Primati e filosofi. Evoluzione e moralità
 8811740819, 9788811740810 [PDF]

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Zitiervorschau

Dello stesso autore in edizione Garzanti: Naturalmente buoni La scimmia e l'arte del sushi La scimmia che siamo

FRANS DE WAAL

PRIMATI E FILOSOFI Evoluzione e moralità

Contributi di

ROBERT WRIGHT CHRISTJNE M. KORSGAARD PHILIP KITCHER PETER SINGER Introduzione e cura di

JOSIAHOBER STEPHEN MACEDO

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Garzanti

Prima edizione: giugno 2008

Traduzione dall'inglese di Fiorenza Conte Titolo originale dell'opera:

' Primates and Philosophers © 2006 by Princeton University Press Ali rights reserved. No part of this book may be reproduced or trasmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording or by any infomiation storage and retrieval system, without permission in writing from thc Publisher.

ISBN 978-88-11-74081-0

© 2008, Garzanti Libri s.p.a., Milano Printed in Italy www.gar.i:antilibri.it

PRIMATI E FILOSOFI

Ringraziamenti

Vorrei ringraziare Philip Kitcher, Christine M. Korsgaard, Richard Wrangham che sono intervenuti nelle Tanner Lectures da me tenute nel novembre 2003 all'università di Princeton. Voglio ringraziare anche Peter Singer per il suo saggio che appare in questo libro, e Stephen Macedo e Josiah O ber per la loro introduzione. Sono grato alla Fondazione Tanner che sovvenziona la serie delle Tanner Lectures; alla Princeton University Presse in special modo a Sam Elworthy e Jodi Beder, direttore e redattrice, e allo staff del Centro per i valori umani che ha organizzato le conferenze e ha contribuito alla nascita di questo libro; ringrazio il direttore, Stephen Macedo; Will Gallaher, ex direttore associato; e Jan Logan, il vicedirettore. E infine, sono grato allo Yerkes National Primate Research Center dell'università di Emory ad Atlanta, in Georgia, e agli altri centri e zoo dove ho fatto ricerca, tanto come a tutti i miei molti collaboratori e studenti per avermi aiutato a raccogliere i dati qui presentati. Frans de Waal Marzo 2006

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Introduzione di Josi ah O ber e Stephen Macedo

Nel ciclo delle sue Tanner Lectures dedicate ai valori umani e diventate il saggio cardine di questo libro, Frans de Waal fa valere il suo decennale lavoro sui primati e la sua abitudine alla riflessione profonda sul senso dell' evoluzione, per affrontare una domanda fondamentale che riguarda la moralità umana. Tre insigni filosofi e un brillante studioso di psicologia evoluzionistica intervengono successivamente sul modo in cui la domanda di de Waal viene formulata e sulla sua risposta. Nei loro saggi elogiano il tentativo di de Waal e, allo stesso tempo, sono critici rispetto ad alcune delle sue conclusioni. A sua volta de Waal risponde alle critiche in un saggio finale. Anche se tra i cinque studiosi il disaccordo è rilevante, sia per quanto riguarda la domanda sia sul modo di rispondervi, le cose che hanno in comune non sono poche. In primo luogo, tutti coloro che hanno contribuito a questo libro accettano l'impostazione scientifica standard secondo la quale l'evoluzione biologica si basa su una selezione naturale del tutto casuale. Nessuno di loro lascia intendere che ci siano ragioni per supporre che gli esseri umani siano differenti nella loro essenza metafisica dagli altri animali o, perlomeno, nessuno di loro costruisce le proprie argomentazioni a partire dall' assunto che gli esseri umani siano gli unici a essere dotati di un'anima trascendente. Una seconda premessa importante condivisa da de Waal e dai suoi quattro interlocutori è che la bontà morale è 7

qualcosa di reale, sulla quale si possono fare affermazioni che rispondono a criteri di verità. La bontà richiede, come minimo, di tenere conto degli altri in maniera adeguata. La cattiveria, analogamente, comprende in sé quella sorta di egoismo che ci porta a trattare gli altri in maniera non adeguata, trascurando i loro interessi o trattandoli in modo puramente strumentale. Queste due premesse basilari, quella relativa alla scienza dell'evoluzione e quella sulla realtà della morale, stabiliscono i confini del dibattito sulle origini della bontà così come viene posto in questo libro. Ciò implica che i credenti in una fede religiosa convinti che unicamente gli esseri umani siano stati dotati, per grazia divina, di speciali attributi (compreso il senso morale), non trovano spazio in un tipo di discussione come quella che viene qui presentata. Né lo t~ova­ no gli studiosi di scienze sociali che si affidano a una versione della teoria dell'agire razionale che vede l'essenza della natura umana come un'irriducibile tendenza a optare per l'egoismo (l'opportunismo, l'inganno) anziché per la cooperazione spontanea. Infine non vengono presi in considerazione neppure i relativisti morali, convinti che un'azione possa essere giudicata giusta o sbagliata solo in un senso limitato e sulla base di fattori contingenti e contestuali. Quindi ciò che presentiamo in questo libro -è un dibattito tra cinque studiosi che sono d'accordo su alcune questioni di base relative alla scienza e alla moralità. Si tratta di uno scambio serio e vivace tra un gruppo di pensatori che confidano profondamente nel valore e nella validità della scienza e nel valore e nella realtà di un atteggiamento morale che tenga conto dell'altro. La domanda che de Waal e i suoi interlocutori cercano di porsi è questa: dato che ci sono forti ragioni scientifiche per pensare che l'egoismo (almerio a livello dei geni) sia un meccanismo primario della selezione naturale, com'è che noi esseri umani siamo così fortemente legati a 8

un valore come la bontà? O, per dirla in un modo un po' diverso, perché non pensiamo che essere cattivi sia una buona cosa? Per coloro che ritengono che la moralità sia una cosa reale, o giustificabile soltanto facendo ricorso al presupposto teologico che vede nella peculiare inclinazione umana alla bontà il frutto della grazia divina, questo è un problema complesso e di notevole importanza. L'obiettivo di de Waal è controbattere a tutte le risposte date alla sua domanda «da dove viene la moralità?» che si possono ascrivere a quella che lui definisce la «teoria della patina», secondo cui la moralità non sarebbe altro che una leggera patina a copertura di un'essenza amorale o immorale. De Waal sostiene che la teoria della patina è (o almeno è stata fino a tempi recenti) ampiamente diffusa. Il suo bersaglio principale è Thomas Huxley, lo scienziato soprannominato «il mastino di Darwin» per la sua strenua difesa della teoria darwiniana dell'evoluzione contro i suoi detrattori alla fine del XIX secolo. De Waal afferma che Huxley ha tradito profondamente il proprio impegno di darwiniano perorando una visione della moralità come «cura di un giardino» - una battaglia costante contro le erbacce rigogliose dell'immoralità che minacciano incessantemente di infestare la psiche umana. Gli altri bersagli di de Waal sono alcuni teorici del contratto sociale (in particolar modo Thomas Hobbes) che muovono da un'idea dell'uomo come essere fondamentalmente asociale o addirittura antisociale, e alcuni biologi dell'evoluzione che, a suo avviso, tendono a generalizzare in maniera eccessiva il ruolo ormai accertato dell' egoismo nel processo di selezione naturale. Nessuno dei cinque autori dei saggi raccolti in questo volume si considera un «teorico della patina» nel senso di de Waal. Eppure, come dimostrano i loro saggi, la teoria della patina può essere intesa in vari modi. Sarebbe quindi utile dare una definizione di quello che potrebbe esse9

re una sorta di «ideai-tipo» della teoria della patina, anche se si rischia di creare un falso obiettivo. L'ideai-tipo di teoria della patina presuppone che gli esseri umani siano per natura brutali e quindi cattivi o, più esattamente, egoisti e di conseguenza è prevedibile che si comportino in modo malvagio, ovvero che trattino gli altri in maniera non adeguata. Eppure è innegabile che almeno qualche volta gli · uomini si comportino bene e in maniera adeguata l'uno con l'altro, proprio come se fossero buoni. Visto che secondo questo ragionamento gli esseri umani sono in fondo cattivi, il loro comportamento positivo è da spiegarsi come effetto di una patina di moralità che rivestirebbe in modo misterioso la foro naturale essenza malvagia. L' obiezione principale che de Waal muove a questo proposito è che la teoria della patina non è in grado di identificare la fonte di questa patina di bontà. La patina è qualcosa che, a quanto pare, esiste al di fuori della natura e quindi va respinta come un mito da chiunque sia impegnato a dare una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali. Se è vero che la teoria della bontà morale come patina è basata su un mito, il fenomeno della bontà umana deve essere spiegato in qualche altro modo. Come prima cosa de Waal ribalta la premessa iniziale: gli esseri umani, afferma, sono buoni per natura. Insieme a molte altre cose, la nostra «natura buona» l'abbiamo ereditata dai nostri antenati non umani attraverso il normale processo darwiniano di selezione naturale. Al fine di verificare questa premessa, de Waal ci propone di osservare da vicino insieme a lui il comportamento dei nostri parenti non umani più stretti, innanzitutto quello degli scimpanzé, poi quello degli altri primati nostri parenti più alla lontana, e da ultimo quello degli animali sociali che non rientrano tra i primati. Se infatti i nostri parenti più prossimi si comportano come se fossero buoni, e se anche noi esseri umani ci comportiamo come se fossimo buoni, il princi10

pio metodologico della parsimonia ci obbliga a presupporre che la bontà sia un fatto reale, che la spinta alla bontà sia naturale e che il senso morale dell'uomo e dei suoi parenti abbia un'origine comune. Poiché nel comportamento degli uomini la bontà trova maggior sviluppo di quanto non accada in quello dei non umani, la moralità più elementare di questi ultimi, secondo de Waal, deve essere considerata a tutti gli effetti come il/andamento della più complessa moralità umana. Le accurate osservazioni sul comportamento dei parenti del genere umano costituiscono la prova empirica su cui si basa la teoria «anti-patina» di de Waal, che mette in relazione la moralità umana e quella non umana. De Waal ha dedicato la sua lunga e brillantissima carriera all'osservazione scrupolosa del comportamento dei primati, e ha visto eriscontrato innumerevoli casi di bontà, sviluppando nel corso degli anni enorme rispetto e affetto per l'oggetto dei suoi studi. Una parte del piacere che viene dalla lettura dei testi di de Waal sui primati, piacere che si riflette anche in ognuno degli interventi dei suoi interlocutori, è data dalla gioia evidente dei suoi anni di lavoro con gli scimpanzé, i bonobo e le scimmie cappuccine, e dal suo considerarli come collaboratori in un compito tanto difficile. De Waal arriva alla conclusione che la capacità umana di comportarsi bene, almeno qualche volta, anziché sempre male, dal punto di vista evolutivo ha origine in emozioni che condividiamo con altri animali - in reazioni involontarie (non scelte e di tipo prerazionale) ed evidenti sul piano fisiologico (quindi osservabili) quando ci troviamo di fronte alle circostanze in cui si trovano gli altri. Una forma di risposta emozionale di fondamentale importanza è l'empatia. De Waal spiega .che la reazione empatica consiste in primo luogo in un fenomeno di «contagio emozionale». La creatura A si identifica direttamente con le circostanze in cui si trova la creatura B, arrivando, per così dire, a «per11

cepire il suo dolore». A questo livello l'empatia è ancora, in un certo senso, egoistica poiché A cerca di confortare B perché A ha «contratto» la sofferenza di B e cerca a sua volta conforto per sé stesso. Però, a un livello superiore l'empatia può produrre una forma di compassione, vale a dire il riconoscimento che B ha delle mancanze e dei bisogni specifici relativi alla situazione, che sono diversi da quelli di A. De Waal porta come esempio la storia eloquente e simpatica di una scimpanzé che cerca di aiutare a volare un uccellino ferito. Poiché volare è ovviamente un'azione che la scimpanzé non potrebbe mai compiere, la scimmia antropomorfa cerca di dare una risposta alle particolari necessità dell'uccello e al suo specifico modo di essere nel mondo. Il contagio emozionale si osserva comunemente in molte specie, mentre la compassione si registra solo tra alcune delle grandi scimmie antropomorfe. Le risposte emozionali di cui abbiamo notizia e che conducono a un comportamento positivo comprendono forme di altruismo reciproco e forse perfino il senso di equità, anche se quest'ultimo rimane in dubbio (come fa notare Philip Kitcher). Anche in questo caso le forme più complesse e sofisticate di questi comportamenti emozionalmente motivati (come afferma de Waal) vengono registrate solamente tra le grandi scimmie e in poche altre specie - gli elefanti, i delfini e le scimmie cappuccine. Le risposte emotive, afferma de Waal, sono gli «elementi costitutivi» della moralità umana. Il comportamento morale umano è molto più elaborato di quello di qualsiasi animale non umano ma, secondo l'ottica di de Waal, sta in un rapporto di continuità con il comportamento non umano, proprio come negli scimpanzé la compassione è più elaborata che negli altri animali, ma sta in un rapporto di continuità col contagio emozionale di altri animali. Una volta stabilita questa continuità di una natura 12

buona non c'è bisogno di immaginare che la moralità vada misteriosamente ad aggiungersi a un'essenza immorale. De Waal ci invita a immaginare noi stessi non come dei compatti nani da giardino di terracotta rivestiti da uno strato leggero di vernice a colori sgargianti, ma come.delle «matrioske», in cui i nostri sé morali esteriori sono ontologicamente in continuità con una serie di «sé preumani» annidati nella nostra interiorità. Così, fino alla minuscola figurina che sta proprio al centro, questi sé sono «naturalmente buoni» in modo omogeneo. Come dimostra l'ardore dei quattro interventi di risposta, la concezione delle origini e della natura della moralità umana di de Waal risulta particolarmente provocatoria. Tutti i suoi interlocutori sono d'accordo con lui che l'ideai-tipo della teoria della patina è, a quanto sembra, ben poco allettante, anche se hanno opinioni diverse su ciò in cui consiste esattamente la teoria della patina o sulla possibilità che una persona ragionevole possa sottoscriverla, almeno nella forma drastica in cui è stata delineata sopra. In definitiva però ognuno degli interlocutori di de Waal ha sviluppato una teoria che potrebbe essere descritta come una lontana parente di quella della patina. A questo proposito Robert Wright è particolarmente esplicito e definisce la propria posizione «teoria naturalistica della patina». A dire il vero, come fa notare Peter Singer (pp. 169-170), lo stesso de Waal a un certo punto parla di quanto lo sforzo umano di estendere il «cerchio della moralità» a chi ne è fuori sia «fragile» - termine che indurrebbe a figurarci almeno alcune delle forme estese di moralità umana come una sorta di patina. La preoccupazione di de Waal di quanto il «cerchio della moralità» possa essere ampliato senza diventare di una fragilità insostenibile, mette in luce la questione che porta i suoi commentatori a tracciare una netta linea di demarcazione tra la moralità umana e il comportamento 13

