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Istituzioni di diritto privato 1 Parte prima: Nozioni introduttive e princìpi fondamentali A. REALTA’ SOCIALE E ORDINAMENTO GIURIDICO Norme e comportamento Le norme sono imposizioni esterne, comandi nei momenti di conflitto. Guidano le azioni di ciascuno e, pur tra le loro molteplici accezioni, sono sicuramente strumenti con i quali si valuta una condotta. Il comportamento risulta giusto o ingiusto, morale o immorale, lecito o illecito se conforme o difforme da una norma che lo riguardi. Valutare un comportamento equivale a giudicarlo; il giudizio può essere fondato o infondato, a seconda se giustificato o no da una norma. Il linguaggio delle norme è dunque un linguaggio prescrittivo, non descrittivo: comunica valutazioni che vietano o permettono comportamenti, non descrive eventi o emozioni. La valutazione del comportamento è la funzione costante delle norme. La vita sociale si traduce in un’immensa rete di comportamenti e ciascuna norma è portatrice di una regola, l’una connessa all’altra. Possiamo distinguere: 1) Regole di condotta Esse valutano in modo immediato il comportamento. 2) Regole costitutive In questo caso, il nesso tra norme e comportamento è così stretto da rendere la norma una condizione di possibilità del comportamento stesso. Quindi, il comportamento è inseparabile dalla regola. 3) Regole di organizzazione Le regole di organizzazione disegnano strutture intorno alle quali si intrecciano insiemi di comportamenti caratterizzati da una comune finalità. La finalità comune viene perseguita grazie alla cooperazione di più persone: la divisione dei loro compiti è resa possibile dalla presenza di regole di organizzazione che disciplinano l’azione comune. 4) Regole di validità Sono quelle regole che prescrivono che un contratto debba avere determinati requisiti, a pena di nullità. La violazione di una regola provoca delle conseguenze. Per garantire il rispetto delle regole, sono presenti sanzioni positive o negative:
Sanzioni negative (o semplicemente “sanzioni”) sono conseguenze sfavorevoli per chi ha violato la norma Sanzioni positive sono le conseguenze favorevoli (i benefici) per l’agente, derivanti dall’osservanza di alcune regole. Esempio: leggi di incentivazione.
La coercibilità (obbligatorietà) è un carattere del sistema giuridico nel suo complesso, non di ogni singola norma o regola. La NON COERCIBILITA’ è la non obbligatorietà di una determinata norma. Esempi di regole non coattive si
riscontrano soprattutto nell’ambito dei rapporti patrimoniali e anche non patrimoniali: il dovere di fedeltà tra coniugi, sebbene non sia coercibile mediante sanzioni quale l’esecuzione forzata in forma specifica, è rilevante ai fini dell’addebito della separazione. DIRITTO POSITIVO: diritto prevalentemente scritto, posto da fonti predeterminate e riconoscibili.
Disposizione, articolo, norma. Regole e principi come norme. Il diritto non definisce la norma, la regola e il principio, ma li presuppone. Ogni enunciato che faccia parte di un testo che è fonte di diritto è una disposizione:
La disposizione interpretata esprime una norma (proposizione prescrittiva con la quale si valuta una condotta) Le circostanze previste dalla norma, come condizioni per la sua applicabilità, costituiscono la fattispecie astratta della norma. A tale fattispecie la norma connette una conseguenza (secondo lo schema: se è A, allora deve essere B). Qualora si riscontri una corrispondenza tra fattispecie concreta e fattispecie astratta, a quel caso si applicano le conseguenze previste da quella norma.
Disposizioni e norme non devono essere confuse con l’articolo. L’articolo è la partizione interna di una legge e serve unicamente ad indicare a quale enunciato contenuta in una legge – divisa in articoli – si vuole fare riferimento. Questo è di particolare importanza quando la legge è molto lunga e complessa: il codice civile, diviso in 2969 articoli, è un’unica legge. È fondamentale cogliere il rapporto tra regole e principi. Entrambi sono norme.
La regola è una norma che richiede un insieme sufficientemente specifico di comportamenti per la sua soddisfazione Il principio è una norma che impone la massima realizzazione di un valore (si pensi all’art. 32 della costituzione, “tutela della salute”). Il principio è sempre applicabile ad una nuova fattispecie, si afferma non con un’unica intensità e non con un’unica soluzione: è una norma aperta ad una molteplicità di soluzioni.
