procede la scoppiettante narrazione di questo nuovo libro dell'autore de L'Ultimo Disco Dei Cure, un romanzo breve che immerge il lettore nelle fantasmagoriche avventure della stirpe dei Du Marchand. Famiglia dedita al narcotraffico e al mercato della prostituzione, i Du Marchand sono dei Buendía , capaci di attirare per generazioni le più inenarrabili sfighe; costantemente alla ricerca di un riscatto sociale che li affranchi dalle loro umili origini, questo colorato piccolo nucleo famigliare andrà incontro a numerose tragicomiche disavventure, le quali mettono in evidenza i pregi e i difetti della nostra società. Tra Benni e Márquez, con un pizzico di Pennac, Nuzzolo costruisce un meccanismo che scorre in maniera debordante verso il suo incerto finale, infarcendo il racconto di gustose citazioni letterarie che costituiscono per il lettore un divertente gioco di rimandi e citazioni. STEFANO D'ELIA

68/100

SALVATORE SCIBONA IL VOLONTARIO 66THAND2ND

Si ha buon gioco nell’individuare in Scibona una delle voci più potenti del panorama letterario americano attuale. Con il primo libro, La Fine, è infatti stato finalista al National Book Award ed è poi arrivato tra le pagine del “New Yorker Magazine” che, nel 2010, l’ha inserito tra i migliori 20 autori di fiction sotto i 40 anni. Oggi torna con questo splendido Il Volontario, che è un colosso di narrativa equiparabile a un miscuglio della prosa chirurgica e acuminata di Don DeLillo e al furore del rimpallo tra denaro e amore di Faulkner. Il tutto, ovviamente, nella prospettiva del Grande Romanzo Americano che, di lustro in lustro, la critica occidentale, testarda e ottusa, ha ricercato con purissima ossessione. Il libro è comunque una meraviglia umanissima, tenera e crudele, che segue il viaggio di generazioni perdute e da perdere, con i loro fili famigliari trasversali in attesa di disfarsi del tutto. È un romanzo che verte sul tentativo di annullare se stessi e il prossimo ego. E, insieme, il dolore e la violenza. DANIELE FERRIERO

79/100

72/100

RUMOREMAG.COM | 109

FUMETTI FEBBRAIO 2020

CHEESE DI ZUZU

COCONINO PRESS

Vincitrice del Premio Guinigi Lucca Comics 2019 come miglior autrice di fumetti emergente ex aequo con Fumettibrutti, Zuzu con Cheese ci porta nei territori dell’autofiction, nei quali la propria storia personale si scontra ed esplode con l’invenzione, l’esagerazione astratta ma ficcante, la deformazione antirealistica. Opera estremamente profonda e ambiziosa, mette subito in chiaro che la voce dell’Autrice – con la A maiuscola – è presente, chiara e, nonostante qualche inevitabile sbavatura in termini di ritmo e coesione - d’altronde parliamo pur sempre di un esordio -, ci fa capire che con il suo lavoro avremo molto a che fare anche in futuro. La storia è quella di tre amici immersi nella provincia dell’impero, tra pulsioni giovanili e problematiche esistenziali concrete, reali e mai mostrate in chiave banale o semplicistica. Se amate Gipi e, per certi versi, Simon Hanselmann, questa lettura fa per voi. STEFANO FANTI