animale. Loro ferma convinzione è che una moralità «autentica» (Kitcher) deve poter anche essere resa universale. Questa convinzione esclude gli animali dall'ambito degli esseri autenticamente morali e li colloca, secondo le parole della Korsgaard, «al di là del giudizio morale», perché gli animali non umani non universalizzano i loro buoni comportamenti. La tendenza a dare la preferenza ai membri del proprio gruppo è una costante degli animali sociali non umani. A dire il vero, la medesima tendenza alla parzialità può essere endogena negli esseri uinani, come ritiene de Waal, e questa è forse una minaccia endemica per la moralità umana, come sostiene Robert Wright. Ma, come Kitcher, Korsgaard e Singer fanno notare, l'universalizzazione dell'insieme degli esseri (tutte le persone o, secondo Singer, tutte le creature spinte da interessi) verso i quali abbiamo dei doveri morali è considerata dagli esseri umani concettualmente possibile (e da alcuni filosofi concettualmente essenziale). E almeno qualche volta messa da loro in pratica. Ogni partecipante alla discussione pone, anche se con registri filosofici del tutto diversi, una domanda analoga: se gli animali non umani anche più evoluti limitano i loro buoni comportamenti agli interni al gruppo (parenti o membri della comunità), si può veramente definire il loro comportamento come morale? E se la risposta è no (conclusione a cui tutti arrivano), allora dobbiamo presupporre che gli esseri umani siano dotati di una qualche facoltà che è discontinua rispetto alle facoltà naturali di tutte le specie non umane. De Waal ammette il problema, facendo notare (come indica ancora Singer, p. 169) che «solo quando noi esprimiamo questi giudizi generali e imparziali possiamo davvero cominciare a parlare di approyazione e disapprovazione morali». Tra esseri umani e animali il punto più evidente di discontinuità nelle capacità si manifesta nell'ambito della 14

parola, e quindi nell'impiego consapevole della ragione che noi associamo strettamente all'uso esclusivamente umano del linguaggio. La parola, l'uso del linguaggio e la ragione sono evidentemente collegati alle facoltà cognitive. Dunque cosa si può dire delle facoltà cognitive non umane? Nessuno dei partecipanti a questa raccolta di saggi pensa che una qualche specie non umana sia pari agli esseri umani a livello di facoltà cognitive, ma rimane la questione se gli uomini siano gli unici capaci di ragionamenti morali. Qui si arriva al punto della discussione in cui dare una definizione di antropomorfismo diventa una questione vitale; è in particolare Wright a porre l'attenzione sull'importanza del problema dell'antropomorfismo. De Waal è un fervido e attento sostenitore di una versione critica e parsimoniosa dell'antropomorfismo scientifico - che distingue nettamente dall'antropomorfismo sentimentale improvvisato di molti testi a carattere divulgativo sugli animali, per quanto piacevoli possano essere. Nessuno dei suoi quattro interlocutori può essere definito compiutamente un sostenitore dell' «antropodiniego», termine coniato da de Waal per indicare la posizione di coloro che, forse per una forma di awersione di tipo estetico nei confronti della natura, si rifiutano di riconoscere la continuità presente tra gli esseri umani e gli altri animali. Gran parte del dibattito tra filosofi e studiosi del comportamento animale sulla peculiarità umana si è concentrata sulla questione se un animale non umano sia in grado di sviluppare qualcosa che assomigli a una vera e propria teoria della mente, cioè se la capacità di immaginare il contenuto della mente di un altro essere come diverso dal proprio, sia solamente umana oppure no. Su questa questione ci sono dei dati sperimentali che possono andare a sostegno di entrambi gli schieramenti. Agli scettici de Waal risponde facendo notare che singoli scimpanzé riescono a riconoscersi allo specchio (dimo15

strando così quella consapevòlezza di sé ritenuta spesso condizione preliminare per una teoria della mente). Egli attira con arguzia la nostra attenzione su quel rigido antropocentrismo che richiede alle scimmie antropomorfe di saper formulare una teoria della mente umana. Ma il problema di una teoria della mente non umana rimane irrisolto; senza dubbio in questo campo c'è bisogno di una ricerca più approfondita. Kitcher e Korsgaard distinguono nettamente il comportamento animale basato su spinte emozionali dalla moralità umana, che essi sostengono debba fondarsi su un'autoconsapevolezza cognitiva della correttezza di una propria linea stabilita di azione. Kitcher pone una discriminante invalicabile facendo dello «spettatorismo>> di Hume e di Smith una sorta di consapevolezza di sé che richiede la facoltà di parola. Korsgaard fa appello alla concezione kantiana di un autonomo dominio di sé come fondamento necessario di un'autentica moralità. Kitcher e Korsgaard descrivono gli animali non umani come «capricciosi», awalendosi di un concetto elaborato dal filosofo morale Harry Frankfurt in funzione di altri contesti. Ai capricciosi di Frankfurt manca un meccanismo attraverso il quale discriminare in modo coerente tra le varie motivazioni che di volta in volta potrebbero spingerli all'azione. E, di conseguenza, non si può dire che siano guidati da un ragionamento consapevole riguardo alla correttezza delle azioni da loro progettate. Sorge però a questo punto la domanda se Kitcher e Korsgaard non collochino la barra della moralità a un livello che la maggior parte delle azioni umane non riesce a raggiungere. Ogni filosofo propone una versione consapevolmente normativa della moralità relativamente a come le persone dovrebbero agire, piuttosto che una versione descrittiva di come la maggioranza di noi in effetti il più delle volte agisce. Se la gran parte degli esseri umani, nel loro com16

portamento effettivo, agisce in modo capriccioso, ciò rende meno pesante l'affermazione che anche tutti gli animali non umani agiscano in modo capriccioso. La stessa questione sorge nella trattazione che Singer fa di quelli che i filosofi morali chiamano i «dilemmi del carrello». La preoccupazione consequenzialista di Singer nei confronti del calcolo degli interessi lo porta ad affermare che la ragione morale esige, in particolari circostanze, che si debba spingere un altro essere umano davanti a un carrello sfuggito al controllo per salvare altre cinque persone (la premessa è che il proprio corpo è troppo leggero per fermare il carrello, mentre invece l'individuo spinto ha la mole sufficiente per bloccarlo). Singer si rifà qui agli studi compiuti mediante la scannerizzazione del cervello di persone che rispondono alla domanda su come ci si dovrebbe comportare nella situazione in cui si tratta di «ucciderne uno per salvarne cinque». Le persone che sostengono che in quella situazione non si debba uccidere, si formano subito un'opinione e la loro attività cerebrale al momento della decisione è concentrata in aree legate alla sfera delle emozioni. Coloro che invece ritengono che si debba uccidere, manifestano un aumento dell'attività in parti del cervello associabili alle facoltà cognitive razionali. Singer afferma di conseguenza che ciò che considera come la risposta corretta sul piano morale, è la risposta razionale anche sul piano cognitivo. Eppure Singer ammette che coloro che danno la risposta,:corretta rappresentano una minoranza: la maggior parte delle persone non dice che sceglierebbe di agire in prima persona per uccidere un individuo salvandone altri cinque. Singer non nomina nessun caso di persone che abbiano realmente spinto qualcun altro davanti a dei carrelli. Il punto è che le testimonianze, di tipo quantitativo e aneddotico, portate da de Waal sulla risposta emozionale dei primati, si basano interamente sull'osservazione del 17

comportamento effettivo. De Waal deve basare la sua interpretazione della moralità dei primati sul modo in cui essi effettivamente si comportano, perché non può aver accesso alle loro narrazioni su come le cose «dovrebbero essere» secondo ciò che la ragione morale potrebbe in modo del tutto astratto richiedergli, o su come pensano dovrebbero agire in una situazione ipotetica. C'è il rischio di finire per confrontare cose tra loro incommensurabili: paragonare il comportamento dei primati (basato sull'osservazione quantitativa e aneddotica) con gli ideali normativi umani. Ovviamente i critici di de Waal possono rispondere che la vera questione è proprio la differenza tra i due termini di paragone: gli animali non umani non possiedono narrazioni su come le cose dovrebbero essere, o, per meglio dire, nessun tipo di narrazione perché sono privi di capacità di parola, di linguaggio e di ragione. Gli animali non umani non possono enunciare ideali normativi, né fra di loro, né a noi: non sarà proprio questo che ci obbliga a tracciare una netta distinzione tra quei tipi di comportamento «morale» emozionalmente motivati che de Waal e altri hanno osservato tra i primati, e le «autentiche» azioni morali fondate sulla razionalità proprie degli esseri umani? Se chi ha curato questo volume· sapesse la risposta giusta a questa domanda, saprebbe da quale parola della frase precedente - «morale» o «autentiche» - dovrebbe cassare quelle virgolette precauzionali. Molta della comprensione di noi stessi e delle altre specie con cui condividiamo la terra, risiede in quella scelta. Uno degli obiettivi di questo libro è di incoraggiare ogni lettore a riflettere attentamente sul modo in cui sceglierebbe di adoperare la matita immaginaria del redattore - al fine di sollecitare in ognuno l'interesse per questo e altri dibattiti di cui sono protagonisti un genere di studiosi che riflettono a fondo e con passione sul comportamento dei primati e un genere di studiosi che riflet18

tono a fondo e con altrettanta passione sulla moralità umana. L'esistenza di questo libro è la prova che questi due tipi di studiosi in parte finiscono per coincidere. Uno dei suoi obiettivi è aumentare la portata di questa convergenza e promuovere un dibattito serio tra tutti coloro che provano interesse per la bontà e per le sue origini, allo stesso modo negli animali umani e non umani.

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PRIMA PARTE

MORALMENTE EVOLUTI Istinti sociali dei primati, moralità umana e alterne fortune della «teoria della patina»

Frans de Waal

Noi approviamo e disapproviamo perché non possiamo fare altrimenti. Possiamo fare a meno di provare dolore quando il fuoco ci brucia? Possiamo fare a meno di provare compassione per i nostri amici? Edward Westermarck, 1908 Perché la nostra cattiveria dovrebbe essere il retaggio del nostro passato scimmiesco e la nostra bontà qualcosa di unicamente umano? Perché non cercare anche nei nostri tratti «nobili» una continuità con gli altri animali? StephenJay Gould, 1980

Homo homini lupus, «l'uomo è un lupo per l'uomo», è un antico proverbio latino reso celebre da Thomas Hobbes. Nonostante il principio di fondo che lo ispira informi ampi settori del diritto, dell'economia e della scienza della politica, questo proverbio contiene due gravi errori. Innanzitutto, non rende giustizia ai canidi, che sono fra gli animali più gregari e cooperativi del pianeta (Schleidt e Shalter 2003 ). Ma, cosa ancor peggiore, il detto nega l'intrinseca natura sociale della nostra specie. La teoria del contratto sociale, e con essa la civiltà occidentale, sembrano impregnate fino alla saturazione dal presupposto che noi siamo degli esseri asociali, addirittura delle creature malvagie e non lo zoon politikon che Aristotele vedeva in noi. Hobbes rifiutava esplicitamente l'idea aristotelica, sostenendo che alla loro apparizione i nostri progenitori erano autonomi e bellicosi, e giunsero a stabilire forme di vita comunitaria solo quando il prezzo della lotta era diventato insostenibile. Secondo Hobbes noi non siamo pervenuti alla vita sociale in modo naturale, ma abbiamo intrapreso questo passo con riluttanza e «solo per un patto, che è artificiale» (Hobbes 1991 [1651], p. 120). In tempi più recenti, Rawls (1972) ha ri23

proposto la stessa idea in una versione meno aspra, aggiungendo che il passaggio alla socialità compiuto dal genere umano prende le mosse da una riconosciuta condizione di parità, vale a dire da una prospettiva di cooperazione tra eguali reciprocamente vantaggiosa. Queste idee su come abbia avuto origine la società ordinata sono tuttora in auge, anche se il presupposto che le sostiene, quello di una decisione razionale presa da creature intrinsecamente asociali, è indifendibile alla luce di ciò che sappiamo sull'evoluzione della nostra specie. Hobbes e Rawls ci danno l'immagine illusoria che la società umana sia il frutto di un accordo volontario fatto in base a regole autonomamente scelte e accettate da soggetti liberi e pari tra loro. Eppure non c'è mai stato un momento in cui siamo diventati sociali: in quanto discendenti di antenati estremamente sociali - una lunga progenie di scimmie e grandi scimmie - viviamo da sempre in gruppo. Individui liberi e pari tra loro non sono mai esistiti. Gli esseri umani hanno mosso i loro primi passi - sempre che si possa individuare un primo passo - già da individui interdipendenti, reciprocamente vincolati e diseguali tra loro. Siamo il risultato di una lunga genealogia di animali gerarchici per i quali la vita di gruppo non è un'opzione, ma una strategia di soprawivenza. Qualsiasi zoologo classificherebbe la nostra specie come obbligatoriamente gregaria. Poter contare su dei compagni procura enormi vantaggi nella ricerca di cibo e nella difesa dai predatori (Wrangham 1980; van Schaik 1983). Poiché gli individui predisposti alla vita di gruppo lasciano una prole più numerosa di quelli meno inclini alla vita sociale (per esempio Silk e altri 2003 ), la socialità si è radicata sempre più profondamente nella biologia e nella psicologia dei primati. Se mai decisione fu presa di costituire delle società, piuttosto che a noi il merito andrebbe attribuito a Madre Natura. Questo non vuol dire liquidare il valore euristico della 24

«situazione originaria» di Rawls, proprio perché è un modo per farci riflettere su qual è il tipo di società in cui ci piacerebbe vivere. La sua idea di situazione originaria si riferisce a «una situazione puramente ipotetica caratterizzata in modo tale da portare a determinate concezioni della giustizia» (Rawls 1972, p. 12). Ma anche se non prendiamo la situazione originaria alla lettera e la teniamo presente solo per il gusto di discutere, essa ci fa pur sempre deviare dal dibattito più pertinente che dovremmo approfondire, vale a dire come siamo realmente giunti a essere ciò che siamo oggi. Quali parti della natura umana ci hanno condotto lungo questo cammino e in che modo l'evoluzione ha forgiato tali parti? Queste domande, rivolte a un passato reale anziché ipotetico, sono destinate a portarci più vicino alla verità, ovvero al fatto che siamo esseri sociali fin nell'essenza. A titolo di illustrazione della natura profondamente sociale della nostra specie basti pensare che, subito dopo la pena di morte, la punizione massima che possiamo concepire è la cella di isolamento. Funziona così bene, evidentemente, proprio perché non siamo venuti al mondo per vivere da soli. I nostri corpi e le nostre menti non sono stati progettati per vivere una vita da cui gli altri siano assenti. Senza il sostegno della· socialità cadiamo in una depressione disperata e la nostra salute peggiora. In un esperimento fatto di recente, dei volontari sani intenzionalmente esposti al virus del raffreddore e dell'influenza si ammalavano con maggior facilità se attorno a loro avevano meno amici e familiari (Cohen e altri 1997). Se le donne colgono naturalmente l'importanza di un sistema di relazioni - forse perché per centottanta milioni di anni le femmine dei mammiferi con tendenze all'accudimento si sono riprodotte di più rispetto a quelle che ne erano carenti - la cosa riguarda ugualmente anche gli uomini. Nella società moderna non c'è modo migliore per gli uomini di allungare la prospettiva di vita che quella di ammogliarsi e di rimanere

