Riassunto Vite in Cantiere [PDF]

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Zitiervorschau

SCO: secondo anno

1. DATI E CARATTERISTICHE DELLE MIGRAZIONI RUMENE. Introduzione. Il flusso di immigranti rumeni comincia nel 1990 dopo la caduta del regime comunista e raggiunge il massimo picco nel 2002 quando non viene più richiesto il visto per entrare nei paesi Schengen, facendo si che essa diventi la nazionalità straniera più presente in Italia. Analizzando l’area geografica di Bologna e dintorni, si viene a scoprire che la presenza di immigrati romeni, specie di rom, ha portato ad un acceso dibattito sulla situazione, dibattito che si è anche esteso su scala nazionale, che si è andato aggravando anche quando nel 2007 la Romania è entrata a far parte dell’Unione Europea, sfociando a volte addirittura in quella che viene chiamata “emergenza rom”, grazie ai mass media che amplificano le notizie di cronaca nera riguardanti cittadini rumeni. Tuttavia è chiaro che la migrazione di rumeni e una migrazione di lavoratori che sono disposti anche a lavorare alla giornata o in nero e in settori in cui gli italiani mostrano poca propensione a lavorare, come l’edilizia per gli uomini rumeni o i lavori domestici per le donne, due settori nei quali l’incidenza del lavoro in nero o irregolare è molto rilevante. Il tutto pur sapendo di lavorare in condizioni peggiori dei loro connazionali “regolari” e con il rischio di licenziamento senza buona causa o di mancato pagamento della somma pattuita. Il libro tratta in primo luogo del flusso migratorio che lega la Romania, ed in particolare la regione dell’Oltenia, a Bologna ed in secondo luogo delle interazioni fra lavoratori immigrati, anche di altre nazionalità, e con i datori di lavoro italiani all’interno dei cantieri edili cercando di capire come il contesto lavorativo e ciò che vi è al di fuori interagiscono. Il tutto attraverso metodologie di ricerca di tipo qualitativo ed etnografico. La Romania da Cauşescu alla transizione. Nel 1989 a seguito di manifestazioni a Bucarest, Timişoara e altre città del nord ovest della Romania, il dittatore Cauşescu e sua moglie vengono arrestati e fucilati: è l’inizio di quella che viene chiamata la “rivoluzione mancata”, poiché sostanzialmente, anche con l’ascesa di Illiescu a Presidente, la situazione non cambierà molto. Si dovrà attendere il 1990 che con altre proteste porterà alla scomparsa del regime comunista, anche se gli ex comunisti rimarranno al potere fino al 1996. Ma la società rumena, già dal 1989 aderisce ai valori democratici ed entra in una fase di transizione verso la democrazia e il libero mercato, attraverso varie riforme e un processo lungo e ambiguo. Spariscono la collettivizzazione delle terre e delle industrie, che vengono progressivamente sottoposte ad un fallimentare processo di privatizzazione della proprietà, che finirà per distruggere buona parte del tessuto industriale rumeno, facendo cadere lo Stato in una profonda crisi economica, dilaniata dall’inflazione e dalla disoccupazione, per tutti gli anni novanta. Dal 1996, con la salita al potere della destra, la situazione si stabilizza un po’ e cominciano ad arrivare i primi investimenti esteri, nonché le prime aziende a delocalizzare nel Paese. C’è un flusso migratorio interno dalle città verso contesti rurali dovuta al ritorno di forza lavoro nei paesini dai quali provenivano a causa della disoccupazione e di un processo di espulsione dalle città. La crisi rumena è economica e politica, segnata da un profondo senso di insicurezza e delusione nei confronti dei capi di Stato. A partire dal 2000 la peggior fase della transizione sembra superata, con l’entrata nell’UE e l’economia rumena fra le più dinamiche dell’est Europa, con una diminuzione della disoccupazione, l’arrivo Alessandra Lozza

SCO: secondo anno di immigrati da altri Pesi e l’aumento dei consumi. Tuttavia non cresce il tenore di vita di alcune fasce di popolazione, tanto che fra il 2000 e il 2008 sorge un fenomeno piuttosto importante: l’emigrazione. Flussi migratori rumeni: dimensioni, fasi e caratteristiche. Sotto regime, non vi fu quasi mai una massiccia emigrazione di rumeni, poiché essa era impedita dal regime e solo ebrei e tedeschi, grazie ad accordi con i Pesi esteri, potevano spostarsi dalla Romania. Ci fu l’emigrazione di poche persone intellettuali, dissidenti o artisti e un costante e massiccio flusso migratorio interno, per lo più forzato, dalle campagne alle città. Dagli anni Novanta l’emigrazione diventa uno dei principali processi sociali, economici e culturali che caratterizzano la Romania. Per i suoi abitanti emigrare è l’unica risposta sensata da dare alla povertà, alla disoccupazione e alla crisi economica. Nonostante la consapevolezza delle dure condizioni di lavoro all’estero, la possibilità di guadagnare nettamente di più che in patria spinge la popolazione a emigrare in quella che si può anche definire una silenziosa protesta nei confronti della classe politica. Il flusso migratorio si divide in quattro fasi: 1. 1990-1994: migrazioni dette di “commercio della valigia”, movimenti transfrontalieri poco visibili di persone che aprono piccole attività in Pesi limitrofi, di cui i primi a partire sono spesso rom; 2. 1994-2000: cospicua migrazione di lavoro verso Germania, Francia, Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Israele, Canada, Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti con flusso limitato dalla necessità del visto per passare le dogane, che sono però facilmente corrompibili per far entrare illegalmente. In un primo momento si ha un flusso illegale con ritorno in patria forzato; secondariamente con l’abolizione del visto si ha un flusso legale con ritorno in patria legale; 3. 2000/2002: abolizione del visto e migrazione di massa sia legale che illegale. Quest’ultima viene osteggiata dalla Romania con l’introduzione di ostacoli burocratici al flusso e accordi per lavori e flussi stagionali con altri Pesi; 4. 2007: entrata della Romania nell’UE e conseguente stabilizzazione e legalizzazione del flusso migratorio. I flussi hanno carattere circolare e transnazionale: i rumeni restano legati culturalmente e socialmente ai contesti di origine nei quali tornano molto spesso. I frutti del lavoro all’estero vengono mandati in Romania sotto forma di rimesse con le quali si garantisce una vita dignitosa alla famiglia rimasta nel Paese d’origine, l’istruzione dei figli, l’acquisto di beni di lusso e di case. A emigrare sono soprattutto le donne che cercano di sfuggire alle difficili condizioni economico-culturali del proprio Paese e al ritorno al patriarcato. Esse finiscono per trovare impiego come collaboratrici domestiche o colf e la componente femminile è stata trainante nel flusso migratorio, che proviene sia dalle città sia dalle campagne del Pese. Viene sottolineata l’irregolarità d’entrata in altri Paesi sia prima che dopo l’abolizione dei visti, poiché i lavoratori entrati legalmente in altri Paesi faticano ad avere permessi di soggiorno per lavoro e le migrazioni hanno una forte componente di rom, che sono i primi a spostarsi. Gli immigrati rumeni tendono a definire la propria nazionalità in modo fluttuante per sfuggire alle stigmatizzazioni fatte su di essi e la presenza di flussi d’interesse verso la Romania da parte di imprese straniere agevola i flussi migratori. L’immigrazione rumena in Italia. In Italia vi è più di un milione di rumeni, giunti nel nostro Paese in un flusso crescente fin dal 1990, con una costante presenza di irregolari sul territorio. Le leggi degli anni scorsi non hanno raggiunto l’obbiettivo di espellere i clandestini, né di fornire mezzi legali per l’ingresso di lavoratori stranieri nel Paese. I flussi irregolari dalla Romania erano dovuti alla carenza di strumenti di ingresso regolare e dalla pressante richiesta Alessandra Lozza