75/100

LA SCUOLA DI PIZZE IN FACCIA DEL PROFESSOR CALCARE

BRAT

DI M. DEFORGE

DI ZEROCALCARE

ERIS

BAO PUBLISHING

Non cessa di sorprendere la straordinaria capacità di Zerocalcare di trasformare quelli che sostanzialmente sono momenti di feroce autoanalisi in riflessioni che investono la totalità dei fenomeni del nostro vivere comune. E, a dispetto di una macchina promozionale che non vuole altro che incasellare nomi e opere per continuare la sua fagocitazione indifferenziata e poi passare ad altro, Zerocalcare si conferma ancora una volta autore completo e – soprattutto – dal respiro ampio e dallo sguardo acuminato. Senza mai venire meno alla forma del racconto breve in prima persona – di fatto sempre la messa in abisso di un racconto, la riflessione a posteriori o proiettata in avanti di una “cosa” da fare (o già alle spalle ma sulla quale si ritorna “criticamente”…) – l’autore, attingendo unicamente alla sua integrità, al suo inesauribile talento per la sintesi, il gusto del cortocircuito paradossale o lo sberleffo autodenigratorio, si offre ancora una volta come unica possibile sintesi fra Andrea Pazienza (non ne me voglia Rech se lo citiamo ancora), Tondelli (la lucidità attraverso cui un intero mondo esiste per tramite della scrittura e diventa racconto) ed Enrico Brizzi (la precisione con cui gli oggetti culturali assurgono a correlati oggettivi di un sentire). Il volume, raccogliendo materiale di provenienza eterogenea, riesce, merito enorme, a porre in prospettiva quelle che prese singolarmente e magari lette al volo in Rete possono sembrare solo sortite spiritose anziché tasselli di un mondo complesso e stratificato che si cela con estrema modestia dietro il suo valore d’uso immediato. Rech si conferma dunque autore fra i più interessanti e articolati del panorama fumettistico italiano e non solo: la melassa del consenso e dell’hype non l’ha ancora ghermito. Per fortuna sua e nostra. GIONA A. NAZZARO

100/100

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Deforge si è calmato? Conoscendo la sua produzione precedente e leggendo Brat sembrerebbe di sì, nonostante la natura multistrato tra astratto, nonsense e introspezione dell’opera. Il tratto infantile, i colori piatti, la sperimentazione sulle forme e le prospettive libere dell’autore sono importanti per capirlo e apprezzarlo, ma ora riesce a essere narrativamente parlando più lineare, nonostante l’incipit folle. In Brat si parla di una ribelle superstar del vandalismo in crisi artistica: schiacciata dal successo e dalle nuove generazioni che spingono, vessata dall’ispirazione latente e dai troppi flash del passato, decide di uscire di scena con un ultimo colpo di teatro. In questo script malato troviamo ragionamenti profondi alternati a volgarità estreme, ma sempre seguendo un percorso evolutivo. Nella metamorfosi delle forme – il suo lavoro su Adventure Time è palese rimando, così come i degenerati lavori precedenti, tra pop e avanguardia – ritroviamo sentimenti ed emozioni, e non è poco. STEFANO FANTI

75/100

MURDER FALCON

DI DANIEL WARREN JOHNSON – MIKE SPICER SALDAPRESS

Un vero fumetto heavy metal, i cui autori non si limitano a strizzare l’occhio a una fetta di mercato fra le più refrattarie alle lusinghe del “tutto disponibile, tutto in digitale”. Gente, cioè, che continua a comprare dischi, ad andare ai concerti e a condurre uno stile di vita analogico. Murder Falcon è una visione del mondo – adolescenziale e un po’ nerd – che chiunque abbia mai fatto air guitar comprende senza troppe spiegazioni. Lo scarto sta nell’acuta intelligenza che gli autori investono nel dare forma a un immaginario in genere relegato alle migliori copertine degli Iron Maiden e dei Judas Priest. Le tavole sprizzano energia a mille. L’omaggio al metal è autentico perché il racconto non bara e non semplifica: si tratta di salvare il mondo grazie all’aiuto di un falco umanoide che a ben vedere è un cugino di secondo grado delle tartarughe ninja, facendo gridare le chitarre in piena distorsione. Una lettura irresistibile che in fondo spiega perché il metal non scomparirà mai. GIONA A. NAZZARO

87/100

F U M E T T I P O S T E R-I D I A L E S S A N D R O B A R O N C I A N I E A L E S S A N D R O B E S S E LVA AV E R A M E 1963: Nasce ad Ardwick, Manchester, il 31 ottobre. I genitori sono immigrati irlandesi, provenienti dalla Contea di Kildare. La prima grande passione è il calcio: Marr arriverà a fare un provino per il Manchester City. Cit