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sposati: la possibilità di vivere oltre i sessantacinque anni aumenta dal 65 al 90 per cento (Taylor 2002). La nostra indole sociale è talmente evidente che non dovrebbe esserci bisogno di insistere su questo punto, se la sua assenza non balzasse agli occhi nelle narrazioni che riguardano le nostre origini in discipline come il diritto, l'economia e la scienza della politica. In Occidente la tendenza a leggere le emozioni come qualcosa di labile, e i legami affettivi di tipo sociale come qualcosa di confuso, ha fatto sì che i teorici si siano volti alle facoltà cognitive come criterio-guida privilegiato del comportamento umano. È il trionfo della razionalità. Tutto questo nonostante la ricerca psicologica affermi il primato dell'affettività: vale a dire che il comportamento umano deriva soprattutto da giudizi immediati e automatici di tipo emozionale e solo secondariamente da più lenti processi coscienti (per esempio Zajonc 1980, 1984; Barghe Chartrand 1999). Il risalto dato all'autonomia individuale e alla razionalità, a cui corrisponde una disattenzione nei confronti delle emozioni e dei legami affettivi, purtroppo non è circoscrivibile agli studi umanistici e alle scienze sociali. Anche all'interno della biologia dell'evoluzione alcuni hanno sposato l'idea che noi siamo una specie che si è inventata da sola. Parallelamente ha imperversato un dibattito che mette in competizione la ragione con le emozioni e che ha come oggetto le origini della moralità, marchio distintivo della società umana. Una scuola di pensiero vede la moralità come un'innovazione culturale raggiunta solo dalla nostra specie e non riconosce le tendenze morali come parte integrante della natura umana. I nostri progenitori, si sostiene, sarebbero diventati morali per scelta. L'altra scuola, invece, concepisce la moralità come conseguenza diretta degli istinti sociali che abbiamo in comune con altri animali e, nella sua visione, la moralità non è una nostra peculiarità, né l'effetto di una decisione consapevole

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presa in un momento specifico della nostra storia, ma il risultato dell'evoluzione della nostra socialità. Il primo di questi punti di vista presuppone che in fondo non siamo veramente morali e considera la moralità come un rivestimento culturale, una patina sottile che cela al di sotto una natura per altri versi egoista e brutale. Fino a poco tempo fa, era questo l'approccio alla moralità che prevaleva all'interno della biologia dell'evoluzione come tra gli scrittori scientifici che fanno opera di divulgazione in questo campo. Farò uso del termine «teoria della patina» per indicare queste idee, delineandone le origini nella riflessione di Thomas Henry Huxley, anche se evidentemente nella filosofia e nella religione occidentali risalgono molto più indietro, fino al concetto di peccato originale. Dopo aver discusso queste idee, esaminerò il punto di vista completamente diverso di Charles Darwin sull'evoluzione della moralità, da lui derivato dall'illuminismo scozzese. Infine prenderò in esame le opinioni di Mendo e di Westermarck che coincidono con quelle di Darwin. Delineato questo contrasto di opinioni che vede la continuità opporsi alla discontinuità con gli animali, ripercorrerò poi un mio testo precedente (de Waal 1996) per prestare particolare attenzione al comportamento dei primati non umani, al fine di spiegare perché penso che dal punto di vista evolutivo gli elementi costitutivi della moralità siano molto più antichi.

La teoria della patina Nel 1893 a Oxford, in Inghilterra, davanti a un vasto uditorio, Huxley conciliò pubblicamente la sua cupa visione del mondo naturale con la bontà che a volte si incontra nella società umana. Huxley si rendeva conto che le leggi del mondo fisico sono inalterabili. Intuiva comun27

que che il loro impatto sull'esistenza umana poteva essere attutito e modificato se solo le persone fossero riuscite a tenere la natura sotto controllo. Così Huxley paragonò il genere umano a un giardiniere che fatica a tenere le erbacce fuori dal proprio giardino e propose di considerare l'etica umana come la vittoria su un processo evoluzionistico ingovernabile e malvagio (Huxley 1989 [1894]). · Questa sua posizione risultava sbalorditiva per due ragioni. Innanzitutto andava a limitare di proposito la valenza esplicativa della teoria dell'evoluzione. Dal momento che molti vedono nella moralità l'essenza del genere umano, Huxley di fatto affermava che ciò che ci rende umani non poteva essere trattato dalla teoria dell'evoluzione: noi possiamo diventare morali solo contrastando la nostra natura. Questa ritrattazione era inspiegabile da parte di chi si era guadagnato la fama di «mastino di Darwin» grazie alla sua indomita difesa dell'evoluzione. In secondo luogo, Huxley non faceva il minimo cenno su dove mai il genere umano avrebbe potuto reperire la volontà e l'energia per sconfiggere le forze della propria stessa natura. Se dawero siamo nati come dei competitori a cui non importa nulla dei sentimenti degli altri, com'è successo che a un certo punto abbiamo deciso di trasformarci in cittadini modello? Si può mantenere per generazioni intere un comportamento del tutto antitetico alla propria natura, come un branco di piranha che decidesse di diventare vegetariano? Quanto profondo può essere un cambiamento di questo genere? Questo non farebbe di noi dei lupi travestiti da agnelli, buoni fuori e cattivi dentro? Quella fu l'unica volta che Huxley ruppe con Darwin. Come ha detto il biografo di Huxley, Adrian Desmond (1994, p. 599): «Huxley stava spingendo a forza la sua Arca etica contro la corrente darwiniana che l'aveva portato fin lì». Vent'anni prima, in I:origine dell'uomo, Darwin (1982 [1871]) aveva incluso la moralità nella natura urna-

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na in modo inequivocabile. Si è cercato di spiegare la presa di distanza di Huxley con la sofferenza che la mano crudele della natura gli aveva inflitto privando della vita la sua amata figlia, e con la sua esigenza di rendere accettabile per il grande pubblico la spietatezza dell'universo darwiniano. Aveva dipinto la natura talmente «iniettata di sangue dai denti alle unghie», che a quel punto poteva mantenere questa posizione soltanto estromettendo l'etica umana e presentandola come un'innovazione a sé stante (Desmond 1994). In poche parole, Huxley si era messo con le spalle al muro con le sue stesse affermazioni. Lo strano dualismo di Huxley, che mette in competizione la moralità con la natura e il genere umano con tutti gli altri animali, era destinato a ricevere crescente credibilità dagli scritti di Sigmund Freud, che attingevano linfa dai conflitti tra conscio e subconscio, tra io e superio, tra amore e morte e via dicendo. Freud non si limitava a separare il mondo in due metà simmetriche, come faceva Huxley con il giardino e il giardiniere, ma ovunque vedeva la lotta. Spiegava il tabù dell'incesto e altre restrizioni di natura morale come risultati della rottura violenta con la vita sessuale a ruota libera dell'orda primitiva, culminante nell'assassinio collettivo di un padre autoritario per mano dei figli (Freud 1962 [1913]). Freud faceva sorgere la civiltà dalla rinuncia all'istinto, dall' acquisizione del controllo sulle forze della natura e dalla costruzione di un super-io culturale (Freud 1961 [1930]). Ancora oggi, l'eroica lotta dell'umanità contro le forze che cercano di affossarla resta un tema dominante nella biologia, come dimostrano le citazioni dei diretti seguaci di Huxley. Dichiarando che l'etica è una rottura radicale con la biologia, Williams ha parlato della miseria della natura, fino ad affermare che la moralità umana è un semplice effetto collaterale del processo evolutivo: «Definisco la moralità come una capacità accidentale prodotta, nella 29

sua sconfinata stupidità, da un processo biologico che di norma contrasta con l'espressione di una tale capacità» (Williams 1988, p. 438). Dopo aver spiegato diffusamente che i nostri geni sanno qual è la cosa migliore per noi, pianificando ogni più piccolo ingranaggio della macchina per la sopravvivenza umana, Dawkins ha aspettato fino all'ultima frase de Il gene egoista per rassicurarci che, in fin dei conti, tutti quei geni possiamo ben buttarli dalla finestra: «Noi, unici sulla terra, possiamo ribellarci alla tirannia dei replicatori egoisti» (Dawkins 1976, p. 215). In questa affermazione il distacco dalla natura, come l'unicità della nostra specie, diventano evidenti. In tempi più recenti Dawkins (1996) ha dichiarato che siamo «più buoni di quanto sia bene per i nostri geni egoisti», e ha esplicitamente sostenuto Huxley: «Ciò che voglio dire, d'accordo con molte altre persone, tra cui T.H. Huxley, è che nella nostra vita politica e sociale abbiamo il diritto di liberarci del darwinismo, di affermare che non vogliamo vivere in un mondo darwiniano» (Roes 1997, p. 3; anche Dawkins 2003). Il povero Darwin deve essersi rivoltato nella tomba, perché il «mondo darwiniano» di cui si parla qui è lontano mille miglia da ciò che lui stesso si figurava (si veda più avanti). Ciò che manca in queste affermazioni è la pur minima indicazione su come ci sarebbe possibile contraddire i nostri geni, dipinti per altro in altre occasioni come onnipotenti dagli stessi autori. Anche qui, come accadeva nelle posizioni di Hobbes, Huxley e Freud, il pensiero è completamente dualistico: per una parte siamo natura e per una parte cultura, anziché un intero ben integrato. La moralità umana è presentata come una sorta di. sottile crosta esterna sotto la quale ribollono passioni antisociali, amorali ed egoistiche. Quest'idea della moralità come patina trova la sua migliore sintesi nella celebre battuta di 30

MOLTO CATTIVA CATTIVA ....____ _ NON BUONA i+---

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«MORALE»

FIGURA 1. Negli ultimi venticinque anni del secolo scorso, il punto di vista sulla moralità diffuso tra i biologi è stato sintetizzato da Ghiselin (1974, p. 247): «Graffia un "altruista" e vedrai sanguinare un "ipocrita"». Gli esseri umani venivano reputati assolutamente egoisti e competitivi, e la loro moralità niente altro che un'appendice. Questo concetto, definito sinteticamente «teoria della patina», risale a un contemporaneo di Darwin, Thomas Henry Huxley. Qui si è rappresentato in modo ironico come, secondo questa teoria, la natura umana sia malvagia nella sua essenza.

Ghiselin: «Graffia un "altruista" e vedrai sanguinare un "ipocrita"» (Ghiselin 1974, p. 247; figura 1). Da allora la teoria della patina è stata divulgata da innumerevoli autori scientifici, come Wright (1994) che arrivò al punto di affermare che la virtù è assente dal cuore e dall'anima delle persone e che la nostra specie è potenzialmente morale, ma non lo è per natura. Verrebbe da chiedere: «Ma come la mettiamo con le persone a cui capita di sperimentare in sé stesse e negli altri una buona dose di compassione, bontà e generosità?». Wright, rie31

cheggiando Ghiselin, risponde che I'«animale morale» è sostanzialmente un ipocrita: [La] finzione dell'altruismo è parte della natura umana tanto quanto la sua frequente assenza. Ci mascheriamo dietro tante parole altamente morali, negando le nostre motivazioni profonde e sottolineando la nostra pur minima considerazione per il bene più grande; e orgogliosamente ci sentiamo in diritto di sentenziare sull'egoismo degli altri. (Wright 1994, p. 344) Per spiegare come facciamo a convivere con noi stessi nonostante questo travestimento, questi teorizzatori hanno chiamato in causa la nostra capacità di autoinganno. Se le persone pensano di essere a volte non egoiste, questo è il ragionamento, vuol dire che stanno nascondendo a sé stesse quelle che sono le loro vere motivazioni (per esempio Badcock 1986). Per colmo d'ironia, chiunque non creda che ci autoinganniamo e pensi che in questo mondo la bontà autentica esista davvero, è da considerarsi un illuso e quindi accusato di autoingannarsi. Alcuni scienziati comunque hanno obiettato: Spesso si dice che la gente avalli queste ipotesi [sull'altruismo degli esseri umani] perché vuole che il mondo sia un luogo amichevole e ospitale. I paladini dell'egoismo e dell'individualismo che muovono queste critiche, così facendo gratificano sé stessi; si compiacciono di sé per il fatto di guardare direttamente in faccia la realtà. Gli egoisti e gli individualisti sono obiettivi, essi dicono, mentre invece i sostenitori dell'altruismo e della selezione di gruppo sono intrappolati in una rassicurante illusione. (Sober e Wilson 1998, pp. 8-9) Questi ragionamenti altalenanti su come conciliare la bontà umana quotidiana con la teoria dell'evoluzione sembrano essere un infelice lascito di Huxley, che non aveva capito a fondo la teoria da lui difesa con tanta effi-

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cacia dai suoi detrattori. Secondo le parole di Mayr (1997, p. 250): «Huxley, che credeva nelle cause finali, respinse la teoria della selezione naturale e non rappresentò affatto l'autentico pensiero darwiniano ... È un peccato, considerando la confusione di Huxley, che questo saggio [sull'etica] venga spesso citato ancora oggi come se avesse autorevolezza». Va detto comunque che all'epoca di Huxley si era già formata un'accanita opposizione nei confronti delle sue idee (Desmond 1994), tra cui alcuni biologi russi come Petr Kropotkin. Considerato il clima rigido della Siberia, gli scienziati russi solitamente erano molto più impressionati dalla lotta che gli animali conducevano contro gli elementi che da quella che ingaggiavano tra di loro, il che li induceva a dare maggior risalto alla cooperazione e alla solidarietà, in netto contrasto con la visione del cane-mangiacane di Huxley (Todes 1989). Il mutuo appoggio di Kropotkin (1970 [1902]) era un attacco a Huxley, in cui però si mostrava grande deferenza nei confronti di Darwin. Anche se Kropotkin non riuscì mai a formulare la propria teoria con la precisione e con la logica evoluzionistica su cui poteva contare Trivers (1971) per il suo testo sull'altruismo reciproco che avrebbe avuto grande influenza, entrambi rifletterono sulle origini di una società cooperativa, e perciò in ultima istanza morale, senza ricorrere a finzioni ingannevoli, a schemi di denegazione freudiana o all'indottrinamento culturale. In questo si dimostrarono i veri seguaci di Darwin.