Ogni regola è riconducibile almeno ad un principio. La regola riguarda un comportamento e lo valuta: quest’ultimo, se valutato positivamente, costituisce un modo di realizzare un principio. Pertanto, possiamo dire che la regola è quindi una scelta tra le molteplici opportunità di realizzazione di un principio. Il principio connette una serie di regole tra loro, e ciascuno ha un proprio ruolo nella sua attuazione. In tal modo, il principio unifica le regole nel comune riferimento ad un valore (quello in esso affermato). Assegna alle regole una direzione, un senso. Nessuna regola, infatti, ha senso se non è riferita ad un principio. Nell’interpretazione di una norma si pone un duplice problema: si riflette se essa sia congruente con il principio e se essa sia l’unica modalità di attuazione del principio.
La norma incongruente con uno o più principi o è una norma illegittima o è una norma eccezionale. 1. Norma eccezionale: non è direttamente riconducibile ad un principio ma ne costituisce una deviazione giustificata dalla priorità di altre valutazioni in quella particolare fattispecie. Non è applicabile oltre ai fatti e ai tempi in essa considerati. La norma eccezionale è una prescrizione dettata per problemi singolari nei quali il principio corrispondente incontra l’esigenza di altri principi (abitualmente non concorrenti) che in quel caso richiedono di prevalere: in questo caso si parla di eccezionalità da concorso atipico di principi. Oppure, ci si trova dinanzi ad una norma eccezionale in fattispecie atipiche in cui il principio corrispondente deve essere attuato mediante regole altrettanto atipiche (attuazione atipica del medesimo principio). 2. Norma speciale: è dettata per materie più particolari nel caso più generale. Le regole speciali non sono necessariamente eccezionali (non è sufficiente la particolarità della materia, ma, per essere anche “eccezionali” occorre che sussista una deviazione dal principio). 3. Norma inderogabile: è la norma valutata dall’ordinamento giuridico come l’unica modalità di realizzazione di un principio. 4. Norma derogabile: in questo caso, la sua eventuale deroga non implica un’eventuale violazione di interessi o valori fondamentali. 5. Norma suppletiva: se trova applicazione solo in assenza di una disciplina prevista dai soggetti interessati. Si distingue generalmente tra norma inderogabile e norma imperativa:
La norma inderogabile pone un problema di concorso tra fonti (ad esempio, tra regola legale inderogabile e regola privata: la seconda cede di fronte alla prima) La norma imperativa, invece, pone un problema di individuazione del rimedio adeguato alla violazione di uno o più principi. La norma è imperativa perché è modalità necessaria per l’attuazione di un insieme di principi (conseguenza della violazione di essa è la nullità del contratto).
Vi sono diversi gradi di intensità dell’inderogabilità. Ad esempio l’inderogabilità in peius: la norma stabilisce un livello minimo di tutela, ma le parti restano libere di assicurare un risultato migliore.
Sistema, gerarchia, bilanciamento dei principi. Quando due o più regole sono applicabili alla medesima fattispecie vi è concorso di regole: le due regole sono concorrenti, perché l’applicazione dell’una non impedisce, e anzi presuppone l’applicazione dell’altra. Diversamente, quando l’applicazione di due o più regole concorrenti crea una contraddizione, vi è un conflitto di regole: dunque, ci si trova in presenza di una regola che proibisce un comportamento che l’altra impone. Per risolvere il problema di conflitto tra due regole esistono 3 criteri: 1. CRITERIO GERARCHICO: secondo il criterio gerarchico, tra due regole in conflitto prevale quella posta da una fonte di livello superiore. 2. CRITERIO DI SPECIALITA’: tra due regole in conflitto, prevale quella che disciplina un’ipotesi particolare rispetto alla regola che disciplina un’ipotesi più generale e più ampia. 3. CRITERIO CRONOLOGICO: tra due regole in conflitto, prevale la regola emanata per ultima.