SCO: secondo anno di manodopera immigrata anche irregolare. La possibilità di lavorare illegalmente e poi ottenere un permesso di soggiorno attraverso una sanatoria ha fatto dell’Italia e della Spagna le mete preferite dai migranti rumeni, e per alcune zone dell’Italia quali il Sud, lo spostamento illegale di queste persone è divenuto di fondamentale importanza, specie in alcuni settori come l’agricoltura o l’edilizia nelle grandi città. Inoltre la necessità delle badanti per sopperire al nostro carente sistema di welfare ha portato in Italia molte donne rumene che spesso svolgono questi lavori in assoluta irregolarità e il flusso migratorio ha subito conseguenze importanti nelle sue caratteristiche proprio grazie a quest’irregolarità. Dall’ingresso della Romania nell’UE i rumeni non sono più espellibili dall’Italia, ma la loro circolazione è ancora limitata nel nostro Paese, a meno che questi non siano sotto contratto di lavoro dipendente in certi settore, il che da loro la possibilità entro tre mesi di richiedere il permesso di soggiorno. I rumeni a Bologna. Lazio, Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono le principali regioni meta dei flussi migratori. Le attività lavorative in quest’ultima regione, specie vicino a Bologna o nella città stessa non sono molto varie: la maggior parte delle persone si concentra nell’edilizia, pochi sono i facchini, gli impiegati in cooperative di pulizia, i braccianti agricoli, gli operai in imprese manifatturiere e gli infermieri. Tra le donne spiccano le collaboratrici domestiche e le colf; poche le impiegate in cooperative di pulizia, agricoltura o ristorazione. Si è avuto però fra il 2000 e il 2009 un aumento di imprenditori rumeni soprattutto nel campo dell’edilizia e le migrazioni in questa zona dell’Italia provengono quasi unicamente dalla Moldova e dall’Oltenia, in tempi diversi poiché prima si è avuta la migrazione femminile e successivamente quella maschile; prima un flusso di rom, poi di non-rom in quella che viene definita catena migratoria, ovvero collegamenti giornalieri fra Bologna e la Romania sia formali che informali. Alto è il tasso di prostitute e minori, quest’ultimi specialmente rom. Non vi sono aree di concentrazione rumene a Bologna (quartieri etnici) poiché i rumeni si disperdono piuttosto nelle provincie, dove gli affitti sono decisamente più bassi. A segnare l’arrivo dei rumeni sono state soprattutto le baraccopoli sul Reno che hanno rappresentato per molti di loro un rifugio essendo essi sprovvisti di parenti disposti ad ospitarli. Queste baracche sono state teatro di tragedie (incendi e morti) e di sgomberi forzati fino all’istituzione dello Scalo Internazionale Migranti, che ospitava i migranti rumeni. Questo fu chiuso nel 2006 e i regolari furono trasferiti in un’altra struttura, mentre gli irregolari dovettero tornare nelle baracche, che dal 2005 furono oggetto di forte polemica e di attenzione mediatica fino alle facilitazioni per ottenere appartamenti a basso costo nella città. Perché l’edilizia. L’impiego nel settore dell’edilizia è risultato naturale per i rumeni, dal momento che gli anni delle loro migrazioni corrispondono esattamente agli anni del boom di questo settore, dovuto soprattutto alla realizzazione di grandi infrastrutture pubbliche e all’espansione del mercato immobiliare. Sono cresciute soprattutto le ditte individuali e le grandi società di capitale, legate al sistema del subappalto e della subcontrattazione, per il quale, attraverso vari passaggi, risulta più facile reperire lavoro in nero o irregolare. Ecco da cosa nasce l’impiego massiccio di operai rumeni in questo settore, che contribuiscono a rafforzare ed ingrandire i settori del mercato informale per diversi motivi. Inoltre, l’esperienza in cantiere, offre ai lavoratori rumeni il vantaggio di poter essere assunti senza specializzazione e di poter poi aprire un’attività nel settore che sia solo loro. La maggior parte di loro migra in Italia su promessa di amici, parenti o conoscenti di un posto di lavoro, anche temporaneo, nel settore e la ricerca di lavoro avviene spesso per vie informali in nero o a giornata. I regolari vengono assunti stabilmente a volte, ma gli irregolari rimangono sempre quella forza di riserva a cui attingere in caso di bisogno e che fa calare drasticamente i costi del subappalto. Alcuni di essi riescono poi Alessandra Lozza

SCO: secondo anno ad emanciparsi e a diventare lavoratori autonomi, altri, pur avendo la qualifica di autonomi, lavorano sostanzialmente ancora per i vecchi datori di lavoro sgravandoli di oneri fiscali e diventando parte della catena di subappalto. Non si riscontrano attività transnazionali di queste nuove imprese di rumeni se non pochi investimenti in attività imprenditoriali in Romania. Va affrontata la questione della sicurezza nei cantieri, in cui il rischio infortunistico per lavoratori immigrati è molto più alto rispetto a quello dei lavoratori italiani e l’Emilia-Romagna è la seconda regione, dopo la Lombardia con il numero più elevato di incidenti su cantieri. Non esiste però un racket malvivente di persone che ne portano altre dalla Romania al fine di inserirle in cantieri edili. Esistono varie tipologie di lavoratori di cui ne vengono riportate tre: 1. Lavoratori stabili, all’interno di piccole-medie aziende, il cui salario è regolare ma non molto elevato e la cui giornata lavorativa varia dalle 8 a più di 10 ore lavorative. A volte la retribuzione è fissata per ora lavorativa e il datore di lavoro mantiene il rapporto con il dipendente promettendo la regolarizzazione, che viene posticipata il più a lungo possibile. A volte il salario non viene pagato subito e i datori di lavoro devono ingenti somme di denaro ai lavoratori; 2. Lavoratori con rapporto di lavoro più saltuario, che dura qualche mese finché non chiude il cantiere e retribuzione a giornata non molto elevata. La paga è molto più irregolare e le richieste di regolarizzazione della persona o di pagamento delle somme di denaro arretrate portano spesso e volentieri al licenziamento e alla mancata corresponsione di quanto dovuto. Sono frequenti le minacce fisiche sia durante che dopo il rapporto di lavoro, spesso anche quando viene richiesto il pagamento degli ultimi mesi di salario non pervenuti; 3. Lavoratori con rapporto di lavoro effimero, giornaliero o al massimo mensile trovato grazie a parenti che portano il lavoratore per l’assunzione in periodi di grande bisogno dell’azienda, o grazie ai datori di lavoro che sanno dove trovare manodopera in nero e a basso costo. Sono lavori irregolari, con paghe bassissime che spesso non vengono parzialmente pagate o del tutto non pagate e sono lavori con il più alto tasso di minacce fisiche qualora si avanzi un qualsiasi tipo di richiesta. Non solo manovali a vita: presente e futuro della migrazione rumena. In alcune zone dell’Italia, la lunga presenza e il radicamento sul territorio hanno consentito a molti rumeni una maggiore possibilità di scelta dal punto di vista dell’occupazione, anche grazie alle stabili reti transnazionali che sono venute a crearsi fra Romania e Europa dell’Ovest. Non ci sono più solo manovali a vita ma anche operai nel settore metalmeccanico, dipendenti e soci di cooperative, infermieri ed educatori, senza contare che in alcune zone, specie in Piemonte, si sta anche diffondendo una classe media rumena grazie alla stabilizzazione dei rumeni sul territorio. Il volume delle rimesse mandate in Romania è notevolmente e costantemente aumentato negli ultimi anni e i giovani rumeni possono prevedere progetti di migrazione non solo come manodopera non specializzata, ma anche come potenziali persone da inserire in vari ambiti, specialmente informatici. Sono balzati all’occhio i costi sociali delle migrazioni: gli orfani sociali, i genitori anziani lasciati soli e il possibile reinserimento dei migranti nel contesto d’origine qualora decidessero di tornare in Romania seguendo il flusso migratorio di ritorno (a volte non permanente poiché alcuni componenti della famiglia possono rimanere all’estero), una volta raggiunti gli scopi che si erano prefissati alla partenza o una volta diventati imprenditori. I flussi migratori rumeni appaiono comunque ancora dinamici e sono influenzati oltre che dall’entrata nell’UE, anche dalla massiccia campagna denigratoria sorta nel 2007 (a seguito di un omicidio compiuto da un rumeno) nei confronti dei rumeni e supportata dai mass media. Inoltre si deve tener conto della straordinaria crescita dell’economia rumena del 2008 che però non ha frenato la migrazione, creando vuoti occupazionali, e il fatto che con la crisi internazionale la Romania sia lo stato più a rischio di Alessandra Lozza

SCO: secondo anno bancarotta dopo la Grecia, il che non aiuta a prevedere se i flussi migratori aumenteranno o diminuiranno a causa del calo dei posti di lavoro esteri. Ciò che è certo è che non vi sono cambi univoci nelle migrazioni, ovvero non si assiste ad un ritorno a casa di massa né ad uno spopolamento del Pese di massa, ma nasce un ulteriore differenziarsi delle mete e delle strategie migratorie. È comunque facile prevedere che finché gli squilibri salariali fra i Paesi continueranno ad essere elevati e finché l’ammontare delle rimesse supererà l’ammontare di un salario da lavoro dipendente in Romania, i flussi migratori in queste aree rimarranno consistenti. 2. NARRAZIONI DELLA MIGRAZIONE. In ogni intervista emerge uno schema comune attraverso cui i rumeni descrivono il loro percorso di migrazione, schema che danno quasi per scontato senza mettere in discussione perché utilizzato facilmente per raccontare l’esperienza. Quando si chiede come è stata presa la decisione di partire, l’intervistato parla delle motivazioni reali che l’hanno spinto a questa scelta e giustifica sia all’intervistatore sia a se stesso ciò che ha fatto. Il discorso orale informa sul significato degli avvenimenti e pare che gli immigrati, più che raccontare la loro storia attraverso il discorso, siano raccontati dal discorso stesso. La tesi è che esso sia utilizzato perché per i rumeni è il miglior modo di presentarsi ad un interlocutore italiano agli occhi del quale è necessario fornire quest’interpretazione di se stessi. Le parole chiave di questo discorso sono solitamente quattro: crisi, lavoro, denaro e ritorno. Ad esse va aggiunta anche la parola rischio. Le “crisi” rumene. Il contesto di partenza del flusso migratorio dal punto di vista dell’emigrazione prima ancora che da quello dell’immigrazione è fondamentale per comprendere l’intera traiettoria di vita dei migranti e per evitare di pensare all’immigrazione come un fenomeno indifferenziato. I contesti di origine dei migranti rumeni sono molto vari sia dal punto di vista geografico che sociale: alcuni provengono da grandi città, altri da medie piccole città e altri da piccolo o piccolissimi villaggi rurali, il che influenza molto il loro precedente stile di vita, poiché vi è un divario abbastanza grande fra città e campagna in merito a condizioni di vita, impieghi in loco, infrastrutture, scuole superiori e trasporti. Dall’Oltenia partono persone che svolgevano le più svariate professioni: dai contadini, ai dipendenti pubblici, agli ingeneri o insegnanti, ecc... e tutti con età molto diverse che variano dai cinquant’anni passati ai più giovani ventenni. Una volta arrivati in Italia vengono impiegati, come visto, solo in alcuni settori, a prescindere dal titolo di studio che possiedono nella terra natale. La decisione di migrare viene solitamente a seguito di una grande quantità di crisi che vanno a sommarsi nel giro di pochissimo tempo (apparato industriale, minerario e agricolo in declino, disoccupazione, bassi salari, scarse possibilità di sussistenza, ecc...) che portano le persone alla sofferta decisione di partire nella speranza di un futuro migliore. I rom poi raccontano anche delle crisi dei settori in cui avevano monopolio durante il regime socialista e dell’abolizione della negazione delle differenze etniche, che dal 1989 ha visto i rumeni rivoltarsi contro i rom come portatori di degrado nella società. Queste crisi ovviamente sono diverse fra loro perché vissute in maniera diversa da migrante a migrante ma sono tutte ugualmente causa delle migrazioni. La crisi industriale è la prima causa del declino del sistema produttivo, seguita da quella dell’agricoltura che diventa di sussistenza e chi decide di partire a volte lascia parte della famiglia in Romania, che continua a lavorare la terra o a fare altri lavori precari, per integrare le rimesse finché non c’è la possibilità di trasferirsi tutti in Italia. Alcuni hanno deciso direttamente di vendere la casa o gli appezzamenti di terra che possedevano e di trasferirsi con tutta la famiglia in Italia, perdendo tutto quello che gli era rimasto in Romania. Tra i primi a partire ci sono i rom, che essendo stati introdotti forzatamente nei ranghi più bassi Alessandra Lozza