I; etica secondo Darwin

L'evoluzione favorisce gli animali che si aiutano reciprocamente, se in questo modo essi raggiungono vantaggi a lungo termine di maggior entità rispetto a quelli che 33

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gli deriverebbero se facessero da soli e se entrassero in competizione con gli altri. Diversamente dalla cooperazione che si fonda su vantaggi che si realizzano simultaneamente per tutte le parti in causa (conosciuta come mutualismo), la reciprocità prevede uno scambio di azioni che, mentre sono vantaggiose per il destinatario, sono dispendiose per chi le compie (Dugatkin 1997). Questo dispendio, che si produce in forza del fatto che c'è uno sfasamento temporale tra il dare e il ricevere, viene eliminato appena un favore della stessa entità viene restituito a chi in un primo tempo se n'era fatto carico (sulla trattazione di questo problema, oltre a Trivers 1971, si vedano Axelrod e Hamilton 1981; Rothstein e Pierotti 1988; Taylor e McGuire 1988). È in teorizzazioni di questo tipo che troviamo l'embrione di quella spiegazione evoluzionistica della moralità che sfuggiva. a Huxley. È importante chiarire che queste teorie non sono assolutamente in contraddizione con le idee più diffuse sul ruolo rivestito dall'egoismo all'interno dell'evoluzione. È solo di recente che il concetto di «egoismo» (selfishness) è stato sradicato dall'inglese, deprivato del suo significato vernacolare e applicato fuori dal campo psicologico. Anche se il termine egoista viene considerato da alcuni come sinonimo di chi mira al proprio tornaconto (selfserving), l'inglese ha termini diversi per una ragione precisa. L'egoismo comporta l'intenzione di trarre vantaggio, quindi la consapevolezza di ciò che si ha la probabilità di ottenere da un determinato comportamento. Una pianta rampicante può mirare al proprio tornaconto crescendo a dismisura e soffocando un albero; ma poiché le piante sono prive di intenzione, non possono essere considerate egoiste tranne che in un senso vacuo e metaforico. Con un abuso totale del significato originale del termine, purtroppo è proprio questo senso vuoto della parola «egoista» che è diventato dominante nei dibattiti sulla natura 34

umana. L'argomentazione che si sente spesso è che se i nostri geni sono egoisti, anche noi dobbiamo essere egoisti, nonostante il fatto che i geni siano pure e semplici molecole e che quindi non siano in grado di essere egoisti (Midgley 1979). È corretto descrivere gli animali (e gli esseri umani) come il prodotto delle forze dell'evoluzione che favoriscono gli interessi personali, a patto che ci si renda conto che questo non preclude affatto l'evoluzione delle tendenze all'altruismo e alla compassione. Darwin non esitava ariconoscerlo, spiegando l'evoluzione di queste tendenze con la selezione di gruppo anziché con quella individuale e parentale sostenuta dai teorizzatori attuali (ma si vedano, per esempio, Sober e Wilson 1998; Boehm 1999). Darwin credeva fermamente che la sua teoria fosse in grado di dare spazio anche alle origini della moralità e non vedeva alcun conflitto tra la durezza del processo evolutivo e la mitezza di alcuni dei suoi prodotti. Invece di presentare la specie umana come estranea alle leggi della biologia, Darwin sottolineava la continuità con gli animali anche all'interno della sfera morale: Qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben definiti, compreso l'affetto per i genitori e i figli, acquisirebbe inevitabilmente un senso o una coscienza morale non appena le sue funzioni intellettive giungessero allo stesso grado di sviluppo, o quasi, cui sono giunte nell'uomo. (Da1win 1982 [1871], pp. 71-72)

Vale la pena di soffermarsi sulla capacità di provare compassione, a cui qui si fa cenno, e su cui Darwin si esprime più chiaramente in altri passi (per esempio: «Certamente molti animali provano compassione nei confronti del dolore o del pericolo altrui» [Darwin 1982 (1871), p. 77]), perché è all'interno di questo ambito che esistono rilevanti continuità tra gli esseri umani e altri animali

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sociali. Essere influenzati di riflesso dalle emozioni degli altri evidentemente dev'essere un fatto basilare, perché qlleste reazioni sono state rilevate in una grande varietà di animali e spesso sono immediate e incontrollabili. Probabilmente emergono in un primo tempo attraverso le cure parentali, tramite le quali individui inermi vengono nutriti e protetti. In molti animali però perdurano al di là di questo ambito, in relazioni tra adulti non legati da rapporti di parentela (vedi sotto nella sezione successiva). Fu il padre dell'economia, il filosofo morale scozzese Adam Smith, a ispirare le idee di Darwin sulla compassione. A dirla lunga sulle distinzioni che dobbiamo operare tra un comportamento che mira al proprio tornaconto e le motivazioni egoistiche, è il fatto che Smith, meglio noto per aver messo in evidenza l'interesse personale come principio guida dell'economia, scrivesse a proposito dell'universale capacità umana di provare compassione: Per quanto egoista si possa supporre sia l'uomo, esistono evidentemente alcuni principi nella sua natura che fanno sì che si interessi alle vicende degli altri e che la loro felicità gli sia necessaria, anche se non ne trae alcun profitto tranne che il piacere di contemplarla. (Smith 1937 [1759], p. 9)

L'origine evolutiva di questa propensione non è affatto un mistero. Tutte le specie che dipendono dalla cooperazione - dagli elefanti ai lupi fino ad arrivare agli uomini mostrano fedeltà al gruppo e una tendenza ali' aiuto. Questa tendenza si è evoluta nel contesto di una vita sociale ben affiatata in cui si favorivano parenti e compagni in grado di restituire i benefici ricevuti. Di conseguenza l'impulso ad aiutare non era mai privo di utilità ai fini della sopravvivenza per coloro che manifestavano tale impulso. Ma, come spesso succede, l'impulso si distaccò dalle conseguenze che avevano forgiato la sua evoluzione 36

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questo fece sì che si manifestasse anche quando la restituzione era improbabile, per esempio quando erano gli estranei a beneficiarne. Ciò avvicina l'altruismo animale a quello degli uomini molto più di quanto si pensi di solito, r spiega l'esigenza di togliere temporaneamente l'etica dalle mani dei filosofi (Wilson 1975, p. 562). Per quanto mi riguarda, continuo a non essere convinto c.:he ci sia bisogno della selezione di gruppo per spiegare le origini di queste tendenze, poiché mi pare che si arrivi già lontano con le teorie della selezione di parentela e dell' altruismo reciproco. Inoltre gli spostamenti tra un gruppo e l'altro nei primati non umani (e quindi anche il flusso di geni) sono così intensi che non sembrano potersi realizzare le condizioni per la selezione di gruppo. In tutti i primati la generazione più giovane di uno o dell'altro sesso (i maschi in molte scimmie non antropomorfe, le femmine tra gli scimpanzé e i bonobo) tende ad abbandonare il gruppo per entrare a far parte di gruppi vicini (Pusey e Packer 1987). Questo sta a significare che le comunità dei primati sono ben lontane dal dirsi geneticamente isolate, cosa che rende non verosimile la selezione di gruppo. Quando si discute su ciò che costituisce la moralità, il comportamento effettivo è meno importante delle capacità che lo sottendono. Per esempio, invece di sostenere che la spartizione del cibo rappresenta un elemento costitutivo della moralità, bisognerebbe dire che sono piuttosto le capacità che si pensa siano implicite nella spartizione del cibo (per esempio gli alti livelli di tolleranza, la sensibilità nei confronti dei bisogni degli altri, lo scambio reciproco) ad apparire pertinenti. Anche le formiche si spartiscono il cibo, ma probabilmente sulla base di sollecitazioni del tutto diverse da quelle che spingono gli scimpanzé o gli uomini a farlo (de Waal 1989a). Questa distinzione era ben chiara a Darwin che, al di là del comportamento effettivo, guardava alle emozioni, alle inten-

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zioni e alle capacità che vi erano sottese. In altre parole, il punto non è se gli animali sono gentili gli uni con gli altri, e tanto meno è importante se il loro comportamento rientra nelle nostre preferenze morali o no. La domanda da porsi è piuttosto se sono in grado di attuare la reciprocità e la vendetta, di rispettare le regole sociali, di comporre i disaccordi e se sono capaci di compassione e di empatia (Flack e de Waal 2000). Questo significa inoltre che le esortazioni a respingere il darwinismo nella nostra vita quotidiana ai fini della costruzione di una società morale si basano su un profondo travisamento di Darwin stesso. Visto che Darwin vedeva la moralità come un prodotto dell'evoluzione, si figurava un mondo sostanzialmente più vivibile di quello proposto da Huxley e dai suoi epigoni, che credono in una moralità artificiale e imposta dalla cultura, a cui la natura umana non porge alcun aiuto. Fra i due, il mondo di Huxley è di gran lunga più freddo e più terrificante.

Edward Westermarck Edward Westermarck, uno studioso finnico-svedese vissuto tra il 1862 e il 1939, merita di occupare una posizione centrale in ogni dibattito che abbia come oggetto le origini della moralità, perché fu il primo a sostenere una visione integrata che comprendeva esseri umani e animali, cultura ed evoluzione. Che le idee da lui sostenute nel corso della sua vita non siano state abbastanza apprezzate è comprensibile, perché si scontravano apertamente con la tradizione dualistica occidentale che oppone il corpo alla mente e la cultura all'istinto. Gli scritti di Westermarck sono un curioso intreccio tra asciutte teorizzazioni, analisi antropologiche dettagliate e storie di animali riportate da altri. L'autore sentiva l'ur38

gcnza di collegare il comportamento umano a quello animale, ma il suo lavorQ era concentrato interamente sugli esseri umani. Poiché all'epoca la ricerca sistematica sul comportamento animale era di ben poco conto, doveva basarsi su aneddoti come, per esempio, quello del cammello vendicativo, che era stato bastonato in maniera eccessiva e in varie occasioni da un portatore quattordicenne perché si fermava per strada o si voltava dalla parte sbagliata. Il cammello aveva subito passivamente la puniY.ione, ma qualche giorno dopo, trovandosi da solo per strada senza carico e con la stessa guida, «afferrò la testa dello sfortunato ragazzo tra i suoi terribili denti e, dopo averlo sollevato in aria, lo rigettò a terra, con la parte superiore del cranio sfracellata e il cervello sparso al suolo» (Westermarck 1912 [1908], p. 38). Non dovremmo liquidare troppo facilmente dei racconti di questo genere anche se non sono verificabili: storie di vendette differite abbondano nel mondo degli zoo e soprattutto riguardano le grandi scimmie e gli elefanti. Oggi disponiamo di dati sistematici su come gli scimpanzé puniscono le azioni negative con altre azioni negative (definito da de Waal e Luttrell 1988, «sistema vendicativo»), e come un macaco attaccato da un membro dominante del suo branco ritorcerà l'aggressione contro un parente del suo aggressore più giovane e inerme (Aureli e altri 1992). Queste reazioni rientrano tra quelle che Westermarck definisce «emozioni risarcitorie», anche se per lui il termine «risarcitorio» assumeva un senso che andava oltre la consueta connotazione di pareggiamento dei conti, perché includeva anche emozioni positive come la gratitudine e la restituzione di un servizio reso. Presentando le emozioni risarcitorie come la pietra angolare della moralità umana, Westermarck portava un importante contributo alla questione delle sue origini, anticipando al contempo le moderne discussioni sull'etica evoluzionistica. 39

Westermarck appartiene a una lunga tradizione, che risale ad Aristotele e a Tommaso d'Aquino, che ancora strettamente la moralità alle inclinazioni e ai desideri naturali della nostra specie (Arnhart 1998, 1999). Le emozioni vi giocano un ruolo centrale: è risaputo che, più che rappresentare l'antitesi della razionalità, le emozioni sono di sostegno alla ragione umana. Si può ragionare e valutare le cose finché si vuole ma, come hanno messo in rilievo i neuroscienziati, se non ci sono emozioni connesse alle varie opzioni in esame non si arriverà mai a una decisione o a una convinzione (Damasio 1994). Ai fini di una scelta morale questo è cruciale, perché la moralità implica per lo meno forti convinzioni. Esse non maturano, o meglio non possono maturare, tramite la fredda razionalità: richiedono un interesse nei confronti degli altri e delle «sensazioni viscerali» potenti rispetto a ciò che è giusto e a ciò che è sbagliato. Westermarck (1912 [1908], 1917 [1908]) discute uno per uno l'intera gamma di quelli che i filosofi precedenti, David Hume (1985 [1739]) in testa, definivano «sentimenti morali». Egli classificava le emozioni risarcitorie in emozioni che derivano dal risentimento e dalla rabbia, che perseguono la vendetta e la punizione, ed emozioni che sono maggiormente positive e promotrici di socialità. Mentre ai suoi tempi si conoscevano ben pochi esempi di emozioni morali tra gli animali - da qui la necessità di ricorrere a storie di cammelli marocchini - oggi sappiamo che vi sono molti paralleli nel comportamento dei primati. Westermarck discute anche del «perdono» e di come porgere l'altra guancia sia un gesto universalmente apprezzato. Il bacio e I' abbraccio degli scimpanzé dopo la lotta e le cosiddette riconciliazioni hanno lo scopo di preservare la pace all'interno della comunità (de Waal e van Roosmalen 1979). Esiste una letteratura scientifica in piena espansione sulla risoluzione dei conflitti tra i primati e tra altri mammiferi (de Waal 1989b, 2000; Aureli e de 40

Waal 2000; Aureli e altri 2002). Riconciliazione e perdono forse non sono proprio la stessa cosa, ma sono senza dubbio in rapporto tra loro. Westermarck vede inoltre nella tendenza a proteggere gli altri dalle aggressioni l'effetto di ciò che definisce «risentimento simpatetico~ dando così per implicito che questo comportamento si basa sull'identificazione e l'empatia nei confronti dell'altro. Proteggere dalle aggressioni è diffuso tra le scimmie e le scimmie antropomorfe, ma anche tra molti altri animali, che si ergono a difesa dei loro parenti e amici. La letteratura scientifica sui primati ci fa un quadro, frutto di accurate ricerche, sulle coalizioni e sulle alleanze, che alcuni considerano il tratto distintivo della vita sociale dei primati e la ragione principale del fatto che abbiano sviluppato società così complesse e così impegnative sul piano cognitivo (per esempio Byrne e Whiten 1988; Harcourt e de Waal 1992; de Waal 1998 [1982]). In modo molto simile, le emozioni risarcitorie buone («desiderio di dare piacere in cambio di piacere»: Westermarck 1912 [1908], p. 93) hanno un evidente parallelo in ciò che noi oggi chiamiamo altruismo reciproco, ovvero la tendenza a ripagare in modo positivo coloro da cui si è ricevuto aiuto. Westermarck aggiunge l'approvazione morale alle emozioni risarcitorie buone, facendone quindi una componente dell'altruismo reciproco. Queste idee precorrono le discussioni sulla «reciprocità indiretta» presenti nella moderna letteratura scientifica sull'evoluzione dell'etica, che riguardano la costruzione della reputazione all'interno di una comunità allargata (per esempio Alexander 1987). È veramente stupefacente constatare quanti problemi sollevati dagli autori contemporanei, seppur formulati in termini per certi versi differenti, fossero presenti già un secolo fa negli scritti di questo studioso finnico-svedese. La parte più profonda della sua opera è forse quella in 41

cui Westermarck affronta il problema di cosa fa sì che si definisca morale un'emozione morale. A questo proposito, Westermarck mostra che in emozioni di questo tipo vi è molto di più di una rozza sensazione viscerale, poiché spiega che esse «sono diverse dalle analoghe emozioni non morali a causa del loro disinteresse, l'evidente imparzialità e il carattere di generalità» (Westermarck 1917 [1908], pp. 738-39). Emozioni come la gratitudine e il risentimento riguardano direttamente i nostri interessi - come siamo stati trattati o come vorremmo essere trattati - e quindi sono troppo egocentriche per essere morali. Le emozioni morali, invece, dovrebbero essere svincolate dalla situazione immediata di ciascuno: hanno a che fare con il bene e il male a un livello più astratto e disinteressato. È solamente quando esprimiamo dei giudizi generali su come chiunque dovrebbe essere trattato che possiamo cominciare a parlare di approvazione e disapprovazione morale. È in questo ambito specifico, rappresentato com'è noto dallo «spettatore imparziale» di Smith (1937 [1759]), che l'uomo pare spingersi radicalmente più in là degli altri primati. Le due sezioni successive affrontano la continuità tra i due pilastri della moralità umana e il comportamento dei primati. L'empatia e la reciprocità sono state descritte come i principali «prerequisiti» (de Waal 1996) o gli «elementi costitutivi» della moralità (Flack e de Waal 2000) - esse non sono assolutamente sufficienti a generare la moralità come noi la conosciamo, eppure sono indispensabili. Non è immaginabile una società dalla morale umana dove manchino lo scambio reciproco e l'interesse emozionale nei confronti degli altri. Questo ci offre un punto di partenza concreto per indagare la continuità concepita da Darwin. La discussione sulla teoria della patina è fondamentale in questa indagine perché alcuni biologi evoluzionisti hanno marcatamente deviato da questa 42

TAVOLA 1

Confronto fra teoria della patina e visione della moralità come risultato degli istinti sociali

Teorz'a della patz'na

Evoluzione delt etz'ca

Origine

Huxley

Darwin

Sostenitori

Richard Dawkins, George Williams, Robert Wright Edward Westermarck, Edward Wilson, Jonathan Haidt ecc. ecc.