Tra principi non vi è mai conflitto, ma concorso. Poiché i principi ammettono una pluralità di livelli di soddisfazione e non un’unica modalità di attuazione, i principi concorrenti nella valutazione della fattispecie concreta sono tutti applicati e ricevono una differente soddisfazione. Vi è applicazione di un principio ogni qual volta se ne tenga conto per valutare un comportamento. Nella loro pluralità, i principi devono essere ponderati: così si discorre di un necessario bilanciamento dei principi, per giungere a una soluzione adeguata. “Bilanciare i principi” significa individuare le rispettive relazioni di preferenza e compatibilità, al fine di determinare la norma applicabile e la soluzione preferibile. Il criterio del bilanciamento è la “ragionevolezza”. La ragionevolezza è un criterio di giudizio ricavato dal sistema ordinamentale: ragionevole o irragionevole è la regola concreta applicata, individuata dall’interpretazione sistematica a seguito del bilanciamento. Ragionevole è la scelta di chi pone una regola adeguata, proporzionata, non discriminatoria, non contrastante con la legalità costituzionale. La dottrina del bilanciamento nega che esista una gerarchia interna ai principi: nega pertanto che nel testo della Costituzione, legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico, si possa rintracciare un ordine di preferenza tra i principi fondamentali indicati nella prima parte della Costituzione. In assenza di qualsivoglia criterio di preferenza, tuttavia, sarebbe impossibile stabilire se una soluzione sia migliore di un’altra, impossibile distinguere bilanciamenti corretti e scorretti, fondati o infondati. Bilanciare senza gerarchia deresponsabilizza il giudice, il quale sarebbe libero di non pronunciarsi su priorità di valori. Quindi è errato contrapporre gerarchia dei valori e bilanciamento: questi, isolati l’uno dall’altro, sono forme di anarchia (negazione di principi). Non ha senso graduare una volta per tutte i principi attinenti alla persona; ha senso porre un criterio – una regola sul concorso dei principi – secondo il quale un bilanciamento che leda la salute a vantaggio della ricchezza altrui è scorretto, perché le situazioni della persona prevalgono sulle situazioni del patrimonio. La ragionevolezza concretizza una preferenza, è un criterio di giudizio sulla preferibilità della regola da applicare. Affinchè questa preferenza sia davvero tale, occorre che lo stesso criterio della ragionevolezza abbia un fondamento. Il fondamento della ragionevolezza, nel vigente ordinamento giuridico, è il valore della persona, tutelato da un principio corrispondente (art. 2 cost).
Principi e clausole generali. “Principio” è adoperato in molti sensi nella pratica giuridica. Alcuni definiscono “principio” ogni norma di particolare importanza, dalla quale emerge il senso complessivo di un ambito della vita e del diritto. Talvolta si chiama principio una costante di una pluralità di norme: ad esempio, il “principio di libertà delle forme”. I principi si distinguono in:
1. GENERALI 2. TECNICI 3. ASSOLUTI (o FONDAMENTALI): questi, per alcuni, andrebbero sottratti al bilanciamento, proprio per la loro accezione di “inviolabili”, “supremi” e “fondamentali”. In realtà, essi operano sempre in concorso con altri principi, come fonte di legittimazione del criterio di bilanciamento. Il principio di tutela della persona è un principio assoluto. I principi non devono essere confusi con le clausole generali. Esempi di clausole generali sono il buon costume, l’ordine pubblico, la buona fede. Le clausole generali sono frammenti di disposizioni normative caratterizzate da un particolare tipo di vaghezza, perché hanno un significato flessibile. Quindi la clausola generale è un frammento vago di una disposizione dalla quale si deve ancora ricavare un significato applicabile e, soltanto dopo aver risolto tale problema, la norma si può ritenere individuata (principio o regola che sia). DIFFERENZE TRA CLAUSOLE E PRINCIPI:
Nel principio, il parametro di valutazione è certo, ma è incerto il livello di soddisfazione in concreto del valore, il quale dipende dal bilanciamento; Nella clausola generale, invece, è incerto sia il livello di soddisfazione sia il parametro di valutazione, poiché la disposizione che contiene una clausola generale ha un significato vago e non è immediatamente individuabile il o i valori che intende perseguire.
Il livello di vaghezza può variare: alle clausole generali, caratterizzate da un massimo di vaghezza, si affiancano ad esempio gli “standard”. Si definisce “standard” un “criterio giuridico normale del comportamento sociale” da applicarsi durante il processo alla stregua del buon senso e dell’opinione socialmente diffusa circa l’apprezzabilità di una determinata condotta. Gli standard operano come principi, regole o direttive. È da criticare il criterio secondo cui gli standard siano un criterio superiore agli stessi principi costituzionali. Le clausole generali hanno 3 funzioni: 1. RECEZIONE 2. TRASFORMAZIONE 3. DELEGAZIONE LEGALITA’: è fedeltà alla legge, rispetto della norma e dell’ordinamento giuridico che la comprende; LEGITTIMITA’: è giustificazione del potere, riconoscimento che la forza della quale esso dispone è giusta e che l’obbedienza ai suoi comandi è doverosa.