1976: Trasferitosi in un nuovo quartiere, scopre la chitarra e assiste alle prove di Billy Duffy, futuro chitarrista dei Cult, con la sua band scolastica. Marr esordisce con il suo primo gruppo, i Paris Valentinos, di cui fa parte anche Andy Rourke, futuro Smiths: suonano cover di Stones e ThinLizzy. Tre anni dopo abbandona il suo vero cognome, Maher, Mahe per non essere confuso con il batterista dei Buzzcocks, John Maher. 1982: La sua ultima band, i Freak Party, si è arenata per la difficoltà di reperire un cantante. Un amico gli consiglia di contattare Steven Patrick Morrissey, ex frontman dei Nosebleeds, effimera formazione punk. Nascono così gli Smiths.

1987: Sciolti gli Smiths, per un brevissimo periodo entra a far parte dei Pretenders. Segue il sodalizio con i The The del vecchio amico Matt Johnson, in studio e in tour, a più riprese tra il 1988 e il 1994, e la nascita rip degli Electronic, di cui è co-fondatore con Bernard Sumner dei New Order.

Entrambi chitarristi si trovarono per la prima volta in studio a sorpresa soltanto con delle tastiere. Nessuno dei due voleva più suonare le chitarre.

2006: Entra a far parte in pianta stabile dei Modest Mouse. Grazie a We Were Dead Before The Ship Even Sank, uscito nel 2007, Marr arriva per la prima volta in cima alle classifiche americane, impresa mai riuscita con gli Smiths.

2013: Esce il primo album a suo nome, The Messenger. Tre anni dopo esce la sua autobiografia, Set The Boy Free.

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DAL VIVO INNER SPACES #5: MURCOF

INNER SPACES #5: MURCOF Non è semplice descrivere un live dove sul palco non c’è nessuno e l’aspetto visivo è pressoché azzerato. Ma è il bello degli appuntamenti di Inner Spaces, la rassegna che da sei anni porta all’Auditorium San Fedele di Milano i migliori interpreti mondiali della scena ambient ed elettronica. Puro suono, nient’altro. Questo è possibile grazie all’impianto presente in sala, l’Acusmonium Sator, sorta di surround all’ennesima potenza formato da 50 altoparlanti che possono essere “suonati” e gestiti in diretta durante l’esibizione, in completa simbiosi con l’artista e la sua musica. Quando viene sfruttato al meglio delle sue potenzialità, ci si trova completamente immersi, schiacciati, come in una gigantesca sauna sonora con il suono al posto di umidità e del calore. Per questo motivo la gran parte delle volte l’artista non sta sul palco, ma in centro alla sala, di fianco alla “regia acusmatica”. Per il primo appuntamento del 2020, l’artista chiamato a cimentarsi con l’Acusmonium è il messicano Murcof, punto di riferimento dell’ambient il cui stile particolare va dalla classica contemporanea alla musica concreta. Prima di lui, l’ascolto di un’opera di Francois Bayle, scritta appositamente per lo strumento, ideale per capirne le potenzialità. Perché frequentando

AUDITORIUM SAN FEDELE, MILANO 13 GENNAIO 2020

TESTO DI LUCA DOLDI - FOTO DI STARFOOKER 112 | RUMOREMAG.COM

diversi appuntamenti della rassegna un aspetto particolarmente interessante è capire come verrà sfruttato dagli artisti, cogliendo le differenze nell’interpretazione (artisti che spesso arrivano anche un paio di giorni prima per provarlo). Il live set di Murcof si gioca tutto sulla sospensione del suono, un equilibrio di tappeti sonori, reverberi, fruscii e loop che si espandono in cerchi concentrici attraverso la sala. Come se la musica fosse posizionata a metà strada fra il pavimento e il soffitto, degli anelli senza Saturno al centro. L'esibizione non punta sulla potenza ma sulla delicatezza, sulla apparente fragilità, in perfetta sintesi con le caratteristiche del suono creato. Fernando Corona (questo il suo vero nome) riesce a costruire un piccolo buco nero al centro della sala, vicino al quale un set da 40 minuti sembra durarne solo cinque. Un viaggio durante il quale si ha quasi timore di respirare, o di muovere un qualsiasi muscolo, per paura di rompere la magia o di incrinare la sottile bolla di cristallo in cui si è immersi. Una esperienza sensoriale raffinata. Qualcosa da provare assolutamente almeno una volta nella vita in campo musicale? Senza alcun dubbio un appuntamento di Inner Spaces.