Tipo

Dualistico - contrappone l'uomo agli animali e cultura a natura. La moralità è vista come una scelta.

Unitario - postula la continuità fra la moralità umana e le tendenze sociali degli animali. Le tendenze morali sono considerate frutto di evoluzione.

Transizione proposta

Dall'animale amorale all'essere umano morale

Dall'animale sociale all'animale morale

Teoria

Una posizione in cerca di una teoria. Non dà spiegazione del perché gli esseri umani siano «più buoni di quanto sia vantaggioso per i nostri geni egoisti», né di come una simile impresa si sia potuta realizzare.

Le teorie della selezione di parentela, dell'altruismo reciproco e loro derivati (per es. correttezza, costruzione della reputazione, risoluzione dei conflitti), suggeriscono come può essere avvenuta la transizione dall'animale sociale all'animale morale.

Prove empiriche

Nessuna

a) Psicologia: la moralità dell'uomo ha un fondamento emozionale e intuitivo. b) Neuroscienze: i dilemmi morali attivano aree del cervello legate alle emozioni. c) Comportamento di primati: i nostri parenti più stretti mostrano molte tendenze che sono riferibili alla moralità umana.

idea di continuità, presentando la moralità come un artificio così contorto che solo una specie, la nostra, ne sarebbe capace. In effetti quest'opinione non ha alcun fondamento e in quanto tale intralcia una piena comprensione di come noi diventiamo esseri morali (tavola 1, vedi pagina precedente). Il mio proposito qui è di rimettere in chiaro le cose ripercorrendo i dati empirici reali.

Empatia animale

È raro che l'evoluzione scarti qualcosa. Le strutture vengono trasformate, modificate, destinate ad altre funzioni o «depistate» in un'altra direzione, secondo quella che Darwin chiamava trasmissione con modificazione. Così le pinne anteriori diventarono negli animali terrestri gli arti anteriori che nel tempo si trasformarono in zoccoli, zampe, ali, mani e natatoie. A volte una struttura perde tutte le proprie funzioni e diventa superflua, ma si tratta di un processo graduale, durante il quale anziché sparire spesso sopravvive in tratti rudimentali. Sotto la pelle delle balene si possono rilevare minuscole vestigia di ossa di arti inferiori e sotto la cute dei serpenti tracce di quello che era un bacino. Per questo ai biologi piace tanto un giocattolo come la matrioska, specialmente se rimanda a un contesto storico. Possiedo una bambola che· all'esterno raffigura il presidente russo Vladimir Putin e al cui interno si scoprono nell'ordine Eltsin, Gorbacev, Brefoev, Chruscev, Stalin e Lenin. Scoprire dèntro Putin un piccolo Stalin e un piccolo Lenin difficilmente stupirà la maggior parte degli analisti politici. La stessa cosa succede per i tratti biologici: il vecchio rimane sempre presente nel nuovo. Questo è significativo ai fini del dibattito sull'origine dell'empatia, poiché lo psicologo tende a guardare il

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mondo con occhi diversi da quelli del biologo. A volte gli psicologi idealizzano i nostri tratti più avanzati, trascu1·undo o addirittura negando i loro precedenti più semplici: mostrano così di credere, almeno per quanto riguarda la nostra specie, a trasformazioni che implicano ~1alti improvvisi. Da ciò derivano improbabili ricostruzioni sulle nostre origini, che postulano la discontinuità riguardo al linguaggio, considerato il risultato di un «modulo» esclusivo del cervello umano (per esempio Pinker 1994), o riguardo alle facoltà cognitive umane che a loro nwiso hanno origini culturali (per esempio Tomasello l999). Certo, le capacità umane raggiungono altezze vertiginose come quando, per esempio, io capisco che tu capisci che io capisco e così via. Ma noi non siamo nati con una «empatia ricorsiva» di questo tipo, come la chiamano i fenomenologi. Sia dal punto di vista dello sviluppo mentale sia da quello della sua evoluzione, le forme avanzate di empatia sono precedute e maturano da quelle più elementari. In effetti le cose potrebbero stare esattamente nel modo opposto. Invece di pensare eh.e il linguaggio e la cultura siano apparsi nella nostra specie con un big bang e abbiano poi trasformato la maniera in cui ci relazioniamo tra di noi, Greenspan e Shanker (2004) propongono che il linguaggio e la cultura derivino dai primi contatti emozionali e dalle «protoconversazioni» tra madre e figlio (cfr. Trevarthen 1993). L'empatia anziché essere il punto d'arrivo, forse è stata il punto di partenza. I biologi preferiscono le ricostruzioni che procedono dal basso verso l'alto a quelle che dall'alto vanno verso il basso, sebbene ci sia indubbiamente spazio anche per queste ultime. Una volta posti in essere, i processi a livello più alto modificano i processi che stanno alla base. Il sistema nervoso centrale è un buon esempio di processo dall'alto verso il basso, come nel caso del controllo che la corteccia prefrontale esercita sulla memoria. La corteccia

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prefrontale non è sede della memoria, ma può dare l' «ordine» per il recupero dei dati della memoria (Tornita e altri 1999). Allo stesso modo, la cultura e il linguaggio danno forma alle espressioni di empatia. Comunque, la differenza tra «essere l'origine di» e «dare forma a» è fondamentale, e io qui sostengo che l'empatia è la forma originale, prelinguistica, del rapporto interindividuale che solo in un secondo tempo ha subito l'influenza del linguaggio e della cultura. Le ricostruzioni che procedono dal basso verso l'alto sono il contrario delle teorie che chiamano in causa un big bang. Esse presuppongono una continuità tra passato e presente, tra il bambino e l'adulto, l'uomo e l'animale e addirittura tra gli esseri umani e i mammiferi più primitivi. Si può ipotizzare che in un primo tempo l'empatia si sia evoluta nell'ambito dell'accudimento parentale da cui i mammiferi non possono esimersi (Eibl-Eibesfeldt 197 4 [1971]; MacLean 1985). Segnalandò i loro stati attraverso il sorriso e il pianto, i neonati umani sollecitano la persona che se ne prende cura a prestar loro attenzione e ad agire di conseguenza (Bowlby 1958). Lo stesso vale per gli altri primati. Il valore di queste interazioni ai fini del- · la sopravvivenza è evidente. Per esempio, una scimpanzé, benché si prodigasse appassionatamente e concretamente per i suoi piccoli, li vide morire uno dietro l'altro perché era sorda e, nonostante i loro angosciosi appelli, non correggeva i problemi determinati dalle posizioni che assumeva, come per esempio stare seduta sopra il piccolo o tenerlo a testa in giù (de Waal 1998 [1982]). Visto che una caratteristica umana tanto pervasiva come lempatia si sviluppa così presto nella vita (per esempio Hoffman 1975; Zahn-Waxler e Radke-Yarrow 1990), e mostra correlazioni neurali e fisiologiche di tale importanza (per esempio Adolphs e altri 1994; Rimm-Kaufman e Kagan 1996; Decety e Chaminade 2003) oltre a un substrato

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genetico (Plomin e altri 1993 ), sarebbe dawero strano se non esistesse una continuità evolutiva con altri mammiferi. Purtuttavia la possibilità di empatia e di compassione negli altri animali è stata quasi del tutto ignorata. Ciò in parte è dovuto all'esagerata paura di cadere nell'antropomorfismo, che ha soffocato la ricerca nei confronti delle emozioni degli animali (Panksepp 1998; de Waal 1999, appendice A), e in parte ai biologi che hanno dato del mondo naturale un quadro del tutto unilaterale, facendone un luogo di combattimento anziché di connessioni sociali. Cos'è l'empatia? Gli animali sociali hanno la necessità di coordinare azione e movimento, di rispondere collettivamente al pericolo, di comunicarsi informazioni riguardo a cibo e acqua e di aiutare quelli di loro che sono in difficoltà. La capacità di reagire agli stati di comportamento dei propri simili spazia da quella di uno stormo di uccelli che improwisamente si leva tutto insieme in volo perché uno di loro è stato impaurito da un predatore, a quella della madre antropomorfa che torna indietro dal suo scimmiotto che piagnucola per aiutarlo a passare da un albero all'altro facendo col suo corpo un ponte tra i due. Nel primo caso si tratta della trasmissione di una sensazione di paura come semplice riflesso, in cui può non essere prevista nessuna comprensione di ciò che ha innescato la reazione iniziale, ma che è senza dubbio di tipo adattativo. L'uccello che non riesce a volar via nello stesso istante in cui tutto lo stormo si leva, può diventare il boccone del predatore. La pressione della selezione sulla necessità di prestare attenzione agli altri deve essere stata enorme. L'esempio della madre antropomorfa è più sottile, in quanto comporta l'ansia nell'udire il pianto del proprio figlio, la valutazione del motivo della sua pena e un tentativo di migliorare la situazione. 47

Esistono ampie prove del fatto che un primate interviene in aiuto di un proprio compagno in una lotta, che mette un braccio attorno alla vittima che ha subito un attacco, o di altre risposte emozionali davanti alla sofferenza dei propri simili (questi casi saranno esaminati più avanti). In effetti si ritiene che nei primati non umani quasi tutta la comunicazione sia mediata attraverso le emozioni. Conosciamo bene il ruolo rilevante svolto dalle emozioni nelle espressioni facciali umane (Ekman 1982), ma quando si tratta di scimmie e di antropomorfe, che hanno un'analoga gamma di espressioni (van Hooff 1967), le emozioni sembrano essere di pari importanza. Quando lo stato emozionale di un individuo suscita uno stato analogo o strettamente collegato a esso in un altro, parliamo di «contagio emozionale» (Hatfield e altri 1993 ). Anche se indubbiamente questo contagio è un fenomeno elementare, è qualcosa di più del semplice fatto che un individuo viene coinvolto dallo stato di un altro: spesso i due individui si impegnano in un'interazione diretta. Così un giovane scimmiotto vedendosi respinto può inscenare un capriccio ai piedi della propria madre, o l' amico del momento può accostarsi a chi ha del cibo e farne richiesta tramite espressioni facciali, vocalizzazioni e gesti delle mani che suscitano compassione. In altri termini, spesso gli stati che comportano emozioni e motivazioni si manifestano attraverso comportamenti indirizzati in modo specifico a un compagno. La reazione suscitata nell'altro non è quindi un mero effetto collaterale, ma qualcosa di attivamente perseguito. Attraverso una progressiva differenziazione tra sé e l'altro e un progressivo riconoscimento delle circostanze specifiche che sottendono gli stati emotivi degli altri, il contagio emozionale evolve in empatia. L'empatia comprende il contagio emozionale, e probabilmente senza non potrebbe mai essere nata, ma va al di là di esso in quanto pone dei fil48

tri tra lo stato dell'altro e il proprio. È attorno ai due anni che noi esseri wnani cominciamo ad aggiungere questi strati cognitivi (Eisenberg e Strayer 1987). Due meccanismi collegati all'empatia sono la compassione e la sofferenza personale, che nelle loro conseguenze sociali sono il contrario l'una dell'altra. La compassione viene definita «una risposta affettiva che consta di sentimenti di dolore o di preoccupazione nei confronti della sofferenza o dello stato di bisogno dell'altro (anziché il provare la stessa emozione di un'altra persona). Si ritiene che la compassione comporti una motivazione indirizzata verso l'altro di tipo altruistico» (Eisenberg 2000, p. 677). La sofferenza personale, invece, porta chi ne rimane colpito a cercare egoisticamente di lenire quella che è la propria sofferenza, che ha delle somiglianze con ciò che ha percepito nell'oggetto. Ne deriva che la sofferenza personale non riguarda la situazione dell'altro che ha suscitato lempatia (Batson 1990). De Waal (1996, p. 46) ne fornisce un esempio illuminante a proposito dei primati: le grida di uno scimmiotto reso, severamente punito o rifiutato, spesso spingono gli altri piccoli ad avvicinarsi a lui, ad abbracciarlo, a montargli addosso o anche ad ammucchiarsi sopra la vittima. Così la sofferenza di un piccolo sembra propagarsi ~i suoi coetanei, che quindi cercano di placare nel contatto quello che è il loro stato di agitazione. Poiché alla sofferenza personale manca una valutazione sul piano cognitivo e una complementarità sul piano del comportamento, essa non va oltre il livello del contagio emozionale. Se la maggior parte dei testi moderni dedicati alle facoltà cognitive degli animali (per esempio Shettleworth 1998) tra le varie voci non catalogano l'empatia o la compassione, questo non significa che queste capacità non siano parte essenziale della vita degli animali stessi: significa soltanto che vengono trascurate da una scienza che per tradizione si concentra sulle capacità individuali piut49

tosto che su quelle interindividuali. Per esempio, l'impiego di strumenti e la capacità di contare sono considerati tratti distintivi dell'intelligenza, mentre rapportarsi agli altri in modo adeguato non lo è. È evidente che spesso la sopravvivenza dipende però da come gli animali se la cavano all'interno del gruppo, sia in senso cooperativo (per esempio azioni concertate, trasferimento di informazionÌ) sia in senso competitivo (per esempio strategie di potere, tradimenti). È quindi in ambito sociale che ci si aspetta i risultati più alti sul piano cognitivo. La selezione deve aver favorito i meccanismi atti a valutare gli stati emozionali degli altri e a reagire rapidamente a essi. L'empatia è proprio uno di questi meccanismi. Nel comportamento umano c'è una stretta relazione tra empatia e compassione da una parte, e la loro espressione nell'altruismo psicologico dall'altra (per esempio Hornblow 1980; Hoffman 1982; Batson e altri 1987; Eisenberg e Strayer 1987; Wispé 1991). Si può a ragione ipotizzare che le reazioni altruistiche e di accudimento negli altri animali, in special modo nei mammiferi, dipendano da meccanismi simili. Quando la Zahn-Waxler si recava nelle case per accertare come i bambini reagissero davanti a membri della famiglia istruiti a fingere tristezza (singhiozzando), dolore (urlando) o angoscia (simulando di soffocare), scoprì che i bambini, già a poco più di -un anno, consolano gli altri. Visto che le espressioni della compassione appaiono molto presto praticamente in tutti i membri della nostra specie, esse sono naturali quanto muovere i primi passi. Un effetto secondario imprevisto di questa ricerca però fu rappresentato dal fatto che gli animali domestici risultarono preoccupati quanto i bambini dalla «sofferenza» dei membri della famiglia: ronzavano attorno ai loro padroni o gli mettevano la testa in grembo (Zahn-Waxler e altri 1984). Radicate nell'attaccamento e in quello che Harlow definì 50