B. FONTI DEL DIRITTO Fonti del diritto. Gerarchia e competenza. Ulteriori criteri ordinatori delle fonti.
Sono fonti del diritto gli atti o i fatti considerati dall’ordinamento idonei a creare, modificare o estinguere norme giuridiche. La fonte è il fatto o l’atto mediante l’interpretazione del quale si determina la norma. Ogni norma è posta da una superiore: al vertice della gerarchia vi è la Costituzione, il fondamento della quale risiede nella sua legittimità. GERARCHIA DELLE FONTI: 1. FONTI COSTITUZIONALI (Costituzione, leggi costituzionali, sentenze di accoglimento della Corte costituzionale) 2. Fonti europee (atti normativi dell’Unione Europea) 3. Fonti primarie (leggi ordinarie statali, decreti legislativi, decreti legge) 4. Fonti secondarie (regolamenti amministrativi) 5. Fonti terziarie (consuetudini) La Costituzione vigente è rigida, non può cioè essere modificata da leggi ordinarie del Parlamento: le fonti primarie, subordinate alla Costituzione, devono avere un fondamento costituzionale. Il sistema delle fonti è chiuso a livello primario: una legge ordinaria (fonte primaria) non può istituire un’altra fonte primaria. Le fonti secondarie, invece, possono avere fondamento legislativo: una legge ordinaria può istituire una fonte di rango regolamentare (fonte secondaria). La Costituzione è al centro del sistema delle fonti: assegna in modo diretto o indiretto a ciascuna altra fonte la propria funzione normativa. La gerarchia indica la forza attiva (capacità di creare, modificare o estinguere norme) e la forza passiva (capacità di resistere all’abrogazione) della fonte, collocandola in una scala gerarchica in cui il livello inferiore cede rispetto alla forza di ogni livello superiore. La competenza indica la materia o il rapporto giuridico sul quale la fonte è abilitata a porre norme giuridiche. Dal punto di vista della competenza non vi è un rapporto gerarchico, dal momento che ogni fonte sta a sé, individuata dalla propria competenza separata dalle altre: nessuna ulteriore fonte può invaderla né l’una può invadere la competenza delle altre. La combinazione tra competenza e gerarchia è imposta dal vigente sistema delle fonti. L’articolazione delle gerarchie e delle competenze non risponde solo ad una ragione di certezza formale dell’ordinamento per risolvere i conflitti tra le norme poste da diverse fonti, ma è ispirata soprattutto ad una logica sostanziale: è lo strumento attraverso il quale il sistema normativo assicura l’attuazione dei propri principi. Il vigente sistema delle fonti esige sia la gerarchia sia la competenza. Non risulta essere condivisibile la proposta, avanzata in dottrina, di rimuovere la gerarchia a favore della competenza. Ulteriori difficoltà sorgono dall’introduzione di criteri ordinatori diversi, non riconducibili alla gerarchia né alla competenza: si tratta dei cosiddetti principi di sussidiarietà e cedevolezza. La sussidiarietà può essere:
Verticale Orizzontale
Secondo il criterio della “sussidiarietà verticale”, si attribuisce il potere normativo in primo luogo al soggetto più vicino alla sede della decisione e, soltanto se esso non riesce a regolare in modo adeguato la materia cui è preposto, si consente l’intervento del livello superiore. In tal modo, nei rapporti tra Unione Europea e Stato nazionale, il potere normativo dell’Unione europea (“il soggetto più lontano”), nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, può essere esercitato soltanto quando gli obbiettivi non possono essere sufficientemente realizzati mediante l’esercizio del potere dello Stato membro (“soggetto più vicino”). La sussidiarietà orizzontale è quella che ha luogo tra privati e poteri pubblici nella realizzazione di finalità sociali. L’affidamento all’autonomia dei privati di finalità sociali (come ad esempio l’attività di associazioni che prestano assistenza agli anziani) ha rilevanti conseguenze sulla gerarchia delle fonti: la norma di fonte contrattuale, abilitata a regolamentare in forza della sussidiarietà, potrebbe prevalere su quella “pubblica” di fonte statale o locale, perfino quando quest’ultima si presenti quale norma inderogabile. Con il termine “cedevolezza” si indica il momentaneo svolgimento da parte dello Stato di competenze spettanti alle Regioni, che cessa quando le Regioni esercitano i loro poteri normativi.