SCO: secondo anno dell’apparato produttivo nel periodo socialista sono stati i primi a risentire della crisi e a perdere il lavoro. Le nicchie in crisi dei rom sono quelle dell’agricoltura, dei mattoni fatti a mano, della musica e del settore minerario. Il tema della crisi comunque divide in due anche la popolazione rumena, poiché le testimonianze variano e diventano nostalgiche per chi, superati i quarant’anni, ricorda bene il periodo comunista e della dittatura, dove almeno c’era lavoro per tutti e si riusciva a vivere con i soldi guadagnati, mentre per altri più giovani e soprattutto provenienti dalle città quello è un periodo buio da dimenticare, con le sue repressioni e persecuzioni. Vengono raccontate storie di privazione, di collettivizzazione, che hanno portato spesso e volentieri i giovani uomini rumeni alla piaga dell’alcool per poter ammazzare il tempo e non pensare alla brutta situazione che si era creata sotto dittatura. Dall’altro lato qualcuno idealizza quel periodo perché la Romania non era ancora in una così profonda crisi economica, crisi che è da far risalire al governo degli anni ’90. La pesante crisi economica vissuta da un’ampia fascia della popolazione negli anni novanta e la necessità di emigrare hanno fatto si che anche il periodo della dittatura ceauseschiana assuma nel ricordo valenze positive e nostalgiche. Lavoro e denaro: le motivazioni dell’emigrazione. Se la crisi è la causa scatenante della partenza, il perno del discorso migratorio è il lavoro, che è ciò che rende accettabile l’emigrazione. Ci sono due modi di intendere e raccontare il lavoro da parte dei migranti: 1. Etico ed esistenziale: il modo di raccontare dei cinquantenni che hanno alle spalle venti o trent’anni di lavoro nelle fabbriche della dittatura che ne hanno segnato l’esistenza; per cui il lavoro è una costante di vita e qualcosa di cui andare fieri ed orgogliosi perché rende degni di rispetto. Il lavoro viene descritto come un valore etico fatto di professionalità, aiuto reciproco tra colleghi, un tenere il lavoro in ogni momento. Il lavoro definisce l’identità e rende un vero uomo e per lavorare dignitosamente non si devono sperperare i soldi guadagnati in alcool; 2. Economico: il modo di raccontare dei giovani fra i venti e i trent’anni, che fanno spesso il confronto fra quando si guadagna nel loro Paese e in Italia, nonché quanto si guadagna in regola o in nero. Il fatto di percepire un salario più elevato è per loro un buon motivo per lasciare il proprio Paese e sopportare condizioni di vita umilianti e degradanti in quello d’arrivo, anche se lo schema “crisi– lavoro–denaro” viene ripetuto in tutte le interviste, anche in quello dei più anziani. Il lavoro quindi costituisce nei racconti il perno e la legittimazione del progetto migratorio, perché in Romania è impossibile trovare lavoro o trovarne uno che venga pagato regolarmente e più di 200 euro al mese al massimo. In entrambe le visioni de lavoro però, nessuno degli intervistati ha mai dichiarato che il lavoro all’estero potesse essere per loro fonte di autorealizzazione e soddisfazione: per loro è una sorta di sacrificio, perché fatto a beneficio della famiglia e non per se stessi; un sacrificio misurato in termini salariali. È assente l’idea che al lavoro siano associati dei diritti: essi si vedono solo come manodopera a disposizione del mercato del lavoro italiano. Ovviamente vi sono delle eccezioni, ma la tendenza generale è questa. Esistono poi lavoratori che nelle interviste hanno dichiarato di essere emigrati parzialmente per il lavoro e parzialmente per cambiare aria e visitare il mondo, senza contare che un altro scopo per loro era quello di contribuire a migliorare la reputazione dei rumeni e della Romania agli occhi degli italiani, mostrando che esistono anche brave persone rumene e non solo quelle che, secondo lo stereotipo classico italiano, vengono in Italia perché poveri e per delinquere. Il ritorno. La maggior parte degli intervistati afferma poi che il loro soggiorno in Italia viene considerato temporaneo, perché essi una volta guadagnato abbastanza per poter permettere l’istruzione dei figli, una vita dignitosa ai parenti rimasti in Romania, la costruzione o ristrutturazione di una casa o un appartamento in Romania e Alessandra Lozza

SCO: secondo anno l’acquisto di altri beni, nonché aver messo da parte i soldi guadagnati in modo da garantirsi un’esistenza agiata, meditano di tornare il patria. Anche qui esistono differenze fra i giovani e i cinquantenni. I primi pensano più che altro a guadagnare il più possibile finché possono, mentre i secondi, una volta terminato il loro compito, pensano più spesso di tornare a casa, perché per loro la Romania è il loro posto. Questo sottolinea il carattere transnazionale dell’esperienza migratoria. Riguardo al tornare a casa, la questione si fa già più complessa per quelli che vengono definiti lavoratori stagionali: partono dalla Romania, lavorano in Italia per un po’ di mesi e poi tornano a casa, utilizzando il guadagno nei mesi in cui rimangono in patria per poi tornare la stagione seguente a emigrare. Altri invece, pur essendo passato il periodo critico della loro esistenza, continuano a vivere in Italia per le condizioni di vita migliori rispetto alla Romania, anche se hanno difficoltà a spiegare a se stessi e alla famiglia rimasta in patria il perché preferiscono allungare il proprio soggiorno all’estero. Il rischio della migrazione irregolare. L’altra parola spesso utilizzata è rischio. Questa parola permette di descrivere alcune differenze importanti fra quelli che, una volta arrivati in Italia, hanno ottenuto un permesso di soggiorno e quanti invece sono stati costretti a vivere lunghi periodi di vita da clandestini. Le differenze fra queste persone erano date più che altro dalle sanatorie e dai decreti flussi emessi dal governo per il lavoro, che fissavano quante persone e di quali nazionalità potevano entrare nel territorio italiano. Alla fine, pochissimi ottenevano in questo modo il permesso di soggiorno e gli altri che entravano all’inizio legalmente in Italia si trovavano ad essere overstayers, ovvero coloro che protraggono la loro permanenza sul territorio oltre i termini consentiti dalla legge. La condizione di clandestino quindi non è dovuta a caratteristiche individuali di questa o quella persona, ma dalle contingenze nelle quali essa si è trovata a vivere in Italia. Nelle interviste, da una parte la clandestinità viene minimizzata, dall’altra invece fa emergere come l’avere un permesso di soggiorno regolare incida sulla vita del migrante stesso. La clandestinità è vissuta da queste persone come un rischio. Quello più grosso è quello di essere rimpatriati dopo essere stati fermati per strada per un normale controllo di polizia, perché privi di documenti di soggiorno: era quindi per loro un’esperienza che poteva finire in ogni momento con l’attesa dell’udienza per l’espulsione attesa nel Centro di accoglienza temporanea a Bologna. Il tutto è cambiato con l’entrata della Romania nell’UE, anche se questo cambiamento formale non è stato percepito dai molti che sono stati costretti a vivere da irregolari troppo a lungo. A volte l’esperienza clandestina risulta come una costrizione a rimanere in Italia, perché se l’immigrato irregolare torna nel Paese d’origine potrebbe non poter più tornare indietro, mentre quello regolare può muoversi liberamente fra i due Paesi. Formalmente gli immigrati clandestini per lo Stato non esistono se non per essere identificati e rimpatriati, eppure essi sono fondamentali per svolgere una funzione economica che pare sia vitale per l’economia italiana e bolognese. Per tanti di loro anche il posto di lavoro diventa un luogo di rischio, specie se in cantiere e in nero, perché possono trovarsi a dover lavorare per enti pubblici o privati appartenenti però a cariche pubbliche, che una volta scoperta l’irregolarità posso rimpatriare; possono trovarsi nel bel mezzo di un controllo da parte delle forze dell’ordine e subire il rimpatrio forzato; possono subire licenziamenti senza motivo, rischiare la vita in incidenti sul luogo di lavoro e non venire pagati, il tutto senza poter sporgere denuncia perché sono clandestini. Altro rischio è quello di passare diversi mesi di carcere in Italia se non lasciano il Paese entro cinque giorni come gli viene ordinato con la carta di rimpatrio. Inoltre, l’essere clandestini porta al rischio di incorrere in una serie di abusi come per esempio il ricatto da parte dei datori di lavoro che, non volendo pagare le somme per la regolarizzazione dell’immigrato, lo costringono a pagarla di tasca propria o quelli attuati anche da cariche pubbliche nel momento di richiedere il rinnovo del soggiorno o del ricongiungimento familiare.