il «sistema degli affetti» (Harlow e Harlow 1965), le risposte alle emozioni altrui sono un evento ordinario nella vita degli animali sociali. Così i dati riguardanti il comportamento e la fisiologia indicano la presenza del contagio emozionale in una grande varietà di specie (riesaminato in Preston e de Waal 2002b, e de Waal 2003). È interessante che una certa letteratura scientifica, apparsa nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta a opera di psicologi sperimentali, ponesse i termini «empatia» e «compassione» tra virgolette. Ali' epoca, il discorso sulle emozioni degli animali era un tabù. In un articolo intitolato in modo provocatorio Reazioni emotive dei ratti al dolore altrui, Church (1959) affermava che dei ratti che avevano appreso a schiacciare una barra per ottenere del cibo, smettevano di farlo se il loro intervento era accompagnato dall'emissione di una scarica elettrica su un ratto vicino, a loro visibile. Anche se questa inibizione presto si attenuava, indicava che c'era qualcosa che si opponeva davanti alle reazioni di dolore degli altri. Forse erano proprio quelle reazioni a suscitare emozioni negative nei ratti che ne erano testimoni. Le scimmie non antropomorfe rivelano un'inibizione ancora maggiore dei ratti. Le prove più convincenti a dimostrazione della forza dell'empatia nelle scimmie non anti;opomorfe ci sono fomite da Wechkin e altri (1964) e da Masserman e altri (1964). Hanno scoperto che le scimmie reso si rifiutavano di tirare una catenella che erogava per loro del cibo se facendo questo un compagno veniva colpito da una scossa elettrica. Una scimmia reso smise di tirarla per cinque giorni e un'altra addirittura per dodici dopo aver visto una compagna colpita dalla scarica elettrica. Queste scimmie si lasciavano letteralmente morire di fame pur di evitare di infliggere dolore a una di loro. Un sacrificio di tale portata trova spiegazione nel solido sistema sociale e nel legame emotivo vigenti tra questi macachi, come confermato dalla scoperta che l'inibizione 51

a far del male a un altro era più forte nei confronti di individui che si conoscevano bene, piuttosto che tra sconosciuti (Masserman e altri 1964). Anche se queste prime ricerche indicano che comportandosi in un certo modo gli animali cercano di lenire o di impedire la sofferenza dei loro compagni, non è ancora chiaro se le reazioni spontanee al dolore dei loro simili vadano spiegate con (a) la repulsione per i segni di sofferenza negli altri, (b) la sofferenza personale che deriva dal contagio emozionale o (c) delle vere e proprie spinte ad aiutare. Il lavoro sui primati non umani ci ha fornito ulteriori informazioni. Alcune di queste prove sono di tipo qualitativo, ma per quanto riguarda le reazioni empatiche esistono anche dati quantitativi. Aneddoti sullo «scambio di posto nella fantasia»

In Yerkes (1925), Ladygina-Kohts (2002 [1935]), Goodall (1990) e de Waal (1998 [1982], 1996, 1997a) troviamo descrizioni straordinarie di casi di empatia e di altruismo nei primati. L'empatia dei primati è un campo di studio talmente ricco che la O'Connell (1995) è riuscita a condurre un'analisi sui contenuti di migliaia di ricerche qualitative. È così giunta alla conclusione che le reazioni alla sofferenza altrui sembrano notevolmente più complesse tra le scimmie antropomorfe che tra le scimmie. Tanto per dare un esempio di quella che è la forza della risposta empatica nelle antropomorfe, Ladygina-Kohts · ha scritto, a proposito del suo giovane scimpanzé Joni, che il modo migliore per farlo scendere dal tetto di casa, molto più efficace di qualsiasi premio o minaccia di punizione, era suscitare la sua compassione: Se faccio finta di piangere, se chiudo gli occhi e piango, Joni smette immediatamente di giocare o di fare qualsiasi altra

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cosa, si precipita di corsa verso di me, tutto eccitato e col pelo ritto, dai più remoti angoli della casa, come il tetto o il soffitto della sua gabbia da cui, nonostante i miei richiami e le mie preghiere insistenti, non riuscivo a farlo scendere. Mi gira intorno impaziente, come cercando chi mi abbia fatto del male; guardandomi in faccia, mi prende dolcemente il mento tra le mani, mi tocca delicatamente la faccia con le dita, come per cercare di capire cosa stia succedendo e poi si gira, serrando i pugni. (Ladygina-Kohts 2002 [1935], p. 121)

De Waal (1996, 1997a) ha sostenuto che, oltre alla connessione emozionale, le scimmie antropomorfe hanno una comprensione della situazione dell'altro e un certo grado di assunzione di un proprio punto di vista (appendice B).Quindi la differenza principale tra scimmie e antropomorfe non sta nell'empatia in quanto tale, ma nelle sovrapposizioni cognitive che consentono alle antropomorfe di assumere il punto di vista dell'altro. A questo proposito, un resoconto straordinario riguarda una bonobo dello zoo di Twycross in Inghilterra che si dimostrò empatica nei confronti di un uccellino: Un giorno Kuni catturò uno storno. Nel timore che potesse far del male all'uccellino stordito, che sembrava illeso, il guardiano la incitò a lasciarlo andare ... Kuni lo prese in mano e si arrampicò in cima all'albero più alto dove avvinghiò le zampe al tronco in modo da aver entrambe le mani libere per tenere l'uccellino. A quel punto, con molta cura, ne dispiegò le ali e gliele distese completamente, reggendo un'ala per mano, prima di lanciarlo con tutta la forza di cui era capace al di là della barriera del suo recinto. Purtroppo cadde poco lontano e atterrò sulla riva del fossato dove Kuni lo sorvegliò a lungo per proteggerlo dalla curiosità di un giovane bonobo. (de Waal 1997a, p. 156)

Quello che aveva fatto Kuni evidentemente sarebbe stato non adeguato nei confronti di un membro della sua stessa specie. Avendo visto tante volte volare gli uccelli, 53

sembrò avere la nozione di cosa sarebbe andato bene per uno di loro, dandoci così una versione antropoide della capacità empatica descritta da Adam Smith (1937 [1759], p. 10) in maniera memorabile come «lo scambio di posto nella fantasia con chi soffre». Forse l'esempio più straordinario di questa capacità ci è dato da uno scimpanzé che, come negli esperimenti originari di teoria della mente compiuti da Premack e Woodruff (1978), parve cogliere le intenzioni di un suo simile fornendogli l'aiuto del caso: Nel corso di un inverno allo zoo di Arnhem, dopo aver pulito lo stanzone e prima di lasciar liberi gli scimpanzé, i guardiani lavarono con la pompa tutti i copertoni del recinto e li appesero uno per uno su una sbarra orizzontale che spuntava dalla struttura su cui si arrampicano le antropomorfe. Un giorno, Krom si dimostrò interessata a un copertone in cui era rimasta ancora dell'acqua ma, per sua sfortuna, era proprio in fondo alla fila e davanti gli pendevano sei o più copertoni pesanti. Krom tirò e tirò il copertone che voleva, senza riuscire a sfilarlo dalla sbarra. Lo spinse indietro nell'altra direzione, ma lì andava a sbattere contro la struttura e non riuscì ugualmente a sfilarlo. Per oltre dieci minuti Krom si diede da fare invano con questo problema, ignorata da tutti tranne che da J ackie, uno scimpanzé di sette anni di cui Krom si era presa cura quand'era piccolo. Appena Krom rinunciò e se ne andò, sulla scena si fece avanti Jackie. Senza esitare sfilò uno per uno i copertoni dalla sbarra, cominciando da quello davanti, seguito dal secondo della fila e così via, come avrebbe fatto ogni scimpanzé con un po' di buon senso. Quando arrivò all'ultimo copertone, lo sfilò con cura così che l'acqua non si rovesciasse, lo portò direttamente alla zia e lo mise in posizione verticale davanti a lei. Krom accettò il regalo senza spendersi in particolari ringraziamenti e, mentre J ackie se ne andava, stava già raccogliendo l'acqua nel cavo della mano. (Adattamento da de Waal 1996)

Il fatto che Jackie aiutasse sua zia non è poi così strano, ma ciò che è singolare è che avesse perfettamente indovi-

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nato cosa Krom stava cercando di fare: aveva intuito quali erano gli obiettivi di sua zia. Questo cosiddetto «aiuto mirato» è tipico delle grandi scimmie, ma raro o assente nella maggioranza degli altri animali. Viene definito un comportamento altruistico che si adatta perfettamente ai bisogni specifici dell'altro anche in situazioni inedite, come nel caso ampiamente pubblicizzato di Binti Jua, una femmina di gorilla che salvò un bambino allo zoo Brookfield di Chicago (de Waal 1996, 1999). Un esperimento recente ha confermato episodi di aiuto mirato tra giòvani scimpanzé (Warneken e Tomasello 2006). È importante sottolineare la forza incredibile presente nella risposta di aiuto delle scimmie antropomorfe, che fa sì che questi animali si assumano dei grandi rischi in favore degli altri. Visto che, in un dibattito recente sulle origini della moralità, Kagan (2000) ha dato per scontato che uno scimpanzé non sarebbe mai saltato in un lago gelato per salvarne un altro, forse su questo punto può essere utile citare la Goodall (1990, p. 213 ): In alcuni zoo gli scimpanzé vengono ospitati su delle isole artificiali, circondate da fossati pieni d'acqua ... Gli scimpanzé non sanno nuotare e se cadono in acque profonde, a meno che non vengano soccorsi, annegano. Nonostante questo, alcuni individui hanno fatto a volte degli sforzi eroici per salvare i loro compagni dall'annegamento e in alcuni casi ci sono anche riusciti. Un maschio adulto ha perso la vita nel tentativo di salvare un piccolo che la madre malaccorta aveva lasciato cadere in acqua.

Gli unici altri animali che hanno una gamma simile di risposte di aiuto sono i delfini e gli elefanti. Anche queste testimonianze sono essenzialmente descrittive (per i delfini: Caldwell e Caldwell 1966; Connor e Norris 1982; per gli elefanti: Moss 1988; Payne 1998), eppure anche in questo caso è difficile considerare una coincidenza il fatto che gli scienziati che hanno osservato questi animali 55

2. Un tipico esempio di comportamento consolatorio tra scimpanzé in cui un esemplare giovane mette un braccio sulle spalle a un maschio adulto che è appena stato sconfitto nella lotta con un rivale. Fotografia dell'autore.

FIGURA

per un certo tempo siano in grado di fornire numerosi episodi, mentre gli scienziati che hanno osservato altri animali ne hanno pochi, se pure ne hanno. Il comportamento di consolazione Questa differenza tra l'empatia delle scimmie e quella delle scimmie antropomorfe è stata confermata da ricerche sistematiche su un comportamento definito «conso-

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!azione», attestato per la prima volta da de Waal e van Roosmalen (1979). Si denomina consolazione la rassicurazione da parte di uno spettatore non coinvolto nei confronti di uno dei contendenti protagonisti di un precedente episodio aggressivo. Per esempio, un terzo individuo dopo una rissa si avvicina allo sconfitto e, con delicatezza, gli mette un braccio sulla spalla (figura 2). La consolazione non va confusa con la riconciliazione tra individui precedentemente in contrasto, che nella maggioranza dei casi sembra motivata dall'interesse personale, per esempio la necessità di ripristinare un rapporto sociale compromesso (de Waal 2000). Quale sia il vantaggio della consolazione per chi la attua rimane interamente da chiarire: infatti potrebbe probabilmente abbandoriare la scena senza nessuna conseguenza negativa. Possediamo una grande quantità di informazioni sulla consolazione tra scimpanzé. De Waal e van Roosmalen (1979) hanno basato le loro conclusioni sull'analisi di centinaia di osservazioni successive ai conflitti e in una ripetizione della ricerca, che comprendeva un campione di casi ancora più ampio, de Waal e Aureli (1996) cercavano di verificare due previsioni relativamente facili: se i contatti con un terzo servono davvero a lenire l'angoscia dei partecipanti al conflitto, questi contatti dovrebbero essere indirizzati più ai destinatari di un'aggressione che agli aggressori, e più alle vittime di un'aggressione violenta che di una lieve. Confrontando gli indici dei contatti dei terzi non coinvolti nel conflitto con i livelli di riferimento di base, i ricercatori hanno trovato conferma a entrambe le loro previsioni (figura 3, vedi pagina seguente). Finora il comportamento di consolazione è stato riscontrato solamente tra le grandi scimmie antropomorfe. Quando de Waal e Aureli (1996) si sono messi ad applicare esattamente la stessa metodologia di osservazione impiegata con gli scimpanzé per cercare il comportamen57

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FIGURA 3. L'incidenza con cui tra gli scimpanzé i terzi non coinvolti nel conflitto hanno contatti con le vittime di aggressioni, in cui si confrontano i destinatari di aggressioni lievi e quelli che invece ne hanno subita una seria. Soprattutto nei primissimi minuti dopo lepisodio, i destinatari delle aggressioni serie ricevono maggiori contatti rispetto ai livelli di riferimento di base. Tratto da de Waal e Aureli (1996).

to di consolazione tra i macachi, non sono riusciti a trovarlo (riesaminato da Watts e altri 2000). Questa è stata una sorpresa perché le ricerche sulla riconciliazione, che fondamentalmente impiegano lo stesso metodo di raccolta dei dati, hanno mostrato la presenza della riconciliazione nelle specie via via prese in considerazione. Perché mai allora la consolazione sarebbe limitata solo alle scimmie antropomorfe? Probabilmente non si può arrivare all'empatia cognitiva senza un alto livello di consapevolezza di sé. Forse laiuto mirato in risposta a situazioni specifiche, e a volte inedite, richiede una capacità di distinguere tra sé e I' al-