Identificazione delle fonti. Caratteri delle norme giuridiche. Per identificare le forme del diritto si ricorre a criteri formali e, in mancanza, a criteri sostanziali. L’identificazione della fonte non va confusa con la sua validità:
Un atto è fonte del diritto se rispetta determinati criteri formali Un atto è valido se costituzionalmente legittimo e se rispetta la gerarchia e la competenza
Sono criteri formali la denominazione ufficiale dell’atto e il procedimento di approvazione. La denominazione ufficiale è il criterio di identificazione della fonte. Le altre fonti primarie si identificano in base alla forma del procedimento: qualunque atto del Governo è adottato con “decreto del Presidente della Repubblica”, ma il Governo ha potere di normazione sia primaria (decreti legislativi e decreti legge) sia secondaria (regolamenti). Il decreto legislativo è adottato a seguito di legge parlamentare di delega (che non può essere generica, ma per oggetti definiti, tempo limitato e con indicazione di principi e criteri direttivi). Il decreto legge, invece, è adottato dal Governo in circostanze straordinarie di necessità e di urgenza senza una precedente legge di delegazione e deve essere presentato alle Camere il giorno stesso per la sua conversione in legge. I decreti legislativi e i decreti legge devono essere adottati con nome proprio (autoqualificazione) e con l’indicazione, rispettivamente, della legge di delegazione o delle circostanze straordinarie di necessità e urgenza. Il regolamento governativo, infine, deve indicare il parere (non vincolante, ma obbligatorio) del Consiglio di Stato. Anche per i regolamenti governativi si richiede l’uso della denominazione ufficiale di “regolamento”. In mancanza di criteri formali, si ricorre a criteri sostanziali: generalità e astrattezza. La tradizione afferma che le norme sono generali e astratte:
Generali, perché il comando contenuto in una norma si rivolge non ad un singolo individuo, ma ad una collettività indeterminata; Astratte, perché la regola si applica a una classe di fattispecie in tutte le innumerevoli volte nelle quali si ripresenta lo stato di fatto previsto.
Tuttavia, questa tesi della necessaria generalità e astrattezza delle norme risulta essere insostenibile. A livello delle fonti primarie, la tesi della generalità e astrattezza è smentita dalla presenza di “leggi provvedimento” che dispongono per specifiche situazioni: la funzione legislativa è riferibile ad ogni atto che sia approvato in conformità alle norme sulla formazione delle leggi. I presunti criteri sostanziali della generalità e dell’astrattezza sono utili soltanto a livello delle fonti secondarie, al fine di distinguere atti che sono fonti del diritto da atti amministrativi che non lo sono. Ad esempio, gli atti del Governo possono essere sia fonti normative (regolamenti) sia atti amministrativi (provvedimenti).
Costituzione, Codice Civile, leggi ordinarie. Le norme espresse nella Costituzione sono al vertice nella gerarchia delle fonti. Le norme costituzionali (regole o principi) sono direttamente applicabili nei rapporti di diritto civile: non occorre che una legge ordinaria le recepisca. La legge è subordinata alla Costituzione: al mero principio di legalità si sostituisce il principio di legalità costituzionale. La Costituzione è rigida: può essere modificata soltanto con una maggioranza qualificata del Parlamento; tuttavia la “forma repubblicana” – da intendersi non soltanto come forma distinta dalla monarchia, bensì come essenza dell’ordinamento, insieme dei principi supremi dello Stato (persona, democrazia, uguaglianza) – non è modificabile da nessuna maggioranza. La Corte Costituzionale ha l’ufficio di dichiarare l’eliminazione di tutti quegli “atti aventi forza di legge” che siano in contrasto con i principi costituzionali. “Codice” è una fonte (del rango di legge ordinaria) contenente un insieme di proposizioni prescrittive raccolte in modo coerente e sistematico, al fine di disciplinare in maniera tendenzialmente completa un settore. L’esperienza della codificazione ha dato vita in Italia al codice civile del 1865 (oggi abrogato) e a quello (ancora in vigore) del 1942. Il vigente Codice Civile del ’42 pone al centro dell’attenzione l’impresa, l’attività produttiva: in generale la produzione. La Costituzione repubblicana del ’48, invece, ha una posizione diversa. In essa viene posto l’accento sul rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Fonti del diritto dell’Unione Europea. La Comunità europea (oggi definita Unione Europea), istituita con trattato internazionale fra Stati sovrani, ha il compito di promuovere mediante l’instaurazione di un mercato interno, di un’unione economica e
monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni, “uno sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale” → tutto ciò soprattutto realizzando una libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali e garantendo la libera concorrenza. Si è costituito così un diritto dell’Unione, con proprie fonti e un insieme di competenze enumerate, ristrette alla materia economica e, in minor misura, sociale. Le fonti dell’Unione europea aventi valore normativo (Trattati, principi, regolamenti e direttive) prevalgono sulle leggi ordinarie e le altre fonti primarie, purchè esse siano rispettose dei principi fondamentali della Costituzione e dei diritti inalienabili della persona umana. Il contrasto tra una normativa dell’Unione Europea e i principi fondamentali e i diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione italiana è controllato dalla Corte costituzionale, la quale in tal caso deve dichiarare l’incostituzionalità della normativa europea. Il contrasto, invece, tra una normativa nazionale e una normativa dell’Unione (conforme a Costituzione) comporta per il giudice il dovere di disapplicare la normativa nazionale e di applicare quella dell’Unione. TUE = “TRATTATO SULL’UNIONE EUROPEA” TFUE = trattato che istituisce la comunità europea, ora denominato “TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA”. La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione, secondo il quale l’Unione dispone soltanto di quei poteri che gli Stati membri hanno deciso di conferirle; a ciò si affianca l’espressa precisazione secondo la quale “qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri”. Nonostante ciò, l’Unione europea ha costantemente cercato di espandere le proprie competenze. Le principali fonti dell’Unione europea sono:
Norme del Trattato Regolamenti Direttive
I regolamenti, obbligatori in tutti i loro elementi, hanno portata generale e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri, anche nei rapporti tra cittadini. La direttiva non è immediatamente applicabile, ma richiede che ciascuno Stato la attui, emanando norme interne corrispondenti. Se lo Stato non recepisce una direttiva, è responsabile del danno che l’inerzia o il ritardo nella recezione provoca al cittadino. Da qualche tempo si è individuata una categoria di direttive con efficacia diretta: quando esse siano incondizionate, sufficientemente precise e sia scaduto il termine concesso allo Stato membro per il recepimento, la direttiva è direttamente applicabile nei rapporti tra cittadino e autorità statale (questa è la cosiddetta “efficacia verticale”); è esclusa l’applicabilità diretta delle direttive nei rapporti tra cittadini (è esclusa quindi la cosiddetta “efficacia orizzontale”).
Nell’ambito delle competenze assegnate dal TFUE, regolamenti e direttive con efficacia diretta prevalgono sulle leggi ordinarie interne. Tuttavia, essi sono pur sempre gerarchicamente subordinati alla Costituzione Italiana. Anche se le fonti dell’Unione non sono atti dello Stato, la Corte costituzionale italiana si è riservata il potere di valutare la costituzionalità di ogni norma europea. Alla Corte di giustizia dell’Unione europea spetta di curare l’uniformità di interpretazione del diritto dell’Unione.
Gerarchia e vincolatività degli atti europei. L’integrazione delle fonti nazionali e di quelle dell’Unione europea ha prodotto un sistema italo-europeo delle fonti. Tuttavia, la direttiva applicabile direttamente, in quanto scaduta, incondizionata e sufficientemente precisa, pone problemi delicati dal punto di vista della teoria delle fonti. Essa, anche quando non direttamente applicabile, vale come parametro per l’interpretazione del diritto interno. Il giudizio sulla diretta applicabilità riguarda la natura o forza normativa della direttiva. Dipende dall’interpretazione del giudice nazionale, chiamato ad individuare il diritto applicabile, se la direttiva costituisca una fonte del diritto rilevante nell’ordinamento interno e idonea a prevalere sulle fonti primarie nazionali o se costituisca un semplice criterio interpretativo. Se valuta la direttiva direttamente applicabile, il giudice disapplica la legge ordinaria statale con essa contrastante; se valuta la direttiva non direttamente applicabile, applica soltanto la legge statale, interpretandola, se possibile, in modo conforme alla direttiva. Le norme interne sono, in sostanza, gerarchicamente subordinate a fonti (le direttive) che sono tali se qualcuno interpreta il loro contenuto in un certo modo (direttive dettagliate e quindi direttamente applicabili). Hanno pertanto forza normativa (prevalente sulle fonti primarie interne) in dipendenza del loro contenuto.