Alessandra Lozza

SCO: secondo anno A volte vengono poi eseguite retate dalle forze dell’ordine per sopperire alla pressione mediatica, sociale o politica, specie verso i rom che hanno una fisionomia più riconoscibile come stranieri dei rumeni non rom. Abusi da parte della polizia si possono riscontrare anche alle frontiere, quando si deve passare la dogana: se il rumeno è fuori dalla Romania da più di tre mesi, che è il tempo massimo consentito, al ritorno sul suo passaporto verrà posto un timbro che gli impedisce di uscire nuovamente dalla Romania, ma i poliziotti alle dogane a volte non ponevano il timbro, in cambio di soldi. Questo tipo di condizione di rischio ed abuso è ovviamente comune a tutti gli immigranti provenienti da Paesi extra-comunitari non ricchi. Alla fine si può dire che comunque, le leggi sull’immigrazione non hanno come effetto quello di espellere tutti i migranti irregolari, ma quello di includerli attraverso la loro clandestinizzazione, garantendo che lavorino in settori sgradevoli per la popolazione autoctona. Un altro effetto è quello di creare una fascia di individui che sono allo stesso tempo cittadini senza documenti e lavoratori disciplinati. 3. L’IMMAGINE TIPICA DEL RUMENO AL LAVORO. Il rumeno viene sempre definito come un gran lavoratore, che mantiene buoni rapporti con i datori di lavoro e i colleghi perché lavora di più rispetto ad altri di altre nazionalità. Noi rumeni lavoriamo di più. In generale le interviste sembrano descrivere all’inizio ambienti di lavoro privi di tensione e contraddizioni e i lavoratori rumeni si dipingono come grandi lavoratori capaci di lavorare velocemente, efficacemente, assumendosi carichi di lavoro pesanti perché provvisti di forza fisica e di competenze, tranquilli perché in grado di mantenere buoni rapporti sia con i colleghi che con i datori di lavoro. La raffigurazione del rumeno come buono non si ha solo nei cantieri edili, ma anche in altri settori e i rumeni tendono a dire che lavorano molto più degli italiani, perché più veloci, precisi e con conoscenze elevate del mestiere, tant’è che sono in grado di lavorare per tre (un rumeno lavora per tre italiani). Il capo è bravissimo. In ogni intervista il datore di lavoro viene elogiato come colui che sa riconoscere il valore del lavoratore rumeno, che riconosce e premia la qualità del lavoro, la correttezza e le competenze dell’operaio. I datori di lavoro vengono elogiati perché apprezzano l’operaio e le sue competenze e sanno come ricompensare se vedono che lavorano bene, aggiungendo qualche soldo alla busta paga. Gli albanesi non lavorano come noi. In merito ai rapporti con i colleghi va sottolineato che vengono descritti come buoni rapporti, di collaborazione a volte, ma nella maggior parte dei casi di semplice rispetto, anche se si sottolinea sempre che lavoratori non rumeni lavorano molto meno dei rumeni stessi nel settore edile. In altri settori invece non vi è quasi traccia di questa contrapposizione rumeni/altri extracomunitari e nelle persone molto giovani emerge l’affermazione di una comune condizione come stranieri. Queste dichiarazioni sono più o meno simili sia per persone con il permesso di soggiorno sia per clandestini. Lavoravo a nero. Tuttavia da alcune interviste emergono delle situazioni in cui il rapporto con i datori di lavoro non era buono, soprattutto se il lavoratore rumeno era clandestino. Si tratta di episodi di mancati pagamenti o ritrattazione del pagamento pattuito e di terrore infuso dai datori di lavoro ai loro operai, nonché situazioni in cui si negava la regolarizzazione dell’immigrato operaio così come prevedeva la legge o la sanatoria. Situazioni del genere, di sfruttamento, sono rare e comunque non mettono in discussione la rappresentazione dominante che vede i rumeni avere buoni rapporti con i datori di lavoro onesti.

Alessandra Lozza

SCO: secondo anno L’emigrato/immigrato rumeno come lavoratore: un tentativo di interpretazione. La metodologia di raccolta dei dati rende le informazioni espresse nel libro possibili interpretazioni, poiché ovviamente sono raccolte in contesti particolari e risentono della vicinanza o lontananza dell’intervistatore dall’interlocutore e tutta una serie di fattori, nonché dell’interpretazione fatta dall’intervistatore della sua fonte orale di informazioni. L’interpretazione proposta è che gli immigrati rumeni si presentano principalmente come lavoratori perché questa è la definizione legittima per la società di arrivo, per la quale l’immigrato è ammissibile solo come lavoratore. La rappresentazione legittima dell’immigrato come lavoratore non comprende la possibilità di realizzarsi nel lavoro o provare soddisfazione o gioia per esso, poiché si cerca solo di guadagnare per mandare il denaro a casa. In definitiva il lavoro all’estero viene presentato come un sacrificio, il che porta a descrivere i rapporti con colleghi e datori di lavoro come senza problemi. Il lavoro infatti viene considerato la legittima motivazione dell’esperienza migratoria sia da parte della società di immigrazione sia da parte di quella di emigrazione, dato che la migrazione, anche se autorizzata, viene vissuta come una colpa, una fuga, un tradimento nei confronti di coloro che restano a casa e della comunità, nonché come una minaccia per la comunità di arrivo. È quindi necessario che questo tradimento e questa colpa vengano giustificati e legittimati: il lavoro costituisce sacrificio per espiare queste colpe e affinché l’emigrazione possa essere accettata essa viene etichettata come mera esportazione di forza lavoro e nient’altro. È raro che si parli di rivendicazione di diritti nelle interviste, questo perché i rumeni hanno interiorizzato il modo di vederli delle persone italiane ed evitano di toccare punti che comprometterebbero la loro presentazione da buon rumeno. Le distinzioni fra rumeni regolari ed irregolari e come immigrati derivano poi dalle leggi e queste figure vengono istituzionalizzate proprio grazie a queste. Non va poi dimenticato che i rumeni sono stati oggetto di varie campagne di criminalizzazione nel corso degli anni duemila e che sono stati spesso etichettati come etnia criminale. Dato che le rappresentazioni possibili per il rumeno sono quella di lavoratore o di clandestino-criminale, pare ovvio quale sia quella prediletta che conduce anche a fornire un’immagine legittima di sé per smarcarsi da un possibile stigma di devianza. Emerge che i rumeni risultano subalterni dal punto di vista lavorativo e culturale agli occhi degli italiani e che essi non solo si conformano a quanto è ritenuto legittimo nella società italiana, ma riprendono anche alcuni aspetti del proprio capitale culturale di partenza. Uno di questi è il culto del lavoro che è rimasto intatto dalla dittatura, per cui se si lavora si può guadagnare e quindi possedere qualcosa, se non si lavora non si possiede niente. Questo culto del lavoro è rimasto fortemente attaccato agli animi rumeni con le sue tre principali caratteristiche: distinzione forte fra lavoro manuale ed intellettuale; presenza di figure simbolo e stigmatizzazione e criminalizzazione di chi non lavorava. A questo culto se ne affiancava uno di risparmio energetico per i lavoratori, che sapevano di avere lo stipendio assicurato anche se facevano molto meno del dovuto, così che si erano addirittura formati dei circuiti di economia informale di lavori in nero basati sulla capacità delle famiglie di cavarsela con i mezzi più disparati, anche con piccoli furti nelle grandi cooperative e aziende statali. 4. ETNOGRAFIA DI UN CANTIERE EDILE. Fatte delle interviste, si passa all’osservazione sul campo, in un cantiere edile, per avere un altro punto di vista della situazione rumena, più diretto, che permetta di confermare o meno le dichiarazioni sentite. L’accesso al cantiere. Alcuni funzionari sindacali della Filea–Cgl trovano il posto di lavoro al protagonista in un cantiere edile come manovale e questi si fa assumere dichiarando di essere un ricercatore Universitario che vuole arrotondare il suo stipendio, ma non che il suo vero scopo è studiare le interazioni fra i rumeni e le altre Alessandra Lozza