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tro che consenta alla situazione dell'altro di essere separata dalla propria, mantenendo al contempo il legame emotivo che ispira il comportamento. In altri termini, per capire che la fonte dello stimolo riflesso non siamo noi ma un altro, e per comprendere le cause dello stato del1'altro, bisogna aver chiara la distinzione tra sé e l'altro. Sulla base di questi presupposti, Gallup (1982) è stato il primo a ipotizzare l'esistenza di una connessione tra empatia cognitiva e riconoscimento della propria immagine allo specchio. Quest'idea trova conferma sia sul piano dello sviluppo infantile, tramite la correlazione riscontrata tra la comparsa del riconoscimento della propria immagine allo specchio nei bambini piccoli e le loro tendenze ad aiutare gli altri (Bischof-Kohler 1988; ZahnWaxler e altri 1992), sia dal punto di vista filogenetico, tramite la presenza di complesse forme di aiuto e di consolazione negli ominoidi (cioè uomini e scimmie antropomorfe), ma non nelle scimmie non antropomorfe. Gli ominoidi sono anche i soli primati a riconoscere la propria immagine allo specchio. Prima ho sostenuto che, a parte il comportamento di consolazione, l'aiuto mirato riflette l'empatia cognitiva. L'aiuto mirato viene definito come il comportamento altruistico adattato ai bisogni specifici dell'altro in situazioni inedite, per esempio la reazione di Kuni davanti all'uccellino precedentemente descritta o il salvataggio di un bambino operato da Binti Jua. Queste reazioni prevedono una comprensione della difficoltà specifica dell'individuo bisognoso di aiuto. Co~iderate le prove che abbiamo dell'aiuto mirato nei delfini (si veda sopra), la recente scoperta in questi mammiferi della capacità di riconoscimento della propria immagine allo specchio (Reiss e Marino 2001) avvalora l'esistenza della correlazione ipotizzata tra una sviluppata consapevolezza di sé da un lato e l'empatia cognitiva dall'altro. 59

Il modello della matrioska La letteratura scientifica tratta l'empatia come se fosse un fenomeno cognitivo, fino al punto che le antropomorfe, per non parlare degli altri animali, con tutta probabilità ne sarebbero prive (Povinelli 1998; Hauser 2000). In questa visione l'empatia è equiparata alla capacità di attribuire stati mentali e alla teoria della mente. Di recente però a proposito dei bambini autistici è stata sostenuta la posizione opposta. L'autismo, contrariamente alle ipotesi formulate in precedenza secondo le quali riflette un deficit riguardo alla teoria della mente (Baron-Cohen 2000), è osservabile ben prima dei quattro anni, età in cui di regola emerge la teoria della mente. Williams e altri (2001) sostengono che il deficit principale dell'autismo riguarda il livello socio-affettivo, che a sua volta ha impatto negativo sui successivi meccanismi più sofisticati di percezione interpersonale, come la teoria della mente. Quindi la teoria della mente viene considerata una caratteristica derivata e gli autori raccomandano maggior attenzione a ciò che la precede (una posizione ora condivisa anche da Baron-Cohen 2003, 2004). Preston e de Waal (2002a) propongono che al cuore della capacità empatica ci sia un meccanismo relativamente semplice che fornisce a un osservatore (il «soggetto») accesso allo stato emotivo di un altro (l' «oggetto») attraverso le rappresentazioni neurali e corporee del soggetto. Quando il soggetto rivolge la sua attenzione allo stato dell'oggetto si attivano automaticamente le rappre· sentazioni neurali di stati analoghi del soggetto. Più vicini e più simili sono soggetto e oggetto, più facile sarà per la percezione del soggetto attivare risposte motorie e involontarie che corrispondono a quelle dell'oggetto (per esempio cambiamenti nella frequenza del battito cardiaco, conduttanza epidermica, espressione facciale, postura del

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corpo). Questa attivazione consente al soggetto di mettersi «nella pelle» dell'oggetto, condividendo i suoi sentimenti e i suoi bisogni, e l'immedesimazione a sua volta favorisce simpatia, pietà e aiuto. Il meccanismo di percezione-azione di Preston e de Waal (2002a) è coerente con l'ipotesi del marcatore somatico delle emozioni di Damasio (1994), come pure con le recenti prove di un legame a livello cellulare tra percezione e azione (per esempio i «neuroni specchio», di Pellegrino e altri 1992). L'idea che la percezione e l'azione abbiano in comune le rappresentazioni è tutt'altro che nuova: risale al primo studio sulla Ein/uhlung, la parola tedesca tradotta con il termine «empatia» (Wispé 1991). Quando Lipps (1903) parlò di Ein/uhlung - che letteralmente significa «sentire dentro» - ipotizzava una innere Nachahinung (mimesi interna) delle sensazioni di un altro, del tipo di quella prospettata nel meccanismo di percezione-azione. L'empatia è appunto un processo routinario involontario, come dimostrano gli studi elettromiografici sulle impercettibili contrazioni dei muscoli del volto di persone che reagiscono a immagini di espressioni facciali umane. Queste reazioni sono totalmente automatiche e si presentano perfino quando le persone non sono consapevoli di quello che hanno visto (Dimberg e altri 2000). Considerare l'empatia come processo cognitivo superiore porta a non tenere conto di queste reazioni a livello viscerale, troppo veloci per sottostare al controllo della coscienza. I meccanismi di percezione-azione sono ben noti per quanto riguarda la percezione del movimento (Prinz e Hommel 2002), e i ricercatori ipotizzano che nella percezione delle emozioni siano implicati processi simili (Gallese 2001; Wolpert e altri 2001). I dati indicano che sia osservare sia vivere emozioni coinvolge substrati fisiologici comuni: vedere qualcun altro provare disgusto o sofferenza è molto simile all'essere disgustato o sofferente (Adolphs 61

1----

Attribuzione Assume in pieno il punto di vista dell'altro Empatia cognitiva Valuta la situazione e le ragioni delle emozioni dell'altro

!-!!---- Contagio emozionale

Impatto emozionale automatico

il modello della matrioska, l'empatia comprende tutti i processi che conducono a stati emozionali che mettono in relazione il soggetto con l'oggetto. Il nucleo è costituito dal semplice meccanismo automatico di percezione-azione che si risolve in uno stato subitaneo, spesso inconscio, che fa corrispondere gli individui. I livelli più alti di empatia che si costruiscono a partire da questa base predefinita sono l'empatia cognitiva (cioè la capacità di capire le ragioni delle emozioni dell'altro) e l'attribuzione di stati mentali (cioè la piena assunzione del punto di vista dell'altro). Il modello della matrioska segnala che gli strati più esterni necessitano di quelli più interni. Da de Waal (2003). FIGURA 4. Secondo

e altri 1997, 2000; Wicker e altri 2003). Inoltre la comunicazione affettiva produce stati fisiologici simili nel soggetto e nell'oggetto (Dimberg 1982, 1990; Levenson e Reuf 1992). In poche parole, l'attività fisiologica e neurale umana non è un fenomeno separato, ma è intimamente connessa agli altri e influenzata dagli esseri umani nostri simili. Recenti ricerche sulle basi neurali dell'empatia offrono pieno appoggio al meccanismo percezione-azione (Carr e altri 2003; Singer e altri 2004; de Gelder e altri 2004). Il modo in cui le forme semplici di empatia si mettono in relazione con quelle più complicate è stato rappresen-

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tato da de Waal (2003) sotto forma di matrioska. Secondo questa rappresentazione, lempatia comprende tutte le forme dello stato emozionale di un individuo che influiscono su quello di un altro, con meccanismi elementari nel suo nucleo, e negli strati più esterni meccanismi e capacità cognitive superiori (figura 4). L'autismo si riflette forse in un deficit degli strati più esterni della matrioska, ma queste carenze sono sempre da ascrivere a deficit degli strati interni. Questo non vuol dire che livelli cognitivi più elevati di empatia non siano significativi, ma che poggiano le loro fondamenta su questa solida ba~e predisposta, senza la quale non riusciremmo a capire cos'è che fa agire gli altri. Sicuramente non tutta l'empatia è riducibile al contagio emozionale, ma non può mai prescindere da esso. Nel cuore della matrioska è presente uno stato emozionale indotto dal meccanismo di percezione-azione che corrisponde allo stato in cui si trova l'oggetto. Allo strato successivo, I' empatia cognitiva implica la valutazione della difficoltà o della situazione di un altro (cfr. de Waal 1996). Il soggetto non solo reagisce ai segnali mandati dall'oggetto, ma cerca di capire le ragioni che stanno dietro a questi segnali, cercando degli indizi nel comportamento e nella situazione dell'altro. L'empatia cognitiva consente di predisporre un aiuto mirato che tiene conto dei bisogni specifici dell'altro (figura 5, vedi pagina seguente). Queste risposte vanno ben oltre il contagio emozionale, però sarebbe arduo spiegarle senza la motivazione fornita dalla componente emotiva. Senza quella non saremmo connessi l'uno con l'altro, come accade allo Spock di Star Trek, e staremmo sempre a interrogarci sulle ragioni per cui gli altri sentono quello che dicono di sentire. Mentre le scimmie (e molti altri mammiferi sociali) sembrano chiaramente essere in grado di provare il contagio emozionale ed entro certi limiti capaci di fornire un

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FIGURA 5. L'empatia cognitiva (per esempio l'empatia che si combina con il riconoscimento della situazione in cui si trova l'altro) consente di fornire un aiuto adeguato ai bisogni dell'altro. In questo caso, una mamma scimpanzé allunga un braccio per aiutare il figlio a scendere da un albero richiamata dalle sue urla e dalle sue implorazioni (si veda il gesto della mano). L'aiuto mirato può esigere la capacità di operare una distinzione tra sé e laltro, capacità questa che si ritiene stia alla base anche del riconoscimento di sé allo specchio come si è riscontrato negli uomini, nelle scimmie antropomorfe e nei delfini. La fotografia è dell'autore.

aiuto mirato, quest'ultimo fenomeno in loro non è assolutamente cospicuo come nelle grandi scimmie antropomorfe. Per esempio, nel Parco delle scimmie di Jigokudani, in Giappone, le femmine dei macachi che diventano madri per la prima volta vengono tenute lontane dai guardiani dalle sorgenti di acqua calda per evitare, com' e-

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ra accaduto, che potessero farvi annegare accidentalmente i figli, poiché tendono a non prestare loro la dovuta attenzione quando si immergono nei laghetti. A quanto pare questa è una cosa che le madri scimmie devono apprendere col tempo, rivelando di non cogliere automaticamente il punto di vista dei figli. De Waal (1996) attribuisce il cambiamento nel loro comportamento ali' «adattamento appreso», distinguendolo dall'empatia cognitiva, che è una caratteristica più peculiare delle scimmie antropomorfe e degli esseri umani. Le madri antropomorfe reagiscono in modo subitaneo e appropriato ai bisogni specifici dei loro figli. Per esempio sono molto attente a tenerli lontani dall'acqua e si precipitano a trascinarli via appena vi si avvicinano troppo. Per concludere, l'empatia non è un fenomeno che c'è o non c'è: comprende un'ampia gamma di modalità del legame emozionale, da quello molto semplice e automatico a quello altamente sofisticato. Logica vuole che si cerchi innanzitutto di capire le forme elementari di empatia, che sono davvero molto diffuse, prima di rivolgere la nostra attenzione alle variazioni che l'evoluzione delle facoltà cognitive ha costruito su queste fondamenta.

Reciprocità e giustizia Le due specie di cui mi sono maggiormente occupato, gli scimpanzé e le scimmie cappuccine, sono dei casi particolari, perché sono tra i pochi primati a condividere il cibo con gli altri fuori dal contesto madre-figlio (Feistner e McGrew 1989). La scimmia cappuccina è un primate di piccole dimensioni con cui è facile lavorare, a differenza degli scimpanzé, la cui forza supera di molte volte la nostra. I membri di tutte e'due queste specie sono interessati al cibo altrui e di tanto in tanto se lo spartiscono, arrivando a

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volte anche a porgerne un po' a un compagno. Comunque le spartizioni sono perlopiù passive: un individuo allunga la mano a prendere del cibo in possesso di un altro e questo lo lascia fare. Ma anche la condivisione passiva è una cosa insolita se paragonata con l'atteggiamento della maggior parte degli animali, tra i quali una situazione di quel genere si risolverebbe in una rissa o con l'imporsi dell'individuo dominante senza spartizione di alcun tipo. Gratitudine tra scimpanzé Abbiamo esaminato le sequenze di azioni che includevano la spartizione di cibo per vedere come un atto favorevole compiuto dall'individuo A nei confronti dell'individuo B avrebbe influenzato il comportamento di B nei riguardi di A. Le nostre previsioni erano che B avrebbe mostrato in cambio un comportamento favorevole nei confronti di A. Però il problema che pone la spartizione di cibo è che, in seguito al pasto allargato che servivamo a tutto il gruppo nei nostri esperimenti, la motivazione a condividere il cibo muta (gli animali sono più sazi). Quindi la spartizione di cibo non può essere l'unica variabile da tenere in conto. Introducemmo quindi una seconda prestazione sociale estranea al consumo di cibo e a tal fine ci servimmo del grooming che avveniva tra i soggetti prima della spartizione. La frequenza e la durata di centinaia di momenti di intensa attività di grooming tra i nostri scimpanzé venivano misurate al mattino. Mezz'ora dopo la fine di queste nostre osservazioni, a partire più o meno da mezzogiorno, alle antropomorfe venivano dati due fasci strettamente legati di foglie e di ramoscelli. Dagli osservatori furono minuziosamente registrate quasi 7000 interazioni riguardanti il cibo che furono inserite in un computer secondo i precisi criteri descritti da de Waal (1989a). Il database delle prestazioni spontanee che ab-

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biamo costituito è più vasto di quello di ogni altro primate non umano. Abbiamo riscontrato che gli adulti erano più inclini a condividere il loro cibo con soggetti che precedentemente gli avevano fatto il grooming. In altri termini, se A aveva fatto il grooming a B nel corso della mattinata, B era più propenso del solito a spartire il proprio cibo con A lungo il resto della giornata. Questo risultato però poteva avere due spiegazioni. La prima è l'ipotesi del «buonumore», secondo la quale gli individui a cui è stato fatto il grooming sono in uno stato di benevolenza, che li porta a condividere il proprio cibo con tutti gli altri senza fare discriminazioni di sorta. La seconda spiegazione è l'ipotesi dello scambio diretto, nella quale l'individuo a cui è stato fatto il grooming reagisce spartendo il cibo specificatamente con il compagno che gliel'ha fatto. I dati indicavano che l'intensificarsi della spartizione era indirizzato in modo specifico a chi gli aveva fatto il grooming in precedenza. In altre parole, gli scimpanzé sembravano ricordarsi di chi poco prima gli aveva prestato un servizio (il grooming) e reagire rispetto a questi soggetti spartendo il cibo con loro più frequentemente. Inoltre, le reazioni aggressive da parte dei poss~ssori di cibo nei confronti degli individui che li awicinavano erano per lo più dirette contro coloro che non gli avevano fatto il grooming piuttosto che nei confronti dei loro partner nella precedente sessione di grooming. Questa è una prova convincente dello scambio reciproco con partner specifici (de Waal 1997b). Di tutti gli esempi esistenti di altruismo reciproco in animali non umani, lo scambio di cibo in cambio di grooming negli scimpanzé sembra essere il più avanzato sul piano cognitivo. I nostri dati stanno decisamente a indicare un meccanismo imperniato sulla memoria. Tra i favori prestati e quelli ricevuti c'era uno scarto temporale di