DAL VIVO IN ARRIVO

All’inizio di gennaio impazzava sui social il giochino dei concerti, troppe volte però il miglior concerto o l’ultimo erano di band terribilmente vecchie, o di molti anni fa. In Italia c’è sempre stato un retaggio culturale per il quale andare ai concerti nei locali è una cosa da ragazzini, e quando si diventa grandi si deve smettere. Per fortuna col tempo sta cambiando la mentalità, perché non si capisce come giocare a calcetto fino a 60 anni sia socialmente accettabile e andare ai concerti no. Quindi spero che qui sotto troviate il vostro miglior concerto, perché il migliore è sempre il prossimo. A CURA DI LUCA DOLDI 4 FEBBRAIO

5 FEBBRAIO

SANTERIA (MILANO)

DUSE (BOLOGNA) / FABRIQUE (MILANO)

RIDE

EXPLOSIONS IN THE SKY

Se si parla di shoegaze è impossibile non citare i Ride. Dopo la reunion del 2014 e due dischi dopo 20 anni di silenzio, tornano di nuovo su un palco italiano.

Se si parla di post rock, invece, non si può non parlare della band texana come una delle protagoniste del genere: quest’anno festeggiano i 20 anni del loro debutto.

7 FEBBRAIO

6/7/8 FEBBRAIO

LOCOMOTIV (BOLOGNA)

RAVENNA / MACERATA / MILANO

BALTHAZAR

RYLEY WALKER

Una delle migliori live band in circolazione, ve lo può confermare chi era sotto il palco a Milano e a Torino l’anno scorso. Se siete in zona Bologna non mancate.

Ryley Walker è un cantautore elegante, spesso accostato a Tim Buckley. Uno dei migliori della sua generazione (forse il migliore?), soprattutto quando è su un palco.

10/11/12 FEBBRAIO

11 FEBBRAIO

ROMA / MILANO

TEATRO DAL VERME (MILANO)

EDITORS

CITY AND COLOUR

Con gli Editors non si sbaglia mai. Anche i detrattori dei loro ultimi dischi si tolgono il cappello di fronte all’intensità dei loro concerti. Doppia data a Milano.

Uno dei pochi casi in cui il progetto solista del cantante di una band riesce a superare la band stessa. Dallas Green è un fuoriclasse con il punk nelle vene.

16 FEBBRAIO

22/23 FEBBRAIO

MEDIOLANUM FORUM (MILANO)

LOCOMOTIV (BOLOGNA) / MAGNOLIA (MILANO)

LIAM GALLAGHER

BIG THIEF

Recentemente hanno aperto a una possibile reunion, ma approfittatene comunque: per rivedere gli Oasis spendereste molto di più che vedere i due fratelli separatamente.

Hanno pubblicato non uno ma due dischi, U.F.O.F. e Two Hands, nel 2019, ed entrambi sono finiti ai primi posti di tutte le playlist annuali.

26/27 FEBBRAIO

26/27/28/29 FEBBRAIO / 1 MARZO

MONK (ROMA) / OHIBÒ (MILANO)

PESCARA / ROMA / BOLOGNA / VENEZIA / MILANO

ALGIERS

FLAMINGODS

La band del momento, quella che più incarna questo periodo storico: impegno politico e sociale e fusione di generi molto lontani fra loro. Imperdibili dal vivo.

Il migliore esempio di come il flusso di persone da un paese all’altro possa portare a un arricchimento culturale. Psichedelia made in UK con retrogusto arabo.

27 FEBBRAIO

27/28 FEBBRAIO

MAGNOLIA (MILANO)

FABRIQUE (MILANO) / ESTRAGON (BOLOGNA)

GEORGIA

È da un po’ che la teniamo d’occhio da queste parti, perché sul palco ha una presenza e una carica che pochi altri possono vantare. Occasione da non perdere.