SCO: secondo anno persone che lavorano al cantiere, potendo svolgere così un’osservazione partecipante coperta. Essendo manovale, egli è destinato a svolgere mansioni non specializzate ovunque ci sia bisogno. Così facendo è in grado di osservare i rapporti che si stabiliscono all’interno del cantiere e condividere con gli altri lavoratori varie parti della giornata e varie esperienze ed eventi, finché questi una volta fatta conoscenza possono cominciare a sfogarsi con lui e a coinvolgerlo o renderlo vittima di scherzi solitamente a sfondo sessuale. La sera, a casa, il protagonista scrive il suo diario etnografico annotando tutto ciò che è successo durante la giornata. Qui si lavora piano: i tempi di lavoro. Nel cantiere lavorano otto rumeni di cui solo due regolari e due pakistani, anch’essi regolari, nonché un italiano che fa l’elettricista. Il cantiere dipende da una ditta che detiene il subappalto principale e all’interno del cantiere stesso lavorano in sub contrattazione ditte specializzate. Un lavoratore rumeno spiega al protagonista che il ritmo di lavoro nel cantiere è lento, a meno che non chiedano i datori di lavoro di sbrigarsi a fare qualcosa, situazione che avviene proprio durante il primo pomeriggio di lavoro del protagonista, il quale si deve arrangiare in quel frangente ad imparare ad usare attrezzi mai visti prima. Anche il giorno seguente viene ammonito di lavorare piano e la spiegazione che viene fornita è che, se per caso l’operaio si infortuna perché ha voluto agire velocemente o caricandosi di troppo peso il datore di lavoro non gli paga i giorni d’assenza. È vero quindi che i rumeni sono grandi lavoratori, ma non nel senso che sono veloci: nel senso che, essendo il lavoro in cantiere davvero faticoso, essi sanno come muoversi per evitare di danneggiare se stessi e le loro famiglie se rimangono senza paga per dei giorni. Quando viene detto di fare alla svelta è perché esistono tipi di mansioni che esigono rapidità (es: gettata di cemento), sono da eseguire in un certo lasso di tempo o perché è quasi finito l’orario giornaliero e si vuole andare a casa. Viene immediatamente fatto capire che nel caso in cui i ritmi siano più animati è bene che tutti i dipendenti interessati lavorino in maniera condivisa e paritaria. La maggior parte dei dipendenti in questo cantiere ritiene centrale adeguarsi in ogni caso ad un ritmo di lavoro comune a tutto il gruppo di colleghi. Il significato pratico di troppo o troppo poco lavoro viene sempre negoziata così come il ritmo veloce o lento di lavoro, poiché questa è una conoscenza pratica che ti permette di capire momento per momento con che rapidità svolgere una mansione, dato che si risponde del tempo impiegatoci non solo al capo ma anche ai colleghi. Variano in quel contesto segnali e sanzioni impliciti ed espliciti in merito alle negoziazioni di tempo e lavoro che si deve svolgere e vengono insegnati anche trucchi per evitare di farsi assegnare lavori più pesanti, come farsi trovare sempre impegnati. Viene insegnato a fare sempre qualcosa per evitare che il capo assegni lavori lunghi o pesanti che costringano a rimanere oltre l’orario previsto poiché non si stava facendo niente. La negoziazione sui tempi di lavoro è solitamente implicita e silenziosa nei confronti dei capi che vengono chiamati dagli operai “i cani”. A volte la negoziazione con i capi deve essere esplicita, specie quando si tratta di ritmi di lavoro di una particolare mansione o quando ci si deve collettivamente difendere dall’accusa di aver lavorato meno del dovuto. La motivazione dell’esecuzione sommaria di un compito di solito si ritrova nella convinzione di essere pagati troppo poco per quello che si svolge. Altre volte, lavorare lentamente è d’obbligo, poiché certe mansioni da svolgere in gruppo mettono a rischio l’incolumità di tutti, come per esempio la costruzione di un ponteggio, per il quale occorrono fiducia e una buona dose di concentrazione. Viene rilevato che la tendenza dei rumeni sul cantiere è quella di negoziare il più possibile i ritmi di lavoro e mettere in pratica alcune piccole insubordinazioni per riuscire il questo scopo. I cani: il rapporto col capo. Nella quotidiana e costante negoziazione dei ritmi di lavoro i datori di lavoro spronano sempre i dipendenti a fare di più e ad andare più veloci, rimproverandoli aspramente se li considerano inefficienti e la tensione continua fra capi e dipendenti causa nervosismo e litigi quotidiani. Capitano spesso episodi del genere per Alessandra Lozza

SCO: secondo anno questo i dipendenti hanno soprannominato i datori di lavoro “i cani da guardia”. Si apre una contraddizione fra le interviste e la realtà: i rumeni intervistati dicono che i rapporti di lavoro sono tranquilli e senza problemi, ma pare chiaro che nella realtà i datori di lavoro vengono visti soprattutto come entità atte alla vigilanza e al controllo e secondariamente come addetti alla direzione tecnica progettuale. Da parte loro i capi utilizzano discorsi interiorizzanti nei confronti della manodopera rumena o ribadiscono costantemente con frasi futili di essere loro al comando anche se nella realtà non svolgono nessun incarico, e questa tendenza viene contrastata dal tacito accordo dei lavoratori di abbassare i ritmi di lavoro. Talvolta i rumeni esprimono la loro reale opinione sui capi utilizzando la loro lingua madre in modo da non farsi capire dai capi e, essendo che il protagonista conosce il rumeno, a volte si confidano anche con lui nella loro lingua. L’opinione che fra dipendenti e datori di lavoro vi sia un buon rapporto è stata espressa raramente dai colleghi del protagonista durante l’osservazione. Quest’opinione è invece espressa dai capi, specie nei giorni di paga e viene espressa dai lavoratori solo in particolari circostanze come quella di un furto in ufficio: la scomparsa di una grossa somma di denaro crea tensione fra i lavoratori che tendono a rimarcare il buon rapporto col datore di lavoro principale e il fatto che non ci sono mai stati furti in cantiere (non di quel tipo almeno, anche se a volte sparivano attrezzi dal magazzino). I rapporti con i datori di lavoro poi influenzano quelli con i colleghi, che se vedono sussistere un buon rapporto fra lavoratore e capo possono arrivare ad escludere il lavoratore dal gruppo, considerandolo una potenziale spia e un “cane del capo”. Pakistani terroristi: pregiudizi e lealtà verso i colleghi. Esiste anche nel cantiere preso in considerazione la tendenza a dividersi in gruppi nazionali, specie all’ora di pranzo e a sbeffeggiare scherzosamente gli altri lavoratori con frasi stereotipiche o nomi stereotipati che possono sempre essere ribaltati a sfavore di chi li usa. Emergono stereotipi e pregiudizi legati alla provenienza nazionale o all’appartenenza religiosa, come emerso dalle interviste. Quindi in una certa misura la differenziazione nazionale costituisce un fattore di separazione fra colleghi. Nel cantiere osservato non vi è un’associazione netta fra provenienza nazionale e qualifica professionale dei dipendenti, poiché si finirebbe per insultare anche propri connazionali, essendo le qualifiche professionali simili anche fra dipendenti di nazionalità diversa. Nei momenti di lavoro però le differenze paiono scomparire, per tornare solo quando si pensa alla competenza e alla capacità di svolgere le mansioni assegnate, nonché sul rispetto delle regole di comportamento nei confronti sia di datori di lavoro, sia di colleghi e nel rispetto dei ritmi di lavoro collettivi. Una volta rivelato a due colleghi lo scopo della propria ricerca, il protagonista raccoglie le loro interviste ed entrambi lamentano la lentezza dei pakistani sul lavoro, anche se fra di essi non c’era un cattivo rapporto a causa di questa lentezza. Inoltre i rumeni sono imparziali in quanto riprendono e sanzionano anche i propri connazionali se agiscono nel modo sbagliato. Inoltre se un dipendente viene ritenuto colpevole di essere un “cane del capo” non importa la sua nazionalità: viene escluso dal gruppo di lavoratori, sbeffeggiato e ci si rifiuta di lavorare con lui. Più che la nazionalità, l’elemento che rende solidali alcuni colleghi fra loro è l’appartenenza familiare o la provenienza dalla medesima città, che sono fattori che creano a volte amicizie di lunga durata. Questa etnicizzazione comunque dei rapporti comunque non impedisce ai lavoratori di instaurare rapporti di fiducia e amicizia con colleghi di altre nazionalità. Pervertiti e drogati: gli stereotipi dei rumeni sugli italiani. Interessanti da osservare sono gli stereotipi che hanno i rumeni nei confronti degli italiani, anche in quelli del protagonista che trattano con diffidenza essendo l’ultimo arrivato e per di più laureato. La maggior parte degli stereotipi riguardano il sesso e la droga e i rumeni paiono piuttosto interessati alle pratiche del sesso orale, che secondo loro sono molto diffuse in Italia, e alle motivazioni che spingono un italiano ad andare in Alessandra Lozza