Altre fonti. Leggi regionali. Consuetudine. Fanno parte delle fonti primarie le leggi regionali, competenti per le materie non espressamente riservate dalla Costituzione alla legislazione dello Stato. La Corte costituzionale ha affermato che la legislazione regionale non può riguardare materie di diritto privato dirette a salvaguardare l’unità dell’ordinamento e l’eguaglianza. La consuetudine (o uso normativo) è una fonte-fatto, manca di una dichiarazione imputabile alla volontà normativa di un soggetto determinato (fonte-atto); essa ha origine da un comportamento reiterato o costante dei consociati. Affinchè il comportamento costante (usus) costituisca una consuetudine occorre che sia tenuto nel convincimento della sua necessità (opinio iuris ac necessitatis). La consuetudine è una fonte terziaria, in quanto essa è subordinata alla legge e ai regolamenti. Nelle materie regolate da leggi o da regolamenti, la consuetudine ha efficacia se da essi richiamata: in tale ipotesi, la si definisce consuetudine secundum legem.
Nelle materie non disciplinate da fonti primarie o secondarie, la tradizione ammette la consuetudine praeter legem = “oltre la legge” = consuetudine integrativa della legge, data la mancanza di fonti scritte primarie e secondarie. È inammissibile, invece, la consuetudine contra legem, in contrasto con una specifica disposizione inderogabile o con un principio del sistema giuridico. Ogni consuetudine, anche in assenza di fonti primarie, deve essere controllata dal punto di vista della sua rispondenza ai principi fondamentali. Da tale punto di vista le consuetudini, piuttosto che praeter legem (poiché può mancare la legge, ma non la Costituzione), sono soltanto secundum legem: è fonte del diritto la consuetudine che – presenti o assenti fonti primarie e secondarie – superi il giudizio di conformità a Costituzione.
Fonti internazionali. Le norme internazionali hanno un rango assimilabile e talvolta superiore alle fonti primarie. Le fonti internazionali si dividono in:
Consuetudini internazionali Norme internazionali pattizie (Trattati internazionali)
Le consuetudini internazionali hanno un rango superiore alle fonti primarie e assimilabile a quelle costituzionali, purchè non contrastino con i diritti fondamentali garantiti nella stessa Costituzione. Alle norme internazionali pattizie l’ordinamento italiano si conforma automaticamente (senza atti normativi interni di recezione). Diverso è il meccanismo di recepimento per le norme internazionali pattizie, introdotte da trattati internazionali ratificati dall’Italia. Per la loro vigenza sul territorio è richiesto un atto-fonte di recepimento. Ciò avviene o con una legge apposita che dia l’ordine di esecuzione di un trattato o con specifici atti normativi. Nella prima ipotesi, una legge interna è priva di contenuto proprio: la legge si limita a disporre che “piena e integrale esecuzione è data al Trattato” e poi segue il testo del trattato. Nella seconda ipotesi, il recepimento ha luogo con una o più leggi, ciascuna delle quali ha il proprio contenuto, e la circostanza che esse siano state emanate per adempiere ad un obbligo internazionale resta sullo sfondo.
C. PRINCIPI Personalismo e solidarismo costituzionali. Il principio di tutela della persona è il supremo principio costituzionale, fonda legittimità dell’ordinamento e la sovranità dello Stato. La persona è inseparabile dalla solidarietà: la cura dell’altro fa parte del concetto stesso di persona. Vi è una pluralità di accezioni del solidarismo. Nella prospettiva costituzionale, la “solidarietà” esprime la cooperazione e l’eguaglianza nell’affermazione dei diritti fondamentali di tutti.
Principio di democraticità. La democrazia è procedura di decisione che richiede un libero confronto di opinioni e una deliberazione, mediante voto non coartato (non forzato), con prevalenza della maggioranza sulla minoranza, in un quadro di diritti insopprimibili della minoranza. Così intesa, la democrazia è:
Inseparabile dall’eguaglianza, perché non sarebbe altrimenti giustificabile il diritto di partecipazione di tutti alle decisioni; Inseparabile dalla persona, perché non qualunque decisione maggioritaria è legittima.
L’attuazione della democrazia nella società si manifesta mediante il rispetto reciproco, l’eguaglianza morale e giuridica.
Principio della divisione dei poteri. L’opera di regolamentazione del potere nella prevenzione dell’abuso è garantita dalla separazione delle funzioni tipiche dello Stato, ciascuna attribuita ad una specifica istituzione che rappresenta un potere separato:
Potere legislativo: attribuito al Parlamento Potere esecutivo: attribuito al Governo Potere giudiziario: attribuito alla Magistratura
L’equilibrio e il reciproco controllo tra questi poteri impediscono la prevaricazione dell’uno sull’altro.
Principio di eguaglianza. La Costituzione riconosce l’eguaglianza sia come divieto di discriminazione fondata su differenze biologiche o culturali, sia come impegno dello Stato a rimuovere le condizioni di fatto che ostacolano lo sviluppo della persona. Il principio eguaglianza è enunciato nell’articolo 3 della Costituzione: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge
Funzione legislativa e giustizia costituzionale. L’attività legislativa del Parlamento è delimitata dal principio di irretroattività e dalla riserva di legge.