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una certa entità, che andava da mezz'ora a due ore; quindi il favore veniva messo in atto parecchio tempo dopo l'interazione avvenuta in precedenza. Oltre alla memoria degli eventi passati, dobbiamo presupporre che il ricordo di una prestazione ricevuta, come può essere il grooming, inneschi un atteggiamento positivo nei confronti del soggetto che ha prestato la sua opera, meccanismo psicologico noto fra gli uomini col nome di «gratitudine». La gratitudine all'interno del contesto dello scambio reciproco è stata anticipata da Trivers (1971), e discussa da Bonnie e de Waal (2004). È classificata da Westermarck (1912 [1908]) come una delle «emozioni risarcitorie buone» ritenuta essenziale per la moralità umana. La giustizia tra le scimmie Nel corso dell'evoluzione della cooperazione, può essersi rivelato decisivo per gli individui paragonare i propri sforzi e risultati con quelli degli altri. Nel caso in cui le aspettative vengano disattese si possono verificare reazioni negative. Una recente teoria suggerisce che I' avversione nei confronti dell'iniquità possa spiegare la cooperazione tra gli uomini entro i confini del modello di scelta razionale (Fehr e Schmidt 19'99). In maniera simile, le specie cooperative non umane sembrano farsi guidare da una serie di aspettative riguardo gli effetti della cooperazione e l'accesso alle risorse. De Waal (1996, p. 95) ha proposto un senso di regolarità sociale così definito: «Un insieme di aspettative sul modo in cui l'individuo (o gli altri) prevedono di venire trattati e sul modo in cui le risorse dovrebbero essere divise. Ogniqualvolta la realtà si discosta da queste aspettative a svantaggio dell'individuo (o degli altri) ne consegue una reazione negativa, che quasi sempre è la protesta da parte dei subordinati e la punizione da parte dei dominanti». 68

Il senso di come gli altri dovrebbero o non dovrebbero comportarsi è essenzialmente egocentrico, anche se gli interessi degli individui più vicini a colui che compie l' azione, e specialmente dei parenti, possono essere presi in considerazione (da cui vedi sopra l'inclusione tra parentesi degli altri). È da notare come le aspettative non siano state precisate: esse variano da specie a specie. Per esempio, una scimmia reso non si aspetta nessuna spartizione di cibo di sorta da parte di un dominante, perché vive in una società dispoticamente gerarchica, ma uno scimpanzé invece sì, quindi chiede con la mano tesa, piagnucola e si lascia andare a una scenata quando non si verifica. Considero le aspettative l'argomento più importante e meno studiato del comportamento animale, il che è ancora più grave perché è l'unico punto che awicina moltissimo il comportamento animale a quel «dover essere» del comportamento che noi riconosciamo appartenere inequivocabilmente all'ambito morale. Ai fini di una ricerca sulle aspettative delle scimmie cappuccine, abbiamo utilizzato la loro capacità di stabilire un valore e di reagire a esso. Sapevamo da ricerche effettuate in precedenza che le cappuccine imparano facilmente ad attribuire un valore a un oggetto di scambio. Oltretutto possono servirsi di questa attribuzione di valore per portare a termine un semplice baratto. Queste loro caratteristiche hanno consentito un esperimento per illustrare l' awersione all'iniquità, nel quale si valutavano le reazioni dei soggetti nei confronti di un compagno che riceveva una ricompensa di entità superiore in cambio dello stesso oggetto di scambio. Abbiamo affiancato a ogni scimmia una compagna del gruppo e siamo stati a osservarne le reazioni quando il loro partner riceveva una ricompensa migliore pur avendo eseguito la stessa operazione di baratto. Questa consisteva in uno scambio in cui il ricercatore dava a un indivi-

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FIGURA 6. Una scimmia cappuccina nella stanza dei test restituisce al ricercatore un oggetto simbolico con la mano destra mentre tiene ferma la mano dell'uomo con l'altra. La compagna la osserva. Disegno di Gwen Bragg e di Frans de Waal tratto dall'immagine fissa di un video.

duo un oggetto che poteva essere subito restituito per ottenerne in cambio una ricompensa (figura 6). Ogni sessione del test prevedeva venticinque scambi operati da ogni individuo e inoltre che il soggetto assistesse sempre allo scambio effettuato dalla compagna subito prima del suo. Le ricompense sotto forma di cibo potevano essere di scarso valore (per esempio un pezzo di cetriolo per il quale in genere si accontentano di lavorare), o di maggior valore (per esempio un chicco d'uva, che era il cibo preferito da tutti gli individui testati). Tutti i soggetti furono sottoposti a (a) un test di equità, nel quale il soggetto e il partner svolgevano lo stesso compito in cambio dello 70

stesso cibo di scarso valore; (b) un test di iniquità, nel quale la compagna invece riceveva una ricompensa di valore superiore (un acino d'uva) pur essendosi impegnata nello stesso modo; (c) un test di controllo dell'impegno, ideato per illustrare il ruolo svolto dall'impegno, nel quale il partner riceveva il chicco d'uva, premio di maggior valore, senza far nulla; (d) un test di controllo del cibo, concepito per verificare l'effetto della presenza della ricompensa sul comportamento del soggetto, nel quale l'uva era visibile ma non veniva data all'altra cappuccina. Gli individui che ricevevano ricompense di valore più scarso mostravano reazioni o negative passive (per esempio rifiutare di scambiare l'oggetto di pegno, snobbando la ricompensa), o negative attive (per esempio gettare via l'oggetto di scambio o la ricompensa stessa). In confronto ai test in cui entrambe ricevevano la stessa ricompensa, le cappuccine erano di gran lunga meno disponibili a portare a termine lo scambio o ad accettare la ricompensa se il loro partner riceveva un trattamento migliore (figura 7, vedi pagina seguente; Brosnan e de Waal 2003 ). Ancora più spesso succedeva che le cappuccine rifiutassero di farsi coinvolgere se il loro partner non doveva adoperarsi (effettuare uno scambio) per ottenere la ricompensa migliore, che gli veniva offerta «senza far nulla». Ovviamente resta sempre la possibilità che i soggetti reagiscano semplicemente alla presenza del cibo di più alto valore, e che quello ricevuto dal partner, facendo quakosa o non facendo nulla, non abbia influenza sulla loro reazione. Però nel test di controllo del cibo, nel quale la ricompensa di maggior valore era visibile ma non veniva data all'altra scimmia, la reazione alla presenza di quel cibo più ambito diminuiva in modo significativo nel corso del test, un cambiamento questo in direzione opposta alla reazione osservata quando la ricompensa più elevata andava effettivamente a un altro partner. I nostri soggetti 71

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Autori

FRANS DE WAAL è un primatologo/biologo statunitense di origine olandese, noto per i suoi studi sull'intelligenza sociale dei primati. Il suo primo libro La politica degli scimpanzé (1982) metteva a confronto le schermaglie e gli intrighi degli scimpanzé impegnati nelle lotte per il potere con quelle degli uomini politici. Da allora de Waal ha tracciato un quadro delle analogie tra il comportamento dei primati e quello degli esseri umani, dalla capacità di fare la pace alla moralità e alla cultura. Il suo contributo scientifico è apparso in centinaia di articoli specialistici in riviste come «Science», «Nature», «Scientific American», e in pubblicazioni specializzate sul comportamento animale. Inoltre de Waal è curatore o concuratore di nove volumi scientifici. I suoi sette libri diventati molto popolari e tradotti in oltre dodici lingue, hanno fatto di lui uno dei primatologi più famosi del mondo. Il suo libro più recente è La scimmia che siamo (2006) pubblicato in Italia da Garzanti. De Waal è professore al dipartimento di psicologia della Emory University e direttore del Living Links Center allo Yerkes National Primate Center di Atlanta in Georgia. È membro dell'Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti e della Reale Accademia olandese delle scienze.

PIDLIP KITCHER insegna filosofia alla Columbia University. È autore di nove libri di cui i più recenti sono In

Mendel's Mirror: Philosophical Reflections on Biology 231

(Oxford 2003); Finding an Ending: Reftections on Wagner's Ring (di cui è coautore con Richard Schacht, Oxford 2004) e Ltfe without God: Darwin, Design, and the Futu;e o/ Faith (di prossima pubblicazione presso la Oxford University Press). È stato presidente dell'Associazione filosofica americana (sezione del Pacifico) e direttore della rivista «Philosophy of Science». È membro dell'Accademia statunitense delle arti e delle scienze. CHRISTINE M. KORSGAARD si è laureata all'università dell'Illinois e ha conseguito il Ph.D. a Harvard dove ha studiato con John Rawls. Ha insegnato a Yale, all'università della California a Santa Barbara e all'università di Chicago, prima di assumere il suo attuale incarico di professore di filosofia a Harvard. È autrice di due libri: Creating the Kingdom o/ Ends (Cambridge 1996), che è una raccolta di saggi sulla filosofia morale di Kant precedentemente pubblicati, e The Sources o/ Normativity (Cambridge 1996), un'indagine sui modi attuali di concepire i fondamenti della responsabilità, che è una versione ampliata delle Tanner Lectures dedicate ai valori umani da lei tenute nel 1992. Attualmente lavora a un libro sul legame tra la metafisica del soggetto agente, i modelli normativi che governano l'azione e la costruzione dell'identità personale, intitolato Sel/-Constitution: Agency, Identity, and Integrity; inoltre sta riunendo un'altra serie di articoli sotto il titolo The Constitution o/ Agency: Essays on Practical Reason and Mora! Psychology (entrambi di prossima pubblicazione presso la Oxford University Press). STEPHEN MACEDO scrive e tiene corsi sulla teoria politica, sull'etica, sul costituzionalismo statunitense e sulla politica dello stato, con riferimento particolare al liberalismo, alla giustizia e al ruolo dell'istruzione, della società civile e dello stato nel promuovere i diritti legati alla cit232

tadinanza. Ha prestato la sua opera come fondatmv l' ili rettore presso il Princeton's Program in Law and P11hlk Affairs (1999-2000). Di recente ha ricoperto la carirn di vicepresidente dell'Associazione statunitense di sdv11zl· politiche e di capo del suo primo comitato di Edut·a:'.io1H· e impegno civico, e in questa veste è il principale co;11110 re di Democracy at Risk: How Politica! Choices Under111ì ne Citizenship and What We Can Do About It (2005). I suoi libri comprendono Diversity and Distrust: Civic 1M11 cation in a Multicultural Democracy (2000); Liberal Vlr tues: Citizenship, Virtue, and Community in Liberid Constitutionalism (1990). È coautore e concuratore di 11, merican Constitutional Interpretation, Y edizione, insk me a W.F. Murphy, J.E. Fleming e S.A. Barber. Tra i testi da lui curati ricordiamo Educating Citizens: Internatio11al Perspectives on Civic Values and School Choice (2004) e l J. niversal Jurisdiction: International Courts and the Prosecution o/ Serious Crimes under International Law (2004). Macedo ha insegnato all'università di Harvard e alla Maxwell School della Syracuse University. Si è laureato al College of William and Mary, ha studiato alla London School of Economics e all'università di Oxford, conseguendo la laurea e il Ph.D. all'università di Princeton. 0BER, già professore di lettere classiche all'università di Princeton, attualmente insegna scienze politiche e lettere classiche all'università di Stanford. La sua raccolta di saggi Athenian Legacies: Essays on the Politics o/ Going on Together è stata pubblicata dalla Princeton University Press nel 2005. Oltre a dedicarsi allo studio del sapere e dell'innovazione nell'Atene democratica, si occupa del rapporto tra la democrazia, intesa come una naturale capacità umana, e i suoi legami con la responsabilità morale. }OSIAH

PETER SINGER ha studiato alle università di Melbourne e 233

di Oxford. Nel 1977 gli è stata conferita la cattedra di filosofia alla Monash University di Melbourne e in seguito ha fondato e diretto il Centro di bioetica umana di quella stessa università. Nel 1999 è diventato professore di bioetica. Peter Singer è stato il presidente fondatore dell'International Association of Bioethics e, con Helga Kuhse, ha fondato e diretto la rivista «Bioethics». È diventato dapprima molto noto a livello internazionale dopo la pubblicazione di Anima! Liberation. Tra i suoi libri ricordiamo: Demo-

cracy and Disobedience; Practical Ethics; The Expanding Circle; Marx; Hegel; The Reproduction Revolution (in collaborazione con Deane Wells); Should the Baby Live? (con Helga Kuhse); How Are We to Live?; Rethinking Li/e and Death; One World; Pushing Time Away e The President o/ Good and Evi!. Le sue opere sono state tradotte in venti lingue. È autore della più importante voce sull'etica nell'attuale edizione dell'Enciclopedia Britannica. RoBERT WRIGHT è autore di Nonzero: The Logie o/ Human Destiny e di The Mora! Anima!: Evolutionary Psychology and Everyday Li/e, entrambi apparsi presso Vintage Books. The Mora! Anima! è stato nominato dalla «New York Times Book Review» come uno dei dodici migliori libri del 1994 ed è stato tradotto in dodici lingue. Nonzero è stato segnalato dalla «New York Times Book Review» nel 2000 ed è stato tradotto in nove lingue. Il primo libro di Wright, Three Scientists and Their Gods: Looking /or Meaning in an Age o/ In/ormation, è stato pubblicato nel 1988 e nominato per il Nat!gnal Book Critics Circle Award. Wright collabora con articoli alla «New Republic», a «Time» e a «Siate». Ha scritto anche per l'«Atlantic Monthly>>, per il «New YorkeD> e per il «New York Times Magazine». In precedenza ha lavorato per la rivista «Sciences», dove il suo editoriale «The Information Age» ha vinto il National M_agazine Award per la saggistica e la critica. \ 234

Indice

Ringraziamenti Introduzione, di Josiah Ober e Stephen Macedo

6 7

PRIMA PARTE

MORALMENTE EVOLUTI Istinti sociali dei primati, moralità umana e alterne fortune della «teoria della patina»

di Frans de Waal La teoria della patina J; etica secondo Darwin · Edward Westermarck Empatia animale

21 27

33 38 44

Cos'è l'empatia?, 47; Aneddoti sullo «scambio di posto nella fantasia», 52; Il comportamento di consolazione, 56; Il modello della matrioska, 60

Reciprocità e giustizia

65

Gratitudine tra scimpanzé, 66; La giustizia tra le scimmie, 68

Mencio e il predominio dell'affetto J; interesse per la comunità Appendice A. Antropomorfismo e antropodiniego

73 77

85

Appendice B. Le antropomorfe hanno una teoria della mente? Appendice C. I diritti degli animali

Antropomorfe in pensione

95 100 103

SECONDA PARTE

COMMENTI Usi dell'antropomorfismo,

di Robert Wright I due generi di linguaggio antropomorfico Cosa si prova a essere uno scimpanzé? Una considerazione extrascienti/t'ca

109 110 114 119

Moralità e particolarità dell'azione umana,

di Christine M. Korsgaard

125

Etica ed evoluzione. Come si arriva da lì a qui,

di Philip Kitcher

148

Moralità, ragione, diritti degli animali,

di Peter Singer La critica di de Waal alla moralità come patina Diritti e pari considerazione per gli animali

170 170 182

TERZA PARTE

RISPOSTA AI COMMENTATORI La torre della moralità,

di Frans de Waal Inclusione morale e fedeltà Tre livelli di moralità

193 193 199

Livello 1: elementi costitutivi, 201; Livello 2: pressione sociale, 202; Livello 3: giudizio e ragionamen- ' to, 207

Colpo di grazia· Facce del!' altruismo. Conclusione

209 211 216

Bibliografia

217

Autori

231