SCO: secondo anno Romania, che secondo loro si possono riassumere nell’atto di “rimorchiare” le donne rumene. Spesso al protagonista viene chiesto di spiegare, con modi ironici o con insulti, questa pratica degli italiani riguardo al sesso orale e il protagonista nota come il machismo sia uno degli elementi importanti del processo di inclusione nel gruppo dei colleghi di cantiere. Non è quindi inusuale che i primi approcci col nuovo arrivato, riguardino gli stereotipi sessuali degli italiani. Forse è lo scambio interculturale in cantiere in confronto ai capi che si vantano delle loro prestazioni sessuali a generare gli stereotipi che i rumeni hanno degli italiani. Altri stereotipi sono quelli che vedono gli italiani come grandi consumatori di droghe, perfino sul posto di lavoro. Si crede che l’80% degli italiani circa sia drogato e punkabbestia, stereotipo che invece viene spesso utilizzato dagli italiani nei confronti dei rumeni, che spesso si considerano migliori degli italiano per non essere così e perché lavorano sodo per costruire case anche e soprattutto per gli italiani che invece lavorano negli uffici. Il processo di inclusione nel gruppo dei colleghi. È importante mostrare ai colleghi che si è leali nei loro confronti, specie se si è lavoratori di altre nazionalità e se si è nuovi nel cantiere. Vanno conquistati la fiducia dei lavoratori così come il loro rispetto. Questa situazione è vissuta poi in modo particolare specie dai nuovi arrivati, che sono degli sconosciuti e devono imparare le regole della vita in cantiere. È una spia: l’importanza dell’origine nazionale. Un aspetto importante che determina l’inclusione nel gruppo è appunto la nazionalità del nuovo arrivato: visto che il protagonista è italiano genera subito sospetto perché potrebbe instaurare subito un buon rapporto con i capi e fare la spia nei confronti degli altri lavoratori e viene investito di pregiudizi, che diminuiscono un po’ quando questi mostra di conoscere la lingua rumena, parlarla moderatamente bene e utilizzarla anche in presenza dei capi che non la conoscono. Tuttavia all’inizio il protagonista vive un momento di crisi quando viene sospettato di essere una spia dei sindacati e accusato dai compagni in rumeno, che non sapevano ancora della sua capacità di comprendere la lingua, e anche se si proclama innocente e protesta, si sente un po’ una spia a causa della natura coperta della sua ricerca. In ogni caso la crisi passa quando i lavoratori suoi colleghi spiegano che stavano scherzando e che non lo credono realmente una spia dei sindacati. Questo episodio comunque mostra come sia difficile per i colleghi rumeni considerare il nuovo arrivato come uno di loro a causa di questa sfiducia di partenza, mentre l’ingresso di nuovi manovali rumeni è decisamente più facile, poiché li accomuna la lingua e la reputazione dei parenti che li hanno introdotti nel cantiere passa anche a loro. L’accesso al luogo di lavoro di un ulteriore collega tunisino è invece più problematica, poiché egli ha difficoltà con la lingua italiana ed è soggetto a stereotipi e pregiudizi sugli africani e sugli arabi, pregiudizi che non diminuiscono col passare del tempo. Non sai fare niente: la competenza professionale. Il “saper fare”, la competenza manuale specifica è un altro fattore di inclusione o esclusione dal gruppo: più si è competenti, esperti ed efficaci sul lavoro, più si è apprezzati. Questo perché l’operaio che non sa come muoversi corre rischi maggiori in cantiere durante i lavori pericolosi, mettendo a repentaglio anche l’incolumità dei colleghi; perché è fondamentale saper fare quando i ritmi di lavoro vengono accelerati e perché viene stimato chi sa anche spronare i compagni a lavorare meglio o escogita in fretta soluzioni fattibili per i problemi che sorgono durante la costruzione. Inoltre la competenza conferisce autorità e rispetto a chi le possiede in quanto gli si attribuisce lo status di “muratore finito”, completo. Le discussioni sulle reali competenze dei colleghi sono infatti frequenti in cantiere e la competenza permette di guadagnare anche più di altri che ne possiedono meno. La mancanza di competenza del protagonista risulta un ostacolo per l’inserimento nel gruppo di lavoro, ma alcuni colleghi sono disposti ad aiutarlo e ad insegnarli come usare certi oggetti o come posizionarsi col corpo in modo da fare meno fatica svolgendo alcune mansioni. In Alessandra Lozza

SCO: secondo anno questi casi comunque sorge l’attenzione su uno degli aspetti più visibili del processo di inclusione o esclusione dal gruppo: il “ridere di”, che esclude qualcuno e il “ridere con”, che è un chiaro segno di inclusione. Col passare del tempo il protagonista nota questo cambiamento dal ridere di lui al ridere con lui, segno che sta per essere incluso nel gruppo. Hai i capelli come una pecora: il machismo e l’aspetto fisico. Un altro fattore importante è il machismo, dato che il cantiere è prevalentemente frequentato da uomini a parte rare ed occasionali eccezioni. Per machismo si intende tutta una serie di comportamenti e affermazioni che esaltato la forza fisica e la mascolinità, caratterizzati da aggressività verbale e corporea, il frequente uso di insulti e scherzi a sfondo sessuale a volte in un atteggiamento di cameratismo, a volte con l’intento di offendere ed escludere dal gruppo. Essendo il protagonista poco macho sia per aspetto fisico, sia per i modi, il suo inserimento nel gruppo è difficile, specie perché viene preso i giro soprattutto per la sua istruzione e il suo grado di laureato, che però deve lavorare insieme a rumeni in nero e che non sa un bel niente del lavoro in cantiere. Prendendolo in giro sulla sua laurea, i rumeni intendono quasi rovesciare la struttura di status sociale, come se volessero una rivincita del lavoro manuale su quello intellettuale. Queste caratteristiche sono essenziali a volte in luoghi dove il lavoro è rischioso per l’incolumità e ovviamente non sono esclusivamente visibili nei lavoratori rumeni, ma esistono in qualsiasi classe di lavoratori di altre nazionalità. Probabilmente viene utilizzato il machismo dai rumeni del cantiere come fattore di protezione contro quella stigmatizzazione che deriva dal lavorare in cantiere, poiché è un lavoro rischioso, mal pagato, precario e a basso status sociale. Altro fattore importante è l’aspetto fisico. Il protagonista non soddisfa i criteri di abbigliamento e aspetto fisico dei colleghi: barba non rasata, capelli un po’ lunghi infastidiscono i colleghi che, rimediano tagliandogli i capelli. È un rituale di passaggio, da escluso a incluso al gruppo, che segna che il protagonista ora è diventato amico di coloro che prima non lo consideravano tale. Percependo la sua diversità i colleghi hanno voluto riplasmare il suo aspetto fisico probabilmente con l’intento di farlo somigliare più a loro e ridurre così le differenze sociali, per renderlo anche più adeguato al nuovo ruolo di operaio edile. La costruzione del rispetto in una “comunità” provvisoria. Un ultimo elemento di inclusione nel gruppo di colleghi è dato dalla lealtà verso questi: il rispettare i ritmi di lavoro collettivi, il non essere dalla parte del capo, la partecipazione attiva durante i momenti di negoziazione dei ritmi lavorativi e dei carichi di lavoro e il non fare la spia. La capacità di seguire queste regole comuni è conoscenza pratica da apprendere insieme alle mansioni lavorative dalla sua acquisizione dipende l’inclusione nella piccola “comunità” di dipendenti edili. Questa lealtà ha aiutato quindi il protagonista ad essere accettato all’interno della “comunità”, accettazione che si guadagna anche superando alcune prove come l’uscire dal cantiere per andare a prendere da bere per se e per gli altri durante l’orario di lavoro; il bere insieme e l’offrire qualcosa una volta ricevuto il primo stipendio. I momenti nei quali si costruiscono reciproco rispetto e fiducia però sono quelli in cui si lavora collettivamente in maniera paritaria. Il concetto di “comunità” di dipendenti è fuorviante e l’inserimento in questa non è lineare, ma fatto di un alternarsi e susseguirsi contraddittorio di segnali di inclusione e fiducia e di chiara esclusione. Inoltre questo gruppo, anche se definibile come una “piccola comunità” è tutt’altro che unito e coeso. E gli stessi fattori valgono per tutti i dipendenti nuovi, non solo per il protagonista. A rendere difficile considerare il gruppo come una comunità è anche il frequente turnover di lavoratori, ovvero il cambio di dipendenti frequente dovuto a dipendenti che si licenziano per cercare un posto di lavoro migliore. Questo porta ad una costante negoziazione e rinegoziazione delle interazioni del gruppo stesso, il che rende il gruppo a tratti coeso e a tratti disgregato, impedendo la costruzione di una ben funzionante e solida comunità di dipendenti che lavorano tutto per la stessa ditta. Alessandra Lozza

SCO: secondo anno Pratiche lavorative sleali e turnover. Per far si che l’operaio si impegni nel lavoro è necessario che esista un certo grado di consenso nella struttura dell’organizzazione aziendale, nonché nei confronti dell’organizzazione alla quale i dipendenti prestano la propria manodopera. Dall’osservazione partecipante è emerso che i dipendenti rumeni non danno particolare consenso ai datori di lavoro perché vedono il lavoro stesso solo come un mezzo per guadagnare. Quelli che mostrano lealtà verso il capo vengono esclusi dal gruppo, ma lo fanno solo per diminuire il rischio di licenziamento, specie se sono irregolari. Altro elemento da tenere in considerazione è il turnover di lavoratori: sia che capiti per licenziamento o altro, i lavoratori non esitano un attimo a “tradire” la ditta per cui stanno lavorando licenziandosi e spostandosi in un altro cantiere nel quale l’impiego è più remunerativo. Esiste poi anche la “pratica dell’autolicenziamento”, ovvero quella particolare situazione di tensione creatasi fra vincoli posti dal datore di lavoro e libertà del migrante, che porta il migrante a licenziarsi per poter tornare a casa qualche mese, come se fosse in ferie. Questo sottolinea che i rapporti fra datori di lavoro e migranti risentono della concezione strumentale che si ha nei confronti dell’immigrazione e del ruolo dei migranti in Italia. Tale fattore mina il consenso che potrebbe venirsi a creare nei confronti della ditta e del luogo di lavoro, specie quando i diritti dei lavoratori migranti non vengono ascoltati, soprattutto se questi sono in nero. 5. I RAPPORTI DI FORZA TRA DIPENDENTI E CAPO. Oltre al tema dei ritmi di lavoro, altre questioni creano tensione nei rapporti: l’orario di lavoro, il pagamento dei salari, i contributi per la pensione, il licenziamento senza motivazione, i periodi di malattia, le giornate inattive a causa del maltempo e le ferie. Vengono descritte quelle risorse che influenzano i rapporti di forza fa datore di lavoro e operaio, ovvero quelle che i lavoratori possono mettere in gioco (come la competenza che diminuisce il rischio di licenziamento) nelle quotidiane pratiche di negoziazione con il capo. La capacità di negoziazione, va notato, varia a seconda di come viene considerato il lavoro svolto: se riservato agli immigrati o potenzialmente desiderabile anche per gli autoctoni. La definizione dell’impiego desiderabile però non è universale e dipende dal contesto lavorativo e dalla possibilità del lavoratore di decidere all’interno delle negoziazioni quotidiane nel contesto lavorativo, delle risorse che possono aumentare il livello di contrattazione e magari renderla esplicita o legittima. Quattro sono le principali risorse: 1. 2. 3. 4.