L’irretroattività è regola di rango costituzionale soltanto nella materia penale: nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (“nullum crimen sine lege”). Negli altri ambiti, le leggi retroattive sono legittime purchè non contrastino con l’eguaglianza, la ragionevolezza e con il principio di legalità. La riserva di legge è la previsione nella Costituzione di materie che devono essere disciplinate soltanto con la legge. È vietato al Parlamento rinunziare alla funzione legislativa e rimettere la disciplina a fonti secondarie, quali i regolamenti del potere esecutivo.
Le riserve si distinguono in assolute e relative. La riserva assoluta impone al legislatore di determinare fin nei dettagli la materia riservata. La riserva relativa impone al legislatore di determinare la disciplina di principio, lasciando a fonti secondarie quella di dettaglio. Talvolta la Costituzione indica anche quali debbano essere i contenuti di valore di tale legge: è l’ipotesi di riserva rinforzata. La riserva di legge ha una pluralità di funzioni: garantisce i diritti fondamentali delle minoranze e il principio di legalità. Le materie coperte da riserva di legge possono essere disciplinate, oltre che dalla legge nazionale, anche da fonti europee. La Corte costituzionale non è titolare della funzione legislativa e non può sostituirsi al Parlamento, ma ha un ruolo di garanzia: senza alterare l’indirizzo politico che emerge in Parlamento, essa controlla che la funzione legislativa si svolga in senso attuativo dei principi costituzionali. Le sentenze della Corte costituzionale sono di inammissibilità, di infondatezza e di fondatezza.
Con le sentenze di inammissibilità si dichiara semplicemente l’inammissibilità della questione e non si accerta se vi sia o no incostituzionalità, perché manca un requisito affinchè il processo (dinanzi alla Corte) abbia luogo validamente. La Corte dichiara inammissibile una questione o quando reputa che la scelta legislativa effettuata dal legislatore ordinario non sia sottoponibile al controllo della Corte o quando valuta che il contrasto tra la disposizione legislativa e la Costituzione non sia assoluto e insanabile, ma superabile tramite interpretazione. L’infondatezza riguarda, invece, il merito della vicenda; ove la Corte non condivida la censura di legittimità costituzionale, dichiara infondata la questione rigettandola. Con le sentenze di rigetto la Corte, quindi, accerta l’infondatezza della questione di costituzionalità e la disposizione di legge impugnata resta in vigore. Con le sentenze di accoglimento (totale o parziale) la Corte invalida, in tutto o in parte, la disposizione impugnata, la quale cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Talvolta la decisione è interpretativa di rigetto o di accoglimento:
Sentenza interpretativa di rigetto: si dichiara che la norma A, quale risulta dall’interpretazione che la Corte effettua del testo X, è costituzionalmente legittima. Questa sentenza non ha forza legale vincolante. Sentenza interpretativa di accoglimento: viceversa, si dichiara che la norma B, tratta dallo stesso testo X, è incostituzionale. Questa sentenza, al contrario di quella interpretativa di rigetto, è vincolante per tutti.
Ulteriore specie è la sentenza additiva: la Corte dichiara una legge incostituzionale per ciò che non dice, non per ciò che dice. La Corte non può non porsi il problema degli effetti di una dichiarazione di incostituzionalità. A tal proposito, sono svariati i modelli di intervento della Corte:
a) Sentenze “monito”: la questione, pur fondata in astratto, è decisa con una sentenza di rigetto. Si auspica un intervento del Parlamento perché si teme che, modificando una situazione complessa, si determini un “vuoto legislativo”. b) Sentenze di “incostituzionalità sopravvenuta” o a “incostituzionalità differita”: con le prime si impedisce che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità siano retroattivi, per ridurre il costo della sentenza; con le seconde si assegna un termine al legislatore per provvedere, ritardando gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità. c) Sentenze attuative dell’eguaglianza “verso il basso”, nelle quali, piuttosto che estendere un beneficio a categorie non comprese da una legge, si preferisce toglierlo a chi lo ha attualmente, con un risultato opposto a quello delle sentenze additive di prestazione. d) Sentenze additive di principio, nelle quali, invece di imporre allo Stato una prestazione a favore di una determinata categoria (sentenze additive di prestazione), la Corte dichiara incostituzionale una legge vigente e indica non la regola ma il principio.