TYCHO

Mette d’accordo un po’ tutti, gli amanti del pop, dell’elettronica e anche del post rock. Il live è un lungo viaggio fra suite strumentali e grandi canzoni.

RUMOREMAG.COM | 113

BANDALARGA

MASCHIE E FEMMINI

A CURA DI S ERG IO MES S IN A

letto ri@sergio m essina . c om

MASCHIE E FEMMINI Mentre qualcuno, soprattutto in Italia, continua a lamentarsi della "Teoria Gender" (la distinzione tra il sesso con cui si nasce e il genere che si può diventare), il mondo è pieno di varianti tutte naturali che mettono in crisi l'idea comune di genere sessuale. Aggiungerei che la società, anche quella italiana, mostra dei segnali che mi sembrano incoraggianti: l'idea di maschio e femmina in alcuni settori si evolve molto velocemente - purtroppo non in tutti. All'inizio (cioè non troppi anni fa) regnava incontrastato il dismorfismo sessuale, cioè la differenza di forma tra uomo e donna. La cosa insieme bellissima e terribile che ha spinto la nostra società a costruire il concetto di donna debole, fragile, e via dicendo. Fino a pochissimi anni fa le donne sportive, che naturalmente avevano una muscolatura non comune, venivano viste come curiosi oggetti umani e molte di loro si sforzavano di ingentilire il loro aspetto, forse convinte che così sarebbero state accettate più facilmente da una società dallo sguardo sostanzialmente maschile. Col tempo è successa una cosa interessante: i corpi delle atlete sono diventati molto più evidentemente muscolari, ed è comparso un nuovo tipo di sportiva. Una donna sempre femminile ma non più riconducibile allo stereotipo di fragilità; una femmina che non rinuncia a 114 | RUMOREMAG.COM

nessuno degli "strumenti della femminilità" (secondo una dicitura antica), ma il cui corpo ha un senso evidentemente diverso. E se qualche avanzo della preistoria continua a dare delle lesbiche alle calciatrici (qualcuna lo sarà anche, ma non è questo il punto), nel mondo dello sport questo cambiamento è spettacolare. Perfino in casi meno eclatanti di quello di Serena Williams, che possiede un ultracorpo (parte naturale, parte scolpito) intensamente femminile e insieme efficiente e letale, soprattutto in passato. Sempre nel mondo del tennis mi sembra significativo il caso della ex numero 1 del mondo Simona Halep, dal corpo piccolo e scolpito, che si è sottoposta a un intervento di riduzione del seno per potersi muovere meglio. In un mondo di puppe sintetiche mi pare una storia utile. Così come è utile, terribile e istruttiva la vicenda di Caster Semenya, mezzofondista e velocista sudafricana, due volte campionessa olimpica e tre volte campionessa mondiale degli 800 metri piani. Nel 2009 qualcuno inizia a sollevare dubbi sul sesso della Semenya, la quale si sottopone a un test ormonale. Dopo mille controversie (che trovate tutte in Rete) nel 2018 viene esclusa dalle competizioni internazionali. Pare, ma non ci sono conferme, che si tratti di un caso

di intersessualità. Dice Wikipedia: "Intersessualità è un termine usato per descrivere quelle persone i cui cromosomi sessuali, i genitali e/o i caratteri sessuali secondari non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili. Un individuo intersessuale può presentare caratteristiche anatomo-fisiologiche sia maschili sia femminili". Alla faccia della teoria gender esistono persone che sono sia maschi che femmine. Sono sempre esistite, solo che ancora oggi vengono "corrette" chirurgicamente alla nascita. Non è un caso che si attribuisca loro più spesso il genere femminile: è più facile togliere. E quante sono? Un dato molto diffuso parla dell'1,7% della popolazione.

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26. 1. – 17. 5. 2020 RIEHEN / BASILEA

Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950 (Detail), Oil on canvas, 86,7 × 102,3 cm, Smithsonian American Art Museum, Gift of the Sara Roby Foundation, © Heirs of Josephine Hopper / 2019, ProLitteris, Zurich, Photo: Smithsonian American Art Museum, Gene Young

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