Il possesso del permesso di soggiorno; La mansione svolta in cantiere e le competenze professionali dell’operaio; La presenza e l’attività di un’organizzazione sindacale; Le dimensioni del cantiere, dell’azienda e la solidarietà fra colleghi, soprattutto con gli italiani.

Senza permesso di soggiorno hai paura. L’attraversare il confine senza permesso mette in una posizione di debolezza e vulnerabilità il migrante e di queste se ne approfittano le aziende a livello lavorativo, per ottenere gli stessi benefici della delocalizzazione me senza dover fare tutte le pratiche burocratiche e amministrative che richiede il delocalizzare. Inoltre, la continua situazione di “deportabilità”, ovvero il continuo rischio di essere rimpatriati, rende questi individui maggiormente sfruttabili dal punto di vista lavorativo, anche se dal 2007 un cittadino rumeni in territorio italiano trovato senza permesso di soggiorno non rischia quasi mai il rimpatrio, se non in casi particolari. Il possesso del permesso di soggiorno è una risorsa fondamentale per un operaio immigrato nell’interazione con il datore di lavoro e il capocantiere, così come la presenza di un contratto di lavoro, che grantiscono maggiore forza alle rivendicazioni del dipendente in regola, mentre un operaio illegale privo di entrambi rischia non solo il licenziamento in tronco nel caso di discussioni ma anche di essere rimpatriato come clandestino. Anche in cantiere infatti un immigrato senza permesso di soggiorno corre il rischio di essere Alessandra Lozza

SCO: secondo anno riconosciuto e rimpatriato a seguito dei controlli della polizia, che eliminerebbero fisicamente i lavoratori in nero ai loro danni, mentre l’impresa pagherebbe un prezzo molto basso per questa irregolarità. La paura di un controllo è costante nei cantieri. Questa situazione risulta pesante per i lavoratori immigrati non in regola, che sono spesso oggetto di ricatto da parte dei datori di lavoro e che difficilmente possono trovare sostegno legale. Inoltre essi non possono utilizzare i canali regolari per la ricerca del lavoro come i loro connazionali con il permesso di soggiorno e devono affidarsi o al passaparola, o a chi recluta in nero a giornata. I datori di lavoro vengono definiti buoni solo quando pagano regolarmente il salario ai lavoratori in nero che hanno assunto, senza fare storie o diminuire il compenso precedentemente pattuito. Nel cantiere preso in considerazione dal protagonista non ci sono stati casi di mancato pagamento del compenso. Altre problematiche col salario sono quelle relative ai contributi, che i regolari pagano mentre gli irregolari no, e le decurtazioni dalla paga di alcuni euro quando il lavoratore si licenzia, cambia lavoro e poi torna nella ditta per recuperare gli ultimi mesi di salario che gli spettano. Inoltre ai regolari vengono pagati gli straordinari, mentre agli irregolari questa prospettiva non si presenta proprio: questi devono rimanere al lavoro fino a che il capo non dice che possono andare a casa e pagare i muratori come manovali anche se non è questo il loro principale compito nel cantiere. Altra differenza riguarda i diritti sanitari, di malattia e di infortunio che non vengono garantiti dal lavoro in nero, come nessun genere di ammortizzamento o di protezione sociale in caso di infortunio sul lavoro. Tuttavia alcuni rumeni vedono il lato negativo dell’essere in regola perché dal loro salario vengono trattenuti contributi e tasse, mentre i lavoratori in nero ricevono soldi contati e tutti subito, senza detrazioni. Lavora piano, sei un muratore. La specializzazione, l’esperienza, l’abilità e le competenze professionali sono una risorsa importante per un operaio di cantiere, specie perché garantiscono che sia difficile sostituire l’operaio, cosa che non vale invece per i manovali, che sono addetti ad incarichi non specifici. Nel conflitto lavoratori-datori di lavoro l’elevata competenza di un lavoratore fa la differenza fra il lasciare il lavoro e l’essere lasciato a casa dal lavoro non appena le mansioni di puro lavoro calano e aumentano quelle che richiedono competenze specifiche. Un lavoratore in regola ha anche la possibilità di imporre delle assenze al suo datore di lavoro per potersi occupare di altri lavoretti in nero più remunerativi e può rallentare il ritmo di lavoro sul cantiere proprio perché è difficile sostituirlo, specie se è competente. Cosa dice il sindacalista? Anche per quanto riguarda i rapporti sindacali esistono forti differenze di trattamento fra migranti regolari o irregolari. Per i lavoratori già regolari la presenza di un’organizzazione sindacale è una risorsa, ma per gli irregolari lo è molto meno perché vengono ignorati dato che per legge non si può fare nulla per loro se sono senza permesso di soggiorno. In alcuni casi i sindacati poi sono per i lavoratori in regola delle istituzioni facilitatrici non solo in merito a questioni lavorative, ma anche in merito a questioni sociali quali l’acquisto di beni sul territorio. Comunque i rumeni tendono ad evitare i sindacati, poiché hanno avuto brutte esperienze con quelli creati durante la dittatura, che erano corrotti e coercitivi e credono che siano così anche in Italia. I lavoratori irregolari comunque evitano i sindacati perché facilmente ricattabili dai datori di lavoro, e i sindacati non sanno aiutare i lavoratori in nero perché la legge non lo consente. Davanti ai casi di minacce fisiche poi, il ricorso al sindacato è vissuto come un tentativo quasi inutile e i rapporti non miglioreranno finché i sindacati non decideranno di attuare una linea più decisa nei confronti degli immigrati irregolari.

Alessandra Lozza

SCO: secondo anno Un giorno hanno fatto sciopero per me. Un altro fattore importante da tenere in considerazione quando si analizza la situazione dei lavoratori edili è la dimensione del cantiere e il numero di lavoratori che vi sono al suo interno. Quando il cantiere è grande e appartiene ad una ditta grande, il lavoro è più stabile ed è assicurato per più persone, soprattutto regolari, che ricevono un contratto di lavoro a tempo indeterminato e tutte le relative indennità e altro; quando il cantiere è piccolo saranno pochi quelli assunti regolarmente, specialmente i regolari, e pochi quelli assunti in nero. I regolari assunti regolarmente, avranno poi un contratto a tempo determinato che una volta scaduto lascerà a casa il dipendente senza indennizzo per la disoccupazione fino al prossimo incarico. Così capita anche per gli artigiani che assumono a stagione. Inoltre, cantieri grandi significano lavoro per mesi o addirittura anni; medi per alcuni mesi e lavori di ristrutturazione di piccole abitazioni, richieste solo per una parte della casa solitamente piccola significano lavoro per alcuni giorni e basta. Inoltre nei cantieri medio-piccoli i livelli salariali sono tendenzialmente più bassi che in altri cantieri. In generale poi, se i cantieri sono più grandi il lavoratore avrà maggiori possibilità di negoziazione dei ritmi e tempi di lavoro, mentre nei cantieri piccoli il tutto viene deciso dal datore di lavoro senza possibilità di discussione da parte del lavoratore. Le dimensioni dei luoghi di lavoro in edilizia condizionano in generale le pratiche lavorative dei lavoratori rumeni e la loro quotidianità. Inoltre è stato riscontrato che nei cantieri di grandi dimensioni la solidarietà fra colleghi anche di nazionalità diverse aiuta a migliorare le condizioni dei lavoratori più svantaggiati, anche attraverso scioperi fatti dai colleghi per richiedere diritti per una persona in particolare. Nei cantieri piccoli invece si parla spesso di cambio di posto di lavoro, ditta e condizioni lavorative, nonché di una maggior frequenza dei licenziamenti in tronco dovuti anche a semplici divergenze di opinione. Un lavoro sporco? Tutta una serie di caratteristiche in positivo (es.: sicurezza, alti salari, autonomia, ecc.) di un lavoro sono spesso oggetto di contrattazione quotidiana fra dipendenti rumeni e datori di lavoro e questo fatto contribuisce ad influenzare l’immagine di un impiego in quanto “desiderabile” o “sporco”. Il lavoro viene considerato “sporco” quando la possibilità di negoziare una condizione migliore è ridotta o negata, il che fa risaltare tale lavoro come poco desiderabile soprattutto per i nativi del Paese di arrivo. Per i rumeni, a fare la differenza sono invece la solidarietà fra colleghi e la diversificazione fra connazionali e non, che possono abbassare o innalzare il potere di negoziazione, anche se questo è comunque influenzato sia dall’interno che dall’esterno del cantiere. 6. DENTRO E FUORI DAL CANTIERE. Traiettorie transnazionali e nicchie protette. Tra i vari rumeni incontrati ed intervistati, il transnazionalismo e la circolarità si declinano in strategie e percorsi differenti. Un primo fattore di condizionamento del transnazionalismo è il possesso di un permesso di soggiorno in un qualsiasi Paese dell’UE, che permetteva ai regolari di pianificare un periodo di lunga permanenza nel Paese d’arrivo, mentre era per gli irregolari motivo dei frequenti spostamenti da un Paese ad un altro, seppur con mille mila difficoltà. Infatti gli irregolari non potevano pianificare periodi di lunga permanenza in ogni Paese e dovevano comunque elaborare strategie per trarre il meglio da ogni esperienza vissuta. Un esempio di circolarità è quello di tornare ogni tre mesi in Romania per non incorrere nell’interdizione, restare a casa per un periodo e poi ripartire. Un’altra strategia era quella di spostarsi spesso verso un altro luogo della propria rete migratoria (spesso vasta e ramificata in tutta Europa) dove parevano esservi condizioni migliori di lavoro e vita, oppure di andare a lavorare solo stagionalmente, per esempio per la raccolta della frutta, per Alessandra Lozza

SCO: secondo anno poi tornare a muoversi. Queste strategie richiedono che rimangano aperti sempre i contatti internazionali e che vengano pianificate in modo da non risultare fallimentari, sulle basi di esperienze di altri familiari, così da ridurre i rischi. Molti migranti rumeni irregolari preferivano invece quella che viene chiamata “strategia della nicchia”, che consiste nell’unire luogo di lavoro e di vita nello stesso Paese così da avere un impiego stabile e una fonte di guadagno sicura e continuativa, nonché un’abitazione. Cercavano di vivere in maniera relativamente sicura, riducendo i controlli delle forze dell’ordine con la riduzione degli spostamenti, adottando comportamenti disciplinati e poco rivendicativi. Questa strategia veniva usata soprattutto dalle donne primomigranti che non avevano una rete di conoscenze vasta nel Paese d’arrivo, dove cercavano impiego come assistenti familiari, come “badanti”. Successivamente molti migranti maschi hanno beneficiato delle nicchie create per loro in precedenza dalle madri, mogli, fidanzate, compagne o sorelle che avevano emigrato prima di loro. Inoltre era possibile per i maschi immigrati unire lavoro e abitazione anche in altri contesti, cercando un’abitazione vicina al posto di lavoro. Spesso comunque la situazione di immigrato irregolare non permette spostamenti, ma obbliga a rimanere nel Paese d’arrivo forzatamente. Una disposizione auto – predatoria. Il Paese di immigrazione è visto dai migranti come luogo dove guadagnare denaro anche facendo lavori pesanti e degradanti, sopportabili solo perché si è legati al contesto di origine nel quale si potranno mettere a frutto i soldi guadagnati col lavoro. Si parla di “armistizio informale”, ovvero di tacito sfruttamento reciproco fra immigranti e società di immigrazione. In ogni caso tutti i migranti, sia regolari che irregolari hanno sviluppato una sorta di disposizione auto – predatoria, ovvero la tendenza a vedere l’Italia come un paese da cui attingere le maggiori risorse monetarie possibili nel minor tempo possibile per poter tornare a casa, a causa delle difficoltà legislative per ottenere il permesso di soggiorno. Viene definita “auto”predatoria perché il migrante sfrutta se stesso, il proprio corpo e il proprio tempo anche a rischio della salute per poter raggiungere il suo scopo, e questa disposizione non è in contrasto con la presentazione di lavoratore che fanno di se i rumeni ed è quella che porta per esempio donne, bambini e ragazzi a mendicare per strada o a fare i lavavetri ai semafori: il tutto per guadagnare di più e unire i propri ricavi a quelli del capofamiglia. Alcuni migranti invece cercano di sommare ai propri salari proventi da azioni illegali, come per esempio l’estorsione di denaro a connazionali in cambio di un posto di lavoro sicuro; il subaffito posti letto in baracche o appartamenti; le minacce su connazionali perché si servano delle merci vendute illegalmente, come generi alimentari, da altri della stessa nazionalità. Questa pratica non riguarda solo i lavoratori rumeni, ma anche altri di altre nazionalità. Altri metodi sono quelli usati per tagliare totalmente le spese superflue(es.: condividere una stanza in affitto con altri dieci inquilini); la diposizione auto predatoria è stata poi rafforzata dalle campagne mediatiche contro i rumeni. Attività illegali. Alcuni rumeni hanno raccontato nelle interviste di esperienze devianti, sorte poiché sono stati subiti abusi in ambienti lavorativi troppo a lungo e troppo spesso e che quindi sembravano la via migliore da seguire per poter racimolare denaro. Si tratta di atti di criminalità minori, da strada, come per esempio piccoli furti nei supermercati e non di altri ambiti in cui comunque possono essere coinvolte persone di nazionalità rumena. In ogni caso il passaggio alla microcriminalità si alterna a fasi di lavoro “regolare”, che spesso non viene sempre pagato e rende “razionale” la scelta di entrare a far parte di settori criminali, che va a far aumentare la questione della criminalizzazione degli immigranti da parte della società d’arrivo. In ogni caso, ad un rumeno, se si chiede cosa egli pensa dell’Italia, questi risponderà che l’Italia è bella, ma solo perché teatro di un guadagno elevato e sicuro.

Alessandra Lozza

SCO: secondo anno L’importanza dei consumi. Il contesto d’origine è considerato il luogo in cui concentrare e spendere i risparmi o fare degli investimenti e la transnazionalità delle traiettorie non impedisce ai migranti di pensare, per lo meno, di poter far definitivamente ritorno in Romania. L’esperienza dello Scalo Internazionale Migranti. Lo Scalo Internazionale Migranti è un ex albergo per ferrovieri in disuso di proprietà delle Ferrovie dello Stato. Questo è stato per molto tempo la struttura ospitante di centinaia di migranti, specie rom, ed è stato chiuso nel 2005. Ha visto al suo interno varie attività organizzate da rumeni e italiani nonché assemblee di autogestione, assemblee di donne con la partecipazione di italiani e rumeni. Ha rappresentato per molti migranti un luogo dove alloggiare gratis, un luogo dove gli irregolari erano protetti dalla minaccia di rimpatrio e un momento di rivendicazione di diritti, specie per gli immigranti irregolari che proponevano di attuare una procedura di regolarizzazione a carico degli enti locali se venivano denunciati datori di lavoro che facevano lavorare in nero contribuendo ad evadere il fisco. Si cercava quindi di cambiare l’immagine dei suoi residenti da zingari, come venivano definiti, a lavoratori migranti, perdendo quindi l’aspetto stigmatizzante attribuito alla prima parola. Quella campagna e le sue idee però non furono sostenute. L’occupazione abusiva dello stabile veniva legittimata poiché i suoi abitanti erano lavoratori in nero, a volte con mogli e figli appresso. Quella manovra comunque ha rappresentato un tentativo di modificare la legge sull’immigrazione con un movimento “dal basso” anche se non è riuscita a modificare il legalscape del Paese, e i rumeni che hanno partecipato a tale esperienza posso autodefinirsi in maniera diversa rispetto agli altri, poiché la loro condizione di lavoratore era legata anche alla rivendicazione di diritti e non portava alla divisione fra lavoratori di etnie diverse, ma ad una comunanza di esperienze con altre persone provenienti da Paesi diversi dalla Romania. 7. CONCLUSIONI. Questa ricerca ha privilegiato una dimensione di ricerca “dal basso”, spingendo i lavoratori rumeni a parlare di se e delle proprie esperienze, osservandone le pratiche all’interno e all’esterno dei contesti di lavoro e analizzandone i contesti di origine e arrivo (Italia e Romania). L’ipotesi proposta è che i rumeni abbiano interiorizzato l’immagine di immigrato lavoratore egemone nella società d’arrivo come un moto di senso comune, per legittimarsi agli occhi degli italiani e smarcarsi dallo stigma di clandestino e deviante che essi non rappresentano. Questo fa si che essi siano disciplinati sul lavoro senza bisogno di coercizione perché danno per scontato che il loro ruolo nella società ospite sia solo quello di lavorare, mentre nel contesto di origine si presentano come consumatori di beni e non grandi lavoratori. Sul luogo di lavoro, è stata analizzata la dimensione di tensione che si viene a creare fra datori di lavoro, lavoratori e lealtà verso i colleghi, che è presente in qualsiasi situazione lavorativa. Sono state analizzate le conseguenze del non essere in regola e le differenze con chi lo è, le interazioni con persone di etnie differenti e l’uso degli stereotipi che spesso paiono l’unico canale di comunicazione fra dipendenti di altre nazionalità e fra dipendenti e lavoratori; come le competenze contino nella continua negoziazione; cos’è la slealtà per i lavoratori edili e cosa significa lavoro sporco, ovvero lavoro che gli autoctoni non vogliono più svolgere. Le traiettorie transnazionali poi sono viste come strategie di basso profilo e di resistenza quotidiana in un periodo in cui gli Stati non offrono alcuna protezione e anzi rendono difficile la vita dei migranti. In definitiva se la legge italiana sulla migrazione ha avuto come effetto quello di creare sul territorio una fascia di manodopera precaria e disciplinata, essa ha anche effetto sui rumeni che rimangono in Italia per anni, e sui loro figli che vi rimarranno per molto tempo. Queste leggi hanno creato cittadini a metà, con pochi diritti e una disposizione predatoria nei confronti dell’Italia, che non godono di rappresentanza politica, vivono in situazioni precarie e la cui disposizione verso l’Italia non cambierà di certo a breve termine. Alessandra Lozza